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Italian Pages 320/322 [322] Year 2012
SCIENZE DELLA NARRAZIONE n. 1 Collana diretta da Duccio Demetrio D Laura Formenti (Milano- Bicocca), Vanna Iori (Piacenza, Cattolica) Paolo Jedlowski (Cosenza), Cosimo Laneve (Bari), Anna Maria Piussi (Verona) Andrea Smorti (Firenze) C Peter Alheit (Goettingen) Gian Luca Barbieri (Parma) Mario Barenghi (Milano- Bicocca) Jens Brockmeier (University of Manitoba, Canada) Jean-Michel Baudouin (Ginevra) Giorgio Bert (Torino) Marco Dallari (Rovereto) Freema Elbaz- Luwisch (Haifa) Stefano Ferrari (Bologna) Gianni Gasparini (Milano Cattolica) Ilaria Grazzani(Milano- Bicocca) Paolo Inghilleri (Milano Statale) Francesca Rigotti (Lugano) Maura Striano (Napoli) C Elisabetta Biffi (Milano Bicocca) Micaela Castiglioni (Milano Bicocca) Emanuela Mancino (Milano Bicocca) Chiara Gemma (Bari)
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EDUCARE È NARRARE Le teorie, le pratiche, la cura Scritti di
Elisabetta Biffi, Micaela Castiglioni, Emanuela Mancino
MIMESIS
Scienze della narrazione
© 2012 – M E (Milano – Udine) Isbn: 9788857512068 Collana: Scienze della narrazione, n. 1 www.mimesisedizioni.it / www.mimesisbookshop.com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]
INDICE
P di Duccio Demetrio
p.
1. L’ intento: un duplice punto di vista 2. Il titolo scelto 3. A chi si rivolge
C
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Parte prima , , di Duccio Demetrio
I. U ’ 1. Educare è narrare, narrare (può) educare 2. Parole che nascono e crescono con noi 3. Poi restiamo intrappolati in quelle parole 4. Ma siamo anche le parole che interroghiamo 5. Due tensioni generative 6. La relazione è già un racconto in attesa 7. Linguaggi, oralità, scrittura: neuroscienze II. L 1. Ogni storia ha una sintassi 2. Con Walter Benjamin: educare o istruire? 3. Le risonanze esistenziali 4. L’ attitudine a narrare: un istinto 5. Narrare come metafora 6. Grandi e piccole narrazioni
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7. Sceneggiature pedagogiche in un paradigma
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III. R
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1. La coscienza autobiografica 2. Ricordi d’ infanzia: genealogia di una storia educativa 3. L'altra parola gemella 4. Sapere di esserci e di essere con 5. Educare alla narrazione interiore: percorsi 6. Memoria e scrittura: cinque declinazioni 7. Educare a superare il proprio egocentrismo Bibliografia
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Parte seconda
N
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di Elisabetta Biffi I. N
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1. Narrare l’educazione 2. Narrare per educare: oralità, lettura, scrittura II. E
,
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1. Storie in crescita 82 2. Il tempo della storia, il tempo della crescita 84 3. Dai servizi alla prima infanzia, alla scuola, all’extrascuola: narrare per aggregare, narrare per sostenere, narrare per tutelare 87 III. P
,
:
1. Le storie nella rete: antichi bisogni e nuove sfide 2. Educare al raccontare 3. Educare al raccontarsi 4. Educare al tenere memoria
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IV. P
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1. Didattiche narrative e modalità autobiografiche 2. Didattiche narrative per creare e per apprendere
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V. E
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1. Narrare per documentare 2. Narrare per progettare 3. Un finale tutto da scrivere Bibliografia
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Parte terza
L
di Micaela Castiglioni I. E , , 1. L’agenda di chi soffre 2. Atteggiamenti e strategie di resilienza 3. Quando il mondo sembra estraneo 4. La propria esperienza di malattia narrata 5. Il tempo di chi è malato 6. Le variabili in gioco II. I
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1. Inizi autobiografici 2. Pennebaker e la scrittura del trauma 3. La scrittura di sé e del proprio vissuto di malattia: una possibile strategia di coping 4. Aspetti e dimensioni che facilitano la praticadi scrittura in ambito clinico 5. A chi affidare la conduzione del laboratorio di scrittura 6. Il luogo dell’atelier di scrittura 7. Scrittura autobiografica, storie di malattia e di cura, cenni di consulenza autobiografica/clinica
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8.Dalla scrittura alla meta-scrittura III. L’
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1. Intanto, per cominciare… 2.La medicina e il modello bio-medico 3.Il paradigma narrativo in medicina 4.Chi è il medico narrativo ? 5.Non sono storie di malattia: le derive della narratività e della narrazione nella relazione medico-paziente 7.Quale formazione per l’operatore medico-sanitario, ad orientamento narrativo Bibliogafia
N
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Parte quarta di Emanuela Mancino
I. L
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1. Le trasformazioni dell’esperienza 2. Narrare e rappresentare II. L T
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.
1. La distanza inter-media 2. Riflessione ed esperienza linguistica III. I 1. Raccontare con immagini, raccontare con concetti 2. La narrazione come risorsa simbolica
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IV. T
:
1. Lo sguardo come percorso V. C
:
1. Pratiche narrative e cinema 2. Narrarsi nelle trame. Dimenticando il finale VI. N
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1. Educatori al cinema 2. In dialogo con il mito 3. Narrare con gli occhi di un’altra lingua 4. Metodologie e trame relazionali per apprendere con il cinema 5. Il blob e la sua evoluzione VII. I
249
.P
’
269 271 272 275 276 281
1. Sguardo e silenzio come desideri in attesa 2. Verso una pedagogia della delicatezza Bibliografia
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B di Benedetta Gambacorti
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B
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G
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PREMESSA
1. L’ intento: un duplice punto di vista Il libro auspica, ed è questa la sua principale proposta, che i saperi e le pratiche molteplici della tradizione narrativa possano sempre più intrecciarsi e cooperare con quelli educativi, nei loro altrettanto ampi, multiformi, complessi significati. Narrare ed educare sono parole, pronunciate o sottintese, allusive o troppo scontate, usate insieme o separatamente, che compaiono e nascono- sottoforma di esperienze, incontri, manifestazioni della vita associata - nei momenti più inconsueti dell’ esistenza. Sono scelte, attitudini, gesti, orientamenti che ispirano tanto il lavoro dell’ educatore, quanto i fini dello scrittore, dell’ attore, del regista. Si manifestano con continuità pressoché quotidiane, in modi irregolari, talvolta eccezionali e memorabili. Ogni giorno o minuto è il tempo giusto e propizio per imparare, per raccontare e raccontarsi, per origliare le storie del mondo. Per apprendere attraverso i racconti, perché ogni racconto orale o scritto o proiettato o recitato contiene qualche verità. Talvolta, proprio quando sembri ispirato dalla fantasia più sfrenata. Ogni racconto illumina diversamente le cose, aiutandoci a capirle attraverso le rappresentazioni che il narrare ci offre. Ogni giorno possiamo educare narrando; per scoprire che ognuno di noi esiste in quanto narrazione offerta o negata e sottratta ad altri. Tutti siamo un po’ ladri di storie. Vi attingiamo per scovare in esse quanto ancora non conoscevamo, qualche episodio interessante, divertente, toccante, da offrire in dono a degli spettatori in una sala abbuiata, in casa loro davanti alla Tv, ormai in qualsiasi luogo dove si possa accendere uno schermo. O ad un gruppo di bambini e giovani, stipati in una aula scolastica, in qualsiasi altro spazio. In una conversazione a tu per tu al letto di un malato. Dove qualcuno, nel leggere ad alta voce, nel
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Educare è narrare
mostrare come sia possibile trasformare una storia qualsiasi in un romanzo d’ avventure, nell’ invitare a scrivere, nell’ interloquire, sappia dimostrarci che le storie, siano vere o fantastiche, hanno a che vedere, almeno un poco, con le nostre storie: quali esse siano. Con le storie che ciascuno interpreta ogni giorno, mette in scena, spesso senza sapere che la sua è già, o può diventare ancora di più, una storia unica e importante. Educazione e narrazione, se alleate, sanno creare e riprodurre il tessuto, l’ intrico di sentimenti, le ragioni, i desideri, i pensieri, le scelte, che ciascuno di noi è stato ed è diventato. La nostra storia è un intreccio di racconti; le storie di tutti e tutte lo sono. In queste trame riconoscibili in ogni storia umana, sempre complesse e sovente complicate, che riusciamo con pazienza a ricostruire, a comunicare a chi sia disposto ad ascoltarci, si condensa il nostro esistere nel presente. Ma esso verrà sempre dal passato, sarà stato attratto dalle altre storie che ci hanno sedotto e abbiamo raccolto per strada. Si tratta di scoprirla questa nostra storia, se si vuole saper educare e saper narrare. Perché, quando è la nostra, ci imbattiamo in qualcosa che vale più di tutti i racconti ascoltati, rubati, spiati, selezionati per nutrirla. Per conoscere chi siamo, occorre inseguirla a ritroso; ritrovando quelle tracce originarie che ci porranno domande anche imbarazzanti. Nel lento dipanarsi di quell’ imprevisto groviglio di ricordi, idee, amori, progetti, sentimenti; nel racconto a voce che riusciamo a articolare; nelle pagine autobiografiche che impariamo a scrivere, si condensa tutta la nostra filosofia di vita. Ogni storia non è soltanto un racconto, contiene il senso che le abbiamo affidato e le domande che ancora non le abbiamo rivolto. Da quanto accennato, le nostre tesi sosterranno l’ opportunità che i più diversi aspetti, problemi e temi inerenti l’ educazione, vengano interpretati alla luce del loro presentarsi come le esperienze, concrete, emotivamente dense, che ci fanno e hanno fatto crescere. Nel segreto di silenziose riflessioni o alla ricerca di un interlocutore in grado di rispondere ad esse o soltanto di accoglierle. Prima ancora delle astrazioni importanti che l’ educazione persegue, nelle mutate circostanze storiche, come insieme di mete, di valori e idealità civili, religiose, culturalmente stabilite da tradizio-
Premessa
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ni e condotte recenti, sempre ci si imbatte nella evidenza materiale delle narrazioni che si intrecciano ai tempi e agli spazi del vivere. Sono vissuti: sono ore e luoghi abitati da emozioni, desideri, passioni. Il saperli raccontare ci consente di spiegarne gli antefatti, gli sviluppi e gli esiti e di educare altri a fare lo stesso. Narrarli, è una modalità insostituibile, spontanea, semplice, o raffinata e colta, per indagarne gli aspetti che a prima vista ci sfuggono: simbolici, inconsci, dimenticati. Le narrazioni divengono in tal modo auto educative e educative, grazie agli stimoli offertici, agli interrogativi che ci pongono. L’ educazione, in ogni sua componente costitutiva (equivalente ai fattori, mai uno soltanto, che la rendono tale), è connessa di conseguenza al divenire umano individuale e sociale; per questo le va riconosciuto in primo luogo una dimensione “fenomenica”, nella possibilità ulteriore di indagarla “fenomeno-logicamente”, secondo quanto ci suggerisce un'importante corrente filosofica (Piero Bertolini, 1988), (P. Jedlowski, 1986). L’ educazione va accolta in tutte le sue manifestazioni, le più reali e sconcertanti; va accettata ed esaminata con disincanto e distacco, ci dovrebbe indurre ad astenerci dal pronunciare qualsiasi valutazione morale o etica e tanto meno ideologica. Prima di giudicarla, se volta al bene o al male, occorre conoscere in che cosa essa consista, quali siano gli elementi costitutivi che ci permettono di affermare che stiamo assistendo, abbiamo assistito, ad un evento educativo o che vi stiamo partecipando. Memoria, corporeità, mente, spazio, tempo, moto, affettività, narrazione, ecc sono solamente alcune delle caratteristiche che ci permettono di studiare e descrivere quando, dove, come e perché, una storia di vita può essere identificata, osservata, descritta e raccontata nella sua specificità pedagogica. È inoltre tale poiché attraversa, accompagna, cambia e non da oggi le nostre vite; ben oltre le prime età (l’ infanzia e l’ adolescenza) e i momenti (la scuola e la famiglia) per consuetudine, ritenuti decisivi agli effetti dello sviluppo, della crescita culturale, dell’ inserimento nel mondo adulto di coloro che ancora non vi appartengano. Ben oltre quanto le strutture deputate all’ educazione, con i loro obiettivi e programmi, possano offrire. Ogni momento della vita è potenzialmente fonte di educazione: e qualora ciò si verifichi ecco che potremo farne argomento dei nostri racconti migliori e più convincenti.
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Educare è narrare
Non mancheremo di ribadire in queste pagine, con dovuta insistenza, che quindi stretto e complementare, intrinseco alla loro ragion d’ essere, talvolta complice, è il rapporto tra i due termini, narrazione ed educazione. Sono entrambe parole, già lo si sarà colto, ricche di echi concettuali, di nessi significativi tanto con la vita tangibile e pratica, quanto con le esigenze intellettuali che concorrono, attraverso il racconto, a migliorare le prestazioni mentali: legate ai processi cognitivi intrinseci alle capacità di raccontare e di comprendere, memorizzare, riproporre il senso di una storia. Questa loro comune sorte ha fatto sì che, più volte, l’ educazione scoprisse se stessa e i suoi scopi nel manifestarsi delle forme narrative; così come la narrazione, nelle sue prerogative spontanee o come arte raffinata della parola, più volte si sia scoperta e riscoperta dotata di qualità educative. 2. Il titolo scelto Commentando ora il titolo, Educare è narrare, ci auguriamo esso non venga equivocato dai lettori. Qualora li spinga a ritenere che sia sufficiente ricondursi alla felice interazione tra l’ educazione e la narrazione per realizzarla nella pratica sia educativa che narrativa sempre ammesso ma non concesso che un narratore ambisca ad essere anche educatore. Giova allora subito richiamare quanto in seguito argomenteremo: educare è narrare o, viceversa, narrare è educare, quando si instaurino particolari circostanze e qualche fortunata coincidenza. Quando essi siano tali da favorire determinati apprendimenti veicolati, ad esempio, dal racconto e dall’ intercettazione vocale di una storia (reale o fantasiosa), da una lettura, da un documento cinematografico, da un medium informatico, da un’ azione scenica. I cui argomenti, la trama, le suggestioni emotive che sanno risvegliare nell’ uditore, nel lettore o in chi assista come spettatore ad una narrazione in forma teatrale, di per sé non possano essere accolti in una corretta accezione educativa. Questa si esplicherà quando accada che i racconti e le storie (focus e motore intrinseco a qualsiasi narrazione, ripetiamo), si dimostrino tali da esercitare la cattura necessaria e sufficiente dei contenuti narrativi, e siano tali da lasciare tracce ed echi rilevanti nella memoria. Oltre che a livello personale, nell’ ambito di talune
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comunità micro o macro sociali. Simili, attesi, esiti si adempiranno quando stimoli e occasioni si mostrino in grado - non soltanto a livello nozionistico o concettuale - di incidere soprattutto sui comportamenti, sulle attitudini, sulle nostre scelte di vita. Se l’ educazione è sempre connessa ai cambiamenti degli individui, quale sia la loro età (siano essi repentini, lenti, silenziosi), la narrazione si assocerà all’ educazione quando saprà farsi promotrice e strumento di tali mutamenti. Quando sia essa a raccoglierne gli indizi, i frammenti, i significati, riproponendoci una nuova storia rispetto alla precedente che ci hanno raccontato, che abbiamo continuato a ripeterci contravvenendo alla legge naturale e umana del mutamento come unica, felice o ingrata, certezza dell’ esistenza. La narrazione, in tal caso, potrà allora ritenersi educativa a pieno titolo. Sia che venga impiegata intenzionalmente come uno specifico metodo, sia quando un racconto, un romanzo, una trasmissione televisiva, una conversazione non banale, un’ interazione on line, riescano ad ottenere effetti trasformativi, anche grazie a una esplicita programmazione e volontà educatrice. Quando siano in grado di favorire, con continuità e determinazione, quella alleanza che, lasciata al caso, non sempre potrebbe conseguire esiti pedagogici. In queste circostanze auspicate dal libro, il lavoro educativo, scolastico, sociale, di cura, con bambini, adolescenti ed adulti, non potrà che avvalersi di strategie e sollecitazioni creative basate sull’ arte di raccontare e di ascoltare, di riproporre, di suscitare emozioni, ricorrendo ai più diversi linguaggi della narrazione, a storie tali da generare, potenziare, premiare attitudini e motivazioni individuali al racconto. Assumere un punto di vista narrativo equivale a riscoprire il piacere di narrare, di leggere ad alta voce, di scrivere insieme o di riprodurre le memorie di chi si trovi nell’ impossibilità di farlo ed altro ancora. Saper raccontare e raccontarsi rappresenta una opportunità insostituibile e pedagogicamente virtuosa sia professionale, che per l’ appagamento personale. Optare per un’ educazione a narrare per renderla un'esperienza narrativa, la guida e la mappa di queste pagine, vuol dire nondimeno avvalersi di un antidoto alla routine, allo stress, alla stanchezza, che così frequentemente attraversano la quotidianità dei luoghi ai quali esse sono destinate. Poiché, narrando, aumentano le possibilità di essere seguiti, compresi, ascoltati grazie al potere di coinvolgimento affettivo che differenziano un sapere illustrato, esposto, descritto da
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un analogo sapere che si sappia porgere invece attraverso la consapevolezza e le tecniche narrative: ricorrendo agli accorgimenti non solo verbali, ma scenografici, corporei, spettacolari, appassionanti di cui l’ arte di saper narrare, da che mondo è mondo, si avvale. Poiché optando per lo stile narrativo - anche in famiglia, tra amici e colleghi di lavoro - si temperano non poco i fattori di stress, le inevitabili stanchezze, i conflitti. Lo stile narrativo (casalingo, in classe, in un ospedale, ovunque) accende curiosità, momenti di gioia, ironia, riso; ha il potere di sdrammatizzare, di trasformare un equivoco in un'occasione per spiegarsi meglio a vicenda, di rendere un’ esperienza insignificante una storia memorabile. 3. A chi si rivolge Infine, il libro si rivolge agli studenti e a chiunque lavori in campi educativi o ad essi contigui (a insegnanti, educatori professionali, operatori della cura e della salute per ogni età della vita, animatori culturali, ma anche a padri e madri), le cui competenze didattiche, relazionali, cliniche, promozionali si avvalgono della narrazione nelle sue già ventilate e auspicate modalità. Crediamo che l’ acquisizione di una maggiore consapevolezza, in merito all’ importanza di saper riconoscere la narrazione come possibile evento educativo, tanto nell’ improvvisazione, quanto nella attenta progettazione degli interventi, costituisca il messaggio saliente del testo. Si è voluto invitare i lettori a scoprire da soli, o stra colleghi, “le prove” di quanto qui abbiamo sostenuto attraverso tesi ed esempi. Al contempo, occorrerà apprendere l’ arte di saper individuare e isolare nelle esperienze, definite già educative o comunque relazionali, le contingenze propizie che possano trasformare l’ impegno educativo in una proposta ispirata a valori narrativi. Per renderli, dove possibile, il motivo conduttore, l’ espressione evidente, del proprio metodo professionale. Un buon narratore educatore, non un istrione né un imbonitore, è colui o colei che sappia attenersi a principi ispirati a coerenza, nella scelta di un metodo consono al proprio modo già personale di comunicare. Un altrettanto efficace e lungimirante educatore narratore, preparato anche teoricamente a riconoscere una esperienza narrativa in fieri, o persino laddove parrebbero non esserci
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le condizioni propizie al narrare e narrarsi, è una figura rispetto alla quale il volume scommette. Il testo, con questo, non si presenta affatto come un vademecum, né vuole essere una guida avulsa da ogni problematicità: il suo obiettivo è diffondere infatti la cultura convergente del sapere educare e del saper narrare di volta in volta, senza mai smarrire l’ importanza di trattare questi argomenti alla luce di ipotesi teoriche sulle quali poggiare le diverse pratiche. Nella consapevolezza che tali scelte operative non potranno mai essere soltanto narrative, ma potranno almeno essere condotte secondo gli esiti che uno stile narrativo ispiratore di alcuni momenti educativi salienti mira di volta in volta a raggiungere. Quando, al di là di ogni denominazione di ruolo, medici, educatori, psicologi, infermieri,operatori sociali, terapeuti, attori, ecc, per il fatto di essere, voler essere, buoni narratori, scopriranno, ci auguriamo, anche di possedere un talento educativo. Milano, ottobre 2012
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Parte prima , , di Duccio Demetrio
Le parole sono esseri viventi Emile Littré L'unica libertà che ha un uomo è quella di scrivere la propria storia con le proprie parole... se avessi trovato la parola giusta avrei creato un luogo, una mappa David Grossman
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I. UN’INTESA TRA PAROLE
1. Educare è narrare, narrare (può) educare Ognuno di noi ha una storia educativa da raccontare e una storia narrativa che ha saputo educarlo. Spesso con scopi affini. Si può narrare per educare, così come si educa per tramandare narrazioni: in ogni caso, sempre ci troviamo coinvolti nell’ una o nell’ altra esperienza (o in entrambe allo stesso tempo) per rispondere alle attitudini istintive, ai bisogni e ai desideri umani di comunicazione, condivisione, conoscenza. Narrare e educare, prima ancora di presentarsi in quanto “arti”o “tecniche” o “tecnologie” che è nostro compito migliorare per il conseguimento delle mete che ad esse affidiamo, sono dunque prima di tutto, e a scanso di equivoci, funzioni sociali e mentali apprese “naturalmente”. Quando le viviamo, le facciano nostre, le riproponiamo ad altri. Nella fretta del discorrere o dell’ apprendere, però spesso non ci rendiamo conto di quanto stia accadendoci: ma può succedere, e soltanto dopo molto tempo, che se ne riscopra tutta l’ importanza pedagogica. Le parole hanno un peso talvolta effimero, talaltra invece così determinante da riuscire a cambiare la realtà o il nostro modo di intenderla. Possono essere leggere e incoraggianti, oppure, rivelarsi dure come pietre. Per questo, il libro si prefigge di restituire, all’ una e all’ altra parola qui scelta a tema conduttore di queste pagine, un’ importanza spesso sottovalutata. Vogliamo renderle oggetto di una continua, congiunta, riflessione: sia critica e filosofica, che scientifica. Ad impararne senso e utilità, siamo in parte già geneticamente predisposti. In seguito e in ragione delle mutazioni attraversate della nostra specie, che si è evoluta tra fortunate coincidenze e ancora non del tutto scoperte “genialità” di alcuni nostri progenitori (Telmo Pievani, 2011). Ad esse, le operazioni celebrali
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Educare è narrare
e il linguaggio, fatto di parole e di simboli, hanno attinto senza sosta; perché sono necessarie allo sviluppo individuale e al progresso culturale, materiale, tecnologico delle comunità. Anche i più deboli e sfavoriti si avvalgono dell’ educazione e della narrazione; i quali, se non abbandonati a se stessi, possono integrarsi grazie alle risorse educative e narrative loro offerte. Perché chiunque, pur essendo analfabeta, illetterato, sprovvisto delle abilità ritenute normali, si giova dei poteri dell’ educazione e della narrazione; se ne serve dando vita a culture dell’ educare e del narrare divergenti, sommerse, minoritarie, comunque umane. Simili patrimoni “immateriali” dell’ umanità, sono entrambi, come altri, indispensabili alla sopravvivenza di tutti senza distinzione; sono la base “sicura”di ogni processo psichico o sociale; ci forniscono le strutture cognitive, emotive, operative fondamentali. Per muoverci, per agire, per intessere legami con i nostri simili. Senza un loro pur minimo possesso, e per questo l’ educazione e la narrazione vanno analizzate alla luce di sguardi antropologici (prima che pedagogici o linguistici), ci smarriremmo, perderemmo le coordinate che ci permettono di orientarci nella vita. Senza l’ educazione non sapremmo camminare, parlare, scrivere, leggere, imparare a vivere; senza la narrazione, oltre a ciò che l’ educazione ci offre, non potremmo manifestare le nostre idee, formulare un pensiero coerente, apprezzare la bellezza dei racconti di ogni giorno e tramandatici. Non saremmo in grado di inventarne di nuovi. Impossibile è perciò sottrarsi ad una anche pur minima influenza educativa, che ci insegna di volta in volta regole, abilità, maniere di essere e fare. Così come sarebbe destinato a fallire ogni tentativo teso ad esprimere adeguatamente quanto abbiamo imparato su di noi, qualora ci impedissimo, o ci fosse vietata, la possibilità raccontare storie, la nostra innanzitutto. Delle quali si sia stati diretti protagonisti e autori: o ascoltate, rivissute, riferite per imitazione. Ci si educa, di conseguenza, nonostante e al di fuori degli ambiti educativi predefiniti tali. Ci si educa, sovente senza prestarvi attenzione, ovunque ci sia dato di imparare, di prendere coscienza di quanto andiamo vivendo, di contribuire attivamente alla realizzazione e al miglioramento di noi
D. Demetrio - Un’ intesa tra parole
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stessi: sia a livello individuale, sia nelle occasioni relazionali che ci consentono di intendere quanto poco prima ignoravamo, di approfondire argomenti superficialmente appresi, di pensare altrimenti, di trarre dagli insuccessi qualche insegnamento. Ci si educa quando sia la vita a sottoporci ogni genere di prove e di incontri nei passaggi esistenziali, anche difficili e dolorosi ai quali siamo inevitabilmente esposti. Ma, soprattutto, percepiamo che cosa significhi l’ educazione, che cosa avrebbe potuto significare, quando questi eventi, felici o traumatici, ci invoglino a rivedere scelte, comportamenti, opinioni. Ci si educa perché casualmente, o andandoli a cercare, ci imbattiamo in racconti, storie, narrazioni - e in ogni fenomeno della lingua e dei linguaggi, tradizionali o innovativi, di cui essi si avvalgono - che sanno catturare il nostro interesse, accendere passioni, risvegliare desideri e curiosità. I cui messaggi, se significativi, verranno salvati spontaneamente dalla nostra memoria, poiché ritenuti utili e degni di essere trasmessi ad altri. Non c’è, del resto, esperienza educativa importante (imprevista o progettata), nelle sue molteplici forme e opportunità, che non si avvalga - come già evidenziato - delle modalità narrative, più o meno ben adottate, per conseguire i suoi scopi.
Si è sempre narrato per educare; così come si è educato, in ogni cultura, attraverso le molte modalità di cui la narrazione si è avvalsa nel corso della storia. Per offrire alle comunità umane un senso di appartenenza, per creare miti, essi stessi già null’ altro che racconti esemplari e pedagogici; per comunicare conoscenze di ogni sorta, per tramandare consuetudini e saperi. Le mutazioni in campo narrativo hanno inoltre sempre influenzato a tal proposito i metodi e gli approcci educativi. L’ invenzione della scrittura è uno degli esempi più considerevoli e universali. Tale tecnica di comunicazione, preziosa per l’ esercizio del pensiero, della consapevolezza, dei linguaggi emozionali, incise profondamente sulle sorti della relazione pedagogica più elementare, all’ origine fondata esclusivamente sulla trasmissione orale. La scrittura con la lettura, sovente rimuoviamo tale loro particolarità etica, hanno aperto la strada alla libertà individuale di interpretazione, al racconto di sé, al pensiero divergente contro ogni autorità e potere assolutista.
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In una prima sintesi e approfondendo in seguito altri aspetti del binomio narrare- educare (vedi La Parte seconda di Elisabetta Biffi), possiamo affermare, ricorrendo a qualche concettualizzazione essenziale, che: a) narrare equivale a raccontare una storia, e cioè a rendere note una o più unità di significato dotate di un ordine interno e di concatenazioni sufficientemente esplicite, che ne garantiranno la comprensione, l’ associazione ad altre storie. Queste, talvolta, attiveranno processi cognitivi analogici con l’ esperienza di chi in quella storia trovi o cerchi risposte alle proprie domande non solo pratiche, ma esistenziali, filosofiche, religiose. Narrare è dar vita ad un testo nel quale sia ravvisabile un intreccio o, per meglio dire, un intrigo interno, definito dal grande filosofo Paul Ricoeur quel:” Dinamismo integratore che da una varietà di accadimenti ricava una storia, una e completa; in altri termini trasforma queste diversità molteplici in una storia, una e completa” (P. Ricoeur, 1994,p. 20). L’ intrigo è quanto imprime movimento al racconto orale, scritto, cinematografico, teatrale conferendogli una trama: lo riconosciamo in relazione a fatti in successione, a colpi di scena, alle vicende dei protagonisti e dei personaggi, al ritmo incalzante che imprime dinamicità alle storie, alle poche cruciali o alle molte domande retoriche che il testo rivolge a chi ascolta, legge, vede. Mentre: b) educare è concetto e parola che aggiunge ad una narrazione , o assegna al narratore, uno scopo pedagogico. È riconoscibile quando in essa compaiano intenti espliciti o adombrati, inerenti non un’ attività di intrattenimento, ma la dichiarata intenzione di stimolare apprendimenti cognitivi, affettività, l’ assunzione di principi e qualità morali, abilità riflessive, ecc. In soggetti, quali ne siano le età e le caratteristiche, intenzionalmente o accidentalmente esposti ad un evento narrativo. Grazie alla sua particolare facoltà di coinvolgere, attrarre, istruire, commuovere, dimostrare, provocare, indurre imitazioni. Il che vale già a mostraci quali e quante sintonie, anzi empatie e reciproci rispecchiamenti, si stabiliscono tra ciò che riceviamo per via narrativa e il consenso mostrato dalla nostra attività neurofisiologica. Più propensa ad entrare in contatto con il sapere, sia
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cognitivo che emotivo, se veicolato per il tramite di modelli narratologici. 2. Parole che nascono e crescono con noi Tali due parole, questa la loro particolarità, abitano dentro di noi anche quando non le “spendiamo” nella vita di tutti i giorni o in taluni, circoscritti, luoghi professionali: nella relazione genitori figli, a scuola, nello sport, leggendo un libro, assistendo ad un film, ascoltando qualcuno, decidendo di imparare qualcosa di cui ci si trovi all’ oscuro. L’ educazione e la narrazione fanno parte di noi anche quando, per ipotesi, mai ci trovassimo a spenderle con il loro nome. Non c’è donna o uomo divenuti tali, difatti, che non si sia fin dalla nascita, avvalso e “nutrito” di quanto l’ una e l’ altra esperienza, sintetizzabile in termini mutati nel tempo, diversi da lingua a lingua, ma universali perchè sperimentati in prima persona, sono in grado di offrirci. L’una o l’altra modalità di essere ed agire concorre a formare la nostra intelligenza, le abitudini più elementari, i modi di intendere ed esprimere i sentimenti, l’ assunzione delle regole necessarie che ci vengono richieste dai modi della convivenza. Oltre a questi aspetti, dobbiamo inoltre considerare, seguendo le importanti suggestioni della psicoanalisi, che noi ci educhiamo e veniamo educati da presenze umane, e da altre cause condizionatrici, per via inconscia. Apprendiamo senza accorgercene, desideriamo capire quanto lascia indifferenti gli altri, abbiamo una determinata vita emotiva e siamo attratti e affascinati da taluni interessi; al contempo, ci accade di raccontare o raccontarci senza che qualcuno si sia preoccupato di fornirci qualche indicazione utile. Per costruire una storia avvincente e credibile, per illustrare un proprio punto di vista non in modo astratto e concettuale, ma ricorrendo alla invenzione di una trama, di personaggi, di inizi e conclusioni. Educazione e narrazione hanno presieduto al nostro sviluppo, non cessando anche in età adulta di riservarci sorprese. Fra queste, la scoperta che l’ una e l’ altra dimensione del nostro esistere, non si accontentano di aiutarci a crescere, spesso coincidendo con gli esiti stessi della crescita, ma ci invogliano a proseguire il cammino
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della nostra educazione e a renderci sempre più abili e affascinanti narratori di storie. Ognuno di noi non è altro che un racconto al quale aggiunge ogni giorno qualcosa di nuovo. Ora con aggiustamenti quasi impercettibili, senza variare mai nulla della sua composizione; ora, in ragione di taluni eventi e scelte, invece apportando in esso variazioni sostanziali e significative. Il racconto si rende pertanto una metafora della nostra vita: all’interno del quale recitiamo la nostra parte, con altri personaggi, come protagonisti, gregari, figure che sul palcoscenico non appariranno mai ma nella vita sì. Oppure adottando un monologo interminabile, quando si preferisca privilegiare un’ attività introspettiva, tutta mentale ed interiore, inudibile dagli altri; spesso consegnata alle pagine di un diario o di un’ autobiografia. Vivere è dunque trovarsi attraversati, accolti o respinti dalle storie degli altri; così come vivere è andare alla ricerca delle radici e del possibile seguito della propria narrazione. Impossibile è perciò astenersi dal narrare e dal narrarsi. Tale necessità vitale utile alla agilità del pensiero, agli scambi sociali di ogni tipo, si coniuga nuovamente con la altrettanto necessità vitale dell’ educazione. Quando quella storia, oltre a dimostrarsi piacevole e interessante da ascoltare, da leggere, da veder rappresentata, lascia una traccia durevole in noi. Fino al punto, nei casi estremi, dall’ incidere sui nostri modi di pensare ed essere. Quando essa funziona da incentivo, suscitando il riemergere di desideri assopitisi. Quando ci incoraggia e a sperare, offrendoci qualche esempio o prototipo o suggerimento per imprimere alla nostra vita una grande o una piccola svolta. Così come non tutto ciò che accade viene trasmesso o proposto in forme diverse può ritenersi educativo; in pari modo, non ogni narrazione - riprendiamo quanto già accennato - di per sé può generare effetti tali da incidere nella storia dei bambini o degli adulti. Dal momento che l’ educazione aggiunge sempre qualcosa nella nostra vita. Se non possiamo constatare un accrescimento, un miglioramento, una mutazione giovevole al nostro benessere sia psicologico che materiale; se insomma non esercita il potere di incidere significativamente sulla nostra esistenza. I due termini nonostante tali distinguo, tuttavia potrebbero essere ritenuti sinonimi in molte situazioni e in astratto ciò può sembrare plausibile.
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Poiché, assumendone il senso più noto nella nostra lingua, l’ educazione è ritenuta un’ attività volta a trasmettere e a tramandare regole, conoscenze, comportamenti o a perpetuare consuetudini, ad insegnare qualcosa affinché qualcun altro apprenda, appare evidente che per ottenere tali risultati si ricorra alla narrazione. Il racconto è la modalità più antica, e nondimeno divertente, per insegnare ai bambini a parlare e a sviluppare processi mentali. Si è detto, non a caso, che noi “pensiamo per storie”, intendendo con questa felice immagine il bisogno della mente di costruire schemi o strutture cognitive e cerebrali tali da dar luogo ad un’ attività pensante in evoluzione grazie a connessioni neuronali sempre più complesse. Alla radice delle capacità di induzione, intuizione, risoluzione dei problemi, previsione. Il bambino grazie alla fiaba, alle semplici storie che ascolta in famiglia, ai ricordi dei grandi che lo colpiscono viene educato, nella vita quotidiana della sua infanzia (e poi accedendo ai servizi educativi), ad elaborare mappe cognitive. Si impara a pensare attraverso questi costrutti mentali, che gli permettono di dar luogo ad una all’ inizio elementare visione delle cose, anche in rapporto alle condizioni e sollecitazioni emotive che quelle stesse storie suscitano in lui o in lei. La maturazione mentale, dall’ infanzia in poi, si attua attraverso ripetuti esercizi di mappatura dell’ esperienza, che però non si attuano soltanto grazie a procedimenti spontanei e casuali, grazie alle propensioni e dotazioni genetiche che ci consentono di imparare a parlare e a pensare. Queste, nella specie umana, esigono ben più di quanto non accada nelle altre, che l’ educazione - secondo la concezione in precedenza sintetizzata – accompagni, stimoli, indirizzi al miglior fine tali attitudini naturali. La ricostruzione di quanto avviene, potrebbe quindi convincerci, e in parte dovrebbe essere così, che l’ educazione è di per sé narrativa o che ogni narrazione è educatrice. Tuttavia, questa che potrebbe apparire, e forse lo è, un’ equazione semplice e di buon senso, non si svolge secondo questo processo pressoché coincidente e lineare. Lo sviluppo del bambino non si compie secondo procedure, per lo meno non sempre, che potremmo definire logiche e consequenziali. Intervengono, da un lato, incidenti di percorso e variabili che hanno a che vedere con la dimensione affettiva, con le convinzioni educative dei genitori (essere permissivi o autoritari, stimolare la creatività e la libertà o
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attenersi ad un’ educazione che poco concede all’ iniziativa personale e molto all’ intervento autoritario degli adulti); dall’ altro, con gli imprevisti dell’ esistenza, con le risorse e gli stimoli di cui il bambino può disporre o viceversa non usufruire. 3. Poi restiamo intrappolati in quelle parole Ogni parola pronunciata, o accolta e sigillata dal pensiero, dovrebbe essere dunque vagliata instancabilmente, per riscoprirne il senso. In relazione al trascorrere del tempo personale, alle mutate circostanze della vita e delle opinioni- altrettanto instabili e soggette alle molte forme del divenire -, che di un’ esperienza, di un problema, di un’ idea, abbiamo maturato nel corso degli anni. Tutte le parole che usiamo ci assomigliano o finiscono per assomigliarci e noi a loro. Fanno parte di noi, ci immedesimiamo in loro, spesso fin troppo. Oltre ad aiutarci a capire chi siamo, che cosa vogliamo, dove vogliamo andare. Le ereditiamo sempre, ed alcune tra di esse, più di altre, connotano indubbiamente la nostra identità. Le cerchiamo e ritroviamo a questo scopo, quando i casi della vita ci confondono, spaesano, smarriscono, offuscano quelle mappe mentali di cui già tanto abbiamo parlato. Veniamo riconosciti in base al lessico che più frequentemente utilizziamo, oltre al nostro periodare, dialogare, tacere o concitato fraseggiare. Ci caratterizzano anche quelle poche parole: se troppo ci siamo affezionati ad esse. Alcune ci rassicurano, mentre altre ci inquietano, spiazzano, e pertanto le respingiamo per pigrizia o per timore che possano rimetterci in gioco. Fra queste, alcune, per tutta una vita continuano a mantenere immutato il significato che per abitudine, educazione, pigrizia continuiamo ad assegnare loro. La cosiddetta natura semantica che le contrassegna, in questi casi, non subirà alterazioni e coinciderà con il senso che altri ci hanno trasmesso. In circostanze diverse, invece, quel dato termine potrà essere sostituito da sinonimi reputati più consoni all’ esigenza, o alla esplicita decisione, di adattarli ai cambiamenti sociali e al variare dei punti di vista personali. Quando ciò non si verifichi, il risultato ci vedrà utilizzare quel vocabolo senza soluzione di continuità e secondo un’ inveterata e rassicurante consuetudine. Le parole non vanno
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né accolte a scatola chiusa, né lasciate insomma alla loro inevitabile usura. 4. Ma siamo anche le parole che interroghiamo Ci affezioniamo a tal punto al loro senso, quando diventano le “nostre” parole, da non voler privarcene; non tanto a livello linguistico, bensì in quanto formae mentis: apportatrici di procedure, modelli, criteri diversi per prestazioni e compiti comunicativi e narrativi. Così come, all’ opposto, accade che molti termini ci abbandonino spontaneamente: senza accorgercene, essi vengono eliminati e sostituiti per far spazio al sopraggiungere di novità lessicali, con il loro corredo di definizioni tratte dall’ esperienza, dotate del potere di cancellare, in parte, taluni vocaboli dai nostri dizionari autobiografici precedenti, rapidamente rendendoli obsoleti. Si tratta di sostituzioni dovute alla pressione delle circostanze dettate dal caso, dalla convenienza, da una maggiore o minore sensibilità alla lettura, all’ ascolto di altre terminologie, alle mode. Nella più parte dei casi, le nuove parole fanno il loro ingresso nei nostri dizionari personali in modo strisciante, silenziosamente. Non vengono sottoposte ad un filtro preventivo, ad un vaglio critico. Siamo come costretti ad acquisirle secondo automatismi dettati dal conformismo, per non apparire poco aggiornati. Ed invece le parole, vecchie o nuove, andrebbero periodicamente riconsiderate criticamente. Per un esercizio del pensiero riflessivo, per curiosità, per un riadattamento semantico alla luce di nuovi accadimenti e incontri, per una curiosità intellettuali che mai dovrebbe abbandonarci. Rispetto alla nostra vita e alle culture professionali che se ne avvalgono. Quando tale attenzione venga rispettata e perseguita, ogni parola, del passato o del presente, si rivelerà innovativa a livello educativo, perché potrà imprimere una variazione interpretativa, rispetto ai fatti, al mondo, ancora una volta a noi stessi. Ogni parola detta o scritta, vecchia o nuova, insomma, non è mai soltanto una parola: è la sintesi di mentalità ricevute in eredità, di scoperte individuali anche geniali, di luoghi comuni, così come di raffinate e dotte revisioni. Aquanto detto, dobbiamo aggiungere il peso della ricerca scientifica e tecnologica, i mutamenti di residenza, di paese e professionali, l’ incontro duraturo con locutori di
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altre nazionalità e parlate, l’ esposizione ai new media, i fenomeni di globalizzazione che incidono non poco su quelle parole cui eravamo affezionati, delle quali forse è bene liberarsi. Consuetudine e innovazione, ibridazioni terminologiche e persistenze delle lingue, degli idiomi o dei linguaggi impiegati per intenderci gli uni con gli altri, sono modulazioni dunque da considerare con grande attenzione. Tanto più, quando ce ne serviamo con la pretesa di influenzare i comportamenti umani, di orientarli verso l’ apprendimento di conoscenze, norme, valori; nonché di condizionarli, piegandoli a scopi possibilmente nobili e utili a coloro per i quali diciamo di spenderci. Come persone, come professionisti. In educazione e in ogni altro luogo connotato da scambi umani, ogni parola conta più della sua definizione. Può avvicinare o allontanare; essere fonte di equivoci o chiarificatrice; incoraggiante o al contrario non dar adito ad alcuna speranza. Le parole non sono mai impersonali, asettiche e innocenti: vanno rapportate agli intenti di chi le usa, alla possibilità di non venir fraintese da parte di chi ne è il destinatario. Tutti i linguaggi, con i loro codici anche extralinguistici, dipendono inoltre dai vantaggi cui aspira chi se ne serva: come emittente o ricevente. Ciò è palese, e in modalità macroscopiche e vistose, ad esempio in politica, nell’ informazione, in pubblicità; ma anche nelle sfere più familiari e intime. Quando siano in gioco interessi e relazioni d’ autorità, di potere, di assoggettamento, di ricatto. L’ esame costante delle parole non concerne un passatempo colto e dilettevole: chiama in causa questioni ben più complicate, e non proprio glottologiche, oltre a responsabilità di carattere civile e morale. In special modo quando ci si occupi di persone più deboli e fragili, ci si prefigga di renderle meno infelici, di accudirle, di dar loro gli strumenti per continuare, quando possibile, da sole: a raccontarsi, a ricordare, ad accogliere altre storie, ad approfittare del sollievo che le parole, talvolta più di altre risorse materiali, sanno offrirci. 5. Due tensioni generative Se i modelli narrativi possono essere paragonati a “mappe come storie”, regolando la più parte delle condotte individuali e collettive, da quelle organiche a quelle sociali, risulterà perciò ora più
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evidente quante e quali possano essere le connessioni con le attività educative spontanee (non sorvegliate da un progetto e da un intento di natura pedagogica) e, ancor più, con le iniziative che individuano nella narrazione un potente mezzo educazionale. Tanto come obiettivo, quanto come metodo. Queste componenti sono indispensabili a generare una descrizione plausibile degli avvenimenti. Congiunte o distinte, potranno presentarsi in forme essenziali, talvolta rudimentali, ma - in ogni caso - si mostreranno esposte a processi di potenziamento e migliorativi, agli effetti dei diversi scopi ad esse riconducibili. Ad una sensibilità pedagogica, anch’ essa costituita da un agglomerato di storie concettuali o direttamente esperite, quali siano le matrici culturali e scientifiche di questa vocazione professionale o vocazionale, non può sfuggire che - da quanto già affermato - è allora non solo opportuno, ma necessario, che ogni ulteriore considerazione ci conduca a rispondere alla domanda: come si manifestano le esperienze narrative e/o educative nella vita di ciascuno di noi in quanto soggetti chiamati ad agire, ad avere un ruolo da protagonisti, nelle cose del mondo? Rispetto alla propria vita e alla gamma più o meno ampia di interazioni che ognuno è chiamato ad esercitare per sopravvivere, reagire all’ ambiente, per il benessere non solo suo proprio, per raggiungere le mete prefissate. È improbabile poter fare a meno di quanto l’ educazione e la narrazione ci offrono: in quanto risorse e opportunità, in quanto strategie e tecniche che ci consentono di essere soggetti di diritto, aperti al cambiamento e alle infinite opportunità conoscitive. Narrare e educare sono perciò tensioni generative. Accendono indizi di vita dove parrebbero ormai spenti, rivitalizzano energie, ridanno gusto all’ esistenza, ci riaffezionano alla vita nostra e degli altri. Per il lavoro, se stessi, la cura, l’ attenzioni per le relazioni affettive, l’ assunzione di responsabilità e le condotte civili. Narrazione e educazione, nuovamente, tornano in tal modo ad allearsi quando le si voglia cogliere nella loro feconda e reciproca coniugazione. Quando siano messe in grado di conferire alle nostre scelte umane e professionali un dichiarato orientamento pedagogico. Può darsi un’ educazione non guidata dalla lungimiranza e dalla coscienza pedagogica; affidata alla mercé dei capricci della buona o mala sorte; così come può darsi narrazione contraria
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ad obiettivi di ugual natura. Per tale motivo esamineremo più oltre le circostanze, e per quali obiettivi, entrambe le manifestazioni dell’ esistenza qui esaminate rientrino a pieno titolo nei fini dell’ educazione, contingenti e remoti, o quando si discostino invece da essi. Limitandosi queste a rappresentare un mezzo efficace, appropriato, intrigante, per migliorare le capacità educative, per favorire l’ apprendimento, per creare climi emotivi e suggestivi utili a farsi intendere; per trasmettere e ricevere informazioni, messaggi, modi di essere e fare; per imparare, avvalendosi delle arti del racconto in senso lato per finalità di carattere sociale. Dove inoltre non è possibile dimenticare, o volutamente escludere, le manifestazioni auto -referenziali del pensiero e del linguaggio, del tutto private, intime, che rendono la narrazione un evento e un processo di carattere introspettivo di notevole e pari importanza educativa, rispetto alle precedenti finalità. Tale fondamentale attività psichica si basa sul dialogo interiore, sul monologo mentale, sulla scrittura diaristica e su ogni altra espressione cognitiva e linguistica personale, individuale, soggettiva. I cui esiti siamo soliti chiamare: coscienza, consapevolezza, ponderazione. Argomenti che ritroveremo e tratteremo in particolare nella nostra terza parte. Ciò che accomuna le voci educazione e narrazione, in quanto scopi e tecniche volti a raggiungere una gamma amplissima di risultati, è senz’ altro poi la loro comune missione comunicativa. Si educa e si racconta soprattutto per comunicare informazioni, modi di essere e fare, principi. Ma non è detto - con questo - che gli atti comunicativi una volta intrapresi possano dar luogo a effetti pedagogicamente rilevanti; né che una comunicazione reputata sufficientemente “buona” possa giocoforza avvalersi di approcci e di vie di tipo esclusivamente narrativo. L’ intelligenza e la lungimiranza pedagogica, per questi motivi, sono la condizione senza la quale tanto educare, e tanto narrare, possono rivelarsi destinati allo spreco, alla dispersione, all’ insuccesso. Occorre per tali motivi prestare attenzione al valore relazionale della comunicazione. 6. La relazione è già un racconto in attesa L’ambito nel quale quanto accennato si rende particolarmente esemplare è proprio quello educativo. Poiché, innanzitutto, esso si
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fonda per lo più sullo scambio di parole, sulla loro proprietà di associarsi in funzione narrativa: e, fra l’ altro, il loro apprendimento e un appropriato uso delle storie cui danno vita, ne è uno degli scopi. Anzi, sono esse a renderlo tale anche nei luoghi meno tradizionalmente deputati ad educare o ad insegnare. I discorsi, le interazioni verbali, i linguaggi senza parole creano un contesto educativo in base, come vedremo, al sussistere di alcune condizioni. Sono le parole, contrassegnate dai modi con i quali le introduciamo e al peso che ad esse assegniamo, a determinare una relazione educativa. Sia essa in presenza fisica tra interlocutori, ma anche a distanza: in tempi che vedono proliferare le narrazioni on line. Dai blog già superati, ai social network. Sono esse a creare, a mantenere, a interrompere climi e ambienti narrativi proficui o viceversa sfavorevoli all’ instaurarsi delle condizioni per l’ educazione, la cura, l’ ascolto. Sono sempre loro, in base a come abbiamo saputo porgerle, condividere, spiegare, a rendere un luogo qualsiasi uno spazio di vita dotato di un assetto educativo, clinico, relazionale. Al quale ci si possa rivolgere liberamente, poiché qui si troverà chi spenderà le parole e i racconti che si volevano incontrare. Dove quelle parole, quelle narrazioni, il modo di alimentarne altre, potranno creare una struttura di relazioni potenzialmente educative, spesso terapeutiche. Anche in uno tempo/luogo informale di convivenza (in strada, tra amici, in famiglia..) un’ esperienza ricca a livello dialogico e narrativo - in relazione nondimeno al quando e al come venga introdotta o potenziata - accende, o instaura, possibilità di natura pedagogica. Talvolta, in ragione della sua perentorietà e assertività (un ordine, un comando, un ricatto), può bastare una sola parola a suscitare effetti educazionali. Più frequentemente però, essa si colloca in un discorso, in una catena semantica, in ritualità a tal punto persistenti e condizionanti che si mostrano in grado di ottenere, o di auspicare, taluni risultati in base alla proprietà di quel messaggio di cui quella fatidica parola, insieme ad altre, è messaggera e tale da rendersi suscitatrice di altre narrazioni. Ancora una volta potenzialmente educative. Basti pensare al fatto che dopo un incontro vivace a livello narrativo si torni a parlarne, ad evocarlo con narrazioni che si aggiungono alle precedenti. Le parole dell’ educazione si alleano e ibridano di continuo con altre parole divenendo "discorso". Anch’ esse vanno pertanto riscoperte come tali, quando sembrerebbero estranee alla gamma delle parole ri-
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conosciute come elettivamente pedagogiche: imparare, prendersi cura, istruire, formare, insegnare. A tutto ciò, occorre aggiungere che tra le difficoltà educative più frequenti dobbiamo annoverare la rosa di equivoci, incomprensioni, malintesi responsabili delle molte manifestazioni di incomunicabilità frequentemente presenti in questi ambiti. Nell’ ansia di comunicare e di essere compresi dai nostri interlocutori abituali o inconsueti, non avendo né il tempo, né il desiderio di chiarire che cosa si voglia intendere e si intenda ottenere con quella data espressione, innumerevoli sono gli incidenti a livello di reciproca comprensione. Fatte salve le congiunture nelle quali chi è il destinatario dell’ educazione espressamente si rifiuti di ascoltare e condividere non tanto la singola parola di valore educativo, quanto piuttosto la proposta discorsiva nel suo insieme. Poiché ciò che più ha possibilità di educare non è il singolo termine anche suggestivo e ben speso: esso non possiede facoltà di coinvolgimento paragonabili all’ insieme in successione di parole capaci di dar vita a trame narrative che interlocutori diversi intrattengono tra loro, che costruiscono giorno dopo giorno. Dove chi narra, viene a sua volta narrato e chi ha il compito professionale di narrare sa dosare parole e modularle a seconda delle circostanze. Dove si costruiscono spazi narrativi efficaci, intensi, pedagogicamente memorabili, all’ insegna del piacere di lavorare insieme. Dove si desideri tornare anche dopo con il ricordo. Uno spazio narrativo simile diviene in tal modo spazio di vita vissuta, esistenziale, pienamente umano. 7. Linguaggi, oralità e scrittura: neuroscienze Educare e narrare non vanno ritenute, nonostante la loro consanguineità più volte ribadita, attività sempre equivalenti e intercambiabili in ogni circostanza. Non vanno impiegate come sinonimi l’ una dell’ altra. Può sussistere infatti una proposta educativa che escluda di necessità l’ impiego di situazioni e di interazioni, verbali e non, di carattere narrativo secondo l’ accezione indicata; così come non è detto queste siano ogni volta da ritenersi funzionali al conseguimento di specifici risultati pedagogici. Sottolineeremo invece, dove ciò ci appaia congruente, le grandi potenzialità della narrazione in ogni luogo e momento relazionale dell’ esisten-
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za, a livello di creazione, riproduzione, ma anche frattura di legami umani. Nel corso dei quali si stabiliscono occasioni e regole innanzitutto di condivisione o di conflitto; al cui interno, si possano instaurare circostanze, non scontate ed eventuali, di carattere educativo. Il trovarsi coinvolti in un processo di natura narrativa – dove ad esempio siano in gioco scambi e confronti di storie - può preparare, allestire, favorire l’ innesto in esso di tali momenti. Dove, ancora una volta, un incontro già orientato pedagogicamente, potrebbe (ma non è detto) risolversi e trasformarsi in un’ occasione narrativa apprezzabile. La narrazione e l’ educazione sono parte rilevante della vita, come affermato fin dalle prime righe (come del resto privarsene, trascurarle o immaginarne la mancanza?), quale sia il senso e il ruolo che destiniamo a loro quando contribuiscono a perpetuarla, ad averne cura, a migliorarla. Si tratterà allora di valorizzarne le potenzialità e le dinamiche “naturali”, di cogliere ogni occasione feconda e propizia affinché l’ educazione si avvalga della narrazione e viceversa. Si tratterà di non trascurare tutti quei momenti che sappiano mostrarci quanto l’ educazione – nelle sue diverse declinazioni – (D. Demetrio, 2009) ci sia indispensabile, sia essa narrativa o meno; e, d’ altro canto, occorrerà assumere tale duplice paradigma pedagogico a linea di condotta per migliorare la qualità della vita nostra e degli altri. Adottandolo come una sorta di bussola nelle più diverse situazioni professionali e relazionali. Non soltanto quando tale universale competenza, esito dell’ evoluzione linguistica, semiologica, artistica di ogni collettività, e a sua volta d’ essa perpetuatrice, si avvalga e si sia dotata delle modalità del parlato e della scrittura. Senz’ altro tra le principali, le più ordinarie e quotidiane; certamente però non tali da farci dimenticare tutta l’ importanza degli altri linguaggi - simbolici, gestuali, figurativi, musicali, prossemica, ecc - che producono altrettanti effetti di grande suggestione, efficacia, rilievo narrativo. Le cui forme e manifestazioni sono ravvisabili in ogni campo della trasmissione del sapere e della comunicazione. Tuttavia, ci è difficile non ribadire quanto la “parola” vocale (sussurrata o urlata, comunque la si impieghi) presente in ogni istante, di noi parte costitutiva, continui e continuerà ad avere una supremazia incontestabile in riferimento alla narrazione: tacerne la rilevanza, la pervasività, la fungibilità in nome di altri linguaggi (del corpo o dell’ immagine, ad esempio) dei quali certamente non è possi-
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bile disconoscere l’ importanza, è fuorviante e erroneo alla prova dei fatti. La vita umana è e sarà sempre fondata sulla lingua, quali siano le innumerevoli differenze storico- naturali nelle quali si declina. Le parole spese, ascoltate, lette precedono e sovrintendono ad ogni nostro atto. L’ idea di narrazione - apparsa in ambito filosofico, storico e letterario - si è ampliata non poco recentemente, collocandosi al crocevia oltre che degli studi umanistici, di quelli biologici e neurologici. È un oggetto scientifico ormai multi e pluridisciplinare. Per altro, le narrazioni, dalle più semplici alla più complesse, non costituiscono più l’ esclusivo oggetto di indagine delle scienze umane. L’ antropologia, la psicologia o la semiologia, la sociologia, per citare le discipline più interessate a studiare innanzitutto la vita come fatto e processo narrativo, non possono ignorare quanti e quali siano le opportunità di incontro con le neuroscienze. È il nostro cervello, in primo luogo, a rivelarsi l’ apparato ricettore, inventore e diffusore di narrazioni (Damasio,2012). Secondo le ricerche più recenti, la realtà che percepiamo, oltre a presentarsi come una incessante fonte di stimolazioni sensoriali, non potrebbe essere mentalmente organizzata se non potessimo avvalerci di modelli in grado di includerle in insiemi di significato. Tali modelli fra l’ altro, come è noto, hanno dato vita alle scienze e alle tecnologie dell’ informazione, alla costruzione dei computer, il cui funzionamento imita potenziandoli i processi cerebrali di cui disponiamo. Immettiamo dati e questi danno luogo a storie, alle loro combinazioni infinite, a narrazioni. Per Jerome Bruner (tra i primi studiosi ad aver introdotto l’ ormai celebre “svolta narrativa” nelle scienze cognitive e non solo(J. Bruner, 1989), quanto definiamo narrazione è riconducibile a processi neuronali organizzati in memorie, schemi, programmi che accolgono il nostro bisogno e desiderio di non perderci, di orientarci nel caos degli stimoli sensoriali, memoriali, emotivi cui il nostro apparato ricettivo è esposto. La definizione precedente di narrazione vede aumentare così la sua importanza. Ogni narrazione, di grado elevato o elementare pertanto, appresa socialmente e in relazione alla cultura simbolica, linguistica, corporea e tangibile, nella quale nasciamo e cresciamo, ci consente di controllare le nostre azioni conferendo loro una direzione. La metafora introdotta dallo psicologo Jerome Bruner, secondo la quale tutti
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noi – indipendentemente dalle differenze etno-linguistiche cui apparteniamo- in continuazione “fabbrichiamo storie”(J. Bruner, 2005), si rivela a tal proposito assai calzante. Esse ci permettono di decodificare i messaggi provenienti dal mondo naturale e umano, poiché possiamo includerli in narrazioni che già abbiamo ascoltato, ereditato, letto aventi il valore di mappe. La cui funzione è determinate nelle prime necessità di orientamento durante i primi passi nella vita e in seguito. Quando l’ educazione precoce ricevuta e i primi incontri con le narrazioni adulte e genitoriali svolgono un compito performativo: basato sull’ acquisizione di comportamenti e abilità affidati alle propensioni imitative dell’ apparato psichico ai suoi esordi. Ciò contribuisce alla costruzione, affidandoci ad un’ altra metafora, delle iniziali, infantili, carte topografiche mentali, già ricondotte all’ idea di storia. Dal momento che una storia, per essere tale, deve possedere una sua struttura riconoscibile e inscritta nei nostri neuroni (non può limitarsi ad essere uno stimolo sensoriale o informativo), dovrà pertanto connotarsi in relazione ad un insieme ordinato avente la funzione di includere in quella, o in altre storie, quanto ricevuto dalle sollecitazioni esterne. In base a trasformazioni di abitudini, di mentalità, di mitologie sedimentatesi nei secoli che compongono i cosiddetti habitus culturali inerenti le diverse sfere del nostro pensare e agire.
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II LE STRUTTURE CHE CONNETTONO
1. Ogni storia ha una sintassi Una storia, nella prima accezione, equivale come è noto ad un racconto: di vita (la propria o degli altri), di fantasia, d’ esperienza. Ogni storia, nella sua singolarità (nella sua unicità o in correlazione ad altre storie: dalle quali proviene, è in contatto, delle quali si rende generatrice) possiede, a differenza di un semplice e singolo segnale verbale, sonoro, scritto, figurativo, corporeo, simbolico un suo interno ordine logico. Si presenta pertanto contrassegnata da una struttura, ovvero, da un insieme di elementi già dotati di una loro interna organizzazione o che la storia via via va costruendo. Scrive il linguista Andrea Moro avvalendosi di una citazione tratta dal dialogo platonico Teeteto: Platone usa in proposito – ad indicare la composizione che da forma al racconto – il verbo harmòttein – che noi traduciamo con “accordarsi, armonizzare “ –, ma è interessante notare come harmòttein sia un verbo nato in un ambito diverso. Ad esempio lo userebbe un falegname assemblando pezzi di legno per costruire uno sgabello se volesse dire che un pezzo si incastra bene in un altro ….Questo significa riconoscere che il linguaggio -“ che è alla base di ogni narrazione:n.d.a “ – è fatto di un’ armonia, di un incastro di parti che non può essere casuale “(A. Moro, 2012,pp. 17-18).
Come ogni frase e periodo di senso compiuto, anche il racconto non può reggersi pertanto senza una sintassi. Il cui compito consiste nel connettere, notoriamente, le frasi ordinandole in concetti ora elementari, ora tali da implicare livelli di astrazione elevati. Il collegarli tra loro corrisponde a quell’ atto cognitivo, dinanzi alle forme orali, scritte, iconografiche, cinetiche, che siamo soliti ri-
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condurre alle capacità di comprensione, ascolto attento, spiegazione, decodificazione. Tali unità semantiche possono presentarsi non sempre immediatamente accessibili. E, allora, saranno coloro che tali storie ascolteranno o vedranno rappresentate ad attribuire a tali agglomerazioni significati divergenti. I cui messaggi non potranno dirsi sempre coincidenti con quanto la fonte narrativa, umana o tecnologica, intendesse o intenda comunicarci nella sequenza di istanti che generano la condizione narrativa. Una prima distinzione importante va ricondotta alla frizione e distanza tra il predicato narrare e il predicato informare. 2. Con Walter Benjamin: educare o istruire? Il filosofo Walter Benjamin in un celebre saggio intitolato “Il narratore”(1936, p.247) affermò che raccontare una storia è la capacità di “scambiare esperienze” . Precisò inoltre che occorre però distinguere tra informazione e narrazione. Se la prima: “conta quando è nuova e viene consumata” all’ istante, nonché memorizzata a seconda delle necessità; la seconda parola invece rinvia a quanto Benjamin riteneva fosse :“una forza concentrata (che) può svilupparsi ancora dopo molto tempo”. Di conseguenza: “l’ arte del narrare storie è sempre quella di saperle rinarrare ad altri” e non vi è “cosa narrata” che non contenga “una traccia del narratore” (Ibidem,p.256). Da un punto di vista pedagogico, si presenta un analogo distinguo: in tal caso, tra il senso e i valori di volta in volta attribuiti all’ istruzione e/o all’ educazione. Così come l’attività di informare equivale a trasmettere una notizia nuova per alcuni o ad altri già nota, quella di istruire corrisponde all’ arricchimento del patrimonio di nozioni, anche pratiche, dei destinatari dell’ istruzione. Educare, da qui l’ analogia con il verbo narrare, è termine denotativo di ciò che conferisce valore aggiunto alle informazioni o alle istruzioni ricevute e recepite. Veniamo educati e svolgiamo un compito educativo quando, ancora di concerto con le citazioni precedenti, riusciamo a lasciare qualcosa di indelebile, di “memorabile”, nella storia di vita di qualcuno; quando i comportamenti sui quali, consapevolmente o meno, abbiamo agito - anche trasformando per il meglio i precedenti - generano effetti positivi forse non nell’ im-
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mediato ma alla verifica dei fatti dopo un certo tempo; o quando riusciamo, parafrasando Benjamin come educatori e narratori, a “calare” una certa esperienza nella vita di chi intrattiene con noi un rapporto non effimero e con il quale interagiamo con parole e fatti che per il destinatario (per il ricevente del racconto, definito narratario) assumono una certa importanza agli effetti della sua formazione umana complessiva (W.Benjamin, 2012). Ritroviamo in queste parole il concetto di sintassi e di struttura: "qualcosa" di educativo appare in noi o in chi pretendiamo, tentiamo , ci affanniamo ad educare, se "qualcosa" cambia nella sua/nostra struttura di vita: non solo mentale o connessa con l’ uso del linguaggio. Inoltre, se ciò che raccontiamo contiene una “traccia” del narratore (poiché in qualche misura gli assomiglia o con lui presenta delle affinità dichiarate, come nella narrazione autobiografica), possiamo aggiungere che chi educa lascia altrettante orme di sé sia in ciò che racconta (spiega, ordina, illustra, dimostra), sia in coloro che con lui, con lei, si saranno incontrati. Tale presenza incancellabile in chi ascolta una storia o in chi si trovi a vivere una vicenda denominabile come educativa, sovente nella loro felice coincidenza, si rivela pertanto determinante agli effetti di una riuscita pedagogica. Quando vengano messe in atto consapevolmente occasioni di carattere narrativo, singolari ed uniche o ripetute, in grado di rivelarsi educative e viceversa. O quando la competenza professionale di chi educa sappia cogliere spunti e potenzialità per rendere educativo uno scambio narrativo il più comune e quotidiano. Sul breve o per lo più lungo periodo sarà possibile osservare nelle persone entrate in un campo(o sistema) educativo/narrativo che le trasformazioni auspicate sono dovute ad una variazione delle loro sintassi cognitive, affettive, valoriali. È del resto assai difficile, da quanto affermato, che un’ esperienza riconoscibile come educativa, ottenendo questi risultati, non si avvalga di mezzi e metodi basati sulla narrazione. Sia in presenza di un educatore- narratore, cui vengano affidate specifiche responsabilità in merito; sia per gli scambi verbali o extra- verbali che inevitabilmente intrattengono coloro, che con ruoli diversi, ne facciano parte. Un contesto simile, questo il nostro paradigma (famigliare, scolastico, curativo relazionale in senso plurimo, ecc.) si istituisce ed auto organizza al contempo sotto il profilo narratologico e pedagogico. Talvolta, all’ insegna della più imprevedibile
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casualità; talaltra sotto l’ egida di un progettualità educativa specifica. Dove questa si mostrerà efficace e significativa, quanto più chi abbia il compito di orientarla verso taluni fini sia riuscito non solo ad avvalersi delle suggestioni della parola, del discorso, della conversazione, del dialogo, ma sarà appunto stato capace di animare e di rendere la scena pedagogica un habitat narrativo coinvolgente e complesso. 3. Le risonanze esistenziali Ogni racconto, privato o legato alla sfera pubblica, è sempre riconducibile ad interferenze e cause che lo vedono nascere, che ne determinano l’ origine. Ogni storia, inerente la nostra o la vita degli altri, trae le sue ragioni da esigenze a narrare non isolabili in se stesse. Avulse dal contesto al quale occorre ricondurre i perché, e non tanto i come, una data narrazione prende vita o si sostituisce ad un’ altra. Un libro, un film, un’ autobiografia, un’ esperienza narrativa vissuta, ecc nascono in rapporto ad un’ esigenza umana, personale o collettiva, di avvalersi di quella data narrazione. La quale sarà portavoce, specchio, indicatore di umori, modi di essere, condotte, mitizzazioni di talune figure di eroi dal grande potere fabulatorio o, viceversa, di personaggi schivi e solitari cui viene conferito un potere grande, paradossalmente, proprio perché parchi ed essenziali nella parola. Parimenti la ricerca delle circostanze extrasintattiche, che però sono alla fonte della narrazione, rappresenta una responsabilità analitica cui lo studioso di narrazione o il narratore consapevole e operatore (educativo o meno) è senz’ altro tenuto. Un racconto possiede una sua importanza anche agli effetti di quanto non ci dice esplicitamente e che è compito nostro scoprire, frugando nella sua sintassi esterna in tal caso. Esso, in relazione a quanto detto, ha un valore a livello di “testimonianza esistenziale”e non soltanto perché ci racconta storie interessanti, gradevoli coinvolgenti. Ogni storia ascoltata oralmente, letta, vista ci dice qualcosa di noi, ci dice se in qualche modo ci assomiglia, parla di problemi che sono anche nostri. Ogni storia ha le sue risonanze, di ordine sociale o psicologico: non
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possiamo perciò ritagliarla dai contenitori che l’ accolgono, per occuparci esclusivamente del testo che ci consegna, quasi fosse protetta da una campana di vetro. Ogni storia ha un valore educativo rispetto al nostro presente se ci invita ad interrogare il tempo che andiamo vivendo, a scoprire in essa affinità con il nostro, o altrui, modo di amare, pensare, desiderare, agire secondo giustizia, libertà, responsabilità, solidarietà o viceversa all’ inseguimento del proprio esclusivo tornaconto.
Inoltre, ogni racconto ha bisogno di una risposta attiva, consensuale o dissenziente, da parte di chi entri in contatto e interagisca con esso. Il quale è chiamato, oltre che a memorizzarlo, a rispondergli ponendogli domande, interpellandolo, aggiungendo altri elementi a quell’ insieme. Ogni racconto, quale sia la natura tecnica che lo connota, può essere meglio compreso se ci aiuta a comprendere la nostra storia. Se ci aiuta a scoprire momenti e problemi che fino a quel momento ci erano poco noti o decisamente oscuri anche per la nostra resistenza ad indagarli. Un film, un libro, un messaggio on line ci intrigano se hanno qualcosa da dirci (a loro insaputa) rispetto alla nostra esistenza. Dove, ne consegue, non risulterà vana la funzione che la letteratura, il cinema, gli scambi discorsivi agli effetti della loro facoltà e rilevanza poetica, estetica, conversazionale, svolgono nel determinare una variazione nelle trame e negli orditi della nostra vicenda umana. 4. L’ attitudine a narrare: un istinto L’ altro motivo non sottovalutabile, quando si affrontino simili argomenti, è costituito dalla dimensione spontanea del nostro narrare e narrarci. Ci riferiamo al fatto che i racconti strutturano, organizzano, ordinano i nostri comportamenti più quotidiani e prosaici. Noi comunichiamo per il tramite di storie, ormai ben lo sappiamo, spesso presupposte, frammentate, incomplete: ma sempre come indirizzati da un impulso o istinto narrativo che lo scrittore israeliano David Grossman ha così ben riassunto in riferimento al: Potente impulso a creare delle storie; a organizzare entro il contesto di una trama quella realtà che non di rado risulta caotica e incom-
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prensibile; a trovare in tutto ciò che accade i nessi evidenti e quelli occulti, capaci di dare un significato particolare; a evidenziare in ogni evento i tratti avvincenti , e a farvi spiccare i protagonisti.
E così prosegue: L’ impulso a raccontare una storia, a inventare o ad attingere alla realtà, è quasi un istinto a sé , l’ istinto narrativo: per determinate persone – alcune delle quali finiscono poi per diventare scrittori – questo istinto è potente e primario come ogni altro. La grande fortuna sta nel fatto che esso trova nel mondo l’ istinto parallelo: quello di ascoltare storie (D. Grossman, 2007,p. 5)
Un principio filosofico, un postulato etico, una concezione della vita possono essere enunciati ricorrendo ad una storia o ad un mito, a più storie tra loro interconnesse e a più miti. Socrate per bocca di Platone ricorreva ai racconti per esporre le sue teorie. Narrare è riprodurre, ricostruire, inventare storie che vengono ordinate da una attività mentale, poiché narrare, bene è ribadirlo, è una manifestazione del modo con cui pensiamo, quali siano i contenuti trasmessi. Dentro ogni racconto dovremmo riuscire a scoprire, ancora David Grossman ci sollecita in questo senso, come si sia mossa la mente del narratore, quali processi cognitivi l’ abbiano maggiormente caratterizzata, quali “atti cognitivi” abbia adottato per presentarci quel dato racconto. Anche questo ha una rilevanza educativa: possiamo scoprire qualcosa di più di noi stessi o degli altri in base alle modulazioni del loro raccontare o del nostro raccontarci. Possiamo individuare alcune tendenze più rilevanti di altre, ad esempio, rispetto al ruolo affidato agli atti mentali, corrispondenti ad altrettante parole, descrittivi, argomentativi, riflessivi, introspettivi, esplicativi, immaginativi. Ogni racconto sufficientemente compiuto, quando cioè sia in grado di farci intendere la sua logica o sintassi interna, è un “ritratto” molto somigliante a chi l’ ha concepito e esposto, quali siano i mezzi dei quali si sia avvalso. Ciò facendo ognuno di noi è attore e interprete del proprio racconto, si nutre di storie altrui, ne inventa di nuove traendole da quelle con le quali sia entrato volutamente o per caso in contatto. Se veniamo privati della possibilità di raccontare o di entrare a far parte dei racconti del nostro prossimo, di esprimerci
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o di interagire con le sue narrazioni, soffriamo di una mancanza che può condurci verso patologie insopportabili. Stiamo parlando del racconto come manifestazione ineliminabile del nostro essere donne e uomini, in quanto “soggetti di linguaggio” e non di uno soltanto. Del racconto come necessità vitale, come bisogno e diritto umano, civile, politico; della vita di ognuno come narrazione in corso, autobiografia condivisa, attuabile in ogni circostanza. “Scriviamo il nostro racconto” giorno per giorno, anche essendo illetterati; esso si incarna nei nostri corpi, nei modi di essere e agire, è il frutto di frammenti narrativi e storie ereditate che ritrasmettiamo a nostra volta con sufficiente determinazione, chiarezza e trasparenza, oppure, che abbandoniamo alla deriva, nella loro interruzione improvvisa, nell’ opacità di non averle sapute con coerenza raccontare fino alla fine. 5. Narrare come metafora È indispensabile rammentare quanto la logica primaria di ogni racconto e che tale lo rende - cui vanno attribuite le caratteristiche in precedenza individuate – si basi su un ciclo fondativo analogico: e cioè su un inizio (riferendoci alla nostra vita: la nostra nascita), uno sviluppo (la nostra crescita e il suo decorso verso la nostra età adulta), una conclusione (il nostro congedo), e per ultimo sul senso che questo insieme ci rivela. Per noi in primo luogo e per gli altri. Un ulteriore esempio questo mediante il quale ci è dato comprendere quanto grande sia la somiglianza tra la logica alla quale obbedisce la narrazione più elementare e la logica di ogni esistenza.Quanto detto, ricorrendo ad una facile metafora, ci permette di rivolgere nuovamente la nostra attenzione peculiare a quanto abbiano ricondotto alla struttura interna, alla sintassi, della narrazione. Essa è tale quando da luogo ad un testo, se ci consente di cogliere in esso un intreccio (un altro modo per indicare la nozione di struttura), nel quale siano ravvisabili, o sottesi, taluni significati che l’ emittente invia ad un destinatario noto o sconosciuto. Tanto nella coscienza di farlo, quanto nella sua inconsapevolezza. I racconti sono ora atti volontari, ora inconsci o mancati. Ogni significato è dotato, per convenzione, di una qualità semantica, dunque non semplicemente percettiva. Un racconto non si rico-
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nosce in relazione ad una qualsiasi fonte sensoriale, ci richiede attenzione, impegno, interesse, concentrazione: insomma, implica l’ esercizio di attività evolute di comprensione e risposta. Poiché sia chi lo trasmetta, sia chi lo riceva è indotto a fornire una sua personale valutazione di quella storia adottando un investimento cognitivo e nondimeno un giudizio critico e morale. Sia quella storia piacevole o ardua da intendere, ad ogni modo, è il cervello ad attivare le sue abilità per dar luogo a costrutti mentali, a immagini e rappresentazioni. Componenti indispensabili alla elaborazione dei significati. Possiamo percepire un suono, un odore, vedere qualcosa di interessante: ma questi stimoli, pur evocati dalla narrazione, non saranno sufficienti a renderla accettabile in quanto tale. La tesi che sosterremo, già avanzata, è che non si danno di conseguenza storie dotate di significati insindacabili, oggettivi, universali: ogni significato è soggetto a relatività, è esposto alle trasformazioni delle mentalità, alle variabili storico- culturali e linguistiche al gioco degli interessi, agli abusi di potere che imprimiamo ad esso quando lo comunichiamo. Ogni storia è fonte, da che mondo è mondo, di infiniti fraintendimenti, ma è senz’ altro questa sua flessibilità o apertura semantica, suscettibile delle spiegazioni più ineguali, a renderla un’ inesauribile sorgente di suggestioni. Le mitologie, di ogni latitudine, con i loro racconti millenari, mutanti ancor oggi, ne sono un esempio celebre, per non citare le narrazioni del passato ed attuali: ogni romanzo, libro, ogni autobiografia, ogni film continua a rivelarsi nel corso del tempo un oggetto palesemente "opaco", se non oscuro. E per fortuna, tale da richiedere non un solo commentatore ma più voci interpretative. Tutti i tentativi delle menti umane di trovare nelle storie, attribuite a uomini o a divinità, una chiave, un filo, una concatenazione che ci potesse permettere di scoprire in esse una qualche verità certa inconfutabile, sono destinati al fallimento. I significati, ravvisabili nel senso (morale, religioso, filosofico, politico) che ci è dato scoprire, leggere, individuare in una storia, in un’ esperienza, in un fatto qualsiasi, corrispondono tutt’ al più, ricorrendo ad altre metafore, ad altrettante mappe, coordinate, bussole. A strumenti e metodi per non essere sopraffatti dal caos, dalla Babele delle lingue e dei linguaggi. Ciò non vuol dire, dinanzi a tale ultima nota pessimistica, che la comprensione e la comunicazione siano del tutto impossibili: tra i popoli, tra individui di una stessa cerchia o
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comunità di appartenenza. Anzi. Con immense fatiche il dialogo, grazie anche alla telematica, grazie ad internet, continua e con risultati interessanti sul piano della “globalizzazione narrativa” cui possiamo accedere, contribuendo ad essa direttamente con le nostre storie. Quanto affermato, ci invita piuttosto a non dismettere di esercitare un controllo sulle narrazioni quando queste tendano a non limitarsi ad essere funzionali alla reciproca comprensione; quando abbiano, ancora, la pretesa di ergersi a verità inconfutabili. In ogni ambito sociale e campo della conoscenza. Qualora un racconto si facesse indiscutibile, pretendesse di imporsi e di diventare invasivo, e il riferimento vada anche ai nostri modi di comunicare e assorbire racconti, tradirebbe la sua natura. Il destino di ogni narrazione è la mutevolezza continua ed è tale da esigere che più orecchie, occhi, voci possano raccoglierla e rilanciarla più ricca di un valore aggiunto che soltanto la molteplicità delle opinioni potrà offrirle, tutto a vantaggio della partecipazione creativa di cui ha bisogno. Ognuno dovrebbe dare un contributo al cambiamento delle storie con le quali entra in contatto, non per lasciarsi condizionare da esse, ma per farle rinascere sempre nuove. 6. Grandi e piccole narrazioni Nella storia delle culture narrative, antiche e contemporanee, al di là degli obblighi di accettare l’ imposizione di una unica versione dei racconti, assiomatica e tale da non ammettere obiezioni, è stata messa in crisi con il tormentato affermarsi delle democrazie e degli stati di diritto, legittimamente eletti. Grazie a tali avanzamenti politici, il diffondersi della libertà di parola, di stampa, la narrazione ha coinciso con quel pluralismo interpretativo che, lungi dal confonderci, dovrebbe essere salutato sempre come un segno di libertà. Come è intuibile, la “questione narrativa” si carica perciò di implicazioni che oltrepassano gli aspetti meramente linguistico- letterari. Essa si dischiude a problemi inerenti la trasmissione di valori, principi, idealità, dogmi connessi al tema, sempre scottante e attuale, di quei poteri propensi, con ogni mezzo, a imporci un’ unica versione delle loro narrazioni. Eretta a verità unica e incontestabile. Lo studio di tali fenomeni, ci invita pertanto ad
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assumere un punto di vista volto all’ analisi dei fattori extra-narrativi che li informano, sorreggono, indirizzano. Nessun racconto si presenta estraneo a tali intrusioni; ogni storia narrata - anche la nostra, la più intima e privata - è intrisa di antefatti e finalità spesso non dichiarate e tali da renderla portatrice di concezioni personali della vita e messaggera di implicazioni simboliche. Quando, ad esempio, un racconto non sappia o non possa presentarsi esplicito, diretto ad uno scopo. Il fascino delle narrazioni è anche questo: esse ci raccontano molto di più di quanto siano in grado di comunicarci. Per tale ragione, le narrazioni vanno esplorate e indagate, lo ribadiamo, non soltanto da un punto di vista sintattico, per afferrarne il senso interno, accettandolo o meno. Ogni storia rinvia a un non detto: ha bisogno di essere arricchita e completata dalle opinioni del suo lettore o interlocutore. In quella struttura, che costituisce la sua dimensione razionale necessaria e sufficiente alla sua comprensibilità, andranno rintracciati gli aspetti di cui la stessa fonte narrativa potrebbe essere all’ oscuro. Al suo interno nella fiaba infantile, in una storia di vita, nel diario, nel romanzo d’ autore o di un principiante, nel film famoso o amatoriale - troveremo sempre metafore, indizi, suggestioni che conferiranno un valore aggiunto a tali opere modeste o celebri. 7. Sceneggiature pedagogiche in un paradigma Ogni volta, narriamo di noi per farci comprendere, per aggiungere suggestioni al nostro dire, per convincere, per raccontare e per spiegare quello che proviamo emotivamente. La narrazione assume, di conseguenza, un valore umanamente tridimensionale: ontologico (siamo inevitabilmente soggetti narranti, in senso attivo – raccontiamo con i mezzi semplici o raffinati di cui disponiamo - e passivo: ascoltiamo, vediamo, interpretiamo); gnoseologico(apprendiamo reciprocamente scambiandoci storie); estetico (conferiamo ai racconti, quali essi siano, una forma linguistica, iconica, drammaturgica, scenografica …, in grado di attrarre l’ interlocutore casuale o da noi convocato apposta, perché entri in contatto con essi). L’ educazione, questo il suo compito non sempre prevedibile, tuttavia sempre auspicabile, trasforma gli episodi, gli spazi, i mo-
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menti narrativi più disparati in opportunità pedagogiche quando coloro che li abbiano direttamente o di riflesso vissuti (a distanza, per via mediale, grazie alla loro lettura, ecc), non possano più dirsi simili a prima. L’ alleanza virtuosa e desiderabile, cui abbiamo accennato, tra la narrazione e l’ educazione si concretizza allorché, sul breve o lungo periodo, quelle storie con le quali si sia entrati in contatto o che siano state raccontate in prima persona, si rivelino causa o fattore imprevedibile di cambiamento. Per chi ne abbia inteso i messaggi, non superficialmente, sia a livello di innalzamento delle capacità di comprensione, sia a livello di modificazione dei comportamenti e delle condotte. Come aggiungeremo più oltre, i sintomi o le tracce educative saranno constatabili di conseguenza quando, su un piano epistemologico, l’ incontro con i contenuti e le modalità delle quali la fonte narrativa si sia avvalsa abbia determinato l’ instaurarsi di un paradigma pedagogico. Il quale si istituisce e dimostra tale soltanto quando un’ esperienza sia generativa agli effetti di cambiamenti osservabili e, ancor di più validabili, se tali da accendere nuove narrazioni in chi abbia avuto modo di esserne il destinatario previsto o accidentale. Le precedenti circostanze auspicabili possono verificarsi se, avvalendosi della narrazione come oggetto pedagogico, i responsabili di un programma educativo non si limiteranno a raccontare al meglio ai loro uditori, avvalendosi creativamente di artifici e suggestioni. Ma sapranno organizzare un contesto di vita in comune a vocazione educativa, in un vero e proprio ambiente narrativo che molto assomigli ad una scenografia in continuo allestimento, accettando improvvisazioni, imprevisti, monologhi e colpi di scena. Dove occorrerà badare ad essere oltre che abili suscitatori di eventi volti ad educare narrando,preparati e competenti nel far comprendere ai loro interlocutori che, tutti insieme, si sta vivendo e sceneggiando una vicenda narrativa. Dove ciascuno è chiamato a fare la propria parte, ad essere contemporaneamente attore e astante in una stessa storia reale che si va vivendo e interpretando durante il suo progressivo svolgimento. Anche nella prospettiva di immaginarla diversa, migliore, più dinamica rispetto ad obiettivi che sarà il sapere educativo ad indicare, in questo caso. Della quale tutti fanno parte. Sia rispetto ai contenuti trasmessi, che in relazione ai modi adottati - stimolanti, coinvolgenti, interattivi - mediante i quali gli episodi , le voci, gli stimoli narrativi di ogni genere
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vengono proposti. Per altro, a nessuno può sfuggire il fatto che si impara di più, e meglio, quando si riesca a suscitare una attenzione maggiore verso i messaggi introdotti dalle narrazioni avvalendosi di uno stile di comunicazione ispirato all’ uno o all’ altro metodo. Secondo talenti e criteri didattici non solo volti alla elaborazione in tal senso degli argomenti, ma in grado di realizzare climi e spazi di tal natura favorevoli all’ ascolto e alla riproposizione delle storie. La metafora teatrale, lavorare insieme enfatizzando gli aspetti drammaturgici del narrare- educare(come numerosi film e romanzi di contenuto educativo ci mostrano in modo esemplare), si rapporta del resto ad ogni incontro umano vissuto nella sua verità. A prescindere dai soggetti che includa, e non solo rispetto ai luoghi consueti dell’ educazione. Si presenta prima di tutto come un campo di forze di carattere narrativo. Ora in tensione verso intese, accordi, finalità comuni; ora conflittuale, dissenziente, vicendevolmente oppositivo. Per le interazioni verbali e non, emotive, simboliche che lo abitano; per quegli spazi e opportunità di parola che, man mano, si dilatano e diramano fino a dar vita a intrecci interpersonali elementari o, viceversa, sempre più strutturati; per i ruoli diversi che i narratori stabiliscono tra loro e che concorrono a trasformare questi territori di conversazione, partecipazione e condivisione, in altrettante storie. Ogni campo di forze narrativo è generatore di una nuova storia: con un suo inizio, un suo sviluppo, una sua durata, una conclusione e un suo senso. Della quale potrà restare memoria o, viceversa, potrà essere condannata alla indifferenza, alla dispersione e all’ oblio. Qualora non ci siano vigili testimoni, scrivani, ascoltatori, volgarizzatori intenzionati a salvarla e a riproporla con i linguaggi della scrittura, del cinema, del teatro, della ricerca biografica. Gli esempi, a tal proposito,certo non mancano: un’ aula scolastica, una strada, una corsia d’ ospedale, un appartamento, uno scompartimento ferroviario, una sala d’ aspetto o un colloquio clinico, ecc (per citare soltanto i contesti più consueti nei quali le persone si scambiano le loro storie) si rivelano opportunità potenzialmente educative. Poiché le persone singole o riunite, per incontrarsi o casualmente insieme, non possono fare a meno di organizzare, d’ istinto o programmaticamente, il loro tempo sociale per imparare le une dalle altre. L'esperienza narrativa di conseguenza costruisce il proprio paradigma grazie alla fecondità pedagogica di tali interazioni.
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III RACCONTARSI PER RACCONTARE
1. La coscienza autobiografica: una filosofia L’ attitudine a narrare, inoltre, non si limita a facilitare gli scambi verbali tra gli uomini appartenenti ad uno stesso ceppo linguistico o a differenti idiomi. Un altro importante valore educativo che gli atti narrativi, nelle loro differenti modalità, contribuiscono a stimolare e ad accrescere è ravvisabile nel ruolo da essi giocato agli effetti dei processi che ordinano le attività del pensiero autoriflessivo e interiore. Si narra, e si interloquisce anche con se stessi, senza confronti esterni. Siamo al contempo autori, attori e destinatari di racconti autoprodotti. Siamo dotati di mezzi autonomi auto narrativi potenti, inudibili dagli altri: questi sono capaci di aiutarci, in talune circostanze, a sentirci meno soli nelle situazioni di isolamento e solitudine. Ogni narratore, ognuno di noi, in quanto singolo individuo, è dotato di queste facoltà - culturalmente perfezionatesi nel corso dei millenni - che salvaguardano il diritto a tacere, a nascondere, a rivelare in libertà i nostri più intimi racconti. L’ educazione alla narrazione non dovrebbe privilegiarne, di conseguenza, soltanto la dimensione relazionale e sociale; essa è chiamata a rivolgere la propria attenzione pedagogica, di curarne lo sviluppo, a quelle esperienze in grado di facilitare ed accrescere l’ esercizio della narrazione introspettiva. A educare il pensiero interiore e la vita della mente che, per sua intrinseca configurazione evolutiva, ci ha consentito di denominare quegli accadimenti intellettivi cui abbiamo dato il nome di coscienza, consapevolezza, conoscenza interna (D. Demetrio, 1996). Imparare, per via spontanea o guidata, a raccontare storie e la propria (anche tra sé e sé, nel più totale silenzio e riservatezza) in forme efficaci e intelligibili, equivale ad accelerare il conseguimento di competenze e regole utili tanto alle esigenze richieste dalle attività di studio o
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destinate all’ apprezzamento pubblico, quanto alla propensione a intrecciare narrazioni con il nostro passato, il presente in atto, i progetti per il futuro. Poiché prima ancora di interloquire con gli altri, siamo in ogni momento della giornata, anche nel sonno, in perenne dialogo con noi stessi. 2. Ricordi d’ infanzia: genealogia di una storia educativa Non c’ è, inoltre, parola che non sia riconducibile tanto a taluni presupposti culturali ed etimologici, quanto alle individuali implicazioni autobiografiche di chi se ne avvalga. Come ogni termine ha la sua storia, la sua origine remota o recente, così ciascuno di noi l’ ha imparato trovandogli un posto nella propria storia di vita. Ognuno di noi potrebbe domandarsi come gli accadde di incontrarsi con termini di uso comune o meno frequenti, poi personalizzati a proprio uso e consumo. È questo un aspetto da non sottovalutare, da riproporre in sede educativa, al fine di ricostruire il profilo e l’ importanza che alcune parole, certo non tutte quelle di cui disponiamo, assumono nella nostra vita. La parola amore, può ad esempio essere definita concettualmente, possiamo attribuirle una definizione più o meno convincente: tuttavia andrà rapportata ai nostri, personalissimi, segreti, vissuti amorosi, alle storie cui ha dato origine l’ esperienza amorosa. Solo nostra, di nessun altro, seppur non priva di somiglianze con quanto altri avrebbero da raccontare in proposito. L’ analisi, o meglio, l’ autoanalisi autobiografica delle parole ci aiuta a vigilare sulla convinzione diffusa che sostantivi, predicati, aggettivi possano essere sempre caratterizzati da qualità oggettive, impermeabili rispetto alle interferenze riconducibili alla soggettività umana, alla ricchezza delle sue innumerevoli difformità. Tutte le parole che non rientrano nell’ ordine delle cose concrete (casa, mela, cavallo, bottiglia, auto …), quando implichino una certa dose di astrazione e definizioni articolate, tali da richiedere quel riesame cui si è accennato, comportano inevitabilmente qualche fraintendimento: talvolta superabile, talaltra o insanabile. Si tratta di vocaboli – provvisti di spessore teorico ragguardevole e di complessità interpretativa – eppure tra i più comuni e quotidiani. Imparammo a riconoscerli e poi ad impiegarli sentendoli adoperare dagli adulti di casa o a scuola con
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una certa frequenza fin dalla prima infanzia. Ci restarono subito impressi perché ci segnalavano il possesso allo stato nascente di due capacità indispensabili alla nostra crescita sociale: il saper mostraci educati, o viceversa maleducati, unitamente a una buona, o carente, abilità nell’ uso della lingua, in funzione del nostro essere riusciti a raccontare quanto andavamo scoprendo della vita: rispetto alle abilità via via più evolute di riferire e spiegare la natura di un fatto, uno stato d’ animo, un episodio vissuto in prima persona o accaduto ad altri e a noi riferito. Crescendo, tali parole, le comprendemmo e imparammo a usare sempre meglio in rapporto a modelli educativi e narrativi informati ai codici adulti di comportamento Ad imitare o da seguire senza discutere. Il primo termine, ben più del secondo, riassumeva ciò che ci veniva chiesto di imparare ad eseguire, ad esprimere, a comportarci. Quella parola alla quale ciascuno di noi attribuì un suo senso, di solito più subita che accettata con piacere, valeva a renderci più consapevoli di permessi e divieti. Andava interiorizzata al più presto ed equivaleva al rispetto di regole, di norme, di permessi o proibizioni. Con il secondo concetto ci imbattemmo anche in questo caso piuttosto presto. Lo apprendemmo però sottoforma di sinonimi quali: racconto, storia, fiaba, notizia. La parola che, tra le due, man mano ci accorgemmo quanto assai di più fosse esposta a frequenti malintesi riguardava senz’ altro l’ educazione. Poiché ci metteva in contatto con quanto ci veniva da un lato chiesto di fare, pensare, eseguire, rispettare …; dall’ altro, con l’ irresistibile tentazione di disubbidire, di fare di testa propria, di trasgredire. “ Sii educato, saluta, non toccare, rispondi, non si fa, …”, e via di seguito, furono le formule stereotipate che ci permisero di comprenderla meglio quella lunga parola (educazione): non tanto concettualmente, ma in base al rispetto di quelle intimazioni e dei comandi indiscutibili. Occorreva, insomma, imparare le “buone maniere”: spesso senza che gli adulti ne fossero sempre e coerentemente i primi modelli e d'essa gli interpreti coerenti. Per essere “bravi” (e cioè educati) occorreva accettare alcune condotte sostenute anche da premi, sotto la minaccia di qualche castigo. Il primo incontro con questa nozione fu questo, non v’è dubbio. I nostri ricordi in proposito, seppur ormai dimenticati, ma comunque assimilati in profondità tanto quanto i permissivismi e le tolleranze che ci erano concesse -
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nondimeno dotati di una loro potenza educatrice - resero la nostra educazione una questione oscillante tra conscio e inconscio. Non eravamo in grado di capire i motivi delle proibizioni, ma quei “no”, specie se giustificati e non semplicemente inflitti, ci aiutarono a crescere e nella vita adulta ogni volta li ritroviamo ancora, certamente diversi, dinanzi alle scadenze esistenziali: né più, né meno. L’ educazione non ci abbandona perché senza di essa non saremmo diventati ciò che siamo e, se non ce l’ hanno trasmessa nelle sue declinazioni citate, non possiamo aver fatto altro che cercarla a nostre spese. Con più fatica imparando ad adottare consuetudini necessarie alla convivenza civile, al rispetto delle leggi, dei doveri, alla ricerca dei vantaggi personali senza dover ledere i diritti degli altri. L’ educazione però è molto di più di quanto detto: è anche sollecitazione a pensare con la propria testa, alla creatività, alla libera scoperta solitaria e a proprie spese di quanto può renderci più capaci e migliori. Dove le regole, più che impartite, vengono apprese per tentativi ed errori, in un percorso accidentato che ci obbliga a ricominciare sempre da capo. A riconoscere, qualche volta col senno del poi, che era meglio rispettarle alcune norme: per evitarsi guai, sofferenze, sensi di colpa. L’ educazione si accende pertanto non soltanto in ragione del presente, torna a visitarci in rapporto al passato, alle occasioni perse, agli sbagli riconosciuti. Inoltre un’ educazione ricevuta o conquistata sperimentandosi nella vita vede completare il suo senso quando ci offre risorse per il futuro. 3. L'altra parola gemella Diversamente dalla precedente, la parola narrazione dovette senza dubbio apparirci meno ambigua e più divertente. Imparammo che noi narriamo quando riusciamo a raccontare una storia e a comunicarla ad altri e non soltanto con frasi fra loro sconnesse e approssimative: a parole, scrivendola, disegnandola, mimandola, ricorrendo alle immagini fisse o in movimento, ecc. Ancor oggi questa storia potrà essere reale, vissuta, comprovata, o inventata di sana pianta dalla nostre più o meno spiccate propensioni per il fantastico, ma dovrà essere contrassegnata da alcune caratteristiche elementari. In essa, sia che riguardi una vicenda personale, ac-
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caduta ad altri, letta o vista al cinema o in Tv, dovremo riconoscere alcuni elementi o componenti inevitabili. Senza i quali una storia, la più complicata come la più semplice, non si dà; rivelandosi altrimenti soltanto un messaggio isolato, un’ informazione, un avviso, un enunciato. Il quale potrà essere anche parte di una storia, potrà presupporla, ma che a livello di comunicazione assai poco ci dirà degli antefatti, degli argomenti, dei personaggi, degli inizi e delle conclusioni di cui ogni racconto che si rispetti è dotato. Una storia, questa la sua regola intrinseca, si dipana quindi lungo un asse temporale più o meno dichiarato; evoca luoghi, ambienti, protagonisti e comparse, intrighi e sempre, da tutto questo, possiamo trarne un senso, una morale, una o più conclusioni anche di carattere “regolativo”. Non solo veniamo a conoscenza degli argomenti del suo narrarci, ma anche impariamo come si presentino quelle strutture che connettono (vicende ai personaggi, protagonisti ad azioni, prove a conquiste, ecc) di cui non poco abbiamo trattato. Inoltre scopriamo che: - ci sono storie che ascoltiamo, leggiamo o vediamo che seguono andamenti molto lineari e prevedibili come le fiabe; - ci sono storie che non hanno né capo né coda e tocca allora a noi trovare il bandolo della vicenda; - ci sono altre storie che si rendono imcompresibili per l'oscurità di alcuni passaggi logici, che anticipano eventi, che sconvolgono ogni ordine temporale e spaziale e di tanti altri tipi ancora. Quali siano i racconti di tradizione orale, sedimentatisi nelle culture nel corso dei secoli e giunte fino a noi; quali, ancora, siano i generi letterati o cinematografici o pittorici scelti, in ogni caso, ogni narrazione ci vuol dire sempre qualcosa. Ci permette di scoprire che pensare, scrivere e parlare secondo il modello delle storie ci accomuna tutti. Trovarne o inventarne il senso da attribuire loro, come è facile intendere, conferisce ad ognuna di esse un’ ulteriore valenza educativa. Chi si imbatte, in un racconto e non in un singolo termine è sollecitato a interrogarlo, a ragionarci sopra, a reinventarlo o a trasporlo dal parlato in scrittura, da questo registro ad un altro: giovandosi di immagini in movimento, sceneggiature teatrali, coreografie.
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4. Sapere di esserci e di essere con Il tema della coscienza, che rinvia alla consapevolezza esistenziale del proprio agire e stare al mondo, rappresenta infatti e infine un vertice concettuale e operativo (nonché una sfida) che richiede nuove teorizzazioni anche educative. La nozione è elettiva, sostenibile, e accreditabile pedagogicamente a prescindere dalle sue diverse declinazioni ideali. Se ci consente esplorazioni, descrizioni, attribuzioni di senso, nonché rappresentazioni dei suoi risvolti operativi (come elevare la coscienza nostra e del prossimo, e quale, fra l’altro?) Purché, però, la si identifichi in quell’insieme di processi neuronali che si preferisce definire riflessivi (la coscienza di ciò di quanto si va dicendo, pensando, facendo) ed autoriflessivi (la coscienza di quanto io, soltanto io, vado pensando di me stesso e del mondo). Si accende un evento cognitivo ed educativo di carattere coscienziale o auto-coscienziale quindi se operiamo secondo singolari e distintivi procedimenti che ci consentono di capire come e perché abbiamo pensato-agito in un dato modo piuttosto che in un altro. Rispetto al nostro passato biografico, nel presente nella proiezione verso il futuro. Una teoria educativa della coscienza di essere e di esistere, nei tempi difficili e incerti che viviamo, rappresenta un vertice e un appuntamento pedagogico non differibile. La natura autobiografica di ogni atto di coscienza costituisce di conseguenza l’ ulteriore attenzione che ci viene chiesto di tributarle. È questo un argomento che si colloca al crocevia di posizioni anche divergenti fra loro relative ai fini e al senso ultimo dell’ educare. Il pensiero introspettivo è il focus della nostra coscienza autobiografica (di esistere, per noi stessi e per gli altri): se diventa un tratto caratteristico anche riconoscibile all’ esterno della nostra persona, delle nostre vocazioni, per uno speciale talento, per un destino, esso è in grado di trasformarci, di renderci donne e uomini dalla disposizione interiore. Conoscersi, ha affermato la filosofa e teologa francese Marie - Magdelaine Davy, “è poter contemplare la propria natura originaria”; le proprie radici, ciò che siamo diventati, quello che vorremmo diventare: ma tutto questo si dà quando l’ esistenza ha iniziato a incamminarsi verso la maturità. 1(M.M. 1
M.M. Davy, La connaissance de soi, Puf, Paris, 2004, p. 9
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Davy, 2004, p.9) E così continua: “Esteriorità e interiorità si presentano come modi distinti per conoscersi: nel primo caso ogni descrizione è adeguata , mentre nel secondo, quello dell’ interiorità, essa esige un’ esplorazione in se stessi quasi smisurata”2. (Ibidem,p. 14). Per molti, fu proprio questa seconda opzione a generare una domanda introspettiva precoce che non si limitò più ad una comune attività di carattere autoriflessivo. Per molti altri, iniziò a coincidere con la stessa scelta di fede, per testimoniarla non solo con le opere, ma con uno stile di vita improntato alla valorizzazione dell’ interiorità. Avevamo bisogno di mappe e non sapevamo ancora che la migliore si costruisce strada facendo, nel mentre andiamo edificando quello che ancora ben non sappiamo. Si diede così inizio, preceduto da qualche avvisaglia già infantile, ad un lavoro su di noi (espressione allora poco frequentata) che, in alcuni, ebbe l’ effetto di rafforzare un vacillante e incerto carattere (S.Natoli, 2006)3, reso tale tanto più da questa propensione. Che però ci rese poi, a conti fatti, donne e uomini più consapevoli e responsabili della nostra persona, dei diritti quanto dei doveri verso se stessi e gli altri. Più profondi, sensibili, meditativi in una parola. (D. Demetrio, 2009). 5. Educare alla narrazione interiore: percorsi Con la dizione educazione interiore, non intendiamo ricondurci al suo indubbio valore spirituale e religioso. O per lo meno non solo a questo. Non v’è dubbio che nelle più diverse tradizioni la meditazione, la preghiera, il raccoglimento in se stessi, la concentrazione - pratiche tutte che rinviano alla vita interiore- , rappresentino, oltre che ritualità devozionali pressoché universali, un modo di porsi in ascolto del mistero e del divino.(M.M. Davy, 2004) 4La conoscenza di sé, lo abbiamo detto, ha anche tali scopi. Ma è pur sempre attività di scoperta dentro di sé dei propri limiti, degli errori e delle colpe commesse, delle possibilità straordinarie 2 3 4
Ibidem, p.14 Si veda di S. Natoli, Guida alla formazione del carattere, Morcelliana, Brescia 2006 Ibidem, p. 12.
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di riscatto di cui ogni essere umano - soltanto in quanto tale, inteso nella propria immanenza - può rendersi protagonista. L’educazione interiore si prefigge di delineare pedagogicamente le sue suggestioni indipendentemente da queste scelte e consuetudini. Dal momento che i compiti di chi ne prende atto sono volti al potenziamento delle qualità umane “universali” o trans- culturali e interreligiose migliori: la consapevolezza, la solidarietà, la liberalità, la giustizia, la pace. Nessuno di questi valori, difatti, può prescinderne. Un’educazione interiore così concepita consisterà pertanto nell’accendere i processi introspettivi e rievocativi intrinseci alle predisposizioni della mente e del sentimento, affinché non si facciano sommergere, snaturare, prevaricare da quelli improntati ad esteriorità e esibizionismo, da superficialità ed egotismo. Offrendo simili occasioni “laiche” di iniziazione alla vita interiore, anche le scelte di fede più mature possono ricevere da esse un’importante stimolo. Non dobbiamo poi dimenticare che il sostantivo interiorità, l’aggettivo interiore, sono parole tra le più misteriose ed oscure. Mentre le pronunciamo, già ci sfugge il loro senso pieno. Sono come destinate ad essere imprecise; come tutti i termini che sono stati coniati apposta per rinviare a qualcosa di mai del tutto comprensibile. Entrambe rinviano a “qualcosa” di invisibile, quasi di indicibile, e, al contempo di molto vitale, reale, percepibile. Sono termini arcani poiché, riconducendoci alle loro etimologie sono sempre stati usati - nei diversi idiomi della terra - per tentare di designare e di raffigurarsi quanto di più remoto, oscuro ed enigmatico, al pensiero individuale e collettivo sia dato concepire. Dobbiamo ricorrere inevitabilmente all’ausilio dei simboli per farcene una ragione. Ogni simbolo va accettato nella sua ambiguità ed ogni volta va reinterpretato in rapporto al significato che gli attribuisce chi se ne serve per esprimere analogie, metafore, non verità empiricamente tattili e dimostrabili. Sappiamo che è simbolico ciò che ci mette in contatto (da sùnballein) con qualcosa d’altro. Il mostrarsi - in seguito ad un intervento educativo - più pensosi, più autocritici, più consapevoli dei propri errori, meno egoisticamente auto centrati, più disposti a starsene in solitudine senza soffrirne, ecc sono manifestazioni, dell’ uomo come del giovane, senz’ altro osservabili anche a livello comportamentale; sono gli effetti di un’educazione capace di mutarsi nel corso del tempo in autoeducazione, di ac-
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cendere consuetudini virtuose per il resto della vita. Insomma, anche l’interiorità ha i suoi linguaggi visibili e udibili, le sue posture: pur essi manifestandosi eminentemente nel segreto dell’ animo, attraverso accenni, indizi, tracce spesso oscuri a chi in prima persona ne faccia esperienza. Nessuno, per fortuna, riuscirà mai a dar un “voto” definitivo, certo, convincente alle nostre manifestazioni interiori. Sono l’ emblema della inafferrabilità di ognuno, della ineffabilità del nostro sentire, di ogni dizione interpretativa che cerchi di spiegarle arrogandosi il privilegio di riuscire a svelarne il senso e la natura. (D. Demetrio, 2000). Dopo quanto detto, e in funzione di una sintesi conclusiva, quali potranno essere i cammini entro i quali l’educazione possa venir coniugata nelle diverse accezioni della voce interiorità? Ne individueremo almeno quattro: - la via etica (come educazione a comportamenti ispirati a discrezione, segretezza, ritegno, rispetto di sé e degli altri, mitezza, docilità, modestia); - la via narrativa (come educazione ad avvalersi della parola e dei linguaggi in forme introspettive, tese a restituire all’autore soltanto locutore o scrivente- le immagini di sé, le storie che più avverte come proprie, i ricordi , le rievocazioni felici o dolorose); - la via mentale (come educazione a particolari stili del pensiero, quali la presa di coscienza, l’autoanalisi, la contemplazione); - la via emotiva (come educazione all’assunzione di atteggiamenti e sensibilità ispirate alle virtù del silenzio, della solitudine, del ritiro intellettuale). Ciascuna di queste vie, nei reciproci intrecci, può tradursi in altrettanti microprogetti di introduzione, ovvero di iniziazione, alla vita interiore; alla necessità di riadattarne le esigenze, nelle diverse età di un’esistenza individuale, al fine di ad acquisirne e consolidarne le sensibilità migliori. A seconda delle situazioni, delle esperienze, degli incontri che ci è dato vivere. Tuttavia, le quattro vie suggerite - indipendentemente dalla loro declinazione valoriale, civile o religiosa (dove sia la prima che la seconda, non possono certo esonerarsi dal rispettarsi a vicenda), si configurano come continuità esistenziali. Poiché se lungo il corso degli anni esse si precisano, cambiano in ragione dei contenuti intimi connessi con l’ affiorare di motivi inconsci, delle vicende esistenziali, della volontà di persistere o meno nel farle proprie, tuttavia, un
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“filo rosso”non riuscirà comunque a tradirne e a scalfirne il senso profondo, che persisterà oltre il trascorrere del tempo biografico. Purtroppo la scuola, che oggi sembra badare soprattutto a incoraggiare e a premiare la velocità di apprendimento, il profitto negli studi, il consenso, l’estroversione non parrebbe proprio l’ambito ideale in cui l’educazione interiore possa prosperare e svilupparsi. Ma non accade lo stesso in altri ambiti educativi: compresa la famiglia. L’ interiorità si afferma e si accresce se può contare su alleati come il silenzio, il piacere della solitudine, la gioia di trovare delle modalità espressive e comunicative le più adeguate, per esprimere le parti di noi che desideriamo coinvolgano e comprendano anche gli altri. Nell’avvertenza che la vita interiore non è sezionabile in unità didattiche e, tanto meno, va confusa con una qualsiasi, aggiuntiva “materia di studio”: essa va piuttosto avvicinata e ascoltata con discrezione, attenzione, rispetto. Affinché quello che di visibile e di condivisibile si desideri comunicare agli altri, possa delinearsi ed esplicitarsi nelle forme, pur precoci, della letteratura e della poesia personale, della propensione a filosofare, di cui bambini e bambine talvolta -se sollecitati -sono già grandi maestri. L’educazione interiore si prefigge quindi di aiutare i più piccoli o i più grandi ad applicare a sé esperimenti di natura introspettiva, che li pongano in grado di prepararsi ad essa. In una direzione evolutiva che mostri loro che si può organizzare la propria storia all’insegna dell’interiorità, come una seconda vita: le cui mete arrivino ad oltrepassare, gli obiettivi consueti, i più quotidiani e materiali, oltre alle prove continue alle quali l’ esistenza inevitabilmente ci espone, chiedendoci di mettere tra parentesi questo mondo altro. Inquietante perché sempre perturbante. Capace nondimeno di rendersi alleato e guida del primo. In quanto l’ educazione alla consapevolezza interiore di sé è bene durevole, in quanto tale da conquistare passo dopo passo. Ma esso è certamente il momento in cui la nostra maturità e un senso più alto di coscienza e avvicinata saggezza si paleserà. Saremo stati capaci di disseminare suggestioni alla vita interiore, se sapremo mettere figli e allievi nella condizione e nei climi emotivi idonei a poter praticare le insostituibili arti e tecniche della parola, soprattutto nella versione della scrittura. Il cui potere introspettivo non conosce rivali. Soprattutto quando si tratti di incontrarsi con saperi che riguardino l’imparare a porsi domande sul
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proprio fare, sentire, percepire, desiderare. Per tali ragioni, l’educazione interiore non può che dotarsi, come all’ inizio proposto, di una strategia a propensione autobiografica: in quanto è la vita già vissuta, o in divenire, il primo territorio incognito da esplorare, decifrare, smontare, ricostruire. Dove anche l’immaginarne un’ altra, diversa, migliore, possibile, equivarrà a raccogliere un ulteriore invito a rendere l’introspezione non soltanto un’ attività cognitiva, come le altre, ma qualcosa di molto, molto, più importante per la crescita o per il nostro tornare a crescere. 6. Memoria e scrittura: cinque declinazioni La memoria è una moneta a più facce. Non si accontenta di averne due, come Giano bifronte. Una rivolta al passato e l’ altra verso il cammino nuovo che intraprendiamo. Lasciandoci alle spalle la vecchia strada. Però è una moneta sovente fuori corso. Con la quale non possiamo comprare quel che spesso vorremmo: ad esempio, il lasciarci in pace senza più torturarci con i brutti ricordi. Impossibile è convincerla, in questi casi. Il suo valore è materiale - quando ce ne avvaliamo per fruire di beni utili a non essere penalizzati quanto incorporeo. La memoria ha le sue cicatrici quanto la nostra carne. Se la sua presenza ci abbandonasse, al di là di ogni aspetto utilitaristico, ci sentiremmo espropriati di noi stessi. Non potremmo poetare, pensare a cose non effimere, creare per il solo piacere di farlo, per diletto: senza tornaconti. Sappiamo e possiamo agire, pensare, amare, educare … soltanto se siamo in grado di ricordarci di noi; se sappiamo avvalerci di quanto l’ esperienza ci ha insegnato avendone fatto tesoro. Per ricominciare magari a sbagliare, ma almeno con un po’ di senso di colpa: da riparare o almeno tale da interrogarci. La vita ci chiede di non dimenticarci di essere esistiti ben prima dell’ attimo presente, che ci appare l’ unico tempo “vero”: il tempo dell’ istante, che con tranelli di ogni sorta vorrebbe convincerci che bello è vivere alla giornata: per noi stessi e per gli altri, per la sopravvivenza quotidiana e in balia del giorno per giorno. Tanto per le esigenze pratiche, quanto per esprimere i nostri sentimenti riconducibili alla memoria. La nostalgia, il rimpianto, il perdono, il risentimento, la voglia di giustizia. Queste doti e risorse naturali, più o meno educate dalla cultura cui appartenia-
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mo che ci sollecitano a non accontentarci del solo presente, con le quali nasciamo già predisposti a conservare consciamente, o più spesso nell’inconscio, il passato individuale o condiviso, possono dimostrarsi però ambigue. Anzi nocive, rispetto alla nostra dignità di donne e uomini. Se dunque ricordare, da un lato, ci è fisiologicamente e socialmente necessario, dall’ altro, una memoria personale o collettiva che non sia disposta a dimenticare - a patteggiare con ciò che va obliato o viceversa tenacemente tenuto in serbo - si espone alla propria fine. Ad essere annientata nelle sue possibilità di trasformazione, di tensione al futuro. Le malattie della memoria, ci spiegano le scienze della mente, non sono soltanto le amnesie. Anche le ipermnesie, che ci trovano impotenti a dimenticare, costituiscono un danno per la persona e per le stesse comunità. Poiché la mente umana, geneticamente, si volge al domani entrando in conflitto, al contempo, con l’ esigenza di difendere e perpetuare facoltà, condotte, abitudini sedimentatesi nel corso del nostro tempo soggettivo e del tempo di coloro che ci hanno preceduto. Del quale ci nutriamo molto di più di quanto non sia dato avvedercene. Questa disputa interna, e sociale, è ineluttabile. Ne abbiamo bisogno: per esorcizzare, ad esempio, il male subìto e - tuttavia - anche per ottemperare alla perpetuazione di quanto, con metafora felice, chiamiamo le nostre radici. Vogliamo limitare al massimo il malessere derivante da eventi che ci hanno danneggiato però, a lungo andare, in questo tentativo rischiamo di non sapere più chi siamo. Chi non soffre per il fatto che il trascorrere dei giorni ci porta verso la fine, non può dirsi umanamente “normale”. Per questo l’ importanza della memoria si accresce, si nobilita ed eleva quando, alla spontanea attività del ricordo, si affianchi quel valore aggiunto che chiamiamo coscienza. Capacità, questa, e nostra prerogativa, che ci consente oltre che di evocare, rimembrare, rammentare, di ragionare e riflettere sul senso che quel nostro passato continua ad avere per noi. Soltanto in tal modo il potere della memoria ci migliora, ci riscatta, ci restituisce ad una vita più virtuosa. E, in tal caso, proprio perché sappiamo che l’ oblio, la rimozione, l’ estromissione di quanto non vorremmo ricordare operano contro la nostra volontà, occorre, grazie all’ etica della consapevolezza, salvare taluni ricordi. Per trattenerli, protetti dalle pagine dei nostri diari, dei libri che non vedranno mai la stampa,
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ora come rassicuranti beni rifugio, ora per reinvestirli in moralità e carità sociale. Così come siamo chiamati civilmente a proteggere non solo i nostri ricordi: anche quelli degli altri ci chiedono gesti d’ aiuto. In quest’ opera di autodifesa e di cura, la scrittura - lo ribadiamo - ci offre una collaborazione impareggiabile: non solo in quanto forma di consolazione, come modalità di tutela delle storie degli innumerevoli senza storia e nome. Perché si muove in una aperta opposizione contro ogni tentativo di vedersi consegnata all’ oblio: sempre ammesso, e purtroppo non concesso , che si comprenda il valore politico della memoria, nei confronti di tutti coloro, individui o folle, che preferirebbero dimenticare. Scrivere la nostra autobiografia, scrivere di chi non vedremo più, scrivere di vicende che non abbiamo mai ascoltato a voce, ma che la scrittura sa rendere memorabili, simboliche, esemplari grazie alla trasfigurazione artistica, sono tutte declinazioni che ci permettono di venire a patti con il passato e di istituire un altro tempo: il tempo della letteratura, della poesia, del cinema, del teatro. Il quale è capace di durare ben più dell’ attimo, di far riaffiorare quanto era dato per perso e sepolto per sempre. E non c’è soltanto una letteratura colta ad adempiere ad un ufficio di volta in volta pietoso, doveroso, riparativo. C’è una vastissima letteratura mondiale dell’ io o del noi - ebbe a ribadire Roland Barthes (R. Barthes, 1982,p.35)5- ogniqualvolta la scrittura, nelle sue manifestazioni più elementari ed essenziali, lasci tracce capaci di risvegliare l’ attenzione di chi è venuto dopo e non poteva sapere. Si tratta di quella letteratura degli umili, sovente dimenticata che noi, se convinti che la memoria sia una moneta dai molti volti, abbiamo invece il compito di raccogliere, di proteggere e promuovere. Scrisse Michel Foucault, negli ultimi anni della sua vita, che la scrittura ha saputo prestare “termini, costruzioni, frasi e rituali di linguaggio a una massa anonima di persone perché potessero parlare di se stesse”(M. Foucault,2009,p. 61)6. Grazie al racconto scritto, e cioè alla letteratura di chi, con le arti della poesia, del romanzo, della biografia, salvò e ancora a ciò si dedica, i racconti, 5 6
R. Barthes, Il grado zero della scrittura(1953). Tr.it. Torino, Einaudi, 1982, p. 35 M. Foucault, La vita degli uomini infami.(1994). Tr.it. Bologna, il Mulino, 2009, p. 61
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i volti, le vicissitudini di tutti coloro che non sapevano né leggere, né scrivere e di coloro per i quali il potersi esprimere in un diario, in una lettera, in un appunto era tassativamente vietato dalle circostanze dell’ esilio, della detenzione, della esclusione. Ecco allora che lo scrivere - il gràphein , emblematicamente traducibile con incidere, graffiare, resistere al tempo- conferisce ai ricordi un valore aggiunto inestimabile. Il termine greco evoca il gemellaggio con le possibilità affini alla scrittura in senso stretto: quando anche attraverso le immagini (la pitto-grafia, la fotografia…) perpetuiamo quelle storie e operiamo affinché non venga meno l’ onere di lavorare ad una civiltà, oltre che del ricordo, del riscatto, la cui vocazione è il futuro in un’ alleanza perenne, pur sempre critica e mai nostalgica, con il passato. Ci accorgiamo che la perdita, avvenuta o imminente; che il dolore provato o cui abbiamo assistito; che le tentazioni a dimenticare sono tutti motivi esistenziali che la scrittura ci aiuta a rielaborare, grazie alle potenzialità della rappresentazione, quali ne siano le tecniche. E non è necessario essere scrittori o poeti o fotografi professionisti per opporsi alle lusinghe dell’ oblio. Per testimoniare quanto è nostro compito fare “in nome” di chi non poté raccontare, gridare, scrivere. In conclusione, almeno cinque possono essere considerate le prospettive cui ricondursi, da attuare, inventando quel connubio con insistenza perseguito tra educazione e narrazione. Educare a scrivere le proprie memorie Questa prima possibilità pedagogica si adempie quando lo scrivere, messe da parte le sue forme più autorevoli, i suoi registri stilistici più raffinati, ma spesso distanti dalla personale esperienza, sappia diventare una modalità per raccontarsi in prima persona. Direttamente, senza mediazioni, quasi seguendo l’istinto a fermare quanto il tempo cancella, quando l’ascolto altrui si faccia più debole o distratto. Tale mezzo di autodifesa appartiene alla tradizione propria della scrittura autobiografica o di sé. È questa innanzitutto un’arte umile, fedele e semplice. Quando ce ne avvaliamo,in quei preziosi e solitari istanti di raccoglimento meditativo,impariamo e pratichiamo, non una, ma più virtù. Esercitiamo ad esempio l’umiltà di riconoscere che scriviamo senza pretese; ci mostriamo
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coerenti con un copione da correggere in continuazione (la nostra vita); non badiamo sempre alla forma, ma all’essenzialità e al senso che assume per noi quel che raccontiamo. In una autentica libertà del pensiero e del sentire. Educare a prendersi cura di se stessi Educare a tenere un diario- anche saltuariamente- su fogli sparsi o rilegati, trasformando la propria oralità silente in un appunto visibile, è purtroppo una possibilità che non coltiviamo mai abbastanza; è una risorsa che aspetta, tacita, di svelarci quanto non sappiamo ancora di quella nostra memoria che attende la penna per dischiudersi. Solo le dita riescono ad aggiungere al passato ritrovato altra materia per comprenderne i segni. Scrivere di sé è sempre un ricordare, pur senza ricordi precisi. La scrittura di cui ci serviamo proviene da qualcosa che abbiamo imparato a fare, a imitare, a invidiare in altri più grandi di noi, già alfabeti, nel tempo memorabile dell’infanzia. La penna cuce ferite senza rimarginarle del tutto, consentendoci di vederle in faccia con il coraggio di ricominciare senza volerle cancellare. Così facendo ci sentiamo a casa (ospiti accetti di noi stessi) e, in poche righe, ne usciamo. Per scrutare ciò che il mondo esterno, attorno a noi, più veloce del la nostra penna, può ispirarci. La scrittura rinchiude e schiude, in un movimento continuo troppe volte non riconosciuto. Anzi, respinto o negato: forse per paura di lasciare tracce, indizi troppo intimi in grado di svelare altre immagini di noi; forse per scarsa fiducia nel valore della memoria. Se questa scrittura, come ogni scrittura personale, è già memoria e non ne facciamo uso , è nei confronti della memoria in quanto tale che ci mostriamo scettici e ostili. Pertanto meno umani, più disposti al disumano. È, questa, un’attività certo impegnativa, che esprime un attaccamento alla vita, una caparbia voglia di non dimenticarsi di esistere pur nei momenti peggiori. Essa scaturisce dal desiderio di avere a disposizione un confidente personale, tenace contro il nostro un poco quotidiano morire.
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Educare a pensare e a riflettere Scrivere di noi e di chi è stato od è intorno a noi ,ci trasforma e ci riconsegna al giorno nuovo, senz’altro meno assopiti, nel mentre ne facciamo diretta esperienza, specie se prolungata, regolare e accanita. Non è la scrittura di sé soltanto un genere letterario senza ambizioni: pian piano, può divenire uno stile di vita, un’abitudine che può mancarci se più del dovuto si assenta da noi. Diventa, a lungo andare, oltre ad un modo di essere, una condotta filosofica, persino una sapiente disciplina intellettuale o un gesto laicamente sacro. Ci è compagna nel nostro bisogno di segreti e invisibilità, ci sollecita a connettere immagini ad istanti che credevamo già ingoiati dall’oblio; ci impedisce di affogare quando ci stiamo perdendo nella troppa folla e persino nella eccessiva nostra solitudine. Educare a rafforzare il proprio io Le scritture di sé (su di sé e per sé, aggiungiamo) sono ormai fonte di un interesse pedagogico in crescendo; in primo luogo, perché ci presentano, nelle loro possibili sequenze e collocazioni temporali, che cosa lo scrittore o la scrittrice non professionisti ritengono di aver imparato vivendo. Tali racconti ci restituiscono poi, tacitamente, come e in ragione di quali mete, valori, propensioni, accidenti, gente comune o illustri autobiografi hanno affrontato e superato gli appuntamenti della vita. Finalmente, tali testi sono al centro di attenzioni educative plurime, e, per il pedagogista, l’insegnante, l’ educatore, non costituiscono soltanto un’occasione di studio. Il rendersi promotori, sollecitatori, formatori di scritture autobiografiche nel mondo infantile, adolescenziale, adulto- nella scuola e in ogni dove - significa sviluppare pensiero, intelligenze,occasioni di riflessione sulle proprie storie. Quali siano i testi prodotti, quali gli esiti realistici comprovabili da testimoni o viceversa allucinatori, frutto di finzioni e visionarietà, questi rappresentano un’occasione di conversazione, dialogo, invito a scrivere di più e sempre più dettagliatamente di se stessi e di tutto ciò che si ritiene di aver provato al passato e di provare al presente, rivivendo quelle emozioni. Nella finalità di suscitare una sempre maggiore presa di coscienza del proprio essere al mondo,
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di averlo abitato e di quanto di esso si va scrivendo in funzione ogni volta e giocoforza del futuro. Poiché la scrittura della propria storia trascorsa o in divenire, anche soltanto per frammenti, genera disciplina mentale e del carattere. Ci permette di assegnare ai fatti e alle emozioni un senso, collocandoli all’interno di modelli e mappe: indispensabili alla interpretazione e alla spiegazione di sé. Ritrovando la curiosità e il piacere di conoscere quanto una miriade di donne e uomini autobiografi hanno scritto nei secoli. 7. Educare a superare il proprio egocentrismo
Rispetto alle storie vissute in prima persona, la memoria è la materia-contenuto di carattere individuale o collettivo che le fa riaffiorare in modo unico e singolare soltanto grazie alle trasfigurazioni operate dalla penna. La scrittura di sé nasce quindi come ricerca individuale e si imbatte in domande di senso più generali. Quando sappia liberarsi di ogni sua possibile malattia edonistica ed auto-celebrativa può dunque divenire espressione di un’etica sociale. Di una volontà di condividere, di confrontare la propria con le altrui storie. La scrittura autobiografica, riconquistata la via della reciproca solidarietà, contribuisce ad accrescere l’impegno di chi in essa, analizzando se stesso, va scoprendo che la propria vicenda umana assomiglia a quella degli altri molto di più di ogni affrettata impressione possa concedergli o offrirle. Ritrovare i motivi di uguaglianza, le stesse tensioni esistenziali, nelle scritture - piuttosto che nelle talvolta troppo assordanti parole -, è un ulteriore invito a praticare questa pedagogia degli orizzonti aperti che travalicano la memoria stessa. Bibliografia Piero Bertolini, L’ esistere pedagogico, La Nuova Italia, Firenze 1988. P.Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’ Europa, Bollati Boringhieri, Torino 2009. T. Pievani, La vita inaspettata, Raffaello Cortina, Milano 2012 P.Ricoeur, Tempo e racconto, vol 2. La configurazione nel racconto di finzione (1984),tr.it. Jaca Book, Milano 1994.
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Parte seconda di Elisabetta Biffi
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I NARRAZIONE E SAPERE PEDAGOGICO
Il legame che unisce il sapere pedagogico e la narrazione è forte e s’intravede da lontano. Sta nella pratica dell’insegnare e dell’educare, che prima di qualsiasi strumento o metodologia si situano nell’incontro, nella relazione e nel dialogo. La dimensione dialogica è, infatti, presente in qualsiasi esperienza educativa, anche laddove non vi sia per assurdo un altro con il quale si concretizza la relazione, anche quando quell’altro è piuttosto alterità, portata dall’esterno, dall’incontro con il mondo, o dall’interno, dall’incontro con le parti meno note di sé. Laddove v’è educazione, v’è esperienza d’incontro e di scambio, vi sono due narrazioni che s’intrecciano e che danno origine a una nuova storia. Abbiamo avuto modo, nella prima parte di questo volume, di riflettere sulle filosofie che sostengono il rapporto narrazioneeducazione. Quanto vorremmo fare, ora, è addentrarci nelle pieghe di questa relazione, che prende le mosse dal riconoscere nella narrazione un atto di costruzione del pensiero e non soltanto della sua esplicitazione: la narrazione è qualcosa che ha a che fare con avvenimenti che vengono raccontati, ma è anche la forma attraverso la quale il nostro pensiero organizza e rende condivisibile ciò che accade al suo interno, le interpretazioni soggettive di quegli avvenimenti. Per certi versi, l’abilità narrativa è quella caratteristica che si radica nel nostro essere sociali, lo strumento primario di quella stessa comunicazione e tradizione (intesa come un tramandare) chiave di volta del nostro imprintig sociale. La natura dell’essere umano, il suo bisogno di socialità, ha spinto sin dalle origini il nostro genere a sperimentarsi in modalità possibili di condivisione del pensiero, dai suoni ai gesti, col compito di rendere comuni (comunicare) quelle regole e procedure che consentissero la collaborazione fra individui e la perpetuazione della specie.
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È dunque naturale, per l’uomo, vivere in un contesto comunitario, da che ne deriva l’esigenza di formare i propri cuccioli alla sopravvivenza sociale. Vivere in comunità richiede, infatti, una specifica preparazione, impartita dai più grandi verso i più piccoli: richiede educazione. Quale il ruolo della narrazione è presto detto: i primi dettami sul come ci si comporta nel mondo li abbiamo avuti dalle fiabe, i racconti dell’infanzia per antonomasia, frutto della tradizione orale, creati, a dire il vero, da adulti per formare altri adulti su quei temi che difficilmente possono essere detti apertamente, e poi sottratti loro dai più piccoli proprio perché allusivi di un mondo adulto intrigante quanto spaventoso. Le fiabe ci hanno insegnato a diffidare del bosco oscuro, ci hanno mostrato i pericoli di chi usciva dal sentiero tracciato, ci hanno descritto quanto avventuroso possa essere il percorso di allontanamento da casa e così via. Ci hanno parlato per la prima volta di morte, di sesso, di vizi e di virtù, e l’hanno fatto come nessun altro adulto avrebbe potuto fare. Il racconto fantastico si è, così, assunto il compito di nominare l’innominabile, tramandando quegli insegnamenti che diversamente non si sarebbero potuti affrontare. Il potere della narrazione sta proprio in questo: nella capacità di raccontare quell’alterità di cui si è detto che in primo luogo ci appartiene, come per mettere l’umanità in guardia da se stessa, e di suggerirle possibili vie di salvezza. Attraverso i racconti orali, le culture si sono tramandate nei secoli, hanno costituito comunità, si sono pensate come unità (Poggio, 2004). Il pensiero narrativo (Smorti, 1994), dunque, s’incrocia con la modalità collettiva di gestire le narrazioni che significano l’agire quotidiano. In sintesi, sembra che la nostra riflessione riveli come la narrazione si posizioni in quel continuum che Paolo Jedlowski traccia fra la “fabulazione”, per una narrazione che “tende alla sostituzione o all’arricchimento della realtà effettuale con la fantasia”, e la “testimonianza”, come tensione verso un resoconto il più possibile fedele alla realtà (Jedlowski, 2000, p. 39). E in effetti, nel seguito del presente capitolo ci troveremo spesso a confrontarci con fragili equilibrismi fra invenzione e realtà, fra creazione e testimonianza, fra storia e racconto. Due sono, in sintesi, i livelli su cui si dipana la complessa relazione fra narrazione e pedagogica. Da un lato v’è la specificità del
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processo educativo, che richiede un approccio narrativo per essere pensato (il sapere pedagogico è un sapere che si narra); dall’altro lato, per educare (e per insegnare) si ha bisogno della narrazione quale canale di comunicazione e condivisione e – vedremo – pensiero stesso (si narra per educare e per insegnare). Proviamo a soffermarci su ciascun piano. 1. Narrare l’educazione Come si è visto precedentemente, la riflessione filosofica si è sempre occupata, anche se non sempre esplicitamente, di educazione, delle modalità tramite le quali formare, plasmare le menti e i corpi, disciplinare e sostenere gli individui e le comunità. D’altro canto, l’educazione è dimensione costitutiva della vita di ciascuno, poiché è quanto porta il singolo a crescere, a proseguire nel proprio cammino. L’educazione non è mai finita, per usare l’espressione di Demetrio (Demetrio, 2009). Essa è scienza pratica, che si rivela agendola, che si fa nel corso del tempo e che si costruisce man mano che si va costruendo l’esistenza del soggetto. È in questi termini che si narra di educazione, che i suoi studiosi prevalentemente raccontano questo sapere. Della pratica educativa si dà testimonianza: i più grandi pedagogisti hanno sempre delegato alla testimonianza, al racconto dell’episodio, alla scrittura biografica e autobiografica il compito di sostenere la teoria. Anzi, è dall’esperienza che, ci ammonì JohnDewey, si dovrebbe andar definendo il sapere sull’educazione (Dewey, 2004). Parlare di educazione senza raccontarla è, così, un paradosso non sostenibile. Si pensi all’Emilio di Jean Jacques Rousseau, considerato da molti uno dei primi trattati pedagogici: per teorizzare il modello educativo che riteneva auspicabile, l’autore ha utilizzato l’espediente – narrativo – di raccontare un percorso che avesse il giovane Emilio per protagonista. In questo senso, il sapere pedagogico è un sapere narrativo, che necessita di essere incarnato, di essere raccontato per rendersi visibile, pena la sua diffusione confusa nel sapere filosofico. La pedagogia è a lungo stata pensata come ricaduta pratica della filosofia, più vasta riflessione teoretica che la conteneva e la significava. Il cammino che ha portato la pedagogia a emanciparsi dalla sua
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origine filosofica è stato lungo e forse ancora non si è concluso. Si è, però, ormai fatta sempre più forte la tendenza a riconoscere l’educazione come fenomeno complesso che richiede un ventaglio di saperi differenti per poter essere indagato in profondità: quelle scienze dell’educazione le quali, a loro volta, si richiamano al novero delle scienze umane, scienze dell’uomo. Sono state quest’ultime a portare alla ribalta la necessità di pensare diversamente la scienza stessa, di far entrare la narrazione come modalità di costruzione del sapere. Una svolta narrativa (Bruner, 1992) nel pensiero scientifico che ha palesato l’importanza della narrazione e delle storie per studiare, descrivere, raccontare l’umano. In chiusura, un ammonimento: dobbiamo fare i conti con lo scarto incolmabile fra la vita e il racconto, a ricordarci che l’educazione sarà sempre, in parte, altrove rispetto alla nostra narrazione. Sarà in ciò che avviene al di là di quanto possiamo raccontare, rendendo così complicato il processo – necessario e legittimo – di valutazione del nostro intervento, ma anche la stessa definizione di ciò che è l’educazione.Una complessità che ciascun educatore ha avvertito, almeno una volta nella sua vita, quando gli vien chiesto di raccontare il proprio lavoro: “Ma tu, concretamente, cosa fai?” è una domanda assai più complicata di quanto si possa supporre. 2. Narrare per educare: oralità, lettura, scrittura Se proviamo a ripercorrere con la mente gli episodi della nostra infanzia e giovinezza, alla ricerca dei momenti o delle situazioni in cui qualcuno ci ha insegnato e in cui qualcuno (o qualcosa) ci ha educato, ritroveremo prevalentemente – ma non solo – parole, racconti, gesti: le lezioni del nostro maestro, i racconti di un buon libro, l’esempio dei genitori. Oralità, scrittura e gesto sono, così, canali espressivi che si vedono intrecciati nelle narrazioni dell’educare. Che, infatti, l’insegnamento sia in gran parte parlato e che l’esperienza educativa sia in gran parte esperita è qualcosa di facilmente comprensibile, basta ripensare alle nostre esperienze di alunni e educandi. Ma vi sono parole che segnano il nostro percorso di crescita, come Natalia Ginzburg ci ricorda nel suo Lessico Famigliare, e ci sono gesti che insegnano, come accade nella bot-
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tega dell’artigiano, ove i gesti dell’esperienza si tramandano da chi sa a chi sta apprendendo. Similmente, la scrittura è sempre costretta nella sua taratura di ufficialità e di istituzionalità. Se pensiamo alla scuola, ci rendiamo conto di come lo scritto sia principalmente legato alla valutazione, alla fase conclusiva del processo di apprendimento: si scrive per dimostrare ciò che si è appreso, si scrive per documentare il percorso. Meno, sempre meno, si scrive per fare: per imparare, per pensare, per costruire. Ciò toglie, e molto, alle potenzialità riflessive che la scrittura porta con sé e che sono ben visibili negli usi spontanei degli studenti, nella scrittura degli appunti e così via. Parimenti, anche la lettura – che pertiene al testo scritto, senza voler qui proporre alcuna priorità fra le due pratiche – spesso è vista come successiva al processo di condivisione e costruzione del sapere. La lettura è principalmente percepita come pratica individuale, solitaria, affidata al singolo. Al fianco della dimensione pubblica dello scritto – che mette nero su bianco, che sottrae al fluire del tempo, che porta all’esterno ciò che si ha nel proprio pensiero – la lettura viene vista come pratica che riconduce al silenzio, al privato. Eppure, accade sovente che la lettura divenga occasione d’incontro e di confronto: quando è condivisa. Rarissime sono, però, le occasioni di lettura in gruppo, sempre più sporadiche man mano che si sale nel percorso scolastico: le ritroviamo fra i bambini delle scuole dell’infanzia – e prima ancora –, le perdiamo decisamente di vista salendo verso i successivi gradi d’istruzione. Ma la lettura ad alta voce, in gruppo, rende il testo il testimone di una integrazione possibile fra oralità e scrittura, fra parola e gesto. Leggere rende vivo il testo, lo riconduce allo scritto, richiama il pensiero al gesto (Illich, 1994). Molteplici sono, allora, le possibilità di restituire lo scritto al suo valore educativo, il gesto all’insegnamento e la parola all’educazione, e sono queste traiettorie che legittimano il pensiero di una narrazione quale risorsa educativa, da esplorare e conquistare.
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II. EDUCARE LE STORIE, EDUCARE FRA LE STORIE
Occuparsi di narrazioni significa occuparsi di storie. Una storia, di per sé, è una narrazione che ha per oggetto avvenimenti, che siano inerenti l’intero genere umano (come accade con la Storia), o la vita del singolo individuo (come accade con le storie di vita), cui si tenta di dare ordine.Riprendiamo l’argomentazione proposta da Paolo Jedlowski, sulla base delle riflessioni di G. Genette, secondo la quale la storia è “l’oggetto di cui si racconta”, il racconto è “il discorso attraverso cui la storia viene evocata” e la narrazione è “l’atto con cui, in una determinata situazione, qualcuno racconta qualcosa a un altro” (Jedlowski, 2000, p. 13). Ne deriva che “l’opera del narratore consiste nel disporre gli eventi di cui intende narrare in un discorso che non corrisponde alla mera presentazione degli avvenimenti, ma la dispone con un certo stile e ne organizza l’esposizione in modo assai più complesso della loro semplice successione cronologica” (Ibidem). Da un differente punto di vista, potremmo dire che una vita si fa storia quando diviene narrazione, ossia quando la si racconta a qualcuno. Fino a quel momento, nel fluire degli eventi, la vita è un racconto in potenza, anzi è un intreccio di storie possibili che restano lì, intricate e inaccessibili1. La narrazione risponde al bisogno di dare ordine al caos, affinché quello stesso caos possa essere condiviso con gli altri, ma anche compreso per sé stessi, ed è quella forza propulsiva a sostenere il bisogno di raccontarsi, di scrivere di sé, che porta alla nascita delle produzioni autobiografiche (Demetrio, 1997). Il concetto di storia, poi, rimanda a due punti di attenzione utili alla nostra riflessione: il primo ha a che fare con la storicità, quella dimensione temporale che chiama al passato, al presente e al futu1
Si è diffusamente trattato di questi temi in Biffi (2010a).
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ro. Anche l’intervento educativo è pensabile come una storia: parte dal passato – la vita dell’educando prima dell’incontro – si radica nel presente – attraverso l’incontro con la situazione educativa – e si dirige verso il futuro – verso il momento in cui il soggetto uscirà dalla relazione educativa –. Il futuro, infatti, si potrebbe dire essere una dimensione costitutiva dell’intervento educativo, che richiama al progetto, all’uscire dalla gettatezza del dato (Iori, 2000). Il secondo punto di attenzione rimanda, invece, alla storia come intreccio, che vede un incipit, uno svolgimento – una trama – ed una sua conclusione. E anche in questo senso, l’idea di storia ci aiuta a ripensare l’intervento educativo: che si struttura laddove v’è l’incontro – l’inizio – ma, anche, laddove v’è la progettualità, l’intenzionalità educativa che tramuta una situazione che accade in una situazione pensata, voluta e cercata per essere esperienza educativa – lo svolgimento –. Ciò su cui si disegna e progetta l’azione educativa è proprio la storia del ragazzo: il percorso educativo è una narrazione, dialogica, in cui s’inserisce lo sguardo dell’educatore per costruire una nuova storia. L’incontro è, infatti, incipit di un racconto che vede come protagonisti educatore e educando, in cui l’educatore si muove nella speranza di mostrare all’altro trame ancora non esplorate, un finale ancora da scrivere. In questi termini, è proprio nell’amplificazione delle possibilità che s’intravede una dimensione specifica dell’educare (Biffi, 2006). L’intervento educativo è, dunque, rete di molte storie: quella dell’educando, quella dell’intervento stesso ma anche la storia dell’educatore. Il lavoro educativo è un lavoro inevitabilmente non neutro e non neutrale: per quanto la professionalità si giochi nell’equilibrio sottile fra personale e professionale, la misura dell’intervento non è data dalla distanza fra educatore e educando, quanto dalla capacità dell’educatore di utilizzare quel territorio di mezzo fra sé e l’altro, e fra il proprio ruolo e il ruolo dell’altro, per creare una relazione in cui ciascuno dei due riesca a riconoscersi senza confondersi. Non troppo vicini, allora, ma nemmeno troppo lontani, una danza (Biffi, 2010a) che fa della relazione stessa l’oggetto dell’intervento. In tal senso, la storia dell’educatore viene toccata dall’incontro con la storia dell’altro, e ciò può riportare a galla ricordi e fantasmi della sua storia. L’infanzia altrui, l’adolescenza altrui ci rimandano a quell’essere piccoli di cui diremo a breve, a quella alterità che, con il divenire adulti, vorremmo aver
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definitivamente superato. L’altro si tramuta in uno specchio che riflette anche le rappresentazioni del nostro passato e, al tempo stesso, ci ricorda che siamo cresciuti, che siamo diventati adulti e che v’è un potere in questo. Il potere dell’educatore è anche quello di poter raccontare: si è detto prima che la vita resta invisibile se non narrata. Per meglio comprenderlo, pensiamo alle condizioni di vita di coloro i quali vivono ai margini, del mondo così come delle città, a coloro i quali sono protagonisti e autori di storie difficili, complesse, storie scomode. Per loro il silenzio equivale all’invisibilità, e l’invisibilità all’inesistenza, intesa come esistenza negata. Chi lavora con la grave marginalità sa quanto potere esista nella possibilità di dare voce a queste storie, di renderle nuovamente presenti al mondo, di renderle ancora vivibili (Oggionni, 2010). Ecco, il lavoro educativo porta con sé anche la responsabilità di raccontare le vite di coloro i quali non possono farlo e, soprattutto, di aiutar loro a raccontarsi nuovamente: prendere parola, narrare la propria storia come gesto di emancipazione e di rinascita al mondo. Infine, l’intervento educativo non accade mai nel vuoto: v’è una rete che lo legittima e lo sostiene, la rete istituzionale dei servizi cui gli educatori fanno capo. È proprio nella rete dei servizi che le storie dei singoli rischiano di perdersi, di smarrirsi nell’intreccio delle cartelle, fra le scritture burocratiche che raccolgono frammenti di quelle storie, che parlano dei soggetti in linguaggi diversi, a volte fra loro intraducibili. Si pensi, solo per proporre un esempio noto ai professionisti dell’educazione, al lavoro con la disabilità: vi sono i progetti educativi, le diagnosi mediche, le carte amministrative per i contributi economici, le relazioni sociali e così via. Scritture diverse che, in realtà, non raccontano la storia di quella persona, smarrita fra le etichette e i titoli necessari alla sua categorizzazione. Compito dell’educativo, in tutto questo, è forse anche quello di restituire al singolo la sua storia, di raccontarla e di aiutarlo a raccontarsi non tanto al di là di quei frammenti, ma proprio a partire da quelli, dagli sguardi inevitabilmente – e comprensibilmente – parziali. Ricucire i nodi della storia, restituire quest’ultima al suo autore e protagonista: è proprio in questa complessità a farsi sempre più chiaro come l’intervento educativo sia un intervento sulla storia, una storia in corso che va dipanandosi fra personaggi e sfondi differenti e di cui il mandato educativo prioritario è legato
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al presidio del senso, per far in modo che il soggetto non si senta solo nell’intreccio, ma possa avvertirsi come il protagonista della sua storia. I servizi educati segnano, infine, l’inizio della storia fra i cittadini e le istituzioni. Spesso sono proprio i servizi educativi (insieme a quelli sanitari) ad essere la prima occasione di confronto concreto con il modello culturale che le nostre istituzioni. In questi termini, allargando ancora di più la nostra riflessione, potremmo pensare che non v’è solo la storia del soggetto con il singolo servizio, ma anche la storia della relazione fra soggetti e istituzioni in genere. Anche questa è una storia che necessita di cura: a tutti è capitato di vivere quel senso di estraneità nell’incontro con la vita istituzionale. La storia della relazione fra soggetti e servizi è, così, una storia di educazione alla cittadinanza. Ritroviamo qui quanto si faceva cenno in precedenza in merito alla rete: nell’intreccio, l’aspetto educativo è la capacità di pensarsi e sentirsi dentro ad una storia, per non vivere le molteplici appartenenze come dissociate e distanti fra loro, avendo piuttosto la possibilità di percepire la propria unità e unicità dentro alla pluralità delle appartenenze. Si intravede, così, il senso di un educare a narrarsi: a pensarsi come storia, a saper leggere l’accadere quotidiano all’interno di quella storia. Quanto andremo, ora, ad affrontare insieme è la specificità di questi aspetti per il lavoro educativo con i minori, attraversando quelle delicate fasi della vita che sono l’infanzia e l’adolescenza, verso una giovinezza che sconfina in adultità. 1. Storie in crescita L’infanzia e l’adolescenza sono quelle fasi di vita che più vistosamente ci vedono coinvolti nel cambiamento, nello sviluppo rapido e inarrestabile che ci è proprio per natura. Basti pensare a cosa accade nel primo anno di vita, quando un bambino giunge a triplicare addirittura il suo peso alla nascita, in un progredire delle sue competenze (cognitive, motorie, sociali) che non ha eguali nell’intera vita. O, più tardi, alla pubertà, quando un lasso di tempo relativamente breve porta fisiologicamente bambini a diventare uomini e bambine a tramutarsi in donne: un passaggio rapido per un cambiamento così definitivo e radicale, che rende quella fase della
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vita estremamente delicata per i soggetti e per chi sta loro accanto. Crescere, dunque significa cambiare, senza voler dare a quest’immagine alcuna connotazione di valore. Il cambiamento suggerisce il mutamento dello status quo, il divenire altro, in un fluire che riporta ancora verso una temporalità che ha in sé passato, presente e futuro. Occuparsi di bambini e di adolescenti, allora, significa occuparsi di soggetti in crescita. L’immagine della crescita, di per sé assai complessa, di primo acchito rimanda a un processo evolutivo, di fioritura, che porta verso l’alto, che sa di cosa buona. Ma, in controluce, l’immagine della crescita nasconde un essere piccolo come non ancora grande, un essere non abbastanza (non essere abbastanza grande per…), un senso di limite da superare. D’altro canto, bambini e adolescenti appartengono alla categoria giuridica dei “minori” proprio perché non ancora maggiorenni, non ancora autonomi. Ed è questo senso del limite che ci ricorda la fatica della crescita, il suo tracciato non lineare, le ricadute e i fallimenti che la connotano e che, quando non rielaborati, rischiano di apparire come brusche interruzioni, passi indietro nell’ideale processo progressivo. Si è detto sopra che occuparsi di educazione significa occuparsi di storie: aggiungeremmo, ora, che – soprattutto quando si ha a che fare con minori, ma non solo – occuparsi di educazione significa occuparsi di storie di crescita (Confalonieri e Scaratti, 2000). Sono le storie dei bambini e delle bambine che gli adulti, nei loro diversi ruoli educativi, accompagnano e sostengono in un percorso che, però, quando si ha a che fare con l’educativo non è privo di implicazioni. Sarebbe scorretto sostenere che il progetto educativo non mira a modificare la condizione di partenza: è evidente che si agisce pensando di portare l’altro ad un'autentica espressione di sé. Se pensassimo che così com’è il soggetto che abbiamo di fronte non necessiti di nulla, per assurdo, perché intervenire? E l’agire educativo è intervento, mira al cambiamento, che sia un tirare fuori qualcosa che è in potenza dentro al soggetto, che sia un mostrare all’altro una strada possibile non ancora pensata. E, parimenti, è ipocrita pensare che s’interviene senza voler migliorare l’altro: l’educatore ha nella mente un’idea, l’immagine di come l’altro potrebbe o dovrebbe essere e, implicitamente, lavora per realizzare quell’idea. In questo senso, torniamo alla già citata dimensione del
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potere. Il potere degli educatori non è solo quello di assumere un ruolo in cui si è legittimati a intervenire per il cambiamento altrui, ma è anche quello – assai scomodo da ammettere – di muoversi verso l’immagine di ciò che dovrebbe essere il futuro. Un pregiudizio (inteso come giudizio a priori) inevitabile che, però, è la ragione stessa del nostro intervento, è la spinta che motiva l’agire. Un pregiudizio da non negare, piuttosto da guardare dritto negli occhi, da riconoscere come connesso alla propria storia (ti vorrei così, come io sono o come io avrei voluto essere) e poi da sospendere (Bertolini, 1988), per lasciare spazio all’altro, all’immagine di sé-nel-futuro di cui è già custode o di cui sarà l’autore. La competenza maieutica del lavoro educativo non è, allora, da ricercare nella capacità di non pensare o non immaginare, piuttosto proprio nella capacità di insegnare all’altro come farlo per proprio conto. Di fondo, esiste l’educazione nella vita proprio perché esiste il cambiamento, perché siamo esseri viventi, in divenire, e questa riflessione sul cambiamento è ciò che ci conduce, così, a pensare alla crescita come percorso ondivago, a tratti anche intermittente, ma capace di tendere sempre all'oltre anche quando ritorna a guardare il passato. Le storie di crescita sono, allora, quei processi di cambiamento di cui, in qualità di educatori e nei contesti deputati, ci prendiamo cura, affinché a partire del già dato – il passato, l’inizio, l’incontro – sia possibile costruire una storia che ne favorisca lo svolgimento. 2. Il tempo della storia, il tempo della crescita Dove, però, si gioca davvero il cambiamento della storia? Per provare a dare una risposta, dobbiamo recuperare una dimensione trasversale al concetto di storia e di crescita, vale a dire il tempo. I tempi del processo educativo e i tempi della crescita non sempre coincidono: possiamo lavorare a lungo senza che nulla sembri mutare e poi, quando il processo si conclude, accorgerci di quanto è già cambiato. O, viceversa, possiamo ritrovarci in una relazione che appare in vorticosa agitazione e renderci conto infine che, in realtà, nulla è cambiato. Tutto ciò dipende dalla natura stessa del processo educativo, che si è detto essere costituito da molteplici fattori, essere relazionale senza poi esaurirsi nella relazione. E,
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allora, i cambiamenti che interessano l’educazione non sono vistosi, piuttosto sfumature leggere e silenziose, come battiti d’ali di farfalle. I cambiamenti in educazione sono passi piccoli quando non piccolissimi, invisibili ad un occhio frettoloso: bisogna essere allenati per coglierli, bisogna riconoscere i segnali, bisogna desiderarli, attenderli senza però aspettarseli. Anche in questo sta la delicatezza del lavoro educativo e la misura della professionalità dell’educatore: nella capacità di non basare la relazione su grandi aspettative, ma su piccoli battiti. E questo proprio all’interno di quelle stagioni della vita così rapidamente coinvolte nella crescita per cui ogni giorno accade qualcosa, ogni giorno si affina una capacità, ogni giorno emerge una potenzialità da sviluppare. È qualcosa che confonde anche chi si occupa di educazione, che rischia di mettere fretta di fronte ad un percorso che, invece, ha tempi lunghi e mai lineari. In questo, il processo di apprendimento fra narrazione e scrittura offre un buon esempio. È sempre più diffusa, oggi, la tendenza ad anticipare il più possibile il momento in cui si accosta il bambino a questa tecnologia, così delicata e così potente. Sembra quasi che prima i bambini sapranno scrivere il loro nome, meglio sarà per il loro avvenire: si troveranno più preparati all’ingresso della scuola primaria ove – solitamente – il primo periodo è proprio dedicato all’alfabetizzazione. Ovviamente non s’intende qui polemizzare con una tendenza didattica che ha certamente le sue motivazioni e la sua efficacia, quando impiegata con consapevolezza e criterio. Utilizziamo questo esempio soltanto per riflettere su di una tendenza che coinvolge sempre più il mondo dell’educazione: preparare i piccoli al successivo step di crescita è spesso la principale preoccupazione dei genitori, comprensibilmente impegnati a rendere il cammino dei loro figli il più agevole possibile. Si tratta di una preoccupazione da accogliere e su cui il mondo educativo è certamente chiamato a lavorare. Più pericoloso è, però, quando questa tendenza inizia a ravvisarsi anche in molti insegnanti e educatori: perché, come si è detto poco sopra, a loro pertiene per professione la comprensione della non linearità dei processi formativi. Restando nell’esempio proposto, apprendere il gesto della scrittura è ben altra cosa rispetto alla capacità di raccontare, che precede la grafia e che però la sostiene nel seguito. L’impulso a
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sperimentare nuove vie di comunicazione arriva dal desiderio di comunicare qualcosa, dall’avere qualcosa da comunicare. Questo passaggio naturale, se dimenticato, trasforma l’imparare a scrivere in una mera applicazione tecnica di un gesto che, però, è vuoto di significato. Stimolare la capacità di raccontare, mostrare la molteplicità delle narrazioni possibili è, pertanto, ciò che dà senso alla lettura e alla scrittura come tecnologie di comunicazione e di scoperta, come porte socchiuse su mondi ancora da esplorare. Inoltre, scrivere è una cosa "da grandi": di questo i bambini sono estremamente consapevoli. È qualcosa che appartiene al misterioso mondo degli adulti, e imparare a scrivere è spesso riconosciuto dai bambini e dalle bambine come un gesto di emancipazione. Allora, ha senso che sia desiderato, che sia voluto più che imposto. Vediamo, così, bimbi curiosi che, osservando la mamma scrivere al tavolo, afferrano un pennarello e iniziano a scarabocchiare il pavimento di casa. Vediamo bambini prendere alla rovescia un libro e declamare a voce alta ciò che immaginano esservi contenuto. Vediamo le loro menti ingegnarsi per raggiungere quella che per loro è diventata una meta ambita. In quel momento la scrittura diviene la possibilità di muovere un passo verso il mondo incantato e temuto di chi è più grande. L’attesa del momento è, così, la capacità di aiutare i più piccoli a muoversi fra il desiderio di crescere e le capacità di farlo. Se, però, da un lato è forte nei genitori la voglia di vedere i loro bambini cimentarsi con competenze “da grandi”, dall’altro lato esiste il desiderio opposto di non vederli cresciuti. Accade che gli adulti impegnati in compiti educativi ambiscano a frenare i cambiamenti in corso, a trattenere i piccoli dal divenire grandi, accade che lo step successivo faccia paura ai grandi, oltre che a chi non lo è ancora. Si pensi all’adolescenza e a quanti genitori abbiamo sentito esclamare “potessi restare un bambino ancora per un po’!”.Forse proprio perché il terreno del cambiamento in quella speciale fase della vita è tutto interno, inaccessibile allo sguardo adulto: a differenza di quanto accade nei primi anni di età, quando il mondo da esplorare è quello all’esterno, l’adolescenza è la fase di scoperta della vastità e oscurità del mondo interiore, è territorio spesso ambiguo, da indagare con cura2. E allora, la scrittura si trasforma: 2
Per una puntuale e accurata riflessione pedagogica sull’adolescenza si ri-
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non è più quel gesto emancipativo che segna il nostro ingresso nel mondo, ma diventa invece la chiave per tornare in sé, finanche per chiudersi in sé (e spuntano i lucchetti sui diari). In questo nuovo passaggio, la volontà di condividere manifestata dagli adulti si scontra con il bisogno intimista dei ragazzi, come ci si muovesse su due lunghezze d’onda, e mentre gli adolescenti vorrebbero essere già altrove, gli adulti li vorrebbero trattenere indietro, li vorrebbero ancora piccoli, tutti per sé. Questa nostra divagazione vuole aiutare a cogliere la complessità delle storie di crescita, che raccontano storie diverse a seconda del punto di vista, che appaiono come quegli intricati romanzi gialli in cui voci diverse offrono diverse prospettive della storia e i segnali disseminati dall’autore non sempre aiutano: a volte confondono, disorientano, stupiscono. Di fronte a tutto ciò, però, la narrazione viene in aiuto. Come risorsa educativa, come spazio di incontro, come occasione di confronto. Viene in aiuto dentro la relazione, quale atteggiamento all’educare che non è metodologia ma è metodo, chiave di lettura per accostarsi alle storie di crescita e farne delle storie in crescita. 3. Dai servizi alla prima infanzia, alla scuola, all’extrascuola: narrare per aggregare, narrare per sostenere, narrare per tutelare Seguendo il filo rosso che l’idea di storia e di crescita hanno suggerito, ci possiamo addentrare ora nei territori più specifici dei servizi educativi per l’infanzia e l’adolescenza. Luoghi, contesti, che non soltanto si scoprono crocevia di storie già in corso, ma che di altre storie sono fucine, palcoscenici di incontri. Non è mai un caso il luogo scelto come ambientazione di una storia, esso anzi è l’elemento chiave attorno al quale la storia stessa si sviluppa. Fuor di metafora, i luoghi delle storie di crescita sono i contesti intenzionali dell’accadere educativo e i servizi sono fra questi i luoghi pensati per esserlo, al di là della naturalità della famiglia o dell’informalità del gruppo di pari. I servizi educativi e gli istituti scolastici ci accolgono quando abbiamo ancora pochi mesi, ci accompagnano lungo le fasi della manda a Barone (2009).
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nostra crescita sino alla nostra adultità e, lo sappiamo bene, anche oltre. Si pensa spesso che la dimensione narrativa – e, ancor più, all’approccio autobiografico – sia qualcosa di pertinente soltanto per quei servizi che si occupano di “insegnare a leggere e a scrivere”, o che si riferiscono a utenze alfabetizzate, per la connessione diretta fra narrazione e scrittura. Chiaramente, la scrittura ha un peso fondamentale, ma questa è solo una parte della dimensione che stiamo qui descrivendo. Come abbiamo visto, la dimensione narrativa rimanda a una visione più complessa della relazione educativa, come storia raccontabile. Lo si è già detto. L’educazione alla narrazione non segue i tempi dell’imparare a scrivere e leggere: li precede, per certi versi, e prosegue ben oltre. In questi termini, ciascun servizio pensato per l’infanzia e l’adolescenza può investire sulla narrazione, anche e forse soprattutto i servizi che si muovono fra l’informale e il non formale. Cerchiamo di portare alcuni esempi e immaginiamoci come invisibili osservatori di scene quotidiane. Iniziamo sbirciando in un nido: è il primo colloquio e le educatrici chiedono alla famiglia di raccontare il loro bambino, chi è, cosa ama fare, quali le sue routine quotidiane e così via. Nell’altra sala, l’educatrice racconta ad alta voce una storia ai bambini, che passano dall’ascolto alla scoperta del nido, attratti soprattutto dal tabellone con le loro foto e i loro nomi scritti sotto. A fine di giornata, le educatrici racconteranno ai genitori come è andata, come è stato il loro bambino, cosa ha fatto e così via. Sorvoliamo, ora, un servizio per le famiglie. È mercoledì, e invece che le mamme con i bambini troviamo i nonni che si prendono un thè e, mentre i loro nipotini giocano con le educatrici, si raccontano quali problemi hanno incontrato nell’accudimento, le speranze e le paure di chi è stato incaricato di un compito così delicato come aiutare nella crescita del figlio del proprio figlio. Passiamo oltre ed entriamo in una scuola dell’infanzia; troviamo un angolo con un tappeto, dei cuscini morbidi e una piccola libreria con tanti libri: è l’angolo delle storie, si raccontano e si leggono, i bambini si possono sedere e sfogliare i libri. A inizio giornata, di lunedì, quando si è in cerchio all’accoglienza si invitano i bambini a raccontare ciò che si è fatto il giorno prima. I bambini crescono ed entrano a scuola: qui incontrano la scrittura, la lettura che diventa studio, una modalità di raccontare e
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raccontarsi che segue delle regole precise. È a scuola che, in fondo, mostriamo ai piccoli che tipo di narratori vorremmo divenissero da grandi, ma su questo torneremo più nel dettaglio in seguito. Lasciamo per un attimo i banchi di scuola e seguiamo i ragazzi in uno spazio diverso: siamo in un C.A.G. Si è deciso di promuovere un’iniziativa sul territorio che presenti all’esterno il lavoro dei ragazzi. Gli educatori li invitano a provare a raccontare cosa hanno prodotto, i ragazzi si confrontano, fanno fatica a “restare sul pezzo”, gli educatori cercano di ricondurli al compito e li invitano a ritrovare ciò che di più specifico può raccontare all’esterno cosa hanno fatto. Si concentrano sul laboratorio di giocoleria realizzato durante l’anno e pensano di organizzare una performance teatrale che racconti il percorso. Uscendo dalla sala, nell’edificio al fianco troviamo lo spazio ascolto per i giovani promosso dal comune. Li accoglie un esperto in orientamento al lavoro e una psicologa. Ascoltano le preoccupazioni dei ragazzi, cercano di capire il loro percorso e di mostrare loro le opportunità del territorio. Punto di partenza è la raccolta della storia del ragazzo. Siamo ancora oltre, usciamo in strada e vediamo un gruppo di ragazzi seduti su di una panchina. Assistiamo a una scena (ormai sempre più rara) che potremmo identificare come un intervento di educativa di strada. Due ragazzi più adulti, pensiamo educatori, si avvicinano al gruppo e iniziano a parlare con loro: è il primo aggancio, si cerca di capire cosa può interessare ai ragazzi, qual è la storia di quel gruppo, e di tramutare quel tempo in un tempo per… Ultima sosta nel nostro volo: una casa con molti ragazzi di età diversa e alcuni educatori. Siamo in una comunità, qui i ragazzi vivono, adolescenti o poco più, nel tentativo di ricostruire il senso della propria storia dopo un passato già burrascoso. Sì, perché anche i bambini hanno un passato ed è un passato che non si può dimenticare. Il lavoro educativo vuole aiutarli nel ritrovare il senso del proprio presente a partire dalla propria storia, e lo si può fare, però, soltanto se si pensa che quella storia abbia comunque qualcosa da raccontare. Questo nostro volo ipotetico è stato, così, l’occasione per vedere come nelle pratiche le storie e le narrazioni siano sempre presenti, anche se inconsapevolmente, inevitabilmente. La nostra proposta
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vuole rendere questo dato di fatto un dato progettuale. Vorremmo, dunque, porre l’accento su di un atteggiamento di cura e di attenzione alle dimensioni narrative capace di rendere quelle pratiche progettualmente intenzionali, perché pertinenti a tre funzioni, per così dire, trasversali nei servizi educativi: aggregare, sostenere, tutelare la loro utenza. Proviamo a pensare alla funzione aggregativa: la condivisione, che è alla base del raccontare e del raccontarsi, è anche alla base del mandato di socializzazione che molti servizi per infanzia e adolescenza portano avanti. Stare insieme comporta la capacità di riconoscere l’altro, l’esigenza di dare all’altro rispetto e di mostrarsi aperto all’incontro con una storia diversa dalla propria. Le pratiche narrative, allora, rinforzano questo mandato quando si rivelano occasioni di confronto e di conoscenza reciproca e, ancor prima, quando sono supportate da un atteggiamento di curiosità e di apertura non giudicante da parte degli operatori. La seconda funzione è connessa al sostenere bambini e adolescenti nel loro percorso di crescita. In questo senso, è di sostegno essere consapevoli della propria storia, riconoscere la forza del percorso fatto, ma anche sapere che la propria storia può prendere percorsi differenti, che esistono occasioni non ancora pensate ma non impossibili. Questo ci porta alla terza funzione: può la narrazione essere risorsa per la tutela dell’infanzia e dell’adolescenza? A nostro avviso sì: a volte, il non dire cela l’impossibilità di dirsi. La principale tutela passa, così, attraverso la consapevolezza del valore della propria storia e del proprio diritto a raccontarla.
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III. PRATICHE NARRATIVE PER EDUCARE: PICCOLI, GRANDI NARRATORI CRESCONO
“Facciamo che io ero…”. Quante volte abbiamo sentito bambini e bambine esordire in questo modo al principio del loro gioco? I bambini sono strepitosi narratori, impostano il loro approccio alla scoperta del mondo intessendo racconti. Qualsiasi elemento in loro possesso si tramuta in personaggio, scenario, momento del racconto che stanno per inventare. Ci sono bambini che fanno scivolare bottiglie di plastica sul pavimento, accompagnando il movimento con un “brruum” che è assai più descrittivo di qualsiasi parola. Altri che imbastiscono dialoghi improbabili con la loro immagine allo specchio. Altri ancora che ammoniscono l’adulto che si sta per sedere sulla sedia: “Guarda che ti bagni, quello è il lago!”. Le capacità narrative dei bambini sono tali e tante che gli adulti spesso se ne dimenticano, e lo sono perché la narrazione è per loro concretamente la via per mettere insieme in un ordine comprensibile i frammenti di esperienza che attraversano quotidianamente. Racconta così, Luisa Mattia: “Accade che i bambini si raccontino storie per i fatti loro. E sono storie davvero perigliose, complesse, piene di ostacoli. Sono le storie della loro storia” (Mattia, 2011, p. 14). Come abbiamo tentato di sottolineare fin d’ora, la competenza narrativa è una competenza del pensiero che si forma man mano che il bambino cresce e che ha a che fare con la dimensione sociale del genere umano. Inizia con le filastrocche raccontate dalla mamma al bambino per farlo addormentare (o ancor prima, quando il bambino impara a riconoscere la voce della mamma dall’interno della sua pancia), con i bambini che nei servizi alla prima infanzia muovono i primi passi verso la socializzazione, con gli adolescenti che si raccontano nei loro diari o in rete e così via. In questi termini, la competenza narrativa è, da un lato, qualcosa d’innato che abbiamo in dotazione nel nostro patrimonio (culturale e genetico,
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per così dire), dall’altro lato essa è qualcosa che si apprende per esperienza, sottesa a ogni altra esperienza sociale. Una competenza che si va implementando soltanto se si cresce in un contesto narrativo: “La via consiste in primo luogo nella condivisione delle premesse di una pedagogia della memoria che si apprende a vivere già nella primissima infanzia in relazione all’apprezzamento, in famiglia, della importanza del ricordare e del raccontare il passato” (Demetrio, 1998, p. 41). Stiamo parlando, dunque, non di qualcosa che si apprende ma di qualcosa che si respira, di un clima di attenzione alle dimensioni narrative (in tutte le sue declinazioni) che è propedeutico alla consapevolezza delle sue implicazioni. Ecco in che senso, allora, anche raccontare le fiabe ai bambini, lasciare in giro per casa libri ma anche giornali e riviste, mostrare che c’è spazio per scrivere di sé, raccontarsi alla fine della giornata diventano spontanei momenti di formazione dei piccoli-grandi narratori, i quali, per esperienza, sapranno dell’esistenza delle storie, dei racconti, dei testi, prima ancora di incontrarli direttamente. I piccoli narratori, allora, crescono laddove vi siano le condizioni per sviluppare quella competenza innata che portiamo con noi, laddove vi sia spazio per il racconto e per la storia. Similmente, anche nel lavoro educativo con l’adolescenza, fase critica di costruzione della propria identità, nell’intreccio delle plurime appartenenze, le pratiche narrative si rivelano assai preziose: “Le difficoltà tipiche dell’adolescenza, legate ai processi di autocollocazione e individuazione, sembrano davvero sfidare la dimensione narrativa e autobiografica, cioè la possibilità di creare storie di crescita (da parte dell’operatore) e di ricollocarsi in una storia/traiettoria emancipativi (da parte del soggetto)” (Scaratti e Confalonieri, 2000, p. 114). Le storie aiutano, così, anche gli adolescenti a ripensare il proprio percorso, a dare voce alle proprie inquietudini, ritrovandole nei racconti che vanno leggendo, nelle esperienze condivise con altri e così via, cosicché proprio la narrazione si rivela un reale territorio di trasgressione (Biffi, 2010c), rispetto alla norma fino ad allora conosciute, aprendosi alla curiosità verso ciò che ancora non si è esplorato. Un buon narratore è qualcuno cresciuto in un contesto nel quale ci si racconta e si racconta, nel quale il gioco del ricor-
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do si recupera quotidianamente, ove sia naturale avere spazio per il racconto, spazio per l’ascolto ma anche spazio per il silenzio. 1. Le storie nella rete: antichi bisogni e nuove sfide Ci ricorda Luisa Mattia, scrittrice con1 e per l’infanzia: “Un adulto che insegna ha due sovrastrutture con le quali fare i conti: essere adulto ed essere insegnante. È cresciuto imparando un modello narrativo che si rifà ai canoni del grande romanzo ottocentesco. I ragazzi, invece, sono cresciuti con televisore, computer, fumetti, cartoni animati…dunque la loro modalità espressiva è fatta di flash, puzzle, pezzi isolati che si incastrano con coerenza. A questo si aggiunge che la capacità di esprimersi attraverso le parole per i bambini è una conquista” (Mattia, 2011, p. 102). Gli adolescenti e i bambini di oggi sono sempre più Digital Kids (Ferri e Mantovani, 2008) e come tali sono portatori di un proprio universo narrativo, linguistico e testuale. Allora, la narrazione può divenire una risorsa, strumento di lavoro all’interno del progetto educativo, e lo può fare, a nostro avviso, soprattutto in tre modi: educando al raccontare, educando al raccontarsi e educando al tenere memoria. Vediamo ora nel dettaglio di cosa si tratta. 2. Educare a raccontare Educare a narrare è qualcosa che appartiene alla formazione tout court, che non ha stagioni della vita dedicate. Nel panorama contemporaneo, però, si sta sempre più rendendo urgente l’esigenza di un’educazione alla narrazione capace di rispondere a nuove sfide. Quanto sta accadendo in questa nostra epoca, secondo una tendenza accelerata (o creata, secondo alcuni) dallo sviluppo delle nuove tecnologie e, soprattutto, dall’avvento del web 2.0 (ora già in corso di superamento) è l’amplificarsi a dismisura della circolazione narrativa, che rende sempre più incalzante la necessità di 1
Il lavoro di scrittura con i bambini è ben testimoniato anche nel progetto realizzato da Luisa Mattia con alcune classi di scuola primaria che ha poi prodotto il testo Sono contento che sono un bambino (Mattia, 2009).
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sostenere i singoli e le comunità nella gestione di una rete narrativa aggrovigliata. Stiamo vivendo in un’era di narrazioni plurime e intrecciate, di contaminazioni fra linguaggi e fra registri cui non si era mai assistito prima: esistono spazi di condivisione istantanea non solo di testi, ma anche d’immagini, foto, video che si moltiplicano e che si modificano. Siamo anche nell’era della confusione possibile fra realtà, fiction e mistificazione. Abbiamo imparato che non basta vedere per credere, anzi che l’immagine a volte confonde e può mentire, può essere mistificata. Eppure, sappiamo anche che esiste la fiction, la possibilità di prendere dalla realtà e farne altro, costruire qualcosa che si sa non essere reale, ma si sa non essere nemmeno menzogna: è un altro modo di raccontare. Il “ritocco” delle immagini, ad esempio, che fino a poco tempo fa avremmo giudicato “scorretto”, oggi è entrato nella categoria della creazione, della diversa modalità di descrivere l’istante (si pensi alla realtà di Instagram, così come altri spazi similari, che consentono di postare e condividere rapide immagini scattate col cellulare e poi ritoccate, fino a considerarle prodotti artistici). Da un lato, dunque, v’è la consapevolezza che la narrazione ci appartiene e ci circonda, dall’altro lato v’è la percezione che la narrazione va condivisa. I social network hanno portato ciascuno con la propria faccia e con la propria storia sotto gli occhi di tutti. La rete è sufficientemente grande da potersi nascondere, basta inventarsi un nick name e un profilo e si può diventare qualcun altro, ma è anche inevitabilmente piccola, e si finisce sempre per essere trovati e “svelati”. D’altro canto, inventare appartiene alla logica della rete, mentire no. I bambini e ragazzi di oggi sono nati e stanno crescendo sapendo che narrare la propria vita è fatto usuale, non soltanto si racconta ma ci si tiene in contatto, si condivide, si modifica; essi vivono immersi in un clima narrativo assai differente da quanto è avvenuto per le generazioni precedenti: accompagnarli nello sviluppo della capacità di decifrare e interpretare le narrazioni che li circondano diventa, allora, l’autentico bisogno educativo, che richiede però la capacità dell’adulto di mettersi in ascolto, di accettare il fatto che è meno competente dei bambini e ragazzi che deve educare, perché ciò che per loro è naturale, per noi adulti è artefatto da apprendere. E non si tratta di un fenomeno che riguarda solo la sfera cognitiva: osserviamo una bambina, avrà al massimo tre anni, tiene fra le
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mani una tavoletta di metallo grigio scuro, l’i-Pad. Posa le sue dita sullo schermo e, come per pizzicare qualcosa, chiude e poi apre indice e pollice. Potrebbe sembrare un movimento qualunque, cerca di prendere una briciola ad esempio. Invece sta allargando una fotografia sullo schermo. Viviamo in una realtà ove le immagini si possono “toccare”, siamo passati dall’uso spropositato del pollice per spedire sms all’uso delle dita per allargare le immagini. La riflessione fra descrizione e interpretazione, fra osservazione e creazione rimbalza, così, a un piano superiore ancora da esplorare. Il nostro, lo si è già detto, è un pensiero narrativo: per pensare costruiamo storie tramite le quali organizzare l’accadere, che danno spazio al punto di vista del soggetto narrante (Bruner, 1992). La capacità di raccontare, allora, è esercizio del pensiero di cui è necessario prendersi cura. Il raccontare è fatto di diversi elementi: v’è la descrizione del cosa è accaduto; l’argomentazione delle ragioni e dei significati di tali accadimenti; le riflessioni che tutto ciò ci ha suggerito. Ciascuno di questi elementi richiede specifiche competenze e capacità. Si pensi alla capacità di descrivere: prestare al lettore gli occhi affinché sappia vedere ciò che vediamo potrebbe sembrare un’operazione lineare. E invece, descrivere richiede grande attenzione, una giusta distanza che non confonda prospettive e contorni. Operazione complessa soprattutto per gli adulti: abbiamo la tendenza, anche nelle narrazioni quotidiane, a dare spazio all’opinione, all’astrazione sull’accaduto. Descrivere è, allora, saper osservare, saper sospendere il giudizio per entrare nell’incontro con il mondo. Al tempo stesso, però, v’è nell’arte del racconto anche la capacità di rendere manifeste le teorie a sostegno delle nostre azioni: non l’opinione, quanto le argomentazioni che giustificano ciò che andiamo descrivendo. Si tratta, anche in questo caso, di una competenza su cui è fondamentale lavorare, formarsi, perché ha a che fare con la riflessione sul proprio pensiero, con quella metacognizione che rende oggetto del pensiero il pensare stesso e che aiuta a comprendere il funzionamento della nostra mente, oggi sempre più in corso di ridefinizione. A fronte della complessità che andiamo attraversando, appare importante pensare a una educazione alla narrazione che sia intervento educativo vero e proprio, che accompagni bambini e adolescenti ad orientarsi nel groviglio di trame e immagini, di narrazio-
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ni, che rischia di trasformarsi in labirinto inquietante, invece che in territorio esplorabile. 3. Educare a raccontarsi Il risultato di questa sopra citata rivoluzione tecnologica è che ad oggi non si è mai scritto così tanto. La rete è diffusamente percorsa da scritture personali (post, autobiografie, piccoli racconti, memorie, e così via), ed anche risentono della confusione che circonda oggi la narrazione. La scrittura di sé nasce, come costruzione di uno spazio intimo di dialogo: con la società, con sé, con il proprio Dio. Ancor pima, essa era filosofia del pensiero, disciplina riflessiva che ha portato lentamente alla costituzione del singolo come soggetto pensante. Si scriveva in intimità, si scriveva per sé, si scriveva in silenzio. Oggi, quella intimità e quel silenzio che per secoli hanno caratterizzato questa rara tecnologia sembrano essere scomparsi, soffocati dai rumors della rete, per cui la scrittura è trasposizione sul video dell’oralità, è altro rispetto a quanto stato per secoli. Si badi bene: non lo si dice né con nostalgia verso i tempi passati, né con entusiasmo verso queste nuove frontiere. Si tratta soltanto di constatare di un fenomeno che, per certi versi, sembra riflettere quanto accaduto in epoca medievale, quando la scrittura iniziava a diffondersi al fianco della comunicazione orale (Illich, 1994). Quando verbo e parola convivevano senza aver ancora bene chiari i confini propri. Oggi, la situazione si ripete e ci ritroviamo in quelle terre di mezzo che caratterizzano le innovazioni tecnologiche, per cui il nuovo e il vecchio convivono, si confondono, si misurano per trovare un nuovo equilibrio. In questo panorama, non è cosa da poco educare a raccontarsi, perché significa lavorare sul tema quanto mai attuale del rispetto, di sé e degli altri, dell’etica della condivisione e del confronto, della privacy (per dirla con un termine ormai noto). L’operazione di selezione fra ciò che vogliamo raccontare agli altri, ciò che possiamo raccontare a pochi e ciò che dovremmo tenere per noi è qualcosa che richiama una consapevolezza raffinata. Non si tratta tanto, o non soltanto, di allertare i più piccoli verso i “rischi” della rete per colpa di quegli adulti che ne fanno un uso improprio. Né
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tantomeno vogliamo qui entrare nello spinoso (e a nostro avviso ambiguo) tema del cyberbullismo. Ci stiamo riferendo, piuttosto, alla necessità di formare i narratori in crescita alla consapevolezza della scelta, alla dimensione della possibilità di dire ma anche di non dire, all’etica del silenzio. Qualcosa con cui ci si confronta inevitabilmente nel proprio divenire adulti. Si pensi all’adolescenza, ai suoi segreti da non raccontare ai grandi, all’ambivalenza del rapporto con la sfera pubblica, alla fatica di mostrarsi e alla tensione verso l’esibirsi: dimensioni che hanno strettamente a che fare con il raccontare di sé, che sia attraverso le parole, i gesti o le immagini. Nella diffusa rete narrativa, però, esiste anche il timore di non esistere se non ci si narra: se non mi racconto, se qualcuno non mi legge, come posso avere la certezza di esistere? È proprio in questo senso che, a nostro avviso, educare a raccontarsi diviene fondamentale: affinché l’equilibrio fra pubblico e privato sia una scelta consapevole, affinché i narratori di domani sappiano raccontare la loro storia con autenticità. A questo punto, però, v’è un ulteriore aspetto sul quale dobbiamo soffermarci, seppur brevemente, che è strettamente connesso alla nostra professione di educatori e insegnanti. Accade spesso che nei momenti informali, negli intervalli, nelle pause, nei tragitti verso casa che casualmente accomunano educatore e educando, sempre più nella rete, accade dunque in questi spazi che bambini e ragazzi si raccontino agli adulti, insegnanti, educatori e così via, molto più autenticamente e apertamente di quanto non accada a scuola o nei servizi. Il quesito etico che si pone all’operatore è proprio questo: cosa fare di queste storie, che ci sono state donate fuori dall’istituzione, da quel contenitore che ci legittima anche ad agire? Non è cosa da poco, proprio in questo particolare momento storico in cui, a fronte delle nuove logiche della rete, il confine fra pubblico e privato è tutto in discussione. La scelta di condividere la loro storia con noi, che impersoniamo un ruolo, quando non stiamo operando in quel ruolo è qualcosa che ci impone degli interrogativi rispetto ai significati sottesi a quella narrazione. La scelta di come rispondere e cosa fare è chiaramente vincolata a tutta una serie di dettagli che rendono impossibile una generalizzazione (chi sono loro e chi siamo noi, il momento e il contesto del racconto, e così via). Di una cosa, però, possiamo essere sufficientemente
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certi: tale narrazione, diremmo interstiziale, offre un’occasione, che poi si potrà accogliere oppure no per tutta una serie di più che comprensibili ragioni. Ma così come il pensiero è irreversibile, lo è anche un racconto: nel momento in cui incontriamo una storia, non possiamo fingere di non conoscerla. Poiché l’altro ci ha scelti, ci sta chiamando dentro ad una relazione, ci sta catapultando dentro la sua storia, anche se non dall’ingresso che avremmo voluto, anche se questo invito ci coglie impreparati. Ogni racconto è una condivisione, l’incontro con la storia dell’altro, e soprattutto quando si lavora con bambini e adolescenti certe occasioni sono preziose. Le aperture sui loro mondi, che spontaneamente ci consentono di attraversare, possono rivelarsi occasioni di “aggancio”, per utilizzare un termine diffuso nel gergo professionale. Teniamo a precisarlo perché proprio con il proliferare delle occasioni di scambio e chiacchiera virtuali, capita sempre più che vi siano confusioni di piani: che gli studenti chiedano delucidazioni sul compito scrivendo su Facebook al professore, ma anche che fra un commento e l’altro gli raccontino cose che a voce non avrebbero mai confidato. Da un lato quel professore è chiamato a riportare ciascun discorso sul piano di pertinenza, nello spazio che maggiormente gli è proprio, ma dall’altro lato come si può ignorare quella storia? Riconoscere un racconto a prescindere dal contesto, saper estrapolare il testo (ciò che ci viene detto) dal pretesto (la cornice nel quale avviene la narrazione) è qualcosa di complesso che richiede professionalità, attitudine all’ascolto e una buona dose di abitudine al racconto. Tutte competenze che a nostro avviso non possono mancare nelle nostre professioni. 4. Educare al tenere memoria Ed eccoci, così, giunti al terzo movimento di questa nostra riflessione: in che senso è possibile tenere memoria? E qual è oggi il ruolo del ricordo, in un’era in cui la rivoluzione digitale ha compresso il tempo all’istante e reso il passato un archivio virtuale? Il tema si fa assai complesso e certamente non potremo esaurire qui le nostre riflessioni a riguardo. Ci limitiamo, però, a sottolineare un paio di aspetti che giustificano l’importanza di una educazione alla memoria.
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Il primo aspetto è, per certi versi, paradossale: con le nuove tecnologie digitali nulla si perde ma tutto si dimentica. Nulla si perde, perché la rete conserva tracce del nostro passaggio ben oltre la nostra volontà. È talmente arduo cancellare la propria presenza sulla rete che esistono società di informatici specializzati in queste operazioni di pulizia, con ingenti investimenti economici. In parte, anche perché non siamo sempre noi gli autori delle informazioni che ci riguardano in rete: si pensi alle fotografie o ai commenti postati dagli amici, ai documenti messi in condivisione per ragioni di lavoro e così via: attraversiamo la rete senza averne consapevolezza e ogni nostro passaggio lascia una traccia digitale indelebile. In questo senso, mantenere memoria del nostro passato non è mai stato così facile: archiviamo tutto, salviamo su formati differenti, ora esistono anche “nuvole” virtuali (i-cloud) che si fanno carico di conservare i nostri ricordi (fotografie, testi, dati d’ogni genere) gratis o a modiche cifre per un tempo virutalmente infinito. Eppure, non è mai stato così facile dimenticare: il flusso costante e continuo d’informazioni rendono “nuovo” un attimo dopo l’altro, le notizie si diffondono istantaneamente e si sovrascrivono nella nostra mente. Ciò che era di poche ore fa è già superato. Inoltre, la sovrabbondanza d’informazioni in cui siamo immersi rende difficile comprendere ciò che vale la pena salvare (ricordare) e ciò che invece non è importante, fino a portarci a una confusione tale per cui salvando tutto non ricordiamo, in realtà, nulla. La memoria, d’altro canto, non è affatto un archivio ordinato di istantanee: è processo creativo che riproduce da nuovo il ricordo ogni volta che ricordiamo, e questo rende tutto ancor più intricato. Perché se è così, salvare l’istante dal fluire del tempo non significa ricordare: a partire da quell’istantanea, ricordando creiamo qualcosa di nuovo che poco ha a che vedere con quell’immagine, ma moltissimo con quanto in quel momento stiamo attraversando. Quale il risultato di questi processi? Che ricordare è una competenza cui ci si deve formare, alla luce delle recenti implicazioni che l’attività della memoria va assumendo. La narrazione, lo si è visto in principio, porta con sé una strutturale relazione con il tempo ed il suo scorrere, è pratica che necessita di un passato, di un presente e di un futuro per realizzare se stessa. Al di fuori della temporalità, anche la narrazione perde significato. Ecco che, allora, raccontando possiamo allenarci al tempo, ricon-
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quistare la natura processuale degli avvenimenti, esercitare quel pensiero critico che ci impone di interrogare il senso di ciò che ci accade e di ciò che facciamo.
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IV. PRATICHE NARRATIVE PER EDUCARE A SCUOLA
Può sembrare facile comprendere in che modo le pratiche narrative sono pertinenti all’insegnamento, anzi: si è visto in apertura che spesso è il primo contesto in cui si potrebbe pensare essere lecito occuparsi di narrazione. In realtà, proprio perché data per scontata, la relazione fra scuola e pratiche narrative è assai delicata. Accade, infatti, che ci si dimentichi (non per cattiva volontà, piuttosto per consuetudine) che i bambini che fanno il loro ingresso a scuola sono già portatori di un universo narrativo specifico, florido e fecondo. Seppur non ancora capaci di scrivere, lo si è già detto, essi sanno narrare, anzi lo sanno fare meglio degli adulti perché per loro è la via privilegiata di comprensione di ciò che vanno vivendo. Una competenza narrativa che i servizi 0-3 e le scuole dell’infanzia hanno già notevolmente rinforzato e raffinato, e che ora può divenire risorsa per l’acquisizione di nuove strategie e tecnologie narrative. Cosa dunque sono le didattiche narrative? Sono, a nostro avviso, quelle didattiche che sanno puntare sulla narrazione pensandola come risorsa educativa, come si è visto sopra, e che al contempo sono riconducibili all’interno delle scelte di progettazione e realizzazione del contesto di apprendimento/insegnamento così come della relazione insegnante/alunno. Che, dunque, sanno anche declinarsi in pratiche capaci di rinforzare il processo di apprendimento. Fra le molte, vorremmo soffermarci su due dimensioni cui la narrazione è a nostro avviso strettamente connessa: lo spazio autobiografico e quelle immaginario-creativo, entrambi presenti nella scuola ma non sempre attentamente progettati.
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1. Didattiche narrative e modalità autobiografiche La diffusione delle pratiche autobiografiche nelle scuole è ormai assai amplia e variegata. Si parte dal ben noto tema di carattere personale (“Racconta il tuo fine settimana”, “Scrivi una lettera al tuo migliore amico” eccetera) agli esercizi autobiografici, di diversa natura, volti a favorire lo scambio fra i ragazzi delle proprie storie. Esistono molte esperienze realizzate per sviluppare spazi di narrazione autobiografica nella scuola (Moroni, 2006; Orbetti, Safina e Staccioli, 2005) che ci ricordano il valore di questa metodologia, che può diventare anche occasione di riflessione sul proprio rapporto con la scrittura (Biffi, 2010b). Come il lettore avrà ben compreso, siamo qui certamente a sostenere la costituzione di spazi di auto-narrazione, delle più varie natura, all’interno del contesto scolastico, ma con una premessa fondamentale. Il lavoro scolastico ha in sé, come d’altro canto è specifico di qualsiasi intervento educativo, una dimensione valutativa che non va censurata né tantomeno osteggiata, ma riconosciuta come costitutiva. Eppure, le storie di vita sono oggetti non valutabili. Piuttosto, si tratta di rendere ciascun soggetto consapevole e capace di procedere individualmente in un processo di revisione critica della propria storia, in vista di una sua riprogettazione. Ma la “valutabilità” di una scrittura autobiografica è cosa assai delicata: chiedere a un ragazzo di scrivere la propria storia e poi mettervi il voto rimanda molto a un vincolo apparentemente insuperabile. Difficilmente lo convinceremo che a essere oggetto di giudizio è stata la forma e non il contenuto del suo scritto, anche perché, per la cornice epistemologica in cui ci collochiamo, è arduo sostenere che forma e contenuto siano fra loro facilmente scindibili. Le didattiche narrative richiedono, così, la costruzione di un clima in aula che favorisca la narrazione di sé, una relazione fra docente e studenti tale per cui la storia del singolo possa sentirsi accolta. Si tratta di riconoscere che ciascuno di noi ha qualcosa da condividere, qualcosa che potrebbe insegnare agli altri. Le didattiche autobiografiche, in sintesi, sono quelle che mettono il soggetto al centro del processo di apprendimento, invitandolo a ricondurre quanto accade nell’aula alla sua storia. Nulla di eccezionale, dunque, nulla di più di quanto non faccia un insegnante
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“sufficientemente buono”. Averne consapevolezza è proprio ciò che garantisce dal non ricadere in tecnicismi o in mode pedagogiche che rischiano di inficiare nella pratica tutta l’ipotizzata ricchezza presente in teoria nell'approccio autobiografico. Ci ricordano Laura Formenti e Ivano Gamelli: “Porre al centro la soggettività dello studente non può limitarsi ad adattare consolidati curricoli alle capacità presunte del soggetto; occorre fare in modo che ciascuno possa scoprire la propria individualità, valorizzare una visione personale delle cose, individuare ciò che sta per diventare ciò che è” (Formenti e Gamelli, p. 85). Per cui il punto di partenza per il ricorso a metodologie autobiografiche in classe resta, sempre, il lavoro di preparazione, quel giusto clima che renda autentico il confronto e la messa in gioco di tutti, alunni e insegnanti. Perché “una soggettività così intesa non può emergere attraverso operazioni preconfezionate e unilaterali: la soggettività implica sempre un’altra soggettività, una storia, una relazione” (Ibidem). Ne consegue che, come abbiamo accennato in precedenza in merito al rapporto fra narrazione e intervento educativo, “nella relazione educativa occorre far cadere la maschera alle tante normalizzazioni e giustificazioni messe in atto per allontanare, o più semplicemente addomesticare, il coinvolgimento della storia dell’insegnante” (Ibidem). L’approccio autobiografico riporta, così, la dimensione educativa nella scuola ricordando la necessità di lavorare con e sulla relazione, sapendo che anche l’apprendimento passa attraverso una relazione fatta di gesti, di parole, di cose. Tutto ciò, si badi bene, non implica affatto un atteggiamento intrusivo nella storia dell’altro: accogliere la storia che l’altro porta con sé, e saper mettere nel proprio ruolo la propria storia, non significa che all’insegnante è dovuto conoscere tutto ciò che accade all’alunno fuori dalla scuola, né tantomeno che all’alunno è dato conoscere tutto della vita dell’insegnante. L’approccio autobiografico, anzi, mette in guardia anche da una modalità invischiante e poco autentica di accostarsi alle storie di vita nei contesti formativi. Perché, lo si è detto in principio, la relazione educativa è sempre una relazione asimmetrica, in cui l’insegnante, come l’educatore, hanno un potere forte rispetto al loro alunno. Piuttosto, allora, significa cogliere cosa, delle storie altrui e propria, è già in gioco nel processo di apprendimento, cosa può sostenerlo, cosa lo limita e così via. Precisa Silvia Kanizsa, nel suo studio sul ruolo della relazione nel processo d’apprendimento: “Per mettere al centro l’allievo, cercando di capire fino in fondo come
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egli sia e come viva le sue esperienze, non c’è bisogno di avere molti particolari sulla sua vita privata, ma è necessario osservarlo con un occhio attento e il più possibile livero da prevenzioni e pregiudizi” (Kanizsa, 2007, p. 14). D’altro canto, apprendere non è mai cosa neutra: il processo di conoscenza è un processo irretito nella propria storia; a tal riguardo, ricorda Duccio Demetrio: “[…] ciascuno, in fondo, non fa altro che raccontare agli altri se stesso – anche quando racconta di cose di scienza – dal momento che racconta ciò in cui crede e ciò di cui dubita” (Demetrio, 1996, p. 49, cit. in Formenti e Gamelli, 1998, p. 87). In questi termini, tornano alla mente le parole di Hanif Kureishi, per il quale ogni romanzo parte dalla propria storia: “Viene spesso chiesto agli scrittori se la loro opera sia autobiografica. Mi sembra una domanda strana, in un certo senso superflua – da dove altro dovrebbe nascere l’opera se non da se stessi? – ma mi chiedo se venga fatta perché rimane comunque qualcosa di misterioso nella conversione dell’esperienza in rappresentazione” (Kureishi, 1999, p. 26). In effetti, il processo di traduzione dalla vita alla storia ha del misterioso, nell’accedere alla propria storia come fosse materiale da scomporre e ricomporre e al tempo stesso attingere al proprio immaginario, per produrre qualcosa di nuovo: un processo, in sintesi, creativo. 2. Didattiche narrative per creare e per apprendere Arriviamo, così, all’ultima delle sfumature con le quali la narrazione può colorare la didattica, vale a dire la connessione fra narrazione e creatività, in tutti i suoi possibili linguaggi (Dallari, 2010). Raccontare storie è anche un sinonimo d’invenzione, e l’invenzione è pensiero, come osservò Gianni Rodari: “[…] l’immaginazione non è qualche facoltà separata della mente: è la mente stessa, nella sua interezza, la quale, applicata ad un’attività piuttosto che ad un’altra, si serve sempre degli stessi procedimenti” (Rodari, 1997, p. 24). Noi qui vorremmo mostrare come le pratiche narrative siano occasione concreta di lavoro sulle capacità inventive, creative del pensiero, strettamente connesse al processo di apprendimento.
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Anche in questo caso, moltissime sono le esperienze di laboratori di scrittura che mirano a incentivare l’attività di costruzione di storie, sulla base anche del pensiero di autori che hanno fortemente influenzato la stessa idea di creatività in educazione1. A tal proposito, assistiamo oggi a un fenomeno originale: da un lato, v’è un proliferare di corsi di scrittura creativa e di strumenti di pubblicazione per condividere le proprie creazioni. Qualcosa di assai vivace, pensato come modello culturale, che sta producendo frutti interessanti e, però, anche un proliferare di “già detto” che rischia di rivelarsi in realtà noioso. Dall’altro lato, imperversa un piglio tecnicistico che vuole l’istruzione sempre più rispondente e aderente alle richieste di un certo tipo di mercato, con settorializzazioni e specialismi che molto tolgono al versante creativo del processo di apprendimento. Finisce, così, che ciò che appare poco finalizzato, troppo generico, ancora vago, resta relegato al dopo-scuola o al laboratorio che, però, non deve interferire con la logica dell’istituzione. Stiamo, lo si precisa, generalizzando: esistono esperienze interessanti e lodevoli che muovono in direzione opposta, ma vorremmo qui mettere in luce la fatica che spesso incontra la scuola a investire sulla creatività, intesa come slancio immaginario, come spazio di sperimentazione che riconosce un valore forte all’errore e alla casualità. Di fronte a questo, la narrazione si rivela una preziosa occasione per nutrire quella sfera dell’apprendimento che mira a inventare ciò che non esiste e che, però, d’altro canto, siamo stati in grado di pensare. In questo caso, chiamiamo in causa la scrittura personale ma non solo: pensiamo alla letteratura, alla possibilità di immaginare, lasciarsi andare alla trasgressione del noto. Magari anche “copiando” da ciò che già esiste, come suggerisce Maurizio Matrone (Matrone, 2010), riprendendoci il gusto di impadronirsi di alcune storie e di alcune narrazioni. La letteratura si rivela, così, fonte di incontro con la propria capacità immaginativa, come lo sono state le fiabe, portale ormai riconosciuto verso il proprio mondo interiore, consapevole e inconscio (Bettelheim, 2000). 1
Solo per citarne alcuni, senza ritornare sul tema della scrittura autobiografica cui si è già detto, si pensi al lavoro di Gianni Rodari, spunto di moltissime esperienze di narrazione (Mattia, 2011), ma anche al pensiero di Bruno Munari e alle pratiche didattiche da questo derivate (Restelli, 2008).
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Torniamo, in realtà, a quanto detto sopra: il processo di scrittura rivela quanto le storie altrui ci riportino alla nostra storia, e quanto tutto questo abbia un peso sociale. Si pensi all’esperienza dei laboratori di Elisabeth Bing (Bing, 1977), ove l’alfabetizzazione diveniva occasione di lavoro sul proprio ruolo nella società. La lettura delle storie degli altri ci consente di scoprire nuovi mondi, apre finestre sul territorio che non avevamo mai visto, ci aiuta a vedere ciò che non conosciamo. Le pratiche narrative richiedono, infine, approcci didattici che investano sulla capacità del pensiero di raccontarsi per pensare se stesso, di riflettere come rispecchiamento dell’immagine del proprio pensare per farne oggetto di lavoro. Ma sono anche quelle didattiche che invitano a guardare con occhi curiosi il mondo, a imparare ad ascoltare e a comprendere gli altri, così come se stessi. Perché, se pensiamo all’apprendimento come a un processo creativo, il primo oggetto da indagare è proprio il pensiero stesso; scrivere per pensare e raccontare il proprio pensiero è un passaggio importante nel processo d’apprendimento: come funziona la nostra mente? Quale il processo di costruzione del sapere che riteniamo più rispondente alle nostre specificità? Si tratta di quesiti che possono sostenere il percorso di studio del soggetto e la costruzione di una propria strategia d’apprendimento, che le pratiche narrative possono rinforzare e sostenere.
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V. EDUCATORI E INSEGNANTI ESPERTI DELLA NARRAZIONE
Concludiamo la nostra riflessione con alcune considerazioni sul percorso formativo pensato per preparare educatori e insegnanti a riconoscere nelle pratiche narrative risorse consapevoli. È ormai riconosciuto il valore della scrittura impiegata in processi formativi, sia essa una scrittura autobiografica (Formenti, 1998; Rossetti, 2010), sia intesa quale prassi riflessiva di ricerca (Mortari, 2004), sia esperienza di esplicitazione del proprio agire professionale (Canevaro, Chiantera, Cocever e Perticari, 2005; Cocever, 2010). Quando simili esperienze mirano a formare educatori e insegnanti capaci di fare ricorso alle pratiche narrative nella propria riflessione v’è, però, un aspetto fondamentale cui prestare attenzione. Non è corretto, infatti, chiedere a qualcuno di raccontare o scrivere la propria storia se non si è provato sulla propria pelle cosa accade quando inizia il racconto di sé (Demetrio, 2008). Le implicazioni personali delle pratiche autobiografiche non si possono apprendere in teoria: è qualcosa di cui bisogna fare esperienza1. Così come il terapeuta ha nel proprio percorso formativo la terapia, similmente la formazione di educatori e insegnanti esperti nella narrazione non può che essere la narrazione stessa. Essere chiamati a pensare in termini narrativi, a documentare il proprio processo formativo, a scrivere e a raccontare di sé è ciò che maggiormente aiuta a saper poi fare ricorso a tali competenze allorquando si è chiamati ad agirle nella professione.
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Si pensa, in questo caso, soprattutto all’esperienza della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (www.lua.it), che rende obbligatorio, soprattutto per coloro i quali vogliano utilizzare le pratiche autobiografiche nelle proprie professioni educative e di cura, un percorso propedeutico di stesura della propria autobiografia.
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Vorremmo, a questo punto, portare l’esperienza del corso di Teorie e Pratiche della Narrazione2, all’interno del percorso di formazione universitaria per consulenti pedagogici, filosofici e coordinatori dei servizi. Il corso, che ha l’approccio narrativo come riferimento epistemologico e per oggetto le pratiche narrative come risorsa per le funzioni di consulenza e coordinamento nei servizi educativi, prevede che gli studenti, per accedere alla prova finale, si cimentino nella stesura della propria autobiografia. Durante il corso vengono offerte occasioni laboratoriali di sperimentazione della scrittura di sé, in differenti declinazioni, e nella biliografia del programma sono segnalati testi utili a comprendere e approfondire la cornice teorica che sostiene le prassi proposte. Tuttavia, non vengono fornite indicazioni specifiche per la stesura del testo, che si vuole sia il prodotto di un percorso individuale di confronto con la propria storia e con la sua realizzazione in testo. Inoltre, il patto formativo con gli studenti è che ad essere oggetto del momento valutativo sia il confronto in merito al processo di costruzione (il “come è andata”), e la sua integrazione con l'orizzonte teoretico, non il testo, che può anche non essere consegnato alla lettura del docente.Obiettivo della richiesta è, infatti, quello di far provare in prima persona cosa accade quando ci si trova obbligatoriamente di fronte alla propria storia e alla richiesta di narrarla in un contesto formativo; un po’ ciò che accade, con le dovute proporzioni, ad uno studente invitato a scrivere un testo personale, o ad un educando chiamato a raccontarsi in un servizio. Le ragioni di questa richiesta sono diverse. Da un lato, certamente, si vuole offrire ai futuri consulenti (ma varrebbe lo stesso anche per educatori e docenti) l’occasione di toccare con mano la fatica insita nel raccontare agli altri di sé, soprattutto quando ci si trova in una relazione inevitabilmente asimmetrica come quella fra professore e studente (sebbene, in questo caso,venga garantita, come si è detto, la possibilità di non condividere la storia con il docente, possibilità che non è sempre data in altri contesti educativi in cui ci si trova a dover raccontare di sé). Dall’altro, il processo autobiografico obbliga a scandagliare anche le proprie motivazio2
Si fa qui riferimento all’insegnamento, di cui titolare è il prof. Duccio Demetrio, afferente al Corso di Laurea Magistrale in Scienze Pedagogiche, presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
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ni alla scelta professionale, la rivisitazione del processo formativo che li vede coinvolti, verso la costruzione – all’interno dello stesso processo formativo – di un pensiero critico che possa poi divenire prassi consolidata quando entreranno nel mondo del lavoro. In questo modo, l’esperienza di narrazione può accompagnare a riconoscere le risorse espresse e da esprimere ancora nella propria storia. Ancora una volta, ciò di cui stiamo parlando altro non è che un approccio al percorso formativo capace di stimolare un’attitudine alla narrazione e di investire sull’intreccio di storie che l’educazione porta con sé. Perché, come si è visto per i piccoli, la possibilità di formarsi in un contesto narrativo è l’elemento principale all’acquisizione delle successive competenze professionali in tale ambito: le storie chiamano altre storie, senza bisogno di nulla in più. E dunque, ora tocca entrare nel merito dell’agire professionale, per comprendere meglio come tale atteggiamento possa tradursi in competenza professionale, dove cioè la narrazione si trasforma in professionalità educativa. Due sono le dimensioni che vorremmo qui prendere in considerazione: documentazione e progettualità. 1. Narrare per documentare Come si è già detto, il lavoro educativo è un lavoro che si colloca soprattutto nel fare. Ha i tempi della vita e del pensiero insieme. La scrittura, per suo conto, esige tempi diversi, anzi: esige una sosta al di fuori del tempo, per ripercorrere la vita e fermare sulla carta quei pensieri che si ritiene importante preservare, per conservarli o per comunicarli e condividerli con altri. Proprio per questo, l’attività di documentazione (che vede nella scrittura la principale risorsa, seppur non l’unica) è quella pratica che fatica a trovare spazio dentro alle routine degli educatori: sembra sottrarre tempo al lavoro stesso, e così si rimanda, salvo poi trovarsi a colmare le lacune quando le scadenze istituzionali si fanno impellenti. Inoltre, per le ragioni che abbiamo visto in apertura del presente capitolo, l’intervento educativo è complesso da dire, l’accadere dell’educazione sembra a volte impossibile da sintetizzare e da raccontare. A nostro avviso, però, la narrazione può rivelarsi un’alleata per la
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documentazione pedagogica, mostrandone al contempo la fondamentale funzione professionale. La prima funzione è rendere comprensibile all’esterno ciò che accade all’interno dei servizi, e questo mette in luce la difficoltà di tradurre un processo complesso come quello educativo, che si svolge lentamente nel tempo e che affida la propria missione a micro-cambiamenti, micro-passaggi, che difficilmente riescono a essere visti se non raccontati. Sono quei gesti che hanno bisogno di essere riportati dentro alla storia per assumere significato. Abbiamo discusso in precedenza del rapporto fra tempo della crescita e tempo della storia; proviamo ora a riprendere quella riflessione e a rileggerla per sostenere questo nostro approfondimento sulla documentazione e per farlo partiamo da un esempio. Un bambino va a sedersi vicino al gruppetto di bambini che stanno giocando insieme. Un movimento che, di per sé, non ci dice nulla, sta nella quotidianità delle cose. Eppure, quel movimento può essere segnale di un cambiamento in corso, può essere gesto tanto atteso da chi si occupa di quel bambino. Soltanto riportato all’interno della sua storia, magari delle sue fatiche e delle sue paure nel condividere con i pari piccole esperienze, riusciamo a dare a quel movimento spontaneo il valore di un risultato atteso. Ecco, l’educazione è fatta di passi che hanno bisogno di essere raccontati per essere compresi, altrimenti rischiamo di perdere di vista il processo. Come in un ricamo, fatto da piccoli nodi che si possono vedere soltanto sul retro del lavoro, ciascuno dei quali è portatore di un senso invisibile al di fuori della tela, così i passaggi educativi hanno bisogno di essere connessi alla trama della storia per essere visibili. In questo senso, la documentazione ha la funzione di rendere comunicabile e comprensibile all’esterno ciò che accade nel servizio, e per farlo non può che raccontarsi, riportando ogni nodo dentro la trama del progetto educativo, per rendere evidente un lavoro che, altrimenti, rischia di non essere colto. È questo un punto cruciale del lavoro educativo: diffondendosi nella quotidianità, diluendosi nel tempo della storia, esso rischia di risultare inaccessible a chi vi si accosta soltanto per un breve momento. Tutto ciò è strettamente connesso alla scelta del linguaggio. Ricorda Paolo Jedlowski nella sua riflessione sulle Storie comuni, “Raccontare è fare uso di un linguaggio: dipende dunque da ciò
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che può essere rappresentato da quel linguaggio e da come si sceglie di farlo” (Jedlowski, 2000, p. 31). Molti sono i linguaggi tramite i quali i servizi sono invitati o obbligati a documentare; si tratta di codici che rimandano alla sfera economica, a quella amministrativa, a quella sanitaria, a quella giuridica anche. Ma qual è il linguaggio che può rappresentare l’educazione? A nostro avviso, non può che essere un linguaggio che racconta: non può che essere una documentazione narrativa, capace di intrecciare e contenere linguaggi altri senza smarrire il proprio. E non stiamo parlando soltanto di scrittura: anche l’utilizzo delle fotografie, così come del video – che già vediamo diffusamente utilizzato soprattutto nelle scuole dell’infanzia e nelle scuole primarie – è narrativo, vuole raccontare ciò che è accaduto durante le giornate. Si tratta, allora, di capire il valore della documentazione per quel servizio, il senso che si sceglie di riconoscerle. La seconda funzione assunta dalla documentazione è, poi, quella di tenere memoria. La storia dei servizi è spesso una storia di turn over, di avvicendamenti fra operatori e fra referenti istituzionali, di cambiamenti organizzativi dovuti all’adeguamento degli stessi a parametri esterni. Questo rende il passaggio di consegne fra una generazione di professionisti e l’altra qualcosa di molto delicato, perché non si tratta soltanto di tramandare il saper fare, ma soprattutto di tramandare i significati che quel saper fare assumono nella specificità di quel contesto: la cultura del servizio. Documentare la storia del servizio significa mantenere traccia del processo di costruzione della cultura del servizio: i documenti, anche quelli di carattere più burocratico, forniscono il racconto della sua storia e dei modelli educativi che l’hanno caratterizzato. Rileggendoli troviamo la relazione del servizio con l’esterno, le ragioni della sua fondazione e gli obiettivi che persegue nella sua realizzazione quotidiana. In questi termini, documentare significa trovare per il servizio un modo per raccontarsi che sappia accordare la parte procedurale (il fare quotidiano) con la parte di significati obiettivi, modelli e presupposti, punti di partenza e traguardi raggiunti. La terza funzione della documentazione è, infine, connessa al suo ruolo progettuale: qualsiasi documentazione, per poter raccontare l’accadere, deve essere in stretto contatto con l’accadere stesso. Detto in altri termini, non può essere predisposta ex post,
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ma deve diventare parte fondamentale del progetto educativo. Non si tratta di un aspetto di secondo conto: spesso non si pensa al valore formativo e fondativo della documentazione, sia quando pensata per rendere visibile all’esterno il lavoro educativo, sia quando voluta per operare e costruire quello stesso lavoro. Tenere memoria del proprio operare significa, infatti, rendere ciò che si fa oggetto di lavoro, in una chiave metacognitiva che rende giustizia alla fatica riflessiva del lavoro educativo. E queste considerazioni ci accompagnano alla successiva – e conclusiva – radura del presente contributo: le pratiche narrative per progettare l’intervento educativo. 2. Narrare per progettare La dimensione progettuale è “direzione intenzionale originaria”, per dirla con Bertolini (1988). È un percorso fondamentale di individuazione del senso di quei gesti e di quelle parole che, come si è detto in apertura,sonocostitutive del percorso educativo. Cosa significa, allora, narrare per progettare? A nostro avviso, significa pensare all’intervento educativo come a una storia e all’educatore che lo va progettando come al suo sceneggiatore. Vorremmo dire allo scrittore, ma allora in questo caso ci riferiremo aun romanziere che poco controllo ha sulla sorte dei suoi personaggi, che anzi rischia di restare irretito nella loro trama, come Gustave Flaubert e la sua Madame Bovary, quando non di arrivare a scelte estreme per poterne uscire (e qui, pur consapevoli dell’azzardo di accostare gli autori citati, viene in mente Agatha Christie che fa morire il suo Hercule Poirot, presenza ormai troppo pesante per lei). Insomma, non a un narratore onnisciente che tutto crea e distrugge, ma ad uno scrittore che può soltanto imbastire il canovaccio, perché ciò che accadrà in scena nessuno può saperlo a priori. Il pensiero della storia, però, riporta chi ha un ruolo educativo alla responsabilità della propria professione: pur consapevole dell’impossibilità di tenere tutto sotto controllo, è fondamentale non lasciare tutto al caso. Avere chiaro il proprio ruolo, da condividere con coloro i quali saranno co-protagonisti dell’intervento, sapere quali sono i vincoli e le risorse del contesto in cui si andrà a
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lavorare. Conoscere i personaggi della nostra storia e le scenografie che avremo a disposizione. Insomma, se l’obiettivo di un intervento educativo è aspetto fondamentale e prioritario, lo è ancor prima conoscere gli elementi della storia, assumere la postura curiosa di chi si guarda intorno, prima di stabilire dove tale percorso dovrà o potrà arrivare. Perché poi ad agire non saremo soli, perché il futuro non è prevedibile. Il progetto, allora, è la trama di quella storia che tentiamo di costruire, pur consapevoli del fatto che la storia vera e propria potremo soltanto viverla man mano. E non è cosa da poco. Se pensiamo alla realtà dei servizi, infatti, spesso ci troviamo di fronte ad esigenze istituzionali che non tengono conto dei tempi incerti e in divenire dell’esperienza, e che obbligano ad una definizione della destinazione prima ancora di aver realmente conosciuto il nostro viaggiatore, prima ancora di aver accertato la natura del percorso. Questo incide non solo formalmente, ma sostanzialmente sulla natura del nostro intervento, allorquando è proprio sulla base di tale progettazione che andiamo poi valutando il nostro intervento. Se l’intervento educativo è, infatti, pensato come storia, chi mai potrà valutarlo? Quali sono i criteri sulla base dei quali verrà stabilita l’efficacia e l’efficienza del nostro intervento? E chi sarà chiamato a farlo? Qui ritorniamo a quanto detto sopra in merito alla documentazione: pensare alla progettazione della storia significa, infatti, preoccuparsi di come restituire il processo, di come rendere raccontabile il percorso, affinché sia comprensibile da chi lo guarderà senza prendervi parte. La dimensione progettuale riguarda, allora, l’esplicitazione dei criteri di valutazione del processo e, anche, le modalità individuate per documentare il percorso. Per prevedere, laddove possibile, che anche l’altro possa documentare il suo processo, e soprattutto raccontarlo a noi. Una progettualità da condividere, perché il racconto finale sia polifonico, e possa restituire la trama delle relazioni, l’intreccio delle voci. 3. Un finale tutto da scrivere Al centro di ogni intervento educativo, dal nostro punto di vista, ci sono, così, vite che abbiamo bisogno di pensare come storie, per poterne immaginare il futuro e sperare, perché non ammetterlo,
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in un lieto fine. Certo la parola speranza evoca una serie di riferimenti morali e valoriali tali da far sentire quasi a disagio, nell’accostarla al tema educativo. Noi qui, però, facciamo riferimento ad una speranza “saggia”, vale a dire consapevole delle proprie risorse e dei propri limiti, capace di tramutarsi in possibilità. Tutto ciò ha molto a che fare col desiderio, il quale, per sua natura, è ciò che aiuta a immaginare. La speranza è, allora, saggia quando aiuta a confrontare il desiderio con il reale, a tramutare l’immaginazione in creatività, per aprirsi a ciò che ancora non si conosce. A noi pare che è in questa direzione che l’educare a narrare si muove, al di là da ogni pratica: è la possibilità di pensare a intrecci inaspettati, la capacità di uno sguardo che comprende, abbraccia, le storie altrui. La volontà di raccontare un finale che si sta ancora vivendo. Bibliografia Barone, P. (2009), Pedagogia dell’adolescenza, Milano, Guerini e Associati. Bertolini, P. (1988), L’esistere pedagogico: Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Firenze, La Nuova Italia. Bettelheim, B. (2000), Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici della fiaba, Milano, Feltrinelli. Biffi, E. (2006), Possibilità, in P. Bertolini (a cura di), Per un lessico di pedagogia fenomenologica, Trento, Erickson. Biffi, E. (2010a), Educatori di storie.L’intervento educativo fra narrazione, storia di vita e autobiografia, Milano, FrancoAngeli. Biffi, E. (2010b), Scritture adolescenti. Esperienze di scrittura nella scuola secondaria, Trento, Erickson. Biffi, E. (2010c). Giovani, lettura e altre trasgressioni. In Pedagogia oggi (2). Bing, E. (1977)…Ho nuotato fino alla riga. I bambini alla conquista della scrittura, Milano, Feltrinelli. Bruner, J. (1992), La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Torino, Bollati Boringhieri. Canevaro, A., Chiantera A., Cocever E., Perticari P. (a cura di) (2005), Scrivere di educazione, Roma, Carocci. Cocever, E. (a cura di) (2010), Scrittura e formazione. Le parole come mediatori efficaci nelle professioni educative, Trento, Erickson. Confalonieri, E., Scaratti, G. (a cura di) (2000), Storie di crescita. Approccio narrativo e costruzione del Sé in adolescenza, Unicopli, Milano. Dallari, M. (2010), Creatività e scritture altre, in Biffi, E. (2010), Scrivere altrimenti. Luoghi e spazi della creatività narrativa, Milano, Stripes Edizioni.
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Educare è narrare
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L
Parte terza
di Micaela Castiglioni
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I. ETÀ ADULTA, NARRAZIONE, MALATTIA
Una malattia clinicamente importante o grave come può essere quella oncologica, o degenerativa, o anche destinata a cronicizzarsi, quando compare per la prima volta nella vita di una donna o di un uomo adulti, irrompe improvvisamente, proprio quando meno ce l’aspettiamo. Essa pertanto mette a dura prova l’equilibrio personale, famigliare e professionale raggiunto fino a quel momento, introduce una parentesi dolorosa più o meno lunga, o una vera e propria frattura nella propria storia di vita, sia reale sia così com’è percepita e vissuta soggettivamente (Bert, 2007; Bonino, 2006; Good, 2006; Zannini, 2008). Tale rottura sperimentata da chi si trova in una condizione di malattia può generare un vissuto d’incredulità. Ci si sente spiazzati e spaventati, quasi estranei a se stessi. È abbastanza comune a tutti noi, l’idea sicuramente non razionale, che certe patologie non ci toccheranno, esse colpiranno altri. Abbiamo a che fare con una strategia di difesa, più o meno consapevole, finché non arriva quel giorno in cui si è costretti a modificare la prospettiva. È in questo momento, fin dagli esordi della diagnosi, che si viene a creare una sorta di dolorosa e, soprattutto all’inizio, ingiusta, inconcepibile e inaccettabile linea di demarcazione più o meno profonda e temporalmente protratta, tra il “tempo-prima-della-malattia” e il “tempo-successivo-alla-malattia” (Bert, 2007; Bonino, 2006). Uno “scarto autobiografico”, che può essere molto doloroso da attraversare, vivere e superare, laddove sia anche oggettivamente possibile, che in quanto tale richiede un profondo e costante impegno, e una notevole forza e motivazione interiore, da parte di chi sta male e soffre: la voglia di farcela e contemporaneamente la percezione di potercela fare (Bonino, 2006.)1. 1
Le dinamiche attivate mettono in gioco gli atteggiamenti propri dei pro-
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Scrive Silvia Bonino a proposito della malattia cronica nel testo autobiografico Mille fili mi legano qui. Vivere la malattia La malattia rappresenta una cesura grave, perché dopo la diagnosi tutto sarà diverso: (…) il futuro si prospetta incerto e sfavorevole, (…) ogni giorno porterà delle difficoltà. La malattia sconvolge tutti i piani concreti che la persona aveva costruito per il lavoro, la famiglia, gli affetti. Ancor più stravolge la fiducia ottimistica che nutriamo nel futuro, così come la nostra visione del mondo e le attese nei confronti della vita. Per questo, (…) essa viene spesso vissuta come un’ingiustizia (…) (2006, p.83).
Ciononostante, e proprio muovendosi da questa situazione di sofferenza, qualsiasi tipo e margine di risorse e di strategie personali è chiamato in causa dal paziente, e messo alla prova, per fronteggiare evolutivamente l’evento-malattia e il percorso terapeutico che a esso fa seguito, non poche volte, dagli effetti collaterali invasivi e pesanti da sopportare. 1. L’agenda di chi soffre Dentro questa situazione esistenziale l’organizzazione della vita quotidiana improvvisamente cambia: l’”agenda”2, che fino a ieri conteneva impegni di lavoro, appuntamenti per attività o incombenze che riguardano i figli, o i famigliari, così come brevi note per ricordarsi gli spazi di tempo libero, ecc., incomincia a ospitare in maniera massiccia -almeno nei primi periodi dell’esperienza di malattia- appuntamenti con medici e specialisti,
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cessi di resilienza e di self-empowerment, su cui si sofferma anche Bonino, (2006), e per il cui approfondimento si rimanda al contributo di B.Cyrulnik, E.Malaguti, (2005). Il concetto di agenda del paziente, ripreso da più autori, quali G.Bert (2007); V.Masini (2005); Moja, Vegni (2000); L.Zannini (2008), per citarne soltanto alcuni, è proprio di Rita Charon. Con esso s’intende l’attenzione del medico per il “contesto” di vita e professionale in cui è inserito il paziente, per i suoi “vissuti” relativi all’esperienza di malattia, per le sue “aspettative” riguardanti il progetto di cura e le terapie (cfr., in particolare, L.Zannini, 2008, p.48). Qui, è usato secondo un significato solo in parte simile.
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per visite di controllo, esami diagnostici, terapie ospedaliere, o in day-hospital, giornaliere o ravvicinate, dagli intervalli regolari che tuttavia secondo le reazioni fisiche del paziente possono saltare anche più volte, richiedendo a chi sta male di contenere e gestire l’ansia, di far fronte agli effetti collaterali delle cure e di sopportare con pazienza e in modo collaborativo gli imprevisti, di fatto clinicamente abbastanza prevedibili nella loro modalità di manifestazione e nel loro successivo andamento. L’agenda, metafora dello scorrere della vita, richiede di essere quasi costantemente ri-organizzata, e il paziente può avere la sensazione che la propria vita sfugga al suo controllo (Bonino, 2006). È facile che in tale situazione egli si percepisca in balia degli eventi: la sua vita è come un puzzle i cui pezzi, una volta connessi l’uno con l’altro, vanno ri-connessi. È necessario pertanto venire progressivamente a patti con la malattia, con le cure e con se stessi, cercando a fatica e con oscillazioni emotive di trovare un senso per tutto ciò, e soprattutto, per sé (Bert, 2007; Bertolini, 1994; Bonino, 2006; Giani, 2009; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008). Il paziente piano piano riesce allora con maggiore disponibilità interiore, a introdurre questo capitolo della storia della propria vita più o meno lungo o doloroso, in questa stessa storia per conferirle, se anche l’andamento della malattia lo consente, una rinnovata continuità progettuale (Bert, 2007; Bonino, 2006; Giani, 2009; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Pennebaker, 2004; Solano, 2007; Zannini, 2008). Ci ricorda Silvia Bonino La ricerca di un adattamento perfetto e senza sbavature appare disumana, se solo pensiamo alla natura limitata dell’essere umano. (…) Le perdite gravi sono come ferite che fanno parte di noi, con cui dobbiamo imparare a vivere e dalla cui presenza trarre ragioni di crescita, anche se talvolta queste ferite possono riaprirsi, far male e sanguinare ancora (ibidem, p.69).
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2. Atteggiamenti e strategie di resilienza Messo a confronto con una malattia importante il paziente è obbligato a ri-costruire l’immagine che ha di sé e il punto di vista sulla personale vicenda di vita, inserendo in questa rappresentazione e narrazione interiorizzata, del tutto personale e intima, anche, ma non solo, l’esperienza di malattia (Bert, 2007; Zannini, 2008), per non percepirsi unicamente e del tutto defraudato o tradito dalla vita, mancante di… . Anzi, la versione narrata a se stessi della malattia, pur mantenendo inevitabilmente l’ancoraggio con i dati di realtà di tipo clinico, se è una narrazione che solleva e genera spiragli di “apertura” -in ciò, tenendo conto ovviamente di una prognosi abbastanza rassicurante- può aiutare il paziente a costruire da sé e dentro di sé, un fattore protettivo cui attingere in quei momenti in cui prevalgono la sfiducia, lo scoraggiamento, la paura, ecc.,.3 È fondamentale per continuare ad andare avanti in modo attivo e reattivo, dandosi un progetto di vita qualunque esso sia, costruire da sé, e al tempo stesso con l’aiuto di coloro che ci circondano e di cui ci fidiamo4 -e se necessario anche con il supporto di professionistiun “ponte” tra passato-presente-futuro (Bert, 2007; Good, 2006; Zannini, 2008), che permetta non solo di affrontare la malattia ma in alcune situazioni di continuare a investire nelle proprie occupazioni di vario tipo, nei propri interessi, nelle relazioni sociali, in sé, e nella vita5. Ciò, trova conferma nella riflessione di Bonino, laddove, scrive “L’importante è che ognuno trovi delle ragioni valide per cui valga la pena di vivere la propria vita, nonostante la malattia, anzi proprio all’interno di quei precisi limiti che la malattia impone, ma anche di quelle possibilità, talvolta davvero minime, 3
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Abbiamo a che fare con una dimensione e con possibilità intrinseche alla narrazione (cfr., P.M.Bellini, 2000), e pertanto riferibili anche alla narrazione di tipo clinico. In quest’ottica, ci poniamo in continuità con la prospettiva degli autori già citati, quali G.Bert (2007); S.Bonino (2006); U. Giani (a cura di), 2009; J.Good (2006); V.Masini, (2005); E.Moja, E.Vegni, (2000); J.Pennebaker (2004); Solano, (2007); L.Zannini, (2008). La narrazione così intesa costituisce un fattore che promuove atteggiamenti di resilienza e di adattamento attivo in situazioni di sofferenza e di trauma (B.Cyrulnik, E.Malaguti, 2005. Cfr., inoltre, per il riferimento più specifico alla pratica di scrittura L.Zannini, (2008), in cui si parla di coping positivo). Cfr., la nota n.1. Si veda la precedente nota.
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che consente. Solo in questo modo si possono trovare delle mete degne di investimento e di impegno” (ibidem, p.29). La malattia richiede pertanto all’adulto che sta male di apprendere e di mettere in atto atteggiamenti e strategie resilienti, secondo una graduale processualità, che come tali, permettano di far fronte alle difficoltà, non tanto, e non solo, nei termini di una faticosa e subita sopravvivenza, ma nel senso e nella direzione di un ulteriore sviluppo e di un rafforzamento di sé e del sé, sebbene a volte con margini contenuti di possibilità (Cyrulnik, Malaguti, 2005; Bonino, 2006). A tal proposito, possiamo considerare la disponibilità/competenza narrativa e la pratica di scrittura, nell’accezione che di seguito mostreremo, come possibile strategia di resilienza in quelle fasi della vita adulta contrassegnate da dolore, sofferenza e fragilità esistenziale6. L’atto del narrare e il gesto di scrittura slittano allora facilmente in un’azione di coping adattivo attivo7 che può potenziare consapevoli posizionamenti “resistenti” di fronte alle difficoltà e alle ferite inferte dalla vita. Sicuramente non è facile e immediato lo sviluppo o il potenziamento di strategie resilienti o di coping, soprattutto nelle prime fasi della diagnosi di una malattia importante, a meno ché non si annoverino tra queste, il “continuo fare”, per portare avanti le terapie, un fare inevitabile, che nei primi momenti, può aiutare il paziente a non pensare, ad avere una consapevolezza chiaroscurale della propria situazione. La messa a fuoco dell’entità del problema richiede tempo, disposizione e capacità interiori, dentro un processo che può anche essere molto lungo e lento. È solo grazie a questo percorso che il paziente può costruire una maggiore sicurezza dentro di sé, che è altra cosa dalle sicurezze fornite dalle
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Per un approfondimento del concetto di resilienza si rimanda al testo di B.Cyrulnik, E.Malaguti, (2005). Ci limitiamo a far presente soltanto come si tratti di un termine che deriva dalla metallurgia e con il quale s’intende la “resistenza” e il “ripristino della forma precedente” da parte di un “metallo che è colpito in modo forte”: una “forma che ingloba dentro di sé, l’urto ricevuto”. Cfr. nota n.3. Sottile è il distinguo tra “strategie” di “resilienza” e di “coping”, con le quali ultime, in ambito psicologico e psicoterapeutico, ci si riferisce alla costruzione e alla messa in atto di comportamenti adattivi, non supini, in circostanze di difficoltà. Si veda sempre il contributo di B.Cyrulnik, E.Malaguti, (2005). Cfr. nota n. 3.
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tecniche e dalle procedure mediche, che ovviamente sono indispensabili e che oggigiorno sono sempre più raffinate ed efficaci. 3. Quando il mondo sembra estraneo All’inizio di una malattia impegnativa per diagnosi, terapie e prognosi, il paziente il più delle volte ha l’impressione che il mondo esterno gli sia estraneo, non gli appartenga più. È come se lo vedesse passare, scorrere davanti, alla stregua di un passeggero di un treno in corsa, con il volto rivolto al finestrino, spettatore di una vita, che appartiene ad altri. Si è schiacciati “su” e “da” un presente crudele e da un altrettanto passato, ora isola felice, che percepito come tale, non può che aumentare il dolore per qualcosa che si è perso, e che molto probabilmente, chi soffre, può sentire con maggiore intensità: qualcosa è cambiato, perfino finito ingiustamente, e la risposta ai ripetuti “perché proprio a me ?”, “perché adesso ?”, “che cosa ho fatto di male ?” (Bert, 2007; Bonino, 2006), il paziente stesso, razionalmente sa che non c’è: è la vita, l’ineluttabilità muta del dolore che ci tocca nelle sue varie forme fisiche e dell’anima. In questa situazione di sofferenza, il quotidiano orizzonte di vita del paziente si restringe Per molti pazienti, le attività mediche vengono a dominare l’esistenza, sostituendosi alle loro interazioni sociali normali, plasmando sempre più la loro esistenza, sul mondo delle cliniche e delle terapie, dei test e delle cure, estraniandoli sempre più dalle relazioni sociali e dai progetti che un tempo erano centrali nella loro vita. Per chi soffre di dolore, questo senso di estraneità dagli altri è spesso particolarmente acuto (Good, 2006, p.192).
A ciò, si aggiunga che sempre nelle prime fasi della malattia, la comunicazione con coloro che fanno parte della cerchia familiare, e/o amicale, tende spesso a ruotare attorno a questa esperienza dolorosa, come se ogni attività intrapresa fosse filtrata dalla malattia: “L’oggettivazione verbale, la comunicazione della propria esperienza agli altri, e quindi l’estensione del sé verso il mondo, tendono sempre più a limitarsi all’esperienza del dolore” (ibidem, p.193). Ciò, se da una parte può far correre il rischio al paziente
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di far coincidere sé, la propria identità e la propria storia con la malattia, come del resto, rileva Bonino: “Vi è il rischio che la persona finisca per considerare come appropriata a sé solo l’identità di malato, vale a dire quella di una persona ritenuta socialmente improduttiva e inutile.” (2006, p.33); dall’altra, può corrispondere a diversi bisogni interiori: di rassicurazione, sostegno, comprensione e accettazione. 4. La propria esperienza di malattia narrata L’”esternalizzazione” della “vicenda di malattia” tramite il racconto (Bert, 2007) -non necessariamente soltanto, in forma scritta- sia a se stesso, tra sé e sé, sia a coloro che il paziente considera i personali punti di riferimento emotivamente significativi, può costituire un aiuto lungo il possibile percorso di ri-elaborazione, risignificazione e interiorizzazione bonificata dei vissuti di malattia (Bert, 2007; Giani, 2009; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Solano, 2007; Zannini, 2008). Essa può essere vista, nominata, l’esperienza interiore che se ne fa, non solo può essere condivisa e a volte messa a confronto con le vicende dolorose e di ripresa degli altri, ma può essere anche parzialmente tras-formata perché ri-pensata in forma meno minacciosa, e detta, quindi, con parole e aggettivi più realisticamente congrui e più accettabili emotivamente in quanto aperti a più possibilità e soluzioni (Bert, 2007; Giani, 2009; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Solano, 2007; Zannini, 2008), e perché connessa con altre esperienze di vita e con altri vissuti, anche attuali, che rimandano a un’immagine di sé, in un certo senso, “più piena”, di maggiore autoefficacia e più capace di gestire e tenere sotto controllo, sebbene oscillante, ma non rimovente, la situazione in cui si è coinvolti8. Un’altra, e diversa narrazione della vicenda di malattia può iniziare a essere tratteggiata (Bert, 2007; Giani, 2009; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Solano, 2007; Zannini, 2008). 8
Secondo uno stretto nesso tra narrazione, pratica di scrittura della malattia e fasi del processo di costruzione di risposte resilienti e di posture di self-empowerment (cfr., S.Bonino, 2006; B.Cyrulnik, E.Malaguti, 2005, L.Zannini, 2008).
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Ci ricorda, a tal proposito, Bonino L’emozione comunicata a parole non è la stessa emozione che non ha ancora trovato termini adatti per essere espressa. È un’esperienza che tutti abbiamo fatto quando siamo stati preda di emozioni molto forti: nel momento in cui siamo riusciti a tradurre in parole quel nodo che ci stringeva la gola e ci torceva lo stomaco -e sovente è stato difficilissimo-, il nostro stato d’animo è stato diverso. Non è indispensabile parlarne con qualcuno, benché questo possa essere di grande aiuto. Anche parlare a noi stessi, riuscire a balbettare tra sé e sé, permette di dare forma alle sensazioni sconvolgenti che proviamo, a farle uscire dal buio di un’esperienza confusa e soltanto fisica per farle approdare alla conoscenza del pensiero (…). Attraverso il linguaggio interiore (…) la nostra esperienza emotiva si plasma, prende forma, può essere trasformata (…). Attraverso la parola, le emozioni –da esperienza prevalentemente fisica- diventano simboliche, e sui simboli la nostra mente può lavorare, da sola o insieme agli altri (…). Possiamo così scoprire di essere tristi ma non disperati, smarriti ma non sfiduciati, determinati nel vivere nonostante la malattia, ma allo stesso tempo malinconici per ciò che abbiamo perduto (2006, pp.64-65).
Se, il paziente non percorre le tappe di questo viaggio, c’è il rischio che ”Il dolore, la paura, la sfiducia, la rassegnazione, prevarichino sullo spazio e sul tempo, e il mondo interiore non solo perde la sua relazione con il mondo in cui gli altri vivono, ma le sue stesse dimensioni costruttive iniziano a crollare. Il dolore minaccia di distruggere il mondo, e di conseguenza di sconvolgere il sé” (Good, 2006, pp.194). 5. Il tempo di chi è malato Se nelle fasi iniziali e centrali della malattia e delle terapie: ”Il tempo collassa. Passato e presente perdono la loro sequenza. Il dolore rallenta il tempo personale, e il tempo esterno accelera e viene perduto” (ivi), piano piano, chi si trova a sperimentare una situazione di sofferenza sente l’esigenza di rivalutare il tempo nella sua preziosità. Il mondo esterno, laddove sia possibile per l’andamento sostanzialmente positivo della malattia e per le risorse interiori
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attivate dal paziente, incomincia a ri-appartenergli in modo diverso, non necessariamente solo penalizzante; a volte, senza dubbio, sono necessari aggiustamenti di organizzazione della propria quotidianità e del proprio sé più intimo, capaci di ridare senso a sé, alla propria storia e alla vita (Bonino, 2006). Il tempo di vita occupato dalla malattia e dalle terapie può essere una sorta di tempo part-time, per reimmettersi progressivamente nel tempo-pieno della vita; esso non è deterministicamente soltanto il tempo della perdita. Pregnante e incisiva a tal riguardo, è la testimonianza sempre di Silvia Bonino nel testo già preso in considerazione L’accettazione della malattia come propria inevitabile realtà richiede tempo: è il risultato di un processo di maturazione dove rabbia e depressione sfumano, anche se spesso non scompaiono del tutto. (…). Non vi è alcuna ombra di passività in questa profonda accettazione della propria condizione di malattia come dato di realtà, ma la consapevolezza che solo a partire dal riconoscimento della propria condizione è possibile vederne limiti e vincoli, ma anche le opportunità (…). Nei confronti della malattia accade quel che avviene per le altre esperienze dolorose della vita. L’equilibrio raggiunto non è mai definitivo. Si impara così a convivere con dolori, ferite e perdite, sapendo che sono parte di noi e che in alcuni momenti potranno riattivarsi (2006, pp.24-25).
Lungo la faticosa ricostruzione di sé e della propria storia, il malato oncologico, cronico o affetto da patologie degenerative, invalidanti o inguaribili, non può essere lasciato solo. Sicuramente il supporto di familiari e amici costituisce una rete protettiva molto importante, dentro la quotidianità di vita trascorsa nella “normalità” della casa e delle proprie occupazioni giornaliere, lavorative o non, qualora queste siano mantenibili; ma c’è bisogno di un’ulteriore rete di sostegno, quella che coincide con l’organizzazione e la cultura ospedaliera, e con le modalità d’intervento e di cura degli operatori medico-sanitari. Scrive Good L’ospedale non è solo il luogo della costruzione e del trattamento del corpo medicalizzato, ma è anche il luogo di un dramma morale. Questo caso ci richiama alla mente la natura di quel dramma –dell’umana sofferenza e della paura, del confronto con la malattia e con la morte, sia del malato sia in chi deve prendersene cura, e
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degli sforzi per alleviare e gestire il dramma. Di certo, ciò che emerge qui è l’irruzione della dimensione fondamentalmente morale della malattia in questa sfera tecnica e tecnologica al tempo stesso (2006, p.132).
Lungo la direzione tratteggiata da Good ritroviamo il punto di vista, in parte analogo di Bonino, che tra l’altro, ci introduce alla proposta narrativa o meglio ancora, di “cura narrativo-(auto)biografica”, in ambito medico-sanitario Raccontare la propria malattia al medico, all’infermiera, ma anche ai propri familiari e amici e addirittura a sconosciuti, diventa un modo per ritrovare se stessi e le proprie possibilità di sviluppo. È un ambito per il quale c’è molto da fare nelle strutture sanitarie, i luoghi, in cui, tra corridoi, ambulatori e reparti, il malato cerca di trovare la risposta al suo bisogno di raccontarsi (…). Non è difficile né costoso organizzare gruppi di malati dedicati al racconto o stimolare nel malato l’elaborazione di una narrazione orale o scritta, quando è possibile. Là dove è stato fatto, i risultati sono stati molto buoni, perché il malato è stato aiutato a elaborare attraverso il racconto un’immagine positiva di sé, a ricostruire una nuova identità, a ritrovare un senso in ciò che gli accade (…) (2006, p.84).
6. Le variabili in gioco A essere chiamate in causa nel percorso-processo di malattia e di cura sono sostanzialmente alcune tra le questioni per noi di fondamentale importanza, che affronteremo nei successivi capitoli, collocandoci all’interno di una prospettiva medico sanitaria, di cura e di formazione -sempre riferita al contesto clinico- fermamente orientata a recuperare in modo sempre più urgente nello scenario attuale la matrice umanistica della cura, della relazione terapeutica e d’aiuto, della formazione rivolta ai professionisti medico-sanitari, e dei servizi stessi predisposti alla cura e alla terapia. Solo lungo questa direzione e in un’ottica sistemica -tra l’altro, coerente con il paradigma narrativo, qui assunto- crediamo si possa riguadagnare la complessità del “pensare” e dell’”agire” medico e terapeutico.
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Del resto, alcune importanti strutture ospedaliere non ché istituti a carattere scientifico dell’area milanese, che è quella limitrofa a chi scrive, si stanno muovendo, almeno parzialmente, nella direzione che proponiamo in questo capitolo del testo. Abbiamo presente nello specifico l’Unità Operativa di Radioterapia dell’Ospedale San Raffaele che alla fine delle terapie seguite dai pazienti rilascia loro un questionario anonimo contenente spazi per punti di vista e riflessioni di tipo “aperto” o “narrativo”, e che ha come intestazione “Questionario di Umanizzazione del Servizio”. Sicuramente nella nostra realtà sanitaria soprattutto in questa congiuntura storico-sociale ed economico-politica, molto c’è ancora da fare, ma crediamo in modo convinto che la “sfida” vada raccolta, se un medico-oncologo e scienziato quale Umberto Veronesi scrive nel suo recentissimo libro Il primo giorno SENZA CANCRO. Le battaglie che abbiamo vinto e quelle che vinceremo (…) ci vuole una carezza per guarire. Io l’ho imparato in sala operatoria. Delle decine di migliaia di donne che ho operato, non ho mai lasciato che nessuna si addormentasse sotto anestesia senza una carezza sul volto. Quando accetta di essere operato, un paziente si affida completamente al chirurgo, e io ho sempre creduto importante impegnarsi a trasmettere, anche soltanto con uno sguardo, la certezza che non solo questo chirurgo lo sta curando, ma che lo ha a cuore. (…). Il buon medico è capace di entrare non solo nel corpo, ma anche nella mente del paziente, e di condividere con lui il peso psicologico della malattia, senza perdere la lucidità che gli deriva dal suo sapere (2012, pp.60-61).
Ovviamente, come si è già sottolineato, è l’intera struttura ospedaliera che è chiamata a fare proprio un “progetto di cura” dalle radici “umanistiche”. ”Si ritiene che la medicina sia una scienza. Ma è una cosa diversa. È una disciplina che usa la scienza, ma ha anche una forte componente umanistica perché la sua funzione è porsi al servizio delle persone che soffrono”, afferma Marco Venturino, in un’intervista pubblicata su la Repubblica (settembre, 2012, p.19).
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II. IL CONTESTO MEDICO SANITARIO E LE PRATICHE DI SCRITTURA CON I PAZIENTI
1. Inizi autobiografici Dietro le tende di tela tarmata un chiarore latteo annuncia l’avvicinarsi del mattino. Ho male ai calcagni, la testa come un’incudine e una sorta di scafandro racchiude tutto il mio corpo. La mia camera esce dolcemente dalla penombra. Guardo in ogni particolare le foto di coloro che mi sono cari, i disegni dei bambini, i manifesti, il piccolo ciclista di latta che mi ha mandato un amico la vigilia della Parigi-Roubaix e la forca che sovrasta il letto dove sono incrostato come un paguro bernardo nella sua conchiglia. Non ho bisogno di molto tempo per sapere dove sono e per ricordarmi che la mia vita si è capovolta quel venerdì 8 dicembre dell’anno scorso. Fino ad allora non avevo mai sentito parlare del tronco cerebrale. Quel giorno invece ho scoperto tutta in una volta questa parte maestra del nostro computer di bordo, passaggio obbligato tra il cervello e le terminazioni nervose, nel momento in cui un incidente vascolare ha messo fuori uso il suddetto tronco. Un tempo si chiamava “congestione cerebrale” e molto più semplicemente se ne moriva. Il progresso delle tecniche di rianimazione ha reso più sofisticata la punizione. Se ne scampa ma accompagnati da quella che la medicina anglosassone ha giustamente battezzato locked-in syndrome: paralizzato dalla testa ai piedi, il paziente è bloccato all’interno di se stesso, con la mente intatta e i battiti della palpebra sinistra come unico mezzo di comunicazione. Ovviamente, il principale interessato è l’ultimo a essere messo al corrente di queste gratifiche (…). Lo scafandro si fa meno opprimente e il pensiero può vagabondare come una farfalla. C’è tanto da fare. Si può volare nello spazio e nel tempo, partire per la Terra del Fuoco o per la corte di re Mida. Si può fare visita alla donna amata, scivolarle vicino e accarezzarle il viso ancora addormentato (…), realizzare i sogni di bambino e le speranze di adulto. Fine delle divagazioni. Bisogna che inizi a comporre i diari di questo viaggio immobile, per essere pronto quando l’inviato del mio editore ver-
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rà a raccogliere il mio dettato, lettera per lettera (…) (Bauby, 2007, pp.7-9);
Jean-Dominique Bauby, famoso autore e redattore capo della rivista francese Elle, colpito da ictus e capace di comunicare con l’esterno e con gli altri esclusivamente attraverso il battito di ciglia di un solo occhio e tramite la scansione, la successione e l’articolazione delle lettere di un alfabeto concordato -esplicitato sempre tramite il battito della palpebra- sceglie di raccontare autobiograficamente il proprio improvviso dramma, durato sedici mesi, con leggera profondità non priva a tratti di una nota di umorismo adattivo/difensivo. Ne esce una testimonianza sicuramente toccante, dove c’è spazio per il dolore ma anche per l’attaccamento alla vita, comunque vada. Subito dopo la stesura del testo Jean-Dominique Bauby muore. Nicolò è malato. Va sul treno per poter guarire lontano da casa. Non sa cos’ha, ha solo perso i capelli ed è tutto liscio e rosa sulla testa che la gente lo guarda sempre troppo e pensa di sapere tutto di lui anche se non sa niente. Gli hanno detto che il posto dove va è bellissimo, che non c’è solo l’ospedale ma anche una casa fatta apposta per i bambini piena di giochi che è come se fossero suoi anche se sono di tutti quelli che sono lì (…);
Elena Loewental, studiosa di ebraistica e scrittrice, dopo aver trascorso un anno come volontaria dentro vari ospedali e diversi reparti di degenza, affida alla scrittura alcuni spaccati di malattia, di cura, di vita ospedaliera, di dolore e sofferenza, ma anche di speranza e di progetto; il tutto, con una penna vivida e lucida. L’autrice apre per il lettore una finestra sul mondo della malattia che non può rimanere eluso se la vita di ognuno di noi, è una “prova d’orchestra”, qualcosa di inevitabilmente incerto. (…). Il malanno stesso, è servito tantissimo. È così che sono stato spinto a rivedere le mie priorità, a riflettere, a cambiare prospettiva e soprattutto a cambiare vita. E questo è ciò che posso consigliare ad altri: cambiare vita per curarsi, cambiare vita per cambiare se stessi. Per il resto ognuno deve fare da solo. Non ci sono scorciatoie che posso indicare. (…). L’ultimo pezzo del cammino, quella scaletta che conduce sul tetto dal quale si vede il mondo o sul quale ci si può di-
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stendere come su una nuvola, quell’ultimo pezzo va fatto a piedi, da soli (Terzani, 2004, p.576);
Terzani, giornalista, reporter e viaggiatore sente il bisogno interiore di intraprendere contemporaneamente due viaggi, quello che lo porta in giro per il mondo alla ricerca di una terapia efficace per combattere una malattia tumorale da cui è stato colpito, e quello dentro di sé, tramite la scrittura, alla ricerca di una cura/guarigione interiore, per sostenersi “nell’ultimo pezzo del cammino” in cui pur stando con gli altri, “si è soli”, nel confronto con se stessi, con il senso della propria vita e della vita dell’universo. Quasi una testimonianza per altri, la scrittura di Terzani. Ho scritto questo libro per me, perché nulla quanto lo scrivere chiarisce i propri pensieri, sentimenti ed emozioni. Ho scritto questo libro per gli altri, perché confido che le mie riflessioni possano essere utili anche ad altre persone. (…) È trascorso molto tempo e sono accadute molte cose da quel settembre. La malattia è anche questo: fare dei progetti e non riuscire a realizzarli nei tempi e nei modi voluti (…), ma anche per il faticoso cammino che si deve fare per accettare di parlare di sé e della propria malattia con sincerità e tuttavia con sufficiente distacco. Scrivere questo libro è stato difficile (Bonino, 2006, pp.VII-IX);.
Silvia Bonino, psicologa e docente universitaria decide in una fase di vita e della malattia che ritiene emotivamente congrua, di mettere per iscritto la personale storia di malattia cronica, non solo per se stessa ma anche per quanti si trovino a condividere la sua stessa situazione. La scrittura rappresenta un “faticoso” ma utile progetto per sé e per gli altri. Abbiamo fatto quello che si poteva”: una frase che dice tutto senza dire nulla. Perché quello che, ormai da tempo, non mi è più chiaro è: chi stabilisce quello che si può, che si deve o non si deve fare ? Chi traccia il confine tra quello che è lecito fare e quello che è eccessivo ? O, ancora, tra quello che è troppo poco e quello che dovrebbe essere il livello minimo accettabile di prestazione, di competenza, di (…) professionalità, e osiamo dirlo, di coinvolgimento ? L’esperienza ? La letteratura medica ? Le linee guida elaborate dai congressi ? Il buon senso ? L’etica medica ? (Venturino, 2004, pp.59-60);
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Marco Venturino, come direttore di anestesia e di terapia intensiva dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, osserva mediante la pagina di scrittura, ciò che conosce molto bene per esperienza diretta, questa volta però lo sguardo si fa volutamente dubbioso, ironicamente critico e pro-vocatorio nei confronti della disumanizzazione della medicina e della relazione medico-paziente. In questo caso, ciò che accade nella realtà è trasformato in versione romanzata. Ora, sul foglio di carta bianca comincia a cadere, come può cadere solitaria e inosservata la pioggia prima dell’alba sopra una spiaggia deserta, il ticchettio dei tasti della portatile: “Francesca chiude il cancello del giardino con un colpo secco. Poi, per essere sicura che sia veramente chiuso, lo spinge con la mano (…). È già successo… (Cannarsi, 2007, p.142);
Il papà di Francesca, un adolescente colpita improvvisamente una mattina mentre sta andando a scuola, da emorragia cerebrale, racconta autobiograficamente con estrema lucidità d’analisi e con profonda dignità il dolore dell’intero nucleo famigliare, accanto all’indignazione provata dinanzi al pellegrinaggio sperimentato da medico a medico, causato dalla malasanità, di cui fanno parte anche gli atteggiamenti distanti, evasivi e indifferenti di alcuni medici incontrati. Un romanzo è una vittoria –segreta, inutile, risibile- dentro il tempo, un miracolo senza gloria. Una tacca solitaria divaricata nello spessore amnesico della durata (…). Si perde ogni traccia, tranne che per colui che abita con fiducia il momento pensato del proprio gesto. (…) Come esseri viventi, le parole sono in partenza per il nulla che aspetta al varco. (…) Io non ci sarò più. Sarò stato (…). Un romanzo è un’incisione nel legno del tempo (Forest, 2005, pp.113-114).
La scrittura letteraria e autobiografica non aiuta Philippe Forest, scrittore contemporaneo, ad affrontare il dramma quasi irreparabile della propria vita: la perdita della piccola Pauline all’età di quattro anni per una malattia oncologica. Si scrive, per scelta adulta, la propria esperienza di malattia, si riesce a parlarne e a tradurla in segni scritti, quando ci si è un po’ distanziati da essa, perché si è convinti, per esperienza diretta, che
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la scrittura della propria vicenda di malattia possa servire a sé, e a coloro che vivono una simile condizione. In alcune situazioni, sono i famigliari a trasformare in racconto autobiografico, o letterario-autobiografico, il dolore che colpisce e annienta quando ad ammalarsi gravemente, o a morire, sono i figli ancora giovani, o addirittura in tenera età. C’è poi, la scrittura sulla propria pratica professionale e di cura che solleva pregnanti interrogativi e fondamentali questioni di senso. Infine, c’è spazio per affermare che non sempre la scrittura può essere d’aiuto dinanzi a un dolore immenso, anche per chi è scrittore di professione. Se ne deduce che l’esperienza di scrittura della propria storia di malattia è una questione complessa e delicata che solleva inevitabilmente domande e richiede attenzioni umane ed etiche, così come competenze relazionali e di metodo, soprattutto quando essa diventa una pratica proposta ai pazienti1. 1
Le riflessioni sviluppate in questo contributo tengono conto sia di quanto evidenziano gli studi e le ricerche rispetto a questo campo d’indagine, sia di quegli aspetti e fattori che sono risultati rilevanti all’interno di esperienze di formazione/docenza condotte da chi scrive. Segnaliamo in particolare la docenza decennale nel Corso di Specializzazione in Psicoterapia Transculturale-Istituto Transculturale per la Salute-Fondazione Cecchini Pace, di Milano; l’attività di formazione, della durata di circa sei anni, per i volontari dell’’Associazione Triangolo-Sottoceneri (volontariato e assistenza per il paziente oncologico) di Lugano, di cui è presidente il dr.med.Marco Varini, e per gli operatori medico-sanitari (medici, infermieri, assistente sociale) del reparto oncologico della Clinica S.Anna, sempre di Lugano; la conduzione e il coodinamento di laboratori narrativo-autobiografici e di scrittura, per dirigenti medici, medici di base, psichiatri, psicologi, infermieri, educatori, ecc., presso l’Azienda Ospedaliera “Ospedale Maggiore” di Crema, Dipartimento di Salute Mentale, all’interno di un progetto annuale che ha comportato la collaborazione tra l’Ospedale e l’Università di Milano-Bicocca; la formazione, durata due anni, presso l’Azienda Ospedaliera “Ospedale di Circolo di Busto Arsizio”, rivolta a dirigenti medici, medici, psicologi, infermieri, tutor infermieristici, fisioterapisti, terapisti della riabilitazione e operatori, (tra cui, medici oncologi), dell’hospice; infine, la docenza individuale e in collaborazione con la dott.ssa Lucia Zannini, a tre seminari tenuti alla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (“Scrivere l’esperienza di malattia. Strumenti e strategie per i pazienti e per i professionisti della cura”), dove è stato presentato anche il progetto svolto a Lugano, con la partecipazione della dott.ssa Osvalda Varini, psicooncologa, che si occupa della supervisione dei volontari/operatori dell’Associazione Triangolo Sottoceneri, e che ha partecipato alla nostra formazione, insieme alla volontaria Mariadele Morresi (sempre facente parte il gruppo
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2. Pennebaker e la scrittura del trauma Il primo a usare la scrittura in situazioni traumatiche è stato James Pennebaker, medico e psicoterapeuta che alla fine degli anni Novanta ha condotto un esperimento che ha coinvolto alcuni studenti della Southern Methodist University, frequentanti i corsi introduttivi di psicologia (2004, p.51)2. L’obiettivo dell’indagine consisteva nel verificare gli effetti della scrittura a livello emotivo e di salute fisica su un gruppo di studenti che hanno raccontato in forma scritta, gli avvenimenti dolorosi, o traumatici, della loro vita, messi a confronto con gli studenti del gruppo di controllo a cui è stato chiesto di scrivere in termini generici, e relativamente ad argomenti non importanti per loro. La consegna di scrittura fu svolta per quattro giorni di seguito con un tempo a disposizione di quindici minuti. “La cosa più eloquente –scrive Pennebaker- (…) furono i testi uno dopo l’altro, rivelarono gli stati d’animo più profondi e i lati più intimi dei loro autori. In molte storie trovammo il racconto di gravi tragedie umane” (2004, p.53). (…) Come dato interessante, dopo alcuni mesi, emerse come il gruppo di studenti, che aveva messo per iscritto, le personali esperienze traumatiche, dando voce alle emozioni provate, aveva mantenuto un umore migliore e uno stato di salute più soddisfacente, rispetto agli studenti del gruppo di controllo, che nello stesso periodo, post-esperimento, avevano avuto bisogno di visite mediche con una frequenza più elevata (ibidem, p.55).
È emersa pertanto una connessione fra trauma, scrittura del trauma, o meglio ancora, modalità della scrittura dell’esperienza dolorosa/traumatica, e miglioramento del benessere psico-fisico
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di formazione), che ha attivato con un’altra volontaria, la dott.ssa Gaia Soldati, il laboratorio di scrittura con un gruppo di pazienti, attualmente alla terza edizione. James Pennebaker, nel testo considerato, si riferisce a traumi inerenti alle vicende di guerra, all’esperienza dei rifugiati politici, all’abuso sessuale, al maltrattamento subito dalle donne da parte dei coniugi, alla perdita improvvisa e precoce di uno dei due genitori, in particolare, per suicidio, quando i figli sono ancora piccoli o giovani adulti, alle situazioni di lutto improvvise.
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(ibidem, p.58)3: “Il 70% degli studenti, che avevano scritto in modo intimo ed emotivamente partecipato, dei propri traumi, ha affermato che scrivere è servito per capire meglio sia il fatto traumatico che se stessi” (ibidem, p.122)”. Come comprendere più in profondità e argomentare scientificamente questa possibile connessione ? Continuiamo a seguire la riflessione di Pennebaker (2004, pp.8285; 117-133). Davanti a un’esperienza particolarmente dolorosa se non perfino traumatica, il nostro pensiero può arrestarsi e congelarsi a tal punto da negare e rimuovere in modo non reattivo, l’evento stesso, che però continua a lavorare dentro di noi e, prima o poi, riaffiorerà in forme sintomatiche. Il pensiero che ci procura un’intensa sofferenza e che perciò viene represso, è un pensiero che ritorna con forza maggiore. Il nostro modo di controllare è fallito. Un’altra strategia paradossalmente adattiva, consiste nel fare proprio un pensiero che continua a indugiare ossessivamente su stesso, incistando nell’esperienza dolorosa che ci illudiamo di controllare e gestire in questo modo. Di fatto, in entrambi i casi, il pensiero non si concede la possibilità di pensare, o pensa sempre secondo l’unica modalità che conosce, e che non può che essere negativa, involuta e involutiva, nel senso che non ha altri sbocchi se non quelli già ostinatamente praticati perché ritenuti in se stessi, e in modo inconsapevole, funzionali e insostituibili. È qui, che può inserirsi la scrittura della situazione traumatica o di sofferenza che c’è capitata, la quale, secondo Pennebaker permette una successione di passaggi, modificandosi essa stessa lungo il processo attivato (ibidem, p.126). Da un impatto con il trauma, si passa a un impatto emotivo con esso, successivamente a un impatto cognitivo, per poi raggiungere gradatamente la capacità attiva di ri-elaborazione consapevole e di ri-organizzazione/tras-formazione di quello che di grave e doloroso ci ha colpito e ci affligge (ibidem, pp.126-127, pp.225-226). Fase che, Pennebaker definisce come working trought, realizzabile per mezzo della pratica di scrittura che egli intende come writing tecnique4. 3
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Rileva Pennebaker, come: “ le persone che avevano scritto dei pensieri e dei sentimenti più profondi relativi a loro esperienze traumatiche evidenziarono un funzionamento immunitario più intenso rispetto a chi aveva trattato argomenti superficiali” (2004), p.58.. Cit., in L.Solano, M.Bonadies, M.Di Trani, (2007), p.90.
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Se, nel primo momento di approccio alla scrittura, la persona che ha sperimentato qualcosa di emotivamente impegnativo, è alle prese con un semplice “sfogo” (ibidem, p.129), perché la scrittura svolga, a mano a mano, una funzione più profonda, di supporto e di sostegno protettivo/riparativo/evolutivo, necessita di diventare scrittura autobiografica, di tipo (auto)riflessivo (ibidem; cfr., anche, Zannini, 2008), capace di innescare e alimentare, in modo sempre più analiticamente approfondito e problematico, un ragionamento attorno all’esperienza vissuta e alle emozioni provate (Pennebaker, 2004, pp.82-85; pp.117-133; cfr., anche, Zannini, 2008), e di aiutare il soggetto quindi nella presa di coscienza critica e più distaccata di quello che gli è accaduto (ivi). In questo modo, la scrittura ri-mette in movimento il pensiero, le emozioni e le modalità di posizionamento rispetto al trauma, o a ciò che ci procura dolore, paura ecc., (ivi) ri-mettendo in movimento il soggetto che scrive. Non dimentichiamoci che “i traumi”, o comunque, le esperienze molto dolorose e impegnative dal punto di vista emotivo e interiore, che ci hanno segnato, come può essere la condizione di sofferenza in cui ci si può improvvisamente trovare a causa di una malattia importante, cronica, degenerativa, o con prognosi infausta, “sono interruzioni” più o meno lunghe di “compiti di vita” (Pennebaker, 2004, p.118). L’azione del “pensiero” “messo in scrittura” può rappresentare una premessa alla ri-presa delle parti vitali, anche piccole, che ognuno di noi può riconoscersi e ri-mettere in circolo anche di fronte a eventi emotivamente difficili e faticosi. 3. La scrittura di sé e del proprio vissuto di malattia: una possibile strategia di coping Arrivati a questo punto della nostra riflessione e con la preoccupazione anche di tipo etico, di comprendere le delicate implicazioni, per nulla trascurabili o sottovalutabili, della proposta di scrittura rivolta ai pazienti in contesti medico-sanitari, o ai medici e operatori che hanno a che fare con la relazione medico-terapeutica con il paziente, o più prettamente di sostegno e d’aiuto, poniamo attenzione a quanto sottolinea ancora Pennebaker (2004) Quando una persona non può controllare una fonte di stress, passa
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a un livello di pensiero inferiore. Quando il controllo è possibile, invece, passa a un livello superiore. (…) Il pensiero di basso livello aiuta a non pensare alla fonte di stress e ai propri sentimenti riguardo alla mancanza di controllo. Il pensiero di alto livello permette di considerare la complessità della situazione stressante. Se è possibile controllare una fonte di stress, conviene essere coscienti dei suoi vari aspetti e della situazione complessiva circostante (p.88).
Ora, se facciamo nostra l’ipotesi che la scrittura possa stimolare quello che Pennebaker definisce “pensiero di alto livello” (2004, p.86)5 essa sarà avvicinabile, sperimentabile e soprattutto proponibile, in particolar modo in assenza di una richiesta esplicita (Solano, Bonadies, Di Trani, 2007, p.95), se la persona che sta vivendo una fase dolorosa della propria vita, si trova comunque in quella “tappa” del percorso-processo in cui è in grado di gestire emotivamente la situazione, potendola pensare, per metterla più a fuoco, e ri-elaborare (Pennebaker, 2004; Pepe, 2007; Solano, 2007; Zannini, 2008), legittimandosi anche a fare spazio a possibili margini di un differente pensare e agire (Bert, 2007; Pennebaker, 2004; Pepe, 2007, Solano, 2007; Zannini, 2008), protesa in ciò, alla ricerca e verso il raggiungimento di un significato personale da attribuire al dolore che l’ha colpita (Bert, 2007; Pennebaker, 2004; Pepe, 2007; Solano, 2007; Zannini, 2008). Particolarmente incisiva, a questo proposito, è l’espressione di Pennebaker, laddove afferma la scrittura organizza i traumi” , perché “scrivere i pensieri e i sentimenti connessi ai traumi (…), costringe a integrare le varie sfaccettature di circostanze straordinariamente complicate. Quando riusciamo a distillare le esperienze complesse in blocchi più comprensibili, cominciamo a superare il trauma (2004, p.225).
Sono le situazioni in cui la scrittura, poiché ne esistono le premesse, si pone come possibile fattore protettivo di resilienza, o anche, strategia di coping (Solano, 2007; Zannini, 2008) centrato sia sulle emozioni che sull’azione (Cyrulnik, Malaguti, 2005). Per 5
Il “pensiero di alto livello” scrive Pennebaker “è caratterizzato da una prospettiva ampia, da autoriflessione e da consapevolezza delle emozioni”, a differenza del “pensiero di basso livello” che si definisce per la relativa assenza di questi attributi.
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raggiungere un simile fine è necessario però che ci sia uno “scarto”, temporale e interiore, più o meno lungo, a seconda della storia di ognuno, tra l’esperienza dolorosa, come può essere per esempio una malattia importante, e l’esperienza di scrittura di essa e su di essa, d’accordo in ciò con più autori tra i quali, quelli già indicati (cfr., Demetrio, 2008). Laddove, non ci siano questi prerequisiti e tali attenzioni di metodo – riferendoci alla pratica di scrittura della vicenda di malattia e di cura, in contesti laboratoriali o consulenziali, su cui ci soffermeremo tra breve - la scrittura può diventare rischiosa e paradossalmente controproducente perché porta la persona a indugiare fissamente proprio nel suo dolore (Mariotti, 2008; Pennebaker, 2004; Solano, 2007; Zannini, 2008), secondo, potremmo dire, un “io sono, esclusivamente, il dolore che ho scritto”. A tal proposito, la maggior parte degli esperti e ricercatori, tra cui Demetrio, fa notare come sia addirittura impossibile scrivere di sé e della propria sofferenza quando si è ancora troppo dentro in essa: si è confusi, assaliti e risucchiati dal dolore o dalla paura, ci si sente annichiliti, quasi impotenti, si è troppo fragili, si ha una percezione di sé inadeguata e incapace di intraprendere qualsiasi strategia che possa introdurre -anche se per poco, all’inizio- una pausa, una direzione diversa nella continuità della sofferenza. In tale situazione, com’è possibile concentrarsi, afferrare la penna, far sì che il “pensiero” faccia “epochè su se stesso”6, avere la capacità pertanto, senza dubbio terapeutica, di arendtiana memoria, di fermarsi, pensare e di pensare-scrivendo, di che cosa poi ? I pensieri non si lasciano prendere dalla scrittura, essa non riesce a dargli forma, vanno e vengono continuamente, sono troppo oscillanti e ambivalenti; a volte, si ha l’impressione di non riuscire nemmeno a pensare, e ci si sente svuotati dal troppo dolore. Alle parole per esempio è più facile e immediato sostituire il pianto come forma di espressione e di comunicazione primordiale, o altre modalità di manifestazione di ciò che si sta provando, più o meno funzionali ed efficaci, in quel preciso momento.
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Per un approfondimento di tale aspetto collegato alla pratica di scrittura autobiografica si rimanda a M.Castiglioni, (2008), testo che problematizza il rapporto tra fenomenologia-pratica di scrittura introspettiva-processi auto-educativi-auto-formativi e di cura di sé, nell’età adulta.
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Non dimentichiamoci inoltre che nella fase subito successiva alla comunicazione di una diagnosi importante segue un tempo in cui il paziente intraprende una sorta di vorticoso pellegrinaggio da uno specialista all’altro, in cerca della figura che più lo rassicura a livello di competenza professionale e di umanità nella relazione. Una volta giunto all’approdo di questo giro di medici e di strutture ospedaliere, e operata la scelta del medico cui affidarsi, nonché della struttura ritenuta affidabile, segue molto spesso una fase che è riempita dal “fare”: esami diagnostici, eventuale operazione chirurgica, terapie, ecc.,; nel caso, per esempio, di una malattia oncologica, i cicli di radioterapia e/o di chemioterapia. Per cui, viene oggettivamente meno il tempo della pausa, del distanziamento da tutto ciò, per ri-vivere, ri-leggere e ri-nominare, il percorso vissuto, le emozioni provate, i pensieri fatti, ecc.,. Il “fare”, in modo anche sanamente adattivo, si sostituisce al “pensare”, le energie vengono il più possibile convogliate verso le varie prove che si devono fronteggiare e superare. Al limite, ci si concede un pensare a intermittenza che consenta di dosare la presa di consapevolezza di ciò che si sta vivendo, per la quale non si è immediatamente predisposti e che, anzi, se stimolata troppo precocemente dall’esterno, può essere anche molto dolorosa e rendere più difficile la lenta costruzione di atteggiamenti e di comportamenti reattivi/resilienti. Solo quando il paziente è a buon punto, se non verso la fine, del suo percorso terapeutico e di cura, sempre che esso proceda sufficientemente bene, dal punto di vista clinico, può essere più capace, se lo si desidera, di uno sguardo “a ritroso”, o “dall’alto”, che può servirsi dell’ausilio esterno della scrittura per osservare meglio, o diversamente, la situazione in cui ci si trova. L’operazione di ”scrittura” in situazioni cliniche, come in altri contesti di cura e d’aiuto, può configurarsi come auto-formativa e auto-terapeutica operazione di auto-epochè7: antefatto indispensabile per potersi rimettere a scrivere con altre parole, con altro stile, e fuori di metafora, per iniziare a ri-cominciare. Laddove, il problema non sia risolvibile, come per esempio in situazioni di malattia oncologica inguaribile, o in fase terminale, alcuni studiosi si fanno portavoce di una serie di ricerche che dimostrerebbero l’inutilità e perfino la nocività della scrittura del7
Cfr., la nota sopra.
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la propria vicenda (Solano, Bonadies, Di Trani, 2007, p.92)8 “(…) La persona, infatti, viene spinta a pensare, in assenza di un aiuto professionale più specifico, non ad un trauma dimenticato, ma a un problema tremendamente attuale, cui forse sta già pensando fin troppo, e rispetto al quale può esercitare poca influenza reale” (ibidem, p.93). In queste situazioni, come vedremo brevemente più avanti, si può al limite, a nostro parere, proporre -sempre d’accordo con il paziente- in modo molto flessibile e anche occasionale, una scrittura “leggera”, “libera”, quasi “diaristica”, o da “appunto”, pertanto, quasi per nulla affidata a consegne strutturate o evocativamente forti, una sorta di strategia di coping più centrata sulle emozioni (Cyrulnik, Malaguti, 2005), per cui, “se il problema non lo posso risolvere, posso, se me la sento, se ne sono capace, se il momento è propizio, ri-posizionare il mio “sguardo emotivo” nei confronti di quanto mi procura dolore, paura, sentimento d’ingiustizia, di rabbia, di non-accettazione, ecc.,.”(ivi). “Se ne sono capace, però….”, per cui, la questione si complica ulteriormente perché dobbiamo prendere in considerazione gli “stili di coping emozionali” propri di ogni singola persona, come ci suggerisce Michela Di Trani, riportando i dati di alcune ricerche (Austenfeld et.al., 2006; King, 2001), su tale dimensione (2007, p.49). Per cui, risulterebbe che le persone con un buon livello di capacità di rielaborazione emotiva possono essere capaci di utilizzare la scrittura che abbia come oggetto la situazione di sofferenza, o un vero e proprio trauma, diversamente da quanti con un basso livello di coping emotivo, possono non trarre beneficio dalla scrittura del trauma, o dell’evento doloroso, quale una malattia, perché poco capaci di rivedere emotivamente ciò che sta loro succedendo, per questi soggetti può essere più utile la scrittura su “aspettative positive” (ibidem, p.50). Sempre riferendoci a situazioni di un decorso clinico sfavorevole e critico, ci sembra importante come si è già rilevato, attenerci al punto di attenzione metodologico di Pennebaker che fa leva sulla libera scelta del “momento in cui si ha voglia” o “si sente il bisogno” di scrivere su temi di quel momento, positivi o negativi, che essi siano (2004, p.62). La prospettiva è comunque ancora da definirsi 8
Gli autori nel testo considerato fanno riferimento a loro volta alle ricerche condotte da Wessley, et al., (1999); McNally, et al., (2003).
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e, come sempre, va attentamente situata, tenendo conto di più fattori: per esempio, Zannini, nel testo già segnalato, riporta percorsi attivati con pazienti oncologici in fase terminale a cui l’operatore si è rivolto con sollecitazioni di scrittura anche centrate sulla malattia (Archer, 1998; Bolton, 1998) (Zannini, 2008, p.125), questo perché le emozioni dolorose trattenute innescano un processo di sofferenza interiore ancora più forte, proprio in un momento dell’esistenza in cui la persona avverte il bisogno d’”integrare”9 i vari capitoli della propria storia. Da parte sua, l’autrice sottolinea come in queste circostanze, la scrittura possa essere presentata e introdotta “(…) come un’opportunità in più, che ciascun paziente può scegliere di cogliere o meno” (ibidem, p.121). Inoltre, sempre Zannini, ci ricorda come la scrittura autobiografica con i pazienti terminali possa vertere su temi e motivi che più complessivamente fanno parte della propria vita, riprendendo la funzione terapeuticamente “integrativa” della pratica di scrittura (ibidem, pp.120126). Anche noi, nel laboratorio di scrittura attivato da due volontarie dell’Associazione Triangolo-Sottoceneri, di Lugano, rivolto a un gruppo di pazienti oncologici, sostanzialmente nella fase di remissione della malattia, o di completa guarigione -che è stato progettato all’interno di un lungo percorso di formazione svolto da chi scrive pensato per i volontari dell’Associazione stessa e per alcuni operatori del reparto oncologico della Clinica S.Anna, di cui si dirà più avanti- abbiamo cercato di avvicinare i pazienti all’”appuntamento di scrittura” come “appuntamento con sé” e “con la propria storia”, fatta da tante esperienze, situazioni, incontri, ecc., non solo di malattia e di dolore. 4. Aspetti e dimensioni che facilitano la pratica di scrittura in ambito clinico Da quanto stiamo ricostruendo possiamo renderci sempre più conto di come la pratica di scrittura di un evento doloroso come può essere una malattia oncologica, cronica o degenerativa, ecc., debba essere presa in esame attentamente, e in connessione alla 9
G.Bolton (1998), cit., in L.Zannini, (2008), pp.121-125.
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presenza, o assenza, di certe variabili (Pepe, 2007), in modo particolare, se essa è proposta al paziente senza una sua personale ed esplicita domanda e scelta. Teniamo presente, anche se riferito alle situazioni “di perdita e di lutto recente”, in cui la persona che rimane è ancora troppo emotivamente immersa nel suo dolore, quello che rilevano alcuni autori, facendo proprio un punto di vista, che in parte, si differenzia dalla prospettiva di Pennebaker, rispetto alle “scritture di lutto” È evidente (…) come il compito proposto si differenzi notevolmente dallo scrivere di un trauma passato cui da molto tempo non si sta pensando, e che la scrittura porta a ricordare. (…). «questi dati nel loro insieme suggeriscono che le persone a lutto debbano poter affrontare la loro perdita nei loro tempi e nei loro modi» (Solano, Bonadies, Di Trani, 2007, p.92).
Tra i vari fattori che possono condizionare il beneficio apportato dalla pratica di scrittura nelle situazioni già accennate, Michela Di Trani (2007), ripercorrendo gli esiti di numerose ricerche, colloca10: ü il ruolo dell’alessitimia, ossia la capacità di entrare in contatto, o non, con le proprie emozioni potendole esprimere verbalmente, dimensione che incide sulla disponibilità, o viceversa, sulla difficoltà a rapportarsi con “compiti” di scrittura emotiva (p.43); ü la variabile di genere, questione che rimane tuttora aperta, per cui non è certo se siano gli uomini ad affrontare meglio la scrittura di eventi traumatici, o al contrario, le donne; così come non è chiaro se siano maggiormente gli uomini, o le donne, a trarre beneficio dall’esercizio di scrittura, poiché i risultati di alcune indagini sembrano essere contradditori e incompleti in quanto mancano della presa in considerazione di ulteriori fattori collegati alla variabile della differenza di genere (pp.41-42); ü l’atteggiamento di pessimismo versus ottimismo, secondo le ricerche condotte da Cameron e Nicholls (1998) le persone ottimiste in quanto orientate a posizionarsi nei confronti di esperienze negative con uno sguardo aperto alla speranza del loro migliora10
Si rimanda al contributo dell’autrice per un approfondimento degli esiti di tali indagini.
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mento/superamento, possono far derivare un miglioramento dalla scrittura perché non si fossilizzerebbero sugli aspetti solo di perdita, di ferita, ecc., mentre i soggetti pessimisti, portati a non reagire in questo modo, è preferibile che affrontino consegne di scrittura operative, centrate sul “fare”, ossia su compiti e obiettivi, e quindi, su strategie di adattamento reattivo realisticamente perseguibili (p.52); ü la controllabilità del trauma, elemento segnalato anche da Pennebaker (p.55); ü lo stile di attaccamento, per cui gli individui dall’attaccamento sicuro più aperti all’esperienza e più flessibilmente capaci di rielaborare eventi e situazioni difficili, possono trarre beneficio dalla scrittura che può potenziare in loro tale capacità che già possiedono; anche i soggetti dall’attaccamento insicuro possono derivare vantaggio dalla scrittura, in simili occasioni, perché tale pratica può costituire un supporto da gestire in autonomia e che può facilitarli e sostenerli nel ritrovare in sé, la percezione d’individui competenti, ricorrendo meno all’aiuto degli altri dai quali spesso fanno derivare la loro sicurezza; anche le persone dall’attaccamento distanziante che tendono a rimuovere emozioni e pensieri legati a vicissitudini dolorose, possono vivere la pagina di scrittura come personale spazio tramite il quale prendere progressivamente contatto con il proprio pensare e sentire (pp.57-58)11; Se queste sono alcune tra le variabili riconducibili alla personalità di chi si appresta a scrivere in termini autobiografici, esperienze di trauma, di dolore, di malattia, ecc., non dobbiamo dimenticare ulteriori fattori che condizionano il rapporto con tale pratica di scrittura, quali ü il tipo di malattia12, e ancora 11 12
Rispetto a tale componente M.Di Trani, (2007) cita in particolare gli studi di Stroebe, et al., (2006). Autori come G.Bert, (2007); V.Masini, (2005); E.A.Moja, E.Vegni, (2000); J.Pennebaker, (2004); L.Solano, M.Bonadies, M.Di Trani, (2007); L.Zannini, (2008), indicano, sulla scia di numerose ricerche esaminate, patologie come: carcinoma mammario; artrite reumatoide; asma; fibrosi cistica; diabete di tipo I; sclerosi laterale amiotrofica; infezione da HIV; depressione post-partum; depressione seguente a situazioni stressanti; sintomi psico-somatici sempre in concomitanza con episodi dolorosi; disturbi di ansia da stress post-traumatico. Interessanti gli esempi di percorsi di scrittura realizzati in ambito chirurgico, o in medicina generale (Zannini, 2008, p.130).
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ü la fase della vicenda di malattia, per cui è preferibile per ovvie ragioni che il gruppo sia composto da pazienti che condividono sostanzialmente una simile situazione clinica e pertanto un eventuale confrontabile decorso post-operatorio, così come l’iter e la fase terapeutica in cui si trovano. Il gruppo disomogeneo rispetto a questo fattore può diventare un gruppo vissuto come depressivo: sia dai pazienti che godono di un migliore stato di salute, sia da quelli che devono fare i conti con problematiche ancora consistenti. Inoltre, la differenza relativamente a questa variabile può avere come implicazione un andirivieni di pazienti che penalizza l’identità del gruppo, il suo percepirsi gruppo con una storia costruita insieme, la fiducia condivisa e lo stesso lavoro di approfondimento dei temi di scrittura proposti (Zannini, 2008, pp.115-136). Dimensioni, queste, ancora più importanti e incisive laddove l’operatore scelga di costituire piccoli gruppi di pazienti alle prese con la scrittura della propria esperienza di malattia, o anche esperienze di scrittura autobiografica di tipo più clinico/consulenziale (Demetrio, 2008). Ovviamente, non trascurabili dentro la relazione, vis a vi, operatore-paziente (Zannini, 2008, pp.120-122). Si tratta di aspetti che mettono in gioco vari fattori tra cui fondamentale è quello che ha a che fare con i criteri di costituzione, gestione e presidio del gruppo (Zannini, 2008), o laboratorio di scrittura, o anche, coppia di scrittura; situazione quest’ultima, si è appena accennato, che rimanda più alla consulenza autobiografica/clinica, che riprenderemo di seguito e per il cui approfondimento si rimanda al testo di Duccio Demetrio La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali (2008). Prima di addentrarci, però, in questi ulteriori punti di attenzione ci preme spendere qualche parola sulla tipologia delle consegne di scrittura in termini di contenuti, temi e motivi esplorabili con i pazienti in ambito medico-sanitario, fattore, che più ad ampio spettro, nelle sue coordinate generali e trasversali alle situazioni di trauma, viene preso in considerazione anche da Luisa Pepe (2007). Per esempio, a nostro parere alcune sollecitazioni di scrittura proposte da Archer (1998) e da Bolton (1998) a malati oncologici terminali, e segnalate da Zannini (2008, p.125), ci sembrano eccessivamente forti dal punto di vista emotivo e comunque proponibili secondo la condizione clinica ed emotiva in cui si trova il singolo
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paziente (Zannini, 2008, pp.121-126), alla presenza di un suo manifestato bisogno di scrittura (Solano, Bonadies, Di Trani, 2007), e con l’accompagnamento di un operatore molto competente ed esperto, anche per maturità ed esperienza professionale, oltre che per formazione acquisita (Zannini, 2008, pp.121-124) che sappia “contenere” ciò che la scrittura può “aprire” con atteggiamenti, in questo caso, anche orientati terapeuticamente se eventualmente necessari. Sempre tenendo conto del tipo di consegne/temi di scrittura ci sembra che potrebbe essere eventualmente preferibile collocare il “tassello” autobiografico all’interno di un progetto di sostegno multiprofessionale che veda la proficua collaborazione tra saperi medici, psicoterapeutici e pedagogici, quest’ultimi di appartenenza dell’operatore-esperto in metodologia autobiografica. Ci stiamo riferendo per entrare nello specifico, a consegne come: “Io sono ancora…”13; “Scrivo la cronologia del mio tumore; “Descrivo le idee e le emozioni provate in ogni fase”; “Spiego con un’immagine/metafora cos’è il mio tumore/la mia malattia”; “Scrivo una lettera al mio cancro/alla mia malattia” (ibidem, p.125). Sicuramente sono sollecitazioni che è ovvio dirlo, vanno proposte con molta cautela, ma che sollevano anche dubbi e possibili differenze di punti di vista. Da tali consegne di scrittura quale “guadagno” può ricavarne un paziente terminale ? A che pro, il ritorno al passato ? Siamo certi di generare con esse una sorta di “tregua”, di riappacificazione con la malattia, di ripensamento di essa, in chiave filosofico-esistenziale ? O, viceversa, non rischiamo di potenziare il sentimento di rabbia e d’ingiustizia, o il vissuto di depressione ? Un malato terminale ha davvero l’energia fisica e interiore per affrontare tali domande e il conseguente coinvolgimento/impegno emotivo ? Quanto tempo abbiamo a disposizione per accompagnare il paziente attraverso questi stimoli ? Tali scritture si collocano dentro una relazione di fiducia già consolidata con l’operatore che le propone ? È sufficiente la preparazione di un esperto in metodologia autobiografica quando ci s’inoltra in territori così delicati e di sottile confine con l’ambito più prettamente psicoterapeutico ? 13
Ripreso anche da noi più avanti nel testo ma non riferito a condizioni di malattia terminale.
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“Mettiamoci preventivamente nei nostri panni”, scrive Tramma (2003, p.118), come reagiremmo di fronte a queste sollecitazioni ? Non dimentichiamoci che stiamo parlando, per dirla con Pennebaker, di scrittura salutare (2004, p.131). Segnalando l’opinione di Bolton (1999), Zannini fa presente come sollecitazioni di scrittura di questo tipo siano proposte con la fisiologica e salutare finalità di far emergere vissuti di rabbia o d’ingiustizia nell’ottica di avviare un processo d’ “integrazione” di cui il paziente terminale ha necessità rispetto a più dimensioni di sé, della propria identità e della propria storia (2008, p.124). Da parte nostra, preferiamo ipotizzare che simili consegne di scrittura possano essere emotivamente più coerenti con la condizione di pazienti che si trovino a vivere la vicenda di una malattia oncologica con prognosi sostanzialmente buona o con quanti abbiano superato la malattia stessa, sempre con le dovute cautele, che abbiamo già indicato, e soprattutto potendo contare sulla volontà del paziente. In condizioni di terminalità, in base anche alle esperienze che abbiamo attivato, ci sembrano sicuramente più agili dal punto di vista della risonanza emotiva e realisticamente proponibili alcune tra le sollecitazioni indicate da Bolton (1998), e segnalate da Zannini (2008, p.110), che riportiamo di seguito: idee, pensieri, emozioni…, rispetto a quanto si sta vivendo, anche in forma di “appunti autobiografici”, aggiungiamo noi. Ritornando alla complessità di variabili cui porre attenzione laddove la pratica di scrittura rivolta ai pazienti sia proposta in contesti laboratoriali, è auspicabile che14 Ø il gruppo sia composto da non più di otto, al massimo, dieci persone, per dare a ognuna la possibilità di scrivere con un tempo ragionevolmente ed emotivamente sufficiente, così come, di condividere con maggiore tranquillità e gradualità ragionativa e ri-elaborativa il proprio scritto anche attraverso -se lo si sente congeniale in quel preciso momento- il confronto con gli altri membri del gruppo. Sappiamo come il tempo frettoloso sia nemico della narrazione a meno ché non si tratti di una consegna di scrittura 14
L’attenzione a queste variabili e a quelle indicate nella pagina successiva ci pone sostanzialmente in continuità con L.Zannini (2008), L.Pepe, (2007), anche se alcune nostre considerazioni sono maggiormente riferite a pazienti oncologici e derivano in parte dall’esperienza attivata.
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che volutamente richiede un tempo breve di realizzazione, magari alternato a un tempo più dilatato, necessario per una sollecitazione più complessa o strutturata; Ø i pazienti che partecipano all’attività di scrittura condividano sostanzialmente la stessa età, possiamo capire molto bene come sia diverso essere colpiti da una malattia grave o cronica, in alcuni casi invalidante, o perfino con prognosi infausta, quando si è ancora giovani o giovani adulti, rispetto a chi vive questa esperienza in una fase più avanzata della propria vita. Diverse le reazioni, le strategie di adattamento, le aspettative, differenti i desideri, i progetti, i sogni, diversa, forse, la volontà di guarire e l’impegno messo nel portare a termine o mantenere la terapia. Il ché, non vuol dire che quanti si trovano in età adulta, affrontino meglio, o al contrario, con più fatica il percorso di malattia, di cura, ed eventualmente di guarigione, rispetto a quanti sono più giovani. Il vissuto di malattia è davvero qualcosa di estremamente personale e profondamente intimo, anche se, possiamo ipotizzare che la comunanza di età avvicini di più le risposte emotive dei pazienti, facendoli sentire, nel confronto e nella condivisione, meno soli, infelici, sfortunati, ecc.,; e probabilmente anche più disposti ad apprendere dalle storie altrui; Ø non si trascuri una certa omogeneità per quanto riguarda l’appartenenza di genere: potrebbe essere faticoso per esempio il processo d’inserimento/integrazione nel gruppo, da parte di uno o due pazienti-uomini, all’interno di un gruppo “al femminile”. Si può fare l’ipotesi che possa diventare difficile anche la fase di condivisione delle scritture probabilmente diverse per scelte di contenuto, per approfondimenti tematici, per esplicitazione di emozioni, ecc.,. Anche se i dati di ricerche recenti tendono a mettere in discussione una sorta di stereotipo che tende a modellizzare la scrittura femminile e maschile. Per cui, diversamente da quanto si sarebbe portati a pensare, sarebbero gli uomini a trarre maggiore beneficio dalla pratica di scrittura, in quanto esperienza solitaria, protetta e graduale di presa di contatto con le proprie emozioni, difficilmente avvicinabili e pensabili in altri contesti; inoltre, sempre gli uomini potrebbero rinvenire nello strumento della scrittura un mezzo per mettere a punto strategie di azione e di soluzione di problemi, secondo una propensione piuttosto maschile. Per le donne, si potenzierebbe la loro attitudine a riflettere introspetti-
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vamente e in termini rielaborativi su esperienze dolorose (Michela Di Trani, 2007, pp.41-42); da tenere presenti, infine, aspetti come Ø la familiarità con la scrittura, o meno, Ø la tipologia della consegna di scrittura (Pepe, 2007). L’approccio narrativo prende le distanze da imposizioni rivolte agli adulti ancor più se ci muoviamo in contesti dove gli interlocutori sono adulti che soffrono per varie patologie, con tutto il diritto di decidere che cosa sia fonte di benessere per sè, o viceversa di malessere, in quella fase specifica della propria storia di malattia, di terapia, o di guarigione. A questo proposito, chi scrive, ha potuto riflettere sull’importanza dei fattori fin qui evidenziati oltre ché sull’influenza di ulteriori variabili all’interno di un percorso di ricerca-formazione iniziato circa sei anni fa, costituito da quasi una quarantina d’incontri, cui si è fatto già brevemente cenno. Il corso a cui hanno preso parte in un primo tempo un gruppo di volontari oncologici dell’Associazione Triangolo (volontariato e assistenza per il paziente oncologico) di Lugano, compresa la coordinatrice dell’associazione stessa, la psicooncologa impegnata nella loro supervisione, e un’oncologa e assistente sociale del reparto di oncologia della clinica S.Anna, sempre di Lugano; successivamente esteso ad altre figure professionali quali le infermiere dello stesso reparto, si è focalizzato nella sua prima fase sull’avvicinamento alla pratica di scrittura autobiografica come conoscenza di sé nell’età adulta, progressivamente declinata in termini professionali e pertanto maggiormente centrata su temi, per citarne soltanto alcuni, quali la relazione d’aiuto e di cura, il rapporto tra narrazione/scrittura ed educazione terapeutica, il nesso tra pratica di scrittura in situazione di malattia e strategie di resilienza e di coping, ecc.,. 15. 15
Tale esperienza qui richiamata nelle sue componenti salienti è ampiamente sviluppata in un testo (di chi scrive) di prossima pubblicazione, il quale contiene le scritture degli operatori coinvolti nella formazione, le scritture di alcuni pazienti (non solo, quelli che hanno partecipato al laboratorio, ma anche quanti hanno comunque fatto riferimento nel tempo all’Associazione Triangolo) e le scritture di alcuni famigliari. Nel testo che ricostruisce l’intero percorso di formazione-ricerca è stata inserita una consistente parte metodologica inerente la costruzione e la gestione di un laboratorio
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Nei momenti dedicati alla progettazione del primo laboratoriopilota condotto da due volontarie16, e in quelli di supervisione, abbiamo tenuto presenti i punti di attenzione sopra introdotti che hanno costituito i principi orientativi e metodologici adottati nel contesto di scrittura. È così, che abbiamo costituito un piccolo gruppo di sei pazienti, il più possibile omogeneo per età (mediamente 50-70 anni), la cui malattia oncologica era sostanzialmente in fase di remissione, o dichiarata risolta. Qualcuno stava terminando l’ultimo ciclo delle terapie, e quindi si trovava sostanzialmente in una condizione di salute soddisfacente. L’unica eccezione fatta, ha riguardato il coinvolgimento di un paziente anziano, unico uomo del gruppo, fortemente motivato a intraprendere tale progetto. La proposta di scrittura ci ha messo davanti, come si è già accennato, a ulteriori questioni che la letteratura e gli studi scientifici sollevano, quali17 Ø il rapporto che i pazienti hanno con lo strumento della scrittura; Ø i temi autobiografici da affrontare con le consegne narrative e, pertanto: Ø la tipologia di sollecitazioni di scrittura da rivolgere ai pazienti che non avevano richiesto tale esperienza esplicitando solamente una forma di curiosità e d’interesse quando sono stati contattati dalla coordinatrice del Triangolo, e in alcuni casi, dai volontari di riferimento. Non da ultimo, ci si è chiesti Ø chi dovesse condurre il laboratorio (Zannini, 2008, pp.120126) e
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di scrittura con operatori dell’oncologia e con pazienti oncologici. Si è da poco concluso il terzo laboratorio di scrittura con i pazienti condotto sempre dalle stesse due volontarie. Una partecipante ha deciso di continuare e approfondire l’esperienza di scrittura di sé nel corso di formazione (Appunti autobiografici nell’età adulta), che partirà nel 2013 presso l’Associazione Dialogare, di Lugano (Presidente Dott.ssa Osvalda Varini), sempre gestito da chi scrive. Si tratta di un’associazione che promuove varie attività culturali e di formazione e che svolge un’importante attività di orientamento e ri-orientamento professionale, con uno sguardo rivolto in modo particolare alle problematiche femminili. Come da nota n.14.
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Ø dove/quando situarlo, come spazio-ambiente più appropriato e realisticamente coerente con le condizioni di salute dei pazienti. Riferendoci sempre alla nostra esperienza, tenendo presente il distinguo introdotto da Solano, Bonadies, Di Trani, che differenziano la pratica di scrittura in situazioni di crisi e di sofferenza, per cui si può parlare di una scrittura di tipo propriamente “supportivo”, in casi in cui sia esplicitata una specifica domanda da parte dell’utente/paziente, e di una scrittura di natura più “espressiva”, in assenza di un suo preciso bisogno e di una sua domanda diretta (2007, p.95), abbiamo scelto di attenerci a quest’ultimo orientamento. Le due volontarie che hanno condotto il laboratorio pertanto hanno pattuito con i pazienti fin dal primo incontro l’introduzione a una tecnica di scrittura autobiografica che li avrebbe avvicinati ad alcuni momenti, episodi, ricordi, ecc., della propria storia non necessariamente focalizzati sul tema dell’esperienza di malattia. Ovviamente, se esso fosse emerso durante il laboratorio -come di fatto è comprensibilmente accaduto- il riferimento seppur debole alla vicenda di malattia non poteva che essere accolto e gestito dalle volontarie insieme al gruppo, in ciò, potendo contare sulla sensibilità e competenza relazionale e di “contenimento”. maturata nel tempo dalle due volontarie che hanno scelto di sperimentarsi in questa esperienza. All’insegna di tale flessibilità pur sempre presidiata per non snaturare il senso della scrittura di sé, e quindi dell’esperienza attivata; e l’adattabilità al contesto -in presenza sempre di un’attenta “regia” delle due volontarie-conduttrici- abbiamo ipotizzato -anche sulla base di quanto emerso dal laboratorio autobiografico rivolto ai volontari nella formazione- che le consegne di scrittura meno strutturate e di tipo più narrativo potessero mettere maggiormente a proprio agio chi si accingeva per la prima volta a scrivere autobiograficamente, alla presenza di un gruppo. Non dimentichiamoci inoltre che, chi vive una vicenda di malattia importante è sottoposto per periodi anche prolungati a precisi orari di visite, terapie, controlli che, il più delle volte non può scegliere, alla produzione di specifici documenti che vanno richiesti, di volta in volta, nelle strutture predisposte secondo regole ben specifiche e definite, allo svolgimento quasi ritualistico nell’arco della giornata di procedure di automedicazione e di prevenzione, da svolgersi in casa propria, ecc.; tutto ciò, richiede una buona dose
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di pazienza e di tenuta per non mettere in crisi l’indispensabile collaborazione terapeutica, facendo fronte a non pochi vincoli, limiti e limitazioni, e mettendo in gioco sia le risorse personali sia quanto può derivare dal sostegno di familiari, amici, o eventualmente da figure come il terapeuta laddove ci sia la necessità. Pertanto, a nostro parere, il luogo del laboratorio di scrittura non può far vivere una sorta di seconda dipendenza da “vincoli” di scrittura troppo “vincolanti” -come li definisce Formenti (1998) anche se, a proposito di altri contesti d’intervento- o “strutturati”, che possono essere vissuti come ulteriori costrizioni. I pazienti soprattutto quando hanno percorso il lungo tratto che va dalla diagnosi, alle varie tappe della terapia, fino alla “fine” delle cure; o che, in casi di cronicità della malattia, devono periodicamente riadattarsi alle cure e al proprio ambiente di vita, hanno un profondo e legittimo bisogno/desiderio di potersi concedere uno spazio e un tempo di libertà, di scelta, di autonomia, di profonda leggerezza, ecc.,.18 Dobbiamo inoltre tener presente che un paziente che ha vissuto una malattia importante, almeno nei primi periodi post-malattia e post-terapie, è comunque una persona con fragilità e con oscillazioni di stato d’animo, per cui è d’obbligo che la consegna di scrittura autobiografica faccia molta attenzione a questi aspetti affinché non vada a compromettere in quel momento specifico l’equilibrio, la maggior fiducia e sicurezza costruite a fatica e con disposizione intermittente. Di conseguenza, la narratività e l’apertura della consegna di scrittura non aprioristicamente centrata sui vissuti di malattia, in assenza di una domanda esplicita di scrittura (Solano, 2007) dovrebbe facilitare, in situazione di gruppo, una “conversazione generativa” (Formenti, 2008, p.203) con se stessi e con gli altri, compreso l’operatore che co-conduce il laboratorio, sempre in modo coerente e fedele alla “trasparenza del patto”, potremmo dire, “di scrittura” (Formenti, 1998; Zannini, 2008). In base alla nostra esperienza ci sembra importante che il paziente possa in ogni momento, se ne sente il bisogno, rigiocarsi la consegna di scrittura (Formenti, 1998), quasi oltrepassandola, se 18
Sui vincoli di scrittura più o meno strutturati si tenga presente anche L.Zannini (2008) che nel testo inserisce esempi riferiti a contesti medicoospedalieri non italiani dove tale questione è stata oggetto di ricerca.
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partiamo inoltre dal presupposto condiviso con Mariotti, et., al., che la scrittura rappresenti una forma di “autocontenimento” che “«si rivolge alle parti sane del soggetto»”, “(…) per evocarle, rafforzarle, mantenerle vive e indirizzarle verso il piacere dell’esistenza, (…) in ciò, resistendo e superando le tentazioni e le rese masochistiche” (2007, p.219). Una sollecitazione di scrittura in ambito clinico, o comunque, di cura deve aiutare il paziente a far dialogare dentro di sé le parti fragili, dolorose, mancanti.., con le parti reattive, propositive, più sicure, in grado di volere, desiderare, progettare ancora…., cercando di monitorare e ridurre il più possibile i rischi che tale pratica come tutti gli strumenti utilizzati nella relazione d’aiuto può comportare (Zannini, 2008). Ci troviamo di fronte quindi a una domanda di metodo dalle profonde implicazioni etiche e deontologiche che l’operatore, il formatore, l’esperto, ecc., non possono assolutamente sottovalutare o trascurare, ossia “verso quale tipo di scrittura accompagnare e con quale o quali finalità” ?(Pepe, 2007). Cercheremo, più avanti, di tratteggiare una possibile risposta a questo interrogativo, prendendo in considerazione • un primo livello di scrittura che si può proporre in gruppo e che come primo avvicinamento alla pratica e in assenza di una domanda esplicita di sostegno tramite essa (Solano, 2007), può ruotare attorno al “disegno” più attento, consapevole e dinamicamente evolutivo della propria storia di vita, cui può far seguito: • un secondo livello di approfondimento, progressivamente più focalizzato sui vissuti di malattia sempre se emerge la domanda da parte dei pazienti-partecipanti. È comunque realistico aspettarsi che più o meno trasversalmente il tema della malattia sia portato spontaneamente, per cui potrebbe verificarsi l’eventualità di una rinegoziazione del patto iniziale, sempre inseguendo le esigenze del gruppo, e sempre orientandosi anche con la propria bussola di operatore-esperto in questa metodologia19; • a partire da questa seconda esperienza la scrittura può essere declinata in termini più di consulenza autobiografica/clinica (Demetrio, 2008), e può rappresentare l’oggetto avvicinato all’interno 19
Anche L.Zannini, (2008) ritiene importante la flessibilità contestualizzata dei temi autobiografici affrontabili con la scrittura.
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di una relazione che può anche essere duale, operatore-paziente, e/o richiedere, se ritenuta utile in particolare dal paziente, una complementarità d’interventi, uno di natura pedagogica e uno di matrice psicoterapeutica. Ritornando brevemente ai fattori da tenere presenti e che di fatto abbiamo considerato anche noi nella costruzione e durante lo svolgimento dell’atelier di scrittura sia con i volontari e gli operatori, sia con i pazienti nell’esperienza luganese, ci preme rilevare l’importanza di aspetti, quali20: Ø il rispetto del “patto di scrittura” stabilito e la sua eventuale e contestualizzata rivisitazione che tenga conto delle esigenze del gruppo compresi i piccoli o più consistenti cambiamenti di aspettativa/prospettiva/bisogno/desiderio al suo interno; Ø la costruzione di un contesto dinamicamente e processualmente accogliente che può richiedere gesti e azioni ripetute all’inizio e alla fine di ogni singolo incontro con lo scopo di creare una rassicurante storia di gruppo e un senso di appartenenza a esso; Ø la qualità dell’ascolto, il più possibile attento a come sono formulati giudizi o interpretazioni sia rispetto alla propria scrittura sia in particolar modo nei confronti delle scritture altrui: le “interpretazioni selvagge” bloccano la produzione di saperi e di riflessione così come la reciprocità apprenditiva, il tutto orientato a generare anche piccole novità relative ai propri atteggiamenti esistenziali; Ø la condivisione e la restituzione (a volte, operata anche da chi conduce il gruppo), oculata e garbata delle scritture tramite una parola interrogativa lieve e ferma, per questo curativa, (Mortari, 2006) con la finalità di generare anche minimi processi autoformativi e trasformativi. È una fase del laboratorio molto importante perché è qui che ogni singolo partecipante al gruppo è impegnato a pensare, ricordare, ragionare, interpretare, rielaborare, trovare possibili soluzioni, o alternative, ecc., È il momento “meta-cognitivo” che fa leva su alcuni stimoli21 che il conduttore propone, quali 20 21
Si tratta di dimensioni attorno alle quali si struttura trasversalmente ai vari contesti un laboratorio di scrittura autobiografica (Demetrio, 2008; Formenti, 1998). Si rimanda inoltre a L.Zannini, (2008), p.229. Li deriviamo soprattutto da L.Formenti con cui, chi scrive, ha condiviso alcune esperienze di formazione narrativo-autobiografica anche se in ambito non medico-sanitario. Si cfr., sempre L.Zannini, (2008), in particolare
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v com’è andata ?, che cosa avete pensato ?, come vi siete sentiti?; v vi sembra di avere appreso qualcosa ?; v che cosa vi ha permesso di apprendere, di conoscere meglio, o diversamente, la proposta di scrittura ?; v avete trovato delle conferme, qualche filo conduttore, aspetti di continuità nella vostra storia, in quello che avete scritto?; v sono emerse invece delle discontinuità, dei passaggi, delle svolte, dei cambiamenti già sperimentati o che pensate di potervi permettere ?; v Che cosa vi dicono e dicono di voi queste esperienze già vissute?; v Vi sembra di poter riutilizzare adesso qualche apprendimento costruito in quelle occasioni?; v …. . 5. A chi affidare la conduzione del laboratorio di scrittura Arrivati a questo punto della nostra riflessione c’è d’obbligo soffermarci sulla: Ø figura, che ha la “regia” del laboratorio presidiandone la tenuta e la dimensione di evoluzione di senso. Al riguardo, la letteratura di settore, relativamente a contesti non italiani, fa presente Zannini, sollevando quest’aspetto (2008, pp.115-116), sottolinea come all’interno di una proposta di scrittura di breve durata, che noi definiamo di “prima sensibilizzazione”, magari introdotta unatantum (ivi) -che per quanto ci riguarda, facciamo coincidere con 4 o 6 incontri, di almeno due ore ciascuno-, si possa fare riferimento a un operatore che lavora dentro alla struttura ospedaliera (volontario, infermiere) debitamente formato ed esperto pertanto in metodologia autobiografica, che come tale, abbia sperimentato su di sé, tale pratica (ivi). Il poco tempo a disposizione, ci viene da aggiungere, richiede inoltre di aver già stabilito una relazione di fiducia con chi accompagna “in scrittura” il paziente, di qui la
nelle parti del testo che contengono alcune griglie in cui sono stati inseriti stimoli di ripresa/restituzione auto-formativa delle scritture prodotte con particolare riferimento all’ambito-medico sanitario.
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comprensibile opzione per un professionista che, in parte, può essergli già noto e abbastanza familiare. Quando, invece, si abbia a che fare con percorsi di media o lunga durata -che nella nostra esperienza si articolano dentro 10 o più incontri, sempre di due ore ognuno-, è consigliato l’utilizzo di un professionista esterno all’ospedale (ivi): esperto in narrazione e scrittura autobiografica, o anche, consulente autobiografo/clinico (Demetrio, 2008). È facile prevedere, in questo secondo caso, il prendere forma di un percorso più approfondito che, a nostro parere, può anche rendere necessario, sempre che il paziente sia d’accordo, perché ne sente l’esigenza, un’integrazione tra più professionisti (il medico, lo psicologo e chi sta accompagnando il paziente nell’atelier di scrittura). I reciproci “saperi esperti” potranno rispettivamente confrontarsi e arricchirsi, come poliedrici “vertici osservativi”, e soprattutto potranno dialogare con quel “sapere” che il “paziente” ha elaborato su di sé, e sulla propria storia di vita, dove è entrata anche la vicenda di malattia. Ciò, in modo coerente con la “scelta narrativa” in medicina e nella pratica clinica, che prenderemo in considerazione nel prossimo capitolo (Bert, 2007; Masini, 2005, p.46; Moja, Vegni, 2000, p.49; Zannini, 2008, pp.37-65). È possibile prevedere in alcune situazioni un progetto di scrittura che si snoda lungo tre livelli, in parte già introdotti: a) il primo, di avvicinamento all’esperienza intesa anche nella sua accezione più complessiva, alla pratica di scrittura e all’insolita “messa in parola” di sé; b) il secondo, di approfondimento della tecnica e della propria storia di vita, magari, più focalizzato sulla questione della malattia, e c) il terzo, di tipo più consulenziale, secondo l’approccio della consulenza autobiografica/clinica, a cui ci riferiremo brevemente di seguito (Demetrio, 2008), orientato a introdurre una sorta di “quarto livello permanente”, che coincide con la sempre più autonoma e competente presa in carico di sé, secondo un progetto adulto auto-clinico e di auto-cura. La questione della scelta dell’operatore è strettamente interconnessa, quindi, anche al luogo-contesto dove sarà possibile organizzare gli incontri di scrittura che necessitano di una regolarità d’intervallo, l’uno dall’altro: generalmente una settimana di distanza
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tra un appuntamento e l’altro, o anche, con una successione di quindici giorni tra i primi due incontri, e un’alternanza di dieci, quindici giorni per i successivi, secondo il modello messo a punto e pluri-sperimentato da Demetrio e dal suo gruppo di ricerca, di cui chi scrive, fa parte. Non ci stanchiamo di ribadire come nella costruzione e nella gestione di un laboratorio di scrittura con pazienti clinicamente impegnativi vadano attentamente vagliate tutte le variabili in gioco, già precedentemente considerate, e tra queste, in modo particolare, la situazione clinica ed emotiva di ogni singolo paziente, nonché l’andamento della storia del gruppo stesso. La scrittura, solo apparentemente strumento agile e di facile trasferibilità, come ogni altro strumento utilizzato nella relazione d’aiuto, necessita sempre di essere puntualmente contestualizzata, in ciò concordi con alcuni tra gli autori già menzionati (Solano, 2007; Zannini, 2008). La pratica della scrittura autobiografica e della personale storia di malattia, è comprensibilmente una questione molto delicata, a più livelli e per più motivi, che richiede una solida disponibilità e competenza umana, narrativa22, relazionale, procedurale, ecc., da parte di chi ha la responsabilità del laboratorio, e che va continuamente riconsiderata con raffinato sguardo critico, così come essa necessita di un’altrettanta maturità interiore ed esperienza professionale dell’operatore (Blandino, Granieri, 2002), capace di valutare fino che punto di approfondimento accompagnare i pazienti. Sarebbe molto rischioso per le ricadute sul paziente e, inoltre, deontologicamente scorretto, schiacciare, per così dire, l’acceleratore e poi abbondare la guida del volante, pensando con leggerezza che la vettura continui ad andare da sé, verso la giusta direzione. Di qui, la centralità di una formazione ad hoc, sulla quale, a giusta ragione, insistono più autori (Bert, 2007; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008), tra i quali, anche chi scrive, e sulla quale ragioneremo più avanti. Una formazione che non trascuri solide competenze conoscitive, sempre partecipate soggettivamente e in modalità esperienziali, riguardanti temi come la narra22
Motivo centrale nella riflessione di V.Masini, (2005), non tanto riferito all’esercizio della scrittura, quanto al più complessivo paradigma narrativo in medicina.
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zione, il pensiero narrativo, il metodo delle storie di vita, il nesso tra narrazione-scrittura e relazione d’aiuto e di cura, il rapporto tra narrazione ed educazione terapeutica, ecc.,. Quest’ultimo aspetto si rende necessario per più motivi, non ultimo quello che ha a che fare con il rischio di mettere in atto, soprattutto in ambito clinico, dove la sofferenza è la nota dominante, pseudo-pratiche narrativo-autobiografiche, esportate da altri contesti, improvvisate con superficialità, non coerenti e pertinenti, ecc.,, perché prive di un pensiero su di esse e sugli antefatti concettuali e teorici che le sottendono. Ci preme infine far presente come la competenza richiesta all’operatore che propone la pratica di scrittura in ambito clinicoospedaliero, non debba essere necessariamente di matrice psicologica o psicoterapeutica, poiché l’intervento di supporto basato sulla narrazione e sull’esercizio della scrittura si colloca in un orizzonte teorico e operativo di tipo pedagogico, educativo e auto-formativo. Anzi, il rischio che vediamo, concordi con il punto di vista degli autori già presi in considerazione fin qui, è proprio quello di una confusività di prospettive e di uno slittamento di uno sguardo nell’altro, laddove, non è detto che l’esperto in metodologia autobiografica sia necessariamente un terapeuta di professione, mentre è di sicuro una persona e un professionista che ha esercitato su di sé, questa metodologia, e che ha sviluppato una sensibilità e delle competenze di tipo empatico-relazionali, capaci di “contenere” quanto viene progressivamente “aperto” (Bert, 2007; Blandino, Granieri, 2002; Giani, 2009; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008). D’altra parte, non è così giocoforza, che solo lo psicologo o lo psicoterapeuta siano legittimati a farsi carico di questo tipo di relazione di accompagnamento e d’aiuto che passa attraverso attenzioni, posture, parole, regole, ecc., che si differenziano da quelle che è più facile rinvenire nello studio di un terapeuta (Giani, 2009; Masini, 2005; Zannini, 2008). Il paziente stesso che non sente il bisogno di rivolgersi a un terapeuta, potrebbe anche prendere le distanze dal progetto di scrittura. Crediamo invece che potrebbe essere proficua, come si è già rilevato, la complementarità della collaborazione tra le due figure di operatori, qualora il paziente si rivolga a entrambi, sempre che essi siano attenti a non interferire tra loro nel lavoro che stanno portando avanti rispettivamente con il paziente, cui deve essere
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chiaro durante tutto il percorso, la specificità delle due relazioni d’aiuto, onde evitare rischiose confusività di ruolo, contrapposizioni, o perfino, svalutazioni che sicuramente non gli gioverebbero. Lungo questa direzione, ci sembra di poter affermare come sia altamente improbabile nell’organizzazione della realtà ospedaliera italiana, affidare al medico gravato da più incombenze, e non poche volte, costretto a prendersi cura di un esubero di pazienti, per la mancanza di personale, la gestione di un atelier di scrittura (Giani, 2009). A ciò, si aggiunga l’ atteggiamento abbastanza diffuso di riserva, di reticenza, di difesa, se non di vera e propria diffidenza, proprio del medico nei confronti di tale approccio, per certi aspetti comprensibile, dato che esso non rientra nella tradizionale e canonica formazione dei medici, o anche dei giovani medici. Se poi, non dimentichiamo il problema dell’”incontro mancato”, direbbe Piero Bertolini, tra medicina, psicologia e pedagogia, ci rendiamo conto di come la questione si complichi ulteriormente, connotandosi come questione più ampia e profonda, di impostazione culturale. Gli operatori coinvolgibili pertanto - pensando sempre ai reparti di oncologia medica, o che riguardano patologie cronico-degenerative, così come agli hospice- ci sembrano i volontari, qualora la struttura ospedaliera si avvalga della collaborazione di associazioni di volontariato o gli infermieri. Si potrebbe ipotizzare infine la presenza e il coinvolgimento di una figura professionale esterna alla struttura ospedaliera, come per esempio il consulente in autobiografia, che adeguatamente formata, diventi una figura istituzionale, che offre quest’opportunità narrativa ai pazienti che lo desiderano e che sono nella condizione clinica per intraprendere questa esperienza, calibrata su ogni singolo paziente.
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6. Il luogo dell’atelier di scrittura Emerge come conseguenza del punto di attenzione appena introdotto, la questione del Ø “dove” collocare il laboratorio di scrittura rivolto ai pazienti. Si tratta di un aspetto con il quale ci siamo direttamente confrontati all’interno del nostro percorso di formazione rivolto ai volontari oncologici dell’Associazione Triangolo-Sottoceneri e agli operatori della Clinica S.Anna di Lugano, cui si è già fatto cenno. Ci riferiamo pertanto alla specifica situazione della malattia oncologica, anche se alcune scelte metodologiche e procedurali ci sembrano estendibili ad altre patologie importanti. Nel nostro caso, l’ipotesi di organizzare il laboratorio all’interno della clinica, ci è sembrata fin da subito da scartare poiché la degenza del paziente oncologico può essere abbastanza breve, se il decorso della malattia e della terapia procede senza particolari intoppi e problemi, o al contrario, anche molto protratta se le condizioni cliniche risultano critiche. Ora, a) nella prima situazione si realizza un turn-over di pazienti che rende pressoché impossibile la loro partecipazione al laboratorio –così, come l’abbiamo tratteggiato in queste pagine- che necessita, per più motivi, tra i quali la sua stessa efficacia per la salute dei pazienti, di una certa stabilità, regolarità e omogeneità di presenza. Non dimentichiamoci che esso costituisce terapeuticamente una storia co-costruita e condivisa. Inoltre, il paziente, una volta dimesso, può comprensibilmente tendere a non intraprendere un’iniziativa che lo riporti nel luogo della cura ma anche della malattia, con tutto quello che ciò comporta in termini di riattivazione di vissuti dolorosi, di ansie, di paure, di fantasmi, ecc.,23. Il poco tempo a disposizione ci sembra che infici il senso, l’efficacia e il buon esito della proposta di scrittura anche all’interno di una relazione duale con l’operatore. Se il ricovero del paziente 23
Si può pensare che il contesto di narrazione e di scrittura sia realizzato in ospedale per gruppi di pazienti che non hanno particolari difficoltà a tornare di nuovo nel luogo dove è iniziato il proprio percorso di malattia e terapeutico, sempre che l’organizzazione ospedaliera coinvolta, si faccia carico, a più livelli e rispetto a più dimensioni, gestionali, di modello e cultura di cura, di relazione con il paziente e i suoi famigliari, ecc., di tale scelta operativa e d’intervento.
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è temporalmente breve non ha molto senso, secondo noi, intraprendere un’esperienza di scrittura che richiede tempi abbastanza lunghi e lenti, a meno ché, il paziente stesso non sia sorretto dalla motivazione di iniziare un percorso che potrà continuare nell’ambito di una consulenza fuori dall’ospedale. b) nel secondo caso, di un’ospedalizzazione temporalmente lunga a causa di difficili e dolorose condizioni di salute che possono comportare esami anche invasivi, terapie non facili da tollerare, ecc., appare chiaro, se non ovvio, come non sia proponibile un progetto regolare, stabile e strutturato di scrittura, soprattutto se condiviso in gruppo (Zannini, 2008, p.115)24. In questa situazione, come abbiamo già avuto modo di osservare, ci sembra più realisticamente realizzabile l’eventualità -sempre attenendoci alla scelta e alle possibilità del paziente- di un sostegno che passi attraverso un leggero e iniziale avvicinamento alla scrittura che può assumere la forma di una “scrittura minima”, o di un “appunto autobiografico”, affidato alla pagina secondo il bisogno, il desiderio, la disponibilità fisica e i ritmi del paziente, all’interno quindi di un tempo oggettivamente pertinente e soggettivamente sentito come adeguato. Abbiamo a che fare con un “andamento di scrittura” gestito perlopiù in autonomia e che può essere “misto”, nella sua tipologia di proposta: tra alternanze di scrittura autobiografica, diaristica, di malattia, ecc.,. Ci ritroviamo, pertanto, nella tipologia di sollecitazioni di scrittura, proposte da Bolton (1998) e segnalate da Zannini (2008, p.110), che per quanto ci riguarda possono ruotare, di volta in volta, in modo flessibile, sulla questione della malattia, e non: ricordi, pensieri, emozioni, annotazioni diaristiche, lettere a persone care (secondo noi, e in continuità con Zannini, riguardanti in alcuni momenti emotivi della degenza del paziente, anche solo la personale e più complessiva storia di vita). Ancor più, in una situazione di questo tipo, non è giocoforza necessario che il paziente condivida i brevi testi prodotti con l’operatore (infermiere o volontario), egli può custodirli per sé, per i famigliari, ecc.,.:”una volta finito di scrivere si può anche strappare 24
I fattori relativi alla collocazione della scrittura in situazione di gruppo o all’interno di una relazione duale con l’operatore, con i quali ci siamo confrontati anche durante il percorso realizzato, sono affrontati dalle ricerche e dalla letteratura di settore menzionate da L.Zannini, (2008), p.115.
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e gettare via il foglio (anche se per molti è difficile farlo). Il proposito di mostrare poi a qualcuno quello che si è scritto può influire sulla disposizione mentale durante la scrittura (…)” (Pennebaker, 2004, p.63). Qualora, dovesse emergere l’esigenza, anche solo di cenni conversativi con l’operatore, mediati da ciò che il paziente ha scritto, ciò può accadere e situarsi, in modo del tutto informale e anche saltuario, in quei momenti di degenza nei quali la relazione, in particolare con gli infermieri, passa attraverso pratiche di cura e farmacologiche non invasive o impegnative. Con i volontari ciò può avvenire al momento del thè pomeridiano o durante le loro visite in stanza.25 Si può inoltre decidere insieme di darsi un nuovo “appuntamento narrativo” che può ruotare attorno a ulteriori proposte di scrittura in continuità con quanto è già stato scritto, sempre all’insegna della massima libertà di scelta del paziente; c) da scartare l’ipotesi di accompagnare il paziente, in un rapporto “one-to-one”, durante la somministrazione e l’infusione di farmaci chemioterapici soprattutto in day-hospital, ma anche nella situazione di ospedalizzazione: si tratta infatti di un momento che può essere ansiogeno, o che può procurare qualche disturbo fisico e che pertanto può essere reso più tollerabile, se il paziente lo desidera, dalla conversazione orale con il volontario, se previsto, o con gli infermieri e i medici presenti, da parte loro alle prese con ritmi di lavoro intensi, e impossibilitati a farsi carico di tale progetto. Non dimentichiamoci, inoltre, che alcuni pazienti in queste circostanze vivono come curativo per sé, una sorta di sospensione del pensiero o di silenzioso raccoglimento in se stessi. Il loro racconto è del tutto interiore e intimo. A ciò, va aggiunto un fondamentale aspetto di organizzazione dello spazio ospedaliero, almeno nel contesto italiano, per cui le sedute chemioterapiche 25
La “nicchia” narrativa e di scrittura, descritta al punto b), può essere di utilità e risultare maggiormente praticabile in situazioni di terminalità (Zannini, 2008, p.115) cui ci siamo già riferiti. Nella nostra esperienza luganese, l’assistente sociale interna alla clinica S.Anna si è mossa in questo modo, dotando una paziente ospedalizzata di un piccolo diario sul quale scrivere in totale libertà. Quanto scritto, a volte, è stato letto in stanza dall’assistente sociale: un modo “altro” di contribuire a costruire una relazione di accompagnamento e di supporto tra paziente e operatore.
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generalmente si svolgono in piccole stanze comuni, alla presenza il più delle volte di famigliari o amici del paziente: situazione con poca privacy, che rende non proponibile il progetto di scrittura. Analoga la situazione nella stanza di degenza in regime soprattutto di non-solvenza. Difficile, infine, il poter prevedere con una certa stabilità e regolarità la presenza della stessa “coppia operatore-paziente”, indispensabile per avviare e portare avanti la pratica di scrittura: gli appuntamenti possono saltare a causa delle condizioni fisiche del paziente, così come possono subire variazioni i giorni di presenza dei volontari; d) plausibile l’idea di un accompagnamento alla scrittura di sé, individuale, da parte dei volontari, nella situazione d’intervento domiciliare che si connota come ambito privato e rassicurante, in cui può essere utile o semplicemente piacevole iniziare a scrivere qualcosa di sé e della propria storia con l’appoggio del volontario, che se è il caso, può mettere per iscritto durante l’incontro stesso, o tra un appuntamento e l’altro, il racconto del paziente (non solo di malattia), riproponendoglielo la volta successiva, secondo il modello di “volontariato autobiografico”, cui si riferisce Demetrio, anche se in ambito non prettamente medico-sanitario. Approccio, quest’ultimo, che alcuni volontari dell’Associazione Triangolo hanno praticato con esiti favorevoli per il paziente, anche anziano, e per la relazione stessa di supporto; e) altrettanto realizzabile l’utilizzo di uno spazio “neutro”, ossia non medicalizzato, esterno pertanto all’ospedale, come potrebbero essere i locali messi a disposizione dall’eventuale associazione di volontariato collegata alla struttura ospedaliera e coinvolta nel progetto. Scelta, che chi scrive, ha operato nell’esperienza luganese, per cui le due volontarie che hanno coordinato il laboratorio di scrittura con i pazienti, li hanno incontrati in un luogo fuori dalla clinica, facilmente raggiungibile, dove è stato possibile realizzare un clima conviviale che ha senza dubbio facilitato la pratica di scrittura autobiografica, sperimentata per la prima volta, e la sua condivisione in gruppo, all’insegna del “provare a scrivere”, del “possibile piacere di scrivere”, dello “stare insieme”, del “percepirsi capaci…”, dell’”avere un progetto stimolante e nuovo dentro la giornata”, ecc.,. Il patto di scrittura stabilito con i pazienti non prevedeva come tema centrale, quello dell’esperienza di malattia,
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secondo un esercizio di scrittura più “espressivo”, come si è già avuto modo di distinguere. Come ultimo punto di attenzione, ci sembra importante far presente l’esperienza realizzata da un’operatrice dell’hospice (non specifichiamo il ruolo per ragioni di privacy) di una struttura ospedaliera in provincia di Varese (manteniamo l’anonimato per le stesse ragioni), che durante la frequenza al corso che ha avuto come tema l’utilizzo della pratica di scrittura professionale e di scrittura autobiografica con il paziente come strumento di supporto -tenuto da chi scrive, per due anni consecutivi e rivolto sia agli operatori dell’hospice sia a quelli di altri reparti della struttura26- ha sperimentato una formula di scrittura molto lieve ma realisticamente praticabile, con un paziente oncologico in fase terminale, il quale ha condiviso pienamente con lei questo progetto. Il paziente, con un piccolo diario a disposizione, annotava secondo tempi e intervalli scelti da lui, “pensieri”, “ricordi”, “emozioni”, “frammenti della propria storia”, ecc.27, affidati anche a una sola parola, e non necessariamente condivisi con la caposala28: condiviso è stato il patto, l’appuntamento flessibile, in cui ritrovarsi ed esserci entrambi, per scambiare “quattro chiacchiere”, e quindi per condividere il sentire, le emozioni provate, il dolore, la paura, l’accettazione…., che andavano oltre la grafia sul piccolo diario: escamotage, per un incontro profondo con una figura di riferimento, in un momento in cui ci si prepara alle separazioni definitive. In sede formativa, rispetto alla possibile dimensione della scrittura volta a facilitare la ricostruzione di legami con i famigliari o a riprendere la comunicazione con loro, in condizioni di terminalità (Zannini, 2008, pp.122-123) si è presentata la questione eticamente problematica, che mette in gioco anche la deontologia professionale dell’operatore, riguardante il possibile patto che chi 26 27
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Gli operatori coinvolti sono stati dirigenti medici, medici di base, psicologi, tutor infermieristici, fisioterapisti, terapisti della riabilitazione, compresa la responsabile della progettazione formativa. Analoga modalità è stata seguita da una giovane psicologa frequentante il Corso di Specializzazione in Psicoterapia Transculturale presso la Fondazione Cecchini Pace, di Milano, supervisionata, da chi scrive, durante un intervento di sostegno domiciliare rivolto a due pazienti (una donna e un giovane uomo) malati di Sla. Al riguardo, si tenga presente L.Zannini, (2008).
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scrive può stabilire con l’operatore, in base al quale i propri scritti andranno consegnati ai famigliari, ignari del progetto di scrittura, dopo l’avvenuta morte. Si tratta di una questione estremamente delicata che non può trovare immediate e facili soluzioni e che solleva, ancora una volta, la delicatezza dello strumento-scrittura. I contenuti messi per iscritto dal paziente potrebbero essere emotivamente faticosi per i famigliari, magari implicati nella pagina, che per di più, non hanno la possibilità di affrontarli insieme al paziente stesso. A questo punto della riflessione fin qui condotta, ci sembra importante sottolineare come sia indispensabile da parte della struttura ospedaliera, o eventualmente anche solo dei reparti coinvolti, una condivisione culturale, organizzativa, professionale e operativa di un progetto di scrittura rivolto ai pazienti che non può essere relegato alla scelta del singolo operatore. 7. Scrittura autobiografica, storie di malattia e di cura, cenni di consulenza autobiografica/clinica Come abbiamo già accennato, un laboratorio di scrittura rivolto a pazienti che non abbiano manifestato una vera e propria domanda di scrittura come possibile supporto, può prendere l’avvio e focalizzarsi per la durata di almeno cinque incontri, sulla scrittura di alcuni frammenti/appunti della propria storia di vita. Si tratta di un laboratorio che è orientato a familiarizzare chi vive l’esperienza di malattia con la pratica della scrittura e che ha come prima finalità quella di sondare se per i soggetti convolti lo strumento della scrittura autobiografica possa essere d’aiuto anche soltanto come possibile esperienza che introduce una nota di novità piacevole dentro la fatica e la sofferenza della malattia e delle terapie (Demetrio, 2008; Zannini, 2008). Una volta appurata una soglia minima ma pur sempre presente di curiosità, d’interesse e d’investimento personale per tale esperienza, chi conduce il laboratorio cerca di introdurre processualmente e tramite le sollecitazioni proposte, gli altri obiettivi che si pone la scrittura di sé in situazioni di malattia, sapendo che alcune finalità saranno raggiunte, altre solo in parte, altre ancora rimarranno in sospeso per tempi più proprizi; alcune infine potranno
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essere riviste e negoziate con il gruppo, così come, altre ancora, non si raggiungeranno per più motivi. Scrivere da paziente Qui di seguito ci proponiamo di sintetizzare alcuni tra i principali approdi della scrittura autobiografica con i pazienti non necessariamente e subito focalizzata sull’esperienza clinica (Zannini, 2008)29. Pertanto, essa30: • può rappresentare un’iniziale modalità per avviare il lento e graduale processo di ri-cucitura della frattura generata dall’esperienza di malattia, re-inserendola nella propria storia di vita, 29
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Se il tema della propria esperienza di malattia dovesse emergere, com’è comprensibile che accada, chi conduce il laboratorio è chiamato a confrontarsi con tale questione appurando se il bisogno di scrittura su tale tema sia condiviso dal gruppo o se esso riguardi solo qualche partecipante. Se l’esigenza è comune si possono introdurre alcuni stimoli di scrittura inerenti alla vicenda clinica, rinegoziando il patto formativo-di scrittura, pur facendo attenzione a non sbilanciarsi troppo su tale dimensione. Qualora, si trattasse di una domanda manifestata solo da alcuni, si cercherà di avvicinare trasversalmente tale motivo autobiografico rimandando l’eventuale suo approfondimento all’interno di un secondo e successivo laboratorio, o dentro appuntamenti individuali di consulenza autobiografica/clinica. In entrambi i casi, l’argomento della malattia può essere avvicinato tramite sollecitazioni di scrittura che introducano aspetti più globali e universali della vita di ognuno di noi, quali l’esperienza della “perdita”, del “cambiamento”, della “separazione”, della “ferita”, cercando di far emergere accanto ai vissuti di dolore anche emozioni che “parlino”, di “ripresa”, di “nuovi inizi”, di “superamento”, di “ritrovamento”, ecc.,. Le eventuali connessioni saranno cercate e trovate da ogni paziente in ciò stimolato da chi conduce il laboratorio e dai “compagni di scrittura” (si veda L.Zannini, 2008, pp.121124). Abbiamo tenuto presenti in modo particolare rispetto alle valenze della scrittura in contesti di malattia e di cura alle quali ci siamo qui riferiti i contributi di G.Bert, 2007; S.Bonino, 2009; D.Demetrio, 2008; S.Ferrari, 1994; B.J.Good, 2006; V.Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; J.Pennebaker, 2004; L.Solano (a cura di), 2007; G.Starace, 2004; L.Zannini, 2008. Relativamente alle ricadute più trasversali e più interioristicamente inerenti la dimensione dell’autoformazione e della cura di sé nell’età adulta abbiamo considerato P.M.Bellini, (2000); M.Castiglioni (2008). Si cfr., inoltre B.Cyrulnik, E.Malaguti, (2005). Rispetto ai motivi che mettono in gioco le caratteristiche della narrazione e del pensiero narrativo si vedano J.Bruner, (1990); A.Smorti, (1994).
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potendole assegnare quindi un peso più sostenibile e anche più coincidente con l’obiettività della situazione clinica, laddove ciò si renda possibile, per il tipo di diagnosi e di intervento terapeutico, nonché per l’andamento stesso delle terapie intraprese. Ci ricorda Adriana Cavarero, citando Hannah Arendt, che ”La storia rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi” (1997, p.8); • tenta di accompagnare il paziente nella ri-costruzione almeno parziale e sulla carta di una normalità di vita, anche prospettata più in là, proprio quando la malattia impone le sue norme e i suoi limiti all’insegna della “dis-continuità” della quotidianità; • con il porre un distanziamento rispetto all’esperienza vissuta, o ancora in corso, seppure con tonalità emotive meno intense, contribuisce a ri-osservare il disegno della propria vita potendo sperimentare un senso di maggiore integrazione di sé, quando una malattia importante (per diagnosi, decorso e terapie) fa di tutto per farci sentire smembrati. In questo modo, si può trovare nella scrittura autobiografica un supporto per ri-comporsi, sicuramente diversi da prima, ma non necessariamente e per sempre in perdita. Le immagini di sé, statiche e che ci fanno soffrire perché rappresentano una chiusura alla vita, al ri-trovamento e alla vera e corrispondente individuazione di sé, possono essere interfacciate con immagini in movimento e anche di progressiva vitalità e ripresa, non soltanto fisica. Il bilancio, seppur provvisorio, che ne emerge può permettere di coniugare perdite e conquiste, passate e attuali. Scrive Cavarero Il significato che salva la vita di ognuno dal mero succedersi degli eventi non consiste in una determinata figura, consiste però esattamente nel lasciarsi dietro una figura, ossia qualcosa di cui si possa scorgere l’unità del disegno nel raccontare la storia (…). La vita non può essere vissuta come una storia, perché la storia viene sempre dopo, risulta (…) (1997, pp.8-9);
• cerca di accompagnare il paziente nell’atto di ri-darsi un’immagine in cui potersi rispecchiare e riconoscere; • si propone di ri-avviare un processo di pensiero che fa pensare, dinamicamente plastico, più capace di spostarsi dalle abituali direzioni perlopiù pessimiste e depressive, almeno nelle prime
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fasi della malattia, in questo sollecitando un ri-orientamento dello sguardo rivolto a sé, alla vita in generale, alla propria vita, all’esperienza stessa di malattia, alle proprie priorità, ai personali investimenti e progetti futuri, ecc.,. Non dimentichiamoci che il pensiero narrativo-autobiografico, che sottende la scrittura autobiografica, è un pensiero che “mette insieme”, “lega tra loro le parti” (Bruner, 1990; Smorti, 1994), per cui il paziente impegnato nella scrittura, può far dialogare dentro di sé, mondo interno ed esterno, l’esperienza di malattia con altre situazioni positive che ha potuto sperimentare e che può vivere tuttora. La propria vicenda di vita “messa in trama”, può facilitare possibili altri e differenti incastri tra gli eventi, le situazioni, i pensieri, aprendo possibilità rigeneranti di significato, non immaginate e forse anche im-pensabili fino a quel momento. Di fatto, già l’impegno di scrittura e soprattutto l’azione del narrare-scrivere sposta il pensiero, diversamente non potremmo in quel momento preciso strutturare le frasi, i periodi, stabilire nessi sintattici, ecc.,: operazioni e costruzioni logico-sintattiche, che possono cambiare e modificarsi durante la stesura scritta di pezzi della propria storia, così come il modo di pensare e di ragionare che le attraversa, che di fatto, coincide con le nostre modalità di rapportarci alla vita e agli eventi anche profondamente dolorosi, che in modo del tutto imprevisto la investono; • può facilitare realmente e metaforicamente a “mettere un punto sulla pagina”, per ri-cominciare, in questo recuperando le “altre volte” in cui ciò è avvenuto, le emozioni in parte già provate, le reazioni parzialmente simili dinanzi a una difficoltà consistente, le risorse, dentro e fuori di sé, attivate e individuate che si possono ri-mettere in gioco. La confusione e la perdita di riferimenti vissuta soprattutto durante i primi momenti della malattia, ma non relegata solo ad essi, può dipanarsi; • può permettere una nuova versione dell’evento secondo un racconto che sentiamo personalmente nostro e pur sempre rispettoso degli elementi di realtà. È come se l’evento messo per iscritto, in un tempo di pausa dal dolore, dalla sofferenza, ecc., fosse plasmato, ri-raccontato, ospitando anche andamenti prefigurati secondo direzioni più rassicuranti, ma non per questo magiche, onnipotentemente illusorie, o evitanti, di qui la possibile autonoma e consapevole attribuzione a ciò che di impegnativo ci è capitato di una forma emotivamente più sostenibile. “ (…) Con le parole
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ci si può costruire (…)”, scrive Bellini (2000, p.17), anche perché, continua l’autrice “(…) all’interno di noi il significato della parola perde la sua proprietà denotativa, di tipo dizionariale per sfumare nella vasta regione del senso individuale o connotativo, in cui un termine viene costantemente ristrutturato in qualità di immagine altamente personalizzata, di microtesto potenziale da riattivare in caso di necessità (ibidem, p.75); • ci temporalizza nelle possibilità di movimento ed evolutive che ci legittimiamo a riconoscerci, mettendo in relazione passatopresente-futuro della nostra vita, proprio secondo il procedere tipico del pensiero narrativo (Bruner, 1990; Formenti, 1998; Smorti, 1994); • può costituire una valida alleata con la parte più adulta di sé, meno spaventata da quanto di forte o di propriamente traumatico ci sta succedendo. Una parte, questa, che cerca di arginare il debordare dell’altra parte più fragile e perciò potente e tiranna. L’eccesso di paura può essere relativizzato, almeno un po’, e per un po’ di tempo. Nella e tramite la scrittura si può diventare genitori di se stessi, proprio quando la malattia, se importante, ci confronta con una sorta di “seconda nascita”; • può consentire il recupero di ricordi secondo un registro non solo nostalgico, il ché non gioverebbe a chi sta già male, ma anche propulsivo, poiché “tra il soggetto senziente ed il soggetto esperiente si inserisce poi quello scrivente, che mentre guarda dall’esterno, acquisisce con maggiore evidenza la prospettiva della temporalità, recuperando la scansione memoriale necessaria per elaborare il movimento del divenire (…)” (Bellini, 2000, p.81); • rappresenta uno spazio silenzioso di sosta che può preparare lentamente a un “ri-adattamento creativo”; • può essere un ancoraggio che protegge perché a esso si può ritornare e ritrovare quanto si è scritto di rassicurante perché non vada dimenticato o perfino espulso; • …………… Dal punto di vista metodologico durante il laboratorio di scrittura il conduttore, se ne riscontra la necessità, può affidare qualche sollecitazione narrativa come “impegno” di scrittura da svolgersi singolarmente nel tempo privato e più dilatato della casa. Può trattarsi di una consegna attraverso la quale approfondire qualche motivo già emerso nella situazione di gruppo, dall’anda-
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mento anche più strutturato. Qualsiasi proposta affrontata fuori dall’atelier di scrittura sarà ripresa nell’incontro successivo. Sempre durante lo svolgimento della pratica di scrittura in gruppo si possono prevedere degli incontri individuali –a nostro parere, sempre attenendosi alla domanda di ogni singolo partecipante- di ripresa e di maggiore focalizzazione/chiarificazione/ampliamento di alcuni temi, aspetti, dubbi, difficoltà, incontrati, dentro una relazione duale con l’operatore che rende il contesto più simile alla consulenza autobiografica/clinica (Demetrio, 2008, p.250). Inoltre, può verificarsi l’eventualità, non poi così remota, che qualche partecipante spinto dal bisogno/desiderio di continuare il lavoro su di sé, intrapreso con la scrittura, chieda una consulenza individuale (ivi). A questo punto, l’intervento diventa prettamente di tipo consulenziale con una durata temporale e una scansione tra un incontro e l’altro che sarà concordata con l’operatore/consulente in scrittura autobiografica, all’insegna sempre della regolarità degli appuntamenti (ivi). Dall’atelier di scrittura alla consulenza autobiografica/clinica Qui ci preme soltanto richiamare brevemente, sempre in continuità con la riflessione di Demetrio (2008), alcune dimensioni che caratterizzano il setting di consulenza autobiografica/clinica, quali: Ø la maggiore centralità della consegna di scrittura all’interno della relazione duale operatore-paziente, soprattutto per quanto riguarda i “processi di pensiero” che essa sta generando o può generare, e il come si è giunti a quella “forma testuale”, che è “forma di sé” e della “propria storia”, fino a quel momento (2008, pp.250252)31; Ø la priorità, se non l’esclusività della scrittura rispetto all’utilizzo di altri linguaggi cui si può ricorrere nella situazione laboratoriale di gruppo che è chiamata ad andare incontro alle preferenze e alle possibilità di ogni partecipante (Formenti, 1998). Del resto, nel patto consulenziale ciò è esplicitato in modo molto chiaro e 31
Cfr., inoltre M.P.Bellini, (2005); L.Formenti (1998).
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chi opta per questa modalità di supporto è mosso dall’esigenza di approfondire l’esperienza scritturale (ibidem, p.252); Ø la ripresa/restituzione più consistente da parte dell’operatore del testo scritto (ivi); Ø il potenziamento del momento di meta-scrittura che tende a slittare nella postura di auto-analisi, secondo un uso sempre più autonomo della scrittura come possibile “tutore di resilienza”, o anche, fattore protettivo32 (ivi); Ø la maggiore presenza di un “lavoro orientato filosoficamente” tramite il quale poter indagare e problematizzare quasi archeologicamente il testo prodotto. Il ché, implica una sempre più costante disposizione da parte di chi scrive a porsi interrogativi e dubbi, sollecitati anche dal consulente autobiografo (ibidem, pp.252-253). Di seguito, segnaliamo le macro-finalità della consulenza autobiografica/clinica, secondo il modello messo a punto da Demetrio, e praticato alla Libera Università di Anghiari (2008, p.266): Ø ampliamento narrativo e discorsivo; Ø ampliamento della domanda di conoscenza extra personale; Ø curiosità biografica per le storie altrui; Ø attitudini autoriflessive, domande di senso esistenziali; Ø variazioni nell’immagine di sé; Ø consapevolezza retrospettiva; Ø bisogno di uso continuo della scrittura; Ødomande di senso filosofiche. Quando a essere messa sulla pagina è l’esperienza di malattia e di cura Come si è già avuto modo di osservare le scritture dei pazienti possono essere maggiormente curvate sulla storia di malattia e di cura qualora la domanda parta da loro stessi (Solano, Bonadies, Di Trani, 2007, p.95) e sempre alla presenza di quelle componenti procedurali fondamentali sulle quali ci siamo già soffermati33. 32 33
Cfr., B.Cyrulnik, E.Malaguti, (2005). Nel testo di L.Zannini, (2008) sono inseriti alcuni percorsi, in parte rivisitati dall’autrice, che sono stati realizzati in contesti ospedalieri o medicosanitari, non italiani.
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Prima però di addentrarci in questa tipologia di scrittura34 pensiamo a quello che succede in particolare la prima volta che da pazienti entriamo nell’ambulatorio di un medico, o in un reparto di ospedale, affetti da una patologia impegnativa o grave. Due persone reciprocamente estranee s’incontrano, una, il medico, si trova in una posizione, perlomeno professionale, privilegiata (Bertolini, 1994) l’altra, il paziente sperimenta una condizione di fragilità e di vulnerabilità dovuta alla malattia che lo rende bisognoso dell’aiuto del medico. Chi sta male ripone la sua fiducia e la sua speranza in questo “estraneo-medico” collocandosi in una situazione di non sempre facile dipendenza, o anche di ambivalenza emotiva (Bert, 2007). Come avvicinare queste distanze, come costruire insieme, medico e paziente, una relazione di accompagnamento, di supporto e di cura che permetta al paziente di sentirsi accolto, compreso e rassicurato? Come sviluppare una maggiore collaborazione terapeutica da parte del paziente ? In fondo, sono “due mondi” che s’incontrano (Bert, 2007) contenuti in due “agende” per usare un termine che deriviamo da Rita Charon. Quando il medico segna sulla propria agenda il giorno e l’ora dell’appuntamento con quel paziente, il suo nome e cognome, di fatto, possiamo dire che simbolicamente stia introducendo nella sua pratica professionale, che veicola la sua personale visione di mondo, una porzione di storia del paziente e quindi frammenti di significati di cui egli è portatore. Dal piano simbolico a quello reale il passo è breve: è sufficiente incontrarsi. A sua volta, il paziente operando il passaggio dall’agenda, all’appuntamento con il medico, si accosta ai punti di vista del medico maturati nella sua vita personale e professionale. Riprendendo l’immagine dell’agenda, possiamo dire che in quell’ambulatorio o in quel reparto d’ospedale, che non poche volte il medico cerca il più possibile di mantenere asettico, in realtà s’incrociano due storie di vita (Bert, 2007; Giani, 2009; Masini, 34
Da proporsi in situazione laboratoriale di gruppo o in ambito più specificamente di consulenza autobiografica/clinica, di tipo individuale. Le dimensioni e i punti di attenzione che segnaliamo di seguito, a proposito della più complessiva ”opzione mentale” del medico (Bert, 2007), sono da estendersi anche al tipo d’intervento, condotto più solitamente da un volontario, o da un infermiere, o da un esperto in autobiografia, e centrato propriamente sulla pratica di narrazione/scrittura dell’esperienza di malattia (Cfr., L.Zannini, 2008).
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2005; Zannini, 2008) fatte di relazioni, d’impegni professionali, di valori, di pregiudizi, di aspettative, di precedenti dolori, di lotte vinte, di sconfitte, di emozioni, di progetti, ecc.,. È in questo denso e delicato spazio-relazionale che va a collocarsi l’esperienza di malattia del paziente, così come la sua vicenda terapeutica e di cura che inevitabilmente risentono non solo della storia di cui egli è portatore ma anche di quella che entrambi, medico-paziente, sono capaci di sviluppare insieme (Bert, 2007; Giani, 2009; Masini, 2005, Zannini, 2008). Lungo questa direzione, ci avviciniamo alla nozione di cartella parallela di Rita Charon richiamata da più autori, tra i quali Bert (2007) e Zannini (2008). Di qui, la necessità della narrazione (Bert, 2007; Zannini, 2008), e laddove sia possibile e auspicabile, l’utilizzo della scrittura, strumento proposto magari non dal medico in prima persona, come si è già rilevato, ma da un operatore esperto in tale pratica di sostegno, d’aiuto e di (auto)cura, che possiamo individuare nella figura dell’infermiere o del volontario, nonché di un consulente al di fuori della struttura ospedaliera (Zannini, 2008). E ciò, in che cosa si traduce operativamente ? Prima di tutto, a nostro parere, in tre opzioni personali-professionali fondamentali che consistono nell’: • assunzione da parte del medico, come si approfondirà più avanti, di un complessivo e globale “atteggiamento mentale” di “tipo narrativo” (Bert, 2007; Masini, 2005), all’insegna dell’umanizzazione dell’intervento terapeutico e di cura, già di per sé lenitivo; • accompagnamento del paziente ad essere un “paziente narrativo” (Bert, 2007; Masini, 2005); • affinamento da parte sempre del medico di una disponibilità e capacità che lo rendano “rilanciatore di una storia”, quella di malattia e di cura del paziente, in cui lui stesso però è implicato (Bert, 2007, p.108). Tali punti di attenzione possiamo sintetizzarli riconducendoli a quella che Bert definisce la cartella relazionale del medico (2007, p.104), che presuppone una differente scrittura della tradizionale cartella clinica, in vista della produzione di una cartella scritta, o almeno, pensata “(…) che contenga il medico stesso e, se si può dire la sua esperienza della malattia del paziente”, (ivi), che dovrà confrontarsi inoltre, proprio come medico, con le sue personali esperienze di malattia e di cura, non necessariamente gravi (Bert, 2007; Tramma, 2003; Zannini, 2008).
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In questo, sempre concordi con Bert, per il quale “a rendere narrativa la medicina –l’intervento medico e la relazione medicopaziente, aggiungiamo noi- è la presenza del medico nella storia stessa, non in veste di narratore unico ma di personaggio di una narrazione comune (2007, p.104). “Da un medico –continua l’autore- ci si aspetta un intervento professionale, terapeutico, non la pura e semplice disponibilità a stare a sentire senza interrompere troppo” (ibidem, p.103). Del resto, anche per narrazione orale o scritta della vicenda di malattia -ci ricorda sempre Bert- non s’intende il solo “sfogo”, che senza dubbio all’inizio può avere la sua momentanea rilevanza liberatoria e catartica (ibidem, p.102), quanto un processo più complesso e in profondità supportato dall’operatore per mezzo del quale conferire una “trama” alla narrazione/scrittura (in particolare, a quest’ultima) dell’esperienza di malattia (Bert, 2007; Good, 2006; Zannini, 2008, et.al.,) Il solo e ripetuto “buttar fuori” le proprie emozioni, paure, ansie, tensioni, ecc., non contribuisce a consolidare e a mantenere a lungo il miglioramento della stato emotivo del paziente ”un’emozione raccontata si amplifica, i motivi che l’hanno provocata sembrano ancora più reali, più validi, la paura diventa più forte, la rabbia più intensa, la frustrazione più avvilente” (Bert, 2007, p.103). D’altronde, se per “relazione narrativa”, tra medico e paziente, s’intendesse un tipo di relazione così connotata, ci si allontanerebbe dalla sua canonicità, funzionalità ed efficacia, e il medico stesso non saprebbe come gestire tutto ciò che il paziente ha lasciato fluire fuori in modo impetuoso e travolgente entrambi: “E adesso di tutto questo materiale che me ne faccio ?” si troverebbe a chiedersi il medico (ivi). Ritornando pertanto al concetto di trama, appena introdotto, ci chiediamo che cosa s’intenda con essa, in ambito clinico. Di fatto, la trama di malattia, o trama clinico-terapeutica, non è poi così differente dalla trama letteraria ci fa notare Good (2006, p.222), riprendendo il punto di vista di Ricoeur, al quale anche noi ci atteniamo. “Essa è ciò che dà ordine a una storia. È l’ordine sequenziale degli eventi e delle relazioni che li connettono (ivi). Così come, essa - citando Brooks- “costituisce il disegno segreto e la vera intenzione di ogni progetto letterario; è quel che dà forma al racconto e gli conferisce una certa spinta propulsiva, dirigendolo verso un possibile significato” (ibidem, p.223). In modo analogo, mettere
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in trama la personale esperienza della storia di malattia significa per il paziente ri-percorrere e ri-leggere le numerose tappe, di tipo anche emotivo, che hanno costituito il proprio personale percorso di malattia, di sofferenza e di cura, potendole ri-osservare complessivamente a ritroso, mettendole in dialogo tra loro, alla ricerca di una o più direzioni -prima non messe del tutto a fuoco o impensate/impensabili- di pensiero, di spiegazioni, di significato, di stati d’animo, di azioni, ecc., adesso, progressivamente più plausibili e praticabili (Bert, 2007; Good, 2006; Zannini, 2008). L’emplotting della malattia (Good, 2006, p.222) può consentire a chi è malato di comprendere in modo più nitido e con maggiore equilibrio e sicurezza interiori la situazione in cui si trova, di farne un bilancio, di elaborare anche un progetto evolutivo e sostenibile di vita poiché la trama non nega in modo fantasioso e illusorio la realtà ma permette di aderirvi con una ragione e un sentire discorsivi. La collocazione narrativa e in scrittura dell’esperienza di malattia e di sofferenza sono operazioni pertanto che possono sostenere e aiutare il paziente a introdurre “«letture» alternative della prognosi e del decorso” (Good, 2006, p.235), realisticamente alimentando “la speranza nella cura” (ivi), e potenziando la collaborazione terapeutica con il medico. “Il carattere provvisorio del racconto ha un potenziale creativo e per questo è già intrinsecamente curativo” (ivi). Non dimentichiamoci che la trama di una storia è ciò che rassicura il bambino nei momenti di fragilità e vulnerabilità (Jedwloski, 2000, p.128), e che nelle Mille e una notte, essa salva la principessa Sharazade dalla morte decretata dal sultano (ibidem, pp.20-21). Ora, quando medico e paziente s’incontrano sono portatori entrambi di una trama, quella clinico-medica, propria del primo, e quella dell’esperienza di malattia, di proprietà del secondo. Una trama è già sostanzialmente strutturata attorno ai saperi del medico, alle evidenze e certezze cliniche, essa inoltre veicola il punto di vista del medico e le sue eventuali convinzioni su quel malato, sulla sua malattia, sulla prognosi, sulla terapia, ecc., (Bert, 2007; Good, 2006; Zannini, 2008); la trama del paziente, è più incerta, frammentata, confusa, a volte, distorta, manipolata, o viceversa, eccessivamente costruita intorno a pensieri fissi e di segno più spesso negativo; anch’essa non è priva di saperi che parlano del
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mondo in cui vive e si è ammalato il paziente, o d’informazioni, impressioni, vissuti, soprattutto, emotivi (Bert, 2007; Good, 2006, Zannini, 2008). È qui, che il medico -che ha acquisito o affinato tramite una formazione ad hoc atteggiamenti e competenze narrative- è chiamato a fare proprio un atteggiamento di “umiltà” (Sclavi, 2003), facendo dialogare la propria trama cucita sul paziente, con quella del paziente stesso, in vista della produzione collaborativa di un’altra, o più trame (Bert, 2007; Zannini, 2008). Ad aprirsi sono possibilità condivise, anche piccole, di “trame alternative” (Good, 2006, p.238). Lungo la direzione delineata, il progetto clinico-narrativo si configura come progetto clinico-di cura e di educazione terapeutica che non trascende il progetto di vita del paziente. Osando ancora un po’, potremmo dire che il progetto clinico-narrativo è già di per sé, progetto clinico-di cura e progetto di vita, consapevolmente vissuti. 8. Dalla scrittura alla meta-scrittura Davanti al testo scritto, il paziente in autonomia, o con l’accompagnamento dell’operatore, può intraprendere un’operazione fondamentale per le sue implicazioni riguardanti il miglioramento del benessere interiore, la maggiore fiducia nelle proprie risorse e capacità, il rafforzamento della speranza riposta nelle terapie seguite, o che sta seguendo: ci riferiamo all’esperienza di ragionamento applicata al testo prodotto, o procedimento di meta-riflessione, che possiamo anche intendere come processo di “meta-scrittura” (Formenti, 1998; Zannini, 2008). In un certo senso, è come se il paziente che scrive della personale esperienza di malattia, della sua sofferenza, degli ostacoli già superati, o ancora da affrontare, si specchiasse nella pagina di scrittura e nella figura dell’operatore che può aiutarlo a interrogare la scrittura, in termini generativi e pertanto, (auto)curativi e (auto)terapeutici. Riportiamo di seguito soltanto alcuni tra gli stimoli di (auto) supporto che, se proposti, all’interno della relazione duale con l’operatore (più facilmente, volontario, consulente, infermiere
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(auto)biografo) fanno di quest’appuntamento di scrittura, un appuntamento più simile alla consulenza autobiografica/clinica35: v Come mi posiziono rispetto a ciò che ho scritto; v Quello che scrivo, cerco di praticarlo; v Mi accorgo delle risorse, delle capacità che ho; v Sono consapevole che c’è in me, una parte che è in grado, comunque, di reagire, di far fronte alla situazione, senza dubbio faticosa; v Riesco a dirmi, almeno qualche volta, che “nonostante” questa esperienza difficile di malattia in cui mi sono trovato, “riesco a…”,” sono ancora….”36; v Che cosa posso fare per aiutarmi anche da sola/o; v Come utilizzo le parole dei medici; v Mi sento malata/o…; v Mi sto proteggendo, almeno un po’, da tutti coloro che s’improvvisano esperti della mia malattia; v Che senso ha indugiare così’ tanto sulla paura, che senso gli do, io…; v Sono sicura che dentro di me ci sia posto soltanto per la paura…; v …..
35
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Si rimanda al contributo di L.Zannini, (2008), per un ulteriore approfondimento degli stimoli che si possono proporre con la finalità di stimolare, in chi scrive, processi meta-riflessivi. (Tali sollecitazioni vanno proposte secondo una modalità prettamente finalizzata a generare e/o potenziare processi autoriflessivi e di maggiore consapevolezza, facendo attenzione a non manipolarne, anche inconsapevolmente, la direzione, sconfinando nel tipo d’intervento e di relazione psicoterapeutica, o anche, psicoanalitica). Si tratta nello specifico di una sollecitazione a cui si riferisce L.Zannini, (2008), p.125, a sua volta, riadattata da Archer, 1998 e Bolton, 1998 -come precisa l’autrice- proposta a pazienti oncologici terminali che, qui abbiamo ulteriormente rivisitato e che in linea di massima, come si è già evidenziato, pensiamo sia meglio applicare nella fase non terminale della malattia in cui, a nostro parere, potrebbe essere vissuta dal paziente, per più ragioni, del tutto comprensibili, in modo ambivalente tra l’accettazione positiva e lenitiva, e il fastidio, quasi irritante. Ci rendiamo conto ovviamente, in sintonia con Zannini, di come sia importante valutare la situazione, di volta in volta, per cui può succedere che relativamente a singole storie cliniche di terminalità, anche uno stimolo di scrittura di questo tipo, trovi il suo senso e la sua utilità.
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Ci troviamo davanti a un tipo di relazione operatore-paziente orientata alla “meta-narratività”, ossia alla “narrativa della narrativa” (Giani, 2009, p.131) coerente con il paradigma medico centrato sull’illness narrative (ivi) -su cui ci soffermeremo di seguito- per cui il paziente è accompagnato “(….) verso il riconoscimento, facilitato dalla pratica di scrittura37, del proprio assetto cognitivo, nella costruzione del significato profondo che egli attribuisce ai diversi aspetti del suo star male ed ai comportamenti conseguenti che egli tende a mettere in atto (…)” (ivi). A questo punto della nostra riflessione ci rendiamo conto, come sosterremo anche più avanti, di come sia indispensabile non trasformare la proposta e la pratica di scrittura “curvata pedagogicamente” e pertanto dalle valenze auto-educative, auto-formative e di auto-cura, con un “intervento di consultazione psicologica/psichiatrica” (ibidem, p.132), che esula dalla funzione e dalle competenze del medico (ivi), tra l’altro, “(…) improponibile nel contesto dell’attività di un ambulatorio (…), o ancor più, di un reparto ospedaliero (…), connotato da ritmi intensi e da varie incombenze (ivi). D’altra parte, siamo convinti che se anche il medico non potrà praticare la scrittura con il paziente, può tuttavia sperimentare su di sé, nella formazione, l’esercizio della scrittura professionale e di cura, per appropriarsi, come si dirà nei prossimi capitoli, di un “assetto mentale” e “relazionale” di “tipo narrativo” (Bert, 2007, p.99), alla ricerca, anche, di ciò che di educativo c’è nel suo agire clinico. Crediamo, infine, che tale sguardo e tale operatività sia conciliabile con l’operato del volontario e, con qualche sforzo, volontà e investimento culturale-organizzativo, con quello dell’infermiere -ovviamente, dopo un’adeguata e specifica formazione-, laddove non ci si possa avvalere della figura di un esperto o di un consulente clinico/autobiografo.
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L’aggiunta è nostra.
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III.
L’APPROCCIO NARRATIVO NELLA FORMAZIONE DEGLI OPERATORI MEDICO SANITARI
1. Intanto, per cominciare… Non mi dica che dobbiamo vivere una di quelle storie che si leggono sui giornali, con il malato che è respinto da un ospedale dopo l’altro. Mia figlia è qui da stamattina alle nove. Ora sono le tredici passate da un pezzo. E avete detto che dovete ancora sentire! In tutto questo tempo non avete pensato che potevate aver bisogno della rianimazione ? Senza guardare in faccia né Elena né Giovanni annuncia: «Ora vado a telefonare. Vediamo cosa si può fare». È la risposta di un commesso di negozio, costretto a dare una dimostrazione di buona volontà a un cliente noioso o troppo esigente, che vuole un articolo che non esiste o vuole cambiare la merce già acquistata: Vediamo cosa si può fare. Perché qualcuno ha fatto il nome del nostro negozio. Perché non si dica che non siamo comprensivi anche con i clienti che chiedono troppo” (2007, pp.65-66).
È la reazione emotiva e il vissuto di Giovanni, padre di Francesca, una giovane ragazza che una mattina mentre si reca a scuola è colpita da un’emorragia cerebrale: da qui inizierà il suo coraggioso peregrinare e quello dei suoi famigliari da un ospedale all’altro, da uno specialista a un altro1. Abbiamo a che fare con la freddezza, l’eccesso di distacco se non il cinismo di un medico? Quali possono essere i motivi che lo spingono ad assumere un tale atteggiamento ? Potremmo annoverare tra i tanti fattori implicati la trasformazione dei luoghi di cura, quali gli ospedali, in organizzazioni che più che essere attente al benessere dei vari operatori che vi lavorano, sono causa di males1
Si tratta di una storia vera che il papà, Emilio Cannarsi, di questa adolescente, mette per iscritto nel testo che abbiamo già citato, (2007).
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sere per via del tempo di lavoro eccessivamente serrato e obbligato a essere velocemente produttivo, in quantità di prestazioni e risultati. Ciò, sia per carenza di personale che si ritrova costretto a più livelli a turni di lavoro eccessivamente impegnativi, sia per troppa logica aziendalistica di tipo efficientistico e d’immediato tornaconto economico, sottoposta a valutazione misurabile e numericamente quantificabile. Potrebbero essere queste, due motivazioni di tipo organizzativo plausibili e anche di facile individuazione, in base alle quali spiegare in termini, tutto sommato lineari e quasi cristallini, il comportamento del medico chiamato in causa in una vicenda realmente capitata, temporalmente e geograficamente a noi vicina, dove due genitori in una fase non breve, di forte dolore e preoccupazione per le sorti della figlia si sono ripetutamente confrontati/ scontrati con figure di professionisti medici che, il racconto alla stessa stregua della realtà, ci restituisce alle prese con il mancato o negato riconoscimento di emozioni e di coinvolgimento relazionale e umano. La questione tuttavia com’è comprensibile aspettarci quando si ha a che fare con vicende umane, per di più attraversate dalla malattia e dalla sofferenza, si presenta e si delinea in termini ben più sottili, complessi e problematici anche se non del tutto generalizzabili. Facciamo riferimento a questo punto alla riflessione di Sharon C.Bolton (2009), laddove l’autrice mette a confronto due prospettive di lettura del mondo emozionale odierno, relativamente alle interazioni sociali, personali e professionali, per cui, alcuni autori, tra i quali in particolare Městrović (1997), ritengono che la nostra società sia di tipo “post-emozionale”, così come è caratterizzata da una “messa in scena” non veritiera delle emozioni provate negli scambi sociali compresi quelli che si sviluppano nei contesti medico-ospedalieri. L’eccesso di routinarietà delle pratiche medicosanitarie e di cura, e delle relazioni che le sottendono, comporterebbe un’analoga e conseguente “routinizzazione delle emozioni”, che può diventare “costruzione ad hoc” di quello che si prova e si sente entrando in relazione con l’altro (Bolton, 2009, pp.19-21). Tra sé e l’altro, nel nostro caso i vari operatori medico-sanitari, ma più di sovente, tra il medico e il paziente, si verrebbe a costruire una sorta di filtro emotivo che, se troppo serrato e utilizzato, può gene-
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rare nell’operatore una forma di “anestetizzazione emotiva” se non perfino “cinismo”, (ibidem, p.21). Sempre seguendo il contributo di Bolton che -fino a questo punto adotta lo sguardo, come si è appena accennato, di Meštrović (1997)- nell’ospedale, che possiamo rappresentarci, secondo la stessa definizione che ne dà l’autrice, come “comunità emotiva” (ivi), avrebbero legittimità “emozioni neutralizzate” e “precostituite” (ivi). Situazione emotiva che non ci sembra diversa da quella che ci restituisce il papà di Francesca nel breve brano con cui abbiamo aperto questo capitolo. Esiste tuttavia una seconda pista interpretativa, di orientamento completamente opposto, e da ricondurre a Goffman, all’interno della sua ampia produzione scientifica sull’argomento, sinteticamente ripresa da Bolton (2009), secondo la quale, le emozioni continuerebbero a essere legittimate e a circolare nelle più diverse organizzazioni, tra cui l’ospedale e i luoghi di cura. Più che di “maschera” emozionale o affettiva, aspetto che del resto per Goffman non assume un significato negativo, si dovrebbe parlare di una “gestione” e “regolamentazione” consapevole delle emozioni, che proprio in quanto tale, renderebbe possibile l’interazione sociale tra gli attori coinvolti (Bolton, 2009, pp.21-24). È qui, che possono trovare accreditamento “forme ritualizzate di difesa (…) negli scambi sociali (…)” (ivi, p.23), “senza che per questo vengano meno la genuinità e lo spessore umano delle emozioni provate e manifestate all’esterno, nella relazione con l’altro” (ibidem, p.21). D’altronde, “l’emozione è un’esperienza vissuta e interattiva, fondata su regole di gestione dell’interazione che dicono come esprimerla e come condividerla (…) da cui dipende l’interazione sociale” (ibidem, p.22). Nel contesto medico-sanitario e nella relazione medico-paziente pertanto una consapevole, fisiologica e “sana difesa” emozionale, o anche sufficiente grado di distanziamento emotivo, può contribuire alla costruzione e al mantenimento di un sé personale/professionale, meno colluso, più solido e riflessivo, proprio per questo, maggiormente capace di configurarsi come risorsa per l’operatore, cui attingere nel mentre si è impegnati nel sostenere e nell’accompagnare l’altro, nel nostro caso, il paziente, lungo il suo percorso clinico e terapeutico. Abbiamo a che fare, una volta riconosciuta e ammessa l’incisività delle emozioni nel lavoro medico-sanitario e
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di cura2, con la necessità di una sorta di continuo dosaggio contestualizzato delle proprie emozioni di operatore (Bolton, 2009), poiché è nella troppa fissità di negazione del coinvolgimento emotivo, o viceversa, del suo eccesso, che risiede soprattutto nel lungo tempo, il malessere o il vero e proprio disagio, se non perfino, il born-out dell’operatore e al tempo stesso la disfunzionalità della relazione di cura sviluppata con il paziente che può compromettere in alcune situazioni anche la continuità e il buon esito del progetto di cura intrapreso. Il medico inoltre che non si fa carico delle emozioni che prova, o che non si permette di provare, nella relazione con il singolo paziente, non può “vedere”, riconoscere e ascoltare, facendone assunzione, le emozioni di cui quest’ultimo è portatore e che si sviluppano anche dentro il progressivo costruirsi e articolarsi della loro relazione: pena, la perdita di qualità della relazione stessa, nonché il possibile rischio di un’alleanza terapeutica meno proficua. Scrive Bert, in qualità di medico se le emozioni del paziente non vengono accolte, se non ne viene consentita l’esplicitazione o la stessa esistenza, se il medico non è disponibile a prenderle in considerazione o cerca di proteggersene, la sofferenza del paziente aumenta enormemente e il fossato che lo divide dal medico può diventare eccessivo (2007, p.130).
Del resto, se l’attivazione di atteggiamenti difensivi di fronte al timore di essere quasi prosciugati dal disagio e dalla sofferenza dell’altro (Iori, 2010, p.79) può spesso rappresentare una strategia di adattamento attivo per continuare a stare dentro la situazione, è il radicamento prolungato di tale strategia di coping a renderla disfunzionale, soprattutto se essa non è messa sotto indagine e interrogata dal medico, ma anche dalle altre figure di operatori medico-sanitari coinvolgibili in questo stesso discorso, anche se forse in minor misura, come ricorda Vanna Iori Erigere barriere difensive è la strategia più frequente (…). Quali sono le vecchie e nuove barriere che erigiamo? Siamo consapevoli delle strategie difensive utilizzate, spesso inconsapevolmente, nel timore 2
Per un approfondimento di tale questione si rimanda alla ricca produzione scientifica di Vanna Iori.
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di sentirci “invasi”? Come cerchiamo di difenderci, nella quotidianità, dal timore dell’eccessivo coinvolgimento ? Quali segnali esprimiamo nei gesti e nelle situazioni quotidiane ? Possiamo riconoscerci in comportamenti più relazionistici? (2007, p.79)
senza per questo, sentirci minacciati dall’altro ?, aggiungiamo noi. La capacità di “lavorare” sulla propria vita interiore ed emotiva e quindi di riflettere criticamente sulle modalità tramite le quali essa è agita, o meno, nella relazione terapeutica con il paziente, ci sembra costituire, a questo punto, una questione che ha a che fare inevitabilmente con la formazione dei medici, sia quella universitaria, sia quella in servizio, in continuità in ciò, con più autori che sottolineano tale carenza formativa, tra i quali, tutti coloro cui si è fatto riferimento in questo capitolo. Proviamo solo per un momento a soffermarci su quanto scrive un giovane medico rispetto alla pratica di anamnesi e di refertazione appresa durante la formazione universitaria, seguendo la citazione di Good In linea di massima, ti si richiede di prendere un essere umano che cammina, che parla, che è confuso e disorganizzato (come del resto tutti noi), che ha un complesso di sintomi che vengono esperiti, non diagnosticati; prendi il tutto, lo metti nel tuo ricettario di cucina e lo passi in questa sorta di forma da cui ognuno può rapidamente estrapolare. A loro non interessa sentire la storia della persona (…). Hai quindi la sensazione che se provi a narrare veramente la storia di qualcuno, i superiori si arrabbino; sono seccati con te perché sembri non venire al dunque; un indulgere, per così dire (…) (2006, p.141).
La storia del paziente e le emozioni in essa contenute vengono molto debolmente prese in considerazione: questione di formazione. Aspetto e dimensione che, a nostro parere, necessita di interfacciarsi con il punto di vista sia di Mestrovic sia di Goffman - brevemente introdotti all’inizio di questa riflessione- non tanto, con la finalità di giungere a una facile e unica soluzione di prospettive, sempre che essa possa esistere, quanto con lo scopo di leggere la questione del “pensare” e dell’”agire” del medico, così come della relazione di cura tra operatore medico-sanitario e paziente, secondo un’articolata e sfaccettata angolatura che una volta ricostruita,
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almeno nelle sue componenti più significative, possa rendere ulteriormente ragione, non tanto della legittimità e della necessità del modello narrativo in medicina -posizione che sarebbe presuntuosa da parte nostra, considerati gli autorevoli studiosi che si sono già mossi e collocati in questo orizzonte di discorso, qui presi in considerazione - quanto, della proposta di un progetto di formazione in ambito medico-sanitario e di un altrettanto progetto terapeutico e di cura rivolto ai pazienti che poggino entrambi, in primis, sull’assunzione, anche solo, di uno sguardo più globalmente narrativo (Masini, 2005, pp.7-46) e laddove, ci siano le premesse e i requisiti necessari a più livelli, sulla proposta sia della pratica di narrazione sia di scrittura. Opzione centrale in questo nostro contributo, che ci vede senza dubbio in compagnia di altri esperti, anche da noi menzionati, ma che necessita soprattutto nel contesto italiano di essere ulteriormente potenziata. Tuttavia, è doveroso a questo punto non dimenticare come accanto alla figura del medico neutro e distaccato, sinonimo a volte di rigore, competenza e serietà professionale, secondo un immaginario collettivo che fa ancora del medico, una presenza quasi sacrale, poiché a lui si affidano la propria vita e in certi casi la propria salvezza, ci sia spazio anche per medici come quello tratteggiato da Marco Venturino -tra l’altro, lui stesso medico, come si è già fatto rilevare- in Cosa sognano i pesci rossi Valini, vuole guarire la gente, punto. Gli piace la gente. Gli piace la vita. Ogni malato che non guarisce non è una sconfitta personale, è una sconfitta della vita e la vita non può essere sconfitta. Gli piace la gente perché la gente è la vita. Gli piace ascoltarla la “gente”, ed è sempre disponibile per tutti. E non è certo un asceta o un santo e nemmeno un missionario (…). Spesso Valini viene a trovare Tunesi, gli parla, s’informa dell’andamento clinico, entra in contatto con i parenti (2004, pp.41-43).
Ascolto, disponibilità, accoglienza, comunicazione-narrazione fanno di Valini un buon medico non per questo meno professionale. D’altronde, nella tradizione dei santi musulmani: “Il vero me-
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dico non è quello che ti ordina medicine, è chi ti cura di persona” (Vacca, 1988, p.393)3. Facciamo allora un passo indietro dal momento che ogni medico e ogni operatore impegnati nella cura ospedaliera operano, inutile dirlo, in un contesto. Domandiamoci quindi che tipo di “ambiente” sia soprattutto l’ospedale (Santoianni, 2010, pp.331-336) (ma, per certi aspetti, anche l’ambulatorio del medico di base). È un ambiente dove i vincoli e le regole organizzative e della cultura dell’organizzazione, e dunque “le norme professionali di condotta esercitano un pesante controllo esterno e normativo, eppure le dinamiche dell’interazione umana ne alterano le modalità di applicazione” (Bolton, 2009, p.31). Lungo questa direzione, pensiamo a quanto si è verificato in un reparto di oncologia pediatrica di un ospedale (non specificato per questioni di privacy), ripercorrendo il racconto di Lenzi Nel corso di una «guardia» in un reparto con molti bambini in condizioni assai gravi, verso la una di notte, quando la tensione, la preoccupazione e la stanchezza avevano contagiato anche i genitori dei bambini in condizioni soddisfacenti e tutti erano svegli, angosciati e appannati, l’infermiera capoturno si affacciò alla porta della cucina, battè le mani e disse ad alta voce: «Avanti, mamme ! Tutti a mangiare la pastasciutta al tonno». Solo dopo che tutti ebbero mangiato si resero conto dello straordinario miglioramento del clima complessivo del reparto. Nessuna parola, nessun provvedimento sarebbe stato tanto efficace come quella iniziativa (…) (2010, p.70).
Come a giusta ragione sottolinea l’autore abbiamo a che fare con “un gesto imprevedibile (e per questo non esportabile, non riproducibile, e tantomeno istituzionalizzabile)” (ibidem, p.71), un gesto tuttavia che può essere realizzato nella sua specifica e singolare situazionalità, e puntualità temporale, se è possibile pensare e vivere un reparto di ospedale come abitato da “un ordine di interazione” che ha “solide basi” (Goffman, 1991)4, ma che può essere anche creato, conservato e ricreato tramite un processo dinamico che implica sia conformità sia ribellione” (Bolton, 2009, p.31).
3 4
Cit., in G.Blandino, B.Granieri, (2002), p.52. Cit., in S.C .Bolton, (2009), p.31.
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Ci sembra che un reparto ospedaliero così organizzato sia riconducibile alla tipologia di ambiente adattivo o apprenditivo, secondo la concettualizzazione che ne dà Santoianni, ossia un ambiente che “(…) si configura come contesto di orientamento non direttivo, né neutrale (…) parzialmente prespecificato e strutturato per offrire la possibilità di fruirne in modo adattivo” (2010, p.332). Potremmo dire, forse osando un po’, che un ambiente-contesto ospedaliero con queste caratteristiche sia un ambiente di tipo narrativo che legittima al proprio interno la centralità della “dimensione narrativa” (Masini, 2005, pp.7-46), considerata prima di tutto nell’accezione di una conquista da parte del contesto stesso, della possibilità di pensare e di ri-pensarsi5, secondo un pensiero narrativo, per sua natura allineato, ma al tempo stesso, sufficientemente sovversivo. Non dimentichiamoci che la narrazione è un’”operazione cognitiva” (Jedwloski, 2000, p.112), aderente, per dirla con Bruner (1992), al “canovaccio” e contemporaneamente in grado di “trasgredirlo”. Ci rendiamo conto di come si tratti di un’ipotesi di progettazione-organizzazione di un servizio, quale l’ospedale, di non facile realizzazione, se pensata come scelta da rendere istituzionale (Lenzi, 2010, p.70), soprattutto nel breve-medio termine, dentro l’attuale congiuntura economico-politica, poiché essa mette in gioco volontà, opzioni e risorse di vario tipo, nonché responsabilità a più livelli, dentro una più ampia, complessa e problematica riflessione e strategia istituzionale sulle politiche sanitarie e sull’ethos di una società in materia di salute. Non da ultimo, come vedremo più avanti, la scelta di rendere narrativo un servizio come l’ospedale, o alcuni reparti al suo interno, più impegnativi per patologie, terapie e cure, richiede come inevitabile antefatto culturale ed epistemologico la messa in discussione dello stesso paradigma scientifico su cui si fonda la medicina e di conseguenza l’agire del professionista medico-sanitario. Ad essere messo in gioco è sicuramente un ampio e sistemico progetto che si snoda a livello antropologico-culturale, sociale, economico-politico-istituzionale, e di orientamenti di scelte che riguardano il modello formativo universitario e post-universitario di chi intraprende un corso di studi di tipo medico-sanitario e infermieristico. Di qui, il neces5
Si veda D.Fabbri, (1994).
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sario intervento anche di saperi che afferiscono a percorsi di studi universitari di matrice umanistica, come quelli riconducibili alle attuali ex-facoltà di scienze della formazione, se siamo d’accordo rispetto all’importanza di rinvenire il “portato dell’educativo” nel “sapere del medico”, e del far leva sulla “dimensione pedagogicoeducativa” nella “pratica clinica” (Bertolini, 1994; Zannini, 2008), secondo un antico modello di medicina, sempre più da rendersi attuale. Ora, se l’ipotesi macro appena accennata, può essere utopistica, ma non per questo irrealizzabile se il pensiero utopico non è quello sognante bensì quello che sottende e stimola secondo direzioni realisticamente prefigurate, aperture al cambiamento ci sembra in continuità con Santoianni, che almeno “la relazione tra il medico e il paziente, in contesti ospedalieri e ambulatoriali, si possa configurare (…) come ambiente di apprendimento adattivo, secondo un rapporto che implica reciproche influenze e promuove aperture all’educabilità”, ci viene da aggiungere reciproca (2009, pp.332-333). Se, in questo caso, parlare di “apprendimento adattivo” significa introdurre la dimensione dell’educativo e dell’educabilità, non solo terapeutica, a essere di nuovo messa in circolo è la scelta narrativa da parte del medico (Bert, 2007; Giani, 2009; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008). Scelta sicuramente non facile, soprattutto se sostenuta dal singolo professionista, dentro un’organizzazione che può anche essere lontana dagli orientamenti epistemologici, operativi e di senso del “paradigma della narratività” (Masini, 2005, pp.7-46). Se, pertanto scegliere di essere un medico, o comunque un professionista della cura, di tipo narrativo, è senza dubbio complesso e, per certi aspetti, anche faticoso, chiediamoci però che cosa egli ne possa guadagnare ai fini non solo della relazione con il paziente ma in termini di soddisfazione verso il proprio lavoro e di benessere personale/professionale (Bert, 2007, p.74). A nostro parere ogni medico in modo particolare nella congiuntura attuale si trova davanti a una “sfida” che può consapevolmente e responsabilmente “affrontare” dentro un progetto medico-educativo-terapeutico e di crescita di sé -come adulto-professionistadalle valenze esistenziali (Montagna, 2004; Zannini, 2008). Viceversa, può “subire” la sua stessa professione e la relazione con il
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paziente e i suoi famigliari. Come del resto, avviene per altre figure di professionisti della cura e dell’educazione messi a confronto con la sempre più problematica complessità del loro agire. Costi e benefici, di entrambi le scelte, anche se non possiamo dimenticarci, ripercorrendo la puntuale e incisiva considerazione di Good, che l’ospedale, in particolare, non è solo il luogo della costruzione e del trattamento del corpo medicalizzato, ma è anche il luogo di un dramma morale (…), dell’umana sofferenza e della paura, del confronto con la malattia e la morte, sia del malato sia in chi deve prendersene cura, e degli sforzi per alleviare e gestire il dramma. (…) La malattia nelle sue dimensioni morali, emotive, psicologiche, ecc., fa irruzione in questa sfera tecnico-razionale (2006, p.132).
2. La medicina e il modello bio-medico Affrontare la questione della formazione in ambito medicosanitario secondo un approccio che mette al centro la duplice dimensione della narratività (Masini, 2005, pp.7-46) e della narrazione (Bert, 2007; Giani, 2009; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008), termini semanticamente non del tutto sinonimici e dunque fattori strutturali ed operativi non completamente coincidenti, significa ricostruire seppur brevemente lo stato dell’arte del modello scientifico in medicina. A tal riguardo, abbiamo fatto sostanzialmente riferimento al contributo di Moja e Vegni (2000)6. Secondo i due autori, dal 600, con Cartesio, ai giorni nostri, si è saldamente affermato in medicina il modello biomedico. Che cosa significa ciò ? Significa che compito della scienza medica è individuare la patologia, considerata solo nei suoi aspetti organici, classificarla tramite le sue manifestazioni sintomatiche, spiegare le cause esclusivamente fisiche di essa, analizzarne e delinearne gli andamenti generalizzabili, approntare la diagnosi e mettere a punto la terapia scientificamente idonea perché confermata nella sua validità ed efficacia da studi clinici eseguiti, controllati e randomizzati (ibidem, 2000, p.19). Abbiamo a che fare con il 6
Cfr., inoltre G.Bert, (2007); G.Bertolini, (1994); U.Giani, (a cura di) (2009); B.J.Good, (2006); V.Masini, (2005); E.Moja, E.Vegni, (2000); L.Solano (a cura di) (2007); L.Zannini, (2008).
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modello di medicina che è definito -da più autori tra i quali quelli da noi considerati- centrato sulla malattia, o disease centred, (ivi). Esso ”permea di sé l’agire di tutta la medicina, dalla ricerca all’organizzazione della sanità, dalla formazione degli operatori sanitari fino a influenzare la visione sociale della medicina stessa” (ivi). Tale modello consolidato di medicina mantiene altrettanto consolidata a livello di metodo clinico e di prassi procedurale e operativa, la centralità del medico, tant’è vero che esso è anche noto come metodo clinico doctor centred (ibidem, p.20). All’interno di una simile concezione della medicina, o più precisamente di una tale concettualizzazione del sapere e della conoscenza medica, e dentro una pratica clinica così orientata, è il medico “che sa e che decide” -in continuità con Bert (2007) e con gli altri autori menzionati in questo contributo- in base a protocolli diagnostici e di cura standardizzati, o comunque, tipologie d’intervento già ampiamente collaudate. Il paziente, o meglio ancora il singolo paziente, in carne e ossa, direbbe la fenomenologia, con la sua specifica storia, non è quasi visto, è messo sullo sfondo (Moja, Vegni, 2000, p.20)7. Di fatto, l’esperto della malattia è solo ed esclusivamente il medico (Bert, 2007; Giani, 2009; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008). In questo modo, il paziente sperimenta una doppia passività, quella che ha a che fare con l’essere colpito in modo imprevedibile dalla malattia, e quella che prova nella relazione con il medico (Bert, 2007; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008). Egli rischia di essere collocato dentro la teoria e la tecnica del medico (Good, 2006; Zannini, 2008) soprattutto se si tratta di un giovane medico o, all’opposto, di un professionista magari appesantito da tanti anni di lavoro e di esperienza eccessivamente routinaria. Ciò, non vuol dire ovviamente disconoscere l’imprescindibile importanza di teoria e tecnica in medicina, ma proprio a partire da questa irrinuciabilità, il medico è chiamato a chiedersi se le sole teorie “(…) non diventino uno schermo che fa velo alla comprensione” (Blandino, Granieri, 2002, p.28)8, più profonda del paziente, della sua storia, del suo sentire, 7 8
Cfr., inoltre, G.Bert, (2007); U.Giani, a cura di (2009); B.J.Good, (2006); V.Masini, (2005); L.Solano (2007); L.Zannini, (2008). Analogo il punto di vista di G.Blandino, B.Granieri (2002), p.28, rispetto alla psicologia e che estendiamo al sapere medico e ai contesti in cui esso è agito. Poiché le riflessioni dei due autori inerenti l’ambito della scuola e la
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della complessità e criticità, anche dolorosa, della situazione in cui entrambi, medico e paziente, sono coinvolti. Ci rammentano Blandino, Granieri che “il medico ed epistemologo francese Claude Bernarde (…) nel 1865 ricordava che il rischio delle teorizzazioni è che ci impediscono di conoscere ciò che non sappiamo” (ivi). Pienamente in sintonia con i due autori laddove sottolineano pertanto come: “le varie teorie e tecniche - per noi mediche-, sono importanti, ma dovrebbero essere solo uno strumento per aiutare a pensare” (ivi) “in situazione”, e che non dovrebbe sostituire il sapere e il sentire di cui sono portatori il medico e il paziente, e che si genera all’interno della loro precisa e contestuale relazione (Bert, 2007; Zannini, 2008). Di qui, la necessità avanzata da alcuni medici, psicologi, psicoanalisti, pedagogisti, ricercatori, ecc., di ripensare l’affermato modello medico nella direzione di un paradigma bio-psico-sociale, che conduce a quella che è chiamata medicina centrata sul paziente, o patient centred, per cui pari dignità e importanza è data alla prospettiva medica delle evidenze cliniche, della malattia-disease, così come alla malattia intesa come illness, ossia come vissuto di cui fa esperienza il singolo paziente e come specifico punto di vista su di essa, di cui egli è portatore (Bert, 2007; Giani, 2009; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008). All’”esperto-medico”, è affiancato l’esperto-paziente (Bert, 2007; Giani, 2009 ; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008). Le conoscenze mediche del professionista sono coniugate a quanto il paziente sa, conosce e in particolare sente più intirelazione educativo-didattica ci accompagneranno in altri punti di questo nostro contributo, ci preme rilevare fin da subito come il richiamo alla loro prospettiva che, in un primo momento, potrebbe sembrare poco pertinente ai fini del nostro discorso, costituisca al contrario una lente di lettura del pensare e dell’agire medico, nonché della relazione medico-paziente particolarmente significativa e utile se ci collochiamo in un orizzonte di discorso che è orientato non solo a individuare possibili connessioni tra disciplina e prassi medica e disciplina e prassi pedagogica (Bertolini, 1994), ma anche a far emergere gli aspetti educativi del lavoro del medico e/o di un professionista medico-sanitario: non a caso, si parla di educazione terapeutica. Di qui, anche la legittimità del nostro contributo in questo testo volto a esplorare le valenze educative della narrazione, nella convinzione concettuale, metodologica e procedurale dell’inevitabile nesso tra medicina-educazione-narrazione.
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mamente, sottilmente e in profondità della sua malattia, compresi gli stereotipi, così come le credenze (Bert, 2007; Zannini, 2008)9. Un sapere autobiografico, quello del paziente, che in situazioni di diagnosi e terapia impegnative è inevitabilmente intriso di paure, angosce, ansie, timori, vissuti depressivi e di perdita, se non pensieri o fantasmi di morte, ecc.,. Questo sapere o punto di vista, anche molto emotivo, sulla sua malattia non può essere eluso, quando ciò accade, non poi così insolitamente, il paziente rischia di sentirsi riconosciuto a metà, solo per il “lato diurno” della malattia, quello di pertinenza del medico, e non per il “lato notturno”, o anche stratificato, del significato -come sempre profondamente, intimamente e autobiograficamente soggettivo- che ha per lui la sua malattia (Bertolini, 1994, p.19; Bert, 2007; Giani, 2009; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008). Lungo questa direzione per il medico, ci ricorda Guido Bertolini la parola chiave non dovrebbe essere solo ed esclusivamente «guarire» ma «significato». La competenza del clinico non può limitarsi a essere una competenza esclusivamente di tipo tecnico-scientifico ma deve essere anche una competenza «umana». In altre parole, egli deve essere in grado non solo di comprendere il significato che per il paziente assume la sua malattia e la prospettiva della sua guarigione, ma anche di «lavorare» su quei significati. Deve saperli condividere o rifiutare, valorizzare o ridimensionare, ma sempre in maniera consapevole e con quell’atteggiamento di massima apertura che viene da un autentico rispetto della persona (…), è la natura asimmetrica di un rapporto a rendere doveroso e auspicabile un simile sforzo da parte di colui che, nell’asimmetria, si trova nella posizione più favorevole. Quando ciò non avviene diventa assai difficile «entrare in relazione terapeutica» con il paziente (Bertolini, 1994, p.19).
In quest’ottica, sempre Bertolini fa presente come nei curricula universitari del corso di studi in medicina, manchi quella parte di sapere che riguarda la capacità di gestire le nozioni biomediche (ibidem, p.20).
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Zannini, come abbiamo già rilevato, riprende tale dimensione concettuale, strettamente coincidente con la nozione di agenda del paziente, da Rita Charon.
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Il medico necessita pertanto, attenendoci sostanzialmente alle considerazioni di Guido Bertolini (ibidem), di due tipi di sapere che hanno uguale importanza, da non contrapporsi l’un l’altro10, dove il primo rimanda a logiche scientifiche di spiegazione, a diagnosi generalizzabili in base a evidenze cliniche, a protocolli terapeutici standardizzati, e il secondo rinvia a logiche scientifico-umane di comprensione, a diagnosi e terapie che si fanno carico della processuale modificazione o, viceversa, staticità di significato, anche molto emotivo, che il singolo paziente con la sua storia, anche di malattia (Bert, 2007; Zannini, 2008), attribuisce alla diagnosi, alle terapie, all’eventuale guarigione o remissione della malattia, così come alla sua cronicità, in alcuni casi. La maturazione di tale consapevolezza in medicina passa attraverso alcune tappe fondamentali, qui solo accennate, che trovano i loro rappresentanti in Michel Balint, in G.L.Engel, in C.Rogers, anche se di formazione psicoterapeutica, fino ad arrivare alla medicina narrativa di J.Good e, alle più recenti, Medical Humanities che rendono di centrale importanza la pratica narrativa e di scrittura nella formazione del medico e nella sua pratica clinica e di cura (Rita Charon, Giorgio Bert, Lucia Zannini, per citare soltanto alcuni esperti e studiosi di settore)11. 3. Il paradigma narrativo in medicina Arrivati a questo punto della nostra riflessione se la medicina narrativa, o Narrative Based Medicine, è da considerarsi un approccio che necessita di dialogare in termini di complementarità con la medicina delle evidenze, conosciuta come Evidence Based Medicine, ci sembra importante chiederci prima di tutto che cosa intendiamo quando facciamo riferimento all’utilizzo della narrazione, della narrazione autobiografica e delle storie di vita in medicina, proprio per poter cogliere meglio il modello epistemologico, operativo-procedurale attorno a cui si struttura e prende forma l’identità stessa della medicina narrativa e per ridimensionare inoltre, 10 11
Cfr., inoltre G.Bert, (2007); B.J.Good, (2006); V.Masini, (2005); E.Moja, E.Vegni, (2000); L.Zannini, (2008). Si è fatto sempre riferimento al testo di Moja, Vegni, (2000).
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a nostro parere, il rischio che tutto sia narrazione e che pertanto tutto ciò che è narrazione sia da considerarsi come medicina narrativa (Bert, 2007; Masini, 2005; Good, 2006; Zannini, 2008). Di conseguenza merita di essere approfondita la nozione di “storie di vita”, di “storie di malattia e di cura”, e l’uso che è legittimo e utile farne nell’ambito dell’intervento medico, in continuità di prospettiva, in particolar modo, con Bert (2007) e Zannini (2008). D’accordo con Masini (2005, pp.7-46) come premessa concettuale e come opzione di metodo, preferiamo parlare -collocandoci almeno entro un’opzione di primo livello, ma non per questo di secondaria o minore importanza- di narratività o di paradigma narrativo (ibidem, 2005, pp.7-9) nella pratica medica e nella relazione medico-paziente, secondo un’ipotesi d’intervento che non necessariamente debba comportare per il medico -o per gli altri operatori medico-sanitari, quali gli infermieri, i fisioterapisti, i riabilitatori, ecc.,- l’utilizzo della scrittura con il paziente che, come si è già avuto modo di sottolineare, richiede la presenza irrinunciabile di alcuni fattori e punti di attenzione che la rendano effettivamente non solo proponibile in un contesto ospedaliero, a più livelli e per più motivi -alcuni tra i quali introdotti nelle precedenti paginema soprattutto utile e funzionale al paziente, alla sua situazione clinica, alle sue risposte emotive, alla sua collaborazione terapeutica e al suo processo di cura (Bert, 2007; Giani, 2009; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Solano, Zannini, 2008). Tale premessa che inevitabilmente ci mette a confronto con il tipo di organizzazione attuale in cui operano medici e operatori medico-sanitari, e quindi con vincoli di varia natura per nulla trascurabili, con l’identità professionale del medico e con le sue interconnesse funzioni, ecc., non esclude tuttavia la possibilità di avviare micro-esperienze di pratica di scrittura con i pazienti affetti da patologie importanti secondo le modalità già prospettate e il più cospicuo coinvolgimento di figure, quali gli infermieri e/o i volontari, sempre avendo presente irrinunciabili punti di attenzione, alcuni tra i quali, già rilevati (Solano, 2007; Zannini, 2008). Pertanto, non è impossibile, o del tutto utopistica, la prefigurazione di una proposta e pratica di narrazione e di scrittura di sé, della propria esperienza e storia di malattia, o anche di guarigione, attentamente contestualizzata, modulata e problematizzata, di situazione in situazione (Solano, 2007; Zannini, 2008), sempre secondo l’ipotesi di poter fare del
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contesto organizzativo ospedaliero, un “contesto apprenditivo” (Santoianni, 2009), senza dubbio in presenza di certi antefatti culturali, organizzativi e riconducibili alla singola professionalità (Bert, 2007; Giani, 2009; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Solano, 2007; Zannini, 2008). La scelta narrativa su cui fanno leva in modo particolare Bert (2007) e Masini (2005), se, per certi versi, a livello organizzativostrumentale, è di più agile praticabilità, non lo è altrettanto, a livello personale e individuale professione e professionalità, se con essa intendiamo la complessiva e ben più ampia opzione del medico e dell’operatore medico-sanitario, a questo punto, complessa, profonda e, per certi aspetti, anche faticosa, di essere “narrativi dall’interno di sé”, prima e oltre un discorso di pratiche di scrittura rivolte ai pazienti, in sintonia di prospettiva con gli autori appena citati. Si tratta per il medico e per le altre figure di operatori medico-sanitari di fare proprio, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, un atteggiamento mentale (Bert, 2007, p.99; Masini, 2005, p.7) narrativo che sappiamo sottendere a sua volta una relazione”con il paziente di tipo narrativo (Bert, 2007; Masini, 2005, p.7) secondo un progetto di cura permanente, consapevolmente e responsabilmente voluto e pensato che non può essere soltanto di “natura terapeutica”, ma che è anche necessariamente di “natura esistenziale” (Montagna, 2004, p.48; Zannini, 2008). Un progetto che si rivolge a chi sta male e soffre considerandolo come persona singolare e specifica, dotata di una sua individuale soggettività e collocata nella diacronica e sincronica globalità e storicità della sua storia, non esclusivamente di malattia (Bert, 2007; Masini, 2005; Montagna, 2004; Zannini, 2008). D’altronde, se ci pensiamo bene, alla professionalità medica non è per niente estranea l’operazione della narrazione, orale e scritta, fin dalla formazione universitaria (Bert, 2007; Zannini, 2008). C’è la narrazione dei casi, la raccolta dell’anamnesi, la prescrizione scritta delle cure, la stesura del referto dopo un’indagine clinica o in seguito alla dimissione ospedaliera (ivi). C’è, inseguendo la riflessione di Good “(…) l’ascolto di narrazioni nei giri ospedalieri del mattino, nei giri di visite (…) più lunghe” (2006, p.123). Tutte queste narrazioni o storie che il medico ascolta, raccoglie o produce non sono, tuttavia, propriamente tali, come ci ricorda
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anche Bert (2007) e Zannini (2008), anzi tradiscono la specificità dell’identità narrativa di una storia perché esse sono “descrizioni” e “presentazioni” di “casi”, “(…) un complesso «gioco linguistico», alla Wittgenstein, (….), che è soltanto il riflesso di un mondo precostituito piuttosto che pratiche fondamentali orientate alla sua costruzione” (Good, 2006, p.125). La “distorsione” potremmo dire “narrativa” contribuisce a far sì che “le presentazioni dei casi rappresentino la malattia come oggetto della pratica medica. (…) La persona, il soggetto della sofferenza, è rappresentato come il luogo della malattia piuttosto che come agente narrante. Il paziente diventa un progetto medico (…)” (ivi). Ben diversa la concezione di una narratività interiorizzata o disponibilità, e successivamente, disposizione narrativa (Masini, 2005, p.14) prima di tutto nell’essere medico e poi nella pratica medica (ivi)12, e di conseguenza sicuramente differente la nozione di narrazione e di storia dell’esperienza di malattia, nonché di terapia e di cura (ivi)13, cui fa riferimento il medico o l’operatore, che chiameremo narrativo14, da noi già presa in considerazione, nel capitolo precedente, nei suoi aspetti auto-educativamente strutturali e di supporto/cura. Senza dubbio il medico che ha sviluppato e potenziato progressivamente con l’esperienza all’interno del divenire della propria storia di vita e professionale, così come con proposte formative ad hoc -cui ci riferiremo qui di seguito- una “sensibilità narrativa”, che è poi “sensibilità relazionale”15, ha maturato, non senza fatica, ambivalenze emotive, benefici e costi personali oltre che professionali, progressive e profonde acquisizioni di senso relative alla sua identità professionale e alla sua pratica clinica con il paziente, in primis l’imprescindibile consapevolezza dell’importanza e della 12 13 14
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Come da nota n.10. Cfr., sopra. Può venire spontaneo il richiamo soltanto linguistico ai “bambini narrativi” di cui parla A.Smorti, (1994), anche se in entrambi i casi, seppure con le debite differenze, si tratta di riferire ai soggetti coinvolti le caratteristiche dell’atteggiamento e della postura narrativa. In continuità con la prospettiva di G.Blandino, B.Granieri (2002) laddove gli autori si riferiscono secondo lo sguardo adottato alla sensibilità psicodinamica e relazionale dell’insegnante e di tutte quelle figure che a vario titolo si occupano di educazione e di cura. Cfr., in modo particolare, pp.1821.
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necessità di mettersi costantemente “in ricerca” (Bert, 2007; Zannini, 2008), che vuol dire ri-portare e ri-leggere il suo agire medico di tutti i giorni, il suo mettersi in relazione con il paziente (e anche con i suoi famigliari), dentro “modelli teorici o diagnostici”, nonché modalità di comunicazione e di relazione, che non sono assunti come assodati in modo definitivo ma che al contrario sono “interrogati in loco”, per cui, ripercorrendo la riflessione di Blandino, Granieri (…) dobbiamo domandarci se ce ne serviamo come di uno strumento parziale, modificabile e provvisorio, in funzione del comprendere e dell’interrogare, o se invece li utilizziamo in chiave difensiva per dare risposte, per togliersi dall’incertezza propria dell’esperienza conoscitiva a qualunque livello, da quella accademica al rapporto col paziente, dall’intervento in un gruppo di lavoro dentro un’istituzione sociale, al rapporto con l’allievo (2002, p.20).
Per far questo, l’antefatto irrinunciabile, potremmo dire l’antefatto narrativo, che è già, al tempo stesso, disposizione narrativa (Masini, 2005) e agire narrativo del medico o dell’operatore medico-sanitario, è necessario che il medico sappia quanto sia fondamentale la creazione di un “contesto” o “sfondo narrativo” (Bert, 2007; Fabbri, 1998; Masini, 2005; Giani, 2009), inteso come spazio promosso, pensato, progettato e presidiato, in cui attivare e potenziare “pensabilità” (Blandino, Granieri, 2002, p.34; Giani, 2009), personale e reciproca, dentro la relazione co-costruita con il paziente. Come la buona madre, parafrasando Blandino, Granieri (2002) e sempre ripercorrendo la riflessione dei due autori, non è tanto quella che è ansiosamente preoccupata, attenendosi esclusivamente all’urgenza del suo sentire e pensare, di riempire concretamente di cibo il bambino, proiettando su di lui, di fatto, un bisogno che è suo, ma al contrario, cerca una sintonia con i vissuti e le emozioni del suo bambino, offrendogli uno “spazio mentale in cui egli possa digerire il cibo” (ibidem, p.34), metafora anche delle “esperienze esterne” cui va “incontro (ivi); e come il buon insegnante, diversamente dall’immaginario più comune, non è solo ed eccessivamente preoccupato di finire il programma, trasmettendo quantitativamente saperi agli studenti, ma si fa carico di accompagnarli e di sostenerli lungo un processo di rielaborazio-
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ne critica, personale e collettiva dei saperi stessi, in cui lui, come docente, s’include e si espone (ivi), così il medico sufficientemente buono, per dirla alla Winnicott, non è quello che infarcisce solamente il paziente d’informazioni e saperi medici magari anche raffinati, riguardanti la malattia e il suo stato di salute, e/o la terapia da seguire, facendo uso di un linguaggio eccessivamente tecnico, da addetto ai lavori, poco comprensibile per il paziente e a volte non sostenibile emotivamente in quel momento, da quel paziente che può essere comprensibilmente disorientato, preoccupato, se non perfino, molto spaventato dalla diagnosi ricevuta, dal decorso della malattia prospettato e dall’impegno che richiedono le cure e le terapie (ivi). Ci colpisce a questo punto la riflessione di Blandino, Granieri, laddove a proposito dell’esperienza apprenditiva a scuola, i due autori affermano”(…) più si è lievi e leggeri, quanto più si va in profondità e si diventa riflessivi, mentre tanto più si è pesanti e assillanti, tanto più si resta in superficie” (2002, p.34). Anche il medico, analogamente all’insegnante, corre il rischio di “rimanere in superficie” qualora non crei il “contenitore” (Blandino, Granieri, 2002, pp.11-57; Marino, Duval, 2009, pp.166-167) accogliente fatto di un con-esserci relazionale ed emotivo con il paziente all’interno del quale fare posto al “contenuto” medico e terapeutico in alcuni casi anche clinicamente ed emotivamente forte (ivi). Dentro e tramite questo “contenitore narrativo” (ivi) il paziente, accompagnato e sostenuto dal medico, può sentirsi accettato e ri-conosciuto e può riconoscere gradatamente le emozioni, gli stati d’animo e i vissuti che albergano in lui sentendosi legittimato a tirarli fuori, a condividerli e successivamente più capace, secondo tempi a lui consoni interiormente, di ri-elaborarli e tras-formarli, almeno parzialmente, potendoli “pensare insieme” (Bert, 2007; Blandino, Granieri, 2002; pp.11-57; Marino, Duval, 2009, pp.166-167; Masini, 2005; Zannini, 2008). Lungo questa direzione, il medico “alleggerisce” il pensiero univoco e perciò spaventato del paziente contemporaneamente andando “in profondità” con l’introduzione di un “pensiero riflessivo” (Bert, 2007; Blandino, Granieri, 2002, p.34; Zannini, 2008) che rende maggiormente capaci entrambi di apprendere, il primo, dalla storia di malattia di quello specifico paziente e quest’ultimo dalla sua personale vicenda di malattia, così come prende forma
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anche dentro la storia clinica co-costruita (Bert, 2007; Blandino, Granieri, 2002, p.34; Masini, 2005; Zannini, 2008). Si delinea a questo punto il portato educativo dell’agire medico inteso come capacità di “contenere” e di “far evolvere” il paziente (Blandino, Granieri, 2002) laddove anche i margini siano residui, rivedendosi e modificandosi egli stesso, come medico, con le sue opinioni più o meno consapevoli su quel paziente, con le sue modalità di approccio, di relazione e di comunicazione sviluppate con lui, ecc.,. (Bert, 2007; Blandino, Granieri, 2002; Masini, 2005, Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008). A delinearsi è “uno spazio in cui i rispecchiamenti, le risonanze, gli scambi, portano alla possibilità di pensare e percepire ciò che è doloroso, per sé o per gli altri” (Blandino, Granieri, 2002) sviluppando e/o potenziando in ciò, atteggiamenti e comportamenti comunicativo-relazionali empatici nei confronti del paziente (Bert, 2007; Blandino, Granieri, 2002; Masini, 2005; Zannini, 2008). L’assunzione dei presupposti del “paradigma narrativo” nella pratica medica, così come li abbiamo richiamati, mette a confronto il medico, l’infermiere, ecc., con la conseguente questione del “trattamento” della “storia dell’esperienza di malattia” e “di cura” del paziente (Bert, 2007, Zannini, 2008), e della gestione della propria storia professionale, sia nella quotidianità del lavoro di cura sia all’interno della formazione universitaria e in servizio “La narrativizzazione” –che è alla base della co-costruzione della
storia di malattia e di cura portata avanti dal medico e dal paziente insieme (Bert, 2007; Zannini, 2008), o che addirittura fa tutt’uno con questa storia, non necessariamente messa per iscritto, come vedremo- “è un processo di localizzazione della sofferenza nella storia, di collocazione degli eventi in un ordine temporale dotato di senso (che dà senso, aggiungiamo noi). Ha inoltre lo scopo di schiudere il futuro a un esito fausto, di consentire al sofferente di immaginare un modo per superare le avversità e i tipi di attività che consentirebbero all’esperienza della vita di rispecchiare (almeno in parte, e laddove ciò sia possibile) la storia progettata (Good, 2006, p.197).
Questa ci sembra essere, per usare l’espressione di Zannini (2008), una “buona storia di malattia ma anche di cura” verso cui accompagnare il paziente.
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4. Chi è il medico narrativo ? Proviamo a tenere presenti i temi e i motivi affrontati nelle precedenti pagine e chiediamoci chi sia il medico o l’operatore-medico sanitario narrativo, o che orienta narrativamente la sua pratica professionale e di cura: a) egli è senza dubbio un professionista maturo interiormente per dirla con Blandino, Granieri (2002, pp.11-57) e sufficientemente flessibile perché disposto mentalmente ed emotivamente (ivi) a mettere in discussione anche profondamente l’idea e l’immagine tradizionale del medico che ha interiorizzato nonché la rappresentazione più lineare della sua pratica professionale e di cura (Bert, 2007; Bertolini, 1994; Giani, 2009; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008)16. Il ché, implica problematizzare il modello di medicina ereditato durante la formazione universitaria e il paradigma epistemologico a esso sotteso così come la teoria inerente le dimensioni procedurali e operative del proprio intervento (Bert, 2007; Bertolini, 1994; Giani, 2009; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008). A tal proposito, Liberati ci ricorda come: “la professione medica sia piena di regole implicite sul chi e come ha diritto di parola in materia professionale, sul come e dove possono avere spazio le convinzioni professionali e le abitudini/ credenze personali (del medico e del paziente)17 rispetto alle evidenze scientifiche, ecc.,” (1994, p.129). Possiamo dire pertanto che il medico narrativo è consapevole, in modo critico e trasformativo, dei condizionamenti culturali, contestuali, sociali e (auto)biografici attraverso i quali passa la sua pratica medica e dunque anche il suo modo di relazionarsi con il paziente (Bert, 2007; Bertolini, 1994; Blandino, Granieri, 2002; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008); b) in questo senso, è un medico che prende un po’ le distanze dall’essere “(…) strutturalmente convinto di essere in grado di sapere cosa è meglio e di che cosa principalmente ha bisogno il paziente” (Liberati, 1994, p.125; Bert, 2007, Zannini, 2008, et., al). Del resto, il pensiero narrativo che sostiene un agire altrettanto 16 17
Anche se tali autori non si riferiscono alla nozione puntuale di medico narrativo qui introdotta. L’aggiunta è nostra.
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narrativo, è un pensiero che non definisce, non chiude, non indica o prescrive, ecc., secondo rigide, univoche, pretenziose e forse anche un po’ arroganti modalità procedurali, ma è un pensiero, ci viene da dire, debolmente-coraggioso, che si espone, che “si mette in ricerca” secondo un procedere “umile”, direbbe Marianella Sclavi (2006), disponibile ad aprirsi a diverse direzioni (Bruner, 1992; Smorti, 1994); c) è un operatore che è preoccupato di umanizzare il proprio ruolo professionale, il proprio sapere e il proprio agire tecnico e strumentale18, consapevole che le “conoscenze mediche, da sole, non fanno un buon dottore” (Bertolini, Carinci, 1994, p.30). D’altronde, il pensiero narrativo è un pensiero umanamente, autobiograficamente e idiograficamente, incarnato (Bruner, 1992; Smorti, 1994); d) è un medico che esprime la sua narratività (Masini, 2005) tramite un atteggiamento mentale e relazionale che dà spazio alla creatività intesa come contestualizzata e non definitiva “produzione di ipotesi” e di punti di vista (Bert, 2007; Zannini, 2008), questo perché il suo sguardo intercetta lo sguardo del paziente, per cui le sue certezze soprattutto quelle emotive e relazionali possono farsi generativamente incerte (Tramma, 2003, p.118). Può modificarsi il punto di vista su di sé, come operatore, su quel specifico paziente, sulla relazione sviluppata, o non, con lui; sui bisogni di cui il paziente è portatore, sulle sue aspettative, sulle risorse e capacità messe in atto dal paziente, ecc.,. Ancora una volta, è chiamato in causa il pensiero narrativo che ha un andamento dinamico e flessibile e che è interessato a processi di negoziazione, mediazione e co-costruzione di teorie e rappresentazioni, come pensiero contestualizzato (Bruner, 1992; Smorti, 1994); e) è un adulto professionista capace di accoglienza nella processualità della relazione, disposto quindi, qualora ci fosse la necessità, a fare “un passo indietro”; f) è senza dubbio un operatore consapevole dell’importanza del linguaggio che usa e della parola con cui si rivolge al paziente per cui fa lo sforzo di chiedersi come possa risuonare la sua parola dentro il mondo interno del paziente in quella fase precisa della sua storia di malattia e della storia relazionale costruita insieme (Bert, 18
Cfr., nota n. 16.
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2007; Masini, 2005; Zannini, 2008). In ciò, si chiede anche che cosa proverebbe lui stesso davanti a quella modalità comunicativa. La sua parola può infondere fiducia, sostenere, accompagnare il paziente, aprire possibilità non pensate, ma può anche essere inavvertitamente una parola che segna negativamente il paziente, che lo mette in ansia, lo preoccupa, che alimenta fantasmi soprattutto se la patologia di cui soffre il paziente è impegnativa (Bert, 2007). Ci ricorda Bert “Il fatto è che anche le cose dette a caso, senza riflettere, provocano effetti in chi le riceve, e possono essere effetti anche molto rilevanti “ (ibidem, p.227). Di conseguenza, non può che essere un medico che colloca per esempio la diagnosi e/o la terapia da intraprendere così come i discorsi sugli eventuali andamenti futuri del decorso della malattia e della cura dentro un “contenitore” di parole che “contengono” (Bert, 2007; Blandino, Granieri, 2002; Marino, Duval, 2009; Masini, 2005, Pennebaker, 2004), che fanno da fattore protettivo. Anche in ciò, ci imbattiamo nella caratteristica dubbiosa e interrogativa del pensiero narrativo, che si fa meta-narrativo (Bruner, 1992; Smorti, 1994). Per esempio, una giovane oncologa di un ospedale milanese (che non indichiamo per motivi di privacy) durante una prima visita ambulatoriale per impostare un ciclo di radioterapia con una giovane donna operata di tumore alla mammella, all’interno di una situazione clinica abbastanza buona, credendo di essere d’aiuto alla paziente che deve intraprendere con lei un ciclo di radioterapia, struttura come segue la sua comunicazione accompagnata da un non verbale sicuramente accogliente e disponibile La sua non è una situazione catastrofica, anche la chemioterapia che ha fatto è precauzionale, i medici hanno ritenuto preferibile fare questo ciclo di chemioterapia, data la natura un po’ aggressiva del tumore, per evitare delle recidive locali anche se per il tumore alla mammella abbiamo mille terapie, ci sono persone che da vent’anni fanno terapie, con la radioterapia attacchiamo eventuali celluline locali, e con la terapia ormonale, che inizierà tra un po’, agiamo sulla responsività agli ormoni, visto che è risultato abbastanza responsivo. Comunque, si viva la sua vita, il peggio è passato, lei adesso è guarita, viva, momento per momento, anche i farmaci contro l’ansia che sta prendendo, li prenda per un periodo, sarebbe un peccato prenderli per un tempo lungo, è giovane, carina. Con la tac di centratura, isoliamo la parte da irradiare, le rimarranno dei piccoli puntini, che ci
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servono, un domani, per ricostruire la traiettoria. Il rischio di una recidiva nel suo caso è solo un pochino più alto di una persona che sta bene.
Ora, la comunicazione che nelle intenzioni della giovane e senza dubbio disponibile dottoressa, voleva essere rassicurante, ci sembra che possa risultare piuttosto ambivalente e generatrice di ansia nella paziente che è già preoccupata tanto da ricorrere al sostegno farmacologico. Le si comunica di stare tranquilla perché ci sono le premesse cliniche per poterlo essere, perché sta seguendo una terapia appropriata ma al tempo stesso è sottilmente introdotto un rischioso “se, però…”19. La giovane dottoressa cerca di infondere la fiducia nella tecnica medica ma non riesce con le sue parole a co-costruire con la paziente una fiducia più interiore cui attingere. È utile parlare nei modi sopra descritti del tempo futuro prospettato come un tempo con margini, seppur minimi, di rischiosità, o comunque, di incertezza? Non sarebbe stato preferibile fermarsi al tempo presente e alle sue possibilità ? Come uscirà questa paziente dall’ambulatorio? La situazione descritta ci riporta alla considerazione di Bertolini per cui è indispensabile per il medico “saper sapere” (1994, p.21). Muovendosi dentro la prospettiva del “significato” (Bert, 2007; Bertolini, 1994; Giani, 2009; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008), il medico-narrativo accompagna e sostiene con la sua narrazione, il linguaggio che usa e le proprie modalità comunicativo-relazionali (Bert, 2007; Giani, 2009; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008) il paziente lungo le fasi di un percorso anche faticoso che richiede di poter dare un senso, in cui riconoscersi attivamente e in modo soggettivamente propositivo, al periodo in certi casi lungo e impegnativo della terapia (Bert, 2007; Bertolini, 1994; Giani, 2009; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008). È qui che la narrazione del medico pur partendo e facendosi inevitabilmente carico della faticosità della situazione che non può e non deve essere negata, per più 19
Riportiamo lo scambio conversazionale per evidenziarne gli andamenti più o meno narrativi e non quindi con la finalità di avanzare riflessioni inerenti la tecnica del colloquio o della prima consultazione clinica.
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motivi, introduce tuttavia delle aperture possibili e sostenibili nel racconto chiuso, univoco, fisso, negativo, spaventato, ecc., del paziente. Le alternative di pensiero sollevate dal medico ma non imposte o prescritte, alla stregua di farmaci, possono costituire delle possibilità che se vuole il paziente può avvicinare, dentro sempre una lettura e una gestione realistica della situazione clinica, operata dal medico (Bert, 2007; Bertolini, 1994; Giani, 2009; Good, 2006; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Zannini, 2008). Per esempio, durante la prima visita ambulatoriale sempre all’interno di un ospedale milanese (di cui manteniamo l’anonimato per questioni di privacy), di fronte alla comprensibile paura e ai fantasmi più o meno pregiudicati di una giovane donna da poco operata di tumore alla mammella, che sa già di dover iniziare un ciclo di chemioterapia adiuvante, in quanto terapia consigliata dal chirurgo-senologo che l’ha operata in un altro istituto di cura, a seguito dell’analisi istologica effettuata, l’oncologa cerca di introdurre nella sua comunicazione e nella relazione che si sta instaurando-sviluppando elementi di chiarificazione e di rassicurazione orientati ad assumere insieme, medico-paziente, questo periodo come fase di tempo che il racconto dell’oncologa restituisce, terapeuticamente, con un “inizio e una fine”, dove si possono comunque portare avanti le attività che interessano e gli impegni che fanno parte della propria quotidianità, per cui l’oncologa, riferendosi ovviamente all’attuale condizione clinica della paziente sostanzialmente buona, prospetta e condivide con lei la possibilità di riempire il tempo della terapia, senza dubbio impegnativo (“non le nascondo che qualche disturbo l’avrà”, afferma l’oncologa), con ipotesi di progetto che restituiscono fiducia, vitalità e risorse alla paziente. L’oncologa fa leva sui “pieni” della paziente ed è capace di lavorare insieme a lei sull’eccesso di stereotipi che permangono rispetto alla chemioterapia, senza negare la situazione comunque impegnativa (paziente: ”dovrò fare la chemioterapia, in pratica, una bomba esplosiva“, oncologa: “non direi, una bomba esplosiva, questi sono gli stereotipi che appaiono sulle riviste, che fanno parte dell’idea che si fa la gente, la chemioterapia di oggi soprattutto se adiuvante come la sua, procura qualche disturbo, ma contenibile e gestibile, anche perché abbiamo farmaci efficaci per gli effetti collaterali, potrà avere un po’ di stanchezza, una leggera nausea, qualche formicolio alle mani e ai piedi, soprattutto i primi due o tre giorni, ma sono sintomi transitori. Le assicuro che può essere un periodo da vivere, in cui può continuare a lavorare, se vuole,
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anzi, ben venga l’impegno lavorativo che aiuta a deviare il pensiero, ovviamente, dobbiamo tenere conto della sua reazione alla terapia, ma vedrà, può essere un periodo con un inizio e una fine che si può vivere. E non ascolti i racconti degli altri, cerchi di proteggersi un po’, perché ogni storia è unica. Allora, faccia questi esami che tanto sono sicura che saranno negativi, in dieci, quindici giorni dovrebbe farcela e poi l’aspetto, dai, e cominciamo, in bocca al lupo20.
Le parole accoglienti, attente, misurate, ferme e autentiche dell’oncologa proteggono: non è infinito il periodo critico della terapia, ossia il tempo in cui ci si percepisce anche malati, è possibile trasformare questo tempo secondo una possibilità di forma e di progetto che la paziente può e vuole dargli, ci sono antidoti ai disturbi procurati dalla terapia, che vanno ricollocati dentro una prospettiva meno pregiudicata dall’immaginario collettivo, e come congedo che fa da ancoraggio interiore, oltre il tempo dell’appuntamento, la certezza rassicurante che l’oncologa c’è, si è in due ad affrontare questa prova; g) è un medico, per riprendere la nostra lista, attento alla soggettività del paziente, ai suoi punti di vista sulla malattia e sul progetto terapeutico indicato, si fa carico dei vissuti del paziente inerenti sia la personale esperienza di malattia sia la terapia da intraprendere (Bert, 2007; Zannini, 2008, et.al.,). In ciò, “sa usare la narrazione” e “sa lavorare” con il paziente sulla sua narrazione (Bert, 2007, p.108); h) infine, il medico orientato narrativamente acquisisce e sviluppa nella formazione e con l’esperienza della sua pratica clinica competenze narrativo-autobiografiche di tipo auto-riflessivo, sempre più necessarie, se come ci fanno presente Virzì e Signorelli “Ci siamo sempre più allontanati dai nostri malati, aiutati e sospinti dalla tecnologia, ma avvicinarsi a loro significherà avvicinarsi a noi stessi, dando un senso diverso alla nostra vita” (2007, pp.99-101), compresa quella professionale, aggiungiamo noi21. Del resto, il pensare narrativamente è anche un pensare in termini autobiografici.
20 21
Cfr., la precedente nota. Cit., in U.Giani, (a cura di), (2009), p.290.
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Possiamo concludere sottolineando come il medico narrativo non sia uno psicologo, quanto un professionista che tramite una specifica formazione e l’esperienza maturata sul campo ha affinato e sensibilizzato le proprie modalità comunicative e relazionali (Bert, 2007; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; Kanizsa, 1993, Zannini, 2008) apprendendo anche a “lavorare” sulla propria storia professionale e pratica di medico, e con la storia di malattia e di cura del paziente (Bert, 2007, p.108; Zannini, 2008), facilitando quest’ultimo ad ascoltare tras-formativamente questa stessa storia, laddove sia possibile, in ciò “intercettando quell’area del malessere che non riesce a essere accolta dal paradigma della biomedicina se non mediata nella sua natura neurologica, psichiatrica o psicologica (Masini, 2005, p.46). “Area del malessere” dalla quale l’operatore non è, o non sarà, esente in termini assoluti per cui concordiamo pienamente con Virzì e Signorelli, laddove, scrivono quando si parla ad esempio di “assistenza psicologica nei reparti oncologici, questa non può tradursi solo nell’inserimento di figure specifiche, come gli psicologi, al pari di un macchinario qualunque o di un impianto di aria condizionata. È il medico, ogni medico, che deve acquisire questa competenza, da mettere in atto sempre (…). Ciò che è veramente importante è che il medico impari a difendersi dai rischi dell’eccessivo coinvolgimento in una maniera diversa che non sia il distacco, fino all’”oggettivazione” del paziente, ma con l’accettazione che la sofferenza umana fa parte dell’esistenza e quindi va accettata (2007, p.80). E ancora ”noi insegniamo ai nostri studenti la causa delle malattie, come si manifestano, come si arriva alla diagnosi, come si curano e infine qual è la prognosi. Non chiediamo mai allo studente quale potrebbe essere il suo rapporto con la sofferenza, la sua reazione al cospetto di un malato grave o addirittura terminale, non gli chiediamo mai che cosa pensa della morte o meglio del morire (….) (ivi, pp.99-101).22
Di qui una proposta di formazione che è orientata a un “trattamento educativo” della “storia di malattia” del paziente (Bert, 2007; Zannini, 2008), e al “trattamento autoriflessivo” della pratica medica (Bert, 2007; Zannini, 2008), da parte del medico, in linea anche con il progetto medico di educazione terapeutica e con 22
Come da precedente nota.
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quello di (auto)formazione permanente delle professionalità mediche e di cura. Ovviamente, quelli che abbiamo delineato sono soltanto alcuni punti di attenzione per un professionista medico-sanitario che scelga di collocare la sua pratica medica e di cura dentro uno sfondo narrativo (Masini, 2005). Non vogliono assolutamente costituire una lista di prescrizioni tra l’altro in contrasto proprio con la matrice narrativa che vuole promuovere e sostenere processi d’individuazione e di pensiero autonomi e aperti. Consapevoli inoltre che secondo la situazione, la fase di vita personale e professionale dell’operatore, ecc., sarà a volte più facile assumere tali atteggiamenti e posture mentre in altre circostanze o momenti potrà risultare più faticoso. Sicuramente, quello che abbiamo ricostruito fino a questo punto ci mette davanti all’urgenza e alla complessità di un ripensamento della formazione in ambito medico-sanitario. 5. Non sono storie di malattia: le derive della narratività e della narrazione nella relazione medico-paziente Come ogni sguardo e approccio alla propria pratica professionale anche la dimensione narrativa agita nella pratica medica e nella relazione tra il medico, o un’altra figura di operatore medico-sanitario, e il paziente può andare incontro ad alcune derive o distorsioni che possono rendere critico o addirittura ostacolare il buon andamento della relazione stessa che si sta, via via, sviluppando e della storia che entrambi contribuiscono a costruire a partire e dentro quella relazione. Se partiamo dal presupposto epistemologico, concettuale e metodologico-procedurale, condiviso con Masini, che la pratica medica orientata narrativamente è un “modo di proporsi” da parte dell’operatore e dunque di “essere” e di “agire” anche a “livello di comunicazione” finalizzato a far sì che “l’altro entri maggiormente in contatto con il suo sé e con il sé del locutore”, con lo scopo “di co-produrre con il paziente, un significato, rispetto alla sua vicenda di malattia e di cura, appropriato al suo vissuto” (2005, p.15), ci rendiamo conto di come si tratti, per gli operatori medico-sanitari, ognuno nel proprio ruolo, di una questione profonda che va avvicinata con delicatezza e con competenza umana e professionale,
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criticamente attenti alle sfumature ad essa connesse e alle sue possibili manipolazioni agite anche in modo inconsapevole. Per esempio, se siamo d’accordo circa il fatto che si tratti d’impostare narrativamente la relazione con il paziente nella fase del primo approccio-accoglienza, dell’anamnesi, della condivisionerestituzione del referto medico, della messa a punto della terapia da seguire e del suo eventuale monitoraggio in itinere, nonché del congedo (ciò, in situazione di visita ambulatoriale o di degenza ospedaliera), non possiamo pensare che un medico, o un infermiere, ecc., sia narrativo, una tantum, alla presenza del “paziente facile” magari accompagnato da altrettanti “familiari comodi”, o solo, quando si trova personalmente in situazione di benessere e/o di gratificazione-motivazione, a livello professionale. La scelta narrativa fatta dall’operatore richiede di essere permanente, senza dubbio, con qualche cedimento o fase di fragilità-criticità, che del resto, rendono umano l’operatore stesso. La sporadicità narrativa non lo renderebbe autentico, metterebbe in crisi confusiva il singolo paziente che finirebbe con il sentirsi tradito (non è il medico che pensavo, posso fidarmi ? Che cosa posso permettermi, o non, con questo medico ? Se è poco affidabile a livello di relazione, c’è il rischio che lo sia anche a livello di competenza medica ? Quest’ultima potrebbe essere l’ipotesi di un paziente per sua indole più difficile da rassicurare o più preoccupato e in ansia per il suo stato di salute). Inoltre, anche per il medico o l’infermiere stessi potrebbe essere difficile gestire una sorta di “maschera narrativa”, messa e dismessa alternativamente con il singolo e specifico paziente, senza reali e obiettive motivazioni che rendano ragione di questa sua condotta, calata sempre nella relazione con quel paziente. Sottilmente simile per certi aspetti alla prima distorsione narrativa che potremmo chiamare a) maschera narrativa estemporanea, è la b) non naturalità della postura narrativa23, il ché rende il professionista medico-sanitario inautentico o meglio narrativamente inautentico. Egli s’impone di essere narrativo, “fa finta…”, magari a tratti ci riesce, ma la narratività la vive in superficie non è un tratto che ha fatto proprio e che si è radicato dentro, avendone comprese le preziose potenzialità per il paziente, per se stesso, e per sé con il paziente (Masini, 2005). Pensiamo forse che il paziente che sta 23
Seconda deriva della narratività dell’operatore medico-sanitario.
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male, soffre, ha paura e ha bisogno di un punto fermo, non si renda conto di ciò ? Com’è possibile che si fidi soprattutto nel lungo tempo di questa figura di professionista ? Di conseguenza quale tipo di collaborazione terapeutica può di fatto sviluppare il paziente? Non dimentichiamoci che “(…) le emozioni -veicolate dalla narrazione aggiungiamo noi- sono un fenomeno sociale e che l’umanità -compresa quella del medico- è espressa, condivisa e supportata in un’infinità di modi nell’ambito dell’ordine d’interazione” (Bolton, 2009, p.32), per cui, una vicinanza narrativa simulata non premia. Una terza modalità di deriva narrativa dentro la relazione medico-paziente è costituita da un c) eccesso di empatia narrativa da parte dell’operatore, atteggiamento che tra i vari rischi che può comportare ai fini del buon funzionamento della relazione con il paziente, può indurre anche inconsapevolmente il medico a confondersi con il paziente, con la sua situazione di sofferenza, il medico slitta eccessivamente pertanto dentro la vicenda di malattia del paziente, rischiando di sovrapporsi a lui, ai suoi bisogni, ai suoi desideri, alle sue aspettative, ai suoi vissuti, alle sue scelte autonome, ecc., per cui il paziente paradossalmente è collocato in periferia, e a diventare protagonista è il medico. È bene tener presente con Masini che la “narratività” fa della “pratica medica” “una pratica di tipo interrogativo-esplorativo” (2005, p.14)24, nei confronti dell’altro-paziente e di se stesso, come medico, lontana quindi da una pratica “colonizzante” il paziente. Ci piace concludere questo paragrafo che richiama soltanto, e anche in modo sintetico, alcune tra le possibili manipolazioni più o meno consapevoli della narratività nella pratica medica, con l’efficacia della sintesi operata rispetto a teli temi da Minervino, Fallani: Non si tratta di un problema deontologico, di un medico buono che chiacchiera con il malato. È un problema costitutivo della sua professionalità. Il medico deve essere consapevole delle dinamiche, dei meccanismi che s’instaurano nel momento in cui lui parla con il malato. Lui parla con la parola, con il camice, con l’attenzione concentrata o con la disattenzione, con il fermarsi seriamente a parlare. Una serie di cose che diventano fondamentali e che si evidenziano per esempio negli ospedali (….) (1999, p.91)25. 24 25
Il corsivo è nostro. Cit., in V. Masini, (2005), p.14.
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Le derive della dimensione narrativa possono spingere il medico o altre figure di operatori, a co-costruire con il paziente storie di malattia e di cura, anche soltanto affidate all’oralità, che solo apparentemente sono tali distanziandosi di fatto da quelle componenti su cui ci siamo soffermati nel precedente capitolo a proposito della pratica di scrittura del paziente, accompagnata, per l’appunto, dall’operatore26. A venire meno è la loro potenzialità educativa e curativa di sostegno, di accompagnamento, di rafforzamento, di riprogettazione, ecc., del paziente. 6. Quale formazione per l’operatore medico-sanitario, a orientamento narrativo Avviandoci verso la conclusione della nostra riflessione ci chiediamo, anche se per brevi cenni, quale formazione sia più coerente e funzionale rispetto ai temi, ai punti di attenzione e alle questioni sopra sollevate27. Senza dubbio una formazione che dentro il percorso di studi universitari riconosca con pari legittimità accanto ai saperi scientifici, medici e tecnici, l’introduzione d’insegnamenti e di laboratori di matrice pedagogico-educativa attenti alle dimensioni della comunicazione e orientati a promuovere atteggiamenti e competenze di tipo relazionale con il paziente a partire da una proposta di pratiche narrative e di scrittura professionale e di cura che sostenga il medico e i vari operatori medico-sanitari nello sviluppo di attitudini autoriflessive rispetto al proprio essere, pensare e agire professionale. Ovviamente, dalla prospettiva in cui ci collochiamo in questo testo e in base anche alle esperienze di formazione attivate, da chi scrive, in vari ambiti medico-sanitari, ci sembra importante un avvicinamento teorico-pratico alla narrazione/scrittura autobiografica e della pratica medica e professionale per poterne cogliere per via diretta ed esperienziale le valenze relazionali, auto-formative, auto-educative e di cura, oltre 26 27
Per un approfondimento di tale questione si rimanda in modo particolare a G.Bert, (2007); L.Zannini, (2008). La prospettiva formativa qui delineata nelle sue macro-dimensioni e finalità ci pone in continuità con le considerazioni degli autori tenuti presenti nel nostro contributo (Bert, 2007; Bertolini, 1994; Giani, 2009; Masini, 2005; Moja, Vegni, 2000; e in particolare, Zannini, 2008).
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ché i limiti e gli aspetti di rischio. Non è possibile infatti, come ci ricorda Demetrio, proporre un progetto formativo di questo tipo che richiede all’altro, nel nostro caso il paziente, di esporsi, se prima l’operatore stesso non ha fatto esperienza su di sé di che cosa voglia dire raccontarsi, mettere in parola vissuti di fatica e di dolore, recuperare le personali esperienze di malattia e di cura, ecc., seppur con le dovute attenzioni e sensibilità umane e di metodo del formatore. Lungo questa direzione, al medico e all’operatore medico-sanitario sarà richiesto nella formazione di familiarizzare con una pratica di scrittura professionale e di cura che lo introduca a un “modo altro”, appunto di tipo narrativo, di scrittura medica e clinica (Zannini, 2008) che lo possa supportare anche nella sua quotidianità nella direzione di un’autoformazione permanente, e non tanto, o subito, nell’ottica di una proposta di scrittura rivolta al paziente. Si tratta di entrare direttamente in contatto con le nozioni di narrazione, storia, storia professionale, storia di malattia, di cura, ecc., per formare prima di tutto un “abito mentale” che possa progressivamente diventare un “abito relazionale” (Bert, 2007; Masini, 2005; Zannini, 2008). Dopo di ché, abbiamo già rilevato come il medico, l’infermiere, ecc., allenato a tali pratiche, possa almeno concedersi, se lo vuole, una disponibilità e una disposizione narrativa (Masini, 2005, p.14). Siamo d’accordo con il punto di vista di Masini (ibidem), per cui la narratività nel contesto medico-sanitario, così come a scuola o in altri ambiti organizzativi e professionali, non rappresenta la soluzione magica e onnipotente di fronte a situazioni delicate, critiche o problematiche, se così fosse, avremmo a che fare con un punto di vista pretenzioso e che non procede secondo una lettura realistica del contesto e della relazione medico-paziente in esso inserita, entrambi possibili derive della narratività stessa, e maggiori sue preoccupazioni. Essa può costituire tuttavia un tassello che può interconnettersi con altre e ulteriori sensibilità teorico-concettuali e d’intervento nell’ottica di co-costruire un contesto e una relazione clinica, medico-paziente, che possa essere di accompagnamento, contenimento e di protezione, non solo medica, ma anche di tipo autoeducativo/autoformativo, in quanto tale, orientata sempre e in ogni momento della storia di malattia e di cura a restituire possibilità anche minime di tipo accrescitivo secondo una stratificazione e un’articolazione di direzioni e di senso del processo stesso.
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Seguiamo allora la riflessione di Masini che ci permette di ricostruire la cornice epistemologica della dimensione narrativa in medicina e nella formazione medica, ad orientamento narrativoautoriflessivo-autobiografico: 1. la narratività in medicina (…) implica un diverso modo di intendere ciò che è importante; 2. la narratività conduce alla co-costruzione del significato ma non è l’unica via per addivenire ad un senso condiviso; 3. la narratività è un modello “nuovo” in medicina ma non nelle scienze umane, anzi queste ultime hanno il compito di indirizzare la narrative medicine e la formazione narrativa28 verso la ricerca delle aeree bonificate da deviazioni metodologiche (…); 4. la narratività deve scegliere un sano senso del limite (…); 5. l’umiltà della narratività (…) può esprimersi nel suo compito di grimaldello per una nuova rottura epistemologica verso la costruzione di nuovi modelli e non solo verso la critica e la destrutturazione di quelli esistenti (…) (2005, p.9). Tutto ciò, verso lo sviluppo di un possibile e auspicabile incontro tra medicina e pedagogia (Bertolini, 1994), che connoti la prima in termini umanistici (Masini, 2005, p.45)29, alla stessa stregua della formazione medica, e che al tempo stesso, direbbe Riccardo Massa sottragga una certa dose di retorica al discorso pedagogicoeducativo30. Bibliografia Anonimo, “Giulia e i suoi racconti”, Adultità, n.26, Guerini e Associati, Milano, 2007 M. P. Arrigoni, G.Barbieri, Narrazione e psicoanalisi. Un approccio semiologico, Raffaello Cortina, Milano, 1998 J.D.Bauby, Lo scafandro e la farfalla, Ponte alle Grazie, Milano, 1997 P.M.Bellini, Scrivere di sè, Ibis-Como, Pavia, 2000 28 29 30
L’aggiunta è nostra. Anche negli altri punti indicati il riferimento alla formazione medica di tipo narrativo è implicito. L’autore prospetta come psicologo e psicoterapeuta un connubio tra medicina e psicologia per cui egli si riferisce in modo precipuo alla psicomedicina umanistica. I miei ringraziamenti vanno a colei che con mano ferma e garbata ha saputo accompagnarmi in questi anni.
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Parte quarta di Emanuela Mancino
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I. LA NARRAZIONE COME DIALOGO
1. Le trasformazioni dell’esperienza La narrazione possiede, agli occhi delle scienze che se ne sono occupate e se ne occupano - con approccio ora linguistico, ora filosofico, ora semiotico, ora pedagogico o economico - intrinseci meccanismi interni, peculiari risvolti e valori sociali, nonché modalità e pragmatiche estetiche e simboliche così complessi ed intrecciati tanto fondativamente al panorama vario dell’esperienza, che la nozione di narratività non stenta a divenire, attraversando i risvolti teorici di riferimento, un filtro interpretativo comune e trasversale ai diversi ambienti culturali. La narratività soggiace all’esperienza e si articola secondo una modalità organizzativa che può essere letta attraverso lenti che, nel coglierne il carattere semantico e retorico, possono però anche intrecciare il regime teorico delle discipline di riferimento con l’immersione nella pratica della narrazione. Lo sguardo allora si inoltra nelle trame di una cultura che vive di e con la narrazione e che quindi la esegue, la sviluppa, con tutte le evoluzioni storiche proprie di un organismo culturale che possiede linguaggi vivi e mutevoli, creando, organizzando e distruggendo codici e pensieri. La narrazione si dispiega nell’esperienza in modo trasversale alle culture e con rilevanze e ruoli diversi, ma con una persistenza che ne impedisce la sintesi, che ne concretizza la capacità trasformativa e l’esistenza stessa. Le dimensioni proprie della narrazione, insieme alla sua caratteristica di durata o, meglio ancora, di durevolezza (quasi si trattasse si una resistenza agli agenti esterni), ci pongono di fronte ad un’entità definibile come vasta e tenace. Anzi, mutuando l’espressione di Barthes riferita alla retorica, si
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potrebbe affermare che la narrazione appare “più vasta e tenace di qualsiasi impero politico”. Narrare è un’attività che pare rispondere ad una spinta irresistibile di organizzazione e trasmissione dell’esperienza e che richiama e costruisce il linguaggio in un rapporto di interdipendenza. L’universalità del fenomeno narrativo risponde, secondo Bruner, ad una pulsione protolinguistica del racconto che sta alla base della comunicazione. Quando la natura viene “parlata” dall’uomo, nascono racconti, miti, religioni, storie. È sempre Bruner a dirci che l’uomo, in quanto soggetto culturalmente situato, utilizza la narrazione come primario dispositivo conoscitivo ed interpretativo, relativamente alla propria esperienza di vita. (Bruner,1992) La narrazione può dotare di senso e significato l’esperienza, fornendo cornici non solo di comprensione ma soprattutto di previsione o prefigurazione: in tal senso narrare è gesto abbracciante, azione che configura secondo una consequenzialità (non necessariamente logica) gli eventi e li connette al carattere più vigorosamente e profondamente formativo dell’accadimento, ovvero la sua possibilità di essere raccontato. Ciò che avviene ed è avvenuto risorge, quando si fa narrazione, e si dispone ad una riconfigurazione capace di creare legami di tempo e di senso. Tali legami costituiscono la possibilità, per la narrazione, di divenire, a sua volta, esperienza di senso, di formazione, generando forme di conoscenza e quindi momenti epistemologici ma anche domande e interpretazioni, ovvero interessi euristici. Avvalendoci di una metafora fotografica, si potrebbe affermare che la narrazione è una messa a fuoco non già o non solo dell’evento (che di per sé risulta sfuggente, se lo si consideri secondo la prospettiva della “verità”), quanto piuttosto della visione dell’evento. E una visione possiede le caratteristiche di un racconto, in quanto è dotata di un’inquadratura (che, altrimenti detta, è il ritaglio di spazio e di tempo del momento raccontato), di prospettive, di punti di vista, di parzialità, di selezione, di deformazione, di evidenze ma anche –e soprattutto- di s-viste. Inoltre, la visione ha bisogno ed è strutturalmente costituita di ‘compagnia’: possiede infatti un carattere composito, plurale. Ad essa si accompagna l’intenzionalità, il senso, la rappresentazione, l’implicito, il gusto, il desiderio e, soprattutto, la storia.
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Ciò che orienta e dà direzione alla visione, così come alla narrazione, è in special modo, la modalità attraverso cui in ciascuno si è prodotta la capacità di raccontare o ascoltare (ma più in generale fruire ed assorbire) storie. La formazione di quella che potrebbe essere definita come la poetica squisitamente soggettiva della narrazione non incontra soltanto i codici della semiologia, della narratologia, della retorica o della filologia. La poetica della narrazione è quello spazio, quel luogo di incontro ed intersezione feconda tra i modi in cui siamo stati educati alle narrazioni ed i modi in cui produciamo (anche solo idealmente o informalmente o oniricamente o inavvertitamente e per frammenti, quindi non necessariamente con scrittura o altri media), a nostra volta, narrazioni. Così come il nostro sguardo è stato educato, condizionato, formato alle forme di visione che contraddistinguono le nostre scelte, i nostri gusti, le nostre relazioni, allo stesso modo le nostre poetiche narrative sono il frutto, sempre evolvente, del dialogo silente tra la storia non narrata dei modi in cui abbiamo vissuto il racconto e le forme attraverso cui pro-gettiamo l’esperienza ricostruendone scene, scenari, prospettive, particolari e significati. Narrare e guardare sono competenze interconnesse per natura ed entrambe attengono ad un sapere combinatorio che si riferisce al gesto del discorso o dello sguardo. Questi atti hanno infatti incontrato interessantissimi conflitti filosofici ed epistemici nei loro intrecci con il tema della verità e della veridicità, attraversando per esempio il pensiero di Foucault, di Ricoeur, di Deleuze. Il tema finzionale permea l’intera area esperienziale del narrare e del guardare. La finzione è costruzione, è attività che plasma (non va qui dimenticato il senso più arcaico del fingere, che si richiama al fingo dell’Ars Poetica di Orazio, all’opera dello scultore che, letteralmente, plasma, da’ forma, finge). La forma data all’esperienza trova, nel nostro caso, due modalità di mediazione: la prima è la parola, la seconda è lo sguardo, l’occhio. Entrambe rappresentano delle cornici o dei filtri che allontanano- sempre più e via via che la parola si fa racconto e lo sguardo si fa ricordo o, ancor più, riproduzione e immagine- l’esperienza dal suo tempo immediato e dalla sua adesione al concetto di verità.
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Indebolita non solo dal relativismo, ma da Derrida, da Heidegger, da Foucault, la pretesa di poter “dire la verità” e una volta minata la mimesi nella sua spinta all’egemonia della somiglianza, dopo essersi sottratti al dubbio del vero, del falso, del contraddittorio, l’esperienza raccontata o vista diviene, più di ogni altra cosa, esperienza mediata. Benjamin ci ha mostrato che non solo la fotografia è (e non solo era) un’esperienza misteriosa, ma che un’opera d’arte, una volta riprodotta e sottratta alla sua naturale spazialità e temporalità di fruizione, vive una modifica sostanziale. Se l’oggetto della fruizione estetica viene riprodotto è l’esperienza stessa di fruizione a subire una trasformazione. Si perde quel che Benjaimin definisce l’ “aura” (Benjamin, 2000), ovvero il contatto con la specificità dell’opera nel suo qui e ora. Si perde l’immediatezza. Si perde una possibilità di esperienza. Riflettere sul concetto di verità, di esperienza mediata in relazione alla narrazione apre scenari profondamente suggestivi se pensati in chiave educativa. L’esperienza che sembra “perdersi” quando questa si trasforma in racconto o quando assume le forme mediate dell’immagine (o della scrittura, o della fotografia…) è l’esperienza nel suo tempo presente. Racconto e rappresentazione iconografica possiedono la comune caratteristica di allontanare l’esperienza dell’hic et nunc, prenderne distanza e trasformarla in altro. Quell’ “altro” è l’evento, una porzione di tempo, un atomo esistenziale. Ogni cosa, ogni esperienza, si manifesta con questo destino e con questa vocazione di trasformazione. Mentre l’esperienza si allontana dal presente e la sua adesione all’incontro con il nostro sguardo ed i nostri sentimenti si allenta, ecco fare incursione un altro tempo grammaticale quasi a lenire il passaggio perentorio alla perdita di esperienza di cui parla Benjamin o cui si riferisce Agamben. Compare allora l’imperfetto. L’imperfetto è il tempo del racconto, del sogno, del periodo ipotetico, del passaggio poroso dalla realtà all’incertezza, all’eventualità. È il tempo non finito del possibile. È il tempo non già della sottrazione di esperienza, quanto della sua eccedenza. Agamben, in modo provocatorio, afferma che nell’attualità qualsiasi discorso sull’esperienza debba prender le mosse dalla constatazione che l’esperienza sia qualcosa di irrealizzabile; come l’uomo
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contemporaneo è stato privato della propria biografia, così si trova in una condizione di distanza dalla propria esperienza. Quel che allontana il soggetto dalla possibilità di una proprietà dell’esperienza si trova nella nozione e nel vissuto (moderno) della discontinuità del tempo e delle cose. L’irrealizzabilità dell’esperienza troverebbe quindi luogo nella ricerca di una nozione di esattezza e linearità che garantirebbero sicurezza e orientamento, nel tempo come nello spazio. In tal senso la vera esperienza sarebbe possibile in un altro ordine di pensiero, ovvero attraverso un gesto intenzionale di significazione del vissuto. Ed è qui che ci viene in aiuto la nozione di narrazione, di dialogo e di apprendimento. Fare o vivere un’esperienza possiede riflessi i più diversi a seconda del modo in cui la si vive: l’esperienza in cui ci si imbatte può avere infatti il carattere di “caso”; e quella espressamente ricercata assume invece i tratti dell’esperimento. Inoltre, chi ha vissuto molte esperienze di uno specifico ambito lavorativo od esistenziale può esserne considerato un esperto. La comune radice indoeuropea, espressa dalla voce *per, individua un senso di tentativo, di prova, di rischio, non lontano dall’etimo e dal senso di pericolo. L’ambito semantico che il *per circoscrive implica l’attraversamento di uno spazio, il movimento attraverso un luogo (pur se figurato). Il moto dell’esperienza rivela una provenienza (viene da, come indica il suo ex-) e si inoltra attraverso (rivelando il suo moto per luogo nel “per” ed il suo verbo di movimento nell’ ientia- in una delle sue possibili etimologiedal verbo ire, andare). L’esperienza è, quindi, fondativamente, una forma di azione. E questa azione ha a che fare con un passaggio, con un cambiamento. In tale prospettiva, “non tutto ciò che si vive (…) è definibile come esperienza; buona parte di esso si riduce alla mera presenza, mentre si fa esperienza quando il vissuto diventa oggetto del pensare”.(Mortari, 2003, 42) L’esperienza così intesa mostra evidenti forme di connessione con l’apprendimento, che si esplica come un processo di attribuzione di senso che si dà attraverso il vissuto e che si produce quindi non solo nell’intelletto, nella cognizione, ma che si realizza e può
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realizzarsi nelle pratiche quotidiane delle relazioni umane e di attribuzione di senso alle cose e al mondo. Apprendere e conoscere sono quindi azioni che si aprono ad una grande varietà di possibilità, in relazione ai processi di attribuzione di senso. Vale la pena ricordare che Benjamin parla di perdita dell’esperienza per il soggetto moderno, ma nel designarne il senso ricorre ad un termine particolarmente suggestivo: Erfahrung. Tale lemma, nell’antico tedesco, indicava letteralmente il percorrere, l’attraversare una regione durante un viaggio. Riprendendo il nostro *per, troviamo che, nelle evoluzioni e contaminazioni linguistiche, la p ha “ruotato” consonanticamente in f, originando il vocabolo tedesco fern e quello inglese far (lontano). In inglese, poi, esiste il verbo to fare e il verbo to fear, ovvero vagare, viaggiare e temere. In tedesco, ancora, appunto, l’esperienza è Erfahrung. Quel che si sottrae, quindi, è l’esattezza a vantaggio della vaghezza, dell’itineranza di senso. Conoscere ed apprendere, in tal senso, poco si conciliano con il sapere certo e verificabile della scienza. Facciamo dunque esperienza per attraversamenti, per mediazioni, per passaggi. E impariamo non per il solo fatto di esser presenti all’esperienza, quanto, piuttosto, grazie alla possibilità di farne pensiero, riflettere, fare attenzione e quindi dedicare cura all’esser-ci. Già Benjamin, in un suo saggio di età giovanile, individua ed imposta una differenza tra empiria e conoscenza epistemica. Per porre in evidenza tale distanza, il suo testo “Sul programma della filosofia futura” (Benjamin, 2008) ricorre al linguaggio: l’esperienza riflette nella lingua il proprio carattere conoscitivo. All’esperienza, per divenire atto conoscitivo, occorre un transito: deve essere nominata e narrata. In questo modo l’esperienza può mantenere il proprio carattere di “effettività”, il suo essere esperienza presente, mantenendo l’integrità del proprio contenuto attraverso il mantenimento di un rapporto dialogico interno al linguaggio, ovvero della narrazione. Ma la narrazione dell’esperienza non corrisponde ad un elenco di singoli episodi o ricordi tesi a conservarne l’unità e la caratteristica puntuale del fenomeno. La narrazione non è, in tal senso, memoria attualizzante dell’istante, ma, diremo meglio, metodologia
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del recupero originario e nascente dell’esperienza stessa. Narrare non è, quindi, ripetere l’esperienza, ma rappresentarla. Ri-presentificarla, dal momento che si è sottratta e si sottrae al presente. 2. Narrare e rappresentare Narrare, quindi, come ricordare, sono atti rappresentativi e corrispondono non già a movimenti o capacità percettive o ricettive del soggetto, quanto, piuttosto, creative, operative ed eminentemente poietiche. Narrare l’esperienza è allora risvegliarne il senso nascente, la sua possibilità di essere ancora fruibile. Questo tipo di metodologia, che produce il proprio senso nel suo farsi, nel suo dispiegarsi, non può che avvenire all’interno di un sistema linguistico. Finchè non entra nel dominio linguistico, fatto di immagini, di codici, di parole, di media espressivi, l’esperienza mantiene una sorta di stato inalterato o intatto di possibilità. Si parla di esperienza im-mediata, ancorata all’istante del tempo e del senso. Ma Derrida ci mostra poi che anche la presenza è già sempre una mediazione originaria (Derrida, La voce e il fenomeno) ed ogni rappresentazione è una ri-presentazione. Il “ri” della ripresentazione non indicherebbe quindi soltanto un raddoppiamento dal carattere riflessivo o ripetitivo, ma permette di comprendere che anche il presente – direbbe Derrida- non si presenta “se non accogliendo la propria differenza interna, se non nella piega interiore della propria ripetizione originaria”.(Derrida, 2002, 320) Anche quando l’esperienza è al presente, è in attuazione e accadimento, non se ne può realizzare una fissazione di senso. Ciò che viene continuamente e costitutivamente interdetto è l’accesso immediato all’accadere, alla manifestazione del reale secondo la presunta categoria di verità. Si è quindi chiamati a ricreare il senso del reale attraverso una narrazione che assume il valore di un’ originaria assunzione di un senso prospettivo. In altre parole, una rappresentazione. Ancora in altre parole, ogni sguardo sull’esperienza è inevitabilmente prospettico e rappresentativo. Ciò dipende, secondo Nietzsche, dall’istintivo impulso a creare metafore a far dialogare linguaggio e rappresentazione.
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Tale dialogo altro non è che la finzione, di cui già si è esplicitato il carattere “plasmativo”. Il soggetto conosce, apprende, insegna, memorizza, tramanda, abitando il registro del linguaggio. Questo attinge al sapere narrativo, ma soprattutto definisce il soggetto come soggetto attivo e, specialmente, come soggetto artisticamente creativo. Tale mediazione, nel rapporto con la realtà, pone un problema per Benjamin. Separati da noi stessi, possiamo appropriarci dell’esperienza attraverso “altro”. Per spiegarlo, il filosofo tedesco ricorre all’esempio della fotografia: l’esperienza cessa di essere qualcosa che si sperimenta e diviene qualcosa di esterno e con cui io entro in contatto attraverso un elemento esterno a me ed alla mia sensazione. Nella ricerca di mezzi e di forme per connettersi all’altro (come persona o come esperienza, il mondo diviene infatti estraneo, altro, assente) e per acquisire spessore come soggetti di esperienza (e non come soggetti che si relazionano ad oggetti), la tematica del linguaggio emerge come legame con l’esperienza e con l’altro ma, allo stesso tempo, come elemento che distanzia dall’esperienza e dall’altro. Il linguaggio è legame, ma anche marca e segno della separazione, della distanza. Il linguaggio e la sua narrazione si delineano, quindi, sempre più, come marche definitorie, come tratti di confine nell’incontro tra regioni di tipo relazionale. Ed i confini, si sa, dividono ed uniscono. Fanno combaciare e collimare ma segnano anche il termine delle “aree di competenza”. La finitezza, in tal senso, non assume solo il carattere della perdita. La mediazione, per Nietzsche, abita il regno –felice- della finitezza. Questa si relaziona all’inevitabilità della rappresentazone come unico strumento e mezzo per rendere presente l’estraneità e la distanza dell’esperienza originaria. La finitezza è, quindi, prospettiva. Ed è, pertanto, fondamento discorsivo. In prospettiva educativa, accogliere la propria e l’altrui finitezza, in termini discorsivi, permette di relazionarsi all’altro abitando quel regno intermedio, fatto di non confinabili rappresentazioni
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reciproche, ovvero dagli specifici linguaggi di ciascuno e dalle relative narrazioni. Ciò con cui entro in relazione, dell’altro, non è mai la sua inattingibile verità, ma è il limite del mio accesso, ovvero il linguaggio che ci connette e separa; quel linguaggio narrato che per farsi conversazione deve passare dal dialogo, dall’esperienza reciproca delle rappresentazioni proprie e altrui. È in tal senso che l’esperienza educativa e l’accadimento dell’evento di formazione (o, in senso più lato, l’incontro e la relazione) assumono il carattere di una mediazione ermeneutica. Avvicinarsi all’altro significa avvicinarsi alle sue narrazioni, in una danza di equilibri tra la tentazione di accedere all’invisibile con il garbo di rispettarne il racconto o di superare il visibile ed interpretare l’altro oltre il suo fenomeno. È grazie a Ricoeur che il racconto assume il carattere di uno strumento fondamentale per le scienze umane, permettendo relazioni e scambi -con l’altro e con il mondo- di tipo testuale. (Ricoeur, 2003, 24) L’assunzione di una prospettiva pedagogica che si richiama alla mediazione ermeneutica presuppone un concetto di apprendimento e conoscenza come esperienza inevitabilmente mediata ed esprimibile o comunicabile per via dialogica, testuale e relazionale. Le mosse educative che ne derivano e che guidano l’intero impianto concettuale di questo capitolo, nonché la filosofia educativa che lo anima, si diramano, quindi, in una duplice traiettoria: da una parte si propone la ricerca di quelle dinamiche interne che presiedono la strutturazione delle proprie narrazioni e delle modalità delle proprie narrazioni (come insieme di rappresentazioni) e dall’altra la predisposizione di capacità di incontro dialogico, conversazionale e comprensivo delle narrazioni e rappresentazioni altrui. La narrazione ci interesserà, quindi, nella sua duplice valenza di pensiero narrativo che, in adesione agli scritti di Smorti e Bruner, è eminentemente agente di comprensione del mondo, per il soggetto (Smorti, 1994), in quanto ne struttura il senso, ne costruisce l’andamento e ne caratterizza la ricerca. Ma la narrazione sarà qui assunta anche come territorio dell’interrogazione dell’agire educativo. La narrazione, infatti, permette di osservare, proprio per il suo carattere linguistico e quindi mediale, quegli elementi che in
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modo latente abitano i vissuti di apprendimento e insegnamento, soprattutto a partire da uno dei linguaggi (o territori metodologici) più forti dell’esperienza educativa – vissuta e agita sia come docenti che come “discenti” e quindi, potremmo dire, più estesamente, come soggetti in apprendimento – ovvero lo spaesamento. Se il vissuto del limite, della finitezza produce la difficoltà di una relazione con un altro (mondo, persona o esperienza) che si sottrae e che si allontana, l’assunzione del paradigma narrativo come prospettiva di rappresentazione permette di muoversi nel caos dell’assenza e della distanza con modalità interroganti, filosofiche. Generative, quindi, di ulteriore apprendimento. Abbiamo visto che la rappresentazione è la “necessaria, perché vitale, composizione prospettica del caos”.(Papparo, 1997, 2) Il caos è spaesante perché è inospitale; rappresenta un appello, una domanda straniante che invita -o impone- alla ricerca di posizioni e risposte. Quando viviamo situazioni spiazzanti, il senso di mancanza di riferimenti è dato soprattutto dal portato di imprevisto o novità che l’esperienza ci propone. Lo spaesamento ci mette di fronte al nuovo. Per affrontare e risolvere l’inquietudine che deriva da una tale situazione, la mossa cognitiva che viene agita è all’insegna dell’apprendimento: si riconduce al noto ciò che è ignoto, nuovo, straniante. Il disabituale trova, così, da un punto di vista linguistico e narrativo, il suo posto, il suo angolo, all’interno di ciò che, invece, è abituale. Quel che è abituale conforta e rassicura. La scelta della prospettiva ermeneutica permette di osservare però anche l’abituale da un punto di vista differente. È ancora Nietzsche a mostrarci i rischi del noto, dell’abituale, suggerendo che l’abituale è ciò che è più difficile da conoscere, perché non lo mettiamo in questione, non lo vediamo come un problema, in quanto non si allontana, non è distante, quindi non è fuori, non ci turba e non ci interroga. L’approccio narrativo che qui si propone è all’insegna del cambio di prospettiva e di una scelta educativa di tipo dialogico-ermeneutico.
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Così i poli estraneo/caos e noto/ordine apparterranno alla stessa regione, ovvero a quella della rappresentazione, portando con sé le proprie appartenenze e le proprie differenti province di significato. La suggestione metodologia di tale approccio pedagogico è quindi quella del dialogo tra prospettive, in un’immersione ermeneutica tra mediazioni che preveda, come primo e principale passo, quello della riflessione sull’abituale e sul noto, ossia sui propri modi di guardare e narrare.
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II. LA NARRAZIONE COME METODO. TRA ABITUDINE E SPAESAMENTO
Il nostro agire, soprattutto educativo, è sempre il frutto della relazione tra intenzionalità, progetto, senso, direzione e quel che ne muove in modo esplicito o implicito la regolazione, ovvero le visioni del mondo, le rappresentazioni, le teorie. Le interazioni tra pensiero e azione o, secondo Bruner, tra logos e praxis, sono costantemente sottoposte a processi di revisione e bilanciamento. Tali intrecci e cambiamenti sono avvicinabili in termini narrativi e secondo uno sguardo che accolga il pluralismo, il relativismo, il cambiamento, la soggettività. E fin qui sembra tutto teoricamente armonioso, se non fosse per il fatto che stiamo trattando una materia che molto ha a che fare con l’invisibile, con l’implicito, con il non ancora narrato, con il tacito. Come è possibile rendere visibile, con-di-visibile, comunicabile, evidente e narrabile quel che contribuisce a dar forma a strutture dell’agire e del pensare che normalmente si mescolano così tenacemente al silenzio di ciò che è noto -perché abituale- e che siamo portati a pensare che non abbia nulla da dire? Se non assumiamo una prospettiva che ci ponga ad una certa distanza da ciò che pensiamo di conoscere e che costituisce non solo il nostro mondo noto, ma soprattutto la lente con la quale viviamo, leggiamo e interpretiamo l’ignoto, non potremo cogliere come altro il nostro oggetto di conoscenza. Ci occorre un medium, un intermediario. E ci occorre un apprendimento narrativo e dialogico per metterci in relazione prima di tutto con le nostre invisibili e tacite (ma non certo mute) rappresentazioni e con quelle degli altri. Poter individuare rapporti tra azioni e pensieri ed emozioni permette di cogliere le implicazioni più connesse alle motivazioni,
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alle scelte, al gusto, alla propria storia, così come a quella dell’altro, ponendo l’accento non sul singolo particolare dell’agito o del pensato - analizzandolo in modo unitario- ma prestando invece attenzione all’aspetto fenomenologico e contestuale, ovvero predisponendosi ad uno sguardo prospettico che sia composizionale; narrativo appunto. 1. La distanza inter-media Per assumere distanza e cercare -quindi creare- connessioni tra esperienze e pensieri, occorre un medium che permetta adesione ma che, usato in prospettiva pedagogica, consenta anche lo straniamento. È necessario poter osservare, come da fuori, la propria mente al lavoro, le proprie emozioni ed azioni agire come se fossero di altri. Occorre proiettarsi, vedersi come altro e soprattutto accorgersi di se stessi nella posizione di osservazione. Disponiamo già di questi strumenti intermedi, in grado di creare dialogismo tra interno ed esterno. Sono esperienze quotidiane o quasi, in ogni caso abituali, che, se osservate e vissute in prospettiva dialogica, ovvero in un continuo andirivieni ermeneutico tra l’oggetto di conoscenza ed il modo della conoscenza, tra il linguaggio e le sue posture, consentono di dischiudere apprendimenti inaspettati e certamente generativi di cambiamento. Per incontrare l’alterità nell’abituale disponiamo di due spazi esperienziali che, riprendendo il concetto di extralocalità introdotto da Bachtin, si situano principalmente nelle parole e nei segni. Tali privilegiate sedi di alterità comprendono le esperienze che nel nostro caso si connettono a segno e parola nei loro risvolti più proiettivi: la scrittura, l’immagine (fotografica, artistica, cinematografica), l’azione e la parola teatrale, il dialogo filosofico. Parola e segno sono, per Bachtin, atti creativi interindividuali: la vita della parola e la vita dei segni risiede tra, in mezzo agli individui. In quello spazio che il greco indica e individua nella particella –dia, che da’ principio al dialogo. L’interindividualità e l’intersoggettività sono elementi sia di tipo sociale, storico, sia di tipo personale. Ogni narrazione nasce dalla capacità immaginativa, dalla possibilità, spontanea o suggerita di far emergere per evidenza una o
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più rappresentazioni estetiche. Queste, a loro volta, sono il frutto di esperienze del corpo, di apprendimenti inveterati e stratificazioni abituali di relazioni tra noi ed il mondo. Narrare le proprie metafore, ovvero ricucirne i nessi, il nascere insieme al momento, il senso e la percezione insieme al significato, significa permettere l’aprirsi di tutto il potenziale generativo e creativo dell’esperienza nella sua forma originaria (quella dalla quale sentiamo distanza, separazione, inattuale possibilità di comprensione). Ed anche nell’emersione e nella narrazione dei propri vissuti immaginativi più autoriferiti, perché avvenga apprendimento, non esiste nulla di più formativo della conversazione e del dialogo. Le immagini richiamano altre immagini, infatti. Ogni rappresentazione porta con sé altri universi. Ma per meglio comprendere come si possa apprendere dalle narrazioni, dal confronto dialogico con parole, immagini, testi e film, è importante insistere ancora un po’ sulla rilevanza della mediazione ermeneutica per questo tipo di approccio educativonarrativo. Sposando un principio di “comprensione dialogica attiva”, si riconosce la presenza dell’altro come parte di sé e come dimensione ineludibile per le interazioni nei testi, nei segni, nelle parole, nelle immagini e nelle opere d’arte. 2. Riflessione ed esperienza linguistica Le nostre stesse parole, quelle che fanno parte del nostro lessico quotidiano, quelle che parliamo, sono state e sono dette anche da altri. Sono anche altrui, ma non designano la stessa cosa. Bachtin, nel 1979, scriveva: “io vivo in un mondo di parole altrui”. (Bachtin, 1988) Il senso delle proprie parole può svelare la propria profondità e molteplice dimensione quando sia in grado di incontrare ed entrare in contatto con altro da sé. Quell’imprendibilità originaria dell’esperienza ha possibilità di ri-velarsi, di ri-presentificarsi quando la si sappia recuperare nel suo valore nascente, nel suo possibile dialogo tra la fissità ed un tempo che, invece, appare generativamente eterno, perché narrabile. Ne consegue che nessun evento, soprattutto di natura o
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rilevanza estetica, semiotica o culturale, può essere “spiegato” in modo univoco. L’esperienza non è un fatto monologico. Bachtin ci ricorda che qualsiasi vera comprensione ha una natura dialogica. Il nodo dialogico è quello che connette più propriamente la narrazione alla sua declinazione riflessiva. Narrare non è intrinsecamente un gesto riflessivo; lo può diventare. Narrare è un gesto di partecipazione al nucleo vitale e rivitalizzante dell’esperienza. La riflessione acquisisce ancor maggior distanza e si riferisce ad un livello di astrazione successivo e ulteriore. La narrazione ha diversi gradi e piani. È organizzazione spontanea di esperienza nei termini ludici dell’infanzia: è il gioco della coerenza interna e della significazione. Narrare è il primo modo di rappresentare espressivamente la realtà e di prefigurare desideri e speranze. Il vincolo che la narrazione intrattiene con l’attività conoscitiva non impedisce che il gioco del racconto sia anche il territorio principe della creatività, quello in cui si costruiscono i mondi e si disegna la categoria del possibile. Il pensiero narrativo è connotato più di quello logico-formale della capacità di organizzazione dell’esperienza. La narrazione genera significati, possibilità e autonomia; il pensiero logico-scientifico fornisce elementi tecnico–strumentali. L’educazione alla narratività non deve prescindere dall’approccio logico e così il pensiero scientifico-formale beneficia delle strutture narrative e connessionali. Recuperiamo allora il senso della riflessione necessaria perché la narrazione divenga apprendimento. La riflessione non implica soltanto una mera sequenza, bensì una “conseguenza” di idee, un ordine consecutivo siffatto che ognuna di esse determina la successiva con il suo proprio risultato e, a sua volta, ciascun risultato si appoggia o si riferisce a quelli che lo precedono. Le parti successive di un pensiero riflessivo nascono l’una dall’altra e si sostengono a vicenda; non vanno e vengono in una confusa mescolanza. (…) Ogni termine lascia un deposito che è utilizzato nel termine immediatamente successivo. La corrente, il corso, diventa una serie ordinata o una catena. (Dewey, 1961, 63)
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La riflessione, mediata dallo strumento della parola, della scrittura, delle immagini, è in grado di costruire un sapere dall’azione ed in vista dell’azione; è capace, quindi, di influire in modo virtuoso sull’agire successivo. La narrazione transita così nella riflessione attraverso una flessione che mette in relazione chi racconta sia con quel che dice che con il modo in cui lo dice. Questo avviene perché la narrazione ha una pressione funzionale che entra inevitabilmente in un rapporto dialettico con la forma stessa del racconto. L’attenzione riflessiva alla forma della narrazione assume, in questo contesto, una prospettiva che non è semantica in sé, ma ricerca connettività, relazione. L’attenzione dialogica ai modi in cui narriamo e abbiamo imparato a narrare permette di guardare il nostro pensiero al lavoro non secondo una grammatica analitica, ma attraverso una pragmatica narrativa. La lingua del racconto non possiede, infatti, un’ontologia, ma concilia – o per lo meno consente di far incontrare, ed è luogo della dialettica tra – ciò che si dice ed il modo in cui lo si dice. Od il mezzo che si usa. Inoltre, apprendere a narrare o - iniziando ad introdurre un concetto cardine dell’approccio qui presentato – a far trama permette un altro tipo di apprendimento, di matrice autobiografica e con interessanti riverberi nelle sue connessioni dialogiche con la linguistica e le neuroscienze. Il nostro linguaggio si evolve grazie alla capacità ricorsiva (Hauser, Chomsky, Fitch, 2002, 1569-1579): questa presuppone l’acquisizione di un sistema simbolico. Il sistema simbolico, proprio in quanto dotato di simboli legati l’uno all’altro, è all’origine del meccanismo ricorsivo, che applica ripetutamente un’operazione sintattica al prodotto della stessa operazione già precedentemente effettuata. Come a dire: il numero delle frasi è potenzialmente infinito, ma queste mantengono un rapporto di dipendenza da una struttura che permane e che è costituita da relazioni sintattiche che non sono semplici successioni di parole ma si fondano su una struttura astratta sensata. Si parla del linguaggio, quindi, e della narrazione come di una tendenza iterativa che è in grado di connettersi ed adattarsi alle circostanze. Dato il numero finito di riferimenti (ed esperienze) simboliche, la grammatica produce un effetto generativo, in quanto si rivela essere lo strumento creativo che ci permette di aderire all’imprevisto
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e al possibile. Per dirla con Chomsky, che a sua volta ricorre ad una battuta di Humbolt, si ha un pensiero che in tal senso è provocatoriamente chiaro: il linguaggio è quindi in grado di “fare un uso infinito di mezzi finiti”. Se pensiamo che da questa attività combinatoria di elementi simbolici finiti si può produrre un infinito narrativo, si può comprendere quanto la narrazione costituisca un potenziale educativo in continua espansione. Dal finito può produrre sempre qualcosa di nuovo. In base alla riproposizione dell’identico nucleo di esperienza crea creatività di senso e possibilità di ulteriore esperienza. Connettendo questo aspetto linguistico con le possibilità educative delle immagini simboliche dell’apprendimento e con il condizionamento che quotidianamente viviamo ad opera dei mass media, il ricorso ad un’educazione di tipo narrativo al contatto con immagini e film si rivela quanto mai necessario e riporta in scena la centralità del soggetto non solo come partecipante attivo del proprio rapporto con il mondo e con l’altro, ma come attore o, meglio, protagonista principale della narrazione dei racconti possibili. Segni, simboli e figure, se non transitano in un territorio mitico, ovvero narrativo, perdono di generatività, si atrofizzano. Sono semantica morta. Ma la semantica, rivitalizzata dalla sintassi (che in quanto narrazione, montaggio, composizione, selezione, scelta e ricomposizione, è risignificazione e continua potenza trasformativa del senso), può trovare non solo la propria inesauribilità, ma soprattutto la sua poesia. Infatti l’animale linguistico, che vede continuamente intrecciarsi queste due capacità, sintassi e semantica: “è definito dalla coesistenza, anzi, dalla reciproca implicazione di queste due possibilità”. (Virno, 2010, 123) Lo avevano capito e realizzato, con la maestria lieve della narrazione che sa farsi dimora accogliente eppure pungente, Gadda e Borges. Ma soprattutto Calvino e Queneau, che si fanno eco, dal Castello dei destini incrociati alle Città invisibili alla Piccola cosmogonia tascabile, in cui una macchina ricrea l’universo e ricapitola la cosmogonia ripetendo all’infinito: “Compter, parler, soigner”. Contare, parlare, sognare. I gesti che rimettono al mondo il mondo.
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III. I MEDIA COME GRANDI NARRATORI
1. Raccontare con immagini, raccontare con concetti Ogni narrazione produce un testo, sia che si tratti di un risultato scritto, sia che ci si riferisca ad un racconto orale, sia che il nostro sguardo si rivolga a delle immagini o a dei film. Leggere o, più genericamente, avvicinarsi ad un testo è operazione non semplice, come rivela per esempio la corposa riflessione degli anni ’70 che coinvolse filosofi, semiologi, narratologi che si confrontarono, facendo seguito ad illustri predecessori della fine del XIX secolo, sulle nozioni di comprendere e spiegare. In estrema sintesi, è importante cogliere un dato fondamentale emergente dal confronto tra Ricoeur, Gardner, Bruner, Smorti, Demetrio: un testo rivela, contiene e descrive una porzione di mondo con il quale il soggetto può riconnettersi e che il soggetto può (ri) comprendere. In altre parole, il testo è il piano su cui si pone (e quindi può essere osservato) nel modo più adeguato il fenomeno linguistico della significazione. Non sembrerebbe possibile entrare in relazione (quindi né comprendere né spiegare) con le relazioni di senso – né proprie nè altrui- se non attraverso un’espressione. Il modo prevalente per esercitare il proprio potenziale cognitivo ed esperienziale è quello narrativo. Ne deriva che, in prospettiva educativa (o sociologica, antropologica, filosofica, psicologica e più estesamente nelle scienze umane), le strutture narrative sono anche gli strumenti principali attraverso cui è possibile contattare i modi con cui gli altri comprendono e danno forma alla propria realtà. Abbiamo visto e sottolineato come l’esperienza non sia semplicemente ciò che viviamo, ma rappresenti un insieme di attività che
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collegano e connettono ciò che si è vissuto ad un movimento di appropriazione di “qualcosa che c’era già” ma che può ridivenire proprio in un’altra forma, dopo esser transitato nell’estraneità. Dopo esser stato tradotto in un’altra lingua. È quel che accade con le metafore. Una metafora dice con un altro linguaggio la proprietà sensibile di un oggetto o di una situazione, ne trasgredisce l’uso abituale e ne rivela una “visione” inusitata. Ma i due elementi di una metafora, ovvero l’oggetto che si sta descrivendo ed il suo riferimento allusivo, colto per somiglianza, esistono e sono già esperibili. Non c’è sorpresa o spaesamento. Quel che la metafora permette è l’esperienza dell’accostamento dei due mondi linguistici. Per meglio comprendere il valore testuale, linguistico ed esperienziale della metafora, in termini di apprendimento, ricorriamo qui ad un dialogo. Si tratta di un colloquio che Skarmeta immagina possa essersi svolto tra Pablo Neruda ed il postino che gli consegnava la corrispondenza, durante il periodo di permanenza del poeta cileno sull’Isla Negra.1 Il postino chiede cosa sia una metafora e Neruda risponde: “è un modo di dire una cosa paragonandola con un’altra (…) quando dici che il cielo sta piangendo, cos’è che vuoi dire?”. Il postino prontamente reagisce dicendo: “Semplice! Che sta piovendo, no?”, al che Neruda conclude: “Ebbene, questa è una metafora”. Fin qui non sembra che l’idea di metafora possa essere transitata in apprendimento e comprensione per il postino, né per il lettore, né tanto meno per lo spettatore del film che fu tratto dal romanzo. Spiegare una metafora non ha provocato nessuna “tensione interpretativa”. Spiegare una metafora non è come viverla, esperirla o produrla. La metafora insegna e fa imparare perché porta a visibilità qualcosa che già esisteva ma che nell’accostamento narrativo, ovvero nel suo nesso con un altro elemento, vede risvegliarsi il suo senso nascente e potenziale, lontano dall’ovvietà dell’abitudine. Giocando con l’appartenenza del linguaggio sia ad un concetto di adesione e identità con la “cosa” che si descrive, sia alla diversità ed alla distanza con cui la stessa cosa può apparire lontana e straniante, quel che agisce e che permette il dischiudersi della sor1
Dal romanzo del 1986, dal titolo Ardiente Paciencia è stato poi tratto il film Il postino, di Michael Redford, con Massimo Troisi, del 1994.
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presa, della partecipazione e dell’apprendimento è la connessione inusitata, è il montaggio di senso. Vediamo allora come prosegue, a distanza di tempo, il dialogo tra Neruda ed il suo postino, quando la metafora riappare al di là del senso ovvio di una spiegazione. Dopo aver spiegato al giovane amico che la poesia ha bisogno di movimento e che il poeta pensa meglio camminando, Neruda conduce il postino ad una caletta e gli recita una poesia: “Qui, nell’isola, il mare, e quanto mare, esce da sé ogni istante. Dice di sì, di no, di no (…) che te ne pare?”. Il postino rimane stranito. Non già per la poesia in sé, ma per l’effetto che questa ha avuto su di lui: “quando ascoltavo la poesia le parole andavo di qua e di là, si muovevano come il mare (…) ed io ero come una barca cullata dalle sue parole”. Sorridendo Neruda rivela al postino che quella che lui ha appena creato è una metafora. La traduzione di un’esperienza in linguaggio ha creato un’altra immagine, ma quell’esperienza era già lì, così come il mare e i vissuti di navigazione. Quel che si è dischiuso è lo sguardo, che si è aperto insieme allo stato nascente delle cose. Benjamin parla di una sorta di risveglio dell’esperienza.(Benjamin, 1983) Il senso unico della designazione si desta e si apre alla libertà di altri sensi possibili. Maria Zambrano parla di una visione ardente.(Zambrano, 2004, 55) La possibilità di ri-accedere all’esperienza riformulandone il senso è, come abbiamo visto, una declinazione squisitamente narrativa del linguaggio. Ogni immagine è una composizione di significati, una connessione di storie. Bateson ci ha mostrato che la nostra mente è fatta di storie e che quel che lega gli elementi percepiti del reale è rappresentato da una struttura di tipo narrativo. Ricoeur ricorda sovente, nel suo Tempo e racconto (Ricoeur, 1994), che “il racconto è rappresentazione che connette”; è una rappresentazione che quindi può creare nessi in grado di rischiarare la visione di un’esperienza, di ristrutturarne la conoscenza. Ricoeur ci mostra anche che le storie sono la base di una cultura: ciò significa che la narrazione costituisce una risorsa simbolica in grado di adattarsi ai più diversi contesti in cui sorga e si manifesti.
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2. La narrazione come risorsa simbolica La pervasività narrativa nel tessuto culturale è riscontrabile soprattutto nel territorio dei mass media o, più genericamente, dei media. Nei media, la narrazione si è presto liberata dei vincoli formali degli archetipi classici del racconto: ha potuto ricorrere a mezzi e forme narrative che hanno dialogato con il progresso tecnologico, declinando il narrativo in modi assimilabili alla sperimentazione ed alla novità comunicativa che via via accompagnavano. La narrazione nei media si presenta tendenzialmente frammentata, composta da microtesti che tendono a comporre macroracconti. Da un punto di vista sociale, la narrazione mediatica “comporta una dilatazione impressionante della quantità di eventi, immagini, suoni e informazioni di cui possiamo essere in qualche modo testimoni”, come ci espone Jedlowski (2008, 93) che, riflettendo sulla relazione tra esperienza e informazione, nota che se il mondo della comunicazione si riduce ad insieme di informazioni, l’esperienza diretta del soggetto ne viene esclusa. Ma cosa allontana la narrazione di una notizia, per esempio, dalla possibilità di una nostra personale rielaborazione o esperienza? Per rispondere semplificando, ed in tono provocatorio, si potrebbe dire che proprio ciò che sorge con lo scopo di agevolare l’acquisizione dell’informazione in maniera im-mediata, ovvero dal vivo, in modo rapido, puntuale e (apparentemente) non filtrato, ci rende difficile l’elaborazione della notizia. Benjamin, a tal proposito, sosteneva che “i principi dell’informazione (…) come novità, brevità, intellegibilità e, soprattutto, mancanza di ogni connessione tra le singole notizie” (1995, 90) contribuiscono ad un effetto di allontanamento dalla possibilità che il soggetto incorpori la notizia data in modo significativo, ovvero esperienziale. Questo accade perché l’informazione, tendenzialmente, si impone alla nostra attenzione come un sapere puntuale. Il sapere puntuale non corrisponde, però, a storie singolari o significative. Queste potrebbero produrre la libertà narrativa della notizia, aprirla alla visione. Il sapere puntuale è, invece, già spiegazione. Nell’informazione mediatica noi non facciamo esperienza se non del dato. L’esperienza ha, invece, necessità di vissuti.
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Ma occorre, si ritiene, scostarsi dalla visione di Benjamin della comunicazione mediatica, prendendone la generatività dello spunto, ma riconducendone i tratti ad un dato storico culturale che non è quello attuale o che comunque non aveva gli stessi tratti della comunicazione contemporanea. Si osserva infatti che le modalità narrative della comunicazione mediatica abbiano vissuto una sorta di rivoluzione inavvertita2, accorgendosi del valore della narrazione o, come la modernità (che ha sovente un carattere esterofilo) preferisce chiamarla, dello storytelling. Grazie all’ausilio delle interconnessioni favorite dalla rete, alle possibilità ed accessibilità del digitale, quelle aree del quotidiano che hanno a che fare con il potere economico, politico e più estesamente di mercato hanno infatti approfittato e sempre più pescano a piene mani nelle possibilità della narrazione: le storie alimentano un tacito, vitale e universale bisogno di piacere. Ecco allora le storie del candidato politico di turno, le storie dei “nostri” legami con le merci o il lungo corso di una marca, presente tra le offerte di mercato da così tanto da diventare una tradizione. E le tradizioni, si sa, danno fiducia…! La così detta fiction economy si nutre della vendibilità delle storie o del così detto storyselling, in base ad un’immagine di soggetto che Bauman definisce homo consumens e che fa del consumo una fonte di identità. Il consumo così inteso si esplica attraverso storie e racconti che consentono (e pre-confezionano) il riconoscimento individuale e collettivo con un marchio che proponendosi come tradizione, mira a divenire sigillo di un particolare stile di vita (il lifestyle). Il mercato del consumo narrativo si alimenta quindi di storie che intrecciano, illudendo di protagonismo il consumatore (che da protagonista poi compie l’unica azione dell’acquisto), desideri, finzione, valori ed esperienza allo scopo di proporre un facile rispecchiamento del soggetto che potendo riconoscersi in un modello di comportamento, trova gli strumenti utili ad un’autoconoscenza pret-à-porter. 2
per mutuare il felice titolo di un testo di Elisabeth Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, Bologna, Il Mulino, 1986
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Da una parte non va trascurato un dato che, soprattutto da un punto di vista educativo, si impone alla riflessione sulla relazione tra narrazione e media, ossia la funzione trasversale (ove non manifesta e intenzionale) svolta dai media per creare sistemi culturali. Dall’altra va colto il potenziale di influenza che i media svolgono sulla eventuale organizzazione del pensiero e dell’esperienza da parte dello spettatore. Il carattere eventuale dipende certamente dall’approccio e dell’atteggiamento che rispetto ai media si scelga e si operi. In termini di ventaglio di esperibilità, infatti, i media offrono spazi di esperienza possibile impensabili prima. Attraverso supporti di tipo tele-visivo e tele-fonico (sono soprattutto la vista e l’udito a poter essere vissuti anche a distanza, in una sorta di differibilità spaziale dell’esperienza) possiamo avere un vissuto di ciò che è lontano, di ciò che è inattingibile altrimenti (pensiamo alle immagini riprese da una sonda spaziale, per esempio). Ma se pensiamo alla celebre definizione di Mc Luhan che afferma che il medium è il messaggio, i media non sono solo lo strumento, il medium, appunto, per allargare le possibilità della nostra esperienza, ma ne sono il territorio. E di un territorio si possono avere esperienze frammentarie, se ne possono conoscere contenuti puntuali. I media, sia televisivi, sia riferiti alla rete, offrono successioni, giustapposizioni di elementi separati. I fili narrativi sono altra cosa. La narrazione presuppone un’abilità quasi tersicorea, di danza, nell’alternare immersione e distanza, sguardo analitico e sguardo sintetico. È un gesto che fa prendere posizione e che , se appreso e coltivato, permette di mettersi con onestà di fronte alla propria esistenza, guardandola quando si vivono le più diverse situazioni. E questo è un gesto, primariamente, di visione. In tal senso lo sguardo necessita, come vedremo in seguito, di un’educazione di tipo narrativo. Un approccio narrativo alle più o meno implicite narrazioni mediali – o mediatiche- deve prevedere gesti di sottrazione, di sospensione. La formazione opera, in tal senso, all’insegna della possibilità di favorire l’andirivieni tra l’esibizione di interiorità e l’interiorizzazione dell’esteriore, per poter consentire che la nostra
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relazione con il mondo incontri una sosta e si costituisca in una rappresentazione, a sua volta. Divenendo, quindi, osservabile. È chiaro che, in tal senso, la scrittura offre la più grande risorsa metodologica, permettendo la proiezione del pensiero e contestualmente la sua strutturazione, insieme all’oggettivante gesto di “vedere il proprio pensiero fuori di sé”, conoscendosi quindi anche come altro (gesto che, come si è già visto, permette una più che fertile moltiplicazione esperienziale). Si tratta non solo della così detta “bilocazione cognitiva”, che ci permette di osservarci fuori di noi ed osservarci mentre stiamo osservando, ma si tratta di uno strumento che più e meglio di altri permette di conservare con sé le tracce dei percorsi svolti, portando nel farsi e nel susseguirsi di ogni parola, anche tutta la storia del suo rapporto con il silenzio, con la scelta, con la possibilità di essere detta. La scrittura possiede, così, il carattere procedurale che ne fa, insieme al montaggio cinematografico, lo strumento principale della presente proposta educativa tesa alla formazione di uno sguardo consapevolmente narrativo sull’apprendimento. La presa di distanza che è, appunto, il primo passo per la realizzazione del gesto narrativo, rispetto all’immersione mediatica (o più estesamente sociale) permette l’impresa estetica del racconto ed ha avvio con l’assunzione di una prospettiva altra. Ciò non costituisce né il presupposto per un’ assurda ed assoluta demonizzazione dei media, né per una totale adesione al loro mondo. Si tratta invece di proporre un’educazione critica alla loro natura di mosaico, proponendo in generale una filosofia di formazione che sia in grado di sviluppare e mantenere la propria ribelle fedeltà a ciò che si manifesta, nel luogo e nel tempo del quotidiano e delle relazioni. Comprendere tale proposta diviene più accessibile e soprattutto esperibile (come si impara, altrimenti, se non si fa esperienza o se l’esperienza non può essere richiamata?) proprio attraverso un medium, che renda evidente e quindi osservabile, una teoria. Capita a tutti e capita spesso, cercando qualche informazione, riferimento o dato in rete, di perdersi nelle aperture a cascata di finestre impreviste, di percorsi e mappe inattese che sovente fanno dimenticare da dove si era partiti, lasciando nell’oblio la motivazione iniziale a favore dello stupore, della sorpresa, della tessitura
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di senso che si va tracciando di link in link, di allusione in assonanza… Come in una metafora di viaggio, la ricerca in internet presenta un porto noto da cui salpare, ma offre approdi impensati e soprattutto non sempre favorisce il desiderio di ritorno, la nostalgia dell’eroe che cercava qualcosa ma che ha trovato (per caso?) qualcos’altro che, al momento, è più interessante. L’invito ad assumere una prospettiva narrativa non ha qui lo scopo di suggerire un approccio che vincoli in relazione la parte più immaginativa e libera ad una funzione normativa, organizzativa e donatrice di senso. È interessante ricucire e intrecciare i fili di un percorso di suggestioni, curiosità, apprendimento, scelta e connessioni. Oltre tutto, raccontarsi all’interno del racconto della propria relazione con i media (internet o altro) racconta molto di noi. Se il racconto, con Ricoeur, è rappresentazione che connette, il rapporto con il mosaico culturale dei media si realizza in uno scambio tra silenzio e comunicazione. Il rapporto con i media come grandi narratori risiede nella sua dialettica, nella sua esigenza di venire a patti –direbbe Bruner- con opinioni opposte e narrazioni in conflitto. La narrazione è allora l’ambiente plastico in cui è possibile plasmare tale continuo pensare altrimenti; rappresenta lo spazio favorevole per un pensiero in apprendimento, in cambiamento. Si tratta, in sostanza e riferendoci al mito -quindi ad un altro potente medium narrativo che vedremo in seguito- di riavvolgere i fili d’Arianna (che per esempio si possono ritrovare o perdere su internet o che nel rapporto con le narrazioni cinematografiche o televisive ricuciono le nostre epoche esistenziali alle visioni) mimando, nella pratica più tangibile, quel che la narrazione promette e realizza, come annunciava Calvino: “La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura; tutte qualità che s’accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte.” (Calvino, 1993) Il momento cognitivo trova la propria pausa nell’oggetto dinamico del segno, della parola, dell’immagine.
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Per-correre le proprie traiettorie di appartenenza alla narrazione mediatica, ritrovandosi in film visti ed amati3, in pellicole che hanno segnato un particolare momento, unendo suggestioni televisive o informatiche sparpagliate nel tempo e nello spazio, ma narrandole avendo il proprio punto di vista come comun denominatore, permette proprio quel che i media tentano di realizzare ma di cui non esiste (spesso per loro, ma ancor più sovente per noi) consapevolezza: la simultaneità che fa succedere ed avvicendarsi le idee e le immagini in modo rapido può non essere solo affollamento se vi si coglie, se si vede al suo interno, la nostra personale ed unica capacità combinatoria. E questa è, eminentemente, narrativa. È così che il per-corso di ricostruzione recupera la propria vocazione a farsi dis-corso, dialogo. Fino a divenire, possibilmente, conversazione. In tal modo e in tale prospettiva, la narrazione come ri-composizione dei propri legami con le immagini ed i nessi agiti e vissuti con la televisione, con internet, con il cinema, con la pubblicità (che a volte, in una prospettiva di soggettiva attività di bricoleur, può divenire una fiaba contemporanea), con la musica, con l’arte e con le forme della rappresentazione, permettono una più che fertile riflessione sulle proprie forme, sulle proprie dimensioni autoformative, strategiche e pedagogiche. Le cento giravolte di Calvino perlustrano le tendenze della narrazione, della scrittura e del pensiero; spingono verso l’apertura, la cesura della radice di una costruzione sistematica e situazionale dell’azione, invitano ad adottare il metodo dell’ironia, dell’autocritica, dell’incongruenza, dell’immaginazione che possono anche essere al servizio della sospensione, del gioco4. L’apertura all’infi3
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come nel caso del "metodo del cinema parlato e narrato", ideato e messo a punto da E. Mancino, che si rifà ad una pratica narrativa ideata da Truffaut che fa del cinema e delle immagini delle chiavi magiche per aprire-direbbe Proust- le porte di dimore in cui non sapremmo entrare da soli. Il cinema e le immagini possono permettersi di raccontare molto di noi, se si apprenda a viverne il senso anche in prospettiva intertestuale come mostrano le qualità ardenti ed eversive che l’esperienza ludica può assumere quando la si colga come esperienza originaria e modello “cosmogonico”, come avviene nel saggio di F. Antonacci, Puer Ludens. Antimanuale per poeti, funamboli e guerrieri, Angeli, Milano, 2012, in riverberante contatto con le riflessioni sul gioco operate da Callois, Winnicott, Huizinga, Turner, Fink.
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nito, entro lo scenario dell’affollamento mediatico e nel territorio delle plurime narrazioni possibili, può – e deve- allontanarsi dal rischio della congestione che produrrebbe (e produce, paradossalmente) al contrario chiusura. Tale apprendimento narrativo insegna a contare, parlare, sognare, perché insegna a ri-contare. A raccontare. In una prospettiva di creatività energetica, vasta e labirintica. Il pensiero narrato, che si svolga in movimento tra gli archivi di immagini, di narrazioni mediatiche, di ricordi e racconti di altri non pre-scriverà, non traccerà confini, ma sarà inseguimento in attesa. In attesa che tutta un’idea cambi perché una parola è stata cambiata di posto, o perché un’altra si è seduta come una “reginetta dentro una frase che non la aspettava” e che, come dice Neruda, le obbedì. (Neruda, 1998) Le concatenazioni di narrazioni mediatiche costituiscono poi, per chi si occupa per esempio di antropologia dei media, il telaio per individuare il legame tra i mezzi di comunicazione di massa e le prassi creative dell’identità. L’invito alla narrazione è invito alle giravolte del pensiero. Per perdersi tra gli archivi della memoria, dell’esperienza e nelle possibilità dell’intreccio.
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IV. TRA ECCEDENZA E ASSENZA: LA NARRAZIONE COME EDUCAZIONE DELLO SGUARDO
Il quotidiano insistere dei media sulle nostre percezioni (visive, acustiche e sensoriali in senso lato) crea una possibilità di esperienza che in termini pedagogici è estremamente suggestiva. Blanchot, nel suo Infinito intrattenimento, ci dice che l’uomo è continuamente e al tempo stesso sommerso dal quotidiano e privo del quotidiano: ciò significa che viviamo in una situazione immersiva di cui non ci accorgiamo, ma quando prendiamo distanza per ragionarci, già non siamo più immersi nella stessa situazione. Ciò fa sì che il soggetto si muova in un oscillare tra spazi troppo pieni e situazioni di privazione e di vuoto. Se il nostro contatto quotidiano con il mondo tende a sfuggire alla nostra riflessione, non per questo non esiste: anzi, esercita una presenza pervasiva e silente nella nostra esperienza. Il già citato livello di immediatezza e la condizione di svolgimento parallelo dei media rispetto allo svolgimento della nostra vita fa sì che il mondo esterno delle rappresentazioni e delle narrazioni si confonda con l’andamento stesso della cultura in cui viviamo. Questa pervasività o invasività, veicolata dalla forma puntuale delle micronarrazioni di cui si sostanzia il racconto mediatico, difficilmente viene avvertita come flusso con delle costanti e, parimenti, difficilmente viene avvertita come composizione di minuscole eccezioni. Questo dato costituiva, per Blanchot, quel che gli permetteva di affermare che il quotidiano è privo di soggetto. Se avviciniamo questo pensiero alla denuncia di crisi delle grandi narrazioni del contemporaneo di cui parla Benjamin, si comprenderà come il soggetto di cui è privo il quotidiano è di tipo narrativo.
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I media rimangono taciti ma non certo silenti: sono narrazioni implicite perché prive di soggetto: sono la parola che rimane nell’anonimato. E che spesso, quindi, assume la forma spersonalizzante del “sapere diffuso”: se sono in più, in tanti, a sapere o dire una cosa, questa diventa diceria, tradizione. È come il tradunt latino, come il “si dice”, che sovente nel parlato diventa una sorta di ipse dixit, o, alternativamente, di ipsa dixit, quando si riferisce una notizia data dalla televisione o da internet1. Quel che qui occorre ed è rilevante cogliere è un fatto inequivocabile: i media (ci) raccontano. Raccontano a noi, ma raccontano anche noi. Sono un riflesso delle nostre narrazioni e sono narrazione che ci intrattiene e ci appartiene. Proprio in ragione dell’invasività e della pervasività che li caratterizza, insieme alla mancata formazione alla decodifica del linguaggio delle immagini e dei media in genere, ci raccontano e raccontano senza che noi ce ne accorgiamo, perché sono o si confondono con la corrente, con il flusso del quotidiano. Il loro aderire all’istante o all’instant new o al “fatto” sembrerebbero consegnarci una maggior quota di verità o verosimiglianza. Il telegionale che riporta i “fatti” lo fa in modo ‘mediato’, ne dà un’espressione che risulta intrinsecamente e necessariamente tradita, raccontata, deformata. E questo già di per sé. La forma poi della narrazione risponde a regole di composizione, ricomposizione e grammatica del racconto… La retorica e la composizione intenzionale del susseguirsi delle notizie, della loro ricorsività o insistenza, dei loro agganci ad una cronaca che spesso è intrattenimento, distrazione da linee narrative più cogenti, ma più sotterranee, “stuzzicamenti” da chiacchiera che distolgono l’attenzione dalla possibilità di creare altre connes1
è interessante, a tale proposito, la fiducia che si tende a riporre in un sapere condiviso e plurivoco nella gestione come quello di wikipedia. Il luogo virtuale ed enciclopedico che raccoglie più soggettività narranti non vale, di per sé, come veritiero. È, in quanto narrazione di sapere, un sapere da rinegoziare e confrontare in un dialogo con altre fonti ed esperienze. Da cui deriverebbe la competenza composizionale di un apprendimento non enciclopedico in termini di “riempimento”, quanto, piuttosto di complessità. Come suggerisce, introducendo la proposta di una riforma dell’insegnamento che sia parallela ad una riforma del pensiero, Edgar Morin in Il Paradigma perduto. Che cos’è la natura umana, Feltrinelli, Milano, 1994.
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sioni, confondono la nostra attenzione creando lo spaesamento della società dello spettacolo che ci illude di esserne protagonisti per il solo fatto di esserne circondati e avvolti. I media risultano narrazioni “costruite intorno a noi”, come recita lo spot di una banca o, ancora riportano ad un mondo in cui “life is now”, tutto è rapido, tutto è in fuga. Siamo in uno stato di assedio: quel che sembra circondarci ci impedisce la visuale più ampia. Il protagonismo in una società dello spettacolo richiede la ridefinizione dello spettatore e del gesto di spectare. Spectare è in latino il frequentativo di spicio, guardare. Implica uno sguardo attento, partecipe, lento. Uno sguardo, cioè, che sappia prendersi la propria possibilità di azione ed il proprio diritto di parola. È difficile essere spettatori se la nostra sensibilità scopica (dello sguardo) ed acustica (per non parlare delle ultime derive delle altre stimolazioni sensoriali, come la diffusione di essenze o fragranze in grandi magazzini per provocare letteralmente l’acquolina d’acquisto) vengono continuamente eccitate e provocate all’azione. Quel che ne deriva è un senso di poderosa ed ampliata capacità visiva ed acustica. Ma all’aumento della quantità dell’esperibile sensoriale non corrisponde un aumento della capacità sensoriale. Senza una mediazione ed una riflessione educativa ed autoeducativa quel che aumenta è solo la quantità di stimoli, non necessariamente la nostra capacità di intercettarli e di farli transitare in narrazione ed in esperienza. Poco più di un decennio fa fu creato e venne diffuso uno spot pubblicitario che vantava creatori e registi di notevole spessore artistico ed espressivo e che proponeva un filmato di un certo impatto narrativo e visivo. Si trattava della pubblicità di una ormai nota e diffusa piattaforma di gioco. La proposta era quella ambiziosa di creare la possibilità di una “Double Life” , una emulazione di possibili scenari di esperienza. Non entreremo, in questa sede, nel merito della realtà virtuale, ma si ritiene suggestivo ricordare il “parlato” che accompagnava le immagini estremamente evocative del video, che vedeva alternarsi in un rapporto di contrasto e giustapposizione forzata scenari reali e scenari videoludici. Quel che i protagonisti dicevano seguiva lo stesso andamento delle immagini, alternando piani di realtà a piani di finzione.
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La tipologia dei personaggi riflette il più possibile il quotidiano: si tratta di studenti, passanti, una madre con il figlio in grembo nei loro gesti più prevedibili, svolti in regime diurno e riproposti poi, alternativamente, durante gesta straordinarie compiute di notte. Il testo del video e del racconto, che si muovono sul doppio binario, sono espressi dalla voce che racconta e dice: Per anni, ho vissuto una doppia vita. Durante il giorno, svolgo il mio lavoro: guido un bus, mi rimbocco le maniche come tutti gli altri. Ma, di notte, vivo una vita d’euforia, da perdere il fiato e d’adrenalina. E, a dire il vero, una vita di dubbia virtù. Non negherò di essere stato coinvolto in atti di violenza, e d’essermi lasciato prendere. Ho mutilato ed ucciso i miei avversari e non soltanto per autodifesa. Ho manifestato disprezzo per la vita, per le membra e per i beni e assaporato ogni momento. Potresti non pensarlo, guardandomi, ma ho comandato eserciti e conquistato mondi. E sebbene per giungere a questi traguardi io abbia posto in disparte la morale, non ho nessun rimpianto. Perché, se anche ho condotto una doppia vita, almeno posso dire: adesso ho vissuto.
Il gioco di rimandi tra testo e contesto contribuisce a creare la frattura tra reale e fantastico, ma quel che in questo contesto è lampante è il richiamo alla dimensione del vissuto. Va detto, ad onore di cronaca e nel rispetto dell’evoluzione e del cambiamento culturale del messaggio, che la stessa casa di produzione, nel 2012, ha lanciato una sorta di successore di questo tipo di gioco che con non certo leziosa metafora è stato chiamato “Vita”. Lo spot che ne promuove l’uscita richiama il precedente, ampliandone in senso e suggerendo un progresso della concezione visionaria ed immersiva nel virtuale grazie ad un ampliamento delle possibilità figurative dello strumento. In un certo senso la de-realtà favorita dal primo gioco viene qui ampliata ad una finzione allargata, condivisa, collettiva. Potremmo dire propriamente mediatica. La frase finale dello spot recupera quel che Benjamin segnalava a proposito della supposta fine delle grandi narrazioni. “Le quotazioni dell’esperienza sono crollate”, si annunciava nel testo dei primi anni 30 del ‘900. (Benjamin, 2001)
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Benjamin parlava di un’esperienza assimilabile all’Erfahrung: si riferiva cioè ad un processo che può sedimentarsi nel soggetto, che può diventare patrimonio. Altra cosa è l’esperienza seppur vivida di qualcosa (Erlebnis). Senza entrare in una questione di distinzioni su cui molte pagine sono state scritte, è importante sottolineare che il gesto di ricostruire e restituire l’esperienza è altra cosa dal dissolverla in un resoconto. Se la riappropriazione si compone di allontanamento e ritorno, i media possono fungere da medium, ci fanno ripercorrere le tracce dei nostri vissuti quando li si colga nella prospettiva dell’intreccio, del mythos, o di quella che Ricoeur chiama la costruzione dell’intrigo (1994), e che disegna la possibilità di una armonizzazione che derivi da “referenze incrociate”. La narrazione come messa in intrigo è dunque la possibilità di individuare o costruire un tessuto di convivenza e scambio tra quel che la storia ed i fatti dicono e la dimensione narrativa che la finzione veicola. Quindi, in che modo aver provato un’esperienza di virtuale double life (al di là del cotè morale che le dichiarazioni di “altra vita” riferiscono nel testo riportato) può sensatamente far “ri-conoscere” di aver vissuto? Non certamente solo per il fatto di aver unicamente esperito “squartamenti di nemici” o “eroiche incursioni di guerra” e di essersi concessi una vita altra di tipo nascosto, inconfessabile, notturno e ambivalente. La letteratura sul doppio ci racconta del resto e da tempo, la molteplicità della personalità umana ed il portato perturbante della duplicazione, sia in termini narrativi, sia in prospettiva antropologica e psicanalitica2. Inoltre a quell’esperienza mancherà sempre ed inevitabilmente la parte più corporea, vibrante e vivida della nostra presenza. La partecipazione, per quanto possa farsi raffinata e verosimile, sarà sempre di tipo mentale. 2
si vedano i testi di O. Rank, Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Parma, Sugarco, 1978, di S. Freud, Totem e tabù, Torino, Boringhieri, 1984, F. Minuzzo Bacchiega, Il doppio. Da una considerazione sull’ombra, Urbino, Quattro Venti, 1984, E. Funari, Il doppio. Tra patologia e necessità, Milano, Cortina, 1986, E. Funari, La chimera e il buon compagno. Storie e rappresentazioni del doppio, Milano, Cortina, 1998 e le narrazioni di R. L. Stevenson, Lo strano caso del Dottor Jeckil e del signor Hide, Milano, Garzanti, 1987, O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, London, Penguin Book, 1985.
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L’intrattenimento, lo svago e l’evasione di quell’ “aver vissuto” avvengono in un non-luogo del prender parte ad un evento. Inoltre, la passività mascherata da iper-azione non può non alimentare un tacito sentimento di remissività. Nel rileggere o riascoltare il testo della “doppia vita” c’è qualcosa che continua a pungere l’attenzione. Non si tratta di un disagio per la virtualità dell’esperienza, altrimenti qualsiasi lettura di romanzo porterebbe con sé assenza di emozioni, di tensione, con conseguente passività di tipo esperienziale, quando invece in libro può farci volare, viaggiare, vivere cento vite senza esserci mai alzati dalla sedia (cos’ come accade attraverso il cinema e in un certo qual modo nel teatro). Quel che solletica la riflessione è in una sorta di staticità che il claim suggerisce o che lascia, come un retrogusto dopo il suo passaggio. Eppure la doppia vita consente grande movimento, grande presa di distanza dalla vita abituale a favore di una vita parallela altrimenti difficilmente realizzabile e con forti dosi di iperboli. In ogni caso, quell’ “ho vissuto” porta con sé un carattere statico, passato e concluso. In qualche modo non trascorso. Se la narrazione è il racconto ordinato di un nostro modo di vedere e di associare gli aspetti di un evento, potremmo definire la narrazione una teoria. È, infatti, in sé, un’attività della visione, una prospettiva. Questa teoria, questa donazione di senso che, come abbiamo visto, è momentanea diviene anche “ricominciabile”, in quanto è possibile risvegliare il senso nascente ed eventuale dell’esperienza proprio raccontandola e risignificandola. Si può dire allora che la teoria attribuisce una forma all’esperienza. Ancor meglio, è possibile affermare che la teoria-narrazione possiede un carattere per-formativo. 1. Lo sguardo come percorso Ciò significa che una narrazione possiede, oltre che un tratto riflessivo, anche una possibilità di rivisitazione o esplorazione di ciò che normalmente è ovvio e lasciato al tempo che passa e che può essere approfondito e illuminato, quindi rivissuto, secondo modalità inedite.
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Si presuppone un processo di prova, un passaggio. L’accesso al gioco virtuale crea una sorta di specchio magico che riflette, amplificandoli, i drammi e le pulsioni sociali. Lo spazio della doppia vita è così un non luogo liminale cui si ha accesso e che consente una sperimentazione di situazioni. Bisognerebbe chiedersi quanto questa sperimentazione sia libera o invece vincolata e quanto questa abbia in comune con la performance teatrale usata per esempio da Grotowski o da Artaud, per i quali la riflessione transitava necessariamente dall’espressione e dall’attraversamento corporeo del vissuto. La questione sul tavolo è nella visione di quel vissuto. Quel vissuto possiede la veste teorica della costruzione di senso attraverso l’agire? La risposta si trova nell’eventualità che quel vissuto possa essere attraversato da un cambiamento. Se definiamo, grosso modo, l’educazione come quel processo con il quale gli esseri umani si relazionano ed attraverso il quale si formano e si trasformano, stiamo parlando di cambiamento come passaggio. Quel che declina l’educazione in apprendimento sono l’attenzione e la riflessione dedicate a quel passaggio, in altre parole è la narrazione. La teoria è performativa perché “fa cose con le parole”, raccontando produce, fa. L’affermazione “ho vissuto” è, piuttosto, un atto costatativo o constativo. Afferma e constata, descrive. La differenza è nel gesto di nominare, di mettere in forma, di dar corpo a visioni, non solo a riproduzioni: narrare è trascrivere visioni della mente e dell’immaginario, ovvero processi in atto che nel racconto incontrano la loro semantizzazione. Se l’immagine vissuta nel gioco come nel cinema o nella televisione o nell’arte non muove verso questo processo, non ci potrà far pensare ai processi. Al massimo arriveremo ai concetti. E con quelli è facile istruire, condizionare, disciplinare: espropriano di esperienza le idee, portando, come mostrava Foucault in Ordine e discorso, ad un sistema di insegnamento che può divenire ritualizzazione della parola, qualificazione e fissazione dei ruoli dei soggetti parlanti in un rapporto di distribuzione ed appropriazione del discorso con i suoi poteri ed i suoi saperi.(Foucault, 2004)
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Pensare ai processi significa, invece, “pensare per flussi e interconnessioni”.(Braidotti, 2002, 10) Apprendere, attraverso il paradigma della narrazione, descrive un’attività contrattuale e instabile e soprattutto, secondo la felice definizione di Demetrio, indiziaria. In un approccio narrativo quel che si cerca sono “tracce, indizi, segni che ci consentano di delineare, osservare e descrivere non le verità assolute, quanto le manifestazioni appariscenti di cose, emozioni, circostanze, simboli”. (Demetrio, 52) La narrazione di un’esperienza mediata può quindi anche innescare una riflessione, un attraversamento attento o un ripercorrere la vicenda vissuta attribuendole un senso. La staticità di quell’ “ho vissuto”, preceduta dal “posso dire” è interessante nel suo implicito riferimento alla soddisfazione e quindi al godimento. Questa staticità è rischiosa perché fissa a sua volta un principio di piacere che appartiene ad una retorica della trasgressione che mimando il passaggio liminale allo spazio ludico non preserva, comunque, dalla deriva del consumo simbolico di esperienza. La libertà di poter vivere per un po’ (ore, minuti, giornate) di fronte a schermi televisivi, cinematografici, informatici e confrontarsi con realtà e narrazioni rappresentate è una libertà che di per sé non insegna ad accorgersi del “transito”, del passaggio dalla nostra condizione di partenza a quella di spettatori, a quella di decifratori ed infine di veri narratori e ricompositori dei frammenti presentati. La simulazione e la specializzazione illusoria (operata per esempio dal sempre maggior ricorso al 3d) ci danno la sensazione che quello che vediamo e “viviamo” stia accadendo per noi ed in esso noi possiamo esercitare libertà di scelta. I modelli e gli stereotipi che ci vengono offerti spesso sono proposti in un intreccio invisibile con altri modelli e stereotipi di cui si offre l’apparente trasgressione. La normalità delle figure presentate dal video che ci sta facendo da telaio di riflessione offriva una sorta di ovvio scenario del quotidiano, che può essere superato attraverso esperienze da viversi “nei panni di” combattenti, avventurosi, superdotati eroi. Ma quanto sono stereotipi anche questi modelli e quanto la soddisfazione di poter dire di aver vissuto viene di fatto alimentata dal suggerimen-
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to di un’insoddisfazione per le esperienze che davvero vengono quotidianamente esperite? In particolare, quando anche la narrazione di quel quotidiano che Blanchot vedeva spersonalizzato e desoggettivato pesca nell’emotivo, nell’adesione affettiva ai suoi oggetti, luoghi, noi sentiamo che le narrazioni di un quotidiano dopo l’altro divengono narrazioni, anche narrazioni mitiche, storiche, che fanno nascere la voglia di dire “io” nel susseguirsi di imperfetti che, per esempio, nei reportage, rappresentano l’Italia di poco fa o parlano di gusti, mode, abitudini, paure, sogni. È a quel punto che l’io può farsi anche futuro e si allarga nel noi. L’esperienza – in senso lato, ma soprattutto mediatica –risulterà allora incompleta a meno che “uno dei suoi momenti non sia (…) un atto creativo di retrospezione, nel quale agli eventi e alle parti dell’esperienza viene attribuito un significato (…). L’esperienza è (…) sia un ‘vivere attraverso’ che un ‘pensare all’indietro’ ”. (Turner, 1986, 43, 44) La capacità del prodotto narrativo di sollecitare lavori attivi e rielaborazioni da parte del pubblico è altro dall’ipersollecitazione a vagheggiare possibilità apparentemente offerte dal medium. Questo infatti tende a proporci di affrontare (e cogliere, se pensiamo alla pubblicità) di momento in momento le occasioni simboliche, narrative e desideriali che spesso costituiscono la matrice di un bisogno che si connota non come speranza, ma come continua mancanza. Non va dimenticato, infatti, e merita un approfondimento pedagogicamente doveroso, il legame tra i media ed i processi di socializzazione del desiderio. Intanto si potrebbe parlare del desiderio di presenza, favorito dalla metafora che lo schermo realizza nel sempre più credibile “come se”3. Esiste poi un desiderio di “accesso visibile”: lo schermo di internet, della televisione, del cinema e di altri media permettono di guardare da una finestra, di avere uno spazio da cui è possibile cogliere e osservare, ma che spesso, attraverso internet, consente 3
Arrivando, come sostiene M. Taussing, in Mymesis and Alterity. A particular history of the senses, Routledge, New York, London, 1993, ad un vero e proprio “eccesso mimetico”.
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altresì di essere visti. Non sarà forse questo un implicito desiderio di reperibilità, raggiungibilità e contatto? I media poi nutrono il bisogno di movimento mentre ci restituiscono inquadrature e cornici che al contrario rimangono fisse: mentre promettono accesso e fruibilità ci rimandano un’immagine di noi immobile, in assorta osservazione. Un altro desiderio che si connette allo schermo di un medium è quello di protezione, recuperando il senso ambivalente della parola schermo che insieme è spazio di proiezione ma anche territorio di tutela. Quanto ci si scherma dietro quel che si mostra o dice in rete o al telefonino, attraverso conversazioni scritte che sono sempre così sorprendentemente capaci di superare i soggetti stessi, di andare oltre, di significare altro! E ancora: mentre i media ci suggeriscono cosa desiderare, perché non imparare ad accorgerci di cosa stiamo guardando? Di come lo guardiamo? E di quanto, in realtà, non vediamo (solo) quel che c’è, ma muoviamo i nostri occhi e la nostra narrazione assecondando un nostro desiderio visivo? Potremmo imparare che le narrazioni mediatiche, per quanto “finite”, “perfezionate” e concluse, possono dischiudersi ancora ed ulteriormente alla nostra esperienza, divenendo forma narrativa soggettiva, donazione di senso personale e continuamente performante.
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V. CINEMA E NARRAZIONE. TRACCE DI UNA CONVERSAZIONE EDUCABILE
1. Pratiche narrative e cinema La scelta dell’espressione participiale invece dell’aggettivo “performativo” si inscrive in una prospettiva pedagogica in cui il rapporto tra narrato ed esperienza non si consuma o dissolve integralmente nella performance del narrare, ma si può produrre sempre con esiti ed intrecci differenti. Poter insegnare e quindi poter apprendere i modi e le possibilità per divenire narratori e non meri o passivi fruitori delle narrazioni culturali da cui siamo circondati trova nei media come il cinema, il teatro, la pubblicità, la scrittura e le immagini dei “facilitatori” metodologici. Con ciò non si intende dire che formare con questi e in questi linguaggi sia più semplice. Tutt’altro. Si tratta però di linguaggi che possiedono alcune caratteristiche di enorme potenziale formativo, ovvero - la visibilità, cui si connette l’idea di - dialogismo attraverso la possibilità eminentemente estetica espressa da Bachtin con il termine di extralocalità. Questa esprime, declinata sui nostri temi, il costitutivo decentramento del lettore/spettatore rispetto a ciò che avviene nella narrazione, a ciò che avviene ad un altro soggetto. Anche nel caso in cui il soggettolettore ed il soggetto-narrato coincidano, come nel caso dell’autobiografia. La possibilità di trovare, nella irriducibile soggettività testuale di ciò che si ha di fronte e che l’espressione (mediata) crea, una alterità a sua volta irriducibile permette la mossa dialogica che pone l’apprendimento non in termini di ricezione, ma su un nuovo piano di possibile esperienza ed esistenza. Un’ulteriore caratteristica importante ai fini dell’apprendimento in prospettiva narrativa è data dalla
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- possibilità euristica che la finzione (in quanto donazione di forma, come si è visto) offre. È Ricoeur a dirci che nella finzione si esprime una modalità metaforica esprimibile dal “come se”. Tale dimensione si pone in tensione con un’altra metafora, che è quella dell’ “essere altro”. Jedlowski parla della possibilità di riconoscimento della propria storia nelle narrazioni degli altri, quando cioè avviene che “prestiamo loro qualcosa di noi” (Jedlowski, 2000, 116), ma si potrebbe aggiungere che il discorrere con le narrazioni degli altri (nelle più diverse forme che esse assumano) ci pone in un mondo nel quale siamo contemporaneamente già radicati (e possiamo allora accorgercene e vederlo), ma soprattutto ci colloca in un mondo in cui è possibile pro-iettare e progettare i “nostri possibili più propri” (Ricoeur, 1975, 405). Le immagini di un film potranno allora influire sui nostri costrutti di “natura narrativa e simbolica, con i quali è possibile costruire declinazioni del sé, funzionali ai diversi contesti e ruoli” in cui operiamo. (Di Fraia, 2004, 198) Ciò in particolar modo se si impari a confrontarsi criticamente con le rappresentazioni sociali e narrative che i media permettono di far sedimentare nell’immaginario condiviso. Se siamo continuamente immersi in proposte di storie narrate dai media non possiamo pensare di esserne o rimanerne esenti. Queste si sostanziano del “raccontabile” intorno a noi e costituiscono, quindi, oggetti, ambienti, strumenti e narrazioni potenzialmente utili ai processi di costruzione di sé: sono infatti possibili universi esperienziali. A questi ci si può riferire e questi possono essere “manipolati” come si vedrà attraverso il suggerimento della metodologia di “apprendimento dialogato”: nonostante film e narrazioni mediali abbiano l’aspetto di una narrazione finita e noi si corra continuamente il rischio di assorbirne il carattere unicamente preconfezionato, la possibilità di destrutturarli e ricomporli risponde ad una pratica educativa di personalizzazione che farà conversare quel che mettiamo di noi dentro alle immagini con quel “di fuori” in cui noi e loro siamo immersi. I film, inoltre, in particolare, possiedono un elemento educativo di notevole fertilità e, infatti, non a caso e spesso in modo arbitrario, rischioso e semplice, in formazione, si ricorre all’uso delle pellicole.
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Quel che dà vita allo svolgersi e quindi all’avvenire di un film è la presenza e l’intenzionalità di uno sguardo. Il testo filmico, dunque, non è –solo– narrazione compiuta, ma - genera narrazione, con modi e strumenti difformi a seconda della sua relazione con il tempo1; - genera possibilità di riflettere, in un contesto di educazione dello sguardo2: “il nostro modo di guardare possiede, oltre che diverse e numerose declinazioni modali, una storia: a questa hanno collaborato diverse forze. Siamo stati educati a guardare in un certo modo, siamo condizionati, il nostro stesso gusto possiede delle matrici formative che possono essere narrate, quindi percorse, scoperte, ri-significate. Così i nostri modi di raccontare o le modalità in cui ci piace che una storia venga raccontata sono anch’essi intrisi di narrazione potenziale”. (Mancino, 2011, 152) La prospettiva di una filosofia e pedagogia della narrazione si posiziona pertanto nello spazio eventuale della ri-cognizione del film in quanto rappresentazione. Ciò consente non solo di ri-narrare una narrazione , ma soprattutto di osservarsi mentre si guarda, cogliendo il gesto di pro—gettarsi e cogliere la propria operatività non ricettiva ma procedurale. Infatti più che mai, attraverso la ri-cognizione narrativa del film si esprime la natura intima della narrazione, che è una capacità di pensiero, di messa in legame. Inoltre nel momento in cui si opera il ri-conoscimento della narrazione, ci si può anche ri-conoscere. Si vedono i modi ed i percorsi che abitualmente facciamo svolgere ai nostri pensieri, mentre il film ce ne mostra una piccola porzione.
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si veda: E. Mancino, Cinema, narrazione e costruzione autobiografica, in S. Di Giorgi, D. Forti, Formare con il cinema. Questioni di teoria e di metodo, F. Angeli, Milano, 2011 prospettiva pedagogica ideata e promossa all’interno del mio insegnamento di Metodologia della Formazione, nelle sue edizioni degli anni accademici 2009-10, 2010-11, 2011-12, e negli anni precedenti nell’insegnamenti di Educazione permanente e degli adulti (II modulo) e Pedagogia dell’animazione, presso la Facoltà di Scienze della Formazione R. Massa e teorizzata nelle sue declinazioni narrative nei testi: Un cinema parlato. Trame per una pedagogia della narrazione con gli occhi di un’altra lingua, Mimesis, Milano, 2009 e Cambiamenti incantevoli. Bellezza e possibilità di apprendimento (con G. Zapelli), Cortina, Milano, 2010.
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Attraverso una formazione attenta alla narrazione, allo sviluppo del soggetto, all’assunzione della consapevolezza dei propri modi di apprendere, il cinema agevola la visione e la comprensione di attività del pensiero che possono essere colte più facilmente, attraverso il medium esterno. È così possibile: - isolare, - selezionare -ricomporre le narrazioni ed osservare i modi in cui le ri-configuriamo nello sguardo, attraverso quindi nuove narrazioni. Si individueranno, quindi, stili: -contemplativi, -interrogativi, -filosofici, -strutturali, -logici, - critici, -decostruttivi, -puntuali, tesi cioè a cogliere quel che “serve” o è utile -generalizzanti, -cronologici, -poetici, evocativi, -pragmatici, - intimistici, -concettualizzanti, -riflessivi, -assimilativi, - analitici -… attraverso un lavoro formativo sul e attraverso il cinema è possibile fare, letteralmente, teoria (visione organizzata, da theorein, guardare) del proprio pensiero. Non solo, infatti, la narrazione del film si svolge parallela al dipanarsi del nostro discorso interiore che “racconta dentro” quello che vediamo fuori, ma se impariamo a scomporre le parti delle narrazioni (nostre ed altrui) ed osservare i modi e le retoriche delle giustapposizioni, ci accorgiamo della vera natura partecipativa
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e conversazionale del nostro rapporto con le storie proiettate sullo schermo. La forza del cinema è nel creare e mantenere un equilibrio tensivo tra realismo e distanza. Questi due principi, mantenuti in tale relazione, impediscono quello che Gregory Currie chiama l’imagining seeing (Currie, 1995), che potremmo assimilare al concetto di empatia (immaginare di vedere dall’interno). L’idea per cui le emozioni si dirigono verso gli oggetti della finzione narrativa in modo empatico rispetto ad un principio di mera identificazione con i personaggi o le situazioni risponde maggiormente ad una situazione di trasporto emotivo che il film provoca. Il trasporto è suggestivamente una metafora di viaggio, di spostamento, di movimento. Si viene portati altrove, si sospende per un po’ il mondo quotidiano e si viene assorbiti cognitivamente ed emotivamente in una storia. Ma nel trasporto non perdiamo i nostri modi di vedere. Accade, però, che li confrontiamo con quelli di altri. Ma non nelle immagini, ma nelle loro composizioni di senso. Nei film non vediamo singole immagini, ma segni iconici che, siccome sono posti in modo e con senso narrativo, ci suggeriscono cosa sarebbe appropriato immaginare: sono segni che si fanno lingua perché sono intrecciati e sostenuti da una narrazione, da un montaggio. Non abbiamo, quindi, sentito l’altro dal e nel suo intimo. Quando torniamo al mondo consueto, dopo il trasporto, è avvenuto però qualcosa di profondamente intimo. L’accesso introspettivo ai nostri modi di vivere, sentire o intendere quella data situazione si sostanzia nella possibilità conversazionale e dialogica di interpretare lo sviluppo di tali modalità come facciamo mentre ci capita di venire a conoscenza e comprendere i modi di vivere e sentire degli altri. È così che si recupera il carattere vivo del racconto di cui parlava Ricoeur: la finzione narrativa è una forma di ri-figurazione, realizzata attraverso un medium, della composizione del nostro rapporto con il diverso, con l’eterogeneo. La vivezza non si situa nel sentimento dell’altro che crediamo di condividere tanto intensamente da “vederlo dall’interno”: questa emozione è favorita invece dall’adesione al farsi della storia, ovvero passato (narrabile)
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che si trasforma in futuro (vivibile) transitando nel presente della visione. Partecipare allo svolgersi ed alla durata di tale processo di cocreazione narrativa è certamente gesto di adesione, ma è soprattutto inconsapevole implicazione nel processo magico di rivivificazione dell’esperienza. Si spiega così il piacere del testo, la partecipazione all’ “idea generativa per cui il testo si fa, si lavora attraverso un intreccio perpetuo”. (Barthes, 1999, 124) 2. Narrarsi nelle trame. Dimenticando il finale La trama che trattiene e intrattiene con sé lo spettatore lo fa al di là della successione dei fatti o delle emozioni con cui questi può di volta in volta identificarsi e permette un gesto estremamente denso di apprendimento: la con-figurazione. Configurare è gesto creativo e connessionale che prende avvio con l’implicazione narrativa e si svolge attraverso la possibilità che lo spettatore attui, attraverso un percorso di formazione e preferibilmente mediante il medium della scrittura e del dialogo, delle ri-figurazioni, “ovvero operazioni narrative che mostrino il proprio ruolo di complicità non già con la storia raccontata ma con la sua raccontabilità. La scrittura allora assume e recupera il carattere riflessivo della nozione ricoeuriana di intrigo”.(Mancino, 2011, 159) Sarà così possibile realizzare una osservazione, mentre il linguaggio del cinema ci dà ospitalità nel suo territorio, delle molteplici sfaccettature che compongono l’identità narrabile del nostro sguardo: attraverso una sosta -una sorta di esitazione estetica- nel visibile possiamo così contattare, selezionare e provare ad esprimere l’invisibile. Ovvero un pensiero che diviene, così, narrabile. Ci si può infatti educare a cogliere e percorrere gli stili della propria narrazione di visione attraverso una ri-appropriazione di quel che non è immediatamente disponibile alla vista, forse perché così quotidiano e ovvio, che, come si diceva con Nietzsche, è quanto mai insidioso. Il noto e l’abituale sono infatti le regioni più difficili da conoscere, perché non le mettiamo in questione e non le esploriamo, non le vediamo come distanti. Non sono fuori di noi, non siamo abituati, educati o chiamati a immaginarle, a figurarle,
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a rappresentarle o a pensarle e quindi non ci turbano, non ci chiedono di dar loro voce. Le nostre visioni, teorie e pensieri sono così ovvie perché, come direbbe Barthes, le incontriamo per strada continuamente e non ci facciamo più caso, non destano la nostra attenzione. Ma se la formazione ci educa all’attenzione ai nostri coinvolgimenti visivi ed alla nostra partecipazione narrativa, che altrove abbiamo definito complotto (Mancino, 2009), narrare le nostre appartenenze alle narrazioni mediatiche (filmiche, televisive, di rete) sarà, oltre che gesto procedurale di creazione di senso, una vera e propria operazione dialogica e polifonica, sempre passibile di altre narrazioni, in quanto intrinsecamente polisemica ed itinerante. Per meglio comprendere la filosofia educativa del “complotto” o della complicità narrativa con il racconto per immagini, si propone un esempio di trama “investigativa”, che rappresenta un tessuto espositivo estremamente affine al procedere del pensiero dello spettatore, di fronte ad ogni tipo di pellicola. Se nel film giallo o poliziesco o nel film in cui il protagonista è sulle tracce di una verità, di una relazione o di se stesso vengono distribuiti indizi che, una volta ricomposti secondo un principio espositivo di senso, ovvero montati, producono la soluzione dell’enigma, così la trama di un film è ordine esposto di vestigia, di tracce. Lo spettatore le ricompone, insieme al farsi del racconto. Si fa, quindi, in-vestigatore. Per illustrare come il nostro livello di complicità non si stabilisca unicamente con i personaggi (per supposta empatia) ma si attui soprattutto in termini narrativi e si leghi eminentemente alla storia, è possibile ricorrere ad un impianto narrativo noto generalmente al pubblico, come appunto il poliziesco. In tale contesto di visione siamo complici da subito: partecipiamo visivamente, cognitivamente ed emotivamente ad una vicenda in fondo semplice e per molti aspetti sempre molto simile a se stessa. Se assistiamo ad un episodio del Tenente Colombo (celebre serie televisiva degli anni ’70) o ri-guardiamo un film di Hitchock che presenta un colpevole o un “cattivo” in senso lato, quel che vediamo è dapprima, spesso, una meticolosa, silenziosa e complicata pianificazione ed esecuzione di un delitto. Spesso assistiamo anche alla messa in atto del gesto stesso o dell’omicidio.
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È interessante a questo punto notare cosa avviene nei telefilm del Tenente Colombo (che la televisione, su canali ed in orari sempre diversi, non ha mai smesso di trasmettere, dagli anni del lancio del telefilm). È infatti a seguito dell’assassinio che si fa vivo, puntuale ma con la trascuratezza di chi si trova lì per caso, il tenente. Scende da una vecchia Peugeot, veste un soprabito che richiama le condizioni dell’auto e con un fare quasi disinteressato muove i propri passi, deambula flemmatico ma inevitabile nella scena dell’omicidio. Il regista ci facilita il lavoro e così Colombo sembra aderire al colpevole sin dalle prime battute: vi si incolla. Raccontato così potrebbe sembrare troppo semplice per noi spettatori: sappiamo chi è stato, anche l’investigatore sembra saperlo. Cosa ci tiene legati alla visione di quello che accadrà dopo? È qui che la nozione di complotto e dialogo ci viene in aiuto. Quel che si stabilisce tra colpevole e investigatore è una vera e propria relazione: è un rapporto che si realizza nel segno di una ironica complicità, si potrebbe quasi dire di una assurda collaborazione. Il carattere di tale scambio collaborativo è inevitabilmente eterogeneo: anche se il “cattivo” si offre come intelligente aiutante nell’impresa di scoperta del colpevole, il dialogo che da questo incontro si apre è estremamente sofisticato e duplice. Potremmo chiamarlo, con categoria filosofica, come un gioco di dis-velamento. Colombo si muove per scoprire, il cattivo opera per nascondere. Nasce un intreccio che è gioco della con-versazione, di abilità e destrezza narrativa, di tessiture fini e sottili che il colpevole tenta di distruggere creandone altre, salvo, poi, alla fine, cadere proprio in quella rete fitta ma che troverà il proprio capo, la propria Arianna. Ed in qualche modo, anche per il cattivo, sarà salvezza. Perché sarà sollievo e scioglimento di una tensione del racconto che è vero e proprio intrattenimento intellettuale, scambio sopraffino di intelligenza ed inganno, di retorica comunicativa e trappole della parola. Se la tensione del cattivo è finalizzata alla ricerca di una via d’uscita, la nostra tensione segue percorsi molto simili al farsi di questa ricerca, insieme agli intrecci orditi da Colombo per rendere solida la ragnatela che costruisce la verità. Perché anche se noi sappiamo già, quel che ci tiene in tensione è il farsi narrativo pro-
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prio di quel che sappiamo già ed abbiamo in qualche modo già esperito. Non è, quindi, la curiosità a guidare il piacere della vista e dell’apprendimento, ma è il complotto della conoscenza, che viene agito nell’incontro tra due differenti eppur raffinate intelligenze: una altera, come quella del cattivo ed una molesta, fastidiosa, trasandata, sgradevole quasi, come quella del tenente. La sua presenza in scena, costantemente connotata in termini di casualità, rivela sempre un’abilità dialogica estremamente dedicata alle pratiche della riflessione. Lo sviluppo dei suoi pensieri non muove mai da certezze o supposizioni, ma da dubbi: questi vengono problematizzati all’interno del dialogo. Quasi a significare che tali dubbi non derivano neanche propriamente da se stesso, ma dal confronto con altri (perché è lì che si produce pensiero), Colombo porta in scena una grande assente rispetto alla nostra visione: sua moglie. Quando le ipotesi che presenta potrebbero risultare eccessivamente dirette, insinuanti, accusatorie, ecco che il dialogo si apre con: “mia moglie sostiene che…”. È allora possibile che il dialogo accolga i falsi conflitti della logica, vestendo i panni di un andamento mentale che viene ostentato come familiare, in qualche modo innocuo, perché quotidiano, abituale, di registro e di profilo bassi. Il tenente sa creare la giusta cornice quindi per esercitare la sua arte migliore: il saper porre domande. Se guardiamo questo andamento narrativo da un punto di vista filosofico, vediamo che il colloquio incessante, fastidioso e pungente che il tenente sa realizzare ha la forma propria della relazione filosofica. Comparato ad un molesto Socrate contemporaneo, il tenente Colombo è in grado di cullare e far emergere il nascosto desiderio del cattivo, che è quello non tanto di mostrare (lo ha già fatto all’inizio del film, lo abbiamo già visto) la propria bravura esecutiva, ma di raccontare la propria abilità nell’ordire il presunto delitto perfetto. La “verità” soggettiva emerge nella costruzione del dialogo ed è favorita da domande ben poste che agevolano, in un regime di tensione, la possibilità di stare nei tempi lunghi e pazienti della relazione. Che è quello che succede a noi spettatori durante la visione. Possiamo anche osservare che imparare narrativamente da un dialogo ben costruito ci può provocatoriamente mostrare che si
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può avere ammirazione anche del più spregevole altro e diverso, come magistralmente ci “impone” Hitchcock, che facendoci aderire alla trama ci fa dimenticare chi sono i protagonisti e spesso ci schiaccia l’occhio quando ci permette di accorgerci che “stiamo facendo il tifo” per il cattivo3. Colombo realizza l’arte maieutica del dialogo mostrandoci che quel che tiene noi in tensione, quando apprendiamo, non è la curiosità, ma la nostra partecipazione attiva al farsi della trama. Allo stare in con-templazione, nello stesso tempo quindi, dello svolgimento del plot. E questo è possibile non perché cerchiamo l’oggetto dell’apprendimento o, come direbbe Hitchock, il “chi l’ha fatto”(whodunit) del delitto, ma perché il nostro piacere di conoscere ha un impianto fondativamente narrativo. Riprendendo il titolo di questo saggio corale, non solo educare è narrare, ma conoscere è narrare. La narrazione così concepita diventerà trans-azione. Una conversazione partecipativa ed ermeneutica, in contatto con la narrazione filmica e con i propri stili e le proprie storie di sguardi. Infatti il film mostra, in tale prospettiva pedagogica, come il pensiero può “essere trasportato” fuori dai propri territori ovvii: un’educazione alla lentezza di una scrittura che sappia cogliere e accompagnare tali passaggi e ad un silenzio che permetta di osservare dalla soglia, senza volersi spingere subito alla ricerca di un’ incontestabile definizione di senso (o di un finale) consentirà di accorgersi degli attraversamenti e degli sconfinamenti del noto nella dimensione generativa del “come se”. Così il film non potrà diventare narrazione finita o concetto, ma agevolerà l’esperienza stessa della concezione, quella in cui lo sguardo si dischiude col dischiudersi delle cose. Si realizzerà quel che il film desidera e quel che desideriamo noi, nel film: che la storia, l’esperienza e la vita –impalpabili e sfuggenti – continuino ancora, esistano. E allora, per provare che ci sono, bisognerà saperle raccontare.
3
Anche E. Morin ci mostra che il nostro pensiero dell’altro che, per esempio ci viene mostrato come terribile, rimane mutilato finché non sappiamo di più della sua storia. (E. Morin, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Cortina, Milano, 2012)
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VI. NARRAZIONI E IMMAGINI CONVERSANTI
1. Educatori al cinema Nel territorio dell’intrigo ha luogo l’incontro tra narrazione, educazione e cinema (o altri media narrativi, per immagini). Le immagini possono conversare con la formazione con diverse modalità ed entro differenti universi concettuali. L’universo della relazione tra cinema e formazione è costellato infatti da numerose e difformi esperienze e sovente anche accompagnato da teorie educative di riferimento. Rimandando ad altra sede i necessari approfondimenti in merito ai diversi approcci ed alle filosofie e pratiche che li accompagnano, ha senso qui sintetizzare le linee operative che l’incontro tra educazione/formazione e film/immagini produce. In particolar modo si possono dividere le pratiche in due principali macroaree che mostrano il senso e la funzione assunta dal film: a. il cinema viene utilizzato come documento. Quel che si richiama nello spettatore-formando in aula è la sua operatività in relazione a due principali elementi: - da una parte la possibilità analogica e dell’identificazione che permette al film di anticipare e suggerire possibilità esperienziali del soggetto che viene così richiamato alla rappresentazione di forme ed (e)semplificazioni dei propri vissuti; - dall’altra il documento si offre come insieme di elementi che divengono gli analizzatori privilegiati o le lenti per osservare un’esperienza in base a questo approccio, il dialogo con il film può essere:
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-allusivo: cinema diviene un riferimento; -prolusivo: il cinema è un pre-testo che prepara l’evento formativo, allestendone le cornici emotive e cognitive; -delusivo: il film viene manipolato e lo si declina per le intenzionalità educative del caso b. Un secondo approccio vede il cinema ed il dialogo tra educazione, narrazione e film come metodi. Tale prospettiva non coglie il film come sussidio didattico, ma piuttosto come esperienza narrativa. In tal senso il legame tra educazione e cinema si articola in: - illusivo: la formazione conosce, sperimenta ed entra in relazione con le “regole del gioco” ed il linguaggio del film, attraverso i sui meccanismi narrativi; - collusivo: la formazione compie un passo oltre l’illusione e modifica i propri andamenti in ragione della processualità narrativa del film in misura degli andamenti reattivi colti in aula - elusivo: la formazione può invitare all’attenzione di ciò che è sfuggente e dei percorsi narrativi e compositivi per i quali tendiamo a considerare il senso ovvio della vista e possiamo invece considerare il senso ottuso, quello non suggerito, ma mostrato e non visto. Tali approcci educativi1, in alternanza e con diversi aspetti operativi, costituiscono anche il telaio di un’evoluzione riflessiva operata sulle potenzialità pedagogiche del cinema e delle immagini. Si ritiene infatti che la scelta del paradigma metodologico, all’interno delle prospettive delineate, fondi il principio di una filosofia della narrazione che pone al proprio centro la relazione dialogica, il narrare come forma conversazionale e la tessitura procedurale, metodologica, come via preferenziale per dare vita e dotare di comprensione situata l’esperienza di apprendimento. L’evoluzione di questa visione educativa trova quindi nella trama il suo spazio potenziale ed esperienziale, e quindi il suo luogo eletto di riflessione.
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rintracciabili, ad esclusione del senso elusivo, nel testo E. Mancino, Pedagogia e narrazione cinematografica, op. cit. nel cap. 4,
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È in questa prospettiva che oltre alle immagini cinematografiche ed artistiche, nell’ambito di una ricerca filosofica e pedagogica sulle trame educative, il significato del gesto della lettura trova un posto importante. La lettura viene intesa qui come gesto di riscrittura di un testo, come possibilità di far divenire l’immagine, la pagina, il medium letto come luogo della sua leggibilità. L’attenzione quindi si posa anche su storie fatte di immagini e dense di grande forza di dischiusone di senso nell’incontro con la lettura. Un’ulteriore connotazione di cui la narrazione, in tal senso, va arricchendosi è infatti quella di potenzialità, in relazione all’apprendimento. 2. In dialogo con il mito La possibilità dell’aprirsi del senso della narrazione è ben rappresentata da un altro medium del racconto cui l’approccio che qui presentiamo sovente ricorre. Si tratta del mito classico. Il mito, infatti, offre un ventaglio di relazioni dialogiche e polifoniche decisamente infinito. Rappresenta una sorta di cominciamento del narrare, una trasformazione vissuta nel suo compiersi e quindi una narrazione continuamente osservabile. Il mito, infatti, “si impone per fatica procedurale e per seduzione di andamenti; è tempo superato nel tempo (…); è tempo momentaneo e iniziale. È la possibilità di una situazione, di un porsi della conoscenza in rapporto con il mondo. Per questo è narrazione di una metamorfosi. Perché esibisce il cambiamento e invita, con diverso titolo, strumenti, desideri, mezzi e tempi, ad abitarlo”. (Mancino, Zapelli, 2010, 15) La potenza propria del mito è quella di poter essere sempre ed incessantemente esordio, è previsione di poter vedere, al suo interno e nel dipanarsi del suo rapporto narrativo con i nostri sguardi, uno spazio potenziale dell’imparare. Il mito è narrazione che dice la prima parola e che ci consegna, quindi, gli attimi iniziali del pensiero quando nomina il mondo invitandolo, per tanto, alla scoperta.
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Apprendere dai miti è imparare da uno spazio narrativo che, pur se raccontato, non è ancora stato riempito e che per onorare dobbiamo imparare a contemplare. La contemplazione è un gesto che richiama la sacralità, ma che esprime, soprattutto un posizionamento nel tempo. Con-templare è convivere con il durare delle cose, guardarle mentre si compiono; non avere fretta di superarle attraverso veloci spiegazioni. Se il mito è narrazione che diviene, espressione di metamorfosi e trasformazione, apprendere dal mito è dunque imparare dai passaggi, dai transiti e dagli interstizi di ciò che ha sempre da insegnare perché ha sempre la possibilità di essere raccontato. Jung diceva che noi non dobbiamo spiegare i miti, ma che loro spiegano noi. Apprendere dal mito significa anche imparare a rispettarne il linguaggio fatto di immagini; queste sono ambivalenti, sfuggenti, aperte. L’apprendistato lento nel narrarsi del mito prevede di accettare di delineare un confine e accorgersi che contemporaneamente questo sta modificando le nostre tracce. Il confine è insieme separazione ed incontro ed il linguaggio del mito ci posizione su quella linea in cui è possibile aprirsi alla consapevolezza di una pluralità di modi di leggere ed incontrare altre narrazioni. 3. Narrare con gli occhi di un’altra lingua Il dialogo che nasce da un simile atteggiamento invita ad una pratica educativa ardua e lontana dalle logiche dell’ansia di strumenti pedagogici da “prendere e portar via” pronti all’uso. La fatica di una “filosofia della narrazione con gli occhi di un’altra lingua” richiama il senso di una pratica educativa di tipo maieutico. Promuove infatti l’espressione e la capacità combinatoria e narrativa di un pensiero interno; dà avvio a produzione di narrazioni ed immagini dell’operatività interiore (memoriale e pensosa), ma anche relazionale, portando alla luce i legami, i gusti, le adesioni, i patti affettivi. Inoltre la relazione comunicativa è insita, implicita alla struttura maieutica. E l’arte maieutica è faticosa in quanto richiede l’armonizzazione di ciò che nasce con chi lo genera: è dialogo conciliante,
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composizione di unioni e separazioni, è sintesi e prefigurazioni di deviazioni di percorso. L’incontro maieutico non avviene però solo tra maestro e allievo, ma è pratica auto-riflessiva, è dialogo con l’altro da sé, con l’alterità nelle sue rappresentazioni e nei suoi riflessi di somiglianza con noi. La relazione maieutica attua un dialogo per costruire una narrazione: passa a attraverso il medium del linguaggio per poter guardare il proprio pensiero. Dal dentro al fuori, dall’io al tu, all’altro, attraverso immagini, miti, film, teatro ed arte, nel confronto avviene quello che scriveva Mario Luzi: L’appena detto il non ancora nominato quando accendono una scaglia d’intelligenza negli occhi altrui e sfolgora un’intesa e si giunge l’uno all’altro attraverso il fuoco, il fuoco ilare, il fuoco elementare della creazione incessante (Luzi, 1971)
Il mito è maiuetico in quell’appena detto e non ancora nominato. È maieutica la testualità e la metafora per esempio del teatro, che è “teoria dell’esperienza d’altri”, come afferma Merleau-Ponty. Mentre qualcosa avviene in un testo teatrale o su un palcoscenico, i dialoghi o i gesti indicano tracce, segnano con l’indice, appunto, ma non ‘significano’ il senso e la direzione di un indice. L’attenzione alla partecipazione alla trama, la complicità, quindi, alla tessitura narrativa di un testo rientra nel paradigma metodologico delineato e ripropone, nell’idea di cogliere nella relazione la possibilità di riflessione, non un concetto teorico, ma un’esperienza operativa. La relazione con il testo e con il testo altrui (che è quel di cui disponiamo nella relazione dialogica, oltre alla rilevanza del corpo e dei suoi relativi non detti) ci fa riflettere in quanto ci riflette e ci permette di vedere il nostro pensiero e le nostre emozioni non con gli occhi dell’altro, ma attraverso il confronto tra i reciproci sguardi, ovvero in un linguaggio che è continua traduzione.
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Ma come si può insegnare tutto questo? Come lo si può apprendere? Più radicalmente e provocatoriamente si potrebbe rispondere affermando che non si può insegnare l’esperienza. E non la si può spiegare. Quel che però è possibile è il racconto, la narrazione. La narrazione è la mossa cognitiva e comunicativa che ci permette, come si diceva prima, di dare vita e comprensione situata all’apprendimento. Questo, abbiamo visto, è l’esito di dialoghi e incontri. Possiamo dire, riprendendo l’idea che ogni apprendimento è rinegoziazione tra il nuovo ed il noto, che apprendere è un patto da rinnovare. E se le immagini (o le parole) rappresentano l’altro del nostro dialogo, il medium perché avvenga un’educazione maieutica attraverso la conversazione, e se quel che emergeva dal dialogo socratico era la propria parziale e negoziale verità, allora continuando la metafora di questo paradigma formativo antico (ma, proprio perché dialogico, attualizzabile), attraverso le proprie narrazioni possiamo dar forma a quelle che Proust definiva “verità scritte con figure”. Queste compongono un “complicato e fiorito libro di magia”, realizzato come un’opera di sartoria, intessuta di istanti e frammenti, composta da un’ineffabile intreccio di rilievo e omissione, di ricordo e di oblio. La lettura e la creazione del nesso narrativo delle immagini che raccontiamo e che ci raccontano è fatto assolutamente e felicemente soggettivo. È gesto creativo. Dato lo stesso evento, lo stesso film, la stessa immagine, la lettura che ne deriva è sempre negoziazione con la storia della propria visione e con i modi squisitamente personali di ricomporre l’immagine del mondo. È gesto creativo anche in quanto nessuno può sostituirci nel farlo. E quell’ineffabile intreccio di cui parla Proust può, invece, essere espresso, perché se nella trama ne rimane traccia, ne rimane, quindi, visibilità e possibilità narrativa. Dal cinema e dalle narrazioni mitiche come testi deriva una visione dell’esperienza educativa che è in grado di esibire e poi narrare come si compongono i legami intimi tra quel che si vede e chi lo vede.
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L’apprendimento del meccanismo interno del cinema come metodologia per nulla aliena ai nostri modi di raccontare consentirà allora, in ambito formativo, non solo di dare visibilità e valore processuale al proprio pensiero durante o in relazione alla visione del film, ma proprio al meccanismo del montaggio sarà possibile attingere per generare altro apprendimento e narrare quel che altrimenti rimarrebbe invisibile, ineffabile. 4. Metodologie e trame relazionali per apprendere con il cinema Si tratta di una metodologia (come tale, pertanto, evolventesi ed in continuo dialogo ed incontro soprattutto con gli interlocutori dell’educazione) che ripercorre in modo operativo, poetico e fattivo, gli itinerari filosofici e pedagogici delineati. Gli anni di esperienza nella formazione al pensiero narrativo e cine-dieidico (di idee e figure in movimento) hanno portato ad affinare strumenti narrativi utili a favorire la ricognizione, da parte delle persone in formazione, delle proprie uniche connessioni tra stili narrativi acquisiti e proceduralità narrativa osservabile nei testi altrui. La ricostruzione dei propri legami autobiografici con il cinema, la ri-conversione e ri-educazione dello sguardo nella prospettiva di un apprendimento della contemplazione attenta, della riflessione che è sguardo in ascolto, l’assunzione di responsabilità delle parole ed il loro valore in relazione al silenzio, alla possibilità di tacere o infrangere il non detto affermando l’esistenza delle cose attraverso i nomi… sono pratiche filosofiche di scambio che si muovono però tutte nel territorio inquieto e denso della trama e del tramare. Ha così preso vita un percorso di riflessione ancora più “oculata” (si perdoni l’ironico gioco di parole) e dedicata alle trame educative ed ai suoi risvolti didattici. Si è inoltre deciso di ideare e costituire un Gruppo di Ricerca sulle Trame Educative2 che da un paio d’anni costruisce strumenti di dialogo e formazione di matrice narrativa, attraverso il ricorso al plurilinguismo come pluridiscorsività. 2
presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, ideato e diretto da Emanuela Mancino, con la collaborazione di Federica Jorio, Chiara Nicole Zuffrano, Davide Rizzitelli, Stefano Landonio ed Emanuele Fusi.
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L’idea cardine è la tramatura di ambienti di formazione che permettano la coabitazione di più linguaggi in vista della costruzione dell’apprendimento. 5. Il blob e la sua evoluzione Tra le trame che sono state oggetto di riflessione e di costruzione didattica, si segnala l’uso della composizione cinematografica in due differenti accezioni. Ci si riferisce al così detto blob, che in sintesi è il prodotto di una selezione di porzioni di pellicole cinematografiche, televisive, pubblicitarie, artistiche rimontate poi secondo un ordine del discorso funzionale allo scopo del suo utilizzo. Il blob può - trattare ed “esplodere” un tema a seconda delle diverse scene che ne trattano, oppure può - essere l’esito di una decontestualizzazione delle immagini rispetto alla loro appartenenza per rimontarle poi secondo un senso altro, a mostrare che ogni ri-flessione sull’esperienza (attraverso l’esperienza di visione) può rivitalizzare la teoria (quel che si è o è stato costruito) attraverso l’azione narrativa del risignificare. La possibilità che le stesse immagini, affiancate ad altre, possano dire altro è la traccia tangibile dell’eccedenza che le immagini (e i testi) conservano sempre rispetto alla loro forma ed al loro contenuto. La forma didattica del blob ha una storia italiana che vanta ormai vent’anni e che, prendendo spunto dalla sua declinazione televisiva, deve a Dario D’incerti il suo successo formativo e la sua diffusione. È lui a ricordarci che il cinema contiene di più di quanto possiamo ricevere da spettatori e che noi conteniamo di più di quanto il cinema sappia contenere.(Di Giorgi, Forti, 2011) I frammenti, i brani e le scene che, tagliate e ricomposte, sono alla base del blob aumentano il grado narrativo perché è come se ri-esponessero alla nostra attenzione una sequenza che, decontestualizzata, ha più valore di evento, che di brano. E per ciò, di evento in evento, tutto è importante o più importante da vedere. I frammenti, posti in relazione, creano altre e nuove storie.
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Il blob ri-estetizza la narrazione perché la riproduce e mostra soprattutto che può essere riprodotta. Il blob è insieme narrazione e visibile meta-narrazione. Oltre alle consuete retoriche narrative del blob, che sostanzialmente ripercorrono gli usi del cinema come documento delineati in precedenza, l’approccio che qui si delinea descrive un uso del blob che può essere: a. pretestuale, ovvero di avvio all’apertura di senso che il blob può favorire b. processuale, mostrando il versante piò operativo di questo “film alla seconda”, che consiste non nella sua visione, ma nella sua creazione. Per quanto riguarda l’uso pretestuale vale quel che scrive D’Incerti per il cinema nelle aule di formazione, ovvero che funziona ed ha valore “solo se è un attivatore di pensiero, solo se è uno sgretolatore di certezze, solo se è un granello che inceppa il meccanismo delle nostre abitudini mentali”. (Di Giorgi, Forti, 2011, 178) L’uso, invece, processuale ricapitola la concezione di cinema come metodo ed offre la possibilità di imparare a “montare il proprio blob personale”, nella convinzione che creare storie è soprattutto un gesto conoscitivo. Non si tratta, è ovvio, unicamente di un apprendimento di tipo tecnologico, quanto, piuttosto di una acquisizione di consapevolezza narrativa e composizionale delle proprie trame cognitive ed emotive. “Fare” un blob è come imparare a scrivere di sé. E la cosa non è certo mossa semplice! Non consiste, infatti, nel mero gesto di lasciare tracce scritte e distribuite nel tempo degli istanti, ma di connettere i momenti secondo trame di senso. Un’ulteriore declinazione dell’uso che qui si propone dello strumento narrativo del blob consiste nel “blob conversazionale” o “negoziato”, che si struttura e prende corpo a partire dal confronto tra gli immaginari, i vissuti, le visioni e le previsioni narrative dei singoli partecipanti al gruppo di composizione. Intervenire e condizionare la narrazione altrui e permettere che l’altro operi allo stesso modo sono esercizi di educazione all’ascolto di sé e dell’altro.
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La metodologia di produzione di un blob negoziato prende avvio da teorie e pratiche proprie della ricognizione autobiografica e prevede un lavoro che prima di diventare di scambio deve essere soprattutto personale. La costruzione poi del senso complessivo della narrazione non risulta predeterminata, ma è l’esito dell’operatività conversazionale a partire dai materiali prodotti da ognuno.3 Lo strumento poi attraverso cui chi sta imparando narrativamente può costruire la trama del proprio apprendimento possiede la struttura di un blob cinematografico ma prevede anche la coabitazione di più linguaggi e discipline e permette a chi è chiamato a raccontare i modi attraverso cui ha imparato, di farlo in termini di trama e visibilità. In uno scenario in cui sempre più valgono capacità di diagnosi, di relazione, di problem solving, di decisione, di sense-making, di tutorship, di groupship, che rientrano in quella suggestiva geometria delle competenze trasversali e servono a traformare il sapere personale e professionale in comportamenti lavorativamente efficaci, la capacità di pre-visione sembra essere imprescindibile. Ma qualcosa inceppa questo meccanismo, quando accade un imprevisto. Non basta acquisire un alto grado di conoscenza: serve far emergere la rilevanza strategica di un sapere attraverso cui il patrimonio delle conoscenze esplicite e comunicabili deve attraversare la valorizzazione delle conoscenze tacite ed individuali. Quelle che sanno creare, proprio nello scambio e nel momento dialogico e narrativo, le loro potenzialità più generative. Saper raccontare implica la scelta e la fatica paziente (non solo di declinare le proprie competenze in modo “trasversale” rispetto alle richieste del momento) di dedicare attenzione alla qualità con cui le cose si manifestano. Tale riflessività, attraversando la narrazione, attraversa il cambiamento e la relazione, conosce il dubbio, la possibilità descrit3
Alcuni esempi di blob negoziato prodotti dal Gruppo di Ricerca sulle Trame Educative sono: “Cinema, potere e cura”, presentato al convegno: Donne e potere, Uomini e cura, 26 ottobre, 2009, Università degli Studi di Milano-Bicocca; “Video-Family”, presentato nella sezione I media, “grandi narratori” della famiglia contemporanea del convegno “S.O.S. Genitori. Gli spaesamenti della contemporaneità”, il 15 maggio 2012, Università degli Studi di Milano-Bicocca.
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tiva, interpretativa, ermeneutica delle proprie esperienze (di formazione). Il sapere, allora, non sarà più trasversale, ma prospettico. Sembrerebbe una più allettante … prospettiva. Lo sguardo potrà infatti spingersi oltre, etero-rivolgersi, e con ciò apprenderà a saper dare senso, intenzione, verso, significato, desiderio alla propria esperienza. Il racconto diviene così spazio, temporalità dilatata in cui saper avere uno sguardo prospettico permette di cogliere rapporti tra le cose che altrimenti non si sarebbero notati. Per sottolineare il senso prospettico di una narrazione che può assumere altre composizioni e variare così il proprio destino di senso, si è deciso di far risuonare la metodologia messa a punto per il montaggio di apprendimento entro un mito che molto ha a che fare con la trama ma che, se ci si pone in una nuova prospettiva, rivela visioni sorprendenti e disabituali. Il nome del programma di montaggio multimediale degli itinerari di apprendimento in tal senso concepito4 è infatti Penelope. Di Penelope sappiamo la pazienza, l’astuzia, l’arguzia, la fedeltà. Sappiamo del suo inganno, che le permise di sospendere il tempo, invertendo la pratica d’uso del significato di tramare. Se infatti pensiamo che ordire, tramare, escogitare, complottare sono gesti che si muovono nell’ombra e con il favore delle tenebre, vediamo come Penelope dis-tramava di notte quello che tramava e tesseva di giorno; ribaltava la cronologia abitando la sua personale narrazione del tempo. E ingannava gli assai stolti Proci che non avevano evidentemente molta contezza delle capacità muliebri della tessitura. Ma Penelope non è solo la donna dedita e la coraggiosa regina che tiene a bada i pretendenti durante la poderosa assenza del marito Ulisse - in guerra per dieci anni ed in viaggio da altri dieci – . Non è solo la donna che prima dubita (e non solo perché lui ha il temporaneo aspetto del mendicante) di aver ritrovato l’amato e poi lo accoglie felice.
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e ideato, prodotto e sviluppato attraverso un altro dialogo tra linguaggi differenti, grazie alla preziosa collaborazione del dott. A. Mangiatordi
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Penelope è anche il suo contrario. È anche una trama diversa. Ribaltata. O capovolta, come nelle parole di Ghiannis Ritsos: (1978) Non era possibile che non lo riconoscesse alla luce del focolare; non c’erano i panni logori del mendicante, il travestimento, no; segni certi: la cicatrice sul ginocchio, la forza, la furbizia nell’occhio. Terrorizzata, appoggiando la schiena al muro, cercava una giustificazione, ancora un intervallo di tempo di breve durata, per non rispondere, per non tradirsi. Per lui, dunque, aveva speso vent’anni, venti anni di attesa e di sogni, per quest’infelice, per questo vecchio grondante sangue? Si lasciò cadere su una sedia guardò lentamente i pretendenti morti sul pavimento, come se guardasse i suoi propri desideri morti. E: ”Bentornato”, gli disse, sentendo estranea, lontana la sua voce. Sulle ginocchia il telaio suo riempiva il soffitto di ombre a forma di grata; e quanti uccelli aveva tessuto con cuciture rosse lucenti su fogliame verde, all’improvviso, quella notte del ritorno, finirono in nera cenere volando basso nel cielo piatto dell’estrema sofferenza.
Penelope aspettava un Ulisse partito bello e giovane ed ora ha di fronte un uomo invecchiato e macchiato di sangue. Chi è l’uomo che desiderava Penelope? Per anni aveva esercitato l’arte e l’astuzia di non scegliere uno tra i Proci, ora la sua scelta è obbligata e le sue parole sono estranee al suo ammutolito silenzio. La fantasia finisce con i Proci morti a terra, come desideri e con il ritorno del marito. Quel che finisce con il ritorno di Ulisse è il senso di poter progettare un altro tipo di narrazione (una narrazione diversa dalla realtà dell’assedio dei Proci e dall’assenza del marito). Non sono finite le illusioni. È finito il gesto lento, sognante, poetico, geniale, complicato e prolungato di poterle intrecciare e costruire, così, una storia diversa.
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VII. IL SILENZIO. PER UN’ALTRA FORMA DI DIALOGO
1. Sguardo e silenzio come desiderio in attesa L’attenzione narrativa allo sguardo che sa porsi sulla soglia e guardare, partecipando, al farsi del cambiamento corrisponde ad una pratica non certo semplice. Ci vuole pazienza, tregua e capacità di dialogo. Per poter ben dialogare, è necessario imparare il turno del silenzio. La retorica del silenzio mostra fortissimi nessi pedagogici con l’apprendimento, a partire da Quintiliano fino a Barthes, che mettono in relazione il mostrare ed il tacere, il nascondere ed il dire. Solo in silenzio si possono cogliere le trasformazioni. Ma per meglio capire cosa si intende con la proposta inattuale del silenzio, in un contesto in cui i media (o, meglio, il loro uso e abuso) ci portano a credere che chi non comunica non esiste, avremo bisogno di conversazioni con altri linguaggi. Anche in questo caso è la composizione che dà il quadro di una narrazione e il rapporto tra sguardo e silenzio possiede legami preziosi e precari con l’invisibile, con quel che una volta viso o detto è già altro. Si sceglierà, quindi, la via delle immagini e del testo per raccontare questa delicata relazione. Il primo elemento di questa narrazione è, appunto, di tipo visivo e chiede di essere ascoltato. L’altro è narrato e chiede di essere immaginato. Il primo è un’opera pittorica. Il secondo una città raccontata, invisibile, ma che sfida la visibilità divenendo desiderio e rappresentazione. Il primo ha per titolo “Alcuni cerchi” ed è un dipinto di Kandinsky, del 1926 e parla di cerchi e silenzi.
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V. Kandinsky, Alcuni cerchi, 1926
Vediamo, su una tela di grandezza 140 per 140 numerosi cerchi multicolori che si muovono su uno sfondo nero che, nel pensiero dell’autore, è “l’eterno silenzio che risuona dentro di noi”. L’immagine, se la si contempli con lentezza, mostra quel buio suggerendo l’apparenza di pianeti che si stagliano sul piano scuro. In particolare, c’è un grande cerchio blu all’interno del quale un alone bianco evoca un’eclissi lunare. Per Kandinsky il cerchio stabilisce un importante legame con il cosmico: è una forma che, “seppur modesta, sa affermarsi con prepotenza, è precisa ma variabile, è stabile e allo stesso tempo instabile, è silenziosa e contemporaneamente sonora, è una tensione che porta in sé infinite tensioni”. (Kandinsky, 1974) I cerchi del quadro si muovono, con dimensioni e colori diversi, in uno spazio di silenzio. Continuare ad osservarli permette secondo l’autore di trovare maggiori possibilità interiori. Vassily Kandinsky scrive, in “Punto, linea, superficie” alcuni tratti del punto geometrico. Lo definisce un’entità immateriale. Possiamo rappresentarlo come uno zero. È il segno della massima concisione e corrisponde all’estremo riserbo che, però, parla. È l’unico legame tra il silenzio e la parola. Il punto incontra la sua forma materica nella scrittura, perché, prendendone il linguaggio, esprime il silenzio.
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Il punto, in una frase, è il ponte tra un esistere che vive in una frase e l’esistere che vivrà nella frase successiva. Il punto ha quindi un suo significato ben preciso, nei confini della scrittura. Sin da piccoli si impara il suo valore simbolico, anche se il suo suono non ha voce. Richiede, però, di essere ascoltato. Quanta forza, verrebbe da dire! E che potere ha, per esempio, il punto e a capo. Ma il punto è, in pittura, un elemento originario. Una linea è la traccia di un punto che si muove. Dal punto passano infinite rette. Pensiamo alla linea che disegna il cerchio, o meglio, la sua circonferenza, come ad un insieme di punti. I punti di un cerchio agiscono sempre con forze uniformi. Inoltre Kandinsky ci dice che il cerchio non conosce la violenza dell’angolo. Esiste poi un altro punto, nel cerchio: il suo punto centrale: quel punto è in quiete e non è solo, ma è in relazione con tuti i punti alla stessa distanza. Abbandoniamo ora, per un po’, Kandinsky e leggiamo di Fedora, una città invisibile di Calvino: Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello d’un’altra Fedora . Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo. In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro. Fedora ha adesso nel palazzo delle sfere il suo museo: ogni abitante lo visita, sceglie la città che corrisponde ai suoi desideri, la contempla immaginando di specchiarsi nella peschiera delle meduse che doveva raccogliere le acque del canale (se non fosse stato prosciugato), di percorrere dall’alto del baldacchino il viale riservato agli elefanti (ora banditi dalla città), di scivolare lungo la spirale del minareto a chiocciola (che non trova più la base su cui sorgere). Nella mappa del tuo impero, o grande Kan, devono trovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccole Fedore nelle sfere di vetro. Non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo pre-
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sunte. L’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più. (Calvino, 2002, 31-32.)
In questa città troviamo i temi del tempo, del mutamento, del desiderio, incontriamo il paradosso di Zenone, non in una corsa di velocità ma in una competizione con i sogni o con i desideri. I desideri, come gesti visionari, immaginativi, li abbiamo visti anche nella tela di Penelope. Ma il desiderio, con il suo de- che priva la visione di sidera, di stelle, crea un distacco dal poter esperire direttamente gli astri, oppure quel de è voce intensiva, che ci suggerisce di desiderare guardando intensamente. O ancor di più: entrare in relazione di sguardo, con-siderare. E se il de non ci privasse delle stelle ma del gesto di guardarle (non de-sidera, ma de-siderare, dunque)? Dovremmo smettere di contemplarle? Fedora muove a desideri: è eterna ricerca, ideale che guida e che muove, che viene sfiorato e mai afferrato. Il progetto per migliorarla cede sempre il passo alla città che cambia e che è già mutata. Ogni progetto successivo riparte da variazioni e diviene una miniatura, una rappresentazione artistica. Il desiderio è speranza e sogno, linea lunga. Il piacere è un momento, un punto. Il desiderio è inesauribile: è forza di tensione e distanza da ciò che si desidera. In questa tensione arrivano le immagini. Arrivano le stelle. Se essere senza stelle è anche non avere possibilità di orientamento (pensiamo ai navigatori del passato), la ricerca è di punti di riferimento, figure, immagini, forme. E Hillmann ci insegna che le immagini, mentre appagano il desiderio, fanno anche bene all’anima. Ma se pensiamo a Fedora dopo aver avuto negli occhi le sfere di silenzio di Kandinsky e le miniature delle possibilità di città, emerge un legame profondo e pregnante tra il silenzio di ciò che non è ancora avvenuto e il movimento che potrebbe mettere in moto il passaggio dall’invisibile al visibile.
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Kandinsky disegna questo passaggio cogliendo i momenti in cui il punto si trasforma in suono ed il silenzio produce parola. E con la parola colore. Calvino racconta e disegna la rincorsa e la collezione della città progettata che non sta mai in situazione di quiete rispetto al presente. Ma, si dice, il territorio del Kan deve racchiudere tute le Fedore, perché queste nella loro reciproca interdipendenza, descrivono il possibile, il non più e il non ancora. Sono stabili e allo stesso tempo instabili, portano tensione tra il prima, il dopo, il durante di ogni possibilità. Il desiderio non coincide infatti con l’ottenimento dell’oggetto desiderato, ma con l’azione, il gesto di passare da un momentoprima-senza ad un eventuale dopo –con-. Il desiderio trattiene e contiene e chiude in sé la pensabilità. È passaggio da silenzio a poter parlare. Da invisibile a visibile. Foucault squarcia, con la delicatezza della semplicità, il campo del ragionamento, suggerendoci una domanda: “il desiderio non è forse ciò che rimane impensato nell’intimo del pensiero?” Prima, cioè, di rompere il silenzio. E rompere il silenzio è azione di passaggio, di transito; è, comunque, gesto. Ed è relazione tra un prima e un dopo. Ogni misura di soglia è gesto che ci sporge sul rischio, sulla possibilità. È, quindi, responsabilità (che tanto, e non solo etimologicamente, richiama la pensabilità). Questo passaggio è stato nel tempo oggetto di educazione vigile, vissuto, come gli è proprio, in quanto gesto creativo, di transito. Esiste una retorica, una sapienza e quindi una pedagogia del silenzio. Da due anni è nata, in Italia, l’Accademia del Silenzio1, che si propone di riflettere ed educare alle diverse dimensioni di questo tema. Formare al silenzio non significa invitare al mutismo, ma, per esempio insegna a cogliere dai pitagorici il valore del contenimento delle parole, dagli antichi Spartani l’attenzione alla frase breve e 1
da un’idea di D. Demetrio e N. Polla-Mattiot, direzione scientifica di Emanuela Mancino. Tutti i riferimenti, le informazioni, la poetica e le attività di Accademia possono essere consultati, ed è possibile aderire alle iniziative proposte, su www.lua.it/accademiadelsilenzio
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puntuale, detta al momento giusto, ricordando che anticamente, quando parlava uno Spartano, parlava un Lacedemone, quindi un laconico, che nella misura e nelle sue soglie-certo pedagogicamente eccessive- aveva trovato un’auto-educazione. Il silenzio è anche la forma dello stupore, del non aver parole, del non saper cosa dire di fronte al sublime, alla bellezza o all’orrore estetico ed emotivo. Apprendere dal silenzio è comprendere che il silenzio, per esistere, ha bisogno di sconfinare, così come il pensiero ha bisogno di farci sporgere, per confrontarci con la dimensione del passaggio, della soglia. Ma sconfinare senza sapere di farlo non dà soddisfazione. Si conoscerà poco di sé e del posto in cui abbiamo sconfinato se non ci saremo accorti del passaggio. La proposta educativa che qui si concilia con il silenzio propone un apprendimento dell’attesa, per imparare a stare con l’indicibile, ricordando quello che afferma Maria Zambrano, ovvero che “perché si produca l’aurora, lo sguardo e il visibile si aprono all’unisono”. (Zambrano, 2004) La Zambrano usa un termine musicale, fonico, di legame con il silenzio. Lo sguardo che apprende a dischiudersi è lo sguardo dell’attività teoretica, è lo sguardo che conosce infinite declinazioni (si guarda, si scorge, si osserva, si contempla, si esamina, si medita, si è spettatori, si fissa, si spia, si spera, si evita, ci si guarda da, ci si impegna, si vede di fare, si vagheggia, si conserva, si trattiene, si scrive, si partecipa…). (Mancino, 2009) Assistere a qualcosa è più del semplice trovarsi presenti insieme a qualcosa. Assistere, nelle parole di Gadamer, è partecipare. E partecipare ad una visione è esperienza attiva. È un’esperienza che, come abbiamo visto, si svolge nel suo linguaggio che è, per Ricoeur, l’eventualità che il soggetto raccolga il mondo insieme alla possibilità, per il mondo, di farsi esperienza linguistica.
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2. Per una pedagogia della delicatezza Il linguaggio è, quindi, ancora una volta, itineranza di senso. È il rallentatore di cui si serve la narrazione per enumerare le possibilità di tali sensi. È l’assunzione del silenzio come misura di uno sguardo riverente che ci consente anche il gesto del pudore, una sorta di freno alla ricezione maniacale che il grande fragore semiotico dei media ci impone. Per educare lo sguardo alla soglia, l’atteggiamento di delicatezza è quello che ci consente di esperire la grazia precaria, l’indicibilità di ciò che già muta in altro. Ci aiuta Barthes, educandoci al senso ottuso, che allarga lo sguardo con gradi maggiori di 90, ci aiuta la scrittura che educa lo sguardo a divenire poroso, a notare i passaggi tra interno ed esterno, mostrandoci che ogni parola, disegno o immagine dicono anche il loro prima, il loro buio, il loro precedente silenzio. Segnando l’istante in cui il silenzio si tradisce e si confessa in parola, la scrittura mostra la sua notevole ospitalità e la sua duttilità nell’essere fedeltà prestata alla trasformazione. Visivamente lo si vede in una fotografia. Lo si può apprendere con il cinema. Ma ce lo insegna soprattutto la poesia, che non occupa tutto il foglio, ma va a capo. Prende fiato e fa silenzio. Come ci suggerisce Merleau – Ponty: Non altrimenti si comporta la parola veramente espressiva, e quindi ogni linguaggio nell’atto di stabilirsi. Essa non cerca soltanto un segno per una significazione già definita, come si va a cercare un martello per piantare un chiodo o una tenaglia per estrarlo. La parola va a tastoni intorno a un’intenzione di significare che non si regola su un testo e che appunto lo sta scrivendo. Se vogliamo renderle giustizia, dobbiamo immaginare alcune di quelle che avrebbero potuto essere al suo posto, e che sono state respinte, sentire come avrebbero diversamente toccato e scosso la catena del linguaggio, fino a che punto questa parola era la sola possibile affinchè una data significazione venisse al mondo…infine dobbiamo considerare la parola prima che sia pronunziata, considerare lo sfondo di silenzio che continuamente la circonda, senza il quale essa non direbbe niente o anche mettere a nudo i fili di silenzio di cui è inframmezzata. (…) se vogliamo comprendere il linguaggio nella sua operazione originaria dobbiamo immaginare di non aver mai parlato, sottometterlo a una
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riduzione senza la quale ci sfuggirebbe ancora riportandoci a ciò che esso significa, guardarlo come i sordi guardano coloro che parlano, confrontare l’arte del linguaggio con le altre arti dell’espressione, tentare di vederlo come una di queste arti mute (Merleau-Ponty, 2003, 71, 72)
Del resto non possiamo risolvere il reale de-scrivendolo. Lo possiamo comprendere nella sua prassi affettiva, nel suo transitare soggettivo attraverso confini. Imparare a guardare ascoltando è quindi esercizio di attesa, di contemplazione, di complicità del passaggio dall’invisibile al visibile. Cinema e scrittura agevolano più di altri strumenti questo transito narrativo che non è rappresentato da una luce folgorante, ma da una pacata attesa entro la quale Heidegger trova una radura luminosa e M. Zambrano incontra i chiari del bosco. Lo sguardo in ascolto è sguardo in silenzio. È sguardo vicino alle cose ed è grazia che le tocca. È gesto in-fante che però poi produce relazione, movimento. Quando non c’è movimento e medialità allora il silenzio è presenza e lo sguardo no. È remoto, come se venisse da lontano, come se scendesse da altezze di solitudine. Imparare dal silenzio a guardare significa spostarci dall’equivalenza tra vedere e pensare. Merleau-Ponty suggeriva di provare a isolare le parole nel silenzio. Ci potremmo accorgere, come suggerisce Fachinelli, che i suoni, scollegati dal loro aggancio visivo, hanno più spazio. L’affermazione sembrerebbe paradossale. Con lo sguardo si vede, non si sente. Ma lo sguardo si amplifica se forziamo l’impianto del vedere. Se quindi ascoltiamo a partire dal punto di vista del silenzio, come suggerisce Rovatti (Rovatti, 1992), potremmo vedere altrimenti. Un altrimenti che è sempre aperto, possibile, dialogico (imperfetto, per Volli) (Volli, 1991). È un’ipotesi al congiuntivo, che è modo verbale denso di grandi legami. Provocatoriamente l’invito di questa proposta pedagogica è quello di imparare a custodire un punto cieco, in cui abiti il rapporto tra la parola e il silenzio, tra il pensare e il poetare. E che questo punto cieco sia traccia e rischiaramento.
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Perché lo sguardo che ascolta in silenzio è rispetto per qualcosa che reclama il suo posto ancora nell’anima prima che nel mondo. È un istante, di grazia precaria, di massima con-centrazione, in cui tutto può divenire ed essere visto, detto, mostrato. Allora il battito della palpebra interrompe la visione del mondo, per Merleau-Ponty e apprendere il silenzio che ha preso materia nella poesia e nello sguardo assume tutta la delicatezza della circonferenza, che tocca il silenzio intorno e ne fa attesa, ma anche cornice e senso. Sarà per questo che nel silenzio ci concentriamo di più. Perché ci raccogliamo in un solo punto. Quel punto lì. Particolare. Invisibile. Indicibile. È attraverso un delicato apprendistato dello sguardo, del silenzio e della narrazione, quindi, che possiamo recuperare, in una prospettiva ora più densa, quel che significa e può significare quel generico, ma magistrale “tradunt”. Ci hanno insegnato a tradurlo nell’impersonale “si narra”. Quel “si narra”, come si è visto, diviene continuamente, nel suo passaggio in forma, un “si tradisce”, perché non vuol dire solo tramandare, ma tradurre. E da una lingua all’altra, da un silenzio ad una parola, trova posto quella dimensione di soglia e di attraversamento che fa sì che qualcosa debba essere varcato e tradito, perché accada di imparare. Bibliografia Antonacci, F., Puer Ludens. Antimanuale per poeti, funamboli e guerrieri, Angeli, Milano, 2012. Bachtin, M., L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umana, Mosca 1979, trad. it. Einaudi, Torino 1988. Bachtin,M., The Dialogic Imagination: Four Essays, ed. by Michael Holquist, transl. by Caryl Emerson and Michael Holquist, Austin University of Texas Press, 1981. Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino, 2001 Barthes, R., Il Piacere del testo, in Variazioni sulla scrittura, Einaudi, 1999, Torino Benjamin, W., Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, Einaudi, Torino, 2011 Benjamin, W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 2000.
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BIBLIOGRAFIA RAGIONATA
PARTE PRIMA
- Adinolfi M., Feyles M., (a cura di), Memoria, immaginazione e tecnica, NEU, Roma, 2010 I curatori raccolgono un insieme interessante di scritti relativi al tema della memoria, della narrazione e della costruzione dell’identità con riferimento anche alla filosofia di Husserl. Viene affrontato anche il tema della memoria e della narrazione nella società del terzo millennio, quotidianamente a contatto con un certo tipo di tecnica. - Bellatalla L., Marescotti E., Il piacere di narrare, il piacere di educare. Per una pedagogia della narratività, Aracne, Roma, 2005 L’ipotesi intorno alla quale ruota l’intero testo sta nell’idea che la categoria della narratività sia una categoria fondante (accanto ad altre)l’educazione. Il tentativo delle autrici è quello di chiarire come e perché non può esserci educazione senza narratività e, viceversa, narratività senza educazione. - Bruner J., La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003 Bruner propone una «psicologia culturale», di cui è elemento essenziale la circolarità del pensiero narrativo, contrapposto al pensiero «scientifico». L’autore propone l’idea che oggi lo psicologo debba avventurarsi al di là degli obiettivi tradizionali della scienza, alla ricerca non delle cause ma dei significati dei nostri pensieri.
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- Cavarero A., Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano, 1997 Attraverso gli esempi di poeti e figure letterarie l’autrice cerca di dare testimonianza delle varie forme in cui un individuo riceve da una narrazione un proprio ritratto. Attraverso riferimenti a Hannah Arendt, Karen Blixen, Edipo, Borges, Ulisse, Rilke, Euridice, Sheherazade si indagano i modi filosofici e narrativi della rappresentazione identitaria dell’essere umano. - Damasio A. R., Il sé viene dalla mente. La costruzione del cervello cosciente, Adelphi, Milano, 2012 L’autore, neuroscienziato, condensa nel testo alcune nuove direzioni della ricerca delle neuro-scienze intorno al tema della coscienza; viene trattata l’incidenza delle emozioni e dei sentimenti primordiali (piacere e dolore) nel passaggio tra proto-sé e sé, nonché il ruolo della memoria e della narrazione nella costruzione dell’identità individuale. - Demetrio D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano, 1996 Il testo ripercorre il percorso stilistico e psicologico che intraprende chi scrive della propria vita; spiega inoltre perché raccontarsi in prima persona possa essere un’esperienza che cura, un’avventura dai molti significati. Si rivolge, dunque, a chi intende intraprendere l’avventura del ripercorre re e del raccontare la propria esperienza di vita, ribadendo l’invito a non perdere l’occasione per fare ciò. - Demetrio D., Scritture erranti. Dall’autobiografia all’autoanalisi, EdUp, Roma, 2003 Il testo è un tentativo di esplorare, nella prospettiva offertaci da Duccio Demetrio, l’esperienza della scrittura di sé nelle sue sfaccettature, nei suoi paradossi. La scrittura autobiografica ‘cristallizza’ il fluire della vita ma, al tempo stesso, lo rimette in moto sollecitandone la dimensione dinamica e trasformativa. Scrivere di sé è anche discesa nel ricordo, nella nostra interiorità, ma è altresì incontro con gli altri: una scrittura ‘errante’ in un viaggio mai pago di conoscenza tra sé e il mondo.
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- Demetrio D., Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione, Raffaello Cortina, Milano, 2011 L’autore accosta la passione per lo scrivere ad alcuni tratti dei miti presenti nella tradizione mitologica greca. In questo modo ci permette di ri-accostare la pratica della scrittura alle origini mitologiche e alle forze creative e narrative presenti all’interno dei numerosi miti della mitologia classica citati nel testo. - Di Fraia G., Storie con-fuse: pensiero narrativo, sociologia e media, Franco Angeli, Milano, 2004 L’autore prende dapprima in esame il pensiero narrativo in una prospettiva individuale e intra-psichica, per poi esaminare la dimensione narrativa dell’azione e della conoscenza sociale e giungere infine a riflettere sui media come principali narratori e costruttori di rappresentazioni socionarrative della realtà. - Ferrari S., Lo specchio dell’io. Autoritratto e psicologia, Laterza, RomaBari, 2002 Il testo mostra come l’autoritratto e le immagini possano rivelarsi mezzi di autoanalisi, che permettono al pensiero di rileggersi attraverso le figure. In questo senso, quindi, un’immagine, così come una scrittura di sé, pone il soggetto non solo in relazione alla propria immagine (esterna), ma anche alla propria identità (interiore). - Ferri P., La rivoluzione digitale. Comunità, individuo e testo nell’era di Internet, Mimesis, Milano, 2001 La rivoluzione digitale sta trasformando la nostra vita quotidiana e alcuni dei concetti fondanti della tradizione culturale. Termini quali comunità, individuo e testo stanno assumendo, nell’epoca di Internet, un nuovo significato. Il libro cerca di delineare alcune chiavi di lettura per comprendere la peculiare metamorfosi che le nostre categorie concettuali subiscono quando vengono trasposte nel mondo dei bit, al fine di poter meglio analizzare la complessità del presente.
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- Gardner H., Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento, (traduzione di Loiacono G.), Centro Studi Erickson, Trento, 2005 Howard Gardner è famoso per la sua teoria delle intelligenze multiple, una critica serrata alla tesi secondo la quale gli uomini possiedono una sola intelligenza, misurabile con strumenti psicometrici standard. In questo volume sono raccolti alcuni dei saggi più significativi scritti da Gardner sull’intelligenza multipla e sui modelli di insegnamento mirati al potenziamento dei diversi tipi di intelligenza. - Madera R., Tarca L. V., La filosofia come pratica di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, Bruno Mondadori, Milano, 2003 Il testo presenta la filosofia come disciplina che, fin dalle origini, si configura come ricerca di saggezza che nasce da un certo “modus vivendi” trasmesso attraverso “esercizi spirituali”. Vengono trattate le ragioni che rendono oggi necessaria una riproposizione delle pratiche filosofiche intese come indissolubile unità di teoria e biografia. - Martin H. J., Storia e potere della scrittura, Laterza, Roma-Bari, 2009 L’autore ripercorre la storia della scrittura spaziando dalle sue origini a tutto il secolo scorso. Il volume passa in rassegna le cause storiche che hanno a lungo favorito la trasmissione orale a quella scritta, relegata al lavoro dei copisti fino al 1500, quando in Germania si apre la stagione della stampa tipografica. - Ong W. J., Oralità e scrittura, Il Mulino, Bologna, 1986 Il saggio di Ong ripercorre la storia del cammino dell’umanità nell’evoluzione dall’oralità alla completa interiorizzazione della scrittura, analizzando i cambiamenti sociali e culturali che questa ha determinato. Analizza le obiezioni mosse alla scrittura da Platone, paragonandole a quelle che vengono oggi formulate nei confronti delle nuove tecnologie.
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- Sini C., Filosofia e scrittura, Laterza, Roma-Bari, 1994 L’autore si chiede cosa sia la pratica filosofica e in cosa essa consista. Si interroga poi su che ruolo abbiano in essa le parole e la scrittura. Il dialogo e le comunicazioni orali sono lo strumento sovrano della filosofia: si affronta quindi come nella disciplina filosofica si inizi a scrivere senza tradire il “dire” originario “congelandolo” nella tecnica proposta dallo strumento della scrittura. - Smorti A., Il pensiero narrativo. Costruzione di storie e sviluppo della conoscenza sociale, Giunti, Firenze, 1994 Oltre al pensiero logico-matematico, per la comprensione degli eventi sociali l’uomo si avvale del pensiero narrativo, fondato sulla costruzione di storie, con particolari procedure per costruire modelli interpretativi sulla realtà. In questo senso il testo presenta un’idea di pensiero inteso come racconto. PARTE SECONDA - Biffi E. (a cura di), Educatori di storie. L’intervento educativo fra narrazione, storia di vita e autobiografia, Franco Angeli, Milano, 2010 L’intervento educativo avviene in una rete costruita da storie differenti: quelle degli operatori, degli utenti, dei servizi, delle famiglie…Il testo è rivolto a educatori, insegnati, operatori dell’area socio-educativa con l’obiettivo di indagare i significati sottesi al ruolo di tutte queste storie che, a volte inconsapevolmente, dirigono l’agire educativo quotidiano. I contributi raccolti documentano la potenzialità della metodologia autobiografica in diversi ambiti del lavoro educativo. - Biffi E., Scritture adolescenti. Esperienze di scrittura nella scuola secondaria, Erickson, Trento, 2010. L’autrice, attraverso esperienze di ricerca condotte in scuole superiori, tenta di indagare le scritture che i ragazzi producono. Queste scritture paiono essere «altro» rispetto a quanto alimentato nell’ambito scolastico e sono ancora in via di maturazione rispetto a una loro rielaborazione critica.Una scrittura, dunque, che vive la sua adolescenza, intesa come
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metafora dell’essere territorio permanente di ricerca ed esplorazione di sé. - Cambi F., L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, Roma-Bari, 2002 Il volume rilegge l’autobiografia come metodo formativo attraverso alcuni excursus che vanno dalla teorizzazione attuale sull’autobiografia alle testimonianze letterarie, all’identità narrativa del soggetto contemporaneo, allo sviluppo dei corollari pedagogici dell’autobiografia, in vista di una analisi teorica più complessa di questo nuovo modello culturale e formativo. - Catarsi E., (a cura di), Lettura e narrazione nell’asilo nido, Edizioni Junior, Azzano San Paolo (Bg), 2001 Il testo ribadisce quanto la lettura ed il racconto di storie a bambini che ancora non possiedono la strumentalità del leggere costituisca una pratica educativa di grande rilevanza, viste le molte potenzialità che racchiude. Tale esperienza, infatti, si configura come uno stimolo significativo ai fini dello svilupparsi del linguaggio, della rappresentazione simbolica, della capacità narrativa e della stessa motivazione alla lettura. - Cocever E., Chiantera A., Scrivere l’esperienza in educazione, Clueb, Bologna, 1996 Tra il “fare esperienza”e l’ “avere esperienza” c’è un passaggio che richiede un accompagnamento. La messa in pensiero e in parole di quanto si è vissuto non è una pratica immediata. La scrittura pensata e praticata nei modi descritti in questo libro è strumento di elaborazione teso a far sì che l’esperienza quotidiana degli educatori sia una reale risorsa operativa per gli utenti e gli operatori dei servizi e per quanti si curano dell’elaborazione scientifica dell’educazione. - De Masi S., Maggio M., (a cura di), Pratiche di scrittura nella scuola superiore, Franco Angeli, Milano, 2008. Partendo da un’indagine condotta nella scuola secondaria superiore, i
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curatori propongono una serie di scritti che stimolano la riflessione sulle forme di scrittura praticate nell’insegnamento dell’italiano e di altre discipline della scuola superiore, sui metodi impiegati per insegnare a scrivere e sulle competenze degli studenti. - Demetrio D., Ricordare a scuola. Fare memoria e didattica autobiografica, Laterza, Roma-Bari, 2003 L’autore offre in questo testo una guida teorica e una proposta metodologico-didattica legata alla pratica quotidiana affinché nella scuola si prenda in considerazione la valorizzazione del ruolo della memoria, della narrazione di sé come occasione per lo sviluppo cognitivo, apprendendo dai ricordi in modo creativo e formativo. - Demetrio D., Biffi E., (a cura di), Per una pedagogia e una didattica della scrittura, Unicopli, Milano, 2007 Il testo propone una ricchissima raccolta di scritti di differenti autori che presentano punti di vista e filosofie diverse relativamente alla scrittura di sé proposta e vissuta in svariati contesti: questa selezione vuole essere una raccolta dei contributi che, insieme, possano iniziare a delineare una proposta per una pedagogia e una didattica della scrittura. - Formenti L., Gamelli I., Quella volta che ho imparato. La conoscenza di sé nei luoghi dell’educazione, Raffaello Cortina, Milano, 1998 Il testo propone percorsi e strumenti concreti, attraverso la memoria e l’esperienza, i linguaggi del pensiero e delle emozioni, in uno stile formativo teso a offrire spunti e suggestioni per rendere operative le suggestioni della metodologia autobiografica in ambienti educativi in cui operano insegnanti ed educatori. - Laneve C., Parole per educare, La Scuola, Brescia, 1994 L’autore affronta temi che riguardano il senso dell’attività linguistica e narrativa della persona umana e attinenti a tematiche attuali, quali l’identità linguistica, l’interculturalità. L’intento è quello di offrire un contributo al riavvaloramento del rapporto tra essere uomo e la parola.
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- Lazzarini C. (a cura di), Dare nomi alle nuvole. Un modello di ricerca autobiografica sull’adolescenza, Guerini e Associati, Milano, 1999 Viene raccontato un progetto sviluppato a Cremona che ha per protagonisti gli adolescenti, intervistati e intervistatori. Si scopre un mondo giovanile ricco di desideri, aspirazioni, consapevolezze, tramite le interviste e i “diari segreti”, le sperimentazioni di narrazioni autobiografiche. - Mantegazza R., Un tempo per narrare. Esperienze di narrazione a scuola e fuori, EMI, Bologna, 1999 Il testo, rivolto innanzitutto agli insegnanti di scuola, ma non solo, propone diverse attività, costruite intorno ad alcuni temi di perenne attualità. La narrazione è proposta come ascolto reciproco tra soggetti narranti. Vengono presentate strategie di pedagogia narrativa ideate attorno a temi quali: narrazione e identità, alterità radicale, l’incontro con l’altro, le storie del passato, l’identità futura. - Mattia L., A scuola di narrazione. Come e perché scrivere con i bambini, Edizioni Sonda, Casale Monferrato, 2011 Il testo affronta le diverse forme di narrazione, dalla narrazione collettiva a quella popolare, al teatro, al romanzo. A partire dalla necessità di raccontare, innata in tutti i bambini, vengono affrontati il ruolo fondamentale del docente, gli intrecci e la costruzione narrativa, alla scoperta dell’alfabeto narrativo. La seconda parte propone numerose attività che i bambini possono svolgere in classe per stimolare la loro voglia di narrare: dal diario, ai teatrini e alle filastrocche in rima. - Moroni I., Bambini e adulti si raccontano. Formazione e ricerca autobiografica a scuola, Franco Angeli, Milano, 2003 L’autrice presenta un’esperienza triennale di formazione e ricerca condotta con insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria. Intento dell’esperienza è quello di promuovere la memoria personale, la narrazione, l’ascolto delle storie di vita, la conoscenza di sé e dell’altro attraverso attività di scrittura, di racconto orale, di disegno.
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- Mortari L., Ricercare e riflettere: la formazione del docente professionista, Carocci, Roma, 2009 Il testo presenta una proposta di formazione del docente inteso come ricercatore-pratico, capace di costruire sapere a partire dalla riflessione sull’esperienza. Vengono individuati temi e modi di formazione che sappiano promuovere l’acquisizione di metodi di ricerca applicabili al mondo dell’educazione e contesti di apprendimento finalizzati allo sviluppo della pratica riflessiva. PARTE TERZA - Amione F., Chicco L., Poropat M. T., Narrazione e ascolto. L’autobiografia come strategia di intervento nella relazione di aiuto, Roma, Carocci, 2003 Il volume propone, dopo un’esauriente analisi dei presupposti teorici dell’approccio autobiografico, un cammino metodologico che permetta di analizzare la struttura del processo narrativo autobiografico e di utilizzare i principali strumenti a disposizione del professionista, con lo scopo di fornire un modello operativo spendibile in ambiti di intervento complessi sia sotto il profilo esistenziale sia dal punto di vista organizzativo e gestionale. - Bert G., Quadrino S., Parole di medici, parole di pazienti, Il Pensiero Scientifico, Roma, 2002 All’interno di una relazione, l’identità di coloro che interagiscono è definita da una narrazione: ognuno si racconta a se stesso e agli altri in un determinato modo. Così il paziente si racconta al medico, e questa narrazione è presentata come la descrizione completa di colui che racconta. La malattia spesso tende a bloccare il paziente in un’unica immutabile narrazione . Il compito del counsellor è quello di aiutare il paziente a esplorare altre e diverse narrazioni di sè. - Bucciarelli E., Io sono quello che scrivo. La scrittura come atto terapeutico, Calderoni, Bologna, 1998 Partendo dall’esperienza diretta nella conduzione decennale di labora-
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tori di scrittura viene realizzato questo insolito manuale per dimostrare che la scrittura appartiene a tutti, che tutti possono essere in grado di esprimersi per suo tramite e che, soprattutto, in ogni scritto c’è un frammento del suo autore, il quale si rivela così a se stesso e agli altri. - Castiglioni M., Fenomenologia e scrittura di sé, Guerini, Milano, 2008 Il testo muove dall’ipotesi di una possibile rilettura introspettiva della proposta pedagogica di matrice fenomenologica e si avvicina a questioni quali la considerazione della spinta a un progetto auto- formativo di crescita introspettiva in età adulta, le scelte procedurali intorno a cui si organizza la progettualità autoformativa della scrittura di sé in età adulta. - Cima R., Moreni L., Soldati M. G., Dentro le storie. Educazione e cura con le storie di vita, Franco Angeli, Milano, 1999 Narrare la propria storia, ascoltare, scrivere è ricostruire la trama tra memoria, esperienza e identità, aspetti che ritornano continuamente nel lavoro educativo, formativo, di cura. Nel testo emerge come formarsi all’ascolto della storia, propria ed altrui, significhi apprendere una pratica di lavoro che facilita l’incontro tra “persone”, non solo come operatori ed utenti. - Colmegna Don V., Guida M. G., Ferrari A., Sampietro C. (a cura di), Etica della cura. Riflessioni e testimonianze su nuove prospettive di relazione, Il Saggiatore, Milano, 2010 Oggi parlare di cura significa anche assumersi la responsabilità di elaborare un moderno sistema di welfare che coniughi universalismo e persona, integrazione, cittadinanza, coesione sociale. Le proposte concrete non possono che partire da un confronto diretto tra le istituzioni, i saperi specialistici e le esperienze professionali che ogni giorno sono impegnate nelle pratiche di cura. Il volume testimonia questa elaborazione corale, avviata al servizio di un bene comune condiviso.
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- Demetrio D., L’educatore auto(bio)grafo. Il metodo delle storie di vita nelle relazioni di aiuto, Unicopli, Milano, 1999 La narrazione di sé e la scrittura dell’autobiografia costituiscono un approccio educativo sostanziale ed efficace all’interno dei contesti dove si presenta l’esigenza di instaurare relazioni d’aiuto tramite il racconto o la scrittura della personale storia di vita. Gli educatori auto(bio)grafi applicano tale metodologia comunicativa soprattutto all’interno dei luoghi adibiti all’educazione o alla cura - Demetrio D., Donini E., Mapelli B., Natoli S., Piazza M., Segre A., Il libro della cura, di sé, degli altri, del mondo, Rosenberg & Sellier, Torino, 1999 Gli autori suggeriscono, con i loro scritti contenuti nel volume, alcuni percorsi, volutamente differenti, che hanno come filo conduttore il loro snodarsi e articolarsi intorno alla parola, alla cultura e alle pratiche di cura, in modo da analizzare tale concetto in ambiti differenti e secondo molteplici punti di vista. - Demetrio D., La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali. Raffaello Cortina, Milano, 2007 Il termine “clinica” utilizzato nel titolo sta a significare l’atteggiamento mentale del prendersi cura di sé e non la cura come risultato o processo di un trattamento psicoterapeutico. Il testo presenta la funzione terapeutica della scrittura autobiografica, in quanto essa incoraggia a prendersi cura di sé, rappresenta una forma di auto aiuto, una ricerca di senso. - Formenti L., (a cura di), Attraversare la cura. Relazioni, contesti e pratiche della scrittura di sé, Erickson, Trento, 2009 La curatrice raccoglie in questo volume racconti di esperienze che ci permettono di meglio comprendere il rapporto che è possibile creare tra narrazione, scrittura autobiografica e diversi contesti e luoghi connotati dalla cura, in cui tale relazione è stata vissuta con molteplici e differenti modalità pratiche.
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- Garrino L. (a cura di), La medicina narrativa nei luoghi di formazione e di cura, Centro Scientifico, Milano, 2010 Nei percorsi formativi rivolti al personale sanitario la metodologia della narrazione ha lo scopo di sviluppare nuovi atteggiamenti nei confronti di se stessi e delle funzioni svolte, imparando a riflettere sui modi con cui si apprende e si vive la relazione con il malato, le esperienze di malattia e di morte. Il testo, che riunisce contributi di autori provenienti dal mondo della cura e della formazione, offre uno sguardo sulla medicina narrativa per approfondire questa prospettiva. -Kaneklin C., Scaratti G. (a cura di), Formazione e narrazione. Costruzione di significato e processi di cambiamento personale e organizzativo, Milano, Cortina, 1998 Il testo cerca di accompagnare il lettore all’interno dei diversi percorsi narrativi seguiti da ogni autore, suggerendo piste per scoprire ed evidenziare le prospettive sulla tematica trattata. Una prima parte sviluppa alcune riflessioni sul rapporto tra formazione e approccio narrativo. La seconda parte propone chiavi di rilettura in prospettiva narrativa di tradizionali ambiti formativi. La terza parte evidenzia aspetti e coordinate di un approccio narrativo alla formazione-intervento. - Schein E. H., Le forme dell’aiuto. Come costruire e sostenere relazioni efficaci, Cortina, Milano, 2010 In questo testo fondamentale sul tema delle relazioni di aiuto e di cura, Edgar Schein analizza le dinamiche sociali e psicologiche comuni a tutti i tipi di relazioni di aiuto, in particolare nell’ambito delle organizzazioni, e illustra alcuni aspetti da mettere necessariamente in atto perché un’offerta di aiuto sia davvero efficace. - Virzì A., La relazione medico-paziente. Come riumanizzare il rapporto: un manuale introduttivo, Franco Angeli, Milano, 2007 L’autore suggerisce l’importanza di percepire, da parte dei professionisti della cura sanitaria, l’importanza della dimensione soggettiva del vissuto di malattia e la necessità di sviluppare strumenti per coglierla a partire dalla comunicazione. Il testo esamina i vari fattori che caratterizzano il
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modello centrato sul paziente, e mette in luce i vantaggi che questo presenta dal punto di vista del paziente, e dal punto di vista medico, clinico, epidemiologico e sociologico. - Zannini L., Medical humanities e medicina narrativa. Nuove prospettive nella formazione dei professionisti della cura, Cortina, Milano, 2008 L’autrice presenta la prospettiva di una medicina che valorizzi la storia del paziente, facendola diventare un fondamentale strumento di conoscenza della malattia, essenziale per costruire un efficace progetto terapeutico. Esercitare una medicina narrative-based-on significa tuttavia limitarsi ad ascoltare la storia del malato ma proporsi l’ambizioso obiettivo di costruire con il paziente una “buona storia di malattia”. PARTE QUARTA - Cappa F., Mancino E., (a cura di), Il mondo, che sta nel cinema, che sta nel mondo: il cinema come metafora e modello per la formazione, Mimesis, Milano, 2005 Nel momento in cui il cinema si confronta con l’influenza dei nuovi media, sempre più è diventato “normale” fare formazione con e attraverso i film. La riflessione sui modi in cui questo fare si moltiplica rappresenta uno dei poli intorno al quale gravitano i discorsi qui presentati. Accanto all’uso del cinema nei processi formativi, si presenta anche l’ipotesi di un’interpretazione dei testi filmici come occasioni per sperimentare un approccio differente alla formazione. - Dallari M., La dimensione estetica della Paideia, Erickson, Trento, 2005 Educatori e insegnanti non dovrebbero limitarsi a far apprendere “i saperi”, ma aprire, attraverso essi, la porta che schiude l’esistenza degli alunni sul mondo, strutturare la coscienza identitaria dei soggetti in formazione. La componente estetica, cioè la dimensione “sensibile” della conoscenza e dell’identità, diviene essenziale per caratterizzare una proposta educativa teoreticamente fondata sulle concezioni della fenomenologia e metodologicamente orientata dalla pratica della narratività.
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- Demetrio D., I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora, Mimesis, Milano, 2012 Il testo propone il pensiero secondo cui il silenzio abita la scrittura, la favorisce e ne ha bisogno. Grazie al silenzio raccontiamo meglio il mondo, le cose, noi stessi grazie a parole che svincolatesi dal silenzio sanno ritornarvi. La scrittura educa ad apprezzare di più il valore del silenzio. Il piccolo volume ci invita a cercare luoghi e momenti di silenzio per scrivere di noi, della natura, degli altri. - Di Giorgi S., Forti D., Formare con il cinema. Questioni di teoria e di metodo, Franco Angeli, Milano, 2011 Saper “formare con il cinema” è oggi parte rilevante del bagaglio dei formatori professionali. Il volume sviluppa sia gli aspetti teorici sia gli aspetti metodologici relativi alle modalità di utilizzo dell’archivio del cinema, piuttosto che le possibilità di utilizzare le soluzioni cross.mediali offerte dalle nuove tecnologie della rete. - Gamelli I., Sensibili al corpo. I gesti della formazione e della cura, Cortina, Milano, 2011 Il corpo di cui oggi molto si parla è un corpo che di rado si ascolta, poco conosciuto nelle potenzialità dei suoi linguaggi, spesso ridotti a sintomi o segnali da controllare e codificare. Questo testo suggerisce un differente modo di pensare e vivere il corpo, attraverso il recupero di sensibilità e “gesti” conosciuti ma sovente dimenticati. - Lorenzetti L., La dimensione estetica dell’esperienza, Franco Angeli, Milano, 1995 Questo libro chiama il pensiero nel luogo del fare e farsi poetico della conoscenza, per una cultura del rispetto e dell’uso del bello in soccorso alla crescita dell’uomo e del sociale, allorché tale pensiero si declina applicativamente negli aspetti educativi, preventivi, integrativi, sociali,riabilitativi e clinico-terapeutici.
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- Mancino E., Pedagogia e narrazione cinematografica. Metafore del pensiero e della formazione, Guerini Scientifica, Milano, 2006 In un itinerario che si snoda attraversando le suggestioni dei Cognitive Film Studies, gli spazi interstiziali di Merleau-Ponty, percorrendo le diverse coordinate metodologiche della pratica formativa mediante il cinema, l’autrice disegna un’immagine di cine-formazione in cui la matrice finzionale del film si coglie come profondamente inscritta nella costituzione affettiva e cognitiva del soggetto. - Mancino E., Un cinema parlato. Trame per una pedagogia della narrazione con gli occhi di un’altra lingua, Mimesis, Milano, 2009 Il prisma del cinema invita la pedagogia della narrazione ad esplorare differenti rifrazioni: l’attività del ‘guardare’ si declina in gesti che gettano luci nuove sui territori in cui la scrittura esercita la signoria dello scorgere, del sapere, dell’osservare, del difendere, del contemplare, del vagheggiare e del trattenere. Il cinema viene colto nella sua somiglianza con la scrittura e diviene luogo fertile per dare ospitalità linguistica allo sguardo nella sua dimensione auto-formativa. - Mancino E., Zapelli G. M., Cambiamenti incantevoli. Bellezza e possibilità dell’apprendimento, Cortina, Milano, 2010 La percezione della bellezza è connessa all’apprendimento: ne rappresenta il potenziale di trasformazione. Le esperienze di formazione costituiscono occasioni non solo di conoscenza,ma anche di riflessione sui modi in cui l’apprendimento si crea, e viene favorito. Esplorare la bellezza nell’esperienza di apprendimento significa cercare di capire come il cambiare, l’imparare riguardino i modi in cui il soggetto si impossessa del mondo attraverso il percepire e l’emozionarsi. - Merleau-Ponty M., L’occhio e lo spirito, SE, Milano, 1989 Il testo è il testamento intellettuale e spirituale dell’autore. Il tema centrale è quello dell’arte. Merleau-Ponty si concentra sul concetto della Visione: L’arte si fa manifestazione esemplare di un’ontologia fenomenologica che si basa sulla reversibilità originaria e pre-categoriale tra io e mondo, tra soggetto e oggetto.
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- Mortari L., Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, Firenze, 2002 Lo specifico di questo testo è l’assumere il concetto di “aver cura” come punto di partenza per ripensare il discorso pedagogico. Il contesto della ricerca è costituito dal pensiero filosofico femminile che ha per oggetto il concetto di cura. - Mottana P., L’opera dello sguardo. Braci di pedagogia immaginale, Moretti e Vitali, Bergamo, 2002 Il testo apre la sfida di un pensare simbolico, plurale, piuttosto che imprigionato nella correttezza della scelta da compiere. Il mezzo per avvicinarsi a questa meta è individuato nell’immaginario, compreso in quell’intreccio di sogno, rêverie, progettualità, creazione, che ha nell’opera d’arte la sua forma oggettiva più efficace. La risorsa dell’immaginario è farci vedere ciò che è invisibile, senza arretrare di fronte a ciò che è polisemico. - Mustacchi C. (a cura di), Nel corpo e nello sguardo. L’emozione estetica nei luoghi della cura e della formazione, Unicopli, Milano, 2001 Attraverso i linguaggi estetici gli individui e le società rappresentano la propria identità, riconoscono emozioni, costruiscono legami. Dando la parola a docenti ed educatori, il testo riflette sulla “questione estetica” e mette in evidenza alcuni motivi ricorrenti (l’intelligenza corporea, il pensiero narrativo…) che appartengono al lavoro educativo e sociale. - Picard M., Il mondo del silenzio, Servitium, Enna, 2007 Il mondo del silenzio è opera affascinate per lo stile piano e poetico, ma soprattutto per l’armonia che trae dagli infiniti “incontri” che descrive, come una “anti-fuga” di variazioni sul tema essenziale del “silenzio”. Non l’apologia, non fuga dalla parola, bensì riscoperta del silenzio, quale luogo originario della parola, di ogni elemento del creato e soprattutto dell’uomo nella sua essenza originaria e incontaminata
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- Ricoeur P., Tempo e racconto, Jaca Books, Milano, 1994 Attraverso indagini fenomenologiche, storiografiche e letterarie, Ricoeur riconduce l’attività di costruzione della memoria (personale e collettiva) alla facoltà spirituale di “narrare storie”. Noi siamo in quanto raccontiamo, solo così riusciamo a ricondurre in unità la molteplicità delle esperienze vissute, dandogli ordine e facendo emergere senso. - Ricoeur P., La metafora viva, Jaca Books, Milano, 1975 Esistono, accanto ai linguaggi che constatano, descrivono, ordinano dei fatti, altri linguaggi - come quelli poetici, simbolici, religiosi - che ricorrono soprattutto alla metafora e sono linguaggi di ridescrizione e di metamorfosi della realtà. Il testo tenta di mostrare che i linguaggi metaforici non sono carenti di un vero rapporto con la realtà, anzi sono linguaggi portatori di una sovrabbondanza di sens.
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BIBLIOGRAFIA GENERALE DEI TESTI CITATI
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Educare è narrare
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GLI AUTORI
D D , professore ordinario di Filosofia dell’educazione e di Teorie e pratiche della narrazione all’Università degli studi di Milano-Bicocca, è ora direttore scientifico della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari (Ar), ideata con Saverio Tutino nel 1998. Ha diretto e fondato la rivista Adultità e Graphein, Società scientifica di pedagogia e didattica della scrittura. Tra le sue opere più note e recenti: Raccontarsi (Milano, 1996); Elogio dell’immaturità (Milano, 1998); Ricordare a scuola (Roma- Bari, 2003); Filosofia del camminare (Milano, 2005); La vita schiva (2007); La scrittura clinica (Milano, 2008); L’ educazione non è finita (Milano, 2009); L’interiorità maschile (Milano, 2010); Perchè amiamo scrivere (Milano, 2011); I sensi del silenzio (Milano, 2012); Senza figli. Una condizione umana con F. Rigotti (Milano, 2012). E B , è ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, Università degli studi di Milano-Bicocca , dove insegna Teorie e Pratiche della Narrazione. È docente presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Fra le sue pubblicazioni si segnalano: Educatori di storie (a cura di), Milano, 2010 e Scritture adolescenti. Esperienze di scrittura nella scuola secondaria, Trento, 2010. M C , è ricercatrice e docente di Pedagogia Generale II e di Educazione Permanente e degli Adulti all’Università degli studi di Milano-Bicocca . Coordina il Gruppo di ricerca sulla condizione adulta e i processi formativi, presso la stessa università. Dirige la Collana Condizione adulta e processi formativi, Edizioni Unicopli, Milano. è Direttore scientifico dell’Osservatorio Storytelling dell’Università di Pavia. Svolge attività di formazione presso diversi enti pubblici e privati. Tra le sue ultime pubblica-
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zioni: Fenomenologia e scrittura di sé (Milano, 2008); “L’Eda s’interroga”, in M.Castiglioni, (a cura di) L’educazione degli adulti tra crisi e ricerca di senso (Milano, 2011); “Non sono solo malato”, in L.Nave, F.Arrigoni, Come in cielo così in terra: la cura tra medicina, filosofia e scienze umane (Milano, 2012). E M , ricercatrice presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli studi di Milano-Bicocca, insegna Filosofia dell’educazione. È membro del consiglio direttivo e del collegio docenti della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e direttrice scientifica di Accademia del Silenzio. Ha creato e dirige il Gruppo di ricerca sulle trame educative. Ha ideato e conduce diversi percorsi formativi e di ricerca -nazionali ed internazionali- sui temi di filosofia e pedagogia della narrazione. Tra le ultime pubblicazioni, si segnalano: Un cinema parlato. Trame di pedagogia della narrazione con gli occhi di un’altra lingua (Mimesis, 2009), Cambiamenti incantevoli. Bellezza e possibilità di apprendimento (con G.M. Zapelli, 2011), Sempre in anticipo sul mio futuro. Auto-biografia di Marcello Cesa-Bianchi (2012).