Economia e Gestione delle Imprese [2017 ed.] 9788838669170


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Table of contents :
Economia e gestione delle imprese......Page 1
1.1.1 Le caratteristiche basilari del sistema impresa ......Page 27
1.1.2 Le modalità di crescita dell’impresa ......Page 28
1.1.4 Gli obiettivi del sistema impresa ......Page 30
1.2.1  Il carattere distintivo dell’impresa familiare ......Page 32
1.2.2  Il coinvolgimento di manager esterni ......Page 35
1.3.1  I contenuti dell’ambiente rilevante e i suoi livelli di analisi ......Page 36
1.3.2  Gli attori e le condizioni dell’ambiente esteso ......Page 37
1.4.1  Un modello descrittivo dell’ambiente competitivo ......Page 39
1.4.2  L’intensità della competizione diretta tra le imprese già insediate ......Page 40
1.4.3  La minaccia di nuovi entranti ......Page 43
1.4.5  Il potere contrattuale dei fornitori e degli acquirenti ......Page 49
1.4.6  L’intensità e il segno dell’azione degli stakeholders esterni ......Page 51
1.4.8  Alcune considerazioni di sintesi sull’utilizzazione del modello delle forze competitive ......Page 52
1.4.9  Il raggruppamento strategico ......Page 53
1.5  L’ambiente nella considerazione soggettiva dell’impresa ......Page 54
1.5.1  La rilevanza dell’ambiente per l’impresa ......Page 56
Domande ed esercizi ......Page 57
Bibliografia ......Page 58
2.1  I principi concettuali ......Page 61
2.2  Il concetto di “sostenibilità” applicato all’impresa ......Page 63
2.2.1  Le fasi tipiche nell’evoluzione dell’orientamento alla sostenibilità ......Page 64
2.2.3  L’impatto della sostenibilità sul vantaggio competitivo5 dell’impresa ......Page 67
2.3.1  Il “Global Compact” delle Nazioni Unite ......Page 70
2.3.2  Il “Libro Verde” dell’Unione Europea ......Page 71
2.3.4  Il Global Reporting Initiative ......Page 72
2.4.1  Principali misure per la sostenibilità nelle funzioni aziendali ......Page 74
2.4.2  L’innovazione del modello di business nella prospettiva della sostenibilità ......Page 87
2.4.3  La governance dell’impresa nella prospettiva della sostenibilità ......Page 89
2.5 Lo stakeholders’ engagement ......Page 90
2.5.1  Le diverse modalità operative di coinvolgimento degli stakeholders ......Page 93
2.5.2  La matrice di materialità ......Page 94
2.5.3  L’innovazione nello stakeholders’ engagement (SE) ......Page 95
Domande ed esercizi ......Page 100
Bibliografia ......Page 101
3.1.1  Le risorse nel sistema aziendale ......Page 103
3.1.2  Le risorse tangibili e le risorse intangibili ......Page 104
3.1.3  La risorsa fiducia ......Page 107
3.2.1  La capacità organizzativa di integrazione e coordinamento delle risorse ......Page 108
3.2.2  Il patrimonio di competenze dell’impresa ......Page 109
3.2.3  Le competenze distintive ......Page 111
3.2.4  Le condizioni di durabilità della natura distintiva di una risorsa ......Page 113
3.2.5  Le competenze dinamiche ......Page 115
3.3  Le risorse, le competenze distintive e l’orientamento strategico ......Page 118
Domande ed esercizi ......Page 121
Bibliografia ......Page 122
4.1  L’elaborazione della strategia ......Page 125
4.2.1  Il concetto di vantaggio competitivo ......Page 129
4.2.2  Le determinanti e la sostenibilità del vantaggio competitivo ......Page 131
4.2.3  L’analisi delle attività e delle relazioni da cui deriva la generazione di valore ......Page 137
4.3  Le strategie competitive ......Page 141
4.3.1  La leadership di costo ......Page 143
4.3.2 La differenziazione ......Page 149
4.3.3  La focalizzazione ......Page 156
4.4.1  Il significato, le motivazioni e gli attori delle strategie collaborative ......Page 157
4.4.2 La “capacità” di collaborare ......Page 161
4.4.3 Le diverse tipologie di alleanza e il loro ciclo di vita ......Page 162
4.4.4 Le condizioni di successo delle alleanze strategiche ......Page 164
Domande ed esercizi ......Page 167
Bibliografia ......Page 168
5.1  Il concetto di business model ......Page 171
5.2.1  Il target ......Page 172
5.2.3  Le modalità di erogazione del valore ......Page 173
5.3  I fattori critici ......Page 174
5.3.1  Le risorse chiave ......Page 175
5.3.3  Il modello organizzativo ......Page 176
5.4.1  I flussi di ricavi ......Page 177
5.5  L’innovazione del business model ......Page 179
5.6  I fattori disruptive dei modelli di business tradizionali ......Page 182
5.6.1  La digital economy ......Page 184
5.6.2  La sharing economy ......Page 188
5.6.3  La green economy ......Page 194
Domande ed esercizi ......Page 198
Bibliografia ......Page 199
6.1.1  La determinazione dei confini verticali dell’impresa ......Page 201
6.1.2  Gli effetti positivi dell’integrazione verticale sul vantaggio competitivo ......Page 204
6.1.3  Gli effetti negativi dell’integrazione verticale ......Page 208
6.1.4  La gestione delle relazioni verticali ......Page 209
6.2.1  I diversi tipi di diversificazione ......Page 211
6.2.2  Le spinte della strategia di diversificazione ......Page 213
6.3.1  Le spinte all’espansione estera ......Page 218
6.3.2  L’internazionalizzazione come processo evolutivo ......Page 219
6.3.3  L’espansione estera come modalità di sviluppo del vantaggio competitivo ......Page 223
6.3.4  L’articolazione delle strategie di entrata nei mercati esteri ......Page 226
Sintesi ......Page 228
Bibliografia ......Page 229
7.1.1  Le basi concettuali della pianificazione d’impresa ......Page 231
7.1.2  La strategia e la pianificazione della strategia ......Page 235
7.1.3  Un nuovo approccio alla pianificazione strategica ......Page 237
7.1.4  L’evoluzione della pianificazione d’impresa ......Page 243
7.1.5  Il piano ......Page 245
7.2.1  Il livello di direzione centrale: visione, missione e sistema di valori ......Page 246
7.2.2  Il livello di direzione di divisione ......Page 251
7.3.1  L’orientamento strategico a livello di direzione centrale ......Page 254
7.3.2  Le strategie orizzontali ......Page 261
7.3.3  La strategia verticale ......Page 264
7.3.5  Un rinvio ai problemi organizzativi ......Page 265
7.3.6  L’orientamento strategico a livello di direzione di divisione ......Page 266
7.3.7  La pianificazione a livello di direzioni di funzione ......Page 267
Domande ed esercizi ......Page 270
Bibliografia ......Page 271
8.1.1  Il sistema organizzativo aziendale come base per il vantaggio competitivo ......Page 273
8.1.2  Il percorso strategico e organizzativo per la formazione delle strategie ......Page 274
8.1.3  La progettazione organizzativa e la sostenibilità del vantaggio competitivo ......Page 276
8.1.4 Le strategie e le risorse umane ......Page 278
8.2  La progettazione organizzativa: aspetti generali ......Page 279
8.2.1  La struttura strategica, le strategie e la progettazione organizzativa ......Page 280
8.2.2 La progettazione della struttura organizzativa ......Page 281
8.2.3  Il modello funzionale ......Page 283
8.2.4 Il modello multidivisionale ......Page 285
8.2.5  Il modello a holding: diverse configurazioni del Corporate ......Page 288
8.2.6 Le strutture matriciali ......Page 289
8.3.1 La rete interna ......Page 295
8.3.2 La rete esterna ......Page 297
8.4  Le soluzioni organizzative per l’attuazione delle strategie di Corporate ......Page 298
8.4.1 Le strutture orizzontali ......Page 299
8.4.2 I sistemi operativi di coordinamento ......Page 301
8.5.1 La diversificazione conglomerale ......Page 302
8.5.2 La diversificazione non strettamente correlata ......Page 303
8.5.4  Gli ostacoli organizzativi all’implementazione delle strategie di diversificazione ......Page 304
8.6.1 Dalle risorse umane al capitale umano ......Page 306
8.6.2  Gli strumenti di gestione delle risorse umane a supporto dell’implementazione delle strategie ......Page 308
8.6.3  Le basi per la sostenibilità del vantaggio competitivo attraverso il capitale umano: l’apprendimento organizzativo ......Page 313
8.6.4  I temi aperti nella gestione strategica delle risorse umane ......Page 315
Domande ed esercizi ......Page 317
Bibliografia ......Page 318
9.1.1  I contenuti del marketing ......Page 321
9.1.2  I principi basilari del marketing come metodo di gestione d’impresa ......Page 323
9.1.3  Gli approcci precedenti a quello di marketing ......Page 324
9.1.4  L’approccio di marketing relazionale alla gestione d’impresa ......Page 326
9.1.5  Gli obiettivi del marketing5 ......Page 330
9.2.1  La segmentazione del mercato ......Page 331
9.2.2  Il posizionamento ......Page 335
9.2.3  La gestione strategica delle marche ......Page 338
9.2.4  La pianificazione strategica di marketing a livello di area di business ......Page 341
9.3.1  La gestione del prodotto9 ......Page 345
9.3.2  La gestione del sistema di prezzi ......Page 347
9.3.3  La comunicazione ......Page 352
9.3.4  La gestione commerciale ......Page 357
Domande ed esercizi ......Page 364
Bibliografia ......Page 365
10.1  La funzione finanziaria nella gestione dell’impresa ......Page 367
10.2  La finanza come supporto alle decisioni dell’impresa ......Page 371
10.2.1  Il valore attuale netto e la ricchezza degli azionisti ......Page 372
10.3  Le decisioni relative alla struttura del capitale ......Page 374
10.4  La finanza come strumento di controllo e gestione dei flussi finanziari ......Page 377
10.4.1  Le origini e le determinanti del fabbisogno finanziario ......Page 378
10.4.2  La pianificazione finanziaria dell’impresa ......Page 384
10.5  La finanza come centro di profitto ......Page 386
10.6  I principi di valutazione economica delle strategie d’impresa ......Page 388
10.6.2  L’obiettivo della creazione di valore ......Page 389
10.6.3  Le specificità nella valutazione della strategia ......Page 391
10.7  Il metodo del valore azionario per la valutazione delle strategie d’impresa ......Page 392
10.7.1  La determinazione e la previsione dei flussi di cassa operativi disponibili ......Page 395
10.7.2  Il calcolo del valore residuo ......Page 399
10.7.3  Il costo del capitale ......Page 401
10.7.4  L’analisi di sensibilità ......Page 403
10.8  Metodi innovativi: le opzioni reali ......Page 404
10.8.1  Le opzioni reali e le opzioni finanziarie ......Page 406
10.8.2  I diversi tipi di opzioni reali ......Page 407
10.9  L’allineamento degli interessi di proprietà e management: i problemi di corporate governance ......Page 409
Sintesi ......Page 413
Domande ed esercizi ......Page 414
Bibliografia ......Page 415
11.1  Introduzione ......Page 417
11.1.1  Definizione e classificazione delle operations ......Page 418
11.1.2  Ambiti di competenza del management delle operations ......Page 421
11.1.3  Un modello per le operations management ......Page 422
11.1.4  La strategia dell’operations management ......Page 425
11.2  La configurazione delle operations ......Page 428
11.2.1  La localizzazione delle facilities ......Page 429
11.2.2  Il dimensionamento della capacità produttiva ......Page 431
11.2.4  La scelta del processo tecnologico ......Page 433
11.3  La pianificazione delle operations ......Page 434
11.3.1  Le politiche di gestione Push e Pull ......Page 437
11.3.2  La previsione dei volumi produttivi ......Page 439
11.3.4  Il piano aggregato ......Page 441
11.3.5  Il piano principale di produzione ......Page 442
11.3.6  Il Materials Requirement Planning (MRP) ......Page 443
11.3.7  Confronto tra MRP e Just In Time ......Page 444
11.3.8  L’inventory management ......Page 445
11.4  L’operations improvement ......Page 448
11.4.1  Il Total Quality Management ......Page 450
11.4.3  Il Six Sigma e il Lean Six Sigma ......Page 451
11.5  Gli economics delle operations ......Page 452
11.5.1  Gli impatti delle scelte produttive sulla redditività dell’impresa ......Page 453
11.5.2  L’impiego dei costi di produzione per le scelte industriali ......Page 456
11.6  Le operations nei servizi ......Page 458
11.6.1  La peculiarità dei servizi e i motivi di complessità nella loro gestione ......Page 459
11.6.2  Il servitization: i servizi delle aziende manifatturiere ......Page 460
Sintesi ......Page 461
Domande ed esercizi ......Page 462
Bibliografia ......Page 463
12.1.1 Le origini del termine ......Page 465
12.1.2 La definizione del Council of Logistics Management ......Page 466
12.1.4 La logistica e il Supply Chain Management ......Page 468
12.2 La logistica nell’economia ......Page 470
12.3.1 Le attività logistiche ......Page 472
12.3.2 Le interazioni tra la logistica e le altre funzioni ......Page 475
12.4  L’approccio sistemico della logistica ......Page 476
12.5  Le principali applicazioni della tecnologia2 ......Page 479
12.6  I trend e le strategie logistiche ......Page 486
12.7  La logistica urbana5 ......Page 489
12.8  La logistica “verde” ......Page 493
Sintesi ......Page 497
Domande ed esercizi ......Page 498
Bibliografia ......Page 499
13.1  Gli investimenti in R&S, l’innovazione tecnologica e i problemi di natura strategica ......Page 501
13.1.1  L’innovazione tecnologica e il progresso economico ......Page 502
13.1.2  L’innovazione tecnologica e i cambiamenti negli artefatti fisici ......Page 504
13.1.3  L’innovazione tecnologica come cambiamento della base di conoscenze e competenze ......Page 506
13.2  La tecnologia e la profittabilità: protezione dell’innovazione e incentivi all’investimento ......Page 507
13.2.1  Le scelte strategiche e la protezione dell’innovazione ......Page 508
13.2.2  Gli strumenti per la protezione dell’innovazione ......Page 510
13.2.3  Le risorse complementari e gli standard tecnologici nel posizionamento competitivo ......Page 512
13.3.1  Il ciclo di vita della tecnologia e i problemi di natura strategica ......Page 518
13.3.2  L’analisi strategica delle risorse e competenze tecnologiche ......Page 522
13.3.3  La strategia di sviluppo e valorizzazione delle competenze tecnologiche ......Page 527
13.4.1  La gestione dinamica del patrimonio tecnologico: i riflessi sull’organizzazione ......Page 531
13.4.2  L’analisi delle collaborazioni nella R&S: aspetti strategici e organizzativi ......Page 532
13.4.3  La scelta delle modalità di collaborazione nello sviluppo d’innovazione ......Page 535
13.5  La gestione operativa: innovare per progetti ......Page 540
13.5.1  La gestione del singolo progetto innovativo: modelli a confronto ......Page 542
13.5.2  Il multi-project management ......Page 548
Sintesi ......Page 553
Domande ed esercizi ......Page 554
Bibliografia ......Page 555
Indice analitico......Page 557
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Economia e Gestione delle Imprese [2017 ed.]
 9788838669170

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collana di istruzione scientifica serie di discipline aziendali

Agli studenti Non esistono le discipline, esistono solo i problemi. Karl Popper

Franco Fontana Matteo Caroli

Economia e gestione delle imprese Quinta edizione

McGraw-Hill Education Milano • New York • Bogotá • Lisbon • London Madrid • Mexico City • Montreal • New Delhi Santiago • Seoul • Singapore • Sydney • Toronto

Copyright © 2017, 2013, 2009, 2006, 2003 The McGraw-Hill Education (Italy), s.r.l. Via Ripamonti, 89 20141 Milano

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Indice breve

Parte I

La strategia nel sistema impresa

1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo Matteo Caroli 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

1 Matteo Caroli

35

3 Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa Matteo Caroli

77

4 La gestione strategica

99

5 Il business model

Matteo Caroli

145

Matteo Caroli

6 Le strategie di crescita

Matteo Caroli

7 La pianificazione strategica

Matteo Caroli

175 205

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano 247

Franco Fontana, Luca Giustiniano

9 Il marketing

295

Matteo Caroli

10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie Stefano Bozzi, Raffaele Oriani, Sandro Sandri

11 La gestione delle operations

Maria Elena Nenni

341 391

VI

Indice breve

12 La logistica

Francesco Filippi

439

13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo: analisi e gestione strategica degli investimenti in R&S Paolo Boccardelli, Federico Munari, Maurizio Sobrero

475

Indice

Prefazione alla quinta edizione

XVII

Autori

XXI

Ringraziamenti dell’Editore

XXIII

In questo volume...

XXV

Parte I

La strategia nel sistema impresa

1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo Matteo Caroli

1

1.1

L’impresa come sistema 1.1.1 Le caratteristiche basilari del sistema impresa 1.1.2 Le modalità di crescita dell’impresa 1.1.3 La proprietà autopoietica del sistema impresa 1.1.4 Gli obiettivi del sistema impresa

1 1 2 4 4

1.2

L’impresa familiare 1.2.1 Il carattere distintivo dell’impresa familiare 1.2.2 Il coinvolgimento di manager esterni

6 6 9

1.3

L’ambiente rilevante per l’impresa 1.3.1 I contenuti dell’ambiente rilevante e i suoi livelli di analisi 1.3.2 Gli attori e le condizioni dell’ambiente esteso

10 10 11

1.4

L’ambiente competitivo 1.4.1 Un modello descrittivo dell’ambiente competitivo 1.4.2 L’intensità della competizione diretta tra le imprese già insediate 1.4.3 La minaccia di nuovi entranti 1.4.4 La concorrenza dei prodotti o dei servizi sostitutivi 1.4.5 Il potere contrattuale dei fornitori e degli acquirenti 1.4.6 L’intensità e il segno dell’azione degli stakeholders esterni 1.4.7 L’integrazione con imprese complementari rispetto alla domanda

13 13 14 17 23 23 25 26

VIII

Indice

1.4.8 Alcune considerazioni di sintesi sull’utilizzazione del modello delle forze competitive 1.4.9 Il raggruppamento strategico

26 27

L’ambiente nella considerazione soggettiva dell’impresa 1.5.1 La rilevanza dell’ambiente per l’impresa Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

28 30 31 31 32

2 L’impresa come sistema “sostenibile”

35

1.5

Matteo Caroli

2.1

I principi concettuali

35

2.2

Il concetto di “sostenibilità” applicato all’impresa 2.2.1 Le fasi tipiche nell’evoluzione dell’orientamento alla sostenibilità 2.2.2 Le determinanti del grado di sostenibilità dell’impresa 2.2.3 L’impatto della sostenibilità sul vantaggio competitivo dell’impresa

37

2.3

L’impulso delle istituzioni internazionali a favore dell’impresa sostenibile 2.3.1 Il “Global Compact” delle Nazioni Unite 2.3.2 Il “Libro Verde” dell’Unione Europea 2.3.3 Le linee guida di ILO e OCSE 2.3.4 Il Global Reporting Initiative

2.4 Strategie e azioni per la sostenibilità nella gestione dell’impresa 2.4.1 Principali misure per la sostenibilità nelle funzioni aziendali 2.4.2 L’innovazione del modello di business nella prospettiva della sostenibilità 2.4.3 La governance dell’impresa nella prospettiva della sostenibilità 2.5 Lo stakeholders’ engagement 2.5.1 Le diverse modalità operative di coinvolgimento degli stakeholders 2.5.2 La matrice di materialità 2.5.3 L’innovazione nello stakeholders’ engagement (SE) Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

3 Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa Matteo Caroli 3.1

L’impresa come insieme di risorse 3.1.1 Le risorse nel sistema aziendale

38 41 41 44 44 45 46 46 48 48 61 63 64 67 68 69 74 74 75

77 77 77

Indice

3.2

3.1.2 Le risorse tangibili e le risorse intangibili 3.1.3 La risorsa fiducia

78 81

Dalle risorse alle competenze distintive 3.2.1 La capacità organizzativa di integrazione e coordinamento delle risorse 3.2.2 Il patrimonio di competenze dell’impresa 3.2.3 Le competenze distintive 3.2.4 Le condizioni di durabilità della natura distintiva di una risorsa 3.2.5 Le competenze dinamiche

82 82 83 85 87 89

3.3

Le risorse, le competenze distintive e l’orientamento strategico Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

92 95 95 96

4 La gestione strategica

99

4.1

Matteo Caroli

L’elaborazione della strategia

99

4.2 Il vantaggio competitivo 4.2.1 Il concetto di vantaggio competitivo 4.2.2 Le determinanti e la sostenibilità del vantaggio competitivo 4.2.3 L’analisi delle attività e delle relazioni da cui deriva la generazione di valore

103 103 105

4.3 Le strategie competitive 4.3.1 La leadership di costo 4.3.2 La differenziazione 4.3.3 La focalizzazione

115 117 123 130

4.4 Le strategie di collaborazione 4.4.1 Il significato, le motivazioni e gli attori delle strategie collaborative 4.4.2 La “capacità” di collaborare 4.4.3 Le diverse tipologie di alleanza e il loro ciclo di vita 4.4.4 Le condizioni di successo delle alleanze strategiche Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

131

5 Il business model

145

Matteo Caroli

111

131 135 136 138 141 141 142

5.1

Il concetto di business model

145

5.2

La proposta di valore 5.2.1 Il target 5.2.2 Il valore per il target

146 146 147

IX

X

Indice

5.3

5.2.3 Le modalità di erogazione del valore

147

I fattori critici 5.3.1 Le risorse chiave 5.3.2 Le attività chiave 5.3.3 Il modello organizzativo

148 149 150 150

5.4 La proposta di profittabilità 5.4.1 I flussi di ricavi 5.4.2 La struttura dei costi

151 151 153

5.5

153

L’innovazione del business model

I fattori disruptive dei modelli di business tradizionali 5.6.1 La digital economy 5.6.2 La sharing economy 5.6.3 La green economy Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

156 158 162 168 172 172 173

6 Le strategie di crescita

175

5.6

6.1

6.2

Matteo Caroli

La strategia di integrazione verticale 6.1.1 La determinazione dei confini verticali dell’impresa 6.1.2 Gli effetti positivi dell’integrazione verticale sul vantaggio competitivo 6.1.3 Gli effetti negativi dell’integrazione verticale 6.1.4 La gestione delle relazioni verticali

175 175

La strategia di diversificazione 6.2.1 I diversi tipi di diversificazione 6.2.2 Le spinte della strategia di diversificazione

185 185 187

178 182 183

La strategia di internazionalizzazione 6.3.1 Le spinte all’espansione estera 6.3.2 L’internazionalizzazione come processo evolutivo 6.3.3 L’espansione estera come modalità di sviluppo del vantaggio competitivo 6.3.4 L’articolazione delle strategie di entrata nei mercati esteri Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

192 192 193

7 La pianificazione strategica

205

6.3

7.1

Matteo Caroli

Il significato, l’evoluzione e il ruolo attuale della pianificazione d’impresa 7.1.1 Le basi concettuali della pianificazione d’impresa 7.1.2 La strategia e la pianificazione della strategia

197 200 202 203 203

205 205 209

Indice

7.2

7.1.3 Un nuovo approccio alla pianificazione strategica 7.1.4 L’evoluzione della pianificazione d’impresa 7.1.5 Il piano

211 217 219

I contenuti della pianificazione: le condizioni di fondo 7.2.1 Il livello di direzione centrale: visione, missione e sistema di valori 7.2.2 Il livello di direzione di divisione

220

7.3

I contenuti della pianificazione: l’orientamento strategico 7.3.1 L’orientamento strategico a livello di direzione centrale 7.3.2 Le strategie orizzontali 7.3.3 La strategia verticale 7.3.4 I criteri di allocazione delle risorse 7.3.5 Un rinvio ai problemi organizzativi 7.3.6 L’orientamento strategico a livello di direzione di divisione 7.3.7 La pianificazione a livello di direzioni di funzione Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

220 225 228 228 235 238 239 239 240 241 244 244 245

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano Franco Fontana, Luca Giustiniano

8.1

8.2

8.3

I sistemi organizzativi aziendali, la progettazione organizzativa, il capitale umano e il vantaggio competitivo 8.1.1 Il sistema organizzativo aziendale come base per il vantaggio competitivo 8.1.2 Il percorso strategico e organizzativo per la formazione delle strategie 8.1.3 La progettazione organizzativa e la sostenibilità del vantaggio competitivo 8.1.4 Le strategie e le risorse umane

247 247 247 248 250 252

La progettazione organizzativa: aspetti generali 8.2.1 La struttura strategica, le strategie e la progettazione organizzativa 8.2.2 La progettazione della struttura organizzativa 8.2.3 Il modello funzionale 8.2.4 Il modello multidivisionale 8.2.5 Il modello a holding: diverse configurazioni del Corporate 8.2.6 Le strutture matriciali

253

Le forme organizzative reticolari 8.3.1 La rete interna

269 269

254 255 257 259 262 263

XI

XII

Indice

8.3.2 La rete esterna 8.3.3 Le reti per l’innovazione 8.4 Le soluzioni organizzative per l’attuazione delle strategie di Corporate 8.4.1 Le strutture orizzontali 8.4.2 I sistemi operativi di coordinamento 8.5

Il ruolo delle strutture di Corporate nell’attuazione delle strategie di diversificazione 8.5.1 La diversificazione conglomerale 8.5.2 La diversificazione non strettamente correlata 8.5.3 La diversificazione strettamente correlata 8.5.4 Gli ostacoli organizzativi all’implementazione delle strategie di diversificazione

271 272 272 273 275 276 276 277 278 278

I sistemi di gestione delle risorse umane 8.6.1 Dalle risorse umane al capitale umano 8.6.2 Gli strumenti di gestione delle risorse umane a supporto dell’implementazione delle strategie 8.6.3 Le basi per la sostenibilità del vantaggio competitivo attraverso il capitale umano: l’apprendimento organizzativo 8.6.4 I temi aperti nella gestione strategica delle risorse umane Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

280 280

9 Il marketing

295

8.6

9.1

9.2

9.3

Matteo Caroli

282 287 289 291 291 292

Il marketing come approccio alla gestione dell’impresa 9.1.1 I contenuti del marketing 9.1.2 I principi basilari del marketing come metodo di gestione d’impresa 9.1.3 Gli approcci precedenti a quello di marketing 9.1.4 L’approccio di marketing relazionale alla gestione d’impresa 9.1.5 Gli obiettivi del marketing

295 295

Le problematiche di marketing di rilievo strategico 9.2.1 La segmentazione del mercato 9.2.2 Il posizionamento 9.2.3 La gestione strategica delle marche 9.2.4 La pianificazione strategica di marketing a livello di area di business

305 305 309 312

Le questioni più rilevanti nella gestione operativa di marketing 9.3.1 La gestione del prodotto 9.3.2 La gestione del sistema di prezzi 9.3.3 La comunicazione

297 298 300 304

315 319 319 321 326

Indice

9.3.4 La gestione commerciale Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

331 338 338 339

10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie Stefano Bozzi, Raffaele Oriani, Sandro Sandri

341

10.1 La funzione finanziaria nella gestione dell’impresa

341

10.2 La finanza come supporto alle decisioni dell’impresa 10.2.1 Il valore attuale netto e la ricchezza degli azionisti

345 346

10.3 Le decisioni relative alla struttura del capitale

348

10.4 La finanza come strumento di controllo e gestione dei flussi finanziari 10.4.1 Le origini e le determinanti del fabbisogno finanziario 10.4.2 La pianificazione finanziaria dell’impresa

351 352 358

10.5 La finanza come centro di profitto

360

10.6 I principi di valutazione economica delle strategie d’impresa 10.6.1 La valutazione della strategia aziendale e la pianificazione strategica 10.6.2 L’obiettivo della creazione di valore 10.6.3 Le specificità nella valutazione della strategia 10.7 Il metodo del valore azionario per la valutazione delle strategie d’impresa 10.7.1 La determinazione e la previsione dei flussi di cassa operativi disponibili 10.7.2 Il calcolo del valore residuo 10.7.3 Il costo del capitale 10.7.4 L’analisi di sensibilità

362 363 363 365 366 369 373 375 377

10.8 Metodi innovativi: le opzioni reali 10.8.1 Le opzioni reali e le opzioni finanziarie 10.8.2 I diversi tipi di opzioni reali

378 380 381

10.9 L’allineamento degli interessi di proprietà e management: i problemi di corporate governance Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

383 387 388 389

11 La gestione delle operations

391

11.1

Maria Elena Nenni

Introduzione 11.1.1 Definizione e classificazione delle operations

391 392

XIII

XIV

Indice

11.1.2 Ambiti di competenza del management delle operations 11.1.3 Un modello per le operations management 11.1.4 La strategia dell’operations management

395 396 399

11.2 La configurazione delle operations 11.2.1 La localizzazione delle facilities 11.2.2 Il dimensionamento della capacità produttiva 11.2.3 L’integrazione verticale e outsourcing 11.2.4 La scelta del processo tecnologico

402 403 405 407 407

11.3 La pianificazione delle operations 11.3.1 Le politiche di gestione Push e Pull 11.3.2 La previsione dei volumi produttivi 11.3.3 Il piano strategico 11.3.4 Il piano aggregato 11.3.5 Il piano principale di produzione 11.3.6 Il Materials Requirement Planning (MRP) 11.3.7 Confronto tra MRP e Just In Time 11.3.8 L’inventory management

408 411 413 415 415 416 417 418 419

11.4 L’operations improvement 11.4.1 Il Total Quality Management 11.4.2 La Lean Production 11.4.3 Il Six Sigma e il Lean Six Sigma 11.4.4 Il World Class Manufacturing

422 424 425 425 426

11.5 Gli economics delle operations 11.5.1 Gli impatti delle scelte produttive sulla redditività dell’impresa 11.5.2 L’impiego dei costi di produzione per le scelte industriali 11.5.3 La costruzione del budget della produzione 11.5.4 Gli indicatori economici per il controllo delle operations

426

11.6 Le operations nei servizi 11.6.1 La peculiarità dei servizi e i motivi di complessità nella loro gestione 11.6.2 Il servitization: i servizi delle aziende manifatturiere Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

432

12 La logistica

Francesco Filippi

439

12.1 Definizioni di logistica 12.1.1 Le origini del termine 12.1.2 La definizione del Council of Logistics Management 12.1.3 I campi della logistica civile 12.1.4 La logistica e il Supply Chain Management

439 439 440 442 442

427 430 432 432

433 434 435 436 437

Indice

12.2 La logistica nell’economia

444

12.3 La logistica nell’organizzazione aziendale 12.3.1 Le attività logistiche 12.3.2 Le interazioni tra la logistica e le altre funzioni

446 446 449

12.4 L’approccio sistemico della logistica

450

12.5 Le principali applicazioni della tecnologia

453

12.6 I trend e le strategie logistiche

460

12.7 La logistica urbana

463

12.8 La logistica “verde” Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

467 471 472 473

13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo: analisi e gestione strategica degli investimenti in R&S Paolo Boccardelli, Federico Munari, Maurizio Sobrero

13.1 Gli investimenti in R&S, l’innovazione tecnologica e i problemi di natura strategica 13.1.1 L’innovazione tecnologica e il progresso economico 13.1.2 L’innovazione tecnologica e i cambiamenti negli artefatti fisici 13.1.3 L’innovazione tecnologica come cambiamento della base di conoscenze e competenze 13.2 La tecnologia e la profittabilità: protezione dell’innovazione e incentivi all’investimento 13.2.1 Le scelte strategiche e la protezione dell’innovazione 13.2.2 Gli strumenti per la protezione dell’innovazione 13.2.3 Le risorse complementari e gli standard tecnologici nel posizionamento competitivo 13.3 L’innovazione tecnologica e la strategia d’impresa 13.3.1 Il ciclo di vita della tecnologia e i problemi di natura strategica 13.3.2 L’analisi strategica delle risorse e competenze tecnologiche 13.3.3 La strategia di sviluppo e valorizzazione delle competenze tecnologiche 13.4 La gestione del patrimonio di competenze tecnologiche: aspetti organizzativi e gestionali 13.4.1 La gestione dinamica del patrimonio tecnologico: i riflessi sull’organizzazione 13.4.2 L’analisi delle collaborazioni nella R&S: aspetti strategici e organizzativi

475 475 476 478 480 481 482 484 486 492 492 496 501 505 505 506

XV

XVI

Indice

13.4.3 La scelta delle modalità di collaborazione nello sviluppo d’innovazione

509

13.5 La gestione operativa: innovare per progetti 13.5.1 La gestione del singolo progetto innovativo: modelli a confronto 13.5.2 Il multi-project management Sintesi Domande ed esercizi Bibliografia

514

Indice analitico

531

516 522 527 528 529

Prefazione alla quinta edizione

Questo manuale ha l’obiettivo di fornire in maniera organica i concetti portanti e gli strumenti operativi della gestione strategica dell’impresa, attuata nella prospettiva degli obiettivi della “sostenibilità”. In tale prospettiva, chiarite le caratteristiche dell’impresa come “sistema complesso”, il testo approfondisce come essa interagisce nel suo ambiente “competitivo”, influenzata anche dalle condizioni di contesto più generali. Illustra poi il concetto e le funzioni della “strategia” nell’evoluzione dell’impresa e i contenuti delle strategie competitive, di collaborazione e di crescita. Questi temi sono poi utilizzati anche nella prospettiva dell’elaborazione del business model e del processo di pianificazione e posti in relazione con il patrimonio di risorse e competenze distintive dell’impresa. La seconda parte del testo è dedicata all’analisi delle principali problematiche di rilievo strategico nella gestione delle varie funzioni aziendali, e segnatamente: il marketing, la produzione, la finanza, l’organizzazione e gestione delle risorse umane, l’innovazione. Il libro è orientato a soddisfare le necessità conoscitive degli studenti universitari dei corsi di management; tuttavia, fornisce un inquadramento concettuale della materia e strumenti concreti che possono essere molto utili anche a coloro già attivamente impegnati nella gestione d’impresa. Le diverse problematiche della direzione aziendale, infatti, sono affrontate facendo ampio riferimento ai contributi rilevanti della scienza manageriale italiana e internazionale, ma al tempo stesso, tenendo conto delle migliori esperienze nella pratica gestionale delle imprese. Lo stimolo, accompagnato come in passato da un prezioso supporto professionale, che abbiamo ricevuto dall’Editore nella realizzazione di questa quinta edizione, è testimonianza indubbia della capacità del testo di rispondere con grande puntualità alle esigenze del pubblico cui è rivolto. Questa quinta edizione, pur mantenendo l’impostazione generale delle precedenti, è arricchita di nuovi contenuti che rendono conto dei radicali cambiamenti tecnologici ed economici in atto, nonché del loro impatto sulle dinamiche competitive delle imprese, sui fattori di varia natura che ne condizionano l’evoluzione e sugli strumenti manageriali. Per la rilevanza e complessità raggiunta dalle questioni inerenti la gestione “sostenibile” e l’innovazione del business model, il testo è stato ampliato con due capitoli specificatamente dedicati a tali tematiche.

XVIII

Prefazione alla quinta edizione

La struttura del testo Il volume è strutturato in due parti. La prima sviluppa tutti i contenuti della “strategia” d’impresa ed è articolata in sette capitoli. Si affrontano i temi relativi alla struttura del sistema impresa e alla sua interazione con l’ambiente “allargato” e competitivo; alle caratteristiche dell’impresa “sostenibile”; alle risorse e competenze, distintive e dinamiche quali fattori caratterizzanti l’evoluzione dell’impresa e i suoi comportamenti. Il capitolo tratta poi la gestione strategica, approfondendo le strategie competitive, di collaborazione e di crescita; i contenuti del “business model” e le caratteristiche dei modelli di business nell’ambito dei tre grandi filoni di cambiamento in atto: digital economy, sharing economy e green economy. La prima parte è conclusa da un capitolo dedicato alla pianificazione strategica, a livello sia di corporate sia di aree di business. La seconda parte è composta da altri sei capitoli focalizzati su altrettante funzioni gestionali: l’organizzazione e la gestione delle risorse umane; il marketing; la finanza aziendale; le operations; la logistica; la gestione dell’innovazione. Come nell’edizione precedente, anche in questa sono presenti numerosi box illustrativi di specifiche Esperienze o di casi aziendali utili per mettere meglio a fuoco sul piano pratico gli strumenti concettuali via via affrontati nella trattazione. Con lo stesso fine, sono stati inseriti alcuni box Strumenti che sono dedicati a particolari tematiche che per la loro rilevanza o attualità meritano un approfondimento specifico. Al termine di ciascun capitolo, inoltre, è stata arricchita la parte relativa alle domande di verifica e agli esercizi, con l’inserimento di nuovi test a risposta multipla e un aggiornamento della bibliografia di riferimento per la disciplina.

Il sito web: www.ateneonline.it/n/fontana5e I contenuti del sito offrono un ulteriore strumento di approfondimento e di verifica, nella prospettiva di dare accesso a una serie di contenuti che vanno anche oltre a quanto compreso nella sua parte cartacea, che comunque rimane, e a nostro avviso rimarrà sempre, essenziale e insostituibile. In particolare, nel sito sono disponibili per i docenti i lucidi in formato PowerPoint, utili come guida alla lettura del testo, e le figure del testo sempre in formato PowerPoint e per gli studenti le risposte ai test a risposta multipla di fine capitolo, oltre ai test medesimi in forma interattiva.

Ringraziamenti Nel presentare questa quarta edizione del volume, il nostro ringraziamento va in primo luogo agli amici e colleghi, molti di Università e organizzazioni diverse da quelle cui noi apparteniamo, che hanno collaborato con noi alla redazione della nuova edizione: Paolo Boccardelli, Stefano Bozzi, Francesco Filippi, Luca Giustiniano, Federico Munari, Maria Elena Nenni, Raffaele Oriani, Claudia Pongelli, Enzo Peruffo, Sandro Sandri, Maurizio Sobrero.

Prefazione alla quinta edizione

Un ringraziamento va anche ai numerosi colleghi che hanno espresso apprezzamento per il volume e lo utilizzano a supporto della loro attività didattica e, in particolare, a coloro che nel tempo ci hanno fornito suggerimenti e osservazioni per il suo miglioramento; molte delle innovazioni di questa edizione sono state introdotte anche in seguito a tali suggerimenti. Un riconoscimento, infine, al nostro Editore per l’impegno estremamente efficace nel predisporre tutte le condizioni utili a rendere il nostro sforzo intellettuale un prodotto potenzialmente di successo. 30 novembre 2016 Matteo Caroli Franco Fontana

XIX

Autori

Franco Fontana ha curato l’intero volume ed è coautore del Capitolo 8. È professore emerito Coordinatore Scientifico Public Administration Healthcare and No Profit della Luiss Business School presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma e professore ordinario di Economia e gestione delle imprese e docente di Organizzazione aziendale presso il medesimo ateneo. Matteo Caroli ha curato l’intero volume ed è autore dei Capitoli 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 9. È professore ordinario di Economia e gestione delle imprese internazionali presso il dipartimento di Impresa e Management dell’Università Luiss Guido Carli di Roma. Paolo Boccardelli è coautore del Capitolo 13. È Direttore della Luiss Business School e professore ordinario di Economia e gestione delle imprese e Strategie d’impresa presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma. Stefano Bozzi è coautore del Capitolo 10. È professore associato di Finanza aziendale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Francesco Filippi è autore del Capitolo 12. È professore ordinario di Trasporti e logistica in servizio presso la Sapienza Università di Roma fino a ottobre 2014, dove ha fondato e diretto il Centro di ricerca per il Trasporto e la Logistica (CTL). Luca Giustiniano è coautore del Capitolo 8. È professore associato di Organizzazione aziendale presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma. È anche Associate Dean della Luiss Business School. Federico Munari è coautore del Capitolo 13. È professore associato di Gestione dell’innovazione e dei progetti presso l’Università degli Studi di Bologna. Maria Elena Nenni è autore del Capitolo 11. È ricercatore di Impianti industriali meccanici presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Raffaele Oriani è coautore del Capitolo 10. È professore ordinario di Finanza aziendale presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma. Sandro Sandri è coautore del Capitolo 10. È professore ordinario di Finanza aziendale presso l’Università degli Studi di Bologna. Maurizio Sobrero è coautore del Capitolo 13. È professore ordinario di Gestione dell’innovazione presso l’Università degli Studi di Bologna.

Ringraziamenti dell’Editore

L’Editore ringrazia i docenti che hanno partecipato alla review e che, con le loro preziose indicazioni, hanno contribuito alla realizzazione della quinta edizione di Economia e gestione delle imprese: Antonio Botti, Università degli Studi di Salerno Federica Brunetta, Università Luiss Guido Carli di Roma Anna Cabigiosu, Università Ca’ Foscari Venezia Federica Ceci, Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara Alessandro De Nisco, Università degli Studi Internazionali di Roma Claudio Giachetti, Università Ca’ Foscari Venezia Pietro Lanzini, Università Ca’ Foscari Venezia Maria Isabella Leone, Università Luiss Guido Carli di Roma Anna Moretti, Università Ca’ Foscari Venezia Beatrice Orlando, Università degli Studi Internazionali di Roma Pierluigi Passaro, Università degli Studi di Bari Aldo Moro Massimiliano Vesci, Università degli Studi di Salerno

In questo volume…

L’impresa come sistema “sostenibile”

2

Matteo Caroli

Gli obiettivi del capitolo

Obiettivi del capitolo Posti in apertura di ciascun capitolo, sintetizzano i temi che saranno affrontati e tracciano una linea guida di lettura degli argomenti.

Questo capitolo spiega i principi della gestione “sostenibile” dell’impresa. Sulla base di una lettura sintetica dei principi concettuali della “sostenibilità”, si evidenzia come la creazione di valore ambientale e sociale può essere integrata e anche funzionale alla realizzazione di valore economico.

2.1 I principi concettuali Quattro divari sono ormai considerati “insostenibili”, mettendo seriamente in pericolo la continuità dei sistemi ambientali, sociali ed economici a cui siamo abituati: • • •



il divario tra grado di sfruttamento delle risorse fisiche e naturali della Terra e la disponibilità delle stesse; il divario tra grado di soddisfacimento dei bisogni individuali e quello relativo ai bisogni collettivi; il divario tra gli ambiti (in termini di territori all’interno di uno stesso Paese, organizzazioni, persone) dove sono concentrate quote crescenti di ricchezza economica e gli altri che tendono verso una sempre maggiore arretratezza; il divario tra gli ambiti (anche in questo caso, in termini di territori all’interno di uno stesso Paese, organizzazioni, persone) che dispongono dei fattori di crescita e gli altri che subiscono un sempre più difficile accesso a tali fattori.

L’impresa in quanto fulcro delle attività produttive e motore dell’innovazione e della generazione di ricchezza economica è coinvolta in maniera ineluttabile in questi squilibri; ha un ruolo cruciale nel determinarne l’evoluzione, accentuandone la portata o, piuttosto, favorendo forze per il loro bilanciamento. Di conseguenza, è ormai del tutto prevalente l’idea che le imprese non possono essere guidate dall’obiettivo di massimizzare il solo risultato economico, lasciando ad altri soggetti il compito di attuare gli interventi utili per colmare questi divari; attraverso il loro operato, esse devono contribuire in modo significativo al miglioramento delle condizioni ambientali e sociali, risultando così “sostenibile”.

sostenibile

Parte I La strategia nel sistema impresa

52

Esperienza

Lo standard IWAY di IKEA per il comportamento dei fornitori IKEA ha emanato (la quinta e per ora ultima versione è di dicembre 2012) un documento che statuisce i “requisiti minimi relativi a condizioni ambientali, sociali e lavorative da osservare nell’acquisto di prodotti, materiali e servizi”; tale documento è l’IWAY Standard e deve essere sottoscritto da qualsiasi fornitore di IKEA. Nell’introduzione, dedicata ai principi guida, si legge: “In IKEA riconosciamo che il nostro operato produce un impatto sulle persone e sul pianeta, in particolare sulle condizioni di lavoro e sull’ambiente, a livello sia locale che globale. Inoltre crediamo fermamente di poter aver successo e fare buon business adottando pratiche aderenti ai nostri principi etici. È questo un prerequisito per la nostra crescita futura, che verrà raggiunta insieme ai Fornitori che condividono la nostra visione e ambizione. I nostri principi guida in materia ambientale e sulle condizioni sociali e lavorative rispondono alle seguenti domande. • • •

Qual è il migliore interesse per il bambino? Qual è il migliore interesse per il lavoratore? Qual è il migliore interesse per l’ambiente?

Attraverso questi principi sosteniamo la direzione descritta nella Strategia di Sostenibilità del Gruppo IKEA: “People & Planet Positive”. Fondamenti “The IKEA Way on Purchasing Products, Materials and Services” (IWAY) è il codice di condotta per i fornitori del Gruppo IKEA e comprende i requisiti minimi di IKEA relativi all’ambiente e alle condizioni sociali e lavorative (lavoro minorile incluso). IWAY si basa sulle otto convenzioni chiave definite nei Principi e Diritti Fondamentali sul Lavoro, dichiarazione ILO, giugno 1998, e sui Dieci Principi delle Nazioni Unite Global Compact 2000. IKEA riconosce i principi fondamentali dei diritti umani definiti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (Nazioni Unite, 1948), aderisce alla Sanction List delle Nazioni Unite e all’elenco di misure restrittive dell’Unione Europea. Osservanza della legge e requisiti IKEA Il Fornitore di IKEA dovrà sempre attenersi ai requisiti più rigidi, siano essi previsti dalla legislazione applicabile o dalle specifiche direttive IWAY stabilite da IKEA. Nel caso in cui il requisito IKEA dovesse contraddire leggi o norme nazionali, queste ultime prevalgono e vanno osservate. In tali casi, il Fornitore deve immediatamente informare IKEA. Riservatezza Il successo dell’implementazione di IWAY dipende da collaborazione, fiducia reciproca e rispetto tra Fornitore e IKEA. Qualsiasi osservazione, discussione e informazione scritta ricevuta dal Fornitore deve essere trattata con riservatezza da IKEA, dai suoi dipendenti e da qualsiasi terza parte nominata da IKEA. Etica aziendale I valori di fiducia, integrità e onestà rappresentano le basi di IWAY e sono fondamentali ai fini di una sua implementazione sostenibile. Su queste basi fondiamo le nostre relazioni, che cresceranno attraverso il continuo rispetto di tali valori. È importante che tutti i collaboratori di IKEA e partner esterni comprendano la posizione di IKEA sulla corruzione e sulla sua prevenzione. Ciò è stato stabilito nella Policy del Gruppo IKEA e negli Standard Anticorruzione, e comunicato ai partner commerciali per mezzo delle Vendor Letters che devono essere sottoscritte.” Fonte: http://www.ikea.com/ms/it_CH/pdf/reports-downloads/IWAY_Standard_Ed_5_1_it.pdf

Box Esperienza Trasversali a tutto il volume, approfondiscono i temi di economia e gestione delle imprese con riferimento a specifiche esperienze aziendali. Molte aziende prese a esempio, vicine alla realtà italiana ed europea, consentono di cogliere con precisione quanto affrontato nel capitolo a livello teorico.

In questo volume…

XXVI

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

65

Strumenti

La governance della sostenibilità in Telecom La governance della sostenibilità all’interno di Telecom Italia è garantita, per lo più, dal presidio delle attività di: 1) reporting; 2) pianificazione. Per il reporting di sostenibilità Telecom si avvale di un set di circa 500 KPI, derivanti dall’analisi delle linee-guida del GRI-G4 Comprehensive (Global Reporting Initiative), dei principi del Global Compact, delle indicazioni degli stakeholders e dei questionari inviati dalle principali Agenzie di rating ai fini dell’ammissione agli indici borsistici di sostenibilità. La gestione dei KPI avviene su una piattaforma software centralizzata sulla quale vengono gestite anche le altre applicazioni aziendali che governano i processi contabili, finanziari e di controllo. Ciò consente anche la condivisione di dati tra le varie piattaforme per garantire la massima integrazione della sostenibilità nei processi aziendali. Le persone che lavorano presso tutte le aree operative del Gruppo, provvedono alla raccolta e all’inserimento dei dati che alimentano il sistema, i quali vengono poi controllati centralmente dal team di CSV (Corporate shared value). La pianificazione delle azioni di sostenibilità da mettere in campo si articola in quattro fasi: • • • •

Box Strumenti Approfondiscono alcuni temi di interesse per la disciplina, illustrandoli nel dettaglio.

74

individuazione delle aree di miglioramento della performance di sostenibilità; confronto tra le aree di miglioramento e i progetti che il Gruppo prevede di effettuare per finalità di business; definizione di interventi mirati sulle aree di miglioramento; monitoraggio delle aree che occorre presidiare per mantenere il livello di performance raggiunto.

Il confronto tra la pianificazione effettuata dalla funzione CSV e le disponibilità delle linee operative avviene in modo sistematico permettendo l’equilibrio tra costi e benefici. Tra le tematiche di maggior rilievo costantemente monitorate rientrano le questioni ambientali. Le tematiche sociali attinenti alle relazioni con la comunità sono coordinate per lo più dalla funzione CSV, mentre il sociale inerente alle persone che lavorano nel Gruppo è gestito dalla direzione People Value. Infine, utile evidenziare che le azioni in materia di sostenibilità sono sottoposte alla supervisione del Comitato per il Controllo e i Rischi, che esercita una funzione di alta supervisione in materia di CSV, vigilando sulla coerenza delle azioni realizzate con i principi posti dal Codice Etico del Gruppo. Fonte: http://www.telecomitalia.com/tit/it/sustainability/our-approach/governance-engagement/engagement. html.

funzionali non solo agli obiettivi strettamente economici dell’impresa, ma anche alla creazione di valore per tutti gli stakeholders e per la Comunità nel suo insieme. La sostenibilità dipende, però, anche da “come” l’impresa individua il valore atteso dagli stakeholders, ovvero le esigenze che essa intende soddisfare organicamente alle proprie attività di business. Quella del “come” è una questione dirimente, poiché l’impresa potrebbe stabilire in modo del tutto autonomo quali obiettivi sociali e ambientali perseguire, insieme a quelli economici, e, di conseguenza, come gestire il business rispetto agli stakeholders. In questo caso, l’impresa più che essere “sostenibile”, dimostrerebbe avere un certo grado di filantropia. Può avere un ruolo anche molto importante nella creazione di benessere collettivo, ma il fatto che ciò derivi da un atto del tutto discrezionale e unidirezionale rappresenterebbe un limite intrinseco cruciale. La sostenibilità è, infatti, legata anche al grado di coinvolgimento degli stakeholders nelle decisioni strategiche dell’impresa, e in particolare quelle da cui maggiormente dipende l’impatto ambientale e sociale della sua attività e del modo di competere. Per questo,

Parte I La strategia nel sistema impresa

Alla fine di ciascun capitolo, oltre alla sintesi dei contenuti, sono presenti domande di verifica e test a risposta multipla di autovalutazione per verificare il proprio livello di comprensione e di apprendimento.

Sintesi Il capitolo illustra i principi della “sostenibilità” applicati all’impresa; in particolare è spiegato il concetto di “shared value”, basato sui principi dell’economia civile. Con riferimento all’impresa, sono descritte le fasi tipiche di sviluppo dell’approccio alla gestione sostenibile, evidenziando l’impatto positivo sul vantaggio competitivo e le modalità di progressivo coinvolgimento degli stakeholders. Il tema dello stakeholders’ engagement è poi ripreso nel paragrafo finale del capitolo. Il capitolo si sofferma anche sugli orientamenti delle principali istituzioni internazionali a favore dello sviluppo sostenibile e i conseguenti indirizzi dati al mondo delle imprese. Nella terza parte, il capitolo analizza le principali misure favorevoli alla sostenibilità nell’ambito delle funzioni aziendali: le operations, il marketing, la gestione dei fornitori, la gestione del capitale umano. Particolare attenzione viene data allo sviluppo delle relazioni con le Comunità dei territori ove l’impresa ha localizzato proprie importanti strutture produttive. Il capitolo discute anche l’innovazione tecnologica e del modello di business nella prospettiva del miglioramento del grado di sostenibilità dell’impresa e le problematiche di governance. Nella parte finale sono approfondite le problematiche inerenti l’innovazione nella relazione con gli stakeholders e il conseguente coinvolgimento dell’impresa nell’innovazione sociale.

Domande ed esercizi 13. Quali sono le quattro caratteristiche del processo di

Domande di verifica

Capitolo 6 Le strategie di crescita

203

“stakeholders’ engagement”? 14. A cosa serve la matrice di materialità? Che cosa si intende per “shared value” e perché questo 15. Quali sono i vantaggi e i limiti della matrice di mateconcetto affonda le sue radici nel filone di pensiero rialità? dell’“economia civile”? di diversificazione guida la crescita dell’impresa in business diversi da quello di origine; tale diversificazione si del “manager della grado so2. Quali sono le funzioni tipiche caratterizza per un certo di correlazione tecnologica, produttiva o di mercato tra i vari business diversificati. stenibilità” in un’impresa? Nella nostra epoca, lo sviluppo internazionale è un percorso praticamente ineluttabile non solo per le grandi Test a risposta multila 3. Quali sono le tre determinanti del grado di sostenibilità imprese, ma anche per quote sempre maggiori di medie e piccole imprese. dell’impresa? 1. Quando l’impresa è sostenibile? 4. Quali sono i criteri dal lato dei ricavi e dei costi per □ a. Quando raggiunge stabilmente l’equilibrio econola valutazione economico-finanziaria di un’azione di Domande ed esercizi mico e il vantaggio competitivo. sostenibilità? □ b. Quando riesce a soddisfare in modo equilibrato 5. Quali sono i potenziali vantaggi della sostenibilità sulla □ c. il valore aggiunto che l’impresa genera in proporDomande di verifica gli obiettivi di tutti gli stakeholders interni ed “brand equity” di un prodotto o di un servizio? zione al valore della produzione che realizza. esterni. stabiliti nel Libro Ver6. Quali sono i principi fondamentali 1. Spiegare le condizioni che rendono conveniente c. Quandol’interiesce a operare in modo senza del ciclo di vita del set2. Nella faseefficiente di introduzione □ de dell’UE “Promuovere un quadro europeo per la regrazione verticale. ricorrere a supporti esterni fornitori tore,(finanziatori, il grado di integrazione verticale è normalsponsabilità sociale”? 2. Illustrare i fattori di costo che determinano la conecc.). mente: Initiative”? 7. Quali funzioni ha il “Global Reporting venienza o meno di una scelta di integrazione verti□ a. molto elevato. 8. Nella gestione delle risorse umane, 2. Il responsabile della sostenibilità in una grande cale. quali sono gli am□ b. molto basso. biti dove sono più comuni sostenibilità? impresa è normalmente: Spiegare i di vantaggi specifici dell’integrazione verticale 3. i programmi c. non è prevedibile. □ 9. Perché la “discriminazione dei prezzi” può essere del una rapporto con un dirigente che risponde a un direttore (prima □ a. a valle nella gestione i distributori. strategia utile alla sostenibilità? linea). 3. La diversificazione si dice conglomerale quando: 4. Spiegare che cosa si intende per “quasi-integrazione 10. Come si distinguono le misure per la sostenibilità da □ b. un direttore (prima linea). verticale”. □ a. l’impresa si espande in settori privi di collegamenti quelle filantropiche? 5. Illustrare il concetto di diversificazione c. una figura di “esperto”, in alcuni casi anche industriali o di estermercato con quelli di origine. □ distinguendone 11. In quale modo la “proposta di può essere innono (consulente). le valore” varie tipologie. □ b. l’impresa entra in mercati molto vicini a quelli in vata nella prospettiva della cui precedentemente operava. Indicare i tre criteri distintivi del grado di correlazione 6. sostenibilità? 12. Quali aspetti della governance dell’impresa possono es3. Il “Cause related marketing” c.è: esistono legami di natura tecnologica ma non di della diversificazione. □ sere rilevanti per rafforzare la ge- misurare il□grado a. unadi strategia collegata alla dell’impresa. Spiegare comeverso è possibile diversi- di marketing molto 7. l’orientamento mercato tra i business causa primaria che l’impresa vuole raggiungere. stione sostenibile? ficazione di un’impresa. 4. All’aumentare del grado di diversificazione, au8. Illustrare le principali ragioni alla base della strategia Parte II menta: La gestione aziendale in chiave strategica 436 di diversificazione. □ a. il rischio totale d’impresa. 9. Illustrare le spinte all’internazionalizzazione di origine □ b. la complessità organizzativa. interna all’impresa. i business aziendali. World Class Manufacturing. L’aspetto peculiare □ c. la ecorrelazione di origine 10. Spiegare le spinte all’internazionalizzazione zione tra Lean Production Six Sigma,tra fino alla recentissima esterna. di questa metodologia, che per il resto non fa altro che sistematizzare e riproporre concetti noti, è l’attenzione 5. La teoria di Dunning spiega gli investimenti diretfortissima ai costi. Questo aspetto della performance aziendale, se pure mai dimenticato, ovviamente, in ambito ti esteri come trainati da: operativo, era rimasto decisamente snobbato dalla teoria. Questa ritrovata attenzione a livello metodologico, vantaggi: market seeking, low cost agli seeking, naTest a risposta multipla □ a. di ha suggerito agli autori dedicare un intero paragrafo economics delle operations, ovvero alla gestione tural seeking. delle operations dal punto di resource vista della determinazione dei costi. labour seeking, low cost seeking, 1. All’aumentare dell’integrazione verticale di L’ultimo paragrafo □ b. èvantaggi: stato dedicato al trattamento delle natuspecificità della produzione di servizi. Troppo ral produrre resource seeking. un’impresa, aumenta: spesso si sottolinea come beni o erogare servizi non presenta sostanziali differenze dal punto di market seeking, low cost seeking, □ c. vantaggi: □ a. il livello di outsourcing. vista della metodologia per la gestione delle operations. Pur comvero, è bene anche bilanciare sottolineando petitive seeking. servizi si riflettono in peculiarità del flusso produttivo e arrivano a modificare la □ b. il valore di mercato dei suoi prodotti.che alcune peculiarità dei 1.

complessità della sua gestione.

Bibliografia

Domande ed esercizi

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2. 3.

4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

Per quale motivo la strategia delle operations necessita di essere continuamente aggiornata? Che differenza passa tra le decisioni strutturali e quelle infrastrutturali? Illustrare I principali criteri per la localizzazione delle facilities. Illustrare I caratteri peculiari delle strategie chase e level. Quali sono I principali vantaggi e svantaggi di integrare verticalmente le attività produttive? Quali sono le attività e gli obiettivi della pianificazione e controllo della produzione? Illustrare le differenze tra logica Push e logica Pull. Illustrare le categorie di costo che intervengono nella fase di programmazione aggregata della produzione. Illustrare I modelli per la gestione e il controllo delle scorte. Indicare le caratteristiche peculiari del Material Requirement Planning rispetto al Just in Time. Illustrare I principi cardine che accomunano tutte le metodologie per l’operations improvement. Perché risulta efficace l’integrazione tra Lean Production e Six Sigma? Illustrare come è strutturato il budget di produzione. Che cosa si intende con il termine servitization?

cessari per la produzione. □ b. Durante la fase di produzione. □ c. Dopo la fine dell’intero processo di produzione e di assemblaggio.

2.

Il Master Production Schedule è costituito da: □ a. un elenco dei prodotti da realizzare, suddivisi per famiglia e per grado di complessità. □ b. un piano che definisce i prodotti da realizzare, la loro quantità e i tempi entro i quali devono essere disponibili. □ c. un sistema di pianificazione strategica configurata sulla base di priorità e urgenze.

3.

Per un sistema MRP i dati di input sono costituiti da: □ a. il Master Production Schedule, i lead time di produzione, di assemblaggio, di acquisto, la disponibilità dei diversi codici, la distinta base. □ b. il Master Production Schedule, i lead time di produzione, la disponibilità dei diversi codici, la sequenza delle fasi di processo. □ c. il Master Production Schedule, i lead time di acquisto, la disponibilità dei diversi codici, la capacità del sistema produttivo.

4.

Il sistema Just in Time richiede soprattutto: □ a. un’accurata previsione della domanda di mercato. □ b. un assiduo collegamento con la rete dei fornitori. □ c. la costituzione di un elevato stoccaggio di parti e componenti.

Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

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Matteo Caroli

Gli obiettivi del capitolo Il capitolo fornisce i riferimenti concettuali del “sistema” impresa, nelle sue principali manifestazioni, e del contesto esterno ove essa opera; spiega altresì significati e modalità dell'interazione tra tale contesto e l'impresa stessa.

1.1 L’impresa come sistema 1.1.1 Le caratteristiche basilari del sistema impresa L’impresa è un sistema costituito da un insieme di risorse e di attori legati tra loro da relazioni orientate alla realizzazione di attività e collegato, attraverso altre relazioni, a vari soggetti esterni. Il sistema impresa non è una somma statica di risorse e attività, ma una loro combinazione che si viene formando nel tempo e in uno specifico ambiente. Come osserva Pasquale Saraceno, esso è dunque un’entità che va compresa in relazione al contesto geografico e a quello storico di cui è parte e dai quali esso è condizionato. Gli attori interni che costituiscono il sistema impresa e quelli esterni con cui questo stabilisce determinate relazioni sono portatori di propri interessi. Essi rappresentano, dunque, forze che si condizionano reciprocamente e incidono sull’evoluzione dello stesso sistema aziendale. L’impresa è un sistema cognitivo: nello svolgimento delle proprie attività essa apprende e matura progressivamente una conoscenza che è alla base del suo operare e quindi di ulteriore apprendimento. Il sistema impresa è complesso, definito da Herbert Simon come «(…) un sistema composto da un gran numero di parti che interagiscono in modo non semplice. In un sistema complesso, l’insieme è qualcosa di più della somma delle parti; non in senso metaforico né metafisico, ma nell’importante senso pragmatico per il quale, date le proprietà delle parti e le leggi della loro interazione, non è semplice inferirne le proprietà del tutto». L’impresa è un sistema complesso e gerarchico, nel senso che i sottosistemi che lo costituiscono sono in rapporto fra loro. Questo significa che il sistema impresa può essere analizzato in serie successive di sottosistemi; ogni sottosistema è subordinato con un certo rapporto di autorità al sistema di cui fa parte. La natura gerarchica favorisce l’evoluzione

L’impresa è un sistema costituito da un insieme di risorse e di attori legati tra loro da relazioni orientate alla realizzazione di determinate attività.

sistema cognitivo

sistema complesso e gerarchico

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Parte I La strategia nel sistema impresa

fasi di stabillità e di cambiamento

del sistema stesso poiché aumenta le sue capacità di adattamento ai cambiamenti dell’ambiente. L’evoluzione dell’impresa dipende da molteplici fattori interni ed esterni e dal modo in cui essi si combinano. Tra questi, è essenziale, in tutte le fasi della vita dell’impresa la “spinta imprenditoriale”. Questa è il prodotto di un insieme di elementi attinenti il comportamento di colui/ei/coloro che esercita/tano la funzione imprenditoriale e gli obiettivi fondamentali che si intendono perseguire attraverso il loro impegno imprenditoriale. Tale spinta può avere natura più strettamente economica (realizzare – e beneficiare di – valore economico; avere un’occupazione remunerata; migliorare le condizioni economiche proprie e dei propri familiari); oppure essere caratterizzata da aspetti anche ideali (realizzare un’idea innovativa; contribuire alla soluzione di un problema). Essa può mutare nel tempo, sia per l’evoluzione degli obiettivi personali e delle prospettive del soggetto imprenditore sia per il cambiamento di tale soggetto. Il sistema impresa evolve attraverso l’alternarsi di fasi di stabilità e di cambiamento. Secondo la definizione di Mintzberg e Waters (1982), esso progredisce secondo: «[…] a pattern of sprints and pauses which suggests an inchworm analogy [… ]». Sulla linea di pensiero di Schumpeter, per Fazzi e Pacces, l’attività imprenditoriale si esplica nell’alternarsi di azioni volte a dare al sistema impresa una struttura stabile ed efficiente e azioni innovative che determinano l’evoluzione di tale struttura e della sua iniziale posizione nell’ambiente. Nel sistema impresa si alternano, dunque, fasi in cui sono ricercate stabilità e routine a fasi di impulso, in cui l’azione innovatrice dell’imprenditore modifica lo status quo. La regolazione dell’alternanza tra le fasi di stabilizzazione e quelle di impulso è funzione fondamentale dell’organo di governo dell’impresa.

1.1.2 Le modalità di crescita dell’impresa Le modalità di crescita dell’impresa possono essere ordinate in uno schema logico che parte dalla condizione base di un’impresa che opera in una solo settore e in un’unica area geografica (Figura 1.1).

Strumenti

Il significato “plurivalente” dell’imprenditorialità “(…) L’imprenditorialità prima di avere un significato professionale, ne ha uno umano. Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come “actus parsonae”, per cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli stesso “sappia di lavorare in proprio”. Non a caso, Paolo VI insegnava che “ogni lavoratore è un creatore”. (…) al fine di realizzare un’economia che nel prossimo futuro sappia porsi al servizio del bene comune nazionale e mondiale è opportuno tenere conto di questo significato esteso di imprenditorialità. Questa concezione più ampia facorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze del mondo non profit a quello profit e viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo.” Benedetto XVI, Lettera Enciclica “Caritas in Veritate”, p.40, 2009.

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

Acquisizioni IDE Sviluppo in nuove aree geografiche

Accordi

Greenfield

Esportazione Espansione nel business attuale

Estensione della gamma offerta

Ampliamento della combinazione prodotto-mercato A monte

Integrazione verticale

A valle

Non correlata Diversificazione in nuovi business Correlata

• Domanda • Canali distributivi • Servizi integrati • Processi produttivi • Tecnologie di processo o di prodotto • Materie prime o componenti • Risorse distintive

Figura 1.1 Schema logico dei modelli di crescita.

Da questo punto di partenza, l’impresa può seguire due alternative fondamentali: espandere la propria presenza nel settore originario oppure diversificare in nuovi settori. La prima scelta può essere attuata attraverso l’entrata in nuove aree geografiche, attraverso l’esportazione dei propri prodotti, accordi con imprese all’estero oppure investimenti diretti nel nuovo ambito geografico. Questi investimenti possono essere rivolti ad acquisire unità aziendali già esistenti oppure a creare nuova capacità produttiva in Paesi diversi dal proprio. Naturalmente, l’impresa può espandersi all’estero anche in business diversi da quello originario; quindi, nell’ambito di una crescita diversificata. Una seconda modalità di crescita nel business originario consiste nell’estensione della gamma di offerta. A riguardo Ansoff (1965) descrive tre possibili situazioni: l’introduzione di nuovi prodotti nello stesso mercato; l’introduzione degli stessi prodotti in nuovi mercati; l’introduzione di nuovi prodotti in nuovi mercati. L’estensione delle attività realizzate internamente dall’impresa, e collocate a monte e/o a valle di quelle realizzate in origine rappresenta un’ulteriore modalità di espansione, indicata come “integrazione verticale”; l’impresa cresce andando a operare in attività a monte o a valle rispetto a quella di origine.

nuove aree geografiche

estensione della gamma di offerta

integrazione verticale

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Parte I La strategia nel sistema impresa

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diversificazione

La seconda opzione di crescita consiste nella diversificazione, cioè nell’entrare in settori del tutto nuovi rispetto a quelli di origine. La diversificazione si distingue in base al grado di correlazione del business verso cui l’impresa ha diversificato con quello che ha impegnato inizialmente l’impresa o che rappresenta il fulcro della sua attività (core business). L’impresa può diversificare rimanendo nella sua area geografica di origine, oppure, entrando in nuovi Paesi.

1.1.3 La proprietà autopoietica del sistema impresa sistema autopoietico

impresa aperta impresa chiusa

Il sistema impresa è caratterizzato dall’essere autopoietico. Maturana e Varela (1980) introdussero questo termine per descrivere un sistema che evolve a partire da sé stesso, «per cui non c’è separazione tra produttore e prodotto». In quanto sistema autopoietico, l’impresa ha due proprietà apparentemente contrastanti: è aperta, poiché scambia risorse con l’ambiente di cui è parte; è chiusa, poiché è in grado di mantenere relativamente stabile la propria organizzazione, rendendola in una certa misura impermeabile alle spinte provenienti dall’esterno. La chiusura dell’impresa rispetto all’ambiente non va, quindi, intesa come isolamento poiché coesiste con lo scambio di risorse con l’esterno. L’impresa delinea i propri confini, sulla base del proprio patrimonio di conoscenze e, conseguentemente, delle attività che svolge nel processo di autogenerazione. Nonostante la scelta del confine possa cambiare (e spesso cambi effettivamente), il suo mantenimento rimane condizione essenziale per la conservazione del sistema. Per altro, il confine di un’impresa non agisce da barriera verso l’esterno, quindi non interrompe le relazioni che questa ha con i soggetti esterni; piuttosto, distingue l’impresa dal suo ambiente, rendendola un’identità separata da esso e differenziando le connessioni esistenti al suo interno da quelle stabilite con l’esterno. Lo scambio con l’ambiente (attuato attraverso le relazioni con i sistemi che lo costituiscono) è orientato all’acquisizione delle energie di cui l’impresa ha bisogno nel processo di generazione delle proprie risorse. Da questo punto di vista, si può affermare che la produzione di risorse dell’impresa avviene a partire da quelle che possiede già, metabolizzando l’energia acquisita attraverso le relazioni con l’esterno. L’evoluzione del sistema impresa non è prodotta dalla semplice importazione al suo interno di determinate energie; quindi, non è il risultato della sola apertura allo scambio con l’ambiente. L’evoluzione è il risultato della metabolizzazione di quelle energie all’interno dell’impresa, realizzata attraverso la particolare configurazione del sistema impresa; è basata, quindi, sul suo equilibrio interno.

1.1.4 Gli obiettivi del sistema impresa stakeholders

Occorre distinguere gli obiettivi del sistema impresa da quelli dei soggetti che in varia maniera sono coinvolti e detengono determinati interessi nel suo funzionamento (stakeholders). Questi ultimi sono innanzitutto gli attori, singoli o collettivi, che fanno parte dell’impresa; sono anche i soggetti esterni che appartengono a sistemi che interagiscono in modo rilevante con l’impresa. Gli stakeholders sono evidentemente soggetti distinti dall’impresa verso la quale detengono degli interessi. Ne deriva che i loro fini non possono essere assunti quali obiettivi dell’impresa stessa. D’altro canto, l’impresa, come qualunque organizzazione, esiste e si sviluppa in funzione delle persone che ne hanno la proprietà e/o il controllo o che co-

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

munque interagiscono con essa proprio per soddisfare, direttamente o indirettamente, i propri interessi. Sono le persone, non le organizzazioni, ad avere finalità e obiettivi. In prima battuta, pare dunque naturale concludere che coloro che hanno il governo del sistema impresa ne orientano i comportamenti per soddisfare al meglio i loro specifici scopi. Questo non significa, però, che tali scopi possano essere assunti come il fine dell’impresa. Essi devono in qualche misura integrarsi con gli obiettivi degli altri soggetti coinvolti nell’impresa. In questa prospettiva, l’impresa deve operare in modo da offrire adeguata soddisfazione degli scopi di molteplici soggetti. Di conseguenza, l’impresa deve essere guidata dal “meta-obiettivo” di raggiungere e mantenere nel tempo le condizioni necessarie per soddisfare in maniera adeguata le aspettative dei suoi diversi stakeholders. Tali condizioni sono (Figura 1.2): 1. il raggiungimento dell’equilibrio economico, in condizioni di sostenibilità ambientale e sociale; 2. la creazione di valore per la comunità; 3. l’arricchimento del patrimonio di risorse disponibili; 4. il rafforzamento delle capacità di utilizzazione delle risorse disponibili. Queste non costituiscono solo le condizioni che l’impresa deve assolvere per soddisfare gli obiettivi specifici dei suoi stakeholders. Rappresentano anche il punto di riferimento per individuare concretamente l’equilibrio tra tali obiettivi specifici. Il mantenimento nel tempo delle condizioni per soddisfare gli obiettivi di tutti gli stakeholders, trovando un corretto equilibrio tra le possibili diverse istanze è alla base dell’evoluzione dell’impresa. Figura 1.2 Il fine dell'impresa.

Equilibrio economico

Creazione di valore per la comunità

Incremento del patrimonio risorse

Miglioramento delle capacità di utilizzazione delle risorse

Mantenimento delle condizioni per soddisfare gli obiettivi dei singoli stakeholder Determinazione dei criteri per comporre gli obiettivi dei singoli stakeholder

Evoluzione dell’impresa

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Parte I La strategia nel sistema impresa

1.2 L’impresa familiare1 Sono definite “familiari”, le imprese in cui più membri di una stessa famiglia sono coinvolti nella proprietà o nella gestione del business, esercitando quindi una sostanziale influenza nell’evoluzione dell’impresa stessa. In termini più operativi, esse sono individuate in base alla quota di capitale detenuta dai membri della famiglia e necessaria a ottenere il controllo dell’impresa. In generale, si ritiene che un’impresa possa essere considerata “familiare quando i membri della famiglia hanno una quota di proprietà pari ad almeno il 50% del totale del capitale sociale (25% se l’impresa è quotata in borsa) (Miller et al., 2013). È necessario chiarire a livello concettuale la distinzione tra piccola impresa e impresa familiare. Il primo concetto fa riferimento alla variabile dimensionale mentre il secondo alla presenza di un nucleo familiare nella struttura proprietaria. Se è vero che le piccole imprese sono quasi sempre a gestione familiare, non è altrettanto vero che le imprese familiari siano necessariamente realtà di dimensioni ridotte. Basti pensare che circa un terzo delle imprese elencate negli indici S&P 500 e Fortune 500, e a quasi la metà di quelle presenti nell’elenco Fortune 1000, sono controllate da una famiglia (Gomez-Mejia et al., 2011).

1.2.1 Il carattere distintivo dell’impresa familiare Nell’impresa familiare i confini tra famiglia e business risultano molto sfumati con la conseguenza che priorità, emozioni e obiettivi legati al nucleo familiare spesso si sovrappongono alle esigenze di performance aziendale. Per meglio comprendere quali fattori chiave influenzano decisioni e comportamenti aziendali nell’impresa familiare, nonché cogliere l’essenza distintiva di questo fenomeno, negli ultimi anni è emerso un approccio teorico a hoc nato nell’ambito degli studi di family business. Tale approccio, noto come Socioemotional Wealth Theory (SEW), suggerisce che il fine ultimo delle decisioni nelle imprese a controllo familiare sia il mantenimento del “patrimonio affettivo” dei membri della famiglia. Si può considerare la SEW come un concetto «ombrello» che racchiude l’utilità che la famiglia proprietaria deriva da tutti quegli aspetti di natura non strettamente economica e derivanti dalla sua posizione di controllo. Con il termine SEW si fa dunque riferimento all’insieme di fattori non economici presenti nell’impresa familiare e che ne guidano decisioni e comportamenti. Il punto di riferimento cardine nei processi decisionali è difatti rappresentato proprio dalla eventuale perdita o guadagno di SEW: ciò non vuol dire che le considerazioni economiche non siano tenute in considerazione, ma che esse non sono al primo posto nella scala di priorità. Le principali scelte aziendali sono quindi guidate dal desiderio di preservare o incrementare la SEW. Berrone, Cruz e Gomez-Mejia (2012) delineano cinque dimensioni fondamentali della SEW strettamente interrelate tra loro: • • • • • 1

controllo e influenza esercitati dalla famiglia sul business; senso di identità tra famiglia e impresa; relazioni con gli stakeholders; attaccamento emotivo della famiglia all’impresa; approccio dinastico alla successione aziendale.

Questo paragrafo è stato curato da Claudia Pongelli.

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

Controllo e influenza esercitati dalla famiglia sul business La prima dimensione fa riferimento al controllo della famiglia sull’impresa. Esso rappresenta un aspetto fondamentale affinché i membri della famiglia possano perseguire i loro obiettivi attraverso il business. In altre parole il controllo risulta essere una condizione soglia necessaria affinché il concetto di mantenimento di SEW come obiettivo cardine all’interno dell’impresa familiare abbia ragione d’essere. Secondo tale prospettiva, affinché gli obiettivi non economici giochino un ruolo chiave nei processi decisionali è essenziale che sussistano elementi di ability (altrimenti non sarebbe possibile esercitare tale potere), ma anche che tali elementi si combinino con una effettiva willingness dei membri della famiglia a perseguire tali goal. Nelle imprese familiari i meccanismi di controllo formale si accompagnano spesso a una serie di meccanismi di controllo di natura informale. Basti pensare al caso di family firms in cui il fondatore esercita un controllo sulle decisioni aziendali che spesso supera la sua effettiva quota di proprietà. Ciò è da riscontrarsi nel carisma del fondatore, nello status che negli anni ha assunto all’interno dell’organizzazione e che può elevarlo a una posizione di influenza maggiore. Inoltre può accadere, soprattutto nelle imprese di dimensioni minori in cui vi è più spazio per meccanismi informali, che all’interno di un nucleo familiare le decisioni assunte non rispecchino le effettive quote di proprietà, ma risentano di logiche gerarchiche e/o psicologiche presenti all’interno della famiglia. Senso di identità tra impresa e famiglia La seconda dimensione riguarda la stretta identificazione della famiglia con l’impresa. Tale senso di identità agisce come una sorta di collante che unisce indissolubilmente i membri della famiglia all’impresa e orienta i loro comportamenti al raggiungimento di obiettivi comuni. Dalla sovrapposizione tra impresa e famiglia si genera dunque un’identità condivisa di “chi siamo” e “cosa facciamo” nell’impresa familiare. Tale aspetto è particolarmente significativo per le imprese familiari che portano il nome della famiglia proprietaria; poiché il nome dell’impresa corrisponde al nome della famiglia proprietaria, il tema dell’identità risulta notevolmente accentuato non solo nella sua dimensione interna, ovvero relativamente al senso di appartenenza dei membri della famiglia verso il business, ma anche nella sua dimensione esterna, ovvero con riferimento alla percezione da parte degli stakeholders. L’impresa viene, difatti, percepita dagli stakeholders esterni come una sorta di estensione del nucleo familiare. In altre parole tanto più è elevata la visibilità della famiglia all’interno dell’organizzazione quanto più il destino di famiglia e impresa risultano legati insieme: la percezione che gli stakeholders maturano dei comportamenti aziendali tendono a ripercuotersi direttamente sulla reputazione della famiglia. Relazioni con gli stakeholders Molto spesso le imprese familiari sono particolarmente coinvolte in iniziative di corporate social responsibility nel loro territorio di origine: cercano buone relazioni almeno con i principali stakeholders e comunque giocare un ruolo positivo nello sviluppo sostenibile della Comunità di cui sono parte. Poiché reputazione aziendale e reputazione familiare sono intimamente legate, l’impresa familiare è particolarmente sensibile a diffondere un’immagine positiva e ottenere legittimità sociale del proprio operato. I leader familiari difatti spesso sono ben noti dalla comunità locale e per tale motivo percepiscono pressioni sociali anche da un punto di vista personale. Di conseguenza essi risultano disincentivati ad adottare comportamenti che potrebbero essere disapprovati dalla comunità.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

Il senso di responsabilità sociale delle imprese familiari e l’importanza che esse attribuiscono al patrimonio relazionale si evince anche nei rapporti con i dipendenti non appartenenti al nucleo familiare. Diversi studi recenti hanno evidenziato che le imprese familiare sono poco inclini a effettuare tagli al personale per ragioni puramente economiche e di breve termine. Attaccamento emotivo della famiglia all’impresa La quarta dimensione fa riferimento al ruolo delle emozioni nel contesto del business familiare. Tutte le tipologie di organizzazioni devono fare i conti con le dinamiche emotive interpersonali, ma la presenza della famiglia nel business crea un fattore di maggiore complessità. Nelle imprese familiari le emozioni hanno difatti una particolare centralità. Il ruolo delle emozioni è spesso stato studiato in maniera indiretta in relazione al tema dei conflitti. Alcuni studiosi hanno notato che la frequenza e la severità dei conflitti aumenta con un maggior numero di membri della famiglia coinvolti in ruoli dirigenziali ma anche con un maggiore numero di soggetti esterni che hanno influenza nelle decisioni aziendali. Si nota dunque come i conflitti facciano tanto riferimento a relazioni tra membri della famiglia quanto tra questi ultimi e individui non appartenenti al nucleo familiare. Inoltre, si evidenzia una maggiore presenza di conflitti in quelle imprese di seconda generazione in cui il fondatore, seppur non più direttamente coinvolto nelle operazioni quotidiane, continua a esercitare la sua influenza e interferire con le decisioni del successore in carica (Davis e Harveston, 1999). Tale fenomeno, noto in letteratura come “the founder’s shadow”, tende difatti a creare una confusione di ruoli e responsabilità e generare frustrazione nella nuova generazione al comando. Approccio dinastico alla successione aziendale Per successione nell’impresa familiare si intende il processo attraverso il quale poteri e responsabilità vengono progressivamente trasferiti da un membro della famiglia (per esempio il fondatore) a un altro membro appartenente a una generazione successiva. Sebbene esistano casi di successione improvvisa come per esempio per morte del CEO, solitamente tale processo segue una logica graduale di “mutual role adjustment” in cui il predecessore gradualmente delega responsabilità al successore e coinvolge quest’ultimo nelle decisioni aziendali; in parallelo, il successore aumenta via via il suo coinvolgimento, impegno e potere decisionale. Longenecker e Schoen, nel 1978, hanno elaborato un modello descrittivo del processo di successione articolato nei seguenti passaggi. 1. The pre-business stage, in cui il successore è un soggetto passivo negli eventi aziendali. 2. The introductory stage, in cui il successore è più esposto alle questioni aziendali anche se non ha ancora esperienza lavorativa diretta nel business. 3. The introductory-functional stage, in cui il successore è parzialmente coinvolto nell’organizzazione. 4. The functional stage, in cui il successore è un membro a tempo pieno nell’organizzazione. 5. The advanced functional stage, in cui il successore inizia ad assume responsabilità a livello manageriale.

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

6. The early succession stage, in cui il successore assume formalmente il ruolo dirigenziale. 7. The mature succession, in cui il successore è formalmente e sostanzialmente il leader dell’impresa. Il desiderio di trasferire il controllo del business alla generazione familiare successiva è uno degli aspetti chiave che distingue le imprese familiari dalle altre tipologie di organizzazione. Gli studiosi difatti concordano nell’individuare importanti differenze tra imprese familiari e non familiari soprattutto con riferimento alla selezione del successore. Si evidenzia a tal proposito che nelle imprese familiari la libertà di scegliere il successore da un pool di soggetti è fortemente limitata da meccanismi dinastici e legami interpersonali tra i membri della famiglia. È stato addirittura riscontrato che nelle imprese familiari si tende a preferire un successore appartenente alla famiglia persino quando candidati più idonei sono disponibili nel mercato del lavoro (Kets de Vries, 1993). Tale logica guidata dal desiderio di mantenere un esclusivo controllo familiare sul business e di soddisfare aspirazioni dinastiche della famiglia, ha spesso esposto le imprese familiari a scelte subottimali, impedendo di coinvolgere talenti esterni. È possibile individuare tre aspetti chiave che influenzano positivamente il processo di successione e che ne agevolano il buon esito (Morris et al., 1996). •





La pianificazione della successione. La possibilità di pianificare correttamente e tempestivamente tale processo è ritenuta cruciale nel garantire la continuità intergenerazionale del business. La successione difatti comporta un forte periodo di cambiamenti per l’intera organizzazione, una esacerbazione dei conflitti interni dovuti alle differenze tra generazioni e spesso le imprese familiari non sono pronte ad affrontarlo. La qualità delle relazioni interpersonali tra membri della famiglia e tra questi ultimi ed eventuali dipendenti esterni. Si fa qui riferimento al tema della comunicazione e della fiducia tra i membri della famiglia, ma anche alla possibile presenza di rivalità interne e sentimenti contrastanti che possono inficiare la qualità delle relazioni. Livello di preparazione del successore. Competenze manageriali, esperienza lavorativa nelle attività dell’impresa e attitudini personali del successore rappresentano tutti aspetti cruciali per determinare il successo di un processo di successione. Più specificatamente, ci si riferisce tanto a variabili oggettive, quali il livello di educazione formale, gli anni di esperienza lavorativa presso l’impresa di famiglia o altre imprese, il numero di ruoli ricoperti all’interno dell’organizzazione; quanto a variabili di natura soggettiva, quali la motivazione che spinge il successore a lavorare nel business di famiglia o la percezione che quest’ultimo ha del proprio livello di preparazione.

1.2.2 Il coinvolgimento di manager esterni Una problematica che accomuna molte imprese familiari è il coinvolgimento di manager esterni (quindi non appartenenti al nucleo familiare) nella gestione aziendale. La professionalizzazione rappresenta un momento di transizione importante dell’impresa familiare, spesso percepito dalla famiglia proprietaria come una possibile minaccia al mantenimento della propria SEW.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

La presenza di un manager esterno, tuttavia, può avere per l’organizzazione l’effetto benefico di moderare l’impatto che gli obiettivi non economici hanno nelle decisioni strategiche aziendali, riorientando i goal aziendali verso considerazioni più strettamente di performance. Tale effetto di bilanciamento si concretizza attraverso il diverso set di preoccupazioni e priorità che caratterizza il manager esterno rispetto a un membro della famiglia. Sebbene sia stata ormai superata l’idea che i manager esterni abbiano un approccio impersonale e non emotivo nel processo decisionale, è comunque ragionevole pensare che essi siano decision-makers meno sensibili alle dinamiche familiari interne rispetto ai membri della famiglia. Con ciò non si intende affermare che i manager familiari siano meno capaci a gestire il business rispetto a soggetti esterni, si suggerisce piuttosto che coinvolgere manager non appartenenti alla famiglia e delegare loro parte delle decisioni può essere di beneficio per l’intera organizzazione. È stato per esempio riscontrata la presenza di un manager esterno come un comune fattore di successo nell’internazionalizzazione delle piccole imprese familiari (Crick et al., 2006).

1.3 L’ambiente rilevante per l’impresa 1.3.1 I contenuti dell’ambiente rilevante e i suoi livelli di analisi L’evoluzione del sistema impresa è determinata dal modo in cui essa interagisce con il contesto esterno. Il suo successo è essenzialmente basato sulla coerenza tra le caratteristiche di tale sistema e quelle dell’ambiente, nonché sul mantenimento di tale coerenza nel tempo, quindi a fronte di cambiamenti delle prime e le seconde. Questo principio implica che per l’impresa (come per qualsiasi organizzazione) sia prioritario innanzi tutto comprendere le condizioni dell’ambiente e la loro evoluzione anche nel medio e lungo termine; quindi, saperle gestire in relazione ai propri obiettivi e alle risorse disponibili al meglio. L’ambiente è costituito da: insiemi di attori e condizioni

• •

un insieme di attori: sistemi più o meno complessi che perseguono specifici obiettivi; un insieme di condizioni, in parte strutturali e in parte risultante diretta o indiretta dei comportamenti degli attori e di altri fattori più generali.

Gli attori e le condizioni hanno natura diversa ai due livelli in cui l’ambiente rilevante per un’impresa può essere articolato: • • ambiente esteso

ambiente competitivo

ambiente “esteso”; ambiente competitivo.

L’ambiente esteso comprende l’insieme di condizioni e fattori che direttamente o indirettamente condizionano in maniera significativa l’evoluzione dell’impresa, influenzandone i comportamenti e i risultati potenziali. Le componenti dell’ambiente esteso rappresentano vincoli o opportunità che l’impresa deve considerare sostanzialmente come dati. L’ambiente competitivo è costituito dagli attori e dalle condizioni che interagiscono direttamente con l’impresa, influenzandone le scelte competitive ed essendo in una certa misura da esse stesse influenzati.

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

I fattori rilevanti dell’ambiente competitivo possono essere precisati con riferimento specifico al/i business in cui l’impresa è impegnata: l‘ambiente competitivo specifico del business comprende l’insieme di fattori dell’ambiente competitivo più direttamente rilevanti per una determinata area di business in cui l’impresa è impegnata. È evidente che nel particolare caso di un’impresa mono-business, quest’ultimo livello di ambiente coincide con il precedente. Il criterio per distinguere le componenti (attori e condizioni) dell’ambiente “esteso” e quelle dell’ambiente “competitivo” è la natura dell’interazione tra l’impresa e tali componenti. Quelle del primo tipo sono le componenti con le quali l’impresa ha un’interazione prevalentemente passiva, nel senso che il suo comportamento è essenzialmente influenzato da tali attori ma non viceversa. Le componenti dell’ambiente competitivo sono invece quelle con le quali l’impresa ha un’interazione sia attiva sia passiva, nel senso che il suo comportamento influenza il comportamento di tali attori, essendone al tempo stesso influenzato.

ambiente competitivo specifico del business

interazione passiva

interazione attiva e passiva

1.3.2 Gli attori e le condizioni dell’ambiente esteso Gli attori e le condizioni che compongono l’ambiente esteso possono essere raggruppati in alcune categorie generali. Per quanto riguarda gli attori, si distinguono otto categorie (Tabella 1.1): acquirenti, concorrenti, fornitori, distributori, investitori, autorità pubbliche, forze sociali, attori non economici rilevanti. Ognuna di queste categorie comprende diverse tipologie di soggetti. Anche le condizioni che caratterizzano un determinato ambiente possono essere raggruppate in cinque categorie generali2 (Tabella 1.2):

condizioni che caratterizzano un ambiente

1. condizione economica; 2. condizione tecnologica;

Tabella 1.1

Le diverse tipologie di attori che compongono l’ambiente esteso dell’impresa

Acquirenti

Concorrenti

Fornitori

Distributori

• Acquirenti attuali • Acquirenti potenziali • Acquirenti indiretti

• Concorrenti attuali • Concorrenti potenziali • Concorrenti indiretti

• Fornitori primari • Fornitori indiretti • Imprese a monte nella stessa filiera produttiva

• Distributori diretti • Distributori indiretti • Imprese a valle nella stessa filiera produttiva

Investitori

Autorità pubbliche

Forze sociali

Organismi rilevanti

• Banche e imprese familiari • Istituzioni finanziarie • Risparmiatori • Organismi pubblici

• • • • • •

• • • •

• Università • Organi di comunica zione • Forze dell’ordine

2

Organismi internazionali Unione Europea Governo nazionale Governo regionale Enti locali Autorità di vigilanza

Partiti politici Associazioni di categoria Gruppi di opinione Rappresentanze degli stakeholders

Si usa spesso l’acronimo “PESTLE” per richiamare le condizioni: politiche, economiche, socio-culturali, legali, ambientali.

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Tabella 1.2

Parte I La strategia nel sistema impresa

Le diverse categorie di “condizioni” che compongono l’ambiente esteso dell’impresa e alcuni tra i principali fattori che le caratterizzano

Condizione economica

• Pil (attuale e tendenziale) • Pil per abitante • VA (totale e per abitante) • Tassi di occupazione • Tassi di interesse • Tassi di inflazione • Disponibilità e costi delle materie prime (energia) • Efficienza e costo dei servizi pubblici • Debito/deficit dello Stato e delle Regioni • Bilancia commerciale • Confidenza dei consumatori e delle imprese • Condizioni di attrattività di investimenti esteri • Condizioni di attrattività di capitale umano qualificato • Stabilità e competitività del sistema finanziario e bancario • Stabilità del sistema pensionistico e dell’assistenza sociale • Presenza di grandi imprese internazionali

Condizione Condizione tecnologica politico-istituzionale

Condizione socioculturale

• Spesa pubblica in R&D • Spesa privata in R&D • Protezione dei brevetti • Tasso di introduzione nuovi prodotti • Trasferimento di tecnologie • Politica per l’innovazione • Produttività dei fattori • Sviluppo delle tecnologie abilitanti • Tasso di innovatività delle imprese • Diffusione delle tecnologie

• Struttura sociale • Dinamica demografica • Coesione sociale • Orientamenti culturali • Distribuzione della ricchezza e dei redditi • Modelli di comportamento sociale • Apertura internazionale delle persone e delle istituzioni • Sistema di valori ed etica • Composizione della forza lavoro • Qualità e accesso al sistema della formazione ai vari livelli

• Sistema istituzionale • Orientamento politico generale • Stabilità politica • Rilievo delle lobbyings • Politica fiscale e dei redditi • Politica territoriale • Politica ambientale • Regolamentazione dei settori • Normativa per la concorrenza • Regolamentazione delle attività con l’estero • Presenza delle imprese pubbliche • Sicurezza • Tensioni geopolitiche con altri Paesi • Tariffe e altre restrizioni al commercio internazionale • Apertura agli investimenti internazionali

Condizione ambientale

• Cambiamenti climatici • Rischio di eventi naturali catastrofici • Disponibilità di risorse naturali (acqua, terreni coltivabili) • Problematiche concernenti lo smaltimento degli scarti di produzione/ rifiuti

3. condizione politico-istituzionale; 4. condizione socio-culturale; 5. condizione ambientale. Esse vanno riferite innanzitutto al paese di appartenenza dell’impresa anche se sempre più spesso hanno dimensione internazionale. Ciascuna delle cinque condizioni si articola in una serie di fattori. Nel loro insieme, questi determinano delle forze che, oltre a influenzare il comportamento dell’impresa e i relativi risultati nel breve termine, delineano il quadro di riferimento entro cui essa orienta il suo sviluppo di lungo periodo. Le condizioni richiamate determinano un assetto che l’impresa deve considerare esogeno rispetto alle proprie scelte strategiche, e ai relativi comportamenti.

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

1.4 L’ambiente competitivo 1.4.1 Un modello descrittivo dell’ambiente competitivo L’ambiente competitivo dell’impresa è costituito dall’insieme di attori con i quali essa stabilisce interazioni sia attive sia passive. L’attributo competitivo non indica quindi semplicemente l’ambiente dove l’impresa compete, ma, quello dove operano gli attori e si manifestano le forze che interagiscono in modo più intenso con essa, contrastandone o favorendone lo svolgimento. Le interazioni tra l’impresa e gli altri attori dell’ambiente competitivo possono avere natura molto diversa in relazione a due variabili essenziali: 1. la ripetitività; 2. il grado di conflittualità. Le interazioni possono manifestarsi in maniere molto diverse, in relazione alla loro frequenza e modalità temporale; possono essere ripetute frequentemente, con cadenza temporale abbastanza stabile; al contrario, possono essere casuali e tendenzialmente poco frequenti. Inoltre, esse possono essere competitive (in senso stretto), quando gli attori coinvolti sono in posizione conflittuale, oppure essere cooperative, caratterizzate dal fatto che gli attori collaborano per realizzare obiettivi comuni. Quindi, un ambiente competitivo è un contesto in cui non si manifestano solo relazioni antagonistiche, ma dove possono esservi anche rapporti cooperativi tra i soggetti. Le relazioni cooperative sono fondamentali per l’impresa nel processo di acquisizione di risorse dall’ambiente; in questo senso un contesto che favorisce lo sviluppo di tali relazioni offre migliori opportunità di rafforzamento delle imprese. Per comprendere le condizioni dell’ambiente competitivo e la dinamica delle interazioni che l’impresa vive al suo interno occorre approfondire la configurazione delle forze competitive. Un modello ormai ampiamente consolidato per assolvere a questo compito è quello delle cinque forze competitive, proposto da Michael Porter. Secondo tale modello hanno rilievo le seguenti cinque forze competitive: 1. l’intensità della concorrenza nel settore; 2. la minaccia di nuovi entranti nel settore; 3. la competizione indiretta esercitata da beni o servizi aventi la stessa funzione d’uso; 4. il potere contrattuale dei fornitori; 5. il potere contrattuale degli acquirenti. A queste si aggiunge:: 6. l’intervento degli stakeholders non imprese, direttamente coinvolti nel contesto competitivo. Nell’approccio tradizionale proposto da Porter, queste forze sono considerate solo nella prospettiva del rapporto antagonistico tra le imprese. La primaria importanza

interazioni competitive e cooperative

cinque forze competitive

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Parte I La strategia nel sistema impresa

assunta dai rapporti collaborativi tra le imprese e tra queste e altri soggetti suggerisce la necessità di considerare i fattori caratterizzanti l’ambiente competitivo anche nella prospettiva dello sviluppo di tali seconda una tipologia di relazioni. In questo senso, va considerata un ulteriore “forza” caratterizzante l’ambiente competitivo il: 7. grado di integrazione tra imprese complementari rispetto al mercato. La natura delle forze competitive e la loro importanza relativa evolvono nel tempo, causando insieme alle forze presenti nell’ambiente allargato il modificarsi del contesto competitivo cui sono riferite. Per altro, il mutare delle forze competitive è anche prodotto dagli effetti delle strategie che le imprese pongono in essere per acquisire una posizione competitiva e delle relazioni che si stabiliscono tra i vari attori, non solo economici, coinvolti a vario titolo nel contesto in questione.

1.4.2 L’intensità della competizione diretta tra le imprese già insediate

concentrazione assoluta e relativa

Il grado di concentrazione Il primo aspetto rilevante che determina l’intensità della competizione diretta tra le imprese è la loro numerosità, ovvero il grado di concentrazione del settore. La concentrazione può essere determinata in funzione di diverse variabili, tra cui le principali sono il valore della produzione e le attività investite. Con riferimento a queste (o altre) variabili, la concentrazione considera la percentuale sul totale del mercato detenuta da ogni singola impresa. Va considerata una concentrazione assoluta e una concentrazione relativa. La prima individua il numero di imprese che, nel loro insieme e a partire dalle più grandi, spiegano una determinata percentuale del valore totale del parametro di misurazione. Supponiamo che la situazione delle imprese nel settore Alfa rispetto alla quota di mercato sia quella descritta nella Tabella 1.3. La concentrazione assoluta del settore (costituito da venti imprese) è molto alta, poiché le prime tre imprese detengono il 67% della quota di mercato e le prime sei l’88%. Le altre hanno, quindi, una presenza molto marginale. È evidente che le imprese denominate 1, 2 e 3 dominano il settore e ne condizionano le dinamiche competitive. Il dato della concentrazione assoluta non è tuttavia sufficiente per comprendere l’intensità della concorrenza nel settore; basta infatti osservare che lo stesso valore di concentrazione assoluta nell’esempio proposto si potrebbe determinare in una situazione in cui, per esempio, l’impresa 1 detiene il 47% della quota di mercato, mentre la 2 e la 3 il 10% ciascuna. Appare evidente come la posizione relativa fra le tre maggiori imprese del settore sia nei due casi estremamente diversa e renda probabili comportamenti competitivi differenti. Occorre dunque considerare anche la concentrazione relativa che fa riferimento alle dimensioni relative delle imprese del settore, considera, cioè, la distribuzione delle quote di mercato delle imprese rispetto al valore medio. Tabella 1.3

Distribuzione delle quote di mercato delle imprese in un ipotetico settore

Impresa Quota di mercato

1 23%

2 22%

3 22%

4 8%

5 7%

6 6%

7 2,5%

8 1,5%

9-20 8%

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

Un indicatore molto diffuso del grado di concentrazione del settore è l’indice Hirschman-Herfindal, che è ottenuto dalla somma del quadrato delle quote di mercato delle imprese nel settore. Quanto minore è il valore dell’indice, tanto più le quote di mercato sono frazionate tra un numero elevato di imprese di dimensioni analoghe. Il grado di concentrazione è uno degli elementi maggiormente caratterizzanti un settore; tuttavia non fornisce un’indicazione univoca sull’intensità della concorrenza al suo interno. La presenza di poche imprese dominanti potrebbe spingere le stesse a comportamenti reciprocamente aggressivi per raggiungere una posizione di dominio assoluto. Al tempo stesso, rappresenta una condizione favorevole per cercare forme di accordo collusivo volte ad annullare la concorrenza nel settore. Il livello della domanda rispetto all’offerta e le barriere all’uscita L’intensità della competizione tra le imprese nel settore è influenzata anche dal rapporto esistente tra la dimensione della domanda e la dimensione dell’offerta. Nel caso in cui la seconda sia maggiore della prima, ogni impresa cerca di attuare strategie competitive atte a evitare la riduzione del proprio volume di vendite. Oltre alla differenza assoluta tra domanda e offerta, è importante considerare il differenziale tra i rispettivi tassi di crescita. Un tasso di incremento della domanda complessiva significativamente minore di quello relativo all’offerta tende a rendere più intensa la concorrenza tra le imprese del settore. Per queste ragioni nei settori cosiddetti maturi, cioè a uno stadio avanzato del loro ciclo di vita, si manifestano dinamiche fortemente competitive che durano fino al momento in cui non si determina una contrazione dell’offerta complessiva verso livelli vicini a quelli della domanda. Tuttavia, in settori piuttosto concentrati e dove non vi è troppo eccesso di capacità produttiva, la stabilizzazione del mercato può indurre le imprese in condizioni di redditività ad astenersi da una competizione aggressiva (e costosa), accettando lo “status quo” e concentrandosi soprattutto sulla riduzione dei costi e l’incremento del valore acquisito dal cliente. L’impatto dell’andamento della domanda sull’intensità della concorrenza è legato alla rapidità con cui nel settore si manifesta la riduzione dell’offerta nel momento in cui questa risulta tendenzialmente superiore alla domanda. Una condizione molto rilevante a riguardo è rappresentata dal livello delle barriere all’uscita. Le barriere all’uscita sono ostacoli di natura strutturale che rallentano o addirittura impediscono l’uscita dal settore anche alle imprese altrimenti disposte in tal senso; esse, quindi, rallentano o impediscono la contrazione dell’offerta complessiva e il suo bilanciamento rispetto alla minore domanda. Esistono diversi fattori che generano barriere all’uscita: •



il grado di idiosincraticità degli impianti. Il fatto che gli impianti di produzione sono fortemente specializzati e praticamente non utilizzabili in altre attività implica che almeno fino a quando tali impianti non sono stati completamente ammortizzati, l’abbandono dell’attività genera una elevata perdita economica; il livello di interrelazioni produttive, commerciali o strategiche con altri business in cui l’impresa è impegnata. L’uscita dal settore è evidentemente scoraggiata nei casi in cui la presenza dell’impresa in tale settore è funzionale alla sua posizione competitiva in altri;

rapporto domanda e offerta

differenziale tra i tassi di crescita

barriere all'uscita

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Parte I La strategia nel sistema impresa

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break even point costi fissi

margine di contribuzione

differenziare il prodotto

determinazione del prezzo

l’intervento di attori istituzionali. Il soggetto pubblico o altri stakeholders esterni sono generalmente interessati alla presenza dell’impresa nel settore per l’impatto positivo che essa può avere sul tessuto economico e sociale del territorio. In questa prospettiva possono esercitare azioni più o meno intense di “moral suasion” sulla stessa impresa per impedirne l’uscita dal settore; l’azione di forze interne all’impresa. L’uscita dal settore, anche se giustificata sul piano economico e strategico, può essere osteggiata da quei soggetti che da tale uscita vedrebbero diminuito il proprio ruolo aziendale. In alcuni casi, lo stesso imprenditore può avere motivazioni di natura non economica che lo spingono a non abbandonare il business.

La struttura di costo delle imprese L’impatto sull’intensità della concorrenza dello squilibrio tra capacità produttiva nel settore e dimensione della domanda è influenzato dalla struttura dei costi tipica delle imprese nel settore. Nel caso in cui la leva operativa è alta (ovvero i costi fissi rappresentano la componente prevalente dei costi totali) e si manifesta un eccesso dell’offerta totale rispetto alla domanda, ciascuna impresa tende a ridurre il prezzo di vendita del proprio prodotto (fino al limite in cui il margine di contribuzione si annulla), per difendere il più possibile la propria quota di mercato e, quindi, il proprio volume di produzione. La spiegazione di questo meccanismo è insita nella logica del break even point (punto di equilibrio economico). Nel caso in cui i costi fissi sono una proporzione elevata dei costi totali, una riduzione anche limitata della quantità prodotta e venduta al di sotto del punto di equilibrio economico determina una perdita relativamente rilevante. Per l’impresa, quindi, è essenziale mantenere o accrescere la propria quota di domanda; a tal fine essa trova accettabile una riduzione del prezzo di vendita (si ripete, fino al livello in cui il margine di contribuzione rimane positivo). Al contrario, nei settori dove gran parte dei costi ha natura variabile, l’impresa può sostenere meglio la riduzione della produzione, soprattutto se riesce a mantenere relativamente stabile il prezzo. Il grado di differenziazione del prodotto/servizio L’intensità della concorrenza nel settore è correlata in senso inverso con il grado di differenziazione che caratterizza i prodotti offerti nel settore. Prodotti tra loro concorrenti poco o affatto differenziati sono, infatti, considerati dal mercato come (quasi) perfetti sostituti e, quindi, scelti soltanto (a parità di penetrazione distributiva) in funzione del loro prezzo. Al contrario, la possibilità di differenziare il proprio prodotto permette all’impresa di occupare uno spazio di mercato dove acquisire una posizione di dominio o addirittura di quasi monopolio che, almeno per un certo periodo di tempo, risulta protetta dalla concorrenza. Le modalità in cui si manifesta l’intensità della concorrenza L’intensità della concorrenza che caratterizza un determinato settore in una certa fase storica può essere valutata attraverso l’osservazione dei comportamenti posti in essere dalle imprese, in particolare da quelle che occupano le posizioni di leadership. Il primo di questi comportamenti riguarda la determinazione del prezzo. Un frequente cambiamento dei prezzi rappresenta un evidente indicatore di una concorrenza piuttosto effervescente; naturalmente, a condizione che le imprese non attuino tale cambiamento in maniera coordinata. La variazione del differen-

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

ziale di prezzo tra le imprese è, quindi, un indicatore dell’intensità della concorrenza nel settore. Il ripetuto lancio di nuovi prodotti o di significative innovazioni di quelli esistenti costituisce un’altra politica fortemente competitiva che è in molti casi accompagnata dall’estensione della gamma di prodotti offerti e dallo sviluppo di servizi aggiuntivi. Una terza modalità di confronto competitivo riguarda la comunicazione. L’incremento degli investimenti in comunicazione, il lancio di nuove campagne pubblicitarie e promozionali sono indicatori di una forte concorrenza. Attraverso la comunicazione, le imprese cercano infatti di distinguere il proprio prodotto da quello dei concorrenti, rafforzarne il posizionamento e aumentarne il valore percepito dalla domanda. I forti investimenti in comunicazione sono indicatore di elevata concorrenza soprattutto nei settori che hanno superato le fasi iniziali del ciclo di vita. In questi ultimi, infatti, un’elevata spesa in comunicazione è normalmente spiegata dall’esigenza di far percepire alla domanda potenziale il nuovo prodotto e sviluppare un mercato ancora in via di formazione.

prodotti nuovi o rinnovati

comunicazione

1.4.3 La minaccia di nuovi entranti Gli effetti della pressione dei nuovi entranti Un secondo fattore che influenza direttamente le condizioni competitive di un settore è rappresentato dalla pressione esercitata da imprese che non ne fanno parte, ma che dispongono delle condizioni potenziali per entrarvi. L’intervento di un nuovo operatore può derivare da cause diverse: un’innovazione tecnologica che modifica in maniera significativa il modello di offerta del settore; un cambiamento delle caratteristiche e del modello di comportamento della domanda; il modificarsi del quadro istituzionale e normativo del settore; una particolare evoluzione della condizione economica e strategica di determinati rivali nel settore; il manifestarsi nel settore in questione di condizioni economiche di particolare attrattività. La pressione competitiva dei nuovi concorrenti può avere effetti diversi nel tempo. In una prima fase, essa può manifestarsi nel senso che le imprese nel settore (incumbents) modificano le strategie che adotterebbero se non vi fossero significativi concorrenti potenziali. Due esempi a riguardo sono: l’abbassamento dei prezzi di vendita al fine di ridurre la convenienza per altri operatori ad avviare una nuova attività nel settore; l’acquisizione di quelle imprese che operano nel settore, ma in una posizione complessivamente debole, e che, proprio per questa debolezza, potrebbero essere facilmente incorporate anche da un concorrente esterno. Va osservato che, dal punto di vista della singola impresa, i potenziali nuovi entranti assumono una posizione per certi versi analoga a quella degli altri concorrenti già nel settore. La necessità e la convenienza ad attivare azioni che prevengano l’entrata è, infatti, influenzata dalle stesse condizioni che incidono sulle dinamiche competitive nel settore. In particolare, un elevato tasso di crescita della domanda (rispetto alla dimensione dell’offerta) riduce naturalmente la percezione della minaccia di nuovi entranti e, quindi, l’urgenza per l’incumbent di attuare strategie aggressive nei loro confronti. La pressione sugli incumbent rappresentata dalla minaccia di nuovi entranti potrebbe fermarsi alla prima fase descritta precedentemente, oppure potrebbe

effetti della pressione competitiva

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Parte I La strategia nel sistema impresa

divenire concreta e tradursi nell’effettiva entrata di un nuovo operatore nel settore. In questo caso, l’impatto sulle condizioni del settore dipende dal modo in cui tale entrata è posta in essere, essendovi tre alternative fondamentali: 1. la creazione di una nuova unità produttiva; 2. l’acquisizione di un’azienda già operante nel settore; 3. la collaborazione strategica con un’impresa già operante nel settore. La prima modalità di entrata determina comunque un incremento della pressione competitiva nel settore, per la semplice ragione che ne aumenta l’offerta complessiva. Nel breve termine, il cambiamento del controllo proprietario di un’azienda nel settore, invece, non costituisce di per sé un fattore che ne modifica gli assetti competitivi. Nel medio e, ancora più probabilmente, nel lungo termine anche l’entrata attraverso acquisizione tende tuttavia a intensificare la concorrenza, essendo abbastanza probabile che un nuovo entrante cerchi di far crescere la posizione competitiva dell’impresa acquisita o la utilizzi come “ponte” per sviluppare la presenza della propria offerta nel mercato. La terza modalità di entrata evidenzia come gli attori esterni al settore non rappresentano necessariamente solo una minaccia per gli incumbent; possono anche essere partner che questi ultimi coinvolgono per rafforzare il valore della propria offerta. In questi casi, l’impresa esterna non diventa un effettivo concorrente; piuttosto, un attore che gioca un ruolo nelle dinamiche competitive. Per esempio, la collaborazione finanziaria e tecnologica stabilita da Google e Tesla Motors non significa che la prima diventi un concorrente nel mercato dell’automobile. Implica però un suo coinvolgimento in tale mercato almeno sotto tre profili: 1. l’automobile diviene uno dei contesti dove Google vede opportunità di sviluppo applicativo per le proprie tecnologie, quindi di guadagno; 2. Google sarà comunque un attore rilevante del contesto competitivo, influenzando le future configurazioni tecnologiche del prodotto e i fattori competitivi di successo; 3. una parte (probabilmente non secondaria) degli investimenti in innovazione nel settore verranno da Google e questa drenerà una parte del valore aggiunto generati nel settore stesso. Le barriere all’entrata L’impatto sulle condizioni competitive del settore della pressione esercitata dai concorrenti potenziali è evidentemente legato alla probabilità con cui essi possono effettivamente esercitare l’opzione di entrata. Questa probabilità è condizionata dal livello delle barriere che proteggono il settore, influenzando la convenienza economica e strategica per le imprese al di fuori del settore di iniziare a operarvi. Nelle forme più rilevanti, queste barriere bloccano in maniera assoluta l’entrata di un nuovo concorrente. In linea più generale esse determinano uno svantaggio a carico delle imprese esterne in termini di maggiori costi o minori ricavi potenziali relativamente a quelli mediamente sostenuti dagli incumbent. In questo senso, riducono la convenienza per i potenziali concorrenti ad avviare la propria presenza nel settore, oppure pongono i nuovi entrati, almeno nelle

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

fasi iniziali, in una posizione di maggiore debolezza rispetto agli operatori già consolidati. Le barriere all’entrata possono essere distinte in tre categorie:

barriere all’entrata

1. barriere istituzionali; 2. barriere strutturali; 3. barriere strategiche. Le barriere istituzionali hanno origine esogena rispetto alle dinamiche competitive del settore, essendo determinate dalla legge. Esse impediscono in maniera assoluta o vincolano a determinate condizioni e procedure l’entrata di un nuovo operatore nel settore. Fino all’inizio degli anni ’80, in Europa e negli Stati Uniti, le barriere istituzionali regolamentavano la concorrenza in numerosi importanti settori produttivi: dall’energia alle telecomunicazioni, dal trasporto aereo ai servizi finanziari e bancari. Negli ultimi trent’anni si è assistito a un costante processo di liberalizzazione che ha fortemente ridotto, o del tutto annullato, le barriere di tipo istituzionale in quasi tutti i comparti produttivi, compresi quelli dei servizi pubblici. Le barriere di tipo strutturale derivano da elementi che caratterizzano il settore e l’equilibrio esistente tra gli attori che ne fanno parte. Hanno origine diversa: • •

• • •



le economie di scala, nel caso in cui determinino un livello di dimensione ottima minima relativamente elevato rispetto al volume complessivo della domanda; le economie di esperienza, quando la produzione cumulata dai vari operatori all’interno del settore determina, grazie appunto all’esperienza maturata, un costo di produzione molto più basso di quello a cui è in grado di operare chi, arrivando per ultimo nel settore, non può contare su una produzione (e quindi un’esperienza) pregressa; le economie di estensione, nel caso in cui determinino un vantaggio di costo per le imprese che, operando da maggior tempo nel settore, hanno potuto sviluppare una presenza estesa in molte aree di business; il livello elevato delle risorse finanziarie richieste per gli investimenti (in immobilizzazioni e in capitale circolante) necessari per porre in essere l’attività produttiva; i vantaggi di costo assoluti (indipendenti dal volume di produzione realizzata, dall’esperienza acquisita o dall’estensione), legati al fatto che le imprese da più tempo nel settore possono aver reso più efficienti le procedure operative, migliorato le relazioni con i fornitori o con i distributori, ottimizzato il dimensionamento delle risorse; le condizioni di accesso ai canali di distribuzione e a quelli di fornitura per gli input produttivi critici nel processo produttivo.

Le barriere strategiche La terza categoria di barriera all’entrata, ovvero la barriera strategica, deriva da comportamenti che gli incumbent attuano o minacciano di attuare con l’obiettivo esplicito di scoraggiare l’entrata dei concorrenti potenziali o, comunque, di renderla particolarmente onerosa.

barriere istituzionali

barriere di tipo strutturale

economie di scala

economie di esperienza

economie di estensione

barriera strategica

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Parte I La strategia nel sistema impresa

convenienza e sostenibilità

convenienza economica

Per esercitare effettivamente questa azione di deterrenza, la barriera strategica deve essere percepita come credibile. Il concorrente potenziale deve avere una chiara informazione della strategia aggressiva che gli incumbent intendono porre in essere e deve ritenere che questi ultimi siano effettivamente in grado di porla in essere. Quest’ultimo aspetto dipende da due condizioni: la convenienza e la sostenibilità della strategia in questione dal punto di vista di chi la deve attuare. Convenienza e sostenibilità, a loro volta, implicano il verificarsi di una serie di situazioni (Figura 1.3). In primo luogo, per l’incumbent deve essere più conveniente, dal punto di vista economico e anche strategico, sostenere l’impegno della strategia di prevenzione dell’entrata, piuttosto che evitare di interferire con il comportamento del nuovo concorrente. La convenienza economica dipende dal rapporto tra i costi diretti e indiretti richiesti dall’innalzamento della barriera strategica e i guadagni prodotti dal mantenimento dello status quo nel proprio settore. Essa è legata alla dimensione temporale della barriera strategica, in particolare dipende dalla durata del periodo in cui l’incumbent deve attuare la strategia aggressiva, relativamente al periodo di tempo in cui nel settore non si manifesteranno nuove minacce di entrata. In termini formali, la convenienza economica può essere espressa nel modo seguente: CE 5 (Rb ? Tk) 2 (Cb ? Tk) 1 (Rc ? Tx-k) dove: Rb 5 guadagno differenziale per unità temporale derivante dalla non entrata del concorrente potenziale, nel periodo di tempo in cui la strategia di deterrenza è posta in essere;

Efficacia delle barriere strategiche

Credibilità

Percezione

Convenienza

Economica • costi • guadagni differenziali • tempo

Figura 1.3 Le condizioni di efficacia delle barriere strategiche.

Strategica • prospettive competitive • interrelazioni • controllo del settore

Sostenibilità

Disponibilità delle fonti necessarie per effettuare gli investimenti connessi alla strategia aggressiva

Capacità finanziaria relativa dell’incumbent rispetto al potenziale entrante

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

Rc 5 guadagno differenziale per unità temporale derivante dalla non entrata del concorrente potenziale, nel periodo di tempo in cui la strategia di deterrenza è interrotta e non si manifestano nuove entrate; Tx 5 periodo di tempo in cui l’incumbent riesce a evitare l’entrata nel settore; Cb 5 costo per unità temporale, per l’attuazione della strategia volta a creare una barriera all’entrata; Tk 5 periodo di tempo in cui l’incumbent deve attuare la strategia per evitare l’entrata; Tx-k 5 periodo di tempo che intercorre tra il momento in cui l’incumbent interrompe la strategia di deterrenza e il momento in cui un nuovo concorrente potenziale minaccia l’entrata.3 La convenienza economica della barriera strategica dipende anche dall’ampiezza del periodo temporale che intercorre tra il momento in cui l’incumbent smette di attuare la strategia di deterrenza e il momento in cui un nuovo concorrente potenziale minaccia concretamente l’entrata nel settore. La convenienza strategica può avere diverse possibili spiegazioni. Le più significative sono: • • • •

contenere il rischio dell’intensificarsi della concorrenza nella prospettiva di un atteso rallentamento strutturale della domanda; evitare l’instaurarsi di interrelazioni con concorrenti con cui ci si confronta già in altri settori; mantenere il maggiore controllo possibile in un settore ad alto potenziale di sviluppo e di innovazione; controllare l’intensificarsi della competizione in un settore rilevante per il rafforzamento del proprio patrimonio di conoscenze e risorse.

Si osserva come, in gran parte dei casi, la convenienza strategica risulti da una valutazione soggettiva dell’incumbent che intende elevare la barriera all’entrata. Il secondo elemento che determina la credibilità della strategia aggressiva è la sua sostenibilità per colui che la pone in essere. L’incumbent deve disporre delle condizioni per attuare tale strategia durante tutto il tempo necessario per eliminare completamente la minaccia di entrata. Si tratta in primo luogo della disponibilità di risorse finanziarie adeguate a sostenere gli investimenti richiesti dall’innalzamento delle barriere strategiche. La sostenibilità finanziaria deve essere valutata sia in termini assoluti, come disponibilità dell’incumbent delle fonti finanziarie necessarie per attuare la strategia aggressiva, sia in termini relativi, considerando, cioè, la dimensione di tali fonti, rispetto a quelle che il potenziale entrante può mettere in campo per entrare nel settore, “forzando” le eventuali barriere strategiche. Alcuni esempi di comportamenti finalizzati a creare “barriere strategiche” all’entrata di potenziali nuovi concorrenti sono: •

convenienza strategica

fissazione del prezzo al di sotto del costo medio o del costo marginale di produzione del potenziale entrante;

3 I momenti x e k si manifestano nel modo seguente in un arco temporale che inizia al tempo T0 (il momento in cui l’incumbent inizia ad attuare la strategia di deterrenza). |——————|——————| Tk Tx T0

sostenibilità finanziaria

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Parte I La strategia nel sistema impresa

• • • • • • •

non un ostacolo ma un impedimento

attuazione di una strategia di intensa differenziazione; effettuazione di elevati investimenti fortemente idiosincratici che anche il nuovo entrante deve attuare; occupazione di tutti gli spazi fisici e strategici nel mercato; incremento dei costi di gestione tipici, a cui anche il nuovo entrante si dovrà adeguare; aumento del livello di investimenti necessari (per esempio, nella comunicazione) per operare nel settore; mantenimento di capacità produttiva in eccesso; sviluppo di una reputazione aggressiva.

La prospettiva di valutazione delle barriere all’entrata A eccezione delle barriere istituzionali che, per loro natura, agiscono in maniera uniforme e generale, le altre tipologie di ostacolo all’ingresso nel settore hanno un’efficacia che dipende dalle caratteristiche e dal comportamento della singola impresa potenziale entrante e che, quindi, varia nel tempo. Di conseguenza, le barriere all’entrata non vanno considerate (con l’eccezione richiamata) un ostacolo assoluto all’ingresso nel settore da parte di operatori esterni. Costituiscono, piuttosto, un impedimento che può scoraggiare l’intervento nel settore di determinate imprese esterne. Si ricordi, infine, che per un concorrente potenziale che intende entrare nel settore attraverso l’acquisizione di un incumbent, le barriere di natura strutturale e, salvo casi particolari, anche quelle di tipo strategico non hanno alcun effetto di deterrenza. Strumenti

I mercati contendibili Il livello delle barriere all’entrata insieme a quello delle barriere all’uscita determinano il grado di contendibilità del mercato. Sulla base della teorizzazione avanzata da Demsetz (1958) prima e sviluppata poi da Baumol, Panzar e Willing (1982), un mercato è contendibile quando un concorrente potenziale può entrarvi facilmente e rapidamente e altrettanto facilmente e rapidamente può uscirne. Un mercato è quindi contendibile quando sia le barriere all’entrata sia quelle all’uscita sono basse. Un’impresa esterna può entrare nel mercato in qualsiasi momento lo ritenga opportuno, potendo disporre di tutte le risorse necessarie per operarvi con successo alle stesse condizioni degli incumbent. Allo stesso modo, quando decide di abbandonare il settore, non incontra alcun ostacolo a recuperare il valore residuo delle risorse ancora disponibili. Può porre in essere una forma di competizione cosiddetta hit and run. Un mercato contendibile è caratterizzato da una concorrenza molto intensa, a prescindere dal numero delle imprese che ne fanno parte. Anche un eventuale monopolista non può di fatto sfruttare la propria rendita di posizione poiché, non appena fissa il prezzo al di sopra del livello minimo, altre imprese non esitano a entrare nel settore, aumentando il livello della concorrenza. Questo comportamento è reso possibile dal fatto che, essendo molto basse le barriere all’uscita, i nuovi concorrenti non hanno alcun problema ad abbandonare il settore nel caso in cui vengano meno le condizioni favorevoli che ne avevano favorito l’entrata. Se un settore ha un buon grado di contendibilità, la concorrenza è dunque molto intensa a prescindere dal grado di concentrazione di tale settore. Anche nei casi di elevata concentrazione, la profittabilità potenziale degli oligopolisti è limitata. Tuttavia occorre chiedersi in quale misura nella realtà i settori fortemente concentrati possano essere anche contendibili. Spence (1983) osserva, per esempio, che l’elevato grado di concentrazione deriva spesso dalla presenza di significative economie di scala. Lo sfruttamento di tali economie richiede normalmente notevoli investimenti di natura idiosincratica, cioè investimenti difficilmente recuperabili in altre produzioni, che quindi determinano elevate barriere all’uscita.

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

1.4.4 La concorrenza dei prodotti o dei servizi sostitutivi I prodotti o i servizi in un certo mercato devono sostenere anche la concorrenza di quelli “sostitutivi”, sono quei prodotti o servizi i quali, pur con caratteristiche merceologicamente diverse, hanno una analoga funzione d’uso; di conseguenza sono percepiti dai consumatori come valide alternative. Due prodotti o servizi sono sostitutivi quando la loro elasticità incrociata è positiva ed elevata: all’aumentare del prezzo di uno, si espande in maniera notevole la domanda dell’altro, e viceversa. Date queste caratteristiche, è evidente che i prodotti o i servizi sostitutivi esercitano potenzialmente una significativa pressione competitiva nei confronti dei prodotti o dei servizi che possono sostituire, pur non appartenendo allo stesso settore. La misura in cui questa potenzialità si manifesta effettivamente dipende dalla percezione che gli acquirenti di un determinato prodotto o servizio hanno dell’esistenza dei suoi eventuali sostituti e della convenienza relativa di questi ultimi rispetto ai primi. In alcuni business, i prodotti sostitutivi esercitano una pressione competitiva almeno analoga a quella esistente tra quelli più direttamente parte dello stesso mercato; nel trasporto passeggeri di medio raggio (300-600 chilometri) in molti Paesi europei, il gestore del servizio ferroviario ad alta velocità è un concorrente assolutamente primario per le compagnie aeree. Anche in questo caso, è evidente come oltre a rapporti antagonistici, le imprese che realizzano prodotti sostitutivi possono comunque trovare opportunità di collaborazione. Su alcune tratte, infatti, treno e aereo possono cooperare, creando per uno stesso tipo di viaggiatore un servizio integrato. Come per i concorrenti potenziali, anche nei confronti dei produttori di beni sostitutivi le imprese nel settore possono adottare misure volte a ridurne la pressione competitiva. Queste misure possono essere: • • • • •

prodotti o servizi sostitutivi

miglioramento del rapporto valore/prezzo del prodotto/servizio rispetto a quello dei beni sostitutivi; riposizionamento del prodotto/servizio; differenziazione del prodotto/servizio per ridurre l’elasticità incrociata della domanda; rafforzamento della comunicazione delle qualità della categoria di prodotto/servizio rispetto ad altre categorie alternative; avvicinamento all’acquirente finale e rafforzamento del sistema distributivo.

1.4.5 Il potere contrattuale dei fornitori e degli acquirenti Le condizioni di un determinato settore sono influenzate anche dalle caratteristiche del sistema dei fornitori e di quello degli acquirenti. Questi ultimi, infatti, esercitano una pressione competitiva verticale sulle imprese di quel settore, la cui intensità dipende dalla misura in cui essi controllano le transazioni con tali imprese. Tanto più i fornitori hanno il controllo della relazione con l’impresa cliente, quanto più tenderanno a imporre condizioni contrattuali a loro favorevoli; dal prezzo di vendita ai tempi di pagamento, dal rapporto prezzo/qualità del prodotto alla dimensione dei lotti minimi di ordinazione e alle modalità di assistenza. Le stesse considerazioni valgono per gli acquirenti nei confronti dell’impresa che, in questo caso, si trova a monte, nella posizione di loro fornitore.

fornitori e acquirenti pressione competitiva verticale

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Parte I La strategia nel sistema impresa

potere contrattuale relativo

Il potere negoziale verso i fornitori e verso gli acquirenti Per comprendere la situazione competitiva di un settore occorre, quindi, valutare anche i fattori che determinano il potere negoziale che il sistema dei fornitori e quello dei clienti hanno verso l’insieme delle imprese che ne fanno parte. Deve, però, essere osservato che questo tipo di valutazione produce indicazioni significative solo in linea molto generale. Il potere contrattuale in senso più puntuale non può infatti che essere valutato con riferimento allo specifico rapporto negoziale tra due soggetti ben identificati. La distribuzione del potere negoziale tra le due controparti di una transazione dipende dal rispettivo potere contrattuale relativo. Il potere contrattuale relativo è determinato dalla capacità di una parte di rinunciare alla transazione con l’altra parte rispetto all’analoga capacità di quest’ultima. Tanto più una parte è in grado di fare a meno della transazione con una seconda parte, e tanto meno questa ha analoga capacità, quanto più la prima è in grado di imporre le proprie condizioni nella negoziazione con la seconda. La capacità di rinunciare alla transazione dipende essenzialmente da: • • •

rilievo relativo dell’oggetto della transazioni; esistenza di alternative; livello dei costi diretti e indiretti sostenuti da ciascuna parte al venir meno della transazione.

Il potere contrattuale relativo è determinato anche dalla considerazione che una parte ha della capacità e volontà dell’altra di abbandonare la transazione rispetto alla propria. Tale percezione è innanzitutto prodotta dalle condizioni oggettive che caratterizzano la relazione tra le due parti, ma risente anche degli eventuali comportamenti appositamente posti in essere per determinarla. Anche in questo caso, per essere efficace, l’eventuale minaccia di abbandonare la transazione deve essere credibile. Le condizioni che influenzano il potere negoziale Vi sono alcune condizioni oggettive che influenzano il potere negoziale; nella prospettiva della relazione con i fornitori, esse sono: • • • • • •

la concentrazione dei fornitori e la loro dimensione media, relativamente alla concentrazione e alla dimensione media degli acquirenti; il rilievo economico e strategico che le imprese clienti hanno per i fornitori, e viceversa; la capacità dei fornitori di integrarsi a valle e di svolgere la stessa attività degli acquirenti; questa capacità implica che i fornitori si sostituiscano ai propri clienti o addirittura ne diventino concorrenti; il livello dei costi di “conversione”, ovvero i costi diretti e indiretti in cui l’acquirente incorre per la sola ragione di cambiare il proprio fornitore; l’esistenza o meno di prodotti sostitutivi a quelli offerti dagli attuali fornitori e il loro grado di differenziazione; la trasparenza del mercato, in termini di facilità per i fornitori di disporre delle migliori informazioni sulle opportunità di vendita e per gli acquirenti di avere analoghe informazioni sulle opportunità di acquisto.

Questi stessi fattori determinano in maniera speculare il potere contrattuale relativo dei clienti.

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

1.4.6 L’intensità e il segno dell’azione degli stakeholders esterni Quattro tipi di stakeholders esterni all’impresa possono avere rilievo direttamente sull’andamento dell’ambiente competitivo e possono non essere parte solo dell’ambiente allargato:

stakeholders che influenzano l'ambiente competitivo

1. le autorità politiche e amministrative che governano il territorio dove sono localizzate le attività produttive dell’impresa e il suo mercato; 2. le autorità pubbliche di regolamentazione e vigilanza eventualmente esistenti nel settore dell’impresa; 3. le associazioni di rappresentanza delle varie categorie di attori coinvolti nell’attività economica dell’impresa; 4. gli organismi della società civile operanti nel contesto ove l’impresa è localizzata.

autorità politiche e ammnistrative

Con tutti questi attori, le imprese (in particolare quelle di medie e grandi dimensioni) intrattengono relazioni relativamente continue con l’obiettivo, per un verso di influenzarne le scelte in una direzione loro favorevole, per l’altro di condividere programmi e azioni nella prospettiva dello sviluppo sostenibile. Nel quadro istituzionale e normativo che si sta configurando in questi anni, il rilievo dei governi regionali nell’ambiente competitivo dell’impresa tende a essere sempre maggiore. A tali governi sono, infatti, assegnate crescenti responsabilità dirette nell’azione di indirizzo e controllo delle attività produttive svolte nel loro territorio. Le autorità pubbliche di regolamentazione intervengono nei settori dove appare necessaria una più diretta azione di indirizzo e vigilanza del Soggetto pubblico. In molti Paesi (tra i quali, il nostro), operano, ad esempio le Autorità di vigilanza nell’energia, e nelle telecomunicazioni, nelle assicurazioni; vi sono poi organismi che vigilano sugli intermediari finanziarie sul sistema del trasporto aereo. Questi soggetti sono interlocutori diretti delle imprese in diversi ambiti di rilievo strategico: dalla determinazione dei prezzi, agli investimenti infrastrutturali, dalla sicurezza, all'impatto ambientale, oltre naturalmente al rispetto della normativa specifica del settore. Le associazioni di rappresentanza che interessano in questa sede sono essenzialmente le associazioni sindacali e quelle industriali cui l’impresa fa riferimento su base territoriale o merceologica. Esse influenzano il contesto competitivo anzitutto attraverso la loro azione di “lobbying” presso gli organi di governo sulle tematiche di interesse da un lato delle imprese, dall’altro, di determinati stakeholders (i lavoratori, per quanto riguarda le forze sindacali). In alcuni casi, possono attuare programmi strategici in ambiti rilevanti per la competitività dell’impresa (innovazione, internazionalizzazione, sviluppo delle competenze). Infine gli organismi della società civile, in particolare: le associazioni dei consumatori, le associazioni per la protezione dell’ambiente, le organizzazioni per i diritti umani, le organizzazioni politiche. Anche in questo caso si tratta di attori che, per un verso operano a livello generale, rappresentando in questo senso una componente dell’ambiente “allargato”; per l’altro interagiscono anche direttamente con le imprese su questioni specifiche rilevanti in un certo contesto territoriale e di business. In questa prospettiva, condizionano le dinamiche competitive e i risultati potenziali dell’impresa.

governi regionali

autorità pubbliche di regolamentazione

associazioni di rappresentanza

organismi della società civile

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Parte I La strategia nel sistema impresa

1.4.7 L’integrazione con imprese complementari rispetto alla domanda In un numero crescente di mercati, il successo dell’offerta di un’impresa dipende in maniera significativa dal modo in cui tale offerta è integrata con quella di altri attori che svolgono attività complementari a essa. Un esempio evidente è rappresentato dalla filiera del turismo. La competitività dell’offerta ricettiva di una struttura alberghiera non dipende semplicemente dalle sue caratteristiche dirette (collocazione fisica sul territorio, qualità delle stanze e degli spazi comuni, standard di servizio...). È fortemente influenzata dal livello dell’offerta di altri fattori che compongono il cosiddetto sistema locale di offerta turistica (servizi ricreativi, trasporti, ristorazione, offerta culturale...) e soprattutto dal modo in cui quella struttura alberghiera è connessa con le organizzazioni che producono tali fattori. Nelle produzioni manifatturiere questo aspetto si osserva normalmente quando un’azienda industriale si collega con le imprese che offrono servizi complementari funzionali ad aumentare il valore offerto dal prodotto fisico. L’integrazione tra offerte che costituiscono fattori complementari alla soddisfazione di un bisogno complesso della domanda e, quindi, tra le imprese che realizzano tali offerte, influenza la posizione competitiva di queste stesse imprese e le differenzia da quelle che non hanno analoghe opportunità. L’integrazione tra imprese che realizzano offerte complementari rispetto ai bisogni espressi dal mercato pone l’accento sull’importanza della localizzazione nella costruzione di una posizione di vantaggio competitivo. Il fatto di essere collocata in un determinato territorio può, infatti, facilitare (o, al contrario, rendere più difficile) per l’impresa l’individuazione di soggetti con cui è possibile e conveniente connettere la propria offerta e l’efficiente realizzazione di tale connessione. Lo sviluppo digitale ha reso però molto efficaci le relazioni basate su interazioni “virtuali” rendendo meno necessarie la vicinanza fisica tra i partner e quindi la loro collocazione territoriale.

1.4.8 Alcune considerazioni di sintesi sull’utilizzazione del modello delle forze competitive

redditività potenziale

Nell’utilizzazione pratica del modello descrittivo delle forze competitive occorre tenere conto di alcuni aspetti rilevanti. In primo luogo, si ricorda che le forze competitive di un settore incidono sulla sua redditività potenziale. Del resto, la loro rilevanza si desume chiaramente dai notevoli scostamenti che normalmente caratterizzano gli indicatori economici medi ottenuti da diversi settori in uno stesso orizzonte temporale (di medio-lungo termine) e in una stessa area geografica.4 Il fatto che in una determinata area geografica e considerato un periodo di tempo sufficientemente lungo, vi siano elevate differenze tra la redditività media complessiva delle diverse industrie non può che essere spiegato dal diverso assetto concorrenziale in cui esse

4

Molto evidente in questo senso il dato rilevato da Michael Porter relativamente al ritorno medio sul capitale investito nei principali settori americani nel periodo 1992-2006. Rispetto alla media di tutta l’industria del 14,9%, si hanno risultati di poco al di sotto del 40% nei soft drinks, packaged software; intorno al 30% nel pharmaceuticals, cosmetics; fino a settori che si collocano intorno al 10% (soft drink bottling, knitting mills; hotels) o addirittura che superano appena un modesto 5% (Airlines) (Porter, 2008).

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

si trovano. In questo senso, la scelta del settore in cui operare ha valenza strategica poiché determina l’ordine di grandezza della profittabilità che l’impresa può realisticamente raggiungere. Da questo punto di vista, l’analisi delle forze competitive permette di rispondere al fondamentale quesito: qual è la redditività potenziale di un certo business? La risposta a tale domanda, insieme alla considerazione delle competenze disponibili, dovrebbe orientare l’elaborazione della strategia di portafoglio business dell’impresa. Nella prospettiva concettuale sviluppata da Porter, la comprensione delle forze competitive è anche il punto di partenza per delineare la strategia aziendale; questa è intesa infatti come l’elaborazione di un posizionamento conveniente nel settore rispetto al modo in cui si configurano le sue forze competitive e l’attuazione di azioni volte a modificarne l’assetto per migliorare le potenzialità di successo dell’impresa. Va poi osservato che il modello in questione, se da un lato ha il merito di evidenziare come le pressioni cui un’impresa è sottoposta non derivino solo dai concorrenti diretti ma anche da molti altri attori, dall’altro lato assume che le relazioni con tali soggetti come con gli stessi competitori diretti siano necessariamente conflittuali. Come già sottolineato, nella realtà i comportamenti cooperativi risultano sempre più diffusi e rilevanti nelle strategie aziendali.5 Un terzo aspetto rilevante concerne il fatto che l’analisi delle forze competitive è statica; fotografa un certo stato dei fattori considerati ma non offre le chiavi per interpretarne le possibili evoluzioni e il modo in cui questi influenzeranno dinamicamente i risultati economici delle imprese. Tale analisi favorisce la comprensione delle cause strutturali di un certo grado di profittabilità complessiva; tuttavia non aiuta nel comprendere come queste cause incideranno nel tempo sugli effettivi risultati della singola impresa. Infine, in ogni settore il rilievo delle singole forze competitive sulla redditività potenziale tende a essere diverso. Nell’analisi di un determinato business è, quindi, opportuno individuare quelle che hanno maggiore valenza, cercando di comprenderne le cause sottostanti e il modo in cui incidono sui risultati complessivi del settore.

1.4.9 Il raggruppamento strategico Il concetto di raggruppamento strategico L’ambiente competitivo realmente importante per l’impresa è costituito dagli attori che fanno parte del suo stesso raggruppamento strategico. In linea generale, un raggruppamento strategico è un gruppo di imprese all’interno di un determinato settore, che adottano strategie simili, disponendo di un analogo patrimonio di risorse. Le imprese che appartengono a uno stesso raggruppamento strategico tendono a essere comparabili anche in termini di dimensione organizzativa, modello produttivo e assetto societario. L’impresa definisce la propria strategia e i relativi comportamenti operativi tenendo conto degli altri soggetti appartenenti allo stesso raggruppamento strategico e tendendo a non considerare coloro che appartengono ad altri raggruppamenti strategici, soprattutto quelli lontani dal proprio o comunque separati da rilevanti barriere. 5

Al tema delle strategie cooperative è dedicato il Paragrafo 4.4.

raggruppamento strategico

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Parte I La strategia nel sistema impresa

La mappatura dei raggruppamenti strategici I raggruppamenti strategici che compongono un determinato settore possono essere mappati attraverso l’utilizzazione delle variabili rilevanti nel distinguere gli aspetti chiave della strategia posta in essere dalle imprese e le loro risorse distintive. Naturalmente, tanto più numerose sono le variabili utilizzate, quanto più il raggruppamento risulta focalizzato e costituito da imprese simili e fortemente interdipendenti. Un modo molto immediato di definire il raggruppamento strategico è stato proposto già negli anni ’60 del secolo scorso da Igor Ansoff che utilizza a tal fine due variabili: 1. il prodotto venduto; 2. il mercato in cui tale prodotto viene venduto (Ansoff, 1965). Un altro approccio alla descrizione del business che ha avuto notevole diffusione anche pratica è quello proposto da Derek Abell e basato sulla configurazione di cinque variabili: 1. i gruppi di clienti (quali sono le tipologie di cliente cui è indirizzata l’offerta); 2. le funzioni d’uso del prodotto/servizio offerto (quali sono i benefici che si intende attribuire ai clienti target, ovvero, quali delle loro esigenze il prodotto mira a soddisfare); 3. le tecnologie utilizzate (in quale modo il prodotto/servizio assolve alle funzioni d’uso – obiettivo); 4. l’estensione geografica; 5. l’ampiezza verticale delle attività svolte. Altre variabili frequentemente utilizzate per distinguere i raggruppamenti strategici di un certo settore sono: • • • • • • • •

l’ampiezza della gamma offerta; la specializzazione dei gruppi di clienti (segmenti) di mercato serviti; la tipologia di clienti serviti (privati, pubblici…); il grado di sviluppo della marca (brand awareness) nel mercato e la conseguente attuazione di una strategia di marketing basata sulla marca; il posizionamento di prezzo, in relazione anche alla qualità dell’offerta; il livello di innovazione e la posizione di leadership o followership tecnologica; l’estensione geografica dell’offerta; il grado di integrazione verticale.

1.5 L’ambiente nella considerazione soggettiva dell’impresa percezione dell'ambiente

L’ambiente rilevante per l’impresa non è definito dalla natura oggettivamente determinata di un insieme di elementi strutturali, ma è piuttosto il risultato di una scelta complessa dell’impresa, della sua percezione soggettiva. L’azienda non ha relazioni con tutto l’ambiente, poiché opera una riduzione selettiva di esso, finalizzata a contenere la complessità del contesto esterno, nell’intento di perimetrare l’ambito dove posizionarsi al meglio in funzione delle proprie risorse.

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

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Uno stesso ambiente può, dunque, essere interpretato in maniera diversa dalle varie imprese che ne fanno parte; nella loro specifica prospettiva, queste percepiranno stimoli (minacce e opportunità) diversi e, quindi, porranno in essere comportamenti differenti. La percezione soggettiva attraverso cui l’impresa definisce il proprio ambiente si articola attraverso la definizione di due aspetti: 1. l’insieme di attori e di condizioni che l’impresa considera effettivamente nel momento in cui decide di porre in essere una certa azione; 2. le modalità attraverso cui l’impresa si propone di influenzare tali attori e condizioni. È, quindi, il sistema impresa che, a partire dalla sua organizzazione interna, seleziona gli stimoli ambientali che ritiene rilevanti e rispetto ai quali stabilisce una certa interazione. Di conseguenza, l’ambiente è rilevante per l’impresa perché genera un insieme di condizioni che, in funzione del modo in cui sono da essa percepite e interiorizzate, possono innescare (ma non determinare) una sua evoluzione. Il cambiamento dell’impresa non è dunque prodotto dall’ambiente, ma dal modo in cui essa coglie gli stimoli (positivi e negativi) che esso produce e li trasforma al suo interno secondo il proprio modello di sviluppo. È fondamentale che vi sia compatibilità tra impresa e ambiente, nel senso che l’impresa deve avere caratteristiche tali da poter percepire nel modo migliore gli stimoli ambientali, mentre l’ambiente deve avere le condizioni che, opportunamente percepite dall’impresa, si innestino al meglio nel suo percorso evolutivo. L’evoluzione dell’impresa è legata alla sua capacità di produrre questa compatibilità. Ciò si manifesta nella sua capacità di: 1. percepire correttamente le condizioni ambientali come insieme di opportunità da sfruttare e di minacce da neutralizzare; 2. maturare quelle condizioni interne che rendono possibile la migliore interiorizzazione delle energie offerte dall’ambiente percepito. Il fatto che sia l’impresa a definire soggettivamente il proprio ambiente non implica però che essa individui sicuramente tutte le condizioni e gli attori che in effetti incidono sulle sue opportunità di sviluppo. In altri termini, l’ambiente rilevante percepito e attivato dall’impresa non necessariamente corrisponde all’ambiente che essa dovrebbe effettivamente considerare come “rilevante”. Essa può avere una percezione parziale o addirittura errata delle condizioni del contesto in cui si trova a operare. Oppure può decidere di non tenere conto di determinate condizioni dell’ambiente, ritenendo più opportuno focalizzare la propria attenzione su altre. Può per esempio capitare che, abituata a operare in un mercato geograficamente circoscritto, essa non ne comprenda l’evoluzione in senso internazionale e continui a focalizzare la propria strategia sul solo territorio di origine. Vi sono, quindi, elementi che oggettivamente caratterizzano il contesto in cui l’impresa è inserita e che sono rilevanti, a prescindere dalla capacità o meno che quest’ultima ha di comprenderne l’esistenza e l’influenza. Il trascurare questi elementi genera spesso, almeno nel medio-lungo termine, rilevanti difficoltà per l’impresa o addirittura la sua crisi.

compatibilità

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Parte I La strategia nel sistema impresa

1.5.1 La rilevanza dell’ambiente per l’impresa Dal punto di vista dell’impresa, l’ambiente è rilevante per due ragioni essenziali: 1. per l’insieme dei suoi attori e condizioni che determinano le potenzialità per l’impresa di realizzare i propri obiettivi; 2. per le energie che (attraverso quegli stessi attori e condizioni) esso rende potenzialmente disponibili all’impresa e che questa può acquisire per sostenere il proprio processo evolutivo.

condizioni competitive energie acquisibili

apprendimento

complessità ambientale

La rappresentazione o percezione che l’impresa ha dell’ambiente si articola dunque su due livelli: quello delle condizioni competitive (ambiente competitivo) e quello delle energie acquisibili. I due piani non sono separati, ma, anzi, strettamente connessi. La rappresentazione dell’ambiente competitivo individua le relazioni che l’impresa stabilisce con determinati attori esterni nella realizzazione della sua attività economica. Il contenuto di queste relazioni si manifesta in energia di segno positivo o negativo che passa dagli attori esterni all’impresa e viceversa. In questo senso, la qualità di un determinato contesto ambientale dipende dall’insieme di energie che esistono al suo interno e sono potenzialmente a disposizione dell’impresa. L’evoluzione di quest’ultima, quindi, da un lato, è influenzata dalle caratteristiche dell’ambiente in cui è inserita; dall’altro lato, dipende dalla percezione che essa ha del suo ambiente, in altri termini, dalla capacità di cogliere l’esistenza delle energie favorevoli che sono disponibili nel suo ambiente, nonché dalla capacità di acquisirle attraverso opportune relazioni con esso. Gli stimoli offerti da una domanda particolarmente sofisticata o da concorrenti molto validi, la disponibilità di risorse umane qualificate, i capitali offerti con strumenti efficienti dalle istituzioni finanziarie, la disponibilità di servizi pubblici molto efficienti, costituiscono alcuni esempi di “energie” che, opportunamente percepite e metabolizzate dall’impresa, ne favoriscono lo sviluppo competitivo. L’ambiente è sede di apprendimento per l’impresa e le relazioni che questa stabilisce con gli attori che ne fanno parte costituiscono dei mezzi per apprendere. In questa prospettiva, la complessità è una caratteristica anche positiva dell’ambiente. Un ambiente complesso offre all’impresa intense opportunità di apprendimento, spingendola ad ampliare la varietà del proprio patrimonio di conoscenze. Esso, infatti, costringe l’impresa ad affrontare problematiche differenti e mutevoli per le quali sono necessarie conoscenze variegate e continuamente aggiornate. Al contrario, un’impresa che opera in un ambiente semplice e protetto affronta situazioni ben determinate e sostanzialmente ricorrenti, quindi tende a produrre ridondanze nel proprio patrimonio di conoscenze che rimane limitato sotto il profilo dell’ampiezza. Per operare in un ambiente complesso, l’impresa deve essere in grado in primo luogo di percepire questa complessità, comprendendo i fattori che ne sono all’origine. In secondo luogo, deve essere in grado di fronteggiarla; a tal fine, deve produrre al suo interno le condizioni per il superamento o per l’estensione del patrimonio attuale di conoscenze. Il nodo che l’impresa deve saper sciogliere non è, allora, semplicemente quello di saper apprendere, ma anche di saper imparare ad apprendere.

Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

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Sintesi L’impresa può essere considerata una combinazione di risorse e di attori legati da relazioni finalizzate al raggiungimento di determinati obiettivi; essa evolve nel tempo anche in virtù del particolare modo in cui interagisce con l’ambiente. L’ambiente è costituito da: • •

un insieme di attori: sistemi più o meno complessi che perseguono specifici obiettivi; un insieme di condizioni che sono la risultante diretta o indiretta dei comportamenti di questi attori e di fattori più generali.

In prospettiva d’analisi, l’ambiente può essere distinto su tre livelli: 1. 2. 3.

l’ambiente esteso; l’ambiente competitivo; l’ambiente competitivo specifico del business.

L’ambiente competitivo dell’impresa assume notevole rilevanza in quanto costituito da attori capaci di attivare condizioni tali da indirizzarne il comportamento e influenzarne i risultati potenzialmente realizzabili. Un modello ampiamente consolidato per approfondire gli elementi che caratterizzano l’ambiente competitivo è quello delle cinque forze competitive di Porter, che prende in considerazione il rilievo assunto da: 4. 5. 6. 7. 8.

l’intensità della concorrenza nel settore; la minaccia di nuovi entranti nel settore; la competizione indiretta esercitata da beni e servizi aventi la stessa funzione d’uso; il potere contrattuale del fornitori; il potere contrattuale degli acquirenti.

Per completare la descrizione dell’ambiente competitivo in cui opera un’impresa, a queste cinque forze è opportuno aggiungerne altre due: 9. l’intensità e il segno dell’intervento di determinati stakeholders esterni; 10. il grado di integrazione con le imprese complementari rispetto alla domanda finale. Nel loro insieme, le forze competitive determinano il reddito che potenzialmente un’impresa operante nel settore che esse descrivono può realizzare. Le forze competitive determinano la redditività potenziale per l’impresa; la sua redditività effettiva dipende naturalmente dalle specifiche strategie competitive che questa pone in essere. Le forze competitive delineano una sorta di “fotografia” del settore cui si riferiscono, ma non colgono le sue traiettorie evolutive; in questo senso rappresentano un riferimento parziale per la definizione della strategia. Nella realtà, un’impresa interagisce con le imprese appartenenti al suo stesso raggruppamento strategico; di conseguenza, è a tale aggregato che andrebbe riferita l’analisi delle forze competitive. i raggruppamenti strategici vanno descritti in relazione a un insieme di parametri.

Domande ed esercizi Domande di verifica 1. 2.

Indicare le principali caratteristiche dell’impresa come sistema. Definire la proprietà autopoietica dell’impresa.

3. 4. 5.

Illustrare il concetto di “spinta imprenditoriale”. Spiegare la relazione concettuale esistente tra l’impresa e l’ambiente in cui essa è inserita. Indicare i fattori che descrivono l’ambiente competitivo dell’impresa.

32

Parte I La strategia nel sistema impresa

6. 7.

Indicare le tipologie di barriera all’entrata. Spiegare le determinanti del potere contrattuale dei fornitori (clienti). Chiarire il rilievo dell’influenza degli stakeholders esterni. Spiegare il concetto di raggruppamento strategico. Indicare le principali modalità di descrizione di un raggruppamento strategico. Quali aspetti rendono l’impresa un’entità analoga ai sistemi viventi? Per quali ragioni le condizioni dell’ambiente sono rilevanti nell’evoluzione dell’impresa? Quale impatto ha il grado di concentrazione di un settore sull’intensità della concorrenza? Quali ruoli il soggetto pubblico può svolgere e quali influenze può avere nella dinamica di un sistema produttivo? Perché per l’impresa è necessario valutare le caratteristiche del raggruppamento strategico cui appartiene?

8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.

15.

3.

Le barriere strategiche sono efficaci quando manifestano le caratteristiche di: □ a. percezione e credibilità. □ b. percezione e sostenibilità. □ c. sostenibilità e convenienza.

4.

Quali sono gli stakeholders esterni che hanno rilievo diretto sull’andamento dell’ambiente competitivo dell’impresa? □ a. Le autorità politiche e amministrative del territorio in cui l’impresa è localizzata; le autorità pubbliche di regolamentazione eventualmente esistenti nel settore dell’impresa; le associazioni di rappresentanza delle varie categorie di attori coinvolti nell’attività economica dell’impresa; gli organismi della società civile. □ b. Le autorità politiche e amministrative del territorio in cui l’impresa è localizzata; le autorità pubbliche di regolamentazione eventualmente esistenti nel settore dell’impresa; le associazioni di rappresentanza delle varie categorie di attori coinvolti nell’attività economica dell’impresa; i fornitori. □ c. Le autorità politiche di livello nazionale; le associazioni di rappresentanza delle varie categorie di attori coinvolti nell’attività economica dell’impresa; gli organismi della società civile.

5.

Che cosa sono i raggruppamenti strategici? □ a. Gruppi di imprese che appartengono allo stesso settore e sono accomunate dall’adozione di strategie comunicative e di approvvigionamento simili. □ b. Gruppi di imprese che appartengono a settori diversi, ma sono accomunate dall’orientamento strategico e dall’insieme di risorse disponibili. □ c. Gruppi di imprese appartenenti allo stesso settore che adottano strategie simili e dispongono di un simile patrimonio di risorse.

Test a risposta multipla 1.

2.

Quali sono gli elementi fondanti l’evoluzione del sistema impresa? □ a. Il contesto geografico e storico, il proprio patrimonio genetico, i portatori di interesse. □ b. Il proprio patrimonio genetico, il proprio progetto strategico. □ c. Il modello di generazione delle risorse, la visione e la missione che l’impresa intende perseguire. Nell’analisi dell’ambiente competitivo, il grado di idiosincraticità degli impianti assume rilevanza in quanto: □ a. componente dei costi di produzione. □ b. fattore che genera una barriera all’uscita. □ c. elemento che incide sulla determinazione dei prezzi praticati dall’impresa.

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Capitolo 1 Il sistema impresa e l’ambiente competitivo

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L’impresa come sistema “sostenibile”

2

Matteo Caroli

Gli obiettivi del capitolo Questo capitolo spiega i principi della gestione “sostenibile” dell’impresa. Sulla base di una lettura sintetica dei principi concettuali della “sostenibilità”, si evidenzia come la creazione di valore ambientale e sociale può essere integrata e anche funzionale alla realizzazione di valore economico.

2.1 I principi concettuali Quattro divari sono ormai considerati “insostenibili”, mettendo seriamente in pericolo la continuità dei sistemi ambientali, sociali ed economici a cui siamo abituati: • • •



il divario tra grado di sfruttamento delle risorse fisiche e naturali della Terra e la disponibilità delle stesse; il divario tra grado di soddisfacimento dei bisogni individuali e quello relativo ai bisogni collettivi; il divario tra gli ambiti (in termini di territori all’interno di uno stesso Paese, organizzazioni, persone) dove sono concentrate quote crescenti di ricchezza economica e gli altri che tendono verso una sempre maggiore arretratezza; il divario tra gli ambiti (anche in questo caso, in termini di territori all’interno di uno stesso Paese, organizzazioni, persone) che dispongono dei fattori di crescita e gli altri che subiscono un sempre più difficile accesso a tali fattori.

L’impresa in quanto fulcro delle attività produttive e motore dell’innovazione e della generazione di ricchezza economica è coinvolta in maniera ineluttabile in questi squilibri; ha un ruolo cruciale nel determinarne l’evoluzione, accentuandone la portata o, piuttosto, favorendo forze per il loro bilanciamento. Di conseguenza, è ormai del tutto prevalente l’idea che le imprese non possono essere guidate dall’obiettivo di massimizzare il solo risultato economico, lasciando ad altri soggetti il compito di attuare gli interventi utili per colmare questi divari; attraverso il loro operato, esse devono contribuire in modo significativo al miglioramento delle condizioni ambientali e sociali, risultando così “sostenibile”.

sostenibile

Parte I La strategia nel sistema impresa

36

economia civile

shared value

La condizione minimale della sostenibilità si manifesta nel realizzare le attività economiche con modalità che non generino effetti negativi sul pianeta e sulle persone. Tale condizione è, per altro, richiesta dall’evoluzione delle normative che, in gran parte dei Paesi, va nella direzione di estendere gli ambiti dove non sono ammessi comportamenti aziendali che generano rilevanti esternalità negative sull’ambiente (non compensate dal soggetto che le determina) o significative violazioni dei principi di equità, sicurezza e libertà delle persone. Alle imprese è sempre più richiesto anche un impegno per la sostenibilità in chiave “positiva”, in base al quale esse agiscono come protagoniste (eventualmente in collaborazione con altri soggetti) del miglioramento delle condizioni ambientali e sociali; un impegno che deve essere integrato con quello relativo allo sviluppo del vantaggio competitivo nel business, essendo, di conseguenza, continuo nel tempo e diffuso in tutto il sistema aziendale. Tale impegno è attuato a due livelli: quello dei progetti miranti a risolvere problemi di interesse generale, normalmente realizzati in collaborazione con attori esterni; quello relativo alle iniziative per il progressivo miglioramento dell’impatto sociale e ambientale delle proprie attività produttive e di business. Tutto ciò implica che la creazione di valore economico vada considerata un fine essenziale ma non per la massima soddisfazione solo di alcuni soggetti (gli azionisti ed eventualmente gli alti dirigenti), quanto per lo sviluppo organico dell’impresa stessa e del contesto ove essa opera. Nel ’700, la scuola di pensiero italiana dell’economia civile, che ebbe in Antonio Genovesi il suo massimo esponente,1 aveva ben delineato questo approccio, evidenziando come la ricchezza economica creata dall’impresa dovesse essere indirizzata a migliorare il benessere di tutta la Comunità di cui essa è parte. Nei rapporti di mercato è fondamentale che le parti sviluppino mutua fiducia, nell’orientamento a perseguire il bene comune e non solo la soddisfazione individuale. È essenziale sviluppare una “fede pubblica” che è parte rilevante, anche se spesso non abbastanza considerata, della ricchezza di un’organizzazione come di una città o di un Paese. La “coltivazione” di questa fede pubblica è quindi condizione necessaria per qualsiasi sviluppo economico che sia anche civile. Genovesi attribuisce al termine “fede” il significato di “legame”, di relazione positiva tra gli attori della Società ed evidenzia come essa si sviluppa al di là delle relazioni contrattuali, al di fuori del mercato, mentre è essenziale perché tali relazioni siano effettivamente efficaci. Riprendendo questa impostazione, Porter e Kramer hanno recentemente proposto2 il concetto di shared value, definito come: “le politiche e le pratiche operative che rafforzano la competitività dell’impresa e allo stesso tempo migliorano le condizioni sociali ed economiche delle Comunità in cui essa opera”. In sintesi, la creazione di valore condiviso è focalizzata sull’identificazione e sviluppo delle interdipendenze tra il progresso economico e quello sociale. L’efficacia di questa idea sta inoltre nell’estendere il parametro del “valore” dalla sfera economica a quella sociale. Il “valore condiviso” creato dall’attività d’impresa è determinato dalla differenza dei benefici (economici e non) goduti dall’insieme dei soggetti coinvolti da tale attività e i costi (anche in questo caso di varia natura) sostenuti da quegli stessi soggetti.

1

Si veda: Lezioni di economia civile. Cfr. Porter M.E., Kramer M.R. (2011), Creating shared value, «Harvard Business Review», january-february, pp. 62-77.

2

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

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Esperienza

L’importanza della corporate shared value in Telecom La nostra strategia di CSV si articola principalmente sui seguenti driver: • • • • •

aggiornamento delle aree strategiche di intervento; integrazione delle linee guida strategiche di CSV nelle linee guida della strategia aziendale; supporto, tramite linee guida di marketing sociale, allo sviluppo di offerte e servizi che producano valore condiviso; utilizzo delle tematiche di CSV come driver di posizionamento in termini di comunicazione sia di mercato sia di brand; monitoraggio dell’impatto della CSV sulla reputazione del Gruppo.

Fonte: http://www.telecomitalia.com/tit/it/sustainability/our-approach/our-model/strategy.html

L’impresa che opera nella prospettiva del valore condiviso non può quindi considerare solo i ricavi e i costi che la riguardano direttamente, ma anche i benefici e i costi che riguardano gli altri soggetti coinvolti dalla sua attività. Questo assunto poggia sul principio della corporate citizenship. L’impresa deve comportarsi come un “buon” membro della Comunità di cui è parte; quindi, non solo rispettarne le leggi e gli usi, ma anche contribuire attivamente alla sua crescita organica, e in misura ovviamente proporzionale alla rilevanza non solo economica che essa ha. L’impresa deve, quindi, maturare un forte senso di responsabilità verso il sistema sociale ed economico di cui è parte, evitare di danneggiarlo e anzi contribuire al suo sviluppo; non deve avvantaggiarsi del suo eventuale potere economico ed extraeconomico, ma utilizzare le proprie risorse e competenze con modalità che generano benefici alla massima parte degli altri attori.

corporate citizenship

2.2 Il concetto di “sostenibilità” applicato all’impresa L’impresa è sostenibile quando riesce a soddisfare in maniera equilibrata gli obiettivi di tutti i suoi principali stakeholders interni ed esterni, contribuendo così anche al raggiungimento del più generale obiettivo di sviluppo sostenibile: «to meet the needs of present without compromising the ability of future generation to meet their own needs». In altri termini, l’impresa sostenibile opera con l’intento

sostenibile

Strumenti

L’integrazione della sostenibilità nella gestione del business Già nel 1955, uno dei massimi studiosi di management, Peter Drucker, scriveva: (…) Even the most private of business enterprise is an organ of society and serves a social function… (…) the very nature of the modern business enterprise imposes responsabilities on the managers... (…) it must consider the impact of every business policy and business action upon society... Fonte: Drucker P. (1954), The practice of Management, Harper&Row, New York.

Parte I La strategia nel sistema impresa

38

Strumenti

Una possibile definizione di “corporate sustainability” “Corporate sustainability is a business approach that creates long-term shareholder value by embracing opportunities and managing risks deriving from economic, environmental and social developments. Corporate sustainability leaders achieve long-term shareholder value by gearing their strategies and management to harness the market’s potential for sustainability products and services while at the same time successfully reducing and avoiding sustainability costs and risks”. Fonte: Dow Jones Sustainability Index, 2002.

Strumenti

“It is society that gives us the right to be active, our license to operate. A business leader has to think about how to solve the societal challenges of today, because if we don’t solve them, we will not have a business”. Peter Brabeck-Letmahe Chairman of the Board, Nestlè, 2015

di raggiungere contemporaneamente e in modo equilibrato obiettivi economici, sociali e ambientali. Essa si preoccupa di creare in condizioni di equilibrio fianziario, valore economico adeguato rispetto al livello di rischi assunti. Allo stesso tempo, di ottimizzare l’impatto ecologico delle scelte aziendali, in particolare di quelle relative agli investimenti strutturali, ai processi produttivi, all’utilizzazione dei materiali, alla configurazione dei prodotti, che più direttamente possono incidere sull’equilibrio dell’ambiente circostante. Infine, di favorire le opportunità per gli attori sociali non solo di beneficiare della ricchezza economica che essi contribuiscono a creare, ma anche di migliorare le proprie opportunità di sviluppo professionale e personale

2.2.1 Le fasi tipiche nell’evoluzione dell’orientamento alla sostenibilità sostenibilità

L’orientamento alla sostenibilità ha normalmente un certo grado di specificità, in relazione alle caratteristiche settoriali, dato che queste influenzano la rilevanza delle varie problematiche sociali e/o ambientali. Altrettanto importante è l’esperienza maturata dall’impresa in questo ambito e l’attitudine generale verso il bene comune, derivante dai valori prevalenti al suo interno. L’approccio alla sostenibilità è, dunque, sempre il risultato di un percorso evolutivo che ogni impresa compie con modalità e rapidità diverse in relazione appunto alle specificità proprie e del contesto in cui opera. In linea generale, questo percorso è articolato in quattro fasi tipiche; importante sottolineare che nell’evoluzione attraverso le varie fasi l’impresa non solo aumenta la dimensione e la rilevanza delle iniziative per la sostenibilità e quindi l’importanza del ruolo giocato nello sviluppo sostenibile, ma cambia anche il metodo, nel senso che la sostenibilità diviene condizione sempre più intrinseca nei comportamenti di tutti gli attori aziendali.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

In linea generale, nella fase inziale, l’impresa non ha una strategia ben definita per la sostenibilità; intende però migliorare l’impatto sociale e ambientale della propria attività; a tal fine, opera sostanzialmente nelle seguenti quattro modalità. 1. Adesione formale ai valori insiti della sostenibilità attraverso la redazione di documenti aziendali (carta dei valori, codice etico ecc.). 2. Realizzazione di “buone pratiche” interne per migliorare l’impatto ambientale delle attività produttive e le condizioni di lavoro dei collaboratori. 3. Supporto a organizzazioni specializzate (normalmente no profit) per la realizzazione di progetti/iniziative a vantaggio di soggetti deboli o per la soluzione di problemi rilevanti per la Comunità ospitante. Questi progetti possono essere focalizzati in ambiti collegati anche all’attività produttiva o al mercato in cui l’impresa è presente. 4. Rendicontazione delle attività di rilievo sociale e ambientale realizzate in un determinato periodo di tempo (normalmente l’anno) e dei risultati raggiunti. Questa rendicontazione va realizzata in modo integrato con quella relativa ai risultati economici e finanziari, così da evidenziare come valore economico, sociale e ambientale non siano separati, ma siano componenti di un unico valore.3 Maturata la necessaria esperienza iniziale e diffusi i valori della sostenibilità all’interno del suo sistema, l’impresa è nelle condizioni di delineare una vera e propria strategia per la sostenibilità: fissa, quindi, dei precisi obiettivi di miglioramento sociale e ambientale, e stabilisce un insieme di azioni (come quelle dei punti due, tre e quattro del precedente elenco) organico e coerente in funzione del raggiungimento di tali obiettivi. Tende, inoltre, a stabilire collaborazioni strutturate con soggetti no profit qualificati e capaci di realizzare i progetti di interesse collettivo; spesso, si tratta di grandi organizzazioni impegnate in iniziative importanti e di livello internazionale. A questo corrisponde, normalmente, un’importante evoluzione organizzativa, con la creazione di un’unità operativa cui è formalmente affidata la responsabilità di predisporre e implementare la strategia per la sostenibilità e monitorarne i risultati. È una struttura normalmente snella, ma costituita da persone fortemente specializzate; nelle aziende di grandi dimensioni, è guidata da un manager che solitamente risponde direttamente a un direttore centrale. Questa figura manageriale ha normalmente quattro funzioni prioritarie: 1. gestire l’implementazione del programma di sostenibilità; 2. coordinare la rendicontazione delle attività svolte e dei risultati raggiunti. Per svolgere questi compiti, il responsabile della sostenibilità deve coordinarsi con i responsabili delle funzioni/business units aziendali direttamente coinvolte; deve quindi: 3. trasferire ai responsabili le competenze necessarie alla realizzazione dell’iniziativa; 4. favorire l’interazione con gli eventuali interlocutori esterni.

3

Nel 2015, il Governo italiano ha recepito una direttiva comunitaria che rende tale rendicontazione obbligatoria per le imprese di grande dimensione.

39

Parte I La strategia nel sistema impresa

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In alcune imprese, al responsabile della sostenibilità è anche affidata la responsabilità di: • • •

stakeholders’ engagement

business model

gestire direttamente specifici progetti previsti dal programma; attuare iniziative per la diffusione nel sistema aziendale della cultura della sostenibilità e delle competenze manageriali necessarie; intervenire nelle decisioni strategiche di business che possono avere un impatto rilevante sul piano ambientale e/o sociale.

Un ulteriore avanzamento dell’approccio alla sostenibilità si manifesta quando l’impresa coinvolge direttamente gli stakeholders nella definizione degli obiettivi di sostenibilità, delle conseguenti azioni strategiche e operative con i cambiamenti organizzativi eventualmente conseguenti; si parla di stakeholders’ engagement.4 L’impresa non si limita ad assumere obiettivi di miglioramento ambientale e sociale, e a impegnarsi per il loro raggiungimento, ma si apre all’esterno, per condividere con i soggetti direttamente o indirettamente coinvolti le priorità ambientali e sociali e le modalità per raggiungerle. Il percorso verso la sostenibilità è completo quando l’impresa innova il suo business model in modo che le misure per raggiungere il vantaggio competitivo sono efficaci anche per sviluppare benefici collettivi e viceversa. La distinzione tra la prospettiva del business e quella dell’apporto allo sviluppo sostenibile della propria Comunità (considerata in maniera più o meno estesa) tende così a essere Esperienza

I compiti del Comitato “Corporate governance e sostenibilità” in Enel Nel 2011, Enel Spa ha istituito tra i Comitati del Consiglio di Amministrazione, il Comitato “Corporate governance e sostenibilità”. All’articolo 2 del regolamento del Comitato (aggiornato al marzo 2016) sono definiti i suoi compiti che, per quanto riguarda specificatamente la sostenibilità sono: • • • •





vigilare sui temi di sostenibilità connessi all’esercizio dell’attività dell’impresa e alle dinamiche d’interazione di quest’ultima con tutti gli stakeholders; esaminare le linee guida del piano di sostenibilità e le modalità di attuazione della politica di sostenibilità; monitorare l’inclusione della Società nei principali indici di sostenibilità, nonché la sua partecipazione ai più significativi eventi internazionali in materia; esaminare l’impostazione generale del bilancio di sostenibilità e l’articolazione dei relativi contenuti, nonché la completezza e la trasparenza dell’informativa fornita attraverso il medesimo bilancio, rilasciando in proposito un parere preventivo al Consiglio di Amministrazione chiamato ad approvare tale documento; esaminare le principali regole e procedure aziendali che risultano avere rilevanza nei confronti degli stakeholders – congiuntamente al Comitato Controllo e Rischi, ove tali regole e procedure siano connesse al sistema di controllo interno e di gestione dei rischi – e sottoporre tali documenti all’approvazione del Consiglio di Amministrazione, valutando loro eventuali successive modifiche o integrazioni; svolgere gli ulteriori compiti che gli vengono attribuiti dal Consiglio di Amministrazione.

Fonte: Enel S.p.A.

4

Lo stakeholders’engagement è approfondito nell’ultimo paragrafo di questo capitolo.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

41

superata. In questa fase, evolve in modo significativo anche il modello di governance aziendale; tra i Comitati istituiti in seno al Consiglio di Amministrazione, ne è costituito uno con il compito di orientare i massimi organi di governo dell’azienda in materia appunto di sostenibilità e rafforzare l’endorsement a favore di tali politiche presso l’alta direzione.

2.2.2 Le determinanti del grado di sostenibilità dell’impresa Il grado di sostenibilità dell’impresa è la risultante di tre dimensioni (Figura 2.1): • •



la rilevanza del valore sociale e ambientale creato insieme a quello economico, soddisfacendo le aspettative degli stakeholders; la misura in cui le strategie per la creazione di valore sociale e ambientale sono integrate con quelle strettamente di business, e tale integrazione si riflette nel sistema di valori, nell’assetto organizzativo e nei comportamenti operativi dell’impresa e al tempo stesso trae forza da questi; la misura in cui i contenuti del valore sociale e ambientale creato sono decisi insieme con gli stakeholders; ovvero l’intensità del loro coinvolgimento nelle decisioni strategiche dell’impresa

2.2.3 L’impatto della sostenibilità sul vantaggio competitivo5 dell’impresa La gestione sostenibile genera risultati positivi non solo sul piano ambientale e sociale ma anche su quello economico. Sono diverse e significative le azioni attuate dall’impresa a favore di obiettivi appunto ambientali e sociali che hanno effetti positivi sul vantaggio competitivo e quindi sulla sua redditività, soprattutto di medio-lungo termine. In questa prospettiva, tali azioni possono essere

vantaggio competitivo

Integrazione dei principi e delle strategie per la sostenibilità nei valori, organizzazione e strategie aziendali

Rilevanza del valore sociale e ambientale creato insieme a quello economico

Le determinanti il grado di sostenibilità dell’impresa

Coinvolgimento degli stakeholders nella definizione degli obiettivi di sostenibilità e nel loro raggiungimento

5

Il concetto di “vantaggio competitivo” è illustrato nel Capitolo 4.

Figura 2.1 Le determinanti del grado di sostenibilità dell’impresa.

Parte I La strategia nel sistema impresa

42

Azioni per il raggiungimento di obiettivi ambientali e sociali

– specifici investimenti richiesti – nuovi costi di gestione – incremento costi diretti/indiretti

Figura 2.2 I criteri per la valutazione economicofinanziaria delle azioni per la sostenibilità.

Versus

+ aumento ricavi + riduzione costi diretti/indiretti + riduzione rischi e impatto eventi negativi + miglioramento fattori di vantaggio competitivo

valutate dal punto di vista economico-finanziario con la stessa logica utilizzata per gli altri tipi di investimenti (Figura 2.2). Da un lato, si considerano i costi per la realizzazione di tale investimento e l’eventuale incremento di altri costi che esso genera direttamente o indirettamente. Dall’altro, vanno considerati quattro effetti economici positivi. 1. L’incremento di ricavi. 2. La diminuzione di altri costi conseguenti al miglioramento dell’impatto ambientale e sociale favoriti da tali investimenti. Sia l’aumento dei ricavi, sia la contrazione dei costi tendono a manifestarsi nel medio-lungo termine; di conseguenza, è importante stabilire una corretta modalità di attualizzazione del loro valore economico. 3. La riduzione di determinati rischi di gestione o dell’impatto del possibile manifestarsi dell’evento negativo. 4. Il miglioramento di condizioni dell’impresa rilevanti per raggiungere una posizione di vantaggio competitivo.

brand equity

L’incremento dei ricavi deriva dal fatto che un maggior grado di sostenibilità dell’impresa percepita dal mercato può riflettersi positivamente sui fattori di differenziazione, quindi sul valore attribuito all’offerta dell’impresa.6 In particolare, può rafforzare la reputazione dell’impresa e la sua identità con un effetto positivo sulla brand equity della sua offerta. Determinate caratteristiche di rilievo ambientale o sociale possono anche aumentare direttamente il valore attribuito al prodotto o al servizio dal cliente potenziale, la sua soddisfazione e magari rafforzare la sua fidelizzazione. Possono, inoltre, stimolare l’acquisto, rappresentando anche un fattore di promozione dell’offerta. La diminuzione dei costi è evidentemente intrinseca alle misure volte a ridurre l’uso dei materiali dell’energia e gli sprechi, e a favorire il “riutilizzo” di determinati input o di parti di prodotti arrivate al termine del loro ciclo di vita. Si manifesta anche nella maggiore efficienza che può conseguire dall’adozione di processi produttivi e modelli organizzativi caratterizzati da un migliore impatto ambientale e sociale. Molte misure per la sostenibilità sono espressamente finalizzate alla riduzione dei rischi ambientali e sociali connessi alla realizzazione delle attività pro6

Il significato di “differenziazione” e il suo rilievo per il vantaggio competitivo sono approfonditi nel Capitolo 4.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

duttive e al contenimento dei danni potenzialmente conseguenti al manifestarsi degli eventi negativi. Per altro, misure di questo genere sono sempre più richieste da specifiche norme nel quadro della politica pubblica per l’ambiente e di quella a favore di determinate problematiche sociali. Sono ormai pochi i settori dove le imprese non incorporano nei loro modelli di risk management i rischi di natura ambientale. Dal punto di vista dell’economia dell’impresa, la riduzione dei rischi e del loro impatto negativo va quantificata in termini di riduzione dei costi potenziali (spesso di enormi proporzioni) e di peggioramento della posizione competitiva, connessi al verificarsi di incidenti che provocano rilevanti danni all’ambiente o alle persone, e ascrivibili alla responsabilità dell’impresa. Nel caso tali incidenti si verifichino, la gestione sostenibile, inoltre, pone l’impresa in condizioni relativamente migliori (o meno peggiori) per gestire la crisi per almeno tre ragioni: • • •

risk management

la reputazione positiva relativamente all’impegno ambientale e sociale, già consolidata; la maggiore conoscenza delle modalità di intervento più efficaci; le relazioni consolidate con gli stakeholders con i quali è utile/necessario interagire nella gestione delle conseguenze dell’incidente..

Per quanto concerne, infine, il miglioramento di fattori di vantaggio competitivo, gli effetti del miglioramento della sostenibilità ambientale e sociale sono numerosi sia all’interno dell’impresa, sia nelle sue relazioni con altri attori. All’interno, le politiche per la sostenibilità favoriscono il miglioramento del clima organizzativo, della coesione tra gli attori aziendali, del senso di appartenenza all’impresa, della qualità della vita delle persone. Del resto, il livello di sostenibilità dell’impresa è un parametro sempre più rilevante nella valutazione della sua qualità come luogo di lavoro. Vi possono anche essere importanti effetti positivi sul piano dell’apprendimento e dello sviluppo di competenze/relazioni rilevanti anche nella gestione dei business. A riguardo, è significativo l’impegno a favore dei consumatori “at the bottom of the pyramid” nella fase inziale; esso è giustificato dalla volontà di aiutare lo sviluppo sociale e il miglioramento della qualità della vita delle persone in comunità povere. In questo modo, però, l’impresa “coltiva” lo sviluppo di un mercato futuro, la sua immagine e le relazioni con i soggetti che ne saranno parte; tutti elementi che saranno decisivi per avere un vantaggio competitivo quando esso raggiungerà un’adeguata consistenza economica. Effetti significativi si osservano anche all’esterno dell’impresa: oltre al miglioramento delle relazioni con gli attori direttamente beneficiari delle azioni di sostenibilità dell’impresa, va considerato il rafforzamento delle relazioni con il governo del territorio ove l’impresa opera e attua tali misure. Altrettanto importante è il miglioramento della relazione con gli investitori, considerato il continuo incremento delle masse finanziarie gestite da soggetti che orientano in modo esclusivo o, quantomeno, prioritario gli investimenti verso imprese appunto con un elevato (e certificato) livello di sostenibilità. Nella Figura 2.3 sono illustrati i collegamenti tra le principali politiche in campo ambientale e sociale attuate dall’impresa con le determinanti del vantaggio competitivo e del valore economico dell’impresa, espresse, come detto, in termini di riduzione dei costi di produzione, aumento del livello di differenziazione, riduzione dei rischi ambientali e sociali, rafforzamento dei potenziali fattori di vantaggio competitivo (interni ed esterni), riduzione dei rischi.

bottom of the pyramid

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Parte I La strategia nel sistema impresa

Miglioramento qualità del lavoro

PRODUTTIVITÀ

Coinvolgimento dei dipendenti Trasparenza e qualità della governance Rispetto standard internazionali di sostenibilità

GESTIONE E CONTROLLO DEI RISCHI

COSTO DEL CAPITALE

Miglioramento relazioni con le rappresentanze Qualità ambientale e sociale della produzione Impegno a favore dell’ambiente e della comunità Esplicitazione e comunicazione dell’impegno per la sostenibilità

RIDUZIONE DEI COSTI DI GESTIONE

VALORE DI MERCATO

RAFFORZAMENTO DEL MARCHIO

AUMENTO CAPITALE RELAZIONALE

Innovazione processi produttivi e procedure per risparmio risorse ambientali

Figura 2.3 Le principali connessioni tra le condizioni di sostenibilità dell’impresa e le determinanti del suo valore economico.

AUMENTO DEL FATTURATO Impegno a favore degli attori della filiera

2.3 L’impulso delle istituzioni internazionali a favore dell’impresa sostenibile 2.3.1 Il “Global Compact” delle Nazioni Unite

cittadinanza d’impresa responsabile

L’impegno delle istituzioni a livello mondiale nel promuovere lo sviluppo dei principi di sostenibilità presso gli attori economici ha avuto un impulso fondamentale nell’avvio del Global Compact avvenuto nel luglio del 2000 per iniziativa dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan. Il Global Compact intende promuovere una cittadinanza d’impresa responsabile in modo che il mondo del business contribuisca insieme alle istituzioni ai vari livelli all’individuazione di soluzioni alle sfide ambientali e sociali conseguenti la globalizzazione. Tale impegno deve manifestarsi all’interno dell’organizzazione aziendale, attraverso l’inclusione dei valori di sostenibilità nella sua visione strategica, nella cultura organizzativa e nelle operazioni quotidiane. Raggiunto questo consolidamento interno, i progetti per la comunità e altre azioni a favore di soggetti esterni, diventano un ampliamento naturale dei valori aziendali.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

45

Strumenti

I dieci principi del Global Compact Alle imprese è richiesto di Diritti umani Principio 1 Promuovere e rispettare i diritti umani universalmente riconosciuti nell’ambito delle rispettive sfere d’influenza. Principio 2 Assicurarsi di non essere, seppure indirettamente, complici negli abusi dei diritti umani. Lavoro Principio 3 Sostenere la libertà di associazione dei lavoratori e riconoscere il diritto alla contrattazione collettiva. Principio 4 Eliminare tutte le forme di lavoro forzato e obbligatorio. Principio 5 Eliminare il lavoro minorile. Principio 6 Eliminare ogni forma di discriminazione in materia di impiego e professione. Ambiente Principio 7 Sostenere un approccio preventivo nei confronti delle sfide ambientali. Principio 8 Intraprendere iniziative che promuovano una maggiore responsabilità ambientale. Principio 9 Incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie che rispettino l’ambiente. Lotta alla corruzione Principio 10 Contrastare la corruzione in ogni sua forma, incluse l’estorsione e le tangenti.

Il Global Compact ha elaborato dieci principi universali relativi ai diritti umani, al lavoro e all’ambiente; per ciascuno di questi principi sono anche suggerite una serie di azioni per la loro attuazione concreta; è anche auspicata la costituzione all’interno delle imprese di strutture gestionali per la realizzazione di programmi attuativi e per l’integrazione dei principi nell’intera organizzazione aziendale e nel suo sistema di valori. Il Global Compact opera attraverso un sistema di partenariati con istituzioni internazionali e l’attivazione di reti tra attori locali, ed è costituito da un ufficio ad hoc direttamente collegato con sei agenzie delle Nazioni Unite (Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani; Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente; Organizzazione Internazionale del Lavoro; Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo; Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale; Ufficio delle Nazioni Unite per le droghe e il crimine).

dieci principi

2.3.2 Il “Libro Verde” dell’Unione Europea L’Unione Europea ha delineato i principi basilari relativi all’impresa sostenibile nel Libro Verde Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale dell’impresa, pubblicato nel 2001. Nel testo si individua il concetto di responsabilità sociale7 dell’impresa come «l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali 7

Soprattutto in passato, i termini di “responsabilità sociale” d’impresa e impresa “sostenibile” sono stati utilizzati come sinonimi. Oggi, sia la letteratura scientifica, sia la pratica manageriale preferisce utilizzare il secondo.

Libro Verde

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Parte I La strategia nel sistema impresa

ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate». Si precisa che: «essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là, investendo “di più” nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate». Il Libro Verde precisa anche che le prassi socialmente responsabili riguardano innanzi tutto la dimensione interna dell’azienda, in particolare: la gestione delle risorse umane, la salute e la sicurezza nel lavoro, l’adattamento del lavoro alle trasformazioni dei settori o delle grandi aziende, la riduzione dei consumi di risorse naturali e dell’impatto delle attività produttive sull’ambiente. Riguardano al contempo anche il modo in cui l’azienda si rapporta con l’ambiente esterno e, in particolare, con la comunità locale in cui è inserita, con i fornitori e i consumatori, soprattutto quelli con cui si possono sviluppare partnership significative, con la società civile in generale Un altro importante riferimento dell’orientamento dell’Unione Europea a favore dello sviluppo sostenibile è la strategia “Europe 2020” relativa al modello di crescita di lungo termine del continente. I tre pilastri di tale modello sono, infatti: • • •

Smart growth: promuovendo la conoscenza, l’innovazione e l’istruzione e la società digitale; Sustainable growth: rendendo la produzione più efficiente nell’uso delle risorse e rilanciando allo stesso tempo la competitività; Inclusive growth, incentivando la partecipazione al mercato del lavoro, l’acquisizione delle competenze e la lotta alla povertà.

2.3.3 Le linee guida di ILO e OCSE L’ILO (International Labour Office) è un altro organismo internazionale che svolge un’importante azione di spinta per la sostenibilità delle imprese, naturalmente nell’ambito delle condizioni di lavoro. Particolarmente rilevante a riguardo è la “convenzione” Tripartite Declaration of Principles concerning Multinational Enterprise and Social Policy, emanata nel 1977 e ultimamente revisionata nel 2006. Indica le linee guida di comportamento che le imprese internazionali, in particolare se operanti in Paesi in via di sviluppo o emergenti, dovrebbero avere nei rapporti con i lavoratori e con le loro rappresentanze sindacali. I temi oggetto delle linee guida sono: promozione dell’occupazione; sicurezza dell’occupazione; pari opportunità; formazione; condizioni del lavoro (sicurezza, condizioni igeniche); qualità della vita (età minima dei dipendenti); relazioni industriali (libertà di associazione sindacale, contrattazione collettiva). Rivolto ancora alle imprese internazionali sono le OCSE Guidelines on multinational enterprises, il cui ultimo aggiornamento è stato pubblicato nel 2011.

2.3.4 Il Global Reporting Initiative Per favorire l’effettiva e diffusa applicazione dei principi di sostenibilità è stato essenziale lo sviluppo di una metrica standard che permettesse la misurazione del grado di raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità da parte delle imprese e un confronto sulle relative performance anche tra le imprese. Il sistema oggi

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

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Strumenti

Le “general policies” suggerite alle imprese internazionali nell’OCSE Guidelines on multinational enterprises Enterprises should take fully into account established policies in the countries in which they operate, and consider the views of other stakeholders. In this regard, enterprises should: 1.

Contribute to economic, environmental and social progress with a view to achieving sustainable development.

2.

Respect the internationally recognised human rights of those affected by their activities.

3.

Encourage local capacity building through close co-operation with the local community, including business interests, as well as developing the enterprise’s activities in domestic and foreign markets, consistent with the need for sound commercial practice.

4.

Encourage human capital formation, in particular by creating employment opportunities and facilitating training opportunities for employees.

5.

Refrain from seeking or accepting exemptions not contemplated in the statutory or regulatory framework related to human rights, environmental, health, safety, labour, taxation, financial incentives, or other issues.

6.

Support and uphold good corporate governance principles and develop and apply good corporate governance practices, including throughout enterprise groups.

7.

Develop and apply effective self-regulatory practices and management systems that foster a relationship of confidence and mutual trust between enterprises and the societies in which they operate.

8.

Promote awareness of and compliance by workers employed by multinational enterprises with respect to company policies through appropriate dissemination of these policies, including through training programmes.

9.

Refrain from discriminatory or disciplinary action against workers who make bona fide reports to management or, as appropriate, to the competent public authorities, on practices that contravene the law, the Guidelines or the enterprise’s policies.

10. Carry out risk-based due diligence, for example by incorporating it into their enterprise risk management systems, to identify, prevent and mitigate actual and potential adverse impacts as described in paragraphs 11 and 12, and account for how these impacts are addressed. The nature and extent of due diligence depend on the circumstances of a particular situation. 11. Avoid causing or contributing to adverse impacts on matters covered by the Guidelines, through their own activities, and address such impacts when they occur. 12. Seek to prevent or mitigate an adverse impact where they have not contributed to that impact, when the impact is nevertheless directly linked to their operations, products or services by a business relationship. This is not intended to shift responsibility from the entity causing an adverse impact to the enterprise with which it has a business relationship. 13. In addition to addressing adverse impacts in relation to matters covered by the Guidelines, encourage, where practicable, business partners, including suppliers and sub-contractors, to apply principles of responsible business conduct compatible with the Guidelines. 14. Engage with relevant stakeholders in order to provide meaningful opportunities for their views to be taken into account in relation to planning and decision making for projects or other activities that may significantly impact local communities. 15. Abstain from any improper involvement in local political activities. Fonte: http://mneguidelines.oecd.org/2011GeneralPolicies.pdf

Parte I La strategia nel sistema impresa

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Global Reporting Initiative (GRI)

stakeholders’ engagement

rapportarsi

indicatori, relativi all’impatto economico, ambientale e sociale dell’attività svolta dall’impresa

più diffuso è il Global Reporting Initiative (GRI), creato nel 1997 e da allora più volte aggiornato8 anche grazie ai contributi delle stesse imprese aderenti e dei diversi attori impegnati nelle cause ambientali e sociali. Questo sistema fornisce un frame work standardizzato a livello internazionale per la misurazione e la comunicazione agli stakeholders delle performance aziendali con riferimento agli obiettivi di sostenibilità. A fine 2016, lo stesso GRI rilevava che il 93% dei primi 250 gruppi mondiali avesse un report strutturato del loro grado di sostenibilità e l’82% utilizzasse per tale rapporto gli standard GRI. Nell’impostazione del GRI è attribuito particolare rilievo allo stakeholders’ engagement, inteso come l’impegno dell’impresa a coinvolgere i diversi sta- keholders interni ed esterni nell’attuazione degli obiettivi di sostenibilità. È importante innanzi tutto che l’impresa espliciti il processo attraverso cui sono individuati gli stakeholders con cui rapportarsi e determinati quali di questi coinvolgere effettivamente nell’attuazione della sua strategia di sviluppo sostenibile. Bisogna, poi, spiegare le azioni attuate per sviluppare il coinvolgimento degli stakeholders (focus group a diversi livelli organizzativi, indagini e rapporti scritti, panel, crea- zione di comunità), evidenziando anche la frequenza e la continuità delle diverse iniziative attuate. Infine, vanno indicate le questioni chiave e le principali pro- blematiche emerse durante le attività di coinvolgimento degli stakeholders e il modo in cui l’impresa intende rispondere a queste tematiche. Il GRI fornisce una struttura di indicatori, relativi all’impatto economico, ambientale e sociale dell’attività svolta dall’impresa. Gli indicatori di natura sociale sono poi articolati in alcune sottocategorie (lavoro, diritti umani, società, responsabilità verso il consumatore). Accanto agli indicatori ritenuti fondamentali (core), sono previsti alcuni indicatori additional relativi a questioni emergenti o che potrebbero essere rilevanti solo in alcuni comparti; per ogni sezione è anche prevista la descrizione qualitativa di: approcci manageriali adottati, obiettivi e risultati di carattere generale, politiche aziendali e altre informazioni relative alla posizione competitiva (fattori critici di successo, maggiori fattori di rischio, opportunità, principali cambiamenti del contesto competitivo). L’azienda sceglie su quali tematiche offrire informazioni relative al suo profilo e alle modalità di gestione e quali indicatori di performance economica, ambientale, sociale misurare.

2.4 Strategie e azioni per la sostenibilità nella gestione dell’impresa 2.4.1 Principali misure per la sostenibilità nelle funzioni aziendali L’analisi degli effetti delle misure ambientali e sociali sul vantaggio competitivo dell’impresa ha già suggerito molti degli ambiti della gestione aziendale dove tali misure sono attuate. In linea generale, tutte le funzioni organizzative possono essere coinvolte dalle politiche per la sostenibilità: le operations, l’innovazione, il marketing; le relazioni istituzionali; la gestione delle risorse umane; la gestione

8

La versione attualmente in uso è la GRI 4.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

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Strumenti

Categorie e tematiche specifiche degli indicatori GRI Category: Economic Category: Environmental Materials Economic Performance Energy Market Presence Water and Biodiversity Indirect Economic Impacts Emissions Effluents and Waste Procurement Practices Products and Services Transport Suppliers Environmental Assessment Environmental Grievance Mechanisms Category Social SubCategories

Compliance

Labor Practices and Decent Work Employment – Labor/Management Relations – Occupational Health and Safety – Training and Education – Diversity and Equal Opportunity – Equal Remuneration for Women and Men – Supplier Assessment for Labor Practices – Labor Practices Grievance Mechanisms Human rights Investment – Non-discrimination – Freedom of Association and Collective Bargaining – Child Labor – Forced or Compulsory Labor – Security Practices – Indigenous Rights – Assessment – Supplier Human Rights Assessment – Human Rights Grievance Mechanisms Society Local Communities – Anti-corruption – Public Policy – Anti-competitive Behavior – Compliance – Supplier Assessment for Impacts on Society – Grievance Mechanisms for Impacts on Society Product Responsibility Customer Health and Safety – Product and Service Labeling – Marketing Communications – Customer Privacy – Compliance

dei fornitori; la gestione strategica e la corporate governance. Gli interventi nelle varie funzioni sono spesso interdipendenti; di conseguenza, la gestione della sostenibilità deve essere attuata, come negli altri ambiti della gestione d’impresa, in una prospettiva sistemica, in grado di cogliere le sinergie tra le varie aree e funzioni. Per quanto concerne l’area delle operations, le politiche di sostenibilità hanno ambiti di applicazione molto importanti nelle attività di trasformazione e nella logistica. Nel primo ambito, si possono introdurre innovazioni nei processi produttivi miranti alla riduzione dell’uso di energia e acqua e delle materie prime; alla riduzione delle emissioni inquinanti, a permettere il riciclo di alcuni input produttivi o di parte dei materiali dei prodotti arrivati al termine del loro ciclo di vita e opportunamente recuperati. Questi miglioramenti possono essere attuati in modo organico e strutturato sulla base dell’adesione dell’impresa alle certificazioni ambientali; in particolare, la certificazione ISO 14001 e la Eco-management audit scheme (EMAS) emanata dalla Comunità Europea per la prima volta nel 1993 e successivamente aggiornata nel 2001 e nel 2009.

operations

ISO 14001 Eco-management audit scheme (EMAS)

Parte I La strategia nel sistema impresa

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Strumenti

Cos’è il sistema di ecogestione e audit (EMAS)? Nel 2013, la commissione europea ha emanato le linee guida per l’utente che illustrano le misure necessarie per aderire a EMAS, a norma del regolamento (CE) n. 1221/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, sull’adesione volontaria delle organizzazioni a un sistema comunitario di ecogestione e audit (EMAS); nella parte inziale, esse dichiarano che: “EMAS è uno strumento volontario messo a disposizione di qualsiasi organizzazione operante in qualsiasi settore economico, all’interno o all’esterno dell’Unione Europea, e che intende: • • •

assumersi una responsabilità ambientale ed economica; migliorare le proprie prestazioni ambientali; comunicare i propri risultati ambientali alla società e alle parti interessate in generale.

Le organizzazioni che si registrano a EMAS devono: • • • • •

dimostrare il rispetto della normativa in materia ambientale; impegnarsi a migliorare costantemente le proprie prestazioni ambientali; dimostrare di avere un dialogo aperto con tutte le parti interessate; coinvolgere il personale nel miglioramento delle prestazioni ambientali dell’organizzazione; pubblicare e aggiornare una dichiarazione ambientale EMAS convalidata, destinata alla comunicazione esterna.

Le organizzazioni devono: • •

effettuare un’analisi ambientale (che comprenda l’individuazione di tutti gli aspetti ambientali diretti e indiretti); registrarsi presso un organismo competente dopo aver svolto con successo la verifica della propria organizzazione.

Dopo essersi registrate, le organizzazioni acquisiscono il diritto di usare il logo EMAS. Fonte: http://eur-lex.europa.eu/legalcontent/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32013D0131&from=EN.

logistica

mobility management

Nella gestione logistica, è importante ridurre il numero e la distanza degli spostamenti, cosa che richiede a monte una precisa razionalizzazione dell’insieme dei siti produttivi e logistici utilizzati dall’impresa, nonché dei canali distributivi. È anche importante il complesso di attività rientranti nel così detto mobility management, finalizzato a ottimizzare dal punto di vista ambientale i flussi di persone e merci da e verso i siti operativi dell’impresa, attraverso l’adozione di mezzi e modalità di trasporto innovative. Gli interventi sul fronte della logistica distributiva vanno raccordati con la gestione della relazione con la distribuzione o con il mercato finale. Nell’agroalimentare, per esempio, ha successo la strategia di favorire la vendita dei prodotti realizzati da imprese locali: gran parte delle insegne della GDO accolgono nei loro scaffali prodotti, soprattutto nel comparto del “fresco”, realizzati nel territorio dove sono collocati; sempre in questo comparto, è comunque indicata la provenienza nazionale o meno del prodotto. Una crescente attenzione riscuote, poi, la proposta dei prodotti a “km 0”. Le ragioni di questa strategia sono proprio il loro positivo impatto ambientale e sociale:

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

forte riduzione dei trasporti con conseguenti risparmi di emissioni; sostegno all’imprenditoria locale e quindi alla crescita socio-economica della Comunità in cui il distributore è collocato. La crescente quota di produzione che le medie e grandi imprese tendono a esternalizzare a fornitori specializzati sposta su questi una parte significativa dell’impatto ambientale dell’attività produttiva per la realizzazione dei prodotti/servizi finali. Il livello di sostenibilità di quest’ultima è, quindi, fortemente influenzato dal modo in cui l’impresa gestisce la propria rete di fornitori (ed eventualmente sub-fornitori). L’importanza di questo aspetto è sottolineata dal fatto che nelle normative, così come nelle certificazioni di qualità in campo sia ambientale, sia del lavoro, il committente è fortemente responsabilizzato, quando non direttamente chiamato in causa sull’operato dei propri fornitori. D’altro canto, in diversi casi i grandi gruppi che organizzano la produzione attraverso un’estesa rete di fornitori hanno elaborato dei disciplinari molto accurati relativi alle misure di rilievo ambientale e sociale (in particolare, in materia di lavoro) richieste al fornitore, e che sono parte integrante dell’accordo di collaborazione produttiva. L’impresa committente attua obiettivi di sostenibilità attraverso un’appropriata gestione di cinque aspetti del rapporto con i fornitori: • la selezione, introducendo criteri di scelta che privilegiano i fornitori con elevati livelli di sostenibilità e attribuendo a tali criteri notevole peso rispetto agli altri (in particolare al prezzo offerto) nelle gare per l’assegnazione di un contratto di fornitura; • la richiesta degli standard ambientali e sociali come parte integrante del contratto di fornitura e l‘eventuale riconoscimento al fornitore di risorse aggiuntive per adeguarsi a tali standard; • le attività di monitoraggio sul rispetto degli standard ambientali e sociali richiesti e le possibili azioni sanzionatorie in caso di non rispetto; • l’accompagnamento del fornitore nel processo di miglioramento del suo grado di sostenibilità (per es.: adeguamenti per acquisire le certificazioni ambientali e sulla sicurezza e qualità del lavoro; la formazione del suo personale) attraverso il trasferimento di competenze e adeguate modalità di sostegno finanziario; • l’acquisto di prodotti realizzati dai fornitori con forte impegno sociale e ambientale (prodotti “eco-solidali”). La gestione delle risorse umane è l’altro ambito dove le politiche di sostenibilità sono sempre più pregnanti, per l’effetto di tre fattori fondamentali: anche in questo caso, la crescente spinta della normativa, in particolare sul tema della sicurezza sul lavoro; in secondo luogo, la sempre più marcata rilevanza attribuita dalle persone alla qualità del contesto lavorativo e alla possibilità di coniugare l’impegno professionale con la propria vita privata; infine, la generale forte sensibilità verso l’equità dei trattamenti. Come per il tema dell’impatto ambientale dei processi produttivi, anche nell’ambito del lavoro e delle risorse umane, la politica per la sostenibilità deve tenere fortemente conto delle specificità sociali, culturali e normative dei diversi contesti geografici ove l’impresa impiega le proprie persone. In alcuni ambiti, le misure a favore dei collaboratori sono ormai consolidate e abbastanza comuni almeno a tutte le imprese avanzate dal punto di vista della sostenibilità. Si fa riferimento: alla sicurezza e al benessere sul lavoro; alla formazione continua e allo sviluppo professionale; alle misure per le pari opportunità

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fornitori selezione

richiesta degli standard ambientali e sociali monitoraggio accompagnamento del fornitore nel processo di miglioramento

acquisto di prodotti

gestione delle risorse umane

Parte I La strategia nel sistema impresa

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Esperienza

Lo standard IWAY di IKEA per il comportamento dei fornitori IKEA ha emanato (la quinta e per ora ultima versione è di dicembre 2012) un documento che statuisce i “requisiti minimi relativi a condizioni ambientali, sociali e lavorative da osservare nell’acquisto di prodotti, materiali e servizi”; tale documento è l’IWAY Standard e deve essere sottoscritto da qualsiasi fornitore di IKEA. Nell’introduzione, dedicata ai principi guida, si legge: “In IKEA riconosciamo che il nostro operato produce un impatto sulle persone e sul pianeta, in particolare sulle condizioni di lavoro e sull’ambiente, a livello sia locale che globale. Inoltre crediamo fermamente di poter aver successo e fare buon business adottando pratiche aderenti ai nostri principi etici. È questo un prerequisito per la nostra crescita futura, che verrà raggiunta insieme ai Fornitori che condividono la nostra visione e ambizione. I nostri principi guida in materia ambientale e sulle condizioni sociali e lavorative rispondono alle seguenti domande. • • •

Qual è il migliore interesse per il bambino? Qual è il migliore interesse per il lavoratore? Qual è il migliore interesse per l’ambiente?

Attraverso questi principi sosteniamo la direzione descritta nella Strategia di Sostenibilità del Gruppo IKEA: “People & Planet Positive”. Fondamenti “The IKEA Way on Purchasing Products, Materials and Services” (IWAY) è il codice di condotta per i fornitori del Gruppo IKEA e comprende i requisiti minimi di IKEA relativi all’ambiente e alle condizioni sociali e lavorative (lavoro minorile incluso). IWAY si basa sulle otto convenzioni chiave definite nei Principi e Diritti Fondamentali sul Lavoro, dichiarazione ILO, giugno 1998, e sui Dieci Principi delle Nazioni Unite Global Compact 2000. IKEA riconosce i principi fondamentali dei diritti umani definiti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (Nazioni Unite, 1948), aderisce alla Sanction List delle Nazioni Unite e all’elenco di misure restrittive dell’Unione Europea. Osservanza della legge e requisiti IKEA Il Fornitore di IKEA dovrà sempre attenersi ai requisiti più rigidi, siano essi previsti dalla legislazione applicabile o dalle specifiche direttive IWAY stabilite da IKEA. Nel caso in cui il requisito IKEA dovesse contraddire leggi o norme nazionali, queste ultime prevalgono e vanno osservate. In tali casi, il Fornitore deve immediatamente informare IKEA. Riservatezza Il successo dell’implementazione di IWAY dipende da collaborazione, fiducia reciproca e rispetto tra Fornitore e IKEA. Qualsiasi osservazione, discussione e informazione scritta ricevuta dal Fornitore deve essere trattata con riservatezza da IKEA, dai suoi dipendenti e da qualsiasi terza parte nominata da IKEA. Etica aziendale I valori di fiducia, integrità e onestà rappresentano le basi di IWAY e sono fondamentali ai fini di una sua implementazione sostenibile. Su queste basi fondiamo le nostre relazioni, che cresceranno attraverso il continuo rispetto di tali valori. È importante che tutti i collaboratori di IKEA e partner esterni comprendano la posizione di IKEA sulla corruzione e sulla sua prevenzione. Ciò è stato stabilito nella Policy del Gruppo IKEA e negli Standard Anticorruzione, e comunicato ai partner commerciali per mezzo delle Vendor Letters che devono essere sottoscritte.” Fonte: http://www.ikea.com/ms/it_CH/pdf/reports-downloads/IWAY_Standard_Ed_5_1_it.pdf

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

e la conciliazione delle diversità; allo sviluppo di valori condivisi centrati sull’eticità, la trasparenza, il sostegno alle persone svantaggiate. Sono ormai diffuse anche le esperienze di volontariato d’impresa: l’impresa incentiva concretamente i propri dipendenti a svolgere attività di volontariato, coinvolgendoli nell’orario di lavoro in progetti promossi dall’azienda stessa, oppure, riconoscendo loro un certo numero di ore retribuite dedicate appunto ad attività benefiche. Un filone relativamente più recente, che sta assumendo grande rilievo anche grazie al supporto delle tecnologie disponibili, riguarda l’introduzione di nuove modalità di organizzazione del lavoro finalizzate a lasciare la massima autonomia alle persone per quanto riguarda i tempi, i luoghi e le modalità di realizzazione dei loro compiti; si tratta del così detto smart working.9 Nonostante questo tipo di innovazioni abbia un’applicabilità intrinsecamente molto diversa a seconda del

volontariato d’impresa

smart working

Esperienza

Lo smart working in Barilla Nel 2015, Barilla ha concluso un accordo con le rappresentanze sindacali per avviare una sperimentazione di smart working in tutte le sedi operative in Italia. L’accordo fissa i seguenti criteri e modalità di realizzazione. • • • • • • • •

• • • •

9

L’attività a distanza deve essere compatibile con le esigenze organizzative dell’impresa. Volontarietà del lavoratore, anche se a part time. Massimo 32 ore mensili svolte al di fuori della sede di lavoro, con giornate intere o mezza giornata, dal lunedì al venerdì. Rispetto tassativo della sicurezza e della salute. Rispetto tassativo della riservatezza. Applicazione delle direttive aziendali. Strutture protette: domicilio privato, ufficio esterno, struttura alberghiera. Lo smart working potrà essere svolto per massimo 64 ore mensili, se si versa in condizioni particolari: • donne in gravidanza (fino a 1 anno del bambino); • padri (dalla nascita e fino 1 anno del bambino); • persone con invalidità superiore all’80%; • persone in terapia salvavita; • persone con figli in terapia salvavita. Fornitura di strumenti e apparecchiature tecniche, non rimborsabilità di spese di gestione (elettricità, riscaldamento, rete telefonica ecc.). Pianificazione preventiva dell’attività e compatibilità con le esigenze anche temporanee del ruolo. Conferma del regime di orario ordinario, possibilità di diversa articolazione nell’ambito della giornata a scelta del lavoratore previa approvazione del responsabile. Reperibilità del lavoratore in orario di lavoro e partecipazione a riunioni programmate.

Gli accordi aziendali di smart working relativi all’organizzazione degli orari di lavoro, consentono ai dipendenti di svolgere la loro opera da un luogo fisico diverso rispetto alla sede aziendale, e anche con articolazione diversa dell’orario, avvalendosi di supporti informatici in genere messi a disposizione dell’impresa e garantendo il richiesto livello di sicurezza e riservatezza. Esso è finalizzato a conciliare al meglio l’attività lavorativa con le proprie esigenze personali e familiari. Lo smart working si differenzia dal tele-lavoro perché non deve essere necessariamente svolto da una postazione fissa e predeterminata; inoltre, non viene svolto stabilmente a distanza, ma in modo non continuativo, non predeterminato e per brevi periodi di tempo.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

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marketing

tipo di mansione che deve essere svolta, si osserva una tendenza alla loro implementazione piuttosto generalizzata nei sistemi organizzativi di dimensioni e settori diversi. Interessante osservare che, a differenza di quanto accaduto nello scorso decennio con il così detto “tele-lavoro”, lo smart working beneficia di un orientamento generalmente favorevole anche da parte delle rappresentanze sindacali. Rimane, invece, sostanzialmente irrisolto, e anzi è molto peggiorato paradossalmente proprio in questi ultimi sette-dieci anni, il problema dell’eccessivo divario tra i livelli di compenso complessivo (retribuzione, bonus, buonauscita ecc.) riconosciute a una ristrettissima cerchia di persone ai vertici dell’azienda e quelle per tutto il resto della popolazione aziendale (incluso il middle management). Il dibattito su questa problematica è tuttavia ormai molto intenso e alcune grandi aziende stanno cercando di introdurre dei correttivi. Sulla questione si iniziano anche a osservare episodi di contrapposizione anche netta tra il top management e alcuni membri degli organi di governo (Consiglieri indipendenti del Consiglio di Amministrazione e membri del Collegio sindacale), e i rappresentanti dei lavoratori. Il marketing è un’area fortemente coinvolta dalle politiche di sostenibilità, dato che gli acquirenti (e gli utilizzatori, quando non coincidono con i precedenti) dei prodotti o servizi dell’impresa sono uno dei suoi principali stakeholders. Tali politiche riguardano in particolare i contenuti dell’offerta presentata al mercato e le modalità di gestione delle relazioni con i clienti e possono avere un impatto molto rilevante sul mercato, in particolare quando l’impresa ha una significativa posizione competitiva. In linea generale, l’impresa sostenibile si astiene dall’attuare tutte le varie pratiche commerciali, che pur essendo in qualche modo ammesse dalla normativa o comunque, di fatto, difficilmente sanzionabili, danneggiano direttamente o indirettamente il cliente. In sostanza, l’impresa deve non sfruttare il proprio potere di mercato e anzi adottare la massima trasparenza e correttezza per mettere il consumatore nelle migliori condizioni di scegliere e poi utilizzare al meglio il prodotto o il servizio acquistato. Tra gli ambiti più rilevanti a riguardo, vi sono: la gestione dei reclami e più in generale il customer relation management; la veridicità della comunicazione pubblicitaria e la reale convenienza delle promozioni per il consumatore; l’effettiva rispondenza delle caratteristiche del prodotto o del servizio a quelle dichiarate. L’orientamento alla sostenibilità influenza anche le specifiche politiche di marketing. Per quanto riguarda il prodotto o il servizio, esso prevede come minimo il non utilizzo di materiali e componenti che, per quanto non vietati dalle normative, sono in una certa misura dannosi per l’ambiente o per gli stessi utilizzatori del prodotto. Poiché oltre un certo limite, tale utilizzo non sarebbe comunque possibile di fatto, la sostenibilità implica una riduzione molto consistente di tutto ciò che nell’ambito sia del processo produttivo sia delle fasi di utilizzo del bene generi direttamente esternalità negative. L’attuazione di questo principio non è sempre semplice, perché può comportare un aumento del costo unitario del prodotto o dei costi indiretti di produzione; inoltre, può richiedere un adeguamento delle funzionalità del prodotto che riducono il suo valore percepito dal consumatore. Bisogna poi tenere conto che sono numerosi e anche rilevanti i prodotti o i servizi la cui produzione e utilizzazione genera intrinsecamente effetti ambientali negativi: l’automobile e il trasporto aereo sono due esempi evidenti a riguardo. In questi casi, la sostenibilità orienta l’impresa a investire fortemente in innovazioni finalizzate a ridurre in modo crescente i possibili impatti negativi; in questi anni, pur con alcune gravi contraddizioni, tutte

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

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Esperienza

Nuovi aerei per ridurre i consumi Secondo quanto dichiara la Boeing. Il 787 “Dreamliner” è un aereo che consentirà alle compagnie aeree di ridurre sensibilmente i costi operativi, con consumi inferiori del 20% rispetto agli altri aerei di dimensioni simili. Per ottenere questo risparmio la Boeing ha lavorato sull’aerodinamica, sui materiali e sui sistemi di bordo: ognuno di questi ambiti contribuirà in parti uguali al miglioramento dell’efficienza energetica, quantificabile complessivamente in una riduzione dei consumi nell’ordine del 9%. I nuovi motori contribuiranno poi alla riduzione dei consumi di circa l’8%. Il restante 3% è dato dalla sinergia fra questi elementi. Mediante un nuovo sistema di sensori si potrà poi monitorare costantemente le condizioni dell’aereo, eliminando così i periodi di ritiro programmato nell’hangar per la manutenzione: infatti con questo sistema si potrà intervenire ”a richiesta”, cioè ogni volta che l’auto-diagnosi segnala un intervento da effettuare. Fonte: http://www.boeingitaly.it/prodotti-e-servizi/aerei-commerciali/787.page.

le principali compagnie automobilistiche si sono fortemente impegnate proprio in questa direzione. Nel trasporto aereo, si osserva una crescente collaborazione tra compagnie aeree e industria aeronautica per lo sviluppo di velivoli con migliore impatto ambientale; il nuovo Boeing 787 “Dreamliner” è un caso interessante a riguardo. Vi è poi una politica di marketing pro-attiva per la sostenibilità; essa è basata sull’introduzione di elementi di rilievo sociale e ambientale nella “proposta di valore” del prodotto o del servizio. Risulta abbastanza facilmente attuabile quando il mercato target è già sensibile a tali elementi e li riconosce come fattori significativi di differenziazione; come osservato in precedenza, in questo caso, la sostenibilità contribuisce al vantaggio competitivo dell’impresa. In caso contrario, gli interventi sull’offerta che rispondono agli obiettivi di sostenibilità vanno considerati come un investimento che potrà dare dei ritorni, assumendo che nel tempo il consumatore modifichi i suoi criteri di scelta o cambino determinate condizioni di contesto, a favore dei prodotti appunto più “sostenibili”. Coniugare l’orientamento alla sostenibilità con l’approccio di marketing diviene complesso quando il consumatore richiede prodotti manifestatamente dannosi per l’ambiente o per la società; esempi rilevanti di questa fattispecie non sono certo difficili da trovare. Sigarette, armi e gioco d’azzardo sono i tre business tradizionalmente considerati “intrinsecamente” non sostenibili, ma con un largo successo in diversi segmenti di mercato. Per altro, le imprese leader in questi settori, cercano comunque di coniugare la soddisfazione del loro cliente con la massima riduzione degli effetti negativi sull’ambiente e sulle persone; a tal fine, cercano di innovare sia il prodotto, sia le modalità distributive e di utilizzo, così da contenere gli effetti intrinsecamente dannosi, scoraggiare le modalità d’uso in cui aumenta il rischio dei danni, nonché prevenire il loro uso da parte di soggetti “deboli”. Vi sono molti altri prodotti o servizi in cui le esternalità negative sono non così eclatanti ma comunque significative; rimanendo nel settore dell’automobile, è molto discusso il caso dei così detti “SUV”. In questi casi, è evidentemente complesso conciliare l’orientamento al mercato, che prevede comunque la massima soddisfazione delle esigenze del cliente, con quello alla sostenibilità ambientale. Anche la politica di prezzo può essere fortemente influenzata dalle istanze a favore della sostenibilità. In primo luogo, attraverso la strategia di “discrimi-

pro-attiva

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Parte I La strategia nel sistema impresa

“discriminazione” del prezzo

cause related marketing

nazione”10 del prezzo, che comporta la differenziazione del prezzo per diverse tipologie di acquirenti, l’impresa può favorire l’accesso alla sua offerta anche agli acquirenti economicamente più deboli. Anche in questo ambito, tale strategia può avere effetti economici positivi per l’impresa, aumentando la domanda complessiva e, quindi, il fatturato, i volumi di produzione e gli effetti di scala. Tuttavia, può, invece, determinare un prezzo sub-ottimale o addirittura uno spostamento dell’offerta verso le fasce di acquirenti con minore capacità di spesa. In questa seconda fattispecie, la sostenibilità va nuovamente considerata un investimento che avrà effetti economici positivi, con lo sviluppo dei segmenti di mercato attualmente favoriti dalla discriminazione di prezzo. Questa politica è molto importante nella definizione del sistema di prezzo a livello internazionale, in particolare nei mercati dei Paesi in via di sviluppo e di quelli emergenti, dove larghe fasce del mercato locale possono accedere a prodotti o servizi “avanzati” solo se hanno un prezzo fortemente inferiore rispetto a quello fissato nei mercati dei Paesi economicamente avanzati. Nell’ambito delle politiche di prezzo, ha una certa diffusione la politica di incorporare nel prezzo una componente che l’impresa si impegna a devolvere per finanziare un ben identificato progetto di interesse sociale oppure per alimentare un fondo utilizzato poi per sostenere iniziative sociali. In sostanza, l’impresa rinuncia a una quota del margine unitario potenzialmente ottenibile, dato il valore del prodotto percepito dal mercato; per altro, se i clienti target sono sensibili al progetto sociale finanziato, questa politica può comportare un aumento della domanda ed eventualmente del margine operativo totale. Questa strategia è solitamente accompagnata da una forte azione di comunicazione finalizzata ad avvicinare la marca del prodotto (ed eventualmente l’impresa) a una certa causa sociale o ambientale, o anche all’organizzazione che se ne fa carico; quest’ultima fattispecie tende a essere frequente quando l’organizzazione no profit è rilevante e ha un’immagine e reputazione “forte”. IKEA lancia abbastanza spesso iniziative di questo genere. Nel giugno 2016, nel sito italiano dell’azienda si leggeva il seguente messaggio: da mercoledì 1 a domenica 26 giugno per ogni paio di pantofole NJUTA vendute, IKEA donerà €1 a sostegno di Medici Senza Frontiere per #MILIONIDIPASSI, la campagna in favore di milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case per guerre, povertà e disastri naturali. Nello stesso periodo, qualsiasi acquisto tu faccia, potrai donare €1 per contribuire al progetto: ricordatelo in cassa. La comunicazione ha anche un ruolo molto importante nello sviluppo delle iniziative di cause related marketing, in cui un certo prodotto o servizio è promosso insieme a una causa sociale. Il prodotto è realizzato con alcune specificità che lo legano all’obiettivo sociale; tutta l’azione di comunicazione è costruita attorno a tale obiettivo, caratterizzando quindi anche il posizionamento del prodotto (servizio) stesso; infine, una parte del ricavo o del margine su ogni bene venduto viene devoluto all’organizzazione partner per la realizzazione del o dei progetti previsti nell’intesa. Un esempio di successo a riguardo è stata la linea di borse e accessori “Joy” realizzata alcuni anni fa da Gucci nell’ambito della collaborazione con UNICEF nello sviluppo di scuole per i bambini nelle aree più povere dell’Africa. La direttrice creativa del tempo, Frida Giannini, aveva previsto

10

Il concetto di “discriminazione” del prezzo è spiegato nel Capitolo 8 dedicato alla funzione di marketing.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

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Esperienza

L’iniziativa “1% for the Plane” di Patagonia A partire dal 1985, Patagonia ha devoluto l’1% del proprio fatturato per finanziare progetti di tutela della natura. Più di 70 milioni di dollari sono stati destinati a gruppi di attivisti a sostegno dell’ambiente nelle proprie Comunità locali, a livello sia nazionale sia internazionale. Progetti tipicamente finanziati hanno riguardato il ripristino di foreste e fiumi, la ricerca di soluzioni per mitigare i cambiamenti climatici, la tutela di habitat marini e terrestri di vitale importanza, la tutela di specie vegetali e animali a rischio di estinzione, il supporto all’agricoltura locale, organica e sostenibile. Nel sito dell’azienda si legge: “Patagonia sovvenziona solo attività a favore dell’ambiente. Siamo interessati soprattutto a destinare donazioni a organizzazioni che si identificano con un approccio orientato alle radici dei problemi e si impegnano a cambiare le cose a lungo termine. Poiché riteniamo che il vero cambiamento possa avvenire solo attraverso un movimento ambientalista con solide basi, le nostre donazioni si concentrano su organizzazioni capaci di creare un supporto civico serio e affidabile. Sosteniamo piccoli gruppi di attivisti con obiettivi diretti, che lavorano a campagne polivalenti su più fronti per la tutela e la salvaguardia del nostro ambiente. Invece di devolvere ingenti somme per un limitato numero di cause, ogni anno preferiamo destinare sovvenzioni più modeste – con un ammontare massimo di 12 000 dollari ciascuna – a centinaia di gruppi, perché questo denaro può davvero fare la differenza. Aiutiamo i gruppi locali che operano per la tutela dell’habitat e crediamo che le singole battaglie per proteggere l’area specifica di una foresta, il tratto di un fiume o le specie selvatiche autoctone siano il mezzo più efficace per portare alla luce e alla consapevolezza pubblica problematiche più complesse, in particolare quelle legate alla bio-diversità e alla protezione degli ecosistemi. Siamo alla ricerca di gruppi innovativi che producano risultati tangibili e valutabili e desideriamo sostenere le iniziative che obbligano i governi a rispettare le proprie – le nostre – leggi. L’impegno di questi gruppi deve poter essere quantificabile, gli obiettivi e i piani d’azione devono essere specifici e devono includere strumenti per la misurazione dei successi raggiunti. Poiché Patagonia è un’azienda di proprietà privata, si avvale della libertà di sovvenzionare gruppi poco noti ed esterni ai circuiti tradizionali, ed è proprio in tal senso che crediamo che i nostri finanziamenti risultino maggiormente efficaci. In quanto azienda che utilizza risorse e produce materiali di scarto e rifiuti, riconosciamo che le nostre attività hanno un impatto sull’ambiente e ci sembra doveroso dare qualcosa in cambio. Per noi non si tratta di beneficenza o di filantropia nel senso più tradizionale del termine, ma fa parte del prezzo da pagare per fare business, quella che definiamo “Earth Tax”, destinata a mitigare i danni ambientali che contribuiamo a provocare.” Nel 2002, Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia, e Craig Mathews, proprietario di Blue Ribbon Flies, hanno creato un’organizzazione no profit per incoraggiare altre aziende ad attuare iniziative simili a quella descritta. Fonte: http://eu.patagonia.com/itIT/patagonia.go?assetid=2942.

che tutti gli oggetti della linea avessero un disegno particolare; il 25% del loro prezzo era devoluto all’UNICEF per aiutare i bambini africani. Nell’ambito della politica di sostenibilità, l’impresa può mettere i propri canali di comunicazione e/o di distribuzione a disposizione dei soggetti che promuovono determinate iniziative a vantaggio della Comunità o dell’ambiente, così da rafforzare l’implementazione di tali iniziative, oltre che la visibilità e reputazione dei loro promotori. L’impresa può anche utilizzare le proprie strutture e mettere a disposizione i propri dipendenti per rafforzare campagne di fund-rising a vantaggio di progetti sociali; tra gli esempi più consolidati in Italia, la collaborazione di BNL per la raccolta fondi di Telethon. Infine, nell’ambito del branding, l’im-

fund-rising branding

Parte I La strategia nel sistema impresa

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relazioni con le Comunità

corporate citizenship

filantropico

fondazione

sponsorizzazione

presa può acquisire la licenza di uso di un marchio relativo a un progetto sociale, da accostare a quello dei suoi prodotti; in questo modo, per un verso, finanzia l’organizzazione no profit licenzianta; per l’altro, dà visibilità al marchio del progetto e al progetto stesso. Lo sviluppo delle relazioni con le Comunità ove l’impresa è presente con proprie strutture produttive o con la propria offerta nel mercato (magari in concorrenza con aziende locali) è un altro ambito cruciale nell’attuazione dell’orientamento alla sostenibilità dell’impresa, dato che in tali contesti si trovano i soggetti più direttamente influenzati dall’attività dell’impresa; nel caso di grandi strutture produttive, in territori economicamente non avanzati, tale influenza è facilmente molto rilevante. La sostenibilità dell’impresa è, dunque, fortemente legata a come essa partecipa positivamente alla crescita equilibrata del sistema sociale ed economico ove è presente. Utile richiamare in proposito, il concetto di corporate citizenship dell’impresa, illustrato all’inizio di questo capitolo; come osservato, l’impegno dell’impresa a favore del territorio ove opera deve essere direttamente proporzionale al suo rilievo e al suo impatto su tale contesto (motivo per il quale i Gruppi globali devono intervenire a supporto dei grandi problemi di natura mondiale). Anche in questo ambito, è importante distinguere le misure per la sostenibilità da quelle di tipo più semplicemente filantropico a soddisfazione di specifiche esigenze della Comunità.11 Da sempre, le imprese, anche quelle di dimensioni minori, attuano iniziative di questo secondo tipo, generalmente finanziando organizzazioni locali, portatrici di istanze d’interesse collettivo; esempi frequenti in tal senso sono l’acquisto di attrezzature e macchinari per l’assistenza sanitaria, la copertura dei costi per le attività di assistenza sociale, per il recupero di strutture di interesse sociale, il finanziamento di attività sportive, il sostegno finanziario alle attività di recupero e assistenza a seguito di eventi disastrosi. L’impresa attua queste misure, spinta generalmente dalla personale volontà dell’imprenditore o dall’opportunità di avere una buona immagine nel contesto ove opera. Per definizione, le attività filantropiche sono distinte dalla gestione del business (pur potendo essere funzionali al posizionamento competitivo dell’impresa); nelle imprese più strutturate, tale separazione si riflette sul piano organizzativo, normalmente attraverso la costituzione di una fondazione12 con la missione appunto di gestire le iniziative filantropiche o realizzare direttamente progetti di sviluppo sociale. In altri casi, la grande azienda definisce un accordo strategico con una grande organizzazione internazionale, leader in una determinata causa sociale. Sulla base di questo accordo, predispone vari programmi normalmente pluriennali a sostegno di tale causa sociale. La sponsorizzazione di progetti di rilievo collettivo è un ambito particolare dell’attività filantropica, poiché ha un collegamento piuttosto diretto con il business dell’azienda; infatti, a fronte del supporto finanziario, l’impresa nor11

Anche se non può essere considerata una manifestazione dell’orientamento alla sostenibilità, la filantropia rimane un approccio rilevante, soprattutto quando è realizzata in modo strutturato e con ben definiti obiettivi di miglioramento sociale; a riguardo, sono sempre più numerosi gli attori economici impegnati nella filantropia così detta “imprenditoriale” (venture philantrophy) in grado di intervenire in modo appunto “imprenditoriale” sui problemi sociali. 12 Le fondazioni d’impresa sono cosa diversa dalle fondazioni costituite dalle famiglie che controllano un’impresa. Le due realtà hanno genesi e missioni distinte, anche se possono di fatto avere molti elementi in comune e operare in maniera sinergica.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

malmente ottiene la possibilità di comunicare in varie modalità il proprio impegno a favore della soluzione di una determinata problematica di interesse generale. Le sponsorizzazioni sono molto frequenti nell’ambito dello sport, dei beni ed eventi culturali. In entrambi i casi, sono favorite per un verso dalla crescente diminuzione delle risorse pubbliche disponibili; per l’altro, dall’impatto molto positivo che esse hanno sulla visibilità e reputazione dell’azienda. In particolare nel caso dei beni culturali, l’impresa, a fronte della sponsorizzazione, può beneficiare del diritto, in qualche occasione, di utilizzare in maniera privilegiata il bene stesso. Nell’ambito delle relazioni istituzionali e, in alcuni casi, ancora della gestione di marketing, rientrano le politiche a favore delle Comunità ospitanti. In linea generale, l’impresa si impegna a organizzare le proprie attività attraverso modalità che eliminano o almeno minimizzano il rischio di effetti ambientali o sociali negativi per il contesto geografico ove opera; o che, ancor meglio, hanno un impatto positivo sul suo sviluppo sostenibile. In sostanza, l’impresa opera per la creazione di valore condiviso con il territorio di cui è parte. Sul piano economico, questo dipende innanzi tutto dal grado e dalle modalità di coinvolgimento delle imprese locali; tale questione si collega al modo in cui l’impresa organizza il proprio processo produttivo e sviluppa la propria rete di fornitori; in particolare, nei contesti economicamente meno avanzati, è molto importante il ruolo che l’impresa svolge nel sostenere la crescita dimensionale e lo sviluppo di competenze nelle aziende locali. I grandi Gruppi internazionali possono anche intervenire a favore dello sviluppo delle infrastrutture economiche o anche sociali alla base dei processi di sviluppo dei sistemi produttivi locali. Sul piano sociale, l’impresa può promuovere, magari in collaborazione con le istituzioni internazionali per lo sviluppo, la realizzazione di grandi progetti innoEsperienza

Il modello del London Benchmarking Group (LBC) per la determinazione dell’impatto dell’impresa sullo sviluppo della comunità Il modello LBC è adottato abbastanza diffusamente dalle grandi imprese per misurare gli investimenti realizzati a favore della Comunità in cui un’impresa opera e misurare gli output e l’effettivo impatto sul miglioramento ambientale e sociale. Questo modello identifica tre modalità tipiche in cui un’impresa può allocare risorse a favore della propria Comunità. •





Donazioni e liberalità (charitable gifts): contributi elargiti a supporto di una determinata problematica, su richiesta di soggetti che se ne fanno carico o in stato di necessità, in un determinato arco temporale; sono in genere molto numerosi, ma ciascuno di entità relativamente limitata. Investimenti nella Comunità (Community investment): finanziamento di progetti finalizzati a migliorare strutturalmente determinate condizioni sociali o ambientali della Comunità considerati strategici per il suo sviluppo sia dall’impresa, sia dai principali stakeholders. Iniziative commerciali con impatto nella Comunità (Commercial initiatives in the community): realizzazione di attività direttamente collegate al business con contenuti o modalità che generano valore anche per la Comunità. Si tratta di azioni di cause related marketing, di comunicazione o di innovazione sociale.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

gestione dell’innovazione

vatori finalizzati a rimuovere problemi sociali e a promuovere la qualità della vita delle persone. È molto importante che le azioni a favore della Comunità siano progettate nell’ambito dell’iniziativa economica che l’impresa realizza presso il suo territorio e siano anche implementate in modo coerente con lo svolgimento delle attività direttamente legate al business. Per esempio, Enel, nella realizzazione dell’impianto termoelettrico di Malacas in Perù, ha identificato, durante la fase di sviluppo del progetto, un piano di azioni finalizzato a favorire lo sviluppo sostenibile della Comunità locale e, in particolare, la salvaguardia delle condizioni ambientali, l’educazione scolastica dei giovani locali, la cultura della prevenzione delle malattie e il sostegno all’imprenditoria locale per lo sviluppo dell’offerta turistica. Tale piano è stato approvato come parte integrante del progetto di business. La gestione dell’innovazione è un ulteriore ambito molto importante nell’attuazione della sostenibilità. L’impresa può orientare la propria innovazione tecnologica al raggiungimento di obiettivi di rafforzamento allo stesso tempo della sua competitività e del suo grado di sostenibilità; l’innovazione è, quindi, finalizzata tanto alle strategie competitive e di crescita, quanto a quelle per migliorare il valore sociale e ambientale creato dall’impresa, rispondendo positivamente alle aspettative di tutti gli stakeholders. Innovazione e sostenibilità hanno un’interazione biunivoca: le iniziative per la sostenibilità si caratterizzano anche in funzione del loro grado d’innovazione; l’innovazione può (e, sempre più, deve) avere impatto rilevante sulla sostenibilità, cioè sulle sfide ambientali e sociali cui l’impresa partecipa in quanto membro di una determinata Comunità. L’innovazione d’impresa orientata alla sostenibilità genera, in quanto tale, benefici di rilievo anche collettivo; infatti, tale innovazione è in concreto orientata a: • • • •

ridurre l’impatto negativo, o migliorare l’effetto positivo, per la collettività di determinate attività produttive anche oltre i livelli previsti dalle normative in materia; soddisfare le esigenze individuali del proprio mercato target con modalità (prodotti, servizi, modalità di delivery) che generano un consistente impatto positivo anche sulla collettività; innalzare la qualità di altri soggetti (partner nella supply chain; distributori; clienti finali) in ambiti di rilievo ambientale e/o sociale; trainare il progressivo innalzamento degli standard di riferimento verso cui tutti devono tendere su tematiche di rilievo sociale e ambientale.

Gli esempi concreti di tali possibili manifestazioni dell’innovazione finalizzata al miglioramento della sostenibilità sono abbastanza numerosi. Limitandoci a quelli più frequenti: la riduzione delle emissioni inquinanti o dei consumi di materie non rinnovabili ben al di sotto dei limiti previsti dalla normativa; la regolazione dei propri comportamenti in materia ambientale e sociale secondo le norme vigenti nei Paesi più severi su tali materie; l’introduzione di prodotti o servizi con caratteristiche tali da migliorare determinate problematiche sociali o ambientali;13 13 L’uso di materiali “eco-friendly” nelle costruzioni o, sempre in questo comparto, la realizzazione di strutture con tecnologie che riducono i consumi di energia e acqua e favoriscono il riciclo.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

lo sviluppo di modelli d’offerta in grado di generare valore collettivo;14 l’introduzione di prodotti e sistemi di delivery che facilita l’accesso e la soddisfazione di bisogni rilevanti alle categorie di popolazione economicamente marginali;15 l’innovazione dei processi produttivi per massimizzare il ri-uso dei materiali; il rinnovo delle strutture produttive in modo che esse abbiano un impatto positivo sul paesaggio circostante oppure sulla qualità della vita delle persone che operano al loro interno; la gestione della propria filiera (fornitori e distributori) con l’obiettivo di ottimizzare l’impatto ambientale e sociale dell’intero processo produttivo; l’organizzazione dei processi produttivi con modalità che favoriscono il coinvolgimento di soggetti svantaggiati.16

2.4.2 L’innovazione del modello di business nella prospettiva della sostenibilità La sostenibilità dell’impresa compie un “salto di qualità” quando è implicita nel modello di business e le sue politiche trovano origine e spinta nei massimi organi di governo dell’impresa. L’innovazione del modello di business nella prospettiva della sostenibilità concerne particolarmente quattro aspetti (Figura 2.4): • • • •

la proposta di valore fatta al mercato; le modalità di generazione dei ricavi; l’organizzazione interna; la gestione ottimale dei costi.

La proposta di valore deve essere ispirata alla migliore soddisfazione del cliente, ma ponendo altrettanta attenzione al fatto che questo non generi delle esternalità negative per il resto della Comunità, e, possibilmente al contrario, attivi benefici anche per le sue diverse componenti. Si è già osservato che vi sono un certo numero di casi di prodotti e servizi che, a fronte della soddisfazione generata per il loro cliente target, determinano anche direttamente dei danni

Gestione ottimale dei costi

proposta di valore

Proposta di valore

Innovazione del business model per la sostenibilità

Organizzazione interna

14

Modalità di generazione dei ricavi

Nel turismo, il modello di “albergo diffuso”; nella mobilità, i sistemi di “car sharing”. Tutti i casi di offerte esplicitamente realizzate per la così detta bottom of the pyramid. 16 Nel turismo, le strutture ricettive e quelle di ristorazione che impiegano efficacemente persone affette da ritardi mentali. 15

Figura 2.4 Gli aspetti inerenti l’innovazione del modello di business per la sostenibilità.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

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revenue stream

co-marketing benefit corporation

ad altri soggetti o al cliente stesso; per questo le imprese impegnate in questi business sono normalmente considerate esempi di “non sostenibilità”. Per altro, è interessante osservare che alcune di queste imprese hanno avviato programmi di ricerca per innovare il prodotto proprio nella direzione della riduzione dei suoi effetti collaterali negativi sul consumatore o su altri soggetti. L’impresa sostenibile sviluppa un’offerta che, soddisfacendo necessità rilevanti del consumatore, riesce anche a generare benefici collettivi. Il valore individuale rimane ovviamente obiettivo prioritario, pur non esclusivo; va perseguito in maniera tale da essere motore anche di valore condiviso. L’automobile “elettrica”, soprattutto se utilizza elettricità generata da fonti rinnovabili, è un buon esempio di prodotto che, soddisfacendo un’esigenza individuale, genera anche un beneficio collettivo. Sia l’annullamento delle possibili esternalità negative, sia la generazione d’impatto sociale positivo si attuano concretamente intervenendo sulle caratteristiche tangibili del prodotto (configurazione, materiali, funzioni e performance tecniche, durata), sulle modalità di produzione e distribuzione, e sulle modalità d’uso da parte del consumatore. È, quindi, evidente che la concreta attuazione di questo approccio implica innovazioni sia del prodotto/servizio e/o del processo produttivo e distributivo, sia del modo in cui il produttore interagisce con il distributore e il cliente finale, a conferma dell’importanza di un approccio “olistico” che l’innovazione per la sostenibilità deve avere. Molti dei modelli di business comunemente fatti rientrare nell’ambito della sharing economy17 rappresentano ottimi esempi di innovazioni del concept del prodotto e del modo in cui il consumatore ne dispone perché, nel soddisfarne in modo ottimale le esigenze rilevanti, possono avere un impatto significativamente positivo su problematiche di interesse collettivo. Altre tipologie di innovazioni molto rilevanti per il fondamentale impatto ambientale si stanno sperimentando nel contesto della così detta circular economy; in particolare, si stanno progettando i prodotti e le modalità d’uso, in modo che, mantenendo gli elementi di valore rilevanti per il cliente, sia possibile allungarne la durata e recuperare la massima parte dei materiali al termine del loro ciclo di vita utile. Le azioni sulla proposta di valore sono rilevanti e interdipendenti con le possibili innovazioni dei revenue streams, ovvero delle modalità attraverso cui l’impresa genera ricavi dalla vendita della propria offerta; queste possono appunto essere funzionali al raggiungimento di obiettivi di interesse collettivo. È abbastanza semplice pensare all’utilizzo delle leve di marketing affinché l’offerta generi, insieme ai ricavi aziendali, risorse a beneficio della collettività. Questa fattispecie trova riscontro nelle già citate iniziative di co-marketing tra imprese e organizzazioni no profit; inoltre, è uno dei perni del modello di benefit corporation, caratterizzato appunto dalla missione di generare risorse economiche per la collettività insieme a quelle prodotte per l’impresa. La strategia relativa alla struttura dei prezzi è un’ulteriore leva che può essere utilizzata per innovare al fine di raggiungere obiettivi sociali. Si è già detto della “discriminazione” dei prezzi per favorire l’accesso a prodotti/servizi importanti ai soggetti economicamente “deboli” o socialmente rilevanti. Inoltre attraverso il pricing della propria offerta l’impresa può orientare il consumatore verso prodotti e modalità d’uso

17 Questo tema è approfondito nel Capitolo 4, nell’ambito della trattazione sull’innovazione dei modelli di business.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

degli stessi con miglior impatto collettivo; quantomeno, può “costringere” il consumatore a farsi carico delle esternalità negative generate dal suo utilizzo di un certo bene/servizio, sapendo comunque proporre migliori soluzioni alternative. L’organizzazione è il terzo ambito del business model dove vi possono essere innovazioni con rilevanti effetti positivi sul piano sociale. Proprio i cambiamenti dell’organizzazione del lavoro e delle relazioni tra il lavoratore e la struttura aziendale rappresentano gli ambiti dove le imprese, segnatamente quelle di grande e grandissima dimensione, sono maggiormente protagoniste di innovazione sociale. Particolarmente significative a riguardo, le innovazioni nell’organizzazione delle attività lavorative finalizzate a ottimizzare l’equilibrio tra queste e quelle personali, ad aumentare il senso di autonomia delle persone e ridurre i costi logistici diretti e indiretti. Sullo stesso piano, vanno considerate le misure di diversity management volte per un verso a evitare discriminazioni di trattamento e opportunità tra le persone, per l’altro a favorire una vera integrazione tra soggetti caratterizzati da differenze (culturali, religiose, sociali) significative, e valorizzandone le specificità. Non meno importante dei due precedenti, è la condivisione delle scelte strategiche con i rappresentanti degli stakeholders interni e l’estensione alla massima parte dei collaboratori dei benefici economici e non del successo dell’impresa. Le innovazioni del business model relative alla struttura e gestione dei costi sono particolarmente rilevanti perché implicano il modificarsi delle modalità attraverso cui raggiungere obiettivi prioritari della gestione d’impresa quali la massimizzazione dell’efficienza e della flessibilità operativa, insieme alla minimizzazione dei costi. Così come per la questione del valore creato per il cliente, anche in questo ambito, la necessità di tali obiettivi non è messa in discussione; nella prospettiva della sostenibilità, è essenziale individuare modalità per il loro raggiungimento che non abbiano implicazioni negative per altri stakeholders, e siano anzi in grado di produrre anche effetti positivi a loro vantaggio. A riguardo, si è già osservato come molte misure per il miglioramento dell’impatto ambientale determinino efficienze che, almeno nel medio-lungo termine, generano risultati economici netti positivi; utile anche ricordare che il miglioramento del clima aziendale, del senso di appartenenza e della condivisione dei benefici dell’azione economica dell’impresa determinano condizioni favorevoli per ottimizzare la produttività del lavoro e la qualità dei suoi risultati.

organizzazione

innovazione sociale

diversity management

gestione dei costi

2.4.3 La governance dell’impresa nella prospettiva della sostenibilità In questi anni si è avuta un’intensa evoluzione normativa relativa alla governance aziendale finalizzata a migliorare la trasparenza delle relazioni tra gli investitori e l’impresa e tra le diverse categorie di investitori. Si è cercato, inoltre, di rafforzare il bilanciamento di poteri effettivi e d’influenza nelle decisioni strategiche tra le diverse tipologie di soggetti coinvolti nel governo aziendale. Sia la letteratura scientifica, sia la pratica aziendale evidenziano come sostenibilità e governance siano fortemente interdipendenti: per un verso, la qualità della governance in termini di effettiva trasparenza, equità dei comportamenti dei soggetti che hanno i poteri di governo e coinvolgimento degli stakeholders, costituisce una determinante essenziale della sostenibilità dell’impresa; per l’altro, è dagli organi di governo dell’impresa che promana l’orientamento di fondo relativo anche alla sostenibilità; da essi dipende, quindi, in ultima analisi, in quale misura essa carat-

governance aziendale

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Parte I La strategia nel sistema impresa

Comitato interno

terizza il modello di business dell’impresa, permeandone la gestione e le modalità di acquisizione del vantaggio competitivo. Per una governance orientata alla sostenibilità, è significativa l’esistenza nell’ambito del Consiglio di Amministrazione di un Comitato interno con competenze specifiche sui temi della sostenibilità; ovviamente, l’effettiva rilevanza di questo comitato dipende dalle competenze specifiche che gli sono attribuite, e dai poteri per garantire effettivamente la massima trasparenza, nonché a orientare il management verso la gestione “sostenibile”. È anche importante l’esistenza di un’unità organizzativa specializzata nel coordinamento delle attività inerenti la sostenibilità; la sua dimensione, la rilevanza strategica delle funzioni che le sono attribuite, le risorse a disposizione, la posizione organizzativa del dirigente responsabile. Un ambito cruciale della qualità della governance è il coinvolgimento degli stakeholders nelle scelte strategiche e nelle politiche per migliorare il grado di sostenibilità ambientale e sociale dell’impresa. In alcuni modelli, i rappresentanti dei principali stakeholders (lavoratori, comunità) possono essere coinvolti negli stessi organi di governo dell’impresa. In linea più generale, le imprese possono attuare un processo strutturato di coinvolgimento degli stakeholders nelle decisioni aziendali di maggior rilievo ambientale e sociale; si tratta del già citato stakeholders’ engagement.

2.5 Lo stakeholders’ engagement Nel precedente paragrafo sono stati approfonditi gli ambiti e le modalità con cui la sostenibilità può influenzare o addirittura indirizzare la gestione aziendale; è risultato abbastanza evidente come a questi corrispondano direttamente uno o più stakeholders. In altri termini, la sostenibilità orienta i comportamenti di business in direzioni Esperienza

Governance e sostenibilità nel Gruppo ENI Il sistema di Corporate Governance costituisce un elemento fondante del modello di business di ENI che, affiancando la strategia d’impresa, è volto a sostenere il rapporto di fiducia fra ENI e i propri stakeholders e a contribuire al raggiungimento dei risultati di business, creando valore sostenibile nel lungo periodo. Dal 2014, al fine di rafforzare ulteriormente la valenza strategica della sostenibilità, è stato istituito nell’ambito del Consiglio di Amministrazione il Comitato Sostenibilità e Scenari, con funzioni propositive e consultive nei confronti del CdA stesso in materia appunto di scenari e sostenibilità. Nel 2015 il Comitato ha approfondito tra i vari temi, quello sul cambiamento climatico e sugli aspetti connessi, quali, per esempio, l’Artico e le energie rinnovabili, COP21, fonti rinnovabili. Nel 2015 ENI ha adottato un Piano d’azione decennale sul clima. Tale Piano è stato approvato dal Consiglio di Amministrazione che ha un ruolo centrale nella definizione delle politiche, delle strategie e nella verifica dei risultati di sostenibilità. Il Comitato Sostenibilità e Scenari ha supportato il CdA nelle valutazioni relative al cambiamento climatico e gli Scenari energetici. Nel 2015 si è inoltre tenuto il secondo modulo formativo di UN Global Compact LEAD Board Programme, dedicato a ruoli e responsabilità del Board su temi di sostenibilità con particolare riferimento al cambiamento climatico. Il Piano di Incentivazione variabile annuale dell’AD del 2016, come nell’anno precedente, prevede una struttura con due obiettivi di sostenibilità ambientale e relativa al capitale umano con peso 25%: uno sulle emissioni di CO2 e l’altro sulla sicurezza. Sulla base di questo sono declinati anche gli obiettivi dei Dirigenti con responsabilità strategiche. Fonte: https://www.eni.com/docs/it_IT/eni-com/sostenibilita/eni_for_2015_report_web_.pdf.

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Strumenti

La governance della sostenibilità in Telecom La governance della sostenibilità all’interno di Telecom Italia è garantita, per lo più, dal presidio delle attività di: 1) reporting; 2) pianificazione. Per il reporting di sostenibilità Telecom si avvale di un set di circa 500 KPI, derivanti dall’analisi delle linee-guida del GRI-G4 Comprehensive (Global Reporting Initiative), dei principi del Global Compact, delle indicazioni degli stakeholders e dei questionari inviati dalle principali Agenzie di rating ai fini dell’ammissione agli indici borsistici di sostenibilità. La gestione dei KPI avviene su una piattaforma software centralizzata sulla quale vengono gestite anche le altre applicazioni aziendali che governano i processi contabili, finanziari e di controllo. Ciò consente anche la condivisione di dati tra le varie piattaforme per garantire la massima integrazione della sostenibilità nei processi aziendali. Le persone che lavorano presso tutte le aree operative del Gruppo, provvedono alla raccolta e all’inserimento dei dati che alimentano il sistema, i quali vengono poi controllati centralmente dal team di CSV (Corporate shared value). La pianificazione delle azioni di sostenibilità da mettere in campo si articola in quattro fasi: • • • •

individuazione delle aree di miglioramento della performance di sostenibilità; confronto tra le aree di miglioramento e i progetti che il Gruppo prevede di effettuare per finalità di business; definizione di interventi mirati sulle aree di miglioramento; monitoraggio delle aree che occorre presidiare per mantenere il livello di performance raggiunto.

Il confronto tra la pianificazione effettuata dalla funzione CSV e le disponibilità delle linee operative avviene in modo sistematico permettendo l’equilibrio tra costi e benefici. Tra le tematiche di maggior rilievo costantemente monitorate rientrano le questioni ambientali. Le tematiche sociali attinenti alle relazioni con la comunità sono coordinate per lo più dalla funzione CSV, mentre il sociale inerente alle persone che lavorano nel Gruppo è gestito dalla direzione People Value. Infine, utile evidenziare che le azioni in materia di sostenibilità sono sottoposte alla supervisione del Comitato per il Controllo e i Rischi, che esercita una funzione di alta supervisione in materia di CSV, vigilando sulla coerenza delle azioni realizzate con i principi posti dal Codice Etico del Gruppo. Fonte: http://www.telecomitalia.com/tit/it/sustainability/our-approach/governance-engagement/engagement. html.

funzionali non solo agli obiettivi strettamente economici dell’impresa, ma anche alla creazione di valore per tutti gli stakeholders e per la Comunità nel suo insieme. La sostenibilità dipende, però, anche da “come” l’impresa individua il valore atteso dagli stakeholders, ovvero le esigenze che essa intende soddisfare organicamente alle proprie attività di business. Quella del “come” è una questione dirimente, poiché l’impresa potrebbe stabilire in modo del tutto autonomo quali obiettivi sociali e ambientali perseguire, insieme a quelli economici, e, di conseguenza, come gestire il business rispetto agli stakeholders. In questo caso, l’impresa più che essere “sostenibile”, dimostrerebbe avere un certo grado di filantropia. Può avere un ruolo anche molto importante nella creazione di benessere collettivo, ma il fatto che ciò derivi da un atto del tutto discrezionale e unidirezionale rappresenterebbe un limite intrinseco cruciale. La sostenibilità è, infatti, legata anche al grado di coinvolgimento degli stakeholders nelle decisioni strategiche dell’impresa, e in particolare quelle da cui maggiormente dipende l’impatto ambientale e sociale della sua attività e del modo di competere. Per questo,

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stakeholders’ engagement

ascolto coinvolgimento

rendicontazione

AA1000 Stakeholder Engagement Standard

una componente decisiva della gestione sostenibile dell’impresa è l’attività di stakeholders’ engagement. Lo “stakeholders’ engagement” attua il principio della “inclusione” della massima parte dei soggetti coinvolti dall’attività dell’impresa nella determinazione dei suoi orientamenti strategici finalizzati alla creazione di valore collettivo. L’impresa attua questo principio operando (con diversa intensità) su tre direttrici: • l’ascolto degli stakeholders per comprenderne il punto di vista e le eventuali istanze; • il loro coinvolgimento nell’elaborazione delle strategie di sviluppo, particolarmente per quanto riguarda gli aspetti di maggior rilievo per il bene comune; • la rendicontazione di decisioni, attività e risultati complessivi. Si tratta di gestire l’impresa nel rispetto delle aspettative di tutti i soggetti direttamente e indirettamente coinvolti, trovando quindi un corretto equilibrio tra gli obiettivi di tutti e le esigenze di operatività dell’azienda, evitando di sfruttare i tipici vantaggi di cui quest’ultima dispone, soprattutto quando ha dimensioni rilevanti rispetto al resto del sistema economico dove opera: elevato potere negoziale e asimmetria informativa a suo vantaggio. Il processo di coinvolgimento degli stakeholders offre all’impresa anche un’importante opportunità per acquisire nuova conoscenza, oltre che per individuare nuove opportunità relazionali e possibilmente di partnership, rilevanti anche dal punto di vista del business in senso stretto. I contenuti e il metodo di coinvolgimento degli stakeholders sono ormai abbastanza consolidati, sulla base dello standard internazionale AA1000 Stakeholder Engagement Standard, la cui ultima versione è stata emanata nel 2011.18 Gli aspetti qualificanti di un valido processo di stakeholders’ engagement sono (Figura 2.5): • l’inclusività, nel senso che è favorita la partecipazione ampia e qualificata degli stakeholders, compresi quelli non direttamente rilevanti per il successo dell’impresa nel suo business;

Inclusività

Capacità di risposta

Figura 2.5 Gli aspetti qualificanti il processo di stakeholders’ engagement.

Caratteristiche del processo di stakeholders’ engagement

Completezza

Significatività

18

Sul tema è anche rilevante l’AA1000APS Accountability Priciples Standard, del 2008.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

• • •

completezza, ovvero la gestione organica delle diverse problematiche emergenti dal dialogo strutturato con l’insieme degli stakeholders; significatività, per focalizzare gli sforzi sulle questioni più rilevanti sia per gli stakehodlers, sia per l’impresa; capacità di risposta, adeguata rispetto alle attese e alla rilevanza delle problematiche, considerate in maniera condivisa dall’impresa e dai soggetti interessati.

2.5.1 Le diverse modalità operative di coinvolgimento degli stakeholders Nella pratica aziendale, si individuano diverse modalità di coinvolgimento degli stakeholders, ordinate per un diverso grado di rilevanza. Il trasferimento di informazioni agli stakeholders da parte dell’impresa è la modalità più semplice; non implica una particolare interazione tra le parti e, quindi, la possibilità per i soggetti esterni d’influenzare concretamente il comportamento dell’azienda. Ugualmente “a senso unico”, ma con un maggior impatto, sono le iniziative “formative” che l’impresa realizza a beneficio degli stakeholders per aumentare la loro conoscenza su argomenti rilevanti e fornire loro migliori strumenti di valutazione. Un terzo livello è il dialogo, attraverso cui l’impresa fornisce informazioni, dando la possibilità ai destinatari di replicare raccogliendo suggerimenti e commenti. L’impresa può poi attuare una “consultazione” strutturata, quindi raccogliere idee e proposte da un ampio insieme di soggetti su determinate questioni per poi identificare le soluzioni in grado di generare il massimo consenso. È evidente che in tutte queste modalità, l’impresa mantiene inalterato il suo potere decisionale, pur aprendosi progressivamente all’influenza dei soggetti esterni. Il processo di stakeholders’ engagement compie, quindi, un salto di qualità quando l’impresa rinuncia a tale prerogativa e si pone sullo stesso piano degli stakeholders, ricercando con loro soluzioni condivise. Questo approccio è attuato attivando gruppi di lavoro con rappresentanti qualificati degli stakeholders, con il compito di studiare le problematiche e definire misure attuabili; è ovviamente essenziale che l’impresa dia poi effettiva attuazione a tali misure. Una modalità ancora più significativa si ha quando l’impresa stabilisce, insieme con i propri interlocutori, anche le regole e le modalità per giungere a una decisione pienamente condivisa, affidando il processo di elaborazione delle soluzioni a un soggetto terzo indipendente. Le tipologie di stakeholders prevalentemente coinvolti sono innanzi tutto le organizzazioni di varia natura che si occupano di ambiente, difesa del consumatore e delle problematiche di interesse generale più rilevanti nel settore ove opera l’impresa. Altrettanto rilevanti sono gli investitori “sostenibili” e i rappresentanti delle agenzie di “rating” che tengono conto del livello di sostenibilità dell’impresa. Sono anche spesso coinvolti soggetti considerati “opinion leaders”: esperti riconosciuti a livello nazionale e internazionale (membri di organizzazioni internazionali, accademici, titolari di ruoli di vertice in network di sostenibilità, giornalisti di settore); rappresentanti autorevoli di grandi istituzioni; personaggi in vario modo impegnati nelle cause ambientali o sociali ecc. È anche importante la presenza di rappresentanti delle categorie di utenti più rilevanti per l’impresa (dal punto di vista non solo commerciale).

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Strumenti

Le condizioni rilevanti per un’efficace stakeholders’ engagement Uno studio della Harvard Business School ha individuato undici dimensioni rilevanti per impostare un’efficace processo di stakeholders’ engagement. Valutazione dei costi, delle opportunità e dei rischi preliminare all’attivazione di un processo di coinvolgimento degli stakeholders. 2. Formazione del management locale in materia di coinvolgimento degli stakeholders. 3. Rendicontazione dei risultati delle attività di coinvolgimento ai diversi stakeholders coinvolti. 4. Identificazione dei temi e degli stakeholders che si rilevano chiave per il successo nel lungo periodo dell’impresa. 5. Rendicontazione pubblica delle informazioni relative ai risultati del processo di coinvolgimento. 6. Trasmissione dei risultati del processo di coinvolgimento al board/supervisory board e/o al management e/o alle unità di compliance e di comunicazione. 7. Rilevanza per gli stakeholders e per l’impresa dei temi presi in considerazione. 8. Condivisione con gli stakeholders della tipologia di coinvolgimento da adottare. 9. Adozione di strumenti e meccanismi di conciliazione stragiudiziale con le parti interessate. 10. Sviluppo e promozione di un “sentire comune”, inteso come un livello di consapevolezza reciproca dei temi rilevanti e degli elementi di scenario sottostanti, inclusi aspetti di natura tecnica. 11. Definizione condivisa dalle diverse parti interessate degli obiettivi delle attività di coinvolgimento. 1.

2.5.2 La matrice di materialità matrice di materialità

Il metodo dello stakeholders’ engagement prevede che la collaborazione tra impresa e stakeholders sia focalizzata su un certo numero di tematiche condivise da tutti i soggetti e identificate attraverso la così detta matrice di materialità.19 Questa matrice posiziona l’insieme delle tematiche relative alla sostenibilità (precisate con riferimento alle specificità del business e del mercato in cui l’impresa opera) in relazione a due dimensioni: l’importanza attribuita dagli stakeholders in relazione all’impatto sociale o ambientale percepito (nel loro insieme) e la rilevanza per l’impresa in termini di probabile influenza sul suo sviluppo competitivo. Si intuisce che le tematiche su cui impresa e stakeholders concentreranno maggiormente la loro collaborazione sono quelle a cui entrambi attribuiscono maggiore rilievo. La matrice di materialità ha l’indubbio pregio della semplicità: offre una lettura sintetica delle numerose problematiche relative alla sostenibilità e un criterio molto concreto e immediato per evidenziare quelle considerabili come prioritarie; in questo senso, è anche uno strumento efficace per pianificare le attività di sostenibilità e orientare l’attività di rendicontazione volontaria, in modo da essere il più possibile allineati alle aspettative fondamentali degli stakeholders. Tuttavia, la sua efficacia dipende dal modo in cui essa è effettivamente implementata. In primo luogo, sono cruciali i criteri per la scelta degli stakeholders coinvolti, dai 19

Questa matrice è stata promossa sia dal Global reporting Initiative, sia dall’International Integrated Reporting Committee, quale strumento utile per il processo di stakeholders’engagement e per la rendicontazione delle attività sostenibili dell’impresa.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

quali dipende l’effettivo grado di “inclusività” di tutto il processo di stakeholders’ engagement, quindi il modo in cui sono definite le tematiche oggetto di valutazione; va osservato come sia piuttosto complesso definire un metodo di misurazione “oggettiva” del rilievo di ciascuna di esse per gli stakeholders. Infine, nelle grandi imprese multibusiness e internazionali, è piuttosto dubbio che un’unica matrice di materialità colga in modo sufficientemente approfondito le problematiche rilevanti per un insieme di stakeholders inevitabilmente ampio ed eterogeneo.

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stakeholders’ engagement

2.5.3 L’innovazione nello stakeholders’ engagement (SE) Si è già detto dell’importanza dell’innovazione orientata alla sostenibilità. Questa innovazione può riguardare anche il modo in cui l’impresa si rapporta agli stakeholders. Tale innovazione può essere osservata con riferimento alle seguenti quattro variabili relative appunto al coinvolgimento degli stakeholders: • • • •

innovazione

modalità; strumenti; ambiti; soggetti.

Rispetto a ciascuna di queste variabili, si individuano situazioni diverse che vanno da quelle più “tradizionali” a quelle “innovative” che prefigurano appunto situazioni di innovazione sociale (Figura 2.6).

Modalità

Coinvolgimento contingente per gestire al meglio problemi gravi e specifici

Coinvolgimento strutturato per la comprensione delle aspettative e prevenzione dei rischi

Coinvolgimento strategico per condividere le modalità di sviluppo sostenibile

Strumenti

Comunicazione unidirezionale e negoziazione

Condivisione informazioni e comunicazione interattiva

Co-progettazione e co–sviluppo

Ambiti

Aree non strategiche per il business o importanti perché rischiose

Aree rilevanti per l’impresa e per gli stakeholders principali

Aree rilevanti per la competitività dell’impresa e suo impatto su sviluppo sostenibile

Soggetti

Stakeholders chiave in ambiti che l’impresa considera rilevanti

Stakeholders rilevanti e collaborativi

Tutti gli stakeholders, compresi quelli nel “fringe”

SE tradizionale

Figura 2.6 Il continuum di possibili situazioni nei quattro ambiti ove distinguere il grado di innovatività dello SE.

SE innovativo

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Parte I La strategia nel sistema impresa

Strumenti

I temi prioritari nella matrice di materialità di Generali Attrazione dei talenti e sviluppo del capitale umano In un mercato sempre più competitivo e selettivo, è importante poter contare su risorse preparate e motivate in grado di cogliere le sfide del settore. Cambiamenti climatici e calamità naturali Il cambiamento climatico è già in atto e le catastrofi naturali sono in aumento, costituendo una seria minaccia allo sviluppo economico mondiale. In questo scenario la mitigazione dei rischi climatici e le strategie di adattamento sono fattori chiave a livello globale per rafforzare la resilienza delle comunità. Cambiamento demografico e sociale I flussi migratori, le nuove strutture familiari e l’invecchiamento della popolazione, dovuto al calo della fertilità e all’allungamento della vita media, potrebbero avere implicazioni sulla tenuta delle finanze pubbliche (sia nella gestione previdenziale sia in quella sanitaria) e sulla propensione al risparmio dei cittadini. Coinvolgimento dei dipendenti e promozione di una cultura condivisa Il rafforzamento della motivazione e l’impegno dei dipendenti alla realizzazione degli obiettivi sono importanti per mantenere una visione aziendale unitaria e condivisa. Coinvolgimento e sviluppo delle comunità Lo sviluppo delle comunità in cui si opera è correlato al business ma anche alle attività e agli scambi che avvengono con le imprese, le associazioni e altre organizzazioni insediate nel territorio. Creazione di occupazione e gestione responsabile delle ristrutturazioni Il tema dell’occupazione, unitamente all’instabilità economica, hanno un forte impatto sulle modalità di gestione delle riorganizzazioni aziendali. Crisi del debito e volatilità dei mercati finanziari La crisi del debito sovrano all’interno dell’area euro e la volatilità dei mercati pongono seri rischi per la solidità delle imprese operanti nel mercato. Diversità, inclusione e pari opportunità I più elevati standard internazionali richiedono il massimo rispetto per la diversità, variamente intesa, la non discriminazione e le pari opportunità. Eccellenza nella gestione dei sinistri La relazione che si instaura con la società di assicurazione per il rimborso del danno a seguito di un sinistro è un aspetto chiave del rapporto contrattuale perché il cliente può valutare la qualità del servizio e l’ampiezza della copertura assicurativa. Educazione finanziaria La crescente produzione normativa, la peculiarità dei prodotti assicurativi e l’incertezza che caratterizza le dinamiche dei mercati richiedono la diffusione di programmi di formazione/informazione per consapevolizzare i clienti.

Per quanto concerne le modalità di coinvolgimento, quella più tradizionale, oggi tendenzialmente frequente solo tra le imprese ancora allo stadio iniziale dell’orientamento alla sostenibilità, prevede l’interazione con gli stakeholders stimolata arbitrariamente dall’impresa, soprattutto per contenere gli effetti negativi conseguenti il grave rischio o l’effettivo manifestarsi di eventi negativi sul piano ambientale o sociale per i quali essa può essere considerata responsabile. Lo SE

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

Gestione responsabile dei dati personali (data security) La quantità e la qualità dei dati personali oggi disponibili richiedono diligenza e professionalità nella loro gestione per garantirne la riservatezza. Giusta remunerazione e incentivi Un sistema di remunerazione basato sull’equità interna, sulla competitività, sulla coerenza e sulla meritocrazia, attraverso una diretta connessione tra impegno e riconoscimento del merito, consente di creare valore a lungo termine a tutti i livelli dell’organizzazione. Inclusione finanziaria La frammentazione del contesto sociale aumenta il rischio di escludere alcune fasce della popolazione dall’accesso ai servizi assicurativi, impedendo il loro avanzamento economico. Internazionalizzazione dei collaboratori Il contesto economico sempre più globalizzato richiede lo sviluppo di programmi di mobilità internazionale per i dipendenti e programmi di sviluppo del potenziale dei collaboratori. Investimenti responsabili (ESG investing) La dimensione ambientale, sociale e di corporate governance (ESG) degli investimenti sta assumendo sempre più rilevanza, in una prospettiva di sviluppo sostenibile. Prevenzione della corruzione In un settore basato sulla fiducia come quello assicurativo, la promozione dell’etica negli affari e la prevenzione della corruzione giocano un ruolo fondamentale nel proteggere la reputazione e la credibilità aziendale, l’efficienza del business e la leale concorrenza. Rapporti con i business partner In un contesto in cui i clienti utilizzano più canali per raccogliere proattivamente informazioni sulle proposte assicurative e cercano spesso il contatto diretto con l’assicuratore, i rapporti con i business partner ricoprono un ruolo fondamentale nell’erogazione dei servizi. Soluzioni assicurative che incentivino comportamenti sostenibili e responsabili Le iniziative del settore privato integrano e promuovono le politiche pubbliche a sostegno di un modello di vita più sano e sostenibile. Trasparenza nella gestione del business In un contesto in cui l’accesso alle informazioni è sempre più agevole e la velocità di diffusione delle stesse aumenta continuamente, la trasparenza nella conduzione del business è condizione indispensabile per costruire rapporti di fiducia di lungo periodo. Fonte: file:///C:/Users/matteo/Downloads/Descrizione%20dei%20temi%20materiali.pdf.

è, quindi, una modalità strumentale per gestire al meglio le relazioni con i soggetti rilevanti nel caso di crisi d’interesse pubblico che potrebbero avere ripercussioni pesanti sul business e/o sulla reputazione dell’impresa. Una modalità più avanzata, generalmente prevalente tra le imprese con politiche per la sostenibilità consolidate (anche se non necessariamente innovative), prevede lo SE sulla base di procedure strutturate e condivise, che garantiscono una discreta continuità del dia-

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Parte I La strategia nel sistema impresa

logo; quindi la capacità dell’impresa di comprendere effettivamente le esigenze degli stakeholders e di far loro percepire la concretezza del suo impegno a favore della sostenibilità. La modalità può essere considerata innovativa quando il coinvolgimento è intrinseco al processo di elaborazione strategica; quindi, gli stakeholders sono attori effettivi di questo processo, orientandolo nella prospettiva dell’ottimizzazione del livello di sostenibilità dell’impresa. Una modalità di questo genere si può concretamente manifestare nella realizzazione di partnership strategiche tra l’impresa e determinati stakeholders sociali, finalizzate a operare sulla base di un modello di business intrinsecamente caratterizzato dal perseguire obiettivi di valore al tempo stesso economico, sociale e ambientale. Le partnership strategiche sono anche molto importanti perché costituiscono di fatto un ambiente ibrido dove, da un lato, l’impresa comprende più direttamente la necessità delle istanze sociali e ambientali e, dall’altro, gli stakeholders imparano a tenere conto dei vincoli intrinseci all’attività economica. In questa prospettiva, diversi autori hanno osservato20 la possibilità che un certo insieme di stakeholders siano coinvolti attivamente nei processi d’innovazione dell’impresa; essi collaborano con l’impresa in attività di “co-creazione” di innovazioni che quindi rispondono alle aspettative sia dell’impresa, sia degli attori esterni coinvolti. Di conseguenza, il rafforzamento di questi soggetti e della loro relazione con l’impresa può costituire una particolare fonte di conoscenza rilevante nel processo d’innovazione. Una gestione efficace delle relazioni con gli stakeholders può rappresentare un’importante fonte di idee per le innovazioni che massimizzano la loro soddisfazione e quindi il ruolo dell’impresa nella sua Comunità; come osservano Ayuso et al. (2011), le imprese “need to innovate, by reinventing the way they relate to their multiple stakeholders”.21 Perché questo accada è però altrettanto necessario che l’impresa disponga delle capacità di assimilare gli insights acquisiti dai soggetti esterni attraverso il processo di coinvolgimento esterno. Le innovazioni sostenibili derivano dalla duplice capacità di dialogare efficacemente con gli stakeholders, coinvolgendoli nel processo d’innovazione, e dalla competenza (dinamica) di cogliere e assimilare le loro idee e proposte. La modalità di SE è tanto più innovativa quanto più l’impresa opera insieme con gli altri attori per migliorare un certo problema d’interesse generale senza collocarsi necessariamente al centro del sistema di relazioni; essa mette a disposizione le proprie risorse e competenze, non riservandosi, in maniera più o meno esplicita, la guida delle attività poste in essere. Lavorare insieme “tra pari” riguarda sia la definizione del problema, sia l’individuazione delle modalità per superarlo e degli apporti di ciascun soggetto coinvolto, sia, infine, la definizione delle implicazioni sulla gestione del business. Le possibili modalità di coinvolgimento si riflettono negli strumenti più utilizzati. Al livello più tradizionale, lo SE consiste essenzialmente nella comunicazione realizzata dall’impresa a favore degli stakeholders, senza significativi meccanismi di feed-back. L’impresa si concentra soprattutto nell’attività di negoziazione che essa vuole, o è costretta, a condurre con questi ultimi per gestire al meglio determinate criticità ambientali o sociali per le quali è chiamata in causa. Attualmente, le esperienze di SE più significative prevedono che l’azienda condivida con gli attori esterni informazioni rilevanti su tutto ciò che può avere significativi impatti ambientali o sociali; notevole spazio hanno anche meccanismi 20 21

Cfr. Kazati et al. (2016), Gebauer et al. (2013). Cfr. Ayso et al. (2011), pag. 1400.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

di “ascolto” del punto di vista degli SE, e di dialogo per favorire la convergenza su determinati principi e sui conseguenti comportamenti da parte dell’azienda. Gli strumenti innovativi per realizzare lo SE sono quelli che permettono la “coprogettazione” delle attività attuate dall’impresa, così da favorire la massima integrazione tra le priorità strettamente di business e quelle ambientali e sociali. Meccanismi di co-progettazione si possono per esempio prevedere nella predisposizione dell’offerta, sia per quanto riguarda le sue caratteristiche materiali, sia nei suoi contenuti valoriali o esperienziali; oppure nell’organizzazione delle operations, nella gestione delle relazioni con i fornitori, nella scelta delle tecnologie produttive utilizzate, nelle politiche di ricerca e sviluppo; ancora nell’organizzazione delle attività lavorative e nelle politiche di sviluppo delle risorse umane. L’innovazione delle relazioni con gli stakeholders si manifesta anche nella misura in cui questi soggetti rimangono coinvolti anche nelle fasi di attuazione concreta di quanto co-progettato; gli strumenti utili in questo senso rimandano al modello di governance adottato e alla volontà di prevedere un coinvolgimento strategico degli stakeholders nella gestione delle problematiche aziendali di rilievo ambientale e sociale. Anche l’innovazione relativamente agli ambiti ove lo SE è attuato è legata a quella relativa ai due aspetti precedenti. Nella fattispecie più tradizionale, il coinvolgimento degli stakeholders avviene o in ambiti che non influenzano in maniera significativa le dinamiche competitive dell’impresa, quindi poco collegati al suo business, oppure su questioni dove l’attività dell’impresa ha un’elevata possibilità di generare anche involontariamente significativi danni ambientali o sociali. Attualmente, le modalità più avanzate prevedono che stakeholders e impresa si confrontino e possibilmente lavorino insieme negli ambiti che risultano più rilevanti per entrambi. In questo modo, le politiche aziendali per la sostenibilità rischiano, però, di essere in una certa misura distorte dalla natura degli stakeholders più influenti (nel senso di essere maggiormente in grado di sensibilizzare l’impresa sulle loro priorità). Lo SE appare in questo senso tanto più innovativo quanto più si attua su uno spettro ampio di ambiti, idealmente, tutti quelli rilevanti, da un lato, per la competitività dell’impresa e, dall’altro, per massimizzare il suo contributo allo sviluppo sostenibile. In questa prospettiva, lo SE risulta massimamente innovativo quando prevede il coinvolgimento di tutti gli stakeholders e non solo di quelli più rilevanti e meglio attrezzati a collaborare con l’impresa; oppure, addirittura, di quelli con ruoli e poteri significativi nei contesti dove l’attività d’impresa appare più rischiosa. Hart e Sharma sostengono l’importanza di “proactively seek out the voices from the fringe”:22 ascoltare e coinvolgere anche gli attori collocati nelle aree periferiche della rete di stakeholders dell’impresa. In questo senso, si supera l’impostazione basata sul contributo seminale di Freeman, per cui lo SE è focalizzato sugli attori che hanno importanza maggiore per lo sviluppo dell’impresa nel suo business attuale. La gestione delle relazioni con gli attori consueti, anche in chiave strategica e collaborativa, tende a produrre minore spinta innovativa rispetto a quanto può derivare dall’interazione con soggetti meno consueti, portatori di prospettive anche molto diverse da quelle più consolidate. Con questo tipo di stakeholders sono anche meno probabili situazioni che rendono possibili comportamenti collusivi tra questi e l’impresa a danno delle altre componenti della Comunità. 22

Cfr. Hart S. L., Sharma S. (2004) pag. 8.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

Sintesi Il capitolo illustra i principi della “sostenibilità” applicati all’impresa; in particolare è spiegato il concetto di “shared value”, basato sui principi dell’economia civile. Con riferimento all’impresa, sono descritte le fasi tipiche di sviluppo dell’approccio alla gestione sostenibile, evidenziando l’impatto positivo sul vantaggio competitivo e le modalità di progressivo coinvolgimento degli stakeholders. Il tema dello stakeholders’ engagement è poi ripreso nel paragrafo finale del capitolo. Il capitolo si sofferma anche sugli orientamenti delle principali istituzioni internazionali a favore dello sviluppo sostenibile e i conseguenti indirizzi dati al mondo delle imprese. Nella terza parte, il capitolo analizza le principali misure favorevoli alla sostenibilità nell’ambito delle funzioni aziendali: le operations, il marketing, la gestione dei fornitori, la gestione del capitale umano. Particolare attenzione viene data allo sviluppo delle relazioni con le Comunità dei territori ove l’impresa ha localizzato proprie importanti strutture produttive. Il capitolo discute anche l’innovazione tecnologica e del modello di business nella prospettiva del miglioramento del grado di sostenibilità dell’impresa e le problematiche di governance. Nella parte finale sono approfondite le problematiche inerenti l’innovazione nella relazione con gli stakeholders e il conseguente coinvolgimento dell’impresa nell’innovazione sociale.

Domande ed esercizi Domande di verifica Che cosa si intende per “shared value” e perché questo concetto affonda le sue radici nel filone di pensiero dell’“economia civile”? 2. Quali sono le funzioni tipiche del “manager della sostenibilità” in un’impresa? 3. Quali sono le tre determinanti del grado di sostenibilità dell’impresa? 4. Quali sono i criteri dal lato dei ricavi e dei costi per la valutazione economico-finanziaria di un’azione di sostenibilità? 5. Quali sono i potenziali vantaggi della sostenibilità sulla “brand equity” di un prodotto o di un servizio? 6. Quali sono i principi fondamentali stabiliti nel Libro Verde dell’UE “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale”? 7. Quali funzioni ha il “Global Reporting Initiative”? 8. Nella gestione delle risorse umane, quali sono gli ambiti dove sono più comuni i programmi di sostenibilità? 9. Perché la “discriminazione dei prezzi” può essere una strategia utile alla sostenibilità? 10. Come si distinguono le misure per la sostenibilità da quelle filantropiche? 11. In quale modo la “proposta di valore” può essere innovata nella prospettiva della sostenibilità? 12. Quali aspetti della governance dell’impresa possono essere rilevanti per rafforzare l’orientamento verso la gestione sostenibile? 1.

13. Quali sono le quattro caratteristiche del processo di “stakeholders’ engagement”? 14. A cosa serve la matrice di materialità? 15. Quali sono i vantaggi e i limiti della matrice di materialità?

Test a risposta multila 1.

Quando l’impresa è sostenibile? □ a. Quando raggiunge stabilmente l’equilibrio economico e il vantaggio competitivo. □ b. Quando riesce a soddisfare in modo equilibrato gli obiettivi di tutti gli stakeholders interni ed esterni. □ c. Quando riesce a operare in modo efficiente senza ricorrere a supporti esterni (finanziatori, fornitori ecc.).

2.

Il responsabile della sostenibilità in una grande impresa è normalmente: □ a. un dirigente che risponde a un direttore (prima linea). □ b. un direttore (prima linea). □ c. una figura di “esperto”, in alcuni casi anche esterno (consulente).

3.

Il “Cause related marketing” è: □ a. una strategia di marketing molto collegata alla causa primaria che l’impresa vuole raggiungere.

Capitolo 2 L’impresa come sistema “sostenibile”

□ b. una strategia di comunicazione in cui la promozione di un prodotto è collegata a una causa di rilievo sociale/ambientale. c. una politica di comunicazione che promuove par□ ticolarmente cause sociali presso i clienti delle imprese “for profit”. 4.

Il principio di “corporate citizenship” prevede che: □ a. l’impresa agisca come buon membro della comunità ove opera, dando un apporto al suo sviluppo armonico positivo e proporzionato al peso che essa ha. □ b. tutti i membri dell’impresa siano o si sentano cittadini della comunità dove essa opera.

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□ c. per avere successo, l’impresa deve essere percepita dai cittadini come un soggetto molto integrato e vicino al territorio ove essa opera. 5.

Nello “strakeholders’ engagement”, gli ambiti dove tale coinvolgimento avviene effettivamente sono: □ a. quelli non strategici per l’impresa, salvo quelli dove vi sono maggiori rischi. □ b. quelli rilevanti per la competitività dell’impresa e per il suo sviluppo sostenibile. □ c. dipende dal grado di innovatività dello stakeholders’ engagement.

Bibliografia Ayso S. et al. (2011), Does stakeholder engagement promote sustainable innovation orientation?, «Industrial Management and Data Systems», vol. 111, n. 9, pp. 1399-1417. Freeman R.E. (1984), Strategic Management: a Stakeholder Approach, Boston, Pitman Publishing Inc. Gebauer J., Fuller J., Pezzei R. (2013), The dark and the bright side of cocreation: triggers of members behavior in online innovation communities, «Journal of Business Research», vol. 66, n. 9, pp. 1516-1527. Hart S.L., Sharma S. (2004), Engaging fringe stakeholders for competitive imagination, «Academy of Management Executive», vol. 18, n. 1, pp. 7-17.

Kazadi K., Lievens A., Mahr D. (2016), Stakeholder co-creation during the innovation process: identifying capabilities for knowledge creation among multiple stakeholders, «Journal of Business Research», vol. 69, pp. 525-540. Moore G. (1999), Crossing the chasm, New York, Harper Collins. Osburg T. (2013), Social Innovation to drive corporate sustainability. In: Osburg T., Schimdpeter R. (eds.), Social Innovation, CSR, Sustainability & Governance, Berlino, Springer-Verlag.

Sul sito www.ateneonline.it/n/fontana5e sono disponibili le soluzioni e il test interattivo

Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa

3

Matteo Caroli

Gli obiettivi del capitolo Questo capitolo approfondisce l’articolazione dell’impresa e il suo comportamento strategico nella prospettiva della "Resource based theory". Il capitolo è focalizzato sul concetto di "risorsa" e sulle modalità attraverso cui determinate risorse possono essere all’origine del successo dell’impresa e del mantenimento di tale condizione nel tempo. Il capitolo si propone, quindi, di fornire le conoscenze utili per capire come l’impresa elabora una strategia competitiva a partire dalle risorse che ha a disposizione e delle competenze distintive che è in grado di sviluppare.

3.1 L’impresa come insieme di risorse 3.1.1 Le risorse nel sistema aziendale Le imprese possono essere distinte in funzione della rispettiva dotazione di risorse. Già Schumpeter individuava nella risorsa imprenditoriale l’elemento caratterizzante l’impresa e il suo processo evolutivo; successivamente, Penrose ha interpretato l’impresa as a collection of resources. Negli anni ’60, Selznick introdusse il concetto di distinctive competence quale fattore che distingue una organizzazione e il suo modo di operare. Successivamente Prahalad e Hamel teorizzano l’impresa come un portafoglio di competenze e di attività che creano valore (Prahalad e Hamel, 1994). Da questi contributi seminali è derivata una importante scuola di pensiero che ha sviluppato un approccio interpretativo detto resource based. Tale approccio considera le risorse quali fondamenta principali dell’evoluzione dell’impresa. Esistono naturalmente molti modi di definire una “risorsa”; tra le altre, appare efficace quella proposta da Wernerfelt (1984), che indica come risorsa tutto ciò che per l’organizzazione che la detiene e la utilizza può essere considerato un punto di forza o di debolezza. L’approccio “resource based” è coerente con l’idea dell’impresa come sistema autopoietico: secondo tale prospettiva concettuale, infatti, l’evoluzione dell’impresa è determinata dal suo patrimonio di risorse; d’altro canto, alla base delle scelte aziendali c’è l’obiettivo di accrescere nel tempo la dimensione e la qualità di tale patrimonio. L’impresa non è, quindi, un contenitore statico di risorse da utilizzare in maniera più o meno efficiente, ma un sistema che attiva meccanismi

approccio resource based

78

Parte I La strategia nel sistema impresa

potenziale di generazione di nuove risorse

modello di accumulazione

di generazione, utilizzazione e riproduzione di risorse, attraverso i quali si ottengono risultati economici. Il patrimonio di risorse di ogni impresa ha una certa capacità auto-generativa,1 consistente nel potenziale di generazione di nuove risorse. Le scelte aziendali e le conseguenti azioni volte alla loro implementazione hanno sempre il fondamentale effetto di generare, trasformare o distruggere risorse. Il processo di accumulazione delle risorse Il patrimonio di risorse di un’impresa e il loro potenziale competitivo deriva dal modo in cui queste sono accumulate nel tempo. Il processo di accumulazione delle risorse ha fondamentale importanza perché determina la particolare configurazione che esse assumono, nel loro insieme, all’interno dell’impresa. Il modo in cui una risorsa è accumulata nel tempo la rende tendenzialmente specifica dell’impresa, quindi imperfettamente mobile (sticky). L’importanza del modello di accumulazione indica che il patrimonio aziendale non è il risultato della semplice somma delle risorse che lo compongono, ma piuttosto il prodotto della loro reciproca fertilizzazione avvenuta nel tempo.

3.1.2 Le risorse tangibili e le risorse intangibili

Diversi autori distinguono le risorse umane sia dalle risorse tangibili sia da quelle intangibili, considerandole come una terza categoria a sé stante.

Le risorse sono generalmente distinte in tangibili e intangibili. Le prime hanno un riscontro quantitativo (non necessariamente perfettamente conforme al loro reale valore) nella situazione patrimoniale dell’impresa. Anche alcune risorse intangibili (prime tra tutti, i brevetti e i marchi) possono essere in parte valorizzate in maniera oggettiva nel bilancio dell’impresa; tuttavia, gran parte della loro entità non può essere tradotta in termini patrimoniali e viene convenzionalmente sintetizzata come determinante dell’avviamento dell’impresa. Diversi autori distinguono le risorse umane sia dalle risorse tangibili sia da quelle intangibili, considerandole come una terza categoria a sé stante.2 Esse infatti, da un lato hanno una evidente “fisicità” che le renderebbe assimilabili alle risorse materiali; dall’altro, ciò che le caratterizza maggiormente dal punto di vista della dinamica aziendale è la loro componente immateriale, ovvero l’insieme di competenze di cui esse sono portatrici. Anche sul piano della rappresentazione quantitativa, le risorse umane hanno natura piuttosto ambigua. In prima approssimazione, infatti, il loro valore può essere stimato in maniera abbastanza immediata attraverso il calcolo dei loro costi diretti (stipendi, salari, oneri sociali, benefit) e indiretti. Tuttavia, l’effettivo valore delle risorse umane è rappresentato in maniera più completa e appropriata dal valore delle competenze che esse apportano nell’impresa. Le principali tipologie di risorse intangibili e il capitale intellettuale Le risorse intangibili si manifestano in due aree fondamentali della gestione aziendale: 1. il mercato; 2. il sistema aziendale. 1 2

Su questo punto si veda Vicari S. (1991). Tra questi autori, si veda anche Grant R.M. (1991).

Capitolo 3 Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa

Esempi che rientrano nella prima area sono: l’immagine, l’identità percepita e la reputazione dell’azienda e della sua offerta; la fedeltà dei clienti e le relazioni consolidate con gli stessi. Esempi nel secondo ambito sono: l’attitudine all’innovazione; l’accesso alle informazioni; le relazioni con gli stakeholders esterni; la forza e il radicamento dei valori aziendali e il grado di coesione interna; la professionalità e la motivazione delle risorse umane; il capitale organizzativo; l’imprenditorialità diffusa. Vanno poi considerate la conoscenza e la fiducia che per la loro particolarità saranno trattate in maniera approfondita più avanti. In linea generale, le risorse di tipo intangibile rendono più efficiente e/o più efficace l’utilizzazione delle risorse tangibili. In particolare si osserva che le risorse intangibili producono i seguenti benefici: • • • •

conoscenza fiducia Le risorse intangibili producono benefici.

maggiore coerenza dei processi produttivi con le condizioni del contesto ove l’impresa opera e con le altre risorse che essa utilizza; maggiore valore intrinseco dell’offerta proposta dall’impresa al mercato; migliore accesso alle risorse necessarie per la realizzazione dei processi produttivi; migliore connessione tra l’impresa e gli attori esterni con cui essa interagisce (in primo luogo, i clienti).

L’insieme di risorse intangibili che direttamente o indirettamente spiegano un valore dell’impresa superiore a quello corrispondente al capitale finanziario3 può essere indicato con il termine di capitale intellettuale dell’azienda. Un importante filone della scienza aziendalistica (Edvinsson, Malone, 1997; Ross G., Ross J., 1997), parallelamente ad alcune significative esperienze imprenditoriali, ha evidenziato come il valore dell’impresa sia appunto la risultante di tue tipi di capitale: quello finanziario e quello intellettuale. Nel noto modello proposto dalla Skandia (1995), il capitale intellettuale si distingue a sua volta in capitale umano e in capitale strutturale. Il primo si articola in particolare nell’insieme di competenze detenute dalle persone, nelle loro relazioni e nei valori di cui sono portatrici. Il capitale strutturale è costituito dall’insieme di clienti su cui l’impresa può contare e dal cosiddetto capitale organizzativo, il quale è composto dalla capacità innovativa dell’impresa, dalla qualità dei suoi processi operativi e dal suo sistema di valori culturali ed etici. Secondo altri modelli, il capitale umano è costituito dalle competenze, dalle attitudini e dalla flessibilità delle persone, mentre il capitale strutturale è caratterizzato dal sistema organizzativo (struttura, processi, valori, relazioni interne), dall’insieme di relazioni (con i clienti, i fornitori e gli altri stakeholders esterni) e dallo specifico modello di sviluppo seguito dall’impresa. Il capitale sociale Il capitale sociale4 consiste nell’insieme delle relazioni esterne5 che l’impresa attiva, grazie alla propria capacità di connessione con i sistemi che costituiscono 3

79

La ricerca scientifica in questo campo assegna al termine “capitale finanziario” il significato che in economia aziendale si attribuisce al “capitale netto”. 4 Al fine di evitare il rischio (per quanto, crediamo, remoto) di confusione, si precisa che il termine “capitale sociale” traduce l’inglese social capital e indica un concetto che non ha nulla a che vedere con la grandezza patrimoniale che ha lo stesso nome e che indica la parte di capitale netto dell’impresa costituita dagli apporti dei soci. 5 Alcuni modelli considerano le relazioni con i clienti nell’ambito del capitale intellettuale.

capitale intellettuale

capitale umano capitale strutturale capitale organizzativo

Il capitale sociale consiste nell’insieme delle relazioni esterne che l’impresa attiva grazie alla propria capacità di connessione con i sistemi che costituiscono il suo ambiente di appartenenza.

Parte I La strategia nel sistema impresa

80

il suo ambiente di appartenenza. Il valore di questo capitale dipende evidentemente non solo dalla numerosità di tali relazioni, ma soprattutto dalla loro qualità, in termini di risorse (materiali e immateriali) scambiate attraverso tali relazioni, e dalla condivisione di progetti e attività.

risorse sedimentabili Le risorse intangibili hanno natura firm specific, ovvero non perfettamente mobile.

flessibilità

La conoscenza dell’impresa l’insieme di schemi cognitivi sufficientemente stabili e diffusi all’interno dell’impresa.

rappresentazione dell’impresa definita e stabile

Le proprietà delle risorse intangibili Le risorse intangibili godono di alcune proprietà rilevanti. In primo luogo sono sedimentabili all’interno dell’organizzazione, come risultato di un processo di accumulazione. Come conseguenza della loro formazione per sedimentazione progressiva le risorse intangibili hanno, ancor più di quelle tangibili, natura firm specific, ovvero imperfettamente mobile. Del resto, anche in una risorsa tangibile l’imperfetta trasferibilità all’esterno è determinata essenzialmente dalle componenti intangibili che sono in qualche modo incorporate o annesse a tale risorsa tangibile. La sedimentabilità e l’imperfetta trasferibilità si sintetizzano nel fatto che il patrimonio di risorse intangibili può essere difficilmente e comunque limitatamente sviluppato attraverso la semplice acquisizione di tali risorse o l’imitazione. Il processo di creazione del patrimonio di risorse intangibili è normalmente lento e scarsamente pianificabile ex ante. Lo sviluppo delle risorse intangibili avviene anche attraverso la loro utilizzazione. Si pensi, per esempio, alla determinazione del posizionamento competitivo del marchio, al rafforzamento dei valori interni dell’impresa, allo sviluppo delle relazioni con i clienti. D’altro canto, le risorse intangibili sono deperibili; nel tempo, possono quindi perdere consistenza e rilievo ai fini dello sviluppo dell’impresa. Questo può accadere per esempio perché determinati cambiamenti delle condizioni ambientali le rendono obsolete (è il caso tipico di un brevetto superato dall’evoluzione delle tecnologie prevalenti), oppure per il venir meno di quella “manutenzione” necessaria in relazione all’intensificarsi della competizione (è il caso del marchio sostenuto da investimenti in comunicazione non adeguati rispetto a quelli effettuati dai principali marchi concorrenti, oppure delle risorse umane cui non viene erogata nel tempo un’adeguata formazione professionale). Le risorse intangibili sono anche caratterizzate da un certo grado di flessibilità. Sono trasferibili all’interno dell’organizzazione che le possiede e utilizzabili in contesti ambientali e competitivi diversi. Questa importante proprietà è alla base delle interdipendenze strategiche di natura intangibile analizzate in dettaglio nel Capitolo 7. Il contenuto di conoscenza e di fiducia delle risorse aziendali Nella prospettiva dell’impresa, la conoscenza può essere definita come l’insieme di schemi cognitivi sufficientemente stabili e diffusi all’interno del sistema aziendale. Questi schemi cognitivi sono alla base dei comportamenti, in particolare del modo in cui sono utilizzate le risorse disponibili e del loro processo di accumulazione (Vicari, 1992). La fiducia consiste nell’insieme di schemi cognitivi attraverso cui determinati soggetti danno una rappresentazione dell’impresa sufficientemente definita e stabile nel tempo. Tutte le risorse aziendali possono essere interpretate in termini di conoscenza e di fiducia. La conoscenza di cui l’impresa dispone, infatti, è il fattore che le consente di individuare, valutare e acquisire al proprio interno le risorse aziendali (compresa nuova conoscenza) e di coordinarle e valorizzarle in relazione al raggiungimento dei suoi obiettivi. La fiducia di cui l’impresa gode presso i soggetti

Capitolo 3 Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa

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esterni è invece la condizione essenziale da cui dipende la sua capacità di stabilire relazioni con altri soggetti attraverso cui sono acquisite le risorse, di realizzare le attività produttive, di sviluppare la presenza nel mercato. Gli interlocutori esterni concedono, con modalità diverse, le proprie risorse all’impresa sulla base della fiducia che essi nutrono nella capacità che questa ha di utilizzarle in maniera appropriata e vantaggiosa anche per i loro fini. Dunque, il potenziale d’uso e il valore di una risorsa consistono nella conoscenza e nella fiducia che quella risorsa produce a favore dell’impresa. In questa prospettiva, l’agire dell’impresa dovrebbe essere mosso dall’obiettivo di generare, accumulare, utilizzare e rinnovare il proprio patrimonio di “conoscenza” e di “fiducia”. Lo sviluppo dell’impresa dipende dal modo in cui questa da un lato è in grado di utilizzare al meglio il patrimonio di conoscenza e di fiducia di cui dispone, dall’altro lato da quanto essa riesce a produrre nuova conoscenza e nuova fiducia. Il prossimo paragrafo approfondisce i contenuti della risorsa fiducia, mentre il tema della conoscenza è trattato in modo dettagliato nel Capitolo 8.

3.1.3 La risorsa fiducia La fiducia è uno schema cognitivo generato in determinati soggetti dall’insieme di azioni che l’impresa pone in essere, direttamente o indirettamente verso di essi. Attraverso i suoi comportamenti e in particolare le varie modalità di comunicazione, l’impresa influenza lo schema cognitivo di un soggetto, alimentandolo con nuove informazioni che, se sufficientemente convergenti e coerenti nel tempo, raggiungono il livello critico necessario per rendere stabile lo schema cognitivo. Un esempio evidente del meccanismo di fiducia riguarda il consumatore nei confronti del prodotto offerto da un’impresa. Attraverso le informazioni che riceve su un determinato prodotto e l’esperienza di consumo, l’acquirente matura una certa considerazione di tale prodotto che si traduce in una progressiva fiducia (o sfiducia) circa le sue caratteristiche e performance. Va osservato che tali informazioni possono essere generate anche da altre fonti, come per esempio: l’esperienza di utilizzo di altri soggetti che godono della positiva considerazione del consumatore; la fiducia già maturata verso altri prodotti della stessa azienda. Nella fase in cui non ha ancora avuto modo di acquisire una sufficiente conoscenza del prodotto, il consumatore, prima di acquistarlo, richiede un elevato livello di informazioni (che pondera anche con l’affidabilità della loro fonte) circa le sue caratteristiche. Man mano che la fiducia si consolida, il consumatore ha bisogno di minori verifiche e notizie sul bene, fino al punto di acquistarlo come si usa dire “a occhi chiusi”. In sintesi, attraverso la fiducia il consumatore interiorizza una rappresentazione tendenzialmente definita del prodotto, che genera un comportamento di acquisto da un lato più rapido e dall’altro più stabile. La fiducia rappresenta, quindi, un valore fondamentale per l’impresa, poiché, a parità di altre condizioni, riduce i costi di comunicazione del prodotto e aumenta la fedeltà del cliente. Il progressivo consolidamento di esperienze diverse nella fiducia verso l’impresa o verso i suoi prodotti non raggiunge mai un equilibrio stabile. Lo schema cognitivo deve essere continuamente alimentato con nuove conferme che ne determinano il rafforzamento; d’altro canto, informazioni divergenti producono (con velocità e intensità diversa a seconda dei casi) un indebolimento di quello schema cognitivo e quindi della fiducia.

La fiducia è uno schema cognitivo che caratterizza determinati soggetti, ed è generato da ll’insieme di azioni comunicative che l’impresa pone in essere, direttamente o indirettamente, verso tali soggetti.

La fiducia riduce i costi di comunicazione del prodotto e aumenta la fedeltà del cliente.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

Qualità dell’ambiente lavorativo Qualità consolidata

Vision e leadership

Capitale di reputazione Risultati economici e stabilità finanziaria

Emozioni suscitate

Responsabilità sociale dell’impresa

Figura 3.1 I fattori determinanti il capitale reputazionale dell’impresa.

La fiducia è legata anche al capitale di reputazione dell’impresa. Questo capitale è prodotto nel tempo dall’interazione di sei fattori (Figura 3.1): qualità dell’ambiente lavorativo; qualità complessiva e consolidata dell’offerta; emozioni suscitate; vision e leadership dell’impresa; risultati economici e stabilità finanziaria; livello della sostenibilità (responsabilità sociale dell’impresa).

3.2 Dalle risorse alle competenze distintive 3.2.1 La capacità organizzativa di integrazione e coordinamento delle risorse

capacità organizzativa

comunicazione efficace

Le singole risorse tangibili, intangibili e umane considerate individualmente non determinano la competitività dell’impresa, per la stessa ragione per cui acqua, uova, zucchero, farina e lievito in un recipiente non fanno una torta. Accanto alla qualità delle risorse considerate singolarmente, è essenziale il modo in cui queste sono integrate e coordinate in funzione dello svolgimento delle diverse attività e dell’acquisizione del vantaggio competitivo. La capacità di attuare questa azione di dosaggio, di integrazione e di coordinamento è normalmente indicata come capacità organizzativa6 e rappresenta una condizione essenziale per lo sviluppo del sistema aziendale. Quando implica il coinvolgimento della componente umana, il coordinamento e l’integrazione delle risorse pone anche un problema di comunicazione. La capacità organizzativa deve, quindi, comprendere anche la comunicazione efficace tra gli attori. Le capacità organizzative possono essere identificate in relazione alle varie funzioni aziendali. Per esempio, nell’area della produzione, si possono individuare capacità relative alla gestione del flusso di materiali (efficienza e rapidità) o all’innovazione del processo produttivo. Nel marketing, si può identificare una capacità di gestione delle relazioni con il cliente, di gestione e sviluppo del marchio, di segmentazione. Nella ricerca, si ha, tra le altre, la capacità di tradurre i risultati della ricerca di base in prototipi per lo sviluppo di nuovi prodotti, o la capacità di attuare alleanze per realizzare rilevanti progetti di ricerca. 6

Alcuni autori preferiscono il termine di “competenza organizzativa”.

Capitolo 3 Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa

La capacità organizzativa di un’impresa, dunque, è il fattore che determina il modo, specifico di tale impresa, in cui determinate risorse sono connesse tra loro per la realizzazione di una certa attività, in funzione del raggiungimento di specifici obiettivi. Ai fini dell’acquisizione del vantaggio competitivo, la capacità di coordinare e utilizzare al meglio le risorse disponibili è spesso più rilevante della loro semplice disponibilità. A riguardo, Hamel e Prahalad (1994)7 descrivono diversi esempi di imprese che riescono ad avere maggior successo di concorrenti pur dotati di un più ampio patrimonio di risorse. Altrettanto importante è l’integrazione delle proprie risorse con quelle di soggetti esterni, attraverso lo sviluppo di efficaci rapporti di collaborazione. Come è approfondito nel prossimo capitolo, le strategie di collaborazione sono essenziali nell’acquisizione del vantaggio competitivo perché permettono all’impresa di disporre di risorse e competenze di altri soggetti. Nell’ambito di tali strategie è essenziale delineare appunto il modo in cui le risorse esterne sono integrate con le proprie. L’integrazione delle risorse si manifesta attraverso le routine organizzative. Sulla base della definizione data da Nelson e Winter (1982) che hanno introdotto questo termine nel linguaggio aziendale, una routine organizzativa è intesa come un modo di operare regolare e prevedibile, che si sostanzia in una sequenza di azioni coordinate da parte di determinati individui. È basata sulla conoscenza “superficiale” dell’organizzazione, quindi è semi-automatica, si attiva senza bisogno di direttive esplicite e tende a massimizzare l’efficienza. Esempi di routine organizzative sono: la gestione dei materiali in uscita dal magazzino fino ai macchinari per la lavorazione; la procedura di erogazione al cliente di un servizio di assistenza; la selezione delle offerte presentate dai fornitori per la vendita di determinati input; la predisposizione dei budget da parte delle diverse unità aziendali e il loro consolidamento da parte della direzione amministrativa.

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capacità di coordinare e utilizzare al meglio le risorse

routine organizzative

3.2.2 Il patrimonio di competenze dell’impresa Attraverso il coordinamento e l’integrazione delle risorse l’impresa matura proprie competenze (Figura 3.2). In linea generale, le competenze sono alla base della capacità di realizzare azioni/attività più o meno complesse, finalizzate al raggiungimento di certi risultati. Un’architettura delle competenze detenute dall’impresa Poiché sono funzionali alla realizzazione di attività con diverso livello di articolazione, le competenze hanno diversi gradi di complessità; si può, allora, disegnare un’architettura delle competenze di un’impresa. In relazione al grado di complessità e al rilievo che hanno sulle condizioni di operatività dell’impresa, le risorse e competenze possono essere distinte in tre insiemi. Il primo è costituito dalle risorse e competenze necessarie per garantire che la configurazione del prodotto o del servizio offerto (contenuti base e modalità di erogazione di tali contenuti) sia in grado di soddisfare le esigenze essenziali 7

Tra gli esempi presentati dai due autori quello della Honda rispetto alla General Motors e quello della Sony rispetto alla Philips.

Le competenze possono essere intese come la capacità di realizzare azioni/attività più o meno complesse, derivante dall’integrazione di determinate risorse ed eventualmente di altre competenze e risultante da un processo di apprendimento interno. diversi gradi di complessità

Parte I La strategia nel sistema impresa

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Risorse intangibili interne Risorse tangibili interne

Risorse esterne

Integrazione e coordinamento

Capacità organizzative Competenze

Figura 3.2 La relazione logica tra risorse e competenze.

attributi soglia

caratterizzare la propria offerta

distinguere la propria offerta

scarsità

Nuove risorse e nuova configurazione delle risorse esistenti

della domanda; si tratta di quegli attributi soglia (threshold attributes) che permettono all’impresa di caratterizzare la propria offerta con elementi che il cliente considera come parte naturale (e ineluttabile) di tale offerta e a cui, di conseguenza, tende a non attribuire un valore specifico. Nel servizio di trasporto aereo, la capacità della compagnia aerea di organizzare la complessa attività di decollo e atterraggio dell’aeromobile, coordinandosi con la struttura aeroportuale, è un esempio di “attributo soglia”. Si tratta di una capacità senza la quale la compagnia aerea non potrebbe operare, ma a cui il cliente non attribuisce alcun valore distintivo. Il secondo livello identifica le risorse e competenze che permettono all’impresa di caratterizzare la propria offerta rispetto alle esigenze di un determinato segmento di mercato. La presenza nella flotta della compagnia aerea di un congruo numero di aeromobili di grandi dimensioni rappresenta una risorsa di questo livello in quanto condizione necessaria per operare nel segmento della domanda di trasporto aereo intercontinentale. Infine, le risorse e competenze di terzo livello sono quelle su cui l’impresa basa la propria strategia competitiva; determinano quindi le condizioni attraverso cui essa cerca di distinguere la propria offerta rispetto a quella dei concorrenti in termini di maggior valore offerto e percepito dal cliente. Una più ampia disponibilità degli slot in un determinato aeroporto assegna alla compagnia aerea un vantaggio competitivo (di posizione) sulle tratte che hanno tale aeroporto come hub più vantaggioso. Gli attributi delle risorse e competenze alla base del vantaggio competitivo Le risorse e competenze possono essere alla base del vantaggio competitivo dell'impresa (e quindi avere rilievo strategico), quando hanno le seguenti tre proprietà: scarsità, rilevanza, appropriabilità. 1. Scarsità. In primo luogo, esse devono essere scarse, ovvero poco diffuse nell’ambiente e nel contesto competitivo dove l’impresa opera.8 Non bisogna

Capitolo 3 Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa

pensare che le risorse non scarse siano per questo poco importanti; spesso, infatti, sono essenziali per la realizzazione dell’attività d’impresa. Tuttavia, poiché non determinano una posizione differenziale rispetto a gran parte dei concorrenti, non sono sufficienti per produrre un vantaggio competitivo. Nella produzione di un libro universitario, per esempio, le competenze per realizzare l’editing in maniera rapida e poco costosa sono molto importanti ai fini della realizzazione di un prodotto che abbia una buona resa commerciale; tuttavia, non rappresentano un fattore di distinzione, perché vi è ampia diffusione di software facilmente utilizzabili che permettono di gestire in maniera ottimale l’editing di un libro senza bisogno di altre particolari capacità. La competenza di editing è dunque abbastanza facilmente acquisibile da tutti gli operatori. È importante stabilire in quale misura una risorsa scarsa è “sufficientemente” scarsa? Su questo punto, la teoria aziendale non appare concorde. Alcuni autori ritengono che per generare un vantaggio competitivo, una risorsa debba essere addirittura “unica”, ovvero di esclusivo appannaggio dell’impresa che la detiene. 2. Rilevanza. La rilevanza di una risorsa si misura rispetto ai fattori critici di successo nel mercato; una risorsa è rilevante quando risulta decisiva per raggiungere un fattore critico di successo. 3. Appropriabilità. Infine, per poter generare un vantaggio competitivo le competenze devono essere basate su risorse di cui l’mpresa abbia un controllo proprietario che esclude i concorrenti dalla disponibilità di quella risorsa. Nella competizione tra gli albergatori di una località turistica, la risorsa costituita dalle bellezze naturali di tale località non può originare (da sola) alcun vantaggio competitivo (pur essendo scarsa e rilevante), poiché nessun operatore può vantare un diritto di proprietà su tali bellezze, escludendo gli altri dai benefici che ne derivano. Al contrario, la qualità del paesaggio che si può ammirare solo dal sito dove sorge una determinata struttura ricettiva è una risorsa che può generare un differenziale di competitività, in quanto è oggetto di diritti esclusivi per chi possiede o ha in concessione quella porzione di territorio.

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rilevanza

appropriabilità

3.2.3 Le competenze distintive Il concetto di competenza distintiva è ormai molto consolidato nella dottrina manageriale. Già nel 1957 Selznick usava questa espressione per indicare le attività che un’organizzazione è in grado di attuare in modo migliore rispetto ai concorrenti. Per Selznick la competenza distintiva deriva dall’abilità di integrare in modo efficace ed efficiente le condizioni esterne, le caratteristiche dell’organizzazione e la finalità e i valori in essa incorporati. L’idea di strategic asset Hamit e Schoemaker hanno introdotto il concetto di strategic assets per definire l’insieme di risorse e competenze specifiche dell’impresa, scarse e appropriabili,

8

Si ricorda che il rilievo della “scarsità” delle risorse è stato evidenziato per primo da Ricardo, che individua appunto nel controllo di una risorsa scarsa da parte di un’impresa l’origine della sua posizione di rendita.

competenza distintiva

strategic assets

Parte I La strategia nel sistema impresa

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difficili da acquisire sul mercato e da imitare, che conferiscono un vantaggio competitivo all’impresa che le detiene. I due autori evidenziano come gli strategic assets favoriscano l’acquisizione di una posizione dominante sul mercato quando convergono con gli strategic industry factors, intesi come le risorse e le competenze fondamentali per avere successo in un determinato settore.

core competences

L’idea di core competences e il legame tra queste e i core products Prahalad e Hamel hanno ripreso l’idea di competenze distintive, utilizzando il termine di core competences,9 intese come le competenze fondamentali per l’impresa su cui essa basa la ricerca della propria posizione di vantaggio. I due autori indicano in particolare tre aspetti che caratterizzano questo tipo di competenze (Hamel, Prahalad, 1990): 1. contribuiscono in maniera determinante al valore che l’impresa crea per il cliente e all’efficienza con cui essa realizza la sua offerta; 2. rappresentano il principale fattore competitivo per entrare in nuove aree di business; 3. sono difficilmente imitabili dai concorrenti.

core products

Le “core competences” si legano ai prodotti o servizi finali attraverso quelli che Prahalad e Hamel definiscono i core products. Questa particolare categoria di prodotti è il risultato più diretto delle competenze chiave dell’impresa e determina le componenti essenziali del valore che il prodotto finale attribuisce al cliente. Per esempio, nel caso di Honda, il motore rappresenta il prodotto “core”, in quanto risulta dalla particolare competenza di progettazione e sviluppo della compagnia giapponese ed è alla base di un vasto insieme di prodotti il cui valore è determinato in parte rilevante da quel motore. Il core product, nell’accezione proposta dai due autori, costituisce quindi una componente complessa che trova utilizzazione in un certo insieme di prodotti finali. Sulla base delle risorse e competenze distintive di cui dispone, l’impresa può decidere di focalizzare la propria attività sulla realizzazione di determinati core products, lasciando ad altri operatori della filiera il compito di svilupparne le utilizzazioni per il mercato finale. Raggiungere l’eccellenza nella realizzazione dei prodotti core favorisce anche il raggiungimento di un sostanziale controllo dei mercati finali dove questi prodotti trovano applicazione. Goddard (1997) approfondisce ulteriormente gli aspetti che caratterizzano le competenze distintive, o core, di un’impresa, osservando che si caratterizzano per il fatto di: • • •

9

essere costituite da un insieme di conoscenze empiriche e tacite, difficilmente imitabili da altre organizzazioni; individuare le aree e le attività dove l’impresa è in grado di eccellere rispetto ai concorrenti;10 rappresentare la fonte primaria del valore, non imitabile, che l’impresa offre ai concorrenti;

Proponiamo di tradurre “core competencies” con “competenze chiave”. Si ribadisce che la natura distintiva di una competenza deve essere valutata in termini relativi rispetto alle caratteristiche dell’analoga competenza detenuta dai concorrenti. 10

Capitolo 3 Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa



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favorire il determinarsi di piattaforme per lo sviluppo di nuove conoscenze e la loro diffusione in tutto il sistema aziendale.

La valutazione della posizione competitiva dell’impresa, quindi, deve tenere attentamente conto della dotazione che questa ha di risorse distintive rispetto ai concorrenti. Questa valutazione comparativa è anche finalizzata a individuare il modo in cui l’impresa può migliorare la valenza di determinate competenze nella realizzazione di specifiche attività, avvicinandosi ai risultati dei cosiddetti best in class. Nella pratica manageriale l’impresa opera questo monitoraggio attraverso progetti di benchmarking realizzati in maniera più o meno continuativa nel tempo. In sintesi, il benchmarking è una procedura attraverso la quale l’impresa compara il proprio modo di realizzare determinate attività con quello di un certo numero di altre imprese e, in particolare, di coloro che si ritiene svolgano le attività oggetto di comparazione nel modo migliore in assoluto. Una volta individuati i differenziali di efficienza o di efficacia rispetto alle altre imprese, si procede all’analisi delle motivazioni che spiegano questi differenziali; quest’analisi fa riferimento sia alla composizione del patrimonio di risorse disponibili sia alle capacità organizzative.

valutazione della posizione competitiva dell’impresa

progetti di benchmarking

3.2.4 Le condizioni di durabilità della natura distintiva di una risorsa La natura “distintiva” di una competenza ha una certa durata temporale, influenzata dai seguenti quattro fattori: 1. 2. 3. 4.

determinate condizioni intrinseche della competenza; comportamento dell’impresa; evoluzione dell’ambiente competitivo; comportamento dei concorrenti.

Le condizioni intrinseche: trasferibilità e replicabilità della risorsa Per quanto riguarda le “condizioni intrinseche della competenza” è rilevante il loro grado di trasferibilità e di replicabilità. Le competenze sono assolutamente non replicabili quando sono basate su fattori unici. Una certa competenza produttiva, per esempio, non è replicabile (almeno per un certo arco temporale) se è basata su un brevetto. La replicabilità è molto limitata anche nel caso in cui la risorsa o la competenza sia il risultato di uno specifico percorso evolutivo dell’impresa. Un altro elemento che ha notevole rilievo nel determinare il grado di imitabilità di una competenza è la disponibilità delle informazioni. Le competenze che derivano da fattori dell’impresa aventi una natura ambigua o in qualche modo nascosta sono difficilmente decifrabili da soggetti esterni, quindi poco imitabili. Si fa qui riferimento in particolare alla conoscenza di tipo “tacito”: intesa come quel tipo di conoscenza che mette in grado il suo possessore (individuo, gruppo, organizzazione più o meno complessa) di compiere determinate attività, anche in modo eccellente, pur essendo solo parzialmente o addirittura affatto codificata e quindi comunicabile esplicitamente ad altri.11 11

Uno dei primi autori ad aver rilevato questa dimensione della conoscenza è Polanyi. Si veda in particolare: Polanyi M. (1967).

trasferibilità replicabilità

conoscenza tacita

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Parte I La strategia nel sistema impresa

asset mass efficiency

meccanismo di attrazione

interconnectedness of asset stock complementarietà delle risorse

causal ambiguity

La difficoltà di imitazione deriva anche da due particolari proprietà che possono caratterizzare le risorse e competenze distintive, evidenzate da Dierickx e Cool (1989). La prima di queste proprietà è indicata con il termine di asset mass efficiency: esso descrive il fenomeno in base al quale il raggiungimento presso un certo soggetto di un certo livello di una determinata risorsa o competenza tende ad attivare un meccanismo di attrazione di nuovi flussi di quella stessa risorsa o competenza verso lo stesso soggetto. Questo effetto è enfatizzato in presenza di esternalità di rete. La seconda proprietà è indicata come interconnectedness of asset stock: essa descrive un meccanismo analogo, basato non tanto sulla quantità accumulata di una stessa risorsa, quanto sulla complementarietà delle risorse controllate. Il possesso di un livello adeguato di una certa risorsa innesta un circolo virtuoso che favorisce l’attrazione di risorse complementari alla prima. In sintesi, l’incremento della quantità di una risorsa può derivare dal precedente livello di quella risorsa già raggiunto o dal livello di altre risorse complementari di cui l’impresa ha già il controllo. Questi due meccanismi evidenziano il rilievo della strategia di “muovere per primi” ai fini della creazione e del mantenimento di una posizione di vantaggio competitivo. L’agire per primi genera alcuni fattori di vantaggio: anticipa la discesa lungo la curva di esperienza; permette di sviluppare la reputazione (per la quale valgono i due effetti descritti sopra), permette di avvantaggiarsi di eventuali costi di conversione (switching costs) per i clienti; genera esternalità di rete.12 Si intuisce che tanto più rilevanti sono questi meccanismi, quanto più l’impresa che per prima ha raggiunto il livello di risorse necessario per la loro attivazione tenderà ad avere un controllo di tali risorse piuttosto stabile nel tempo. Le azioni strategiche per allungare la durata della competenza distintiva L’impresa può cercare di aumentare la durata del carattere distintivo di una competenza agendo sui fattori che riducono la sua trasferibilità o replicabilità. In questo senso, essa agisce sulle determinanti di causal ambiguity13 che rendono difficile la comprensione da parte di soggetti esterni delle interrelazioni di causa ed effetto tra certe azioni organizzative relative all’utilizzazione delle risorse, la maturazione di determinate competenze distintive, l’attuazione di una strategia competitiva e l’acquisizione di una posizione di vantaggio.

12 Un’esternalità di rete si manifesta ogni volta che il beneficio che un singolo consumatore trae dall’utilizzazione di un prodotto o di un servizio è positivamente correlato al numero di consumatori che già utilizzano quel prodotto o servizio o che si prevede lo faranno in futuro. I servizi di telecomunicazione o un software per computer sono due casi tipici in cui le esternalità di rete hanno un effetto decisivo. Quando esistono queste esternalità, l’arrivo di nuovi consumatori nella “rete” è favorito dal numero di quelli che già ne fanno parte perché questo numero incide sul beneficio che i nuovi arrivati possono trarre dalla loro appartenenza. Al tempo stesso, quell’arrivo crea un beneficio “esterno” ai consumatori che ne fanno già parte. È chiaro che se le esternalità di rete sono significative, l’aver acquisito per primi un consistente stock di clienti rappresenta un attrattore di nuovi clienti e un vantaggio notevole verso le imprese followers. Si osserva, infine, che nei business dove l’effetto delle esternalità di rete è rilevante, le imprese che entrano per prime sono incentivate a fissare un prezzo relativamente basso per favorire una rapida crescita del livello di clienti e avvantaggiarsi delle esternalità di rete rispetto alle imprese followers. 13 Su questo concetto, si veda: Lippman S., Rumelt R.P. (1982).

Capitolo 3 Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa

L’ambiguità causale può però agire anche tra le unità organizzative della stessa impresa o tra imprese appartenenti allo stesso gruppo, determinando difficoltà nel trasferimento interno di competenze e nella condivisione dei fattori di vantaggio competitivo. L’impatto dei fattori ambientali e dell’azione dei concorrenti sulla durata della competenza distintiva Le competenze distintive sono anche soggette all’andamento di condizioni esterne all’impresa. In particolare, l’evoluzione della tecnologia può avere un effetto decisivo per un verso sul rilievo che una certa competenza ha nel determinare un vantaggio competitivo; per l’altro, sull’emergere di nuove tipologie di competenze che possono rendere meno rilevanti quelle attualmente “distintive”. Anche l’evoluzione della composizione del mercato e delle esigenze espresse dai soggetti che ne fanno parte può rendere obsolete determinate competenze in precedenza importanti. Infine occorre considerare l’azione di un concorrente. Questi può agire per far evolvere il contesto competitivo in una direzione che rende non più particolarmente rilevanti determinate competenze distintive dominate da altri. Per esempio, un obiettivo importante dell'attività di “lobbying” è proprio il cambiamento di una determinata legislazione in modo da rendere possibili nuove modalità di offerta, che rendono rilevanti un diverso tipo di competenza distintiva.

evoluzione della composizione del mercato azione dei concorrenti

3.2.5 Le competenze dinamiche Le competenze dinamiche sono alla base della capacità dell’impresa di mantenere un vantaggio competitivo anche in mercati caratterizzati da cambiamenti continui e relativamente poco prevedibili. Esse spiegano la capacità dell’impresa di innovare la propria offerta e attuare i cambiamenti strategici e organizzativi richiesti per anticipare o rispondere in maniera adeguata all’evoluzione dell’ambiente competitivo. Rappresentano, quindi, le condizioni che permettono all’impresa di attuare al meglio i propri processi operativi in contesti caratterizzati da forte dinamismo.14 Esse sono alla base della capacità dell’impresa di evitare la trappola delle competenze: il rischio di concentrarsi troppo sullo sviluppo delle competenze necessarie per attuare una certa strategia e sul loro presidio una volta raggiunto il vantaggio competitivo, ponendo poca attenzione al loro rinnovo per far fronte ai cambiamenti dell’ambiente competitivo. Teece, Pisano e Shuen definiscono le capacità dinamiche di un’impresa come i fattori che determinano la sua abilità di adeguare (in modo più o meno radicale, rapido e anticipato) le proprie competenze distintive su cui essa basa il vantaggio competitivo (Teece, Pisano, Shuen, 1997). Madok (2001) riprende lo stesso concetto, individuando nelle competenze dinamiche le abilità dell’impresa di integrare, riconfigurare e riorganizzare rapidamente le risorse firm specific al fine di innovare il patrimonio di competenze chiave che le permettono di

14

Sul concetto di “competenza dinamica”, si vedano i contributi: Teece D. J., Pisano (1994), Eisenhardt K.M., Martin J.A. (2000).

innovare la propria offerta attuare i cambiamenti strategici e organizzativi

integrare, riconfigurare e riorganizzare rapidamente le risorse firm specific

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90

Parte I La strategia nel sistema impresa

mantenere una posizione di vantaggio in un contesto ambientale soggetto a continui cambiamenti. In tale prospettiva, assume particolare rilievo anche la capacità dell’impresa di fertilizzare le proprie risorse e competenze con quelle detenute da altri attori. La capacità di integrazione e coordinamento, di cui si è parlato a proposito della creazione delle competenze, si allarga al di fuori del sistema impresa; non riguarda solo ciò che questa controlla direttamente, ma anche ciò che può essere apportato da soggetti esterni. Questo principio assegna particolare rilevanza alla capacità dell’impresa di stabilire relazioni cooperative con altri soggetti e di assorbire le conoscenze da questi originate e utili all’innovazione del suo patrimonio di competenze.15 Si osserva che l’idea di competenza dinamica si collega abbastanza chiaramente alla concezione schumpeteriana della capacità (tipica dell’imprenditore) di innovare continuamente il proprio modo di svolgere determinate attività e di produrre una certa offerta, superando in continuazione lo status quo attraverso risposte creative (Schumpeter, 1934). In concreto, le competenze dinamiche si manifestano in specifici processi interni volti a: integrare risorse e competenze



riconfigurare le risorse



acquisire e scambiare risorse



integrare risorse e competenze; per esempio, nello sviluppo di nuovi prodotti o nel processo di elaborazione di decisioni strategiche, in cui si sintetizzano capacità ed esperienze provenienti da varie aree aziendali, attraverso appropriati meccanismi di coordinamento; riconfigurare le risorse all’interno del sistema aziendale; in particolare, attivando procedure di trasferimento di conoscenze; condivisione, brokeraggio interno; acquisire e scambiare risorse; si sviluppano alleanze attraverso cui accedere a nuove competenze o valorizzare risorse in precedenza poco utilizzate.

Va sottolineato che le competenze dinamiche non generano il vantaggio competitivo; rappresentano, piuttosto, una condizione necessaria per mantenerlo nel tempo.

condizioni di ipercompetizione

cambiare in modo coerente

Competenze dinamiche e ipercompetizione Le competenze dinamiche sono particolarmente necessarie quando nell’ambiente rilevante dell’impresa si manifestano condizioni di ipercompetizione, per cui i fattori di vantaggio competitivo sono tendenzialmente molto instabili e poco durevoli. In questa situazione, piuttosto che proteggere le competenze distintive per difendere una condizione di forza che comunque verrebbe erosa, l’impresa deve fare evolvere la natura stessa delle proprie competenze per “inventare” nuove posizioni di vantaggio, con comportamenti che in prima battuta potrebbero anche risultare non ottimali. In questa prospettiva, la sola fonte di vantaggio competitivo realmente sostenibile è la capacità di cambiare in modo coerente con l’evoluzione dell’ambiente esterno e mantenendo la massima flessibilità strategica ed organizzativa. Per affrontare con successo il cambiamento ambientale, l’impresa deve disporre di quelle competenze dinamiche che le consentono di creare, modificare,

15 Sulla capacità di “assorbimento” e di combinazione interna per innovare il patrimonio di conoscenze disponibili, si vedano: Cohen, Levinthal (1990); Kogut, Zander (1992).

Capitolo 3 Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa

ricombinare le risorse e le competenze esistenti per produrre nuove condizioni di vantaggio competitivo. Le competenze dinamiche rappresentano, quindi, la capacità dell’impresa di produrre nuove competenze distintive, o di introdurre modi innovativi di utilizzare le risorse e competenze a sua disposizione per rispondere efficacemente alle mutate regole del confronto concorrenziale.16 Competenze dinamiche e path dependence Vi sono però diversi fattori che limitano l’effettiva possibilità per l’impresa di utilizzare le competenze dinamiche. In primo luogo, occorre considerare l’effetto di path dependence, connaturato con l’attuazione di qualsiasi strategia competitiva e con lo sviluppo di competenze distintive. La maturazione di determinate risorse distintive e la conseguente attuazione di una certa strategia competitiva determinano un “sentiero” evolutivo a cui l’impresa è naturalmente vincolata almeno per un determinato intervallo temporale. Tale vincolo può essere più o meno forte in funzione delle seguenti condizioni:

produrre nuove competenze distintive

path dependence

1. l’entità e l’idiosincraticità degli investimenti effettuati in relazione a quella strategia competitiva; 2. il rilievo organizzativo ed economico delle routine in essere; 3. la storia dell’impresa. Tanto più rilevanti sono questi fattori, quanto più forte è la dipendenza dal percorso strategico intrapreso e quindi intrinsecamente meno forte l’azione delle competenze dinamiche. Cambiamento e continuità: il superamento di una contraddizione apparente Le condizioni connesse all’ipercompetizione e i vincoli posti dal meccanismo di path dependence e dalle risorse complementari sembrano esporre l’impresa a spinte profondamente contrastanti. A un’analisi più attenta, si osserva invece che cambiamento e stabilità non sono necessariamente in contraddizione (Cafferata, 1995). Il mutamento non necessariamente implica il totale superamento delle raggiunte condizioni di stabilità. La stabilità, infatti, non è resistenza al mutamento; così come il mutamento non è annullamento di ogni fattore di stabilità. Il punto di convergenza tra i due termini della questione sta nell’esistenza di fattori-perno attorno ai quali l’organizzazione mantiene aspetti di continuità anche quando è attraversata da profondi mutamenti strategici e organizzativi. La conoscenza profonda costituisce uno di questi fattori-perno, in quanto determina la capacità dell’impresa di ridisegnare le proprie routine organizzative in relazione al cambiamento delle condizioni interne e/o esterne. La figura dell’imprenditore fortemente coinvolto nell’impresa rappresenta un ulteriore fattore di continuità particolarmente significativo proprio nelle fasi in cui l’impresa attraversa radicali trasformazioni. Analogo rilievo assumono il sistema di valori e il capitale sociale dell’impresa.

16

Anche in questo caso è chiara la corrispondenza logica con la conoscenza “profonda” che, ricordiamo, rappresenta la conoscenza per innovare la conoscenza superficiale e generarne una più coerente con le esigenze prodotte dal cambiamento ambientale.

conoscenza profonda

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Parte I La strategia nel sistema impresa

3.3 Le risorse, le competenze distintive e l’orientamento strategico Risorse e competenze distintive possono essere considerate, da un lato, il riferimento di base della strategia, dall’altro lato il suo oggetto primario.

Assumere che l’impresa raggiunge un vantaggio competitivo ed evolve positivamente sulla base della disponibilità, efficace utilizzazione e rinnovo nel tempo di un certo insieme di competenze distintive implica che queste siano riferimento primario e oggetto principale della strategia d'impresa (Figura 3.3). La definizione dell’orientamento strategico deve, dunque, essere basata sulle risorse e competenze distintive di cui l’impresa dispone. La strategia dell’impresa consiste nel valorizzare nel modo migliore tali risorse e competenze distintive, in relazione alle condizioni del contesto in cui essa opera e agli obiettivi che intende perseguire. Questa valorizzazione ha una finalità duplice: verso l’esterno, nel determinare una posizione di vantaggio competitivo per l’impresa; verso l’interno, nel favorire il processo di auto-creazione delle risorse dell’impresa (sviluppo auto poietico). Dal secondo punto di vista, qualsiasi strategia è primariamente orientata al rafforzamento del patrimonio di risorse controllate dall’impresa e al suo rinnovo di fronte al cambiamento delle dinamiche competitive. La funzione essenziale della strategia consiste, dunque, nell’individuare le migliori modalità di acquisizione e integrazione delle risorse, e quindi nell’attuare un efficace percorso di sviluppo delle competenze distintive. Questa funzione richiede la rilevazione delle competenze esistenti all’interno dell’impresa e il disegno di una mappa sistematica delle attività che l’impresa svolge in maniera distintiva rispetto ai concorrenti. Il problema strategico non consiste, quindi, tanto nella scelta di una serie di azioni di medio-lungo termine che possano determinare una posizione favo-

Strategia

Acquisizione risorse e sviluppo e competenze distintive

Sviluppo autopoietico

Figura 3.3 La strategia basata sulle competenze distintive.

Valorizzazione e sfruttamento delle risorse disponibili

Strategia competitiva

Vantaggio competitivo

Capitolo 3 Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa

revole dell’impresa nel suo mercato. Riguarda, in primo luogo, la creazione di un patrimonio di risorse e competenze distintive e, in secondo luogo, la capacità di valorizzarne al massimo le potenzialità competitive. Quinn (1992) utilizza il termine intelligent enterprise per descrivere, appunto, l’azienda che compete, concentrandosi sullo sviluppo di conoscenze distintive e sulla realizzazione delle attività che sfruttano al meglio tali conoscenze. Il successo di questo tipo di impresa dipende dal modo in cui, attraverso le sue scelte strategiche, essa realizza un efficace processo di sviluppo di competenze distintive e la loro ottimale utilizzazione nell’ambiente competitivo. La sostenibilità del vantaggio competitivo17 dipende in prima battuta dalla durabilità delle competenze chiave di cui l’impresa è riuscita a dotarsi; in secondo luogo, dalla capacità (dinamica) di far evolvere tali competenze chiave coerentemente con il modificarsi dei fattori critici di successo nel settore. Si intuisce perché a questo approccio alla strategia (e al filone della dottrina che lo sostiene) sia stato dato il nome di resource based view o resourced based theory.18 I contenuti della strategia, intesa come valorizzazione e sfruttamento delle risorse e competenze distintive disponibili possono articolarsi su una o più delle seguenti quattro linee di attività (Figura 3.4). 1. Focalizzazione delle risorse e delle competenze distintive su alcune attività o aree di business considerate prioritarie in relazione agli obiettivi aziendali. Questo orientamento è finalizzato a raggiungere più facilmente l’eccellenza nelle attività che l’impresa ritiene cruciali per il proprio successo e nei segmenti di business che valuta maggiormente promettenti. 2. Combinazione. L’utilizzazione congiunta di un determinato insieme di risorse e competenze può accrescere il valore potenziale dell’offerta e dare vita ad aspetti di originalità su cui basare la strategia competitiva di differenziazione.19 3. Leveraging delle risorse e delle competenze distintive disponibili. Comporta l’individuazione di nuove aree di business o contesti geografici dove poter utilizzare le competenze distintive già sfruttate con successo nel mercato di origine. Il “far leva” sulle competenze distintive già sperimentate

Acquisizione risorse e sviluppo competenze

Accumulazione Integrazione

17

Rinnovo Conservazione

intelligent enterprise

focalizzazione

combinazione

leveraging

Valorizzazione e sfruttamento delle risorse e delle competenze

Focalizzazione Leveraging

Replicazione Combinazione

Sul concetto di vantaggio competitivo “sostenibile”, si veda: Ghemawat P. (1986). Alcuni tra i primi contributi, che rivisitando le teorie della Penrose hanno avviato la prospettiva resource based, sono: Wernerfielt B. (1984), Barney J.B. (1986). 19 I contenuti di questa strategia sono approfonditi nel Capitolo 7. 18

93

Figura 3.4 I contenuti concreti della strategia nella prospettiva delle competenze distintive.

Parte I La strategia nel sistema impresa

94

replicazione

con successo rappresenta un meccanismo basilare della strategia di diversificazione. 4. Replicazione interna delle competenze distintive. È fondamentale per poter sfruttare determinate competenze distintive in ambiti competitivi molto estesi. Il nocciolo della strategia di “replicazione” consiste nella trasformazione degli elementi di conoscenza tacita della competenza in elementi di conoscenza esplicita utilizzabile in maniera omogenea in tutte le parti del sistema aziendale. Anche la strategia intesa come acquisizione di risorse e sviluppo delle competenze distintive, si caratterizza in quattro azioni.

accumulazione

integrazione

conservazione

rinnovo

L’impresa si distingue dai concorrenti perché punta su risorse e competenze differenti da quelle prese in considerazione o possedute dai concorrenti.

resource picking capability building

1. Accumulazione. Si è osservato in precedenza che la specificità del patrimonio di risorse tangibili e intangibili di un’impresa dipende fondamentalmente dal modo in cui queste sono accumulate nel tempo al suo interno. La capacità di gestire in maniera ottimale il processo di accumulazione è dunque fondamentale per rafforzare il patrimonio di risorse distintive. 2. Integrazione. Le competenze distintive sono il risultato del modo in cui le risorse e altre competenze sono collegate tra loro e reciprocamente fertilizzate in relazione allo sviluppo di fattori di vantaggio competitivo e alle condizioni dell’ambiente in cui l’impresa si trova a operare. 3. Conservazione. I fattori che rendono distintiva una risorsa possono essere stabilizzati e in qualche misura protetti dalla possibile appropriazione o replicazione da parte dei concorrenti. La conservazione si attua attraverso l’attivazione dei cosiddetti “meccanismi di isolamento” osservati in precedenza, tra i quali: lo sviluppo di fattori di ambiguità, la ricerca di condizione di protezione legale, la co-evoluzione di risorse complementari. 4. Rinnovo. Oltre un certo limite temporale o a fronte di significativi cambiamenti del quadro competitivo, la conservazione delle risorse distintive può essere del tutto inefficace; è preferibile orientarsi verso il rinnovo del proprio patrimonio di competenze chiave, utilizzando le competenze dinamiche. Condizione fondamentale per l’acquisizione del vantaggio competitivo è la capacità dell’impresa di porre in essere una strategia di acquisizione e sviluppo delle risorse diversa da quella dei concorrenti, sulla base di un’interpretazione originale del loro potenziale. L’impresa si distingue dai concorrenti perché punta su risorse e competenze differenti da quelle prese in considerazione o possedute dai concorrenti. In questo senso, il vantaggio competitivo di un’impresa è anche il risultato di un’asimmetria informativa rispetto ai rivali o anche di fattori fortuiti per i quali essa è in grado di vedere prima e meglio degli altri le condizioni rilevanti per dominare il mercato. La dottrina aziendalistica individua in proposito le particolari abilità di resource picking e capability building. La prima consiste nella abilità di saper individuare e acquisire meglio e più rapidamente dei concorrenti le risorse che hanno maggiore potenziale di creazione di valore. La seconda riguarda la capacità di sviluppare le competenze distintive sfruttando al meglio il potenziale delle risorse controllate e di saper innovare tali competenze per rispondere ai cambiamenti del contesto ambientale, quando questi si manifestano.

Capitolo 3 Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa

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Sintesi L’approccio gestionale “Resource based” descritto nel capitolo è centrato sulle risorse e sulle competenze dell’impresa, in particolare quelle “distintive”. Le risorse che un’impresa può detenere si distinguono in tangibili, intangibili e umane. A loro volta, quelle intangibili possono assumere diverse configurazioni a seconda della loro natura. Poiché queste sono frutto di un processo di accumulazione sono, ancor più di quelle tangibili, di tipo firm specific e quindi imperfettamente mobili. Poiché tali risorse, prese singolarmente, non determinano la capacità competitiva dell’impresa, occorre che queste siano integrate e coordinate grazie alla capacità organizzativa. Attraverso i processi di integrazione e coordinamento l’impresa acquisisce, infatti, le proprie competenze, che hanno diversi livelli di complessità e di rilevanza. Le competenze sono alla base della posizione di vantaggio competitivo quando hanno natura “distintiva”. Tale natura evolve nel tempo. La natura delle competenze, inoltre, deve tenere conto dell’ambiente esterno in cui l’impresa opera. Per far fronte ai cambiamenti del contesto, sono rilevanti le “competenze dinamiche”, attraverso le quali l’impresa riesce a far evolvere quelle distintive, rinnovando così nel tempo le condizioni su cui poggia il proprio vantaggio competitivo. La strategia aziendale è dunque focalizzata sull’acquisizione e sviluppo di competenze e sulla loro valorizzazione e sfruttamento in chiave competitiva.

Domande ed esercizi Domande di verifica 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

12. 13. 14. 15.

Come si svolge il processo di accumulazione delle risorse all’interno dell’impresa. Indicare alcuni esempi di risorse intangibili. Che cosa si intende e che rilievo assume il social capital di un’impresa. Definire la risorsa “fiducia” di un’impresa. Indicare e descrivere le determinanti della reputazione di un’impresa. Spiegare il concetto di risorsa distintiva. Indicare le condizioni che determinano la durata di una risorsa distintiva. Quale ruolo assumono le “competenze dinamiche”? Spiegare il concetto di “path dependence”. Indicare i contenuti della strategia basata sulle competenze distintive. Spiegare i contenuti innovativi della resource based theory rispetto agli approcci precedenti negli studi sulla strategia aziendale. Per quali ragioni nelle aziende moderne le risorse intangibili assumono un ruolo sempre più rilevante? Perché la “difesa” delle risorse distintive rischia di essere una strategia inefficace? Il sistema di valori di un’impresa può rappresentarne una risorsa distintiva; in quale modo e a quali condizioni? Spiegare la connessione tra risorse e competenze.

Test a risposta multipla 1.

Il capitale sociale è una risorsa che dipende direttamente da: □ a. l’insieme di relazioni esterne attivate dall’impresa con i sistemi appartenenti al suo ambiente di appartenenza. □ b. l’insieme di competenze detenute dalle persone che operano all’interno dell’impresa. □ c. l’insieme di clienti sui quali l’impresa può contare.

2.

Per generare una posizione di vantaggio competitivo a favore dell’impresa che le detiene, le risorse devono avere tre proprietà: □ a. intangibilità, rilevanza, deperibilità. □ b. rilevanza, deperibilità, scarsità. □ c. scarsità, rilevanza, appropriabilità.

3.

La capacità organizzativa è: □ a. un insieme di routine organizzative sviluppate nell’ambito dell’impresa. □ b. un insieme di schemi cognitivi attraverso i quali l’impresa raggiunge il proprio vantaggio competitivo. □ c. il fattore che determina il modo in cui le risorse e le competenze dell’impresa vengono integrate e coordinate.

96

Parte I La strategia nel sistema impresa

4.

Quali dei seguenti fattori non influenza la durata di una competenza distintiva? □ a. Il comportamento dell’impresa. □ b. Il comportamento dei concorrenti. □ c. Il sistema di gestione e controllo adottato dall’impresa.

5.

L’impresa può influire sulla durata del potere distintivo di una competenza attraverso l’ausilio: □ a. della catena del valore. □ b. dei meccanismi di isolamento. □ c. dell’effetto di path dependence.

6.

Il capitale intellettuale di un’impresa è un termine usato per indicare: □ a. l’insieme delle conoscenze delle persone che lavorano nell’impresa.

□ b. l’insieme delle risorse intangibili dell’impresa. □ c. l’insieme delle proprietà intellettuali dell’impresa e protette da appositi strumenti normativi (brevetti, marchi ecc.). 7.

Le competenze dinamiche: □ a. servono per raggiungere più rapidamente un vantaggio competitivo. □ b. servono per comprendere il dinamismo dei mercati. □ c. servono per rinovare le competenze distintive coerentemente con i cambiamenti del contesto.

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La gestione strategica

4

Matteo Caroli

Gli obiettivi del capitolo Questo capitolo fornisce le basi concettuali del pensiero strategico nella gestione d'impresa e gli strumenti per l'elaborazione delle strategie competitive e di collaborazione. Fornisce quindi le basi fondamentali per la gestione strategica dell'impresa, approfondendo anche i nodi cruciali rispetto ai grandi cambiamenti in atto del contesto ambientale, tecnologico e sociale in cui le imprese operano.

4.1 L’elaborazione della strategia In linea generale, un soggetto agisce in maniera strategica quando si trova in situazioni caratterizzate da incertezza (varietà e variabilità dei fenomeni che deve affrontare); interdipendenza con altri soggetti e possibilità di esercitare un potere effettivo ma limitato sugli attori con i quali interagisce. Nella strategia, l’impresa delinea (in modo non necessariamente esplicito e formalizzato) un percorso evolutivo per gestire le interdipendenze con altri soggetti nel modo più efficace, rispetto alle dinamiche del contesto in cui si trova a operare e agli obiettivi che intende perseguire e cercando di sfruttare nel modo migliore i fattori di forza a propria disposizione. L’elaborazione di una strategia è, dunque, condizionata da quattro fattori (Figura 4.1): 1. 2. 3. 4.

elaborazione di una strategia

l’ambiente in cui l’impresa opera; le sue condizioni interne, in particolare il complesso di risorse disponibili; la vision, la mission e i conseguenti obiettivi di medio termine; il sistema di valori degli attori chiave dell’impresa e in primo luogo di coloro che esercitano le funzioni imprenditoriali.

Per quanto riguarda l’ambiente, va considerata la struttura del settore, le dinamiche del mercato e le condizioni di carattere più generale, anche non strettamente economiche, che comunque influenzano l’evoluzione dell’impresa. La strategia può cercare di influenzare l’ambiente competitivo in maniera tale da renderlo più coerente possibile con i propri fattori di forza. Delineando una certa strategia competitiva, l’impresa definisce il perimetro del proprio ambiente rilevante, quindi i soggetti con cui si troverà a interagire in modo (cooperativo o antagonistico) più intenso. Attraverso un comportamento proattivo, essa può anche far evolvere

ambiente

Parte I La strategia nel sistema impresa

100

AMBIENTE

CONDIZIONI INTERNE

VISION, MISSION, OBIETTIVI

Cambiamento strategico

STRATEGIA

CORE ACTIVITIES

SISTEMI DI VALORI

MODELLO ORGANIZZATIVO

CORE BUSINESS

Implementazione

Figura 4.1 Il processo logico di elaborazione della strategia.

vision mission sistema di valori

I contenuti di una strategia non sono definibili in maniera univoca a livello generale, essendo legati al grado di complessità che l’impresa deve affrontare e alla qualità delle competenze di cui essa dispone.

RISULTATI

una parte dell’ambiente verso le condizioni a essa più favorevoli; per esempio, in una direzione tale da neutralizzare i fattori di forza dei propri avversari. Le condizioni interne si riferiscono all’assetto strutturale dell’azienda, in particolare alla sua dimensione, all’ambito geografico delle sue attività, alla struttura organizzativa e al complesso di risorse e competenze disponibili, a partire da quelle che hanno natura “distintiva” e possono essere all’origine di un vantaggio competitivo. La strategia individua sempre un percorso volto al raggiungimento di una vision, all’attuazione di una certa mission1 e di finalità di medio-lungo termine. Ne deriva che l’elaborazione strategica risente degli indirizzi di fondo e dei conseguenti obiettivi di medio-lungo termine fissati dall’imprenditore e dell’equilibrio tra questi e quelli degli altri stakeholders rilevanti. Bisogna, infine, tenere conto del sistema di valori consolidati nell’impresa, sia perché questi influenzano la determinazione degli stessi obiettivi, sia perché determinano i comportamenti prevalenti tra gli attori aziendali sia sulle questioni strategiche sia nella gestione quotidiana. Tra i valori, particolare importanza assume l’orientamento allo sviluppo sostenibile2 dell’impresa da cui derivano obiettivi e comportamenti strategici volti a ottimizzare, insieme al risultato economico, le performance ambientali e sociali. I contenuti di una strategia non sono definibili in maniera univoca a livello generale, essendo legati al grado di complessità ambientale che l’impresa deve 1 2

I concetti di “vision” e “mission” sono approfonditi nel Paragrafo 5.3. La gestione sostenibile dell’impresa è argomento del Capitolo 2.

Capitolo 4 La gestione strategica

101

affrontare e alla qualità delle competenze di cui essa dispone. Il disegno strategico elabora la business idea, comprendendo tra l’altro la definizione: • • • • •

dell’ambito competitivo in cui l’impresa intende concentrare i suoi sforzi (il core business); dei “drivers strategici” intesi quali fattori decisivi nell’evoluzione sostenibile dell’impresa e del suo posizionamento nel contesto competitivo; delle modalità attraverso cui intende raggiungere e rinnovare nel tempo, una posizione di vantaggio competitivo; delle attività della catena del valore ritenute fondamentali per raggiungere la posizione di vantaggio competitivo; dei meccanismi strutturali di acquisizione e utilizzazione del complesso di risorse necessarie per operare, nonché di sviluppo delle risorse distintive.

L’elaborazione di una strategia può manifestarsi attraverso una procedura prestabilita che ne esplicita i contenuti, portando alla loro rappresentazione in un documento formale, normalmente indicato come il “piano strategico”.3 La definizione di una strategia è sempre integrata alla messa a punto di un modello organizzativo. È certamente essenziale allineare strategia e organizzazione. Tra gli altri, Saloner, Sheperd e Podolny (2001) sottolineano la necessità di garantire coerenza tra le modalità di raggiungimento del vantaggio competitivo e l’organizzazione. Per avere successo, una strategia deve dunque essere coerente con le caratteristiche organizzative dell’impresa, il suo patrimonio di risorse e il contesto competitivo ove essa opera. La strategia, inoltre, deve essere fortemente collegata all’operatività aziendale: dovrebbe delineare i principi guida, le priorità, l’orientamento su determinate questioni chiave, le eventuali forti discontinuità e le possibili invarianti nel comportamento aziendale; tutto questo finalizzato a far sì che la gestione operativa attui costantemente le finalità stabilite dagli stakeholders, sfruttando nel modo migliore le condizioni interne ed esterne con cui le scelte aziendali devono via via fare i conti. È abbastanza comune, invece, distinguere il momento della decisione strategica e quello della sua implementazione operativa, considerando la prima focalizzata sul cosa fare e la seconda sul come farlo. Questa distinzione è accettabile sul piano logico a condizione che non se ne faccia derivare un primato del momento della elaborazione strategica su quello della sua implementazione. Va, infatti, sottolineato che anche con una visione strategica incerta, l’impresa può avere successo, soprattutto in condizioni di forte instabilità, se riesce a sviluppare notevole efficacia operativa;4 al contrario una visione strategica anche molto chiara non è generalmente sufficiente a raggiungere risultati positivi se manca un’adeguata capacità di implementazione.

3

Pianificazione e piano strategico sono argomenti trattati nel Capitolo 7. Un noto esempio – non aziendale – di successo anche in mancanza di strategia chiara è la vicenda di Cristoforo Colombo. È noto che il navigatore genovese nel suo grande viaggio nelle Americhe fu mosso da obiettivi strategici molto diversi da quelli che poi raggiunse; grazie alle sue notevoli doti marinare e alla capacità di adeguarsi alle opportunità offerte da uno scenario non previsto, raggiunse un risultato straordinario ma completamente diverso da quello al quale tendeva la sua strategia. 4

piano strategico modello organizzativo

La strategia deve essere fortemente collegata all’operatività aziendale.

102

Parte I La strategia nel sistema impresa

principio di sostenibilità

cambiamento strategico

Al cambiamento strategico deve corrispondere il cambiamento organizzativo.

L’efficacia della strategia (e del modo in cui è implementata) è misurata con riferimento al valore economico creato dall’impresa nel medio-lungo termine. Nella prospettiva resource based, tale efficacia va considerata anche in relazione al rafforzamento del patrimonio di risorse disponibili e soprattutto di risorse distintive. Il principio di sostenibilità dell’impresa fornisce un terzo essenziale criterio per valutare i risultati di una strategia; parallelamente alla creazione di valore economico, essa dovrebbe orientare l’impresa al raggiungimento di adeguati risultati nel miglioramento dell’ambiente ecologico e delle condizioni di tutti gli stakeholders. Le performance conseguenti l’attuazione di una strategia modificano le condizioni interne dell’impresa; possono influenzare anche un’evoluzione degli obiettivi di lungo termine e persino della vision e dei valori aziendali. I cambiamenti degli elementi alla base dell’elaborazione della strategia possono essere tali da richiederne un adeguamento, eventualmente molto significativo.5 L’elaborazione della strategia è, dunque, un processo relativamente continuo nel tempo per il quale è necessaria anche una capacità di cambiamento. Gli stessi risultati ottenuti in una certa fase di implementazione della strategia, insieme all’evoluzione del contesto competitivo, influenzano la convenienza o addirittura la realizzabilità delle fasi successive del percorso strategico originariamente intrapreso; possono generare nuove opzioni di sviluppo ed eliminarne altre. L’impresa deve sapere comprendere queste nuove condizioni e adottare le misure conseguenti. Al centro del processo di elaborazione della strategia c’è, in questo senso, la valutazione, la scelta e il cambiamento di opzioni inerenti il modo in cui l’impresa può evolvere. Al cambiamento strategico deve corrispondere il cambiamento organizzativo, per quel principio di allineamento fra strategia e organizzazione illustrato prima. La letteratura nel campo dell’organizzazione e la pratica manageriale hanno ampiamente posto in evidenza una serie di fattori di vischiosità che rallentano o impediscono il cambiamento organizzativo che sarebbe necessario a fronte dell’evoluzione della strategia. In estrema sintesi, questi fattori sono: • • • • •

Il cambiamento strategico non deve, tuttavia, essere considerato un imperativo assoluto.

interessi costituiti degli attori aziendali; routine consolidate che spingono l’impresa a perpetuare determinati modi di procedere (soprattutto quando questi si sono mostrati efficienti in un certo contesto); focalizzazione sui clienti e sui concorrenti attuali; avversione “culturale” al cambiamento: mancanza delle competenze necessarie per attuare il cambiamento e operare con efficacia nel nuovo contesto.

Il cambiamento strategico non deve, tuttavia, essere considerato un imperativo assoluto. In primo luogo, perché vi sono dei meccanismi di path dependence che vincolano l’impresa a proseguire lungo il percorso strategico intrapreso anche

5

La necessità di modificare un’originaria strategia deriva anche dal fatto che gli elementi che ne sono all’origine – contesto, condizioni interne, vision obiettivi e valori – sono in continua evoluzione.

Capitolo 4 La gestione strategica

103

quando si manifestano condizioni che lo rendono meno vantaggioso.6 In secondo luogo, perché decisioni strategiche vincolanti, cioè che l’impresa non può revocare se non a prezzo di gravi perdite,7 possono essere assunte proprio per influenzare il comportamento dei concorrenti e, quindi, le dinamiche competitive del settore.

4.2 Il vantaggio competitivo 4.2.1 Il concetto di vantaggio competitivo Il vantaggio competitivo è il risultato di una strategia che conduce l’impresa a occupare e mantenere una posizione favorevole nel mercato (o, più in generale, nel suo ambiente rilevante) in cui opera, e che si traduce in una redditività stabilmente più elevata di quella media dei concorrenti. Esso si manifesta nella capacità dell’impresa di creare un valore per il mercato superiore, sia a quello sviluppato da concorrenti del settore, sia al costo sostenuto per crearlo. Il vantaggio competitivo esprime, quindi, una posizione migliore relativamente ai rivali nello stesso raggruppamento strategico e si manifesta con diversi gradi di intensità. Va sottolineato che per individuare concretamente il vantaggio competitivo, occorre poter delineare in maniera sufficientemente chiara i confini dell’area di business e, quindi, l’insieme degli operatori con i quali una determinata impresa si confronta. In alcuni casi particolari, il vantaggio competitivo deriva da un’unica, specifica condizione, per esempio, una innovazione tecnologica radicale che, applicata al processo produttivo, ne riduce strutturalmente i costi. In linea più generale, il vantaggio competitivo è la risultante di un mix di fattori. I fattori critici di successo L’impresa è in una posizione di vantaggio competitivo quando raggiunge l’eccellenza rispetto ai rivali relativamente a quelli che sono i fattori critici di successo nel mercato di riferimento. Questo concetto è stato introdotto negli studi strategici da Hofer e Schendel (1984), che hanno definito i fattori critici di successo come: «le variabili sulle quali il management può agire con le sue decisioni e che possono incidere in modo consistente sulla posizione competitiva delle imprese all’interno di un settore. Si tratta di fattori che variano da un settore all’altro, ma che nell’ambito di un particolare contesto risultano dall’interazione di due serie di variabili: da un lato, le caratteristiche economiche e tecnologiche di quel contesto […] e dall’altro, gli strumenti competitivi sui quali le varie imprese operanti in quel contesto hanno costruito la propria strategia. Ohmae (1982) sintetizza questo concetto nella risposta che viene data a una domanda molto semplice: «qual è il segreto del successo in questo mercato?». I fattori critici di successo possono, dunque, essere intesi dal punto di vista del mercato o da quello dell’impresa. Nella prima prospettiva, sono determinati 6

Il tema della path dependence è approfondito nel Paragrafo 3.2.5. Esempi tipici di decisioni strategiche vincolanti sono: l’investimento in un notevole incremento di capacità produttiva; la realizzazione di una vasta campagna di comunicazione per accompagnare l’introduzione di nuovi prodotti nel mercato e in generale il sostenere investimenti che danno origine a costi di tipo “sunk”. 7

Il vantaggio competitivo è il risultato di una strategia che conduce l’impresa a occupare e mantenere una posizione favorevole nel mercato (o, più generalmente, nell’ambiente) in cui opera, e che si traduce in una redditività stabilmente maggiore a quella media dei competitori.

vantaggio competitivo

L’impresa è in una posizione di vantaggio competitivo quando raggiunge l’eccellenza rispetto ai rivali relativamente a quelli che sono i fattori critici di successo nel mercato di riferimento.

Parte I La strategia nel sistema impresa

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dagli aspetti che la domanda valuta come più rilevanti per soddisfare i propri bisogni fondamentali e che, di conseguenza, hanno maggiore peso nell’orientare le sue scelte. Per esempio, nei mercati dei beni di consumo alimentare, un fattore critico di successo è costituito dalla presenza del prodotto presso la distribuzione al dettaglio; infatti, l’immediata disponibilità del prodotto ha un peso decisivo nella scelta di acquisto del consumatore, non di rado maggiore di altri fattori come il marchio o (entro certi limiti) il prezzo, che pure possono influenzare notevolmente la percezione di valore del consumatore. Dal punto di vista dell’impresa, i fattori critici di successo sono quegli aspetti della propria organizzazione e della propria offerta che la distinguono dai concorrenti, le consentono di soddisfare in maniera migliore determinate esigenze dei clienti e quindi la portano ad acquisire un vantaggio competitivo.

L’impresa può raggiungere una posizione di vantaggio competitivo se riesce a creare valore in maniera superiore della maggior parte dei concorrenti in un determinato business. beneficio netto costo totale beneficio percepito

La creazione di valore L’impresa ha posizione di vantaggio competitivo quando riesce a creare valore in maniera superiore della maggior parte dei concorrenti in un determinato business. La creazione di valore si manifesta nella differenza positiva tra il beneficio netto (Bn) generato a vantaggio del consumatore meno il costo totale (CT) sostenuto dall’impresa per la sua produzione. Il beneficio netto per il consumatore è determinato dal beneficio percepito meno i costi che il consumatore deve sostenere per accedere al prodotto/servizio e utilizzarlo, e meno i costi di transazione. Il costo totale per l’impresa è determinato dal costo dei materiali e servizi acquisiti dai fornitori più i costi sostenuti dall’impresa per le attività direttamente realizzate al proprio interno (Figura 4.2). Tanto maggiore è la distanza tra beneficio netto e costo totale, tanto maggiore è il valore creato e, quindi, tanto più consistente è il vantaggio competitivo (Figura 4.3). Per massimizzare il valore creato, l’impresa può, dunque, agire su due fronti: 1. aumentare il beneficio netto (incrementando quello percepito o riducendo i costi di accesso, utilizzazione e di transazione), causando a tal fine incrementi di costo meno che proporzionali; 2. ridurre il costo totale (riducendo i costi interni o i costi di approvvigionamento esterno), causando una diminuzione del beneficio netto meno che proporzionale.

Figura 4.2 La creazione di valore. Adattata da: Brandenburger A. M., Stuart H. W. (1996), Value based business strategy, «Journal of Economics and Management» 5, pp.5-24.

Costo fornitori

Costo totale

Valore netto per l’impresa

Figura 4.3 Creazione di valore e prezzo.

Costo fornitori

Costo totale

Beneficio netto

Beneficio percepito

Surplus del consumatore

Prezzo

Beneficio netto

Beneficio percepito

Capitolo 4 La gestione strategica

Il valore conseguente il vantaggio competitivo si traduce in valore netto per l’impresa e/o in surplus per il consumatore, in funzione del prezzo fissato per il prodotto o per il servizio in questione; a seconda di dove viene fissato il prezzo nell’intervallo tra beneficio netto e costo totale, si determina un certo surplus per il consumatore e un certo valore netto per l’impresa. Il prezzo non può essere maggiore del beneficio netto percepito dal consumatore, poiché questo, insieme alla capacità di spesa, determina la sua disponibilità a pagare.8 Un prezzo inferiore al beneficio netto percepito genera un surplus per il consumatore che può indurre lo stesso ad aumentare la sua domanda del bene. Fissare il prezzo più vicino possibile al livello del beneficio netto del consumatore non è necessariamente la strategia migliore per l’impresa. Per massimizzare il valore complessivo l’impresa deve considerare l’impatto di una variazione dell’entità del surplus del consumatore sulla quantità di domanda complessiva; converrà accettare un surplus del consumatore maggiore (fissando un prezzo relativamente più basso) fino al punto in cui l’incremento della domanda risulta più che proporzionale alla riduzione del margine unitario. La determinazione del prezzo deve tenere conto anche di altri due ordini di fattori: in primo luogo, l’impatto della dimensione della domanda sul costo totale. Se un incremento della domanda determinato dall’aumento del surplus del consumatore genera una significativa riduzione dei costi di produzione o di approvvigionamento, può risultare conveniente fissare un prezzo che favorisce il manifestarsi di un certo surplus del consumatore. In secondo luogo, va valutata la reazione a un certo livello di prezzo da parte delle varie forze competitive. La profittabilità complessiva dell’impresa è, dunque, determinata da due fattori:

105

disponibilità a pagare

determinazione del prezzo

profittabilità complessiva dell’impresa

1. l’attrattività dei business in cui l’impresa opera in termini, di profittabilità potenziale; 2. il vantaggio competitivo raggiunto nei vari business in cui l’impresa decide di essere presente. Da questo punto di vista, la strategia risponde a due domande cruciali: • in quali settori/aree di business l’impresa deve essere presente? • in quale modo, in ciascuno dei business dove ha deciso di essere presente, l’impresa raggiunge un vantaggio competitivo, creando maggior valore per il mercato di quello creato dai concorrenti?

4.2.2 Le determinanti e la sostenibilità del vantaggio competitivo Alla base del vantaggio competitivo c’è la capacità dell’impresa di risultare diversa dai concorrenti. Questa diversità può essere determinata dall’efficienza operativa e dal posizionamento strategico. La distinzione sul primo dei due piani indicati comporta che l’impresa svolga le stesse attività dei concorrenti, ma in maniera più efficiente. L’effetto di distinzione che l’impresa può raggiungere su questo piano tende a ridursi nel tempo; all’interno di uno stesso raggruppamento strategico, infatti, si osserva normalmente una certa convergenza almeno tra i principali operatori verso la frontiera tecnologica. Questa convergenza è facilitata da due fenomeni principali: la 8

Questo modello riprende l’impostazione proposta da Ghemawat P., Rivkin J.W. (1998).

efficienza operativa posizionamento strategico L’effetto di distinzione che l’impresa può raggiungere su questo piano tende a ridursi nel tempo.

106

Parte I La strategia nel sistema impresa

crescente diffusione tra le imprese delle best practices, anche grazie all’utilizzazione delle procedure di benchmarking; la frequente condivisione tra le imprese degli stessi fornitori che, particolarmente nei settori dove la strategia di esternalizzazione è molto diffusa, favorisce l’omogeneizzazione dei costi di numerose componenti del prodotto o del servizio finali. La distinzione dai concorrenti tramite il posizionamento strategico L’impresa può distinguersi dai concorrenti anche individuando un posizionamento originale nel mercato obiettivo. Questa originalità può riguardare l’area del mercato a cui l’impresa rivolge la propria offerta o il modo in cui essa interpreta le esigenze dei clienti e sviluppa un’offerta per la loro migliore soddisfazione. M. Porter (1996) sottolinea come la definizione di un certo posizionamento risulti consistente per distinguersi dai concorrenti, se implica la scelta tra tradeoffs.9 In questo modo, l’impresa caratterizza al meglio la propria immagine rispetto a quella dei concorrenti e sviluppa un’offerta coerente con le specifiche aspettative del mercato target che intende soddisfare meglio degli altri. In questa prospettiva, la strategia di posizionamento potrebbe essere definita come la scelta di “cosa non fare”.

L’impresa può essa stessa generare cambiamento, ovvero: innovare.

muovere per primi

Agire per primi significa guidare il cambiamento.

Vantaggio competitivo, diversità e cambiamento La diversità alla base del vantaggio competitivo deriva dal modo in cui l’impresa si rapporta con il cambiamento. L’impresa può essa stessa generare cambiamento, ovvero: innovare. Attraverso l’innovazione, essa acquisisce elementi di diversità che possono riguardare la configurazione della propria offerta, il modo di produrla o di renderla fruibile al mercato, o di farne percepire gli elementi distintivi di valore. L’impresa si trova anche a dover affrontare il cambiamento determinato da altri soggetti nel suo ambiente rilevante; può farlo prima o meglio dei concorrenti e in questo modo rafforzare la valenza dei propri fattori di diversità. L’evoluzione del contesto esterno offre all’impresa l’opportunità di valorizzare al meglio le proprie risorse e competenze distintive, acquisendo così una posizione competitiva in precedenza non raggiungibile. Al contrario, può determinare anche l’obsolescenza di tali risorse e competenze distintive, costringendo l’impresa a predisporre nuovi fattori su cui basare il proprio vantaggio competitivo. L’importanza del cambiamento nella creazione della posizione di vantaggio competitivo apre la riflessione su una questione strategica piuttosto controversa: l’effetto del muovere per primi.10 È noto che negli scacchi, gioco di strategia per eccellenza, la determinazione a quale dei due rivali sono attribuiti i pezzi bianchi (cui spetta il diritto di compiere la prima mossa) costituisce una decisione molto delicata che influenza notevolmente la condotta dei contendenti almeno nella prima parte del gioco. Agire per primi significa guidare il cambiamento; per esempio, introdurre un nuovo prodotto nel mercato, diffondere una tecnologia alternativa, occupare una

9

Un “trade-off” descrive le diverse situazioni in cui «più di una cosa implica necessariamente meno di un’altra». 10 Su questo tema, tra gli altri: Lieberman M., Montgomery D. (1988).

Capitolo 4 La gestione strategica

107

posizione sul mercato non ancora considerata da altri operatori, favorire una certa evoluzione dell’assetto normativo e regolatorio. Occorre però ricordare che l’intensità e la sostenibilità del vantaggio competitivo che deriva dall’attuazione di queste strategie dipende da diverse circostanze, tra cui: • • • • • • •

il rilievo delle economie di apprendimento; l’intensità delle barriere all’entrata e alla mobilità che possono determinarsi dopo l’insediamento del first mover; il livello dei costi di conversione che i clienti sostengono nel caso intendano modificare il fornitore iniziale; la rapidità di diffusione degli standard tecnologici introdotti per primi; l’intensità del controllo che il leader può stabilire sulle fonti di approvvigionamento e sui canali di distribuzione; l’effetto sulla reputazione e sulla percezione di qualità prodotto dal fatto di operare per primi; la probabilità di rapidi e significativi mutamenti delle caratteristiche del mercato e del contesto competitivo.

La sostenibilità del vantaggio competitivo Proprio perché intrinsecamente legato al cambiamento, una posizione di vantaggio competitivo non è immutabile; anzi, tende, in maniera più o meno rapida a modificarsi. Due fattori fondamentali erodono la posizione di superiorità acquisita da un’impresa:

Una posizione di vantaggio competitivo non è immutabile.

1. i cambiamenti dell’ambiente rilevante, in particolare del mercato, che ne modificano i fattori critici di successo; 2. l’azione dei concorrenti volti ad appropriarsi dei fattori determinanti il vantaggio competitivo o ad annullarne l’efficacia sul piano competitivo. Del resto, la stabilità del vantaggio competitivo è direttamente legata alla durata delle risorse e competenze11 distintive da cui esso trae origine. Ghemawat (1986) individua tre fattori tendenzialmente poco imitabili, che rendono la posizione di vantaggio relativamente duratura: 1. la dimensione; 2. l’accesso preferenziale alle risorse critiche o al mercato; 3. i limiti delle opzioni strategiche dei concorrenti. Diverse, intuibili ragioni spiegano perché la dimensione possa costituire una fonte di vantaggio competitivo difficilmente imitabile da altri concorrenti. La dimensione pone l’impresa nella condizione di avvantaggiarsi delle economie di produzione (di scala, di esperienza e di estensione), di esercitare un certo grado di controllo sul mercato, di scoraggiare la concorrenza, di influenzare a proprio vantaggio gli stakeholders e, in particolare, il soggetto pubblico. La dimensione complessiva del mercato pone un limite intrinseco (tanto più stringente quanto più il mercato si avvicina alla sua fase di maturità) al numero di imprese che

11

Si ricorda che la distinzione tra il concetto di “risorsa” e quello di “competenza” è trattato nel Capitolo 3.

dimensione

Parte I La strategia nel sistema impresa

108

controllo delle risorse fondamentali

accesso privilegiato al mercato

posizione degli stessi concorrenti

L’impresa opera in modo che il suo vantaggio competitivo non sia percepito dai rivali.

moral suasion azioni aggressive

possono raggiungere una “grande” dimensione; di conseguenza, rende difficilmente attaccabile l’impresa che ha già raggiunto tale dimensione. Riguardo al controllo delle risorse fondamentali per operare in un certo settore o delle fonti migliori per il loro approvvigionamento, si è già parlato. L’impresa che ha questo controllo pone notevole impegno nel mantenere o rafforzare le condizioni che ne sono alla base. I concorrenti hanno due opportunità di risposta a questa strategia. La prima consiste nell’identificare o creare ex-novo nuove fonti da cui approvvigionarsi delle risorse necessarie; la seconda prevede l’intervento sulle caratteristiche del mercato per ridurre il rilievo delle risorse a cui l’impresa in posizione di vantaggio ha accesso privilegiato. Secondo una logica analoga, l’accesso privilegiato al mercato rappresenta una significativa fonte di vantaggio competitivo. Anche in questo caso, i concorrenti, piuttosto che cercare di raggiungere lo stesso accesso, possono cercare di inventare nuove modalità di interazione con il mercato. Il grande successo delle piattaforme di interazione social con il cliente rappresenta un esempio evidente di vantaggio competitivo basato sul presidio della tecnologia che oggi consente il miglior accesso alla relazione con i clienti. La terza condizione che favorisce una certa stabilità di vantaggio competitivo di un’impresa è la posizione degli stessi concorrenti. Questi possono per varie ragioni trovarsi bloccati su un diverso percorso evolutivo che non permette loro di minacciare i fattori di vantaggio competitivo dell’impresa, quindi nell’impossibilità di seguire la strada che l’ha condotta al vantaggio competitivo. I concorrenti potrebbero trovarsi in questa situazione di svantaggio per diverse ragioni quali per esempio: investimenti fortemente idiosincratici; scarsa capacità di rispondere all’innovazione attuata dall’impresa; vischiosità del loro sistema organizzativo; mancanza delle necessarie risorse e competenze distintive. La strategia di difesa del vantaggio competitivo Oltre all’allungamento della distintività delle proprie competenze, l’impresa può cercare di nascondere la maggiore redditività conseguente al vantaggio competitivo. In pratica, essa opera in modo che il suo vantaggio competitivo non sia percepito dai rivali e, quindi, non sia attaccato, rendendo difficile l’osservazione delle sue conseguenze positive sul risultato economico. Una seconda opzione consiste nell’attuare comportamenti credibili che scoraggiano i rivali dal tentare di raggiungere la stessa posizione dell’impresa. Questi comportamenti possono limitarsi ad azioni di moral suasion o arrivare fino a vere e proprie azioni aggressive che anticipano l’attuazione di un’eventuale strategia competitiva da parte di qualche avversario. L’ipercompetizione e la distruzione creatrice del vantaggio competitivo L’orientamento alla difesa del vantaggio competitivo può essere paradossalmente controproducente12. Nei contesti caratterizzati da cambiamenti continui e radicali le fonti del vantaggio competitivo sono ineluttabilmente instabili; dunque, il tentativo di preservarle non solo rischia di non produrre risultati significativi, ma blocca l’impresa su posizioni che diventano rapidamente obsolete e riduce la sua capacità di cogliere le nuove opportunità competitive. 12

Si ricorda, a proposito, quanto osservato nel Capitolo 3 circa l’importanza delle competenze dinamiche che mettono l’impresa nella condizione di innovare il proprio patrimonio di risorse e capacità distintive.

Capitolo 4 La gestione strategica

Si riprende il concetto di ipercompetizione (D’Aveni, 1994) introdotto nel Capitolo 3, utile per descrivere un ambiente dove l’intensità del confronto competitivo tra gli operatori è molto elevata e produce modificazioni repentine degli assetti del mercato e dei relativi fattori critici di successo. In una situazione di questo genere, i vantaggi acquisiti tendono a essere instabili; l’impresa, più che cercare di proteggere le posizioni raggiunte, deve riuscire a innovare in continuazione le fonti del suo vantaggio competitivo, a guidare le modificazioni delle regole del gioco competitivo. Per la stessa ragione, per intaccare la leadership di un rivale, più che un comportamento imitativo, occorre attuare azioni innovative che rendono obsolete le fonti di vantaggio dell’avversario e spostano il confronto competitivo su un terreno più favorevole. Gli impegni vincolanti, i limiti al cambiamento strategico e le opzioni future L’enfasi sulla flessibilità strategica, sulla capacità di rinnovare continuamente le fonti del proprio vantaggio competitivo deve tener conto dei vincoli conseguenti le scelte strategiche assunte in passato. L’implementazione di una strategia competitiva comporta naturalmente l’avvio di investimenti in attività tangibili e intangibili che impegnano il comportamento futuro dell’impresa. In particolare, questi investimenti delineano un percorso di sviluppo dell’impresa che è tanto più vincolato quanto più “vischiosa” è la loro natura. Un investimento è molto “vischioso” quando la sua utilizzazione in contesti diversi da quello originario comporta una forte perdita del suo valore economico o è comunque molto complessa e lenta da attuare; gli investimenti idiosincratici sono normalmente di questo tipo. Una strategia che comporta investimenti molto vischiosi impegna l’impresa almeno per il periodo di tempo necessario per recuperare finanziariamente tali investimenti. Ghemawat (1991) descrive questo fenomeno con il termine di lock-in; egli osserva che la realizzazione di investimenti strategici, caratterizzati dagli attributi di durevolezza, specializzazione e non commerciabilità, blocca l’impresa all’interno del percorso strategico delineato da tali investimenti. Di conseguenza, diviene molto difficile, o comunque costoso, modificare in futuro tale percorso; si manifesta la situazione di path dependence già osservata nel Capitolo 3. Meccanismo analogo e contrario al lock-in è quello di lock-out: deriva dalla decisione di non avviare una determinata strategia e gli investimenti che ne conseguirebbero; questo impedisce all’impresa (in maniera più o meno vincolante) di porre in essere in futuro quella stessa o anche altre strategie; esclude quindi la possibilità di seguire alcune traiettorie competitive. La concreta capacità di cambiare rapidamente strategia competitiva può essere limitata anche dall’inerzia, causata da fattori organizzativi, dalla particolare evoluzione storica seguita dall’impresa, dal sistema di valori consolidati al suo interno. La disponibilità a esplorare nuove traiettorie strategiche è frenata dalla tendenza a sfruttare le conoscenze e le esperienze già maturate, almeno fino a quando queste non si rivelano chiaramente inadeguate; quindi, a procedere fino a che è possibile su direttrici, già sperimentate e che in passato hanno presumibilmente prodotto buoni risultati. Inoltre, bisogna considerare il ritardo temporale con cui si manifestano gli effetti di un cambiamento; questo ritardo può ridurre i vantaggi potenzialmente derivanti dalla modificazione della strategia, rendendo tale azione sub-ottimale. L’esistenza di meccanismi che riducono la possibilità per l’impresa di abbandonare un certo percorso strategico una volta avviato, implica che tale percorso

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ipercompetizione

Per intaccare la leadership di un rivale, più che un comportamento imitativo, occorre attuare azioni innovative che rendono obsolete le fonti di vantaggio dell’avversario e spostano il confronto competitivo su un terreno più favorevole.

Un investimento è molto vischioso quando la sua utilizzazione in contesti diversi da quello originario comporta una forte perdita del suo valore economico o è comunque molto complessa e lenta da attuare. lock-in

lock-out

inerzia

Parte I La strategia nel sistema impresa

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impegni potenzialità positive

opzioni reali Gli impegni vincolanti conseguenti una certa strategia per un verso limitano la flessibilità dell’impresa, per l'altro possono rappresentare una risposta competitiva molto efficace.

debba essere scelto con notevole attenzione. L’impresa deve valutare, da un lato, la propria capacità a mantenere gli impegni che sono richiesti nel tempo dall’attuazione di una certa strategia; dall’altro, deve valutare le potenzialità positive insite in questi impegni e, quindi, le opportunità che in futuro potranno direttamente o indirettamente derivare da tale strategia. Nell’analisi economica di una strategia, questi aspetti possono essere misurati attraverso la valutazione delle opzioni reali insite appunto in una determinata strategia. Va anche considerato che, se per un verso gli impegni vincolanti conseguenti una certa strategia limitano la flessibilità dell’impresa, per l’altro possono rappresentare una risposta competitiva molto efficace. A condizione che risultino visibili, chiari e credibili, infatti, gli impegni vincolanti assunti da un soggetto possono influenzare le aspettative dei rivali13. Strumenti

I principi della strategia Il generale cinese Sun Tzu (V-IV sec. a.C.) è considerato il primo teorizzatore della strategia indiretta, poiché il principio fondamentale alla base del suo operare era «piegare la volontà dell’avversario senza fare ricorso alla guerra». Di seguito sono sintetizzati alcuni dei criteri di comportamento suggeriti nel suo trattato L’arte della guerra (Ping fa). L’arte della guerra si fonda su cinque fattori. Questi fattori sono: il Tao (fattore morale); il Cielo (fattore atmosferico); la Terra (fattore morfologico); il Comando; la Dottrina. Il Tao implica che il popolo sia in completa armonia con il sovrano, così da seguirlo senza riguardo per la vita e senza perdersi d’animo di fronte al pericolo. Il Cielo significa: la notte e il giorno, il freddo e il caldo, le epoche e le stagioni. La Terra riguarda: le distanze, grandi e piccole; i pericoli e la sicurezza; il terreno aperto e i passaggi stretti; le possibilità di vita e di morte. Il Comando riguarda chi esercita l’autorità: il comandante deve possedere le virtù della conoscenza, della sincerità, della benevolenza, del coraggio e della fermezza (severità). La Dottrina riguarda: la suddivisione dell’esercito in reparti e la loro assegnazione agli ufficiali; il controllo delle strade attraverso cui i rifornimenti raggiungono l’armata; le spese militari. Ogni generale deve avere familiarità con questi cinque fattori, li deve osservare quando prende le decisioni e cerca di assicurarsi le condizioni più favorevoli sul campo. Un generale deve anche essere pronto ad approfittare di ogni circostanza favorevole al di là delle regole generali. Infatti i piani devono essere sempre modificati in funzione delle circostanze. La condotta della guerra si fonda sempre sull’inganno. Quando si è in grado di attaccare, si deve apparire incapaci; quando si muovono le truppe, bisogna sembrare inattivi; quando si è vicini al nemico, bisogna fare in modo che egli creda che si è molto lontani; quando si è lontani, il nemico deve crederci vicini. Lancia esche per ingannare il nemico. Se il nemico è forte in ogni settore, è necessario essere pronti a tenergli testa; ma se è superiore in forze, è meglio evitarlo. Se il comandante nemico è di temperamento collerico, cerca di irritarlo: fingendoti debole, aumenterà la sua arroganza. Attaccare il nemico dove è impreparato; mostrarsi dove meno se lo aspetta. Vince chi sa quando è il momento di combattere e quando è il momento di non combattere; chi dispone di generali competenti al riparo dalle ingerenze del sovrano; chi sa guidare tanto un esercito enorme, quanto un esercito piccolo.

13

Un esempio tipico di impegno vincolante che ha l’effetto descritto è il “tagliarsi le vie di fuga alle spalle”.

Capitolo 4 La gestione strategica

111

4.2.3 L’analisi delle attività e delle relazioni da cui deriva la generazione di valore La strategia per raggiungere un vantaggio competitivo prevede un certo modo di realizzare le attività d’impresa e di sviluppare le relazioni stabilite con soggetti esterni. Appare allora necessario disporre di uno strumento di analisi delle attività e delle relazioni attraverso cui l’impresa crea valore per il mercato e raggiunge una posizione di vantaggio competitivo. Per il primo tipo di analisi è ormai consolidata anche in ambito operativo l’utilizzazione della catena del valore proposta per la prima volta da M. Porter (1985). Per il secondo tipo di analisi, si presenta uno strumento concettualmente simile che denominiamo catena delle relazioni. La catena del valore La catena del valore può essere riferita all’intera azienda o a ogni singola area di business; scompone l’impresa (o la singola area di business) nell’insieme di attività e di sotto-attività attraverso cui si crea valore per il mercato. Queste attività sono distinte in due categorie generali: le attività primarie e le attività di supporto (o secondarie). Nella prima categoria rientrano le attività in cui si articola il processo di produzione e vendita in senso stretto; quelle del secondo tipo sono finalizzate a rendere possibile il migliore svolgimento delle attività primarie e sono trasversali a tutto il sistema aziendale. Si sottolinea che entrambe le categorie di attività possono influenzare la creazione di valore dell’impresa. Le categorie di attività primarie normalmente considerate sono: • • • • •

logistica in entrata; attività produttive; logistica in uscita; marketing e vendite; servizi al cliente.

Le categorie di attività di supporto normalmente considerate sono (Figura 4.4): • • • •

approvvigionamento; sviluppo della tecnologia; gestione delle risorse umane; attività infrastrutturali.

Valore

Attività infrastrutturali Gestione delle risorse umane Sviluppo della tecnologia Approvvigionamenti Logistica in entrata

Attività produttive

Logistica in uscita

Marketing e vendite

Servizi Valore

Figura 4.4 La catena del valore proposta da Porter.

112

Parte I La strategia nel sistema impresa

Ciascuna di queste categorie comprende una serie di attività specifiche. Per quanto concerne la categoria delle attività primarie si identificano le seguenti. • Logistica in entrata. Pianificazione e gestione delle consegne dai fornitori; gestione dei vettori di trasporto dei materiali in entrata; ricezione fisica dei materiali (materie prime e semilavorati); controlli di conformità; destinazione dei materiali ricevuti al magazzino; smistamento dei materiali agli impianti di produzione; gestione dei magazzini materie prime e semilavorati. • Attività operative. Predisposizione degli impianti, organizzazione del ciclo produttivo; trasformazione fisica degli input; assemblaggio dei semilavorati; collaudo; manutenzione degli impianti; controllo di qualità; movimentazione degli ouput verso i magazzini prodotti finiti. • Logistica in uscita. Gestione dei magazzini prodotti finiti; pianificazione delle consegne ai distributori; movimentazione dei prodotti in uscita; gestione delle consegne ai distributori; evasione degli ordini. • Marketing e vendite. Gestione della forza vendita; attuazione delle politiche commerciali; politica di prezzo; azioni di comunicazione. • Servizi. Assistenza post-vendita; analisi della soddisfazione del cliente; sviluppo delle relazioni con i clienti; fornitura di servizi volti a incrementare il valore del prodotto. Una importante precisazione riguarda l’attività di marketing e vendite. Il principio di orientamento al mercato che caratterizza la gestione aziendale moderna prevede che una parte consistente delle attività di marketing sia attuata a monte della produzione e vendita del prodotto o servizio, quindi prima della realizzazione delle attività primarie. In particolare, la creazione del prodotto e, quindi, l’acquisizione degli input necessari sono avviate sulla base della strategia di marketing e delle conseguenti decisioni operative (politica di prodotto, di prezzo, di comunicazione e di distribuzione). Il collocamento dell’attività di marketing e vendite tra le attività primarie, a valle di quelle relative alla trasformazione fisica dei prodotti, va quindi intesa in modo appropriato. Essa individua in primo luogo il momento dell’attuazione concreta di una serie di decisioni assunte in precedenza nell’ambito della strategia di marketing, in secondo luogo, la fase di gestione delle attività di distribuzione attraverso cui l’offerta è effettivamente messa a disposizione del cliente. Per quanto concerne le attività specifiche relative alla categoria delle attività secondarie, si identificano le seguenti. • Approvvigionamenti. Analisi e selezione dei fornitori; gestione delle relazioni con i fornitori; gestione degli acquisti finalizzati alla produzione e alle altre attività; determinazione del prezzo di fornitura. • Sviluppo della tecnologia. Sviluppo della conoscenza; ricerca di base e applicata; innovazione di processo; innovazione di prodotto. • Gestione delle risorse umane. Selezione del personale; addestramento; sviluppo delle carriere; retribuzione e incentivazione; relazioni sindacali. • Attività infrastrutturali. Pianificazione strategica e di marketing; programmazione e controllo di gestione; amministrazione; gestione finanziaria; rapporti istituzionali e affari legali; corporate governance; politiche per la sostenibilità; scelta delle localizzazioni produttive. Il rilievo e l’estensione di ciascuna attività della catena del valore varia da impresa a impresa.

Il rilievo e l’estensione di ciascuna attività della catena del valore varia da impresa a impresa, in funzione del settore di appartenenza, della missione aziendale, della

Capitolo 4 La gestione strategica

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dimensione e del modello organizzativo, del sistema di procedure operative adottate. Per un’impresa di distribuzione alimentare, per esempio, l’attività di approvvigionamento, la logistica in entrata e in uscita e i servizi rappresentano le attività più complesse, dalle quali dipende maggiormente la creazione di valore. La produzione insieme con la programmazione e il controllo sono, invece, le attività centrali della catena del valore di un’impresa di costruzioni. Il sistema e la costellazione del valore La catena del valore (a livello sia di business sia di intera impresa) va considerata anche in relazione a quella di altri business/imprese collegati, in particolare a monte o a valle (Figura 4.5). Si utilizza il termine sistema del valore per indicare, appunto, il fatto che la catena del valore di un’impresa (o di un suo business) si inserisce in una filiera che comprende a monte le catene dei fornitori degli input produttivi e a valle quelle degli utilizzatori dell’output realizzato fino a quelle dei clienti del prodotto finale; essa può essere inoltre connessa con la catena del valore di altri business della stessa impresa. Va osservato che la competizione nei mercati finali avviene sempre più tra sistemi tendenzialmente integrati di imprese e il diffondersi di forme sempre più strutturate di cooperazione. Il tradizionale rapporto conflittuale tra cliente e fornitore è superato dalla ricerca di un modello di integrazione tra le attività a monte e a valle che migliori la capacità di tutti gli attori coinvolti di produrre valore. I legami tra le diverse catene del valore si sostanziano sui seguenti cinque flussi che tendono a coesistere e a influenzarsi: 1. 2. 3. 4. 5.

flusso flusso flusso flusso flusso

sistema del valore

La competizione nei mercati finali avviene sempre più tra sistemi tendenzialmente integrati di imprese e il diffondersi di forme sempre più strutturate di cooperazione.

di beni; di informazioni; di competenze; monetario; di valori di natura non economica.

Il sistema del valore enfatizza una logica relazionale di tipo sequenziale e unidirezionale che coglie, però, in maniera solo parziale le opportunità che le imprese, singolarmente o come sistema, hanno di creare valore. Una prospettiva più ampia è offerta dall’idea di costellazione del valore proposta da Norman e Ramirez (1994).

costellazione del valore

Catene del valore degli altri business dell’impresa

Catena del valore dei fornitori

Catena del valore di un business dell’impresa

Catena del valore dei clienti

Figura 4.5 Il sistema del valore.

114

Parte I La strategia nel sistema impresa

L’impresa tende a specializzarsi su alcune core activities, attivando numerose relazioni di collaborazione di varia natura per raggiungere un adeguato presidio delle altre. L’estensione delle attività rilevanti per il vantaggio competitivo implica però la necessità di operare in rete.

La costellazione del valore supera il presupposto implicito nella catena di Porter secondo il quale il valore finale risulta dalla somma del valore realizzato progressivamente nelle singole fasi. Ipotizza, invece, che esso derivi dalla co-produzione realizzata da attori diversi che confluiscono all’interno di un territorio comune; questi attori distribuiscono a sé stessi e agli altri, esplicitamente o implicitamente, nel tempo e nello spazio, i compiti che la creazione del valore comporta (Norman, Ramirez, 1995). Il valore creato per il cliente è, dunque, la risultante di componenti di valore creati dai singoli attori direttamente o indirettamente coinvolti nella produzione e messa a disposizione di quel cliente di un certo prodotto o servizio. Questo principio implica l’allargamento dell’insieme di attività rilevanti per raggiungere la posizione di vantaggio competitivo. La strategia deve definire ruoli e posizione dell’impresa in tutti i contesti dove si crea una certa parte del valore rilevante nel proprio business; ricerca le opportunità attraverso varie forme di interazione in ambiti che possono essere anche “lontani” dal punto di vista delle attività strettamente operative, ma possono risultare molto “vicini” ai fini della costruzione di un vantaggio competitivo nel mercato finale. Molte tra le grandi catene alberghiere di fascia elevata cercano di arricchire il loro servizio core con altri elementi finalizzati a rendere l’albergo il fulcro dell’esperienza turistica vissuta dai loro clienti; a tal fine, stabiliscono varie forme di collaborazione con le imprese della filiera agroindustriale o con i gestori dell’offerta culturale. Ambiti molto diversi dal comparto ricettivo, ma fortemente interdipendenti ai fini appunto della creazione del valore per il turista. L’estensione delle attività considerate rilevanti non necessariamente si riflette nell’ampliamento delle attività direttamente svolte dall’impresa. Anzi, anche in un contesto strategico esteso, l’impresa tende a specializzarsi su alcune core activities, attivando numerose relazioni di collaborazione di varia natura per raggiungere un adeguato presidio delle altre. L’estensione delle attività rilevanti per il vantaggio competitivo rende, dunque, sempre più necessario saper far parte di reti di soggetti partner e definire le modalità di creazione di valore nell’ambito di tali reti. Si configurano due tipologie di imprese: da un lato quelle che “organizzano” la rete; dall’altro, quelle che giocano un ruolo “specialistico” al suo interno. Le prime sono normalmente di dimensioni maggiori, hanno quindi la dimensione per gestire al meglio le relazioni nel mercato degli input produttivi e in quello finale, oltre ad avere una forte competenza di “integrazione”. Le seconde sono più spesso di dimensione media o piccola, capaci di giocare un ruolo particolare nella rete, grazie all’apporto di specifiche competenze distintive non disponibili in altri soggetti. Per questo tipo di imprese è fondamentale comprendere come creare valore innanzitutto per la rete di cui sono parte; ovvero, fare in modo che il proprio apporto sia il più possibile rilevante nella generazione di valore da parte della rete. La catena delle relazioni La catena del valore può essere estesa, considerando l’insieme di relazioni stabilite dall’impresa con soggetti diversi, per realizzare tali attività e/o per acquisire le risorse necessarie alla loro realizzazione. Si può allora descrivere una catena delle relazioni che ordina l’insieme dei rapporti che l’impresa stabilisce con i vari soggetti interni ed esterni per realizzare al meglio le sue attività (Figura 4.6).

Capitolo 4 La gestione strategica

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Relazioni con gli attori nell’ambito allargato Relazioni interne/esterne per la realizzazione delle attività di supporto della catena del valore

V A L

Relazioni con i fornitori

Relazioni interne/esterne per la realizzazione del processo produttivo

O Relazioni con i clienti

R E

Figura 4.6 La catena delle relazioni.

La catena delle relazioni offre un’ulteriore prospettiva per spiegare come l’impresa arrivi alla creazione del valore. Nel tempo, l’impresa sviluppa dunque un certo mix di relazioni caratterizzato dalla loro estensione e intensità; attraverso queste relazioni, l’impresa acquisisce fattori di vantaggio competitivo e/o opzioni di sviluppo; sviluppa le proprie attività; apporta valore ai propri interlocutori nella “costellazione” di cui è parte o al proprio mercato target. Nella catena del valore, l’enfasi è posta sulle attività (primarie e di supporto); nella catena delle relazioni si fa riferimento alle relazioni tra i soggetti interni all’impresa e a quelle poste in essere da questi ultimi con gli attori esterni. L’insieme delle relazioni attivate consente all’impresa di acquisire, controllare e sviluppare le risorse e le competenze attraverso cui sono svolte le attività che producono il valore. Tale valore è dunque il risultato di un determinato insieme di attività, basate su un certo insieme di relazioni stabilite tra le unità organizzative all’interno dell’impresa e tra queste e soggetti esterni.

Nella catena delle relazioni si fa riferimento alle relazioni tra i soggetti interni all’impresa e a quelle poste in essere da questi ultimi con gli attori esterni.

4.3 Le strategie competitive Il vantaggio competitivo, inteso come capacità dell’impresa di realizzare un profitto superiore ai concorrenti, può derivare da due condizioni di base: 1. capacità di commercializzare un prodotto o servizio analogo a quello dei concorrenti, ma a un costo più basso; 2. capacità di offrire un prodotto o un servizio con caratteristiche che lo distinguono da quelli dei rivali e a cui il cliente riconosce un valore, in virtù del quale è disposto a pagare un prezzo superiore ai costi sostenuti per la sua produzione. Queste due condizioni derivano dall’attuazione rispettivamente della strategia volta a determinare un vantaggio di costo e di quella di differenziazione. Poiché determinano le condizioni attraverso cui si manifesta il vantaggio competitivo, tali strategie sono dette strategie competitive. L’impresa può perseguire una delle due strategie competitive a livello di intero mercato o concentrandosi su un singolo particolare segmento dello stesso; in questo secondo caso, essa attua

vantaggio di costo differenziazione strategie competitive

116

Parte I La strategia nel sistema impresa

La focalizzazione prevede la concentrazione della strategia di vantaggio di costo o di quella di differenziazione in una particolare area del mercato.

Differenziazione e leadership dei costi sono basate su presupposti strategici, organizzativi e operativi.

L’attuazione di una strategia competitiva non può avvenire trascurando completamente la prospettiva dell’altra.

una terza strategia competitiva: comunemente indicata di focalizzazione. La focalizzazione prevede, appunto, l’attuazione della strategia di vantaggio di costo o di quella di differenziazione in un’area relativamente piccola del mercato14. Le strategie competitive hanno successo quando generano valore percepito dal cliente superiore a quello dei concorrenti; tale valore può derivare dalla riduzione di determinati costi che il cliente deve sostenere per soddisfare una certa necessità o dall’aumento dei benefici che ne trae. Nel caso di beni o servizi intermedi, il valore può consistere nel mettere il cliente nelle condizioni di generare a sua volta maggior valore per il suo mercato. Il valore che l’impresa offre al suo cliente non deve essere pensato solo nell’immediata prospettiva di quest’ultimo, ma anche nella prospettiva del valore che questi deve a sua volta fornire a coloro che rappresentano la sua domanda (Figura 4.7). In linea generale, un’impresa che persegue la strategia di vantaggio di costo ha caratteristiche e comportamenti piuttosto diversi da quella che invece è orientata alla differenziazione. Differenziazione e leadership dei costi sono basate su presupposti strategici, organizzativi e operativi per certi versi molto distinti, se non altro perché per differenziare occorre sostenere costi altrimenti non necessari, e per minimizzare i costi bisogna standardizzare l’offerta al massimo grado possibile. La convergenza tra vantaggio di costo e differenziazione Vantaggio di costo e differenziazione non devono, tuttavia, essere considerati come orientamenti rigidamente contrapposti, che si escludono reciprocamente. Anzi, tranne in poche situazioni particolari, l’attuazione di una strategia competitiva non può avvenire trascurando completamente la prospettiva dell’altra. Il fatto che l’impresa per differenziare sostenga maggiori costi per alcune tipologie di input o di attività non esclude che essa cerchi comunque di operare in condizioni di massima efficienza e di minimizzare tutti i costi non rilevanti ai fini della creazione di valore per il cliente. In maniera analoga, il fatto che il vantaggio di costo sia favorito da elevata standardizzazione di grandi volumi di offerta non implica che tale offerta debba necessariamente essere priva di elementi di differenziazione. La scelta tra le due strategie competitive non deve, quindi, essere intesa come decisione tra differenziare o non differenziare o tra minimizzare i costi o non minimizzare i costi; qualunque sia il modo di competere scelto, infatti, l’impresa deve sia distinguersi dai concorrenti sia operare in condizioni di massima efficienza. Ikea e Cirque du Soleil rappresentano due esempi significativi di successo basato sulla capacità di integrare elevata competitività sui costi e differenziazione. La prima si distingue per l’organizzazione internazionale della fornitura e della produzione e per l’efficienza distributiva; questi elementi le consentono di

Valore Impresa

Valore Cliente

Cliente del cliente

Valore

Figura 4.7 La creazione di valore per il cliente. 14

Si deve ancora una volta a Porter la prima descrizione sistematica delle tre strategie competitive. Si veda in particolare: Porter M.E. (1985).

Capitolo 4 La gestione strategica

minimizzare i costi e presentarsi sul mercato con prezzi particolarmente bassi. Il prodotto risulta tuttavia fortemente differenziato grazie a consistenti investimenti sul marchio, al continuo rinnovo dell’offerta e al contenuto di design di una parte significativa dei prodotti in catalogo. Cirque du Soleil ha inventato un nuovo tipo di spettacolo, combinando elementi delle manifestazioni teatrali con componenti degli spettacoli circensi. Questo nuovo modello permette di escludere molte delle componenti più costose di quest’ultimo tipo di performance (animali esotici, star e la pista a “tre anelli”), rivitalizzando altri contenuti tipici del circo, in particolare gli acrobati e i clowns, attraverso il loro inserimento in una “storia” articolata secondo la logica dello spettacolo teatrale. Per raggiungere una posizione relativamente stabile di vantaggio competitivo, l’impresa deve riuscire a coniugare la creazione di valore per il cliente attraverso la differenziazione della propria offerta con bassi costi di produzione, ovvero la minimizzazione dei costi della propria offerta con la valorizzazione di una sua identità che la caratterizza agli occhi dei consumatori. Differenziazione e vantaggio di costo non solo non devono essere contrapposti, ma possono addirittura essere complementari. Il successo nella differenziazione può generare non solo maggiori margini, ma anche un incremento del volume di vendite; questo incremento permette di sfruttare le economie di produzione che, come sarà approfondito nel prossimo paragrafo, rappresentano uno dei principali fattori di sviluppo del vantaggio di costo. Peraltro, l’innovazione dei processi produttivi può permettere lo sfruttamento di tali economie anche per lotti di dimensioni relativamente contenute. Sull’altro fronte, la realizzazione di grandi volumi di produzione, oltre a favorire il vantaggio di costo, rafforza la riconoscibilità del prodotto e la sua immagine; quindi, la sua differenziazione dai prodotti concorrenti.

4.3.1 La leadership di costo I vantaggi della leadership di costo La capacità di un’impresa di operare a un livello di costi unitari inferiore a quello dei rivali consente alla stessa di controllare la leva competitiva del prezzo. L’impresa può abbassare il prezzo di vendita della propria offerta a un livello che, pur rimanendo al di sopra del proprio costo medio, risulta inferiore a quello dei concorrenti, nello stesso raggruppamento strategico. Ne deriva, a parità di altre condizioni, un aumento della sua quota di mercato, tanto maggiore quanto più la domanda è sensibile al prezzo. Questo incremento si riflette nell’espansione del livello di produzione dell’impresa, nel conseguente maggiore sfruttamento delle economie di scala e accumulo di esperienza. Si attiva così un circuito virtuoso tra progressivo aumento dell’efficienza, incremento del margine operativo e aumento dei volumi venduti. In condizioni teoriche di mercato perfetto, il processo di acquisizione di quote di domanda determinato dall’abbassamento del prezzo di vendita accade in maniera molto rapida; nella realtà, diversi fattori lo rallentano. In primo luogo, il fatto che l’informazione sulla riduzione del prezzo richiede un certo periodo di tempo per essere percepita dal mercato, al cui interno si diffonde in maniera comunque non omogenea. In secondo luogo, l’impresa che ha abbassato il prezzo può non disporre della capacità produttiva per soddisfare tutta la maggiore domanda potenziale, oppure può non avere la capacità di gestire in maniera efficace la logistica in uscita e la distribuzione, necessarie per far arrivare il prodotto a un mercato sempre più

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Differenziazione e vantaggio di costo non solo non devono essere contrapposti, ma possono addirittura essere complementari.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

Il comportamento dei consumatori è normalmente caratterizzato da un certo grado di inerzia che riduce la portata dei fattori di cambiamento.

margine di redditività più alto

Il maggiore margine di reddito generato dalla leadership di costo si riflette nell’aumento delle fonti finanziarie disponibili per ulteriori investimenti.

ampio. Oltre un certo limite, peraltro, l’incremento della produzione richiesta dalla maggiore domanda determina delle diseconomie che riducono o annullano l’iniziale vantaggio di costo. Infine, non qualsiasi livello di riduzione del prezzo è effettivamente sufficiente a spingere la domanda a cambiare l’originario fornitore (questo anche senza tenere conto dell’ipotesi di differenziazione del prodotto da parte di quest’ultimo). Infatti, occorre considerare che il comportamento dei consumatori è normalmente caratterizzato da un certo grado di inerzia che riduce la portata dei fattori di cambiamento (come il manifestarsi sul mercato di un’offerta a un prezzo più basso). È quindi necessario che la differenza di prezzo abbia un’utilità per l’acquirente sufficiente a superare tale inerzia. In questa prospettiva, l’efficacia dell’azione di prezzo è anche legata alle specificità del consumatore e del suo comportamento di acquisto, con riferimento, tra l’altro, all’elasticità della sua domanda al prezzo. Il vantaggio conseguente alla leadership di costo non si manifesta necessariamente nella riduzione del prezzo. È, infatti, evidente che se l’impresa leader di costo mantiene il prezzo della propria offerta ai livelli medi dei concorrenti, si troverà a beneficiare di un margine di redditività più alto. Questa condizione ha un importante effetto sulla struttura finanziaria dell’impresa e sulla sua capacità di investimento. Il margine maggiore consente (a parità di altre condizioni) da un lato un più alto livello di auto-finanziamento, dall’altro una maggiore remunerazione del capitale di rischio. Nel primo caso, l’impresa aumenta la dimensione del proprio capitale netto e, quindi, a parità di leva finanziaria, dello stock di debito che è in grado di acquisire. Nel secondo caso, essa crea le condizioni adatte per un’eventuale acquisizione di nuovo capitale di rischio. In entrambe le situazioni, il maggiore margine di reddito generato dalla leadership di costo si riflette nell’aumento delle fonti finanziarie disponibili per ulteriori investimenti. La determinazione della posizione di vantaggio di costo Uno schema logico di determinazione della strategia di vantaggio di costo La strategia volta ad acquisire una condizione di vantaggio risulta da un processo che può essere descritto secondo il seguente schema logico (Figura 4.8), basato sull’utilizzazione della catena del valore. Il primo passaggio consiste nella scomposizione dei costi operativi e per investimenti sostenuti dall’azienda (o dall’area di business15) per le singole attività della catena del valore. Questa prima valutazione porta a evidenziare le attività che sono cruciali dal punto di vista dei costi, e che di conseguenza hanno maggior rilievo nella strategia in esame. La seconda fase consiste nella comparazione dei costi sostenuti dall’impresa per la realizzazione delle varie attività con quelli delle attività corrispondenti dei principali concorrenti. Il vantaggio di costo è valutato in termini relativi; dipende, cioè, dal livello dei costi dell’impresa rispetto a quello dei suoi concorrenti di riferimento. Nella realtà operativa, quest’analisi è molto difficile, perché è arduo disporre di informazioni affidabili e sufficientemente esaustive sulla struttura dei costi dei concorrenti. Per ovviare a questo problema si possono considerare i valori medi di settore relativi alle categorie più significative di costo delle attività maggiormente rilevanti della catena del valore. In alternativa, si studiano i drivers di costo; 15

D’ora in poi, si farà riferimento all’azienda.

Capitolo 4 La gestione strategica

Determinazione del livello di costi operativi unitari e degli investimenti (fissi e in circolante) assorbiti da ogni attività della catena del valore

Analisi comparativa del livello dei costi operativi unitari e del livello degli investimenti assorbiti da ogni attività della catena del valore dell'impresa, rispetto al livello nelle corrispondenti attività della catena del valore dei concorrenti

Analisi delle determinanti del livello di costo nelle attività della catena del valore e comparazione rispetto alle determinanti di costo nelle corrispondenti attività della catena del valore dei concorrenti

Individuazione delle aree di miglioramento rispetto ai concorrenti e della relativa strategia per raggiungere il vantaggio di costo

Determinazione degli interventi utili per attuare la strategia indicata nella fase precedente

Figura 4.8 La procedura logica per determinare la leadership di costo.

dalle diversità rispetto a questi fattori è possibile stimare le differenze di costo rispetto ai concorrenti. La comparazione con i concorrenti rimane comunque una fase essenziale del procedimento, poiché in primo luogo permette di valutare se l’impresa può realisticamente cercare di raggiungere un vantaggio assoluto nei costi; in secondo luogo, focalizza ulteriormente le attività che hanno rilievo critico per la determinazione del vantaggio di costo, ponendo in evidenza quelle in cui si rilevano i maggiori differenziali rispetto ai concorrenti. Nella terza fase sono individuate e studiate le determinanti del livello dei costi delle attività della catena del valore e in particolare di quelle che emergono come maggiormente critiche dal punto di vista dell’andamento complessivo dei costi. Le determinanti del livello dei costi riguardano anche le interdipendenze tra le attività della stessa catena del valore e tra attività di catene di valore diverse (relative ai vari business in cui l’impresa è impegnata). Sulla base dell’osservazione delle varie determinanti del livello dei costi, si procede a definire la strategia per raggiungere la posizione di vantaggio rispetto ai concorrenti. Tale strategia può andare in due direzioni diverse: da un lato, può individuare gli interventi sulle determinanti di costo finalizzate alla minimizzazione dei costi delle attività della catena del valore; in alternativa, può innovare l’organizzazione di tali attività in relazione ai vincoli e alle opportunità insiti nelle caratteristiche delle varie determinanti di costo.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

La fase finale esplicita le azioni che occorre compiere per attuare la strategia definita nella fase precedente e le nuove procedure che possono essere richieste a tal fine. Le determinanti del livello dei costi Le determinanti del livello di costo di una certa attività possono essere distinte in due categorie: i fattori relativi alla specifica realizzazione dell’attività in questione e i fattori relativi ai legami tra l’attività in questione e le altre attività della catena del valore. Nel caso in cui l’analisi sia condotta a livello di impresa (multibusiness), bisogna considerare anche i legami tra attività delle catene del valore dei diversi business dell’impresa. La prima categoria comprende i seguenti fattori: • • • • • • • • • economie di scala

economie di estensione

economie di apprendimento

economie di scala e di estensione; economie di apprendimento; grado di utilizzazione della capacità produttiva; tecnologie di processo; progettazione del prodotto; localizzazione delle attività produttive; modalità di approvvigionamento; modalità di distribuzione; fattori generici di efficienza interna.

Economie di scala e di estensione Le economie di scala determinano la diminuzione del costo medio totale all’aumentare della dimensione della produzione; un elevato livello di tali economie significa che un determinato incremento della quantità prodotta si riflette in una forte contrazione del costo medio totale. Tre principali fattori ne sono all’origine. Il primo è il fatto che in molte fasi della produzione il costo complessivo degli input produttivi cresce in maniera meno che proporzionale all’incremento dell’output (in valore) che ne deriva (almeno fino a un certo volume di produzione). Il secondo è la specializzazione delle attività che favorisce maggiore efficienza nella realizzazione delle stesse. Il terzo deriva dalla non divisibilità di molti fattori della produzione, per cui il loro costo rimane sostanzialmente invariato sia se sono utilizzati per una produzione contenuta sia se sono utilizzati per produzioni di dimensioni (entro certi limiti) più ampie. Le economie di estensione si manifestano nella riduzione dei costi medi dovuta all’aumentare, appunto, dell’estensione (scope) dell’attività dell’impresa. La maggiore estensione di tali attività consente un migliore assorbimento di molti costi di carattere generale; anche questi costi, infatti, aumentano normalmente in maniera meno che proporzionale rispetto alla crescita del numero di business in cui l’impresa si trova impegnata. Economie di apprendimento Determinano la riduzione dei costi unitari di produzione all’aumentare della quantità complessivamente prodotta dall’impresa nel tempo (produzione cumulata). Lo svolgimento continuo di un’attività determina la progressiva maturazione di esperienza che porta a operare in modo via via più efficiente ed efficace. È rilevante considerare il differenziale di produzione cumulata dall’impresa rispetto a quella dei suoi rivali; le economie di esperienza sono, quindi, legate alla quota di mercato relativa dell’impresa e alla rapidità con cui essa è raggiunta dall’impresa.

Capitolo 4 La gestione strategica

Grado di utilizzazione della capacità produttiva In prima approssimazione è ricondotto alle economie di scala, poiché queste ultime possono essere determinate anche dalla più completa utilizzazione di fattori di produzione non divisibili. In linea generale, quando l’incremento dei livelli di produzione rimane entro i limiti della capacità operativa degli impanti disponibili, è evidente che il costo fisso medio relativo alla struttura produttiva diminuisce poiché viene suddiviso su un maggiore numero di prodotti realizzati.

grado di utilizzazione della capacità produttiva

Tecnologie di processo Possono permettere di produrre beni o servizi sostanzialmente simili, ma a costi diversi; di conseguenza, possono determinare delle differenze significative nei costi di produzione delle diverse imprese.

tecnologie di processo

Progettazione del prodotto La progettazione influenza la complessità dell’assemblaggio e determina la qualità dei materiali e delle componenti utilizzate, il numero delle parti che compongono l’output finale, il suo grado di standardizzazione, le opportunità di riciclo e recupero dei materiali utilizzati; tutti elementi che hanno evidente influenza sul livello finale dei costi. La progettazione, infine, influenza fortemente la possibilità che si condividano determinati input o impianti produttivi tra produzioni diverse e, quindi i relativi costi.

progettazione del prodotto

Localizzazione delle attività produttive Occorre innanzitutto considerare la vicinanza delle attività produttive, da un lato, alle fonti di approvvigionamento degli input e, dall’altro, ai mercati di sbocco. È evidente che una localizzazione lontana dai mercati aumenta a parità di altre condizioni il costo finale dell’offerta. Va anche considerato che il costo, la disponibilità e la qualità degli input produttivi varia facilmente nelle diverse macro-aree geografiche. Sono per esempio note, e in molte industrie rilevanti, le differenze del costo del lavoro nei diversi Paesi. Infine, interessano le condizioni “di contesto” che direttamente o indirettamente incidono sull’andamento dei costi dell’azienda. Si pensi, per esempio, alle infrastrutture disponibili, agli orientamenti istituzionali e normativi sulle questioni economiche, al grado di sicurezza e coesione sociale del contesto geografico in questione; ai vincoli ambientali nella produzione ecc.

localizzazione delle attività produttive

Potere contrattuale dei fornitori Costituisce una delle forze competitive che più frequentemente influenza la redditività potenziale delle imprese appartenenti a un certo settore. Una posizione negoziale dei fornitori prevalente si traduce in elevati costi di approvvigionamento; tale posizione negoziale può però essere diversa da impresa a impresa, determinando così dei differenziali di costo tra le imnprese acquirenti.

potere contrattuale dei fornitori

Ottimizzazione delle relazioni con i distributori Su questo punto valgono evidentemente considerazioni speculari a quelle svolte relativamente ai fornitori.

ottimizzazione delle relazioni con i distributori

Efficienza complessiva Il modo in cui l’impresa realizza l’insieme delle attività della catena del valore, controllandone l’efficienza complessiva, costituisce un ulteriore fattore su cui si può costruire il vantaggio di costo rispetto ai concorrenti. La teoria economica ha introdotto il concetto di x-inefficiency per descrivere l’insieme di costi che l’impresa sostiene nelle varie attività gestionali e che potrebbero essere eliminati senza alcun significativo effetto negativo sull’efficacia con cui sono svolte tali attività. Si tratta di fattori di inefficienza spesso banali e di modestissima entità unitaria, ma che a livello aggregato e nel tempo determinano incrementi anche molto significativi dei costi e dell’inefficienza generale.

efficienza complessiva

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Parte I La strategia nel sistema impresa

La seconda macro-categoria delle determinanti di costo è rappresentata dalle connessioni tra le diverse attività della catena del valore. Il livello complessivo dei costi è influenzato, in primo luogo dall’efficienza con cui i materiali e i semilavorati sono fisicamente movimentati da una fase all’altra del processo operativo, in secondo luogo dall’efficacia con cui sono interconnesse le attività del valore; su questo punto si tornerà nel Capitolo 7.

massimo sfruttamento delle economie di produzione

innovazione di processo o di prodotto riorganizzazione geografica dell’attività produttiva

riconfigurazione della catena del valore

Le strategie per acquisire il vantaggio di costo Per acquisire un vantaggio di costo si agisce in primo luogo sulle determinanti di costo più importanti nelle attività del valore più rilevanti dal punto di vista dei costi. In linea generale, il massimo sfruttamento delle economie di produzione (di scala, di estensione e di esperienza) costituisce una strategia tipica delle imprese che puntano alla leadership basata sui costi. In mercati relativamente stabili e con un rapporto tra volume della domanda totale e dimensione ottima minima relativamente contenuto, la capacità dell’impresa di dimensionarsi a un livello produttivo più efficiente (sapendo presidiare la corrispondente quota di mercato) rappresenta una strategia difficilmente imitabile dai concorrenti, che conduce quindi a un vantaggio competitivo sostenibile. L’innovazione di processo o di prodotto rappresenta una seconda strada rilevante per ottenere un vantaggio di costo sostenibile almeno a medio termine. Significativa è anche la strategia di riorganizzazione geografica dell’attività produttiva. La localizzazione degli stabilimenti produttivi nelle aree che offrono le migliori condizioni di efficienza e più basso livello assoluto dei costi degli input rilevanti permette all’impresa di ridurre strutturalmente il livello dei suoi costi medi rispetto ai concorrenti nel suo stesso raggruppamento strategico. Infine, notevole impatto può avere anche la riduzione sistematica delle x-inefficiencies. A tal fine, si possono pensare diversi tipi di azione: in primo luogo prevedere adeguati meccanismi incentivanti (o disincentivanti, a seconda della problematica) che spingano i singoli membri dell’impresa a comportamenti virtuosi e li coinvolgano nel programma di riduzione delle inefficienze organizzative; in secondo luogo, può essere utile disporre di un sistema di controllo interno in grado di individuare le situazioni di inefficienza e stimolare gli interventi correttivi. Ancora, l’impresa può snellire la struttura organizzativa con conseguente riduzione dei costi generali e delle risorse umane. La seconda strada per raggiungere il vantaggio di costo è la riconfigurazione della catena del valore (Figura 4.9). Piuttosto che agire sui singoli fattori che, in maniera più o meno rilevante, determinano i costi, l’impresa modifica la propria organizzazione e il modo in cui svolge le sue attività, raggiungendo così una differenziazione strutturale rispetto ai costi sostenuti dai concorrenti. Questo cambiamento organizzativo può manifestarsi secondo quattro modalità fondamentali. 1. Esternalizzazione di determinate fasi della catena del valore (outsourcing). Si tratta normalmente di quelle fasi in cui l’impresa ha uno svantaggio di costo non colmabile rispetto ai concorrenti, o dove, comunque, non raggiunge un’efficienza complessiva analoga a quella di operatori esterni specializzati. 2. Reingegnerizzazione dei processi produttivi. Si individua una nuova modalità per organizzare e realizzare le attività produttive che evita determinate voci di costo o ne riduce strutturalmente la dimensione.

Capitolo 4 La gestione strategica

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Esternalizzazione di attività

Reingegnerizzazione della catena del valore

Vantaggio di costo attraverso la riconfigurazione della catena del valore

Riposizionamento della filiera produttiva

Razionalizzazione della struttura produttiva

Figura 4.9

3. Razionalizzazione dell’insieme di unità produttive, con la concentrazione delle Le modalità di riconfigurazione della attività di produzione e distribuzione in un numero relativamente limitato catena del valore per il vantaggio di di stabilimenti collocati nei contesti geografici più attrattivi dal punto di costo. vista dei costi e tra loro fortemente integrati. 4. Modificazione della posizione nella filiera produttiva, attraverso l’integrazione verticale a monte o a valle. È l’opzione opposta alla prima, conveniente quando ha effetti positivi rilevanti sui costi nello scambio con fornitori o con i clienti, oppure sull’efficienza con la quale sono realizzate le attività produttive. La strada della riconfigurazione organizzativa nelle quattro alternative descritte risulta normalmente più complessa dell’intervento diretto sulla singola determinante di costo. Tuttavia, questa opzione ha due punti di forza essenziali dal punto di vista del vantaggio competitivo: in primo luogo, determina un cambiamento spesso radicale che porta l’impresa su un piano di costi strutturalmente diverso da quello in cui operava in passato; in secondo luogo, implica un cambiamento difficilmente imitabile dai concorrenti, che può quindi essere alla base di vantaggio competitivo maggiormente sostenibile nel tempo.

4.3.2 La differenziazione Le componenti fondamentali del concetto di differenziazione La differenziazione si propone di attribuire al prodotto o al servizio offerto fattori (tangibili o intangibili) che ne aumentano il valore riconosciuto dal mercato in assoluto e rispetto a quello dei prodotti o dei servizi concorrenti.16 16

Va precisato che la strategia di differenziazione può indicare anche l’estensione della linea di prodotti o servizi offerti, oppure l’ampliamento della gamma. Anche in questa prospettiva, per altro, la differenziazione può comunque favorire l’incremento di valore del prodotto. L’arricchimento della linea di cui il prodotto è parte o l’estensione della gamma possono rappresentare un elemento del valore di tale prodotto, poiché ne influenzano le condizioni d’uso e il grado di integrabilità con altri prodotti per la soddisfazione di un macro bisogno del cliente.

La differenziazione si propone di attribuire al prodotto o al servizio offerto fattori (tangibili o intangibili) che ne aumentano il valore riconosciuto dal mercato rispetto a quello attribuito ai prodotti o ai servizi concorrenti.

Parte I La strategia nel sistema impresa

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Quattro condizioni devono essere assolte affinché la differenziazione determini una posizione di vantaggio competitivo. unicità

valore La differenziazione deve manifestarsi in attributi specifici dell’offerta che, oltre a non essere presenti in quella dei rivali, generano un incremento del valore di cui il cliente beneficia direttamente.

Il punto di partenza della differenziazione è l’analisi e la comprensione dei bisogni del consumatore. percezione

La strategia di differenziazione deve essere accompagnata da un’adeguata comunicazione, finalizzata a informare il cliente delle specificità dell’offerta che gli viene proposta. sostenibilità

1. Unicità. L’offerta deve essere caratterizzata da alcuni aspetti che la distinguono in maniera netta da quella dei concorrenti. Gli elementi di unicità possono riguardare le componenti fisiche del prodotto, le sue caratteristiche intangibili o una serie di elementi aggiuntivi finalizzati appunto a introdurre elementi di diversità dalle offerte alternative. 2. Valore dei fattori di unicità. L’unicità è rilevante solo se è basata su fattori che creano effettivamente un valore per il cliente target. In altri termini, la differenziazione deve manifestarsi in attributi specifici dell’offerta che, oltre a non essere presenti in quella dei rivali, generano un incremento del valore di cui il cliente beneficia direttamente. L’incremento di valore per l’acquirente si può concretamente manifestare in due modi: • nella riduzione dei costi che egli sostiene per realizzare una certa attività; • nel miglioramento delle prestazioni che egli ottiene da una certa attività. L’accento posto sul valore sottolinea come gli interventi volti a differenziare l’offerta devono essere progettati e realizzati nella prospettiva soggettiva del cliente a cui è rivolta. Il punto di partenza della differenziazione è, quindi, l’analisi e la comprensione dei bisogni del consumatore.17 3. Percezione dell’unicità e del valore dei fattori che la determinano. L’esistenza di un maggior valore determinata dagli elementi di unicità non è sufficiente a generare la posizione di vantaggio competitivo. Affinché questo accada, è anche necessario che il cliente sia consapevole, da un lato, degli elementi di unicità che caratterizzano una determinata offerta, dall’altro del valore che da essi egli può trarre a suo vantaggio. Il valore insito nella differenziazione produce effetti concreti sul comportamento del consumatore nella misura in cui questi ne percepisce l’esistenza e il contenuto. Affinché risulti efficace, la strategia di differenziazione deve, allora, essere accompagnata da un’adeguata comunicazione, finalizzata a informare il cliente delle specificità dell’offerta che gli viene proposta. 4. Sostenibilità economica. Il maggior valore dell’offerta determinato dagli elementi di unicità e percepito dal cliente si traduce nella disponibilità di quest’ultimo a pagare per tale offerta un prezzo più alto di quello riconosciuto ai concorrenti. La strategia di differenziazione genera un vantaggio competitivo, se i costi sostenuti per attuare tale strategia sono inferiori al prezzo che il cliente è disposto a riconoscere all’offerta differenziata. In sintesi, il differenziale di prezzo determinato dal maggiore valore percepito dell’offerta deve essere maggiore del differenziale di costo che l’impresa sostiene per generare e far percepire tale valore.

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Questo concetto era già chiaro a chi si occupava di economia molti secoli prima della nascita del concetto moderno di impresa e di strategia competitiva. Alla fine del quindicesimo secolo, Diego de Cavarrubias, un ecclesiastico della scuola scolastica, scriveva: «Il valore di una merce non dipende dalla sua natura, ma dalla stima degli uomini, anche se questa stima è folle».

Capitolo 4 La gestione strategica

I vantaggi della differenziazione La differenziazione aumenta la disponibilità a pagare del cliente, consentendo quindi all’impresa di fissare un prezzo per il suo prodotto maggiore di quello degli altri operatori nella stessa area di business, senza per questo risentire di una riduzione della domanda. Se questo prezzo è superiore al costo unitario sostenuto per la differenziazione, l’impresa realizza un margine economico superiore, a parità di altre condizioni, a quello degli avversari; dispone, quindi, di una maggiore capacità di accumulazione di ricchezza. In maniera analoga a quanto osservato nel caso della strategia di vantaggio di costo, l’impresa non necessariamente traduce il vantaggio derivante dalla differenziazione in una variazione (in questo caso in aumento) del prezzo del prodotto. Se il prezzo è aumentato in maniera limitata e decisamente inferiore all’incremento di valore determinato attraverso la differenziazione, il prodotto migliora il proprio rapporto valore/prezzo rispetto a quelli concorrenti e, a parità di altre condizioni, attrae nuova domanda. In questo modo, la differenziazione favorisce l’aumento della quota di mercato dell’impresa e il suo potere di mercato. È immediato osservare che la maggiore quota di mercato può a sua volta riflettersi in un migliore sfruttamento delle economie di produzione e nella conseguente riduzione dei costi. Oltre che nell’aumento del livello di domanda, il miglioramento del rapporto valore offerto/prezzo conseguente alla differenziazione può tradursi nella maggiore soddisfazione del cliente e nel conseguente rafforzamento del suo grado di fidelizzazione. Le modalità di attuazione della differenziazione Per differenziare si può intervenire su (Figura 4.10): • • •

componenti tangibili; componenti intangibili; componenti aggiuntive e relazionali.

La differenziazione delle componenti tangibili La differenziazione degli aspetti tangibili riguarda gli attributi concreti del prodotto o del servizio.18 Gli aspetti più rilevanti a riguardo sono: • • •

• • •

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contenuto tecnologico; performance in termini di efficienza ed efficacia, sicurezza, versatilità; affidabilità (che rappresenta una specificazione delle sue performance focalizzata sulla probabilità che esso rispetti adeguati standard di funzionamento, almeno entro un certo orizzonte temporale e date determinate condizioni d’uso); caratteristiche dei materiali e dei componenti; integrabilità con altri prodotti, per soddisfare esigenze complesse della domanda; ampiezza della gamma di cui il prodotto è parte e la conseguente facilità con cui il cliente trova la versione del prodotto più adatta alle sue specifiche caratteristiche ed esigenze;

D’ora in avanti, per comodità di linguaggio, si utilizzerà solo il termine “prodotto”; si intende che quanto discusso continui a essere riferito sia ai “prodotti” sia ai “servizi”.

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La differenziazione aumenta la disponibilità a pagare del cliente, consentendo quindi all’impresa di fissare un prezzo per il suo prodotto maggiore di quello degli altri operatori nella stessa area di business, senza per questo risentire di una riduzione della domanda.

attrae nuova domanda

fidelizzazione

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Parte I La strategia nel sistema impresa

• Contenuto tecnologico • Performance (efficienza, sicurezza ecc.) • Affidabilità • Materiali e componenti • Integrabilità • Ampiezza della gamma • Innovatività • Design

Componenti tangibili

Livelli di attuazione della strategia di differenziazione

Componenti intangibili

• Marchio e immagine percepita • Reputazione • Sistema di valori • Integrità del prodotto

Figura 4.10 I livelli di attuazione della differenziazione.

• •

Il valore percepito di un bene dipende in maniera significativa anche da componenti intangibili.

immagine del prodotto

Componenti aggiuntive e “relazionali”

• Condizioni di acquisto • Caratteristiche del luogo di acquisto • Condizioni di utilizzazione • Fattori di segnalazione • Servizi aggiuntivi

grado di innovatività; design.

La differenziazione delle componenti intangibili Il valore percepito di un bene dipende in maniera significativa anche da componenti intangibili; nei mercati dei beni di largo consumo, ma in una certa misura anche in quelli dei beni durevoli e dei servizi, non è raro che tali componenti determino la parte preponderante del valore percepito dal mercato. In linea generale, i fattori intangibili di differenziazione influenzano l’atteggiamento, ovvero lo schema cognitivo che determina il modo in cui il consumatore si pone nei confronti del prodotto. Delineano l’immagine del prodotto, attraverso cui esso assume una personalità che lo caratterizza agli occhi del consumatore rispetto a quelli concorrenti.

Capitolo 4 La gestione strategica

La marca rappresenta una condizione essenziale per sfruttare gli elementi di differenziazione intangibile. In primo luogo perché costituisce la condizione necessaria per rendere il prodotto riconoscibile al di là delle sue specificità tangibili; senza questa riconoscibilità, esso non potrebbe beneficiare di alcun attributo immateriale e quindi acquisire una certa identità percepibile dal mercato. In secondo luogo la marca permette di sviluppare la reputazione del prodotto o di trasferire a suo vantaggio la reputazione di cui l’impresa gode sul mercato. La reputazione, a sua volta, è un fattore intangibile di differenziazione molto importante. Rapprsenta un potente strumento di indicazione del posizionamento e della qualità relativa dell’offerta; contribuisce fortemente a caratterizzarne l’identità percepita dal consumatore. In alcuni casi, infine, rappresenta in sé un fattore di valore. Un altro fattore intangibile di differenziazione è costituito dai valori ideali che il prodotto o l’impresa che lo propone rappresenta e intende diffondere. Incorporando determinati valori, il prodotto allarga la sua funzione d’uso: oltre determinati bisogni concreti, esso soddisfa l’esigenza del cliente di affermare la sua appartenenza a un certo sistema di idee e valori o addirittura di favorirne la diffusione. Un esempio a riguardo è rappresentato dal servizio crocieristico “Phantom”, lanciato nel 2016 dal Gruppo Carnival. Tale servizi è denominato “impact travel”; non propone il consueto format della crociera, il viaggio in nave è infatti finalizzato a portare i viaggiatori presso Comunità locali (nella repubblica Dominicana e a Cuba) dove partecipare ad attività sociali a loro vantaggio. La differenziazione a livello di componenti aggiuntive e relazionali Il terzo ambito di differenziazione concerne le componenti aggiuntive e relazionali. Le componenti aggiuntive sono costituite dai possibili elementi collaterali che contribuiscono ad ampliare i contenuti offerti dal prodotto per soddisfare in maniera più completa il bisogno del cliente, oppure a facilitare le modalità di soddisfazione di tale bisogno. In molti casi, le cliniche private pongono molta attenzione sulle componenti di natura “alberghiera” della loro offerta non strettamente legate alla prestazione sanitaria, che però hanno rilievo sulla complessiva soddisfazione del cliente. Peraltro, un segmento del mercato turistico in forte crescita è proprio quello del turismo “sanitario” caratterizzato appunto dalla forte integrazione del servizio medico “core” con componenti che permettono al paziente di vivere anche una positiva esperienza turistica. La differenziazione può essere basata sullo sviluppo di un’opportuna relazione tra l’impresa e il suo cliente. In questo senso, l’impatto delle componenti aggiuntive sulla differenziazione del prodotto è legato alla qualità del loro contenuto relazionale. I principali esempi di fattori aggiuntivi che allargano il beneficio originario del prodotto, contribuendo alla sua differenziazione sono i seguenti. •

La facilità di acquisto del prodotto. La facilità con cui il cliente può entrare in possesso del prodotto o comunque in contatto con il venditore è un elemento di valore molto importante che, per determinate tipologie di prodotto, può essere addirittura decisivo nella scelta del cliente. La facilità di acquisto va misurata in termini di costo (implicito ed esplicito) che il

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marca reputazione

valori ideali

L’impatto delle componenti aggiuntive sulla differenziazione del prodotto è legato alla qualità del loro contenuto relazionale.

facilità di acquisto del prodotto

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Parte I La strategia nel sistema impresa

ambiente in cui il cliente incontra il fornitore e il prodotto



condizioni che facilitano l’utilizzazione del prodotto



cliente sostiene per acquisire il prodotto poiché influenza il suo beneficio netto percepito. L’ambiente in cui il cliente incontra il fornitore e il prodotto. La qualità del contesto in cui avviene materialmente (o si prepara) la transazione rappresenta un elemento che aggiunge valore al prodotto stesso sotto diversi aspetti: migliora l’informazione che il cliente ha a disposizione; contribuisce a determinare l’immagine percepita e il posizionamento strategico del prodotto; influenza i costi che l’acquirente sostiene per effettuare l’acquisto. Per alcune tipologie di prodotto, in cui l’esperienza di acquisto ha un valore importante, il punto vendita ha un ruolo solitamente cruciale nel determinare la qualità di questa esperienza. Le condizioni che facilitano l’utilizzazione del prodotto. Le condizioni di impiego sono determinate innanzitutto dalle caratteristiche intrinseche del prodotto. Il produttore, inoltre, può prevedere una serie di servizi di assistenza finalizzati, appunto, ad aiutare il cliente a utilizzare nel modo migliore il prodotto; questi servizi, oltre ad avere un valore in sé, contribuiscono a rendere esplicito il valore insito nel prodotto (e non sempre immediatamente percepito dal cliente). Il rilievo di questi servizi è particolarmente forte nel caso dei beni industriali e dei prodotti tecnologicamente complessi.

La differenziazione può dunque essere basata sull’offerta di servizi che, rispetto al prodotto a cui sono collegati, sono finalizzati alle seguenti funzioni: migliorare le condizioni di acquisizione o di utilizzazione del prodotto; aumentare l’utilità direttamente tratta dall’utilizzazione del prodotto (a parità di costi di utilizzazione); diminuire i costi di utilizzazione del prodotto (a parità di utilità beneficiata); aumentare i benefici intangibili del prodotto; aumentare il livello di informazioni a disposizione del cliente. I servizi proposti ex ante, prima dell’acquisto e a prescindere se esso verrà o meno effettivamente realizzato, sono relativamente meno frequenti ma generalmente molto efficaci. Costituiscono un impegno significativo per l’impresa, che può essere recuperato solo indirettamente e non di rado in maniera parziale. Questi servizi rappresentano un investimento sullo sviluppo della relazione futura con il cliente potenziale; costituiscono una misura fondamentale per differenziare l’offerta dell’impresa attraverso l’instaurazione di una relazione tra impresa e acquirente che non inizia né si esaurisce con la transazione commerciale. L’inserimento dell’offerta del prodotto o del servizio nell’ambito di un più ampio sistema di scambio che l’impresa instaura con il cliente può produrre un netto aumento del valore di tale offerta. Il cliente viene coinvolto in una sorta di comunità che ospita altri soggetti con interessi ed esigenze analoghe alle sue; ha l’opportunità di influenzare almeno in parte alcune caratteristiche dell’offerta, in maniera da garantire la più puntuale soddisfazione dei suoi bisogni. L’acquisto del prodotto diviene una fase di una relazione più complessa ed estesa. Tra le “componenti aggiuntive” al prodotto vi sono i fattori di segnalazione, utili per facilitare la corretta valutazione da parte del cliente dell’effettivo valore dell’offerta. Essi hanno una funzione analoga a quella della reputazione e sono evidentemente tanto più importanti quanto più è oggettivamente difficile stimare

Capitolo 4 La gestione strategica

in maniera sufficientemente approssimata il reale valore dell’offerta. Una delle modalità più comuni (ma non per questo poco importante) di segnalazione è costituita dal dotare il prodotto di una garanzia per un lungo termine e molto ampia. Il notevole impegno economico e operativo che potenzialmente questo tipo di garanzia comporta per l’impresa produttrice segnala la sua relativa certezza circa l’affidabilità e la durata del suo prodotto e il conseguente non manifestarsi delle condizioni di esercizio della garanzia da parte del cliente. Il livello di investimenti in ricerca e sviluppo, l’intensità della comunicazione, il prezzo, possono essere altri “segnali” che contribuiscono alla differenziazione del prodotto cui si riferiscono. I fattori di segnalazione intervengono nella differenziazione dell’offerta sotto tre profili: in primo luogo, aumentano l’informazione immediatamente disponibile per il consumatore, riducendo un onere (quello della ricerca di informazioni) e un rischio (quello di commettere un errore di valutazione); in secondo luogo, rafforzano nel consumatore la percezione degli elementi di unicità che differenziano il prodotto in questione; infine, possono manifestarsi con modalità che aggiungono valore all’offerta. Si osserva che è opportuno inviare segnali al cliente non solo prima o durante l’acquisto, ma anche successivamente, per rassicurare l’acquirente della validità della sua scelta e incoraggiarlo a confermarla in futuro. Per essere credibili, i fattori di segnalazione devono essere in qualche modo vincolanti per l’impresa che li emette. Devono quindi essere facilmente verificabili dal cliente e impegnare l’impresa in maniera economicamente rilevante. Per altro, il costo dei fattori di segnalazione dovrebbe essere scaricato in misura solo parziale sul consumatore, poiché questi non è sempre portato a riconoscere un valore intrinseco a tali fattori. Nel caso dei beni durevoli, un esempio frequente di fattore di segnalazione è, come detto, la garanzia molto estesa nel tempo e nei contenuti circa l’affidabilità del prodotto e che impegna l’impresa a farsi carico di eventuali difetti o malfunzionamenti. Tale garanzia costituisce un impegno oneroso per l’impresa; il fatto che essa se lo assuma “segnala” che ritiene molto bassa la probabilità del verificarsi di eventuali problemi al prodotto garantito. L’integrità del prodotto Qualunque sia il piano sul quale l’impresa agisce per differenziare la propria offerta, occorre prestare attenzione alla cosiddetta integrità del prodotto. Clark e Fujimoto (1991) hanno sottolineato il principio per cui gli interventi volti a differenziare un prodotto devono essere tali da preservare o, anzi, enfatizzare l’equilibrio complessivo tra le varie caratteristiche del prodotto e la loro coerenza con le sue funzioni d’uso e, quindi, con le specificità del tipo di cliente a cui esso è rivolto. I due autori distinguono un’integrità interna e un’integrità esterna. La prima concerne la coerenza tra la struttura fisica del prodotto e delle sue componenti e le funzioni che esso deve assolvere; si manifesta, quindi, nella qualità dell’integrazione tra le varie componenti del prodotto e nell’efficacia ed efficienza con cui esse realizzano le prestazioni per cui sono state disegnate. Il secondo fa riferimento alla coerenza tra il prodotto, inteso come insieme di componenti tangibili e intangibili (caratterizzate da un certo grado di integrità interna), e le aspettative, le esigenze e l’identità del cliente target.

integrità del prodotto

integrità interna integrità esterna

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Parte I La strategia nel sistema impresa

4.3.3 La focalizzazione La strategia di focalizzazione consiste nella ricerca di una posizione di vantaggio nei costi o di differenziazione in un’area molto circoscritta (una nicchia) del mercato.

Il contenuto della strategia di focalizzazione La strategia di focalizzazione consiste nella ricerca di una posizione di vantaggio nei costi o di differenziazione in un’area molto circoscritta (una nicchia) del mercato. Per sua natura, la strategia di focalizzazione tende a essere adottata più frequentemente dalle imprese di dimensione minore che hanno maggiore convenienza e, al tempo stesso, maggiore necessità di operare nelle nicchie del mercato. Vantaggi e limiti della focalizzazione Rispetto alle due precedenti strategie, la focalizzazione ha alcuni vantaggi importanti. • • •

Consente all’impresa di indirizzare tutti i propri sforzi economici e strategici in un contesto circoscritto e, quindi, di beneficiare, a parità di altre condizioni, di una maggiore forza competitiva per un dato livello di risorse disponibili. Favorisce la specializzazione delle risorse e delle conoscenze, rafforzando così le opportunità di raggiungere una posizione di vantaggio competitivo nella propria area di business. Riduce la pressione competitiva proveniente dalle grandi imprese che tendono ad avere minore attenzione verso le aree di business di piccola dimensione.

Dati questi vantaggi, risultano evidenti le ragioni per cui la focalizzazione è una strategia competitiva particolarmente adatta per la piccola impresa. Nella nicchia, infatti, la dimensione di efficienza ottimale della produzione è ovviamente inferiore, così come relativamente minori sono le fonti finanziarie necessarie per sostenere una strategia competitiva. La modesta dimensione del capitale disponibile, della capacità produttiva e dell’organizzazione, tipica delle imprese minori, non costituiscono, quindi, fattori eccessivamente penalizzanti. A questo si aggiunge la circostanza che in un contesto di mercato di limitata estensione, le variabili competitive sono ridotte e per certi versi semplificate rispetto a quanto accade nei mercati di maggiore dimensione. La strategia di focalizzazione presenta alcuni rischi, per certi versi speculari ai vantaggi precedentemente descritti. In primo luogo, l’intrinseca mancanza di diversificazione, lega le vicende dell’impresa “focalizzata” all’andamento della sua nicchia; almeno sul piano teorico, il ciclo di vita della prima segue quello della seconda. Nel momento in cui la nicchia si avvicina alla maturità o addirittura al declino, l’impresa perde le opportunità di sviluppo, subisce la riduzione dei margini economici normalmente tipica appunto di queste fasi e si trova praticamente nell’impossibilità di contrastare la contrazione dei volumi di attività. L’impresa riesce a evitare la crisi solo se dotata di una struttura dei costi sufficientemente flessibile e di una notevole solidità finanziaria, oppure se è in grado di individuare nuovi segmenti di domanda con migliori dinamiche di crescita cui rivolgere la propria offerta. Va poi tenuto conto del rischio che l’area di mercato ove l’impresa si focalizza si riveli non sostenibile dal punto di vista economico, perché troppo piccola in termini di valore potenziale, o perché caratterizzata da una competizione (attuale o potenziale) troppo intensa. Non è raro che l’impresa scelga l’area di mercato dove focalizzarsi sulla base più che altro delle risorse di cui dispone e/o di opportunità particolari che le si presentano, senza quindi valutare con sufficiente attenzione le effettive potenzialità economiche di tale mercato. In questo caso, l’impresa rischia di indirizzare

Capitolo 4 La gestione strategica

i suoi sforzi in una direzione che già nel medio termine potrebbe rivelarsi scarsamente redditizia. Inoltre, proprio perché la nicchia è un ambito competitivo favorevole alle imprese di dimensioni minori, è naturale che sia il target di molte aziende, appunto piccole, disposte ad abbattere fortemente il prezzo pur di conquistare uno spazio di mercato. Infine, la nicchia può risultare non sufficientemente protetta e, nonostante la limitata rilevanza economica, attrarre comunque l’attenzione di grandi imprese. Questo accade facilmente quando la domanda nei segmenti più rilevanti del mercato è in fase recessiva e anche le imprese maggiori iniziano a prendere in considerazione le aree di domanda in precedenza giudicate interstiziali e, quindi, economicamente poco rilevanti. Del resto, nel caso in cui la strategia di focalizzazione dia risultati molto brillanti, l’elevata profittabilità che ne consegue finisce con l’attrarre altri concorrenti.

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La nicchia può risultare non sufficientemente protetta.

4.4 Le strategie di collaborazione 4.4.1 Il significato, le motivazioni e gli attori delle strategie collaborative La cooperazione come manifestazione del comportamento strategico19 Il comportamento strategico dell’impresa non è necessariamente di tipo solo competitivo; può essere anche di natura collaborativa. Nella realtà si osserva una notevolissima diffusione di comportamenti cooperativi tra le imprese, non di rado anche tra quelle i cui prodotti competono nello stesso mercato finale. Del resto non vi è alcuna ragione concettuale per ritenere che l’interazione strategica tra due soggetti debba essere esclusivamente conflittuale; tra le imprese di uno stesso settore e collegate in una determinata filiera si possono instaurare (e spesso coesistono) relazioni competitive e appunto cooperative. La rilevanza della cooperazione emerge anche con riferimento al fine imprenditoriale di massimizzazione del valore economico. Per raggiungere questo obiettivo non basta appropriarsi delle opportunità da cui trarre valore, occorre anche creare tali opportunità; a tal fine, operare insieme ad altri è spesso molto più efficace. Vale qui la pena ricordare quanto già precisato a proposito del concetto di ambiente competitivo,20 che va inteso non come ambiente dove gli attori sono in conflitto, ma come ambiente dove essi interagiscono, in maniera appunto sia competitiva sia cooperativa. Diversi studi (Hertz, Mattson, 2004) hanno osservato che proprio nei mercati maggiormente esposti alla concorrenza, aumenta la frequenza di intese tra imprese collegate nell’ambito di una stessa costellazione. D’altro canto, la concorrenza, intesa come confronto conflittuale, non necessariamente si svolge solo tra imprese singolarmente considerate ma spesso tra insiemi21 di aziende tra loro alleate (Gomes-Casseres, 1996). Gli accordi commerciali tra compagnie aeree di Paesi diversi nel mercato del trasporto aereo intercontinentale sono un chiaro esempio di questo tipo di concorrenza.

19

Intenderemo qui i termini collaborazione e collaborativa come contrari di competizione e competitiva, quindi riferiti alle diverse modalità di accordi e alleanze che possono essere stabilite tra le imprese. 20 Si veda a riguardo il Paragrafo 1.4. 21 Si rimanda al concetto di “costellazioni” o sistemi di imprese che sviluppano insieme offerte complesse, in concorrenza con quelle realizzate da altri aggregati dello stesso genere.

Il comportamento strategico dell’impresa può essere anche di natura collaborativa.

Nei contesti competitivi maggiormente esposti alla concorrenza aumenta la frequenza di intese tra imprese collegate nell’ambito di una stessa costellazione.

132

Parte I La strategia nel sistema impresa

La redditività potenziale ottenibile da un’impresa in un certo contesto non dipende, soltanto dall’intensità della concorrenza al suo interno, ma anche dalle opportunità di cooperazione esistenti. cooperazione in linea orizzontale cooperazione in linea verticale cooperazione in linea laterale

territorio di appartenenza

numerosità dei partner

Naturalmente, la coesistenza tra competizione e cooperazione dipende anche dalle specificità del contesto e delle attività coinvolte; è significativo a riguardo il caso della ricerca e sviluppo dove le imprese tendono frequentemente a collaborare nelle fasi iniziali del processo, per poi competere nella fase dello sfruttamento dei risultati di tale attività. La redditività potenziale ottenibile da un’impresa in un certo contesto non dipende, dunque, soltanto dall’intensità della concorrenza al suo interno, ma anche dalle opportunità di cooperazione esistenti. La qualità dell’ambiente competitivo va valutata anche in relazione alle condizioni che esso offre alle imprese per implementare le varie forme di alleanza. La cooperazione può manifestarsi in linea orizzontale, verticale e laterale. La cooperazione in linea orizzontale si attua tra imprese impegnate in una stessa area di business o di mercato. La cooperazione in linea verticale si attua tra soggetti operanti in fasi diverse e collegate di una stessa filiera; in sostanza si fa riferimento alle collaborazioni stabilite da un’impresa con i propri fornitori o con i propri distributori/clienti. La cooperazione in linea laterale si attua tra aziende appartenenti a settori o mercati diversi, o quella tra aziende e altri tipi di organizzazioni (università, istituzioni ecc.). Le alleanze possono essere distinte anche in relazione al territorio di appartenenza degli attori coinvolti; quelle tra imprese collocate in una stessa microarea geografica (tipicamente, i distretti) hanno natura e dinamiche evidentemente molto diverse dagli accordi tra imprese internazionali. Infine, le alleanze si differenziano in relazione alla numerosità dei partner coinvolti.

Esperienza

Honda e Yamaha nel busines degli scooter: acerrimi rivali ma anche alleati I due principali competitor giapponesi nel settore delle moto si alleano, in particolare nel mercato giapponese e nel solo business dei piccoli scooter (50 cc) elettrici. L’alleanza è stata stimolata dagli importanti cambiamenti vissuti dal mercato in questi ultimi decenni anni; nello specifico, una contrazione di oltre l’80% delle quantità vendute dall’epoca d’oro degli anni ’80 (3,3 milioni di unità vendute nel 1982, rispetto ai 400 000 nel 2015), e la previsione che anche in futuro la contrazione continuerà per ragioni demografiche e di competizione. L’alleanza è stata annunciata formalmente dalle aziende a ottobre 2016; prevede che dal 2018, Honda produca circa 50 000 scooter 50cc attualmente realizzati a Taiwan per il partner/concorrente nella veste di “Original Equipment Manufacturer”; la produzione sarà concentrata presso l’impianto Honda di Kumamoto che vedrebbe così saturata la sua capacità produttiva attualmente largamente sotto-utilizzata. L’intesa prevede anche che le due imprese lavoreranno insieme nello sviluppo di nuovi modelli elettrici, in particolare per il segmento dei “business scooter” (consegne). Il direttore generale di Honda Motor ha dichiarato che l’alleanza è finalizzata a rivitalizzare il mercato giapponese dei piccoli motocicli. Il managing executive officer di Yamaha ha dichiarato “crediamo che le nostre attività di collaborazione che iniziano con una alleanza OEM andranno oltre il framework di un semplice accordo di fornitura di prodotti e si delineerà una futura cultura del motociclo in Giappone.” Interessante osservare che l’iniziativa per realizzare l’intesa è stata presa da Yamaha, più piccola tra i due partner.

Capitolo 4 La gestione strategica

Le motivazioni alla base di una strategia cooperativa Le motivazioni alla base di un’intesa vanno innanzi tutto ricercate all’interno dei soggetti che si propongono di attuarla: nella loro strategia di sviluppo, negli assetti organizzativi e nei valori e cultura manageriale di decisori. Vi possono però essere anche fattori ambientali che, rendendo gli accordi una soluzione strategica particolarmente favorevole o necessaria, stimolano fortemente gli attori in tale direzione. Per esempio, fino a non molti anni fa, i governi locali di molti Paesi emergenti consentivano alle imprese internazionali di entrare nel mercato di tali Paesi solo attraverso joint ventures con aziende locali. Un’altra possibile spinta ambientale è determinata dall’azione delle istituzioni pubbliche a supporto della costituzione di accordi tra piccole e medie imprese. Si individuano quattro fondamentali motivazioni di carattere interno alle imprese: 1. sviluppo del patrimonio di competenze; 2. miglioramento dell’efficienza; 3. espansione della capacità produttiva e distributiva; 4. gestione della posizione competitiva. Queste motivazioni non si escludono, anzi, tendono spesso a coesistere, influenzandosi reciprocamente (Figura 4.11). In questa fase storica, lo sviluppo del patrimonio di competenze ha assunto particolare pregnanza. Alleanze su progetti di ricerca o di innovazione o per ottimizzare la gestione di determinate attività sono sempre più diffuse e decisive nell’evoluzione delle imprese. Sono favorite dall’opportunità di condividere gli ingenti investimenti spesso necessari e favorire il massimo e rapido sfruttamento dei risultati. Le intese finalizzate allo sviluppo di competenze hanno un problema di fondo derivante dalla circostanza che una competenza per essere distintiva deve essere sufficientemente esclusiva. È quindi particolarmente complesso individuare i meccanismi efficaci di gestione e appropriazione dei risultati da parte dei vari partner dell’intesa. Proprio a causa di queste problematiche è abbastanza frequente che gli accordi per lo sviluppo in comune di conoscenze e tecnologie siano attuati da imprese che operano (o che si impegnano a farlo) in contesti geografici e di business diversi. Nella prospettiva del rafforzamento del patrimonio di risorse rientrano anche le alleanze tra imprese portatrici di risorse e competenze eccellenti e comple-

133

fattori ambientali

azioni delle istituzioni pubbliche motivazioni di carattere interno

È abbastanza frequente che gli accordi per lo sviluppo in comune di conoscenze e tecnologie siano attuati da imprese che operano (o che si impegnano a farlo) in contesti geografici e di business diversi.

Efficienza

Risorse

ACCORDI Posizione competitiva

Espansione

Strategie emergenti

Figura 4.11 Le possibili motivazioni alla base di una strategia di cooperazione.

134

Parte I La strategia nel sistema impresa

miglioramento dell’efficienza Il miglioramento dell’efficienza è una spinta più tradizionale che porta alla formazione di alleanze, non di rado come fase intermedia di un processo di più completa integrazione tra i partner. condivisione di determinate fasi del processo produttivo centralizzazione di determinate attività

accordi collusivi

opportunità/minacce di tipo contingente

integrazione di capacità produttiva e/o del portafoglio prodotti o servizi volontà di coordinare o integrare determinate politiche di marketing e commerciali

mentari rispetto a un certo obiettivo competitivo. La complessità del quadro competitivo e la necessità di operare con grande velocità rende sempre più difficile per l’impresa sviluppare al proprio interno tutte le risorse necessarie per competere, rendendo preferibile puntare su specializzazione da un lato e, appunto, integrazione con altre aziende dall’altro. Le alleanze strategiche tra le principali compagnie automobilistiche e i grandi operatori digitali di cui si è accennato nel precedente paragrafo sono un significativo esempio in tal senso; evidenziano anche la centralità della cooperazione nei modelli di business contemporanei. Il miglioramento dell’efficienza è una spinta alle alleanze che, non di rado, evolvono in una più completa integrazione tra i partner. Più in particolare, l’intesa può riguardare la condivisione di determinate fasi del processo produttivo, così da ridurre i costi di natura generale e aumentare l’effetto di scala; può manifestarsi addirittura nella centralizzazione di determinate attività della catena del valore (e dei relativi investimenti) in modo da dare a tale attività la dimensione critica che favorisce la minimizzazione dei costi un più rapido (a parità di altre condizioni) recupero degli investimenti. Le alleanze possono essere determinate dalla necessità di raggiungere le dimensioni adeguate per entrare in nuovi mercati geografici o per diversificare in nuove aree di businesss. Tali accordi appaiono un’opzione decisiva in particolare per affrontare mercati di grandi dimensioni o quelli in condizioni di elevata incertezza, ma notevole potenziale di crescita. In questi ambiti le intese appaiono particolarmente efficaci per ridurre l’investimento finanziario richiesto alla singola impresa, diminuendone anche, a parità di altre condizioni, la rischiosità complessiva. La gestione della posizione competitiva è la motivazione in un certo senso più controversa di alleanza perchè può portare agli accordi così detti collusivi, generalmente considerati non leciti, in quanto volti a ridurre la concorrenza nel mercato e favorire lo sfruttamento della posizione dominante raggiunta in seguito alla concertazione. Gli accordi di natura collusiva sono normalmente finalizzati a garantire convergenza e stabilità ai prezzi nel mercato; di conseguenza, tendono a organizzare i volumi di produzione e la distribuzione geografica delle quote di mercato dei vari partner dell’accordo. Possono anche riguardare il coordinamento di strategie aggressive contro potenziali entranti nel settore o imprese che per qualche ragione minacciano di riattivare dinamiche concorrenziali. In molti casi non è semplice attribuire con certezza natura collusiva a un accordo: in primo luogo perché queste intese sono spesso tacite, basate non su procedure esplicite ma su comportamenti semiautomatici degli attori coinvolti; in secondo luogo, perché gli effetti collusivi di un accordo possono essere mascherati da altri risultati o anche essere una conseguenza magari non voluta del perseguimento di altro tipo di obiettivi. Le intese finalizzate al rafforzamento della posizione competitiva possono naturalmente essere stimolate anche da obiettivi leciti. In questo ambito, una spinta significativa e piuttosto comune è rappresentata dal manifestarsi di opportunità/minacce di tipo contingente. Un caso tipico a riguardo è il presentarsi di particolari opportunità di mercato, rispetto alle quali sono necessari investimenti che la singola impresa non è in grado di effettuare autonomamente. Alleanze con obiettivi competitivi possono essere stimolate anche dalla volontà di integrazione di capacità produttiva e/o del portafoglio prodotti o servizi per presentare un’offerta nel suo insieme più coerente con le dinamiche del mercato e più in grado di far fronte alle specificità del suo andamento. Vanno anche considerate le intese basate sulla volontà di coordinare o integrare determinate politiche di marketing e commerciali. Un’ulteriore motiva-

Capitolo 4 La gestione strategica

zione, che riguarda normalmente gli accordi tra imprese operanti in mercati geografici diversi e scarsamente collegati è lo scambio di fattori di vantaggio competitivo utilizzabili da ciascun partner nel proprio specifico contesto. Come ogni scelta strategica anche le alleanze non necessariamente derivano da una valutazione razionale dei possibili vantaggi e obiettivi da raggiungere; possono essere la strategia emergente conseguente al manifestarsi di condizioni, favorevoli o sfavorevoli, non previste ma con forte impatto sulle dinamiche del business. Oppure, possono essere conseguenti a particolari spinte provenienti da determinati soggetti con potere decisionale.

scambio di fattori di vantaggio competitivo

Le diverse tipologie di attori coinvolti Le alleanze possono legare soggetti tra loro più o meno simili rispetto alle seguenti cinque variabili: 1. dimensione (cooperazione tra grandi imprese; tra grandi, medie, piccole; tra medie e piccole; tra piccole e micro imprese ecc.); 2. posizione competitiva (cooperazione tra leaders di mercato; tra questi e i followers; tra gruppi di followers); 3. area di business di principale focalizzazione (cooperazione tra imprese dello stesso raggruppamento strategico della stessa filiera; tra imprese di raggruppamenti strategici e filiere diverse, più o meno contigue); 4. natura dei soggetti (cooperazione tra imprese; tra imprese e istituzioni, università, forze sociali ecc.); 5. area geografica di origine (alleanze tra soggetti dello stesso Paese o di Paesi diversi).

4.4.2 La “capacità” di collaborare La misura in cui l’impresa riesce a stabilire alleanze utili al proprio processo di sviluppo e a sfruttarne al meglio gli effetti dipende dalla sua “capacità” di cooperare. Tale capacità rappresenta una condizione necessaria attraverso la quale l’impresa si mette nelle condizioni di essere parte di un’alleanza, svolgendo un ruolo per essa vantaggioso. La capacità di cooperare è la risultante di diverse condizioni. In primo luogo, la disponibilità di risorse per finanziare gli investimenti richiesti dall’attuazione dell’accordo, nonché i costi (spesso non irrilevanti) assorbiti dalla gestione dello stesso accordo. La disponibilità di risorse distintive è un secondo fattore basilare, dato che le alleanze sono spesso basate proprio sull’integrazione di risorse eccellenti, complementari, apportate da soggetti diversi. Altrettanto importanti sono i fattori che influenzano22 l’atteggiamento di fondo dei soggetti con potere decisionale verso l’opzione della cooperazione, la loro capacità di valutarne costi e benefici e di individuare i possibili partner. Tali fattori sono: •

22

capitale sociale, ovvero la qualità delle relazioni stabilite dall’impresa con soggetti esterni, e in particolare con quelli potenzialmente partner di accordi;

In questo senso la capacità di cooperare costituisce un ottimo esempio di capacità dove il potenziale di determinate risorse materiali è sviluppato dalla disponibilità di condizioni immateriali.

capitale sociale

135

Parte I La strategia nel sistema impresa

136

stile manageriale



chiarezza degli obiettivi strategici



competenze organizzative



reputazione



stile manageriale e attitudine culturale verso la cooperazione con altri soggetti; chiarezza degli obiettivi strategici e, di conseguenza, capacità di innestare scelte di tipo cooperativo nel progetto strategico o addirittura nel modello di business dell’impresa competenze organizzative specificatamente richieste per la progettazione dell’accordo, e per la gestione di tutte le sue fasi; reputazione goduta dall’impresa, con specifico riferimento alla qualità del patrimonio di risorse disponibili e all’affidabilità come partner di intese con altri soggetti.

4.4.3 Le diverse tipologie di alleanza e il loro ciclo di vita Alleanze tattiche e alleanze strategiche Le alleanze possono essere distinte in tattiche e strategiche sulla base dei seguenti sei possibili criteri: 1. 2. 3. 4. 5. 6. Le alleanze di tipo strategico si distinguono da quelle tattiche per il fatto di incidere in maniera molto più profonda e duratura sul processo evolutivo dell’impresa, richiedendo di conseguenza un impegno organizzativo e finanziario molto più consistente.

Tabella 4.1

obiettivi dell’alleanza; potenziale impatto sulla strategia competitiva di ciascun partner; potenziale impatto sulla gestione operativa di ciascun partner; livello delle risorse impiegate/investite; grado necessario di integrazione tra i sistemi organizzativi dei partner richiesta; durata.

Rispetto a questi elementi è possibile caratterizzare i due tipi alleanza (Tabella 4.1). In sintesi, le alleanze di tipo strategico si distinguono da quelle tattiche per il fatto di incidere in maniera molto più profonda e duratura sul processo evolutivo dell’impresa, quindi sulla sua strategia competitiva e di crescita, richiedendo di conseguenza un impegno organizzativo e finanziario molto più consistente. La netta distinzione tra alleanze tattiche e strategiche ha funzione più che altro esemplificativa. Nella realtà, infatti, le alleanze tattiche sono spesso una prima fase di collaborazione tra i partner che può evolvere in forme più consistenti di integrazione; in questo senso, l’alleanza tattica offre l’opportunità agli attori coinvolti di sperimentare in concreto la reciproca capacità/attitudine di lavorare insieme, mantenendo la massima flessibilità rispetto alle scelte future. Non è raro osservare l’attivazione di collaborazioni su questioni abbastanza limitate, guidate

Le caratteristiche distintive dell’alleanza tattica e dell’alleanza strategica Alleanza tattica

Natura degli obiettivi

Obiettivi funzionali alla soluzione di problematiche contingenti Potenziale impatto sulla strategia Modesto o assente Potenziale impatto sulla gestione Elevato operativa Livello di risorse impiegate Generalmente limitato Integrazione organizzativa Modesta o comunque temporanea Durata Di breve termine, salvo l’eventualità di una reiterazione nel tempo delle attività previste dall’alleanza

Alleanza strategica

Obiettivi funzionali alla attuazione della vision e della mission dell’azienda Elevato Non necessariamente significativo nell’immediato; elevato nel medio termine Generalmente molto consistente Elevata e normalmente strutturale Di medio-lungo termine

Capitolo 4 La gestione strategica

proprio dalla volontà di verificare sul campo la possibilità di stabilire in futuro alleanze a più ampio spettro. Le alleanze tattiche tendono ad avere molte possibili manifestazioni, rientrando comunque quasi sempre in due ambiti fondamentali: 1. azioni finalizzate allo sviluppo commerciale e alla gestione ottimale dei clienti; 2. gestione di particolari problematiche nello svolgimento ordinario del processo produttivo.

137

Le alleanze tattiche rappresentano normalmente una prima fase di avvicinamento tra i partner nella prospettiva di avviare forme più consistenti di integrazione.

Il contesto di attuazione di queste alleanze si allarga notevolmente quando queste sono attuate con l’intento fondamentale di avviare un processo di progressiva integrazione strategica tra gli attori coinvolti. Anche le alleanze strategiche hanno manifestazioni eterogenee che possono essere raggruppate in tre modalità essenziali: 1. accordi contrattuali di medio-lungo termine; 2. consorzi; 3. joint ventures. I consorzi e le joint ventures si distinguono dagli accordi contrattuali essenzialmente perché implicano la costituzione di un nuovo soggetto giuridico e almeno un certo apporto di capitale dei partner. Le joint ventures sono a tutti gli effetti una società costituita da un certo numero (quasi sempre limitato) di soggetti; hanno quindi regole di governance e funzionamento analoghe a quelle di una qualsiasi altra impresa. I consorzi sono una forma societaria specifica, normalmente caratterizzato da un numero elevato di imprese consorziate. Con alcune eccezioni (Airbus, per esempio, è un consorzio ed è uno dei due principali produttori mondiali di aeroplani) i consorzi sono costituiti da imprese piccole o medie. Il ciclo di vita delle alleanze strategiche Un’alleanza strategica è un fenomeno che si dispiega nel tempo. La sua evoluzione è fortemente caratterizzata dal progetto da cui trae origine, ma anche da fattori contingenti che possono manifestarsi durante la sua operatività. Ogni intesa è, quindi, caratterizzata da un ciclo di vita articolato in tre macrofasi: preparazione, gestione e transizione. Il ciclo di vita di un’alleanza può evidentemente concludersi nella sua prima fase, quando i partner non trovano un’intesa adeguata o non riescono a darne seguito concreto. Nel caso in cui la fase preparatoria si concluda positivamente, l’alleanza è avviata operativamente con la fase di gestione. Dopo un arco temporale più o meno lungo, l’intesa arriva a una fase di transizione nel senso della sua conclusione o del rinnovo in funzione di nuove finalità. Le alleanze sono infatti costituite con obiettivi normalmente ben esplicitati, per quanto più o meno ampi e complessi; di conseguenza, nel momento in cui tali obiettivi sono stati raggiunti o, al contrario, appaiono chiaramente non più perseguibili, esse vengono concluse o riprogettate e rilanciate. La fase di preparazione comprende dapprima le attività attraverso cui i potenziali partner definiscono (spesso negoziano) i rispettivi apporti di risorse, impegni, il “chi fa che cosa” nell’ambito delle attività oggetto dell’accordo e la sua governance. Raggiunta l’intesa sul modello di collaborazione, si procede alla predisposizione delle condizioni materiali per la sua concreta attivazione, a partire dalla costituzione della struttura organizzativa e degli organi di governo. Soprattutto tra le piccole imprese operanti in uno stesso territorio, è ancora diffuso il

accordi contrattuali consorzi joint ventures

Ogni intesa è caratterizzata da un ciclo di vita che è articolato in tre macrofasi: preparazione, gestione e transizione.

preparazione

Parte I La strategia nel sistema impresa

138

gestione transizione

fenomeno di intese informali, basate sulla fiducia reciproca tra i partner e sulla rilevanza del “social capital” che li accomuna. In linea generale, gli accordi quanto più sono complessi, tanto più richiedono un’accurata formalizzazione. In questa fase, le parti predispongono anche i vari contratti per regolare i reciproci impegni, diritti e responsabilità e i principali meccanismi di attuazione dell’intesa. La fase di gestione concerne le varie attività previste nel progetto strategico da cui l’alleanza ha avuto origine o stimolate da eventi successivi rilevanti. La fase di transizione interviene quando l’alleanza, così come era stata concepita nella sua fase iniziale, ha esaurito la sua ragion d’essere. Questa fase può manifestarsi in tre modalità alternative: la formale chiusura dell’intesa, quindi la conclusione delle attività svolte nel suo ambito, la liquidazione delle eventuali posizioni finanziarie; la restituzione degli asset ai rispettivi titolari; il rilancio dell’alleanza in seguito a un aggiornamento degli obiettivi strategici ed eventualmente degli attori coinvolti; l’attuazione di una forma di maggiore integrazione tra i partner (per esempio, una joint venture) può evolvere nella fusione tra i partner o nell’acquisizione del suo pieno controllo da parte di uno di questi.

4.4.4 Le condizioni di successo delle alleanze strategiche Il successo di un’alleanza è determinato sia da condizioni soggettive dei partner sia da aspetti oggettivi relativi all’alleanza in sé.

coerenza deve esservi coerenza

obiettivi strategici apporto di risorse e di competenze orizzonte temporale approccio culturale

Il successo di un’alleanza è determinato sia da condizioni soggettive dei partner sia da aspetti oggettivi relativi all’alleanza in sé. Condizioni soggettive Sul piano delle condizioni soggettive è essenziale che i partner abbiano caratteristiche tali da essere tra loro coerenti; questa coerenza non può non manifestarsi nella fase di avvio, ma è altrettanto importante che si mantenga durante tutto il ciclo di vita della collaborazione. Deve esservi coerenza su almeno i seguenti quattro ambiti: 1. obiettivi strategici dei singoli partner e, quindi, motivazioni di fondo che muovono ciascuno a ricercare forme di collaborazione con gli altri; 2. apporto di risorse e di competenze, in termini di valore complessivo e complementarietà rispetto alle attività da realizzare attraverso l’accordo; 3. orizzonte temporale, in particolare per quanto riguarda i tempi di attesa dei risultati e di recupero degli investimenti; 4. approccio culturale verso gli accordi, relativamente, per esempio, al tipo di risultati attesi, alle modalità di gestione, al rilievo strategico attribuito, al grado di trasparenza tra i partner, alle modalità di condivisione dei risultati. Condizioni oggettive Le condizioni oggettive derivano dal modo in cui l’accordo è progettato e riguardano quattro questioni fondamentali.

Effettivo potenziale impatto che le finalità dell'intesa possono avere sugli obiettivi strategici dei singoli partner. equilibrio tra i costi e i benefici

1. Effettivo potenziale impatto che le finalità dell’intesa possono avere sugli obiettivi strategici dei singoli partner. 2. Equilibrio tra i costi sostenuti dai diversi attori e i benefici che gli stessi riescono a trarre dall’accordo; le intese hanno successo se sono strutturate in maniera tale da risultare un win win game e da evitare fenomeni di free riding. È, quindi, molto importante che gli oneri e i vantaggi dell’intesa siano

Capitolo 4 La gestione strategica

il più possibile oggettivamente verificabili e che la loro distribuzione tra i partner avvenga in maniera trasparente e comunque condivisa. Molte alleanze, in particolare nei settori ad alta tecnologia e comunque nell’ambito della ricerca e innovazione, entrano in crisi proprio sulla questione della “appropriabilità” dei risultati, intesa sia come condizione di accesso ai risultati prodotti dall’alleanza, sia come capacità di tutti i singoli partner di avvantaggiarsene individualmente. 3. Sistema di governo, che peraltro influenza anche il modo in cui si configurano le questioni indicate ai due punti precedenti. Riguarda, in particolare, l’attribuzione dei poteri e degli ambiti di competenza tra i vari partner. Nelle intese che prevedono la costituzione di una struttura organizzativa, va gestita la scelta relativa alla provenienza aziendale di coloro cui sono affidate le funzioni di governo e quelle manageriali apicali. 4. Determinazione di un corretto equilibrio tra autonomia e integrazione della struttura di gestione dell’alleanza dai soggetti partner che l’hanno costituita. Si tratta innanzi tutto di garantire che chi gestisce l’accordo operi concretamente in linea con gli indirizzi stabiliti dai partner e comunque nel loro interesse. Allo stesso tempo, è necessario che i partner dell’accordo rispettino gli eventuali vincoli alla loro operatività individuale e, in alcune circostanze, anche alla loro autonomia strategica, necessari per il successo dell’accordo. Per attuare il delicato equilibrio descritto al punto precedente, è necessario predisporre adeguati meccanismi di controllo per un verso e di incentivazione per l’altro. Il successo di un’alleanza dipende dunque anche dall’efficacia delle procedure che facilitano l’integrazione e il dialogo tra i vari soggetti coinvolti, nonché il loro eventuale disimpegno. L’insieme delle condizioni oggettive e soggettive che incidono sulla probabilità di successo di un’alleanza può essere sintetizzato nei seguenti sei principi generali: 1. costituire un’alleanza intorno all’insieme di competenze apportate da ciascuno dei partner; 2. costituire un’alleanza per sfruttare una propria risorsa esclusiva con partner che a loro volta sono in grado e intendono fare la stessa cosa; 3. condividere con attenzione e in un’adeguata prospettiva temporale gli obiettivi dell’alleanza; 4. non ricorrere alle alleanze per neutralizzare una propria debolezza, né con chi si propone di sopperire a una propria debolezza; 5. assegnare alle caratteristiche soft del potenziale partner (sistema di valori, storia, cultura manageriale ecc.) la stessa rilevanza attribuita a quelle più direttamente rilevanti per gli obiettivi dell’accordo (risorse investite, competenze disponibili, governance ecc.); 6. definire la governance con l’intento di rendere l’alleanza stabile ed efficiente e non di garantire un maggior controllo o addirittura una migliore appropriabilità dei risultati rispetto agli altri partners. La progettazione di un’alleanza strategica La considerazione di questo insieme di condizioni evidenzia come il successo di un’alleanza strategica dipenda anche dal modo in cui questa è progettata; il modo in cui si configurano molte di quelle condizioni è, infatti, analizzato proprio in sede di progettazione; d’altro canto, è in tale sede che può (e deve) essere valutato

139

sistema di governo

corretto equilibrio tra autonomia e integrazione

Il successo di un’alleanza dipende dunque anche dall’efficacia delle procedure che facilitano l’integrazione e il dialogo tra i vari soggetti coinvolti, nonché il loro eventuale disimpegno.

140

Parte I La strategia nel sistema impresa

Fattori di avvio

Definizione della business idea

• Fattori interni • Spinte ambientali

• Ragion d’essere • Soggetti coinvolti e perimetro di azione • Risorse disponibili • Modalità di creazione di valore

Verifica di coerenza tra i partner Progettazione del modello organizzativo

Disegno delle procedure

Figura 4.12 Il processo di progettazione di un’alleanza.

definizione del business model

verifica della coerenza tra i soggetti

• Sistema di governance • Struttura organizzativa dell’accordo • Modello di distribuzione dei costi/benefici

• Sistemi di trasferimento risorse • Sistemi di controllo • Meccanismi incentivanti • Meccanismi di way out

Verifica compatibilità

se e in quali limiti è possibile intervenire per una loro modificazione nella direzione funzionale alle esigenze dell’accordo. La progettazione dell’alleanza strategica è un processo che dovrebbe essere articolato secondo alcune fasi abbastanza standardizzate (Figura 4.12). A monte di tale processo, dovrebbe esserci una attenta condivisione tra i partner delle rispettive motivazioni strategiche alla base della volontà di legarsi in un accordo. Il primo passaggio riguarda la definizione del business model, ovvero la sua fondamentale ragion d’essere, i soggetti coinvolti, il perimetro di azione, le risorse disponibili apportate dai partner, la proposta di valore (interna ed esterna) e le modalità della sua concreta attuazione, meccanismi attraverso cui i vari soggetti coinvolti si appropriano in modo equilibrato del valore creato dall’alleanza; le attività chiave svolte dall’alleanza e la conseguente struttura organizzativa. La esplicitazione del business model fornisce una prima configurazione dell’accordo utile per condurre la verifica della coerenza tra i soggetti potenzialmente coinvolti. Tale verifica riguarda gli aspetti descritti sopra a proposito delle condizioni soggettive per il successo di un accordo; particolare attenzione deve essere posta sulla coerenza degli apporti di risorse, anche rispetto agli obiettivi che si intende attuare attraverso l’accordo. La fase di verifica può naturalmente portare alla revisione del business model originariamente proposta.

Capitolo 4 La gestione strategica

Verificata l’esistenza di un soddisfacente grado di coerenza tra i partner, si passa alla progettazione del modello organizzativo; aspetto particolarmente complesso nelle alleanze strategiche più strutturate (joint ventures e consorzi). Infine, devono essere delineate le procedure per ottimizzare le relazioni che si stabiliscono durante la vita dell’alleanza tra il soggetto gestore della stessa e i partner, nonché tra questi ultimi per quanto concerne il governo dell’alleanza. Si fa riferimento, tra l’altro, a sistemi di trasferimento di risorse e competenze, ai sistemi di controllo strategico; ai meccanismi incentivanti e a quelli di way out che rendono relativamente rapida e il meno traumatica possibile l’eventuale uscita di uno o più partner. Al termine di questa fase è opportuno prevedere un’ulteriore verifica, relativo alla compatibilità dei soggetti coinvolti con il complessivo impegno che l’adesione all’intesa progettata richiede sul piano finanziario, strategico e organizzativo.

141

progettazione del modello organizzativo procedure per ottimizzare le relazioni

compatibilità dei soggetti coinvolti con il complessivo impegno

Sintesi In questo capitolo si è affrontato il tema della gestione strategica, volta a definire un percorso di sviluppo dell’impresa per il raggiungimento del vantaggio competitivo rispetto ai propri concorrenti. Su queste basi, sono stati approfonditi i contenuti delle strategie finalizzate al raggiungimento del vantaggio competitivo: leadership di costo, differenziazione, focalizzazione. Accanto alle strategie competitive sono discusse le strategie di collaborazione, con riferimento alle ragioni di opportunità e alle condizioni per il loro successo.

Domande ed esercizi Domande di verifica

11.

Definire il concetto di "vantaggio competitivo". Spiegare i fattori critici di successo in un’area di business di vostro interesse. 3. Perché leadership di costo e differenziazione non possono essere considerate strategie antitetiche? 4. L’adozione di una determinata strategia competitiva ha riflessi significativi sulla configurazione ottimale della struttura organizzativa dell’impresa? 5. A quali condizioni la strategia di differenziazione può avere successo? 6. Spiegare il concetto di “strategic fit”. 7. Indicare le condizioni che influenzano la sostenibilità di un vantaggio competitivo. 8. Descrivere la catena delle relazioni e spiegarne l’importanza. 9. Elencare le “determinanti di costo” di un'attività. 10. Indicare le modalità di riorganizzazione della catena del valore per acquisire una leadership di costo.

12.

1. 2.

13. 14. 15.

Discutere gli elementi di vataggiosità della “focalizzazione”. Descrivere le componenti aggiuntive o relazionali attraverso cui è possibile differenziare un prodotto/servizio. Spiegare quali sono le spinte essenziali alla costituzione di un’alleanza. Descrivere i fattori da cui dipende il successo di un’alleanza. Illustrare i principali passaggi nella progettazione di un’alleanza.

Test a risposta multipla 1.

L’elaborazione di una strategia è normalmente ispirata dai seguenti elementi: □ a. patrimonio genetico, condizioni ambientali, opportunità di successo, spinte interne. □ b. condizioni ambientali, spinte interne, vision o mission, sistema di valori. c. opportunità di successo, obiettivi dell’imprendi□ tore, sistema di valori, vision e mission.

142

Parte I La strategia nel sistema impresa

2.

La value proposition è: □ a. il valore proposto al partner di un’alleanza strategica. b. il valore generato a favore del mercato target. □ c. il valore acquisito dall’impresa sul mercato. □

3.

I meccanismi di “lock in”: □ a. riducono il vantaggio competitivo. □ b. riducono la possibilità di rimuovere le condizioni di vantaggio competitivo. □ c. riducono l’appropriabilità delle risorse da cui dipende il vantaggio competitivo.

4.

La catena del valore: □ a. Scompone l’impresa nell’insieme di attività che essa attua per creare valore.

□ b. descrive le attività dell’impresa dove questa crea valore. c. descrive il processo di attività attraverso cui l’im□ presa crea valore. 5.

Le condizioni affinché la differenziazione determini una posizione di vantaggio competitivo sono: □ a. unicità, valore, comunicazione sostenibilità economica. □ b. unicità, appropriabilità, comunicazione sostenibilità economica. □ c. unicità, valore, percezione, sostenibilità economica.

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Sul sito www.ateneonline.it/n/fontana5e sono disponibili le soluzioni e il test interattivo

Il business model

5

Matteo Caroli

Gli obiettivi del capitolo Il capitolo focalizza il business model quale “cuore” dell’articolazione di un’attività economica orientata a competere in un determinato mercato. In questa prospettiva, sono descritti i contenuti del business model, evidenziando gli aspetti di complessità nella loro elaborazione e i fattori di attuale forte innovazione.

5.1 Il concetto di business model Il “business model” di un’iniziativa economica delinea come essa si caratterizza in un determinato contesto competitivo; evolve, sulla base di un efficace scambio di valore con soggetti esterni; raggiunge e rinnova nel tempo un certo vantaggio competitivo. In altri termini, esso descrive l’insieme di elementi attraverso cui l’iniziativa economica (o, anche, l’impresa nel suo insieme) crea, trasferisce ad altri soggetti e al tempo stesso “cattura” a suo vantaggio quel valore (di diversa natura) che, per un verso soddisfa le esigenze dei suoi interlocutori e, per l’altro, le consente di evolvere in modo fisiologico. Il business model rappresenta in modo organico i contenuti di un’idea imprenditoriale, approfondendone la capacità effettiva di creare valore ed essere sostenibile. Il vantaggio competitivo risulta da particolari caratteristiche del business model dell’impresa e dall’efficacia ed efficienza con cui essa lo implementa, rispetto ai concorrenti e alle aspettative del mercato target.

business model

Strumenti

Come descrivere il “business model” Peter Drucker suggerì che il business model di un’impresa è la risposta che essa dà a tre quesiti “capitali”: • • •

chi sono i tuoi clienti; a cosa il tuo cliente attribuisce valore; come fai avere ai tuoi clienti il valore ricercato a un costo appropriato.

Parte I La strategia nel sistema impresa

146

I contenuti fondamentali di un business model possono essere raggruppati nei seguenti tre ambiti: proposta di valore fattori critici proposta di profittabilità

• • •

proposta di valore (value proposition); fattori critici (key conditions); proposta di profittabilità (profit proposition o profit formula).

Un business model ha successo quando i suoi contenuti nei tre ambiti descritti sono coerenti tra loro: la proposta di valore è sostenibile sulla base del modo in cui l’impresa gestisce i “fattori critici” e genera una proposta di profittabilità adeguata. In altri casi, il business model ha come perno alcuni fattori critici particolarmente rilevanti (esempio tipico, una tecnologia disruptive) e la proposta di valore è elaborata in modo da sfruttare al meglio tali fattori critici, e attivando le condizioni per una valida proposta di profittabilità.

5.2 La proposta di valore proposta di valore

La proposta di valore è il “cuore” del business model, considerato che il successo di qualsiasi impresa è basato primariamente sul modo in cui questa crea, fa percepire e fa arrivare valore ai propri clienti-target. Essa è articolata in tre contenuti: 1. il target a cui è rivolta; 2. il valore per il target; 3. le modalità di erogazione del valore.

value proposition

La value proposition delinea quindi il modo in cui l’impresa intende generare ed erogare valore per i soggetti identificati come target prioritario della propria offerta. Nel business model, l’impresa definisce il valore che intende erogare innanzi tutto al suo target di mercato, ma non esclusivamente. La necessità di essere “sostenibile”, le impone di creare al tempo stesso un valore “condiviso”, a beneficio dei vari stakeholders appartenenti al suo stesso contesto. La value proposition deve quindi essere delineata con riferimento al mercato e parallelamente alla collettività ove l’impresa ha una presenza rilevante sul piano economico, sociale e ambientale. Nel proseguio, l’analisi sarà comunque riferita al solo target di mercato.

5.2.1 Il target È l’insieme dei soggetti che costituiscono il segmento di mercato ai quali l’impresa intende indirizzare prioritariamente il valore. Fanno parte di uno stesso segmento soggetti sufficientemente omogenei dal punto di vista dell’esigenza da soddisfare e delle modalità di acquisto e consumo.1 Nel modello di business possono essere compresi diversi target di clienti, a condizione che si riesca a differenziare l’offerta per soddisfare al meglio le specifiche esigenze di ciascuno e in relazione alla loro redditività potenziale. Per elaborare una proposta di valore vincente, è necessario comprendere le caratteristiche fondamentali dei soggetti che fanno parte del target. In primo luo-

1

L’individuazione e la scelta del segmento di mercato target sono approfondite nel Capitolo 9 dedicato alla funzione di marketing.

Capitolo 5 Il business model

go, l’esigenza primaria che essi desiderano soddisfare attraverso l’utilizzazione di un certo prodotto o servizio e i fattori che influenzano la percezione di tale soddisfazione. Poi, i contenuti di una determinata offerta per i quali essi sono disposti “a pagare”. È anche importante comprendere la modalità migliore per entrare in relazione con tali soggetti ed erogare loro il valore. In concreto, si tratta di stabilire le modalità di comunicazione e di distribuzione più efficaci rispetto alle caratteristiche dei target e dell’offerta dell’impresa.

5.2.2 Il valore per il target Definisce i contenuti materiali e immateriali dell’offerta attraverso cui l’impresa cerca di soddisfare (meglio dei concorrenti) le esigenze fondamentali dei soggetti appartenenti al suo target di mercato. Tale offerta si concretizza in un prodotto, in un servizio o in un sistema complesso di prodotto/servizio. Esempi di tali contenuti possono essere: qualità oggettiva ed estetica, innovatività, affidabilità, immagine, riduzione dei costi o dei rischi per l’utilizzatore, accessibilità, facilità di utilizzazione. In alcuni casi, gli elementi che determinano il valore offerto al target possono essere fortemente innovativi, modificando radicalmente le aspettative fino a quel momento consolidate nel consumatore. Più frequentemente, sono non troppo diversi da quanto offerto dai concorrenti, ma comunque con apprezzabili aspetti di differenziazione. Per essere consistente e quindi effettivamente percepito dal target, il valore proposto deve essere non generico, in grado, cioè, di assolvere in modo preciso a determinate esigenze (rilevanti) del consumatore e più consistente di quello proposto dai concorrenti. A tal fine, nel caso dei consumatori persone fisiche il valore può consistere, da un lato, nella rimozione delle principali “mancanze” che impediscono al consumatore di soddisfare una determinata esigenza (quelle relative a: risorse economiche, tempo, competenze tecnico-culturali, accesso) e, dall’altro, nel rafforzamento delle condizioni di generale soddisfazione di una persona (risparmio di costi, prestigio, benessere psico-fisico, miglioramento della persona).

5.2.3 Le modalità di erogazione del valore Le modalità di erogazione del valore sono una componente essenziale della value proposition perché incidono sul beneficio netto determinato dal valore per il target e dal modo in cui questo è effettivamente percepito dai clienti. Si tratta di individuare quindi le modalità attraverso cui: • • •

rendere il prodotto o il servizio disponibile al cliente target; far percepire a questi gli elementi di valore del prodotto o del servizio offerto; gestire la relazione con il cliente.

È importante tenere conto che i canali di distribuzione e di comunicazione del valore possono essere essi stessi strumenti di creazione di una parte del valore erogato. Entrambi i canali vanno progettati e gestiti facendo specifico riferimento alle singole fasi in cui il cliente interagisce con l’offerta dell’impresa, ovvero: • •

consapevolezza dell’esistenza dell’offerta con determinate caratteristiche; valutazione del valore di tale offerta;

147

148

Parte I La strategia nel sistema impresa

Esperienza

La proposta di valore di Zara La proposta di valore di Zara è un ottimo esempio di proposta che risponde in maniera molto precisa a una esigenza rilevante di un target per altro molto ampio. Zara offre una vasta gamma di prodotti di abbigliamento (da qualche tempo, anche prodotti tessili per la casa) con un design molto simile a quello dei marchi trendsetters, rinnovati più volte anche durante la stessa stagione e a prezzi molto contenuti. In questo modo, essa da un lato rimuove il problema del limite di capacità di spesa per l’acquirente di medio livello economico, desideroso di avere un guardaroba ampio e sempre “alla moda”; dall’altro soddisfa il piacere di uno “shopping” frequente, appunto perché tutto sommato poco costoso, dal quale un certo target di mercato trae notevole benessere psicologico. Il caso di Zara evidenzia anche il collegamento tra la proposta di valore e le altre componenti del business model. La concreta possibilità di attuare la sua proposta di valore ha richiesto la capacità di abbattere fortemente i costi di produzione e una organizzazione logistica in grado di rifornire frequentemente gli scaffali di punti vendita dislocati su scala internazionale. Il primo aspetto è stato raggiunto attraverso un modello di produzione fortemente esternalizzato, grazie al quale il gruppo ha potuto raggiungere elevati volumi di produzione in un arco temporale relativamente breve, ottenendo così rapidamente anche un elevato potere negoziale verso i propri fornitori. La logistica è un altro elemento distintivo del modello di business del Gruppo, sul piano sia delle attività sia delle risorse “chiave”.

• • •

acquisto dell’offerta da parte del cliente; effettiva messa a disposizione dell’offerta e del suo valore all’acquirente; erogazione di servizi all’acquirente successivamente all’acquisto e finalizzati a massimizzare i suoi benefici.

Il modello di gestione della relazione con il cliente è fondamentale innanzitutto nel processo di acquisizione del cliente, per comprenderne al meglio le aspettative e al tempo stesso fargli percepire il valore dell’offerta. Esso è poi al centro della strategia di mantenimento del cliente, volta alla sua fidelizzazione e all’incremento del volume di venduto nel tempo. La scelta del modello deve naturalmente tenere conto, e in diversi casi è di fatto condizionata dalle caratteristiche strutturali del mercato, dalle abitudini del consumatore, dalle caratteristiche e dalle modalità d’uso del prodotto/servizio, e dalle tecnologie disponibili per la gestione delle interazioni tra l’offerta dell’impresa e i clienti target.

5.3 I fattori critici Il secondo blocco di contenuti di un business model è costituito dai “fattori critici”: l’insieme di condizioni fondamentali necessarie per attuare la proposta di valore e attraverso le quali l’impresa si propone di raggiungere un vantaggio competitivo. Essi sono: • • •

risorse chiave; attività chiave; modello organizzativo.

Capitolo 5 Il business model

Esperienza

L’innovazione relazionale alla base del modello di business di Autogrill Il perno del modello di Autogrill (e del suo successo) nel business delle aree di ristoro lungo le autostrade italiane e dei principali Paesi europei è stata l’innovazione della relazione con il cliente. Fino all’avvento di questo modello di business, le aree di ristoro erano gestite da soggetti (con qualche eccezione) indipendenti (per lo più gli stessi gestori della stazione di rifornimento del carburante). Questo rendeva la relazione con l’avventore intrinsecamente casuale e sporadica: la scelta dell’area di servizio, infatti, non era legata alla qualità oggettiva dei prodotti offerti, anche perché questa difficilmente poteva essere conosciuta ex ante; per altro, la domanda era per lo più ancillare all’esigenza di rifornimento del carburante. Di conseguenza, l’elemento fondamentale del valore proposto era la messa a disposizione in quanto tale di beni di ristoro, a prescindere dalla loro qualità specifica. Solo una minima parte dei clienti avrebbe scelto nuovamente una certa area di ristoro per la qualità dei suoi prodotti (e comunque dopo un periodo di tempo normalmente lungo). Autogrill introdusse in modo rilevante l’idea della catena di punti vendita, con una marca “forte” che li accomunava e comunicava in modo unitario un unico portafoglio prodotti di qualità adeguata e soprattutto omogenea in tutti i punti vendita. In questo modo, la relazione con il cliente è mutata radicalmente, divenendo facilmente ripetibile persino durante uno stesso viaggio (sufficientemente lungo). Il fatto di rendere facilmente ripetibile la relazione con il cliente ha reso la qualità del prodotto un elemento di valore riconoscibile e quindi un fondamentale criterio di scelta per il cliente: salvo situazioni di emergenza, il viaggiatore sceglie di fermarsi in un’area di ristoro di cui conosce la qualità, perché non può non essere analoga a quella delle altre con la stessa marca e gli stessi prodotti/servizi dove, per altro, ha con buona probabilità già avuto l’opportunità di fermarsi. Su questo driver di valore si innestano poi altri fattori di competitività quali la gestione di un elevato numero di punti vendita e la capacità di attrarre elevati volumi di clienti: • • •

consente economie di scala rilevanti sul piano degli acquisti, della gestione logistica e (entro certi limiti) di quella del personale; facilita anche l’erogazione del servizio di ristorazione (a maggior valore aggiunto rispetto alla semplice vendita dei prodotti di ristoro), mantenendo un adeguato standard qualitativo; aumenta la visibilità, fino a far diventare la marca e i suoi prodotti l’archetipo del ristoro durante un viaggio in autostrada.

5.3.1 Le risorse chiave Le risorse chiave sono quelle ritenute fondamentali per produrre ed erogare il valore progettato, rendendolo relativamente unico e superiore a quello fornito dai concorrenti. Possono riguardare le persone, la tecnologia, le strutture produttive, le strutture distributive, le componenti del capitale immateriale, le relazioni e le informazioni. Nell’elaborazione del business model, queste risorse devono essere oggetto di una gap analysis per verificare se e in quale misura sono disponibili da parte dell’impresa; nel caso si osservi un deficit significativo, è necessario definire una strategia di acquisizione/sviluppo di tali risorse o un cambiamento della proposta di valore. È importante osservare che le risorse chiave non sono rilevanti in quanto tali, ma in relazione all’apporto che danno all’implementazione del business model. È quindi essenziale il modo in cui sono utilizzate in un certo modello organizzativo e per la realizzazione delle attività chiave, il tutto finalizzato alla generazione di una proposta di valore vincente.

149

Parte I La strategia nel sistema impresa

150

5.3.2 Le attività chiave competenze

Le attività chiave sono quelle che hanno maggiore rilievo nella creazione del valore erogato al cliente target e per la cui realizzazione l’impresa dispone di competenze distintive, ovvero delle “risorse chiave” indicate sopra. Sono, quindi, le attività core, essenziali per il successo dell’offerta che l’impresa intende realizzare direttamente. Si collocano in tre possibili ambiti. 1. Il processo produttivo in senso esteso: dalla progettazione dell’offerta alla sua realizzazione fisica o alla sua distribuzione al mercato. 2. La creazione e gestione di piattaforme o reti che ottimizzano l’interazione tra l’impresa, il cliente e gli altri soggetti potenzialmente rilevanti nella creazione di valore. 3. La gestione di problemi specifici del cliente rilevanti nel determinare l’effettivo valore che questo trae da una certa offerta.

5.3.3 Il modello organizzativo

social capital

modello organizzativo “reticolare”

sharing economy

Il modello organizzativo individua le condizioni appunto “organizzative” che favoriscono la migliore realizzazione del complesso delle attività, in particolare di quelle “chiave”, valorizzando le risorse disponibili. Riguarda la struttura organizzativa, la modalità di gestione delle risorse umane, la diffusione dei valori aziendali e lo sviluppo del social capital interno. In alcuni casi, elementi di particolare unicità (ovviamente positiva) del modello organizzativo possono assumere direttamente rilievo nella stessa proposta di valore. Un esempio significativo è un sistema di valori interni molto forte e condiviso, tanto da caratterizzare l’immagine dell’offerta dell’impresa: il grande successo che The body shop ebbe, in particolare negli ultimi due decenni dello scorso secolo, fu basato proprio sul fatto che nei suoi prodotti erano incorporati valori molto forti, relativi all’ecologia, alla naturalità dei prodotti, al rispetto degli animali, che l’azienda intendeva diffondere attraverso la propria proposta commerciale. Quell’approccio è stato antesignano di tendenze oggi molto consolidate in numerosi mercati. Nell’ambito del modello organizzativo, un ulteriore aspetto che caratterizza fortemente il business model dell’impresa è il sistema di relazioni chiave dell’impresa; si tratta delle relazioni che l’impresa stabilisce con soggetti essenziali per la migliore implementazione della sua proposta di valore. Queste relazioni sono esse stesse una risorsa chiave per l’impresa e la loro gestione è normalmente un’attività fondamentale per il successo del business model. Il modello organizzativo “reticolare” in cui l’impresa esternalizza gran parte delle attività a una vasta rete di fornitori esterni di diverso livello, gestendo internamente solo poche attività considerate “core”, caratterizza l’intero business model dell’azienda; il sistema di relazioni stabilito dall’impresa con i partner economici rappresenta, infatti, non solo la determinante del modello organizzativo dell’impresa ma anche un asset fondamentale cui corrisponde l’attività chiave, appunto, di gestione ottimale della rete, e che determina la struttura dei costi. Nei prodotti o servizi complessi, realizzati attraverso la collaborazione strategica tra alcuni grandi soggetti, la rete diventa anche parte della proposta di valore al mercato. È il caso, per esempio, delle numerose intese strategiche che si stanno avviando tra compagnie automobilistiche e piattaforme di sharing economy per lo sviluppo di nuovi prodotti/servizi di mobilità sostenibile.

Capitolo 5 Il business model

151

Esperienza

La collaborazione tra due leader di settori diversi nello sviluppo di un nuovo business model Uber e Volvo cars hanno siglato un’alleanza strategica con un investimento congiunto di circa 300 milioni di dollari per realizzare una nuova generazione di auto a guida autonoma; questo progetto dovrebbe essere anche propedeutico allo sviluppo di un’intesa di lungo termine e ad ampio spettro. Il nuovo veicolo sarà il prototipo per Uber di un nuovo taxi; Volvo, lo utilizzerà per lo sviluppo della propria offerta di auto autonoma. Il modello sarà sviluppato sulla base della piattaforma modulare “Scalable product architecture” di Volvo cars, già efficacemente utilizzata per i modelli di alta gamma (S90, V90, XC90 SUV). Uber, apporterà un archivio di “smart maps” con le informazioni dettagliate e in grado di aggiornarsi sulla strada e sul territorio. Travis Kalanick, amministratore delegato di Uber, ha così riassunto la logica dell’iniziativa: “I veicoli a guida autonoma rivoluzioneranno il mercato, determinando un cambiamento epocale del prodotto automobile e delle sue funzioni d’uso. Volvo è un’azienda leader nella produzione di veicoli e una delle migliori quando parliamo di sicurezza. Unendo le capacità di Uber e Volvo saremo in grado di correre incontro al futuro più velocemente insieme”. Questa alleanza non è un unicuum. Uber ha stretto accordi anche in termini finanziari con Toyota e Tata Group. FCA ha siglato un accordo con Google per la realizzazione di alcune sperimentazioni; General Motors e Lyft (diretta concorrente di Uber) stanno definendo un progetto comune di auto “smart” con un investimento previsto nell’ordine di 500 milioni di dollari.

5.4 La proposta di profittabilità Il business model è completato dalla proposta di profittabilità, articolata nel revenue stream (flussi di ricavi) e nel cost structure (struttura dei costi). La proposta di profittabilità esplicita il modo in cui l’impresa pensa di estrarre valore economico per sé dalla proposta di valore avanzata al mercato; dipende, quindi, dai flussi di ricavi che si intende attivare attraverso l’erogazione del valore e dalla struttura dei costi necessari a tal fine. A proposito della “proposta di valore”, va sottolineato come essa riguardi primariamente il valore creato ed erogato a determinati target di mercato; nella prospettiva dell’impresa sostenibile, essa deve essere estesa, delineando anche il valore creato per la collettività, intervenendo positivamente sulle esigenze di natura ambientale e sociale. Di conseguenza, la proposta di profittabilità riguarda innanzi tutto il valore economico netto acquisito dall’impresa, ma non esclusivamente; devono anche essere considerati i vantaggi per l’impresa derivanti dal valore collettivo creato, al netto degli specifici costi sostenuti a tal fine. Si precisa che l’analisi seguente rimane focalizzata solo sull’aspetto relativo al risultato economico.

5.4.1 I flussi di ricavi I flussi di ricavi sono individuati sulla base dei contenuti dell’offerta e del corrispondente valore per i quali il cliente target è effettivamente disposto a pagare. Non è affatto semplice comprendere quali siano questi contenuti: il cliente tende a dare valore a molti aspetti di un’offerta, ma non per tutti si dimostra poi materialmente disposto a sostenere un costo per beneficiarne. La disponibilità

revenue stream cost structure

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Parte I La strategia nel sistema impresa

leadership di costo e di differenziazione

a pagare, dipende oltre che dalla percezione del valore anche dalla effettiva capacità di spesa del cliente, a sua volta condizionata da numerosi fattori economici e non. I flussi di ricavi possono avere natura, frequenza e dimensione media diversa in relazione alle caratteristiche del consumatore target, alle sue modalità di acquisto e al valore percepito del prodotto; ancora, alle dinamiche della competizione (e nei mercati di interesse pubblico, in relazione anche alla regolamentazione pubblica). Tali flussi economici devono essere valutati anche in funzione della loro rischiosità intrinseca e della dinamica temporale dei corrispondenti flussi finanziari. Il modello dei ricavi definisce innanzi tutto come l’impresa intende agire sulle due determinanti il fatturato: prezzo e quantità vendute. Le imprese che puntano a elevati volumi, tendono a fissare prezzi relativamente più bassi; al contrario, se altre componenti del business model implicano dei limiti alle quantità vendute, diviene decisivo poter fissare prezzi relativamente elevati. È evidente come questi due approcci si riflettano nella strategia di leadership di costo e di differenziazione. La scelta relativa a questi aspetti va presa in relazione alla capacità produttiva disponibile e alle modalità per ottimizzarne l’utilizzo. Nel caso di offerte complesse, costituite da un bundle di prodotto e servizi a esso collegati, la determinazione dei revenue streams consiste, inoltre, nell’individuare le componenti dell’offerta che generano direttamente ricavi e quelle che, invece, hanno soprattutto la funzione di aumentare il valore percepito dal cliente, ovvero di rafforzare la capacità delle prime di produrre ricavi. Nel business model, la definizione del modello dei ricavi deve anche tenere conto degli obiettivi di profittabilità operativa dell’impresa, considerati insieme alle condizioni dei costi e agli effetti sugli stessi delle possibili politiche di ricavo. Strumenti

I diversi tipi di revenue streams di un albergo L’offerta ricettiva alberghiera ha come componente core, la messa a disposizione del cliente di una camera con certe caratteristiche e una serie di servizi legati alla sua fruizione (un esempio ormai molto frequente, la disponibilità di strutture e servizi per il “wellness”). I ricavi sono generati principalmente dall’affitto della camera, mentre la maggior parte dei servizi connessi sono “complementary”, in modo da aumentare il valore percepito dell’“accomodation”; un esempio per tutti, la connessione Internet tramite wifi. nel modello di business degli alberghi all’interno di grandi attrattori turistici e la cui gestione fa riferimento a un unico soggetto economico (centri benessere, golf course, parchi giochi), il modello di ricavo è completamente diverso; la camera ha un costo relativamente contenuto, sicuramente basso, rispetto agli standard qualitativi, essendo la permanenza alberghiera strumentale a permettere al visitatore di fruire di un ampio ventaglio di servizi turistici, a pagamento. Nella definizione dei revenue streams di un albergo (come di tutti i prodotti/servizi la cui offerta deve essere venduta in un arco temporale ben definito, passato il quale, essa non ha più alcun valore intrinseco) è molto importante gestire in modo ottimale la capacità produttiva disponibile; in questo senso, fino al limite della capacità produttiva (numero di stanze/posti letto giornalieri disponibili) e dato un prezzo superiore ai costi diretti unitari, è prioritario lavorare sulle quantità vendute; il prezzo è stabilito in modo puntuale per massimizzare la domanda rispetto all’offerta disponibile. A tal fine, sono utilizzate le tecniche di “yieald management”.

Capitolo 5 Il business model

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5.4.2 La struttura dei costi La struttura dei costi individua e ordina l’insieme dei costi che l’impresa deve sostenere per attuare il business model e la loro possibile dinamica al variare della proposta di valore o delle condizioni critiche necessarie. La determinazione della struttura dei costi ha due finalità: in primo luogo, serve per valutare la sostenibilità economica e finanziaria del business model sulla base del confronto con il revenue stream; in secondo luogo, è utile per comprendere le aree/attività che hanno maggiore impatto sulla struttura dei costi e sulle quali è, quindi, necessario ricercare la massima efficienza. Il modello di business è considerato cost driven quando è focalizzato sulla minimizzazione dei costi per l’impresa, pur riuscendo a erogare una proposta di valore significativa per determinati target di mercato. Quello delle compagnie aeree low cost è un esempio tipico di business model cost driven: si costruisce una proposta di valore che permetta intrinsecamente di ridurre fortemente i costi in ambiti rilevanti e senza ridurre la soddisfazione dei bisogni fondamentali del cliente. A questi si oppongono concettualmente i business value driven focalizzati sulla massimizzazione del valore offerto al cliente e basati sull’ipotesi che questi sia disposto a pagare un incremento rispetto al prezzo base per gli elementi di extravalore rispetto alle offerte concorrenti nella stessa fascia di mercato.

5.5 L’innovazione del business model Il business model sintetizza un insieme di aspetti caratteristici dell’impresa che quando favoriscono un adeguato sviluppo sostenibile tendono a non essere modificati. Vi sono, però, diverse situazioni in cui il business model deve essere innovato. In primo luogo, quando l’introduzione di nuove tecnologie rende obsolete le attuali modalità di generare valore e crea le condizioni per nuovi business model più efficaci o efficienti. Un ulteriore essenziale fattore di cambiamento è l’evoluzione delle caratteristiche chiave del consumatore, quindi delle sue esigenze e modalità di consumatore. Oltre ai cambiamenti nel mercato, possono essere rilevanti nuove condizioni del contesto ambientale in senso ampio, a partire dal sistema normativo e regolatorio rilevante per il business. L’impresa può essere costretta a modificare il proprio business model anche in risposta a innovazioni introdotte dai concorrenti, magari più rapidi nel rispondere ai cambiamenti tecnologici o del contesto competitivo. L’innovazione del business model può derivare anche da spinte interne all’impresa. Innanzi tutto, la disponibilità di una nuova risorsa distintiva con forza sufficiente da sostenere un significativo cambiamento della proposta di valore; anche qui, il caso più rilevante riguarda la disponibilità di una nuova tecnologia, soprattutto se disruptive. I cambiamenti dell’assetto proprietario dell’impresa, quando determinano un’evoluzione della sua dimensione, della visione o della missione, richiedono necessariamente un nuovo modello di business. Infine, l’innovazione del business model può essere la conseguenza di un nuovo modo di “leggere” le dinamiche competitive e il posizionamento potenziale dell’impresa; un nuovo modo di interpretare le opportunità di sviluppo sostenibile dell’impresa, derivante sostanzialmente dalla specifica sensibilità di chi nell’azienda esercita le funzioni imprenditoriali.

revenue stream

cost driven

low cost

value driven

Parte I La strategia nel sistema impresa

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Strumenti

Una innovazione del business model di grande successo: il “low cost” nel trasporto aereo Il modello di compagnia aerea “low cost” è stato uno dei casi più significativi di innovazione “rivoluzionaria” del business model in un settore, il trasporto aereo, dove il dominio degli incumbent sembrava inattaccabile. Il nuovo modello supera la tradizionale connessione tra elevato valore del servizio offerto e alto costo relativo e si propone di offrire un servizio di trasporto che mantiene gli aspetti sostanziali di valore che sono tipici del trasporto aereo, superandone al tempo stesso i limiti di accessibilità al servizio (dovuti ai costi e alla complessità di fruizione). Questa idea è stata originariamente attuata attraverso sei componenti concrete che articolano il modello di business tipico di una compagnia a basso costo: • • • • • •

connessione del tipo “point to point”; selezione degli scali aeroportuali; massima semplificazione del sistema di prenotazione e accesso all’aereo; eliminazione della fornitura gratuita al passeggero dei “frills”; efficienza della struttura produttiva; attenta utilizzazione delle leve di marketing.

La connessione del tipo “point to point” Il servizio di trasporto si esaurisce nella connessione del passeggero (e del suo eventuale bagaglio) da un luogo di origine a uno di destinazione. Non è previsto alcun collegamento con altri voli della stessa o di altre compagnie; non sono quindi programmate coincidenze con voli in arrivo o in partenza. Questa logica di connessione semplifica notevolmente sia la gestione della domanda, quindi le strategie di mercato, che l’organizzazione dell’offerta, con riferimento, tra l’altro, alla gestione dei bagagli. Negli ultimi anni, per altro, le principali compagnie “low cost” hanno modificato questo approccio, prevedendo anche l’approccio tradizionale “hub&spoke”. Il collegamento “point to point” è importante per un altro aspetto essenziale del modello produttivo di una “low cost”: la standardizzazione della flotta utilizzata, costituita praticamente da un’unica famiglia di aerei. Da questa standardizzazione derivano due importanti vantaggi: in primo luogo, la possibilità di ottenere migliori condizioni contrattuali nell’acquisto delle macchine e di ridurre fortemente i costi di manutenzione; in secondo luogo, la maggiore specializzazione del personale addetto e alcuni aspetti di minore complessità di gestione dello stesso. La selezione degli scali aeroportuali Nelle tratte che collegano grandi città, le “low costs” utilizzano normalmente gli aeroporti relativamente meno affollati e comunque non quelli considerati “principali”. Un esempio evidente è Ryan Air che concentra la sua offerta su Londra a Stansted e Luton piuttosto che a Heathrow o a Gatwick.* In alcuni casi l’aeroporto considerato “secondario” risulta peraltro collocato in una zona più vantaggiosa di quella dello scalo principale dal punto di vista dell’accessibilità alla città o ad altre modalità di trasporto. A Stoccolma, per esempio, ancora Ryan Air vola sul relativamente piccolo aeroporto di Bromma, a 15 chilometri dalla città, mentre quello più grande dista quasi 40 chilometri. D’altra parte, una quota consistente del servizio offerto dalle “low costs” riguarda centri relativamente secondari e quindi coinvolge aeroporti di minore dimensione, spesso caratterizzati da ampia disponibilità di capacità.

* Va precisato che questa politica presenta alcune eccezioni. Vi sono, infatti, casi di compagnie “low cost” che scelgono di operare sugli scali principali delle grandi città.

Capitolo 5 Il business model

L’utilizzazione di questo tipo di scali produce un significativo vantaggio sulla gestione industriale della compagnia aerea e sulla sua competitività nel mercato: in particolare, genera l’opportunità di ridurre i costi connessi per i servizi aeroportuali e una condizione essenziale per minimizzare i ritardi al decollo e all’atterraggio dovuti alla congestione degli spazi aeroportuali. La riduzione dei tempi di attesa in aeroporto oltre a determinare il miglioramento della qualità del servizio percepita dal passeggero ha l’effetto di aumentare il tempo di utilizzazione dell’aeromobile e quindi di ridurne il costo unitario. Massima semplificazione del sistema di prenotazione e accesso all’aereo Le compagnie “low cost” utilizzano largamente il web per facilitare la connessione con la domanda potenziale. La prenotazione del biglietto avviene normalmente per via elettronica o per telefono attraverso il supporto di un call center; i pagamenti sono regolati attraverso carta di credito. Solo alcune compagnie, normalmente quelle più sviluppate (come per esempio Southwest Airlines e Virgin Express) prevedono la possibilità di prenotare il volo attraverso agenzie di viaggio. Con la vendita via Internet, la compagnia aerea non emette il tradizionale biglietto cartaceo; al passeggero viene normalmente fornita una generica carta d’imbarco che indica il suo diritto di accesso a un posto nell’aereo. Per facilitare la gestione della domanda e le operazioni d’imbarco, l’offerta di una “low cost” prevede un’unica classe di passeggero e non vi è assegnazione di un posto specifico nell’aereo. Molteplici i vantaggi che derivano da queste misure e che investono nuovamente sia l’efficienza produttiva sia la competitività dell’offerta sul mercato: si riducono numerosi fattori di costo interno (personale, utilizzazione di modulistica, stampa, gestione dei posti nell’aeromobile, differenziazione del servizio “on board”), oltre al contenimento delle commissioni alle agenzie di viaggio e della fee per l’utilizzazione dei sistemi elettronici di prenotazione (computer reservation systems). Eliminazione della fornitura gratuita al passeggero dei “frills” I servizi gratuiti normalmente offerti a bordo sono eliminati: giornali, salviettine rinfrescanti, bevande, snack e anche i pasti non sono più concepiti come fattori complementari al valore offerto al cliente, quanto come “optional” che quest’ultimo, se lo desidera, può acquistare durante il viaggio. Per quanto riguarda cibi e bevande, in alcuni casi, non è prevista neanche la possibilità di acquisto a bordo, mentre è permesso al passeggero di portare con sé alimenti per il proprio consumo. Queste misure consentono di semplificare il processo di gestione del catering e di conseguenza una parte delle operazioni di preparazione dell’aeromobile e di gestione dei passeggeri in volo. Oppure, nel caso di servizio a pagamento, garantiscono la generazione di ricavi aggiuntivi. Il raggiungimento di questi risultati è agevolato dalla standardizzazione del servizio (classe unica a bordo) che consente una riduzione del costo del personale in volo e una semplificazione della gestione complessiva del servizio; inoltre un aumento dei posti disponibili e quindi maggior fatturato potenziale. È utile osservare che l’eliminazione dei servizi gratuiti a bordo non determina un peggioramento del valore dell’offerta percepito dal cliente. L’analisi empirica del comportamento del passeggero ha, infatti, più volte verificato che questi, da un lato, attribuisce un valore piuttosto modesto ai servizi di cortesia. Anche relativamente all’introduzione di un’unica classe, si osserva che, in particolar modo sulle tratte medio-brevi, la perdita di valore potenziale dovuta alla non disponibilità di posti “business” è tutto sommato limitata. Attenta utilizzazione delle leve di marketing Le “low costs” sono fortemente orientate al marketing sia sul piano dell’indirizzo strategico sia sul piano delle politiche competitive. Da questo secondo punto di vista, è utile richiamare in particolare la strategia di prezzo e le azioni di co-marketing. Il prezzo del posto in un determinato volo è lasciato variare in relazione al puntuale manifestarsi della domanda di quel volo. Si abbandona la struttura di prezzi fissi, diversificati in relazione a diversi tipi di qualità del servizio a bordo, per una struttura di prezzi unica, ma variabile nel tempo in funzione dell’andamento della do-

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manda. I prezzi sono molto bassi quando l’offerta disponibile è ancora ampia, e tendono a crescere man mano che la capacità viene saturata; questo meccanismo permette alla compagnia aerea di acquisire una parte consistente della “rendita del consumatore” e facilita la massimizzazione del “load factor” di un singolo viaggio. Quasi tutte le compagnie aeree utilizzano un sistema di tariffe “yield managed” che accorda il prezzo con la quantità di posti venduti rispetto al totale di quelli disponibili. La capacità di eterogeneità di questi sistemi ha importanza strategica in relazione alla differenziazione del prezzo della domanda e alla conseguente utilità di far variare il prezzo anche in relazione all’orario e al giorno del volo. In linea generale, le “low costs” beneficiano anche di azioni di co-marketing per sostenere determinati voli, realizzate insieme con le società di gestione aeroportuale e con altri attori economici operanti nel territorio di destinazione di tali voli. In sintesi, la compagnia aerea organizza un servizio verso un certo luogo, sulla base dell’impegno di un attore locale a sostenere direttamente o indirettamente le condizioni che rendono il volo conveniente per il tipo di pubblico che si vuole attrarre sul territorio e sostenibile sul piano dell’economicità aziendale.* Il modello di business di una compagnia a “basso costo” è dunque basato su un modo radicalmente nuovo di concepire il servizio di trasporto aereo e la modalità di erogazione di tale servizio. Si tratta di una concezione che persegue due finalità essenziali e fortemente connesse (Figura 5.1): da un lato l’allargamento della domanda potenziale, dall’altro la riduzione strutturale dei costi di produzione del servizio. Tre drivers sono alla base dell’allargamento del mercato: • • •

la riduzione del prezzo medio; il collegamento diretto; la flessibilità e semplificazione dell’offerta.

L’allargamento del mercato potenziale comporta per la compagnia aerea la possibilità di aumentare il “load factor” dei propri voli e di proporsi come partner di soggetti economici o anche istituzionali interessati all’incremento delle presenze di determinati tipi di pubblico in un determinato territorio. La riduzione dei costi di produzione non deriva solo dai miglioramenti dell’efficienza operativa, ma anche dall’innovazione del modo di realizzare il servizio. Il vantaggio competitivo di costo di una “low cost” è, dunque, difficilmente imitabile da compagnie di diversa natura, dotate di un diverso insieme di risorse e competenze. * Un caso interessante è costituito dalla tedesca Hapag Lloyd Express che è affiliata a uno dei più grandi tour operator nel mondo, TUI (anch’esso tedesco) e che dà la possibilità ai viaggiatori di soggiornare in uno dei circa 350 alberghi di proprietà dello stesso tour operator con tariffe particolarmente convenienti.

5.6 I fattori disruptive dei modelli di business tradizionali

digital, sharing e green

In questi anni, nella maggior parte dei settori, i modelli di business stanno cambiando radicalmente e stanno mutando le determinanti il loro successo. Questo cambiamento è generato dalla pervasività nei sistemi economici e sociali, in gran parte del mondo, di tre fenomeni distinti, ma fortemente interdipendenti, comunemente descritti con i termini inglesi di digital, sharing e green.2 Le tecnologie digitali, la logica della condivisione (concretamente attuata attraverso piattaforme digitali) e l’ottimizzazione dell’impatto ambientale delle attività umane 2

L’enorme impatto di questi tre fenomeni sui sistemi economici e produttivi trova un riflesso “semantico” nella diffusione dei termini “digital economy”, “sharing economy” e “green economy” con cui vengono sinteticamente denominati.

Capitolo 5 Il business model

• Riduzione del prezzo medio • Collegamento diretto • Flessibilità e semplificazione dell’offerta

Reingegnerizzazione del modello di produzione del servizio

Allargamento della domanda potenziale

Riduzione dei costi di produzione del servizio

• Economie di produzione • Opportunità di partnership con attori locali

Vantaggio competitivo di costo

Creazione di valore economico

Figura 5.1 Il circuito virtuoso di una compagnia aerea a basso costo.

La strutturale riduzione dei costi di produzione è la condizione essenziale per l’abbassamento del prezzo di vendita e quindi si riflette sull’incremento della domanda. L’incremento della domanda, a sua volta, ha un impatto positivo sull’efficienza produttiva, sulle economie di produzione e dunque sulla riduzione di costo. In definitiva, le due finalità essenziali attorno alle quali ruota il modello di business di una compagnia aerea a basso costo si fertilizzano reciprocamente e convergono verso la creazione di valore economico.

stanno per un verso favorendo la nascita di modelli di business, e conseguentemente imprese, completamente nuovi; per l’altro, costringendo quelli esistenti a innovarsi radicalmente. La potenza di questi tre fenomeni deriva dall’avere natura molto composita: tecnologica, economica e sociale al tempo stesso; inoltre, dalla loro stretta interdipendenza. Questo spiega la pervasività del cambiamento che stanno generando sui sistemi economico-produttivi e sociali a qualsiasi latitudine, a prescindere dalle differenze di ricchezza, tradizioni, assetti sociali. Le tecnologie digitali e l’approccio green sono ormai determinanti in tutti i comparti manifatturieri, senza davvero alcuna esclusione; la sharing economy, basata su piattaforme digitali e spesso finalizzata a migliorare la sostenibilità ambientale (e sociale) dell’agire umano, è ormai pervasiva nei servizi: dai trasporti al turismo, alla distribuzione, alla consulenza.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

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Esperienza

L’innovazione del business model dell’albergo: la catena Jo&Joe di Accor La catena alberghiera di origine francese Accor ha creato un nuovo marchio di alberghi “Jo&Joe” esplicitamente posizionati sul target dei “millenials” (persone nate negli ultimi due decenni dello scorso secolo) di fascia medio-alta, caratterizzati da forte sensibilità al digitale, allo “sharing”, al design e alla sostenibilità ambientale e con elevata propensione internazionale. Il progetto prevede l’apertura di circa 50 strutture entro il 2020, localizzate nelle zone centrali e di maggior afflusso delle città del mondo di più elevato interesse turistico per il target, partendo da Parigi e Bordeaux, poi Varsavia, Budapest, Rio de Janeiro e San Paolo in Brasile. La proposta di valore è del tutto innovativa, mirando a combinare al meglio gli aspetti positivi, sempre nella prospettiva degli utenti, dell’albergo, dell’ostello e dell’affitto di una residenza privata. Questa proposta di valore è attuata anzitutto attraverso la particolare architettura dell’albergo, lontana dalla sua conformazione tradizionale e proiettata a creare “una casa aperta al mondo esterno”, un luogo ricco di spazi diversi che facilitano la condivisione e le relazioni e pongono in secondo piano quelli privati (le camere dove dormire). Gli spazi sono per altro differenziati per accogliere persone con esigenze specifiche diverse; in particolare: • •

• •

“happy house”, dove l’ospite trova condizioni simili a quelle del proprio appartamento, per rilassarsi, cucinare, lavorare o persino fare il bucato; “together” è un’ampia zona notte comune, ma con spazi modulari che garantiscono un’adeguata privacy a ciascun ospite; il letto è comunque spazioso; un armadietto personale, luce e porta USB garantiscono anche un certo grado di comfort; “yours” consiste in stanze di diversa dimensione per accogliere da una a cinque persone, sono comunque diverse dalla tipica camera d’albergo per gli arredi interni molto originali ma comunque della massima comodità; gli spazi “OOO!” (Out Of the Ordinary) offrono sistemazioni assolutamente sorprendenti e del tutto originali, anche in questo caso, per una persona sola o gruppi fino a sei persone; concepiti per rendere il pernottamento un’esperienza assolutamente indimenticabile.

5.6.1 La digital economy

cloud technologies, Internet of Things big data analytics, social network

Il fenomeno della digitalizzazione include i processi di conversione delle informazioni in forma digitale e lo sviluppo di tecnologie per gestire e sfruttare economicamente l’enorme ammontare di risorse digitali generate da tali processi. Esso poggia su un complesso di tecnologie fortemente interdipendenti, riguardanti Internet, le infrastrutture di comunicazione e rete, l’hardware, le mobile applications, i servizi ICT, e sta innervando tutti i sistemi produttivi e sociali attraverso innovazioni quali cloud technologies, Internet of Things (IOT), advanced automation, big data analytics, social network. Il fortissimo impatto dell’economia digitale deriva dal fatto di essere tanto pervasivo, quanto rapido; a riguardo, basti ricordare alcuni semplici dati: nel 2015, il mondo aveva circa 7,2 miliardi di abitanti e ben 3 miliardi di utenti Internet attivi; 2 miliardi di account attivi sui social network; nei Paesi avanzati, si stima che il tempo medio di presenza delle persone in Internet sia di 4,4 ore; Google è stata fondata nel 2016. Pur essendo piuttosto difficile tracciarne con precisione i confini, l’economia digitale può essere fatta rientrare nel macrosettore dell’information and communication technologies (ICT) che nel 2013 ha rappresentato quasi il 6% dell’intero valore aggiunto realizzato nei Paesi OCSE, con una picco di poco meno dell’11% in Korea; si stima che entro i prossimi cinque anni circa, nei Paesi avanzati, il

Capitolo 5 Il business model

La differenziazione di questi luoghi rende l’architettura interna dell’albergo completamente diversa da quella usuale, esso diventa una sorta di “meta-spazio” che contiene tanti spazi diversi. Vi è una cucina condivisa che permette agli ospiti di cucinare per sé, ma anche per gli altri. Tra gli spazi comuni, il “lounge-bar” ha grande importanza; anch’esso ha un design molto caratterizzato ed è aperto sulla strada così da favorire anche l’accesso ai residenti e la loro interazione con gli ospiti. Il prodotto intende deliberatamente andare oltre i modelli consolidati della ricettività alberghiera e della ristorazione. Sèbastien Bazin, CEO di AccorHotels spiega: “Jo&Joe supera l’idea convenzionale di ricettività alberghiera; vuole essere un amplificatore di esperienze, grazie al design fortemente innovativo, alla creazione all’interno di un ecosistema digitale e alla particolare offerta di ristorazione. Intende essere una open house che modifica completamente il modo di fruire del soggiorno, perché aperta sia al turista (tripster), sia ai residenti (townster) che potranno frequentare gli spazi come fossero un’appendice delle loro case. In questo senso, la struttura intende essere parte integrante del quartiere dov’è collocata; al suo interno sono offerte diverse iniziative sociali: dai concerti ai seminari di yoga o di cucina, al laboratorio di bricolage; situazioni che facilitano anche l’interazione tra i townsters e i tripsters. Queste interazioni sono supportate anche da una App che permette la connessione alle varie componenti della struttura alberghiera. L’applicazione è finalizzata a esaltare l’esperienza digitale dei visitatori, offrendo loro la possibilità di condividere idee, esperienze, suggerimenti, organizzare attività, proporre iniziative. Un insieme di funzionalità che agiscono da acceleratori sociali tra coloro che sono all’interno dell’albergo e tra questi e le persone all’esterno”. Questo nuovo modello è il risultato di un lavoro di studio e progettazione, anch’esso realizzato in maniera molto innovativa, perché i team di Accor hanno dialogato costantemente con gruppi selezionati di persone appartenenti al segmento target; c’è stato un concreto e ampio coinvolgimento dei potenziali clienti per comprendere al meglio le loro esigenze, comportamenti, preferenze. Anche le modalità di reclutamento e gestione del personale sono innovative al fine di attuare modalità non tradizionali di erogazione dei servizi. Infine, viene data molta importanza allo sviluppo dell’identità della marchio “Jo&Joe”, sono due persone e non è volutamente chiarito chi sia ragazzo e chi ragazza; il messaggio è che non è importante, perché la struttura è aperta a tutti e libera da schematismi.

complesso di produzioni legate al digitale genererà un valore aggiunto intorno al 15% del totale. Questa crescita non sta avvenendo senza squilibri; in particolare, con un forte aumento della concentrazione o addirittura la formazione di monopoli che avendo dimensioni praticamente globali raggiungono un potere superiore anche a quello di molti governi nazionali. La maggior parte dei settori produttivi, sia manifatturieri sia di servizi, stanno attraversando una digital transformation che ne sta modificando la struttura e le dinamiche competitive con inevitabili rilevanti riflessi sul modello di business delle imprese. Queste trasformazioni sono già oggi evidenti in comparti come le telecomunicazioni, l’editoria e l’entertainment, il turismo, i servizi sanitari e alla persona, il retail, i servizi bancari. In molti casi, l’affermarsi di nuove offerte basate sulla digitalizzazione del prodotto o del servizio hanno avuto un effetto disruptive su sistemi produttivi fino ad allora molto consolidati. Per esempio, il fatturato mondiale dei prodotti discografici (registrati) è crollato da circa 20 miliardi di dollari nel 2005 a poco più di 14 nel 2013 e 2014 (anche se nel 2015 ha mostrato una leggera ripresa). Le telecomunicazioni sono un altro settore fortemente impattato dalla rivoluzione digitale, in particolare dal lato della diminuzione della redditività operativa e dei cash flows. I social media, infatti, hanno aperto nuovi canali di comunicazione che stanno riducendo il business “voice” e “messaging” delle Telco; per esempio, si stima che negli Stati Uniti, la telefonia fissa e mobile generi nel

digital transformation

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Parte I La strategia nel sistema impresa

piattaforme digitali

smart working

value proposition

Massive open online courses

2016 circa un terzo del business, mentre nel 2010 era oltre il 50%; al contrario i ricavi da gestione dati è arrivato a circa due terzi del totale. Lo sviluppo digitale, tuttavia, non rappresenta solo una minaccia per le imprese di telecomunicazioni, ma offre loro l’opportunità di innovare il proprio business model e sviluppare nuove modalità di creazione di valore per i propri clienti. Una manifestazione delle tecnologie digitali che sta avendo un impatto cruciale nelle industrie e nei mercati è l’affermazione delle “piattaforme” digitali: ambiti ove si aggregano insiemi di persone per svolgere attività nuove o realizzare in modo nuovo (basato appunto sulla digitalizzazione delle informazioni) attività tradizionali. Già oggi, qualsiasi organizzazione strutturata ha sviluppato una propria piattaforma digitale, attraverso la quale gestisce le relazioni e gli scambi con i soggetti esterni, innanzi tutto i clienti e i fornitori, sviluppa una parte crescente della propria comunicazione e attua parti sempre più rilevanti di organizzazione delle attività interne. La rilevanza delle piattaforme risulta evidente dalla loro diffusione e pervasività in molte funzioni aziendali: dalla gestione delle relazioni con il cliente allo “smart working”, dall’automazione dei processi produttivi alla gestione delle procedure amministrative. Parallelamente, si è assistito a un grande sviluppo di nuove forme di offerta basate su piattaforme digitali; esse si sono manifestate in: siti di e-commerce e le diverse tipologie di marketplaces; social networks; fornitori di informazioni e contenuti; gestori di “comunità” di soggetti aggregati attorno a un’esigenza comune. Con modalità diverse, hanno rappresentato l’infrastruttura basilare per l’affermarsi dei modelli di sharing e pooling economy (oggetto di approfondimento nel prossimo paragrafo). Anche queste piattaforme stanno favorendo un’innovazione profonda di molti servizi, non solo nelle modalità di loro erogazione e fruizione, ma anche negli aspetti fondamentali della value proposition e quindi dei contenuti. Un esempio molto significativo a riguardo, di cui sarà interessante verificare gli effetti nei prossimi anni, è rappresentato dai Massive open online courses (MOOC) ormai concorrenti tradizionali dell’offerta formativa tradizionale, soprattutto di livello universitario e professionale. I modelli di business (Figura 5.2) basati sul digitale sono fondati su cinque fondamentali componenti che li distinguono fortemente da quelli “tradizionali”. •

Concept adatto a soddisfare nuove esigenze degli utenti, legate in particolare ai comportamenti “social”.

Diffusione globale

Concept

Big data management

Figura 5.2 I componenti dei modelli di business.

Tecnologia

Esternalità di rete

Capitolo 5 Il business model

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Strumenti

Il business model di un MOOC A MOOC is a model of educational delivery that is, to varying degrees, massive, with theoretically no limit to enrollment; open, allowing anyone to participate, usually at no cost; online, with learning activities typically taking place over the web; and a course, structured around a set of learning goals in a defined area of study. The range of MOOCs embody these principles in different ways, and the particulars of how MOOCs function continue to evolve. Still, even without a definitive model of what they are or do, MOOCs have prompted a reexamination of many of the conventions of higher education, including the role of faculty and the institution, accreditation, and criteria for awarding credit. A MOOC has a syllabus, and course content typically consists of readings, assignments, and lectures, which are often short (6–12 minutes) “microlectures.” Students watch the lectures, read assigned material, participate in online discussions and forums, and complete quizzes and tests on the course material. The online activities can be augmented by face-to-face meet-ups of MOOC participants who live close to one another. MOOCs are conducted by organizations—both nonprofit or for-profit—that include education as at least part of their mission. These organizations decide what to teach and at what level, and they form teams of faculty and support staff to design the MOOC, develop the content, and conduct the course. A MOOC might be offered through a specialized organization, but there is nothing to prevent an institution from offering MOOCs on its own. Aspects of some MOOCs involve a fee, including proctoring and options for students to receive a completion certificate or credit for the course. MOOCs are typically provided by higher education institutions, often in partnership with “organizers” such as Coursera, edX, and Udacity. Coursera’s consortium currently includes about 70 member institutions, with a diversity that includes the Exploratorium, the California Institute of the Arts, Match Teacher Residency, the New Teacher Center, and three museums. edX, whose consortium includes partners from the United States, Germany, Australia, Canada, China, Japan, Korea, France, and Sweden, considers itself a “learning platform” and plans to offer its code as open source in summer 2013. Among consumers of MOOCs are students who participate for a wide range of reasons: informal learning, competency in a particular area (which might only be a subset of the content of a MOOC), and, in some cases, credit toward a formal degree or certification program. In one Coursera MOOC, the average age of students was 35 (with an age range of 16 to 88), the vast majority of whom had at least an undergraduate degree. Although not widespread, some MOOCs are being offered directly by a college or university, MOOCs arise from the confluence of several important trends: disruptive ideas about the sources and processes of education, major changes to the financial model of higher education, and the development and availability of technologies including consumer hardware, widespread network access, and educational applications. In a relatively short time (even by technology standards), the activity around MOOCs has drawn the attention of senior leadership in higher education, challenging longstanding models and premises about education. The growing interest in openness—in open access and open resources—in higher education brings added interest in MOOCs. Moreover, because of the scale of most MOOCs, vast amounts of data are being generated that, when analyzed and more fully understood, will benefit not only future MOOCs but also education in other delivery models. Fonte: adattato da https://library.educause.edu/~/media/files/library/2013/6/eli7097-pdf.

• • • • •

Presidio delle tecnologie abilitanti. Dimensione tale da sfruttare al meglio le esternalità di rete. Capacità di acquisizione e gestione dei dati. Potenziale diffusione globale. Diffusione internazionale (tendenzialmente “globale”) sin dalle prime fasi del ciclo di vita.

Parte I La strategia nel sistema impresa

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Le tecnologie digitali, insieme alle innovazioni nell’ambito dell’automazione, stanno, infine, creando le condizioni per radicali miglioramenti dei processi di produzione industriale. Favoriscono, in primo luogo, un forte aumento della flessibilità e quindi il raggiungimento di condizioni di elevata efficienza anche a piccoli lotti di produzione; viene drasticamente ridimensionato il potenziale delle “economie di scala” nella creazione di un vantaggio competitivo di costo. Rendono inoltre più rapidi e meno costosi i passaggi tra le varie fasi del processo produttivo, con effetti positivi sulla produttività e sulla possibilità e costo di adattamento del prodotto finale alle specifiche richieste del cliente. Aumentando la precisione nell’utilizzo delle macchine e dei sistemi di controllo, le tecnologie digitali determinano anche un aumento della qualità e una diminuzione degli sprechi con importanti benefici sul piano sia dei costi, sia dell’impatto ambientale dell’attività produttiva.

5.6.2 La sharing economy sharing economy

pooling

accesso

La sharing economy può essere definita come un insieme (piuttosto eterogeneo) di pratiche e modalità organizzative (innanzi tutto, le così dette “piattaforme digitali”) che, attraverso appunto piattaforme digitali, aggregano grandi quantità di soggetti (ma, volendo, anche gruppi molto selezionati) accomunati da esigenze e comportamenti simili, generando così la nascita di “comunità” dove si sviluppa una fitta rete di relazioni; queste hanno natura ovviamente virtuale, ma possono favorire anche l’instaurarsi di scambi reali e di natura anche economica. Queste piattaforme permettono a ciascun utente-membro della comunità di accedere a prodotti, servizi, informazioni, condividendole con gli altri soggetti all’interno della stessa comunità o anche esterni. In questo ambito, si fanno rientrare anche i meccanismi di pooling attraverso cui si creano gruppi di soggetti che condividono l’uso di un certo bene o la fruizione di un certo servizio; in questo modo, favoriscono l’uso ottimale delle risorse (con conseguente beneficio ambientale e sociale), riducono il costo sostenuto da ciascuno (con conseguente vantaggio individuale) e facilitano l’interazione sociale (con conseguenti vantaggi sia sociali sia individuali). La pratica della “condivisione” di un bene o di un servizio tra più persone è in sé tutt’altro che innovativa; molta offerta economica “tradizionale” è basta su meccanismi di prestito o di affitto o sul mix di servizi gratuiti e a pagamento. La novità della versione attuale di sharing economy deriva dal fatto che essa risponde ad alcuni profondi cambiamenti del paradigma comportamentale del consumatore ed è intrinsecamente basata sulla tecnologia digitale. Il mutamento comportamentale può essere sintetizzato nella ormai nota intuizione di Jeremy Rifkin che già nel 2000 prefigurava il passaggio dalla centralità della proprietà a quella dell’accesso. In un numero crescente di casi, il consumatore è interessato non tanto a possedere un bene durevole, ma ad avere accesso a esso e poterlo utilizzare nel momento in cui ne sente il bisogno e nelle specifiche modalità per soddisfare al meglio tale bisogno. Per converso, nei casi in cui hanno la proprietà del bene durevole, le persone sono sempre meno preoccupate di esserne gli esclusivi utilizzatori e sempre più aperte a metterlo a disposizione di altri, nei momenti in cui non è loro necessario. È evidente che questa duplice attitudine si traduce nella volontà di acquistare non tanto il controllo totale (proprietà) di un bene, ma la sua disponibilità per un certo periodo di tempo e a certe condizioni, accettando tranquillamente che quel bene sia stato e sarà in futuro disponibile anche ad altri.

Capitolo 5 Il business model

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Strumenti

Alcune tendenze sociali e di mercato relative alla sharing economy Secondo un’indagine GFK in Italia nel secondo semestre 2016, i motivi di interesse e attrattiva del consumatore verso le offerte basate su modelli di “sharing” sono: risparmiare denaro (32% delle indicazioni), cui si lega il “concedersi lussi altrimenti impossibili (16% delle indicazioni); vivere in modo più ecologico (25%) e “semplificare le cose ridurre lo stress”, “risparmiare tempo (complessivamente il 36% dei risposte). Infine, “provare cose nuove e divertenti” insieme a “fare esperienze speciali e uniche” (33% delle risposte). La stessa ricerca ha anche evidenziato alcuni significativi “drivers” che spiegano il successo delle proposte basate su detti modelli: • •



La valorizzazione degli interstizi (si stima che il tempo medio di utilizzo (esclusi gli utilizzi direttamente legati ad attività produttive) effettivo di un’auto sul suo ciclo di vita totale sia pari al 2%. Crescita dei saperi esperti orizzontali e il conseguente sviluppo delle reti “peer to peer” (in molti mercati, quasi due terzi dei consumatori usa il “passaparola” e suggerimenti di altri per decidere l’acquisto di beni o servizi). Cresce la tendenza alla mobilità e alla sperimentazione e cambia la relazione con i brand (GFK rileva che nel 2000 il 42% di un campione di consumatori era d’accordo con l’affermazione “mi piace cambiare da una marca all’altra”; nel 2015, tale percentuale, su un campione comparabile era salita al 56%.

Tratto da: Paolo Salafia: Sei quello che usi. Prospettive di un’economia post-proprietaria – GFK. 2016.

Un secondo fondamentale elemento comportamentale è il fatto che la possibilità di condividere con altri l’utilizzo di beni o servizi o anche l’esperienza che ne deriva è in sé un elemento di valore. Una certa (sempre più consistente) parte del valore percepito di un bene o di un servizio deriva proprio da quanto sia possibile condividere con altri determinati aspetti della loro fruizione. Un ulteriore aspetto rilevante è l’atteggiamento volto a ottimizzare l’uso delle risorse che deriva sia dall’orientamento green sia dalla necessità di ridurre le spese e, per una certa parte delle persone, attivare nuove fonti di reddito per compensare la riduzione a volte drastica di quelle derivanti dall’occupazione tradizionale. Le piattaforme digitali di cui si è già accennato nel precedente paragrafo, sono la fondamentale infrastruttura che ha reso possibile l’attuarsi di modelli di business capaci di rispondere alle nuove esigenze e modalità di comportamento delle persone; rappresentano, quindi, l’altra fondamentale determinante del successo della sharing economy. Da un lato, esse hanno determinato diverse innovazioni fondamentali nella definizione del modello di business delle imprese tradizionali; dall’altro, rappresentano esse stesse un nuovo modello di business in grado di soddisfare un’esigenza che in precedenza non poteva trovare un’offerta adeguata e, in questo senso, creano un nuovo mercato. Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna innanzi tutto considerare che le piattaforme digitali, introducendo modalità disruptive per soddisfare una certa esigenza, hanno messo in forte crisi quelle “tradizionali”. È, ormai chiaro che la sharing economy non ha avuto effetti solo “incrementali”, aprendo nuovi mercati e attivando nuove forme di offerta; in molti casi, ha rappresentato un concorrente diretto dell’economia convenzionale, determinando un effetto di spiazzamento di modelli meno efficaci e più costosi. Di conseguenza, ha costretto le imprese “tradizionali”

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Parte I La strategia nel sistema impresa

a innovare il proprio modello di business, in modo da poter sfruttare nel proprio contesto le logiche della “condivisione” e le opportunità delle tecnologie digitali. Dal lato della domanda, il modello di business deve tenere conto dell’interazione diretta e continua tra coloro che condividono una determinata esigenza, senza grande rilevanza del mercato geografico di appartenenza, e che, sentendosi parte di una comunità pur virtuale sono portati a scambiarsi (a diversi livelli di intensità) le proprie esperienze e opinioni; in definitiva, a influenzarsi. Il secondo grande vantaggio per la domanda è la disponibilità a costo praticamente nullo di un’ampia mole di informazioni con la conseguente opportunità di ottimizzare le proprie scelte di acquisto. La sharing economy è il risultato, ma anche la risultante, dell’affermarsi di un nuovo paradigma dei consumi, caratterizzato (con enfasi ovviamente diversa, in relazione ai mercati e ai segmenti al loro interno) dai valori indicati nella Figura 5.3. Dal lato dell’offerta, va sottolineata innanzi tutto la possibilità/necessità di rafforzare l’interazione diretta con la propria domanda target, sapendo gestire la

Accessibilità

Personalizzazione

Condivisione

Semplificazione

Sperimentazione

Figura 5.3 I presupposti dei nuovi modelli di consumo – tratto da Salafia (2016) GFK.

Esperienza

Sostenibilità

Esperienza

I “ducatisti” esempio ante litteram di “comunità” Una delle componenti del rilancio delle moto Ducati nei primi anni di questo secolo, fu lo sviluppo, promosso e stimolato dall’azienda, della “comunità” di coloro che possedevano (o aspiravano a possedere) una Ducati, i “ducatisti”. La comunità rafforza il valore immateriale della moto; la rende il mezzo per “appartenere” a un insieme di persone omogeneo rispetto alla comune passione motoristica; aumenta e migliora le opportunità esperienziali vissute attraverso di essa; permette la condivisione di conoscenza e lo scambio tra i membri della comunità. La rilevanza di questa comunità è anche sottolineata dall’esistenza di un sito: www.passioneducati.com, distinto da quello dell’azienda. Nel sito, si trovano, oltre alle informazioni dettagliate sui vari modelli e sulle attività sportive (MotoGP e Superbike), le informazioni sui raduni, il Forum tra gli appassionati, un’area “Vendo/Compro”, notizie sulle normative rilevanti e altre informazioni utili.

Capitolo 5 Il business model

propria presenza nelle comunità di cui essa è parte; inoltre, l’opportunità di profilare con notevole precisione caratteristiche e comportamenti dei clienti. Queste due condizioni hanno anche reso possibile e conveniente per l’impresa attivare meccanismi di interazione con la domanda nella fase di sviluppo finale del prodotto. Entro i limiti intrinsecamente determinati dal tipo di produzione e modello organizzativo, le imprese cercano di modificare il proprio modello di business per divenire appunto la “piattaforma” dove si incontrano e si connettono per un verso con i propri clienti attuali e potenziali, per l’altro con l’insieme di altri soggetti con cui sviluppano sistemi produttivi reticolari. Relativamente al secondo punto introdotto sopra, BlaBlaCar e Airbnb rappresentano due esempi molto chiari di piattaforme tecnologiche (e di nuove aziende sottostanti) che hanno introdotto modelli di business del tutto innovativi. Nel primo caso, la piattaforma ha reso possibile l’utilizzo economico dei posti disponibili in un’automobile privata, in un viaggio di medio-lungo raggio, permettendo la comunicazione “social” tra il proprietario dell’auto che ha pianificato il viaggio e i potenziali passeggeri interessati allo stesso tragitto e nello stesso giorno. Per il proprietario del veicolo, il vantaggio sta nell’opportunità di ridurre il suo costo totale per il viaggio; per il passeggero, la possibilità di realizzare il trasferimento a un prezzo inferiore di quello con altri mezzi; per entrambi, l’opportunità di attivare una nuova relazione sociale, quantomeno per la durata del viaggio. Il modello di business di Airbnb è analogo nell’ambito della ricettività turistica; la piattaforma mette in contatto persone che cercano una sistemazione (da una semplice stanza a una villa) in una certa località e per un certo numero di notti con altri che hanno tali spazi e sono interessati a metterli a disposizione. Anche in questo caso, chi domanda trova una sistemazione adatta alle sue esigenze e a un costo inferiore a quelle “tradizionali”; chi offre valorizza meglio la propria proprietà immobiliare; entrambi beneficiano dell’opportunità di stabilire una relazione. Anche in questo caso, ogni soggetto che accede alla piattaforma può far parte sia della domanda sia dell’offerta. Anche in questo caso, infine, la piattaforma svolge la funzione di favorire la connessione tra domanda e offerta, la massima circolazione delle informazioni utili alle parti per definire il loro accordo e attivare efficaci meccanismi di reciproca garanzia. Una importante caratteristica dei modelli di business di queste piattaforme è la capacità di evolvere rapidamente, in relazione al mutare (spesso da loro stesse direttamente o indirettamente indotto) della natura degli attori coinvolti o comunque delle loro aspettative e dalle opportunità rappresentate dallo sviluppo delle tecnologie. Anche in questo senso, essi risultano molto più efficaci di quelli tradizionali che, soprattutto quando raggiungono un vantaggio competitivo, tendono a cercare condizioni di stabilità e a proteggere i propri fattori di forza. In alcuni, per altro, tale mutamento modifica la visione, la missione e forse anche i valori fondanti originari della piattaforma. In linea generale, si osserva che le piattaforme stanno evolvendo da sistemi pensati per facilitare le transazioni peer to peer a modelli digitali di gestione delle relazioni tra domanda e offerta. Rispetto a quelli tradizionali, l’elemento innovativo fondamentale è che l’offerta non è costituita più solo da imprese, ma anche da persone fisiche. Nel caso di Airbnb, per esempio, nella fase iniziale la proposta di valore era mirata da un lato, alle persone alla ricerca di una accomodation turistica a basso costo e, dall’altro, ad altre in grado di soddisfare questa esigenza, attraverso l’offerta di un proprio spazio privato; a meno di cinque anni dal suo avvio, oggi Airbnb è frequentata

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peer to peer

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da una domanda molto differenziata, che arriva a comprendere il segmento del lusso, e specularmente da un’offerta ampia e costituita in misura crescente da soggetti organizzati che utilizzano la piattaforma essenzialmente come canale distributivo della loro offerta immobiliare. Del resto, altra peculiarità del business model delle piattaforme di sharing economy è il fatto che la loro evoluzione è solo in parte guidata dal suo gestore, essendo fortemente influenzata dai vari membri della comunità aggregata nel loro ambito. Questo forte dinamismo determina comunque un’instabilità da cui nessuno è al riparo; oggi, alcune delle piattaforme di sharing di maggiori dimensioni e visibilità stanno cercando di innovare il proprio business model per rispondere a crescenti segnali di un minor interesse da parte degli utenti o quantomeno al forte rallentamento della domanda. Un altro aspetto rilevante di questa continua evoluzione è l’affermarsi di due ulteriori tipologie di piattaforme, legate a quelle considerabili “di prima generazione”. La prima è quella di piattaforme che creano condizioni a supporto dello sviluppo di quelle esistenti e fortemente popolate; un esempio è “Breeze” che offre a coloro che vogliono essere drivers su Uber, ma non possiedono un’automobile, l’accesso settimanale a un veicolo messo a disposizione da persone che lo possiedono ma non devono utilizzarlo. La seconda tipologia è quella di piattaforme dove l’utente può comparare i prezzi di offerte uguali presenti in diverse piattaforme concorrenti “di prima generazione”. Un esempio piuttosto significativo si ha nel turismo dove Trivago permette all’utente di comparare il costo di una stessa camera di albergo acquistabile nelle principali OTAs (on line travel agencies). Un ulteriore determinante del successo dei business basati sui meccanismi di sharing o di pooling è il fatto che normalmente determinano un vantaggio evidente e facilmente misurabile per tutti gli attori coinvolti; in molti casi, generano anche un significativo valore sociale, innanzi tutto sul piano ambientale; infine la loro applicazione non ha limiti geografici, salvo eventuali differenze di tipo tecnico o normativo nei vari Paesi. Per questa ragione, quando la piattaforma coglie efficacemente un’esigenza attorno alla quale si aggregano domanda e offerta e se è dotata della adeguata infrastruttura tecnologica, può riuscire a scalare molto rapidamente fino a una grandissima dimensione; non di rado, determina l’affermarsi di nuovi modelli di comportamento anche sul piano sociale, generando così una crisi strutturale dei modelli di business (e delle imprese) “tradizionali”. Da questo deriva che si tratta di modelli win-win solo per i soggetti che sono direttamente coinvolti, e che esercitano una pressione competitiva molto forte sulle altre modalità di offerta, costringendole comunque a innovare il proprio modello di business. Allo stesso tempo, una volta che il modello si rivela efficace in un certo ambito di mercato, viene replicato rapidamente anche in altri segmenti dello stesso mercato, attraverso l’estensione delle piattaforme originarie o la nascita di nuove specializzate. Le piattaforme dove si incontrano persone che cercano uno spazio privato per accomodation turistica e soggetti in grado di soddisfare tale domanda sono state replicate, per esempio, nel segmento del turismo nautico. Sailsquare, Sailo, Bluewago, Board a Boat, Getmyboat, click&boat, sono alcuni tra i numerosi esempi di nuove piattaforme che permettono da un lato di “trovare una vacanza” e dall’altro di “offrire una vacanza” in barca. Easy Harbour è invece una piattaforma che ha l’obiettivo di facilitare lo scambio di posti barca tra diportisti; attraverso essa, si crea una community di persone che quando sono in navigazione sono interessate a offrire il proprio posto barca nel loro porto-base e, allo stesso tempo, domandano posti barca

Capitolo 5 Il business model

per qualche notte nei luoghi dove fanno tappa durante la navigazione. Si tratta evidentemente di un’ulteriore applicazione della “condivisione” della proprietà di un asset per utilizzarlo al meglio e ridurre i costi per la disponibilità di altri simili. Anche in questo caso, la proposta di valore per chi domanda è la possibilità di una vacanza in barca a un prezzo molto inferiore rispetto alle offerte tradizionali, insieme all’opportunità di conoscere nuove persone che condividono lo stesso interesse; per chi offre, l’opportunità di guadagnare attraverso la condivisione con altri del proprio asset (la barca) e delle proprie competenze (la capacità di condurre un’imbarcazione). Inoltre, poiché le piattaforme digitali sono caratterizzate da fortissime economie di agglomerazione, una volta raggiunta una certa dimensione critica, tende a verificarsi il fenomeno per cui “the winner takes all”. I primi a diventare sufficientemente grandi diventano praticamente irraggiungibili, anche perché gli altissimi cash flows generati dalla gestione permettono loro di acquistare anche a un prezzo molto elevato gli eventuali nuovi entranti con potenzialità di sviluppo tali da minacciare la loro leadership. Nella breve storia delle principali piattaforme digitali, si sono già verificate diverse grandi acquisizioni che hanno fatto notevolmente crescere il grado di concentrazione dell’offerta. Questo ha determinato l’affermarsi in pochi anni di un ristretto numero di giganti globali, con un controllo monopolistico o quasi del proprio mercato e un potenziale di accumulazione di ricchezza letteralmente senza precedenti. L’enorme potere economico ed extraeconomico di queste pochissime imprese sta ormai aprendo seri interrogativi sui possibili risvolti negativi del loro successo. Se è abbastanza intuitivo comprendere la ragione per cui le piattaforme digitali (e le imprese che le gestiscono) riescono ad aggregare rapidamente enormi quantità di utenti, è meno immediato stabilire come da questo esse riescano a creare valore. L’attivazione dei revenue streams è molto delicata, considerato che fin dall’inizio e tutt’ora la leva fondamentale di aggregazione di domanda e offerta nella piattaforma è stata proprio la gratuità dell’accesso, ovvero l’eliminazione dei costi diretti di intermediazione e reperimento di informazioni. Ancora più incerte sono le modalità di trarre reddito dal grande volume di affari generato. Per esempio, il bilancio 2015 di Spotify mostra ricavi record pari a quasi 2 miliardi di dollari, ma una perdita di circa 170 milioni. Le principali modalità di generare ricavi sono le seguenti. •

Service fee. La piattaforma guadagna una fee dai soggetti che pone in collegamento (domanda e offerta di beni e servizi), proporzionale al valore della transazione; tale fee può essere richiesta per la sola connessione o nel caso tale connessione generi effettivamente una transazione economica. A quella di base possono essere previste delle fee aggiuntive per servizi specifici “on

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revenue streams

service fee

Esperienza

La concentrazione del mercato musicale Nel 2016, l’enorme mercato globale dello streaming musicale a pagamento è stimato nell’ordine di 100 milioni di utenti; esso è però appannaggio praticamente di solo sette grandi operatori: Spotify (circa 40 milioni), Sirius (30 milioni), Apple Music (16 milioni), Deezer (6 milioni), Pandora, Napster e Tidal (intorno ai 3 milioni ciascuno).

Parte I La strategia nel sistema impresa

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freemium



membership plus usage



flat membership



on sale



demand” da parte dei soggetti coinvolti. Airbnb rappresenta un esempio di questo modello. Freemium. La piattaforma è liberamente accessibile e non richiede alcun pagamento per l’accesso ai servizi di base; gli utilizzatori sono poi stimolati a richiedere servizi aggiuntivi per i quali è previsto un pagamento. Linkedin utilizza sostanzialmente questo modello. Cousera ed Edx, i due principali attori nell’offerta di MOOC, forniscono corsi di formazione on-line gratuiti, ma stanno iniziando a richiedere un pagamento per la partecipazione all’esame finale e il rilascio di un diploma. Membership plus usage. La piattaforma richiede un pagamento (normalmente, relativamente contenuto, one-off o abbonamento periodico) per entrare nella community e poter usufruire di determinati servizi. Questi servizi sono pagati in relazione all’uso, a un prezzo normalmente molto competitivo rispetto a quelli tradizionali che assolvono ad analoghe esigenze. Le varie piattaforme di car sharing sono generalmente impostate in questo modo. In alcuni casi, si prevede una differenziazione del costo della membership in relazione alla frequenza e intensità di utilizzo dei servizi. Flat membership. La piattaforma richiede una fee per l’appartenenza alla community che consente l’accesso completamente gratuito ai servizi offerti (Techshop è un esempio di questo approccio). On sale. La piattaforma facilita la vendita on-line di prodotti e servizi che, per diverse ragioni, acquista a prezzi molto convenienti dai produttori (o da altri distributori); questo le permette di vendere a sconto rispetto ai prezzi medi di mercato, guadagnando comunque un buon margine di intermediazione. I portali di e-commerce nei vari settori operano normalmente in questo modo.

5.6.3 La green economy Dai primi anni del secolo, i grandi organismi internazionali (Nazioni Unite, Unione Europea, OCSE ecc.)3 e tutti i principali Stati nazionali hanno rafforzato il loro impulso allo sviluppo della green economy intesa come motore per il miglioramento dell’impatto ambientale delle attività economiche, basato sul principio di “fare meglio con meno”. Nell’ambito dei processi produttivi, questo significa adottare tecnologie e modalità operative che permettano la produzione di uguali quantità di prodotto e/o di valore aggiunto, ma con minori quantità di materie prime, di risorse naturali e di energia, e allo stesso tempo riducendo l’impatto negativo sull’atmosfera, sul suolo e sulle acque. Per quanto riguarda il prodotto, vanno considerati gli effetti sull’ambiente (ma anche sul sistema sociale) della sua utilizzazione da parte del consumatore; tali effetti assumono rilievo cruciale nella valutazione di qualità del prodotto. È anche essenziale attuare un approccio “integrato” o “circolare” al ciclo di vita del prodotto così che, al termine della sua originaria vita utile per il consumatore, sia funzionale per altre utilizzazioni (venga “rivitalizzato”) o sia possibile recuperare la massima parte dei suoi componenti per nuove produzioni, riducendo così il consumo di nuovi materiali. Il programma per l’ambiente delle Nazioni Unite, indica quale questione primaria

3 Si veda: UNEP (2011) Towards a green economy: pathways to sustainable development and poverty reduction. A synthesis for policy makers. www.unep.org/greeneconomy.

Capitolo 5 Il business model

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in cui si concretizza la green economy: l’utilizzo del “capitale naturale” e dell’energia. Queste tematiche si declinano in vari ambiti, relativi sia alla sfera del capitale naturale stesso (foreste, acqua, suolo e mari, città), sia ai settori produttivi (energia da fonti rinnovabili, manifatturiero, costruzioni, turismo, trasporti, produzione di rifiuti, agricoltura e pesca, trasporti. La green economy è evidentemente una rappresentazione concreta dell’orientamento allo sviluppo sostenibile, per cui la creazione di valore economico avviene nell’ambito del miglioramento del benessere umano e dell’equità sociale e migliorando le condizioni attuali e future dell’ambiente naturale. È generata dalla sempre più forte e diffusa sensibilità delle persone verso le problematiche dell’ambiente e quindi dalla rilevanza che esse hanno per un verso, nel comportamento del consumatore (green consumerism) e, per l’altro, nelle politiche pubbliche e nella conseguente evoluzione legislativa e regolatoria in materia economica e di produzione. Deriva anche dall’affermarsi di un “paradigma ecologico” (Johnson D. B., 2008) per il quale, le variabili correlate all’ambiente rappresentano riferimenti fondamentali nell’organizzazione e gestione del business e nella valutazione dei risultati. La green economy è, quindi, un concetto generale in cui sono compresi una molteplicità di fenomeni, accomunati dal meta-obiettivo del miglioramento del “capitale naturale” del pianeta nel quadro del suo sviluppo sostenibile e basati su cinque fattori principali: • • • • •

le tecnologie; i mercati; le politiche, la normativa e i regolamenti; i business models; i prodotti/servizi offerti.

Questi fattori sono tra loro fortemente interdipendenti: la green economy implica un approccio olistico per cui tali fattori sono componenti integrate di uno stesso sistema. Nella prospettiva di questo paragrafo, l’attenzione è focalizzata sul quarto dei fattori indicati sopra; l’innovazione di determinati componenti del business model è indirizzata a migliorare l’impatto ambientale del business stesso parallelamente alla creazione di valore economico e sociale. L’approccio green determina un’evoluzione dei business model “tradizionali” nelle imprese, e l’affermarsi di nuovi modelli concepiti in relazione a finalità di miglioramento ambientale e di sostenibilità. Questi ultimi per un verso sfruttano le tecnologie digitali; per l’altro, sono basati sui principi dello sharing centrati, come illustrato, sul miglior uso dei beni già disponibili, da cui deriva la possibilità di soddisfare le esigenze con minor impatto ambientale negativo. Vanno quindi considerate, da un lato, le opportunità di nuove soluzioni per migliorare l’efficienza ed l’efficacia delle attività economiche dal punto di vista delle variabili ambientali rilevanti; dall’altro, le opportunità per introdurre nuove soluzioni a specifiche problematiche della domanda (nei mercati più diversi) caratterizzate da positivi effetti sull’ambiente anche in relazione a cambiamenti di comportamento dei consumatori. Un esempio evidente è rappresentato dalle sempre più numerose applicazioni (apparati tecnologici, materiali, strutture) alle abitazioni per l’abbattimento dei consumi di energia elettrica, gas e acqua. Esempi di questo genere sono sempre più numerosi e rilevanti, in particolare nei settori le cui attività produttive hanno

sharing

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energy saving companies (ESCO)

operations

green supply chain management

economia circolare

un impatto ambientale intrinsecamente più rilevante e problematico, in termini di utilizzo delle risorse, inquinamento, effetti negativi sulle specie viventi e sul paesaggio (agricoltura, energia e produzioni ad alto consumo di energia, chimica, costruzioni). Una prima possibile innovazione è l’introduzione di modelli di fruizione del prodotto/servizio da parte del consumatore che migliorano l’impatto ambientale del consumo; tale miglioramento può derivare da: minor uso del bene e conseguente diminuzione del volume totale di inquinamento generato; maggiore riutilizzo e/o riciclo del bene o di sue componenti; diffusione di modalità di utilizzo meno inquinanti. La logica dello sharing costituisce l’architrave di modelli di fruizione di questo genere. La separazione tra proprietà del bene e utilizzo con la possibilità di utilizzi anche molto ripetuti e per breve tempo permette, da un lato, l’uso efficiente del bene, anche dal punto di vista ambientale; dall’altro, il suo uso razionale (riduzione degli sprechi). Un altro modello innovativo (anche se ormai già piuttosto consolidato) è quello delle Energy Saving Companies (ESCO), basato sull’idea che l’impresa guadagna in funzione del risparmio di costo, nella fattispecie per il consumo di energia elettrica, che la sua attività determina a favore del cliente (che è un soggetto forte consumatore di energia). Sia nel caso l’impresa sia produttore di apparati o anche gestore del servizio, il fatto di guadagnare in proporzione al risparmio generato a favore dell’utente, la incentiva a operare al fine di massimizzare tale risparmio. Un analogo meccanismo è realizzato attraverso il contratto di “Design, Build, Finance, Operate” che, sulla base di adeguati meccanismi di premialità e su un’orizzonte temporale di lungo termine, incentiva l’impresa a realizzare e gestire al meglio una infrastruttura (normalmente di interesse pubblico). Altre modalità di innovazione del business model per migliorarne l’impatto ambientale riguardano specificatamente l’area delle operations e in particolare le modalità di realizzazione dei processi di approvvigionamento, produzione e distribuzione; inoltre, il tipo di materie e semi-lavorati utilizzati. Esempi significativi sono il green supply chain management che comprende modalità di gestione del sistema delle forniture finalizzate a ottimizzare l’impatto ambientale complessivo delle produzioni esternalizzate e dei conseguenti servizi logistici, ponendo attenzione anche all’impatto ambientale delle attività produttive realizzate dai fornitori. Il take back management che estende al produttore e al distributore la responsabilità della gestione del “fine vita” del prodotto e del suo recupero. A riguardo, va considerato anche il complesso di manifestazioni della così detta economia circolare, comprendente tecnologie, strutture produttive e modelli di business finalizzati a ottimizzare l’uso di energia, acqua, materie prime e materiali quali input nei processi produttivi, attraverso l’organizzazione appunto “circolare” del loro flusso nelle fasi di acquisizione, trasformazione e consumo. Mentre il tradizionale ciclo “lineare” di produzione “estrazione – produzione – consumo – rifiuto” comporta l’abbandono di una proporzione molto alta di risorse (stimata tra il 60% e l’80% di quelle impiegate), l’approccio “circolare” implica la minimizzazione dello scarto e quindi la drastica riduzione del consumo di materie, adottando a tal fine i principi di “riduzione”, “riutilizzo” e “riciclo”. È evidente come questo approccio rappresenti un connubio ideale tra obiettivi ambientali ed economici; l’ampliamento del ciclo di vita del prodotto e dei suoi componenti e la riduzione dei consumi ha infatti un evidente e immediato effetto sui costi; può generare nuovi flussi di ricavi e rappresenta un importante fattore di diffe-

Capitolo 5 Il business model

renziazione, almeno per i segmenti di mercato sensibili alle problematiche ambientali. Oltre ai due precedenti, in questo ambito sono particolarmente importanti le soluzioni cradle to cradle, attraverso le quali i prodotti sono progettati e realizzati (design, materiali utilizzati, tecnologie, funzionalità) in maniera tale da massimizzare la durata utile (anche attraverso il succedersi nel tempo di utilizzazioni diverse) e poi il recupero della massima parte delle materie/componenti, e le architetture di simbiosi industriale, finalizzate a consentire l’utilizzazione condivisa di risorse, materiali (compresi gli scarti di determinate produzioni) e strutture tra impianti diversi, attraverso la loro connessione tecnica e una corrispondente relazione commerciale. L’OCSE,4 sulla base dell’analisi di un ampio insieme di esempi concreti di innovazioni tecnologiche e di business green, ha proposto tre dimensioni caratterizzanti dette innovazioni. •

cradle to cradle

simbiosi industriale

L’oggetto dell’innovazione green. Può riguardare: il prodotto, il servizio o una combinazione di entrambi; i processi produttivi; l’organizzazione delle attività

Esperienza

Alcuni esempi di green business models Volvo Aereo produce motori a turbina per velivoli; non li vende; li utilizza per vendere il servizio di loro messa a disposizione per il numero di ore di volo richieste dalla compagnia aerea. Quest’ultima paga quindi in relazione all’utilizzo del servizio, che comprende anche la delicata attività manutenzione. Per le evidenti economie di esperienza, estensione e scala, Volvo è in grado di realizzare tale attività in condizioni molto più efficienti del singolo utilizzatore; ne deriva un vantaggio di costo e la possibilità di ottimizzare l’uso dei motori con risultati migliori dal punto di vista sia ambientale sia economico. L’impresa danese Danfoss Solutions supporta le imprese, in particolare nel settore alimentare, nella riduzione del consumo di energia per i loro processi produttivi. Garantisce risparmi di costo tali da permettere il recupero degli investimenti negli apparati necessari al risparmio energetico in 2–4 anni e richiede un compenso solo in proporzione al valore dei risparmi. Questo meccanismo incentiva fortemente le imprese alimentari a introdurre le innovazioni per il risparmio energetico, con un vantaggio anche sul piano ambientale. Nei casi in cui il potenziale di risparmio energetico è particolarmente elevato, questo meccanismo può essere reso ancora più robusto attraverso il coinvolgimento di un soggetto finanziario che co-finanzia la realizzazione degli investimenti in risparmio energetico. Allfarveg è una società di progetto norvegese creata per gestire un importante tratto autostradale nell’area sud-orientale della Norvegia. Dopo aver costruito la strada, ha un contratto con l’Amministrazione nazionale per gestirla per 25 anni; il compenso è basato sui risultati di una serie di parametri relativi alla strada (sicurezza, qualità della viabilità, soddisfazione degli utenti). Il sistema di compensation è tale che l’impresa è incentivata a introdurre innovazioni per ridurre il consumo di materiali ed energia, garantendo la massima efficacia; un esempio è costituito dal particolare materiale con cui è realizzato l’asfalto che lo rende più luminescente, permettendo una leggera riduzione dell’intensità dell’illuminazione notturna. Tratto da: FORA (2010) Green business models in the Nordic Region. Nordic Council of ministers.

4 Cfr. OCSE (2011) Radical and systematic eco-innovation and the role of business models. Progress Report.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

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del valore e le modalità di gestione delle relazioni con i fornitori; i meccanismi di commercializzazione; le modalità di determinazione del prezzo. La modalità. Può trattarsi di: miglioramenti incrementali dell’oggetto; progressivi aggiustamenti per migliorare la performance ambientale; “re-design” di componenti significative dell’oggetto; introduzione di materie, componenti, tecnologie con le stesse funzionalità di quelle attuali, ma miglior impatto ambientale; innovazione radicale, che porta alla creazione di un oggetto del tutto nuovo e con una performance ambientale di livello superiore rispetto al precedente. L’impatto dell’innovazione durante il suo ciclo di vita.

Sintesi Il capitolo presenta i contenuti in cui il business model è articolato. Si sofferma in particolare sui contenuti della “proposta di valore”, evidenziando la connessione con le caratteristiche dei soggetti target cui è rivolta. Sono poi discusse le condizioni necessarie per generare ed erogare tale proposta di valore; infine, gli aspetti economici. La seconda parte del capitolo è dedicata all’innovazione dei business model, approfondendo i tre fenomeni attualmente disruptive: la digital economy, la sharing economy e la green economy.

Domande ed esercizi Domande di verifica 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

Indicare i tre ambiti in cui possono essere raggruppati i contenuti fondamentali di un business model. Cos’è il “target” nella proposta di valore e perché è rilevante? Quali componenti vanno definite nel business model relativamente alle modalità di erogazione del valore? Come si articola la “proposta di profittabilità”? Quali sono i fattori di innovazione di un business model? Quali sono i fattori disruptive dei modelli di business tradizionali? Cosa sono e perché sono rilevanti le “piattaforme digitali”? Cosa sono i Massime open online courses? Cosa si intende per sharing economy? Come può impattare la sharing economy nell’evoluzione dei business model “tradizionali”? Quali sono i fattori chiave del successo delle piattaforme di sharing economy? Quali sono le principali modalità di generazione dei ricavi nelle piattaforme di sharing economy? Cosa si intende con il termine green economy? Cosa si intende con il termine circular economy? Quali aspetti principali caratterizzano i business model green?

Test a risposta multipla 1.

Il business model di un’impresa descrive: ▫ a. il modo in cui l’impresa gestisce il business sulla base di una certa strategia competitiva. ▫ b. il modo in cui l’impresa modella il business in relazione ai vincoli e alle opportunità. ▫ c. il modo in cui l’impresa elabora il proprio approccio al business per raggiungere il vantaggio competitivo.

2.

La proposta di valore è indirizzata: ▫ a. primariamente ai clienti target. ▫ b. primariamente agli azionisti (sia di maggioranza, sia di minoranza). ▫ c. primariamente a tutti gli stakeholders.

3.

L’insieme delle condizioni fondamentali necessarie per attuare una certa “proposta di valore” sono: ▫ a. i fattori critici di successo del business model. ▫ b. le risorse distintive, le attività chiave e il modello organizzativo dell’impresa. c. ▫ il complesso delle risorse e competenze dell’impresa e il modo in cui sono organizzate.

4.

Un business model è considerato “cost driven” quando è: ▫ a. focalizzato sulla minimizzazione dei costi, pur riuscendo a erogare il valore atteso dai clienti.

Capitolo 5 Il business model

▫ b. focalizzato sulla massimizzazione del valore offerto ai clienti, pur nell’ambito di costi contenuti. c. ▫ focalizzato sulla gestione ottimale dei costi. 5.

Nell’ambito della sharing economy, i meccanismi di pooling: ▫ a. creano gruppi di soggetti che condividono l’uso di un certo bene/servizio, ottimizzando l’uso delle risorse, riducendo il costo sostenuto da ciascuno e facilitando l’interazione sociale.

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▫ b. facilitano l’aggregazione di soggetti con interessi diversi attorno a un fattore di vantaggio rilevante per tutti, permettendo una maggiore integrazione tra le attività degli stessi soggetti. c. ▫ favoriscono il raggiungimento di una massa critica di soggetti utenti di un determinato servizio, così da rendere sostenibile la sua produzione ed erogazione.

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Le strategie di crescita

6

Matteo Caroli

Gli obiettivi del capitolo Questo capitolo descrive le strategie “di crescita”: l’integrazione verticale, la diversificazione e l’internazionalizzazione. Per quanto riguarda l’integrazione verticale, il capitolo descrive i suoi possibili effetti sulla struttura dei costi di produzione, sul sistema di creazione di valore per il mercato finale, nonché sul controllo delle dinamiche competitive. Sono poi approfondite le forme contrattuali attraverso le quali l’impresa può integrarsi verticalmente. Con riferimento alla diversificazione, il capitolo distingue tra una strategia di tipo conglomerale e una correlata, in relazione al grado di connessione industriale o di mercato che esiste tra i business diversificati. Sono spiegati i fattori che spingono l’impresa a crescere attraverso la diversificazione, nonché le principali problematiche che occorre affrontare. Infine, il capitolo si occupa dell’internazionalizzazione come ulteriore modalità di crescita; sono illustrate le ragioni che possono stimolare l’impresa ad attuare questa strategia; le fasi tipiche del processo di espansione estera e le diverse modalità di entrata nei mercati esteri. Sono anche discussi gli effetti dell’internazionalizzazione sul vantaggio competitivo.

6.1 La strategia di integrazione verticale La strategia di integrazione verticale si sostanzia in primo luogo nella determinazione dei confini verticali (a monte e a valle) dell’attività svolta dall’impresa; comprende inoltre la definizione del modo in cui sono articolati e sviluppati i legami con i soggetti che svolgono attività a monte e a valle di quelle realizzate dall’impresa (fornitori diretti e indiretti; distributori diretti e indiretti); prevede infine l’esplicitazione dei criteri per modificare i confini verticali dell’impresa, ovvero il suo grado di integrazione verticale.

confini verticali

legami criteri per modificare

6.1.1 La determinazione dei confini verticali dell’impresa L’integrazione verticale di un’impresa descrive l’entità delle attività verticalmente correlate ai fini della produzione e vendita di un determinato output che essa svolge direttamente al suo interno. L’integrazione verticale è tanto più elevata quanto più numerose sono queste attività, in altri termini quanto maggiore è il valore aggiunto che l’impresa genera al suo interno in proporzione al valore complessivo finale della sua offerta.

L’integrazione verticale di un’impresa descrive l’entità delle attività verticalmente correlate ai fini della produzione di un determinato output che essa svolge direttamente al suo interno.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

integrazione completa

integrazione parziale

La filiera produttiva è l’insieme di lavorazioni conseguenti che vengono effettuate per trasformare un certo insieme di materie prime in un prodotto finito e collocarlo sul mercato.

prospettiva statica prospettiva dinamica Il processo di integrazione verticale può procedere verso “monte” o verso “valle”.

L’impresa tende a realizzare al suo interno tutte quelle attività che realizzano un determinato output a un costo inferiore al prezzo che essa sosterrebbe se acquistasse quello stesso output sul mercato.

L’integrazione tra due attività della catena produttiva di un’impresa può essere più o meno parziale. Si ha integrazione completa tra due attività quando tutto l’input utilizzato dall’attività a valle è prodotto internamente dall’attività a monte, e quando tutto l’output realizzato dalla fase a monte è impiegato nella fase a valle. L’integrazione è invece parziale quando il fabbisogno dell’input produttivo di una determinata fase e la necessità di allocare i suoi output sono soddisfatti anche attraverso lo scambio con soggetti esterni. Può anche verificarsi il caso in cui l’attività a monte produca una quantità di output eccedente la necessità interna dell’attività a valle; in una situazione del genere, una parte della produzione realizzata dalla fase a monte è evidentemente destinata al mercato esterno. L’integrazione verticale e la filiera produttiva Per comprendere appieno il significato dell’integrazione verticale dell’impresa, è utile fare riferimento al concetto di filiera produttiva. Volpato (1986) definisce la filiera produttiva come l’insieme di lavorazioni conseguenti che vengono effettuate per trasformare un certo insieme di materie prime in un prodotto finito e collocarlo sul mercato. L’attività dell’impresa si esplica nello svolgimento al proprio interno di un certo numero delle lavorazioni in cui si articola la filiera. Tanto maggiore è questo numero, tanto più elevato è il grado di integrazione verticale dell’impresa. L’integrazione verticale può essere considerata in prospettiva statica, come la condizione in cui l’impresa si trova in un determinato momento della sua storia, oppure in prospettiva dinamica, come il risultato di un processo che procede nel senso di un incremento delle attività svolte all’interno dell’impresa o, al contrario, di una loro diminuzione. Il processo di integrazione verticale può procedere verso “monte” o verso “valle”. Nel primo caso, l’impresa assume il controllo diretto delle attività relative alla produzione di input che in precedenza erano acquistati all’esterno; nel secondo caso, essa porta al suo interno le attività di produzione che utilizzano gli output in precedenza venduti a soggetti esterni. L’integrazione a valle può estendersi fino a vedere l’impresa coinvolta nella distribuzione del prodotto finito al suo acquirente/utilizzatore finale. La variabile costo nella determinazione dei confini verticali dell’impresa Il costo è il criterio primario (anche se non necessariamente esaustivo) per stabilire i confini verticali dell’impresa: essa tende a realizzare al suo interno tutte quelle attività che realizzano un determinato output a un costo inferiore al prezzo che essa sosterrebbe se acquistasse quello stesso output sul mercato. Nella prospettiva dei costi, le condizioni che conducono alla scelta delle attività da realizzare all’interno possono essere sintetizzate nella seguente relazione: Cp + Ca  P + Ct dove: Cp = indica l’insieme dei costi di produzione interna relativi all’attività in questione; Ca = indica l’insieme dei costi amministrativi derivanti dalla gestione dell’attività all’interno dell’impresa; P = è il prezzo di acquisto sul mercato dello stesso output realizzato dall’attività in questione; Ct = indica l’insieme dei costi che l’impresa sostiene per le operazioni inerenti l’acquisto sul mercato (costi di transazione o transazionali).

Capitolo 6 Le strategie di crescita

I costi transazionali descrivono gli oneri insiti nella preparazione e attuazione dello scambio sul mercato. In una situazione di perfetta concorrenza e di uguale efficienza tra gli operatori, in cui si può ipotizzare che il prezzo di vendita di un operatore sul mercato sia uguale al costo di produzione interna dell’impresa, la scelta del grado di integrazione verticale è ricondotta al confronto tra i costi di amministrazione dell’impresa (intesi come costi di gestione interna di una certa attività) e i costi di transazione. Con riferimento ancora alla precedente formula, una differenza positiva (o negativa) tra i due addendi non implica necessariamente il passaggio dalla produzione interna all’acquisto dell’output sul mercato (o viceversa). Occorre, infatti, considerare anche l’entità dei costi di cambiamento, di quei costi che l’impresa deve appunto sostenere per integrarsi verticalmente o, al contrario, per de-integrarsi e ricorrere al mercato. Il passaggio dal mercato all’integrazione si attua se

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costi transazionali

costi di cambiamento

(P + Ct) - (Cp + Ca)  Cm-i al contrario, il passaggio dall’integrazione al mercato si attua se (Cp + Ca) - (P + Ct)  Ci-m dove: Cm-i = costo di passaggio dal mercato all’integrazione; Ci-m = costo di passaggio dall’integrazione al mercato. Costi del primo tipo possono essere quelli connessi alla realizzazione degli investimenti necessari per la produzione interna, o quelli derivanti dall’interruzione di relazioni commerciali instaurate sul mercato. I costi del passaggio dall’integrazione al mercato possono invece essere causati da problemi nella dismissione delle strutture produttive, o dagli effetti sull’organizzazione e sul capitale umano della riduzione di attività produttiva. Le relazioni verticali e il problema di agenzia Integrazione verticale e transazione sul mercato non rappresentano, tuttavia, le due uniche alternative possibili per ottenere un certo input o utilizzare un certo output; esse sono, piuttosto, le due situazioni estreme entro cui possono manifestarsi diverse opzioni intermedie. In particolare, l’impresa può stipulare con soggetti esterni, a monte o a valle, dei contratti volti a “stabilizzare” la relazione commerciale con gli stessi. La relazione che l’impresa stabilisce attraverso questi contratti non è una forma di integrazione verticale, poiché la controparte rimane un soggetto indipendente; tuttavia, non configura neanche una semplice transazione sul mercato, poiché prevede il costituirsi di un rapporto tra le parti tendenzialmente strutturato e in qualche modo vincolante almeno nel medio termine. Per garantirsi un maggiore controllo sul risultato delle attività dei propri interlocutori a monte o a valle, l’impresa può anche acquisire una quota del capitale di questi soggetti. In questo caso, la transazione verticale tra partecipante e partecipata assume caratteristiche ancora più distanti da quelle della semplice transazione sul mercato, pur non configurando ancora l’ipotesi di integrazione verticale in senso stretto.

Integrazione verticale e transazione sul mercato non rappresentano le due uniche alternative possibili per ottenere un certo fattore di produzione. L’impresa può stipulare con soggetti esterni, a monte o a valle, dei contratti volti a “stabilizzare” la relazione commerciale con gli stessi.

L’impresa può anche acquisire una quota del capitale di questi soggetti.

Parte I La strategia nel sistema impresa

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teoria dell’agenzia agent principal

ciclo di vita del settore Nella fase di introduzione l’impresa è normalmente molto integrata sia a monte sia a valle.

La fase di sviluppo è caratterizzata da un processo di progressiva deintegrazione.

Nella fase di maturità il processo di integrazione può avere un andamento divergente in quanto sottoposto a forze diverse.

La focalizzazione sulle relazioni verticali regolate attraverso contratti tra soggetti indipendenti (o parzialmente tali) pone il problema di comprendere il meccanismo di funzionamento di tali relazioni; questo meccanismo è stato interpretato attraverso la teoria dell’agenzia.1 La teoria dell’agenzia spiega il rapporto tra due parti, in cui una, l’agent, agisce nell’interesse dell’altra, il principal, evidenziando i problemi di tale relazione connessi alle diverse funzioni di utilità dei due attori e all’asimmetria informativa che esiste tra loro. Il contratto tra un fornitore e un cliente configura un rapporto di agenzia, in cui il fornitore assume la posizione di agente che pone in essere determinate attività produttive per soddisfare gli obiettivi del suo cliente; questi rappresenta il principale, poiché affida al fornitore, sulla base delle competenze specifiche che questi detiene, il compito di realizzare determinate attività, a fronte del quale remunera il fornitore stesso. I confini verticali dell’impresa e il ciclo di vita del settore I confini verticali dell’impresa variano anche in relazione al procedere del ciclo di vita del settore. Nella fase di introduzione l’impresa è normalmente molto integrata sia a monte sia a valle. La novità del prodotto e, più in generale, del settore spiegano facilmente questa scelta: l’impresa è praticamente costretta a svolgere al suo interno l’intero ciclo produttivo e spesso anche a provvedere direttamente alla commercializzazione dell’output. La fase di sviluppo è caratterizzata da un processo di progressiva de-integrazione; la rapida crescita della domanda di un certo prodotto stimola l’aumento della sua produzione; quindi di tutte le attività richieste a tal fine. L’impresa può specializzarsi su alcune tra queste attività, trovando con relativa facilità interlocutori esterni in grado di svolgere le altre. Nella fase di maturità si manifestano forze diverse, che determinano una tendenza non univoca. Da un lato, la necessità di rendere la struttura dei costi più flessibile possibile insieme alla tendenziale “stabilizzazione” delle relazioni con gli interlocutori a monte e a valle e all’opportunità di specializzarsi nelle attività a maggior valore, spingono l’impresa a concentrare i propri sforzi su poche attività particolari, mantenendo o addirittura aumentando il grado di de-integrazione verticale. Dall’altro, però, la necessità di recuperare aree di mercato e di individuare nuove opportunità di profitto possono rendere conveniente per l’impresa riportare al suo interno larga parte delle attività della filiera produttiva precedentemente esternalizzate.

6.1.2 Gli effetti positivi dell’integrazione verticale sul vantaggio competitivo L’integrazione verticale influenza le condizioni di vantaggio competitivo dell’impresa, poiché si riflette sia sui costi di produzione sia sulle modalità di creazione di valore per il cliente finale sia, infine, sul grado di controllo che l’impresa ha delle dinamiche competitive di tipo verticale od orizzontale.

1 Per un approfondimento di questa teoria, si veda il lavoro seminale di Jensen e Meckling (1976).

Capitolo 6 Le strategie di crescita

I vantaggi dell’integrazione verticale sul piano dei costi I vantaggi di costo dell’integrazione verticale possono innanzitutto manifestarsi per il collegamento fisico tra le varie fasi del processo produttivo. L’integrazione verticale può costituire una condizione basilare (anche se non sempre sufficiente)2 per sfruttare la riduzione dei costi derivante dalla diretta connessione degli impianti impiegati per realizzare la sequenza delle attività di trasformazione degli input del prodotto finale. A riguardo, è noto l’esempio della produzione dell’acciaio in cui la maggior parte delle fasi del ciclo di trasformazione deve essere realizzata in maniera integrata e continua; per ragioni tecniche, la separazione fisica e temporale delle lavorazioni avrebbe, infatti, effetti molto pesanti sul costo complessivo dell’energia e del trasporto. Milgrom e Roberts (1992) osservano che l’integrazione fisica del processo produttivo è particolarmente importante sul piano strategico ed economico anche in un secondo caso: quando tale processo prevede numerosi e significativi design attributes, cioè risultati parziali del processo operativo la cui perfetta combinazione temporale, tecnica e, in alcuni casi, anche fisica ha effetti rilevanti sul valore dell’output finale di tale processo. La delicatezza del coordinamento tra le attività volte alla realizzazione di tali attributi rende molto rischioso affidarle all’esterno e più conveniente (o addirittura necessario) controllarle direttamente all’interno dell’impresa. Il secondo vantaggio di costi deriva dalla riduzione o completa eliminazione dei costi di transazione di cui si è già accennato. I costi di transazione3 dipendono dalle condizioni del contesto in cui avviene la transazione, dall’oggetto della stessa e dalle dinamiche della relazione di scambio tra gli attori coinvolti. Relativamente a questo ultimo aspetto, si osserva che gli attori di una transazione possono voler attuare comportamenti opportunistici e che le condizioni di realizzazione della transazione determinano circostanze per cui è possibile neutralizzare solo parzialmente o affatto gli effetti negativi dell’opportunismo delle parti. Si individuano quattro tipi di condizioni di questo genere:

179

riduzione dei costi

risultati parziali del processo operativo

costi di transazione

1. la specificità o idiosincraticità degli investimenti necessari per effettuare la transazione; 2. la limitatezza delle informazioni disponibili; 3. l’incertezza relativa alle condizioni di svolgimento nel tempo della transazione; 4. le difficoltà di controllo del rispetto delle condizioni contrattuali alla base della transazione. I costi di transazione si determinano prima, durante e dopo la transazione. È evidente che i costi relativi alle fasi successive alla transazione intervengono solo nel caso di scambi ripetuti nel tempo.

2 L’integrazione fisica degli impianti può avvenire anche tra strutture appartenenti a imprese diverse; in altri termini, la realizzazione all’interno dell’impresa di due attività non è condizione sempre necessaria per beneficiare delle efficienze conseguenti alla connessione degli impianti utilizzati per realizzare tali attività. 3 La letteratura sul tema dei costi di transazione è molto ampia e approfondita da diverse angolature. Alcuni contributi basilari sono: Williamson O. (1975); Williamson O. (1985). Si veda anche il capitolo sull’integrazione verticale in Schmalensee R., Willing R.D. (1989).

I costi di transazione si determinano prima, durante e dopo la transazione.

180

Parte I La strategia nel sistema impresa

Nella fase precedente la transazione, occorre considerare i costi connessi alla ricerca del partner, all’acquisizione delle informazioni necessarie per valutare le condizioni dello scambio, alla predisposizione delle condizioni materiali per attuare le attività previste nella transazione. Durante la transazione si verificano costi di negoziazione che possono essere significativi anche in relazione alla durata che può richiedere il completamento di tale negoziazione; vanno poi considerati i costi direttamente determinati dall’attuazione dello scambio. Infine, una volta stipulato l’accordo, si possono manifestare costi, anche impliciti, connessi all’adeguamento delle condizioni contrattuali al mutare di determinati fattori rilevanti, oltre che al controllo del rispetto delle condizioni e degli impegni assunti dalla controparte.

L’integrazione verticale è orientata dalla volontà dell’impresa di assicurarsi un sufficiente controllo delle attività produttive che più direttamente partecipano alla creazione del vantaggio competitivo.

Gli effetti dell’integrazione verticale sulla creazione del valore L’integrazione verticale può essere spiegata dalla convenienza a controllare direttamente quelle fasi a valle o a monte della filiera produttiva che risultano cruciali per la determinazione del valore finale dell’offerta. Per esempio, per differenziare un prodotto, migliorando la qualità dei materiali “core”, può essere opportuno controllare direttamente la produzione di tali materiali. Nel segmento del lusso del mercato dell’abbigliamento è diventato decisivo presidiare direttamente la distribuzione “retail”, poiché l’esperienza di acquisto del prodotto è una componente importante del suo valore complessivo. Da questo punto di vista, l’integrazione verticale è orientata dalla volontà dell’impresa di assicurarsi un sufficiente controllo delle attività produttive che più direttamente partecipano alla creazione del vantaggio competitivo. L’integrazione verticale può essere anche spiegata dalla necessità dell’impresa di mantenere il massimo controllo delle proprie conoscenze organizzative e produttive, evitando “fuoriuscite” di competenza rilevanti. Integrazione verticale e controllo della concorrenza L’impresa può essere spinta a intervenire in attività della filiera a monte o a valle rispetto a quelle di origine dall’intento di controllare la concorrenza nel proprio mercato o in quello dove è attuata l’integrazione. Questa dinamica è illustrata nell’analisi delle forze competitive, con riferimento in particolare al potere negoziale verso fornitori e produttori. Si consideri per esempio il caso di integrazione a valle. Attraverso il controllo interno della distribuzione della propria offerta, il produttore può, per un verso, avere un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti diretti non nella stessa condizione; per l’altro, può migliorare il potere negoziale verso gli altri distributori, avendo meno necessità della loro offerta. Ragionamento analogo e speculare vale per quanto concerne l’integrazione a monte.

doppio mark-up

Integrazione verticale a valle e controllo della distribuzione L’integrazione verticale, in particolare verso valle, ha anche il vantaggio di permettere al produttore un certo controllo di eventuali comportamenti distorsivi dei distributori. In primo luogo, evita il rischio del cosiddetto doppio markup che emerge quando il distributore ha elevato potere nel suo mercato. Se si trova nelle condizioni di poter imporre il proprio prezzo, il distributore può avere convenienza a fissare un prezzo di livello monopolistico, anche lasciando ridurre il livello complessivo della domanda finale.

Capitolo 6 Le strategie di crescita

Questa strategia è evidentemente contraria agli interessi del produttore, il quale può reagire cercando di controllare la determinazione del prezzo all’utente finale o fissando il livello minimo di quantità vendute che il distributore si impegna a realizzare entro un certo periodo di tempo. Nel caso non riesca a intervenire su prezzo e quantità, il produttore può tutelare il suo interesse attraverso l’imposizione al distributore di una lump-sum (somma fissa) a fronte del diritto (concessione) di vendere i propri prodotti. Per il distributore questo pagamento rappresenta un costo fisso che, a parità di condizioni, tende a rendere più conveniente una strategia di espansione del volume di vendite, piuttosto che di massimizzazione del margine unitario. Se anche questa misura risulta non applicabile o non sufficientemente efficace, l’integrazione verticale può divenire la soluzione più conveniente. Una seconda distorsione che può essere evitata attraverso l’integrazione verso valle consiste nei comportamenti di free-riding di uno o alcuni distributori. Il problema si manifesta nel caso in cui, per effettuare la propria funzione, ciascun distributore deve realizzare alcuni investimenti dei cui effetti beneficiano anche gli altri operatori; un caso evidente a riguardo è rappresentato dagli investimenti in comunicazione. In una situazione di questo genere, se esistono (come normalmente accade) condizioni di limitata trasparenza e di asimmetria informativa tra gli attori, alcuni distributori possono cercare di agire da free-rider, cioè non effettuare la loro parte di investimento, contando sull’impegno altrui e sulla scarsa probabilità che il loro comportamento sia scoperto o comunque sanzionato. Poiché i distributori potenzialmente virtuosi sono coscienti di questa possibilità, sono naturalmente indotti a effettuare i loro investimenti in maniera solo parziale. Nel breve-medio termine, da un punto di vista strettamente economico, diviene razionale associarsi al comportamento dei free-rider. Un altro caso piuttosto comune nella pratica commerciale in cui può manifestarsi questo problema è costituito dalla fornitura di servizi pre-vendita (fornitura di informazioni, prova del prodotto ecc.) gratuiti. Se alcuni distributori non offrono tali servizi (la cui realizzazione è non di rado piuttosto impegnativa), sono in grado di fissare un prezzo per il prodotto, a parità di altre condizioni, inferiore di coloro che invece decidono di fornirli. In questa situazione, il cliente può trovare convenienza ad acquistare il prodotto da un venditore diverso da quello da cui ha ricevuto il servizio pre-vendita. È ovvio che questa dinamica disincentiva la fornitura dei servizi pre-vendita, e di conseguenza riduce la qualità complessiva dell’offerta e, a parità di altre condizioni, la domanda finale. Il produttore deve individuare modalità di intervento per evitare questa dinamica, proteggendo i distributori virtuosi e rendendo meno convenienti o attuabili i comportamenti opportunistici. Per esempio, può ridurre il numero dei distributori cui consente la vendita dei suoi prodotti, riconoscendo a ciascuno un monopolio locale sufficientemente esteso rispetto al raggio di azione tipico dell’acquirente potenziale. In alternativa, può fissare un prezzo minimo di vendita cui il distributore deve attenersi, che comprende anche una quota a copertura dei costi per gli investimenti sul cliente che quest’ultimo dovrebbe effettuare. La barriera verso il basso riduce la possibilità di utilizzare il prezzo come principale leva competitiva spingendo i distributori a impegnarsi nella comunicazione o nei servizi alla clientela. Garantisce, peraltro, il margine economico per effettuare gli investimenti richiesti.

181

lump-sum

free-riding

servizi pre-vendita gratuiti

monopolio locale prezzo minimo di vendita

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Parte I La strategia nel sistema impresa

6.1.3 Gli effetti negativi dell’integrazione verticale Gli svantaggi dell’integrazione verticale sono per molti aspetti speculari ai suoi vantaggi; derivano, da un lato, dai fattori problematici connessi all’aumento del numero di attività realizzate all’interno dell’impresa, dall’altro lato dalla perdita dei potenziali vantaggi dell’acquisizione degli output di tali attività sul mercato. A riguardo, bisogna considerare in primo luogo la perdita del beneficio legato allo sfruttamento delle economie di scala e di esperienza nella realizzazione di determinate attività. Data una certa dimensione assoluta, la specializzazione su poche attività consente di raggiungere volumi di produzione maggiori e quindi un più intenso sfruttamento delle economie di scala e una più rapida maturazione delle economie di esperienza. D’altro canto, l’impresa ha convenienza ad acquistare sul mercato prodotti o servizi realizzati da soggetti specializzati, quindi (almeno potenzialmente) più efficienti e in grado di offrire un determinano output a un prezzo tendenzialmente inferiore al costo della sua produzione interna.

costi di influenza

L’ampliamento del numero di fasi operative realizzate all’interno dell’impresa implica il manifestarsi di una serie di costi di coordinamento.

aumento del livello di investimenti fissi

I costi di amministrazione o di coordinamento interno Nella valutazione del grado di integrazione verticale ottimale dal punto di vista dei costi, si è osservato che, a fronte dei costi transazionali, occorre considerare i costi di amministrazione o di coordinamento delle attività realizzate all’interno dell’impresa. Va anche osservato che i costi di agenzia che possono manifestarsi nella relazione tra impresa e fornitore, rendendo meno conveniente la transazione sul mercato, possono verificarsi anche all’interno dell’impresa tra l’unità organizzativa che domanda certi prodotti o servizi e l’unità cui è affidata la responsabilità e le risorse per attuare le attività volte a soddisfare tale domanda. Nell’ambito dei costi di amministrazione interna, possono essere compresi quelli che Milgrom e Roberts (1990) chiamano i costi di influenza. Si tratta dei costi sostenuti dalle diverse unità organizzative che compongono l’impresa al fine di orientare a loro vantaggio le decisioni relative alla allocazione delle risorse disponibili (in situazione di razionamento delle stesse). Questi costi derivano dalle attività di lobbying interna svolta dai responsabili delle varie unità organizzative che concorrono per l’assegnazione di una certa risorsa; sono anche impliciti nel rischio che le decisioni effettivamente assunte non siano quelle oggettivamente migliori per l’impresa nel suo insieme. È evidente che tanto più la struttura organizzativa è complessa e articolata, anche in senso verticale, quanto più i costi di influenza tendono a essere elevati. Sul piano dell’organizzazione della produzione, l’ampliamento del numero di fasi operative realizzate all’interno dell’impresa implica il manifestarsi di una serie di costi di coordinamento. La maggiore dimensione e numerosità degli impianti coinvolti rende più complessa la gestione e movimentazione dei materiali, l’ottimizzazione dei magazzini, il lay-out degli impianti stessi. Inoltre, può richiedere l’apertura di nuovi stabilimenti produttivi con conseguenti problemi di coordinamento e gestione della localizzazione delle diverse unità produttive. Rigidità e inefficienze della struttura produttiva L’integrazione verticale determina, a parità di altre condizioni, un aumento del livello di investimenti fissi, quindi del grado di leva operativa; ovvero l’irrigidimento della struttura dei costi di produzione. Questa condizione comporta, a sua volta, una minore capacità dell’impresa di adattarsi a variazioni qualitative o quantitative del mercato e una gestione finanziaria più complessa.

Capitolo 6 Le strategie di crescita

Relativamente a quest’ultimo aspetto va considerato che la maggiore dimensione complessiva degli investimenti determina un incremento del fabbisogno finanziario con le problematiche conseguenti.4 L’integrazione verticale causa un’inefficienza significativa quando le singole fasi della produzione realizzate all’interno dell’impresa raggiungono la massima efficienza a diversi livelli di dimensione produttiva. In questo caso, infatti, l’impresa si trova di fronte a due alternative, entrambe non ottimali. Da un lato può decidere di dimensionare ogni attività al suo specifico livello di dimensione ottima minima, generando così tra una fase e l’altra, in alternativa, o la formazione di scorte in eccesso o il rallentamento della produzione per mancanza degli input necessari. Dall’altro, può collocare la produzione a un livello intermedio rispetto alla dimensione ottimale delle singole fasi, o al livello ottimale per quella ritenuta più importante. In entrambi i casi, la produzione nel suo complesso non risulta dimensionata al livello tale da minimizzare i costi. Bisogna anche considerare che l’integrazione verticale rappresenta una forma di diversificazione: l’impresa estende il suo raggio d’azione, in senso verticale, entrando in attività certamente correlate con quella di origine, ma comunque diverse sotto molti profili tecnico-produttivi. Questa scelta implica, quindi, che l’impresa debba dotarsi delle risorse e delle competenze necessarie per essere efficiente in tutte le diverse attività verticalmente integrate; risorse e competenze che possono, non di rado, essere fortemente eterogenee tra loro. L’eterogeneità delle attività che vengono integrate all’interno dell’impresa pone anche difficoltà competitive. Nel caso in cui le dinamiche competitive nei mercati corrispondenti alle diverse attività integrate siano tra loro fortemente diverse, l’impresa si trova costretta a seguire indirizzi strategici diversi che facilmente possono finire per non essere controllabili in maniera ottimale.5

La produzione nel suo complesso non risulta dimensionata al livello tale da minimizzare i costi. Bisogna anche considerare che l’integrazione verticale rappresenta una forma di diversificazione.

6.1.4 La gestione delle relazioni verticali Esistono diverse misure attraverso cui l’impresa, pur senza integrarsi verticalmente, riesce a garantirsi il necessario grado di collegamento tra le attività direttamente svolte al proprio interno e quelle connesse a queste ultime e realizzate da soggetti indipendenti. Si tratta di forme di “quasi-integrazione” verticale, che prevedono rapporti di collaborazione relativamente stabile e strutturata tra soggetti indipendenti. Le forme contrattuali di quasi-integrazione verticale L’impresa può stabilire con il proprio fornitore o con il proprio cliente una relazione contrattuale di lunga durata. Una relazione di questo tipo implica uno scambio ripetuto tra le parti e normalmente più complesso della sola transazione commerciale; queste condizioni rappresentano un forte disincentivo ai comportamenti opportunistici, facilitando l’individuazione di punti di equilibrio negoziale tra le parti sufficientemente stabili. Anche l’attuazione delle forme di quasi-integrazione attraverso contratti di medio o di lungo termine pone, tuttavia, alcuni problemi. 4

Tali problematiche sono trattate nel Capitolo 10. Questo problema non si pone nel caso di integrazione perfetta, in cui tutto l’input di una fase è assorbito dalla fase a valle e dunque la sua realizzazione non risente delle condizioni competitive del mercato a cui fa riferimento.

5

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collaborazione relativamente stabile e strutturata

forte disincentivo ai comportamenti opportunistici

Parte I La strategia nel sistema impresa

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controllo del rispetto delle condizioni adeguamento delle condizioni contrattuali

intensità ed estensione delle relazioni sociali

fixed price

cost plus

In primo luogo, non elimina il problema dei costi di transazione; si è osservato in precedenza come questi contratti abbiano in particolare due criticità: da un lato, la necessità del controllo del rispetto delle condizioni previste nel tempo; dall’altro l’individuazione di appropriati meccanismi di adeguamento delle condizioni contrattuali di fronte al mutare degli assetti aziendali del contesto esterno cui tali condizioni sono sensibili. Relativamente alla prima criticità, va osservato che la spinta a comportamenti cooperativi generata dai rapporti ripetuti parrebbe ridurre la necessità del controllo sul rispetto delle condizioni contrattuali. Occorre però non dimenticare la razionalità limitata degli attori e quindi il rischio che essi pongano in essere comunque comportamenti opportunistici. Esiste, inoltre, la possibilità che una delle parti non rispetti gli accordi contrattuali, facendo conto sull’eventualità che la controparte non se ne accorga, o se ne accorga solo con un ritardo tale da rendere il comportamento non cooperativo economicamente conveniente. Al fine di scoraggiare questi comportamenti, può essere utile introdurre nel contratto alcuni meccanismi che incentivano il rispetto degli accordi da parte di tutti gli attori coinvolti. In tal senso, se la transazione è tale da prevedere un investimento idiosincratico a carico di entrambe le parti, si riducono le probabilità che le stesse abbiano tentazioni opportunistiche. L’intensità e l’estensione delle relazioni sociali che legano direttamente o indirettamente gli attori della transazione, nonché la “fiducia condivisa”, hanno anche notevole rilievo sul mantenimento nel tempo di relazioni cooperative. L’adeguamento delle condizioni contrattuali: il caso del prezzo di vendita Relativamente alla seconda criticità, l’adeguamento delle condizioni contrattuali, il problema fondamentale riguarda la suddivisione tra i contraenti del rischio insito nell’incertezza degli eventi futuri. La questione concerne il modo in cui si ripartiscono tra le parti le conseguenze di variazioni, non dovute al loro comportamento, delle condizioni di realizzazione delle prestazioni che ciascuna si è impegnata ad attuare a favore dell’altra. Il caso più evidente è quello dell’aumento del prezzo degli input produttivi utilizzati dal fornitore per realizzare il prodotto che deve essere realizzato per il partner contrattuale a valle. È cruciale stabilire chi sostiene le conseguenze di questo incremento di prezzo, ovvero in quale misura esso si traduce in un aumento del prezzo effettivamente pagato dal compratore rispetto al livello inizialmente previsto nel contratto oppure in una riduzione del margine del produttore. Si individuano due ipotesi limite. La prima può essere indicata fixed price e prevede che il prezzo fissato nel contratto al momento della sua stipula rimanga stabile; le eventuali variazioni dei costi di produzione dovute a fattori di contesto (o comunque non previsti nel contratto) sono assorbite dal fornitore. Va osservato che tali variazioni potrebbero anche essere in diminuzione, determinando quindi un incremento del margine economico del fornitore. L’ipotesi contraria (cost plus) prevede che la variazione dei costi di produzione determina un cambiamento del prezzo finale pagato dall’acquirente che, quindi, sostiene il rischio di tale variazione. In linea generale, si osserva (Volpato, 1996) che i contratti con prezzo fisso sono più indicati per beni standardizzati, con tecnologia matura; beni per i quali i costi di produzione sono tendenzialmente stabili o comunque prevedibili con buona approssimazione. Al contrario, per produzioni complesse e fortemente innovative, che richiedono elevati costi di ricerca difficilmente stimabili ex ante, risultano ine-

Capitolo 6 Le strategie di crescita

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vitabilmente più adeguati contratti vicini all’ipotesi cost plus. L’adozione di contratti di questo genere richiede che siano stabilite con chiarezza le categorie di costo che le parti prendono in considerazione al fine di determinare il prezzo finale; nonché, nell’ambito di ciascuna categoria, i criteri considerati per imputare i costi. Naturalmente l’entità della variazione del prezzo ammessa nel contratto è funzione anche del rischio che le parti intendono assumersi e del loro potere contrattuale. Dipende, inoltre, dalla volontà dell’impresa cliente di sostenere lo sviluppo di un determinato fornitore o, viceversa, dall’intenzione di quest’ultimo di favorire il radicamento di un certo partner a valle nella filiera produttiva. Il franchising Nella relazione verticale verso valle, il franchising rappresenta una forma molto importante e diffusa di integrazione contrattuale. Sulla base del contratto di franchising, un soggetto (franchisor) garantisce la fornitura dei propri prodotti o servizi a un altro (franchisee) che gestisce autonomamente le attività commerciali per la loro vendita al mercato finale in un certo ambito geografico. Il franchisor mette a disposizione del franchisee anche il proprio marchio e l’insieme di conoscenze utili per ottimizzare la diffusione commerciale dei prodotti o servizi forniti. In aggiunta a questo, il produttore (franchisor) può erogare al distributore una serie di servizi (formazione, consulenza sul punto vendita, gestione del magazzino, customer relation management), può investire nella comunicazione del marchio e può, infine, sostenere finanziariamente lo sviluppo delle attività commerciali del franchisee. Quest’ultimo non si limita al semplice pagamento dei prodotti o servizi acquisiti e di una eventuale royalty per l’utilizzazione del marchio. Egli si impegna anche a operare sul mercato secondo le disposizioni del franchisor, coerentemente con le sue strategie di marketing e con il posizionamento competitivo del suo prodotto. In sostanza, pur essendo un’impresa del tutto indipendente, il franchisee opera sulla base delle linee strategiche e operative stabilite dal franchisor ed è sottoposto all’azione di controllo di quest’ultimo.

Sulla base del contratto di franchising, un soggetto (franchisor) garantisce la fornitura dei propri prodotti o servizi a un altro (franchisee) che si impegna a distribuirli in esclusiva.

6.2 La strategia di diversificazione La strategia di diversificazione ha l’obiettivo di sviluppare la presenza competitiva dell’impresa in una molteplicità di business diversi. Un’impresa diversificata realizza quindi una quota significativa del proprio volume d’affari in settori diversi da quello di origine o comunque considerato come principale. La diversificazione può essere attuata in maniere diverse: attraverso crescita interna, quindi con creazione di ulteriore capacità produttiva nei settori dove l’impresa diversifica; attraverso accordi, in particolare joint venture normalmente con imprese già presenti nel settore verso cui si diversifica; infine, attraverso acquisizioni di imprese collocate nei business ove si vuole entrare.

6.2.1 I diversi tipi di diversificazione I confini tra settori diversi non sono delineati in maniera necessariamente netta e possono modificarsi nel tempo. Se, per esempio, la distinzione tra il settore alimentare e quello meccanico è ovvia, vi sono interazioni tra il settore bancario e quello assicurativo. D’altro canto, all’interno di uno stesso settore, è possibile os-

La strategia di diversificazione ha l’obiettivo di sviluppare la presenza competitiva dell’impresa in una molteplicità di settori non necessariamente correlati. crescita interna accordi acquisizioni

Parte I La strategia nel sistema impresa

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diversificazione conglomerale diversificazione correlata

servare contesti competitivi decisamente separati: si pensi, nell’ambito dell’alimentare, al comparto delle bevande analcoliche e a quello della pasta fresca. In altri casi, vi può invece essere forte connessione: nella meccanica il comparto dell’automobile è ben distinto da quello dei moto-veicoli, pur essendovi diverse connessioni di tipo tecnico-produttivo e distributivo. La diversificazione ha, dunque, diversi gradi di intensità: si distingue una diversificazione di tipo conglomerale e una di tipo correlato (Figura 6.1). La diversificazione conglomerale descrive l’espansione dell’impresa in settori sostanzialmente privi di alcun collegamento tecnico-produttivo o di mercato con quelli in cui essa è già insediata. Al contrario, la diversificazione correlata indica la situazione in cui l’impresa diversifica in aree di business dove è possibile sfruttare significative sinergie produttive e/o di marketing. I criteri distintivi del grado di correlazione della diversificazione La correlazione tra due settori diversificati può essere descritta attraverso tre criteri fondamentali: 1. la sua intensità; 2. la sua direzione; 3. i fattori in relazione ai quali si esprime la correlazione stessa.

intensità direzione orizzontale direzione verticale

L’intensità della correlazione descrive il rilievo delle sinergie tra i business diversificati. La correlazione tra questi può avere una direzione verticale oppure orizzontale. Nel primo caso, la diversificazione è indirizzata verso settori a monte o a valle di quello in cui l’impresa opera nella stessa filiera produttiva. In questo senso, l’integrazione verticale può essere descritta come una diversificazione correlata in senso verticale. La correlazione in senso orizzontale si manifesta verso comparti che condividono con quello di origine uno stesso macro-mercato o una stessa applicazione tecnologica: un’impresa editoriale che opera nel mercato dei giornali quotidiani e decide di avviare la pubblicazione di alcuni periodici compie una scelta di diversificazione fortemente correlata in senso orizzontale. Anche se quotidiani e periodici hanno funzioni d’uso diverse, si rivolgono a mercati in buona parte coincidenti e utilizzano praticamente le stesse tecnologie produttive e i medesimi canali distributivi. Infine, i fattori da cui dipende la correlazione della diversificazione, come accennato, possono essere relativi al mercato e alle attività di marketing, oppure

Diversificazione

Conglomerale

Figura 6.1 Le tipologie di diversificazione.

Correlata

• Intensità della correlazione • Direzione della correlazione • Fattori di correlazione

Capitolo 6 Le strategie di crescita

alla produzione o alle tecnologie chiave. La correlazione tra due settori può derivare da una significativa sovrapposizione dei due mercati di riferimento, oppure può derivare dal legame tra le funzioni d’uso rispetto a un macro-bisogno; si pensi al caso di un’impresa che produce lavatrici e diversifica nella produzione di frigoriferi e lavastoviglie; poi da questi si impegna nel mercato dei forni elettrici e dei piccoli elettrodomestici. Ancora, può manifestarsi nello sfruttamento di una stessa tecnologia o nell’utilizzazione degli stessi impianti in alcune fasi dei diversi processi produttivi. Nel caso di diversificazione verticale, i fattori che determinano la correlazione sono legati al processo produttivo all’interno della filiera. Per esempio, un ristoratore può diversificare la sua attività entrando nel settore della trasformazione alimentare, per esempio nella produzione di pasta fresca, o, ancora più a monte, nella produzione agricola di “prodotti tipici” del proprio territorio. La ragione fondamentale dell’integrazione veriticale/diversificazione è evidentemente il controllo della produzione di componenti dell’offerta decisivi per il successo dell’impresa nel settore di origine. Tuttavia, la correlazione può essere anche sviluppata sul piano della condivisione del marchio o dello sfruttamento di interdipendenze commerciali. Si osserva che la diversificazione dell’impresa in aree di business fortemente correlate può configurare, a livello di settore, più che una diversificazione, un’estensione della gamma. Per esempio, un’impresa che opera nel comparto dell’abbigliamento sportivo ed entra nel business dell’abbigliamento casual per il tempo libero opera una diversificazione fortemente correlata. Nella prospettiva dell’appartenenza settoriale, essa è rimasta all’interno del settore dell’abbigliamento, con un ampliamento della gamma della sua offerta. Un criterio di misurazione del grado di diversificazione Se risulta difficile misurare in maniera quantitativa il grado di correlazione della diversificazione dell’impresa, è invece piuttosto agevole quantificare il grado di diversificazione in sé, a prescindere dalla sua natura più o meno correlata. Per tale misurazione è immediato utilizzare gli indici di concentrazione assoluta e relativa. Si può considerare la quota di fatturato o di volume della produzione totale dell’impresa realizzata nelle prime n aree di business diversificate in cui essa è presente, e, di conseguenza, disegnare una curva di diversificazione concettualmente del tutto analoga alla curva di concentrazione. Allo stesso modo, si può calcolare un indice di Herfindahl applicato alla diversificazione dell’impresa come nel modo seguente: n

1−

∑ Pi2 i =1

dove Pi è la quota di volume della produzione del prodotto i-esimo sul volume della produzione totale realizzato dall’insieme dei prodotti trattati dall’impresa.

6.2.2 Le spinte della strategia di diversificazione La mancanza di opportunità di crescita nel settore di origine La spinta primaria alla diversificazione è la difficoltà dell’impresa di espandersi rimanendo nel proprio business di origine. Questa difficoltà può derivare innanzitutto dalle stesse caratteristiche del mercato in cui l’impresa opera. Il tasso di crescita della domanda può essere troppo basso (o addirittura nullo o negativo)

187

La diversificazione dell’impresa in aree di business fortemente correlate può configurare, a un’analisi condotta a livello di macro-settori, una situazione di non diversificazione.

indici di concentrazione assoluta e relativa

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Parte I La strategia nel sistema impresa

e/o la concorrenza risultare eccessivamente intensa per permettere all’impresa di realizzare i propri obiettivi di espansione. Oppure, può verificarsi il caso di una riduzione della redditività potenziale del mercato, causata dal modificarsi di determinate forze competitive.

L’impresa dispone di risorse o di conoscenze utilizzabili con successo anche in mercati diversi da quello di origine. Un caso importante a tale proposito riguarda lo sfruttamento in altri settori del marchio consolidato in quello iniziale.

La diversificazione è, infatti, una forma di integrazione che comporta un certo livello di costi di coordinamento interno; la licenza è un contratto che prevede una transazione tra due attori indipendenti, con i conseguenti costi di preparazione, gestione e controllo.

Un’ulteriore spinta alla diversificazione si manifesta quando l’impresa dispone di capacità in eccesso rispetto alle esigenze connesse all’attività svolta nel suo settore di origine. capitale finanziario

Lo sfruttamento di risorse e competenze eccellenti al di fuori del settore di origine La diversificazione può essere favorita anche dal fatto che l’impresa dispone di risorse o di conoscenze utilizzabili con successo anche in mercati diversi da quello di origine. In sostanza, attraverso la diversificazione, l’impresa estende in nuovi contesti i fattori di vantaggio competitivo di cui beneficia nel proprio settore di originaria appartenenza; un caso importante a tale proposito riguarda lo sfruttamento in altri settori di una marca che ha raggiunto notevole successo in quello iniziale. Si intuisce che questa opportunità può essere sfruttata soprattutto attraverso una diversificazione in settori significativamente correlati dal punto di vista del mercato. È utile precisare che la diversificazione direttamente attuata dall’impresa non rappresenta l’unica modalità per trarre vantaggio dall’utilizzabilità in nuovi mercati di fattori di vantaggio competitivo sviluppati in quello di origine. Abbastanza di frequente, l’impresa raggiunge questo obiettivo attraverso la licenza delle proprie risorse eccellenti (una tecnologia, una marca) a operatori già insediati nel nuovo settore o comunque interessati a farlo. È il caso di diverse imprese leader nell’abbigliamento di alta gamma che attribuiscono la propria marca in licenza per mercati come quello degli occhiali, della pelletteria, dei complementi di arredo. La scelta tra l’intervento in un nuovo settore attraverso diversificazione o attraverso la licenza a un soggetto esterno è basata su criteri simili a quelli studiati a proposito dell’alternativa tra integrazione verticale o acquisizione sul mercato. La diversificazione è, infatti, una forma di integrazione che comporta un certo livello di costi di coordinamento interno; la licenza è un contratto che prevede una transazione tra due attori indipendenti, con i conseguenti costi di preparazione, gestione e controllo. Nel caso della diversificazione, però, occorre considerare anche i problemi (tanto più forti quanto meno correlata è la natura della diversificazione) connessi all’operare in un contesto che richiede condizioni e risorse in gran parte diverse da quelle utilizzate nel proprio settore di origine. L’utilizzazione di capacità in eccesso e la ricerca di nuove opportunità Un’ulteriore spinta alla diversificazione si manifesta quando l’impresa dispone di capacità in eccesso rispetto alle esigenze connesse all’attività svolta nel suo settore di origine. Il caso più evidente è costituito dal capitale finanziario; una opportunità del genere non implica una diversificazione di tipo necessariamente correlato: le risorse finanziarie possono, infatti, essere investite in maniera indistinta in qualunque contesto, con l’unico vincolo di essere disponibili in un ammontare coerente con i fabbisogni normalmente richiesti per operare nel settore verso cui sono indirizzate. Negli anni ’90 dello scorso secolo, nell’ambito del processo di liberalizzazione del settore elettrico, l’allora monopolista pubblico Enel dovette cedere un significativo numero di centrali elettriche (per ridurre il controllo monopolistico nel comparto della “generazione” di energia elettrica) e l’infrastruttura di trasmissione (affidata a un nuovo operatore controllato dallo Stato). A fronte di questi disinvestimenti, ottenne ingenti risorse finanziarie che investì per entrare nel settore delle telecomunicazioni (a quel tempo in fase di sviluppo e anch’esso di liberalizzazione, e quindi in grado di accogliere nuovi operatori).

Capitolo 6 Le strategie di crescita

La diversificazione può anche essere spiegata dalla ricerca di nuove risorse e opportunità di rafforzamento competitivo; l’impresa interviene in quei settori dove ritiene esistano condizioni potenzialmente utili allo sviluppo di nuove competenze. In questa prospettiva, la diversificazione non è orientata da un obiettivo di massimizzazione immediata della redditività, ma soprattutto dagli effetti strategici che l’impresa ritiene possano derivare dalla sua presenza nella nuova industria dove si propone di entrare. Lo sfruttamento delle economie di estensione La diversificazione può avere un effetto positivo anche sui costi, poiché permette lo sfruttamento delle economie di estensione. Queste economie sono basate sulla circostanza che un determinato input è richiesto in processi produttivi relativi a settori diversi; se il lotto minimo a cui l’impresa può acquisire questo input è superiore al fabbisogno richiesto per una sola produzione, la diversificazione in una produzione che richiede lo stesso input consente di assorbirne meglio il costo complessivo. In altri termini, la diversificazione permette una migliore ripartizione del costo di un determinato input utilizzato in tutte le produzioni diversificate e, quindi, di ridurne il costo unitario. Le economie di estensione derivano dalla condivisione di fattori tangibili, per esempio la forza vendita, i servizi amministrativi, determinate infrastrutture, i database; ma anche di fattori intangibili, come l’immagine o le conoscenze tecniche. Lo sviluppo di un mercato interno L’espansione diversificata di un’impresa, soprattutto quando conduce alla creazione di un Gruppo aziendale, determina anche il vantaggio della costituzione di un mercato interno; un mercato popolato dalle imprese del Gruppo operanti in vari settori che agiscono, a seconda dei casi, da clienti o da fornitori di determinate risorse. Il capitale finanziario rappresenta un esempio tipico di risorsa che può essere scambiata in questa sorta di mercato interno. In un gruppo diversificato, le imprese nei settori molto redditizi possono fornire capitale a quelle che operano in settori dove la situazione è meno favorevole, consentendo l’utilizzazione potenzialmente ottimale delle risorse finanziarie e la riduzione del ricorso a finanziatori esterni. Va sottolineato che, nella realtà, questo scambio non è però automatico e richiede un intenso coordinamento della corporate. Il funzionamento di questo meccanismo implica la condizione che la corporate o un’altra unità del gruppo specializzata abbia le competenze per realizzare questa attività di banca interna e per attuarla in condizioni di efficienza maggiore di quella media dei normali intermediari finanziari. La logica del mercato interno riguarda anche le risorse umane, in particolare quelle ai livelli manageriali medio-alti e alti. La possibilità di trasferire il capitale umano da un contesto competitivo a un altro favorisce il trasferimento di conoscenze e la razionalizzazione del dimensionamento delle strutture organizzative dei vari business. Favorisce, inoltre, la determinazione di percorsi di carriera attrattivi per i dipendenti, in particolare a fronte del tendenziale appiattimento gerarchico delle strutture organizzative. La riduzione del rischio Attraverso l’entrata in business diversificati, l’impresa costruisce un portafoglio di attività non del tutto correlate che le consente di ridurre il rischio totale, secondo una logica analoga a quella della diversificazione del rischio finanziario

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L’impresa interviene in quei settori dove ritiene esistano condizioni potenzialmente utili al suo sviluppo.

La diversificazione può avere un effetto positivo anche sui costi, poiché permette lo sfruttamento delle economie di estensione.

L’espansione diversificata di un’impresa determina anche il vantaggio della costituzione di un mercato interno.

banca interna La logica del mercato interno riguarda anche le risorse umane, in particolare quelle di livello medio e medio-alto.

L’impresa costruisce un portafoglio di attività non del tutto correlate che le consente di ridurre il rischio totale.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

sviluppata nella teoria del portafoglio. La riduzione del rischio ha rappresentato uno dei principali propulsori dell’ondata di diversificazioni conglomerali osservata negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Si considerino, per esempio, due aree di business (denominate “x” e “y”) con un certo grado di diversificazione, che quindi hanno una redditività potenziale non perfettamente correlata. L’impresa che opera in entrambe riduce la variabilità totale dei rendimenti che essa può ottenere complessivamente nei due mercati, e quindi il rischio. La variabilità totale dei profitti potenziali dipende dalla covarianza tra i due investimenti. Nel caso di business perfettamente correlati, la diversificazione non riduce la variabilità totale del portafoglio e il suo rischio totale; in tutti gli altri casi questo avviene. Il fatto che la diversificazione determina una riduzione del rischio complessivo sostenuto dall’impresa implica che, attraverso tale strategia, essa possa aumentare il suo valore complessivo. L’applicazione dell’ottimizzazione del portafoglio di attività finanziarie alla strategia di diversificazione reale presenta diversi limiti concettuali rilevanti, che derivano dalla notevole diversità tra attività reali e finanziarie e dal fatto che la costruzione di un portafoglio diversificato di attività finanziarie ha dinamiche e condizioni solo parzialmente comparabili con quelle relative alla costruzione di un portafoglio diversificato di attività reali. Occorre peraltro precisare due aspetti che in qualche modo limitano l’impatto della diversificazione sul rischio. Il livello complessivo del rischio di un portafoglio di business non dipende soltanto dall’effetto della diversificazione, essendo evidentemente influenzato dal rischio dei singoli business che lo costituiscono. Un’impresa diversificata in settori tutti ad alto rischio (per quanto con andamento non correlato) ha un livello di rischio complessivo maggiore di un’impresa monobusiness (che, quindi, non può ridurre il rischio attraverso la diversificazione), focalizzata in un settore molto stabile. In secondo luogo, la diversificazione può ridurre il rischio inteso come variabilità dei rendimenti potenziali che l’impresa può realizzare nei singoli business in cui è presente. Tuttavia, più che l’andamento della redditività potenziale, ciò che è realmente rilevante per l’impresa è la variabilità della sua redditività effettiva. Questa dipende soprattutto dalla forza della sua posizione competitiva e, quindi, dalla stabilità dei fattori di vantaggio competitivo che l’impresa detiene nei diversi business. Da questo punto di vista, la direzione della diversificazione dovrebbe essere orientata dalla ricerca non tanto dei settori meno correlati rispetto a quelli in cui l’impresa è già impegnata, quanto piuttosto di quelli dove essa è in grado di valorizzare nel modo migliore i propri fattori di forza e beneficiare di un vantaggio competitivo consolidato.

La diversificazione può rappresentare un veicolo per aumentare il potere di mercato complessivo dell’impresa.

L’aumento del potere di mercato dell’impresa La diversificazione può rappresentare un veicolo per aumentare il potere di mercato complessivo dell’impresa; non a caso le autorità antitrust sono normalmente molto attente all’impatto sulla competizione nei settori coinvolti dalla diversificazione di grandi Gruppi, soprattutto quando sono molto correlati e quando sono attuate attraverso acquisizione. La diversificazione permette all’impresa di porre in essere due politiche che hanno effetto sul controllo della concorrenza. La prima è il cosiddetto dumping attuato dai gruppi diversificati, in particolare a livello internazionale. In sintesi, il meccanismo del dumping prevede che l’impresa utilizzi gli alti margini economici che ottiene in un settore dove gode di una posizione competitiva forte o

Capitolo 6 Le strategie di crescita

addirittura protetta, per finanziare una politica di prezzo molto aggressiva in altri settori dove è più esposta alla concorrenza. Questa strategia diviene illecita se l’impresa fissa il prezzo a un livello inferiore ai propri costi di produzione (prezzo predatorio). Una seconda strategia con effetti avversi alla concorrenza basata sulla diversificazione è attuabile nel caso in cui l’impresa opera in un settore dove i suoi clienti possono essere anche suoi fornitori in un altro settore dove essa è diversificata. In una situazione di questo genere, non è difficile stabilire un accordo con tali interlocutori per il controllo verticale della competizione in entrambi i settori. In linea generale, la diversificazione può aumentare i punti di contatto con determinati concorrenti, in quanto fa sì che il confronto con questi avvenga in più contesti competitivi. Il maggiore numero di punti di contatto rende possibile e più agevole la determinazione di comportamenti collusivi. La diversificazione come strategia di riconversione industriale La diversificazione può anche rappresentare una strategia di superamento di una situazione di crisi aziendale; si parla in questo caso più specificatamente di strategia di riconversione. L’impresa, di fronte a una crisi strutturale della sua presenza in un determinato settore, decide di riconvertire la propria produzione su altri mercati; in questo caso, la diversificazione non aggiunge nuovi ambiti operativi a quelli in cui l’impresa è già presente, ma sostituisce questi ultimi con i primi. Nel processo di riconversione, il nuovo settore in cui l’impresa va a operare ha un grado di correlazione con quello che sostituisce normalmente elevato e spesso di carattere tecnologico. Il grado solitamente alto di correlazione è importante perché la strategia di riconversione, intervenendo normalmente in situazioni di crisi dell’impresa, è basata sulla massima riutilizzazione nella nuova produzione delle risorse tangibili e intangibili già disponibili. Nella pratica, i processi di riconversione sono molto complessi proprio per la difficoltà di trovare contesti e modalità efficaci di utilizzazione delle risorse disponibili. La strategia di riconversione può rispondere a problematiche diverse: • • • • • •

6

declino strutturale del mercato di appartenenza; obsolescenza tecnologica di processo o di prodotto irrecuperabile rispetto a processi produttivi e prodotti alternativi offerti in altri settori (competizione irresistibile dei prodotti sostitutivi);6 peggioramento strutturale della posizione competitiva rispetto ai concorrenti nel settore; radicale peggioramento delle condizioni di approvvigionamento e di distribuzione; interventi esogeni, in particolare del soggetto pubblico, che peggiorano le condizioni operative nel settore e la sua redditività potenziale o addirittura impediscono di fatto la produzione; interventi del soggetto pubblico che impongono alle imprese di un settore di utilizzare tutta o parte della loro capacità produttiva in produzioni diverse da quelle attuali.7

È il caso tipico del declino delle macchine da scrivere sostituite dai personal computer. È quello che almeno parzialmente può accadere in settori come quello della meccanica, della chimica, dell’elettronica, in un Paese quando si trova fortemente coinvolto in una guerra. 7

punti di contatto

strategia di riconversione

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6.3 La strategia di internazionalizzazione8 6.3.1 Le spinte all’espansione estera La crescita dell’impresa attraverso espansione estera è favorita innanzi tutto dalle sue caratteristiche specifiche. A riguardo, va considerata la disponibilità di risorse distintive e quindi di fattori di vantaggio competitivo che possono essere sfruttati efficacemente anche in nuovi mercati geografici. Altrettanto rilevante è, al contrario, la necessità di colmare determinati fattori di svantaggio, attraverso l’organizzazione delle attività produttive su scala internazionale, eventualmente in collaborazione con soggetti di altri Paesi. Un’altra spinta all’internazionalizzazione si ha quando il fatto stesso di operare al di fuori del proprio Paese di origine si traduce per l’impresa in un maggior vantaggio competitivo. Questo può derivare per esempio dal miglior accesso alle risorse distintive; oppure, dal rafforzamento della propria immagine e reputazione; dalla possibilità di avere una relazione più diretta con nuovi clienti; da un migliore sfruttamento delle economie di scala o di estensione; dall’opportunità di migliorare la produttività e/o ridurre i costi. Vi sono poi cinque condizioni “esterne” all’impresa che possono attivarne il processo di espansione estera: 1. l’evoluzione in chiave internazionale del mercato; 2. l’espansione internazionale dei principali clienti; 3. la reazione a strategie attuate dai concorrenti di riferimento; 4. l’azione di soggetti pubblici o privati a sostegno o a ostacolo dell’internazionalizzazione delle imprese; 5. il presentarsi di significative opportunità commerciali. La prima condizione può manifestarsi in due maniere: per un verso, il mercato geografico di origine può risultare sempre più esposto alle forze competitive internazionali e quindi sempre più facilmente aggredibile da operatori di origine estera. Per l’altro, le diverse aree di business tendono ad assumere dimensione sovralocale, offrendo all’azienda locale l’opportunità di estendere la propria posizione competitiva al di fuori del solo mercato geografico di origine. L’entrata in nuovi mercati geografici può anche essere determinata dalla circostanza che quello di origine si trova nella fase di piena maturità o addirittura di declino; in questo caso, la capacità di operare in Paesi diversi costituisce una condizione quasi ineluttabile per la stessa sopravvivenza dell’impresa. La decisione di andare all’estero può poi essere conseguenza della riorganizzazione produttiva su scala internazionale dei principali clienti. Questa situazione riguarda in maniera particolare le aziende che operano come fornitori specializzati o sub-fornitori di grandi clienti e che, quindi, non possono non adeguare la propria offerta a tutte le esigenze di questi ultimi, comprese quelle di tipo logistico. Il processo di espansione estera dell’impresa è, dunque, “trainato” dal cliente, sulla base di una relazione che tende a divenire cooperativa. Lo sviluppo della presenza estera può in altri casi essere una reazione competitiva nei confronti di un rivale che, avendo già attuato una strategia di internazionalizzazione, o essendo potenzialmente in grado di metterla in atto, minaccia 8

I contenuti di questo paragrafo sono tratti dal testo curato dall'Autore, Gestione delle imprese internazionali 3e, McGraw-Hill (2016).

Capitolo 6 Le strategie di crescita

di rafforzare la propria posizione competitiva e alterare a suo vantaggio gli equilibri originari. Si possono individuare diversi comportamenti reattivi all’espansione estera dei concorrenti; l’ipotesi più semplice è quella imitativa, in cui l’impresa entra nel mercato estero dove sono già presenti i suoi diretti concorrenti per timore di subire un peggioramento della propria posizione di mercato o di perdere il controllo di importanti fonti di vantaggio competitivo. Si tratta di quello che Aharoni (1966) ha definito come il bandwagon effect (effetto di trascinamento). L’investimento di un soggetto in un’area estera viene percepito come una minaccia dagli altri attori, i quali temono che il first mover possa acquisire vantaggi competitivi; di conseguenza, i followers decidono di operare all’estero per non lasciare al leader il controllo di tali vantaggi. Un secondo tipo di strategia di internazionalizzazione reattiva è quella che deriva dalla necessità di reagire a un attacco di un concorrente estero nel proprio mercato locale; Graham (1978) ha chiamato questa strategia exchange of threat. L’impresa A cerca di entrare in un’area estera per minacciare un rivale B che in tale area ha notevoli interessi economici e che, a sua volta, è entrato nel mercato geografico di elezione dell’impresa A. In questa maniera, A raggiunge diversi risultati: in primo luogo, “comunica” a B la sua intenzione di reagire in maniera aggressiva alla minaccia che quest’ultimo porta al suo mercato principale; in secondo luogo, limita la capacità espansiva di B nel nuovo mercato; infine, può spingere B a ricercare accordi di mutuo riconoscimento della leadership competitiva nelle diverse aree geografiche. L’avvio del processo di espansione estera può essere stimolato anche dall’azione di istituzioni pubbliche o di organizzazioni private mirata proprio a supportare tale processo, normalmente nel caso di piccole o medio-piccole imprese. Si tratta di politiche di internazionalizzazione cosiddette “attive”, attuate dal Governo nazionale o da quelli regionali per favorire la diffusione internazionale dei prodotti realizzati della imprese del proprio territorio. Questa azione può consistere nell’erogazione di finanziamenti a sostegno dei costi che l’impresa deve sostenere per operare all’estero; oppure, di servizi quali: la fornitura di informazioni dettagliate sulle opportunità esistenti nei mercati esteri; l’accompagnamento a fiere e manifestazioni commerciali internazionali; la consulenza legale in relazione alle problematiche delle operazioni estere. L’ultima delle cinque condizioni indicate sopra, il presentarsi di significative opportunità commerciali, è quella più semplice ma non meno importante. L’impresa decide di andare all’estero perché un cliente estero o un intermediario la stimola in tale direzione, normalmente presentando una domanda relativamente consistente (anche se non necessariamente stabile nel tempo). In questo caso, l’espansione estera non è “cercata” dall’impresa; non è, quindi, conseguenza di una sua scelta strategica deliberata; può tuttavia favorire il manifestarsi delle condizioni utili per il successivo sviluppo di un più consistente processo di internazionalizzazione.

6.3.2 L’internazionalizzazione come processo evolutivo Già alla metà dello scorso secolo, Pasquale Saraceno osservava come l’impresa internazionale non deve essere intesa come un “archetipo”, quanto come il risultato in continuo divenire di un “percorso evolutivo”. Su questa linea si esprime anche Rispoli quando afferma che “per internazionalizzazione delle imprese può

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intendersi un processo che, a partire da un rapporto relativamente semplice ma sistematico delle imprese con i mercati esteri (come quello generato da flussi esportativi non occasionali), porta verso forme di investimento all’estero e comunque verso lo sviluppo di relazioni competitive, transattive e collaborative con altre aziende di produzione e di servizi, pubbliche e private, in diversi Paesi” (Rispoli,1994). Welch e Loustarinen (1988) definiscono l’espansione estera dell’impresa come “the process of increasing involvement in international operations”; alcuni anni più tardi, Calof e Beamish (1995) parlano di “process of adapting firm’s operations (strategy, structure, resources ecc.) to international environments”. Più recentemente, Mathews (2006) ha definito l’internazionalizzazione come il “process of the firm’s becoming integrated in international economic activities”. La prima ipotesi legge l’espansione estera dell’impresa come un progredire ordinato verso un sempre maggiore coinvolgimento in Paesi diversi da quello di origine. La seconda sottolinea l’idea di “adattamento”: il processo di internazionalizzazione non ha quindi una particolare direzione, ma implica il configurare l’attività aziendale sempre più in relazione ai vincoli e alle opportunità di natura appunto sovralocale. La terza ipotesi parla di “integrazione”: l’impresa evolve aumentando le connessioni con il contesto internazionale, con il mercato, ma anche con attori di diversa natura (altre imprese, istituzioni, attori pubblici) con cui sviluppare fattori di vantaggio competitivo. Si individuano quattro passaggi logici che l’impresa attraversa nel corso della sua evoluzione internazionale e nei quali assume una certa configurazione strategica e organizzativa. Tali passaggi sono: 1. 2. 3. 4.

born global

l’entrata nel mercato estero; l’assestamento della presenza nel mercato estero; lo sviluppo della posizione competitiva nel mercato estero; la razionalizzazione della posizione internazionale.

Nel processo di espansione estera, queste fasi non sono necessariamente sequenziali, poiché l’evoluzione internazionale dell’impresa nelle varie aree geografiche e aree di business tende naturalmente ad avere ritmi temporali diversi. In uno stesso momento, in diverse aree geografiche e di business, l’impresa può trovarsi in fasi diverse del suo processo di internazionalizzazione. Negli ultimi venti anni circa, ha assunto crescente evidenza il fenomeno delle imprese cosiddette “born global” caratterizzate da un modello di espansione internazionale del tutto diverso. Le “born global” sono imprese normalmente di piccole dimensioni che fin dall’inizio sviluppano la loro attività a livello internazionale. Knight e Cavusgil le definiscono come “small technology oriented companies that operate in international markets from the earliest day of their establishment”.9 In questo tipo di imprese, la dimensione internazionale non è uno stadio più o meno significativo di un certo processo evolutivo; è una componente fondamentale del modello di business, su cui è basato il vantaggio competitivo. In

9

Cfr. Knight G.A., Cavusgil S.T. (1996) The born global firm: a challenge to traditional internationalization theory. In: Cavusgil S.T., Madsen T. (eds.) Advances in International Marketing 8e, JAI Press Grenwich, CT p. 11.

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questo senso, Oviatt e Mc Dougall, parlano di “business organization that, from inception, seeks to derive significant competitive advantage from the use of resources and the sale of outputs in multiple countries”.10 Le imprese “born global” sono quindi create con le competenze e le risorse necessarie per competere fin dall’inizio a livello internazionale e coordinare attività in diversi Paesi diversi. La loro presenza internazionale non è il risultato di un processo incrementale durante il quale sviluppano le condizioni necessarie per tale presenza; deriva, piuttosto da un preciso disegno strategico che definisce modalità e condizioni della presenza estera prima ancora dell’avvio delle attività d’impresa. Durante il proprio processo di internazionalizzazione, l’impresa matura gradualmente tre specifiche condizioni: 1. l’impegno (commitment) nei contesti geografici dove è presente; 2. le conoscenze rilevanti per competere a livello internazionale; 3. le relazioni con gli attori rilevanti nei Paesi esteri e tra le unità organizzative operanti a livello internazionale. L’impegno verso una determinata area estera si manifesta nel livello di risorse tangibili e intangibili impiegate per attuare le operazioni nell’area in questione e nel rilievo che tali operazioni hanno nella complessiva strategia di crescita dell’impresa. Va sottolineato che il progredire del processo di internazionalizzazione dell’impresa non necessariamente aumenta il suo commitment verso una specifica area geografica; anzi, l’organizzazione della catena del valore su scala internazionale comporta proprio che l’impresa tenda a considerare le singole aree geografiche semplicemente come componenti, più o meno rilevanti di un’unica macro-area territoriale e sviluppi le sue strategie e conseguenti scelte organizzative nella prospettiva di tale macroarea. Per questa ragione, i grandi gruppi globali possono avere un committment verso il proprio Paese di origine, dove magari ha ancora sede la casa-madre, inferiore a quello verso le aree geografiche più rilevanti nella creazione di valore economico. La conoscenza costituisce il secondo elemento che l’impresa matura durante la sua evoluzione internazionale; riguarda tre aspetti essenziali: a) le condizioni competitive dei mercati esteri e le linee di sviluppo della competizione internazionale; b) le modalità organizzative e strategiche per raggiungere una valida posizione competitiva internazionale; c) le modalità di acquisizione e valorizzazione delle competenze necessarie per operare con successo all’estero. Il processo di internazionalizzazione è, infine, caratterizzato dallo sviluppo di relazioni, sia esterne (tra l’impresa e i soggetti presenti nelle nuove aree geografiche coinvolte da tale processo) sia interne (tra le unità organizzative che operano all’estero e tra queste e la casa-madre). Lo sviluppo del sistema di relazioni caratterizza le diverse fasi del processo di internazionalizzazione, anche perché influenza il modo in cui l’impresa evolve da uno stadio all’altro di tale processo. Il modo in cui l’impresa organizza i legami tra le unità organizzative che operano a livello internazionale e assimila gli effetti dell’interdipendenza con i diversi interlocutori locali ha un peso decisivo nella sua evoluzione internazionale.

10

Cfr. Oviatt B.M., McDougall P.P. (1994) Toward a theory of international new ventures in: “Journal of International Business Studies” 25 (1) pp. 45-64, p. 47. Questi autori non parlano di “born global companies”, preferendo il termine di “international new ventures”.

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Il sistema di relazioni stabilito dall’impresa al suo interno e con i soggetti esterni si riflette anche sugli altri due elementi che si sviluppano nel processo di internazionalizzazione: il commitment e la conoscenza. Il livello di impegno dell’impresa in una determinata area è evidentemente direttamente proporzionale all’intensità con cui essa è inserita nella rete locale e al rilievo che i rapporti stabiliti all’interno di questa rete hanno sulle performance strategiche ed economiche. Anche la maturazione di conoscenza è legata alle relazioni sviluppate a livello internazionale. Le opportunità per un’impresa internazionalizzata di acquisire risorse in un’area estera dipendono principalmente dal modo in cui la sussidiaria operante in tale area stabilisce dei legami con i diversi soggetti locali. La condivisione di questa conoscenza all’interno del sistema aziendale deriva poi dal modo in cui è articolata e funziona la rete di legami tra i soggetti che costituiscono tale sistema. Gli indicatori dell’intensità del processo di espansione estera dell’impresa L’intensità del processo di espansione è misurabile sia attraverso grandezze quantitative sia sulla base di elementi di natura qualitativa. Le grandezze quantitative sono abbastanza immediate e possono essere considerate in valore assoluto o misurate attraverso rapporti: • • • •

fatturato realizzato all’estero (fatturato estero/totale fatturato); valore aggiunto o margine operativo ottenuto all’estero (valore aggiunto o margine operativo estero/totale valore aggiunto o margine operativo); numero di dipendenti operanti all’estero (numero dipendenti all’estero/totale dipendenti); investimenti produttivi realizzati all’estero (investimenti produttivi esteri/totale investimenti).

Oltre all’indicazione relativa ai dipendenti, è significativo considerare il grado di internazionalizzazione del vertice aziendale, osservando la proporzione di top e middle manager di origine estera sul totale. Per quanto riguarda le grandezze economiche (fatturato, valore aggiunto, margine operativo, investimenti produttivi), può essere utile considerare, oltre ai valori totali, quelli relativi ai singoli mercati esteri o a opportune aggregazioni degli stessi. Per le grandezze patrimoniali, è anche utile considerare sia i valori di stock sia i flussi annui. Vi sono anche una serie di aspetti qualitativi che possono dare un’utile indicazione del grado di internazionalizzazione raggiunto dall’impresa; in particolare: • • • • •

il rilievo delle operazioni estere nel piano strategico dell’impresa e nel suo modello di business; l’articolazione organizzativa delle attività estere; la misura in cui i processi produttivi sono organizzati e attuati su scala internazionale; la qualità delle conoscenze disponibili relativamente alle caratteristiche dei mercati esteri; l’importanza delle relazioni interne ed esterne a livello internazionale nello sviluppo delle risorse e delle competenze dell’impresa.

I criteri di scelta della modalità di entrata nei mercati esteri Come ogni tipo di decisione strategica, la scelta della modalità di entrata in un mercato estero dipende da fattori interni all’impresa e da fattori legati alle con-

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dizioni del contesto ambientale. Sono particolarmente rilevanti le seguenti cinque condizioni esterne: 1. le caratteristiche del mercato obiettivo in termini di dimensione geografica, numerosità e dispersione della domanda, livello di sviluppo; 2. le caratteristiche merceologiche del prodotto e il loro impatto sulle condizioni che ne influenzano la commercializzazione internazionale (per esempio le condizioni di trasporto); 3. l’intensità della concorrenza e le scelte delle imprese market-leader; 4. la struttura distributiva nel mercato estero (le caratteristiche dei canali all’interno del Paese estero); 5. le normative e le politiche pubbliche in materia di commercio e di investimenti internazionali e la regolamentazione economica vigente nel Paese estero. In sintesi, le condizioni esterne possono vincolare la scelta della modalità di entrata o nel senso di non rendere praticabili determinate alternative o, al contrario, di rendere possibile l’entrata solo attraverso alcune di queste. Per quanto riguarda i fattori interni che guidano la scelta della modalità di entrata, si sottolineano sei elementi principali: 1. gli obiettivi alla base della strategia di internazionalizzazione; 2. l’esperienza internazionale maturata e la presenza nei mercati esteri già consolidata; 3. le sinergie realizzabili con altre modalità di entrata già poste in essere; 4. le risorse umane e le competenze disponibili e utilizzabili per entrare nel nuovo mercato estero; 5. la dimensione dell’impresa e la disponibilità di risorse finanziarie per le operazioni internazionali; 6. particolari spinte del soggetto imprenditoriale o di determinate componenti dell’organizzazione. A parte i casi in cui le condizioni ambientali siano tali da costringere di fatto l’impresa verso una certa scelta, la decisione della modalità di entrata deriva sempre da un mix dei fattori interni e dal modo in cui nell’ambito dell’impresa sono compresi e interpretati i fattori di origine esterna.

6.3.3 L’espansione estera come modalità di sviluppo del vantaggio competitivo L’espansione estera può favorire il raggiungimento di condizioni di vantaggio competitivo poiché determina opportunità di arbitraggio derivanti dalla diversa condizione economica, competitiva e di mercato delle varie aree geografiche, e fornisce all’impresa determinate leve rilevanti nel confronto concorrenziale con gli operatori locali e che questi non hanno a disposizione. Per quanto riguarda il primo aspetto, un’opportunità considerata con una certa frequenza consiste nell’abbattimento dell’onere fiscale complessivo; attraverso il meccanismo dei prezzi di trasferimento, ed entro i limiti della legislazione fiscale dei singoli Paesi, i risultati economici positivi e negativi delle singole società estere del gruppo vengono ottimizzati rispetto al sistema fiscale dei diversi Paesi in cui tali società si trovano a operare. Il vantaggio competitivo di cui l’impresa può appropriarsi in una nuova area geografica deriva dalla possibilità di

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svolgere in modo più efficiente o efficace una determinata attività in quell’area rispetto a quanto sarebbe possibile fare nel proprio Paese di origine. L’impresa può beneficiare di un vantaggio connesso alla presenza internazionale nella misura in cui ha la capacità di gestire in maniera integrata la posizione nelle diverse aree geografiche in cui è presente. L’acquisizione del vantaggio competitivo deriva, dunque, dalla sua capacità di trovare un punto di equilibrio tra l’azione locale per sfruttare le opportunità offerte dal territorio e l’azione globale per attuare una strategia integrata e sufficientemente unitaria a livello internazionale. L’estensione a livello internazionale delle attività dell’impresa costituisce una leva competitiva in quanto determina una condizione non replicabile dagli operatori locali e rilevante nella dinamica concorrenziale dei diversi mercati geografici. A riguardo, la strategia di espansione estera può essere innanzitutto valutata nella prospettiva della diversificazione di portafoglio. Una determinata area geografica può essere considerata in funzione delle sue caratteristiche di potenziale rischiosità e rendimento; di conseguenza, il processo di internazionalizzazione dell’impresa è finalizzato alla diversificazione del rischio complessivo e alla costruzione di un portafoglio di aree geografiche/aree di business ottimale. La riduzione del rischio è la risultante di tre condizioni connesse alla molteplicità delle aree geografiche in cui l’impresa è presente: 1. compensazione almeno parziale degli andamenti economici o socio-politici negativi in un determinato Paese; 2. disponibilità di un maggior numero di ambiti competitivi dove poter rispondere ad attacchi competitivi dei concorrenti; 3. minimizzazione dei rischi connessi sia alle variazioni dell’offerta di input produttivi sia alla domanda di mercato che possono manifestarsi nei singoli Paesi, da cui deriva una maggiore possibilità di stabilizzare a livello di gruppo l’andamento delle performance economiche e finanziarie. Vale la pena ricordare che quanto più le caratteristiche e gli andamenti delle diverse aree geografiche sono positivamente correlati, tanto minore è il rilievo della diversificazione geografica dei business in cui l’impresa è impegnata. Un secondo effetto leva derivante dalla presenza internazionale riguarda lo sviluppo delle risorse: operando in diversi contesti geografici, l’azienda dispone di una base da cui maturare conoscenze, sviluppare reputazione e promuovere relazioni che è certamente più ampia di quella utilizzabile dai concorrenti di dimensione solo nazionale. Il fatto di essere presente in più mercati geografici garantisce diversi vantaggi rilevanti nella strategia di marketing: una maggiore riconoscibilità della marca e del prodotto; l’aumento delle occasioni in cui il consumatore ha l’opportunità di provare il prodotto; il rafforzamento della possibilità di fidelizzare il cliente. L’intensità con cui questi vantaggi derivano dalla diversificazione geografica internazionale dell’impresa è direttamente legata alla crescita della mobilità del consumatore e alla tendenza verso la standardizzazione dei modelli di consumo. Un altro vantaggio riguarda lo sfruttamento del così detto effetto made-in. Questo effetto si manifesta nel fatto che l’area geografica in cui il prodotto viene realizzato ne influenza in modo rilevante le caratteristiche (reali o semplicemente percepite dal mercato). Nella percezione del consumatore, le proprietà qualitative del prodotto, la sua immagine e il suo posizionamento riflettono la considerazione che il consumatore ha del Paese dove tale prodotto è realizzato come sede delle attività produttive. Il fatto che tali attività siano svolte in un contesto geografico

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che vanta elevata tradizione e reputazione positiva a riguardo costituisce un elemento di differenziazione del prodotto che può avere grande importanza. La tradizione e la reputazione dell’area geografica possono riguardare quattro dimensioni, (che devono essere riferite a una specifica produzione): 1. la capacità di innovazione tecnica e produttiva delle imprese collocate nell’area geografica in questione; 2. l’affidabilità dei materiali utilizzati nella produzione e il grado di controllo sulla loro provenienza; 3. l’inventiva e l’estro artistico, la capacità di design; 4. il prestigio acquisito nel tempo. L’impresa può sfruttare l’effetto made-in collocando la propria attività di ricerca o di produzione nell’area geografica che gode della migliore immagine per quanto riguarda le componenti critiche del prodotto. L’accrescimento del potere economico ed extraeconomico dell’impresa costituisce un terzo tipo di leva che può derivare dalla presenza internazionale dell’impresa e influenzare il confronto competitivo sui mercati nazionali; va precisato però che, differentemente dai casi precedenti, l’utilizzo di questo tipo di leva può comportare alterazioni anche gravi del corretto funzionamento dei meccanismi di mercato e determinare effetti negativi sul benessere generale. Una manifestazione, appunto patologica, consiste nell’opportunità per le grandi aziende internazionali di colludere definendo le rispettive aree geografiche di influenza; in sintesi, ciascun Gruppo negozia con gli altri il proprio controllo su determinati mercati geografici, rinunciando a competere in maniera aggressiva negli altri. La capacità di spostare con relativa facilità le attività della catena del valore da un’area a un’altra in funzione delle condizioni di convenienza economica di ciascuna consente all’impresa internazionalizzata di esercitare una certa pressione sui governi locali. Attraverso la minaccia di distogliere gli investimenti nel Paese a favore di altre aree geografiche (o, al contrario, promettendo di realizzarne altri), l’impresa può ottenere per esempio interventi normativi favorevoli per le sue attività produttive o per i suoi prodotti, in particolare nei Paesi caratterizzati da bassi tassi di crescita dell’economia ed elevati livelli di disoccupazione. Presenza internazionale, radicamento locale, globalizzazione e vantaggio competitivo La progressiva trasformazione della struttura produttiva internazionale dell’impresa dipende da un disegno di natura globale, che cerca di superare frammentazioni e particolarismi locali. Ogni insediamento ha un ruolo che non si giustifica solo nella prospettiva dell’area geografica in cui esso è collocato, quanto, soprattutto, nel quadro dell’organizzazione internazionale delle attività del valore. La strategia produttiva è costruita sulla base degli elementi che condizionano la dinamica competitiva a livello internazionale e tende a dare minore importanza alle condizioni della concorrenza esclusivamente locale. Lo sviluppo di ciascuna unità operativa è, quindi, funzione del modo in cui questa è in grado di inserirsi nella strategia produttiva globale dell’impresa, fornendo un apporto rilevante e distinto da quello di altre unità. La progressiva configurazione globale della struttura produttiva dell’impresa non va tuttavia considerata come un forza che toglie necessariamente rilevanza allo specifico contesto geografico in cui è insediata ogni società controllata; essa infatti, non contrasta con il fatto che il rafforzamento delle singole unità locali

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determini una posizione di vantaggio competitivo. Perché tale vantaggio si manifesti effettivamente è anche necessario che le conoscenze locali siano trasferite e condivise all’interno del gruppo. A tal fine, l’impresa attiva appropriate strategie di coordinamento tra le unità operative locali. Il vantaggio fondamentale dell’organizzazione globale consiste, dunque, nella possibilità di valorizzare a livello sovralocale risorse e competenze prodotte all’interno delle varie controllate estere, attraverso la loro condivisione in tutte le sussidiarie e la loro simultanea utilizzazione in diversi contesti territoriali. In questa prospettiva, l’impresa progetta e pone in essere dei piani di azione che trascurano il più possibile i fattori che rimangono esclusivamente locali, per ottimizzare la risposta agli stimoli che possono invece avere rilievo internazionale. È evidente come all’origine di questo risultato c’è la capacità dell’impresa di generare, attraverso un determinato modo di radicarsi in un certo territorio, un insieme di risorse e conoscenze e la capacità di globalizzarle attraverso forme efficaci di trasferimento nell’ambito della propria rete interna. Cambia il senso della dimensione locale dell’impresa internazionalizzata: essa va sempre meno considerata come sede di particolarismi che vincolano la realizzazione della strategia globale e riducono la possibilità di trarre vantaggio dalle interdipendenze tra le unità insediate nelle diverse aree estere. La dimensione locale costituisce, piuttosto, la fonte primaria di quelle risorse e competenze che, opportunamente condivise nell’ambito di tutte le unità dell’impresa internazionalizzata, costituiscono il connotato distintivo della sua strategia competitiva nei mercati internazionali. Il vantaggio competitivo dell’impresa internazionalizzata è, dunque, solo in parte spiegato dai guadagni della standardizzazione globale dell’offerta o dei processi operativi; e non consiste neanche nella semplice somma dei vantaggi che l’impresa può detenere a livello locale nei diversi Paesi in cui opera. Questi sono elementi che possono certamente avere rilievo, ma che non sembrano poter essere realmente distintivi. L’aspetto fondamentale è la possibilità di generare risorse e competenze di origine diversa le quali, attraverso un processo interno di circolazione e di omogeneizzazione, arricchiscono in modo sinergico il patrimonio conoscitivo di tutte le componenti l’impresa internazionale. Il vantaggio competitivo dell’impresa internazionalizzata può, allora, essere definito come un vantaggio di sintesi, che consiste nella possibilità di moltiplicare le fonti da cui trarre conoscenze distintive ed elementi di forza, insieme all’opportunità di accrescere l’impatto di tali conoscenze ed elementi a livello globale. L’acquisizione di questo vantaggio di sintesi da parte dell’impresa richiede che siano soddisfatte due precise condizioni: 1. la capacità di gestire la presenza in una certa area geografica anche nel senso dello sviluppo di relazioni con soggetti locali, attraverso cui acquisire risorse distintive; 2. la capacità di trasferire le conoscenze specifiche nella rete interna che costituisce il gruppo internazionale.

6.3.4 L’articolazione delle strategie di entrata nei mercati esteri Per operare nei mercati esteri, l’impresa elabora, insieme alla strategia competitiva, una strategia di entrata. Le due scelte sono interdipendenti: quella relativa al modo in cui l’impresa entra nel mercato estero influenza lo spettro di opportunità

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competitive che essa può cogliere al suo interno; viceversa, la volontà di attuare una determinata strategia competitiva in un certo mercato estero favorisce e, in alcuni casi, condiziona il modo in cui entrarvi. La strategia di entrata è articola su tre questioni fondamentali: 1. la natura delle attività (commerciali, produttive, logistiche, direzionali ecc.) svolte nell’area geografica estera; 2. l’area geografica estera dove sono attuate determinate attività; 3. i soggetti esterni eventualmente coinvolti per la realizzazione di tali attività. Gli elementi di valutazione nei tre ambiti citati sono fortemente interdipendenti: il tipo di attività che l’impresa vuole svolgere all’estero orienta verso determinate aree geografiche; viceversa, le caratteristiche del contesto estero condizionano le decisioni relative alle attività che è conveniente realizzare all’estero. Entrambi gli aspetti influenzano poi la possibilità per l’impresa di operare da sola o l’opportunità di collaborare con altri soggetti. Per quanto riguarda il primo aspetto, si distinguono tre tipologie di attività essenziali: 1. commercializzazione di prodotti o servizi realizzati nel Paese di origine; 2. svolgimento di attività della catena del valore, e in particolare di attività di produzione; 3. acquisizione e sviluppo di conoscenze. È utile precisare che queste attività possono coesistere: la strategia di entrata può prevedere modalità diverse in relazione alle specificità del mercato o a diverse condizioni del contesto. Relativamente al secondo aspetto, l’impresa può entrare in un mercato estero in maniera del tutto autonoma o attraverso varie forme di collaborazione con altri soggetti. A riguardo, è rilevante distinguere il caso in cui tali soggetti hanno sede nello stesso Paese dell’impresa o nel Paese estero dove questa intende operare o, ancora, in altre aree geografiche. Le strategie di entrata sono: • • •

esportazioni (di tipo “diretto” e “indiretto”); accordi strategici e joint ventures; investimenti diretti esteri (greenfield, brownfield, acquisizioni).

In particolare, le esportazioni dirette consistono in attività di commercializzazione nei mercati di altri Paesi, realizzate direttamente da strutture operative dell’impresa esportatrice; le esportazioni indirette descrivono invece operazioni di vendita all’estero, attuate per mezzo di soggetti terzi (dello stesso Paese dell’impresa esportatrice). Attraverso gli investimenti diretti esteri, l’impresa entra in maniera autonoma in una nuova area geografica per realizzare attività produttive o per acquisire determinate conoscenze utili per competere nel proprio mercato o anche a livello internazionale. Infine, le alleanze strategiche descrivono modalità differenziate (diverse tipologie di accordi strategici o joint ventures), con cui l’impresa entra in un Paese estero attraverso la collaborazione con soggetti esterni, con l’obiettivo di svolgere attività prevalentemente commerciali o di produzione o di sviluppo di conoscenze.

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Le esportazioni indirette possono essere attuate secondo tre modalità, caratterizzate dalla natura del soggetto terzo che interviene a supporto: 1. consorzi e altri organismi di cooperazione; 2. società specializzate indipendenti; 3. intermediari. Le esportazioni dirette comportano la costituzione presso l’impresa di un’unità organizzativa dedicata alle operazioni con l’estero; la natura e i contenuti di questa unità variano in relazione al tipo di struttura organizzativa (funzionale, divisionale, a matrice) adottato dall’impresa. Le esportazioni dirette possono comunque prevedere un impegno consistente nel Paese estero, fino alla realizzazione di investimenti o alleanze strategiche, naturalmente finalizzate allo svolgimento di attività commerciali nel mercato estero. Per esempio, può essere istituita una rappresentanza commerciale nel Paese estero, o addirittura una società operativa cui è affidata la gestione logistica e commerciale. Nel caso in cui l’impresa decida di collocare in Paesi esteri le attività di produzione, le modalità di entrata possono essere gli investimenti diretti esteri o le alleanze strategiche. Queste modalità sono anche rilevanti nel caso in cui l’impresa produca nel Paese di origine, ma intenda sviluppare all’estero almeno una parte delle risorse e competenze utilizzate per competere. Gli investimenti diretti esteri possono consistere nella realizzazione di una nuova struttura produttiva nel Paese estero; a seconda che tale struttura sia localizzata in un sito precedentemente non utilizzato o, invece, occupato in passato da altre attività economiche e successivamente riconvertito, si parla rispettivamente di investimenti greenfield e brownfield. L’acquisizione di un’impresa operante in un determinato Paese estero (o la fusione con tale impresa) costituisce l’altra modalità di realizzazione di un investimento diretto estero. Le alleanze strategiche sono distinte in due gruppi: 1. gli accordi strategici; 2. le joint ventures. Gli accordi strategici hanno natura contrattuale e hanno contenuti piuttosto differenziati; i più rilevanti sono: il licensing, il franchising, i contratti di produzione e di gestione, le alleanze commerciali. Le joint ventures si distinguono dagli altri accordi poiché implicano la costituzione da parte dei partner di una nuova azienda, appunto la joint ventures, per la realizzazione degli obiettivi alla base dell’alleanza.

Sintesi L’impresa può espandere la sua dimensione al di fuori del suo business originario attraverso le strategie di: integrazione verticale; diversificazione; internazionalizzazione. L’integrazione verticale può essere considerata una diversificazione in senso verticale; l’internazionalizzazione è una diversificazione dei mercati (o aree) geografiche ove l’impresa è presente. Con l’integrazione verticale, l’impresa delinea le attività svolte direttamente al suo interno, e quelle esternalizzate. Un più elevato grado di integrazione verticale implica un maggior controllo da parte delle imprese della catena del valore e minori costi transazionali; può inoltre avere effetti positivi sulle dinamiche competitive e sul potere negoziale verso fornitori o distributori. D’altro canto, comporta un maggior grado di leva operativa, minore specializzazione e maggiori costi amministrativi interni. La strategia

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di diversificazione guida la crescita dell’impresa in business diversi da quello di origine; tale diversificazione si caratterizza per un certo grado di correlazione tecnologica, produttiva o di mercato tra i vari business diversificati. Nella nostra epoca, lo sviluppo internazionale è un percorso praticamente ineluttabile non solo per le grandi imprese, ma anche per quote sempre maggiori di medie e piccole imprese.

Domande ed esercizi □ c. il valore aggiunto che l’impresa genera in proporzione al valore della produzione che realizza.

Domande di verifica Spiegare le condizioni che rendono conveniente l’integrazione verticale. 2. Illustrare i fattori di costo che determinano la convenienza o meno di una scelta di integrazione verticale. 3. Spiegare i vantaggi specifici dell’integrazione verticale a valle nella gestione del rapporto con i distributori. 4. Spiegare che cosa si intende per “quasi-integrazione verticale”. 5. Illustrare il concetto di diversificazione distinguendone le varie tipologie. 6. Indicare i tre criteri distintivi del grado di correlazione della diversificazione. 7. Spiegare come è possibile misurare il grado di diversificazione di un’impresa. 8. Illustrare le principali ragioni alla base della strategia di diversificazione. 9. Illustrare le spinte all’internazionalizzazione di origine interna all’impresa. 10. Spiegare le spinte all’internazionalizzazione di origine esterna. 1.

Test a risposta multipla 1.

All’aumentare dell’integrazione verticale di un’impresa, aumenta: □ a. il livello di outsourcing. □ b. il valore di mercato dei suoi prodotti.

2.

Nella fase di introduzione del ciclo di vita del settore, il grado di integrazione verticale è normalmente: □ a. molto elevato. □ b. molto basso. □ c. non è prevedibile.

3.

La diversificazione si dice conglomerale quando: □ a. l’impresa si espande in settori privi di collegamenti industriali o di mercato con quelli di origine. □ b. l’impresa entra in mercati molto vicini a quelli in cui precedentemente operava. c. esistono legami di natura tecnologica ma non di □ mercato tra i business dell’impresa.

4.

All’aumentare del grado di diversificazione, aumenta: □ a. il rischio totale d’impresa. □ b. la complessità organizzativa. □ c. la correlazione tra i business aziendali.

5.

La teoria di Dunning spiega gli investimenti diretti esteri come trainati da: □ a. vantaggi: market seeking, low cost seeking, natural resource seeking. □ b. vantaggi: labour seeking, low cost seeking, natural resource seeking. □ c. vantaggi: market seeking, low cost seeking, competitive seeking.

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7

La pianificazione strategica Matteo Caroli

Gli obiettivi del capitolo Questo capitolo approfondisce il processo di pianificazione della strategia e i contenuti del “piano” che tale processo produce. Esamina il significato e l’evoluzione della pianificazione come funzione aziendale, evidenziandone le utilità e i limiti. Discute gli elementi costitutivi e le caratteristiche del piano strategico. In particolare, approfondisce i concetti di: visione e missione; sistema di valori e condizioni di fondo su cui impostare la strategia. I contenuti della pianificazione sono affrontati con riferimento agli aspetti rilevanti a livello di corporate, di singola divisione e di funzione.

7.1 Il significato, l’evoluzione e il ruolo attuale della pianificazione d’impresa 7.1.1 Le basi concettuali della pianificazione d’impresa La pianificazione (Figura 7.1) è la procedura atta a esprimere in maniera formale l’orientamento strategico dell’impresa. In particolare: gli obiettivi di medio-lungo termine; le azioni da attuare per raggiungerli, tenuto conto delle condizioni interne e del contesto competitivo; le unità organizzative coinvolte nell’implementazione di tali azioni e le connessioni tra tali unità; le modalità di allocazione delle risorse all’interno del sistema aziendale per la realizzazione delle azioni operative. I contenuti della pianificazione costituiscono il riferimento per l’assunzione delle decisioni operative e per la valutazione della loro efficacia, attraverso idonei meccanismi di controllo strategico. In questa prospettiva, la pianificazione è una procedura formale che guida l’evoluzione di medio-lungo termine (appunto, strategica) dell’impresa; sulla base di una valutazione organica delle condizioni dell’impresa e dei drivers competitivi; delinea anche le condizioni organizzative necessarie per l’efficace implementazione delle azioni strategiche, rappresentando così la piattaforma per l’assunzione delle decisioni operative. In linea generale, la pianificazione può assolvere a sei funzioni. 1. Facilitare l’analisi e la comprensione razionale di questioni che hanno valenza strategica, fornendo il quadro d’insieme utile per prendere le deci-

La pianificazione è la procedura atta a esprimere in maniera formale l’orientamento strategico dell’impresa.

facilitare l’analisi e la comprensione razionale

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Parte I La strategia nel sistema impresa

Gli elementi concettuali caratterizzanti Formalismo

Sistematicità

Contenuto strategico

Connessione organizzativa

Pianificazione d'impresa

Prospettiva temporale di mediolungo termine

Piattaforma per le decisioni operative

Il contenuto della pianificazione La pianificazione esprime in maniera formale l'orientamento strategico dell'impresa. Formula gli obiettivi che devono essere raggiunti in un futuro normalmente di medio-lungo termine; le azioni da attuare a tal fine, sulla base dell'analisi delle condizioni interne ed esterne rilevanti; le unità organizzative coinvolte nell'implementazione di tali azioni e le relative connessioni; le modalità di allocazione delle risorse all'interno del sistema aziendale per la realizzazione delle risorse all'interno del sistema aziendale e per la realizzazione delle azioni operative. Costituisce la piattaforma per le decisioni operative e per la valutazione della loro efficacia.

Le funzioni della pianificazione

Razionalizzazione dei problemi strategici

Metodo di azione e orientamento al lungo termine

Integrazione interna

Strumento di comunicazione

Strumento di controllo

Gli effetti della pianificazione

Consolidamento di comportamenti aziendali omogenei e integrati

Figura 7.1 La pianificazione d’impresa.

Gestione strategica coerente delle aree di business

Orientamento al lungo termine e verifica dei risultati

Integrazione delle unità organizzative

Capitolo 7 La pianificazione strategica

2.

3.

4.

5.

6.

sioni. La pianificazione, quindi, non genera le decisioni strategiche, ma crea le condizioni perché queste siano prese nel modo più efficace e successivamente attuate. Determinare un metodo di azione. La pianificazione costituisce in sé una modalità di analisi-valutazione-decisione-controllo che può essere utilizzata nella gestione di problemi aziendali complessi. Essa, del resto, fornisce in maniera esplicita i contenuti strategici a cui devono fare riferimento i vari attori aziendali per assumere le decisioni operative di loro competenza e per verificare la qualità del loro operato. Stimolare l’integrazione tra le varie componenti del sistema aziendale. Poiché indica esplicitamente gli obiettivi e la linea di azione che l’impresa intende perseguire nel medio e lungo termine, la pianificazione offre un punto di riferimento per i diversi attori del sistema impresa, attorno al quale tendono a trovare equilibrata composizione gli interessi di ciascuno; in questo senso, essa svolge una funzione di integrazione interna, volta a consolidare una gestione coerente delle diverse problematiche aziendali. Stimola, inoltre, il confronto e la progressiva maturazione di una visione comune tra le diverse unità organizzative del sistema impresa, in particolare tra la direzione centrale e le direzioni responsabili dei diversi business. Facilitare il manifestarsi di un orientamento strategico di medio-lungo termine e sistematico. Favorisce la valutazione dei risultati aziendali in una prospettiva temporale più ampia; promuove, inoltre, una chiara identificazione delle aree di business, degli obiettivi e delle modalità di integrazione; in questo senso, inoltre, esplicita le interdipendenze strategiche e organizzative tra le varie aree e attività, predisponendo le condizioni per la loro implementazione. Rappresentare uno strumento di comunicazione. La pianificazione permette di comunicare in modo organico ai vari livelli aziendali gli obiettivi di medio temine, le linee di azione strategica, le priorità su cui saranno concentrati investimenti e misure organizzative. I suoi contenuti servono anche per la comunicazione agli interlocutori esterni. Agli investitori e ai principali altri stakeholders va fatto conoscere il piano industriale e i suoi progressivi aggiornamenti, oltre alle iniziative pianificate di rilievo ambientale e sociale. Fornire i riferimenti necessari per attivare appropriate procedure di controllo strategico. La pianificazione permette di verificare la misura in cui gli orientamenti strategici scelti sono attuati e fornisce i criteri per cercare di correggere scostamenti troppo rilevanti. Nel piano sono, infatti, esplicitati gli obiettivi di varia natura rispetto ai quali vengono misurate le performance aziendali e le responsabilità relative alla loro attuazione.

La complessità dell’attività di pianificazione e del piano che essa produce, è evidentemente funzione della dimensione dell’impresa e dell’ampiezza delle sue attività. I contenuti del piano risentono anche delle specificità delle dinamiche competitive che possono mutare da settore a settore. Si pensi, per esempio, alle differenze di impostazione strategica tra le imprese nei comparti produttivi altamente innovativi e dinamici, rispetto a quelle nei settori maturi e fortemente stabili.

determinare un metodo di azione

facilitare un orientamento strategico che abbia natura sistematica

rappresentare uno strumento di comunicazione

attivare appropriate procedure di controllo strategico

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Parte I La strategia nel sistema impresa

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iterativa

La natura del processo di pianificazione La pianificazione è un processo che procede solo in parte secondo una sequenza lineare di fasi (anche se, per ragioni di chiarezza espositiva, il processo di pianificazione è normalmente descritto in modo appunto lineare). Il processo di pianificazione ha natura iterativa, nel senso che le decisioni sono progressivamente affinate nel tempo, sulla base dei risultati realizzati, dell’esperienza maturata, di possibili cambiamenti nel sistema aziendale e del possibile manifestarsi di fattori “ambientali” rilevanti (Figura 7.2). La maggiore o minore linearità con cui si sviluppa il processo di pianificazione dipende dall’intensità con cui il vertice regola le relazioni tra i livelli organizzativi che partecipano alla pianificazione. L’utilizzazione del potere gerarchico limita la complessità negoziale che può caratterizzare il processo di pianificazione quando sono coinvolti molti attori del sistema aziendale. La leva gerarchica deve però essere utilizzata ponendo notevole attenzione agli effetti che essa produce sull’atteggiamento dei soggetti aziendali formalmente coinvolti nel processo di pianificazione e, successivamente, nell’implementazione del piano. I livelli di articolazione del processo di pianificazione Il processo di pianificazione d’impresa è articolato in relazione: • •

al livello organizzativo responsabile; agli stadi del processo.

I livelli organizzativi coinvolti nella pianificazione sono normalmente tre: direzione centrale direzione di divisione direzione di funzione a livello centrale

1. direzione centrale (generale);1 2. direzione di divisione; 3. direzione di funzione a livello centrale. Il secondo e il terzo livello organizzativo sono normalmente costituiti da più di una direzione. Per direzione di divisione si intende un’unità organizzativa responsabile della gestione di una o più aree di business.

Cambiamenti interni

Decisioni pianificate

Figura 7.2 La logica iterativa del processo di pianificazione.

Azioni attuate

Risultati prodotti Esperienza maturata

Fattori ambientali

1 Nel modello di Hax e Majiluf, il livello organizzativo direzione centrale è chiamato corporate. Si preferisce la dizione proposta in quanto di carattere più generale.

Capitolo 7 La pianificazione strategica

209

Gli stadi essenziali del processo sono quattro: 1. analisi interna e delle condizioni del contesto rilevante; 2. formulazione dell’orientamento strategico (obiettivi, azioni strategiche, risorse, indicatori di performance, responsabilità); 3. indicazione del programma di azioni; 4. predisposizione delle condizioni di implementazione e controllo del piano.

7.1.2 La strategia e la pianificazione della strategia In passato si è ritenuto che il processo di formazione della strategia possa essere determinato razionalmente, appunto attraverso la pianificazione.2 In questa prospettiva, la pianificazione strategica, in quanto procedura formale e sistematica, costituirebbe lo strumento per definire una strategia e per attuarla. Il limite concettuale di un approccio razionalista Mintzberg (1994) ha fortemente criticato l’idea della pianificazione come procedura di creazione della strategia, sostenendo che essa può costituire uno strumento utile per rappresentare la realtà, riducendone la complessità, ma non può determinare la realtà stessa. Mintzberg ripropone l’approccio di Simon focalizzato sulla centralità dell’intuizione nella determinazione delle decisioni strategiche.3 Simon, esaminando in particolare il comportamento dei maestri di scacchi, osserva che l’esperto giocatore è in grado di inquadrare immediatamente la situazione che ha di fronte e di intuire il comportamento migliore. «Il segreto dell’intuizione sta nell’apprendimento che ha consentito al maestro di memorizzare gli schemi e le informazioni a essi associate» (Simon, 1987). Mintzberg osserva a riguardo che l’essenza dell’intuizione consiste nella capacità di organizzare in maniera rapida ed efficace il sapere. Le funzioni della pianificazione rispetto alla decisione strategica La pianificazione non genera, dunque, la decisione strategica, ma è funzionale alla sua determinazione e attuazione (Figura 7.3). Essa predispone le condizioni per la formazione della strategia e fornisce un framework per la sua attuazione. Rispetto alla decisione strategica, la pianificazione interviene a tre livelli: il primo, che potremmo indicare come “preparatorio”; il secondo, di esplicitazione; il terzo, di accompagnamento all’attuazione. In particolare, la pianificazione può costituire lo strumento per esprimere in maniera razionale i nodi di carattere strategico che l’impresa deve affrontare e quindi gli obiettivi che devono essere perseguiti; fornisce gli schemi per l’analisi delle condizioni interne ed esterne rilevanti per le scelte strategiche; infine, individua i drivers strategici. La pianificazione interviene, dunque, nella fase logica a monte della decisione strategica, fornendo le finalità verso cui questa deve tendere e le conoscenze che, opportunamente sintetizzate, producono la decisione strategica.

2

Su questo punto, Jelinek (1979) parla addirittura di istituzionalizzazione del processo di formazione della strategia attraverso l’utilizzazione di strumenti formali. 3 Si tratta di una delle questioni centrali del sapere umano. La sua trattazione va evidentemente oltre gli obiettivi di questo manuale. Si suggerisce comunque la lettura di: Simon H. (1960).

La pianificazione può costituire uno strumento utile per rappresentare la realtà, riducendone la complessità, ma non può determinare la realtà stessa.

La pianificazione non genera la decisione strategica, ma è funzionale alla sua determinazione e attuazione.

decisione strategica

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Parte I La strategia nel sistema impresa

Preparazione

Razionalizzazione del problema strategico

Analisi di condizioni esterne e interne

Identificazione dei “drivers” strategici

Decisione strategica

Esplicitazione

Accompagnamento all’attuazione

Figura 7.3 Le funzioni della pianificazione rispetto alla decisione strategica.

schemi formali

fattore di connessione tra decisione strategica e azione operativa

flessibilità strategica

flessibilità finanziaria

Esplicitazione formale della decisione strategica

Traduzione della decisione strategica in percorso di azioni

Riferimento e indirizzo delle decisioni operative

La pianificazione svolge poi la funzione di esprimere la decisione strategica in maniera esplicita, attraverso schemi formali. In questo senso, si è già osservato come essa costituisca lo strumento per comunicare la strategia all’interno e all’esterno dell’impresa. Infine, la pianificazione elabora un percorso di azioni per implementare la strategia, costituendo così il fattore di connessione tra decisione strategica e azione operativa. Questa connessione si concretizza in un duplice aspetto. Da un lato la pianificazione stabilisce i risultati che si intende raggiungere attraverso l’azione strategica; dall’altro fornisce i riferimenti per valutare in quale misura tali risultati siano stati o meno raggiunti. Negli attuali scenari competitivi, l’impatto della pianificazione strategica sulle performance dell’azienda dipende in modo rilevante dalla misura in cui questa risulta funzionale a rafforzare la flessibilità dell’impresa. In ambito aziendale, si possono individuare quattro tipi di flessibilità:4 1. flessibilità strategica: la capacità di modificare rapidamente il mix di prodotti/servizi offerti, il target di mercato, le modalità di creazione di valore, la capacità produttiva; 2. flessibilità finanziaria: la capacità di ottenere rapidamente le risorse finanziarie in relazione al manifestarsi degli effettivi fabbisogni, ottimizzando continuamente nel tempo la struttura finanziaria tenuto conto dei vincoli/ opportunità del mercato;

4

Quattro dei cinque tipi di flessibilità citati sono suggeriti in: Rudd J.M. et al. (2008).

Capitolo 7 La pianificazione strategica

3. flessibilità organizzativa: la capacità di modificare rapidamente la struttura organizzativa secondo le esigenze della strategia competitiva o di crescita; 4. flessibilità tecnologica: la capacità di acquisire rapidamente e utilizzare efficacemente le tecnologie più vantaggiose nell’attuazione della propria strategia competitiva e date le condizioni di contesto. La dottrina manageriale ha attentamente studiato la relazione esistente tra pianificazione e flessibilità dell’impresa. Si osserva che la pianificazione non necessariamente irrigidisce l’impresa in un percorso strategico, competitivo, organizzativo predeterminato; del resto, non risulta sempre adeguata per orientare la gestione di medio termine delle imprese, soprattutto in contesti competitivi complessi. L’obiettivo della flessibilità assegna alla pianificazione tre compiti fondamentali: 1. l’individuazione e l’analisi delle questioni critiche che l’impresa dovrà affrontare nel futuro di medio-lungo termine; 2. l’elaborazione di un orientamento di fondo utile per garantire una certa organicità alla gestione operativa dell’impresa; 3. la definizione di diverse opzioni strategiche attuabili in relazione alle situazioni che si verranno a configurare.

7.1.3 Un nuovo approccio alla pianificazione strategica I limiti della pianificazione strategica “tradizionale” Il tradizionale approccio “razionale” alla pianificazione strategica risulta ormai da tempo piuttosto inefficace. Pesano negativamente in particolare tre aspetti: 1. l’orientamento top-down; 2. la non sufficiente attenzione agli aspetti di implementazione del piano; 3. il fatto che il progetto strategico è basato su una previsione dell’evoluzione di medio termine del contesto ambientale e competitivo e tale previsione è inevitabilmente sempre più incerta e complessa. L’orientamento top-down implica che il piano strategico sia elaborato a livello di vertice aziendale, eventualmente con il supporto di consulenti esterni e successivamente trasmesso ai vari attori coinvolti nella sua implementazione. Questa impostazione ha due limiti rilevanti: 1. scarso coinvolgimento proprio di coloro che devono svolgere un ruolo importante nell’attuazione del progetto strategico; 2. eccessivo distacco del processo di pianificazione dalla realtà operativa dell’azienda e dalle problematiche concrete. Questi rischi risultano particolarmente rilevanti nelle aziende caratterizzate da strutture organizzative complesse (multi business e multi localizzate). La non sufficiente attenzione all’implementazione è in una certa misura conseguente al problema precedente. Il piano strategico in molti casi finisce con l’essere l’enunciazione di un insieme di propositi di carattere abbastanza generale e, non di rado, neanche troppo originali, cui soprattutto non corrisponde una valu-

flessibilità organizzativa flessibilità tecnologica

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Parte I La strategia nel sistema impresa

tazione sufficientemente approfondita delle condizioni per la loro attuazione. Si tende a focalizzare l’attenzione molto sul “che cosa fare” e relativamente poco sul “come”. La pianificazione è tradizionalmente basata sulla previsione delle condizioni del contesto esterno in cui l’impresa dovrà operare. Tuttavia, prevedere l’evoluzione di un ambiente, quando questo è estremamente mutevole e influenzato da forze difficilmente prevedibili, è cosa intrinsecamente molto difficile; raramente si giunge a conclusioni affidabili e comunque utili per impostare un progetto strategico. L’incertezza dei riferimenti futuri cui dovrebbero essere ancorati gli obiettivi e le strategie elaborate attraverso la pianificazione ne limita l’attendibilità. La pianificazione può comunque essere utile o addirittura necessaria, poiché rafforza la capacità dell’impresa di gestire efficacemente l’incertezza del contesto competitivo. Del resto, diversi studi empirici hanno osservato come proprio nei contesti dove occorre molta flessibilità e capacità di cambiamento, molte imprese dedichino notevole impegno nella pianificazione. Naturalmente, occorre innovare processo e contenuti della pianificazione; in particolare, va superata l’idea di una pianificazione come “disegno” razionale, stabilito da un determinato attore aziendale e attuato da altri, a favore di una pianificazione come “processo” in cui sono coinvolti numerosi soggetti opportunamente integrati e in grado di rispondere efficacemente ai condizionamenti di natura interna ed esterna che si presentano nel tempo. Lineamenti di un’efficace pianificazione strategica La pianificazione deve accompagnare l’elaborazione e poi l’implementazione delle azioni strategiche finalizzate a raggiungere determinati obiettivi competitivi e di crescita sostenibile e tenendo conto delle seguenti problematiche di fondo. •

ambiente attuale cambiamento ambientale





5

Le imprese devono affrontare andamenti non lineari5 che mettono a rischio l’efficacia del loro normale processo di elaborazione della strategia. Una causa tipica di andamenti non lineari è l’arrivo di un newcomer che entra nel mercato e ne modifica le regole del gioco. Il processo di elaborazione della strategia deve essere tale da mantenere l’equilibrio tra fitness, cioè capacità di essere “adatti” all’ambiente attuale, e evolvability, cioè capacità di anticipare o sapersi adattare al cambiamento ambientale. Il processo di elaborazione della strategia (pianificato o meno) è fortemente influenzato dagli assetti di natura organizzativa. A riguardo sono decisivi aspetti quali: la distribuzione dei poteri e delle responsabilità; la distribuzione delle risorse, in particolare quelle distintive; i meccanismi di controllo; la natura del capitale relazionale interno, ivi comprese le modalità di interazione e comunicazione tra gli attori aziendali; il grado di trasparenza. È essenziale favorire la diffusione nel sistema aziendale della capacità di strategic thinking, grazie alla quale una strategia non è il semplice risultato di un processo formalmente pre-determinato e più o meno correttamente attuato. Deriva, piuttosto, dall’elaborazione a diversi livelli gestionali delle concrete

La “non linearità” è la proprietà per cui la dimensione di un effetto o risultato è correlata in modo non lineare alla dimensione della causa o dell’input che ne è all’origine.

Capitolo 7 La pianificazione strategica



problematiche che l’azienda si trova ad affrontare, sintetizzate in relazione a un orientamento strategico di lungo termine ben identificato (e possibilmente stabile). Investire molta energia sul tentativo di elaborare previsioni accurate circa l’evoluzione del contesto competitivo appare sempre meno efficace; l’elaborazione della strategia deve trovare ancoraggio nella predisposizione di diversi scenari possibili che identificano i contesti più significativi in cui l’impresa potrà trovarsi a operare, nonché nella loro condivisione dai vari soggetti aziendali.

Risulta necessario un nuovo modo di elaborare la strategia che riesca a cogliere la complessità del contesto competitivo, il suo dinamismo e la necessità dell’impresa di saper cambiare rapidamente. I classici strumenti di analisi strategica rimangono utili per descrivere il contesto attuale, ma non riescono ad andare oltre la fotografia statica e spesso semplificano la realtà; sono quindi efficaci solo in ambienti relativamente stabili e non troppo complessi. L’elaborazione di una strategia può avvenire anche attraverso il racconto di una storia (playscript). La narrazione si svolge in un contesto rappresentato da una determinata area di business, settore, mercato (o da determinate aree di business, settori mercati). Prevede un “cast” costituito dagli attori che svolgono certi ruoli nel contesto individuato, e tra questi, protagonista è l’impresa di cui si vuole elaborare la strategia. Di questi attori, vanno esplicitate le caratteristiche e gli obiettivi, le modalità di comportamento, le reciproche possibili interazioni; le trame e sotto-trame di cui sono parte. I dati sono utili per dare sostanza e credibilità alla narrazione. Questo approccio ha il pregio decisivo di permettere l’approfondimento dei criteri di comportamento e quindi cogliere il modo in cui gli attori si comportano di fronte al cambiamento o ne sono la causa. Il “raccontare” la strategia come fosse una storia stimola i pianificatori a focalizzarsi sulle determinanti del cambiamento e verificare la logica sottostante ai comportamenti degli attori, piuttosto che focalizzarsi sugli effetti, più o meno correttamente rappresentati da una certa mole di dati. Lo strategic thinking Lo strategic thinking è un metodo per l’elaborazione della strategia basato sull’interazione anche non convenzionale tra gli attori aziendali per favorire la messa in discussione dei comportamenti più consolidati, individuare nuove determinanti la creazione di valore e favorire l’adozione di innovazioni strategiche organizzative e del business model. Questo metodo aiuta a evitare la trappola della routine e della burocraticizzazione. Lo strategic thinking aiuta a contrastare un limite frequente nelle organizzazioni e ben sintetizzato nell’osservazione di Derek Abell: “many companies are overmanaged but underled”. Spesso, si pone molta energia nel creare sistemi gestionali complessi e articolati con la speranza (illusoria) di poter così far fronte in maniera razionale a qualunque situazione si presenti; si trascura, invece, la ricerca di nuove modalità per saper rispondere efficacemente all’evoluzione del contesto competitivo. L’approccio dello strategic thinking offre alcune utili regole di comportamento per l’elaborazione della strategia.

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Parte I La strategia nel sistema impresa











Predisporre una strategia “duale”. Il progetto strategico va sviluppato su due piani temporali: uno di lungo o addirittura lunghissimo termine; l’altro di breve termine. Occorre definire il percorso da intraprendere per raggiungere gli obiettivi di lungo periodo e, parallelamente, concentrarsi sulla gestione ottimale delle problematiche e delle opportunità che si presentano day by day. Per metafora: occorre “sognare”, rimanendo concentrati sulla realtà più immediata. Fissare le invarianti. Per immaginare l’evoluzione dell’impresa nel futuro lontano, è essenziale avere molta chiarezza e determinazione sugli aspetti fondamentali del proprio modello di business; quelli che devono (e possono) diventare elementi caratterizzanti e quindi relativamente non variabili. In primo luogo: la visione e la missione dell’impresa; la value proposition, almeno nei suoi aspetti più generali; il sistema di valori interni. Bilanciare esigenze diverse. Il progetto strategico deve essere coerente rispetto a molteplici aspettative e condizioni. Deve essere basato sulle risorse e sulle competenze disponibili, sapendo valorizzarle al meglio e individuando l’ambito competitivo dove esse sono in grado di esprimere il massimo effetto. Allo stesso tempo, deve saper cogliere le opportunità o le minacce future e indirizzare di conseguenza l’evoluzione della struttura organizzativa. Non può che essere funzionale al raggiungimento degli obiettivi degli attori interni, in primo luogo, coloro che svolgono funzioni imprenditoriali; ma deve soddisfare tali esigenze, riuscendo parallelamente a cogliere le aspettative degli stakeholders esterni. Un progetto strategico vincente indirizza l’impresa verso il raggiungimento di un equilibrio ottimale tra sostenibilità economica, sociale e ambientale. In questa prospettiva, il processo di pianificazione deve essere articolato in maniera tale da favorire il coinvolgimento della maggior parte degli stakeholders. Sviluppare una prospettiva sistemica. Sempre più spesso, la competizione si svolge tra sistemi di imprese tra loro collegate attraverso forme diverse di collaborazione. La singola organizzazione apporta attività, risorse e risultati che messi appunto “a sistema” con gli apporti degli altri soggetti partner creano un valore complesso per il mercato, difficilmente imitabile da altri concorrenti. L’elaborazione della strategia deve, quindi, cogliere questa prospettiva, delineando il ruolo che l’impresa svolge nel sistema di cui fa parte, come si connette con gli altri attori dello stesso sistema, come ottimizza da un lato il proprio apporto, dall’altro i benefici che ne trae. Il processo di pianificazione deve, quindi, superare la prospettiva individuale dell’azienda come soggetto singolo, per cogliere e sviluppare le sue potenziali interdipendenze con i partner esterni. Bilanciare centralizzazione e autonomia. Nelle grandi organizzazioni, in modo particolare in quelle operanti in aree geografiche e/o di business diverse, è cruciale l’equilibrio tra l’autonomia delle singole unità operative e il mantenimento di un indirizzo unitario stabilito dal “centro”, ovvero dalla direzione centrale (nei gruppi, dalla “capogruppo”). Una pianificazione eccessivamente accentrata sconta i limiti dell’impostazione top-down, mortificando flessibilità e rapidità di azione e riducendo il grado di coinvolgimento dei soggetti interessati ai livelli operativi. Al contrario, una pianificazione che si limita a sintetizzare i progetti delle singole unità di business rischia fortemente di non avere coerenza e non sfruttare le sinergie tra i diversi business. L’autonomia è necessaria per massimizzare la rapidità di reazione agli

Capitolo 7 La pianificazione strategica

stimoli del contesto competitivo e favorire l’imprenditorialità degli attori aziendali; la centralizzazione, invece, è necessaria per ottimizzare l’efficienza complessiva, evitare duplicazioni e sfruttare le interdipendenze e i vantaggi di dimensione. Lo scenario planning Uno strumento utile per rafforzare la diffusione nel sistema aziendale dello strategic thinking è lo scenario planning, definito da T.J. Chermack come: “un processo di elaborazione di diverse alternative, plausibili e basate su analisi approfondite, di contesti futuri rispetto ai quali elaborare una strategia. Un processo condotto con lo scopo di migliorare i meccanismi di assunzione delle decisioni strategiche, modificando il modo abituale di “pensare” e rafforzando il coinvolgimento e l’apprendimento delle persone e dell’organizzazione. Uno scenario è una storia che descrive un futuro, possibile e significativo, in cui l’impresa può trovarsi a operare, identificando in particolare: gli attori chiave, i loro comportamenti, gli eventi più significativi; in sintesi, l’insieme di elementi rispetto ai quali l’impresa dovrà definire il proprio percorso strategico. La costruzione di uno scenario è utile per individuare gli aspetti maggiormente rilevanti per l’evoluzione dell’impresa, valutare il modo in cui questi si presenteranno in futuro e ragionare sulle modalità migliori per gestirli a proprio vantaggio. Poiché, le manifestazioni future degli aspetti più rilevanti per l’impresa possono essere diverse (ed è normalmente molto difficile prevedere, quale si verificherà effettivamente), si costruisce un insieme di scenari: i diversi scenari fanno riferimento agli stessi aspetti rilevanti; ognuno descrive un diverso modo di tali aspetti di presentarsi e di influenzare il contesto ambientale (un diverso futuro possibile). Gli scenari sono usati come punto di riferimento nel processo di elaborazione della strategia, favorendo il coinvolgimento degli attori aziendali e l’apprendimento organizzativo. Gli scenari sono storie che, se ben rappresentate, risultano altamente memorizzabili. Vale la pena ricordare che le scienze cognitive hanno ampiamente dimostrato che la “memorizzabilità” di un’informazione ha molto rilievo sulla probabilità che quell’informazione diventi un riferimento concreto nell’azione. La costruzione di uno scenario non si propone di elaborare una previsione, né di raggiungere un consenso all’interno dell’organizzazione sul futuro più probabile. Fornisce, piuttosto, la descrizione di un contesto che potrebbe manifestarsi in futuro come base per ragionare sulle strategie che l’impresa dovrà adottare. Rappresenta un metodo per elaborare (in anticipo) le possibili implicazioni e risposte competitive a situazioni future. Il coinvolgimento di diversi soggetti aziendali implica l’apporto di sensibilità ed esperienze diverse; favorisce la maturazione di una visione condivisa sia sui possibili futuri che l’impresa dovrà affrontare sia sulle strategie da adottare. Il processo di scenario planning genera alcuni benefici di carattere generale. • Favorisce la combinazione di diversi ambiti di conoscenza e punti di vista, modalità di interpretazione della realtà e del suo modo di evolvere; incoraggia quindi il coinvolgimento di prospettive diverse sull’analisi di una determinata questione. • Permette un adeguato approfondimento delle aree di incertezza, sia quelle dove si manifestano opinioni conflittuali sia quelle dove appaiono dilemmi

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Parte I La strategia nel sistema impresa

• •



(situazioni in cui si presentano necessità o tendenze fortemente divergenti o addirittura conflittuali). Per esempio, come precisare i confini tra le aree del sistema organizzativo per ottimizzare la sua trasparenza e accountability e al tempo stesso favorire la cooperazione e le sinergie all’interno del sistema aziendale? Stimola la generazione di idee innovative, spingendo le persone ad andare oltre il percorso (mentale e comportamentale) cui sono più abituate e facendo emergere e tenendo in considerazione punti di vista diversi. Abitua le persone a considerare il futuro non in maniera univoca, ma come un insieme di opzioni, rispetto alle quali occorre attivare percorsi strategici in qualche misura differenziati. Aumenta la sensibilità verso i “segnali deboli” e verso il valore delle “opzioni reali” implicite in un determinato percorso strategico. Permette di valutare la consistenza delle competenze chiave di cui l’impresa dispone rispetto ai “futuri mondi possibili”.

L’impostazione di un processo di scenario planning richiede si decida in primo luogo su quali tematiche focalizzare l’attenzione nell’elaborazione dei futuri possibili più rilevanti. Queste tematiche sono stabilite in relazione alle caratteristiche dell’impresa e del contesto ambientale e competitivo in cui opera. La scelta delle tematiche implica l’individuazione delle variabili qualitative e quantitative più significative per la loro rappresentazione anche in futuro e delle interdipendenze tra queste. È, quindi, necessario fissare l’orizzonte temporale dell’analisi, stabilendo quanto in avanti si vuole guardare. È evidente che tanto più si considera un futuro di lungo termine, quanto più numerosi sono i possibili scenari di cui è necessario tenere conto, con il rischio di minore focalizzazione e affidabilità di ciascuno. D’altro canto, rimanere su un orizzonte temporale troppo breve rende difficile andare al di là della descrizione dell’evoluzione tendenzialmente determinata delle condizioni attuali. L’orizzonte temporale va stabilito anche in relazione alle condizioni del contesto e delle variabili cui vanno riferiti i possibili scenari. Nel caso si lavori su un contesto già oggi particolarmente incerto e mutevole, anche scenari relativamente a breve termine possono essere significativi. Un’altra decisione importante riguarda le persone da coinvolgere nel processo di costruzione degli scenari. Questa decisione deve tenere conto della posizione gerarchica, dell’esperienza detenuta, della posizione nel sistema organizzativo e delle funzioni svolte. Sono comunque coinvolti i decision makers aziendali. La loro presenza è fondamentale per dare rilevanza a tutto il processo e ai suoi risultati, quindi anche per il coinvolgimento degli altri attori. I decision makers intervengono normalmente nella determinazione delle questioni chiave affrontate e offrono un contributo importante per l’esperienza specifica di cui sono portatori e della prospettiva sull’evoluzione dell’impresa. Al processo di scenario planning possono partecipare anche soggetti esterni all’impresa. Questi sono rilevanti sia per arricchire le conoscenze esistenti nell’ambito dell’impresa, anche con apporti specialistici rispetto a determinate tematiche; sia perché nella determinazione di qualsiasi scenario intervengono fattori sui quali soggetti diversi da quelli operanti nell’impresa hanno migliore visibilità e capacità di giudizio.

Capitolo 7 La pianificazione strategica

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7.1.4 L’evoluzione della pianificazione d’impresa Ai fini di una migliore comprensione didattica, è possibile schematizzare l’evoluzione della pianificazione in quattro fasi. L’attività di budgeting L’attività di pianificazione è limitata alla predisposizione del budget; quindi, alla previsione a un anno, sostanzialmente basata sui risultati del periodo precedente, dei costi (di gestione e di investimento), dei ricavi e dei flussi finanziari in entrata e uscita. In questa forma, essa rappresenta essenzialmente uno strumento di controllo dell’andamento gestionale di breve termine. Al fine dell’elaborazione di un piano di più ampio spettro temporale, sono elaborati anche il budget degli investimenti e il budget finanziario. La pianificazione di lungo termine Nella pianificazione di lungo termine (long range planning) si amplia l’orizzonte temporale oltre l’anno e si estendono le previsioni ad altre variabili quantitative, come la quota di mercato che l’impresa intende raggiungere, la capacità produttiva, il numero di dipendenti. Il punto di partenza è sempre la previsione dell’andamento pluriennale del fatturato. Da questa previsione sono derivati i programmi delle funzioni che occorre svolgere per realizzare il fatturato previsto, quindi il piano della produzione, quello degli approvvigionamenti, quello delle risorse umane. È importante osservare che la pianificazione dell’andamento di queste variabili è basata sull’estrapolazione dei risultati realizzati in passato, tenendo conto di eventuali significativi cambiamenti dell’assetto aziendale. Questo approccio è basato sull’ipotesi di tendenziale stabilità nel tempo delle condizioni dell’ambiente competitivo o comunque della prevedibilità del loro eventuale cambiamento. La pianificazione strategica Nella pianificazione strategica l’ambiente diviene il riferimento principale; esso ha, infatti, la funzione di determinare il percorso strategico che permette il migliore posizionamento dell’impresa in un certo contesto ambientale. Viene superata l’ipotesi di stabilità o facile prevedibilità delle condizioni esterne; anzi, il problema fondamentale diviene proprio la previsione della configurazione futura dell’ambiente competitivo e, sulla base di questa previsione, la definizione di un certo percorso strategico di lungo termine attraverso cui raggiungere obiettivi prestabiliti. Per molto tempo, in particolare nelle imprese di grandi dimensioni, alla pianificazione è stata attribuita una funzione fondamentale, ritenendo dovesse essere il riferimento di tutta la gestione d’impresa. In generale, questo approccio non ha funzionato a causa dei seguenti limiti, in parte già accennati. •

Non adeguata attenzione alla fase di implementazione. Non è raro che in un piano strategico si trovi un notevole impegno nell’analisi (delle condizioni ambientali rilevanti, delle caratteristiche interne, degli scenari evolutivi), ma uno spazio relativamente minore all’elaborazione strategica e

predisposizione del budget

orizzonte temporale oltre l’anno

Con il passaggio alla pianificazione strategica si passa a considerare anche l’ambiente.

non adeguata attenzione alla fase di implementazione

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Parte I La strategia nel sistema impresa

difficoltà a tradurre gli orientamenti di lungo termine in programmi di medio e di breve periodo



rigidità delle decisioni assunte



processo accentrato ed essenzialmente top-down



un’attenzione ancora inferiore alle questioni riguardanti l’implementazione. I piani strategici si rivelano non di rado corpose descrizioni di ipotesi e orientamenti generali che, oltre a essere piuttosto separate dalla realtà operativa, non chiariscono come poter procedere alla loro attuazione. Difficoltà a tradurre gli orientamenti di lungo termine in programmi di medio e di breve periodo. È un limite direttamente conseguente a quello precedente che riduce ulteriormente la rilevanza operativa di un piano strategico. Rigidità delle decisioni assunte. Il piano strategico spesso non dispone di adeguati meccanismi per modificare decisioni già prese, anche quando si manifestano nuove condizioni interne o esterne che rendono tali decisioni non più ottimali. Al contrario, la natura formale del piano tende a ridurre la capacità del sistema impresa di innovare il proprio percorso strategico. In questa prospettiva, Mintzberg (1996) ha addirittura sostenuto che la pianificazione è un processo fondamentalmente conservativo. È un processo accentrato ed essenzialmente top-down; questo da un lato limita il coinvolgimento e la motivazione di molti soggetti del sistema aziendale e, in modo particolare, di quelli che dovrebbero essere più direttamente coinvolti nell’attuazione pratica della strategia; dall’altro, riduce la capacità di chi redige il piano di comprendere esattamente il contesto e le problematiche su cui esso dovrebbe intervenire.

Il management strategico Il management strategico introduce dei meccanismi volti a rafforzare la coerenza tra la strategia pianificata e le azioni operative effettivamente attuate dall’organizzazione. Gluck, Kaufman e Walleck definiscono il management strategico come: «A system of corporate values, planning responsabilities or organizational responsabilities that couple strategic thinking with operational decision making at all levels and across all functional lines of authority in a corporation». In questo approccio è posta notevole attenzione sulla struttura organizzativa e sui meccanismi attraverso cui la pianificazione si integra con le altre componenti del sistema aziendale. In particolare, Hax e Majiluf (1984) pongono in evidenza tre sistemi con cui la pianificazione deve essere connessa: 1. sistema di controllo di gestione; 2. sistema incentivante; 3. sistema informativo e di comunicazione.

Nella logica del management strategico, la pianificazione mantiene la sua funzione, che si esplica però nell’ambito della struttura organizzativa e in modo coordinato con altre attività.

Nel management strategico non viene dunque messa in discussione l’utilità dell’attività della pianificazione, piuttosto viene superata la concezione che la colloca all’origine e al di sopra di ogni altra attività aziendale. Nella logica del management strategico, la pianificazione mantiene la sua funzione, che si esplica però nell’ambito della struttura organizzativa e in modo coordinato con altre attività. Riprendendo le parole di Hax e Majiluf (1984): «Obiettivo finale del management strategico è lo sviluppo di valori aziendali, capacità gestionali, responsabilità organizzative e di sistemi amministrativi che mettano in relazione il processo decisionale strategico e quello operativo a tutti i livelli gerarchici e che attraversino orizzontalmente tutte le responsabilità funzionali e di business all’interno dell’impresa».

Capitolo 7 La pianificazione strategica

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7.1.5 Il piano Il piano è il risultato materiale fondamentale del processo di pianificazione. È utile osservare che, in specifiche situazioni, esso può essere predisposto anche in assenza di una formale procedura di pianificazione. Elementi costitutivi e attributi del piano Un piano è costituito da alcuni contenuti tipici e da alcune caratteristiche generali. I contenuti tipici riguardano analisi del contesto competitivo e scenari; vision, missione, obiettivi e target attesi; strategie; organizzazione; azioni; risorse. Le caratteristiche generali sono: orizzonte temporale, ciclicità, grado di complessità e grado di flessibilità (Figura 7.4). I contenuti tipici di un piano saranno oggetto di approfondimento nei successivi paragrafi. La prima caratteristica generale che contraddistingue un piano è il suo orizzonte temporale. L’ampiezza temporale di un piano d’impresa varia da caso a caso, essendo legata alle caratteristiche del modello di direzione dell’impresa e del settore in cui essa opera. Nel caso di settori caratterizzati da dinamiche competitive e di mercato molto stabili, dove sono necessari investimenti di lungo e lunghissimo termine, la pianificazione non può non avere un orizzonte piuttosto ampio. Del resto, il piano economico e finanziario che traduce le strategie pianificate in termini di valore economico creato e di risorse finanziarie assorbite e generate deve assumere un orizzonte temporale pari almeno al periodo di recupero dell’investimento. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il piano strategico ha un orizzonte temporale di tre-quattro anni. L’attività di pianificazione può produrre, insieme al piano strategico, un programma annuale con il relativo budget che indica le azioni del piano di medio termine che s’intende porre in essere nell’esercizio più prossimo.

Elementi costitutivi

Il piano è il risultato materiale fondamentale del processo di pianificazione.

contenuti tipici caratteristiche generali

Il piano che esplicita l’orientamento strategico dell’impresa fa riferimento a un periodo che raramente supera i cinque anni ed è inferiore ai tre anni.

Piano d'impresa Attributi

Analisi del contesto competitivo e scenari

Orizzonte temporale

Missione, obiettivi e target

Ciclicità

Strategie

Grado di complessità

Organizzazione

Grado di flessibilità

Azioni

Risorse

Figura 7.4 Elementi costitutivi e attributi del piano.

Parte I La strategia nel sistema impresa

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meccanismo di scorrimento

limitata complessità

flessibilità

Il numero di anni cui fa riferimento il piano è in effetti veramente rilevante solo nel caso di piani che hanno un’articolazione temporale lineare, che vengono, cioè, rinnovati solo al momento della loro scadenza. In questo caso, il piano, avendo una ciclicità pari al suo orizzonte temporale, risulterebbe però piuttosto rigido, scarsamente in grado di cogliere i fondamentali effetti della relazione tra decisione strategica, azioni poste in essere, risultati ottenuti e apprendimento maturato in questo percorso. Un piano di questo genere rimane sostanzialmente impermeabile alle modificazioni del contesto esterno, di quello aziendale e alla stessa attuazione di alcune sue parti. Per evitare questo rischio, si adotta il meccanismo comunemente indicato dello scorrimento: al termine di un esercizio o di un biennio, si procede alla revisione del piano per gli anni che mancano al suo completamento e al suo prolungamento attraverso una nuova pianificazione riferita a un numero di periodi successivi pari a quello dei periodi trascorsi. Per esempio, il meccanismo dello scorrimento applicato a un piano quadriennale 2017-2020 con revisione biennale comporta la seguente ciclicità: durante la seconda parte del 2018, si procede alla revisione ed eventuale modificazione delle determinazioni per il periodo 2019-2020 e, coerentemente con quanto stabilito a riguardo, si definiscono i contenuti per il biennio 2021-2022. La limitata complessità è un altro attributo fondamentale che dovrebbe caratterizzare un piano d’impresa, tenuto conto dall’articolazione del sistema aziendale. Ulteriore attributo di un piano è la sua flessibilità, intesa come capacità di rapido ed efficace adeguamento degli orientamenti strategici di fronte al cambiamento delle condizioni interne o esterne.

7.2 I contenuti della pianificazione: le condizioni di fondo Le condizioni di fondo sono i riferimenti di base da cui derivare le decisioni strategiche.

7.2.1 Il livello di direzione centrale: visione, missione e sistema di valori La visione esprime ciò che l’impresa si propone di divenire entro un determinato tempo futuro.

La missione esprime le finalità fondamentali che l’impresa intende perseguire nel lungo termine necessarie per attuare la visione.

La visione La visione definisce ciò che l’impresa si propone di divenire nel lungo termine; quella che Hamel e Prahalad chiamano lo strategic intent, basilare fattore di coesione e indirizzo di tutte le future scelte strategiche. La visione delinea il futuro ricercato: di lungo termine, audace, visionario, ispiratore, descritto in modo vivido e coinvolgente; rappresenta il denominatore comune cui devono ispirarsi obiettivi, strategie e azioni operative dell'impresa; in questo senso, rappresenta il collante che tiene unito il sistema aziendale nel tempo (valori chiave e stabili). Delinea anche aspirazione della proprietà e del top management al ruolo di lungo termine dell'impresa nel suo contesto di mercato e sociale. La missione La missione esprime l’insieme di caratteri fondamentali dell’impresa e delle sue attività attraverso cui essa si distingue dalle altre e cerca di raggiungere la propria visione.

Capitolo 7 La pianificazione strategica

Esperienza

Alcuni esempi di visione Un personal computer su ogni scrivania, e ogni computer con un software Microsoft installato. Microsoft, 1980 To give ordinary folk the chance to buy the same things as rich people. Wal Mart, 1952 To consolidate and build on our position as a global high-tech leader deeply rooted in the defence sector and able to succeed in the civil sector through the development of dual use technologies and platforms. Finmeccanica-Leonardo

Esperienza

Alcuni esempi di missione Qualità elevatissima, cura artigianale, freschezza del prodotto, accurata selezione delle migliori materie prime, rispetto e considerazione del cliente: ecco le “parole chiave” di Ferrero, che hanno reso apprezzate da milioni di consumatori le specialità dolciarie prodotte nel mondo. Prodotti frutto di idee innovative, quindi spesso inimitabili pur essendo di larghissima diffusione, entrati a far parte della storia del costume di molti Paesi. Ferrero Deliziare gli amanti della qualità della vita nel mondo con il miglior caffè che la natura possa dare, esaltato dalle migliori tecnologie e dalla bellezza. Illy Caffè

La missione può essere concretamente definita, dando risposta ai seguenti quesiti. • • •





In quale business siamo: • clienti chiave; • prodotti/servizi chiave. Dove vogliamo competere (estensione geografica). Che cosa vogliamo rappresentare nel business dove siamo: • estensione dell’offerta e ampiezza del mercato servito; • beneficio fondamentale erogato al mercato; • aspetto principale per cui l’azienda è positivamente riconosciuta. Cosa intendiamo fare per avere successo: • competenze distintive; • maggiori punti di forza per il vantaggio competitivo; • principali specificità tecnologiche. Qual è lo scopo fondamentale dell’impresa: per quale motivo essa esiste.

Il sistema di valori dell’impresa Soprattutto le medie e grandi imprese esplicitano il sistema di valori o principi guida che devono ispirare il comportamento di tutti i membri della comunità aziendale, e, per gli aspetti rilevanti, anche i suoi fornitori e interlocutori esterni. Il sistema

sistema di valori o principi guida

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Parte I La strategia nel sistema impresa

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Aspettative degli stakeholders

Storia dell’impresa

Sistema di valori Visione e missione

Figura 7.5 I contenuti del sistema di valori dell’impresa e i fattori determinanti.

• Principi etici • Responsabilità sociale e ambientale • Relazioni con gli stakeholders • Politiche aziendali in materia di etica, trasparenza, compliance ecc.

Orientamenti culturali dell’ambiente

Comportamenti dei concorrenti

di valori è codificato in un documento portato alla diretta conoscenza di tutti i dipendenti e in diverse situazioni, utilizzato anche nella comunicazione esterna. I valori aziendali si manifestano concretamente in quattro ambiti (Figura 7.5): 1. i principi etici applicati nei vari ambiti dell’azione d’impresa e richiesti a coloro che operano al suo interno; 2. gli orientamenti sui temi di fondo della gestione: la qualità, l’innovazione, l’orientamento al cliente, l’apertura internazionale, l’eccellenza competitiva; 3. gli aspetti cruciali che guidano il rapporto tra l’impresa e i suoi principali stakeholders: dipendenti, clienti e azionisti; 4. le politiche aziendali relative a compliance, trasparenza ed eticità dei comportamenti di business. Esperienza

Il piano tolleranza zero alla corruzione di ENEL 1. Princìpi generali Enel è impegnata a rispettare il proprio Codice etico e gli impegni sottoscritti aderendo al Global Compact. In ragione di ciò, chiede al proprio personale onestà, trasparenza e correttezza nello svolgimento delle attività lavorative. Gli stessi impegni sono richiesti a tutti gli altri stakeholder, ossia gli individui, i gruppi e le istituzioni che contribuiscono alla realizzazione della sua missione o che sono coinvolti dalle attività per il suo perseguimento. In osservanza al decimo principio del Global Compact, in base al quale “le imprese si impegnano a contrastare la corruzione in ogni sua forma, incluse l’estorsione e le tangenti”, Enel intende perseguire il proprio impegno di lotta alla corruzione, confermato anche con la sottoscrizione del PACI3 che prevede l’applicazione dei criteri di trasparenza raccomandati da Transparency International. Enel ribadisce poi l’adesione ai 10 principi del Global Compact nell’annuale COP4 alle Nazioni Unite e ne rendiconta l’applicazione nelle attività operative nel proprio Piano di Sostenibilità. Tale impegno, che integra il “Modello organizzativo 231” 5, è tradotto nei seguenti princìpi generali: • •

Enel rifiuta la corruzione in tutte le sue forme dirette e indirette; Enel realizza un programma di lotta alla corruzione denominato piano “tolleranza zero alla corruzione” (piano tzc).

Capitolo 7 La pianificazione strategica

2. Piano TZC: gli impegni Sulla base dell’analisi delle attività maggiormente esposte al rischio di corruzione, Enel assume i seguenti impegni per la conduzione delle proprie attività. •









Tangenti: Enel proibisce il ricorso a qualsiasi forma di pagamento illecito, in denaro o altra utilità, allo scopo di trarre un vantaggio nelle relazioni con i propri stakeholder; vantaggio inteso anche come facilitazione, o garanzia del conseguimento, di prestazioni comunque dovute. Il divieto è naturalmente esteso a dipendenti che, in virtù del ruolo e delle attività svolte in Enel, intendano accettare e/od offrire tangenti a beneficio di se stessi o di loro familiari, associati e conoscenti. In caso di promessa, offerta o richiesta di tangenti, i dipendenti di Enel ne danno comunicazione al proprio responsabile e alla Funzione Audit attraverso il canale dedicato alla raccolta delle segnalazioni. Contributi a partiti politici: Enel si astiene da qualsiasi pressione diretta o indiretta a esponenti politici; non finanzia partiti sia in Italia che all’estero, loro rappresentanti o candidati, né effettua sponsorizzazioni di congressi o feste che abbiano un fine esclusivo di propaganda politica. Contributi a organizzazioni caritatevoli e sponsorizzazioni: Enel SpA, con altre Società del Gruppo, ha costituito una Associazione Onlus che ha lo scopo di intervenire nei campi del sociale e del non profit, con l’obiettivo di assicurare con il proprio intervento un reciproco vantaggio alle parti coinvolte, nel rispetto del ruolo e dell’etica di ciascuno. Enel Cuore Onlus ha lo scopo di perseguire esclusive finalità di solidarietà sociale nei confronti di soggetti svantaggiati, con particolare riferimento ai disabili, ai malati, all’infanzia e alla terza età. Pertanto il Gruppo Enel non aderisce a ulteriori richieste di contributi in questo campo, salvo casi eccezionali previsti dalle vigenti procedure aziendali in materia. Enel supporta, attraverso attività di sponsorizzazione o stipulando specifiche convenzioni, iniziative che possano riguardare i temi del sociale, dell’ambiente, dello sport, dello spettacolo e dell’arte, della divulgazione scientifica e tecnologica con eventi che offrano garanzia di qualità, che abbiano respiro nazionale o rispondano a specifiche esigenze territoriali (laddove Enel intenda sostenere iniziative in territori di interesse industriale) coinvolgendo i cittadini, le Istituzioni, le associazioni con i quali Enel collabora alla progettazione, in modo da garantirne originalità ed efficacia. In ogni caso, nella scelta delle proposte cui aderire, Enel presta particolare attenzione verso ogni possibile conflitto di interessi di ordine personale o aziendale. Facilitazioni: Enel non consente di corrispondere, offrire o accettare, direttamente o indirettamente, pagamenti e benefici di qualsiasi entità allo scopo di accelerare prestazioni comunque già dovute da parte di soggetti suoi interlocutori. In caso di promessa, offerta o richiesta di facilitazioni, i dipendenti di Enel ne danno comunicazione al proprio responsabile e alla funzione Audit attraverso il canale dedicato alla raccolta delle segnalazioni. Regali, omaggi e benefici: Enel non ammette alcuna forma di regalo che possa anche solo essere interpretata come eccedente le normali pratiche commerciali o di cortesia o comunque rivolta ad acquisire trattamenti di favore nella conduzione di qualsiasi attività collegabile a Enel. In particolare, è vietata qualsiasi forma di regalo a funzionari pubblici italiani ed esteri, revisori, consiglieri di Enel SpA e sue controllate, sindaci o a loro familiari, che possa influenzare l’indipendenza di giudizio o indurre ad assicurare un qualsiasi vantaggio. Tale norma, che non ammette deroghe nemmeno in quei Paesi dove offrire doni di valore a partner commerciali è consuetudine, concerne sia i regali promessi od offerti sia quelli ricevuti; si precisa che per regalo si intende qualsiasi tipo di beneficio (partecipazione gratuita a convegni, promessa di un’offerta di lavoro ecc.). In ogni caso, Enel si astiene da pratiche non consentite dalla legge, dagli usi commerciali o dai codici etici – se noti – delle aziende o degli enti con cui ha rapporti. Gli omaggi di Enel si caratterizzano perché volti a promuovere la brand image di Enel. I regali offerti – salvo quelli di modico valore – devono essere gestiti e autorizzati secondo le procedure aziendali e devono essere adeguatamente documentati. I collaboratori di Enel che ricevono omaggi o benefici non previsti dalle fattispecie consentite sono tenuti a darne comunicazione alla Funzione Audit di Enel SpA che ne valuta l’appropriatezza.

Segue una terza parte del programma denominata Piano 2TC: l’implementazione. Fonte: https://www.enel.com/it-it/Documents/governance/tzc/ENELptz_17x24_EXE.pdf

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Parte I La strategia nel sistema impresa

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La “carta” dei valori è un documento sintetico ove i valori chiave (normalmente, tra cinque e sette, otto) sono illustrati attraverso poche proposizioni. In molti casi, questo documento è affiancato da un Codice etico che esprime in maniera estesa i contenuti dei principi etici di comportamento cui tutti gli attori aziendali devono attenersi. Esso è adottato formalmente dall’impresa (approvato dal CdA); ha, quindi forza normativa interna, è un riferimento importante nella compliance, nel modello organizzativo Ex L.231/91 e nei sistemi di controllo interno; può essere oggetto di adesione esplicita da parte dei dipendenti. In alcuni casi, l’impresa elabora ulteriori documenti relativi ai principi guida in ambiti specifici, particolarmente delicati ai fini della corretta gestione; si fa riferimento in particolare, al tema della corruzione; della sicurezza nel lavoro; del miglioramento dell’ambiente. Anche questi possono essere oggetto di approvazione da parte degli organi di governo dell’impresa. Il Codice etico come anche gli altri codici su materie specifiche ha un obiettivo interno di forte sensibilizzazione di tutti i collaboratori dell’impresa sui principi di correttezza e trasparenza, e, in generale, di compliance con le normative; dall’altro di comunicare agli stakeholders l’impegno dell’impresa a favore di tali principi. Il sistema di valori è il risultato prodotto nel tempo da diverse forze interne ed esterne all’impresa. In primo luogo dalla sua stessa storia, in cui si sintetizzano i modelli, le esperienze, le idee, vissute e metabolizzate nel tempo dal sistema aziendale, in secondo luogo dalle spinte di carattere culturale e ideale che permeano l’ambiente in cui l’impresa è inserita. Le aspettative degli stakeholders, soprattutto dei principali tra questi, costituiscono un terzo fattore rilevante: i principi, le convinzioni e le istanze di cui essi sono portatori influenzano in modo significativo il sistema di valori dell’impresa. Anche i valori e i modelli di comportamento dei concorrenti, in particolare di quelli che occupano posizioni di leadership nel mercato, hanno rilievo. Da un lato costituiscono una componente significativa di quell’orientamento culturale espresso dall’ambiente nel suo insieme che è stato già richiamato, dall’altro determinano un punto di riferimento per tutti gli operatori nel settore. Infine, vanno considerate la visione e la missione dell’impresa; esse influenzano naturalmente i valori poiché esprimono ciò che l’impresa vuole diventare, gli scopi su cui intende impegnarsi nel lungo termine e la funzione che intende assolvere Esperienza

L’indice del codice etico di Poste italiane 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Premessa e obiettivi Destinatari e ambito di applicazione Principi generali Tutela dei diritti e della dignità dei lavoratori Tutela del patrimonio aziendale e tenuta delle informazioni Tutela dei luoghi di lavoro Tutela ambientale Norme etiche nei confronti di terzi Sistema di controllo interno e violazione del codice etico

Fonte: http://www.posteitaliane.it/resources/editoriale/pdf/Codice_Etico_GruppoPosteItaliane.pdf.

Capitolo 7 La pianificazione strategica

nel contesto competitivo ma anche sociale di cui è parte. È altrettanto evidente che i valori, a loro volta, influenzano la scelta della visione e della missione. La determinazione da parte della direzione centrale delle cosiddette condizioni di fondo su cui impostare la strategia è completata da tre ulteriori questioni: 1. analisi delle risorse e delle competenze disponibili all’impresa; 2. analisi dell’ambiente in cui l’impresa opera; 3. definizione del modello di sviluppo e acquisizione delle risorse. Per quanto riguarda il primo e il terzo punto si rimanda alla trattazione nel Capitolo 3 di questo volume. Preme qui sottolineare il rilievo assolutamente primario di queste analisi; la determinazione dell’orientamento strategico dell’impresa e del conseguente percorso di azioni è, infatti, fondamentalmente basata sul patrimonio di risorse che essa ha a disposizione. D’altro canto, il modello di arricchimento di tale patrimonio è una parte importante del progetto strategico esplicitato nella pianificazione. Anche l’analisi dell’ambiente è stata oggetto di ampia trattazione (Capitolo 1). Nella prospettiva della direzione centrale, tale analisi non riguarda tanto l’ambiente competitivo riferito alle specifiche aree di business in cui l’impresa è impegnata; concerne, piuttosto, l’ambiente in senso “esteso”. Sono, quindi, valutate le condizioni e soprattutto le tendenze economiche, istituzionali, politiche, socio-culturali, tecnologiche che possono influenzare l’impresa nel suo insieme e, in modo particolare, i vari ambiti competitivi in cui essa è impegnata. La costruzione di scenari di lungo termine La costruzione di scenari di medio-lungo termine forniscono il quadro di riferimento per l’elaborazione della strategia. Questi scenari disegnano le tendenze generali della domanda e delle dinamiche competitive nei mercati in cui l’impresa è o potrebbe in futuro essere impegnata. Delineano, inoltre, l’insieme di vincoli e di opportunità che l’ambiente nel suo complesso presenta all’impresa. Ipotizzano, infine, la possibile evoluzione dei vari fattori che, pur non avendo natura direttamente economica, influenzano le scelte strategiche dell’impresa. Il confronto con i valori economici e finanziari dei concorrenti Nell’ambito dell’analisi dell’ambiente la comparazione con i concorrenti che appartengono al proprio raggruppamento strategico è normalmente realizzata attraverso l’analisi di bilancio. Si procede alla riclassificazione dei valori di bilancio e al calcolo dei principali indicatori di performance economica, patrimoniale e finanziaria. Questa semplice analisi permette una prima verifica degli aspetti di forza e quelli di debolezza dell’impresa rispetto alla media del settore e soprattutto del proprio raggruppamento strategico e rispetto ai singoli attori che ne fanno parte. La comparazione può essere approfondita in prospettiva storica, osservando l’evoluzione nel tempo dei dati essenziali mostrati dai bilanci dei vari concorrenti.

7.2.2 Il livello di direzione di divisione A livello di direzione di divisione, la definizione delle condizioni di fondo alla base dell’orientamento strategico ha contenuti analoghi a quelli che sono sviluppati dalla direzione centrale, con riferimento all’intero sistema impresa. In parti-

225

226

Parte I La strategia nel sistema impresa

La divisione è intesa come l’unità organizzativa del sistema aziendale responsabile della gestione di una o più unità di business.

Area Strategica di Affari Strategic Business Unit

Un’area strategica di affari può essere definita come un’unità operativa che gestisce uno o più prodotti chiaramente identificati, rivolti a una domanda determinata e in concorrenza con operatori la cui identità è altrettanto ben individuata.

colare, si procede alla determinazione della visione e missione delle unità di business comprese nella divisione, all’analisi dell’ambiente competitivo e delle risorse disponibili. Per determinare questi aspetti occorre delineare i confini delle unità di business, ricordando che la divisione è intesa come l’unità organizzativa del sistema aziendale responsabile della gestione (e quindi, anche della pianificazione) di uno o più business. Nei Gruppi, le Divisioni possono essere configurate come Società controllate. La determinazione dell’Area Strategica di Affari (ASA) La Divisione comprende una o più Aree Strategiche di Affari (ASA), denominata anche con dizione anglosassone Strategic Business Unit (SBU). Occorre osservare che una parte della dottrina aziendalistica (che trova riscontro in alcune esperienze aziendali) distingue l’ASA dall’SBU. In particolare, considera l’SBU come unità operativa focalizzata nella gestione di un particolare business appartenente a una più ampia area strategica di affari (indicata anche con il termine di area di business). Quindi, una ASA raggruppa più SBU. Un’area strategica di affari, o, per semplicità di linguaggio, area di business, è caratterizzata da: • • •

la gamma di prodotti/servizi gestiti; il mercato/i a cui tale gamma è rivolta; risorse e competenze distintive (Figura 7.6).

L’area di business opera con un certo grado di autonomia poiché gestisce una determinata offerta con dinamiche competitive, economiche, e operative proprie e distinte da quelle delle altre aree di business/divisioni. Essa rimane comunque legata al resto del sistema aziendale innanzitutto per quanto riguarda l’orientamento strategico complessivo dell’impresa, i principi guida e i valori che informano le scelte gestionali, le funzioni di supporto e il controllo. Vi possono poi essere delle sinergie di diversa natura tra varie aree di business che

Gamma di prodotti o servizi Area di mercato

Risorse e competenze distintive

Area strategica di affari

Figura 7.6 Le determinanti e le caratteristiche di un’Area Strategica d’Affari.

• Determinazione di obiettivi specifici • Determinazione e implementazione di una strategia indipendente • Autonomia organizzativa • Oggetto della pianificazione

Capitolo 7 La pianificazione strategica

227

rendono conveniente gestire in modo integrato determinate attività. Infine, alcune attività di supporto di natura trasversale sono gestite centralmente, attraverso un collegamento tra le aree di business e la funzione centrale competente su tali attività. La visione e la missione dell’area di business La visione relativa a una determinata area di business e la sua missione devono essere funzionali a quelle assunte dall’impresa nel suo insieme; sono quindi conseguenti alla sua strategia. Un’area di business può assumere un rilievo strategico ed economico particolarmente elevato nell’evoluzione dell’impresa; per esempio in seguito a una forte crescita della domanda o a favorevoli cambiamenti dell’ambiente competitivo oppure ancora a radicali innovazioni tecnologiche. In casi di questo genere, la gestione strategica dell’area di business tende a essere impostata con crescente autonomia dal resto dell’impresa. Una singola area di business può raggiungere un’importanza addirittura preponderante; in questo caso, la visione e la missione di quest’ultima possono essere modificate in funzione delle prospettive strategiche determinate dall’unità di business divenuta centrale. Può anche risultare opportuno che l’area di business sia scorporata dal sistema aziendale d’origine e costituita in una Società controllata. Nel breve e medio termine, l’orientamento strategico dell’impresa delinea la visione di ciascuna area di business, assegnandole una determinata missione funzionale all’attuazione di tale percorso strategico. Nel tempo, la gestione della singola area di business e i suoi risultati possono influenzare la strategia complessiva dell’impresa e, in alcuni casi, determinare un cambiamento della missione e perfino della visione perseguita (Figura 7.7).

La missione ultima di qualsiasi business è sempre quella di contribuire all’attuazione della missione del sistema impresa, e non può, quindi, essere interpretata in maniera isolata da quella degli altri business.

Analisi delle condizioni interne rilevanti per l’area di business Anche per quanto riguarda l’area di business, l’analisi delle risorse e competenze interne disponibili rimanda ai contenuti discussi nel Capitolo 3. Nel caso di un’area di business di nuova costituzione, le risorse disponibili sono quelle assegnate dalla direzione centrale, in relazione alla missione che essa deve assolvere e alle condizioni competitive che deve affrontare. La valutazione è, allora, realizzata al momento della creazione dell’area di business e della determinazione dei ruoli che essa deve svolgere nell’ambito del progetto competitivo dell’impresa nel suo

Visione e missione dell’impresa

Orientamento strategico dell’impresa

Visione e missione del business

Evoluzione e performance del business

Figura 7.7 L’interazione tra strategia generale dell’impresa e singolo business.

228

Parte I La strategia nel sistema impresa

insieme. Negli altri casi, la ricognizione del patrimonio di risorse e competenze nell’ambito del business avviene su due piani: 1. all’interno del business, considerando le risorse che esso ha sviluppato nel corso della sua evoluzione; 2. all’interno del sistema impresa, considerando le risorse detenute da altre aree strategiche o dalle direzioni funzionali che possono essere utilizzate a beneficio dell’area di business in questione. L’analisi delle condizioni esterne rilevanti per il business Le condizioni esterne che occorre analizzare nella prospettiva dell’area di business sono descritte dai fattori che determinano l’ambiente competitivo del business di cui si parla nel Capitolo 1. Questo ambiente è determinato dall’azione esercitata dalle forze competitive che intervengono specificatamente nel business in questione.

7.3 I contenuti della pianificazione: l’orientamento strategico 7.3.1 L’orientamento strategico a livello di direzione centrale Le questioni strategiche La direzione centrale (generale) delinea la strategia che orienta il comportamento di medio-lungo termine del sistema impresa nel suo insieme, con il fine ultimo di creare valore. Le tematiche normalmente approfondite sono le seguenti. 1. Le questioni trasversali alle aree di business (o ad alcune di esse) e cruciali per lo sviluppo sostenibile del sistema impresa. Esempi di tali questioni sono: l’ottimizzazione dell’impatto ambientale delle produzioni; l’attuazione di una certa politica nelle relazioni con i fornitori; la strategia di localizzazione geografica degli investimenti. 2. Le aree di business in cui è conveniente e opportuno per l’impresa competere e modalità di intervento più efficaci. 3. Il grado di realizzazione interna delle attività operative e di supporto nelle varie aree di business. 4. Le alleanze strategiche con riguardo agli ambiti, alle modalità di implementazione e alla natura dei potenziali partners. 5. Le relazioni sinergiche tra le aree di business e le modalità organizzative per il loro efficace sfruttamento. 6. L’ottimizzazione degli investimenti delle risorse nei vari business. 7. Lo studio di “grandi progetti” rilevanti per la competitività (differenziazione/vantaggio di costo) di tutto il sistema aziendale, la loro valutazione di fattibilità economico-finanziaria, e la predisposizione delle condizioni organizzative per l’eventuale implementazione. 8. La definizione degli interventi sulla struttura organizzativa in relazione all'orientamento strategico generale. 9. La gestione delle criticità che possono rappresentare una minaccia rilevante per tutto il sistema aziendale.

Capitolo 7 La pianificazione strategica

229

Strategia di portafoglio e posizionamento La direzione centrale determina (nel tempo) l’insieme di aree di business in cui l’impresa compete. In questo senso, definisce la strategia di portafoglio dei business aziendali. Il metodo di Abell per distinguere le unità di business dell’impresa Il primo passaggio logico di una strategia di portafoglio è l’individuazione dei business in relazione a determinate variabili esplicative. Un metodo piuttosto diffuso per svolgere questo compito è stato suggerito da Abell. L’autore indica tre dimensioni di base e due aggiuntive per distinguere una determinata unità di business. Le tre dimensioni di base sono: 1. gruppo di clienti cui il business fa riferimento; 2. funzione d’uso della linea di prodotto del business; 3. tecnologia utilizzata. La funzione d’uso esprime il tipo di utilità che il prodotto vuole soddisfare in maniera primaria; è quindi collegata al bisogno principale che i vari gruppi di clienti possono voler soddisfare. La “tecnologia utilizzata” riguarda le diverse possibili modalità in cui può essere realizzato il prodotto o il servizio affinché assolva nel modo migliore alle sue funzioni d’uso. Le due dimensioni aggiuntive sono: 1. area geografica; 2. grado di integrazione verticale dell’attività svolta.

clienti funzione d’uso tecnologia

area geografica grado di integrazione verticale

Per ciascuna delle prime tre dimensioni, si procede descrivendone i diversi contenuti che esse possono assumere e che, combinati tra loro, definiscono l’identità del business. Naturalmente non tutti gli incroci tra specifici contenuti delle tre dimensioni configurano un’area di business che assume concretezza nella realtà. Le seconde due variabili delineano l’estensione della presenza che l’impresa si propone di avere dal punto di vista geografico e nella filiera produttiva. I due criteri di valutazione della convenienza delle unità di business Il secondo passaggio nell’elaborazione della strategia di portafoglio è la valutazione delle unità di business in cui l’impresa ha convenienza a operare; a riguardo si considerano i seguenti criteri: potenzialità economiche del business in sé; effetti strategici ed economici che derivano dall’inserimento del business nel portafoglio dell’impresa; la disponibilità delle risorse e competenze distintive necessarie per raggiungere almeno potenzialmente un vantaggio competitivo nel business in questione (tenendo anche conto delle sinergie realizzabili tra questo e gli altri business in portafoglio). La matrice attrattività del business-competitività dell’impresa Per analizzare le potenzialità economiche di un singolo business, una metodologia piuttosto diffusa per la sua semplicità concettuale e applicativa è la cosiddetta matrice del grado di attrattività del business e della capacità competitiva dell’impresa. Come è facile intuire dal nome, questa matrice ordina la valutazione del potenziale di un determinato business in funzione, da un lato, delle caratteristiche

230

Parte I La strategia nel sistema impresa

dell’ambiente competitivo e, dall’altro, della posizione competitiva dell’impresa rispetto ai principali concorrenti. La costruzione della matrice è articolata in cinque fasi. Si esplicitano i fattori che determinano l’attrattività (potenziale) del business e la capacità competitiva dell’impresa.

La seconda fase concerne la valutazione dei fattori individuati nella fase precedente.

Ogni business è descritto da due punteggi, uno relativo alla sua attrattività, l’altro concernente la competitività dell’impresa. Questo consente di ordinare i diversi business in una griglia utile per visualizzare la qualità del portafoglio dell’impresa. Sul piano dell’elaborazione strategica è necessario disporre di una descrizione delle tendenze future.

Prima fase Si esplicitano i fattori che determinano l’attrattività (potenziale) del business e la capacità competitiva dell’impresa. I fattori del primo gruppo sono sostanzialmente le forze competitive che caratterizzano l’ambiente specifico del business. Tra gli aspetti solitamente considerati vi sono: la dimensione, il tasso di crescita e la ciclicità della domanda; l’intensità della concorrenza attuale e il livello delle barriere alla mobilità; il potere negoziale di clienti e fornitori; l’intensità e il segno dell’intervento del soggetto pubblico e di altri stakeholders esterni; può essere infine necessario tenere conto anche di determinate condizioni dell’ambiente esteso. I fattori che descrivono la capacità competitiva dell’impresa sono: la quota di mercato detenuta; il livello di risorse disponibili e utilizzabili nell’area di business in questione; qualità del capitale umano; la capacità innovativa; il grado di committment strategico verso il business. Successivamente, si cerca di valutare in modo quantitativo i fattori individuati in precedenza. Questa valutazione sconta il problema di una forte soggettività, poiché solo in pochi casi è possibile stabilire criteri oggettivi per fissare sia il valore sia il peso da attribuire a ciascun fattore. Questa valutazione viene ripetuta per tutti i business nei quali l’impresa è presente o intende entrare. Al termine di questa operazione, ogni business è descritto da due punteggi, uno relativo alla sua attrattività, l’altro concernente la competitività dell’impresa (Tabella 7.1)6. Questo consente di ordinare i diversi business in una griglia utile per visualizzare la qualità del portafoglio dell’impresa. Si osserva che il risultato ottenuto da questa analisi è in sostanza una fotografia dell’esistente. Sul piano dell’elaborazione strategica è evidentemente necessario disporre di una descrizione delle tendenze future. A tal fine, occorre individuare e valutare gli elementi di attrattività del business e competitività dell’impresa con riferimento non alla situazione attuale, ma alle prospettive attese in un certo orizzonte futuro. Vale la pena sottolineare che in questo secondo tipo di analisi risulta con ogni probabilità enfatizzato quel limite di soggettività che era stato osservato in precedenza. La dinamica che ciascuna unità di business mostra rispetto ad attrattivitàcompetitività costituisce il punto di riferimento per delinearne l’orientamento strategico. Un possibile modello utile per descrivere, senza alcuna pretesa di esaustività, la sequenza logica delle scelte che conduce a determinare tale orientamento è presentato nella Figura 7.8. Il confronto con l’offerta dei concorrenti nella stessa unità di business Un altro metodo per valutare le condizioni di un determinato business e il suo ruolo nel portafoglio dell’impresa consiste nel confronto delle caratteristiche dell’offerta dall’impresa rispetto a quella dei concorrenti nello stesso segmento o nello stesso raggruppamento strategico, con riferimento a un determinato in-

6

Questo modello di calcolo è stato presentato per la prima volta da Hofer e Schendel (1978).

Capitolo 7 La pianificazione strategica

Tabella 7.1

Valutazione quantitiva dell’attrattività di un business e della capacità competitiva dell’impresa*

Attrattività del business

Livello della domanda Tasso di crescita della domanda Barriere all’entrata Intensità della concorrenza Potere contrattuale dei fornitori Regolamentazione Totale Competitività dell’impresa

Quota di mercato Risorse rilevanti disponibili Livello risorse umane Innovazione Committment strategico Totale

Importanza del fattore

Valore (*)

Punteggio ponderato

0,1 0,2 0,1 0,3 0,05 0,25

4 5 3,5 4 4 5

0,4 1 0,35 1,2 0,2 0,75

1

3,9

Importanza del fattore

Valore (*)

Punteggio ponderato

0,2 0,3 0,25 0,2 0,05

2 2,5 4 5 5

0,4 0,75 1 1 0,25

1

3,4

* Le due dimensioni di questa griglia sono evidentemente l’attrattività del business e la capacità competitiva dell’impresa. Ciascuna dimensione è divisa in un certo numero di intervalli che fanno riferimento alla stessa scala quantitativa utilizzata per valorizzare i vari fattori. Per esempio, considerando la scala adottata nella tabella, da 1 a 5, la competitività dell’impresa può essere considerata “bassa” nell’intervallo compreso tra 1 a 2,3; “media” nell’intervallo tra 2,4 e 3,7; “alta” nell’intervallo tra 3,8 e 5. Si procede in modo analogo per gli intervalli della attrattività del business. Su questa griglia è immediato posizionare i business dell’impresa secondo la valutazione espressa nelle due fasi precedenti.

sieme di attributi (costo, fattori di differenziazione, volumi disponibili, time to market ecc.).7 Anche questo approccio ha il pregio dell’immediatezza e della semplicità, e sconta lo stesso limite osservato nella precedente metodologia di analisi, relativamente alla soggettività della valutazione e alla parziale disponibilità delle informazioni necessarie. Il problema della valutazione può essere attutito attraverso due accorgimenti: in primo luogo, cercando di considerare il maggior numero possibile di attributi di natura quantitativa; in secondo luogo, coinvolgendo nella valutazione anche i clienti di riferimento nell’area di business a cui è riferita la valutazione. Il confronto delle caratteristiche della propria offerta in una certa area di business con quella dei concorrenti consente all’impresa di focalizzare meglio gli attori che fanno parte del suo raggruppamento strategico e di individuare la posizione dell’impresa rispetto ai concorrenti rilevanti, in relazione alle variabili da cui dipende direttamente la qualità dell’offerta percepita dalla domanda. Ai fini della strategia di portafoglio, quest’analisi va fatta per ciascuno dei business compreso nel portafoglio stesso.

7

Su questo metodo, si veda: Day G.S. (1981), e lo sviluppo in Rispoli M. (2002).

231

Figura 7.8 Un’ipotesi dei possibili percorsi strategici di un business aziendale.

Mietitura o alienazione del business a terzi

Riduzione investimenti e/o riposizionamento

In maniera “rapida” o in maniera “lenta”

Lenta

Investire

Uscire

Rapida

Mantenere la posizione attuale o investire nello sviluppo della posizione

Integrazione delle risorse o suddivisione del controllo del business

Accordi

Sviluppo autonomo o attraverso accordi

Rimanere

Rimanere nel business o uscire

Acquisizione

Acquisizione o crescita interna

Sviluppo

Rafforzare le condizioni interne e/o migliorare le relazioni esterne

Mantenere

Selezionare una migliore posizione nel business o modificare la strategia competitiva

Individuare e attivare le interrelazioni strategiche con altri business in cui l’impresa opera attualmente o potenzialmente (strategie orizzontali)

Crescita interna

Rafforzamento della posizione competitiva o nell’allargamento dell’area di business

Individuazione di nuove aree di mercato a maggiore potenziale

Focalizzazione

232 Parte I La strategia nel sistema impresa

Capitolo 7 La pianificazione strategica

233

Gli attributi dell’offerta dell’impresa si possono raggruppare in quattro categorie: 1. attributi rilevanti dove l’impresa ha una posizione migliore dei concorrenti; 2. attributi rilevanti dove l’impresa ha una posizione peggiore rispetto ai concorrenti; 3. attributi poco rilevanti dove l’impresa ha una posizione migliore rispetto ai concorrenti; 4. attributi poco rilevanti dove l’impresa ha una posizione peggiore dei concorrenti. La concentrazione degli attributi valutati in queste quattro categorie offre un’indicazione di massima della posizione competitiva dell’impresa nel business in questione; costituisce, inoltre, il riferimento per decidere il ruolo strategico da attribuire al business e gli interventi sui vari attributi della gamma di prodotti. La S.W.O.T. analysis La S.W.O.T. analysis descrive un business dell’impresa in termini di punti di forza e di debolezza interni e di minacce e opportunità ambientali.8 È evidente che questa analisi non è necessariamente riferita solo alla singola area di business, può riguardare anche l’intera impresa o un singolo prodotto. I punti di forza e di debolezza sono valutati non tanto in senso assoluto, quanto soprattutto relativamente ai principali concorrenti nello stesso raggruppamento strategico. Le minacce e le opportunità ambientali vanno considerate nella prospettiva soggettiva dell’impresa, quindi in relazione alle sue condizioni interne.

La S.W.O.T. analysis descrive un business dell’impresa in termini di punti di forza e di debolezza interni e di minacce e opportunità ambientali.

La valutazione dell’unità di business nella prospettiva di portafoglio La strategia di portafoglio richiede la valutazione degli effetti che ogni unità di business produce nell'ambito del portafoglio di cui è parte, attraverso le interdipendenze con gli altri business. In particolare, vanno compresi gli effetti del business sulla complessiva redditività di breve, medio e lungo termine del portafoglio e sulla complessiva generazione dei flussi di cassa. Va anche considerato l’impatto competitivo (sulle potenziali determinanti del vantaggio competitivo) e sulla struttura organizzativa complessiva. L’analisi dell’equilibrio finanziario del portafoglio: la griglia BCG L’equilibrio finanziario di breve e medio termine del portafoglio e l’impatto esercitato da ciascun business su tale equilibrio può essere descritto attraverso la cosiddetta matrice “Boston Consulting Group”. Questa griglia è definita dai seguenti due parametri: 1. tasso di crescita della domanda; 2. quota di mercato relativa a quella del principale concorrente. Per il secondo parametro, il valore di riferimento è l’unità, che rappresenta il caso in cui la quota di mercato dell’impresa nell’unità di business in questione è uguale a quella del principale concorrente. Occorre considerare, però, che i valori tipici 8

L’acronimo S.W.O.T. indica in inglese: strengths, weaknesses, opportunities, threats.

matrice Boston Consulting Group

Parte I La strategia nel sistema impresa

234

di questo parametro possono variare nei vari settori, in particolare in relazione al loro grado di concentrazione relativa. I due parametri permettono di individuare quattro quadranti, in ciascuno dei quali si osserva una particolare tipologia di business. In particolare: dog question mark star cash cow

dudes old war horses

1. business dog, caratterizzati da basso tasso di crescita della domanda e piccola quota di mercato; 2. business question mark, con un alto tasso di crescita della domanda e piccola quota di mercato; 3. business star con alto tasso di crescita della domanda e alta quota di mercato; 4. business cash cow, con basso tasso di crescita della domanda e alta quota di mercato. A questi quattro si possono aggiungere due ulteriori tipologie di business, se si considera l’ipotesi di un tasso di crescita della domanda negativo. In particolare si distinguono i business cosiddetti dudes, dove l’impresa ha una bassa quota di mercato, e gli old war horses, dove l’impresa ha invece un’elevata quota di mercato. Nella rappresentazione grafica, i business nei vari quadranti possono essere indicati con circonferenze di diametro proporzionale al volume di fatturato generato. Le diverse unità di business sono valutate in relazione alla loro capacità di generare flussi di cassa netti positivi o negativi. Questa capacità è, infatti, correlata ai due parametri utilizzati nella griglia. In funzione della quota di mercato relativa, l’impresa realizza un certo livello di economie di produzione e ottiene una redditività operativa più o meno alta. Il tasso di crescita del mercato influenza il segno del flusso netto di cassa, perché i business nella fase iniziale e di sviluppo del ciclo di vita richiedono maggiori investimenti, quindi assorbono elevati livelli di risorse finanziarie. I business di tipo star e dog risultano, per ragioni opposte, entrambi in tendenziale equilibrio di cassa. I primi generano molte risorse finanziarie grazie alla posizione di leadership detenuta nel mercato; assorbono però altrettante risorse poiché hanno tassi di sviluppo molto consistenti, quindi richiedono forti investimenti. I flussi di cassa prodotti dai business dog sono molto ridotti; altrettanto limitati sono quelli assorbiti, grazie alla scarsa crescita della domanda del settore. I question mark sono normalmente in una posizione di deficit finanziario; al contrario, i cash cow sono in eccedenza di cassa. I business dudes hanno una posizione finanziaria tendenzialmente negativa, mentre gli old war horses possono essere produttori di flussi di cassa positivi anche se piuttosto limitati in valore assoluto. L’insieme dei business compresi nel portafoglio deve soddisfare contemporaneamente due condizioni: 1. l’equilibrio dei flussi di cassa complessivi; 2. un tasso di crescita complessivo sufficientemente elevato. La valutazione dell’equilibrio finanziario del portafoglio di business dell’impresa attraverso la matrice BCG ha il limite di considerare come unica fonte finanziaria disponibile quella prodotta dai business, in altri termini il solo autofinanziamento. Nella realtà, l’impresa può, almeno per un certo periodo di tempo, sostenere un portafoglio complessivamente squilibrato dal punto di vista finanziario, attingendo a fonti esterne di capitale (debito o nuovi apporti di capitale proprio).

Capitolo 7 La pianificazione strategica

235

7.3.2 Le strategie orizzontali L’importanza delle strategie orizzontali Nella valutazione della singola unità di business nella prospettiva dell’intero portafoglio è essenziale considerare le relazioni che essa può stabilire con gli altri business dell’impresa. Occorre, quindi, analizzare le sinergie di cui un determinato business può beneficiare e che esso può a sua volta favorire nel portafoglio di cui è parte. Queste sinergie possono avere un peso decisivo nella posizione competitiva che l’impresa detiene nei mercati in cui è presente. Il loro rilievo è testimoniato dalla circostanza che, non di rado, la scelta di entrare in una certa area di business è giustificata proprio dalla opportunità di sfruttare determinate sinergie con altri business già in portafoglio. Allo stesso modo, una delle principali barriere all’abbandono di un business in sé non particolarmente vantaggioso sono proprio le connessioni che questo ha con altri business in cui l’impresa intende invece rimanere presente. In questi anni, le radicali innovazioni tecnologiche e di mercato occorse in gran parte dei settori hanno fortemente aumentato la diffusione e la rilevazione delle interdipendenze tra business diversi. L’individuazione e lo sfruttamento delle sinergie tra le unità di business è il contenuto delle cosiddette strategie orizzontali. La determinazione delle strategie orizzontali richiede che sia chiarita la natura delle sinergie potenzialmente esistenti. A riguardo, Porter ha indicato tre tipologie di interrelazioni:

L’individuazione e lo sfruttamento delle sinergie tra le unità di business è il contenuto delle cosiddette strategie orizzontali.

1. interrelazioni tangibili; 2. interrelazioni intangibili; 3. interrelazioni con i concorrenti. Le interrelazioni tangibili Le interrelazioni tangibili derivano dalla connessione (potenziale) tra le catene del valore di unità di business diverse. In concreto, sono prodotte dalla condivisione di determinate attività o asset aziendali. Si manifestano principalmente nell’ambito della funzione di approvvigionamento, della funzione produzione e della funzione marketing e vendite. Si individuano anche nelle attività di supporto (amministrazione e controllo, risorse umane) e nello sviluppo della tecnologia, dove, per altro, si possono originare anche interrelazioni di tipo intangibile. Nella Tabella 7.2 sono descritti i fattori che determinano le interrelazioni

Tabella 7.2

Interrelazioni tangibili tra le attività della catena del valore di business diversi

Approvvigionamento

Produzione

Utilizzazione degli stessi input produttivi Utilizzazione degli stessi fornitori

Localizzazione comune Clienti comuni delle linee produttive

Centralizzazione della gestione degli acquisti

Marketing e vendite

Tecnologia

Analoga tecnologia di prodotto Condivisione di fasi Canali Analoga del processo produttivo di distribuzione tecnologia comuni di processo Condivisione Mercato Legami tecnici di attività geografico comune tra prodotti di supporto al processo diversi produttivo

Le interrelazioni tangibili derivano dalla connessione (potenziale) tra le catene del valore di unità di business diverse.

236

Tabella 7.3

Parte I La strategia nel sistema impresa

Le modalità di condivisione tra le attività della catena del valore di business diversi

Approvvigionamento

Produzione

Marketing e vendite

Tecnologia

Supporto

Acquisto input produttivi Sistema logistico interno

Marchio

Ricerca di base

Amministrazione e controllo

Gestione magazzino

Impianti di produzione

Attività promozionali

Progettazione delle innovazioni di processo

Affari legali e relazioni istituzionali

Gestione relazione con i fornitori

Impianti di assemblaggio

Vendita di prodotti “bundled”

Sviluppo delle applicazioni

Gestione risorse umane

Manutenzione

Prezzi incrociati

Progettazione delle interfacce

Programmazione

Controllo qualità

Gestione ordini

Acquisizione delle risorse finanziarie

Canali distributivi e rete vendita Servizi post vendita Analisi di mercato

e nella Tabella 7.3 le modalità concrete di condivisione di attività tra i business in relazione a tali fattori. I vantaggi prodotti dall’implementazione di un’interrelazione tangibile tra diverse aree di business devono essere valutati in relazione ai costi che le interrelazioni possono causare. Si individuano le seguenti tre tipologie di costo: di coordinamento; di compromesso; di rigidità. I primi sono i costi che derivano direttamente dagli interventi anche fisici che occorre attuare per dare concretezza all’interrelazione. I costi di compromesso sono impliciti nel fatto che il collegamento potenziale tra due attività di business diversi non è mai perfetto. La soluzione operativa adottata per sfruttare l’interrelazione rischia facilmente di non essere ottimale per uno o anche per entrambi i business, rispetto a quella che si sarebbe potuto attuare, agendo nella prospettiva di ciascun singolo business. I costi di rigidità sono connessi al legame strategico e operativo che l’interrelazione crea tra i due (o più) business che coinvolge. Questo legame impedisce o rende quantomeno complesso assumere rapidamente le decisioni inerenti la gestione della singola unità di business, poiché occorre considerare gli effetti che tali decisioni producono sulle altre unità che con essa sono correlate. D’altro canto, una scelta che risulta efficace nella prospettiva di un singolo business, potrebbe non esserlo nel quadro più ampio dei due o più business collegati. Le interrelazioni di tipo intangibile riguardano la condivisione e lo scambio di conoscenza tra aree di business diverse.

Le interrelazioni intangibili Le interrelazioni di tipo intangibile riguardano la condivisione e lo scambio di risorse immateriali tra aree di business diverse, in particolare: conoscenza; immagine e reputazione; relazioni.

Capitolo 7 La pianificazione strategica

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Anche nel caso delle interrelazioni intangibili, bisogna confrontare i vantaggi che esse determinano con i costi che ne derivano; in particolare con quelli connessi al trasferimento della conoscenza e alla condivisione delle relazioni. Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre tenere conto sia dei costi in cui incorre l’unità trasferente per diffondere la conoscenza sia di quelli che sostiene l’unità ricevente per acquisire e metabolizzare la conoscenza ricevuta. Ne consegue che il valore della conoscenza trasferita non deve essere considerato in senso oggettivo, ma in funzione della capacità soggettiva del ricevente di acquisirla e utilizzarla in maniera efficace. Per quanto riguarda la condivisione delle relazioni, vanno considerati i possibili problemi di natura organizzativa. Le interrelazioni con i concorrenti Le interrelazioni con i concorrenti si manifestano tra le aree di business in cui l’impresa si confronta con gli stessi rivali. Esse derivano dalla circostanza che le azioni competitive attuate in un business condizionano e sono condizionate da quelle poste in essere nei business dove vi sono gli stessi rivali. Le interrelazioni con i concorrenti possono avere anche origine territoriale, derivare, cioè, dal fatto che in una determinata area di business l’impresa è presente in mercati geografici diversi, dove, almeno in alcuni di questi, si confronta con gli stessi attori. L’individuazione delle interrelazioni con i concorrenti in business diversi è abbastanza agevole (Tabella 7.4). Si considera l’insieme di aree di business che costituiscono il portafoglio strategico dell’impresa e per ciascuno si elencano i rivali con cui l’impresa si confronta. Per i principali tra questi, può anche essere utile indicare la loro quota di mercato relativa a quella dell’impresa. In questo modo è possibile immediatamente osservare le aree di business dove l’impresa si confronta con gli stessi rivali, l’identità di questi ultimi e la loro quota di mercato relativa nelle unità di business interrelate.9 Le interrelazioni con i concorrenti determinano una maggiore complessità del contesto strategico. Può risultare più agevole attuare comportamenti collusivi. Tabella 7.4

Un esempio di rappresentazione delle interrelazioni con i concorrenti Business

Concorrente

Alfa

Uno Due Tre Quattro Cinque Sei Sette Otto

1 0,2 0,6

9

0,5 0,2

Beta

0,3 0,2 0,1 1 4

Delta

Epsilon

1,5 1,9 2

1,1

Gamma

0,7

1,5 0,7

0,4 0,2

2,5 1,3

5

Nell’esempio in tabella, l’impresa ha una posizione relativamente forte nei business Alfa ed Epsilon. In entrambi ha l’impresa “1” come principale concorrente di riferimento; la strategia nei due business può essere “concordata” con tale concorrente.

Le interrelazioni con i concorrenti si manifestano tra le aree di business in cui l’impresa si confronta con gli stessi rivali.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

Questa dinamica appare evidente nel caso di interrelazione territoriale; due concorrenti che si confrontano nella stessa area di business, ma in Paesi diversi, possono trovare un accordo in base al quale uno riconosce all’altro la supremazia in un determinato territorio, in cambio dello stesso riconoscimento da parte del concorrente nel mercato di un altro territorio. È evidente che un accordo di questo genere blocca la concorrenza in entrambi i mercati geografici (almeno per quanto riguarda l’azione dei due attori dell’intesa). Anche la posizione debole che un’impresa ha in una certa area di business può assumere rilievo nel caso in cui questa sia legata ad altri business da una interrelazione rispetto ai concorrenti. Quella posizione può infatti dissuadere azioni aggressive da parte dei concorrenti negli altri business in cui l’impresa ha una posizione di maggiore forza. Va sottolineato che, come in tutte le relazioni strategiche, anche in questo caso le interrelazioni con i concorrenti hanno effetto in funzione del modo in cui sono effettivamente percepite dagli stessi concorrenti.

7.3.3 La strategia verticale L’articolazione della strategia verticale: cenni e rinvio I contenuti della strategia verticale sono stati analizzati nel Capitolo 6 a cui si rimanda per il loro esame. Si ricordano le quattro “aree” in cui possono essere distinte le problematiche relative all’integrazione verticale: 1. determinazione dei confini verticali (a monte e a valle) dell’attività svolta dall’impresa; 2. definizione del modo in cui sono articolati e sviluppati i legami con i soggetti che svolgono attività a monte e a valle di quelle realizzate dall’impresa; 3. individuazione delle fonti di vantaggio competitivo conseguenti integrazione verticale dell’impresa o, al contrario, la de-integrazione verticale; 4. identificazione dei criteri per modificare i confini verticali dell’impresa, attraverso crescita interna, acquisizioni o accordi strategici (forme di “quasi integrazione verticale”).

Le scelte relative all’integrazione verticale e alle relazioni con i fornitori e i distributori che riguardano specificatamente un business devono essere prese anche nella più ampia prospettiva delle connessioni che possono essere sfruttate nell’ambito della dimensione orizzontale del sistema impresa.

La connessione tra strategia verticale e strategia orizzontale Occorre innanzitutto osservare che la strategia verticale è genericamente riferita all’impresa; tuttavia, è evidente che le questioni richiamate sopra possono essere affrontate in maniera concreta solo riguardo alle singole aree di business del portafoglio strategico dell’impresa. Il grado di integrazione verticale, le relazioni con fornitori e distributori, così come le fonti di vantaggio competitivo, sono specifiche della singola area di business e solo in casi particolari possono essere generalizzate in maniera univoca a tutta l’impresa. I contenuti della strategia verticale vanno dunque determinati tenendo conto anche degli sviluppi previsti dalle strategie orizzontali, cioè delle possibili interrelazioni tra i business che si intendono sfruttare. Un certo grado di integrazione verticale può rendere realizzabile e conveniente una determinata strategia orizzontale; viceversa, una certa strategia orizzontale potrebbe richiedere o favorire un determinato livello di verticalizzazione dell’impresa. In sintesi, le scelte relative all’integrazione verticale e alle relazioni con i fornitori e i distributori che riguardano specificatamente un business devono essere

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prese anche nella più ampia prospettiva delle connessioni che possono essere sfruttate nell’ambito della dimensione orizzontale del sistema impresa.

7.3.4 I criteri di allocazione delle risorse L’assegnazione delle risorse richiede una valutazione di convenienza generale ma deve tenere anche conto della necessità di equilibrare le richieste provenienti dai diversi attori aziendali. Questo secondo aspetto rinvia alle condizioni organizzative e di governance nel cui ambito avviene la negoziazione tra le unità responsabili delle varie aree di business, e non viene approfondito in questa sede. La valutazione di convenienza fa riferimento a due criteri essenziali: uno economico, l’altro strategico. Si tratta di due criteri distinti, ma che, almeno nel medio e lungo termine, non possono non convergere verso indicazioni sostanzialmente omogenee. A questo proposito, si sottolinea che dovrebbe sempre essere la convenienza economica di lungo termine il criterio-guida per la scelta dell’entità di risorse da assegnare a una determinata area di business, e per decidere le priorità di allocazione. È infatti il valore economico creato che giustifica l’impiego di un certo ammontare di risorse in una determinata area di business. Il criterio economico richiede, quindi, l’individuazione dei fattori che influenzano la creazione di valore nelle varie aree di business, in particolare i flussi di cassa netti e il rischio. Il criterio economico considera anche la rapidità con cui le risorse impiegate sono reintegrate sotto il profilo finanziario; questa valutazione deve tenere conto anche della durata e del grado di rinnovabilità del capitale finanziario utilizzato. L’allocazione delle risorse deve, quindi, rispettare l’equilibrio temporale tra gli impieghi e le fonti acquisite dall’esterno o generate dalla gestione del business. Per l’approfondimento di queste tematiche, si rinvia alla trattazione specialistica nel Capitolo 10. Il criterio strategico rinvia all’analisi del portafoglio di business dell’impresa, affrontata in precedenza nel corso di questo paragrafo. In linea generale, si osserva che a ciascuna area di business sono assegnate le risorse necessarie affinché essa possa svolgere in maniera idonea il ruolo che le è assegnato nell’ambito della strategia di portafoglio.

L’assegnazione delle risorse è un problema che si risolve su due piani: quello della valutazione della convenienza gestionale e quello della determinazione di un equilibrio tra le parti coinvolte.

criterio economico

criterio strategico

7.3.5 Un rinvio ai problemi organizzativi La distinzione dell’attività d’impresa in aree di business, la determinazione del ruolo che ciascuna di queste aree assume nel quadro della strategia di portafoglio, la conseguente scelta delle risorse da allocare a ciascuna area di business hanno evidenti riflessi sull’assetto organizzativo dell’impresa. Del resto il concetto di area di business ha duplice natura: da un lato strategica, dall’altro, appunto, organizzativa. A un’area di business corrisponde una unità organizzativa che, con certi gradi di autonomia dalla direzione centrale, pianifica e gestisce quel business. Appare allora evidente che alla segmentazione in aree di business, la direzione centrale debba accompagnare una progettazione organizzativa coerente. Questo secondo aspetto è oggetto di specifico approfondimento nel Capitolo 8.

A un’area di business corrisponde una unità organizzativa che, con certi gradi di autonomia dalla direzione centrale, pianifica e gestisce quel business.

240

Parte I La strategia nel sistema impresa

7.3.6 L’orientamento strategico a livello di direzione di divisione La direzione di divisione ha la responsabilità della strategia competitiva per le unità di business che rientrano nel suo ambito di competenze. Essa effettua direttamente l’elaborazione delle strategie delle sue unità di business o collabora e supporta l’elaborazione direttamente svolta dai responsabili di tali unità. In entrambi i casi, la direzione di divisione ha anche il compito di consolidare i piani delle singole unità di business.

La fissazione degli obiettivi dell’unità di business deriva direttamente dalla missione che le è stata assegnata. Sono riferiti ad aspetti sia strategici sia economico-finanziari.

nodi competitivi chiave

La strategia di un’unità di business si manifesta in un insieme di programmi di azione tra loro integrati e complessivamente finalizzati al raggiungimento degli obiettivi assegnati al business.

Gli obiettivi dell’unità di business La fissazione degli obiettivi dell’unità di business deriva direttamente dalla missione che le è stata assegnata. Sono riferiti ad aspetti sia strategici sia economico-finanziari e devono essere tradotti in parametri che ne permettano una misurazione efficace. Alcuni esempi di obiettivi assegnati a un’unità di business possono essere: l’incremento percentuale della quota di mercato; il raggiungimento di determinati livelli di valore della produzione, combinato con una percentuale minima di reddito operativo o di utile ante imposte; l’ampliamento geografico del mercato di riferimento dell’impresa, attraverso il potenziamento della rete distributiva; l’introduzione nel mercato di un certo numero di innovazioni di prodotto; la riduzione delle varie voci di costo secondo determinate percentuali. Obiettivi di tipo più qualitativo possono invece essere: contrastare lo sviluppo nel mercato di specifici concorrenti; sviluppare le interrelazioni con altre aree di business; migliorare il livello di presenza nei mercati esteri; modificare progressivamente il posizionamento percepito dal mercato. Identificazione dei nodi competitivi chiave Vi sono casi in cui la definizione della strategia di business è preceduta dalla identificazione e analisi dei nodi competitivi chiave, essenziali anche per valutare l’adeguatezza delle risorse interne disponibili; la strategia del business è quindi delineata con riferimento a tali nodi competitivi. Alcuni tra gli esempi più evidenti di quelli che qui indichiamo come nodi competitivi chiave possono essere: la riduzione del grado di leva operativa, insieme a una riduzione generalizzata dei costi; l’identificazione di una modalità distributiva innovativa che consenta di stabilire un contatto più diretto con i clienti finali e ridurre il potere negoziale degli attuali distributori; il raggiungimento di una leadership tecnologica che permetta una continua e rapida innovazione dei prodotti offerti; la capacità di sviluppare una rete di alleanze attraverso cui poter controllare tutte le risorse critiche per ottimizzare la competitività sul mercato. La strategia dell’unità di business La strategia di un’unità di business deve essere finalizzata al raggiungimento degli obiettivi assegnati al business stesso, tenuto conto dei nodi competitivi chiave; essa è normalmente articolata nei seguenti contenuti (Figura 7.9): • • • •

strategia strategia strategia strategia

competitiva; di mercato; di produzione; di acquisizione e sviluppo delle risorse.

La strategia competitiva stabilisce la posizione che l’impresa intende raggiungere nel business in questione e le modalità competitive per attuare tale intendimento.

Capitolo 7 La pianificazione strategica

Obiettivi dell'unità di business

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Nodi competitivi chiave

Strategia dell’unità di business

Strategia competitiva generale

Strategia di mercato

Strategia di produzione

Strategia di acquisizione e sviluppo delle risorse

Figura 7.9 L’articolazione della strategia dell’unità di business.

La strategia di mercato stabilisce i segmenti target del mercato e, in questo ambito, il suo grado di internazionalizzazione; definisce anche l’orientamento di marketing e le relative politiche. La strategia di produzione pianifica le attività della struttura produttiva finalizzate alla realizzazione dell’output previsto. Infine, la strategia di acquisizione e sviluppo delle risorse individua il modo in cui rafforzare il patrimonio di risorse – materiali e immateriali – disponibili, in funzione delle esigenze poste dalla dinamica competitiva del business. Infine, vanno stabilite le strategie relative alle attività funzionali svolte all'interno dell’area di business o della divisione; in particolare, quella finanziaria, quella relativa agli approvvigionamenti, alla gestione delle risorse umane, alla gestione finanziaria.

7.3.7 La pianificazione a livello di direzioni di funzione Per semplicità di linguaggio, nell’analisi che segue si utilizzerà il termine direzione funzionale, intendendo quelle direzioni che operano a livello di direzione centrale o, nel caso di gruppi, a livello di corporate. Non si fa, quindi, riferimento alle unità funzionali normalmente esistenti all’interno delle divisioni con il compito di svolgere attività di supporto al business. È importante sottolineare, dunque, che le attività di tipo funzionale possono essere svolte sia a livello di direzione centrale (di corporate) sia di divisione. Al primo livello competono le attività rilevanti nell’attuazione delle linee di indirizzo generale e per la gestione di aspetti importanti per tutto il sistema aziendale. Sono normalmente affidate alla funzione centrale anche le attività che beneficiano di importanti effetti di scala. Nel caso della funzione finanziaria, per esempio, l’emissione di un prestito obbligazionario, o la gestione delle problematiche finanziarie inerenti la realizzazione di investimenti strategici. A livello di direzione di business, sono invece attuate le attività funzionali più direttamente connesse alla gestione operativa del business stesso. Le direzioni funzionali In linea generale, le direzioni funzionali sono le unità organizzative finalizzate allo svolgimento di attività trasversali ai business dell’impresa.

Le direzioni funzionali sono le unità organizzative finalizzate allo svolgimento di attività trasversali alle diverse componenti del sistema impresa.

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Parte I La strategia nel sistema impresa

Queste direzioni possono avere duplice origine: possono derivare dalla concentrazione di determinate attività di supporto della catena del valore delle varie aree di business in cui l’impresa è impegnata; oppure possono nascere come unità ad hoc per la realizzazione di attività specialistiche proprie della direzione centrale. Può facilmente accadere che le due tipologie di direzione funzionale siano di fatto sovrapposte; nei limiti in cui si possano significativamente distinguere le due tipologie di direzione, quelle del primo tipo possono essere: • • • • • •

approvvigionamenti; servizi logistici; gestione del patrimonio immobiliare; amministrazione, finanza e controllo; risorse umane; ricerca e sviluppo.

Quelle del secondo tipo possono essere: • • • • •

pianificazione; affari istituzionali e legali, corporate governance; comunicazione e relazione con il cliente; audit; politiche di sostenibilità.

Per strategia funzionale si intende qui l’insieme di scelte di medio-lungo termine che guidano l’azione delle varie funzioni che a livello centrale supportano lo svolgimento dei business dell’azienda e realizzano attività di rilievo generale. L’orientamento strategico a livello funzionale deve in primo luogo tenere conto del fatto che, in genere, le direzioni funzionali assorbono risorse per lo svolgimento delle loro attività, non producendo direttamente entrate economiche. In diversi casi, tuttavia, le risorse tangibili o intangibili di cui le direzioni funzionali sono dotate possono essere utilizzate anche all’esterno dell’impresa e produrre un reddito. Nell’ambito della gestione della tesoreria, per esempio, la funzione finanziaria può in alcuni momenti disporre di surplus di cassa che, opportunamente investito nel mercato monetario, genera un risultato economico positivo per l’impresa. La funzione risorse umane può direttamente realizzare programmi strutturati di formazione per il personale delle imprese; nel tempo, essa può maturare la capacità di produrre attività formative anche per soggetti esterni, per esempio, gli addetti di fornitori strategici dell’imprese; oppure, di joint ventures di cui essa è parte. Situazioni di questo genere hanno una valenza evidentemente positiva: permettono la più completa utilizzazione delle risorse e delle conoscenze disponibili nelle direzioni funzionali e producono effetti normalmente positivi sul risultato economico. Bisogna però considerare il rischio che proprio la capacità di ottenere ottimi risultati sul mercato distolga l’attenzione della direzione funzionale dalla sua missione primaria; può accadere che essa inizi a “sentirsi” una unità di business, comportandosi di conseguenza. Ne potrebbero derivare rischi anche molto rilevanti per tutto il sistema aziendale. Per contrastare queste problematiche, è frequente che, nell’ambito della direzione funzionale, sia creata una (o più) unità di business con il compito specifico di gestire le attività direttamente generatrici di reddito. Quando queste unità raggiungono elevati volumi di attività e una posizione riconosciuta sul mercato, possono addirittura essere scorporate dalla direzione funzionale di riferimento e divenire una struttura aziendale a sé stante.

Capitolo 7 La pianificazione strategica

Gli obiettivi della strategia funzionale Ciascuna direzione funzionale condivide l’obiettivo generale di garantire le migliori condizioni nel proprio ambito funzionale per supportare, l’attuazione della strategia competitiva dell’impresa, la gestione delle varie aree di business e lo sviluppo sostenibile dell’impresa nel suo complesso. Questa finalità si declina in una serie di obiettivi riferiti specificatamente alla singola funzione. Per esempio, la funzione risorse umane può avere l’obiettivo di raggiungere in un determinato arco temporale una certa percentuale di addetti con formazione universitaria, nel quadro del rafforzamento della qualità delle risorse umane interne. La funzione finanza può avere l’obiettivo di ridurre il costo totale del debito attraverso una rinegoziazione delle condizioni con le banche creditrici o l’ampliamento degli strumenti di finanziamento utilizzati. La funzione approvvigionamenti può perseguire l’obiettivo di razionalizzare il parco fornitori, individuando un numero relativamente limitato di partner con cui progettare programmi di co-sviluppo delle componenti strategiche del prodotto finale dell’impresa. Da questi esempi emerge chiaramente come gli obiettivi specifici delle direzioni funzionali siano sempre finalizzati al miglioramento di aspetti di carattere trasversale a tutta l’impresa. Questo non esclude naturalmente che le direzioni funzionali possano perseguire anche obiettivi più strettamente connessi al loro migliore funzionamento. Per esempio, a tutte le funzioni può essere richiesto di ottimizzare le proprie procedure per aumentarne l’efficienza e ridurre il loro costo generale. Il modo di operare delle direzioni funzionali fa inoltre riferimento alla missione dell’impresa e al suo orientamento strategico generale. In alcune situazioni, proprio la missione o la strategia dell’impresa possono stabilire le finalità delle direzioni funzionali. Per esempio, l’enfasi posta nella missione sullo sviluppo professionale del personale stabilisce per la direzione risorse umane l’obiettivo di porre in essere le condizioni organizzative e le specifiche iniziative volte appunto a favorire la maturazione delle conoscenze degli addetti ai vari livelli aziendali. L’attività delle direzioni funzionali deve inoltre tenere conto delle esigenze derivanti dalle strategie delle unità di business. Gli obiettivi di queste ultime, opportunamente integrati ed eventualmente mediati a livello di direzione centrale, costituiscono un ulteriore riferimento per la determinazione degli obiettivi funzionali. La strategia funzionale La strategia di una direzione funzionale è orientata ad attuare le finalità che le sono attribuite a livello centrale e a soddisfare le esigenze manifestate dalle unità di business. Sul piano logico, il processo di elaborazione della strategia funzionale è analogo a quello osservato con riferimento all’area di business. Sulla base degli obiettivi fissati, sono considerate le risorse interne disponibili e l’insieme di vincoli/opportunità esterni rilevanti per lo svolgimento delle attività funzionali. Nei limiti delle informazioni acquisibili a riguardo, sono considerati anche i comportamenti dei concorrenti di riferimento e dei leader di mercato. Questo al fine di individuare le procedure migliori, attraverso l’applicazione di opportune metodologie di benchmarking. L’analisi delle condizioni interne ed esterne relativamente alle attività funzionali è anche volta a valutare il grado di specializzazione che l’impresa raggiunge nello svolgimento di tali attività rispetto ai concorrenti e gli effetti che ne derivano sulla posizione competitiva in termini di costi e di qualità dell’offerta. Questa analisi è fondamentale anche per individuare le attività funzionali che può risultare conveniente affidare a soggetti esterni specializzati.

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Gli obiettivi specifici delle direzioni funzionali sono sempre finalizzati al miglioramento di aspetti di carattere trasversale a tutta l’impresa.

La strategia di una direzione funzionale è orientata ad attuare le finalità che le sono attribuite a livello centrale e a soddisfare le esigenze manifestate dalle unità di business.

Parte I La strategia nel sistema impresa

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Sintesi La pianificazione strategica formalizza l’orientamento strategico che unifica e indirizza le decisioni aziendali di medio-lungo termine. Nel capitolo è spiegato il legame concettuale tra pianificazione e strategia e le funzioni concretamente attribuibili dalla prima. Sono poi analizzate le fasi che portano alla redazione del piano strategico e le diverse attività operative che vengono intraprese nell’ambito al duplice livello di pianificazione: direzione centrale e direzione di business. Sulla base della discussione dei limiti teorici e pratici del tradizionale approccio alla pianificazione strategica, sono sinteticamente presentati il metodo dello strategic thinking e dello scenario planning. Nella seconda parte, il capitolo presenta in modo dettagliato i contenuti della pianificazione, distinguendo quelli normalmente elaborati dalla direzione centrale (generale) dell’impresa e quelli a livello di divisione, area di business e funzione. In particolare, sono discusse le “condizioni di fondo” quali visione, missione, sistema dei valori, analisi del contesto competitivo e interno, con i rimandi ai precedenti capitoli in cui tali tematiche sono trattate. Successivamente, il capitolo tratta i contenuti dell’”orientamento strategico” oggetto della pianificazione, soffermandosi sulla strategia di portafoglio, le strategie orizzontali e i contenuti tipici della strategia a livello di area di business e di funzione.

Domande ed esercizi Domande di verifica 1. 2.

3. 4. 5.

6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.

14. 15.

Come si innesta e quali effetti la pianificazione produce sul processo di elaborazione della strategia? Come si può coniugare l’esigenza di flessibilità e rapidità rispetto al cambiamento che caratterizza l’impresa moderna con la predisposizione di un piano strategico? Quali sono le criticità organizzative nell’attività di pianificazione? Come si collegano le decisioni pianificate a livello corporate con le scelte a livello di area di business? Descrivere un esempio di connessione tra scelta relativa all’integrazione verticale e sfruttamento delle interrelazioni tra i business. Che cosa si intende per pianificazione di lungo termine? In che cosa consiste la natura circolare e iterativa del processo di pianificazione? Cos’è una ASA? Descrivere l’articolazione del processo di pianificazione. Descrivere i contenuti tipici di un piano strategico. Illustrare i concetti di vision e di mission e il loro legame logico. Illustrare alcuni possibili obiettivi strategici delle direzioni funzionali. Indicare i temi principali su cui si articola l’orientamento strategico definito a livello di direzione centrale. Illustrare la natura delle interrelazioni tangibili. Spiegare l’articolazione della strategia a livello di unità di business.

Test a risposta multipla 1.

Uno strumento analitico per individuare le unità di business dell’impresa è: □ a. l’analisi SWOT. □ b. la matrice di Abell. □ c. la griglia della Boston Consulting Group.

2.

I costi di compromesso derivano: □ a. dalla non perfetta interconnessione tra due unità di business. □ b. dalla rigidità dei legami strategici. □ c. dai vincoli contrattuali che l’impresa ha con i fornitori.

3.

Quale dei seguenti fattori non è utilizzato dalla matrice BCG? □ a. Fatturato delle unità di business. □ b. Tasso di crescita della domanda. □ c. Tasso di crescita dell’offerta.

4.

Una strategia può essere esplicitata attraverso: □ a. il piano strategico. □ b. la pianificazione strategica. □ c. l’attività di budgeting.

5.

Quale dei seguenti elementi non fa parte del piano strategico? □ a. Strategie emergenti. □ b. Scenari. □ c. Obiettivi e target attesi.

Capitolo 7 La pianificazione strategica

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Sul sito www.ateneonline.it/n/fontana5e sono disponibili le soluzioni e il test interattivo

L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

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Franco Fontana, Luca Giustiniano Gli obiettivi del capitolo Questo capitolo illustra come l’attuazione delle strategie d’impresa ai vari livelli (Corporate, business, funzioni aziendali) richieda l’adozione di un sistema organizzativo aziendale in grado di fornire risposte competitive alle azioni dei concorrenti e alle trasformazioni delle strutture settoriali. I sistemi organizzativi possono essere letti anche come entità sociali, in quanto costituite da persone; il presente contributo valorizza anche il ruolo distintivo che le risorse umane tendono sempre più ad assumere nel percorso di implementazione. Il capitolo si apre con la definizione del sistema organizzativo aziendale, l’analisi delle sue componenti e l’evidenziazione della sua valenza di vantaggio competitivo. Si passa poi all’illustrazione degli aspetti generali della progettazione organizzativa, considerata come parte integrante del processo di formulazione della strategia complessiva. Il Paragrafo 8.2 illustra i principali modelli organizzativi, mentre il Paragrafo 8.3 descrive le forme reticolari. Nel Paragrafo 8.4 si prendono in esame le possibili soluzioni organizzative al problema della condivisione delle attività e dello sfruttamento delle interrelazioni tangibili e intangibili tra i vari business, analizzandone sia le soluzioni strutturali sia i sistemi operativi. Il Paragrafo 8.5 si concentra in dettaglio sulle alternative organizzative per l’implementazione delle strategie di diversificazione. Il capitolo si chiude, infine, con l’illustrazione di alcuni aspetti legati alla gestione del capitale umano strumentali all’implementazione delle strategie.

8.1 I sistemi organizzativi aziendali, la progettazione organizzativa, il capitale umano e il vantaggio competitivo 8.1.1 Il sistema organizzativo aziendale come base per il vantaggio competitivo Il sistema organizzativo aziendale esprime un modello di interpretazione delle imprese secondo una prospettiva sistemica, prendendone in considerazione i principali aspetti fondamentali: quello strutturale, quello umano, quello gestionale e quello tecnologico.1 1

Per una maggiore comprensione del concetto di sistema organizzativo aziendale si rinvia a Fontana F. (1997).

Il sistema organizzativo aziendale consente di interpretare le imprese secondo una prospettiva sistemica, prendendone in considerazione i principali aspetti fondamentali: quello strutturale, quello umano, quello gestionale e quello tecnologico.

248

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Il sistema organizzativo aziendale è la risultante dell’interazione dinamica tra i seguenti elementi: • • • • •

Il sistema organizzativo costituisce esso stesso una fonte di vantaggio competitivo.

strategie e orientamenti di fondo; strutture e ruoli (variabili organizzative hard: macrostruttura e organizzazione del lavoro); risorse umane (e politiche del personale); meccanismi operativi (o sistemi operativi);2 tecnologie.

La continua interazione viene garantita dalle interdipendenze reciproche tra i vari elementi, che alimentano un vero e proprio tessuto organizzativo a cui è possibile ricondurre anche quelle variabili organizzative di tipo soft, quali la cultura organizzativa, che permeano indistintamente l’intero sistema organizzativo aziendale. L’allineamento tra gli assetti strategici e le strutture organizzative, tra le strategie di sviluppo delle competenze e le caratteristiche del tessuto organizzativo, consente alle imprese di mantenere in continua evoluzione i sistemi organizzativi (cambiamento organizzativo). Affinché tale allineamento possa contribuire all’implementazione delle strategie, esso deve bilanciare gli obiettivi (orientamento strategico di fondo) e le esigenze di flessibilità. Il verificarsi di queste condizioni fa sì che il sistema organizzativo costituisca esso stesso una fonte di vantaggio competitivo. Esso costituisce, infatti, il terreno nel quale si sviluppano, si integrano e si rinnovano le routine organizzative. Tale terreno è quello dove le strategie trovano la loro formazione attraverso l’implementazione delle scelte deliberate, e la fertilizzazione e la valorizzazione delle risposte competitive emergenti.3

8.1.2 Il percorso strategico e organizzativo per la formazione delle strategie

La condotta strategica scaturisce dalla combinazione di quella parte di strategia intenzionale o concepita che l’impresa riesce a realizzare, con le strategie non intenzionali, implicite, emergenti dal sistema organizzativo.

La formazione della strategia comprende l’intero processo che fluisce gradualmente dalle strategie intenzionali a quelle realizzate. In tal senso, «... tutte le strategie avanzano su due piedi, uno derivato dalle scelte deliberate e un altro derivato dalle strategie emergenti» (Mintzberg, 1987). La condotta strategica, ovvero il processo di formazione della strategia che va via via realizzandosi, scaturisce pertanto dalla combinazione di quella parte di strategia intenzionale o concepita – decisa ed esplicitata (deliberata) – che l’impresa riesce a realizzare, con le strategie non intenzionali, implicite, emergenti dal sistema organizzativo (Rispoli, 1989). Il divario tra la strategia concepita e quella realizzata è dovuto all’effetto combinato di quella parte di strategia che viene rimossa o non attuata – in ragione del manifestarsi di circostanze sfavorevoli non previste – e delle strategie emergenti dall’organizzazione.

2

I meccanismi operativi esprimono i tre momenti fondamentali del sistema di attività aziendale: informativo, decisionale, operativo; l’insieme dei sotto-sistemi strutturati che alimentano il sistema di attività aziendale costituisce i meccanismi operativi aziendali (per esempio sistema informativo aziendale, sistema decisionale, sistema delle procedure). Per una trattazione più approfondita si veda Fontana F. (1988); Airoldi G. (1980). 3 Si veda il Capitolo 4.

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

La strategia intenzionale può essere considerata come l’assunzione da parte del soggetto strategico di un disegno di sviluppo dell’impresa, fondato su obiettivi generali e su un ventaglio di opzioni strategiche, che vengono specificate man mano che si realizzano le condizioni assunte come ipotesi. Tuttavia, l’intenzione strategica non viene totalmente metabolizzata nella strategia decisa e formalizzata nei processi di pianificazione strategica. Alcune opzioni strategiche, infatti, possono essere rimosse a causa dei processi di negoziazione nella coalizione strategica (per esempio il Consiglio d’amministrazione), della verifica di aspettative dimostratesi infondate, della valutazione dei rischi, anche in relazione ai limiti della base di risorse. Tuttavia, le opzioni abbandonate non vengono necessariamente rimosse, in quanto esse possono essere reintrodotte nel processo di formulazione delle strategie in un momento futuro, qualora si verifichino le condizioni esterne che ne fanno intravedere una possibile realizzazione. La strategia decisa e pianificata difficilmente viene completamente realizzata (strategia non attuata), in ragione delle carenti condizioni organizzative o per il realizzarsi di nuovi scenari esterni rispetto a quelli prefigurati, soprattutto in assenza di meccanismi di controllo strategico (Goold, Quinn 1990). Nella formazione delle scelte strategiche (Figura 8.1), le scelte deliberate e quelle emergenti si intrecciano in un processo unitario che confluisce verso la realizzazione della strategia, al punto da renderle non separabili, se non per scopi analitici. Inoltre, la predisposizione (ex ante) da parte del soggetto strategico delle condizioni che favoriscono lo sviluppo di linee di azione dal sistema organizzativo porta a configurare le strategie spontanee come strategie intenzionalmente emergenti (Mintzberg, 1987). L’efficacia del processo di formazione della strategia è condizionata dall’apprendimento organizzativo, che ne costituisce la base per la formazione delle capacità distintive dell’impresa. L’apprendimento organizzativo, infatti, allarga le capacità cognitive dell’organizzazione, arricchendo il repertorio di schemi concettuali che consentono la lettura anticipata delle tendenze significative negli ambiti competitivi pertinenti, nella loro valenza di minacce e opportunità.

strategia intenzionale

strategia decisa

La strategia decisa e pianificata difficilmente viene completamente realizzata. strategia non attuata

strategie intenzionalmente emergenti

Parte non attuata

Intenzione strategica

Strategia decisa

Parte rimossa o abbandonata

Strategia realizzata

Strategia emergente

249

Figura 8.1 La formazione della strategia.

250

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Esperienza

Evoluzioni nelle strategie e nell’organizzazione dei grandi gruppi industriali italiani dagli anni ’80 a oggi Alla metà degli anni ’80 diversi gruppi industriali hanno avviato profondi cambiamenti dei loro assetti strategici e organizzativi, tesi a rafforzare l’autonomia delle Divisioni/Business Units/Società operative per renderle più flessibili e reattive in termini di rapidità di risposta ai cambiamenti del quadro competitivo. Contestualmente è stata perseguita una maggiore integrazione tra le strategie di Corporate e quelle di business nell’ambito delle strategie complessive delle imprese. Il ruolo del vertice e delle unità organizzative centralizzate Corporate è divenuto meno interventista, lasciando più spazio alle Divisioni di ricercare con autonomia le opportunità di attivazione delle interrelazioni sinergiche. I cambiamenti organizzativi sono stati realizzati in una prospettiva di semplificazione delle strutture organizzative e dei sistemi di pianificazione e controllo. Spesso sono stati eliminati alcuni livelli organizzativi intermedi, come quello di settore (raggruppamento di Divisioni industry-specific), semplificate le procedure formali di pianificazione strategica e i sistemi di controllo economico-finanziario sono stati resi più flessibili. Anche le strutture di Corporate sono state semplificate e ridotte di dimensione. Esse hanno assunto il ruolo preminente di promotori del cambiamento organizzativo e di mantenimento della coesione del gruppo (per esempio, garanzia della Corporate identity). Inoltre, al giorno d’oggi, l’alta direzione e le strutture di Corporate tendono a esercitare, con maggiore evidenza, la funzione di integrazione flessibile, per ricondurre a unità strategica la frammentazione divisionale attraverso lo sviluppo di una visione unificata e la diffusione di una cultura organizzativa aggregante. La ricerca della vicinanza strategica o comunque di una logica dominante tra le diverse Business Units costituisce la base per favorire la coesione complessiva e la promozione di rapporti sinergici tra le Divisioni. Il comitato strategico di gruppo ha assunto il ruolo di verifica delle strategie di business e di formulazione delle strategie di Corporate e di sostegno all’implementazione della strategia complessiva dell’impresa, lasciando alle relazioni dirette, anche informali, le funzioni di coordinamento precedentemente affidate alle strutture ad hoc o ai meccanismi formali di pianificazione e controllo. L’utilizzo sempre più esteso dei team specialistici e di quelli interfunzionali, nonché lo sviluppo delle community interne aziendali, ha contribuito ad abbattere gli steccati funzionali e quelli divisionali, rendendo i sistemi organizzativi più flessibili e facilitando il trasferimento delle competenze e delle intuizioni tecnologiche e gestionali. L’attenzione dominante alla creazione di valore per gli azionisti, dietro le sollecitazioni provenienti dalle valutazioni dei mercati finanziari, ha contribuito a rafforzare la prospettiva di breve periodo, che si manifesta con l’accorciamento del tempo di permanenza degli amministratori delegati alla guida delle imprese. Inoltre, la crisi finanziaria globale emersa dal 2008 ha enfatizzato e riproposto il problema classico di come coniugare la prospettiva di breve periodo, con lo sfruttamento efficiente delle risorse e competenze, con quella di lungo periodo per assicurare nel contempo la competitività futura. In tale scenario anche gli strumenti di incentivazione agganciati al valore dei titoli azionari (quali le stock option, pur molto in voga negli anni ’90-2000) ha mostrato notevoli limiti di indirizzo dell’azione dei manager e di salvaguardia reale degli interessi degli azionisti. Alla luce delle problematiche emerse, alla progettazione organizzativa da un lato e allo sviluppo della prospettiva finanziaria delle strategie dall’altro, viene assegnata sempre più la funzione di armonizzare l’efficienza di breve periodo con la prospettiva competitiva e di creazione del valore nel lungo periodo.

8.1.3 La progettazione organizzativa e la sostenibilità del vantaggio competitivo Lo scollamento tra la formulazione delle strategie e la progettazione organizzativa, può vanificare gli effetti dei vantaggi competitivi acquisiti.

La resource-based view ha ricondotto l’attenzione delle risorse interne come fonte di vantaggio competitivo, facendo emergere l’esigenza di una progettazione organizzativa inserita nel processo di formulazione della strategia complessiva e allargata all’insieme delle variabili che costituiscono il sistema organizzativo. Lo scollamento tra la formulazione delle strategie e la progettazione organizzativa, infatti, può vanificare gli effetti dei vantaggi competitivi acquisiti. In tal senso,

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

251

Strumenti

La teoria Gerarchia e Mercato La scelta delle forme di organizzazione delle attività economiche può essere analizzata nella prospettiva economica dell’organizzazione facendo riferimento al contributo di Williamson (1975). La Teoria dei Costi di Transazione (o Teoria Gerarchia e Mercato) adotta come base analitica per la valutazione delle alternative di organizzazione i costi di transazione (Coase, 1937), considerati come i costi sostenuti per le operazioni poste in essere dall’impresa per reperire sul mercato un bene o un servizio. I costi di transazione derivano da fattori umani (opportunismo degli scambisti e razionalità limitata) e ambientali (ridotto numero di scambisti e incertezza) e giustificano lo sviluppo delle forme gerarchiche (organizzative) per lo svolgimento delle transazioni, a seguito dei fallimenti del mercato. Tali costi si manifestano ex ante (preparazione e realizzazione della transazione) ed ex post (controllo della transazione). I costi di transazione sono influenzati da alcune caratteristiche condizioni in cui si svolgono le transazioni, in particolare dal volume e dalla frequenza degli scambi, dalla specificità degli investimenti e dall’incertezza. L’elevato volume di transazioni non ricorrenti con una molteplicità di attori induce una continua attività di contrattazione, di rinegoziazione e di controllo, che innalza i costi di transazione e stimola il ricorso a forme gerarchiche. Al contrario, le transazioni ricorrenti tra le stesse parti, per un lungo periodo di tempo, possono essere svolte in modo efficiente nel mercato per la possibilità di introdurre modalità di conduzione degli scambi a basso costo. La specificità degli investimenti si riferisce alla situazione nella quale i partner dello scambio di beni hanno compiuto un investimento specificamente orientato alle caratteristiche della transazione (investimento dedicato o transaction specific), come nel caso di un acquirente che ha adattato gli impianti alle caratteristiche di una materia prima o di un componente distribuiti da un solo fornitore. La specificità degli investimenti determina una relazione idiosincratica, che può essere soggetta al comportamento opportunistico di uno degli attori e al rischio di rigidità per l’acquirente. La specificità degli investimenti può riguardare i beni fisici, il capitale umano e la localizzazione. L’incertezza riguarda condizioni, in cui si svolgerà la transazione, che rendono difficoltoso regolamentare contrattualmente gli obblighi delle parti, le quali saranno indotte a continue negoziazioni e controlli per adeguare le transazioni alle mutate condizioni. La specificità degli investimenti e l’incertezza, in presenza di opportunismo delle parti e di elevato volume delle transazioni, costituiscono le determinanti fondamentali del fallimento del mercato e perciò del ricorso a forme di gestione più o meno gerarchiche (forme organizzative). Tuttavia, l’esistenza di elevati costi di transazione sui mercati di riferimento non basta a spostare la convenienza verso l’adozione di soluzioni di organizzazione interna (gerarchia). I costi di uso del mercato (costi di transazione) devono, infatti, essere comparati con i costi organizzativi connessi all’alternativa dell’integrazione (costi interni di coordinamento) a parità di costo di produzione nelle due alternative di organizzazione delle transazioni. La teoria dei costi di transazione introduce, perciò, nella valutazione delle alternative mercato-integrazione i costi di transazione-organizzazione, i costi di produzione interna-prezzi di acquisto e i costi di cambiamento per passare da un’alternativa all’altra. Secondo la Teoria Gerarchia e Mercato, l’obiettivo di ridurre i costi di transazione rappresenta il fattore che principalmente concorre a determinare la scelta di integrazione gerarchica delle attività in alternativa alle transizioni di mercato. Allo stesso modo, la teoria spiega come la crescita delle organizzazioni favorisca il ricorso a forme di integrazione gerarchica meno marcata (quasi-mercato: forme reticolari). Il continuo confronto tra i costi di transazione e quelli connessi all’organizzazione spiega quindi il problema della scelta della forma organizzativa da adottare, in virtù del bilanciamento dei fattori mercato-organizzazione, facendo riferimento a una moltitudine di alternative che vanno dalla gerarchia assoluta (forma di impresa semplice) al mercato passando per continuum di forme intermedie: forma funzionale (U-form); divisionale o multivisionale (M-Form); forma a Holding (H-form), forme reticolari (N-form).

252

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

scelta di un modello di struttura

la vitalità del tessuto organizzativo, intesa come capacità di favorire il trasferimento e la ricomposizione di competenze diverse, è alla base del conseguimento di vantaggi competitivi sostenibili, mettendo le imprese al riparo dai fenomeni di erosione interna e dalle azioni imitative da parte dei concorrenti. Tra le dimensioni del sistema organizzativo aziendale, la struttura organizzativa (macrostruttura) rappresenta l’elemento che maggiormente si caratterizza per la valenza di vantaggio competitivo. Tale valenza assume una connotazione positiva quando la struttura organizzativa contribuisce allo sviluppo e al mantenimento dei fattori critici di successo dei business; al contrario, assume una connotazione negativa quando l’assetto strutturale dell’impresa risulta inadeguato rispetto alle evoluzioni del contesto competitivo o non sia più espressione dei fattori critici di successo, compromettendo le condizioni di reattività e competitività dell’impresa. La progettazione organizzativa non si risolve però nella sola scelta di un modello di struttura tra una varietà di tipi disponibili; al contrario, è necessario combinare le variabili organizzative con riferimento alle specificità del contesto competitivo e allo sviluppo della base di risorse dell’impresa, per neutralizzare le minacce e per cogliere nuove opportunità nel futuro. Come si vedrà nel prosieguo di questo capitolo, la progettazione organizzativa risolve l’esigenza di mantenere un dinamico equilibrio fra trade-off tipici della gestione strategica delle organizzazioni: tra innovazione e stabilità organizzativa, tra autonomia divisionale e coordinamento centrale, tra diversificazione e ricerca di sinergie nelle interrelazioni, tra strategie di Corporate e strategie di business (Ghoshal S., Mintzberg, 1994).

8.1.4 Le strategie e le risorse umane

La considerazione dell’organizzazione come un’entità in grado di apprendere e di trasformarsi attraverso l’azione di una pluralità di soggetti (interni ed esterni) impone l’adozione di un approccio evolutivo nella identificazione del contributo delle risorse umane alla formazione delle strategie.

Tra gli elementi che compongono il sistema organizzativo aziendale, le persone stanno assumendo un ruolo sempre più critico rispetto all’implementazione delle strategie, alimentando il filone di studi dedicato alla gestione strategica delle risorse umane. Tali studi prendono le mosse dal superamento dell’approccio lineare (o sequenziale) Strategia → Struttura → Gestione delle risorse umane che, similmente a quanto previsto dal rapporto Struttura → Condotta → Performance di ispirazione Chandleriana,4 considerava il sistema organizzativo, e conseguentemente anche le persone, come mero strumento per la realizzazione delle strategie di impresa. La considerazione dell’organizzazione come un’entità in grado di apprendere e di trasformarsi attraverso l’azione di una pluralità di soggetti (interni ed esterni) impone l’adozione di un approccio evolutivo alla formazione delle strategie.5 L’adozione di un approccio evolutivo implica che la relazione tra strategia e struttura risenta anche dell’insieme di regole, convenzioni e sistemi di sanzioni che regolano le relazioni tra gli attori (ambiente interno), come pure del più generale contesto sociale, istituzionale e politico di riferimento (ambiente esterno).6 L’influenza reciproca che le strategie, le strutture organizzative e le risorse umane manifestano tra di loro si avvicina all’interpretazione delle organizzazioni come entità sociali, in quanto composte da persone, e alla formazione delle stra-

4

Si veda quanto già detto nel Capitolo 4. In tal senso si veda il lavoro di Costa G., Giannecchini M. (2005). 6 Ibidem. 5

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

Strategia degli attori

Strategia

Struttura di governo delle transazioni

Struttura

Gestione delle risorse

Ambiente

tegie come la risultante di strategie individuali degli attori (orientati alla massimizzazione dei propri interessi); in tal senso, il ruolo della progettazione organizzativa risiede nel far convergere verso un’azione collettiva finalizzata il comportamento organizzativo messo in atto dai singoli individui (Figura 8.2).

Figura 8.2 L’approccio evolutivo nella relazione tra strategie, organizzazione e risorse umane. Il ruolo della progettazione organizzativa risiede nel far convergere verso un’azione collettiva finalizzata il comportamento organizzativo messo in atto dai singoli individui.

8.2 La progettazione organizzativa: aspetti generali La valenza di vantaggio competitivo del sistema organizzativo aziendale, in particolare dei suoi assetti strutturali, pone un problema di progettazione che prende le mosse da: • •

253

definizione di criteri e principi che possono ispirare la scelta del modello organizzativo, in ragione delle caratteristiche proprie dell’impresa, delle strategie adottate e dei settori in cui opera; individuazione dei possibili percorsi di evoluzione della struttura organizzativa (dinamica della struttura), in ragione dei cambiamenti che intervengono nel contesto competitivo e nelle risposte strategiche e operative che l’impresa intende sviluppare.

La progettazione organizzativa, finalizzata alla realizzazione di una struttura che risulti congruente con le esigenze strategiche dell’impresa, non si esaurisce nella scelta di un modello organizzativo di riferimento (funzionale, divisionale), ma si sviluppa attraverso un processo che impone continue modifiche e correttivi organizzativi in ragione delle dinamiche interne (crescita dimensionale, diversificazione strategica, evoluzione tecnologica) e delle influenze dell’ambiente esterno (turbolenza ambientale, crisi di mercato). In primis, quindi, vale la considerazione che da un numero limitato di modelli-tipo (di seguito descritti) sia possibile ottenere infinite strutture organizzative, in ragione delle caratteristiche e delle esigenze aziendali. In secondo luogo, poiché ogni modello-tipo presenta vantaggi e svantaggi, costi e benefici, la progettazione organizzativa deve ricondurre a condizioni di equilibrio, un delicato dedalo di trade-off. Infine, sebbene si concretizzi nello sviluppo di strutture organizzative apparentemente statiche, la progettazione organizzativa deve intendersi come un fenomeno intrinsecamente dinamico che passa anche attraverso la definizione della struttura organizzativa, dei mec-

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

254

canismi di coordinamento e dei meccanismi operativi che possono rappresentare fattori critici di successo nell’implementazione delle scelte strategiche. Laddove, infatti, i sistemi organizzativi non siano dinamicamente allineati agli assetti strategici dell’impresa (evoluzione temporale di strategie e strutture), possono emergere quei fenomeni di degradazione organizzativa che rende l’impresa sempre più impreparata a reagire agli stimoli esterni ed esposta alla crescita dei costi gestionali interni (costi organizzativi).

8.2.1 La struttura strategica, le strategie e la progettazione organizzativa Gli studi di strategia hanno evidenziato come la progettazione della struttura organizzativa costituisca parte integrante della pianificazione strategica,7 cioè lo stadio terminale di un articolato processo nel quale è possibile individuare alcune fasi significative di seguito analizzate. Nella prospettiva del conseguimento di un vantaggio competitivo sostenibile, la progettazione organizzativa prende le mosse dall’analisi strategica condotta: • a livello Corporate, mediante la struttura strategica dell’impresa, intesa come architettura delle unità di business (Strategic Business Unit, SBU); • a livello di business, evidenziando per ciascuna SBU il quadro competitivo e il relativo posizionamento, con la definizione delle conseguenti risposte strategiche.

core business

business cerniera business captive

La struttura strategica descrive l’insieme delle unità di business in cui opera l’azienda, indagate nei rispettivi fattori critici di successo e vantaggi competitivi e nelle loro interrelazioni (strategiche) rilevanti.8 Le Strategic Business Unit (SBU) devono essere definite a un livello di aggregazione significativo per l’individuazione di strategie selettive, per la progettazione organizzativa e dei meccanismi di controllo (strategico, organizzativo e di gestione). Nell’ambito della struttura strategica è possibile individuare alcune tipologie di SBU, particolarmente rilevanti per la progettazione organizzativa; nello specifico: • core business: è costituito dall’unità di business che meglio delle altre riflette la mission, o da quella che si caratterizza per la maggiore dimensione o per il più elevato contributo alla redditività aziendale; • business cerniera: presenta le maggiori interrelazioni (soprattutto tangibili e intangibili) con gli altri business della struttura strategica; • business captive: si rivolge, in via esclusiva o prevalente, a un mercato “interno” (intra-aziendale, intra-gruppo), avendo come clienti le altre SBU aziendali. L’analisi delle interrelazioni tra le unità di business della struttura strategica aziendale, lungo le diverse fasi delle relative catene del valore, consente di individuare ulteriori fonti di vantaggio competitivo. Le strategie orizzontali elaborate a livello di Corporate, che attraversano le frontiere delle SBU e quelle intra-organizzative (tipicamente inter-divisionali), stimolano la costituzione di unità centrali a livello Corporate nelle imprese divisionali, a holding e matriciali (nella forma di Direzioni Centrali), nonché il ricorso a soluzioni matriciali e meccanismi operativi di coordinamento. 7

Si vedano il Capitolo 4 e il Capitolo 6. In tal ambito si considerano le interrelazioni considerate per le strategie orizzontali. Si veda il Capitolo 7.

8

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

255

I bisogni strutturali che emergono dall’analisi strategica (in termini di coordinamento, integrazione, relazioni gerarchiche e funzionali) orientano le scelte di progettazione organizzativa che si traducono nei seguenti aspetti: • • •

individuazione delle diverse combinazioni di caratteristiche organizzative, funzionali ai fabbisogni di comportamenti strategici e operativi del sistema aziendale; definizione della forma organizzativa capace di esprimere tali caratteristiche, facendo riferimento a un ventaglio di modelli-tipo; analisi delle interazioni tra la struttura organizzativa con gli altri aspetti del sistema organizzativo aziendale, al fine di agevolare l’efficace implementazione e la funzionalità della struttura organizzativa definita.

In prima battuta il nesso tra analisi strategica e progettazione organizzativa può risultare di tipo lineare: variazione strategia → struttura. Tuttavia, il superamento dell’approccio causale strategia-struttura riconosce nel tessuto organizzativo il luogo in cui, tramite l’apprendimento organizzativo, si accumulano e si fertilizzano le competenze derivanti dall’esperienza;9 tali competenze, oltre ad alimentare il processo di formulazione delle strategie deliberate (consapevoli), consentono l’emergere spontaneo di linee di azione (strategie emergenti) in grado di fronteggiare i mutamenti che intervengono negli ambiti competitivi di pertinenza. Inoltre, le strategie emergenti, o spontanee, svolgono anche la funzione di favorire l’implementazione delle scelte strategiche formalizzate e dei cambiamenti radicali che ne possono derivare. Per tali ragioni le organizzazioni tendono a predisporre, in sede di progettazione organizzativa, le condizioni che consentono la crescita, il riconoscimento e la legittimazione delle future risposte strategiche (strategie deliberatamente emergenti). In tal senso, le risposte strategiche possono essere considerate come la risultante dell’intreccio delle scelte deliberate con le strategie spontanee. Nella prospettiva dell’analisi organizzativa, le strategie programmate e quelle spontanee costituiscono i punti di partenza e di arrivo di un flusso decisionale, che attraversa il sistema organizzativo aziendale, cui attingono le strategie che si realizzano in concreto nell’arco di tempo delineato in fase di pianificazione.

individuazione delle diverse combinazioni di caratteristiche organizzative definizione della forma organizzativa capace di esprimere tali caratteristiche analisi delle interazioni tra la struttura organizzativa con gli altri aspetti del sistema organizzativo aziendale

Le risposte strategiche possono essere considerate come la risultante dell’intreccio delle scelte deliberate con le strategie spontanee.

8.2.2 La progettazione della struttura organizzativa La struttura organizzativa si compone di unità organizzative. Ogni unità organizzativa sottende il raggruppamento delle attività dell’impresa in aree di attività e responsabilità circoscritte; in genere, ogni unità organizzativa si caratterizza per la presenza di un insieme di individui (organico) coordinati da un responsabile diretto (capo) e per una determinata collocazione nell’ambito della gerarchia aziendale (posizione organizzativa). La struttura organizzativa viene rappresentata nell’organigramma, che evidenzia i livelli gerarchici su cui essa si articola e che esplicita i rapporti di dipendenza formale esistenti tra le posizioni organizzative. L’analisi della struttura organizzativa viene condotta in senso verticale, quando si evidenziano i rapporti di dipendenza gerarchica e l’ampiezza di controllo (span of control) dei capi diretti (manager). L’analisi orizzontale della struttura, invece, tende a concen9

Si veda il Capitolo 4.

La struttura organizzativa definisce il raggruppamento delle attività dell’impresa in posizioni organizzative, laddove ogni posizione si caratterizza per un’unità organizzativa, ossia per un insieme di individui (organico) coordinati da un responsabile diretto (capo) e per una determinata collocazione nell’ambito della gerarchia aziendale. organigramma

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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trarsi sulle esigenze di comunicazione, integrazione e coordinamento tra le diverse unità organizzative. L’implementazione efficace delle strategie orizzontali e di quelle di business implica il bilanciamento tra dimensione verticale (gerarchia) e quella orizzontale (coordinamento) dell’assetto strutturale. In fase di progettazione la scelta del modello di struttura organizzativa dipende da una serie di variabili interne ed esterne con le quali il sistema organizzativo deve essere in tendenziale equilibrio (Fontana, 1997): dimensione aziendale



situazioni prodotti-mercati



tecnologia



struttura e dinamica dell’ambiente



strategie adottate



dimensione aziendale, intesa come il volume di risorse da gestire (organico del personale, mezzi di produzione, materie prime, prodotti, finanziamenti, ampiezza dei mercati, clientela); situazione prodotti-mercati (Ansoff, 1979), che esprime il peso dei singoli prodotti, in termini di volumi di vendita e di produzione, di occupazione, di impegno organizzativo, oltre che delle interrelazioni tra i prodotti stessi, a livello di mercato, produzione e sviluppo della tecnologia; tecnologia, ossia il contenuto tecnologico dei vari prodotti/servizi, con particolare riferimento all’organizzazione del lavoro nei processi produttivi e alle spinte di sviluppo tecnologico a cui il sistema organizzativo è sottoposto; struttura e dinamica dell’ambiente, espresse dalla turbolenza e dalle varietà delle sollecitazioni a cui l’impresa è sottoposta, in termini di incertezza e complessità a cui il sistema organizzativo deve far fronte; strategie adottate, sia a livello di SBU (differenziazione, leadership di costo, focalizzazione) sia a livello Corporate (strategie verticali e orizzontali).

La valutazione dell’adeguatezza della struttura organizzativa alle caratteristiche delle imprese (interne ed esterne) e alle strategie adottate per conseguirli può essere effettuata seguendo l’approccio variabili critiche-struttura (Ansoff e Brandeburg, 1971), che interpreta i punti di forza e di debolezza dei modelli organizzativi esposti in questo capitolo. Le variabili critiche rispetto alle quali viene valutata l’adeguatezza della struttura organizzativa sono espresse dalle seguenti dimensioni di performance organizzativa: efficienza



elasticità operativa



elasticità strategica



elasticità strutturale



efficienza, intesa come l’utilizzo meno dispendioso delle risorse e misurata con la massimizzazione del rapporto input/output; elasticità operativa, intesa come la capacità di rispondere, a parità di condizioni strutturali e organizzative, ad aumenti quantitativi della produzione; elasticità strategica, ossia la capacità di modificare in modo tempestivo le caratteristiche qualitative dei propri prodotti/servizi, in risposta alle mutate condizioni ambientali; elasticità strutturale, intesa come la capacità di rispondere in modo flessibile alle variazioni ambientali mediante l’adeguamento della struttura aziendale stessa in tempi utili e a parità di condizioni di efficienza.

Per la definizione delle configurazioni organizzative (struttura organizzativa e meccanismi operativi) si fa riferimento a un ventaglio di soluzioni concettuali, da intendersi come modelli di riferimento a cui ispirare la progettazione organizzativa. Tali modelli sono: • • •

funzionale o unitario (forma a U); la multidivisionale (forma a M); holding (forma a H).

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

257

A questi modelli di riferimento si aggiungono, inoltre, configurazioni ulteriori che possono integrarsi in maniera variamente articolata con i modelli precedenti o dare luogo a configurazioni organizzative indipendenti; tra queste figurano le soluzioni organizzative matriciali e le forme reticolari (N-forms) interne ed esterne. Tali forme, in quanto tipi-ideali, devono essere utilizzate con gli opportuni adattamenti, nella progettazione delle strutture organizzative aziendali.

8.2.3 Il modello funzionale Il modello funzionale (forma a U) prevede la ripartizione delle responsabilità organizzative di primo livello secondo le funzioni fondamentali dell’impresa (Figura 8.3a). Questo tipo di struttura privilegia lo svolgimento delle attività in condizioni di efficienza, in quanto consente di sfruttare i vantaggi connessi al conseguimento delle economie di scala e di esperienza garantite dalla specializzazione delle attività per funzioni. La specializzazione funzionale, per converso, crea un’elevata rigidità strutturale e delle conoscenze che rendono il sistema organizzativo rigido e inefficiente al verificarsi di stimoli ambientali tendenti a modificare le caratteristiche quanti-qualitative dei suoi prodotti e/o servizi. Il modello funzionale consente di operare in condizioni di efficacia ed efficienza del sistema al verificarsi delle seguenti condizioni: • • • • •

Il modello funzionale (forma a U) prevede la ripartizione delle responsabilità organizzative di primo livello secondo le funzioni fondamentali dell’impresa.

elevata rigidità strutturale

dimensioni aziendali piccole e medie; prodotti indifferenziati e a lungo ciclo vitale; tecnologia stabile; ambiente stabile; strategie basate sullo sviluppo in mercati preesistenti e sulla penetrazione in nuovi.

La rigidità del modello funzionale può essere attenuata realizzando una ripartizione (verticale) delle attività, al secondo livello organizzativo nell’ambito delle funzioni fondamentali, con criteri diversi da quello funzionale (prodotto, canali di mercato, categorie di clienti, ecc.). L’adozione di tali criteri alternativi (o “modifiche” rispetto all’adozione del criterio funzionale) riguarda in genere le funzioni che maggiormente soffrono (in termini di costi organizzativi) della diversità di contesti strategici aziendali (es. molteplicità di prodotti, eterogeneità di canali distributivi, diversità dei target di clientela). È possibile, per esempio, che la funzione Marketing sia sotto-articolata seguendo un criterio alternativo alla specializzazione funzionale, quale può essere l’area geografica (per esempio Area Nord – Area Sud), laddove un’ulteriore applicazione del criterio funzionale avrebbe portato all’individuazione di sotto-funzioni ulteriormente specializzate per attività (per esempio Evasione Ordini – Ufficio Vendite) (Figura 8.3b). La rigidità del modello funzionale può essere, inoltre, stemperata dall’istituzione di posizioni organizzative di tipo matriciale che esprimono ruoli integratori (per esempio Brand Manager, Product Manager, Area Manager); tali posizioni non hanno generalmente responsabilità operative, ma sono incaricate di portare all’interno delle unità organizzative (funzioni) una prospettiva (orizzontale) di coordinamento diversa da quella (verticale) su cui si basa la struttura organizzativa (Figura 8.3c).

La rigidità del modello funzionale può essere attenuata realizzando una ripartizione (verticale) delle attività, al secondo livello organizzativo nell’ambito delle funzioni fondamentali, con criteri diversi da quello funzionale.

La rigidità del modello funzionale può essere, inoltre, stemperata dall’istituzione di posizioni organizzative di tipo matriciale che esprimono ruoli integratori.

258

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Assemblaggio

Controllo qualità

(esempi)

Figura 8.3 Alternative di struttura funzionale.

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

259

8.2.4 Il modello multidivisionale Il modello multidivisionale (forma a M), o semplicemente divisionale, utilizza come criterio di differenziazione (specializzazione) delle attività al primo livello organizzativo l’unità di business (SBU),10 ovvero una delle sue dimensioni più critiche per la competitività: prodotto (tecnologia e funzione d’uso), categoria di clienti, area geografica. Secondo tale modello, l’organizzazione viene scomposta in Divisioni che si configurano come quasi-imprese, dotate di ampi margini di autonomia. Poiché in genere le Divisioni si presentano come centri di profitto, la soluzione divisionale consente di recuperare i vantaggi della piccola dimensione d’impresa (flessibilità, localizzazione sugli ambiti competitivi dei singoli business), mantenendo quelli tipici della grande dimensione (economie di scala, economie di scopo) che possono essere sfruttati attraverso le strategie orizzontali (mediante la creazione di unità centrali a livello Corporate). Tuttavia, l’autonomia delle Divisioni può risultare eccessiva, alimentando tendenze opportunistiche e fenomeni di subottimizzazione a livello periferico; come si vedrà in seguito, tali disfunzioni possono essere contenute facendo leva sui meccanismi di controllo organizzativo (cultura aziendale, controllo di gestione, sistemi di incentivazione). La forma divisionale gode di elasticità operativa, in quanto dilata i limiti dimensionali derivanti dalla crescente complessità gestionale, evitando l’insorgere di diseconomie che producono nel lungo periodo un andamento crescente delle curve di costo medio dei prodotti; l’elasticità strategica, invece, è dovuta all’unitarietà della gestione derivante dal conseguimento di economie manageriali, anche mediante i meccanismi di integrazione interdivisionale, in attuazione delle strategie orizzontali. In virtù dei vantaggi elencati, il modello divisionale si è storicamente affermato come soluzione alternativa al modello funzionale (Chandler, 1962), consentendo all’impresa di far fronte efficacemente a situazioni ambientali caratterizzate da: • • • • •

crescita delle dimensioni aziendali; proliferazione di prodotti-servizi; sviluppo tecnologico; ambienti competitivi tendenzialmente instabili; strategie di diversificazione a livello Corporate e strategie di differenziazione a livello di business.

Al crescere della complessità gestionale, per effetto dell’espansione del sistema di attività e dell’accentuazione delle sollecitazioni competitive, le strutture multidivisionali (forme a M) possono evolvere verso la struttura a holding (forma a H), in cui l’autonomia strategica e operativa delle Divisioni viene enfatizzata dalla loro autonomia giuridica (si vedano anche il box, La teoria Gerarchia e Mercato e il box L’articolazione della struttura organizzativa della RAI). La progettazione delle strutture divisionali: il grado di divisionalizzazione e le strutture centrali Il mantenimento dei vantaggi tipici della grande dimensione attraverso la valorizzazione delle varie forme di interrelazioni strategiche tra le SBU delle imprese 10

L’organizzazione viene scomposta in Divisioni che si configurano come quasi-imprese, dotate di ampi margini di autonomia. La soluzione divisionale consente di recuperare i vantaggi della piccola dimensione d’impresa mantenendo quelli tipici della grande dimensione.

Si veda il Paragrafo 1.4.9.

La forma a M può evolvere verso la struttura a holding (forma ad H), nella quale l’autonomia strategica e operativa delle Divisioni viene enfatizzata dalla loro autonomia giuridica.

260

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

grado di divisionalizzazione della struttura

La condivisione delle attività può essere sostenuta a livello organizzativo secondo due soluzioni: la creazione di Direzioni e la creazione di una Divisione autonoma (o una Direzione Centrale di Servizio).

La condivisione di attività a livello centrale produce lo snellimento delle SBU.

La condivisione di attività a livello centrale, se da un lato rende le SBU snelle e flessibili, dall’altro determina livelli di complessità nelle attività condivise, con l’emergere di significativi costi di coordinamento, compromesso, rigidità e di fenomeni di burocratizzazione.

passa attraverso la scelta del grado di autonomia delle Divisioni, o grado di divisionalizzazione della struttura. Le attività che vengono sottratte all’autonomia delle Divisioni vengono concentrate (condivisione di attività) nelle Direzioni Centrali (o di Corporate) e svolte in maniera accentrata per tutta l’impresa nel suo complesso. Pertanto, la scelta del grado di divisionalizzazione determina l’autonomia delle singole Divisioni e le attività svolte dalle Direzioni Centrali nello svolgimento di alcune funzioni aziendali. Esso contempera le esigenze di flessibilità delle singole Divisioni e le necessità aziendali di controllo, coordinamento e sfruttamento delle interrelazioni attraverso le Direzioni Centrali. La condivisione delle attività può essere sostenuta a livello organizzativo secondo due soluzioni: 1. creazione di Direzioni Centrali che operano a livello Corporate, nel caso si tratti di attività di supporto della catena del valore; 2. creazione di una Divisione autonoma (o una Direzione Centrale di Servizio) nel caso in cui si proceda alla condivisione di attività operative attraverso l’identificazione di un business captive. La catena del valore di Porter ha evidenziato come le Direzioni Centrali – attraverso lo svolgimento di attività di supporto – possano contribuire alla creazione di valore, in quanto agiscono direttamente sulla sequenza delle fasi operative e fanno emergere la valenza di vantaggio competitivo delle interrelazioni tra le SBU. Sulla base di queste considerazioni, i rapporti tra le strutture centrali di Corporate e le Divisioni – o società controllate, nelle Holding – si sono evoluti verso una prospettiva di condivisione delle responsabilità, rispetto agli obiettivi di ciascuna unità di business. Le strutture centrali, pertanto, vengono a caratterizzarsi per una responsabilità primaria rispetto agli output della propria funzione e per una responsabilità contributoria con riferimento agli obiettivi delle strutture operative. Nell’ambito delle strutture centrali è possibile identificarne alcune definibili “di Servizio” (per esempio, sistemi informativi); queste Direzioni Centrali erogano servizi specifici e isolabili a favore delle Divisioni (per esempio, realizzazione di un software ad hoc) che possono essere soggetti a tariffazione interna (attraverso prezzi interni) ovvero essere oggetto di esternalizzazione (outsourcing) o assegnati a distinte società controllate (si veda anche il box L’articolazione della struttura organizzativa della RAI). Le Direzioni Centrali non di servizio (o “propriamente dette”) invece svolgono attività di supporto generali (per esempio, contabilità e bilancio) non riconducibili ai fabbisogni specifici delle Divisioni. La condivisione di attività a livello centrale produce, tra gli altri effetti, lo snellimento delle SBU (Divisioni) favorendo una loro maggiore focalizzazione su quelle attività particolarmente critiche per la competitività, ovvero sulle attività che incorporano le competenze chiave in forma tacita, in grado di produrre la unicità del vantaggio competitivo. Tuttavia, la condivisione di attività a livello centrale, se da un lato rende le SBU snelle e flessibili, dall’altro determina livelli di complessità nelle attività condivise, con l’emergere di significativi costi di coordinamento, compromesso, rigidità e di fenomeni di burocratizzazione generatori di distorsioni nelle funzioni di Corporate. I costi di compromesso, in particolare, si manifestano quando la condivisone delle attività a livello Corporate si trova a soddisfare esigenze contrastanti delle

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

diverse Divisioni. Infatti, l’unità organizzativa che gestisce la condivisione a livello accentrato, sia nella forma di business captive sia in quella di unità di Direzione Centrale (di Servizio), tende a una missione propria – con specifici obiettivi di performance – e ciò enfatizza i costi di compromesso. Inoltre, la condivisione di un’attività richiede che essa sia gestita in modo coerente e uniforme per poter generare economie di scala e specializzazione, il che può non essere un comportamento ottimale per quelle unità di business (Divisioni) che si rivolgono a mercati con esigenze diverse mediante strategie differenziate. Per esempio, la condivisione dell’attività di approvvigionamento di componenti comuni a più unità di business, se condotta in modo coerente (integrato, unitario e indifferenziato), può generare costi di compromesso tra le eterogenee esigenze delle SBU in termini di specifiche di qualità, di prezzi, di tempestività e di modalità di consegna. Tuttavia, i costi di compromesso possono essere contenuti se ne vengono preventivamente individuate le determinanti e definiti alcuni accorgimenti organizzativi, come il coordinamento della progettazione dei componenti di uso comune tra le unità di business che realizzano la condivisione dell’attività di produzione o di approvvigionamento. Un altro accorgimento organizzativo è rappresentato dalla condivisione parziale delle attività. Per esempio, nel caso della condivisione delle attività di approvvigionamento si possono centralizzare le fasi di acquisto in senso stretto, mentre i rapporti per l’attuazione della fornitura possono rimanere allocati nelle unità di business (Divisioni). In tal caso, a parità di modello (divisionale) e di grado di divisionalizzazione selezionato (intermedio), le imprese possono interpretare i ruoli attribuiti alle unità Corporate e divisionali in modo totalmente opposto (a conferma che da un numero finito di modelli sia possibile ottenere infinite strutture organizzative). Alcune imprese, infatti, preferiscono concentrare la selezione e l’acquisto di materie prime ritenute strategiche per il gruppo e lasciare alle Divisioni l’acquisto di risorse meno critiche; altre, al contrario, preferiscono accentrare le attività relative a commodities e altre risorse non strategiche, mentre tendono a decentrare le attività connesse agli asset più strategici per le catene del valore delle singole Business Units/Divisioni. La progettazione delle strutture divisionali: le Divisioni Le Divisioni possono assumere, in funzione della complessità della struttura organizzativa, dell’articolazione della struttura strategica, del grado di divisionalizzazione, diverse configurazioni: • • •

unità organizzativa dell’impresa senza alcuna autonomia giuridica (Divisioni); azienda con propria autonomia gestionale e giuridica (Società Operativa) che fa capo alle strutture direzionali di una holding capo-gruppo o di una finanziaria di gestione; finanziaria di gestione o capo-gruppo (o capo-settore) che gestisce segmenti di attività correlati o comunque omogenei, appartenente a sua volta, a una holding o a un ente di gestione.

Anche laddove non abbiano autonomia giuridica, le Divisioni (soprattutto quelle di prodotto) operano come centri di profitto, configurandosi come quasi-imprese. Ciò implica una responsabilità di profitto del responsabile della Divisione che permetta il controllo delle componenti fondamentali del risultato economico divisionale (ricavi e costi). Laddove un business si configuri come captive, le tran-

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

262

Esperienza

L’articolazione della struttura organizzativa della RAI La RAI, Radiotelevisione Italiana, è la società concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo; realizza canali televisivi, radiofonici e satellitari. Fino al 2005 la RAI presentava una struttura organizzativa divisionale articolata in: • • •

strutture di Corporate (Direzioni Centrali di Corporate), volte a definire le strategie e svolgono le attività di indirizzo e controllo; strutture di Servizio (Direzioni Centrali di Servizio e Società di Servizio), deputate allo svolgimento di compiti tecnici e di funzionamento trasversali a tutta la società; divisioni editoriali e industriali, volte a ideare, sviluppare e realizzare i programmi e i canali televisivi, radiofonici e satellitari attualmente offerti dalla RAI.

Oggi la RAI è strutturata in cinque aree: 1. 2. 3. 4. 5.

Editoriale e Testate; Tecnologia e Produzione; Finanza e Pianificazione; Pubblicità e Rai Com; Area Corporate e supporto.

Le aree editoriali ideano, sviluppano e realizzano i programmi e i canali televisivi radiofonici, satellitari e su piattaforma digitale terrestre e nuovi media. Le altre aree, invece, presidiano l’efficienza gestionale, economica e operativa dell’azienda. Fonte: elaborazione personale da www.rai.it (ottobre 2002, dicembre 2005, gennaio 2009, febbraio 2012, ottobre 2016).

sazioni con le altre Divisioni sono regolate da prezzi di trasferimento, negoziati con l’intervento centrale del Corporate; tali prezzi rappresentano elementi – surrogati – di ricavo per la Divisione fornitrice ed elementi di costo per le Divisioni acquirenti.

8.2.5 Il modello a holding: diverse configurazioni del Corporate

finanziaria di gestione

capo-settore/capo-gruppo

Le grandi imprese diversificate, di fronte alla globalizzazione dei mercati e all’accentuarsi delle pressioni competitive, hanno sovente adottato modelli strutturali a holding (forma a H). Tra le forme di holding si distinguono due soluzioni, a seconda del ruolo svolto dalla capo-gruppo (Corporate) che controlla le altre imprese autonome (Società Operative). La prima soluzione è rappresentata dalla finanziaria di gestione. In tale configurazione, ciascuna società controllata risulta strategicamente autonoma e gestisce un’area di business omogenea, che presenta interrelazioni intangibili con le SBU delle altre aziende del gruppo. La holding, invece, realizza – attraverso le proprie strutture di Corporate – le strategie orizzontali che mirano a valorizzare le interrelazioni, per derivarne dei vantaggi competitivi. La seconda soluzione è quella della capo-settore/capo-gruppo. Essa viene solitamente preferita quando le interrelazioni da sfruttare sono di carattere tan-

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

gibile o operativo (transazionale o da condivisione di attività); solitamente quando i business sono integrati verticalmente, in quanto prodotti appartenenti alla medesima filiera tecnico-economica (si veda il box La struttura di Poste Italiane SpA). In tali frangenti, la capo-settore/capo-gruppo, oltre a realizzare, con il supporto delle proprie strutture centrali, le strategie orizzontali – al pari della tradizionale finanziaria di gestione – gestisce direttamente una o più aree di business. Di conseguenza, la focalizzazione sul core business, o su quelli cerniera, consente all’azienda centrale del gruppo di effettuare il coordinamento delle attività relative all’intera struttura strategica. Da diversi anni è in atto la tendenza a utilizzare il modello della capo-gruppo, specialmente in alcuni settori come quello dei materiali (alluminio, vetro, acciaio), petrolchimico e delle costruzioni ferroviarie e aeronautiche. L’adozione della struttura a holding ha favorito, tra l’altro, la realizzazione di manovre strategiche, come le cessioni, le acquisizioni e le alleanze strategiche (nelle diverse forme equity e contrattuali) (Figura 8.4).

8.2.6 Le strutture matriciali Le strutture organizzative, oltre a quello principale espresso con la ripartizione delle responsabilità organizzative al primo livello organizzativo (funzionale o divisionale), devono spesso rispondere a una molteplicità di esigenze, in relazione alla multidimensionalità della performance competitiva. Come già visto nel modello funzionale, gli orientamenti secondari (in risposta alle ulteriori pressioni a cui è soggetta l’impresa) possono essere recuperati con un’articolazione verticale della struttura organizzativa (al secondo livello) secondo criteri diversi da quelli seguiti al primo livello. Spesso, invece, le esigenze di competitività impongono alle imprese di focalizzare simultaneamente molteplici orientamenti della struttura organizzativa (prodotto, funzione, mercato ecc.), anche se con un’enfasi diversa. Si costituiscono, in tal modo, configurazioni organizzative articolate secondo due o più dimensioni: • unità di business-funzione, nella struttura multidivisionale o a holding in cui le singole Divisioni (o società operative) risultano a loro volta strutturate per funzioni;

Raggruppamento di aziende

Holding di gestione

Raggruppamento di aziende e divisioni

Holding capo-gruppo

Raggruppamento di settori

Azienda

Settore di business

Responsabile di settore o gruppo

Unità di business

Divisione

Prodotto-mercato

Unità di prodotto-mercato

unità di business-funzione

Figura 8.4 Struttura strategica e articolazione dei livelli organizzativi.

263

264

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

• •

progetto-funzione funzione-prodotto

progetto-funzione, nella struttura per progetti; funzione-prodotto (o progetto), nella struttura funzionale modificata con ruoli integratori orizzontali, come il product manager o il project manager (Paragrafo 8.2.3).

Il funzionamento di tali forme si caratterizza per la diffusione di modalità organizzative matriciali, che si costituiscono tra le unità organizzative operative e quelle di supporto. Le prime svolgono le attività operative, con una responsabilità primaria, le seconde svolgono, con una responsabilità contributoria (non primaria, di supporto), le attività di coordinamento, stabilizzazione e controllo nei confronti delle attività operative, senza godere di poteri gerarchici nei confronti delle altre unità organizzative. Nelle forme o modalità organizzative matriciali, il personale delle strutture operative si trova spesso a esercitare i propri ruoli in una situazione di ambiguità organizzativa, caratterizzata da una molteplicità di fonti di influenza direzionali. In tal senso, le modalità organizzative matriciali possono essere considerate come il superamento della dicotomia tra line e staff che aveva caratterizzato il funzionamento delle tradizionali strutture funzionali e divisionali. La struttura per progetti prevede una duplice ripartizione delle responsabilità organizzative, attraverso una struttura funzionale di base (permanente) e una struttura temporanea per progetti.

La struttura per progetti La struttura per progetti prevede una duplice ripartizione delle responsabilità organizzative, attraverso una struttura funzionale di base permanente e una struttura temporanea per progetti; per tale motivo il modello si caratterizza per una sorta di temporaneità permanente (Figura 8.5).

Vertice

Direzioni gestionali

Direzioni tecniche

Responsabili di progetto

Direzione acquisti

Direzione progettazione

Project manager SW Cliente A Project manager SW Cliente B

Figura 8.5 Struttura per progetti (esempio di una società di sviluppo software).

Direzione generale

Direzione amministrazione

Direzione analisi

Direzione finanza

Direzione sviluppo

Direzione risorse umane

Direzione test e assistenza

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

Esperienza

La struttura di Poste Italiane SpA Il gruppo Poste Italiane SpA nasce dalla societarizzazione di Ente Poste, ente pubblico economico responsabile della gestione dei servizi postali in ambito nazionale. La sua evoluzione rappresenta un interessante caso di continuo allineamento tra sviluppo strategico (sia a livello di business sia a livello Corporate) e scelte di progettazione organizzativa. Il piano d’Impresa 1998-2002 ha delineato una struttura organizzativa divisionale, prevedendo un’articolazione in: •



Divisioni, ognuna delle quali è responsabile di un gruppo specifico di prodotti/servizi e di gestire le relative attività operative; le Divisioni operano attraverso strutture sul territorio (rete di uffici postali) e ognuna ha un’articolazione territoriale specifica in funzione delle attività produttive svolte; Direzioni centrali e Servizi centrali (a livello Corporate), che sono responsabili di indirizzare e controllare le attività di supporto alle Divisioni e/o di erogare servizi di utilità comune a tutte le unità organizzative.

Ogni Divisione è responsabile di una SBU (che si configura per una gamma di prodotti/servizi omogenei), svolge attività specifiche e può controllare anche società autonome partecipate. Le quattro Divisioni business sono: corrispondenza, espresso, logistica e pacchi, Bancoposta e filatelia. Le tre Divisioni principali vendono i prodotti alle imprese e agli enti attraverso le proprie strutture, mentre i servizi ai privati vengono venduti attraverso la rete di uffici postali (circa 14000 sul territorio nazionale). La gestione della rete degli uffici postali, così come la vendita dei prodotti/servizi delle altre Divisioni, attraverso gli sportelli degli uffici postali è di competenza della Divisione Rete Territoriale. A differenza delle precedenti quattro, questa Divisione non sviluppa, se non residualmente, un proprio business autonomo, ma si configura come un business cerniera, in quanto presenta intense interrelazioni con le catene del valore delle altre SBU (Divisioni business), delle quali gestisce l’erogazione dei servizi ai clienti finali (privati) attraverso gli uffici territoriali. Un ruolo simile a quello della Divisione Rete Territoriale è svolto da Postecom SpA, costituita nel mese di ottobre 1999 e controllata al 100% da Poste Italiane, per sviluppare e gestire nuovi servizi accessibili via Internet attraverso il sito di Poste Italiane. Similmente alla rete di sportelli territoriali, l’infrastruttura di Postecom è in grado di “distribuire” servizi online sviluppati dalle altre Divisioni: messaggistica elettronica, messaggistica ibrida, Internet banking, pagamenti online, sicurezza delle transazioni e certificazione della firma digitale. Il progetto di cambiamento della struttura organizzativa rispondeva in questa fase all’esigenza di “abilitare l’implementazione delle strategie aziendali per il conseguimento degli sfidanti obiettivi di mercato, margini e qualità”. L’implementazione delle strategie si articola in due passaggi fondamentali: 1. 2.

ricerca di sinergie operative tra le funzioni aziendali dedicate alla gestione degli asset logistici; integrazione commerciale, da realizzarsi mediante lo sviluppo dell’integrazione e dell’efficacia dei canali commerciali, al fine di garantire la migliore valorizzazione dei potenziali di business dei diversi territori.

Dal punto di vista della struttura organizzativa, le innovazioni introdotte nel luglio 2005 hanno puntato ai seguenti obiettivi: • • • •

semplificazione organizzativa, con particolare riguardo ai processi decisionali e di governo, attraverso lo snellimento delle funzioni organizzative; creazione di shared services, cioè di servizi condivisi (a livello Corporate) tesi a migliorare il livello di performance dei processi e delle attività di supporto al business; miglioramento del presidio del territorio, mediante una maggiore focalizzazione diretta sugli obiettivi strategici e la dotazione di leve operative alle funzioni territoriali; innovazione del sistema di offerta, facendo leva sullo sviluppo di prodotti innovativi ad alta potenzialità di mercato.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

266

Nel 2009 la struttura organizzativa di Poste Italiane puntava al recupero della centralità del cliente come elemento determinante, caratterizzandosi per: •



• •

quattro Business Unit (Mail, BancoPosta, Express and Parcels, Philately) focalizzate sullo sviluppo dei prodotti/servizi di competenza e sulla gestione di parte delle operatività connesse all’erogazione degli stessi; un canale commerciale (Chief Network and Sales Office), che risulta essere responsabile dello sviluppo e della gestione del front-end commerciale per tutti i segmenti di clientela; in particolare, il Chief Network and Sales Office costituisce il principale canale di accesso ai prodotti/servizi forniti da Poste Italiane, attraverso il coordinamento del Contact Center e della rete degli uffici postali; una unità organizzativa dedicata alla pianificazione e gestione del processo logistico (Chief Operating Office); le strutture centrali di governo, controllo ed erogazione di servizi a supporto dei processi di business, tra cui: • comunicazione esterna e relazioni istituzionali • affari legali • affari societari • risorse umane e organizzazione • pianificazione strategica • amministrazione e controllo • finanza • tecnologie dell’Informazione • controllo interno • acquisti • tutela aziendale • immobiliare

Nel 2012 la struttura ribadisce una distinzione molto chiara tra le linee operative e il livello centrale, articolandosi in funzioni di business e funzioni Corporate. Le funzioni business, che presidiano i business della struttura strategica di Poste Italiane, sono identificate con il duplice criterio del prodotto/servizio e della categoria di clienti: • • • • • •

Servizi Postali; Bancoposta; Marketing Servizi Postali e Digitali; Marketing e Governo Servizi Logistici; Mercato Privati; Grandi Imprese e Pubblica Amministrazione.

Nello specifico, il secondo, il terzo e il quarto sono le funzioni di business che curano il processo di sviluppo dei prodotti/servizi di competenza e sono specializzati, rispettivamente, in servizi finanziari, prodotti postali, digitali e filatelici e prodotti/servizi di spedizione nazionale e internazionale. La funzione Servizi Postali si connota per la natura di business cerniera e garantisce la pianificazione e gestione della catena logistica (corrispondenza e pacchi), curando anche l’erogazione di servizi integrati. Le ultime due funzioni rappresentano i due canali commerciali responsabili dello sviluppo e della gestione del front-end commerciale per i diversi segmenti di clientela. In dettaglio, la funzione Mercato Privati opera attraverso il coordinamento della rete degli uffici postali e dei servizi di contact center, rappresenta per la clientela retail, per le piccole e medie imprese e parte della Pubblica Amministrazione Locale, il principale canale di accesso ai servizi di Poste Italiane. La funzione Grandi Imprese e Pubblica Amministrazione garantisce il presidio commerciale diretto dei grandi clienti e della Pubblica Amministrazione.

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

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Funzioni Corporate sono le strutture centrali di governo, controllo ed erogazione di servizi a supporto dei processi di business; in dettaglio: • • • • • • • • • • • • •

Acquisti; Affari Istituzionali; Affari Legali; Affari Societari; Amministrazione e Controllo; Comunicazione Esterna; Controllo Interno; Finanza; Immobiliare; Pianificazione Strategica; Risorse Umane e Organizzazione; Tecnologie dell’Informazione; Tutela Aziendale.

Nel 2016 la struttura consolida gli orientamenti avviati precedentemente prevedendo tre aree di business principali (Servizi finanziari, Assicurazioni e Risparmio gestito, Servizi Postali) e due canali commerciali, supportati da funzioni corporate di indirizzo, governo, controllo ed erogazione di servizi. I due canali commerciali – Mercato Privati e Mercato Business e Pubblica Amministrazione – convogliano i prodotti sviluppati dalle aree di business verso, rispettivamente, il segmento retail e le piccole/medie imprese (coordinamento della rete degli uffici postali) e verso grandi aziende industriali, di servizio, banche e di pubblica amministrazione. Fonte: www.posteitaliane.it, 2006, 2009, 2012, 2016.

La prima dimensione garantisce l’efficienza dell’intera struttura, la seconda consente il mantenimento di un’elevata elasticità strategica. Questo tipo di struttura opera efficacemente al verificarsi delle seguenti condizioni: • • • • • •

dimensioni medio-grandi; prodotti a brevissimo ciclo di vita; prodotti che rispondono a specifiche esigenze della clientela, sempre diverse; elevato fatturato unitario dei progetti relativi ai beni o ai servizi da realizzare (commesse industriali, progetti di ricerca); necessità di innovazione continua; strategie di segmentazione e forte differenziazione.

Il capo-progetto ha come responsabilità primaria la realizzazione del progetto assegnatogli in termini di tempi, costi e qualità e svolge la sua attività impiegando le persone provenienti dalle diverse funzioni aziendali. I capi-progetto sono dotati di autorità gerarchica nei confronti dei componenti dei team di lavoro limitatamente alla durata dei progetti; in questo caso, quindi, le persone che fanno parte del team si trovano in una situazione di doppia dipendenza (responsabile funzionale e capo-progetto). Al termine del progetto le persone che operavano nel team vengono riassegnate alle funzioni di provenienza in attesa di essere inserite nuovamente in un gruppo di lavoro impegnato su un nuovo progetto. La struttura a matrice La struttura a matrice si caratterizza per il fatto di essere articolata su due (o più) dimensioni che contemporaneamente presidiano un’area di attività operativa.

Il capo-progetto ha come responsabilità primaria la realizzazione del progetto assegnatogli in termini di tempi, costi e qualità e svolge la sua attività impiegando le persone provenienti dalle diverse funzioni aziendali.

La struttura a matrice si caratterizza per il fatto di essere articolata su due (o più) dimensioni che contemporaneamente presidiano un’area di attività operativa.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Direzione generale

Vertice Direzioni centrali corporate

Direzione acquisti

Divisioni di prodotto Area di mercato 1

Divisioni di mercato

Area di mercato 2 Area di mercato 3 Area di mercato 4

Direzione amministrazione

Direzione finanza

Direzione risorse umane

Divisione prodotto A

Divisione prodotto B

Divisione prodotto C

Divisione prodotto D

• • • •

• • • •

• • • •

• • • •



= Unità organizzativa (nodo) / congiunzione prodotto mercato

Figura 8.6 Struttura a matrice.

La struttura organizzativa a matrice prevede una ripartizione delle responsabilità organizzative mediante la definizione di una matrice di responsabilità attraverso l’adozione di due (o più) criteri di specializzazione; a ogni criterio corrisponde una specifica linea di autorità. Le strutture a matrice possono pertanto presentare la combinazione sullo stesso livello organizzativo, di una dimensione funzionale e una divisionale, oppure di due articolazioni divisionali focalizzate su aspetti diversi dei business (per esempio prodotto/mercato) (Figura 8.6). Nella struttura organizzativa a matrice tende a sfumare la differenziazione tra unità operative e unità di supporto, poiché entrambe dirigono parte del flusso di lavoro e svolgono attività di ausilio nei confronti delle attività operative. Nel modello matriciale esiste una vera e propria corresponsabilità tra i diversi referenti delle linee di autorità. Tale modello gode di elevata elasticità strutturale e rappresenta la soluzione organizzativa più efficace al verificarsi delle seguenti condizioni: • • • •

dimensioni medio-grandi; prodotti a breve ciclo di vita; necessità di svolgere attività interne di sviluppo tecnologico; strategie di segmentazione e forte differenziazione.

La struttura a matrice può essere considerata come un’evoluzione della struttura divisionale (o a holding) in cui l’elevato tasso di sviluppo tecnologico e le marcate strategie di segmentazione e forte differenziazione impongono il presidio simultaneo e bipolare di più ambiti di focalizzazione, che ne definiscono le articolazioni

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

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organizzative di primo livello e si concentrano nei nodi della struttura organizzativa. Allo stesso modo, però, anche per le strutture a matrice si pone l’esigenza di sfruttare le interrelazioni tra i business attraverso la condivisione di attività a livello centrale (Direzioni Centrali). La struttura a matrice si caratterizza per un elevato grado di complessità interna, in quanto il suo funzionamento richiede l’adozione di meccanismi operativi, modelli di comportamento e lo sviluppo di una cultura aziendale in sintonia con le esigenze della struttura (tutti i meccanismi operativi devono, per esempio, essere bidimensionali). In tali ambiti, quindi, la progettazione organizzativa deve fare sì che tutta l’organizzazione dell’impresa sia ispirata a criteri matriciali, supportando la struttura con meccanismi operativi, cultura, layout organizzativo e comportamenti coerenti con la filosofia matriciale (organizzazione a matrice).

8.3 Le forme organizzative reticolari Le reti (network) non sono un fenomeno nuovo rispetto al panorama organizzativo delle forme organizzative che le imprese, o insiemi di imprese, possono adottare. Il tema ha assunto un nuovo vigore dal 2000 in poi, connesso al fatto che sovente i legami “deboli”, ossia quelli non strettamente gerarchici o formalizzati nei contratti, possono essere fonte di risorse intangibili (fiducia, reputazione ecc.) rilevanti ai fini del conseguimento (o del mantenimento) del vantaggio competitivo; in tal senso, alle forme tradizionali di reti interne ed esterne si sono aggiunti di recente network purpose-specific, quali quelli “per l’innovazione”. In Italia, inoltre, il tema ha assunto particolare rilevanza grazie al recente sviluppo dell’istituto giuridico del contratto di rete (vedi box Contratto di rete). Dal punto di vista della progettazione organizzativa i network non rappresentano un vero e proprio modello struttura, quali quelli descritti nei precedenti paragrafi (funzionale, divisionale), quanto una modalità di funzionamento di diverse entità organizzative, interne (unità organizzative) o esterne (imprese diverse). La distinzione non è meramente terminologica in quanto l’idea di “modello” implica l’adozione di una prospettiva prescrittivo-progettuale (ex ante) che può avere una base di progettazione razionale, mentre la “modalità” sottende una minore capacità di intervento prescrittivo e una maggiore spontaneità nello sviluppo delle soluzioni organizzative (ex post). Non a caso, le reti possono anche essere interpretate come delle “forme” di aggregazione intra- o interorganizzative che si sviluppano spontaneamente tra entità (unità organizzative o imprese) indipendenti e autonome. In tal senso, gli interventi delle istituzioni (quali quelli relativi al contratto di rete) possono solo fornire uno stimolo o un incentivo, o predisporre le condizioni necessarie, affinché si sviluppino spontaneamente queste forme di cooperazione.

8.3.1 La rete interna La diffusione di modalità organizzative a network (forma a N), o rete, presuppone la formazione di meccanismi organizzativi non codificati che facilitano le interazioni tra le singole unità e con i quali gli attori organizzativi interpretano e realizzano le interrelazioni. Tali forme organizzative possono svilupparsi nell’ambito di strutture divisionali o a holding (reti interne) e si caratterizzano per la costituzione e il mantenimento di una rete (network) di rapporti tra le società del

La diffusione di modalità organizzative a network (forma a N), o rete, presuppone la formazione di meccanismi organizzativi non codificati che facilitano le interazioni tra le singole unità e con i quali gli attori organizzativi interpretano e realizzano le interdipendenze.

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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Strumenti

Contratto di rete Il contratto di rete è una nuova forma giuridica nata nel 2009 per consentire alle imprese di sviluppare delle forme reticolari (network) consentendo alle stesse, al contempo, di mantenere la propria individualità e di regolare relativi rapporti giuridici derivanti da una collaborazione stabile e basata su obiettivi strategici. Il contratto di rete si distingue da due istituti che pure vengono sovente usati dalle imprese per regolare in forma coordinata le proprie transazioni: 1. 2.

raggruppamento temporaneo di imprese (RTI); consorzio.

Il raggruppamento temporaneo di imprese è la soluzione a cui le imprese ricorrono soprattutto per partecipare a gare d’appalto quando singolarmente non possiedono i requisiti richiesti nel bando; in tal caso si mettono “assieme le forze” e si assegna un rapporto di mandato con rappresentanza, gratuito e irrevocabile, all’impresa capo-fila (capo-gruppo). Il consorzio è invece il contratto con il quale due o più imprenditori “istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese” (art. 2602 cod. civ.); in tal caso l’elemento aggregante è costituito da un programma comune duraturo e non limitato al compimento di un affare specifico o alla disciplina delle “fasi” della rispettiva attività di impresa. Il contratto di rete, invece, si distingue da queste forme di cooperazione tra imprese per lo “scopo” specifico dell’aggregazione fra le imprese partecipanti e per il carattere di stabilità. Lo scopo (mission) del contratto di rete è quello di accrescere la capacità innovativa e competitiva delle imprese mediante un impegno reciproco di collaborazione sulla base di un programma comune, da attuare mediante lo scambio di informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero a esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa. Un altro elemento distintivo del contratto di rete è l’assenza di vincoli di localizzazione territoriale (tipica dei distretti industriali tradizionali), di tipologia di business (elemento distintivo dei distretti tecnologici), di dimensioni aziendali. In tal senso, il contratto di rete si caratterizza per essere una formula a struttura “aperta”, a cui possono aderire imprese diverse da quelle che hanno fondato la rete stessa, secondo modalità previste dal contratto stesso.

gruppo e tra queste ultime e il Corporate, mediante la progettazione e l’implementazione di un sistema flessibile e coerente di meccanismi operativi, capace di alimentare la formazione di rapporti (reti) interpersonali e di tollerare l’emergere spontaneo di analoghe reti informali. L’affermazione della modalità di rete interna sovente si accompagna con la promozione di una cultura organizzativa comune. Il crescente utilizzo dell’approccio strategico nella progettazione organizzativa ha condotto alla configurazione di strutture organizzative snelle; soprattutto nelle strutture multidivisionali e in quelle a holding si sono progressivamente costituite le condizioni che hanno consentito l’evoluzione verso modalità organizzative a rete interna. In tali imprese, infatti, l’esigenza di una più accentuata flessibilità strategica, realizzabile con una maggiore autonomia delle singole parti dell’organizzazione (Divisioni, società controllate) e con il recupero degli effetti sinergici derivanti dall’adattamento reciproco, sollecitano l’attivazione di tendenze evolutive verso nuove forme organizzative fondate sulle architetture reticolari. Tali configurazioni – che si caratterizzano per una maggiore capacità di cambiamento e per l’attenuazione delle relazioni verticali, con il conseguente sviluppo di quelle orizzontali – sono basate su stabili rapporti transazionali e organizzativi

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tra i vari nodi, ovvero sulla costituzione e il mantenimento di una rete di rapporti tra reparti, Divisioni o società controllate e tra queste ultime e le strutture di Corporate, che consentono un’accentuata condivisione di risorse e un’intensa circolazione di informazioni e di conoscenze, con la formazione di reti formali e con l’emergere spontaneo di analoghe reti informali. Il carattere distintivo della rete interna è rinvenibile, pertanto, nella riduzione (spontanea) delle inerzie e degli attriti insiti nelle forme di coordinamento senza che vi siano meccanismi formali o procedurali in tal senso. Un’ulteriore spinta, in tal senso, è venuta dalla tendenza a scorporare dalle strutture centrali le attività di servizio (per esempio, sistemi informativi), assegnandole a distinte società controllate. La logica di rete interna appare più evidente nelle holding, le cui società operative gestiscono, con relativa autonomia strategica, le unità di business derivanti dalla disintegrazione della filiera tecnico-economica di una specifica area di prodotto-mercato.

8.3.2 La rete esterna Un ulteriore stadio evolutivo della forma organizzativa a holding può derivare dai fenomeni di quasi-disintegrazione, cioè dall’esternalizzazione (outsourcing) controllata di attività lungo la catena del valore, siano esse operative o di supporto. Tale scelta può rendersi necessaria per l’impossibilità dei sistemi organizzativi di adattarsi flessibilmente all’incertezza esogena, per le carenze di risorse di professionalità imprenditoriali e per l’insorgere di fattori di inerzia strutturale. Una seconda motivazione è inoltre rappresentata dal fatto che in alcuni anelli della catena del valore può risultare economicamente più conveniente il ricorso al mercato. Si genera rete esterna quando le attività esternalizzate vengono realizzate da imprese già esistenti o di cui si promuove la costituzione, con le quali la grande impresa mantiene delle relazioni contrattuali e, spesso, anche legami proprietari deboli. In tal modo si vengono a costituire modalità organizzative a rete esterna, che tendono a integrarsi, in un disegno unitario più o meno consapevole, con le reti interne. La frammentarietà che caratterizza le reti di imprese non assume connotazioni negative. Al contrario, i legami deboli, che vengono a instaurarsi tra i vari soggetti della rete, conferiscono al tempo stesso una stabilità di fondo e un’adeguata flessibilità. In tali circostanze, oltre al manifestarsi progressivo della capacità di autorigenerazione del sistema rete, vengono anche ad attenuarsi i comportamenti opportunistici mediante la formazione di relazioni di fiducia, di linguaggi comuni, di forme di controllo reciproco che si producono tra i soggetti della rete. L’esternalizzazione controllata di fasi della catena del valore esprime anche il tentativo di realizzare forme di condivisione delle attività all’esterno, per realizzare i vantaggi delle economie di scala e di specializzazione e quelli connessi a una maggiore flessibilità delle strutture interne. Come osservato da Lorenzoni (1990), l’esternalizzazione delle attività può generare in tal modo configurazioni reticolari, nelle quali l’impresa assume la connotazione di centro strategico, capace di esercitare le funzioni chiave di progettazione, e di controllo strategico delle relazioni con la rete esterna. La continuità organizzativa tra la struttura reticolare esterna e l’assetto organizzativo interno viene assicurata dal mantenimento all’interno delle attività chiave, come la progettazione, la ricerca, la commercializzazione dei prodotti finali, dalla strutturazione di ruoli di interfaccia con l’esterno e dallo sviluppo di spiccate capacità di integrazione delle attività interne ed esterne (Lipparini, 1995).

Un ulteriore stadio evolutivo della forma organizzativa a holding può derivare dai fenomeni di quasidisintegrazione, cioè dalla esternalizzazione (outsourcing) controllata di attività lungo la catena del valore, siano esse operative o di supporto.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

8.3.3 Le reti per l’innovazione Di recente le imprese hanno sviluppato un’ulteriore tipologia di network esterno legata all’esigenza di cooperare nello sviluppo delle nuove tecnologie, laddove queste ultime richiedano l’integrazione di conoscenze sviluppate in ambiti disciplinari diversi e la combinazione di componenti eterogenei in sistemi-prodotto a elevata complessità. I driver che conducono verso l’aggregazione possono essere legati all’efficienza (ricerca di economie di scala esterne) o al patrimonio cognitivo (ricerca di economie di esperienza esterne). Inoltre, le interrelazioni competitive tra i business possono far sviluppare network di natura tecnologica anche per ragioni strategiche legate alla concorrenza fra le imprese presenti sul mercato o su un determinato segmento (per esempio, esclusione di un concorrente o fenomeni di lock-in). Lo sviluppo dei network tecnologici poggia sulla convinzione che essi generino, per i diversi partner, benefici comuni (mutual benefits) altrimenti irrealizzabili. Secondo un’altra prospettiva, si dovrebbe realizzare un gioco a somma positiva i cui principali elementi caratteristici sono: • • • •

possibilità di sfruttare economie di scala e di scopo: outcome di ricerca utilizzabili in diversi mercati; arricchimento del patrimonio intellettuale; condivisione di costi e rischi; sviluppo di capitale relazionale; separazione e trasferimento (markets for technology).

Nonostante i vantaggi appena esposti, tuttavia, non si può trascurare che la collaborazione alimentata dalle forme reticolari potenzialmente potrebbe celare alcune insidie di natura anticompetitiva – penalizzabili dalle Authority per la salvaguardia della concorrenza, ove presenti– nonché presentare dei rischi di natura strategica, legate a potenziali effetti di lock-in tecnologico, soprattutto da parte dei partner più deboli. Sebbene il fenomeno sia troppo recente per poter indicare delle soluzioni significative, sembra che la network innovation possa esprimere il suo massimo potenziale, laddove la rete riesca a creare al suo interno delle condizioni di equilibrio in grado di lasciare libero ogni singolo partner di svilupparsi e innovare in maniera completamente autonoma, pur valorizzando le complementarità rispetto ai temi condivisi.

8.4 Le soluzioni organizzative per l’attuazione delle strategie di Corporate Le forme organizzative sinora illustrate hanno considerato le caratteristiche delle imprese, interne ed esterne, come determinanti della loro strutturazione organizzativa, in ragione delle performance organizzative attese (efficienza, elasticità). Tra le dimensioni rilevanti analizzate sono state prese in considerazione anche le strategie di base e la diversificazione prodotto/mercato. Tuttavia, come si vedrà in seguito, le strategie di Corporate delle imprese multibusiness non si limitano alla scelta dei settori (o attività) nei quali l’impresa intende operare, ma si estendono all’analisi del come il Corporate dovrebbe gestire l’insieme delle unità di business (strategie orizzontali) e all’allocazione delle risorse tra le unità di business. La valorizzazione delle interrelazioni (tangibili e intangibili) in termini di miglioramento del vantaggio competitivo richiede un forte impegno del Corpo-

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rate, che non si traduce esclusivamente nell’istituzione delle Direzioni Centrali di Corporate, ma si estende alla predisposizione e all’utilizzo di strutture e di meccanismi orizzontali per il coordinamento delle relazioni tra le unità di business. La formazione delle strategie orizzontali passa, perciò, attraverso l’identificazione delle esigenze di coordinamento tra le SBU e nella scelta delle strutture orizzontali e dei meccanismi che consentano di realizzare efficacemente l’integrazione. La necessità di predisporre strutture orizzontali e meccanismi di coordinamento (sistemi operativi) deriva dalla considerazione che la realizzazione delle interrelazioni non necessariamente conduce al miglioramento della posizione competitiva dei business interrelati. Al contrario, l’influenza delle interrelazioni può tradursi nella distruzione di valore. Ciò può verificarsi non solo per il livello dei costi direttamente associati alla condivisione di attività e al trasferimento delle competenze, ma anche per la crescita dei costi associati agli interventi eccessivamente intensi del Corporate. L’eccessiva complessità dei sistemi di pianificazione e controllo, la crescita del relativo staff di pianificazione, la dissipazione di tempo dei manager divisionali e di quelli di Corporate nelle negoziazioni per la soluzione dei conflitti, la perdita di entusiasmo che spesso si accompagna all’imposizione di limiti dell’autonomia, l’allungamento dei processi decisionali rappresentano alcune condizioni organizzative che possono condurre alla distruzione di valore e che hanno suscitato perplessità in alcune indagini empiriche circa la superiore capacità delle interrelazioni di produrre vantaggi competitivi rispetto alle strategie di portafoglio o di ristrutturazione.

8.4.1 Le strutture orizzontali Le strutture orizzontali di coordinamento delle interrelazioni tra le unità di business svolgono la funzione di identificazione delle potenziali relazioni, di verifica della coerenza dei piani strategici rispetto alle richieste di attivazione delle interrelazioni, di promozione delle iniziative per la rimozione dei relativi ostacoli e di controllo strategico degli effetti di vantaggio competitivo delle interrelazioni attivate. Tali funzioni vengono svolte, con enfasi e focalizzazione diverse, dalle strutture di Corporate preposte alla pianificazione strategica, dal comitato strategico e dai settori o gruppi strategici. L’unità di pianificazione strategica L’unità di pianificazione strategica realizza una fondamentale funzione di supporto all’Alta Direzione di Corporate, in quanto svolge le attività di analisi strategica preliminare alla formulazione e pianificazione della strategia. Essa, inoltre, coordina il sistema di pianificazione e controllo strategico, assumendo un ruolo critico nei processi di negoziazione tra la direzione di Corporate (vertice) e i responsabili delle Divisioni, sulla definizione degli obiettivi strategici, sull’allocazione delle risorse, sull’attivazione delle interrelazioni tra le SBU esistenti e tra queste ultime e quelle di nuova istituzione, per via interna o tramite acquisizione. Il comitato strategico Il comitato strategico è un organismo collegiale presieduto da uno dei componenti dell’Alta Direzione di Corporate e costituito dai direttori dei settori o delle relative

L’unità di pianificazione strategica svolge le attività di analisi strategica.

Il comitato strategico è un organismo collegiale presieduto da uno dei componenti dell’Alta Direzione di Corporate e costituito dai direttori dei settori o delle relative Divisioni, dal responsabile della struttura centrale di pianificazione strategica e dai responsabili delle altre strutture centrali di Corporate quando vengono trattati argomenti di loro competenza.

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Divisioni, dal responsabile della struttura centrale di pianificazione strategica e dai responsabili delle altre strutture centrali di Corporate quando vengono trattati argomenti di loro competenza. Tale organismo svolge un ruolo importante nella definizione delle direttive per la formulazione dei piani strategici divisionali, nella definizione e nell’approvazione dei criteri di allocazione delle risorse, nell’approvazione del piano strategico aziendale e nel controllo della realizzazione dei progetti strategici.

I settori (o gruppi) costituiscono un livello intermedio della struttura organizzativa, tra le singole Divisioni e il livello di Corporate; esse scaturiscono dall’aggregazione di più Divisioni attorno alle loro interrelazioni più significative.

I settori I settori (o gruppi) costituiscono un livello intermedio della struttura organizzativa, tra le singole Divisioni e il livello di Corporate; esse scaturiscono dall’aggregazione di più Divisioni attorno alle loro interrelazioni più significative. Tale aggregazione può essere realizzata con criteri differenziati, nell’ambito dei vari settori, sulla base di interrelazioni diverse (di produzione, tecnologiche, di mercato), in relazione alla loro criticità per il vantaggio competitivo. In realtà, i settori si sono spesso sviluppati come un livello organizzativo intermedio per ottimizzare l’ampiezza di controllo dell’Alta Direzione di Corporate. Allo scopo di facilitare l’integrazione tra le strutture di Corporate e i settori, in alcune esperienze la responsabilità dei settori è stata affidata ai direttori centrali di Corporate: tale scelta ha caratterizzato, nella seconda metà degli anni ’80, la struttura organizzativa della Montedison, delle Ferrovie dello Stato e dell’Ilva. L’adozione di questa soluzione organizzativa ha contribuito di fatto a svuotare i settori dei contenuti di responsabilità strategica, lasciando alle Divisioni che gestiscono le SBU e alla Corporate la piena responsabilità, rispettivamente, delle strategie di business e di quelle di Corporate, comprese le strategie orizzontali. In realtà, i settori possono svolgere un ruolo importante di management strategico nell’attivazione e nella gestione delle connessioni tra i business aggregati nei loro ambiti organizzativi. Anche la struttura che gestisce le attività condivise – parzialmente accentrate – può svolgere un rilevante ruolo di coordinamento delle interrelazioni, inerenti tale attività, tra le unità di business. La struttura nell’ambito della quale vengono accentrate le attività condivise può essere collegata mediante diverse soluzioni organizzative con le unità di business (dipendenza diretta da un’unità di business con un collegamento funzionale con le altre unità; dipendenza diretta da una struttura centrale o di settore), fermo restando le responsabilità di profitto delle Divisioni. Le attività di approvvigionamento, di logistica, di produzione rappresentano le attività più diffuse sulle quali è stato realizzato il coordinamento delle interrelazioni tramite l’accentramento parziale, soprattutto nel settore dei beni di largo consumo. I comitati di attenzione al mercato Altre forme organizzative orizzontali che possono svolgere un ruolo di supporto operativo al governo delle interrelazioni sono i comitati di attenzione al mercato. Quando l’articolazione strutturale dell’impresa diversificata in modo correlato è costituita dalla divisionalizzazione secondo il criterio del prodotto, emerge l’esigenza di recuperare la gestione delle interrelazioni di mercato tra le SBU delle diverse Divisioni prodotto. Per esempio, le imprese multibusiness che operano nella componentistica per veicoli sono organizzate per Divisioni prodotti intensamente correlate anche a livello di mercato sia nel canale primario (costruttori di veicoli) sia nel mercato secondario del ricambio. In tali casi vengono costituiti

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

dei comitati di attenzione ai singoli canali di mercato, con una focalizzazione che può spingersi a livello di singolo cliente nel caso del mercato primario. Analoghe considerazioni possono valere per le imprese multibusiness con una divisionalizzazione per categorie di clienti (per esempio, nel settore dei servizi informatici), in cui diventa rilevante la gestione delle interrelazioni tra le SBU di prodotti e quelle delle soluzioni applicative. Alcune tipologie di interrelazioni possono essere attivate ricorrendo alla costituzione di task force temporanee interdivisionali, con il coinvolgimento delle strutture di Corporate interessate. Tale forma organizzativa, in particolare, può essere utilizzata per individuare, valutare e realizzare le potenziali interrelazioni tangibili per facilitare il trasferimento di competenze – e in particolare per il trasferimento dei risultati dell’apprendimento di una SBU ad altre SBU che possono utilizzarli per migliorare la propria posizione competitiva – per progettare e realizzare i meccanismi orizzontali di coordinamento delle connessioni sinergiche, come i sistemi informativi aziendali. Il problema del coordinamento interdivisionale può trovare soluzione anche attraverso l’adozione di sistemi operativi, che svolgono una funzione di supporto al coordinamento delle interrelazioni tra le diverse SBU della struttura strategica dell’impresa. Particolare rilevanza in tal senso assumono i sistemi di pianificazione strategica, le procedure organizzative interdivisionali, i sistemi di incentivazione e le altre pratiche operative di gestione del personale, nonché i processi per la soluzione dei conflitti interdivisionali.

8.4.2 I sistemi operativi di coordinamento L’implementazione delle strategie di corporate non passa solo attraverso la predisposizione di unità organizzative ad hoc (soluzioni strutturali) ma anche l’elaborazione di meccanismi e sistemi operativi volti al coordinamento delle attività e alla condivisione delle informazioni. Tali meccanismi interessano principalmente il supporto alle attività di pianificazione strategica e il coordinamento, in una logica Corporate unitaria, delle procedure organizzative interdivisionali. Il sistema di pianificazione strategica Il sistema di pianificazione strategica generalmente presenta una connotazione verticale, che porta a trascurare la ricerca delle connessioni sinergiche tra le SBU, anche quando combina gli approcci top-down e bottom-up secondo un processo ricorsivo. Esistono, comunque, sedi di valutazione preventiva delle potenziali interrelazioni rappresentate dalle analisi svolte dalla struttura di Corporate di pianificazione strategica, dal comitato strategico e dai responsabili di settore. La dimensione orizzontale del processo di pianificazione strategica viene recuperata soltanto se vengono esplicitate le interrelazioni e le relative iniziative di valorizzazione nella formulazione dei piani strategici delle Divisioni coinvolte nei rapporti di interrelazione. Le procedure organizzative interdivisionali Le procedure organizzative interdivisionali hanno la funzione di coordinamento ex ante delle interdipendenze transazionali, rappresentate dai rapporti di fornitura interna, con i relativi prezzi di trasferimento. Esempi tipici di interdipendenze transazionali che pongono problemi di applicazione dei prezzi di trasferimento sono rappresentati dalle relazioni tra la Divisione prodotto, che vende al canale

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del primo impianto, e la Divisione ricambi nelle imprese multibusiness della componentistica per auto, oppure tra la Divisione acciai comuni e la divisone acciai speciali nelle imprese siderurgiche. Le procedure organizzative interdivisionali vengono, di conseguenza, definite con il coordinamento della competente struttura centrale di Corporate e con la partecipazione attiva delle Divisioni di business.

8.5 Il ruolo delle strutture di Corporate nell’attuazione delle strategie di diversificazione Con riferimento alla natura e all’intensità delle connessioni o interrelazioni tra le SBU possedute dall’impresa e quelle sviluppate per via interna o tramite acquisizioni, le operazioni di diversificazione sono riconducibili secondo Rispoli (1998) ad alcune tipiche tipologie. A ognuna di esse corrisponde una maggiore o minore convenienza alla condivisione delle attività a livello Corporate, con un diverso corrispondente grado di divisionalizzazione, al variare della natura e delle intensità delle interrelazioni tra le SBU. In particolare, al variare del tipo di strategia di diversificazione cambia notevolmente il ruolo che le unità di Corporate possono svolgere nell’attuazione delle scelte dell’impresa (Figura 8.7).

8.5.1 La diversificazione conglomerale Nel caso di diversificazione non correlata (conglomerale) le SBU via via acquisite presentano irrilevanti connessioni tecnologiche o di mercato con le attività dell’impresa acquirente.

Nel caso di diversificazione non correlata (conglomerale) le SBU via via acquisite presentano irrilevanti connessioni tecnologiche o di mercato con le attività dell’impresa acquirente. In realtà, anche la diversificazione conglomerale implica l’attivazione di interrelazioni derivanti dalla condivisione di risorse fungibili, come quelle finanziarie, le competenze di general management (risorse umane) e di ge-

Corporate Intermediazione finanziaria Interventi di ristrutturazione Strutture orizzontali Sistemi operativi

Direzioni centrali di corporate Direzioni centrali di servizio Strutture orizzontali Sistemi operativi

Divisioni – Società operative

Figura 8.7 Strategie di diversificazione e ruolo delle strutture di Corporate.

Diversificazione conglomerale

Diversificazione non strettamente correlata

Diversificazione correlata

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stione finanziaria. Ciò non basta, tuttavia, ad attivare processi sinergici capaci di produrre un surplus di valore derivante dalla strategia complessiva del sistema. In carenza di tale contributo, il Corporate ha un ruolo marginale, limitandosi a svolgere le funzioni di intermediazione finanziaria, ricevendo le risorse finanziarie dagli azionisti e dai finanziatori e riallocandole in una molteplicità di business, secondo una prospettiva di gestione di portafoglio. L’impossibilità di formulare una strategia orizzontale, a causa della carenza di margini di valorizzazione delle interrelazioni tra le SBU, inibisce lo sviluppo di consistenti unità centrali di Corporate. Le funzioni di gestione del portafoglio di business vengono pertanto svolte dalla capo-gruppo con l’ausilio di funzioni consultive di staff e si limitano al traferimento di risorse finanziarie (e talvolta di know how gestionale) a Divisioni (o società) con accentuata autonomia strategica e organizzativa. Secondo la logica di portafoglio, che spesso caratterizza le holding conglomerate, le società controllate che gestiscono le SBU rimangono competenti nella formulazione delle strategie di business, mentre il Corporate svolge le funzioni di raccolta dei mezzi finanziari a un costo più basso di quanto possano le singole società, di allocazione delle risorse nelle SBU per la realizzazione dei loro investimenti, di controllo economico-finanziario delle società in portafoglio. Per assicurare la provvista di mezzi finanziari a basso costo, la capo-gruppo spesso ricorre alla costituzione di una società finanziaria captive, nella forma di joint venture interna. L’efficienza con cui il Corporate alloca le risorse è dovuta alle competenze finanziarie delle strutture centrali e all’accesso privilegiato alle informazioni per valutare le performance dei progetti di investimento. Pur nell’elevata autonomia delle imprese oggetto di diversificazione (target), il ruolo della capo-gruppo è più incisivo nel caso in cui la diversificazione si associ all’obiettivo di ristrutturazione dell’impresa acquisita. A differenza di quanto accade, infatti, nella semplice gestione di portafoglio, la ristrutturazione implica la sostituzione dei dirigenti, la ristrutturazione delle attività, l’eliminazione di quelle attività sotto-utilizzate che non producono valore o la loro concentrazione a livello di Direzioni Centrali di Corporate.

8.5.2 La diversificazione non strettamente correlata La diversificazione debolmente correlata si fonda sulla possibilità di realizzare economie di scope (ampiezza) attraverso la condivisione di risorse intangibili (marchi, reputazione dell’impresa, tecnologie, competenze organizzative) o di attività di supporto tra i business tradizionali dell’impresa e quelli oggetto di diversificazione. Esempi emblematici, in tal senso, sono rappresentati dalle imprese farmaceutiche che acquisiscono delle SBU complementari – come quelle del settore degli alimenti dietetici – e dalle imprese fornitrici di energia elettrica che entrano nel settore del gas, dell’acqua e in quello delle telecomunicazioni. Le risorse condivise, perché producano economie di scope, devono essere trasferibili tra le SBU a un basso costo, in modo da condurre al miglioramento della posizione competitiva delle SBU diversificate, ovvero all’accrescimento delle loro competenze distintive, con lo sviluppo nel futuro di nuove opportunità reddituali. Più che attraverso specifiche unità di Corporate, la diversificazione non strettamente correlata può essere perseguita attraverso la predisposizione di strutture orizzontali e meccanismi operativi ad hoc.

La diversificazione debolmente correlata si fonda sulla possibilità di realizzare economie di scope attraverso la condivisione di risorse intangibili o di attività di supporto tra i business tradizionali dell’impresa e quelli oggetto di diversificazione.

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8.5.3 La diversificazione strettamente correlata La diversificazione collaterale, omogenea, strettamente correlata si ha con lo sviluppo interno o con l’acquisizione di business complementari a quelli già esistenti nell’impresa, caratterizzati da intense ed estese interrelazioni lungo le rispettive catene del valore.

La diversificazione collaterale, omogenea, strettamente correlata si ha con lo sviluppo interno o con l’acquisizione di business complementari a quelli già esistenti nell’impresa, caratterizzati da intense ed estese interrelazioni lungo le rispettive catene del valore. La valorizzazione delle interrelazioni (tangibili e intangibili), in termini di miglioramento del vantaggio competitivo, richiede un forte impegno del Corporate, che si traduce nella predisposizione e nell’utilizzo di strutture e di meccanismi orizzontali per il coordinamento delle relazioni tra le unità di business. Lo sviluppo delle unità centrali di Corporate a sostegno delle forme di diversificazione correlata enfatizza le possibilità di sfruttamento delle potenziali sinergie derivanti da significative interrelazioni tra i business diversificati e la valorizzazione, in termini di sinergie, delle stesse attraverso le strategie orizzontali. In tal senso, le Direzioni Centrali di Corporate contribuiscono all’attuazione delle strategie orizzontali, che attraversano le frontiere delle Divisioni (SBU) e attivano ulteriori fonti di vantaggio competitivo, enfatizzando i vantaggi di costo o di differenziazione dei singoli business. Lo sviluppo delle Direzioni Centrali di Corporate può favorire anche la condivisione di asset intangibili e il trasferimento di competenze, costituendo una solida base per le strategie di diversificazione, anche se la ricerca di opportunità di diversificazione basata sul trasferimento di competenze appare più complessa rispetto alla medesima ricerca basata sulle interrelazioni tangibili, in quanto implica una conoscenza della dinamica delle competenze interne dei business e di quelle dei settori obiettivo di diversificazione. Tuttavia, la condivisione di asset intangibili a livello Corporate, in particolare per le Direzioni Centrali di Pianificazione Strategica e Marketing Strategico, può favorire lo sviluppo di nuove opportunità di diversificazione basate sulle interrelazioni tangibili. In tale processo il Corporate, sia a livello di vertice strategico sia di Direzioni Centrali, svolge una funzione di veicolo del trasferimento di competenze tra i business diversificati. Lo sfruttamento delle interrelazioni tangibili comporta normalmente la limitazione dell’autonomia gestionale delle Divisioni che gestiscono le diverse SBU, nonché l’emergere di costi di rigidità a carico delle stesse. Il Corporate si trova, perciò, a dover mantenere un dinamico equilibrio tra l’autonomia delle SBU e l’esigenza di governo delle interrelazioni, tra accentramento e decentramento organizzativo, tra strategie di business e strategie orizzontali.

8.5.4 Gli ostacoli organizzativi all’implementazione delle strategie di diversificazione Le interrelazioni spesso non vengono realizzate, facendo ricadere la gestione dei business a livello Corporate in una logica di portafoglio. Talvolta, le ragioni della mancata realizzazione delle interrelazioni possono essere ascritte a caratteristiche, anche contingenti, dell’impresa nel suo complesso o del Corporate, quali: • •

scelta deliberata del Corporate di non intervento per evitare di porre vincoli all’autonomia delle Divisioni che presentano soddisfacenti performance reddituali e per non stemperare la loro aggressività competitiva; carenze delle strategie di Corporate, e in particolare delle strategie orizzontali;

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• •

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inadeguatezza del modello organizzativo per l’efficace implementazione dei processi di diversificazione correlata, per via interna o tramite acquisizioni (Rispoli, 1998; Lipparini, 1995); eccessivi costi associati alla condivisione di risorse e di attività.

Sovente, invece, i potenziali vantaggi competitivi vengono dissolti dalle difficoltà organizzative che il Corporate incontra nelle interrelazioni attraverso il coordinamento delle SBU. Tali difficoltà possono essere ricondotte alle resistenze delle singole SBU al trasferimento di tecnologie e competenze e alla condivisione di risorse, dovute alla preoccupazione di perdere il livello di autonomia raggiunto, ritenuto necessario per competere nel proprio settore o mercato. Tali resistenze possono essere ricondotte a: • •









diversità dei contesti organizzativi delle SBU interrelate, in termini di orientamenti strategici, di competenze dei dirigenti, di strutture dei processi operativi derivanti dall’eterogeneità delle relative catene del valore; assenza di un collante culturale di Corporate, che faciliti l’emergere di differenze nei principi di fondo delle culture divisionali, rafforzate nel tempo da una tradizionale esperienza di autonomia e dalla diversità delle regole competitive nei propri settori. In tali situazioni, la richiesta di realizzare le interrelazioni viene vissuta come un’inopportuna creazione di vincoli che frena l’aggressività competitiva delle Divisioni. La diversità culturale appare in generale più marcata per le SBU di recente acquisizione; asimmetria dei benefici derivanti dalle interrelazioni per le diverse unità di business: essa può produrre resistenze da parte di quelle SBU che si ritengono penalizzate dai limiti imposti dal coordinamento delle interrelazioni, soprattutto se sperimentano performance reddituali e competitive di successo; vincoli imposti alle Divisioni con l’attivazione delle connessioni, che possono essere percepiti da una Divisione come limiti alla sua autonomia e flessibilità, quando tali caratteristiche vengono ritenute indispensabili di fronte alle turbolenze competitive che interessano le relative SBU. Nelle strutture a holding può perciò verificarsi che una società controllata preferisca realizzare le interrelazioni con altre imprese esterne al gruppo, attraverso joint venture contrattuali, piuttosto che all’interno, ritenendo la prima soluzione meno vincolante della seconda, per l’intervento invasivo del Corporate nella gestione delle interrelazioni, a garanzia dell’interesse complessivo del gruppo (Goold, Campbell, Alexander, 1994); resistenze, che possono essere alimentate dai sistemi di controllo delle performance divisionali, focalizzati spesso sui risultati reddituali delle Divisioni. I dirigenti divisionali temono perciò di essere valutati su variabili di cui non hanno il pieno controllo, in quanto localizzate nell’area di responsabilità della struttura che gestisce la condivisione di attività o comunque hanno su tali variabili una responsabilità condivisa con altre Divisioni. Tali sistemi di controllo in molti casi non riconoscono l’apporto delle Divisioni alla realizzazione dei benefici sinergici, incoraggiando l’autonomia espressa dalla piena responsabilità sul risultato reddituale divisionale; sistemi di incentivazione più diffusi, i quali tendono a raffreddare le iniziative verso la realizzazione delle interrelazioni. Le forme di incentivazione per obiettivi quando vengono focalizzate su un unico obiettivo di redditività divisionale incoraggiano l’autonomia a scapito dell’integrazione. Occorre, in-

diversità dei contesti organizzativi delle SBU interrelate assenza di un collante culturale di Corporate

asimmetria dei benefici

vincoli imposti alle Divisioni

resistenze

sistemi di incentivazione

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

vece, allargare il ventaglio degli obiettivi da incentivare, facendo condividere ai responsabili delle SBU un obiettivo reddituale (o di accrescimento del valore per gli azionisti) di Corporate, prevedendo anche l’inclusione di obiettivi inerenti l’attuazione di progetti facilitanti la realizzazione delle strategie. Inoltre, essendo gli effetti delle interrelazioni non facilmente quantificabili, almeno in un orizzonte temporale di breve o medio periodo, appare opportuno inserire anche obiettivi controllabili con valutazioni qualitative (Fontana, 1994). L’incentivazione attraverso le diverse forme di stock option dovrebbe attenuare le difficoltà all’integrazione delle unità di business, in quanto l’entità dell’incentivo viene a dipendere dalla performance dell’impresa globalmente considerata. Le insoddisfacenti performance di creazione del valore per gli azionisti da parte delle imprese eccessivamente diversificate hanno sollecitato, a partire dagli anni ’80, iniziative di semplificazione della struttura strategica e delle strutture di Corporate, che si sono concretizzate con la rifocalizzazione in forme di diversificazione vincolate e omogenee. La cessione di attività, anche quelle di recente acquisizione, la realizzazione di spin-off per le attività eterogenee rispetto al core business, il maggiore ricorso agli accordi strategici piuttosto che alle operazioni di acquisizione per realizzare i benefici sinergici delle interrelazioni o per lo spostamento di competenze, costituiscono significative manovre strategiche per conseguire una maggiore specializzazione delle imprese.

8.6 I sistemi di gestione delle risorse umane Tra i sistemi operativi interdivisionali assumono particolare rilevanza i meccanismi di incentivazione dei dirigenti e le politiche di gestione del personale. Tali strumenti, che si sono evoluti negli anni, possono oggi essere ricondotti al tema più generale dello sviluppo del capitale umano aziendale.11

8.6.1 Dalle risorse umane al capitale umano Da oltre un decennio gli studiosi di management e organizzazione vanno alla ricerca del legame tra risorse umane, capitale umano e vantaggio competitivo.

human capital organization capital

Da oltre un decennio gli studiosi di management e organizzazione vanno alla ricerca del legame tra risorse umane, capitale umano e vantaggio competitivo. Molti di questi studi hanno concentrato l’attenzione sul fenomeno dell’apprendimento individuale e organizzativo (collettivo), altri hanno spostato il focus sull’aspetto relazionale. Dall’analisi di questi contributi scientifici è possibile distinguere tra i principali strumenti di gestione delle risorse umane (valutazione, retribuzione, carriere) e i principali legami tra il capitale umano, la creazione di valore e la sostenibilità del vantaggio competitivo (fedeltà del personale, cultura organizzativa, ricambio generazionale). A tale proposito alcune utili considerazioni possono essere tratte dalla considerazione del capitale umano nell’ambito del più generale concetto di capitale intangibile dell’impresa. In particolare, in questa sede occorre soffermarsi sul concetto di human capital e di organization capital: il primo tiene conto delle 11

Per gli aspetti relativi alle politiche di gestione di risorse umane legate alle strategie di internazionalizzazione si rimanda al Capitolo 12 di Franco Fontana e Luca Giustiniano in: Caroli M., Gestione delle imprese internazionali 3e (2016).

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

competenze, dei fattori distintivi (talento) e delle conoscenze specifiche (idiosincratiche) possedute dai dipendenti. Per quanto attiene invece al capitale organizzativo, oltre agli aspetti più generali legati alla leadership del top management, l’attenzione si concentra sull’allineamento delle caratteristiche del personale agli obiettivi strategici, alla capacità degli impiegati di condividere la conoscenza attraverso affiancamenti e networking. Il legame tra gestione del capitale umano e sviluppo strategico dell’impresa si basa su un concetto tipico del capitale aziendale intangibile, ossia quello secondo cui il valore degli asset intangibili dipende dalla loro liquidità (strategic readiness), ovvero dalla loro capacità di essere pronti a sostenere adeguatamente la strategia aziendale (Kaplan e Norton, 2004), influenzando i processi interni critici per la creazione di valore per clienti e azionisti. Così come per il concetto di liquidità degli asset fisici, maggiore è la readiness degli asset intangibili, più veloce è il loro contributo a generare cassa. Nel caso di human capital, la liquidità è rappresentata dal possesso da parte dei dipendenti della giusta qualità e livello di competenze per effettuare i processi interni critici per la realizzazione della strategia aziendale, mentre nel caso di organization capital la liquidità è data dalla capacità dell’impresa di cambiare l’organizzazione per supportare la strategia e, al contempo, dal grado di interiorizzazione del personale di cultura, valori, visione e missione dell’impresa. La valutazione del grado di liquidità, o pronta usabilità, del capitale intangibile dipende dalla coerenza di quest’ultimo con gli obiettivi strategici dell’impresa. L’assessment degli asset intangibili può essere allora realizzato attraverso lo strumento della mappe strategiche, che forniscono un framework di collegamenti tra gli asseti intangibili e la creazione di valore, attraverso quattro differenti prospettive: finanziaria, del cliente, dei processi interni, della crescita e apprendimento. La liquidità del capitale umano può essere sviluppata nel tempo attraverso interventi strategici e organizzativi svolti a stimolare: • •



fedeltà del personale, intesa come estensione dei tempi di permanenza individuali dei dipendenti oltre la soglia ritenuta minima per lo sviluppo delle competenze base; cultura organizzativa, concepita come insieme di valori e principi accettati e condivisi all’interno dell’impresa; un collante culturale forte è in grado di omogeneizzare i comportamenti e favorire l’integrazione dei neoassunti (Daft, 1998); ricambio generazionale, inteso come avvicendamento tra risorse senior e neoassunti nelle varie posizioni; questo fattore è legato al vantaggio competitivo e allo sviluppo del capitale umano nella misura in cui ci siano forme strutturate di affiancamento e mentorship che accompagnino i passaggi generazionali e gli “scambi di testimone” (Giustiniano et al., 2016).

Sotto un’altra prospettiva, la resources-based view pone la massima enfasi sul legame tra capitale umano e vantaggio competitivo, concentrandosi soprattutto sul ruolo che le competenze distintive possono rivestire in chiave strategica nella creazione di valore prospettico. È da notare che detentori e generatori, in ultima analisi, di queste competenze distintive non sono altro che le risorse umane (persone) dell’impresa. Da questa considerazione ci sembra emergere la centralità che dovrebbe essere riservata alle persone all’interno delle scelte di valore da compiere nel processo di pianificazione.

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Nel caso di human capital, la liquidità è rappresentata dal possesso da parte dei dipendenti della giusta qualità e livello di competenze per effettuare i processi interni critici per la realizzazione della strategia aziendale; mentre nel caso di organization capital, la liquidità è data dalla capacità dell’impresa di cambiare l’organizzazione per supportare la strategia e, al contempo, dal grado di interiorizzazione del personale di cultura, valori, visione e missione dell’impresa.

fedeltà del personale

cultura organizzativa

ricambio generazionale

La resources-based view pone la massima enfasi sul legame tra capitale umano e vantaggio competitivo, concentrandosi soprattutto sul ruolo che le competenze distintive possono rivestire in chiave strategica nella creazione di valore prospettico.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

8.6.2 Gli strumenti di gestione delle risorse umane a supporto dell’implementazione delle strategie contratto psicologico

learning by doing learning by networking

Dal punto di vista dell’impresa la carriera è l’insieme di mansioni che uno ricopre nel tempo e che sono qualificate congiuntamente dal livello retributivo, dalla qualifica, dalla posizione, dal livello gerarchico, dai contenuti e dalle caratteristiche professionali dei compiti. percorso di carriera lineare

percorso di carriera da esperto

percorso a spirale

La gestione delle risorse umane e lo sviluppo del capitale umano si basano entrambi sul concetto di contratto psicologico che è caratterizzato dalle reciproche aspettative tra l’organizzazione e i suoi membri, riguardanti non solo la parte contrattuale formale della relazione di lavoro ma anche l’insieme di diritti e obblighi nelle relazioni individui-organizzazione. Tra gli aspetti del contratto psicologico che lega gli individui alle organizzazioni di seguito verranno illustrati quelli maggiormente attinenti all’implementazione delle scelte strategiche, a livello sia di business sia Corporate. Formazione La formazione ha un ruolo fondamentale nella generazione, sviluppo e mantenimento delle conoscenze e capacità degli individui ed è per l’organizzazione fonte di vantaggio competitivo; può estendersi sia alle competenze (saper fare) manageriali o tecnico-specialistiche, sia alle capacità (saper essere), legate agli aspetti comportamentali, direttivi e congnitivo-concettuali. Le imprese tendono sempre di più a investire in formazione specifica che incrementa direttamente le conoscenze dei processi specifici dell’impresa e la prestazione degli individui in un contesto. Recentemente alle iniziative di formazione specifica per competenze e capacità, si è affiancata la tendenza a utilizzare maggiormente le capacità specifiche presenti nell’organizzazione cercando di trasferire il sapere collettivo già presente, attraverso forme di apprendimento sul campo, affiancamento, tutorship, coaching, siti intranet. Oltre alle esperienze sul campo nelle quali vengono attivati processi di learning by doing, lo sviluppo di alcune conoscenze avviene attraverso meccanismo di learning by networking, ossia attraverso processi di relazione interpersonale tra persone più o meno esperte, per esempio nei lavori di gruppo. I percorsi di carriera La percezione individuale della carriera può essere associata al senso di progredire nell’ambito del proprio sviluppo professionale; dal punto di vista dell’impresa la carriera è l’insieme di mansioni che uno ricopre nel tempo e che sono qualificate congiuntamente dal livello retributivo, dalla qualifica, dalla posizione, dal livello gerarchico, dai contenuti e dalle caratteristiche professionali dei compiti. Nell’ambito dei vari percorsi di carriera è possibile distinguere tra tre tipologie fondamentali (Tosi, Pilati, 2007). 1. Percorso di carriera lineare che si svolge attraverso spostamenti verticali all’interno della struttura fino a raggiungere il limite della carriera. Il percorso si sviluppa pertanto in una delle funzioni dell’impresa cercando di progredire nella scala gerarchica funzionale e attraverso mutazioni di status (retribuzione, benefits, responsabilità formali). Presuppone una struttura organizzativa verticale e gerarchizzata. 2. Percorso di carriera da esperto, che si basa sulle competenze e sviluppo della professione. Utilizzato in organizzazioni piatte, elevato controllo, unità che lavorano per progetti/processi; anche i sistemi retributivi tendono a essere agganciati alle competenze. 3. Percorso a spirale, che implica spostamenti tra ruoli e posizioni anche a livello trans-funzionale e trans-divisionale. Il percorso di carriera a spirale

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

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ideale dovrebbe consistere nello spostarsi da un’occupazione a un’altra collegata in modo da trasferire conoscenze e capacità sviluppate. È molto simile a quello lineare solo che invece che spostarsi verticalmente è predominante lo spostamento orizzontale. I cambiamenti che si sono registrati negli ultimi anni spingono ad adottare strutture meno gerarchiche e più piatte che favoriscono il lavoro in team e l’adozione di sistemi di carriera orizzontale. Per una pianificazione delle carriere finalizzata alla valorizzazione strategica del patrimonio di competenze aziendali nel tempo, le imprese tendono a impostare percorsi di carriera duali, specifici e differenziati, per i manager e per gli specialisti (professionals) (Fontana, 1994). Mentre i primi prevedono un andamento a spirale, volto a favorire lo sviluppo di competenze gestionali multi-funzionali (o multiambito nelle funzioni complesse), i secondi privilegiano lo sviluppo in profondità di conoscenze e competenze specifiche e si articolano su livelli di supervisione e ambiti di responsabilità crescenti. Nelle imprese multidivisionali e nelle holding l’obiettivo di valorizzare le potenziali interrelazioni può essere raggiunto anche mediante il coordinamento delle politiche del personale delle Divisioni, da parte delle strutture centrali di Corporate, che può contribuire a predisporre condizioni organizzative facilitanti la realizzazione delle interrelazioni. Le politiche di assunzione e di carriera, infatti, tendono a favorire la formazione, lo sviluppo e il trasferimento delle competenze distintive, oltre a consentire il rafforzamento del collante valoriale della cultura aziendale, funzionale a rendere permeabili i confini divisionali. I percorsi di carriera e i piani di formazione, realizzati con una prospettiva interdivisionale, sviluppano una visione di Corporate senza dissolvere la focalizzazione sulle strategie di business. Tale visione può contribuire a facilitare la soluzione dei conflitti interdivisionali evitando affaticanti processi di negoziazione che possono risolversi in soluzioni sub-ottimizzanti. È opportuno, comunque, prevedere percorsi, momenti e sedi collegiali di risoluzione di conflitti, per evitare che siano lasciati alla deriva delle dinamiche locali. La gestione dei conflitti interdivisionali da parte della Corporate, con adeguati percorsi e forme organizzative, costituisce una condizione non irrilevante per la realizzazione delle interrelazioni. L’allineamento strategico del sistema di compensation Il processo di compensation management individua un sistema complesso di strategie, politiche e strumenti fondato su una serie di decisioni strategiche e operative capaci di influenzare le motivazioni e anche l’efficacia della people strategy e attraverso essa la realizzazione della business strategy (Gabrielli, 2005), laddove per people strategy si intende un mix integrato di politiche, di progetti e di prassi quotidiane, ispirato da un valore guida e finalizzato al cambiamento dei comportamenti il cui impatto si misura nell’accrescimento del calore del capitale umano e quindi del business. Il sistema di compensation management ha l’obbiettivo di assumere (in coerenza con la people strategy e i piani della business strategy) le decisioni strategiche e operative in ordine al livello quanti-qualitativo di ricompensa economica da adottare nei confronti di individui e gruppi. Nel sistema di compensation rientrano la retribuzione fissa e variabile, i benefits e tutte le altre forme di riconoscimenti economici. La strategia di compensation si riferisce all’insieme di scelte di medio-lungo periodo relative alle politiche di remunerazione (e dei relativi strumenti a sup-

people strategy business strategy Il sistema di compensation management ha l’obbiettivo di assumere le decisioni strategiche e operative in ordine al livello quantiqualitativo di ricompensa economica da adottare nei confronti di individui e gruppi. La strategia di compensation si riferisce all’insieme di scelte di medio-lungo periodo relative alle politiche di remunerazione, e dei relativi strumenti a supporto, che un’organizzazione progetta e utilizza per coordinare l’azione delle varie componenti al fine di influenzare e guidare i comportamenti organizzativi di persone e gruppi.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

porto) che un’organizzazione progetta e utilizza per coordinare l’azione delle varie componenti al fine di influenzare e guidare i comportamenti organizzativi di persone e gruppi. In tale quadro, le politiche di compensation esprimono l’insieme dei comportamenti e le modalità individuate per realizzare nel tempo la strategia di compensation. Gli obiettivi della strategia di compensation sono (Gabrielli, 2005): • • • • •

Management by Objectives L’incentivazione per obiettivi consiste nell’erogazione di una parte aggiuntiva di ricompensa monetaria rispetto alla retribuzione annua lorda stabilita e di misura variabile.

aree chiave di risultato

mantenere attrattività e competitività nei confronti del mercato; accrescere la performance complessiva e riconoscere, in modo differenziato, i contributi individuali; rinforzare i comportamenti organizzativi coerenti con le strategie aziendali e il processo motivazionale delle persone; mantenere/accrescere il grado di flessibilità del costo del lavoro; comunicare i valori dell’organizzazione per allineare la visione del management e delle persone.

Oltre alle scelte di posizionamento rispetto al mercato del lavoro, che deve prevalentemente allinearsi con le strategie dei singoli business, significativi legami con le strategie di Corporate sono rinvenibili nell’utilizzo dei sistemi di Management by Objectives (MBO) (Fontana, 1994). L’incentivazione per obiettivi, introdotta da Drucker, consiste nell’erogazione di una parte aggiuntiva di ricompensa monetaria rispetto alla retribuzione annua lorda stabilita e di misura variabile. Tale variabilità è in funzione, da un lato, delle scelte di politica retributiva dell’organizzazione, dall’altro del raggiungimento di un mix di obiettivi assegnati all’inizio del periodo di riferimento e formalmente documentabili all’interno di uno schema contrattuale e in un regolamento che individua e fissa le relative regole di funzionamento. L’MBO dà piena forza all’azione e alla responsabilità individuale e nel contempo si configura un indirizzo comune di visione e di sforzi. L’incentivazione per obiettivi utilizza i meccanismi dell’aspettativa e del rinforzo, opera infatti sia ex ante, focalizzando i comportamenti degli interessati sugli obiettivi e i relativi incentivi, sia ex post, tramite il controllo dei risultati e l’erogazione degli incentivi. È importante che l’entità del premio sia di entità significativa rispetto alla retribuzione fissa affinché si vogliano ottenere effetti significativi in termini di spinta motivazionale. Scelta degli obiettivi Per costruire un adeguato MBO è fondamentale l’identificazione degli obiettivi, attraverso l’individuazione delle aree chiave di risultato (combinazioni produttive parziali le cui performance sono rilevanti per il risultato aziendale). Le aree chiave sono quelle aree di attività dove è necessario realizzare una prestazione soddisfacente per ottimizzare il risultato di livello superiore. Gli obiettivi devono essere: • • • • •

prioritari per le strategie aziendali; significativamente correlati con le prestazioni individuali, influenzabili dalla persona incentivata (l’MBO è caratterizzato da un’incentivazione individuale e non di gruppo); realistici, ambiziosi e sfidanti (non troppo facili) ma comunque raggiungibili; misurabili e controllabili attraverso i sistemi aziendali; coerenti della dimensione temporale.

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

Nel caso di cambiamenti di strategia è importante prevedere un piano di correzione. L’assenza di tali correzioni potrebbe essere demotivante nel caso di non raggiungimento degli obiettivi per cause a loro non imputabili. La formulazione del mix di obiettivi è la fase fondamentale per l’implementazione di un sistema di MBO e più in generale di incentivazione per obiettivi. Gli obiettivi possono essere di tipo economico-finanziario, di processo, aziendali o funzionali o individuali. Negli ultimi anni nell’MBO ci si focalizza a cogliere non soltanto il raggiungimento degli obiettivi ma a cogliere, indirizzare e premiare il come vengono raggiunti. Quindi, oltre che per premiare, gli MBO servono per orientare i cambiamenti e modificare la cultura organizzativa. Individuato il mix di obiettivi, bisogna assegnare il peso a ognuno di essi basandosi: • •

• • • • •

Gli obiettivi possono essere di tipo economico-finanziario, di processo, aziendali o funzionali o individuali.

sulla criticità dell’area individuata rispetto alle strategie dell’organizzazione, alle performance e alla responsabilità ricoperta; sull’influenza che la prestazione dell’individuo ha sul concreto raggiungimento del risultato, tenuto conto della sua misurabilità e controllabilità.

Occorre associare a ogni obiettivo degli indicatori di performance adeguati e coerenti con la strategia di incentivazione, che possono essere (Fontana, 1994): •

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reddituali: si riferiscono alla performance economica dell’organizzazione nel suo complesso e/o singole unità organizzative; finanziari: scaturiscono dal piano degli investimenti e dal budget finanziario; fisici: volti al mantenimento di un adeguato livello di efficienza dei processi operativi; temporali: per esempio, per realizzare la dismissione di un impianto entro una certa data, la dimensione temporale assume un ruolo critico; strategici: hanno come riferimento il piano strategico dell’organizzazione e sono di lungo periodo; di integrazione: identificano corresponsabilità rispetto a obiettivi critici.

Una delle critiche rivolte ai sistemi di incentivazione e, in particolare, a quelli per obiettivi riguarda la loro eccessiva focalizzazione sul conseguimento della performance attesa individuale di breve periodo, di funzione o di business. Tale orientamento, per certi versi disfunzionale, non costituisce una debolezza intrinseca del sistema; piuttosto rappresenta la manifestazione di un’erronea applicazione dello stesso e, in particolare, del processo di definizione degli obiettivi da incentivare. I sistemi di incentivazione, in quanto meccanismi di controllo organizzativo, orientano i comportamenti organizzativi. Essi, pertanto, si trovano sovente a dover sollecitare i comportamenti individuali e collettivi verso situazioni di compromesso tra richieste di comportamento divergenti: la focalizzazione sugli obiettivi di breve e di lungo periodo di business e dell’impresa, ovvero tra la performance di business e l’integrazione delle connessioni tra le SBU. Il sistema MBO, se correttamente utilizzato, può contribuire a mantenere l’orientamento dei comportamenti organizzativi verso un equilibrato e mutevole trade-off tra esigenze in parte divergenti, mediante la scelta di un adeguato ventaglio di obiettivi da incentivare e del relativo peso. Il mix di obiettivi dei direttori di Divisione sarà perciò costituito da obiettivi di profitto specifici delle singole SBU, verso i quali hanno una responsabilità primaria, e da obiettivi (strategici e reddituali) dell’impresa o del Gruppo, nonché da obiettivi specifici di progetti

Occorre associare a ogni obiettivo degli indicatori di performance adeguati e coerenti con la strategia di incentivazione. reddituali finanziari fisici temporali strategici di integrazione

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Più forte è la richiesta di attivazione delle interdipendenze, maggiore sarà il peso degli obiettivi di performance dell’impresa.

orientati alla valorizzazione delle interrelazioni. Più forte è la richiesta di attivazione delle interrelazioni, maggiore sarà il peso degli obiettivi di performance dell’impresa. La condivisione, nella dimensione verticale e in quella orizzontale, di obiettivi di performance globale dell’impresa consente di mantenere coerenti gli obiettivi da raggiungere con i trade-off delle richieste di orientamento dei comportamenti organizzativi. I sistemi di incentivazione a lungo termine, fondati sui piani di stock options (Achard, Castello, 2000) e attribuiti in base all’EVA divisionale, risolvono meglio di altre forme i problemi di agenzia e non presentano gli effetti disfunzionali dei più diffusi sistemi di MBO. Equità e incentivi Il temi legati alla compensation e agli incentivi possono anche essere letti in una prospettiva più allargata legata ai modelli di riferimento e alla loro struttura; è indubbio, infatti, che la loro efficacia poggi sulla percezione degli stessi da parte degli individui. Essi enfatizzano la soggettività di cui ogni individuo risente nella valutazione di ciò che riceve dall’impresa a fronte di un risultato raggiunto o di un livello di conformità conseguito. Strettamente connessa all’argomentazione precedente è la necessaria considerazione che il rapporto circolare Motivazione → Performance → Incentivo → Motivazione non risenta solo del contratto psicologico che lega il singolo individuo (A) all’organizzazione, ma che la soggettività delle valutazioni chiama in causa anche il concetto di equità percepita, per cui il singolo non valuta soltanto ciò che riceve dall’impresa (Outcomes A) a fronte di un suo impegno (Input A), ma tende a monitorare costantemente tale rapporto rispetto a lavoratori che ritiene suoi simili (Outcomes B/Input B) (Adams e Freedman, 1976). In caso di iniquità percepita, qualsiasi sia l’incentivazione percepita stimata dall’impresa, il comportamento dell’individuo (A) non è detto che converga verso le performance attesa. Autcomes A Autcomes B = (Equità) Imput A Imput B

[1]

Autcomes A Autcomes B ≠ (Iniquità) Imput A Imput B

[2]

Inoltre, il fatto che i processi di ottenimento dei risultati generino un’ulteriore utilità procedurale implica che il contesto organizzativo (rapporti con i colleghi, tecnologie a disposizione, rapporti con i superiori, politiche di gestione delle risorse umane ecc.) è rilevante ai fini dell’incentivazione; di particolare interesse è il fatto che quando il contesto aziendale viene considerato favorevolmente dai lavoratori, i comportamenti individuali non si limitano ai comportamenti produttivi (ottenimento dei risultati) ma al contrario è possibile innescare dei comportamenti innovativi e cooperativi che, attivati da atteggiamenti individuali proattivi, si sommano ai precedenti. In tal senso, il contesto organizzativo è potenzialmente in grado di generare delle economie relazionali interne basate sulla condivisione di procedure, esperienze, soluzioni; a tal fine il contesto organizzativo dovrebbe essere in grado di stimolare forme di incentivazione intrinseca che valorizzino il patrimonio cognitivo aziendale. In chiave di progettazione organizzativa conviene ricordare la conclusione di Fehr e Falk (2002) per cui è la somma totale degli incentivi che influenza il

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

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comportamento individuale. Il punto chiama in causa da vicino un aspetto sovente trascurato dalla pratica manageriale ma che, anche alla luce delle evidenze citate, risulta essere particolarmente importante: le forme di disincentivo-punizione legate ai comportamenti individuali non tollerati dalle imprese, sovente lasciate all’interpretazione dei singoli responsabili.

8.6.3 Le basi per la sostenibilità del vantaggio competitivo attraverso il capitale umano: l’apprendimento organizzativo L’acquisizione e lo sviluppo delle competenze individuali, l’accumulazione e l’esplicitazione delle competenze tacite e la loro trasformazione in competenze collettive tramite l’apprendimento organizzativo rappresentano nodi critici di un complesso processo che conduce alla formazione delle competenze distintive come determinante ultima della competitività.12 Nel contesto della teoria dell’impresa e dello strategic management, le competenze vengono spesso sviluppate nella prospettiva organizzativa piuttosto che in quella individuale. L’esigenza di definire, o comunque di esplorare, i processi di formazione delle competenze organizzative conduce necessariamente a ripercorrere gli itinerari di acquisizione delle competenze individuali e della loro trasformazione in competenze collettive. L’acquisizione di skill nella forma di figure professionali chiave costituisce perciò il primo stadio del lungo e articolato processo di formazione delle competenze distintive, che si svolge in una prospettiva di competizione sul mercato delle risorse-competenze (Bennet, 1999). Lo sviluppo della conoscenza organizzativa si basa sul processo di trasformazione della conoscenza nelle due dimensioni: 1. tacita-esplicita; 2. individuale-collettiva. La conoscenza si trasferisce tra individui e tra questi ultimi e l’organizzazione e viceversa, nella forma tacita o esplicita, attivando un meccanismo circolare di creazione della nuova conoscenza (Nonaka, 1994). La conoscenza tacita è profondamente radicata nell’azione e si esprime in un saper fare derivante spesso dall’interiorizzazione e implementazione di una conoscenza esplicita (codificata). La dimensione collettiva (organizzativa) della conoscenza tacita implica il possesso da parte degli operatori, oltre che di un saper fare, anche di un saper essere finalizzato a combinare, enfatizzare, sviluppare, razionalizzare e contestualizzare tale conoscenza. Le dimensioni collettiva (sociale) e tacita della conoscenza la rendono idiosincratica e locale nella specifica organizzazione, non separabile dal contesto nel quale si è sviluppata, perciò non trasferibile tra organizzazioni. Le funzioni di ritenzione della conoscenza derivante dall’esperienza, della sua disseminazione nel tessuto organizzativo e del suo impiego coordinato nelle attività operative vengono svolte dal sistema di routine che viene nel tempo sviluppato, rinnovato e organizzato nell’ambito dell’impresa (Nelson, Winter, 1982). 12

Sui rapporti tra organizational learning e core competence si veda Helleloid, Simonin (1994). Sullo sviluppo delle competenze individuali e organizzative si veda Cox, Bealy (1997).

La conoscenza si trasferisce tra individui e tra questi ultimi e l’organizzazione e viceversa, nella forma tacita o esplicita, attivando un meccanismo circolare di creazione della nuova conoscenza.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

L’apprendimento organizzativo fondato sull’esperienza e sull’attività di ricerca all’interno della singola impresa può risultare lento e parziale, se non viene alimentato e integrato con le altre forme di apprendimento (per imitazione, per innesto e sinergico) nell’ambito di alleanze strategiche con altre imprese.

L’apprendimento organizzativo sottostante il processo di formazione delle competenze può richiedere di disimparare, ovvero di dismettere conoscenze e comportamenti pregressi consolidatisi nel tempo.

L’apprendimento tra le organizzazioni che cooperano nelle forme contrattuali o proprietarie costituisce una risposta più rapida e maggiormente articolata, anche se non priva di rischi, alle esigenze emergenti di nuove competenze distintive.13 L’apprendimento organizzativo fondato sull’esperienza e sull’attività di ricerca all’interno della singola impresa può risultare lento e parziale, se non viene alimentato e integrato con le altre forme di apprendimento (per imitazione, per innesto e sinergico) nell’ambito di alleanze strategiche con altre imprese (Ciborra, 1991; Hamel, 1991; Huber, 1991; Lyles, 1988; Quelin, 1997). Nelle alleanze strategiche può manifestarsi nel tempo una situazione di asimmetria tra le capacità di apprendere dei partner l’uno dall’altro, che determina lo spostamento del potere di contrattazione verso il partner che apprende più velocemente e in modo più efficace (Hamel, Prahalad, 1994). Tale fenomeno costituisce uno dei fattori che creano l’instabilità e spesso lo scioglimento delle alleanze. Le alleanze rispondono all’esigenza delle imprese di accedere a risorse complementari a quelle possedute. Raramente, infatti, un’impresa possiede tutte le risorse e competenze per sviluppare contemporaneamente diverse tecnologie e nuovi prodotti. La globalizzazione della competizione e le trasformazioni tecnologiche producono situazioni di instabilità nei tradizionali assetti settoriali che spingono verso la costituzione di coalizioni fondate su forme di partnership multilaterale. In tali condizioni, la competizione si svolge tra coalizioni, piuttosto che tra singole imprese (Volpato, 1986). L’impresa capace di esercitare maggiore influenza sulle altre, sia perché possiede specifiche competenze rispetto agli obiettivi della coalizione, capaci di condizionare i percorsi evolutivi verso le opportunità emergenti, sia perché ha sviluppato spiccate attitudini relazionali, tende ad assumere il ruolo di impresa nodale. Il processo di integrazione di conoscenze e tecnologie diverse presenta problemi organizzativi di notevole rilevanza strategica. La capacità di cogliere e integrare tecnologie e conoscenze disseminate in aree organizzative diverse dell’impresa, in altre organizzazioni, di trasformarle e rinnovarle costituisce essa stessa una capacità distintiva (dinamica) (Lipparini, 1998). La combinazione dinamicamente integrata delle diverse capacità implica una strategia di sviluppo delle competenze fondata su una cultura organizzativa orientata all’apprendimento generativo (Senge, 1990), sulla mobilità del personale che possiede le competenze da integrare, su politiche di carriera che recuperino una prospettiva generalista dei professional, combinando le loro specifiche conoscenze specialistiche con quelle tipiche di altre aree disciplinari.14 L’apprendimento organizzativo sottostante il processo di formazione delle competenze può richiedere di disimparare, ovvero di dismettere conoscenze e comportamenti pregressi consolidatisi nel tempo; esigenza questa che, normalmente, incontra le resistenze dei singoli o di intere aree organizzative. Per le competenze disponibili, formatesi progressivamente nel tempo secondo una prospettiva strategica di lungo periodo, e incorporate, come capacità, nelle persone e nelle tecnologie, si pone il problema della disseminazione nel

13 Si vedano le considerazioni di Lipparini sull’apprendimento accelerato nella Introduzione del testo Lipparini A. (a cura di), 1998. 14 Sulle politiche di carriera si vedano, Fontana F. (1994); Hellriegel D., Slocum J.W. Jr., Woodman R.W. (1995).

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

tessuto organizzativo, per consentire la loro utilizzazione in nuovi prodotti nell’ambito o al di fuori delle unità di business esistenti. Le competenze distintive, per la loro natura di risorsa intangibile (Grant, 1998; Hill, Jones, 1998), diffusa, dinamica, e in quanto incorporate nelle persone, nei sistemi di routine organizzative e nelle tecnologie, implicano un processo di allocazione più complesso rispetto ad altre risorse, non puntuale ma dilatato nel tempo. Tale processo si scontra con gli steccati organizzativi funzionali e con la logica dei meccanismi di carriera che tende a considerare le responsabilità, e quindi il valore degli incarichi, in termini di dimensioni delle attività (quota di mercato, fatturato, numero di dipendenti). La difesa delle competenze – come per le altre forme di vantaggio competitivo – assume una rilevanza critica, che impone l’adozione di strumenti di monitoraggio continuo e di presidio legale e organizzativo dei processi che possono condurre alla progressiva erosione delle competenze distintive (Grant, 1998). La protezione brevettuale e organizzativa delle tecnologie, lo sviluppo della prospettiva del knowledge management, cioè delle funzioni di acquisizione e uso delle conoscenze, con la costituzione di ruoli di presidio dei processi di formazione delle competenze – come il knowledge manager, il director of organizational learning, il chief learning officer, il vicepresident of knowledge transfer – l’adozione di sistemi di valutazione e di incentivazione del personale basati sulle competenze (Klein, 1988; Capaldo, Zollo, 1999; Athey, Morth, 1999; Capucci, 1999) costituiscono alcuni degli strumenti sui quali si fondano le politiche di protezione delle competenze distintive.

8.6.4 I temi aperti nella gestione strategica delle risorse umane L’approccio deterministico che tende a caratterizzare gli approcci tipici della progettazione organizzativa presta sempre più il fianco a critiche nella misura in cui non coglie alcune sollecitazioni a cui l’ambiente esterno tende a sottoporre le imprese e che alimenta il dibattito sulla gestione delle risorse umane. Negli ultimi 10 anni le imprese, almeno quelle di maggiori dimensioni, hanno metabolizzato l’esigenza di creare dei percorsi di selezione e sviluppo delle risorse umane che, in maniera selettiva, siano in grado di tutelare il patrimonio di capitale umano aziendale, anche attraverso l’individuazione di risorse identificabili come “talenti”. A oggi, è sufficientemente acquisita l’esigenza di bilanciare, anche in termini di equità, le opportunità che l’impresa offre a tutte le categorie di personale a sua disposizione. Più delicata rimane, invece, la tematica relativa alla selezione efficace delle persone. Il tema della selezione delle risorse umane, intesa come componente fondamentale della più generale gestione strategica aziendale, ha assunto ulteriore enfasi dal 2008 in poi, a causa della crisi economica registrata a livello globale. La contrazione della disponibilità di risorse ha infatti spinto le imprese a operare in maniera più selettiva e mirata, e con visione più lungimirante, ossia strumentale, anche ai successivi itinerari di carriera. Dal punto di vista organizzativo, la necessità di un recruitment selettivo e puntuale si collega alla responsabilità, in capo alle Direzioni Risorse Umane, di saper interpretare le esigenze delle Business Unit e di saper cogliere quella trasversalità di saperi e competenze che caratterizza sempre più le posizioni aziendali, a qualsiasi livello. D’altro canto, il saper guardare oltre le stringenti esigenze

knowledge management

289

290

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

contingenti è una condizione imprescindibile nella prospettiva dello sviluppo futuro delle risorse stesse; la combinazione di saperi specifici e di capacità complementari (il saper essere) obbliga a una nuova e anticipata dinamica nella valutazione del potenziale dei candidati. Lo scenario generale dell’interazione con il mercato del lavoro, inoltre, si è arricchito negli ultimi anni di varie soluzioni on-line, che offrono alle imprese enormi potenzialità ma che necessitano anche di strumentazioni e competenze manageriali ad hoc. Da un lato, infatti, l’utilizzo di strumenti Internet-based consente alle imprese di esporsi a una platea di potenziali candidati molto più ampia che in passato. Questo vale a maggior ragione per quelle imprese che pur avendo un baricentro specifico (per esempio, Italia) operano a livello internazionale, senza contare i vantaggi legati alla maggiore trasparenza e uniformità nella gestione dei processi di selezione stessi. Dall’altro, tuttavia, similmente a molti altri strumenti aziendali figli della rivoluzione digitale (per esempio, il CRM), una gestione poco accurata e poco responsabile (committed) di questi strumenti da parte delle aziende può creare nocumento all’efficacia delle selezioni stesse. La traduzione dei profili professionali nelle interfacce digitali risente dei limiti, talvolta vessatori, legati alle esigenze di catalogazione e di standardizzazione; il rischio concreto è che le imprese privilegino atteggiamenti (e percorsi) di conformità rinunciando a profili eclettici e/o di formazione multidisciplinare. Rispetto al mondo on-line, quello dei social network e delle community rappresenta forse il contesto più promettente, in quanto consente di approfondire l’analisi dei candidati anche sotto il profilo professionale e, di riflesso, comportamentale. L’efficacia del funzionamento di questi meccanismi sconta, tuttavia, la predisposizione organizzativa di alcune condizioni. In primo luogo, tra le varie soluzioni disponibili, alcune risentono di un contesto di origine (per esempio, USA) in cui le dinamiche impresa-mercato del lavoro sono profondamente diverse dallo scenario europeo e italiano; la flessibilità di alcuni contesti istituzionali influenza la fruibilità di tali strumenti e, in ultima analisi, la loro spendibilità dei propri profili on-line. In secondo luogo, social network e community, pur con i dovuti distinguo, rappresentano delle entità sociali parallele in cui la rappresentazione della realtà non è detto che sia aderente a quella fattuale; il rischio di edulcorazione di alcune esperienze ed enfatizzazione di altre risulta oggettivamente più marcato che nelle forme tradizionali di candidatura-selezione. In terzo luogo, il tentativo di molte aziende di fare intelligence anche sulle forme di social network privato (Facebook, Twitter) al fine di apprezzare elementi della professionalità dell’individuo che esulano dalla rappresentazione stringente delle competenze e della capacità core (altre capacità relazionali, attitudine al lavoro ecc.) può generare dei condizionamenti (bias) significativi basati esclusivamente su una trasposizione virtuale dell’individuo. Gli elementi descritti, tuttavia, non vanno interpretati come una barriera ostativa assoluta ma devono semplicemente essere letti come la necessità di adottare tutti gli accorgimenti (tecnologici e di professionalità) per un utilizzo che risulti massimamente efficace. Dal punto di vista dell’operatività organizzativa, all’e-recruitment si devono abbinare gli e-recruiters; quindi le nuove tecnologie generano anche nuovi fabbisogni professionali. Infine, non si può trascurare la considerazione che l’utilizzo di social network e virtual community è legato al loro consistente potenziale di azione bottomup. La condivisione di esperienze e contatti, infatti, può rappresentare un terreno

Capitolo 8 L’implementazione delle strategie: progettazione organizzativa e gestione del capitale umano

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molto fertile per il perfezionamento delle selezioni, nel senso che si riesce materialmente a combinare il know how e il know who individuale. In tal senso, le imprese possono attivare dei meccanismi sentinella, ossia dei presìdi ad hoc, per riuscire a intercettare risorse professionali qualificate.

Sintesi Il sistema organizzativo aziendale esprime un modello di interpretazione delle imprese secondo una prospettiva sistemica, prendendone in considerazione i principali aspetti fondamentali: quello strutturale, quello umano, quello gestionale e quello tecnologico; per il suo ruolo di trasformazione della base di risorse critiche in vantaggi competitivi, esso costituisce una fonte di vantaggio competitivo. Tra gli elementi che compongono il sistema organizzativo aziendale, le persone stanno assumendo un ruolo sempre più critico rispetto all’implementazione delle strategie. Il sistema organizzativo aziendale rappresenta il “tessuto” in cui le strategie si formano. Per formazione della strategia si intende quel percorso che parte dall’intenzione strategica e porta alla strategia realizzata, passando attraverso la strategia decisa, al netto dell’effetto delle strategie rimosse e di quelle emergenti. La progettazione organizzativa rappresenta un fenomeno dinamico che include la definizione della struttura organizzativa, dei meccanismi di coordinamento e dei meccanismi operativi. La struttura organizzativa definisce il raggruppamento delle attività dell’impresa in posizioni organizzative, individuali o collettive, collocate nell’ambito della gerarchia aziendale. La definizione della struttura organizzativa prende le mosse dall’analisi della struttura strategica (che nelle imprese multi-business si può articolare nelle 3 categorie di SBU: core business, business cerniera, business captive) e si ispira ai modelli fondamentali: funzionale, multi divisionale, holding, per progetti, a matrice. Particolare attenzione meritano, inoltre, le forme reticolari nelle loro diverse configurazioni. Nelle imprese multi-business l’implementazione delle strategie di Corporate può trovare attuazione mediante l’adozione di apposite soluzioni di progettazione organizzativa di strutture orizzontali e sistemi di coordinamento, nonché l’attribuzione di ruoli specifici alle Direzioni Centrali di Corporate. Tra i sistemi operativi interdivisionali, particolare rilevanza assumono i meccanismi di incentivazione dei dirigenti (tra cui il sistema MBO) e le politiche di gestione delle risorse umane in generale.

Domande ed esercizi Domande di verifica Definire il sistema organizzativo aziendale. Delineare i rapporti tra strategia, struttura e gestione delle risorse umane. 3. Descrivere il processo di formazione della strategia. 4. Da che cosa deriva la strategia realizzata? 5. Definire le varie forme di elasticità di una struttura organizzativa. 6. In una struttura divisionale, quali sono le diverse configurazioni che possono essere assunte dalle Divisioni? 7. Riassumere le diverse configurazioni che possono essere assunte dal corporate in una struttura a holding. 8. Descrivere le differenze tra le forme reticolari (forme a N) interne ed esterne. 9. Illustrare le soluzioni strutturali al coordinamento interdivisionale. 10. Definire i percorsi di carriera e le loro forme tipiche.

11.

1. 2.

Illustrare come le politiche del personale possono favorire l’implementazione delle strategie di diversificazione.

Test a risposta multipla 1.

I costi di transazione esistono a causa: □ a. dei fallimenti del mercato. □ b. dell’information technology. □ c. dell’elevato volume delle transazioni. □ d. dell’elevata frequenza delle transazioni.

2.

La struttura funzionale si presta a essere utilizzata: □ a. da imprese ad alta innovazione tecnologica. □ b. dalle piccole e medie imprese. □ c. in un ambiente turbolento. □ d. da imprese con business diversificati non correlati.

292

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

3.

La struttura divisionale si presta a essere utilizzata: □ a. da imprese a bassa innovazione tecnologica. □ b. dalle piccole e medie imprese. □ c. in un ambiente stabile. □ d. da imprese con business diversificati non correlati.

5.

La formazione del personale può essere considerata una fonte di vantaggio competitivo in quanto: □ a. rappresenta un costo fisso di gestione. □ b. può estendersi alle competenze (saper fare) degli individui. c. determina gli avanzamenti di carriera. □

4.

Nel capitale umano (human capital), la liquidità rappresenta: □ a. l’ammontare complessivo di retribuzione annua dei dipendenti. □ b. il numero di persone assunte a tempo pieno. □ c. il possesso, da parte dei dipendenti, di un livello di competenze idoneo per la realizzazione dei processi interni.

6.

Nei sistemi di incentivazione per obiettivi (MBO), gli obiettivi assegnati ai manager: □ a. sono esclusivamente di natura finanziaria. □ b. possono essere anche di “processo”. □ c. si legano a incrementi di retribuzione fissa.

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Sul sito www.ateneonline.it/n/fontana5e sono disponibili le soluzioni e il test interattivo

Il marketing

9

Matteo Caroli

Gli obiettivi del capitolo In questo capitolo, il marketing è approfondito come metodo di gestione che caratterizza l’orientamento strategico dell’impresa, ponendo il mercato, il cliente e la relazione con il cliente quali riferimenti primari. Il capitolo intende anche fornire un primo approfondimento sui temi della gestione di marketing che hanno maggiore rilievo strategico a livello generale e sulle problematiche operative più significative.

9.1 Il marketing come approccio alla gestione dell’impresa 9.1.1 I contenuti del marketing Lo sviluppo del marketing come tecnica manageriale è iniziato negli anni cinquanta dello scorso secolo, prima negli Stati Uniti, poi in Europa e nel resto del mondo. Parallelamente, ha assunto rilievo come funzione aziendale e trovato spazio anche formale nella struttura organizzativa delle imprese, soprattutto di grandi e medie dimensioni. Negli ultimi decenni, la diffusione del marketing è stata molto intensa: nelle imprese è divenuto un’area gestionale primaria, assumendo in non pochi settori un ruolo centrale nella determinazione del vantaggio competitivo; allo stesso tempo, è entrato nella gestione anche di altri tipi di organizzazioni: le aziende no profit, molti enti pubblici e istituzioni, le associazioni, le città e i territori. Questa diffusione trasversale è spiegata dalla circostanza che i principi di fondo del marketing sono applicabili a qualsiasi tipo di organizzazione umana, così come la sua strumentazione operativa è utilizzabile ed efficace in contesti molto eterogenei, naturalmente con gli adattamenti richiesti dalle diversità dell’ambiente in cui opera l’organizzazione, dei suoi obiettivi e delle sue caratteristiche strutturali. Nonostante il marketing abbia ormai raggiunto un’ampia diffusione nelle imprese e in molti altri tipi di organizzazione, i suoi contenuti sono ancora oggetto di valutazioni diverse; un problema che deriva non tanto da incertezze nella teoria sottostante, quanto dall’elevata eterogeneità delle esperienze aziendali circa il ruolo concretamente attribuiti al marketing.

marketing

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

296

In linea generale, al marketing è prevalentemente attribuita la funzione di sviluppare i rapporti con il mercato; in questa prospettiva, esso si occupa di gestire: vendite relazione con i clienti comunicazione

1. le vendite; 2. le relazione con i clienti. 3. la comunicazione; Ci sono, però, casi, anche tra le grandi imprese, in cui la struttura organizzativa non ha una funzione “Marketing”, mentre esiste una funzione “Comunicazione”, normalmente rispondente alla Direzione generale; la gestione commerciale e delle relazioni con il cliente è direttamente affidata alle Divisioni responsabili dei business. La gestione delle vendite si occupa del funzionamento della rete commerciale dell’azienda; dei rapporti con la distribuzione; della gestione dei prezzi sulla base delle linee guida fissate in sede di elaborazione della strategia competitiva. La comunicazione è un’attività specialistica, normalmente realizzata con il supporto tecnico di soggetti esterni specializzati. Infine, la relazione con il cliente concerne la misurazione della soddisfazione verso l’offerta dell’impresa, lo sviluppo dei flussi informativi “cliente-impresa”, la gestione dei servizi aggiuntivi rivolti al cliente. Nel rapporto con il cliente rientra anche la gestione del credito commerciale; tale attività è, però, normalmente svolta nell’ambito della funzione amministrazione, finanza e controllo. Nell’ambito della relazione con i clienti, la gestione della presenza dell’impresa nella rete internet e in particolare nei social network è ormai divenuta cruciale in tutti i mercati. La realtà aziendale appare piuttosto eterogenea per quanto concerne l’apporto del marketing nella gestione dell’offerta (nonostante la dottrina aziendalistica inserisca la politica di prodotto tra i compiti operativi del marketing).1 Il coinvolgimento del marketing nell’elaborazione dei contenuti dell’offerta dipende, di fatto, dall’effettiva attenzione che a riguardo l’impresa è in grado di prestare alle istanze del mercato, nonché dal peso di tale funzione nella struttura organizzativa, anche rispetto a quello dello sviluppo prodotti e delle operations. Ancora più controversa è la funzione del marketing nel processo di elaborazione della strategia competitiva. Anche su questo punto, la letteratura scientifica di marketing ha ampiamente fissato diverse tematiche appunto strategiche che dovrebbero essere elaborate con gli strumenti di marketing. Tali questioni sono: • • • • •

analisi della domanda; segmentazione; posizionamento; gestione della marca; definizione della strategia di marketing.

Nella pratica, queste attività possono essere realizzate nell’ambito della più ampia elaborazione della strategia; nelle organizzazioni di dimensione minore possono addirittura rimanere implicite negli orientamenti dell’imprenditore e dei suoi diretti collaboratori. Data la particolare strumentazione tecnica che richiede,

1 È ovvio far qui riferimento alle note “4 p” in cui si articola il marketing operativo: product, price, promotion and placement.

Capitolo 9 Il marketing

297

l’analisi della domanda è normalmente affidata a soggetti specializzati esterni che interloquiscono direttamente con il vertice aziendale. Le scelte dei segmenti target e di posizionamento, nonché quella relativa all’approccio di marketing (indifferenziato, differenziato, focalizzato), sono spesso prese nell’ambito della definizione del business model e della strategia competitiva. Infine la strategia di marca coinvolge primariamente il marketing soprattutto per la parte inerente la comunicazione e in generale lo sviluppo della brand equity. Si osserva quindi una certa discrepanza con alcuni filoni di dottrina che tendono ad assegnare al marketing una competenza molto estesa anche nell’elaborazione degli orientamenti strategici dell’impresa. Tale discordanza è risolta distinguendo quanto di competenza del marketing come specifica funzione della struttura organizzativa di un’impresa e i contenuti del marketing quale approccio “di fondo” alla gestione dell’impresa. Si ritiene che i contenuti del marketing come approccio gestionale possano essere molto più ampi degli specifici compiti affidati alla funzione marketing, risultando diffusi in tutto il sistema impresa. In questo senso, il marketing non è solo una funzione, è in primo luogo un metodo di gestione.

9.1.2 I principi basilari del marketing come metodo di gestione d’impresa Il semplice, essenziale principio alla base dell’approccio di marketing è il concepire l’offerta con l’obiettivo di soddisfare le esigenze della domanda individuata nel modo più preciso possibile in termine di tipologie di acquirenti. Il metodo di marketing predispone tutta l’attività dell’impresa al fine della creazione di valore – materiale e immateriale – per coloro che costituiscono il mercato cui essa intende rivolgersi e, in una prospettiva più ampia, per l’insieme di soggetti con cui essa interagisce. In questo senso, fine ultimo del marketing è creare negli interlocutori dell’organizzazione il massimo consenso verso di essa; un consenso che attiva comportamenti positivi nei diversi ambiti rilevanti per il funzionamento dell’azienda. Da questo principio primario derivano altri tre elementi caratterizzanti l’approccio di marketing: 1. nell’evoluzione dell’impresa è decisiva la scelta del mercato, o della parte di mercato ove focalizzare la propria strategia competitiva; 2. il sistema di offerta è progettato in funzione del modo in cui si vogliono soddisfare al meglio le esigenze essenziali dei segmenti di domanda scelti come prioritari, distinguendosi il più possibile dai concorrenti; 3. la gestione del rapporto con il mercato deve avvenire in chiave relazionale, proponendosi di sviluppare il rapporto con il cliente (ed eventualmente con gli altri interlocutori) attraverso una relazione molto più ampia e duratura di quella implicita nel solo scambio commerciale. Quest’ultimo elemento è divenuto cruciale in tempi più recenti: in una prima fase, in seguito alla notevolissima rilevanza assunta dai servizi, sia come grande comparto economico e sociale sia come componente nell’offerta di prodotti e beni fisici; successivamente, in relazione alla crescente centralità che le relazioni, reali e virtuali, hanno nei comportamenti di acquisto e consumo. La complessità di queste problematiche spiega l’ampiezza del filone scientifico del marketing e la sua rilevanza, al di là dell’ambito di competenze effettivamente assegnate alla funzione di marketing nella struttura organizzativa.

Il principio alla base dell’approccio gestionale di marketing è il concepire l’offerta con l’obiettivo di soddisfare le esigenze della domanda individuata nel modo più preciso possibile. metodo di marketing

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

orientamento alla creazione del massimo valore per il cliente

A prescindere dalla consistenza delle attività affidate a tale funzione, il marketing rappresenta quindi una “filosofia” gestionale che orienta la strategia competitiva, ovvero il modo in cui l’impresa si propone di raggiungere una posizione di vantaggio competitivo nell’area di business in cui opera. Essa spinge l’impresa a “uscire da sé stessa”, plasmando la propria offerta e il proprio modo di essere sulle caratteristiche e aspettative di soggetti esterni e in particolare di coloro che costituiscono il suo mercato obiettivo. Il principio basilare del marketing, cioè l’orientamento alla creazione del massimo valore per il cliente, diviene dunque fondante del modello evolutivo dell’impresa. Per altro, proprio questa “elevazione” del marketing a orientamento gestionale, condiviso da tutti gli attori aziendali e certamente dall’alta direzione, si riflette, quasi per paradosso, nella possibile riduzione della competenza della specifica funzione marketing nelle questioni di ordine strategico. Chi si occupa dell’elaborazione della strategia ha, infatti, ormai ampiamente assunti i criteri cardine del marketing: partire dalla definizione del mercato target, studiandone le caratteristiche per comprendere i fattori critici di successo di coloro che ne fanno parte; raggiungere un posizionamento significativo e vantaggioso rispetto ai concorrenti; infine, sviluppare un sistema di offerta che massimizza il valore offerto ai clienti. Il progressivo affermarsi del modello di impresa “sostenibile”2 ha ulteriormente esteso la portata concettuale del marketing poiché ha ampliato i soggetti per i quali essa deve creare valore: non più solo i clienti, ma tutti gli stakeholders. Tutto il sistema aziendale deve saper orientare la propria attività alla soddisfazione delle aspettative dei diversi soggetti con cui esso interagisce.

9.1.3 Gli approcci precedenti a quello di marketing L’impostazione sopra descritta non è necessariamente propria di tutte le imprese e soprattutto non lo è sempre stata nel tempo. Un’analisi storica dell’approccio dell’impresa verso il suo mercato evidenzia almeno altri tre orientamenti rilevanti, comunemente indicati come: orientamento alla produzione orientamento al prodotto orientamento alla vendita L’orientamento alla produzione è tipico delle fasi in cui la domanda è quantitativamente molto superiore alla offerta totale esistente nel mercato.

1. orientamento alla produzione; 2. orientamento al prodotto; 3. orientamento alla vendita. Orientamento alla produzione È tipico delle fasi in cui la domanda è quantitativamente molto superiore alla offerta totale esistente nel mercato, quando, dunque, l’esigenza primaria dei consumatori è l’immediata disponibilità del prodotto o del servizio, con le funzionalità necessarie per assolvere alle basilari funzioni d’uso; gli specifici fattori di caratterizzazione del prodotto sono, invece, considerati relativamente secondari. Per il cliente è, dunque, prioritario trovare un’offerta quantitativamente adeguata e a un prezzo coerente con la sua capacità di spesa. In questa situazione, dal punto di vista dell’impresa, è fondamentale gestire al meglio la produzione, ottimizzando capacità produttiva, efficienza e logistica distributiva. Il primo aspetto per garantire i volumi di prodotto necessari per soddisfare la massima parte della domanda; il secondo per ridurre i costi e di conseguenza poter collocare l’offerta a un 2

Il tema dell’impresa “sostenibile” è approfondito nel Capitolo 1 del libro.

Capitolo 9 Il marketing

299

prezzo sostenibile dal mercato, favorendo anche la sua espansione; il terzo per facilitare l’accesso del compratore al prodotto, aumentando a parità di altre condizioni il suo beneficio netto percepito. In questa situazione, il marketing ha rilievo decisamente secondario, poiché ciò che massimizza il valore per il consumatore è la semplice disponibilità e a un prezzo adeguato del prodotto o del servizio. L’eccesso di domanda rispetto all’offerta totale riduce anche la necessità di differenziare l’offerta da quella dei concorrenti. Orientamento al prodotto È basato sull’assunto che un prodotto o un servizio con contenuti tecnici e performance oggettivamente rilevanti e superiori a quelle dei concorrenti è in grado, in quanto tale, di avere successo nel mercato. L’attività aziendale deve quindi essere focalizzata sul continuo miglioramento tecnico della propria offerta e sull’innovazione finalizzata a introdurre nel mercato prodotti sempre migliori. Anche in questo caso, il marketing non ha rilievo strategico poiché si assume che l’elevata qualità dell’offerta determini di per sé la soddisfazione di una certa domanda. Inizia a evidenziarsi però una funzione operativa del marketing, poiché è necessario che la qualità intrinseca dell’offerta sia correttamente percepita dai consumatori potenziali, a tal fine, sia a essi comunicata in maniera efficace.

L’orientamento al prodotto è basato sull’assunto che un prodotto o un servizio con contenuti tecnici e performance chiaramente superiori è in grado, in quanto tale, di avere successo nel mercato.

Orientamento alla vendita Questo approccio trova giustificazione soprattutto nelle fasi avanzate del ciclo di vita di un mercato, quando la capacità produttiva nel settore tende a essere strutturalmente superiore alla domanda complessiva. Mentre nell’orientamento alla produzione e in quello al prodotto, sono fondamentali rispettivamente l’efficienza produttiva e la capacità di realizzare un’offerta di elevata qualità oggettiva, nell’orientamento alla vendita, è cruciale la capacità di trovare e mantenere un adeguato spazio nel mercato. Tale capacità si esprime nell’efficacia ed efficienza con cui l’impresa riesce a “spingere” la propria offerta verso la domanda; quindi, occupare gli spazi disponibili nel mercato, portare l’offerta il più vicino possibile al suo potenziale acquirente, promuoverla strenuamente, spingere il consumatore all’acquisto. Nell’orientamento alla vendita, il rapporto con il mercato diviene dunque centrale; tuttavia, le esigenze del cliente sono considerate soprattutto nelle fasi finali del processo di offerta, quando appunto occorre attivare i meccanismi commerciali più efficaci per spingerlo all’acquisto. Anche in questo approccio, dunque, il marketing ha una connotazione soprattutto operativa, tendendo a configurarsi nella funzione commerciale e di gestione della rete vendita. Orientamento al mercato L’approccio di marketing si distingue dai precedenti orientamenti innanzitutto per il fatto di considerare la conoscenza del mercato quale punto di partenza della strategia competitiva; in particolare, tale conoscenza dovrebbe essere finalizzata a: • • •

individuare l’area del mercato (segmento) target; comprendere i bisogni rilevanti e i modelli di comportamento dei consumatori target; individuare i fattori materiali e immateriali più rilevanti per soddisfare al meglio le aspettative del consumatore target.

Sulla base della conoscenza di questi elementi, l’impresa sviluppa una certa strategia di offerta. Di conseguenza, il rapporto con il mercato non si colloca al

orientamento al mercato L’approccio di marketing si distingue dai precedenti orientamenti innanzitutto per il fatto di considerare la conoscenza del mercato quale punto di partenza della strategia competitiva.

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

300

termine del processo di creazione di valore, ma all’inizio; sulla base dell’assunto che solo dopo aver compreso le esigenze fondamentali del consumatore e aver deciso come soddisfarle, riuscendo a distinguersi da quanto fanno i concorrenti, è possibile realizzare e portare sul mercato un’offerta in grado di generare effettivamente valore.

9.1.4 L’approccio di marketing relazionale alla gestione d’impresa

modello basato sullo scambio

contesto

Il focus sulla comprensione del mercato e sullo sviluppo di un’offerta che ne soddisfi al meglio le esigenze è essenziale, ma spesso non è sufficiente per consolidare il vantaggio competitivo. Usando la terminologia di Groonroos (2007), è efficace nella prospettiva dello scambio, ma non sufficiente per sviluppare con esso una relazione ottimale. Nel modello basato sullo scambio, il valore offerto al mercato è creato dall’impresa, possibilmente sulla base di una corretta comprensione delle esigenze dei clienti target, ma comunque in maniera sostanzialmente indipendente da questi; il marketing interviene a monte e a valle del processo di creazione del valore; rispettivamente nello studio del mercato per orientare la progettazione dell’offerta, e nella gestione di questa nel mercato in modo da massimizzarne il valore percepito. Nei mercati contemporanei, tuttavia, sempre più spesso non basta comprendere le aspettative del cliente e cercare di soddisfarle; è anche necessario sviluppare con il cliente una relazione non solo commerciale. Nell’approccio relazionale, l’impresa genera valore attraverso appunto lo sviluppo di un rapporto relativamente intenso e continuato nel tempo con il proprio cliente, sicuramente più ampio della transazione commerciale; da questo deriva che3 attraverso le relazione, l’impresa può arricchire il valore della sua offerta percepito dal cliente; d’altro canto, può accrescere il valore ottenuto da quest’ultimo, anche oltre il corrispettivo economico. Inoltre, la qualità del rapporto instaurato con il cliente può influenzare notevolmente la percezione del valore dell’offerta. Lo sviluppo della relazione favorisce l’incremento della risorsa “fiducia”. Anche nei casi in cui l’attenzione del cliente rimane focalizzata sul prodotto in sé, la relazione rimane decisiva, rappresentando il contesto migliore entro cui è comunque necessario costruire lo scambio. Non va dimenticato che la prospettiva relazionale non toglie validità a quella dello scambio, ma la estende: appunto, inserisce la transazione in un contesto più ampio e complesso. Anche quando il cliente è sensibile soltanto al valore direttamente incorporato nel prodotto, la relazione rimane essenziale quale condizione necessaria affinché tale valore si possa esprimere appieno nella percezione del cliente.

3 L’approfondimento delle ragioni che spiegano tale cambiamento va oltre gli obiettivi di questo libro. Limitandoci, quindi, a un’indicazione sintetica, si sottolinea il fatto che, mentre in passato il prodotto riusciva a incorporare la massima parte del valore che passava dall’offerta alla domanda, oggi non è più così; componenti significative di valore sono trasferite appunto attraverso una relazione “ampia” che si instaura tra l’impresa e il suo mercato. Su questa evoluzione ha avuto notevole effetto anche il pervasivo sviluppo dei servizi e la crescente importanza della componente di servizio presente anche nei prodotti. Infine, va considerata l’evoluzione tecnologica che ha reso molto facile e poco costosa l’interazione tra le persone, le organizzazioni, le attività.

Capitolo 9 Il marketing

Il focus sulla relazione implica che domanda e offerta smettono di essere tendenzialmente antagoniste, avendo entrambe convenienza a sviluppare un rapporto cooperativo. Il marketing si occupa di gestire non più lo scambio con il cliente, ma l’intero processo di sviluppo della relazione con esso. In questa prospettiva, esso diventa ancora più pervasivo, influenzando anche il processo produttivo, almeno per quanto riguarda quelle fasi in cui il coinvolgimento del cliente risulta significativo per la creazione di valore e tecnicamente possibile. In termini concreti, questa evoluzione si traduce nella necessità di affrontare alcune nuove questioni di ordine strategico e altre di tipo più tattico. Per quanto riguarda le prime, si tratta di: • • •

gestire l’offerta nella prospettiva di un processo relativamente continuo, articolato in attività ben più numerose di quelle strettamente necessarie alla realizzazione di un prodotto e alla sua collocazione nel mercato; sviluppare reti di relazioni, gestendo la propria presenza in una o più comunità (anche virtuali) popolate dai soggetti con i quali l’impresa può in vario modo interagire nello svolgimento delle sue attività; ripensare tutto il modello di creazione di valore e di sviluppo delle competenze interne sulla base delle relazioni stabilite dall’impresa con i soggetti esterni (e non solo, quindi, con i clienti).

Le questioni di ordine tattico riguardano: • • •

costruzione e gestione di una banca dati con le informazioni utili a gestire in modo ottimale la relazione con i clienti; predisposizione degli strumenti e dei meccanismi per attivare, mantenere e arricchire la relazione con i clienti; predisposizione degli strumenti per verificare l’evoluzione dei clienti, dei loro desideri e comportamenti, nonché del grado di soddisfazione verso l’impresa e la sua offerta. Le attività realizzate in questi tre ambiti danno corpo alla funzione normalmente indicata come customer relation management.

Per quanto tutte queste problematiche richiedano un approccio di marketing, non necessariamente la loro gestione avviene all’interno della funzione organizzativa “marketing”; come già osservato in precedenza, può rimanere di competenza della direzione generale o essere “diffusa” in aree diverse dell’azienda. Lo sviluppo della customer experience Nell’approccio relazionale alla creazione di valore per il cliente, criterio fondamentale è la massimizzazione della qualità della “customer experience” e della sua coerenza con le aspettative (razionali e non) del cliente stesso. Essa può essere definita come l’esperienza complessivamente vissuta dal cliente attraverso l’insieme di attività connesse alla fruizione di un certo prodotto o di un certo servizio. Questo insieme può comprendere le sole attività di acquisto e utilizzo nel caso di beni di consumo relativamente semplici; può essere molto articolato, come nel caso di servizi turistici, comprendendo molte attività ex ante ed ex post la specifica fruizione del servizio. In questa prospettiva, la soddisfazione delle esigenze del cliente richiede, in concreto, l’assemblaggio di un mix di attività diverse che generano ciascuna una componente dell’esperienza complessiva ricercata dal cliente stesso. Attività di natura diversa, che raramente possono essere prodotte da un unico soggetto. Il cliente deve

301

Nell’approccio relazionale domanda e offerta smettono di essere tendenzialmente antagonisti, trovando entrambi convenienza a sviluppare un rapporto cooperativo. Il marketing si occupa di gestire non più lo scambio con il cliente, ma l’intero processo di sviluppo della relazione con esso.

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

302

Strumenti

Regole generali di marketing nei periodi di crisi 1.

2.

3.

4.

5.

Maggiore impegno nell’analisi e comprensione dei consumatori. Nei periodi di crisi, il reddito disponibile delle persone, soprattutto nelle fasce sociali medie e medio-basse diminuisce in modo consistente e peggiorano le aspettative sul futuro; di conseguenza, cambiano gli stili di vita, le priorità nei consumi e la percezione di valore. Non tutti i mercati subiscono necessariamente una contrazione dei consumi e comunque non nella stessa maniera. L’analisi del consumatore diviene ancora più importante per comprendere questi cambiamenti e le innovazioni attese dai clienti per resistere meglio alla crisi in atto. Focalizzazione sui clienti consolidati e rafforzamento dei fattori di loro fidelizzazione. Quando il mercato è in recessione, è fondamentale rafforzare il presidio dei clienti più “fidelizzati” perché sono quelli che è più probabile rimangano legati, a parità di altre condizioni, all’azienda. Su questi clienti, è quindi essenziale attivare misure volte ad aumentare la loro soddisfazione e premiarne la fedeltà; poiché aumentano il valore complessivamente erogato, queste iniziative sono anche importanti per ridurre il rischio che i consumatori escano dal mercato. A tal fine, si conferma la necessità di un’attenta analisi delle loro specificità e un affinamento dei criteri di segmentazione. Per aumentare il valore percepito, è importante arricchire i servizi offerti al cliente. Questi devono però essere effettivamente rilevanti per il consumatore, il più possibile personalizzati e devono anche essere tali da far sentire l’attenzione dell’impresa verso le problematiche che il consumatore si trova ad affrontare a causa del minor reddito disponibile. Selezionare i clienti realmente profittevoli. Allo stesso tempo, diviene opportuno abbandonare i clienti poco redditizi o che richiedono all’impresa la gestione di rilevanti problematiche (per esempio i tempi di pagamento). Va infatti considerata la necessità per l’impresa di semplificare l’organizzazione e ridurre i costi indiretti. Naturalmente, la riduzione del parco clienti deve essere accompagnata da una diminuzione consistente dei costi generali. Rivedere il portafoglio clienti. In linea generale, l’impresa deve riconsiderare la composizione del proprio portafoglio clienti, riducendo fortemente l’attenzione su quelli marginali o “problematici”, e concentrando l’attenzione su quelli “core” o su quelli potenzialmente più profittevoli e al tempo stesso concretamente e maggiormente “aggredibili”. Modificare il posizionamento. Può accadere che il target di mercato su cui l’impresa è focalizzata subisca una riduzione della sua capacità di spesa particolarmente forte o sia comunque molto incline a uscire dal mercato. In questa situazione, l’impresa deve riuscire a riposizionare la propria offerta nelle aree di mercato che mostrano maggiore resilienza. Si tratta di una sfida strategica evidentemente molto complessa; se non è realistico affrontarla, va valutata l’opportunità di uscire dal business.

essere accompagnato lungo il “viaggio” attraverso cui si sviluppa la sua esperienza. Questo richiede che tale “viaggio” sia articolato in modo da rendere massimo il valore complessivo di tale esperienza, attraverso la realizzazione delle varie attività e delle loro connessioni. Su questo punto, è decisivo il modo in cui l’impresa implementa la relazione con il cliente, direttamente o attraverso partner esterni. La capacità di meglio comprendere gli aspetti decisivi della customer experience e soddisfarli in maniera più efficace, magari sfruttando nuove tecnologie è spesso la ragione fondamentale del fulmineo successo dei nuovi modelli di business e della loro capacità di modificare radicalmente le dinamiche competitive di settori anche molto consolidati.4 4

Su questo tema, si rimanda a quanto approfondito nell’ultimo paragrafo del Capitolo 5, relativo alle forze “disruptive” dei modelli di business tradizionali.

Capitolo 9 Il marketing

6.

Alla focalizzazione sui target di mercato attualmente o potenzialmente più rilevanti deve corrispondere una focalizzazione sui brand più competitivi. Gli investimenti e gli sforzi organizzativi devono essere concentrati nei business dove l’impresa è concretamente in grado di mantenere un significativo vantaggio competitivo. Su questi brand è importante rafforzare l’azione di differenziazione, per aumentarne il valore percepito e la posizione competitiva. 7. Contrariamente a quanto sembrerebbe intuitivo, non è sempre necessario ridurre il prezzo. Anche nei mercati in crisi, rimane valido il principio che il prezzo deve essere coerente innanzitutto con il valore percepito dell’offerta a cui è riferito. Un aumento di tale valore, magari attraverso un arricchimento delle funzioni d’uso del prodotto/servizio, può quindi giustificare addirittura un certo incremento del prezzo. Del resto, se è vero che in periodi di crisi gran parte dei consumatori aumenta la propria sensibilità al prezzo e ha minore capacità di spesa, è altrettanto vero che solo una parte limitata di essi riduce al minimo l’attenzione per le altre variabili. Infine, va ricordato che è generalmente difficile rialzare il prezzo di un prodotto dopo che è stato abbassato in modo “visibile” (per esempio, anche solo attraverso frequenti sconti promozionali), soprattutto per i prodotti “premium price”. Di conseguenza, in particolare se la crisi del mercato appare essere sufficientemente congiunturale, può essere più opportuno non attuare forti contrazioni del prezzo. 8. D’altro canto una strategia di riduzione dei prezzi (a parità di valore erogato) può essere utile per due ragioni: far aumentare la rendita del consumatore e quindi fidelizzarlo e comunque contrastare il rischio che nella rimodulazione dei suoi consumi, egli penalizzi il prodotto o il servizio in questione. In secondo luogo, posizionare il prezzo a un livello assoluto più coerente con la diminuita capacità di spesa del consumatore. In questa prospettiva, può essere necessario “semplificare” il prodotto, in maniera da ridurne il costo di produzione, cercando di impattare il meno possibile sul valore percepito dal consumatore stesso. 9. Ottimizzare gli investimenti in comunicazione. Nei mercati in crisi la comunicazione non diminuisce di importanza; anzi può essere ancora più rilevante considerato il probabile intensificarsi della competizione. D’altro canto, la riduzione del fatturato e dei margini richiede all’impresa una proporzionale diminuzione dei costi che riguarda inevitabilmente anzitutto quelli di natura meno diretta. Di conseguenza, occorre affinare la strategia di comunicazione, individuando canali innovativi, meno costosi, ma altrettanto efficaci di quelli tradizionali. 10. Migliorare il modello distributivo. Nelle fasi recessive, i modelli distributivi sono particolarmente investititi dal cambiamento, poiché il consumatore cerca di ridurre il prezzo di acquisto del prodotto o del servizio ed è quindi particolarmente sensibile alle forme di disintermediazione. L’impresa va nella stessa direzione per ragioni speculari, ovvero per la necessità di recuperare margine economico. Diviene quindi essenziale innovare le modalità con cui il consumatore accede al prodotto e lo acquista; il grande successo del commercio online è spiegato anche da questa dinamica.

La capacità dell’impresa di implementare efficacemente l’insieme di attività generatrici di una customer experience vincente dipende anche dal coinvolgimento degli addetti dell’impresa e in particolare di coloro che sono più direttamente impegnati nelle attività rilevanti per il cliente. In questo senso, va sottolineato che l’impresa riesce a generare una “customer experience” vincente solo se è parallelamente in grado di attuare al suo interno una “employee experience” altrettanto valida, date le caratteristiche e aspettative dei suoi collaboratori. A tal fine, è molto importante far in modo che questi condividano profondamente una personale aspirazione a dare il migliore contributo all’esperienza che si vuole garantire al cliente. Nella gestione dei Parchi divertimenti, la Disney fa in modo che tutto il personale si riconosca nello scopo di “create happiness” e riconosce che “Happy Casts equals happy Guests”.

303

304

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

9.1.5 Gli obiettivi del marketing5 Nella sua natura specifica di funzione aziendale, il marketing ha obiettivi riferiti alle seguenti quattro grandezze: volume di fatturato quota di mercato

1. 2. 3. 4.

margine commerciale capitale intangibile

volume di fatturato; quota di mercato; margine commerciale; livello del capitale intangibile riferito alla posizione dell’impresa nel mercato.

I risultati obiettivo in questi quattro ambiti sono normalmente espressi con riferimento a un certo orizzonte temporale, determinando così obiettivi di breve, medio e lungo termine. È utile osservare che le prime tre delle quattro grandezze hanno natura quantitativa, mentre la quarta è sia quantitativa sia qualitativa. I risultati relativi al volume di fatturato e alla quota di mercato possono essere fissati in termini di valori soglia e/o di tassi di crescita. Il margine economico è fissato come percentuale del valore delle vendite; è quindi collegato agli obiettivi di vendita e a ipotesi relative al margine sui costi diretti di produzione e commercializzazione. Infine, gli obiettivi inerenti il capitale intangibile sono legati a indicatori relativi a grandezze come: il grado di fedeltà, l’“equity” della marca, la fiducia verso l’azienda e la sua offerta, la reputazione; anche in questo caso, gli obiettivi possono essere espressi in termini sia di valori assoluti sia di variazioni in un certo periodo di tempo. La fissazione degli obiettivi di marketing è condizionata in modo più o meno vincolante da fattori legati al contesto competitivo in cui l’azienda opera, al mercato ed eventualmente anche all’ambiente “allargato” rilevante. È evidente che gli obiettivi di fatturato e di quota realisticamente raggiungibili in un business maturo e caratterizzato da una concorrenza molto intensa sono ben diversi da quelli che possono essere fissati in un business con una domanda in forte espansione e in cui sono presenti pochi operatori. Per altro, la determinazione degli obiettivi strategici risente anche del più generale approccio competitivo assunto dall’impresa nel mercato. Nell’ambito di ciascuna delle quattro grandezze indicate, gli obiettivi strategici di marketing possono essere espressi solo a livello generale (per esempio raggiungere una quota di mercato del “x”% oppure far crescere il fatturato aziendale del “y”%) oppure facendo riferimento anche agli specifici fattori che determinano o che caratterizzano una certa performance (Tabella 9.1). L’obiettivo di fatturato può essere indicato in termini di dinamica delle quantità vendute e/o di livello di prezzo; la quota di mercato può essere considerata in assoluto, quindi come capacità dell’impresa di occupare una certa porzione del mercato, o rispetto alla quota dei concorrenti più significativi, quindi ponendo un obiettivo anche di posizione competitiva. Gli obiettivi relativi al margine commerciale sono, da un lato, direttamente legati a quelli relativi alle determinanti del fatturato, dall’altro si esprimono anche in funzione dei costi di commercializzazione, di comunicazione e promozione e dei costi diretti di produzione. Per stabilire i target attesi relativamente alle grandezze obiettivo descritte, occorre operare in chiave sistemica, integrando le prospettive del marketing con 5

I contenuti di questo paragrafo sono basati su Caroli M., Pianificazione delle strategie di marketing, In: Cristini G. (2009).

Capitolo 9 Il marketing

Tabella 9.1

Grandezze obiettivo e loro determinanti

Grandezza obiettivo

Determinanti nell’ambito del marketing

Volume di fatturato Quota di mercato

• • • •

Margine commerciale

• • • • • • •

Capitale intangibile

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Dinamica delle quantità vendute Prezzo Posizione assoluta Posizione rispetto al market leader o ai concorrenti di riferimento Volumi e prezzo di vendita Costi di commercializzazione Costi di comunicazione e promozione Costi diretti di produzione Soddisfazione della domanda Fedeltà della domanda Reputazione

la produzione, la gestione del capitale umano e la finanza. Gran parte delle scelte conseguenti alla determinazione degli obiettivi di marketing, infatti, impattano sulle, ma al tempo stesso sono vincolate dalle, condizioni di tali funzioni e dai loro orientamenti strategici.

9.2 Le problematiche di marketing di rilievo strategico 9.2.1 La segmentazione del mercato La segmentazione è il processo attraverso cui l’impresa individua le porzioni di mercato dove concentrare il proprio impegno competitivo; quindi, quelle a cui rivolgere in maniera prioritaria la propria offerta. Tale processo è articolato in due fasi: 1. divisione del mercato in segmenti; 2. scelta dei segmenti target.

La segmentazione è il processo attraverso cui l’impresa individua le porzioni di mercato dove concentrare il proprio impegno competitivo, quindi, quelle a cui rivolgere in maniera prioritaria la propria offerta.

segmenti

La divisione del mercato in sottoinsiemi chiamati appunto segmenti avviene in relazione a uno o più parametri che risultano rilevanti per distinguere gli appartenenti a ciascun segmento da coloro che non ne fanno parte. I membri di un segmento sono, quindi, soggetti tra loro fortemente omogenei rispetto ai criteri di segmentazione utilizzati, ed eterogenei con i membri degli altri segmenti dello stesso mercato. Nell’approccio gestionale “orientato al mercato”, la segmentazione è essenziale e tanto più importante quanto più il mercato è popolato da soggetti con caratteristiche diverse e, di conseguenza, con esigenze distinte. In questo caso, infatti, l’impresa non può considerare il mercato come un insieme indistinto, dovendo individuare i gruppi di soggetti con comportamenti effettivamente simili per proporre loro un’offerta in un certo modo differenziata da quella indirizzata ad altri segmenti. In altre situazioni, al contrario, la segmentazione non risulta particolarmente necessaria; questo accade quando i consumatori, pur diversi sotto vari aspetti, sono accomunati da un determinato bisogno la cui soddisfazione rappresenta anche la principale determinante di valore che essi percepiscono; oppure,

target

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

306

nelle fasi iniziali del ciclo di vita di un mercato, quando le esigenze fondamentali della domanda tendono a essere naturalmente abbastanza indifferenziate. I criteri e le modalità di segmentazione dipendono dalle caratteristiche del mercato e dei soggetti che ne fanno parte; sono evidentemente diversi se i consumatori sono persone fisiche o organizzazioni, e sono diversi nei mercati dei beni di consumo, durevoli, industriali, dei servizi ecc. La scelta dei segmenti target, ovvero quelli sui quali focalizzare la propria offerta, è un passaggio cruciale della strategia competitiva dell’impresa. Sul piano teorico, rappresenta la saldatura tra marketing e strategia; infatti gli autori di marketing la considerano la decisione fondamentale del marketing strategico; altri osservano che essa rientra nel processo di elaborazione della strategia, basato sulle informazioni prodotte dall’attività di marketing intelligence.

La suddivisione di un insieme di soggetti diversi accomunati da una generica esigenza comune (il mercato) in sottoinsiemi di soggetti molto simili tra loro (i segmenti) richiede l’identificazione dei criteri per attuare tale suddivisione, le così dette variabili di segmentazione.

variabili di segmentazione

La divisione del mercato in segmenti La suddivisione di un insieme di soggetti diversi accomunati da una generica esigenza comune (il mercato) in sottoinsiemi di soggetti molto simili tra loro (i segmenti) richiede l’identificazione dei criteri per attuare tale suddivisione, le così dette variabili di segmentazione. Le variabili di segmentazione sono molto numerose e hanno diversa complessità. Con riferimento alle persone, alcune tra tali variabili sono molto evidenti, facilmente osservabili e quindi utilizzabili agevolmente per segmentare un determinato mercato. Le più importanti tra queste sono: • • •

variabili demografiche: età, genere, condizione familiare; variabili geografiche: luogo dove il consumatore vive, lavora, svolge determinate attività rilevanti per l’offerta; variabili socio-economiche: reddito, titolo di studio, attività lavorativa.

Nel caso dei beni durevoli tecnologicamente complessi e di quelli industriali (macchinari, impianti produttivi), le competenze del cliente potenziale determinano la sua capacità di valutare e sfruttare il contenuto tecnologico del bene. Tali competenze possono quindi rappresentare una variabile di segmentazione. Vi sono poi variabili più complesse; individuano in modo più accurato e affidabile le caratteristiche dei soggetti appartenenti a un determinato segmento di mercato, ma rendono generalmente più difficile la misurazione della dimensione dei segmenti descritti. Variabili di segmentazione di questo tipo sono: • •

rapporto

variabili psicografiche: la personalità del consumatore, i suoi valori, le attitudini, le esigenze prioritarie; variabili comportamentali: le modalità di comportamento e in particolare quelle relative all’acquisto e consumo come la frequenza di acquisto e di uso, le modalità di acquisto e di uso, le informazioni ricercate, la tendenziale fedeltà al prodotto o all’impresa ecc.

Le variabili psicografiche sono tanto rilevanti nel caratterizzare il consumatore, quanto complesse da utilizzare per identificare concretamente gli appartenenti a un certo segmento. Per altro, le caratteristiche psicografiche di un individuo tendono a variare in modo significativo nel tempo. Le variabili comportamentali in sostanza distinguono i consumatori in funzione del rapporto che essi stabiliscono con il prodotto o il servizio prima, durante e dopo il suo consumo. Sono quindi molto importanti per distinguere le

Capitolo 9 Il marketing

diverse tipologie di clienti e predisporre un’offerta in grado di soddisfarne al meglio le esigenze riflesse in determinati comportamenti di consumo. Per esempio, nei prodotti alimentari pre-confezionati, la quantità tipica di prodotto nella confezione rivolta a un cliente che preferisce ridurre al minimo la frequenza di acquisto è evidentemente maggiore (a parità di altre condizioni) di quella rivolta a un consumatore disponibile ad acquisti frequenti. Le variabili comportamentali condividono le problematiche di quelle psicografiche quanto alla difficoltà di rilevazione affidabile; inoltre, colgono aspetti importanti, ma non esaustivi, del consumatore e di ciò che egli si aspetta da un determinato prodotto o servizio. In definitiva, le diverse variabili “oggettive” di segmentazioni sono efficaci per descrivere caratteristiche più o meno complesse dei consumatori, e raggrupparli in insiemi omogenei rispetto appunto a tali caratteristiche. Tuttavia, persone simili rispetto a tali variabili non necessariamente hanno (sempre) le stesse esigenze e quindi ricercano un’offerta con analoghe caratteristiche. In linea teorica, sarebbe allora più efficace aggregare i consumatori in funzione del tipo di esigenza complessa che intendono soddisfare attraverso una determinata offerta. La segmentazione basata sui bisogni rende molto più difficile individuare in maniera precisa i confini di un segmento e le tipologie di soggetti che ne fanno parte (e coloro che ne sono invece al di fuori), proprio perché una determinata necessità può essere condivisa da soggetti appartenenti a gruppi diversi dal punto di vista demografico, socio-economico, geografico, psicografico ecc. D’altro canto, questo approccio alla segmentazione è il solo in grado di cogliere la forte fluidità del consumatore contemporaneo che ha comportamenti molto differenziati nel tempo e rispetto agli altri consumatori con le sue stesse caratteristiche demografiche, sociali ecc.

307

esigenza complessa

Il modello “Compass” Per distinguere i diversi tipi di consumatore ai fini della massimizzazione della sua soddisfazione, è abbastanza diffuso nella pratica manageriale il modello “Compass”, elaborato dalla Disney.6 Questo modello identifica quattro componenti (ciascuno corrispondente a un punto cardinale) determinanti la complessiva soddisfazione percepita dal cliente: i bisogni primari, le aspettative, gli stereotipi, le emozioni. La definizione di questi elementi è importante anche per i collaboratori dell’impresa, protagonisti diretti della relazione con il cliente nelle diverse fasi del “viaggio” generatore dell’esperienza. La scelta dei segmenti target Sul piano concettuale, un segmento è un sottoinsieme di un mercato costituito da consumatori che, rispetto a determinate variabili, sono molto omogenei tra loro ed eterogenei rispetto agli altri consumatori dello stesso mercato. Nella gestione pratica, non ogni sottoinsieme di soggetti omogenei ha rilievo o può comunque rappresentare un target significativo per l’azienda. Per avere rilevanza concreta, un segmento deve presentare le seguenti caratteristiche: •

6

misurabilità. Deve essere agevole stimare con relativa precisione la dimensione del segmento in termini di numerosità dei suoi appartenenti, di quantità della domanda complessiva che genera, di valore economico potenziale totale;

Cfr. https://disneyinstitute.com/blog/2013/04/use-the-disney-compass-to-guide-your-service-experience/156/.

Un segmento è un sottoinsieme di un mercato costituito da consumatori che, rispetto a determinate variabili, sono molto omogenei tra loro ed eterogenei rispetto agli altri consumatori dello stesso mercato.

misurabilità

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

308

Esperienza

Il Compass Model della Disney Questo semplice modello descrittico aiuta a identificare i contenuti della “customer experience” di una determinata tipologia di cliente in un certo mercato. Si parte dal “nord” rappresentato dai bisogni primari e si procede in senso antiorario: North – Needs: Plan for the basic needs of the Guest, like food and water, as well as the needs those that will change based on the Guest’s situation. (Ex: Restrooms are placed near the exits of theaters where extended-viewing shows are performed.) West – Wants: View wants as an opportunity to exceed expectations. A Guest may need water; they may want a bottle of water. South – Stereotypes: Determine how you will break down misconceptions. This was one of the reasons that Walt Disney wanted to create a new type of Theme Park employee, the Disney Cast Member, using costumes, name tags, appearance guidelines, and service training. East – Emotions: Less tangible than the other points, emotions help us gauge whether or not a service experience is exceeding expectations. We must consider the emotional state of the Guest throughout the entire service experience. Fonte: https://disneyinstitute.com/blog/2013/04/use-the-disney-compass-to-guide-your-service-experience/156/

significatività dimensionale



profittabilità



accessibilità



significatività dimensionale. Deve avere una dimensione economica (valore economico potenziale) tale da giustificare l’impegno organizzativo, produttivo e di marketing necessario per soddisfarne la domanda. Importante sottolineare che la rilevanza non ha natura oggettiva, essendo legata alle specifiche caratteristiche del soggetto che la valuta; la rilevanza attribuita da una piccola impresa a un segmento di dimensioni modeste può essere facilmente ben diversa da quella stimata da una grande azienda; profittabilità. È ovviamente legata alla dimensione del segmento alla capacità di spesa di coloro che ne fanno parte, ma anche alla complessità e quindi ai costi delle attività che occorre svolgere per soddisfare la domanda di quel segmento. In parte, tali costi riguardano in modo abbastanza omogeneo tutte le imprese; in altra e maggiore parte, dipendono dalle specifiche condizioni dell’impresa; accessibilità. È un aspetto non intrinseco al segmento, ma dipendente dalle condizioni dell’impresa che effettua la valutazione. Indica infatti la sua capacità di accedere al segmento con un’offerta competitiva e in grado di generare valore economico.

A conferma dell’idea sostenuta nel primo capitolo circa la prospettiva “soggettiva” che occorre assumere nell’analisi dell’ambiente rilevante per l’impresa, si osserva che, con l’eccezione della prima, tutte le caratteristiche che determinano la rilevanza strategica di un segmento non hanno natura oggettiva; dipendono prevalentemente dalle condizioni e dagli orientamenti dell’impresa che ne fa la valutazione. Salvo gli ovvi casi estremi, la rilevanza di un segmento varia rispetto alle specificità delle imprese. Ne deriva che la coerenza tra le risorse e le competenze di cui l’impresa dispone e la natura del segmento che

Capitolo 9 Il marketing

essa sceglie come target (in termini appunto di dimensioni, condizioni e costi necessari per accedervi) risulta dunque essenziale. Il successo nel mercato non dipende solo dalla capacità dell’impresa di operare al meglio in un determinato contesto competitivo, ma di scegliere quello dove è più in grado di esprimere le proprie potenzialità. Individuati i segmenti potenzialmente interessanti e sulla base delle proprie risorse e competenze, l’impresa deve scegliere quelli ai quali rivolgere prioritariamente la propria offerta. Tale decisione implica in primo luogo la determinazione del numero di segmenti. È rilevante la distinzione tra le imprese che tendono a concentrare l’offerta in un solo o in pochissimi segmenti e quelle che si muovono su un ventaglio tendenzialmente ampio; è chiaro il raccordo tra questi due orientamenti e le strategie rispettivamente di focalizzazione e differenziazione discusse nel Capitolo 4. La crescente complessità delle caratteristiche, dei comportamenti e delle aspettative del consumatore, unitamente alla maggiore facilità di accesso a offerte molto specifiche resa possibile dalle tecnologie digitali, ha determinato in molti mercati un progressivo frazionamento dei segmenti. Mentre in passato la parte prevalente del mercato era fortemente concentrato in un numero relativamente piccolo di segmenti, oggi tale concentrazione tende a diminuire fortemente, e, come spiegato nell’approccio della così detta long tail, possono essere significativi in termini di vendite anche gruppi di consumatori molto piccoli e dispersi. La crescente mobilità del consumatore è un secondo fenomeno che influenza in modo decisivo la segmentazione. Nei mercati contemporanei, i segmenti non solo sono molto più frazionati (o frazionabili), ma sono anche molto meno definiti e meno stabili. Meno definiti perché il consumatore può facilmente sentirsi parte di segmenti diversi; meno stabili perché il consumatore passa con facilità da un segmento all’altro, essendo più mutevole la sua condizione sociale, professionale, economica e, di conseguenza, i suoi “stili di vita” e i modelli esistenziali. Questo insieme di problematiche richiede un’attenta riflessione sulla concreta rilevanza che il processo di segmentazione potrà continuare ad avere nella strategia di marketing. Se è certo che rimarrà del tutto rilevante la comprensione puntuale delle diverse esigenze dei vari tipi di consumatori che compongono un mercato, non altrettanto può dirsi dell’opportunità di identificare con precisione i segmenti cui rivolgere in maniera prioritaria l’offerta. Sarà fondamentale comprendere il tipo di esigenze da soddisfare e come farlo; la segmentazione potrebbe divenire la semplice descrizione delle tipologie di consumatori che esprimono tali esigenze e ai quali di fatto si rivolge la propria offerta.

309

long tail

9.2.2 Il posizionamento Il posizionamento individua la collocazione che un prodotto o un servizio occupa nella percezione del consumatore rispetto ai prodotti o ai servizi concorrenti. Obiettivo fondamentale del posizionamento è collocare il prodotto o il servizio in un’area della percezione del consumatore target diversa e migliore di quella occupata dai concorrenti; esso è vincente quando è basato su fattori rilevanti per il cliente target e colloca il prodotto o il servizio in un’area della sua percezione non raggiungibile dai concorrenti in maniera altrettanto efficace.

Il posizionamento individua la collocazione che un prodotto o un servizio occupa nella percezione del consumatore rispetto ai prodotti o ai servizi concorrenti.

310

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

La determinazione del posizionamento risulta, dunque, dalla sintesi delle risposte relative a tre questioni: 1. quali sono gli aspetti che il consumatore considera e privilegia per soddisfare i propri bisogni, attraverso l’utilizzazione di un certo tipo di prodotto; 2. come il consumatore valuta, rispetto a tali aspetti, l’offerta rappresentata dai prodotti concorrenti; 3. come si vuole che il consumatore valuti, rispetto sempre agli stessi aspetti, il prodotto o il servizio oggetto del posizionamento.

mappa cognitiva

La scelta di posizionamento è alla base delle decisioni relative al marketing mix; queste ultime sono infatti finalizzate a determinare quell’insieme di caratteristiche materiali e immateriali del prodotto/servizio necessarie per presidiare un certo posizionamento, necessarie, cioè, per fare in modo che il consumatore abbia una certa percezione dell’offerta in questione rispetto a quella concorrente. Per posizionare un prodotto o un servizio è utile disegnare una “mappa” che rappresenti il diverso modo in cui i consumatori percepiscono l’offerta, una mappa basata, quindi, sulle variabili che influenzano maggiormente tale percezione. Su questa mappa, detta cognitiva, vengono collocati i prodotti o i servizi concorrenti e quello in questione. Tra i criteri utilizzati più frequentemente per definire la mappa cognitiva vi sono: • • • •

mappa delle preferenze

La sovrapposizione della mappa cognitiva e di quella delle preferenze fornisce due informazioni decisive per la scelta di posizionamento strategico.

caratteristiche chiave della tipologia di prodotto/servizio in questione; livello qualitativo complessivo; benefici attesi; occasioni d’uso.

L’analisi compiuta con la mappa cognitiva individua, dunque, come un prodotto o un servizio è percepito dal consumatore rispetto a quelli concorrenti e in base a determinati criteri di valutazione. La scelta del posizionamento strategico deve tenere conto anche del rilievo delle varie aree del mercato, determinato dal numero di acquirenti potenziali e quindi dal valore economico. A tal fine si disegna la mappa delle preferenze. La mappa delle preferenze è basata sugli stessi fattori utilizzati per disegnare quella cognitiva; in funzione della rilevanza (preferenza) attribuita a tali fattori, i soggetti che costituiscono un certo mercato sono aggregati e collocati sulla mappa. La mappa delle preferenze individua, quindi, le aree del mercato maggiormente rilevanti in termini di numerosità degli acquirenti potenziali e di valore. La sovrapposizione della mappa cognitiva e di quella delle preferenze fornisce due informazioni decisive per la scelta di posizionamento strategico: in primo luogo, qual è la distanza tra il profilo ideale del prodotto richiesto dai vari gruppi di consumatori e l’offerta che questi hanno effettivamente a disposizione nel mercato; quindi, quali sono gli spazi di mercato che un determinato prodotto può occupare con successo, dato il grado di corrispondenza dei prodotti concorrenti alle attese dei consumatori e il loro sistema di preferenze. La Figura 9.1 rappresenta un esempio delle due mappe sovrapposte relative al mercato turistico. I fattori che definiscono le mappe sono il prezzo (alto o basso) della fruizione di una località turistica e il tipo di esperienza turistica (familiare e tranquilla o mondana e movimentata). I quadrati da 1 a 7 rappresentano altrettante località turistiche che si collocano nella mappa cognitiva sulla base del modo in

Capitolo 9 Il marketing

Alto

6

A

7 1

E D

Familiare

Mondano 5 4 B

3

F 2

C

Basso

cui sono appunto percepite dal consumatore rispetto ai criteri proposti. I cerchi da A a F rappresentano i gruppi di consumatori che si addensano in funzione della loro preferenza verso le diverse possibili combinazioni di fattori caratterizzanti una località turistica. L’esempio mostra come l’area del mercato turistico “familiare e a prezzo contenuto” sia quella dove si concentra la parte prevalente dei consumatori ma anche un numero consistente di offerte (la numero 2, 3, 4 e, parzialmente, la 5), con caratteristiche ben focalizzate rispetto alle aspettative degli acquirenti. Le fasce di prezzo alto sono meno popolose e con un’offerta turistica meno centrata; gli spazi competitivi migliori sembrano comunque essere offerti dall’area del turismo “mondano a basso costo” dove si presenta una domanda elevata (l’insieme F) e dove la località turistica con le caratteristiche più rispondenti alle esigenze di tale domanda (la numero 5) risulta comunque più idonea ad altri tipi di domanda. Il successo di un prodotto o di un servizio nel mercato dipende dalla coerenza tra il suo posizionamento e le politiche di marketing che ne determinano le caratteristiche; la scelta di posizionamento deve trovare corrispondenza nei contenuti concreti dell’offerta, nella sua immagine, nel suo prezzo nel modo in cui è erogata e comunicata al cliente. È anche importante la corrispondenza tra il posizionamento del prodotto o del servizio e la reputazione consolidata del produttore, con particolare riferimento alla percezione goduta dal suo marchio. Il posizionamento, inoltre, deve essere gestito nel tempo. Per un verso, è necessario garantire a esso stabilità, quale condizione essenziale per sviluppare una percezione chiara e consolidata nel consumatore; per l’altro, è importante fare in modo che esso evolva in relazione ai cambiamenti delle esigenze del consumatore e del comportamento dei concorrenti. Una modificazione del posizionamento può anche derivare da una precisa decisione strategica dell’impresa, dovuta o al fatto che il posizionamento attuale non appare conveniente/sostenibile; oppure, alla disponibilità di nuove risorse distintive che permettono all’impresa di collocarsi in aree del mercato più rilevanti. Il cambiamento del posizionamento è realizzato attraverso l’innovazione della “value proposition” e conseguentemente di determinate caratteristiche “core” dell’offerta; al tempo stesso, modificando la percezione che i clienti hanno dell’offerta in questione.

Figura 9.1 Mappa di posizionamento (cognitiva e delle preferenze).

coerenza tra il suo posizionamento e le politiche di marketing

311

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

312

9.2.3 La gestione strategica delle marche marca

componente identificativa

componente percettiva

componente fiduciaria

valore della marca brand equity La brand equity sintetizza il differenziale di valore riconosciuto dal consumatore a un determinato prodotto o servizio in virtù appunto della sua marca. La brand equity è il risultato del modo in cui la marca è gestita nel tempo.

Contenuti della marca e la “brand equity” La marca è una componente dell’offerta che può contribuire in maniera rilevante al valore riconosciuto dal consumatore; costituisce, quindi, una risorsa potenzialmente molto rilevante per il raggiungimento del vantaggio competitivo. La marca è caratterizzata da (Busacca B., Ostillio M.C., 2009): 1. componente identificativa; è costituita dall’insieme dei segni di riconoscimento (il nome, il logo, lo slogan, il jingle) attraverso cui il cliente identifica la marca e la distingue dalle altre. Questa componente è quindi alla base della consapevolezza goduta dalla marca presso il mercato (brand awareness), da cui dipende la rapidità e facilità con cui il cliente identifica la marca e la posiziona nella sua mappa cognitiva; 2. componente percettiva; è l’immagine della marca, consiste nell’insieme di associazioni costruito dall’impresa attorno agli elementi identificativi della marca stessa e determinante il contenuto immateriale che il consumatore le attribuisce. Tali associazioni riguardano: • gli attributi della marca, direttamente riconducibili a determinate caratteristiche fondamentali del prodotto o ad aspetti del rapporto tra il prodotto e l’utilizzatore; • i benefici della marca (funzionali e affettivi) percepiti dal consumatore; • i valori della marca, che il consumatore desidera comunicare come propri a terzi appunto attraverso il possesso o l’utilizzazione del prodotto; 3. componente fiduciaria; è determinata dall’esperienza direttamente o indirettamente vissuta dal consumatore da cui deriva la reputazione del tipo di soddisfazione che la marca (e l’offerta sottostante) è in grado di generare. Dai contenuti di queste tre componenti e dal modo in cui esse interagiscono in maniera coerente, deriva la brand equity traducibile come valore della marca. Il concetto di brand equity è centrale nella gestione strategica di marketing ed è stato oggetto di ampi approfondimenti. In sintesi, pare efficace l’interpretazione data da Keller (2003) per il quale la brand equity sintetizza il differenziale di valore riconosciuto dal consumatore a un determinato prodotto o servizio in virtù appunto della sua marca. Questo differenziale si traduce in una maggiore capacità del prodotto di generare reddito e, di conseguenza, attribuisce alla marca un valore economico. La brand equity è il risultato del modo in cui la marca è gestita nel tempo. Essa evolve in relazione alle dinamiche del mercato, delle marche concorrenti e di fattori ambientali eventualmente rilevanti; questo insieme di fattori caratterizza il ciclo di vita della marca. L’impresa deve saper gestire la marca nelle diverse fasi, tenuto conto naturalmente della posizione di mercato progressivamente raggiunta in termini di notorietà, di quota di vendite e, appunto, di brand equity.7 Proprio per il notevole impegno economico e strategico normalmente richiesto per creare e sviluppare una marca, è importante gestirla con attenzione anche

7

La trattazione puntuale della gestione strategica della marca di un prodotto esula dagli obiettivi della trattazione del marketing nell’ambito di un volume di gestione d’impresa. Per i suoi contenuti si rimanda, quindi, ai testi specifici sul marketing aziendale.

Capitolo 9 Il marketing

313

nella fase della maturità e successivamente quando essa inizia a declinare. A riguardo, occorre gestire la così detta “rivitalizzazione” della marca. A tal fine, è possibile agire su due fronti: rafforzare i fattori tradizionali che hanno sino ad allora determinato la brand equity della marca; oppure, attivare nuovi fattori generativi della brand equity. Questa seconda strategia è normalmente più efficace, ma richiede che parallelamente si proceda a un riposizionamento del prodotto o del servizio cui la marca fa riferimento, anche attraverso una modificazione della sua funzione d’uso. La gestione strategica della marca La gestione della marca si attua sia a livello di area di business, normalmente nell’ambito delle azioni sul prodotto/servizio e della relativa comunicazione, sia a livello di complessiva strategia aziendale. In questa seconda prospettiva, si pone il tema della gestione dell’“architettura delle marche” articolata nelle due seguenti questioni:

La gestione della marca si attua sia a livello di area di business, normalmente nell’ambito delle azioni sul prodotto/servizio e della relativa comunicazione, sia a livello di complessiva strategia aziendale.

1. il rilievo della marca corporate rispetto a quelle dei singoli prodotti o servizi; 2. la gestione del portafoglio marche (Figura 9.2).

marca corporate portafoglio marche

Relativamente alla prima questione, si individuano tre possibili fattispecie. La prima in cui la marca corporate (umbrella brand) ha forte visibilità e le marche dei singoli prodotti sono sue estensioni: in sostanza, il nome e logo della corporate rimane sempre prevalente. È il caso di Google rispetto alle varie linee di prodotto (books, maps, groups ecc.). Procter&Gamble è un tipico esempio della fattispecie opposta, in cui la marca del singolo prodotto ha una propria specificità e visual identity predominanti e comunque del tutto distinti dalla marca corporate. Vi sono naturalmente situazioni intermedie in cui le marche di prodotto hanno una loro chiara identità, pur rimanendo legate a quella aziendale che quindi mantiene un ruolo rilevante nel valore immateriale del prodotto/servizio sottostante. Questa modalità è comune per esempio nel settore dell’automobile. Figura 9.2 L’articolazione della gestione strategica delle marche.

CONNESSIONE TRA MARCA CORPORATE E MARCHE PRODOTTO GESTIONE STRATEGICA DELLE MARCHE GESTIONE DEL PORTAFOGLIO MARCHE

• Valutazione convenienza e sostenibilità della marca corporate • Sviluppo delle funzionalità della marca corporate per marche prodotto • Verifica della coerenza delle marche prodotto con la marca corporate

• Valutazione periodica del portafoglio (composizione e coerenza interna) • Individuazione e attivazione delle interdipendenze tra le marche • Gestione degli inserimenti e delle esclusioni delle marche dal portafoglio

314

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

brand corporate

La prima modalità tende a essere preferita quando l’azienda ha una reputazione molto consolidata o per qualche ragione ha raggiunto una fortissima visibilità sul mercato, magari anche con un’offerta relativamente poco differenziata. Coca Cola o Mc Donald’s rappresentano due casi limite in cui la marca dell’azienda coincide con quella del prodotto. La seconda opzione è preferibile nel caso di portafogli molto ampi e diversificati; oppure nel caso in cui sono i prodotti/servizi ad avere un’identità già molto rilevante, magari grazie a una lunga presenza sul mercato. Tale opzione può anche essere il frutto di una scelta strategica di evitare il rischio che andamenti negativi di una marca si riflettano sulle altre della stessa azienda. Nel caso in cui l’impresa decida di affiancare un brand corporate a quello dei prodotti/servizi in portafoglio, occorre approfondire le funzioni che esso deve esprimere a loro vantaggio. In linea generale, tali funzioni sono: • • •

portafoglio marche

integrare le singole marche di prodotto/servizio nella percezione del mercato, introducendo valori e significati che attribuiscono loro un certo grado di unitarietà; rafforzare il posizionamento delle singole marche di prodotto/servizio nei rispettivi mercati; favorire il trasferimento di immagine tra le singole marche di prodotto/servizio.8

È anche necessario garantire nel tempo la coerenza delle marche prodotto con il posizionamento e i contenuti della marca corporate, prevedendo meccanismi di adeguamento nei casi in cui tale coerenza non risulti sufficiente. La seconda questione di ordine strategico è la gestione del portafoglio marche. Una gestione organica e in una certa misura integrata delle varie marche controllate dall’impresa è essenziale per sfruttare al meglio il loro potenziale. La gestione strategica del portafoglio marche può avere contenuti diversi, anche in relazione alla sua ampiezza e grado di diversificazione; è possibile tuttavia identificare alcune attività tipiche. In primo luogo, la valutazione periodica dell’articolazione del portafoglio, finalizzata a valutarne l’equilibrio complessivo rispetto a determinate variabili economico-strategiche, e la coerenza della sua composizione relativamente alle strategie competitive e di mercato in essere. Questa valutazione non deve limitarsi a fornire una fotografia statica, ma deve evidenziare anche i cambiamenti più significativi avvenuti in un certo arco temporale, o programmati entro un certo periodo futuro. La posizione competitiva rispetto alle marche concorrenti e il ciclo di vita del business rappresentano due variabili attraverso cui si ottiene una descrizione significativa del portafoglio marche. Attraverso queste variabili si individuano sei situazioni-tipo (Tabella 9.2) rispetto alle quali si possono ordinare le varie marche nel portafoglio, valutandone in modo sintetico il potenziale di sviluppo e competitivo: 1. trainanti: sono le marche fondamentali per la posizione di vantaggio competitivo sia attuale sia futura, poiché hanno già una posizione consolidata nel

8

Proprio questa funzione costituisce uno dei motivi di maggiore attenzione verso la scelta di introdurre la marca corporate, poiché il trasferimento di immagine non necessariamente riguarda solo aspetti positivi e di rafforzamento reciproco tra i brand di prodotto.

Capitolo 9 Il marketing

Tabella 9.2

315

La rappresentazione del portafoglio marche in funzione di posizione competitiva e ciclo di vita Fase del ciclo di vita

Posizione competitiva

Forte Debole

2. 3.

4. 5. 6.

Introduzione

Sviluppo

Maturità

Marche “alto potenziale” Marche “da sviluppare”

Marche “trainanti” Marche “problematiche”

Marche “bastioni” Marche ”marginali”

mercato e riguardano prodotti/servizi nella fase di sviluppo. Richiedono investimenti ancora consistenti poiché la forte evoluzione del mercato può favorire il determinarsi di condizioni che ne minacciano la leadership; bastioni: sono le marche con una leadership nei rispettivi mercati ormai consolidata, grazie anche alla maturità del mercato stesso, e quindi generatrici di elevato valore per l’impresa; alto potenziale: rappresentano il potenziale su cui l’impresa deve concentrare l’attenzione; hanno già raggiunto un notevole riconoscimento sul mercato, la cui evoluzione è però ancora nella fase iniziale e quindi tendenzialmente imprevedibile; da sviluppare: richiedono un impegno particolare perché sono ancora deboli, ma essendo il mercato ancora nella fase iniziale del suo sviluppo, possono raggiungere posizioni di forza se opportunamente supportate; problematiche: sono marche deboli in mercati in notevole crescita, sulle quali l’impresa deve valutare l’opportunità di un forte rilancio; marginali: probabilmente da abbandonare, perché deboli in mercati ormai maturi dove i leader hanno raggiunto un consolidamento difficilmente attaccabile.

La seconda attività inerente la gestione del portafoglio strategico è l’individuazione delle interdipendenze che possono manifestarsi tra le marche che ne fanno parte e l’attivazione delle misure atte al loro sfruttamento. A riguardo, un ambito di azione importante è costituito dalle azioni di co-marketing tra marche diverse ma in qualche modo sinergiche rispetto allo sviluppo di una determinata offerta o alla percezione del posizionamento dell’impresa da parte della domanda. Una terza attività riguarda l’inserimento di una nuova marca nel portafoglio o, al contrario, l’eliminazione di una marca già compresa al suo interno. In definitiva, occorre gestire il valore di una marca, non solo nella prospettiva dell’apporto che essa dà al prodotto o al servizio sottostante, ma considerando anche le interazioni con le altre marche esistenti nel portafoglio sfruttando, da un lato, le possibili sinergie di posizionamento, dall’altro eliminando le sovrapposizioni.

Il valore di una marca va gestito non solo nella prospettiva dell’apporto che essa dà al prodotto o al servizio sottostante, ma considerando anche le interazioni con le altre marche esistenti nel portafoglio.

9.2.4 La pianificazione strategica di marketing a livello di area di business Il piano di marketing a livello di area business rappresenta un raccordo essenziale tra gli indirizzi strategici assunti dalla corporate e la gestione strategica dei singoli business. Questo raccordo si esplicita negli obiettivi di marketing, nella scelta di segmentazione e di posizionamento, nei programmi di gestione delle relazioni con i clienti, che devono riflettere a livello di business gli orientamenti stabiliti dalla corporate. Il piano strategico di marketing del business indica infine i criteri

Il piano di marketing a livello di area business rappresenta un raccordo essenziale tra gli indirizzi strategici assunti dalla corporate e la gestione strategica dei singoli business.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Esperienza

Il portafoglio marche del Gruppo Marriott International dopo l’acquisizione di Starwood Hotels&Resorts Il nuovo grande gruppo globale nato nell’industria alberghiera dall’integrazione tra Marriott e Starwood dovrà gestire un portafoglio di brand molto ampio e complesso. Di seguito il posizionamento delle principali marche nel segmento “Luxury” e “Upper upscale”, secondo quanto rilevato da “Skift, una delle principali piattaforme di studi e consulenza nel settore viaggi e turismo. Luxury brands St. Regis (36 hotels; 8100 rooms) Starwood Take: “St. Regis is for connoisseurs who desire the finest expressions of luxury. They provide flawless and bespoke service to high-end leisure and business travelers.” Ritz-Carlton (96 hotels; 27 131 rooms) Marriott Take: “A luxury hospitality brand where the genuine care and comfort of guests is the highest mission” and they can “enjoy a warm, relaxed, yet refined ambience.” Bulgari Hotels & Resorts (3 hotels; 202 rooms) Marriott Take: “Bulgari Hotels & Resorts, developed in partnership with jeweler and luxury goods designer Bulgari Spa, is a collection of sophisticated, intimate luxury properties located in exclusive destinations. With properties in London, Milan, and Bali and food and beverage outlets in Tokyo, premium individuality is the rule — no detail is too small, no experience too grand.” EDITION Hotels (4 hotels; 819 rooms) Marriott Take: “EDITION is a luxury lifestyle hotel brand that combines a personal, individualized, and unique hotel experience with the global reach and scale of Marriott International and creative vision of Ian Schrager. EDITION encompasses not only great design and true innovation, but also great personal, friendly, modern service as well as outstanding, one-of-a-kind food, beverage, and entertainment offerings.” W Hotels (46 hotels; 13 000 rooms) Starwood Take: “W is where iconic design and cutting-edge lifestyle set the stage for exclusive and extraordinary experiences…. The beats per minute increase as the day transitions to night, amplifying the scene in every W Living Room for guests to socialize and see and be seen.” JW Marriott Hotels & Resorts (77 hotels; 34 000 rooms) Marriott Take: “JW Marriott is a global luxury brand of beautiful hotels and resorts located in gateway cities and exotic destinations around the world. JW Marriott’s elegant yet approachable positioning provides a differentiated offering in the luxury hotel market, bridging the gap between full-service hotel brands and the super luxury brands at the top of the tier.” The Luxury Collection Hotels & Resorts (99 hotels; 18 900 rooms) Starwood Take: “… Unique hotels and resorts offering exceptional service to an elite clientele.” Buzz words used to describe it include “authentic” and “enriching experiences indigenous to each destination.” Hoyt Harper, senior VP and global brand leader for The Luxury Collection, has told Skift, “Each hotel is iconic, indigenous to market, and in a great location.”

marketing mix

e le priorità per l’attuazione delle politiche operative di marketing (il marketing mix) e per l’attuazione delle conseguenti azioni commerciali. Sul piano concettuale, la pianificazione strategica di marketing a livello di area di business (Figura 9.3) parte dall’analisi delle condizioni (vincoli e opportunità) del mercato e più in generale del contesto competitivo in cui l’impresa intende operare, insieme all’esplicitazione degli obiettivi assegnati al business dalla

Capitolo 9 Il marketing

Upper Upscale Le Meridien Hotels & Resorts (103 hotels; 27 000 rooms) Starwood Take: “… A Paris-born global hotel brand targeting the creative and curious-minded traveler who is eager to experience something new in every destination and discover things with a new perspective. The Le Méridien Hub is the brand’s unique lobby concept where a café inspired atmosphere, and high impact art, music, and food & beverage experiences set the scene for guests to socialize and exchange ideas in a curated environment.” Renaissance Hotels (160 hotels; 51 593 rooms) Marriott Take: “… A global, full-service brand in the upper-upscale tier that targets lifestyle-oriented business travelers. Each Renaissance hotel offers its own personality, local flavor, and distinctive style. Innovations include the Navigator program, which helps guests discover the soul of the neighborhood, and Evenings at Renaissance, which helps guests experience the unexpected with live music, mixology demonstrations, art exhibits, and more in the comfort of the hotel lobby bars and lounges.” Westin Hotels & Resorts (209 hotels; 78 300 rooms) Starwood Take: “Westin provides innovative programs and instinctive services designed with our guests’well-being in mind.” This is a brand that takes wellness seriously, from its SuperFoodsRx dishes and WestinWORKOUT studios to Heavenly Beds and jogging happy hours. Sheraton Hotels & Resorts (446 hotels; 156 400 rooms) Starwood Take: Operating in more than 75 countries around the world, this is Starwood’s biggest brand. “Sheraton makes travel easier and more intuitive, so guests can experience more. [It] continues to establish itself as the global hospitality brand of choice.” Marriott Hotels (526 hotels; 187 277 rooms) Marriott Take: “… The company’s global flagship premium brand, primarily serving business and leisure upper-upscale travelers and meeting groups. Marriott Hotels properties deliver premium choices, sophisticated style, and well-crafted details.” Autograph Collection (95 hotels; 22 808 rooms) Marriott Take: “Autograph Collection Hotels are high personality upper-upscale and luxury independent hotels that deliver unique experiences and design across a global portfolio. Each property has been selected for its originality, rich character, uncommon details, remarkable design, or for its best-in-class resort amenities.” Design Hotels (290 hotels worldwide; 23 000 rooms) Starwood Take: “We have a 74 percent equity interest in Design Hotels AG (Design Hotels), a company that represents and markets a distinct selection of over 300 independent hotels…. Starwood and Design Hotels entered into an agreement in 2014 that allows greater coordination and cooperation between the companies.” Fonte (adattato da): https://skift.com/2016/09/21/every-one-of-marriotts-30-hotel-brands-explained/

strategia corporate. Sulla base di questi elementi, si procede alla fissazione degli obiettivi strategici di marketing. Si procede poi all’elaborazione della strategia di marketing; in particolare, alla scelta del posizionamento e delle modalità attraverso cui raggiungere un vantaggio competitivo; parallelamente, sono individuate le risorse necessarie per l’implementazione di tale strategia.

317

318

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Obiettivi strategici e linee guida a livello corporate

Analisi del mercato e del contesto competitivo

OBIETTIVI STRATEGICI DI MARKETING

Validazione obiettivi strategici da parte della direzione generale

FABBISOGNO DI RISORSE

POSIZIONAMENTO

Allocazione risorse richieste nel fabbisogno

Individuazione potenziali sinergie con altri business/aree funzionali

MARKETING MIX

TEMPI DI IMPLEMENTAZIONE E BUDGET DI MARKETING

TARGET DI PERFORMANCE

ESECUZIONE

Figura 9.3 Il processo di pianificazione di marketing a livello di area di business.

Validazione • tempi; • budget; • target di performance da parte della corporate

Controllo strategico

Capitolo 9 Il marketing

319

Il passaggio successivo si articola in tre attività parallele e integrate: 1. definizione delle linee guida delle politiche del marketing mix; 2. indicazione di un timing di implementazione delle principali attività e costruzione del budget di marketing; 3. fissazione dei target di performance, riferiti a parametri espressivi degli obiettivi strategici fissati in precedenza. Le scelte inerenti il marketing mix sono assunte normalmente sulla base di criteri guida o del ventaglio di opportunità stabilite nella strategia di marketing della corporate. In molti casi, prima di procedere alla fase di esecuzione, il soggetto responsabile del business deve ottenere il via libera sul budget, sui tempi di implementazione della strategia e sui target di performance. La fase di implementazione del piano strategico è accompagnata da una procedura di controllo strategico utile per verificare il raggiungimento degli obiettivi fissati e il costante allineamento con le indicazioni della corporate; nel caso si verifichino scostamenti rilevanti, si attivano gli opportuni correttivi.

9.3 Le questioni più rilevanti nella gestione operativa di marketing La gestione operativa di marketing ha l’obiettivo di predisporre l’offerta dell’impresa in modo coerente con il suo posizionamento strategico, così da generare il valore atteso dai consumatori target. Tale gestione è articolata su quattro tematiche: lo sviluppo dei contenuti del prodotto o del servizio; l’articolazione del sistema di prezzi; la comunicazione; la distribuzione. A queste se ne aggiunge una quinta relativa alla gestione del rapporto con il cliente. Questo paragrafo illustra sinteticamente le problematiche della gestione operativa di marketing più rilevanti dal punto di vista strategico, rimandando ai testi specializzati sul marketing per una trattazione più ampia e approfondita.

La gestione operativa di marketing ha l’obiettivo di predisporre l’offerta dell’impresa in modo coerente con il suo posizionamento strategico, così da generare il valore atteso dai consumatori del target.

9.3.1 La gestione del prodotto9 Il prodotto è la manifestazione più o meno complessa e tangibile di un’offerta finalizzata a creare valore per determinate tipologie di acquirenti. La gestione del prodotto riguarda, quindi, sia lo sviluppo delle sue caratteristiche specifiche (materiali e immateriali) sia la realizzazione delle altre componenti che portano alla predisposizione di un sistema di offerta costituito da un insieme di componenti interrelati in funzione della soddisfazione di un’esigenza complessa. È intuitiva la classificazione dei prodotti in categorie diverse, cui corrispondono una serie di specificità sia dal lato della produzione sia dell’acquisto e utilizzazione. I prodotti fisici si distinguono in relazione alla loro durata (beni durevoli e non durevoli) e al tipo di utilizzatore cui sono rivolti (beni di consumo rivolti alle persone fisiche, oppure beni industriali o intermedi rivolti alle orga-

9 Il termine “prodotto” è usato qui per comprendere sia i prodotti in senso stretto sia i servizi sia i sistemi di offerta che comprendono sia prodotti sia servizi.

sistema di offerta

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

320

politica di prodotto

funzioni d’uso

Gli elementi che compongono un prodotto, oltre a essere distinti tra materiali e immateriali, vanno articolati su diversi livelli. elementi soglia elementi di posizionamento elementi di unicità

ciclo di vita

nizzazioni per lo svolgimento delle loro attività produttive). Anche i servizi possono essere distinti in funzione della natura dell’utente; è anche importante considerare la rilevanza collettiva dei servizi; i cosiddetti “servizi pubblici”, anche quando sono erogati da un soggetto privato, sono gestiti in un quadro normativo e sociale ben diverso da quello ordinario per gli altri tipi di servizio. È invece ormai meno netta la tradizionale distinzione tra “prodotti” e “servizi”; in molti business, i primi tendono a essere lo strumento fisico attraverso il quale il possessore accede a un ventaglio di servizi. Gran parte del valore del prodotto sta, quindi, nell’efficacia ed efficienza con cui favorisce l’accesso ai servizi. Al di là delle specificità che il prodotto o il servizio possono assumere, si individuano alcuni principi di fondo alla base della politica di prodotto. Da quanto illustrato in precedenza sul concetto di “valore”, deriva che un prodotto va pensato (progettato, proposto al mercato target, venduto) come un “mezzo” attraverso cui generare valore a beneficio del proprietario/utilizzatore. Nella prospettiva del marketing, quindi, molti contenuti di un prodotto assumono concretezza essenzialmente nella prospettiva del cliente cui esso è rivolto per soddisfarne determinate esigenze. Per esempio, la comodità della seduta è una componente del servizio di trasporto aereo passeggeri, che però ha un rilievo e necessita di una gestione piuttosto diversa nel caso in cui il passeggero sia un turista low cost o un dirigente in viaggio per motivi professionali. Altri contenuti hanno invece un tipo di rilievo oggettivo; per rimanere nello stesso esempio, la sicurezza è invece una caratteristica cui entrambi i soggetti attribuiscono la stessa rilevanza prioritaria. Nella prospettiva dunque prevalentemente soggettiva degli acquirenti cui è rivolto, il prodotto genera valore attraverso quelle componenti grazie alle quali esso: • assolve a determinate funzioni d’uso; • assume determinati significati simbolici; • stimola o rende possibili esperienze, entrando a far parte del “vissuto” del suo possessore/utilizzatore. La progettazione e successiva gestione del prodotto nel mercato lavora su questi tre piani, trovando il migliore equilibrio appunto tra funzionalità pratiche, significati simbolici e opportunità esperienziali, in relazione alle aspettative del cliente e al posizionamento ricercato. Gli elementi che compongono un prodotto, oltre a essere distinti tra materiali e immateriali, vanno articolati su diversi livelli. Al primo livello, si hanno gli elementi soglia, intesi come quelli minimi che devono necessariamente caratterizzare il prodotto in quanto essenziali affinché questo possa svolgere la sua funzione d’uso basilare e in pratica rientrare in una determinata categoria di prodotti. Al secondo livello si hanno gli elementi di posizionamento essenziali affinché il prodotto possa aspirare a un certo posizionamento, mantenenedo una certa promessa di valore fatta al cliente target. Vi è, infine, un terzo livello relativo agli elementi di unicità: quelli attraverso cui il prodotto acquisisce un differenziale positivo rilevante rispetto ai concorrenti, raggiungendo un significativo vantaggio competitivo. È anche importante considerare che un prodotto ha sempre un ciclo di vita in quanto attraversa comunque alcune fasi tipiche: l’introduzione nel mercato, lo sviluppo, la maturità, il declino, eventualmente superato attraverso la fase di “rivitalizzazione” e l’avvio di un nuovo ciclo di vita. Queste fasi possono avere durata temporale più o meno lunga, e ciascuna maggiore o minore intensità,

Capitolo 9 Il marketing

descritta dalla differenza rispetto alle altre fasi in termini di quantità vendute, reddito o fatturato realizzati. L’impresa deve comprendere i fattori che influenzano l’evoluzione del ciclo di vita del proprio prodotto e le caratteristiche delle sue fasi. Al tempo stesso, deve individuare politiche di prodotto (e lo stesso vale per le altre politiche di marketing) differenziate per ciascuna fase, poiché tendono a essere molto diversi la natura, l’evoluzione e le aspettative dei consumatori, la struttura della filiera, le modalità competitive normalmente più vantaggiose. La politica di prodotto non si occupa semplicemente di un singolo prodotto, ma dell’insieme dei prodotti in cui l’offerta dell’impresa è articolata. In questa prospettiva, l’offerta nel suo complesso è indicata come gamma. Una gamma ha un certo grado di ampiezza determinata dal numero più o meno elevato di linee di prodotti; una gamma è molto ampia quando è articolata in numerose diverse linee di prodotto, quindi ha un grado di diversificazione relativamente alto. È, quindi, importante anche la coerenza esistente tra le diverse linee della gamma, espressa dalla somiglianza e unitarietà con cui le diverse linee si posizionano sul mercato. Una gamma si caratterizza, dunque, anche in funzione della “coerenza” delle sue linee. Ogni linea di prodotto, a sua volta, ha una certa estensione in termini di: • •

321

La politica di prodotto non si occupa semplicemente di un singolo prodotto, ma dell’insieme dei prodotti in cui l’offerta dell’impresa è articolata. gamma

linea di prodotto

lunghezza, determinata dalla numerosità dei diversi modelli di prodotto esistenti al suo interno; profondità, determinata dal numero di varianti (referenze) disponibili in ciascun modello di prodotto della linea.

Le varianti possono essere espresse rispetto a variabili diverse (colore, dimensione ecc.). All’aumentare della profondità della linea, si accresce il grado di personalizzazione del prodotto, ovvero il suo adattamento alle specificità del singolo acquirente. La gestione della gamma deve tenere conto in primo luogo di fattori interni, tra i quali: gli obiettivi strategici e di marketing; le risorse disponibili, e in particolare di quelle finanziarie per attuare le politiche di marketing nelle varie linee; le sinergie realizzabili tra le varie linee; la capacità produttiva. Vanno, inoltre, considerati i fattori esterni: la rilevanza che lunghezza, profondità e coerenza delle linee hanno per il consumatore e per la soddisfazione delle sue esigenze; le scelte compiute a riguardo dai concorrenti e in particolare dei market leaders, i vincoli o le opportunità derivanti dalle tecnologie disponibili, dal sistema normativo, dalle tendenze sociali e culturali delle persone che costituiscono il mercato. L’articolazione della gamma e la struttura delle diverse linee che la compongono deve essere monitorata nel tempo; tende, quindi a evolvere con introduzioni/eliminazioni di nuove linee, categorie di prodotti o referenze, o con la modificazione di loro caratteristiche. Il monitoraggio investe la sfera economica (fatturato, valore aggiunto, redditività operativa), quella strategica (quota di mercato, penetrazione, frequenza di acquisto) e quella di mercato (soddisfazione del cliente, reputazione, fedeltà).

9.3.2 La gestione del sistema di prezzi Le condizioni di fondo nella gestione del prezzo La determinazione del prezzo dell’offerta è uno dei cardini della gestione d’impresa; infatti, il prezzo è sempre un punto di riferimento nelle scelte della domanda, sul piano sia delle preferenze tra prodotti alternativi sia delle quantità

La determinazione del prezzo dell’offerta è uno dei cardini della gestione d’impresa; infatti, il prezzo è sempre un punto di riferimento nelle scelte della domanda.

322

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

gestione del prezzo

La politica di prezzo delinea un sistema di prezzi.

discriminazione

richieste; inoltre, esso influenza il posizionamento dell’offerta e, ovviamente, incide sul suo risultato economico. Nella gestione del prezzo occorre innanzi tutto considerare che, in molti mercati, esso può essere fatto variare con notevole rapidità e relativa facilità; anzi, per molte tipologie di prodotti o di servizi, è assolutamente normale (se non addirittura necessario) che il prezzo sia modificato in relazione al cambiamento di determinate condizioni del contesto o dei potenziali acquirenti. Il caso tipico a riguardo è rappresentato dai prodotti alimentari freschi venduti al dettaglio, il cui prezzo può variare durante l’arco della giornata o in relazione a mutamenti significativi anche se momentanei delle condizioni atmosferiche. Del resto, è abbastanza evidente come il prezzo sia la più flessibile tra le leve del marketing mix e possa essere facilmente adattato a cambiamenti anche congiunturali della domanda, della concorrenza o dei costi di produzione. Il fatto che il prezzo sia una variabile quantitativa rende molto più precisa la valutazione degli effetti di sue variazioni anche temporanee sulle grandezze economiche obiettivo (quota di mercato, fatturato, margine commerciale ecc.). È altrettanto vero che cambiamenti troppo frequenti e consistenti del prezzo sono controproducenti, potendo causare incertezze nella valutazione del consumatore e determinando notevoli complessità procedurali (per esempio nella gestione dei listini) e amministrative. In ogni caso, le variazioni di prezzo per rispondere a mutamenti congiunturali non devono modificare la percezione del posizionamento del prodotto o del servizio cui esso si riferisce. La modificazione del prezzo è invece una delle misure fondamentali nel caso in cui si voglia perseguire proprio un cambiamento di posizionamento. La politica di prezzo delinea un “sistema” di prezzi. Non ha molto senso pratico pensare a un solo prezzo, per la semplice ragione che l’offerta dell’impresa è normalmente articolata in un certo numero di linee, a loro volta costituite da un insieme di prodotti; soprattutto nel caso di linee molto coerenti tra loro e lunghe, i prezzi dei singoli prodotti devono essere definiti in maniera organica, tenendo conto delle possibili reciproche influenze nella prospettiva della domanda. Allo stesso modo, le variazioni di prezzo di un determinato prodotto devono tenere conto degli effetti sul resto dell’offerta ed eventualmente essere coordinate con modificazioni dei prezzi degli altri prodotti della stessa linea o anche di altre linee. Va anche considerata la necessità o, quantomeno, l’opportunità di fissare prezzi diversi per distinte tipologie di cliente potenziale. Si parla a riguardo di discriminazione dei prezzi. La discriminazione del prezzo è economicamente giustificata quando i diversi segmenti di mercato hanno una “disponibilità a pagare”10 significativamente diversa e, di conseguenza, tendono a ritenere accettabile un prezzo differente. Per attuare in maniera efficace questa strategia è, quindi, necessario individuare dei criteri significativi (e leciti) di discriminazione e verificare che gli acquirenti dei diversi segmenti non possano scambiarsi i prodotti

10

Il concetto di “disponibilità a pagare” (willingness to pay) è già stato introdotto nella discussione del concetto di vantaggio competitivo e verrà ripreso più avanti in questo stesso paragrafo. Essa dipende non solo dal valore percepito dall’offerta, ma anche dalla concreta capacità di spesa del consumatore; in altri termini, da quanto il consumatore è in grado di spendere per un determinato prodotto, in relazione al suo reddito disponibile e a prescindere dal valore percepito dell’offerta in questione.

Capitolo 9 Il marketing

323

acquistati a prezzi diversi. Per i beni e servizi rivolti all’utilizzatore finale, i criteri di discriminazione potenzialmente efficaci sono innanzi tutto costituiti da caratteristiche socio-demografiche ed economiche dei potenziali acquirenti (l’età, il reddito medio, la posizione lavorativa ecc.). Possono anche essere presi in considerazione aspetti del comportamento d’acquisto: la discriminazione è frequentemente applicata in funzione delle quantità acquistate, della durata e intensità della relazione tra impresa e acquirente, della destinazione del prodotto. In questi casi, la discriminazione del prezzo è spesso attuata semplicemente attraverso i vari meccanismi di sconto. In alcuni servizi (trasporti, spettacoli, servizi turistici), l’impresa offre diversi prezzi per il servizio “core”, differenziando determinate componenti accessorie del servizio; sono gli acquirenti che scelgono il tipo di prezzo per loro più adatto, ovvero più coerente rispetto alla loro disponibilità a pagare. Infine, il prezzo può essere modificato in relazione all’andamento della domanda in un certo intervallo temporale, rispetto all’offerta disponibile. Tale modificazione è finalizzata a esaurire l’offerta entro la data in cui perde la sua rilevanza commerciale. Le determinanti fondamentali del prezzo L’impresa fissa il prezzo sulla base di tre fattori fondamentali: 1. costi; 2. domanda; 3. concorrenza.

L’impresa fissa il prezzo sulla base di tre fattori fondamentali: costi, domanda, concorrenza.

In alcuni mercati, prima ancora di questi fattori, l’impresa deve tenere conto dei vincoli normativi e delle regolamentazioni fissate dalle autorità pubbliche competenti. I costi di produzione determinano normalmente il livello minimo del prezzo; in linea generale, se l’impresa fissa per un prodotto un prezzo inferiore ai costi sostenuti per realizzarlo e venderlo subisce una perdita; una situazione del genere può essere giustificata in particolari fasi del ciclo di vita del prodotto o del servizio (per esempio, per facilitarne l’introduzione in un mercato dove i concorrenti hanno già raggiunto una posizione consolidata), oppure per attuare una strategia “predatoria” nei confronti degli altri operatori sul mercato (strategia che in linea generale va però contro le normative a tutela della concorrenza nel mercato). Prezzi inferiori ai costi di produzione possono comunque essere sostenuti per un periodo di tempo relativamente limitato, funzione anche della solidità finanziaria dell’impresa o della possibilità di finanziare le perdite con utili consistenti realizzati in altri mercati. L’importanza dei costi per la determinazione del prezzo evidenzia l’importanza di un adeguato sistema per la loro rilevazione, misurazione e allocazione alle diverse funzioni, unità organizzative e prodotti/servizi offerti. Sulla base dei costi, l’impresa può fissare tre livelli fondamentali di prezzo: 1. prezzo base: prezzo uguale al costo variabile unitario. Determina una perdita, ma consente all’impresa di continuare a operare almeno fino a quando non deve realizzare nuovi investimenti fissi; 2. prezzo tecnico: prezzo uguale al costo variabile unitario più costi fissi medi. È il prezzo che consente il recupero del totale dei costi totali sostenuti dall’impresa; 3. prezzo target: prezzo uguale al costo variabile unitario più costi fissi medi comprensivi di un margine di redditività sul capitale investito. È il prezzo

prezzo base

prezzo tecnico

prezzo target

324

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

che consente, oltre alla copertura dei costi totali (variabili e fissi), la realizzazione di un certo livello di redditività sul capitale investito. Il prezzo non può essere determinato sulla base dei soli costi sostenuti dall’impresa: occorre tenere conto anche delle caratteristiche del mercato; in particolare della domanda target e dei prezzi dei concorrenti. Mentre i costi rappresentano soprattutto un vincolo nella fissazione del prezzo, la domanda dovrebbe rappresentarne il riferimento primario. Come accennato in precedenza, il prezzo deve essere coerente con la disponibilità a pagare del consumatore; in alcuni casi, esso è fissato un po’ al di sotto del livello di tale disponibilità, così da lasciare una certa “rendita del consumatore” che spinge quest’ultimo a preferire il prodotto o ad aumentare le quantità acquistate in un certo intervallo temporale. Difficilmente il prezzo può essere stabilmente superiore alla disponibilità a pagare del consumatore; di conseguenza, nel caso in cui i costi di produzione e vendita risultino superiore a essa, l’impresa è, come si usa dire, “fuori mercato”. La disponibilità a pagare del consumatore è determinata da due aspetti fondamentali: 1. il valore che esso soggettivamente attribuisce al prodotto o al servizio; 2. la sua capacità di spesa.

elasticità della domanda al prezzo

Il primo aspetto deriva dalle caratteristiche materiali e immateriali dell’offerta dell’impresa e dal modo in cui essa entra in relazione con il cliente; è utile ricordare che il valore percepito deve essere considerato al netto di costi di transazione che il cliente deve sostenere per disporre e utilizzare il prodotto o il servizio cui il prezzo è riferito. Il secondo aspetto deriva dalle condizioni patrimoniali e reddituali del consumatore oltre che dalle sue abitudini di spesa e dalla propensione al risparmio. Occorre poi tenere conto che la disponibilità a pagare; tende a variare nel tempo, oltre che in conseguenza del cambiamento degli aspetti sopra citati, anche per l’evoluzione del ciclo di vita del prodotto o del servizio in questione. La domanda è un riferimento primario anche per valutare la convenienza di movimenti in aumento o diminuzione del prezzo; a tal fine è, in particolare, importante considerare l’elasticità della domanda al prezzo. L’elasticità della domanda al prezzo indica la sensibilità della quantità domandata di un certo prodotto o servizio al variare del suo prezzo. La domanda è molto elastica quando la quantità domandata varia in maniera proporzionalmente maggiore rispetto a una determinata variazione del prezzo; al contrario, la domanda è poco elastica, quando la quantità domandata varia in maniera proporzionalmente minore rispetto a una determinata variazione del prezzo.11 È evidente che, a parità di altre condizioni, nel caso di una domanda molto elastica (molto sensibile al prezzo), per l’impresa è più conveniente fissare un prezzo relativamente basso che favorisce consistenti incrementi della quantità; nel caso invece di una domanda poco elastica, l’aumento del prezzo determina una riduzione relativamente contenuta della domanda, determinando, quindi, un incremento del fatturato complessivo. 11

Formalmente, l’elasticità della quantità domandata al prezzo è indicata dal rapporto tra la variazione proporzionale della quantità domandata e la variazione proporzionale del suo prezzo. La domanda è molto elastica quando tale rapporto è maggiore di uno e poco elastica nel caso sia inferiore a uno.

Capitolo 9 Il marketing

La concorrenza rappresenta il terzo fattore che l’impresa deve considerare nella determinazione del prezzo. In particolare è necessario tenere conto del prezzo fissato dai concorrenti appartenenti allo stesso raggruppamento strategico. Il confronto tra il proprio prezzo e quello dei concorrenti deve riflettere l’eventuale differenza del valore percepito dalla domanda del proprio prodotto rispetto a quello dei concorrenti. I prezzi più rilevanti sono, quindi, quelli dei prodotti o servizi che hanno un posizionamento simile e propongono alla domanda un valore simile. Naturalmente, il confronto con i concorrenti sul piano dei prezzi è tanto più rilevante quanto maggiore è l’influenza del prezzo sulla scelta della domanda e minore è l’impatto dei fattori di differenziazione. Nella fissazione del prezzo, costi di produzione e vendita, domanda e concorrenza devono essere considerati in modo organico: i costi costituiscono il limite minimo, il valore netto percepito dalla domanda il limite massimo. Il prezzo effettivo è fissato tra questi due estremi, in relazione ai prezzi dei concorrenti e tenuto conto del differenziale di qualità dei loro prodotti rispetto a quello dell’impresa. Dipende anche dall’orientamento strategico dell’impresa, in particolare da come essa intenda utilizzare il prezzo come leva competitiva. L’impresa può fissare il prezzo nella parte inferiore dell’intervallo, quindi tendenzialmente più basso di quello dei concorrenti e del valore attribuito al prodotto dal cliente; si tratta di un prezzo comunemente chiamato di penetrazione in quanto favorisce, a parità di altre condizioni, una rapida acquisizione di quota di mercato. Al contrario, si può ritenere più vantaggioso fissare un prezzo nella fascia alta dell’intervallo, con l’intento di massimizzare la redditività delle vendite, sfruttando tutta la disponibilità a pagare della fascia di consumatori più sensibili agli elementi di valore del prodotto. In un secondo tempo, l’impresa riduce il prezzo, per allargare il mercato di riferimento, attraendo i consumatori con minore disponibilità a pagare per gli aspetti di innovatività (o di moda) dell’offerta. Questa strategia, comunemente indicata come prezzo di scrematura, è particolarmente indicata nel caso di prodotti fortemente innovativi, con elevato contenuto di “moda” o comunque dotati di significativi elementi di unicità che nel tempo possono essere imitati. Ci sono molte situazioni in cui le imprese non sono libere di fissare il prezzo che ritengono più opportuno in relazione ai costi, alle caratteristiche della domanda e al comportamento della concorrenza, dovendo rispettare le indicazioni della legge; i prezzi possono infatti essere regolamentati attraverso provvedimenti normativi. La regolamentazione dei prezzi è normalmente adottata nei mercati in condizione di monopolio, oppure per prodotti e soprattutto servizi di rilevante interesse pubblico (trasporti collettivi; elettricità; gas; telefonia). La regolamentazione consiste nella fissazione dei criteri e dei valori dei parametri attraverso cui si determina il prezzo e la sua variazione nel tempo o in conseguenza del variare di determinate condizioni economiche. Nei settori dove il prezzo è regolamentato, esso è determinato sulla base di una formula, basata principalmente su: • • • • •

dinamica dei costi delle materie prime e di produzione (a livello di settore); livelli qualitativi dell’offerta richiesti ed eventuale impegno al miglioramento richiesto al produttore; livello di di redditività considerato equo in relazione al rischio d’impresa; nuovi investimenti richiesti al produttore per sviluppo dell’offerta; tetto massimo che il prezzo può raggiungere per ragioni di interesse pubblico e in relazione alla capacità di spesa degli utenti.

325

Nella fissazione del prezzo, costi di produzione e vendita, domanda e concorrenza devono essere considerati in modo organico.

prezzo di penetrazione

prezzo di scrematura

prezzi regolamentati

326

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

9.3.3 La comunicazione Cenni introduttivi sulla teoria della comunicazione La comunicazione può essere definita come un “processo dinamico, circolare e potenzialmente interattivo che incide, esplicitamente o implicitamente, sugli atteggiamenti e sui comportamenti delle persone e delle organizzazioni” (Guatri et al., 1999). Influenzando le opinioni, i sentimenti e i comportamenti dei soggetti cui si rivolge, la comunicazione può avere effetto sul valore dell’offerta percepito dall’acquirente e sul suo comportamento nelle diverse fasi che compongono il processo di acquisto. Tali fasi sono, in particolare: • • • • • processo di comunicazione

consapevolezza; conoscenza; adesione; preferenza; scelta.

Il processo di comunicazione può essere descritto attraverso un modello ampiamente consolidato nella pratica e nella teoria del marketing,12 costituito da nove elementi collegati (Figura 9.4). Il comunicatore e il ricevente sono gli attori della comunicazione; il primo è la persona o l’organizzazione che genera la comunicazione, indirizzandola al soggetto, persona o organizzazione ricevente. Il contenuto della comunicazione deve essere codificato attraverso l’uso di linguaggi, immagini, simboli e forme che rendano comprensibile per il ricevente ciò che gli viene comunicato. Per mezzo della codifica, il comunicatore crea le condizioni affinché la comunicazione influenzi concretamente il sistema cognitivo e le percezioni del ricevente; assume concretezza e sintesi nel messaggio che è appunto un insieme di linguaggio, immagini, simboli ecc. che il comunicatore trasmette al ricevente. Questa trasmissione avviene attraverso uno o più canali di comunicazione. Il canale rappresenta la via, spesso costituita da uno strumento materiale, attraverso cui fluisce il messaggio dal comunicatore al ricevente. Nel ricevere il messaggio, il ricevente ne decodifica i contenuti, in base al suo grado di comprensione degli elementi utilizzati dal comunicatore per codificare il messaggio stesso. La coerenza tra codifica e decodifica del messaggio aumenta al crescere dell’interazione tra comunicatore e ricevente; di conseguenza, la comunicazione tende a essere più efficace quando avviene tra soggetti che hanno ripetute occasioni di comunicare o che sono simili dal punto di vista socio-culturale o professionale. Il processo di comunicazione non è unidirezionale, ma circolare. Il ricevente può rispondere alla comunicazione ricevuta attraverso un messaggio che, a sua volta, invia all’originario comunicatore o attraverso determinati comportamenti; tale risposta può avvenire in maniera immediata o con un certo ritardo temporale. La risposta del ricevente produce un feedback sul comunicatore: gli fornisce una serie di elementi per valutare gli effetti della comunicazione avvenuta e, quindi, per adeguare i contenuti e le modalità delle successive comunicazioni rispetto agli obiettivi originari. È importante precisare che la fase retroattiva della risposta del

12

Questo modello di comunicazione è presentato spesso senza alcuna variante in tutti i testi di marketing e di comunicazione; oltre al già citato Guatri et al., (1999), si veda Kotler P. (2004) o anche Bragozzi R.P. (1998).

Capitolo 9 Il marketing

Comunicatore

Codifica

MESSAGGIO

Rumore

Retroazione

CANALE

Risposta Decodifica

Ricevente

Figura 9.4 Il processo di comunicazione.

ricevente e del conseguente feedback sui contenuti della comunicazione non si verifica necessariamente e sempre. Il suo manifestarsi dipende innanzi tutto dal tipo di strumento di comunicazione utilizzato; per esempio, è abbastanza infrequente nel caso della pubblicità, mentre è intrinsecamente molto probabile nel direct marketing. Il funzionamento di questo processo è influenzato da un certo livello di rumore che indica l’insieme di fattori, di tipo casuale e non, che interferiscono nella comunicazione tra comunicatore e ricevente, alterando in una certa misura la capacità di decodifica del ricevente e i contenuti del messaggio da questo effettivamente percepiti. Il rumore si manifesta concretamente nell’insieme di altri messaggi generati in vario modo nel sistema di cui fanno parte comunicatore e ricevente e che influenzano la comunicazione originaria. Il buon funzionamento del modello della comunicazione dipende innanzi tutto dalla coerenza tra il modo in cui il comunicatore codifica il messaggio e il modo in cui il ricevente lo decodifica. Ne consegue che il comunicatore deve conoscere le caratteristiche del soggetto a cui intende rivolgersi e comprenderne il sistema di decodifica dei messaggi. Il contenuto del messaggio, le sue modalità di espressione e i canali di trasmissione devono essere determinati in funzione delle caratteristiche del ricevente.

327

328

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

La misura in cui il comunicatore è accettato dal ricevente ed è percepito come credibile è una determinante fondamentale dell’intensità e del modo in cui il ricevente è effettivamente influenzato dalla comunicazione. È stato ampiamente verificato da un punto di vista empirico che la comunicazione risulta tanto più efficace quanto più il ricevente ritiene che il comunicatore sia dotato di competenza, status elevato, obiettività e potere. In alcuni casi, è anche rilevante la sua attrattività. strategia di comunicazione

L’articolazione della strategia di comunicazione La strategia di comunicazione parte dalla determinazione dei soggetti a cui la comunicazione è indirizzata; per quanto osservato in precedenza, tipologie di pubblico diverso richiedono contenuti e modalità di comunicazione distinti. L’impresa deve comunicare con diverse tipologie di soggetti, il primo dei quali è tradizionalmente considerato il cliente, attuale e potenziale. In questi anni è divenuta particolarmente rilevante anche la comunicazione verso i principali stakeholders esterni e interni: i finanziatori, le istituzioni pubbliche, i soggetti rappresentanti le forze sociali e la Comunità di cui l’impresa è parte, i dipendenti. Con riferimento ai possibili target, si identificano diverse aree della comunicazione d’impresa.

comunicazione commerciale



comunicazione economico-finanziaria



comunicazione istituzionale



comunicazione interna



Commerciale: è rivolta ai clienti finali e/o intermedi dell’impresa e generalmente focalizzata soprattutto sul prodotto o sul servizio e sulla marca, per evidenziarne gli elementi materiali di valore e rafforzare quelli di natura immateriale; in fasi particolari della vita dell’impresa o dell’evoluzione del mercato può riguardare anche l’impresa nel suo insieme. Economico-finanziaria: è rivolta agli investitori e ad altri soggetti interessati alla solidità economico-finanziaria dell’impresa e alle sue prospettive (per esempio, i principali fornitori). È focalizzata appunto sulla situazione patrimoniale, finanziaria e reddituale dell’impresa, sulle sue potenzialità di creazione di valore, sull’evoluzione della sua situazione finanziaria e sulle modalità di raggiungere i target di risultato promessi, controllando le eventuali criticità. Istituzionale: è rivolta agli organismi pubblici, alle istituzioni e alle rappresentanze sociali e agli opinion makers; ha per oggetto principalmente l’impresa nel suo insieme e riguarda il ruolo da essa svolto nella Comunità di cui è parte, il valore economico, sociale e ambientale generato attraverso la sua attività, il sistema di valori immateriali di cui essa intende essere portatrice. Interna: è rivolta a coloro che operano all’interno dell’azienda e con contenuti generalmente in parte differenziati a seconda delle loro diverse identità: dirigenti, personale esecutivo, collaboratori indipendenti. Riguarda per un verso gli orientamenti strategici, gli obiettivi, i valori e le procedure fondamentali adottate dall’azienda, per l’altro i principali fatti che caratterizzano l’evoluzione dell’impresa e che maggiormente impattano sui suoi collaboratori.

Con riferimento a ogni specifico target, si stabiliscono gli obiettivi della comunicazione; in linea generale, la comunicazione può proporsi di: informare; esplicitare il posizionamento e l’identità; sviluppare reputazione; far percepire fattori di valore; suscitare emozioni; spingere all’azione (acquisto); fidelizzare. Questo insieme di obiettivi può essere sintetizzato nei cinque potenziali effetti fondamentali rappresentati nella Figura 9.5. Gli obiettivi della comunicazione devono essere funzionali ai più generali obiettivi competitivi dell’impresa. Devono, inoltre, essere basati su un’adeguata

Capitolo 9 Il marketing

Differenziazione

329

Conoscenza

Potenziali effetti della comunicazione

Scelta

Adesione

Fedeltà

Figura 9.5 Le cinque possibili finalità della comunicazione.

analisi dell’immagine dell’azienda e della sua offerta percepita dai vari soggetti con i quali essa interagisce e ai quali è, quindi, importante comunicare. Con riferimento a ciascuno dei target e agli obiettivi fissati, la strategia di comunicazione definisce in modo integrato il messaggio (Figura 9.6), cioè l’oggetto della comunicazione, gli strumenti e i canali, e, quindi, rispettivamente il modo in cui il messaggio è comunicato e gli strumenti concreti utilizzati. Queste scelte sono condizionate al budget disponibile e agli eventuali partner con i quali possono essere attuate determinate iniziative di comunicazione. Gli strumenti (o leve) della comunicazione tradizionalmente considerati sono i seguenti. •



strumenti (o leve) della comunicazione

Pubblicità: comprende tutte le forme di comunicazione a pagamento e non personale, ovvero rivolta a un pubblico relativamente ampio e comunque non selezionato (almeno non direttamente); si tratta delle forme di comunicazione veicolate attraverso canali quali cinema, televisione, radio, stampa, video, cartellonistica, materiali prodotti ad hoc dall’azienda ecc. Promozione: consiste nelle azioni finalizzate a stimolare il cliente finale o gli intermediari ad acquistare il prodotto o il servizio, ovvero ad aumentare

Messaggio (che cosa)

Strumenti (come)

Budget

Figura 9.6 Le componenti integrate della strategia di comunicazione.

pubblicità

promozione

Canali (dove)

Partnership

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

330

relazioni pubbliche



sponsorizzazioni

• propaganda

product placement

marketing diretto



vendita personale



social network

buzz marketing

street marketing

ambient marketing

la quantità/frequenza dell’acquisto medio; le azioni di promozione normalmente utilizzano la leva del prezzo e sono spesso legate a campagne pubblicitarie. Sono attuate per un periodo di tempo limitato, anche se possono essere ripetute più volte in un orizzonte temporale di medio termine. Relazioni pubbliche: comprendono iniziative come l’organizzazione di incontri, convegni, seminari, presentazioni, sponsorizzazioni. Sono finalizzate a sviluppare una relazione positiva tra l’impresa e varie categorie di interlocutori e a rafforzare la sua reputazione. Sono indirizzate principalmente con coloro che possono influenzare le condizioni di contesto in cui l’impresa si trova a operare, quindi, in primo luogo, gli organi di governo locale, regionale, nazionale ed eventualmente internazionale, le istituzioni pubbliche, le rappresentanze degli stakeholders, gli organi di comunicazione, gli opinion leaders. In questo ambito sono comprese le sponsorizzazioni. Propaganda: è costituita da un insieme molto eterogeneo di iniziative, finalizzate a rafforzare la notorietà del prodotto, della marca o dell’impresa come entità. Sono realizzate da soggetti terzi e almeno in teoria, senza che l’impresa sostenga direttamente dei costi. Nella realtà, è abbastanza frequente che l’impresa sostenga anche economicamente i soggetti che attuano azioni che hanno un positivo effetto di propaganda a vantaggio suo e dei suoi prodotti. Nella propaganda può rientrare anche l’attività di product placement, che consiste nel posizionamento (in questo caso a pagamento) di un prodotto e del marchio nell’ambito di scene di film, spettacoli o eventi pubblici. Marketing diretto: comprende la comunicazione che l’impresa indirizza a singoli acquirenti (attuali o potenziali) attraverso strumenti che le consentono di stabilire una relazione diretta con essi e sollecitare un certo tipo di interazione. Strumenti di marketing diretto sono materiali cartacei come brochure e cataloghi, la vendita telefonica e, negli ultimi anni, naturalmente internet. Vendita personale: è la comunicazione del prodotto/servizio e della marca realizzata personalmente dai venditori dell’impresa attraverso il loro rapporto diretto con gli acquirenti potenziali e con quelli attuali.

Diffusione crescente registrano le modalità innovative di comunicazione non convenzionale, spesso legate all’utilizzazione di internet. In primo luogo, la comunicazione nei social network, basata sul dialogo diretto dell’impresa con i membri di comunità virtuali; rilevante, in modo particolare nei servizi è la comunicazione virale, basata sull’antico meccanismo del “passa parola” tra persone legate da reciproca fiducia e oggi enormemente potenziato, appunto, dalle opportunità di dialogo virtuale. Un’implementazione della comunicazione virale è il buzz marketing finalizzato ad aumentare la notorietà di un prodotto o di un marchio, suscitando conversazioni, incontri, riflessioni su di esso e sulle sue funzioni d’uso nell’ambito di blog, social forum, e reti sociali. Interessanti sono le esperienze di street marketing, in cui il prodotto e il marchio sono comunicati attraverso performance con un contenuto (auspicabilmente) artistico realizzate in maniera apparentemente improvvisata nelle vie, piazze e nei principali luoghi di aggregazione delle città. Con una logica analoga, si osservano infine, esempi di ambient marketing, in cui l’impresa comunica il prodotto e il marchio in luoghi particolari tipicamente frequentati dal target principale di quel marchio e dove è possibile organizzare una sorta di incontro reale o virtuale tra il prodotto, il marchio e le persone target. Luoghi di questo genere possono essere una discoteca, un mercato rionale, ma anche una stazione ferroviaria o un museo.

Capitolo 9 Il marketing

Il rilievo dei diversi strumenti di comunicazione varia notevolmente in relazione alla struttura del mercato e alle caratteristiche del prodotto o del servizio. In linea generale, tanto più il mercato è costituito da un gruppo ristretto di soggetti e il prodotto ha un valore elevato (beni industriali e beni durevoli ad alto contenuto tecnologico o alto valore intrinseco), quanto più sono rilevanti forme di comunicazione basate sull’interazione diretta tra impresa e target. Per i beni e i servizi di rilievo pubblico è, invece, fondamentale la comunicazione istituzionale, attraverso la quale l’impresa si “accredita” come soggetto affidabile presso gli interlocutori pubblici interessati alla migliore soddisfazione di esigenze collettive e al corretto funzionamento del mercato. Nei mercati di massa rimangono essenziali gli strumenti di comunicazione in grado di raggiungere rapidamente un pubblico molto vasto, pur essendo anche in questo caso sempre maggiore per l’impresa l’esigenza di stabilire una relazione in qualche modo diretta anche se su vasta scala con i propri clienti. In relazione alle caratteristiche tecniche degli strumenti di comunicazione scelti si procede alla costruzione del messaggio di comunicazione e contemporaneamente alla scelta dei canali attraverso cui questo è diffuso al target della comunicazione. Ciascuno degli strumenti descritti può essere implementato infatti in una molteplicità di canali con specificità più o meno indicate rispetto agli obiettivi e ai target della comunicazione e più o meno sostenibili dato il budget disponibile. La strategia di comunicazione è completata dalla misurazione dei risultati, basata su un’idonea metodologia di analisi dei risultati e sulla conseguente attività di rilevazione dei dati. La misurazione dei risultati fornisce una conoscenza basilare per affinare i contenuti della comunicazione (messaggio e canali) rispetto agli obiettivi fissati. Per la misurazione dei risultati di un piano di comunicazione, sono codificati una serie di parametri, tra i quali i più rilevanti sono: •

• • •

Il rilievo dei diversi strumenti di comunicazione varia notevolmente in relazione alla struttura del mercato e alle caratteristiche del prodotto o del servizio.

La strategia di comunicazione è completata dalla misurazione dei risultati, basata su un’idonea metodologia di analisi dei risultati e sulla conseguente attività di rilevazione dei dati.

numero di contatti lordi. È dato dal numero di volte che i soggetti appartenenti al segmento target sono esposti a un determinato messaggio comunicazionale, considerando tutti i veicoli attraverso cui tale messaggio può essere diffuso e le ripetizioni del messaggio attraverso ciascun veicolo. In sostanza, indica la probabilità che un soggetto sia “colpito” dal messaggio; numero di contatti netti. Indica il numero di individui appartenenti al segmento target e “colpiti” almeno una volta dal messaggio, al netto quindi delle repliche del messaggio dallo stesso veicolo o da altri veicoli; copertura netta. È data dal rapporto tra numero di contatti netti e numero di appartenenti al segmento target; frequenza media. È data dal rapporto tra numero contatti lordi e numero contatti netti ed è riferita a un certo orizzonte temporale. Esprime, quindi, il numero di volte in cui un soggetto è mediamente raggiunto dal messaggio in un certo periodo di tempo. Si considera come “efficace” la minima frequenza media necessaria affinché il messaggio generi un effetto ricordo nel soggetto ricevente.

9.3.4 La gestione commerciale La gestione commerciale concerne le attività direttamente connesse alla vendita del prodotto/servizio, in particolare: • •

organizzazione dei canali distributivi; sviluppo dei servizi commerciali nell’ambito dei canali distributivi.

331

gestione commerciale

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

intermediari commerciali

Per impostare efficacemente la gestione commerciale occorre considerare in primo luogo la struttura dei canali distributivi. canali distributivi

canale indiretto

I canali distributivi sono costituiti da un insieme di soggetti, organizzazioni e/o persone, che realizzano le varie attività necessarie per rendere il prodotto o il servizio disponibile al suo acquirente finale e da questi concretamente acquistabile nelle modalità ritenute più convenienti. Tali soggetti sono comunemente definiti intermediari commerciali. L’impresa deve interagire con gli intermediari commerciali per favorire il migliore accesso del proprio prodotto o servizio al mercato finale e avvantaggiarsi dei risultati dell’interazione che essi stabiliscono con gli acquirenti finali. A tal fine, l’impresa costituisce una propria struttura commerciale con la funzione, appunto, di gestire i canali di distribuzione e gli intermediari che li costituiscono. In relazione alle caratteristiche del mercato, alle dinamiche della competizione e alle risorse a disposizione, l’impresa può integrarsi “a valle”, fino ad arrivare a gestire direttamente la relazione con gli acquirenti finali della sua offerta. Struttura e rilevanza dei canali distributivi Per impostare efficacemente la gestione commerciale occorre dunque considerare in primo luogo la struttura dei canali distributivi; è opportuno usare il plurale perché in molti mercati possono coesistere diverse tipologie di canale (Figura 9.7). È consolidata la distinzione dei canali distributivi in funzione della loro “lunghezza”, ovvero del numero di intermediari commerciali che intervengono nel favorire il passaggio del prodotto o del servizio dal suo produttore all’utilizzatore finale. In tale prospettiva, si distingue: • canale lungo (molti intermediari); • canale corto (pochi intermediari); • canale diretto (nessun intermediario). Le prime due tipologie di canale sono anche indicate con il termine di “canale indiretto” (lungo o corto). Diversi fattori determinano la lunghezza del canale distributivo, limitando di fatto le opzioni a disposizione dell’impresa e, quindi, condizionandone la strategia commerciale. I due fattori più rilevanti a riguardo sono le caratteristiche merceologiche del prodotto (deperibilità complessità, valore economico intrinseco ecc.) e la numerosità dei clienti che costituiscono il mercato e che, quindi, devono essere

Sistema “ingrosso”

Figura 9.7 La struttura dei canali distributivi.

Sistema “dettaglio”

Sistema “dettaglio”

Mercato finale

Mercato finale

Mercato finale

Capitolo 9 Il marketing

raggiunti attraverso il canale. In linea generale, i canali indiretti sono tipici per prodotti di limitata complessità, rivolti a un mercato con un numero molto ampio e poco concentrato di acquirenti, il cui processo di acquisto è relativamente semplice e routinario, caratterizzato da acquisti di valore unitario modesto e magari frequente. Al contrario, il canale diretto è normalmente preferito per beni complessi (per funzioni d’uso o valore), rivolti a segmenti relativamente poco ampi e con comportamento d’acquisto molto articolato. Sulla determinazione della lunghezza del canale ha anche notevole rilievo il contenuto tecnologico del prodotto, in particolare per quanto concerne, per un verso, la necessità del produttore di mantenere il controllo della tecnologia, per l’altro di evidenziarne il valore che essa aggiunge al prodotto a vantaggio dell’utilizzatore. Prodotti ad alto contenuto tecnologico richiedono canali diretti o comunque corti, ancor di più se sono anche facilmente esposti a danneggiamenti. L’intensità della concorrenza nel mercato o proveniente da prodotti/servizi sostitutivi o da nuovi entranti è un altro importante elemento di valutazione; favorendo una relazione più rapida e diretta con gli acquirenti finali, il canale diretto o corto è più efficace quando la concorrenza orizzontale risulta più agguerrita. Sul piano economico e finanziario, il canale diretto risulta molto più impegnativo per l’impresa produttrice poiché le richiede la realizzazione degli investimenti necessari per rendere l’offerta adeguatamente disponibile all’acquirente finale (quelle attività svolte dagli intermediari commerciali nei canali indiretti). Puntare sul canale diretto implica quindi un maggiore impegno finanziario, oltre che naturalmente organizzativo, e una maggiore rischiosità, connessa all’aumentare dei costi fissi per l’impresa; per contro, aumenta il valore aggiunto generato dal produttore. Un esempio in cui lo sviluppo del canale diretto è stato in questi anni particolarmente eclatante è rappresentato dall’ampia diffusione dei flagship stores delle grandi marche nel mercato abbigliamento, soprattutto nella fascia alta e altissima. L’opzione del canale diretto è quindi condizionata anche dalla capacità dell’impresa di sostenere gli investimenti necessari e di attenderne i ritorni economici in una prospettiva temporale sufficiente a neutralizzare le variazioni congiunturali del mercato; dipende anche dalla disponibilità di specifiche competenze gestionali, diverse da quelle tipiche di un’azienda di produzione. Il canale diretto consente all’impresa di produzione di avere una relazione diretta e continua con l’utilizzatore finale del suo prodotto, dalla quale derivano diversi vantaggi molto rilevanti: il migliore controllo del posizionamento del prodotto o del servizio, una conoscenza più approfondita delle caratteristiche del consumatore e della sua evoluzione. Un canale distributivo che favorisce gran parte dei vantaggi di quello diretto, riducendone fortemente gli investimenti richiesti, è rappresentato dal franchising. Si tratta di un contratto in base al quale due soggetti indipendenti (il franchisor e il franchisee) si accordano per lo sviluppo commerciale di un certo insieme di prodotti/servizi. Sulla base di tale accordo, il franchisee si impegna a gestire imprenditorialmente una struttura per l’esclusiva vendita al dettaglio dei prodotti o dei servizi del franchisor, utilizzando la “formula di marketing” fornita dal franchisor stesso e riconoscendogli una royalty proporzionale al volume del venduto. Con questo tipo di contratto, l’azienda di produzione (il franchisor) si garantisce il controllo del modo in cui la sua offerta è posizionata sul mercato finale e l’opportunità di guidare le scelte strategiche e i comportamenti operativi del distributore, senza dover investire direttamente nello sviluppo di una propria rete di punti vendita; i franchisee sono, infatti, soggetti che gestiscono l’attività commerciale in franchising come imprenditori indipendenti ma seguendo le linee

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canale diretto

flagship stores

franchising

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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guida stabilite dal franchisor. Anche in questo caso, è però essenziale che il produttore-franchisor disponga di competenze organizzative avanzate, in particolare relative alla selezione e alla gestione della rete di franchisee.

internet

commercio elettronico

Nella specifica prospettiva del sistema di distribuzione, il commercio elettronico offre l’opportunità a produttore e acquirente finale di essere direttamente ed efficacemente collegati.

Il commercio elettronico La rivoluzione tecnologica rappresentata da internet e dalle reti virtuali ha avuto un impatto decisivo sulla struttura dei canali distributivi. A circa venti anni dai primi esempi di “B2C” e “B2B” (business to consumers e business to business), è facile osservare in diversi mercati una trasformazione radicale della struttura distributiva: si pensi all’editoria libraria e musicale (dove la trasformazione ha ormai investito anche la configurazione dello stesso prodotto), all’elettronica di consumo, all’abbigliamento anche per i prodotti di alta gamma. L’approfondimento esaustivo dell’e-commerce o commercio elettronico va chiaramente oltre il perimetro di questo capitolo e gli obiettivi del libro; ci limitiamo, per tanto, ad alcune considerazioni introduttive sugli aspetti concettuali più rilevanti del fenomeno citato. Nella specifica prospettiva del sistema di distribuzione, il commercio elettronico offre l’opportunità a produttore e acquirente finale di essere direttamente ed efficacemente collegati, riducendo specularmente la rilevanza dei tradizionali canali distributivi “fisici”. D’altro canto, si sono affermati grandi piattaforme distributive basate su Internet che hanno acquisito nei confronti della produzione un potere ancora più forte di quello che in passato avevano le grandi imprese di distribuzione (anche perché hanno raggiunto dimensioni globali e un potere di mercato ancora maggiore). Solo per fare un esempio, in Italia le due principali piattaforme di prenotazione alberghiera si stima riescano a ottenere un margine tra il 15 e il 20% sul prezzo della camera acquistata attraverso il loro portale. Del resto, si trovano proprio in questo ambito molte delle imprese che nate in questi ultimi venti anni sono oggi tra le più grandi al mondo (Amazon e Booking.com solo per evidenziare due tra gli esempi più evidenti). Queste piattaforme non hanno, dunque, solo trasformato il sistema di distribuzione; hanno anche creato ulteriore pressione competitiva sulle imprese di produzione a monte. Le imprese di produzione cercano di rafforzare la propria presenza diretta in Internet e nelle reti sociali, con l’intento di sviluppare una relazione diretta con i clienti potenziali. Tale relazione, oltre a divenire ovviamente più diretta, è più intensa (aumenta la quantità di informazioni che possono essere scambiate), più frequente (le interazioni possono essere stabilite in modo molto più agevole e meno costoso), mirata e differenziata (le modalità di interazione e i suoi contenuti sono sviluppati in funzione delle specificità dei diversi target e degli obiettivi relativi alla relazione con ciascuno). La possibilità di dialogare e interagire direttamente con i propri consumatori offre al produttore gli stessi vantaggi del canale diretto, richiedendo investimenti e complessità organizzative molto inferiori, favorendo comunque una ben più ampia estensione della propria presenza nel mercato finale. Affinché queste potenzialità positive assumano concretezza è però necessario che il produttore disponga, oltre ovviamente delle tecnologie ICT necessarie, di adeguate strutture e competenze logistiche. Il consumatore, proprio perché stabilisce una relazione più diretta e continua con il produttore, tende ad aspettarsi che anche il suo rapporto con l’oggetto della sua domanda sia altrettanto efficiente; è, quindi, essenziale ottimizzare la gestione della logistica che porta l’offerta dal produttore al suo utilizzatore finale.

Capitolo 9 Il marketing

Una delle ragioni della notevole diffusione del commercio elettronico sta nel fatto che esso permette l’erogazione di servizi al cliente potenziale durante tutte le fasi del suo processo di acquisto: in quella di ricerca di informazioni e comparazione delle alternative, nella transazione commerciale, nelle interazioni postvendita. In particolare si individuano tre tipologie di servizi virtuali (Pastore, Vernuccio, 2004).

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servizi virtuali

1. Servizi di tipo informativo con due possibili finalità principali: rendere più efficace in termini di estensione, precisione e rapidità, nonché meno costosa, la ricerca di informazioni da parte del cliente; facilitare la ricerca ed eventualmente la richiesta delle specificità dell’offerta rispetto alle proprie esigenze. 2. Servizi di supporto logistico e finanziario, finalizzati a rendere efficiente ed efficace la transazione commerciale (realizzazione dell’ordine, gestione della consegna, realizzazione del pagamento, gestione della privacy). 3. Servizi accessori, finalizzati a differenziare l’offerta, migliorando “l’esperienza di acquisto” fatta in rete e garantendo la migliore assistenza pre- e post-vendita, in particolare sul piano delle personalizzazioni del prodotto e del servizio, della sostituzione del prodotto acquistato e del superamento dei problemi, errori e altre cause di insoddisfazione. La strategia distributiva Le decisioni strategiche inerenti la distribuzione sono in primo luogo finalizzate ad attuare l’obiettivo di estensione della presenza commerciale; sono, quindi, legate alla numerosità dei mercati in cui l’impresa intende essere presente e alle modalità di copertura di ciascuno. Numerosità dei mercati e modalità di copertura sono anche condizionati da diversi fattori: la natura del prodotto o del servizio offerto, il posizionamento della marca, le caratteristiche del processo di acquisto, oltre naturalmente le risorse che l’impresa ha a disposizione. La copertura del mercato può avvenire attraverso una distribuzione intensiva, quando l’impresa punta a raggiungere una presenza molto diffusa su tutto il mercato, attraverso una distribuzione capillare, quindi coinvolgendo il più elevato numero possibile di intermediari. Questa strategia, tipica per i prodotti di largo consumo, implica normalmente un approccio multicanale che favorisce, appunto, il massimo coinvolgimento di tutto il sistema degli intermediari commerciali nel suo complesso. Ha il vantaggio di facilitare una presenza molto estesa nel mercato, riducendo, a parità di altre condizioni, il potere contrattuale dei distributori; d’altro canto, implica notevole complessità organizzativa e gestionale ed espone ai rischi di un controllo intrinsecamente meno forte e diretto dei singoli intermediari. Un secondo approccio è quello selettivo, in cui il produttore commercializza i propri prodotti attraverso un numero definito di distributori precisamente individuati e selezionati. I vantaggi e gli svantaggi di questo modello sono abbastanza speculari a quelli del precedente. La distribuzione selettiva favorisce una migliore interazione (ed eventualmente controllo) con i partner commerciali (del resto è normalmente adottata nel canale corto) e quindi una più attenta gestione del posizionamento dell’offerta presso il cliente finale; permette anche un’osservazione più approfondita dei comportamenti del consumatore. Per contro, la distribuzione selettiva permette una presenza sul mercato inevitabilmente più limitata, esponendo il produttore anche al rischio che tale presenza risulti inferiore agli obiettivi commerciali, a causa dell’inadeguatezza anche solo di alcuni dei partner commerciali selezionati. Inadeguatezza che può

Le decisioni strategiche inerenti la distribuzione sono in primo luogo finalizzate ad attuare l’obiettivo di estensione della presenza commerciale. modalità di copertura

distribuzione intensiva

approccio multicanale

approccio selettivo

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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distribuzione esclusiva

trade marketing

derivare da limiti oggettivi dell’intermediario, oppure dal fatto che esso focalizzi la propria attività commerciale su altri prodotti esistenti nel suo portafoglio. Il successo di una strategia selettiva è, quindi, fortemente condizionato dalla capacità di selezionare i distributori e di stabilire con gli stessi una collaborazione efficace, condividendo gli obiettivi economici, l’approccio al cliente, le iniziative commerciali. Infine, la distribuzione può essere esclusiva quando il produttore attribuisce a un determinato distributore l’esclusiva per la vendita dei suoi prodotti in un mercato geografico precisamente identificato; a fronte di tale vantaggio, il distributore può assumere l’impegno verso il produttore di non distribuire prodotti concorrenti, almeno nella stessa area geografica. È chiaro che questo modello enfatizza i vantaggi e gli svantaggi del precedente, rendendo ancora più importante la qualità della collaborazione che si stabilisce tra produttore e distributore. Del resto, un rapporto di esclusiva implica un’integrazione tra le parti che va oltre la collaborazione commerciale, potendosi estendere a iniziative di co-sviluppo delle offerte. In tutti e tre gli approcci distributivi, ma in modo ovviamente differenziato in ciascuno, il produttore deve comunque attuare delle politiche a favore degli intermediari che costituiscono il canale distributivo; si tratta delle politiche di trade marketing che si affiancano a quelle di consumer marketing, rivolte invece direttamente al cliente finale. Le politiche di trade marketing attuate da un produttore si articolano in due insiemi: 1. politiche di marketing finalizzate a favorire l’acquisto dell’offerta del produttore da parte degli intermediari commerciali e in senso più ampio a rafforzare il loro impegno per la sua commercializzazione nel mercato finale; 2. politiche finalizzate a rafforzare le azioni di marketing realizzate dagli intermediari sul mercato finale a favore dell’offerta del produttore. Si intuisce che la consistenza di questa seconda categoria di politiche ha notevole rilievo sull’efficacia della prima e, anzi, per certi versi ne rappresenta una determinante del successo. Per altro, le politiche verso il “trade” sono condizionate da quelle verso i clienti finali. Il produttore può privilegiare un approccio push, in cui investe prevalentemente sul supporto ai distributori per favorire la spinta del prodotto sul mercato finale attuata da questi ultimi; oppure, può seguire una logica contraria (pull) focalizzandosi primariamente sui clienti finali, sviluppando la brand equity e la loro fidelizzazione, così che essi “tirino” la domanda del prodotto dai distributori, riducendo la complessità dello sforzo commerciale di questi ultimi.

forza vendita (o rete vendita)

agenzia monomandatari plurimandatari

La gestione della forza vendita Il rapporto con gli intermediari commerciali è gestito attraverso la forza vendita (o rete vendita); questa può essere definita come l’insieme di persone che si occupano di vendere i prodotti o i servizi per conto dell’impresa. In alcuni casi, i venditori possono essere soggetti indipendenti (procacciatori d’affari) che hanno un rapporto tendenzialmente occasionale con l’azienda di cui si incaricano di commercializzare i prodotti. Più spesso, essi sono legati attraverso un contratto di agenzia che prevede una relazione più strutturata e continuativa con l’impresa. Gli agenti di vendita si distinguono in monomandatari quando operano esclusivamente per un’azienda o plurimandatari quando mantengono la possibilità di rappresentare commercialmente più aziende contemporaneamente, di solito,

Capitolo 9 Il marketing

non nelle stesse aree di business. Gli agenti monomandatari costituiscono la forza vendita di un’impresa in senso stretto, poiché, per un verso, il loro operato è fortemente guidato dall’impresa, e in particolare dalla sua direzione commerciale (pur nell’ambito di una relazione contrattuale di indipendenza), per l’altro il loro reddito è proporzionale al valore dei prodotti dell’impresa che riescono a vendere. Pur avendo un significativo grado di autonomia operativa nello svolgere la loro attività, gli agenti monomandatari sono a tutti gli effetti parte (spesso fondamentale) del capitale umano dell’impresa. L’impresa può organizzare la propria rete vendita per: • • •

area geografica; linee di prodotto; insiemi di clienti.

Il primo criterio è il più comune e prevede che a ogni agente sia assegnato un territorio dove vendere tutti i prodotti o i servizi dell’impresa a tutti i clienti collocati al suo interno. L’estensione del territorio dipende dalle caratteristiche fisiche e dal valore unitario dell’oggetto della vendita; dalla numerosità e dispersione dei clienti, da eventuali vincoli logistici, oltre naturalmente dagli obiettivi di penetrazione geografica fissati dall’azienda e dalla capacità operativa dell’addetto. Le aree geografiche sono suddivise tra i venditori della rete commerciale in maniera non necessariamente omogenea; nell’assegnazione dei territori, si tiene normalmente conto delle potenzialità di ciascun agente in relazione alle specificità dei vari mercati geografici e della necessità di rendere sufficientemente omogenee le potenzialità di reddito di ciascuno. Nel caso in cui l’impresa operi su mercati geografici vasti e differenziati, magari internazionali, è rilevante anche la diretta conoscenza che il venditore ha delle specificità socio-economiche e delle regolatorie dei diversi contesti geografici. Quando le linee di prodotto sono numerose e poco coerenti tende a essere più efficace specializzare la rete vendita per linee di prodotto; la convenienza di tale orientamento risulta enfatizzata nel caso di prodotti tecnologicamente complessi che richiedono al venditore una notevole competenza e specializzazione tecnica; lo stesso vale per prodotti di elevato valore unitario per i quali il cliente apprezza, o addirittura si aspetta, di avere a sua diretta disposizione persone dell’impresa competenti. Nel caso di mercati ampi e complessi, può essere opportuno articolare la rete vendita al tempo stesso per categorie di prodotti e area geografica. Tuttavia, nel caso le diverse linee di prodotto siano correlate dal punto di vista del cliente, un’eccessiva segmentazione della rete vendita per tipologia di prodotto può causare una certa ridondanza con effetti negativi anche per lo stesso cliente. La specializzazione della rete vendita per tipologia di clienti può risultare opportuna quando questi ultimi risultano fortemente differenziati in termini di esigenze, comportamenti di acquisto, fattori critici di successo nel mercato. È abbastanza diffusa quando l’impresa vende a intermediari commerciali molto diversi, per esempio negozi specializzati e grandi superfici di vendita. Questo approccio è anche indicato nei mercati caratterizzati dalla presenza di pochi clienti con elevatissimo valore potenziale, come quelli dei beni durevoli di lusso o dei servizi di private banking. In questi casi, l’alto fatturato che i clienti possono generare e, per converso, la complessità delle loro esigenze giustifica e richiede prevedere venditori dedicati a gruppi ristretti di acquirenti, con un ruolo che assume gli aspetti tipici della consulenza personalizzata.

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L’impresa può organizzare la propria rete vendita per: area geografica, linee di prodotto, insiemi di clienti.

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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Sintesi Il capitolo ha approfondito gli aspetti di natura più strategica della funzione di marketing. Nella prima parte, sono illustrati i principi fondamentali della gestione orientata al marketing, evidenziando poi le specificità dell’ulteriore evoluzione di tale approccio, ormai consolidato in molte imprese e noto come orientamento alla relazione; in questo ambito è approfondito anche il concetto di “customer experience”. Sono state poi affrontate le principali problematiche nella gestione strategica del marketing e, in particolare, la segmentazione, il posizionamento competitivo e l’elaborazione della strategia di marketing. La seconda parte ha trattato le quattro politiche in cui è comunemente articolata la funzione operativa di marketing (prodotto, prezzo, comunicazione e distribuzione), soffermandosi sugli aspetti dove sono più rilevanti le interdipendenze con le altre funzioni aziendali e l’impatto sulle strategie competitive.

Domande ed esercizi □ b. raggiungere la migliore conoscenza delle caratteristiche ed esigenze del mercato. □ c. scegliere il mercato target migliore rispetto alla capacità produttiva dell’impresa e ai suoi prodotti. □ d. sviluppare un’offerta che soddisfi al meglio le esigenze del mercato target.

Domande di verifica 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

Indicare i tre cardini dell’approccio di marketing. Spiegare le differenze tra l’orientamento “alla produzione” e quello “al prodotto”. Illustrare le principali differenze tra l’orientamento al marketing e gli altri orientamenti alla gestione. Indicare gli obiettivi tipici della funzione di marketing. Spiegare i criteri per segmentare il mercato e le relative problematiche operative. Descrivere i possibili posizionamenti della marca in relazione alla fase del ciclo di vita e alla forza competitiva. Spiegare il concetto di posizionamento e illustrare le “mappe” utilizzate per posizionare un prodotto. Descrivere l’articolazione della “gamma prodotti”. Spiegare le determinanti fondamentali nella fissazione del sistema di prezzi. Descrivere il “prezzo base”, il “prezzo tecnico” e il “prezzo target”. Illustrare l’articolazione della strategia di comunicazione. Spiegare gli effetti del commercio elettronico sul sistema distributivo dell’impresa. Descrivere le modalità di organizzazione della forza vendita. Illustrare le fasi del processo di elaborazione del piano di marketing a livello di business. Spiegare i contenuti della gestione strategica della marca.

Test a risposta multipla 1.

Il principio fondante l’orientamento al marketing é: □ a. vendere il più possibile e con il massimo rendimento.

2.

Qual è il cambiamento fondamentale nel passaggio dal modello basato sullo “scambio” a quello basato sulla “relazione”? □ a. L’impresa guadagna non solo attraverso la transazione commerciale, ma anche attraverso lo sviluppo di relazioni. □ b. La creazione ed erogazione di valore per il cliente è basata sulla relazione sviluppata con esso. □ c. Il focus fondamentale dell’impresa non è più sul mercato, ma sul singolo consumatore. □ d. Nella prospettiva di marketing, la transazione commerciale è subordinata allo sviluppo di relazioni.

3.

Il posizionamento di un prodotto nel mercato individua: □ a. la sua collocazione nella percezione dei consumatori target rispetto a quella dei concorrenti. □ b. la quota di mercato del prodotto rispetto a quella dei concorrenti. □ c. la collocazione fisica del prodotto negli spazi dei luoghi dove esso è venduto al cliente finale. □ d. la posizione in termini di qualità riconosciuta dal mercato al prodotto.

4.

La brand equity può essere definita come: □ a. l’equità dei valori immateriali che caratterizzano la marca. b. differenziale di valore riconosciuto dal consuma□ tore a un determinato prodotto/servizio in virtù della sua marca.

Capitolo 9 Il marketing

□ c. il valore patrimoniale della marca che può essere iscritto in bilancio. d. il complesso degli investimenti necessari per ren□ dere una marca competitiva. 5.

Gli aspetti che è fondamentale prendere in considerazione nella determinazione del prezzo sono: □ a. i costi variabili, i costi fissi e il margine di profitto atteso dall’impresa.

339

□ b. il prezzo fissato in passato per lo stesso prodotto/servizio e la variazione dei costi di produzione. c. i costi di produzione, il prezzo dei concorrenti, la □ disponibilità a pagare dei clienti target. □ d. principalmente i costi di produzione e la variazione dei prezzi dei concorrenti.

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La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

10

Stefano Bozzi, Raffaele Oriani, Sandro Sandri

Gli obiettivi del capitolo Il capitolo ha un duplice obiettivo. In primo luogo offre una rappresentazione del ruolo svolto dalla funzione finanziaria nell’impresa moderna. A tal fine, dopo aver ripercorso l’evoluzione di tale ruolo nel corso degli ultimi decenni, l’analisi si concentra sulle quattro attività che oggi sembrano caratterizzare la funzione finanziaria: supporto alle decisioni di competenza delle altre aree aziendali; scelta della struttura ottimale delle fonti di finanziamento dell’impresa; programmazione e controllo dei flussi finanziari; gestione speculativa di tali flussi. In secondo luogo, coerentemente con gli obiettivi più generali di questo volume, analizza il supporto di natura metodologica che la finanza può dare alle scelte strategiche dell’impresa. Pertanto, tutte le conoscenze acquisite sulla funzione finanziaria saranno applicate all’elaborazione di metodi di valutazione economica delle strategie d’impresa.

10.1 La funzione finanziaria nella gestione dell’impresa Un approccio tradizionale allo studio di una funzione aziendale è rappresentato dalla descrizione dei compiti e delle responsabilità che a questa vengono assegnati a seguito di un processo di scomposizione delle attività di gestione in aree caratterizzate dall’omogeneità tecnica ed economica dei processi svolti.1 Seguendo tale approccio, alla funzione finanziaria sono state attribuite mansioni che, nel corso del tempo, si sono sensibilmente modificate e ampliate, in risposta a un profondo processo di trasformazione che ha interessato i mercati dei beni reali, i mercati finanziari e le metodologie che la scienza manageriale ha posto a servizio dell’impresa. Tale percorso evolutivo, che ancora oggi è oggetto di sviluppi ulteriori che rendono indefinita l’effettiva delimitazione delle competenze della funzione finanziaria, è posto in stretta relazione con i consistenti progressi fatti registrare in anni recenti dai principi teorici che interpretano il rapporto tra impresa e mercati dei capitali.2

1

Si veda, tra i molti testi di organizzazione aziendale, Costa G., Nacamulli R.C.D. (1997). Per un’analisi storica dell’evoluzione della disciplina della finanza aziendale si veda Brunetti G. (1984).

2

Alla funzione finanziaria sono state attribuite mansioni che, nel corso del tempo, si sono sensibilmente modificate e ampliate.

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

342

accezione più antica e tradizionale

reperimento delle risorse finanziarie

finanza allargata

ampliamento delle aree di competenza

nuova finanza

metodologie matematiche e statistiche

La successione storica dei paradigmi che descrivono l’oggetto di studio della finanza aziendale corrisponde dunque alla parallela evoluzione dei compiti gestionali attribuiti alla funzione finanziaria. Nella sua accezione più antica e tradizionale, la finanza aziendale è intesa infatti come la disciplina che si occupa del reperimento delle risorse finanziarie sul mercato dei capitali; contestualmente, la funzione finanziaria viene concepita principalmente come l’insieme delle attività strumentali al soddisfacimento del fabbisogno finanziario espresso dall’impresa a seguito della realizzazione dei processi gestionali. L’accento è dunque posto prevalentemente sull’attività di reperimento delle risorse finanziarie sul mercato dei capitali, dapprima per soddisfare esigenze di carattere straordinario, per esempio la costituzione di nuove società o l’acquisizione di complessi produttivi già operanti, e successivamente per corrispondere ai fabbisogni di natura operativa riconducibili allo sfasamento temporale tra gli incassi e i pagamenti che deriva dalla realizzazione dei processi produttivi. A partire dagli anni ’50, a tale paradigma si affianca quello della finanza allargata, secondo il quale l’oggetto degli studi viene esteso alle questioni relative all’efficace impiego delle risorse finanziarie, non soltanto al loro reperimento. A questa concezione della finanza aziendale corrisponde un ampliamento delle aree di competenza della funzione finanziaria nel sistema aziendale, che finisce così per ricomprendere ogni decisione, ogni azione e ogni atto amministrativo che riguardi le risorse di capitale qualitativamente e quantitativamente contemplate sia nella loro origine (fonti), sia nella loro destinazione.3 L’ambito di responsabilità funzionale che discende da tale definizione è estremamente ampio in quanto coinvolge non soltanto aree di esclusiva competenza della funzione finanziaria, come la gestione delle fonti di finanziamento – nell’ambito della quale ricadono le decisioni relative al rapporto ottimale tra capitale proprio e capitale di credito e le scelte inerenti la politica di distribuzione dei dividendi – e la gestione della tesoreria e degli investimenti di natura finanziaria, ma richiama anche il coordinamento con altre funzioni aziendali, come accade per la valutazione della convenienza economica di progetti d’investimento in beni strumentali, materiali (impianti, scorte di magazzino...) o immateriali (ricerca e sviluppo, formazione...). L’ampio spettro delle decisioni di competenza della funzione finanziaria non viene intaccato quando, in epoca più recente, si afferma il paradigma che va sotto il nome di nuova finanza: questo corrisponde al filone di studi di origine neoclassica che mira a ricondurre a un modello di equilibrio generale le scelte di allocazione delle risorse compiute dagli operatori in un contesto di incertezza e che porta all’elaborazione di nuovi schemi teorici che legano assieme i comportamenti degli investitori, il funzionamento dei mercati finanziari e le scelte d’investimento da parte delle imprese. Sebbene l’oggetto delle decisioni di competenza della funzione finanziaria resti inalterato, gli strumenti a supporto di quelle decisioni si arricchiscono di nuovi modelli, molti dei quali basati su metodologie matematiche e statistiche: significativi, a tale riguardo, risultano i modelli media-varianza e la teoria di portafoglio, gli studi dell’impatto che la struttura del capitale esercita sulla ricchezza degli investitori e l’affermazione di modelli per la valutazione delle opzioni.4 3

Tale definizione è tratta da Ferrero G. (1981). Una disamina delle tappe principali che hanno segnato l’evoluzione della finanza aziendale negli ultimi decenni è contenuta in Miller (1999).

4

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

343

Dal breve excursus storico delineato emergono due fatti di rilievo: 1. intercorre uno stretto legame tra l’evoluzione dei modelli teorici della finanza aziendale e il ruolo che la funzione finanziaria riveste all’interno del sistema decisionale dell’impresa; 2. nel corso degli anni le aree di pertinenza della funzione finanziaria nell’ambito dei processi decisionali d’impresa appaiono di incerta delimitazione, a seguito della “orizzontalità” che caratterizza spesso il ruolo di tale funzione e della costante evoluzione dei compiti che a essa sono assegnati. Appare dunque evidente la necessità di individuare un criterio che consenta di delimitare con sufficiente oggettività ed elasticità i confini della funzione finanziaria. Una definizione basata esclusivamente sul riferimento all’attività di gestione delle risorse di capitale a disposizione dell’impresa non è infatti sufficientemente oggettiva, tanto da essere, se rigidamente interpretata, fuorviante rispetto all’effettivo ruolo rivestito nell’impresa dalla funzione in oggetto: dal momento che ogni atto gestionale comporta l’impiego – e dunque il reperimento – di capitale, la stretta corrispondenza tra potere di disposizione delle risorse finanziarie e aree di competenza della funzione finanziaria condurrebbe ad attribuire a quest’ultima un ruolo pervasivo in ogni decisione aziendale, con evidenti sovrapposizioni con le competenze proprie della direzione generale (Bini, 1988). D’altra parte, l’individuazione dei confini della funzione finanziaria attraverso la sistematica elencazione dei compiti a essa assegnati, se appare un criterio soddisfacente sotto il profilo dell’oggettività, risulta tuttavia privo della necessaria flessibilità nel descrivere l’effettivo contributo di tale funzione ai processi decisionali dell’impresa. In tal modo, infatti, non soltanto non viene adeguatamente recepita la continua evoluzione degli ambiti decisionali nei quali risulta interessata la funzione finanziaria, ma non viene neppure chiarita la natura di tale coinvolgimento, che in taluni casi comporta un’autonoma responsabilità decisionale – per esempio in merito alla copertura del fabbisogno di breve periodo o alla selezione degli intermediari con cui l’impresa intrattiene i rapporti – mentre in altri ha carattere puramente consultivo rispetto a decisioni di competenza di altre funzioni, come accade, per esempio, per la selezione di progetti d’investimento. Un criterio che sembra soddisfare queste esigenze può essere ravvisato nella definizione secondo la quale la funzione finanziaria rappresenta il luogo delle competenze-conoscenze strumentali alla gestione dei rapporti che si instaurano tra l’impresa e il mercato dei capitali. I principi teorici e le tecniche applicative necessari per la gestione di tali rapporti, fortemente differenziati rispetto a quelli richiesti per la gestione delle altre aree gestionali, vengono cioè adottati quali criteri per l’individuazione dell’ambito decisionale nel quale risulta comunque interessata la funzione finanziaria. Le differenze rispetto ai criteri prima menzionati sono sostanziali: innanzitutto, il fattore discriminante è costituito dalle competenze gestionali, le quali circoscrivono le aree e i tipi di intervento della funzione con maggiore rigore rispetto al vago riferimento a qualsiasi atto gestionale che coinvolga le risorse finanziarie dell’impresa. Allo stesso tempo, tale criterio consente di esprimere meglio il dinamismo dei contenuti della funzione finanziaria, e cioè

La necessità di individuare un criterio che consenta di delimitare con sufficiente oggettività ed elasticità i confini della funzione finanziaria.

La funzione finanziaria rappresenta il luogo delle competenze-conoscenze strumentali alla gestione dei rapporti che si instaurano tra l’impresa e il mercato dei capitali.

competenze gestionali

dinamismo dei contenuti

344

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

come essi si modificano parallelamente all’applicazione dei modelli sviluppati dalla finanza aziendale.5 Dalla definizione della funzione finanziaria come luogo di competenze-conoscenze discendono le principali dimensioni che caratterizzano il ruolo e gli ambiti della finanza nell’impresa moderna. Queste possono essere così riassunte. supporto alle decisioni



struttura ottimale del capitale



programmazione e controllo dei flussi finanziari



Supporto alle decisioni: tale attività consiste nel fornire a tutte le aree aziendali il necessario supporto per la conversione dei dati economici collegati alle decisioni effettuate o da effettuare in parametri significativi che misurino la creazione o distruzione di valore per gli azionisti dell’impresa. I metodi a tal scopo utilizzati (soprattutto quelli basati sui flussi di cassa attualizzati, come il VAN), come pure i parametri che caratterizzano tali metodi (costo del capitale, flussi di cassa), sono infatti parte integrante delle competenze diffuse all’interno della funzione finanziaria, così da prefigurarne il coinvolgimento, prevalentemente in termini consultivi, in ogni fase decisionale di rilevanza strategica per l’impresa. Struttura ottimale del capitale: questo ordine di decisioni si riferisce alla possibilità che esista una composizione ottimale delle fonti di finanziamento dell’impresa. In particolare, si vuole individuare un rapporto tra capitale di credito e capitale proprio in corrispondenza del quale il valore dell’impresa risulta massimizzato. Programmazione e controllo dei flussi finanziari: uno dei compiti tradizionalmente affidati alla funzione finanziaria è quello della redazione e gestione dei piani finanziari dell’impresa; questa attività si sostanzia di due fasi: la prima consiste nell’evidenziare le conseguenze prodotte sui flussi finanziari dalle scelte strategiche e operative programmate dalle altre aree aziendali, allo scopo di determinare il fabbisogno complessivo di capitale ovvero le eventuali eccedenze di liquidità che si prevede si manifesteranno entro l’orizzonte temporale considerato; la seconda fase consiste invece nella predisposizione degli interventi necessari a ottimizzare la gestione dei flussi finanziari, cioè nell’attivazione di fonti esterne di finanziamento ovvero nell’individuazione di opportune condizioni di impiego, qualora dallo studio dei flussi finanziari dell’impresa dovessero emergere rispettivamente fabbisogni o surplus di capitale.

5 Per valutare gli effetti pratici che una corretta individuazione delle aree di pertinenza di ciascuna funzione aziendale comporta, si pensi alla novità che ha rappresentato nei primi anni ’90 l’assegnazione di stock options ai dipendenti dell’impresa, in sostituzione o in aggiunta alle forme ordinarie di remunerazione. Tale fenomeno non veniva contemplato tra i compiti tradizionalmente assegnati alla funzione finanziaria; ciononostante, si è assistito, nella realtà operativa, a un ampio coinvolgimento di tale funzione sia nella fase di progettazione dei piani di stock options sia in quella successiva di gestione. Se si individuasse l’area di pertinenza della funzione finanziaria in base alle movimentazioni di capitale generate dall’assegnazione di opzioni, ne risulterebbe un coinvolgimento limitato all’aspetto dell’emissione delle opzioni e alla valutazione delle conseguenze prodotte sul capitale sociale di un loro eventuale esercizio e non verrebbe spiegato il ruolo centrale che nella realtà aziendale tale funzione riveste nell’elaborazione e gestione dei piani di stock options. Al contrario, secondo il criterio proposto, le competenze possedute dalla funzione finanziaria in materia di opzioni ne prefigurano un naturale coinvolgimento già nella fase di progettazione del piano. Inoltre, maggiormente chiari risultano anche i contenuti di tale coinvolgimento, che dovrebbe essere limitato alla valutazione del costo delle opzioni per gli azionisti della società e alla determinazione degli incentivi che l’assegnazione delle opzioni produce nei confronti dei dipendenti, non anche esteso alla questione più generale della politica retributiva aziendale, di spettanza invece della funzione del personale.

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie



Gestione speculativa dei flussi finanziari dell’impresa: la gestione dei flussi finanziari che attraversano l’impresa viene impostata prioritariamente in funzione del raggiungimento di un equilibrio che consenta, attraverso i proventi, di far fronte agli esborsi monetari necessari per l’acquisizione dei fattori produttivi e quindi per la continuazione nel tempo dei cicli economici posti in atto dall’impresa. La disponibilità di risorse finanziarie, spesso ingenti, offre tuttavia un’ulteriore opportunità per realizzare profitti, attraverso una gestione che non sia esclusivamente strumentale alla realizzazione delle attività produttive, ma orientata invece a finalità speculative. La gestione finanziaria diventa così un business collaterale, volto a sfruttare le imperfezioni dei mercati e dei sistemi d’imposizione fiscale, e da questi conseguire margini di profitto. Tali finalità vengono perseguite attraverso due forme principali: l’impiego delle eccedenze strutturali di liquidità in investimenti sul mercato dei capitali; l’apertura di posizioni speculative rispetto all’andamento atteso dei tassi d’interesse, di cambio e dei prezzi delle materie prime.

345

gestione speculativa dei flussi finanziari dell’impresa

10.2 La finanza come supporto alle decisioni dell’impresa L’attività di gestione può essere ricondotta all’insieme delle decisioni strumentali al raggiungimento dell’obiettivo ultimo dell’impresa, cioè la creazione di valore per i suoi azionisti. Ognuna di queste decisioni comporta l’impiego di attività acquistate con le risorse finanziarie reperite sul mercato dei capitali attraverso l’emissione di titoli di varia natura; tutte le risorse economiche a disposizione dell’impresa possono dunque essere concepite come investimenti in attesa di remunerazione, dai quali può derivare la creazione o la distruzione di valore per gli acquirenti dei titoli stessi. Quale che sia l’organo aziendale al quale è delegata la gestione di determinate risorse economiche, le decisioni da questo implementate hanno perciò una comune matrice finanziaria, dal momento che incidono sui flussi di capitale scambiati tra l’impresa e i suoi finanziatori.6 Il contributo della finanza aziendale ha pertanto una duplice natura: innanzitutto metodologica, in quanto fornisce le tecniche attraverso le quali misurare la creazione o la distruzione di valore associata alle decisioni. A tale proposito, il principio intuitivo per cui l’incremento della ricchezza degli azionisti viene perseguito attraverso la realizzazione di investimenti che offrano un rendimento superiore a quello minimo richiesto in base alle caratteristiche degli investimenti stessi deve essere tradotto, nella pratica, in un parametro quantitativo, alla luce del quale valutare l’efficienza delle decisioni prese dal management dell’impresa. Come si avrà modo di approfondire nei paragrafi successivi, tale parametro viene individuato nel Valore Attuale Netto (VAN). L’ulteriore contributo fornito dalla finanza aziendale alle decisioni aziendali è di carattere operativo: la misurazione del valore creato o distrutto per gli azionisti necessita infatti dell’individuazione di una soglia minima di rendimento (o costo opportunità del capitale) con la quale confrontare il rendimento atteso dalla decisione oggetto di valutazione. Tale attività viene in genere svolta nell’ambito della funzione finanziaria dell’impresa, alla luce delle competenze spe-

6 Non per questo le suddette decisioni sono di esclusiva pertinenza della funzione finanziaria: tale concetto dovrebbe essere stato sufficientemente chiarito nel Paragrafo 10.1.

La finanza aziendale fornisce le tecniche attraverso le quali misurare la creazione o la distruzione di valore associata alle decisioni.

La misurazione del valore creato o distrutto per gli azionisti necessita infatti dell’individuazione di una soglia minima di rendimento (o costo opportunità del capitale) con la quale confrontare il rendimento atteso dalla decisione oggetto di valutazione.

346

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

cifiche che in essa dovrebbero essere diffuse: come si avrà modo di osservare, infatti, il calcolo del costo opportunità del capitale è basato su una serie di grandezze tipicamente finanziarie, quali i rendimenti storici del mercato azionario, la correlazione tra i rendimenti dell’impresa e quelli del mercato, il tasso d’interesse privo di rischio, la struttura del capitale dell’impresa.

10.2.1 Il valore attuale netto e la ricchezza degli azionisti

Una determinata somma di denaro ha un diverso valore corrente a seconda del tempo in cui essa diventa effettivamente disponibile per il suo destinatario.

La necessità di remunerare il capitale reperito dall’impresa sul mercato finanziario è dettata dal sacrificio compiuto dai suoi finanziatori; questi ultimi, infatti, attraverso l’acquisto dei titoli emessi dall’impresa rinunciano, per un importo corrispondente, al consumo corrente di beni, nell’attesa di ampliare le proprie possibilità di consumo nei periodi successivi. Per tale ragione, una decisione d’investimento rappresenta in realtà una scelta di allocazione temporale della propria ricchezza corrente; contestualmente, il tasso d’interesse definisce le condizioni alle quali tale allocazione può avvenire sul mercato finanziario. Dal momento che il tasso d’interesse è maggiore di zero, ne discende che il tempo ha un valore finanziario. Questa affermazione richiama dunque il principio per cui una determinata somma di denaro ha un diverso valore corrente a seconda del tempo in cui essa diventa effettivamente disponibile per il suo destinatario, cioè può essere effettivamente investita sul mercato finanziario. In particolare, essendo r il tasso di interesse di mercato, una somma X disponibile al tempo T > 0 ha un valore inferiore rispetto a quello che avrebbe se fosse disponibile al tempo 0, ed è pari al Valore Attuale di X:7 VA0 ( X ) =

valore attuale di un investimento

X (1 + r )T

[1]

Più in generale è possibile affermare che il valore attuale di un investimento, e cioè il valore al quale un titolo rappresentativo dell’investimento stesso può essere scambiato sul mercato finanziario, è pari al valore attuale dei flussi di cassa disponibili che esso produrrà nel corso della sua vita. Si indichi con CFt il flusso di cassa disponibile al tempo t; qualora un investimento generi molteplici flussi di cassa, i quali si rendano disponibili nei periodi 1,2,3... n, il Valore Attuale dell’investimento sarà dunque pari a: VA =

CF1 CF2 CFn + + ... + = 2 (1 + r ) (1 + r ) (1 + r )n

n

CF

∑ (1 + rt )t

[2]

t =1

Di conseguenza è possibile definire la ricchezza W di un investitore come la somma delle sue disponibilità monetarie M e del valore attuale dei flussi di cassa che verranno in futuro prodotti dagli investimenti a sua disposizione: ∞

W =M+

7

CF

t ∑ t t =1 (1 + r )

L’ipotesi implicita è che l’interesse sia capitalizzato a un tasso r composto annualmente.

[3]

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

Ogni investimento aggiuntivo modifica la ricchezza W dell’investitore, incidendo sull’ammontare M delle disponibilità monetarie e sui flussi di cassa percepibili in futuro. Sia I l’esborso monetario da sostenere per realizzare l’investimento che produrrà i flussi di cassa ICFt per n anni, l’impatto sulla ricchezza dell’investitore prodotto dalla realizzazione dell’investimento sarà dunque pari al suo Valore Attuale Netto (VAN), cioè al valore attualizzato dei flussi di cassa prodotti dall’investimento al netto del costo monetario necessario per produrli: VAN = I +

I CF 1

(1 + r )

+

I CF 2

(1 + r )2

+ . .. +

I CF n

[4]

(1 + r )n

Il VAN può dunque essere inteso come una misura del valore creato o distrutto da qualsiasi decisione di investimento, a prescindere dalla sua natura: se l’investimento è in beni reali (come nel caso dell’acquisto di una nuova unità di produzione o l’avvio di una campagna pubblicitaria), il costo I rappresenta il corrispettivo pagato per l’acquisto di tali beni; se l’investimento ha invece natura finanziaria (acquisto di azioni, obbligazioni...), I è il prezzo corrisposto per l’acquisto dei titoli; in entrambi i casi, CFt è rappresentativo dei flussi di cassa prodotti dall’attività acquistata. Il principio che dovrebbe guidare le decisioni degli investitori può dunque essere ricondotto alla realizzazione di iniziative economiche con VAN maggiore di zero.8 La caratteristica che fa del VAN un utile strumento di analisi delle decisioni aziendali è dunque quella di consentire la conversione del differenziale tra il rendimento del progetto e quello di riferimento sul mercato finanziario – differenziale dal quale dipende la convenienza dell’investimento stesso – in un valore monetario rappresentativo della variazione di ricchezza degli investitori conseguente alla realizzazione dell’investimento. In questo modo, le implicazioni economiche associate a ogni decisione aziendale possono essere tradotte in un parametro di agevole interpretazione da parte di tutti gli operatori aziendali, creando così una base metodologica comune che dovrebbe ispirare le scelte di allocazione delle risorse dell’impresa. Le considerazioni fin qui svolte fanno riferimento alla semplicistica ipotesi che gli investimenti siano privi di rischio, cioè che alla data di valutazione sia possibile determinare con certezza i flussi di cassa che essi produrranno in futuro. In realtà, molte delle decisioni aziendali hanno per oggetto eventi rischiosi, per i quali è possibile che si verifichi un certo scarto tra i flussi di cassa attesi e quelli che effettivamente si manifesteranno. In queste condizioni, il principio di valutazione fondato sul valore attuale netto mantiene intatta la sua validità; è tuttavia necessario adattarne i parametri, in particolare il tasso di rendimento atteso dagli investitori, allo scopo di riflettere non soltanto il valore finanziario del tempo, ma anche il rischio al quale risulta assoggettata la ricchezza degli investitori (Paragrafo 10.7.3). 8 È possibile indicare una formula più generale riconoscendo che il costo dell’investimento è un flusso di cassa negativo, così che i flussi di cassa di ogni periodo, compreso quello corrente CF0, sono da intendersi come flussi netti, e cioè come differenza tra flussi positivi e flussi negativi. L’espressione del VAN diventa dunque:

VAN = CF0 +

CF1 CF2 CFn + + ... + = (1 + r ) (1 + r )2 (1 + r )n

n

∑ (1CF+ r ) t

t

t= 0

Valore Attuale Netto (VAN)

347

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

348

10.3 Le decisioni relative alla struttura del capitale

obbligazionisti

azionisti

valore del capitale proprio valore del capitale di credito

Le decisioni di investimento sono strettamente collegate alle decisioni di finanziamento. La realizzazione dell’attività produttiva richiede, infatti, che l’impresa sia dotata di un certo ammontare di capitale. Inoltre, ogni volta che si decide di effettuare nuovi investimenti occorre anche preoccuparsi delle fonti dalle quali reperire le nuove risorse finanziarie. A tal riguardo, l’impresa avrà a disposizione diverse alternative. L’insieme delle forme e delle condizioni in base alle quali il capitale risulta vincolato all’impresa definisce la struttura del capitale, cioè l’articolazione delle fonti di finanziamento dell’impresa. Nella pratica operativa, infatti, le forme di raccolta del capitale sono molteplici e variano in base alla lunghezza del periodo in cui questo risulta vincolato all’impresa, alle modalità di retribuzione, ai diritti conferiti ai possessori del capitale in sede di liquidazione dell’impresa o in occasione di altri eventi per questa rilevanti. La questione di fondo in merito alla struttura del capitale può essere ricondotta, in estrema sintesi, alla scelta di carattere generale tra capitale proprio e capitale di credito,9 cui corrisponde una suddivisione dei finanziatori dell’impresa rispettivamente in azionisti e obbligazionisti.10 Tali categorie di finanziatori differiscono essenzialmente per le modalità di partecipazione ai flussi di cassa disponibili dell’impresa:11 gli obbligazionisti, infatti, hanno diritto a ottenere, con priorità rispetto agli azionisti, una quota di tali flussi commisurata al rimborso di una parte del capitale inizialmente conferito e agli interessi che su questo sono maturati nel corso del periodo di riferimento; gli azionisti, invece, partecipano alla ripartizione della quota di flusso di cassa disponibile che residua dal pagamento degli obbligazionisti. È questa dunque la ragione del fenomeno per cui, a parità di rischio nell’attività svolta dall’impresa, il rischio sopportato dagli azionisti di un’impresa indebitata è superiore a quello che invece grava sugli obbligazionisti. Ne deriva che, così come i flussi di cassa prodotti dall’impresa vengono suddivisi tra azionisti e obbligazionisti, anche il valore delle attività dell’impresa può essere “scomposto” tra valore del capitale proprio e valore del capitale di credito. L’interrogativo di fondo relativo alla struttura del capitale diventa dun9 Occorre precisare che la distinzione tra capitale proprio e capitale di credito, fatta in questo capitolo a fini didattici, rappresenta in modo semplicistico la realtà. Infatti, per ognuna di queste due categorie esiste una varietà di possibili strumenti di finanziamento. Nell’ambito del capitale proprio è possibile distinguere le azioni ordinarie dalle azioni di risparmio e privilegiate, che dispongono di un privilegio nella distribuzione dei dividendi e nella restituzione del capitale, ma sono caratterizzate da più limitati diritti di voto. Nell’ambito del capitale di credito è possibile distinguere tra emissioni di obbligazioni sul mercato o apertura di linee di credito nei confronti degli intermediari finanziari. Anche queste due ulteriori modalità comprendono a loro volta ulteriori differenziazioni. Per approfondimenti si rimanda a Brealey, Myers, Allen, Sandri (2015). 10 Nel prosieguo del paragrafo con il termine obbligazionisti si farà riferimento in generale alla categoria dei portatori di capitale di credito, a prescindere dalla circostanza che il debito sia emesso in forma obbligazionaria. 11 Si ricorda che con tale termine si indicano i flussi di cassa che residuano dopo che siano stati remunerati tutti i fattori produttivi diversi dal capitale ed effettuati i pagamenti relativi alla realizzazione di nuovi investimenti. Per una più approfondita disamina delle modalità di calcolo del flusso di cassa disponibile si rimanda al Paragrafo 10.7.1.

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

que quello di stabilire se, attraverso diverse proporzioni di capitale proprio e capitale di credito, sia possibile incrementare il valore complessivo dell’impresa e delle sue azioni. La struttura del capitale, che può essere sinteticamente descritta attraverso il rapporto di leverage D/E tra ammontare di capitale di credito (D) e di capitale proprio o equity (E) con cui risulta finanziata l’impresa, influisce sulla relazione che intercorre tra il rendimento realizzato ex post dagli azionisti, misurato attraverso il ROE (Return On Equity), e il rendimento degli investimenti posti in essere dall’azienda, misurato attraverso il ROI (Return On Investment). Tale relazione, nota anche come leva finanziaria, può essere espressa nei termini seguenti:12 ROE = ROI +

D (ROI − rD ) E

La struttura del capitale, che può essere sinteticamente descritta attraverso il rapporto di leverage D/E tra ammontare di capitale di credito (D) e di capitale proprio (E) con cui risulta finanziata l’impresa. ROE (Return On Equity) ROI (Return On Investment)

[5]

Ne deriva che, in presenza di una redditività del capitale investito (ROI) maggiore (minore) del costo del capitale di credito (rD), gli azionisti di una società caratterizzata da un più elevato grado di leverage realizzeranno un rendimento (ROE) maggiore (minore) di quello realizzato dagli azionisti di una società che, a parità di altre condizioni, abbia un grado di leverage più contenuto. Occorre tuttavia considerare anche un altro effetto legato al debito, cioè l’impatto sulla volatilità dei rendimenti destinati agli azionisti dell’impresa, misurati attraverso il ROE. La relazione sopra presentata implica infatti che a fronte di una medesima variazione nella redditività degli investimenti dell’impresa (ROI), l’impatto sulla variazione del ROE sarà, a parità di altre condizioni, tanto maggiore quanto maggiore risulta essere il leverage. Tali considerazioni sono alla base della teoria di Modigliani e Miller (1958), secondo la quale, in presenza di mercati dei capitali perfetti, una struttura finanziaria caratterizzata da un più elevato grado di indebitamento non si traduce in un maggiore valore per gli azionisti, a causa del maggiore rischio finanziario a cui essi risultano esposti. Altri sono dunque i fattori che concorrono a spiegare la relazione tra la struttura finanziaria, da un lato, e valore dell’impresa, e dunque delle sue azioni, dall’altro. Tra questi figurano il risparmio fiscale associato al ricorso al capitale di credito (Modigliani e Miller, 1963), la maggiore probabilità di incorrere in costi del fallimento che un più elevato livello di indebitamento comporta e i riflessi sul prezzo delle azioni che la raccolta di capitale realizzata attraverso l’emissione di nuove azioni può comportare, a causa dell’asimmetria informativa che caratterizza la relazione tra impresa e mercato finanziario (Myers e Majluf, 1984; Myers, 1984b).13

12

In presenza di imposte societarie con aliquota pari a TC, la formula precedente deve essere così modificata:   D ROE = ROI + (ROI − rD ) (1 − TC )   E

13

349

Per una rassegna delle principali teorie sulla struttura finanziaria dell’impresa si veda: Brealey, Myers, Allen, Sandri (2015).

Una struttura finanziaria caratterizzata da un più elevato grado di indebitamento non si traduce in un maggiore valore per gli azionisti, a causa del maggiore rischio finanziario a cui essi risultano esposti.

350

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Esperienza

Leverage e rischio La società Alfa ha investimenti per 15 000 ed è finanziata interamente da capitale proprio, ripartito in 15 000 azioni. La società Beta ha investimenti per 15 000 ed è finanziata per 10 000 da debito, al tasso del 10% annuo, e per 5000 da capitale proprio, ripartito in 5000 azioni. Le due società hanno le medesime prospettive di redditività degli investimenti (ROI); in particolare sono prefigurabili tre scenari, ugualmente probabili. Nello scenario 1 il reddito operativo è pari a 1000 e il ROI pari al 6,67%; nello scenario 2 il reddito operativo è pari a 2000 e il ROI pari al 13,3%; nello scenario 3 il Reddito Operativo è pari a 3000 e il ROI pari al 20%. Il reddito operativo e il ROI attesi sono quindi pari rispettivamente a 2000 e al 13,3%. Le società operano in assenza di imposte. Le condizioni delle due società sono di seguito rappresentate. È agevole verificare l’effetto della leva finanziaria sulla redditività del capitale proprio: a parità di reddito operativo atteso, infatti, la società Beta, indebitata per 10 000, ha un ROE del 20%, contro il 13,33% della società Alfa, non indebitata. Inoltre, gli azionisti della società Beta hanno un’aspettativa di utile per azione pari a 0,200, contro 0,133 degli azionisti della società Alfa. Tali risultati devono indurre a ritenere che la società Beta crei più valore per i suoi azionisti rispetto alla società Alfa? Per rispondere a tale domanda occorre analizzare i possibili risultati di ciascuna società in ogni possibile scenario. L’analisi dei risultati delle due società in ciascuno scenario mostra che la redditività e l’utile per azione attesi dagli azionisti della società Beta, pur essendo più elevati di quelli relativi alla società Alfa, sono tuttavia anche più rischiosi. Nel caso in cui lo scenario che dovesse effettivamente realizzarsi fosse differente rispetto a quello medio atteso (scenario 2), lo scostamento dei risultati della società Beta dal valore atteso risulterebbe infatti molto maggiore rispetto a quello della società Alfa: se lo scenario effettivamente realizzatosi alla fine del periodo fosse lo scenario 1, il ROE (utile per azione) prodotto dalla società Alfa sarebbe pari al 6,67% (0,067), contro lo 0% (0) prodotto dalla società Beta; nel caso in cui dovesse invece realizzarsi lo scenario 3, il ROE prodotto dalla società Alfa sarebbe pari al 20% (0,200), contro il 40% (0,400) prodotto dalla società Beta. Gli scostamenti, e dunque il rischio, riscontrati per la società Beta sarebbero dunque maggiori rispetto a quelli riscontrati per la società Alfa. Tale semplice esempio mostra dunque come la leva finanziaria produca un incremento della redditività attesa del capitale proprio, ma come tale fenomeno sia accompagnato da un parallelo incremento nel rischio sostenuto dagli azionisti. Tabella 10.1

Dati economici e patrimoniali delle società Alfa e Beta Alfa

Beta

Attività

Passività

Attività

Passività

Debito 0 Investimento 15000

Debito 10000 Investimento 15000

Equity 15000

Equity 5000

Alfa

Beta

Conto economico

Conto economico

Reddito operativo Oneri finanziari Reddito netto ROI ROE Utile per azione

2000 – 2000 13,33% 13,33% 0,133

Reddito operativo Oneri finanziari Reddito netto ROI ROE Utile per azione

2000 1000 1000 13,33% 20,00% 0,200

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

Tabella 10.2

Utile e redditività della società Alfa al variare del reddito operativo Alfa Attività

Passività

Debito 0 Investimento 15000 Equity 15000 Scenario 1

Scenario 2

Scenario 3

Alfa

Alfa

Alfa

Conto economico

Conto economico

Conto economico

Reddito operativo Oneri finanziari Reddito netto ROI ROE Utile per azione Tabella 10.3

1000 1000 6,67% 6,67% 0,067

Reddito operativo Oneri finanziari Reddito netto ROI ROE Utile per azione

2000 2000 13,33% 13,33% 0,133

Reddito operativo Oneri finanziari Reddito netto ROI ROE Utile per azione

3000 3000 20,00% 20,00% 0,200

Utile e redditività della società Beta al variare del reddito operativo Beta Attività

Passività

Debito 10000 Investimento 15000 Equity 5000 Scenario 1

Scenario 2

Scenario 3

Beta

Beta

Beta

Conto economico

Conto economico

Conto economico

Reddito pperativo Oneri finanziari Reddito netto ROI ROE Utile per azione

1000 1000 0 6,67% 0,00% –

Reddito operativo Oneri finanziari Reddito netto ROI ROE Utile per azione

2000 1000 1000 13,33% 20,00% 0,200

Reddito operativo Oneri finanziari Reddito netto ROI ROE Utile per azione

10.4 La finanza come strumento di controllo e gestione dei flussi finanziari I paragrafi precedenti hanno offerto una rappresentazione della gestione come successione di decisioni da cui viene fatta discendere la destinazione economica delle risorse a disposizione dell’impresa. Si è quindi giunti alla conclusione che una “buona” decisione è quella alla quale è associato un valore attuale netto positivo. Occorre però fare attenzione che in un mercato finanziario efficiente sia sempre possibile reperire il capitale necessario alla realizzazione di un’iniziativa economica in grado di creare valore per i suoi finanziatori. Nella realtà, tale ipotesi

3000 1000 2000 20,00% 40,00% 0,400

351

352

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

razionamento del capitale

margini di tempo variabili

pianificazione finanziaria

può risultare violata sotto due aspetti: in primo luogo per le quantità di capitale a disposizione dell’impresa, le quali possono risultare insufficienti a realizzare tutti i progetti a VAN positivo; le ragioni di tale fenomeno, noto come razionamento del capitale, sono riconducibili sia al mercato finanziario sia a caratteristiche organizzative dell’impresa.14 In secondo luogo per i tempi necessari a ottenere la disponibilità di un certo capitale: il reperimento di fondi sul mercato finanziario può infatti richiedere margini di tempo variabili che condizionano il momento in cui i fondi si rendono effettivamente disponibili per l’impresa. Va a tal proposito sottolineato che il ricorso al mercato finanziario può essere motivato non soltanto da esigenze di investimento, rispetto alle quali la liquidità prodotta dalla gestione ordinaria sia insufficiente, ma anche da necessità di natura gestionale, originate cioè dalla combinazione degli incassi e dei pagamenti derivanti da operazioni di routine, da cui risultino fabbisogni monetari di breve periodo. I riflessi prodotti sul fabbisogno finanziario dalla realizzazione delle attività sia di investimento sia di gestione ordinaria devono pertanto essere opportunamente previsti e analizzati dagli organi decisionali dell’impresa, al fine di consentire l’attivazione di quelle fonti di capitale che con quel fabbisogno siano ritenute compatibili per tempi, quantità e forma. Tale attività, nota come pianificazione finanziaria, costituisce l’oggetto tradizionale della funzione finanziaria dell’impresa.

10.4.1 Le origini e le determinanti del fabbisogno finanziario La pianificazione finanziaria si occupa dell’analisi della dinamica dei flussi finanziari generati e assorbiti dall’impresa, allo scopo di stabilire in via anticipata il fabbisogno finanziario e le modalità della sua copertura. rendiconto finanziario

Capitale Circolante Netto finanziario

Capitale Circolante Netto commerciale

La pianificazione finanziaria si occupa dell’analisi della dinamica dei flussi finanziari generati e assorbiti dall’impresa, allo scopo di stabilire in via anticipata il fabbisogno finanziario e le modalità della sua copertura. Un utile strumento per rappresentare la dinamica di tali flussi è costituito dal rendiconto finanziario, un prospetto in cui vengono riassunti i flussi finanziari che scaturiscono sia dalle movimentazioni delle poste patrimoniali (investimenti e finanziamenti) sia dalla gestione corrente dell’impresa. Esso, pertanto, rappresenta uno strumento di analisi complementare al Conto Economico e allo Stato Patrimoniale. Secondo gli scopi dell’analisi, il rendiconto finanziario può avere per oggetto diversi aggregati: flussi di Capitale Circolante Netto finanziario (CCNf); flussi di Capitale Circolante Netto commerciale (CCNc); flussi di liquidità. Il Capitale Circolante Netto finanziario è definito come la differenza tra l’attivo circolante (liquidità, crediti verso clienti, scorte di materie prime e prodotti finiti) e il totale del passivo circolante (debiti verso fornitori e debiti finanziari a breve termine), mentre il Capitale Circolante Netto commerciale è calcolato al netto della liquidità e dei debiti finanziari a breve termine (cioè come la somma dei crediti verso clienti e delle scorte di materie prime e prodotti finiti al netto dei debiti verso fornitori). In generale, quest’ultima configurazione risulta più confacente alle finalità di analisi finanziaria, in quanto consente di isolare gli effetti della politica commerciale da quelli propriamente di origine finanziaria. 14

Nel primo caso si parla di razionamento forte del capitale, in quanto sono le condizioni del mercato finanziario a limitare il reperimento del capitale necessario alla realizzazione di progetti a VAN positivo; si fa invece riferimento al razionamento debole del capitale quando i limiti al suo reperimento hanno carattere contingente, come nel caso dei limiti massimi di spesa imposti alle divisioni di una società.

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

353

Il rendiconto finanziario può avere Il rendiconto finanziario può avere natura consuntiva o previsionale: nel primo natura consuntiva o previsionale. caso, esso è basato su dati che rappresentano esercizi gestionali dell’impresa già conclusi; nel secondo caso, invece, esso fa riferimento a ipotesi di sviluppo futuro dell’attività dell’impresa. Per comprendere la natura delle esigenze finanziarie dell’impresa, può essere utile suddividere la gestione in tre aree principali (Figura 10.1): l’area degli investimenti e disinvestimenti; l’area della gestione finanziaria; l’area della gestione corrente. area degli investimenti e Si consideri innanzitutto l’area degli investimenti e disinvestimenti: disinvestimenti essa fa riferimento principalmente all’acquisto dei beni che in bilancio sono compresi nell’attivo fisso, quali immobili, impianti, attrezzature, e più in generale tutte quelle strutture necessarie alla realizzazione dell’attività di produzione. Poiché ciascun ciclo produttivo determina il logorio fisico di tali strutture, a cui si aggiunge la progressiva obsolescenza indotta dall’avvento di nuove tecnologie, si rende necessario provvedere periodicamente alla loro sostituzione, con conseguente assorbimento di risorse finanziarie. Di converso, la cessione dei cespiti obsoleti o non più utilizzati può costituire una fonte di risorse finanziarie. Per un’impresa in fase di crescita, il fabbisogno relativo agli investimenti in capitale fisso è dunque crescente in quanto la realizzazione di nuovi investimenti è destinata non soltanto alla sostituzione dei vecchi impianti, ma anche alla creazione di nuova capacità produttiva. area della gestione finanziaria La seconda area è quella della gestione finanziaria: questa racchiude tutte le movimentazioni relative al capitale a disposizione dell’impresa, in particolare gli incrementi e i decrementi del capitale proprio che derivano dalla sottoscrizione o dall’estinzione di azioni della società, nonché gli incrementi e i decrementi del capitale di credito determinati dall’accensione di nuovi prestiti finanziari e dal rimborso di quelli già in essere. In tale area vengono inoltre ricondotte le movimentazioni relative alla remunerazione del capitale raccolto attraverso l’emissione di azioni e di titoli di debito, nella forma del pagamento rispettivamente di dividendi e di oneri finanziari. Figura 10.1

Uno schema di rendiconto finanziario della liquidità.

Impieghi di mezzi finanziari

Fonti di mezzi finanziari

• Pagamenti di dividendi • Rimborsi di debiti finanziari a m/l termine • Rimborsi di debiti finanziari a breve termine • Oneri finanziari

• Aumenti di mezzi propri • Nuovi debiti finanziari a m/l termine • Nuovi debiti finanziari a breve termine

Area della gestione finanziaria

• Investimenti in immobilizzazioni

• Disinvestimenti in immobilizzazione

Area degli investimenti e disinvestimenti

• Incremento di CCN commerciale • Pagamenti di TFR • Flusso assorbito dalla gestione corrente

• Decremento di CCN commerciale • Flusso generato dalla gestione corrente

• Incremento di liquidità

• Decremento di liquidità

Area della gestione corrente

354

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

area della gestione corrente

ciclo produttivo

ciclo economico ciclo monetario ciclo finanziario

ciclo completo di movimentazione del CCNc autofinanziamento della gestione corrente

Figura 10.2 Schema rappresentativo dei cicli dell’impresa. Acquisto fattori di produzione

La terza area presa in considerazione è infine quella della gestione corrente. Come evidenziato dalla Figura 10.1, questa comprende sia il flusso finanziario generato o assorbito dalla gestione sia quello che deriva dalla movimentazione del CCNc. Per comprendere l’intima relazione che intercorre tra queste due variabili è opportuno suddividere l’attività operativa dell’impresa in una serie di cicli: produttivo, economico, monetario e finanziario. Per semplificare l’analisi si assuma che tutti i fattori della produzione possano essere acquistati congiuntamente all’inizio del ciclo produttivo e siano soggetti ai medesimi tempi di consegna e alle medesime condizioni di pagamento (Figura 10.2). L’avvio del ciclo produttivo è segnato dalla consegna dei fattori di produzione, a partire dalla quale inizia l’attività di trasformazione che si conclude con l’ottenimento dei prodotti finiti. Preliminare a tale fase è l’acquisto dei fattori produttivi, che è anticipata rispetto al momento della consegna a causa dei tempi necessari all’evasione degli ordini da parte dei fornitori. L’acquisto delle materie determina l’avvio del ciclo economico, che ha termine nel momento della vendita dei prodotti finiti. Il ciclo monetario è invece determinato dagli esborsi e dagli incassi generati rispettivamente dall’acquisto dei fattori di produzione e dalla vendita dei prodotti finiti. Dalla combinazione dei tempi necessari alla realizzazione dei cicli descritti risulta dunque definito il ciclo finanziario, che inizia con l’acquisto delle materie per terminare nel momento dell’incasso conseguente alla vendita dei prodotti. La realizzazione di ogni ciclo finanziario assume per la gestione dell’impresa un duplice significato: in primo luogo, essa corrisponde a un ciclo completo di movimentazione del CCNc da cui deriva, nell’arco della durata del ciclo, un fabbisogno finanziario “temporaneo”; in secondo luogo, il saldo monetario di un ciclo finanziario completo corrisponde all’autofinanziamento della gestione corrente per il periodo in oggetto (Figura 10.3). La movimentazione del CCNc in un determinato periodo è, infatti, accompagnata dall’insorgere di un fabbisogno finanziario di natura temporanea, in quanto destinato a essere coperto dalle risorse di liquidità che verranno generate entro la fine del ciclo finanziario. Si consideri a tale proposito un semplice esempio: un’impresa si costituisce attraverso una dotazione di capitale proprio pari a 1000 euro, interamente investiti in immobili e attrezzature. Il suo CCNc è dunque pari

Consegna fattori di produzione

Pagamento fattori di produzione

Realizzazione prodotto finito

Ciclo produttivo

Ciclo economico

Ciclo monetario Ciclo finanziario

Vendita prodotto finito

Incasso prodotto finito

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

CCN commerciale

Ciclo finanziario

Tempo

a zero. L’attività svolta consiste nella compravendita di prodotti commerciali. Si assuma, inoltre, che l’impresa non paghi alcun interesse per i finanziamenti contratti. L’impresa avvia il proprio ciclo economico e finanziario acquistando a debito 500 euro di materie prime, che successivamente trasforma in prodotti finiti del valore di 600 euro e quindi, dopo che i prodotti siano stati venduti, in crediti verso clienti per un importo equivalente. Fino alla scadenza del debito verso i propri fornitori e prima dell’ottenimento dei prodotti finiti, la fase di gestione non ha generato alcun fabbisogno, in quanto le materie acquistate sono finanziate attraverso il credito concesso dai fornitori; quando le materie acquistate per 500 euro vengono trasformate in prodotti, il maggiore valore di questi corrisponde all’utile realizzato dalla gestione; il CCNc diventa dunque pari a 100 euro, a seguito dell’utile generato dalla trasformazione delle materie in prodotti finiti di maggiore valore; tale incremento di 100 euro determina quindi un fabbisogno di pari importo, la cui fonte di copertura è da individuarsi nell’utile generato dalla gestione. Alla scadenza del debito verso i fornitori, che si suppone essere anticipata rispetto a quella dei crediti commerciali, occorre reperire fonti finanziarie (per esempio indebitamento bancario) per far fronte al relativo pagamento: il debito commerciale di 500 euro è dunque sostituito da un debito finanziario di pari importo. Il CCNc diventa così pari a 600 euro. Alla data di incasso del credito verso i clienti, coincidente con la conclusione del ciclo finanziario, i debiti finanziari possono essere rimborsati, mentre il residuo pari a 100 euro incrementa la cassa o viene distribuito agli azionisti in forma di dividendo; il CCNc è nuovamente pari a zero. In questo esempio, dunque, l’inizio e la fine di un ciclo finanziario sono caratterizzati da un CCNc pari a zero; lungo il periodo di durata del ciclo finanziario, invece, le voci che compongono il Capitale Circolante Netto sono movimentate dalla realizzazione della gestione corrente, attraverso la dinamica delle scorte di materie prime e prodotti finiti, debiti versi i fornitori e crediti verso i clienti. Queste movimentazioni hanno dunque originato un fabbisogno temporaneo, dapprima di 100 euro e quindi di 600 euro, successivamente assorbito dagli incassi dei crediti commerciali che hanno nuovamente azzerato il CCNc quando il ciclo finanziario è giunto a conclusione. La seconda conseguenza della realizzazione di un ciclo finanziario consiste nella generazione di un surplus (o eventualmente di un deficit) di liquidità. La

Figura 10.3 Relazione tra Capitale Circolare Netto commerciale (CCNc) e ciclo finanziario.

355

356

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

flusso della gestione corrente autofinanziamento della gestione corrente dell’impresa

Il fabbisogno finanziario prodotto dalla gestione corrente in un determinato istante è frutto della combinazione degli effetti generati dai molteplici cicli di produzione attivi in quell’istante.

chiusura di un ciclo finanziario, infatti, comporta che sia i ricavi sia i costi associati al ciclo produttivo siano completamente trasformati in un valore monetario, il cui ammontare esprime il contributo di liquidità apportato dalla gestione corrente alla copertura del fabbisogno finanziario complessivo dell’impresa. Esso è noto come flusso della gestione corrente. Si potrà poi definire autofinanziamento della gestione corrente dell’impresa la differenza tra il flusso della gestione corrente e la variazione subita nel periodo dal CCNc (Figura 10.4). La situazione fin qui esposta fa riferimento al semplicistico caso di un unico ciclo produttivo e dunque di un unico ciclo finanziario; nella realtà l’attività dell’impresa si articola in un continuum di cicli produttivi, dipendenti – per numero e intensità – dalla domanda complessiva che essa deve fronteggiare, per cui le fasi di un determinato ciclo si sovrappongono con quelle degli altri cicli avviati dall’impresa precedentemente e successivamente a quello considerato.15 Ciò comporta che il fabbisogno finanziario prodotto dalla gestione corrente in un determinato istante è frutto della combinazione degli effetti generati dai molteplici cicli di produzione attivi in quell’istante. Inoltre, la stagionalità cui è soggetta la domanda comporta che il numero di cicli produttivi realizzati dall’impresa sarà variabile in funzione del periodo dell’anno, come pure il conseguente fabbisogno finanziario prodotto dalla gestione corrente. Questo dà luogo al noto fenomeno della ciclicità stagionale del fabbisogno finanziario di CCNc. Infine, è da considerare che le imprese generalmente detengono una scorta permanente di materie prime e prodotti finiti, ritenuta necessaria a far fronte alle variazioni inattese nelle condizioni di fornitura e nella domanda dei prodotti da parte dei clienti. Ciò fa sì che in realtà una parte del CCNc abbia carattere “strutturale”, dando così luogo a un fabbisogno costante e indipendente dalla particolare evoluzione dei cicli finanziari dell’impresa. Dalla combinazione di queste componenti viene a determinarsi il fabbisogno finanziario complessivo, la cui dinamica per un’impresa in crescita viene riportata nella Figura 10.5.

Flusso della gestione corrente (al netto delle imposte)

Reddito operativo

Autofinanziamento della gestione corrente

Imposte sul Reddito operativo*

Flusso della gestione corrente

Componenti del reddito non monetarie (accantonamenti, ammortamenti ecc.)

∆ CCNc

* Le imposte così calcolate sono dunque differenti da quelle riportate in conto economico

Figura 10.4 Autofinanziamento della gestione corrente. 15

In tal senso, la fase di pagamento da parte dei clienti corrispondente alla fase terminale di un ciclo finanziario può combinarsi con l’acquisto delle materie prime corrispondente all’avvio di un nuovo ciclo, e/o alla trasformazione delle materie in prodotti, relativa a un ciclo intermedio.

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

Fabbisogno finanziario comulato

a d

b

1 2 3 c

Tempo

Figura 10.5 Dinamica del fabbisogno finanziario dell’impresa. Il segmento “c” rappresenta il fabbisogno finanziario di capitale fisso, mentre i segmenti “a” e “b” rappresentano rispettivamente la parte variabile e la parte fissa del fabbisogno generato dal Capitale Circolante Netto. Il segmento “d” è invece rappresentativo dell’incremento subito dalla parte fissa del CCN e dall’attivo fisso.

La figura suggerisce alcune importanti osservazioni: •







357

il fabbisogno finanziario al termine di ciascun periodo corrisponde all’insieme degli investimenti che l’impresa ha complessivamente in essere in quel momento; in particolare, esso è dato dall’ammontare dell’Attivo Fisso, del Capitale Circolante Netto commerciale e della liquidità dell’impresa; specularmente, esso corrisponde alla somma del Capitale Proprio e del totale dei Debiti Finanziari dell’impresa in quel medesimo istante; il fabbisogno finanziario in un certo istante risulta composto da una parte “a” relativa al CCNc soggetto alla stagionalità della domanda, una parte “b” relativa alla quota “strutturale” di CCNc e da una parte “c” generata dagli investimenti cumulati nelle Attività Fisse; il fabbisogno di CCNc, nella sua parte non strutturale, è solo temporaneo; esso, infatti, aumenta in corrispondenza di picchi stagionali nella domanda di prodotti, a seguito di un maggiore numero di cicli finanziari che si trovano nella fase di avvio, in cui cioè maggiore è l’assorbimento di risorse finanziarie rispetto alla generazione di liquidità; si riduce invece quando la domanda si attenua e i cicli finanziari in fase di conclusione sono maggiori rispetto a quelli in fase iniziale; la crescita dell’impresa comporta anche una crescita del fabbisogno finanziario relativo alla parte fissa del CCNc e a quella dell’Attivo Fisso, che nel corso di un esercizio è misurata dal segmento “d”; tale incremento determina l’esigenza di nuove risorse finanziarie che, per la parte eccedente quelle generate dalla gestione corrente, devono essere reperite sul mercato dei capitali.

Questo ultimo punto richiama la necessità di individuare politiche di finanziamento dell’impresa che siano coerenti con il suo sviluppo. A tale proposito sembrano opportune due considerazioni. La prima si riferisce alla quota di fabbisogno da fronteggiare per mezzo di risorse finanziarie vincolate all’impresa per un prolungato periodo di tempo (capitale proprio e indebitamento a medio-lungo termine). Tali risorse, infatti, possono essere commisurate: al fabbisogno permanente dell’impresa, indicato in figura dalla linea tratteggiata 3, nel qual caso sarà necessario fare costantemente ricorso a risorse finanziarie a breve termine per coprire integralmente la quota di fabbisogno variabile; al fabbisogno totale

fabbisogno permanente dell’impresa

fabbisogno totale medio

358

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

fabbisogno massimo

tasso di crescita interno

medio, individuato dalla linea tratteggiata 2, così che il ricorso alle risorse a breve è limitato esclusivamente alle esigenze finanziarie di carattere stagionale; al fabbisogno massimo, rappresentato dalla linea tratteggiata 1, con la conseguenza di non dover ricorrere al reperimento di risorse finanziarie a breve termine e di accumulare sistematici surplus di cassa. Sebbene quest’ultima strategia finanziaria possa sembrare quella preferibile, occorre considerare che a essa possono essere associati costi opportunità non indifferenti, determinati cioè da un utilizzo improduttivo di sistematiche giacenze di cassa. Il secondo ordine di osservazioni riguarda invece la natura del capitale destinato alla copertura del fabbisogno finanziario di lungo periodo: determinati limiti alla capacità dell’impresa di raccogliere capitale di credito o capitale azionario possono, infatti, costituire un vincolo alla crescita dell’impresa. È dunque utile individuare il tasso di crescita che può essere sostenuto dall’impresa senza che questa debba ricorrere a fonti di finanziamento esterne, ovvero all’emissione di nuove azioni. Nel primo caso si parla di tasso di crescita interno, cioè del tasso di crescita dell’impresa che può essere sostenuto attraverso le risorse finanziarie prodotte dalla sua gestione. Esso viene così determinato: Tasso di crescita interno =

Utili non distribuiti Attività

[6]

Tale tasso può essere rielaborato nella forma seguente: Tasso di crescita interno =

tasso di crescita sostenibile

Utili non distribuiti Reddito Netto Capitale Netto [7] ⋅ ⋅ Reddito Netto Capitale Netto Attività

La capacità dell’impresa di crescere con risorse interne dipende dunque dalla sua capacità di produrre reddito netto e di impiegarlo per finalità di investimento, anziché per la distribuzione agli azionisti, inoltre dall’entità del capitale proprio rispetto al totale delle fonti di finanziamento. La capacità dell’impresa di crescere senza necessità di far ricorso all’emissione di nuove azioni è invece espressa dal tasso di crescita sostenibile. Tale tasso viene così calcolato: Tasso di crescita sostenibile =

Utili non distribuiti Reddito Netto ⋅ Reddito Netto Capitale Netto

[8]

La crescita dell’impresa può infatti essere vincolata alla necessità, o alla scelta, di mantenere un costante rapporto tra indebitamento e capitale proprio (leverage); diventa dunque rilevante stabilire quale sia il tasso di crescita del capitale proprio che l’impresa è in grado di alimentare esclusivamente attraverso la ritenzione di una parte degli utili prodotti e dunque senza l’emissione di nuove azioni.

10.4.2 La pianificazione finanziaria dell’impresa Scopo principale della pianificazione finanziaria è quello di garantire l’equilibrio tra l’assorbimento e la produzione di flussi finanziari.

Scopo principale della pianificazione finanziaria è quello di garantire, in ogni istante della vita dell’impresa e a condizioni di economicità, l’equilibrio tra l’assorbimento e la produzione di flussi finanziari. Tale aspetto riveste un’importanza cruciale per la stessa esistenza dell’impresa, dal momento che la possibilità di realizzare ambiziosi piani di sviluppo deve essere supportata da un’altrettanto ampia disponibilità di ca-

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

pitale; come pure, con riferimento al breve periodo, la mancanza della liquidità necessaria a far fronte agli impegni contratti nei confronti dei propri creditori può condurre, in situazioni critiche, anche al fallimento dell’impresa. È dunque necessario procedere allo studio della dinamica in base alla quale i flussi finanziari in entrata si combinano con quelli in uscita, allo scopo di stabilire le condizioni in grado di assicurare un equilibrio sia nel lungo sia nel breve termine. I due livelli di analisi in cui la pianificazione finanziaria si articola sono la pianificazione a breve termine e la pianificazione a medio-lungo termine. Gli strumenti analitici su cui si basa la redazione delle due tipologie di piano finanziario sono sostanzialmente gli stessi, sebbene riferiti a orizzonti temporali diversi: bilanci pro-forma (articolati in Conti Economici e Stati Patrimoniali prospettici) e rendiconti finanziari previsionali. Per comprendere la logica con cui tali documenti sono predisposti, si consideri che se il rendiconto in oggetto è redatto in prospettiva storica, l’uguaglianza tra l’ammontare delle fonti e degli impieghi è verificata per definizione: i flussi finanziari che si sono manifestati devono infatti necessariamente avere avuto una copertura; con riferimento a situazioni previsionali, invece, lo scopo principale del rendiconto è quello di sintetizzare le operazioni gestionali e patrimoniali future e di individuare quelle variabili attraverso le quali, in funzione dell’orizzonte di pianificazione, realizzare l’equilibrio tra le fonti e gli impieghi. Se, per esempio, si prevede che la realizzazione di nuovi investimenti genererà un fabbisogno di 1000 euro, mentre dalla gestione corrente deriverà una fonte di 600 euro, occorre individuare ulteriori fonti per 400 euro attraverso una o più delle operazioni riportate nello schema in Figura 10.1. È da sottolineare che tale processo risulta soggetto a vincoli progressivamente crescenti quando si passi dalla pianificazione a medio-lungo termine a quella a breve termine e quindi al budget di tesoreria: i livelli superiori di pianificazione condizionano infatti quelli più operativi attraverso la definizione di politiche finanziarie, gestionali o patrimoniali che costituiscono un vincolo per i livelli più bassi di pianificazione. Così, per esempio, se anche la variazione nell’ammontare di dividendi potrebbe costituire una leva per il reperimento di maggiori risorse nel breve termine, il suo utilizzo potrebbe essere precluso dalla politica dei dividendi stabilita in sede di pianificazione di medio-lungo termine. Nonostante gli strumenti analitici a supporto dei vari livelli di pianificazione finanziaria siano nella sostanza gli stessi, profondamente diversi sono invece l’orizzonte temporale di riferimento, l’oggetto di analisi e gli strumenti a disposizione per la gestione del fabbisogno. Quanto all’orizzonte temporale preso in considerazione, nella pianificazione di breve periodo esso è limitato al massimo ai dodici mesi successivi, mentre in quella a medio-lungo termine si estende per un periodo che va dai cinque ai dieci anni. Inoltre, i due livelli di pianificazione si differenziano per l’oggetto dell’analisi: questo, nel caso della pianificazione a medio-lungo termine, è costituito dai piani strategici dell’impresa, cioè da una serie di decisioni quali l’espansione in nuove aree di business in cui si ritiene che l’impresa possa realizzare un significativo vantaggio competitivo, oppure la vendita di altre attività non più compatibili con le prospettive di sviluppo dell’impresa. Rispetto a tale tipologia di decisioni, il compito della pianificazione finanziaria di medio-lungo termine può essere riassunto nei punti seguenti (Brealey, Myers, Allen, Sandri, 2015): •

analizzare le opportunità di finanziamento e di investimento che si presentano all’impresa;

359

I due livelli di analisi in cui la pianificazione finanziaria si articola sono la pianificazione a breve termine e la pianificazione a medio-lungo termine. bilanci pro-forma rendiconti finanziari previsionali

orizzonte temporale

oggetto dell’analisi

360

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

• • •

prevedere le conseguenze che avranno nel futuro le decisioni di oggi; motivare le decisioni prese rispetto alle alternative a disposizione; confrontare i risultati ottenuti con gli obiettivi definiti nel piano.

La pianificazione finanziaria a breve termine ha invece per oggetto l’analisi della dinamica delle entrate e uscite monetarie dovute principalmente alla gestione delle attività e delle passività correnti dell’impresa. Per tale motivo, la principale variabile presa in considerazione è rappresentata dal Capitale Circolante. Al massimo grado di dettaglio, quindi con il minimo orizzonte temporale di riferimento, la pianificazione di breve termine assume i contenuti del budget di tesoreria, in cui vengono riportate le singole movimentazioni monetarie previste in un arco di tempo che va da uno a quindici giorni successivi a quello in cui il budget viene redatto. Un ultimo aspetto che serve a differenziare i vari livelli di pianificazione è infine costituito dagli strumenti di gestione del fabbisogno. Poiché la pianificazione di medio-lungo periodo si occupa delle conseguenze finanziarie di decisioni che vincolano l’impresa per un certo numero di anni, anche la copertura del relativo fabbisogno viene ricercata nell’ambito di strumenti finanziari di durata pluriennale. Così, rispetto al caso illustrato in Figura 10.4, la copertura del fabbisogno strutturale dell’impresa, pari alla somma dei segmenti “b” e “c”, deve essere ricercata in fonti di durata compatibile, quali il capitale azionario, ovvero l’indebitamento a lungo termine nella forma di obbligazioni o mutui bancari. Gli strumenti ai quali fa riferimento la pianificazione di breve termine sono sostanzialmente differenti: quando l’orizzonte di pianificazione viene limitato al massimo ai 12 mesi successivi, la dinamica del fabbisogno risulta determinata principalmente dalla gestione corrente dell’impresa e dalla movimentazione delle voci patrimoniali del Capitale Circolante Netto; di conseguenza, la relativa copertura finanziaria deve essere ricercata in fonti di breve periodo, facilmente modulabili in funzione dell’elevata variabilità delle esigenze finanziarie cui debbono corrispondere. Nell’esempio della Figura 10.4 tali esigenze sono rappresentate dal segmento “a”, rispetto al quale le leve a disposizione dell’impresa sono costituite principalmente dall’indebitamento bancario di breve termine, nelle forme dell’apertura di credito, ovvero dello sconto di fatture, dalla rimodulazione delle condizioni di pagamento dei fornitori e di quelle di incasso dai clienti e, nei casi di maggiore criticità, dallo smobilizzo di una parte delle scorte di materie prime.

10.5 La finanza come centro di profitto Fin qui la finanza aziendale è stata presentata come un insieme di principi e azioni a supporto della gestione dell’impresa, l’individuazione delle metodologie e dei parametri per la stima del valore creato per gli azionisti, l’ottimizzazione delle dinamiche dei flussi finanziari, la ricerca dell’equilibrio nelle fonti di finanziamento dell’impresa: tutte queste attività assumono un significato nell’ambito della gestione nella misura in cui esista una fonte principale di creazione di valore rappresentata dal core business dell’impresa. In altre parole, la finanza è stata descritta non come una fonte autonoma di creazione di valore, bensì come un supporto utile a ottimizzare il valore creato da altre funzioni aziendali.

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

Esiste tuttavia un ulteriore ruolo che può essere rivestito dalla finanza in azienda, che è quello della gestione dei flussi finanziari rivolta alla generazione di profitti per mezzo delle opportunità offerte dal mercato dei capitali. Le competenze in seno alla funzione finanziaria vengono cioè rivolte all’individuazione di opportunità profittevoli sui mercati finanziari, sui quali l’impresa opera non più soltanto per reperire i capitali necessari alla realizzazione di investimenti in beni reali, ma anche per realizzare investimenti di carattere puramente finanziario. Tale prospettiva ha portato in anni recenti a una progressiva “finanziarizzazione” di molte imprese industriali, le quali hanno strutturato la funzione finanziaria come un organo di line con obiettivi di profitto al quale delegare la gestione di questo business collaterale. D’altra parte, ciò impone elevati costi in termini di specializzazione delle competenze che per tali scopi sono richieste. Si instaura quindi un trade-off tra queste due componenti, il cui risultato dipende fortemente dalle specifiche organizzative delle diverse realtà aziendali. Se lo scopo dell’intervento dell’impresa sul mercato finanziario è quello del profitto, le strategie che essa può perseguire sono essenzialmente di due tipi, da un lato la speculazione e dall’altro l’arbitraggio. La speculazione consiste nell’assumere posizioni aperte sui mercati allo scopo di beneficiare di movimenti non preventivati nei prezzi dei titoli. Così, se l’operatore ritiene che il prezzo corrente di un’azione sottostimi il suo reale valore, può semplicemente acquistare un certo quantitativo di tale azione, aspettare che il prezzo cresca e poi rivenderlo per realizzarne il profitto. Ovviamente il risultato dipende da quanto le intuizioni degli operatori, opportunamente supportate da un’analisi razionale dei dati sia storici sia prospettici sugli assets che costituiscono l’investimento, si riveli ex post esatta.16 L’arbitraggio consiste nella realizzazione di un profitto privo di rischio che scaturisce dal differenziale nel prezzo di un titolo quotato su due diversi mercati, ovvero da differenze nel regime fiscale di Paesi diversi. Le condizioni che possono dare luogo a opportunità di arbitraggio sono molteplici, in quanto molteplici sono le possibilità che i prezzi di un’attività su diversi mercati siano “fuori linea”. Si consideri, a titolo puramente esemplificativo, il caso di una medesima azione quotata sia alla Borsa di New York sia a quella di Milano: la quotazione su New York è pari a 27 dollari, mentre quella su Milano è pari a 24,63 euro; il tasso di cambio è di 1,1 dollari per euro. In questo caso, un operatore potrebbe intervenire sui due mercati realizzando un profitto privo di rischio: basterebbe infatti comprare azioni su New York e rivenderle su Milano, realizzando un profitto certo pari a 0,08454 euro per azione: 24,63 euro  (271,1) euro  0,08454 euro Occorre notare a tal proposito che questo profitto presuppone che non esistano costi di transazione per gli operatori: nella realtà tali costi, che per i piccoli investitori hanno un’incidenza superiore rispetto ai grandi operatori finanziari, possono far sì che i prezzi siano in equilibrio nonostante esista un certo differenziale nei prezzi in valuta equivalente di un medesimo titolo.

16

A tale proposito, è opportuno sottolineare come la possibilità di “battere sistematicamente il mercato”, cioè di realizzare nel lungo periodo profitti attraverso questo tipo di strategia, è inversamente proporzionale al grado di efficienza del mercato stesso.

361

speculazione

arbitraggio

362

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Occorre infine considerare che ogni volta che sui mercati si presentano opportunità di arbitraggio, gli operatori intervengono a realizzarne i profitti impliciti, ripristinando le condizioni di equilibrio tra i prezzi. Questo è il motivo per cui, in mercati efficienti, le opportunità di arbitraggio non sono molto frequenti e soprattutto non sono durature. Le possibilità di individuarne l’esistenza e di sfruttarne i vantaggi è quindi condizionata da un continuo e costante monitoraggio dei mercati e da una immediata capacità di risposta, condizioni che impongono che a tale scopo siano dedicate competenze altamente specializzate e strutture adeguate alla realizzazione delle operazioni di trading.

10.6 I principi di valutazione economica delle strategie d’impresa La valutazione della strategia consiste nell’attribuzione di un valore economico alle decisioni fondamentali sul modo in cui l’impresa intende sfruttare le proprie risorse al fine di agire nel proprio ambiente competitivo.

La valutazione della strategia consiste nell’attribuzione di un valore economico alle decisioni fondamentali sul modo in cui l’impresa intende sfruttare le proprie risorse al fine di agire nel proprio ambiente competitivo. In quanto tale, diviene un aspetto altamente significativo poiché rappresenta «il momento in cui essi sono chiamati a discernere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che giova e ciò che non giova nella condizione strategica di un’azienda e a regolarsi di conseguenza nell’utilizzo dei loro margini di discrezionalità» (Coda, 1991). Tale attività richiede allo stesso tempo un giudizio sull’orientamento di fondo dell’impresa e un’analisi degli obiettivi specifici in un orizzonte più breve. Si basa inoltre sulla capacità di prevedere l’evoluzione di un insieme di variabili ambientali (domanda di mercato, tendenze demografiche e sociologiche, sviluppo della tecnologia) e specifiche dell’impresa (risorse disponibili, evoluzione delle competenze, acquisizione di know-how) che possono significativamente influenzare la convenienza economica delle diverse alternative. Le caratteristiche che rendono le scelte strategiche peculiari rispetto alle altre decisioni aziendali possono in particolare così essere riassunte (Donna, 1992): • • • • •

influenzano in modo significativo e durevole il rapporto dell’impresa con il proprio ambiente competitivo; portano cambiamenti importanti nella struttura strategica e nell’orientamento di fondo dell’impresa; sono soggette a un elevato tasso di incertezza, perché il loro risultato dipende dall’interazione di un numero elevato di variabili differenti; hanno una frequenza relativamente bassa; almeno in parte prendono forma attraverso modalità di definizione progressive e incrementali, che rendono difficilmente applicabili i modelli che si basano sulla perfetta razionalità dell’attore.

Nei Paragrafi 10.7 e 10.8 saranno presentati i due principali metodi di valutazione che risultano coerenti con le specificità discusse: valore azionario e opzioni reali. Si intende precisare sin d’ora che la prospettiva adottata è quella del management, che ha la possibilità di intervenire sulla strategia attraverso la programmazione, l’implementazione e il controllo delle attività dell’impresa. Pertanto l’obiettivo del capitolo consiste nel mostrare come i metodi di valutazione possano fornire una migliore comprensione di quelle leve del valore, o value driver, che, opportunamente azionate attraverso le scelte strategiche, conducono al miglioramento

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

363

della performance dell’impresa. In tale prospettiva, «il vero ruolo e valore delle valutazioni quantitative consiste nel contributo di consapevolezza che esse forniscono al soggetto decisore, e attraverso questa strada nella migliore qualità che riescono ad assicurare al processo decisionale stesso» (Donna, 1992). Naturalmente l’errore che si potrebbe commettere è quello di considerare il risultato della valutazione economica come un valore assoluto su cui basare in ogni caso le decisioni. In realtà, questo sarà sempre il frutto di una stima che ha elevati contenuti di soggettività. Tuttavia, come si vedrà nel corso del capitolo, è comunque importante che esso si basi su assunzioni credibili e giustificabili e su strumenti di controllo adeguati.

10.6.1 La valutazione della strategia aziendale e la pianificazione strategica La valutazione della strategia è parte integrante del processo di pianificazione strategica, in quanto costituisce uno strumento a supporto delle decisioni del management. Esistono tre diversi livelli della pianificazione che risultano rilevanti ai fini della valutazione economica.17 Il primo è la strategia di corporate, costituita dal complesso di scelte relative al portafoglio delle aree di business, al perseguimento delle interrelazioni, alle operazioni di fusione o acquisizione (Merger & Acquisition, M&A), alle decisioni di integrazione o disintegrazione. Il secondo livello riguarda le strategie relative alle singole aree di business, e quindi a progetti di innovazione finalizzati alla riduzione dei costi o alla differenziazione, il lancio di nuovi prodotti, la segmentazione del mercato o la scelta di differenti canali di distribuzione. Il terzo livello, infine, riguarda la valutazione di progetti operativi finalizzati all’implementazione delle strategie di corporate e di business. I paragrafi seguenti si concentrano sui primi due livelli di valutazione.

strategia di corporate

strategie relative alle singole aree di business valutazione di progetti operativi

10.6.2 L’obiettivo della creazione di valore Gli studiosi della teoria dell’impresa hanno a lungo dibattuto sulla sua funzione obiettivo. Una prima motivazione che può guidare il management nell’attività direttiva è la crescita aziendale. Una differente prospettiva è adottata dall’impresa che mira a ottenere un vantaggio competitivo sostenibile nelle aree d’affari in cui opera (Porter, 1985).18 Oggi sembra invece comunemente accettato nella teoria e nella prassi finanziaria l’approccio della creazione di valore per l’azionista, che si basa sull’idea che il principale obiettivo dell’impresa debba essere la massimizzazione del valore economico del suo capitale di rischio (shareholder value).19 Come si analizzerà in dettaglio, tale valore è in ultima analisi legato al valore attuale dei flussi di cassa presenti e futuri che l’impresa è in grado di generare attraverso la propria attività. Il compito della direzione è dunque quello di favorire lo sviluppo di processi decisionali a livello di corporate e delle singole unità di business in grado di accrescere il valore dell’impresa agendo sulle leve di lungo termine.20 17

Si veda come esempio, Hax A.C., Majiluf N. (1987). Si veda a tal proposito il Capitolo 4. 19 Per un approfondimento del concetto di shareholder value si vedano i seguenti lavori di Alfred Rappaport: (1981), (1986), (1987). 20 Occorre comunque considerare che l’impresa si rivolge a un insieme di portatori di interessi (stakeholders), quali clienti, fornitori, dipendenti, comunità, istituzioni, più ampio del solo 18

crescita aziendale vantaggio competitivo sostenibile creazione di valore per l’azionista

Il compito della direzione è dunque quello di favorire lo sviluppo di processi decisionali a livello di corporate e delle singole unità di business in grado di accrescere il valore dell’impresa agendo sulle leve di lungo termine.

364

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

L’obiettivo della creazione di valore è stato preferito per le seguenti ragioni:21 • richiede che il management si focalizzi sui ritorni di lungo periodo; • richiede il rispetto della condizione che il rendimento di ogni investimento effettuato dall’impresa abbia un ritorno atteso superiore al costo opportunità del capitale; • nel caso in cui l’impresa sia quotata, è facilmente misurabile, poiché il valore dell’impresa può essere sempre determinato in base alla sua capitalizzazione di borsa; • assicura che siano stati soddisfatti tutti gli altri portatori di interessi, poiché il diritto di proprietà degli azionisti ha natura residuale rispetto a quello degli altri soggetti economici.

Processi e sistemi manageriali orientati al valore incentivano manager e dipendenti a comportarsi in modo da massimizzare il valore dell’impresa.

mercati azionari efficienti

Una pianificazione orientata al valore dovrebbe basarsi da un lato su una diffusa e condivisa mentalità di creazione del valore, dall’altro su processi e sistemi manageriali necessari a trasporre la mentalità in azione concreta. Un orientamento di fondo verso la creazione di valore assicura l’esistenza di supporti analitici per l’individuazione delle variabili strategiche, una coerenza di obiettivi ai diversi livelli di pianificazione e un linguaggio comune per comunicare. Processi e sistemi manageriali orientati al valore incentivano manager e dipendenti a comportarsi in modo da massimizzare il valore dell’impresa (Koller, Godhaert e Wessels, 2015). L’adozione e il perseguimento dell’obiettivo della creazione di valore si basa su alcune importanti assunzioni di cui bisogna esser consapevoli. In particolare, suppone che i mercati azionari siano efficienti, nel senso che il valore da essi attribuito al capitale netto dell’impresa (espresso dalla cosiddetta capitalizzazione di borsa) incorpora tutte le informazioni disponibili. Sotto l’assunzione di mercati efficienti, gli azionisti di società quotate concordano con il principio secondo cui le decisioni di investimento devono essere valutate con riferimento al loro impatto sul valore di mercato dell’impresa (Fama e Jensen, 1985). Occorre comunque sottolineare che gli azionisti delle società quotate non prendono parte in modo diretto al processo decisionale e che la teoria dell’agenzia ha messo in luce l’esistenza di conflitti di interesse con i decisori, ossia i manager (Jensen e Meckling, 1976). Tuttavia, in una logica di second best, l’obiettivo della massimizzazione del valore di mercato dell’impresa è comunque rispettato, in quanto sono attivati alcuni meccanismi di regolamentazione fino al punto in cui il loro costo eguaglia il valore attribuito dal mercato alla maggiore capacità di controllo sulle decisioni (Jensen, 1978, Fama e Jensen, 1983).22 gruppo degli azionisti. La tensione tra stakeholders e shareholders ha contraddistinto il recente dibattito sulla funzione dell’impresa nel sistema economico. In ogni caso, l’eventuale obiettivo della massimizzazione del valore per gli stakeholders resta di difficilissima misurazione. Si veda per approfondimenti: Jensen M. (2001). 21 In realtà, una mirata strategia rende consequenziali gli obiettivi suddetti. Esiste infatti una base economica comune per i differenti approcci, se l’obiettivo di una produttività di lungo periodo può generare sia un vantaggio strategico sostenibile nel tempo sia risultati apprezzabili per gli azionisti. In tal senso si veda: Rappaport (1986); Day G.S., Fahey L. (1990); Rappaport A. (1992). 22 La questione dell’efficienza dei mercati finanziari è senz’altro una delle più rilevanti negli studi di finanza. Nonostante il dibattito teorico ed empirico sia ancora aperto, a favore dell’assunzione di efficienza dei mercati si segnalano i due articoli classici di Eugene Fama: (1970), (1991).

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

365

10.6.3 Le specificità nella valutazione della strategia Nel Paragrafo 10.2 si è già visto il metodo del VAN e le ragioni del suo utilizzo per i progetti di investimento. La valutazione della strategia si distingue da quella dei singoli progetti di investimento. Dal punto di vista finanziario, infatti, la strategia può essere interpretata come una pluralità di progetti che possono modificare la posizione dell’impresa (Macrì, Sandri e Silvi, 1995). In particolare, date le peculiarità delle scelte strategiche, i metodi di valutazione delle strategie di corporate o di business devono tenere conto, differentemente da quanto avviene per i progetti di investimento isolati, almeno dei seguenti aspetti: • • •

complessità e ampiezza degli effetti di una decisione strategica; orizzonte temporale di lungo periodo; rilevanza dell’incertezza e della presenza di opportunità, o opzioni di crescita, che possono essere sfruttate in futuro.

Riguardo al primo punto, occorre sottolineare che, mentre gli effetti di un progetto operativo sono normalmente circoscritti e facilmente misurabili in termini di flussi in entrata e in uscita (per esempio, la sostituzione di un impianto ha costi operativi di gestione e capacità produttiva noti), una decisione strategica ha un impatto molto esteso, spesso difficilmente prevedibile, che riguarda l’attività dell’impresa nel suo complesso. Per esempio, un’operazione di acquisizione comporta una serie di cambiamenti organizzativi che investono a diversi livelli l’azienda acquirente e l’azienda acquisita (risorse umane, risorse produttive, sistemi informativi, reti distributive). Il secondo punto è strettamente legato al punto precedente. Nel caso di un progetto operativo, normalmente l’orizzonte temporale è abbastanza chiaramente definito dalla vita attesa dell’investimento (per esempio, la vita economica di un nuovo impianto). Una strategia di corporate o di business può invece portare l’impresa ad acquisire nuovi vantaggi competitivi che modificano la sua posizione nei confronti dei concorrenti e dunque le sue prospettive reddituali nel lungo periodo. Pertanto, oltre agli effetti a breve termine di un’alternativa strategica (per esempio, la riduzione dei costi operativi, l’aumento dei ricavi), occorre considerare anche quegli effetti che si estendono al di là dell’orizzonte temporale considerato. Il terzo punto si collega alla maggiore incertezza che caratterizza i risultati attesi di una strategia rispetto a quelli di un progetto operativo, a causa dell’evoluzione e dell’interazione di un numero molto maggiore di variabili aleatorie. La domanda, le nuove tecnologie, il successo dei progetti di ricerca e sviluppo, le mosse dei concorrenti, le variazioni rilevanti nella regolamentazione, l’evoluzione di risorse e competenze interne sono tutti fattori che direttamente o attraverso le loro interazioni modificano i risultati economici associati a una determinata scelta strategica. La maggiore incertezza non è solo fonte di maggiori rischi, ma può anche dischiudere nuove opportunità o opzioni strategiche (per esempio, l’entrata in un nuovo mercato può creare la successiva opzione di espansione in quel mercato), di cui si dovrebbe tenere conto nella valutazione della strategia. Per i motivi discussi in questo paragrafo, i metodi finanziari per la valutazione strategica, pur condividendone i fondamentali presupposti teorici, presentano alcune caratteristiche peculiari rispetto ai metodi tradizionali di capital budgeting normalmente utilizzati per i singoli progetti di investimento.

Dal punto di vista finanziario, infatti, la strategia può essere interpretata come una pluralità di progetti che possono modificare la posizione dell’impresa.

366

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

10.7 Il metodo del valore azionario per la valutazione delle strategie d’impresa

Il valore azionario è rappresentato dal valore di mercato del capitale proprio della società.

posizione finanziaria netta Il valore societario è dato dalla somma di due componenti: il valore delle attività operative e il valore della liquidità e dei titoli finanziari negoziabili posseduti dall’impresa.

Il metodo del valore azionario, che si fonda sul già descritto principio della creazione di valore, si è diffuso e affermato in seguito al lavoro di Alfred Rappaport (1981, 1986), seppure la sua formulazione sia originariamente dovuta a William Fruhan (1979). Il suo obiettivo è quello di legare in modo analitico le scelte strategiche al valore creato per gli azionisti attraverso l’analisi dei flussi di cassa scontati generati da tutte le attività dell’azienda o dell’unità di business. Il valore azionario è rappresentato dal valore di mercato del capitale netto della società. Poiché gli azionisti hanno un diritto residuale sulle attività dell’impresa che potrà essere soddisfatto solo condizionatamente al soddisfacimento degli altri portatori di interessi, tale valore può essere calcolato come differenza tra il valore di mercato di tutte le attività e il valore di mercato dei debiti finanziari.23 Tra le attività dell’azienda, è possibile distinguere attività operative (attività utilizzate nel core business), surplus assets (attività extracaratteristiche) e liquidità e titoli finanziari negoziabili. Ai fini della valutazione, liquidità e titoli finanziari sono generalmente sottratti dal debito finanziario per ottenere la cosiddetta posizione finanziaria netta. La somma del valore delle attività operative e dei surplus asset determina il valore societario. Il valore di mercato del capitale netto può quindi essere espresso come differenza tra valore societario e posizione finanziaria netta. La Figura 10.6 mostra graficamente come siano legati valore societario e valore del capitale netto (valore dell’equity o valore azionario). Per calcolare il valore azionario di un’impresa è dunque necessario calcolare innanzitutto il suo valore societario. Il valore delle attività operative può essere calcolato come valore attuale di tutti i flussi di cassa che queste sono in grado di generare quando impiegate nelle operazioni di produzione e vendita di beni

Valore delle attività operative Valore societario

Valore di mercato del capitale netto = Valore azionario

Surplus asset Valore di mercato dei debiti Liquidità + titoli finanziari

Figura 10.6 Relazione fra valore societario e valore azionario.

23

Si noti che nella pratica spesso il valore di mercato del debito finanziario è approssimato dal loro valore contabile.

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

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e servizi. I surplus assets sono invece investimenti che non fanno parte della gestione operativa, ma che chiaramente hanno un valore che va considerato nella valutazione complessiva.24 Il valore delle attività operative si costituisce di due elementi: 1. valore attuale dei flussi di cassa entro l’orizzonte di previsione del piano; 2. valore residuo, ossia il valore dell’impresa al termine dell’orizzonte previsionale del piano, calcolato attraverso l’attualizzazione dei flussi di cassa previsti nei periodi successivi.

valore attuale dei flussi di cassa valore residuo

Si effettua la valutazione in un orizzonte di tempo illimitato per tenere conto di tutti i possibili effetti di un cambiamento strategico. Per ragioni di praticità, tuttavia, tale orizzonte temporale è normalmente suddiviso in due periodi: il primo, di durata definita, per il quale è elaborata una previsione esplicita dei flussi di cassa generati dall’alternativa strategica considerata; il secondo, di durata illimitata, nel quale si ipotizza un flusso di cassa che cresce a un tasso costante nel tempo e attualizzato utilizzando la formula della rendita perpetua25 (Figura 10.7). Il calcolo del valore residuo dell’impresa al termine dell’investimento strategico programmato costituisce una differenza fondamentale rispetto al metodo del VAN analizzato nel Paragrafo 10.2, che non tiene conto degli effetti del progetto che vanno al di là dell’orizzonte temporale considerato. Tale peculiarità si ricollega direttamente all’importanza dell’impatto della nuova strategia sulla posizione complessiva dell’azienda, tale da modificare le previsioni della sua redditività per un periodo molto più lungo di quello previsto per il singolo progetto di investimento. Il valore societario dell’impresa al tempo 0 è dunque dato dal valore attuale dei flussi di cassa del periodo di previsione esplicito e del valore residuo attualizzato al periodo 0, a cui occorre sommare il valore di mercato dei surplus asset. In particolare, come sarà spiegato nel corso del paragrafo, ci si riferisce ai flussi di cassa operativi disponibili, ossia ai flussi di cassa generati dalla gestione operativa e che residuano dopo i flussi netti relativi agli investimenti. Il tasso a cui

0

n anni

Valore attuale dei flussi di cassa

Periodo di cambiamento strutturato 8

Periodo a previsione esplicita

Valore residuo

24 Qui si presume che il valore dei surplus asset, come quello dei titoli negoziabili, sia determinatio sulla base di altri criteri (per esempio, presunto valore di realizzo o valore corrente di mercato). In realtà, anche il valore di tali attività potrebbe essere calcolato utilizzando il metodo dei flussi di cassa attualizzati. 25 Si veda il Paragrafo 10.7.2.

Figura 10.7 Periodo a previsione esplicita, periodo di cambiamento strutturato e valore residuo. Fonte: adattato da Macrì, Sandri, Silvi (1995).

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

sono attualizzati i flussi di cassa è il costo medio ponderato di debito ed equity (Weighted Average Cost of Capital, WACC), che è scelto in quanto rappresenta il costo dei finanziamenti accesi per far fronte al fabbisogno generato da tutte le attività aziendali.26 Il valore societario all’anno 0 nel caso di implementazione della strategia esaminata può dunque essere espresso come segue: n

VS 0 =

CF

VR

t n + + SA ∑ (1 + WACC )t (1 + WACC)n

[9]

t =1

dove:  valore societario dell’impresa all’anno 0;  numero di anni del periodo a previsione esplicita;  flusso di cassa operativo disponibile dell’impresa all’anno t (nel caso in cui si adotti la strategia considerata); WACC  costo medio ponderato del capitale;  valore residuo dell’impresa all’anno n (alla fine del periodo a previsione VRn esplicita); SA  valore dei surplus asset. VS0 n CFt

Per definizione si può ottenere l’espressione del valore azionario dell’impresa all’anno 0 sottraendo il valore di mercato dei debiti dal valore societario: VA0  VS0  PFN

[10]

VA0 = valore azionario dell’impresa all’anno 0; PFN = posizione finanziaria netta. Il valore creato da una strategia è dato dunque dalla variazione del valore azionario dell’impresa a seguito della sua implementazione.

Il valore creato da una strategia, in questa prospettiva, è dato dunque dalla variazione del valore azionario dell’impresa a seguito della sua implementazione e si calcola nel modo seguente: Valore della strategia  Valore azionario finale  Valore azionario iniziale

valore azionario iniziale

[11]

Il valore azionario iniziale (VAI) all’anno 0 rappresenta il valore corrente della società, assumendo che non vi sia alcuna ipotesi di cambiamento strategico. In altre parole esso non sconta alcuna capacità di creazione di valore associata a nuove alternative strategiche possibili. In conclusione, quindi, il valore della strategia sarà dato dalla seguente espressione: n

Valore strategia =

CF

VR

t n + + SA − PFN − VAI ∑ (1+ WACC )t (1+ WACC)n

[12]

t =1

26

Nel caso dell’equity, si tratta più precisamente di un costo opportunità, rappresentato, come si vedrà in modo più approfondito successivamente, dal mancato rendimento dell’azionista che decide di investire nel capitale proprio dell’impresa considerata.

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

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10.7.1 La determinazione e la previsione dei flussi di cassa operativi disponibili Il metodo del valore azionario si basa sul flusso di cassa operativo disponibile. Il flusso di cassa operativo disponibile rappresenta la liquidità generata dal core business dell’impresa. Risultano esclusi da quest’ultima definizione pagamenti e incassi per costi e ricavi non caratteristici, componenti di reddito straordinarie e oneri finanziari. Si tratta infatti di una variabile operativa la cui determinazione risulta indipendente dalla particolare struttura finanziaria dell’impresa e che non considera gli aspetti della gestione non caratteristica (relativa, quindi, a quelli che avevamo definito surplus assets). Il termine “disponibile” indica che il flusso di cassa è calcolato al netto dei flussi per investimenti in capitale fisso e circolante. Il significato del flusso di cassa operativo disponibile è in definitiva quello di «disponibilità liquida che residua dopo avere algebricamente sommato al risultato economico della gestione operativa caratteristica la dimensione finanziaria della gestione stessa, cioè i movimenti monetari associati alle variazioni di capitale circolante e agli investimenti» (Macrì, Sandri e Silvi, 1995). In sostanza esso rappresenterebbe il dividendo teorico da distribuire agli azionisti, in assenza di fattori distorsivi legati alla politica dei dividendi (Brealey, Myers, Allen, Sandri, 2015). Il primo passo per il calcolo del flusso di cassa operativo disponibile consiste nella determinazione del reddito operativo al netto delle imposte. Tale grandezza, definita nella terminologia anglosassone NOPAT (Net Operating Profit After Taxes), si calcola sottraendo al reddito operativo le imposte calcolate moltiplicando l’aliquota d’imposta T per il reddito operativo stesso, come illustrato di seguito: Ricavi  Costo del venduto  Altri costi operativi  Ammortamento  Reddito operativo  Imposte sul reddito operativo (Aliquota d’imposta  Reddito operativo)27  Reddito operativo dopo le imposte (NOPAT) Occorre a questo punto effettuare alcuni aggiustamenti per passare dal principio di competenza, in base al quale è calcolato il reddito operativo, al principio di cassa, necessario a determinare il flusso di cassa calcolato come differenza tra entrate e uscite monetarie. A partire dal NOPAT è possibile ottenere il flusso di cassa operativo disponibile sommando le componenti di costo non monetarie, che quindi non comportano un effettivo esborso di cassa (ammortamenti),28 e sottraendo il flusso monetario assorbito o generato dalle variazioni del capitale

27

Le imposte così calcolate non corrisponderanno alle effettive imposte pagate dalla società, ma sono imposte “virtuali”. Il beneficio fiscale generato dal pagamento degli interessi sarà infatti incorporato nel calcolo del WACC, come sarà evidente nel seguito di questo capitolo. 28 Si ricorda che gli ammortamenti sono poste contabili inserite in bilancio al fine di tener conto di costi di competenza, ma a fronte dei quali non si ha mai un’uscita di cassa. Per approfondimenti sulla loro natura si veda: Anthony R.N., Macrì D.M., Pearlman L.K. (2003).

Il flusso di cassa operativo disponibile rappresenta la liquidità generata dal core business dell’impresa.

NOPAT (Net Operating Profit After Taxes)

370

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

flusso di cassa operativo disponibile

circolante netto (crediti commerciali, debiti commerciali, scorte)29 e il flusso netto per investimenti in attivo fisso (pagamenti per investimenti al netto degli incassi per disinvestimenti). Pertanto, le operazioni per calcolare il flusso di cassa operativo disponibile a partire dal NOPAT possono essere schematizzate come segue. Reddito operativo al netto delle imposte (NOPAT)  Ammortamenti  Variazione del Capitale Circolante Netto  Flusso per investimenti al netto del flusso per disinvestimenti  Flusso di cassa operativo disponibile Definito in tal modo il procedimento per arrivare alla definizione del flusso di cassa operativo disponibile, si renderà ora necessario identificare i parametri fondamentali per la determinazione dei flussi di cassa futuri nell’orizzonte previsionale stabilito. Il primo problema che occorre affrontare nel prevedere i flussi di cassa futuri consiste nell’identificare parametri del valore (i cosiddetti value driver) necessari per effettuare le stime richieste. A tal fine, per ogni anno del periodo considerato è possibile calcolare sinteticamente il flusso di cassa operativo disponibile nel modo seguente:30 CFt  [Vt1(1  gvt)  (1  cvt  cot) At]  (1  T)  (At)  (It  Ct)

[13]

dove: Vt1  gvt  cvt  cot



At T It Ct

   

ricavi di vendita all’anno t  1; tasso di crescita dei ricavi tra l’anno t  1 e l’anno t; incidenza del costo del venduto sui ricavi di vendita, uguale a CVtVt, dove CVt è il costo del venduto all’anno t; incidenza degli altri costi operativi sui ricavi di vendita, uguale a COtVt, dove COt è l’ammontare degli altri costi operativi all’anno t; totale ammortamenti all’anno t; aliquota d’imposta; flusso netto per investimenti all’anno t; variazione del capitale circolante all’anno t.

La formulazione riportata nella [13] è equivalente alla definizione di flusso di cassa operativo disponibile data precedentemente. Infatti, l’espressione [Vt1  (1  gvt)  (1  cvt  cot) At]  (1  T) non è altro che il NOPAT, mentre il termine At  (It  Ct) aggiunge le componenti di costo non monetarie (ammortamenti) e sottrae i flussi in uscita legati agli investimenti e al capitale circolante netto. 29

L’incremento di crediti commerciali rappresenta una componente negativa del flusso di cassa operativo perché implica che parte dei ricavi di periodo non è stata incassata. Anche l’incremento delle scorte è una componente negativa del flusso di cassa in quanto corrisponde a uscite di denaro per ulteriori acquisti di materie prime che non sono stati registrati tra i costi di competenza. Al contrario, l’incremento dei debiti commerciali costituisce una componente positiva del flusso di cassa in quanto rappresenta la parte degli acquisti a cui non ha fatto seguito un’uscita di cassa. 30 Adattata da: Rappaport A. (1986).

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

L’incremento di capitale circolante netto Ct può poi essere scomposto nelle sue diverse componenti: • • •

variazione dei crediti verso clienti (Cr); variazione delle scorte (Sc); variazione dei debiti verso fornitori (Df).

La variazione dei crediti verso clienti può essere calcolata nel modo seguente: Crt  CRFt  CRIt  Vt365  pi  CRIt

variazione dei crediti

[14]

dove: Crt  CRFt  CRIt  pi 

variazione dei crediti verso clienti all’anno t; crediti verso clienti alla fine dell’anno t; crediti verso clienti all’inizio dell’anno t; periodo medio d’incasso dei crediti verso clienti (in giorni).

L’espressione Vt365 rappresenta i ricavi medi giornalieri (ricavi annuali diviso il numero di giorni in un anno). Pertanto, il prodotto Vt365  pi, assumendo che i ricavi giornalieri siano costanti durante l’anno, misura tutti i ricavi degli ultimi pi giorni dell’anno t, ossia quei ricavi a fronte dei quali alla fine dell’anno t non si è ancora registrato il relativo incasso e che quindi hanno generato il livello finale di crediti verso clienti (CRFt). La variazione delle scorte può invece essere calcolata come segue: Sct  SCFt  SCIt  CVtrs  SCIt

[15]

dove: Sct CVt SCIt SCFt rs

    

variazione delle scorte all’anno t; costo del venduto all’anno t; livello delle scorte all’inizio dell’anno t; livello delle scorte alla fine dell’anno t; indice di rotazione delle scorte.

L’indice di rotazione delle scorte segnala quante volte le scorte si rinnovano durante l’anno. La [15] mette in luce che il livello finale delle scorte in magazzino decresce, a parità di costo del venduto, al crescere della velocità di rinnovo delle scorte stesse. In modo simile a quanto visto per la variazione dei crediti nella [14], la variazione dei debiti verso fornitori può essere calcolata moltiplicando gli acquisti giornalieri per il periodo di pagamento, ossia il numero medio di giorni che l’impresa impiega per saldare i debiti verso fornitori. Poiché gli acquisti totali effettuati dall’impresa sono dati dalla somma del costo del venduto dell’anno e dell’incremento delle scorte, è possibile scrivere: Dft  DFFt  DFIt  (ACQt)365  pp  DFIt dove: Dft  variazione dei debiti verso fornitori all’anno t; DFFt  debiti verso fornitori alla fine dell’anno t; DFIt  debiti verso fornitori all’inizio dell’anno t;

[16]

variazione dei debiti

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

ACQt  acquisti all’anno t  costo del venduto all’anno t  variazione delle scorte all’anno t; pp  periodo medio di pagamento dei debiti verso fornitori (in giorni). Dall’analisi della [13] emerge, dunque, che, ai fini della previsione dei flussi di cassa futuri, occorre determinare l’evoluzione futura dei seguenti parametri del valore (value driver): • • • • • • • • •

tasso annuo di crescita dei ricavi (gv); incidenza del costo del venduto (cv); incidenza degli altri costi operativi (co); ammortamenti (A); aliquota d’imposta (T); periodo d’incasso (pi); tasso di rotazione delle scorte (rs); periodo di pagamento (pp); flusso netto per investimenti (I).

Naturalmente la previsione dell’andamento di ciascuna di tali variabili richiederà di entrare maggiormente nel dettaglio e di elaborare modelli di determinazione dei flussi di cassa che tengano debitamente conto di tutte le possibili interrelazioni. Prima di procedere però alla costruzione di schemi previsionali più complessi, è necessario fare riferimento ad alcuni principi di carattere generale su cui si baserà la successiva determinazione quantitativa delle grandezze di nostro interesse. La possibile sequenza delle fasi di un processo di previsione dei flussi di cassa è rappresentabile come segue (Koller, Godhaert, Wessels, 2010): • • • • analisi dei risultati storici

analisi strategica

elaborazione degli scenari

analisi dei risultati storici; analisi strategica; elaborazione degli scenari di previsione; definizione dell’orizzonte temporale della previsione.

L’analisi dei risultati storici si dovrebbe soffermare sui value drivers, per tentare di capire quale sia il loro valore in condizioni di normale attività e quale sia stato in passato l’impatto su di essi di progetti di innovazione e cambiamento. Sarà in tal modo più facile prevedere gli effetti di una nuova strategia sui parametri chiave del valore. L’analisi strategica ha il compito di prevedere l’evoluzione futura dei value drivers. In tale fase occorre dunque valutare due aspetti: la possibilità di raggiungere un vantaggio competitivo attraverso l’implementazione della strategia in esame e gli eventuali effetti che tale vantaggio competitivo ha sull’evoluzione di ciascuno dei value drivers. Stabilite le azioni future dell’azienda in relazione al vantaggio competitivo che essa intende raggiungere, si può procedere all’elaborazione degli scenari di evoluzione dell’ambiente, esterno e interno all’impresa, in cui tali azioni saranno poste in essere, iniziando in tal modo a restringere il campo dei possibili risultati attesi. A tal fine può risultare utile identificare un numero limitato di situazioni possibili e stimare il valore dei parametri rilevanti in ciascuna delle ipotesi. È importante sottolineare che sviluppare differenti scenari non significa variare meccanicamente e in misura prefissata il valore attribuito ai value drivers nelle diverse ipotesi. In realtà, un’attenta analisi delle condizioni ambientali future richiede

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

che le previsioni risultino coerenti con un ampio e completo set di assunzioni fondamentali e con le competenze a disposizione dell’impresa. A ogni scenario è successivamente assegnata una probabilità soggettiva e il valore della strategia è calcolato come media ponderata rispetto alle probabilità dei valori ottenuti nei differenti scenari. Abbiamo infine già visto come l’orizzonte temporale di riferimento risulti suddiviso in un primo periodo a previsione esplicita e in un secondo di durata illimitata. Si può ora affermare che il periodo a previsione esplicita dovrebbe avere una lunghezza tale che alla sua fine l’attività dell’impresa abbia raggiunto uno stato di stabilità. Secondo la definizione data da Koller, Godhaert e Wessels (2010) tale stadio si raggiunge nel momento in cui l’impresa: • • •

ottiene un tasso di rendimento costante su tutti i capitali investiti nel periodo successivo; ottiene un tasso di rendimento costante sul livello base del suo capitale; reinveste una porzione costante dei propri utili.

Tale situazione si verifica generalmente quando l’impatto del cambiamento prodotto da una nuova strategia è stato in gran parte assorbito, dunque la volatilità dei rendimenti va riducendosi e il tasso di rendimento sul capitale stabilizzandosi su nuovi livelli, i quali dipenderanno dalla rinnovata posizione competitiva dell’impresa. In pratica la stabilità significa che la «relazione tra performance di un certo anno e quella dell’anno precedente o seguente è sempre la stessa qualunque sia il riferimento temporale scelto» (Macrì, Sandri e Silvi, 1995). Secondo i casi specifici, l’orizzonte a previsione esplicita dura convenzionalmente tra 5 e 7 anni. Nella Figura 10.8 le formule fin qui descritte sono utilizzate per calcolare il flusso di cassa operativo disponibile per due anni differenti. Nella sezione di sinistra sono definiti i valori dei value drivers e degli altri parametri necessari per gli anni t e t  1, mentre nella sezione di destra tali dati di input sono utilizzati per calcolare le diverse voci che determinano il flusso di cassa operativo disponibile. Si mostra come una riduzione dell’incidenza del costo del venduto (cv) porti a una riduzione dall’anno t all’anno t  1 del costo del venduto, nonostante si registri un significativo aumento dei ricavi di vendita. Inoltre, la riduzione del periodo di incasso (pi) comporta una riduzione dei crediti all’anno t  1, mentre un aumento del tasso di rotazione delle scorte (rs) rende ancora maggiore la riduzione del livello delle scorte già indotta dalla riduzione del costo del venduto. Si nota infine che nonostante aumenti il periodo di pagamento (pp), i debiti verso fornitori diminuiscono, a causa di una contemporanea riduzione del costo del venduto e del livello delle scorte.

10.7.2 Il calcolo del valore residuo Si è visto in precedenza come uno degli elementi peculiari del metodo del valore azionario sia rappresentato dal calcolo del cosiddetto “valore residuo”, ossia il valore della strategia al termine del periodo a previsione esplicita, ottenuto attraverso l’attualizzazione dei flussi di cassa che questa sarà in grado di generare nel periodo successivo. Il problema è che tale periodo, per ipotesi, è di durata illimitata, per cui sarebbe impossibile determinare i flussi di cassa utilizzando il modello sviluppato nel paragrafo precedente.

orizzonte temporale

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Value drivers NOPAT

Anno t

Tasso di crescita dei ricavi (gv) Incidenza del costo del venduto (cv) Incidenza degli altri costi operativi (so) Ammortamento (A) Aliquota d’imposta (T)

Anno t+1

5%

10%

50%

40%

30% 650 50%

25% 650 50%

Capitale Circolante Netto 60

50

6

9

50

60

Investimenti Flusso per investimento (I)

100

0

Parametri Ricavi di vendita anno t-1 (Vt-1) Crediti iniziali (CRIt) Scorte iniziali (SC) Debiti iniziali (DFIt)

10 000 1650 850 685

1726 875 879

Periodo di incasso (pi) Tasso di rotazione delle scorte (rs) Periodo di pagamento (pp)

Figura 10.8 Esempio di calcolo del flusso di cassa operativo disponibile.

Flusso di cassa operativo disponibile

Anno t Anno t+1

Ricavi di vendita

10 500

10%

5250 3150 650

4620 2887,5 650

1450

3392,5

– Costo del venduto – Costi operativi – Ammortamenti = Reddito oper. ante imp.

– Imposte d’esercizio

725 1696,25

= NOPAT

725 1696,25

+ Ammortamenti

650

650

76 25 38

–144 –362 –179

100

0

2037

4369

– Variazione dei crediti – Variazione delle scorte + Variazione del debito

– Investimenti

= Flusso di cassa operativo disponibile

In realtà, come già visto, il periodo continuo dovrebbe essere caratterizzato dalla stabilità del cambiamento, per cui vi sarebbe la possibilità di esprimere la performance di un certo esercizio come funzione semplice di quella dell’esercizio precedente. In queste circostanze, il valore residuo può essere calcolato ricorrendo a formulazioni semplificatrici. In particolare, facendo riferimento alla nota formula che esprime il valore attuale di una rendita perpetua che cresce all’infinito a un tasso costante, è possibile esprimere il valore residuo come: VRn =

FDCn+1 WACC − g′

[17]

dove: VRn FDCn1 g

 valore residuo dell’impresa al termine del periodo a previsione esplicita (anno n);  flusso di cassa operativo disponibile nel primo anno successivo al periodo a previsione esplicita (anno n  1);  tasso di crescita annuale costante previsto del flusso di cassa operativo disponibile a partire dall’anno n  1.

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

In realtà, è possibile che alla fine del periodo a previsione esplicita il flusso di cassa disponibile non cresca, ipotizzando che il rendimento di una strategia si allinei nel lungo periodo con il costo del capitale. È dunque possibile esprimere la [17] nel modo seguente: VRn =

FDCn +1 WACC

[18]

Quest’approccio è severo perché ipotizza che da n in poi l’impresa faccia investimenti con un VAN uguale a zero. Il valore della strategia tenderebbe a essere sottovalutato, soprattutto quando il periodo di valutazione a previsione esplicita è stabilito, come si fa in pratica allo scopo di semplificare l’analisi, intorno a uno standard di cinque anni. Comunque, quando la valutazione avviene utilizzando flussi di cassa e tassi d’attualizzazione espressi a valori nominali, andrebbe considerato un tasso di crescita positivo anche nel caso in cui si ritenga che in n il rendimento marginale dell’investimento coincida con il costo del capitale. La formula da utilizzare sarebbe di nuovo la [17], g avrebbe un significato ristretto e dovrebbe rappresentare solo il tasso futuro atteso d’inflazione. Nel caso contrario avremo che in n il VAN atteso sarebbe uguale a zero (rendimento marginale uguale al costo del capitale) in termini nominali e minore di zero in quelli reali. Considerando un g che esprima solo il tasso futuro atteso d’inflazione avremo un VAN uguale a zero in termini reali.

10.7.3 Il costo del capitale Il tasso di attualizzazione a cui scontare i flussi di cassa operativi disponibili dovrebbe essere rappresentativo del costo opportunità del capitale complessivamente investito per la realizzazione della nuova strategia. Dovrebbe quindi tenere conto delle decisioni di finanziamento dell’impresa che non sono considerate nella determinazione del flusso di cassa, che, come si è visto in questo paragrafo, è indipendente dalla struttura finanziaria dell’impresa. È quindi necessario che gli effetti di quest’ultima siano compresi nella determinazione del tasso d’attualizzazione. La letteratura finanziaria ha dato risposta a tali esigenze proponendo come tasso di attualizzazione il costo medio ponderato del capitale (Weighted Average Cost of Capital, WACC), che è calcolato nel modo seguente: WACC = rD (1 − T )

D E + rE V V

dove: D E V rD rE T

     

valore di mercato del debito dell’impresa; valore di mercato capitale azionario; D  E  valore di mercato del capitale investito; costo del debito dell’impresa (D); costo del capitale azionario dell’impresa (E); aliquota d’imposta sul reddito della società.

[19]

Weighted Average Cost of Capital (WACC)

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Per calcolare il costo del capitale si seguiranno i tre passaggi successivi: 1. determinazione della struttura finanziaria obiettivo nel periodo di pianificazione, considerata come proxy della struttura finanziaria ottima (quella cioè che minimizza il WACC);31 2. individuazione del costo di ogni singola fonte di finanziamento; 3. calcolo del costo del capitale come media ponderata del costo delle singole voci di finanziamento.

Capital Asset Pricing Model (CAPM)

Il primo passo nella stima del WACC è la determinazione della struttura finanziaria della società di cui si sta valutando la strategia, poiché occorre definire i pesi relativi del debito (DV) e dell’equity (EV) che compaiono nella [20]. A tal fine è utile ragionare in termini di struttura finanziaria obiettivo perché solo in questi termini si può pensare di rispettare l’ipotesi alla base del WACC: un rapporto d’indebitamento costante a valore di mercato in tutti gli anni della valutazione. Relativamente al costo del capitale azionario (rE), bisogna precisare che non esiste alcun accordo esplicito sulla sua remunerazione tra società e azionisti. Tuttavia, l’impresa deve assicurare agli azionisti un tasso di rendimento tale da non indurli alla vendita delle azioni possedute. Nel valutare tale componente del costo del capitale, è utile dunque partire dall’idea che l’investitore debba essere remunerato per il maggiore rischio che assume scegliendo di acquistare le azioni della società piuttosto che rivolgersi ad altre forme d’investimento più garantite. Per questa ragione, nella stima del costo del capitale azionario, si dovrà aggiungere un premio per il rischio al tasso garantito da un investimento privo di rischio (risk-free). Per determinare rE è possibile ricorrere al modello del Capital Asset Pricing Model (CAPM),32 secondo cui: rE  rf  bE (rm  rf)

[20]

dove: rE   rf rm  rm  r f  bE 

tasso di rendimento atteso sul capitale azionario dell’impresa; tasso di rendimento dell’attività priva di rischio; tasso di rendimento atteso del portafoglio di mercato; premio al rischio del portafoglio di mercato; beta delle azioni della società.

Secondo il modello del CAPM, dunque, i tre fattori fondamentali ai fini della stima del costo del capitale di rischio della società sono: 1. il tasso di interesse privo di rischio (rf); 2. il rendimento atteso del mercato (rm); 3. il beta delle azioni (b).

31

Si assume che nel lungo periodo l’impresa scelga una struttura finanziaria obiettivo che sia in grado di minimizzar il costo del capitale. È pertanto tale struttura finanziaria, e non quella corrente, che dovrebbe essere considerata ai fini della valutazione. 32 Per approfondimenti sul modello e sulle sue assunzioni si rimanda a: Sharpe W.F. (1964); Lintner J. (1965).

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

Nella pratica valutativa per stimare il tasso di rendimento privo di rischio si fa riferimento al rendimento dei titoli di stato. In Italia, una prassi diffusa prevede l’utilizzo del rendimento alla scadenza dei BTP a lungo termine (durata compresa fra i dieci e i trenta anni) al netto delle imposte.33 Una volta determinato il tasso di interesse risk-free, è possibile stimare il premio al rischio richiesto per l’investimento in titoli azionari o, alternativamente, il rendimento atteso del mercato dell’equity. Conoscendo l’uno, infatti, è possibile calcolare l’altro, sulla base della [20]. Esistono due metodi per effettuare previsioni sul premio al rischio: il primo, retrospettivo, lo stima come media dei valori storici riferiti a un periodo più o meno lungo di tempo; il secondo, prospettico, si basa sulle previsioni di crescita dei dividendi effettuate dagli analisti finanziari.34 La scelta del beta per la determinazione del costo del capitale azionario richiede molta attenzione. Se infatti la strategia valutata è in linea con l’attività normalmente svolta dall’impresa, è possibile utilizzare senza problemi il beta delle azioni della società in questione. È tuttavia probabile che una nuova strategia presenti caratteri innovativi, richiedendo il lancio di nuovi prodotti, l’entrata in nuovi mercati, il ricorso a nuove tecnologie e così via. In questo caso non sarebbe più possibile far riferimento al beta della società, perché è evidente che la nuova strategia potrebbe presentare una rischiosità maggiore, o comunque diversa, rispetto all’attività normale dell’impresa. Sarebbe invece necessario utilizzare il beta di una o più società quotate che svolgano un’attività simile dal punto di vista della rischiosità a quella prevista dalla strategia in esame. Per quanto riguarda la misura del costo dell’indebitamento (rD), sarebbe nuovamente necessario ricorrere ai dati di mercato. In particolare, occorrerebbe calcolare un beta specifico per il debito dell’impresa. Tuttavia, a causa del ridotto sviluppo del mercato del debito societario, è molto difficile determinare questa misura. La soluzione alternativa consiste nel far riferimento ai dati sul costo del debito per l’impresa, stabilito contrattualmente in relazione a ciascuna delle diverse fonti di capitale di credito utilizzate. Il costo del debito può dunque essere approssimato calcolando la media ponderata di tutti i tassi di remunerazione delle fonti di finanziamento che non fanno parte per loro natura del capitale netto. È bene precisare che i debiti che devono essere considerati sono solo quelli di natura finanziaria (a breve e a lungo).

10.7.4 L’analisi di sensibilità Si è già sottolineato nel corso di questo capitolo che la valutazione finanziaria conduce a valori soggettivi che sono il frutto di una stima e che è comunque necessario utilizzare strumenti di controllo al fine di testare la credibilità delle assunzioni che ne sono alla base. Uno degli strumenti maggiormente utilizzati è l’analisi di sensibilità, che ha lo scopo di verificare come varia il risultato finale

33

Occorre rilevare, tuttavia, che data l’elevata differenza (spread) registrata nell’ultimo anno tra il rendimento del BTP e il rendimento del Bund emesso dal governo tedesco, un approccio sempre più diffuso è quello di considerare quest’ultimo (e non il BTP) come tasso privo di rischio anche se l’azienda opera in Italia. 34 Per eventuali approfondimenti sui metodi di stima del premio al rischio si veda: Damodaran A. (2015).

377

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Figura 10.9 Analisi di sensibilità (nelle caselle è riportato il valore della strategia).

della valutazione al variare di una o più variabili utilizzate. L’analisi di sensibilità può essere effettuata in due modi, verificando: 1. la variazione del valore stimato della strategia a fronte di una variazione data del valore di singole variabili prese isolatamente; 2. l’effetto sul valore stimato della strategia di una variazione congiunta di diverse variabili e scenari. In questo ultimo caso si rende necessaria la matrice illustrata in Figura 10.9. Nell’esempio considerato su un asse è riportata la possibile variazione del tasso di crescita annuale delle vendite ipotizzato gv ( 1%), sull’altro asse la possibile variazione del WACC stimato ( 0,2%). Nelle caselle della matrice è calcolato il valore della strategia sulla base dei nuovi valori delle due variabili. Nella casella centrale grigia, i due value drivers non variano, per cui il valore della strategia è pari al valore stimato (180). Nelle caselle azzurre si ha il nuovo valore della strategia al variare di una sola delle due variabili considerate. Nella casella più scura si ha il valore massimo della strategia (195), ottenuto quando il WACC si riduce di 0,2 punti percentuali e gv cresce di 1 punto percentuale, mentre nella casella più chiara si ha il valore minimo (166), ottenuto invece quando il WACC aumenta di 0,2 punti percentuali e gv decresce di 1 punto percentuale. Se il valore massimo e minimo, o almeno uno dei due, non dovessero risultare credibili, significa che la valutazione non è sufficientemente robusta, e dunque occorre rivederne le assunzioni.

10.8 Metodi innovativi: le opzioni reali Sebbene i modelli tradizionali del valore azionario sembrino oggi interpretare in modo soddisfacente i meccanismi dei mercati finanziari attraverso una definizione sempre più precisa del tasso di attualizzazione dei flussi di cassa, risultano ancora carenti nel considerare adeguatamente nelle stime il valore delle opportunità future in presenza di incertezza. In effetti, quando si decide sulla base dell’attualizzazione dei flussi di cassa si esclude che il progetto possa subire variazioni in alcune delle dimensioni della struttura originariamente disegnata. Si assume inoltre che il management, abbandonando un’ottica strategica, si limiti a dare attuazione ai piani operativi previsti, anche qualora eventi inattesi rendano necessarie opportune modifiche. In realtà, i dirigenti d’azienda sono gestori di attività reali e di conseguenza sono in grado di rispondere ai cambiamenti di mercato quando se ne dovesse presentare la necessità. Risulta evidente che un progetto che consenta al manage-

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

ment di intraprendere nuove strade in un momento successivo alla sua adozione ha un valore intrinseco che i metodi tradizionali non sono in grado di cogliere. Si può quindi affermare che i progetti strategici incorporano opzioni reali, esercitabili dalla direzione aziendale nel momento più opportuno. In questa prospettiva, la strategia può essere interpretata come la gestione di un portafoglio di opzioni reali (Myers, 1984). L’esigenza di individuare e valutare queste opportunità è particolarmente evidente per quei progetti come investimenti in R&S, costi di pubblicità e altri progetti rilevanti che hanno un’importante valenza strategica e un forte impatto sulla posizione competitiva dell’impresa. Tali iniziative comportano spesso alti costi di investimento e ritorni diretti modesti e differiti nel tempo, per cui avrebbero presumibilmente un VAN negativo. L’uso di metodi basati sull’attualizzazione dei flussi di cassa porterebbe dunque le imprese a investire troppo poco in progetti rischiosi di espansione e di innovazione (Kogut e Kulatilaka, 1994). Partendo dall’intuizione della possibile analogia tra opportunità reali e opzioni finanziarie, si è sviluppata una nuova area di indagine che ha tentato di applicare metodologie già conosciute nel campo della finanza aziendale, in particolare la tecnica della Contingent Claim Analysis (CCA) (Mason e Merton, 1985) già sperimentata per il calcolo del valore delle opzioni finanziarie, per riuscire a determinare il valore delle opportunità future connesse a progetti strategici di investimento.35 Il modello valutativo che è emerso da tali considerazioni, definito VAN esteso (Extended NPV), formalizzato da Trigeorgis e Mason (1987), si basa sull’idea che il valore di un progetto strategico sia determinato da due componenti: il valore attuale dei flussi di cassa scontati (come avviene nel metodo tradizionale) e un premio per il valore delle opzioni reali incorporate nel progetto. Si ha dunque: VAN esteso  VAN base  OP

[21]

dove: VAN base  valore attuale netto del progetto in assenza di opportunità strategiche future; OP  valore delle opzioni reali connesse all’alternativa strategica. Questo metodo presenta innovazioni importanti rispetto ai metodi tradizionali, soprattutto in relazione al fattore incertezza. In questo caso, infatti, il rischio connesso all’imprevedibilità dell’evoluzione degli scenari futuri non è scontato solo attraverso opportune modifiche del tasso di attualizzazione, ma influenza il valore del progetto anche attraverso un maggiore premio per le opzioni future. Il rischio associato a un progetto potrebbe diventare in quest’ottica una delle migliori ragioni per adottarlo e non per rifiutarlo. È quindi fondamentale per il management comprendere in quale modo l’impresa possa creare queste opportunità di investimento, come evidenziato da Dixit e Pindyck (1995) in un noto articolo: «tale consapevolezza aiuterà (i manager) a concepire meglio le strategie competitive a lungo termine, a determinare in che modo focalizzare e dirigere la funzione di ricerca e sviluppo, quanto offrire per diritti minerari, quando consolidare le proprie posizioni competitive».

35

I primi contributi in tal senso sono stati: Myers S. (1977); Kester S.W.C. (1984).

379

I progetti strategici incorporano opzioni reali, esercitabili dalla direzione aziendale nel momento più opportuno.

VAN esteso

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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10.8.1 Le opzioni reali e le opzioni finanziarie Il metodo di valutazione delle opzioni reali si fonda sull’analogia tra opzioni reali e finanziarie, quindi sulla possibilità di utilizzare le tecniche della CCA, già sperimentate nel campo delle opzioni finanziarie, per quantificare il valore delle opzioni reali. Sarà pertanto necessario analizzare i termini della corrispondenza tra opzioni reali e finanziarie. A tal fine occorre svolgere un’analisi preliminare delle caratteristiche fondamentali delle opzioni finanziarie. Esistono due tipi fondamentali di opzioni finanziarie trattate sui mercati organizzati: call e put. Un’opzione call dà al suo possessore il diritto di comprare una determinata attività sottostante (underlying asset) entro o a una certa data (maturity) a un prezzo prefissato (prezzo d’esercizio o strike price). Un’opzione put dà invece al suo possessore il diritto di vendere l’attività a un prezzo prefissato entro o a una certa data.36 In ogni momento è possibile definire il tempo mancante fino alla scadenza dell’opzione come time to maturity. Alla scadenza, il valore teorico dell’opzione dipende dalla differenza tra il prezzo di esercizio e il prezzo corrente dell’attività sottostante. Nel caso di una opzione call su un’azione, se alla scadenza il prezzo dell’azione è maggiore del prezzo di esercizio, l’opzione è in the money e il suo valore è dato dalla differenza tra prezzo dell’azione e prezzo di esercizio; in caso contrario l’opzione si dice out of the money e il suo valore è 0. Nel caso di un’opzione put su azione, questa è in the money se alla scadenza il prezzo corrente dell’azione sottostante è minore del prezzo di esercizio, out of the money nel caso opposto. Osservate queste prime caratteristiche fondamentali delle opzioni finanziarie, è ora possibile tentare di coglierne le analogie con le opzioni sulle attività reali. Il punto di partenza nell’individuare i termini di tale analogia può essere la definizione di opzione reale data da Trigeorgis (1996); secondo l’autore, «il detentore di un’opportunità discrezionale di investimento ha il diritto – ma non l’obbligo – di acquistare il valore attuale di flussi di cassa attesi effettuando una spesa di investimento prima o alla data in cui l’opportunità di investimento cesserà di esistere». La corrispondenza tra un’opzione call e un’opzione reale di investimento è allora illustrata in Tabella 10.4.

opzione call opzione put

in the money out of the money

Tabella 10.4

Corrispondenza tra un’opzione call su azione e un’opzione reale su un progetto d’investimento

Opzione call su azione

Opzione reale sul valore di un progetto

Prezzo corrente dell’azione

Valore attuale dei flussi di cassa (al lordo del flusso di investimenti) Valore attuale del flusso di investimenti Tempo fino alla scomparsa dell’opportunità di investimento Volatilità del valore attuale dei flussi di cassa (deviazione standard della variazione del valore attuale) Tasso di interesse privo di rischi

Prezzo d’esercizio Time to maturity Volatilità del prezzo dell’azione (deviazione standard del rendimento) Tasso di interesse privo di rischi Fonte: adattato da Trigeorgis L. (1996).

36

Un’altra distinzione è tra opzioni europee, che consentono di esercitare il diritto sottostante solo a una determinata scadenza, e opzioni americane, il cui possessore invece può esercitare il suo diritto in tutto il periodo di tempo anteriore a una certa data.

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

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Nel caso di un’opzione reale l’attività sottostante è rappresentata dal valore attuale dei flussi di cassa che l’impresa otterrebbe se esercitasse l’opzione, avviando un nuovo progetto. Il valore attuale di tutti i flussi di investimento legati al nuovo progetto rappresenta il prezzo d’esercizio,37 mentre il tempo mancante fino alla scomparsa dell’opportunità di investimento costituisce il time to maturity. La volatilità del valore attuale dei flussi di cassa corrisponde alla volatilità del prezzo dell’attività sottostante di un’opzione finanziaria. L’analogia appena descritta permette di applicare alla valutazione delle opzioni reali le tecniche di valutazione delle opzioni finanziarie. Tali modelli si basano sull’idea che in mercati efficienti è sempre possibile creare un portafoglio in grado di replicare esattamente i rendimenti dell’opzione in qualsiasi scenario futuro, acquistando una data quantità N del titolo sottostante (underlying asset) e prendendo in prestito, al tasso di interesse privo di rischio, una data somma B (Hull, 2000). Se questo è vero, è possibile effettuare la valutazione in un mondo neutrale al rischio (risk-neutral) in cui i flussi assicurati da ciascuna attività finanziaria possono essere scontati al tasso di interesse privo di rischio.

10.8.2 I diversi tipi di opzioni reali Ai fini della loro identificazione e successiva valutazione, è utile distinguere differenti tipologie di opzioni reali. Sul piano concettuale è possibile ricomprendere le opzioni incorporate in un progetto strategico all’interno della seguente tassonomia (si veda anche Oriani, 2004): • • • • • • •

opzioni opzioni opzioni opzioni opzioni opzioni opzioni

di di di di di di di

differimento; espansione; lancio; contrazione; abbandono; conversione; sospensione temporanea.

Una prima descrizione dei diversi tipi di opzioni reali, unitamente ad alcuni esempi a essi relativi, è riportata in Tabella 10.5. L’opzione di differimento (Option to Defer) attiene alla decisione sul momento in cui effettuare l’investimento. Tale opportunità può derivare, per esempio, da diritti sullo sfruttamento di risorse minerarie o petrolifere, da brevetti per nuovi prodotti o processi e in generale da qualsiasi situazione nella quale si ritiene che l’implementazione di un progetto possa essere procrastinata nel tempo senza per questo minarne la fattibilità tecnica ed economica. Chiaramente queste opportunità hanno un valore solo se ci si aspetta che nel futuro possa verificarsi un qualsiasi evento (aumento dei prezzi, riduzione dei costi di produzione) che possa far aumentare il valore attuale del progetto.38

37

Nel prossimo paragrafo si vedrà che la definizione del prezzo di esercizio può comunque cambiare per i diversi tipi di opzioni reali. 38 Gli aspetti di valutazione quantitativa relativi a questa opzione sono stati approfonditamente esaminati da: McDonald R., Siegel D. (1986); Paddock J., Siegel D., Smith J. (1988).

differimento

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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Tabella 10.5 Opzione

Descrizione ed esempi dei diversi tipi di opzioni reali Descrizione

Esempio

Differimento La realizzazione di un progetto può essere differita, senza che la sua fattibilità tecnica ed economica sia pregiudicata.

Espansione

Un progetto offre la possibilità di aumentare la scala in un momento successivo.

Lancio

Un progetto offre la possibilità di avviare un nuovo progetto in futuro.

Contrazione L’investimento originariamente previsto per la realizzazione di un progetto può essere ridotto, attraverso una sua parziale dismissione. Abbandono Il progetto prevede la possibilità di abbandono da parte dell’impresa, con un valore di recupero, o comunque a costo nullo. Conversione Un progetto può essere realizzato secondo diverse modalità. Il management può scegliere quella più conveniente alla luce delle condizioni ambientali. Sospensione Le attività relative a un progetto possono essere sospese per un dato periodo di tempo se in questo periodo i flussi di cassa operativi in uscita risultassero superiori ai flussi di cassa operativi in entrata. espansione

contrazione

BP ha accumulato in presenza di elevata incertezza del prezzo del petrolio licenze per lo sfruttamento di giacimenti petroliferi nel Mare del Nord, che sono utilizzate solo quando il prezzo del petrolio supera una certa soglia. Una joint-venture costituita con una partecipazione minoritaria per lanciare un prodotto in un nuovo mercato consente all’impresa di acquisire una partecipazione di maggioranza in un momento successivo. Una società Internet che gestisce un sito B2C ha la possibilità di attivare un sito di commercio elettronico se la comunità di utenti raggiunge una certa dimensione. Un’impresa ha la possibilità di ridurre la propria quota di partecipazione in una joint-venture creata per la realizzazione di un nuovo prodotto. La Compaq ha ceduto Altavista come unità di business indipendente. Una società elettrica costruisce una centrale che può essere alimentata sia a carbone sia a gas, così da poter scegliere in ogni momento la fonte meno onerosa. Le attività di estrazione di una miniera possono essere sospese quando il prezzo del minerale estratto non è sufficiente a coprire i costi variabili per la gestione delle attività.

L’opzione di espansione (Growth Option) riguarda la possibilità di aumentare la scala dimensionale di un progetto.39 Potrebbe infatti essere conveniente effettuare investimenti aggiuntivi in momenti successivi (sempre nell’ambito di uno stesso progetto) se, per esempio, il prodotto fosse ricevuto dal mercato in modo migliore rispetto alle aspettative. Se un progetto presenta la suddetta flessibilità contiene un’opzione reale di espansione che ha un valore aggiuntivo per l’impresa. L’opzione di contrazione (Option to Contract) si riferisce a una fattispecie dello stesso tipo, ma di segno opposto, rispetto all’opzione di espansione. Il management può prendere la decisione di ridimensionare la scala di un progetto, secondo modalità tecniche e operative prestabilite, a seguito, per esempio, del fallimento parziale del lancio di un prodotto. Tale decisione permetterebbe all’impresa di sostenere un investimento minore di quello inizialmente previsto. Potrebbe infatti essere accaduto che l’impresa ha installato una capacità produttiva eccessiva rispetto alle concrete esigenze di mercato, la quale, se recuperabile, potrebbe essere ceduta.

39

Si veda per approfondimenti sull’opzione di espansione: Kester S.W.C. (1984).

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

L’opzione di lancio (Launch Option) si ha quando un progetto strategico consente di avviare un nuovo progetto (discrezionale) in futuro, che non sarebbe stato altrimenti possibile.40 Si tratta di un’opzione che è possibile osservare in molte situazioni della gestione aziendale: lancio di un prodotto in un nuovo mercato che consente, in caso di successo, di svilupparne nuove versioni in futuro; progetto di R&S che, grazie alla conoscenza generata, consente di avviare nuovi progetti di R&S; costituzione di una joint-venture per l’entrata in un nuovo mercato che consente in futuro di realizzare stabilimenti produttivi nel Paese estero. In presenza di un’opzione di abbandono (Abandonment Option) l’impresa ha la possibilità di cedere l’intero progetto.41 Il valore di questa opzione nasce dalla possibilità che il valore attuale dei flussi di cassa del progetto possa discendere al di sotto del suo eventuale valore di dismissione, nel qual caso converrebbe cedere il progetto. Tale opzione potrebbe però presentarsi anche nel caso in cui il progetto non possa essere ceduto. Infatti, potrebbe configurarsi come possibilità di abbandonare l’esecuzione di un progetto nel caso in cui il valore attuale dei flussi di cassa diventi negativo. L’opzione di conversione (Switch Option) riguarda la possibilità di sfruttare in modo differente le ricadute di un progetto interrotto.42 Questa opzione vale soprattutto nelle fasi iniziali di progetti di R&S in cui la fisionomia del prodotto finale è ancora abbastanza sfumata e gli sforzi di ricerca potrebbero essere orientati verso soluzioni differenti. Tale opzione potrebbe allora quantificare, almeno in parte, il valore delle conoscenze acquisite nello svolgimento del programma di ricerca considerato. L’opzione di sospensione temporanea (Option to Temporarily Shut Down) si ricollega alla possibilità di sospendere un determinato progetto per un periodo di tempo determinato (Moel e Tufano, 2002). Il management, per esempio, può prevedere che, a causa delle particolari condizioni di mercato, per un determinato periodo i ricavi derivanti dalla vendita di un prodotto non coprano adeguatamente i suoi costi variabili. Se le previsioni per gli anni successivi sono migliori, l’opportunità di sospendere temporaneamente il progetto acquista un valore per l’impresa.

383

lancio

conversione

sospensione temporanea

10.9 L’allineamento degli interessi di proprietà e management: i problemi di corporate governance Fin qui abbiamo assunto che il management dell’impresa abbia l’obiettivo di massimizzare il valore azionario nell’interesse di tutti i portatori di capitale azionario. Ma è davvero così? Possono gli interessi di proprietari e manager essere in conflitto? Se sì, quali strumenti possono essere adottati per risolvere il problema? L’origine del potenziale conflitto di interessi tra gli azionisti e il management risiede principalmente nell’asimmetria informativa che caratterizza la relazione

40

Per la definizione e un caso di valutazione di un’opzione di lancio si veda Lint O., Pennings E. (2001). 41 Il riferimento teorico per l’opzione di abbandono è: Majd S., Myers S.C. (1990). Il valore dell’opzione di abbandono è stato testato empiricamente da: Berger P.G., Ofek E., Swary I. (1996). 42 Modelli per la valutazione di un’opzione di scambio con riferimento alle opzioni finanziarie sono stati definiti da: Margrabe W. (1978); Carr P. (1988).

L’origine del potenziale conflitto di interessi tra gli azionisti e il management risiede principalmente nell’asimmetria informativa che caratterizza la relazione tra tali categorie di soggetti.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Esperienza

La valutazione di un impianto chimico attraverso il metodo delle opzioni reali* Come si è detto nel Paragrafo 10.8, al fine di valutare le opzioni reali occorre adottare i metodi di valutazione sviluppati per le opzioni finanziarie. Alcuni di questi si basano sul noto modello di Black e Scholes (1973) che suppone che l’attività sottostante vari nel continuo.** Altri autori hanno supposto che il prezzo dell’attività sottostante vari nel tempo secondo un processo discreto. Per esempio, il modello binomiale, formalizzato da Cox, Ross e Rubinstein (1979) si caratterizza per l’ipotesi che i movimenti di prezzo seguano un processo moltiplicativo binomiale, in cui S può crescere con probabilità p di un fattore moltiplicativo u e può decrescere con probabilità 1  p di un fattore d  1u. Questo metodo oggi tende a essere preferito per la valutazione delle opzioni reali data la sua maggiore semplicità e la sua più realistica corrispondenza all’investimento considerato. Applicando il metodo binomiale, per ogni periodo è possibile calcolare il valore della call al momento iniziale procedendo a ritroso. Quindi, il valore di C, data l’assunzione di neutralità al rischio, dovrebbe essere espresso come segue: C=

pCu + (1 − p )Cd 1 + rf

Cu  max [uS  E, 0]  valore della call con prezzo di esercizio E nel caso in cui il prezzo dell’azione aumenti Cd  max [dS  E, 0]  valore della call con prezzo di esercizio E nel caso in cui il prezzo dell’azione diminuisca Tuttavia, poiché la valutazione delle opzioni avviene in un mondo neutrale al rischio, nessuna attività può offrire un rendimento superiore a quello di un’attività privo di rischio (rf). Pertanto, alla fine del periodo dovremmo avere: S (1  rf)  pSu  (1  p) Sd In base a tale formula, è possibile esprimere p, che definiamo probabilità risk-neutral, in funzione di rf, d e u: p=

(1 − rf ) − d u −d

Un interessante esempio di applicazione del metodo binomiale alla valutazione di un investimento strategico è presentato da Copeland e Tufano (2004). Qui se ne presenta una versione semplificata. Un’impresa chimica sta valutando la convenienza di costruire un impianto per un nuovo processo per la produzione di una commodity. Il costo di sviluppo ancora da sostenere è pari a 10 dollari, che dovrebbero essere investiti immediatamente. Dopo un anno, l’impresa dovrebbe spendere ulteriori 400 dollari per la progettazione dell’impianto. * Adattato da Copeland T.E., Tufano P. (2004). ** Si rimanda a Black F., Scholes M. (1973).

Quando la proprietà azionaria è frazionata tra una molteplicità di azionisti, si ingenera un problema di free-riding.

tra tali categorie di soggetti. Gli azionisti, infatti, possono non avere le competenze tecniche per valutare adeguatamente il lavoro svolto dal management e dunque giudicarne la rispondenza all’obiettivo della massimizzazione del valore aziendale. Inoltre, quando la proprietà azionaria è frazionata tra una molteplicità di azionisti,

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

1440 Cuu = Max (1440 – 800; 0) = 640 Si investe

1200

Cu = Max (423 – 400; 0) = 23 Si investe

1000

C = Max (12 – 10; 0) = 2 Si investe

833

1000

Cud = Cdu = Max (1000 – 800; 0) = 200 Si investe

694 Cd = Max (104 – 400; 0) = 0 Non si investe Cdd = Max (694 – 800; 0) = 0 Non si investe 0

1

2

Al termine di questa fase, che dura un anno, l’impresa deve decidere se costruire l’impianto sostenendo un investimento di 800 dollari. Si stima che se l’impianto fosse operativo oggi, produrrebbe flussi di cassa operativi attesi con un valore attuale pari a 1000 dollari. Si assume, tuttavia, che questo valore si modifichi nel tempo, a causa delle variazioni del prezzo della commodity, secondo un processo binomiale, i cui parametri sono u  1,20 e d  0,833. Il tasso di interesse privo di rischio è rf  3%. Il valore attuale dei flussi di cassa assume quindi nel tempo i valori indicati in figura. L’impresa ha, dunque, l’opzione di attendere prima di investire nel nuovo impianto (opzione di differimento). L’opzione sarà eventualmente esercitata all’anno 2, ma per mantenerla aperta bisogna investire anche negli anni precedenti. In particolare, a ogni anno l’impresa continuerà a investire se il valore dell’opzione è maggiore dell’investimento richiesto. Per valutare l’opzione occorre di nuovo procedere da destra verso sinistra. All’anno 2, l’opzione è esercitata se il valore attuale dei flussi di cassa è superiore all’investimento richiesto di 800 dollari per la costruzione dell’impianto. Nella figura in alto, il valore dell’opzione è calcolato per ciascuno dei rami all’anno 2. Nel casso di Cdd, l’impresa non investe poiché il valore attuale dei flussi di cassa (694) è inferiore al costo dell’impianto. Negli altri due casi (Cuu e Cdu), l’opzione sarà esercitata dato che il valore dell’attività sottostante (rispettivamente 1440 e 1000) è superiore all’investimento richiesto. All’anno 1, l’impresa investirà 400 dollari se il valore dell’opzione da mantenere aperta è superiore. Il valore dell’opzione all’anno 1 per entrambi i nodi (Cu e Cd) è calcolato facendo riferimento alla formula riportata in questo quadro. Nel caso di Cu, il valore dell’opzione (423) è superiore al costo di progettazione, mentre nel caso di Cd il valore (104) è inferiore. In quest’ultimo caso, quindi, l’impresa non investe. Come ultimo passo, si calcola il valore dell’opzione all’anno 0 utilizzando nuovamente la formula descritta. Si ottiene un valore di 12 dollari, che è superiore all’investimento di sviluppo richiesto (10 dollari). Il progetto ha dunque un valore positivo (12  10  2 dollari).

si ingenera un problema di free-riding: ciascun azionista non ha l’incentivo a svolgere un’attività di monitoraggio nei confronti del management, in quanto dovrebbe sostenerne per intero i costi (si pensi al tempo necessario per raccogliere e analizzare la documentazione, la necessità di nominare consulenti), a fronte di

385

386

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

meccanismi di governance

un beneficio, quello dell’incremento del valore aziendale, che è invece condiviso con gli altri azionisti dell’impresa. D’altra parte, il management può sfruttare tale situazione di asimmetria informativa per adottare comportamenti volti alla massimizzazione della propria utilità personale, piuttosto che del valore aziendale. Si pensi, a titolo di esempio, all’acquisto di beni non necessari che, pur gratificando il manager, non contribuiscono alla creazione di valore aziendale (uffici sontuosi, aerei privati a uso dell’amministratore delegato ecc.). Oppure all’adozione di scelte non efficienti, per esempio quella di non licenziare personale non più necessario, allo scopo di evitare il costo psicologico di tali decisioni. Si pone dunque il problema di predisporre meccanismi che possano contribuire, se non a eliminare, quantomeno ad attenuare il conflitto di interessi tra gli azionisti e il management dell’impresa. Tra questi figurano meccanismi di governance volti a favorire un controllo diretto dell’operato del management. In tal senso può essere, per esempio, interpretata la presenza nei Consigli di Amministrazione dei consiglieri indipendenti, vale a dire soggetti dotati di un’elevata reputazione che dovrebbero, grazie alla loro posizione di indipendenza, vigilare sulla correttezza dell’operato del management, con riferimento in particolare alla tutela delle minoranze;43 oppure di investitori istituzionali, per esempio i rappresentanti di fondi di investimento, i quali, combinando la competenza tecnica di operatori professionali con l’interesse specifico rappresentato dalla partecipazione al capitale azionario dell’impresa, dovrebbero costituire un significativo stimolo per il management aziendale al perseguimento dell’obiettivo della creazione di valore. Accanto a tali meccanismi, che si prefigurano quindi come forme di controllo dell’operato del management, si sono affermate forme di incentivazione basate sulla condivisione del valore aziendale creato. Tali meccanismi possono fondarsi su parametri contabili di performance aziendale, per esempio il ROI, l’EBITDA o l’EVA. In tal caso, il meccanismo di incentivazione prevede l’assegnazione al management di bonus monetari commisurati al raggiungimento di certi livelli di risultato. Il ricorso a parametri di natura contabile comporta tuttavia dei limiti, legati da un lato alla manipolabilità di tali dati, per esempio attraverso opportune politiche di bilancio, e dall’altro a una correlazione non diretta tra tali parametri e la creazione di valore per gli azionisti dell’impresa. Per ovviare a questi limiti si è affermata, soprattutto in anni recenti e nell’ambito delle società quotate, la tendenza ad assegnare al management una certa quantità di strumenti finanziari emessi dall’impresa, così da correlare in modo diretto la ricchezza del management a quella degli azionisti e ridurre così il problema di agenzia. Tali strumenti finanziari sono rappresentati in molti casi dalle azioni della società, assegnate al management gratuitamente (piani di stock grant) ovvero a prezzi scontati rispetto a quelli di mercato (piani di stock purchase). Una particolare

43

Fama e Jensen individuano le due principali direttrici lungo le quali, nell’ottica di un’efficiente sistema di controlli interni, dovrebbe articolarsi l’attività manageriale: da un lato la funzione di decision management, necessaria a definire e implementare le decisioni di carattere operativo e strategico (Initiation e Implementation); dall’altro, la funzione di control management, che invece consiste nella ratifica e nel monitoraggio delle decisioni prese dal management esecutivo dell’impresa (Ratification e Monitoring). Si veda: Fama E.F., Jensen M. C., (1983).

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

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diffusione hanno poi avuto negli ultimi anni i piani di stock options, che consistono nell’assegnazione gratuita al management di diritti di opzione call su un certo numero di azioni della società. Tali opzioni sono caratterizzate, nella quasi generalità dei casi, da un prezzo di esercizio pari a quello delle azioni sottostanti alla data di assegnazione dei diritti, ovvero a una media di tale prezzo calcolata sui giorni immediatamente precedenti a quello di assegnazione; viene inoltre previsto che l’esercizio dei diritti di opzione possa avvenire soltanto dopo il decorso di un certo periodo di tempo dalla data di assegnazione (vesting period). Così, per esempio, se alla data di avvio del piano di stock options il prezzo delle azioni dell’impresa è pari a 15 euro, tale sarà anche il prezzo d’esercizio delle opzioni assegnate al management. Questo significa che affinché il management possa trarre vantaggio economico dall’assegnazione delle opzioni dovrà fare in modo che il prezzo delle azioni dell’impresa cresca al disopra di tale valore: se per ipotesi, decorso il periodo di vesting, il prezzo dell’azione sarà pari a 18 euro, allora il management avrà convenienza a esercitare le opzioni, realizzando un profitto di 3 euro per ogni opzione in suo possesso. Se invece il prezzo risultasse pari o inferiore al livello di 15 euro, allora l’esercizio non risulterebbe conveniente e il management non avrebbe conseguito alcun beneficio dall’assegnazione delle opzioni. Tale meccanismo è dunque particolarmente efficace nel focalizzare l’attività del management verso l’obiettivo dell’incremento dei prezzi delle azioni della società. D’altra parte, in alcuni casi i piani di stock options possono creare incentivi tali da spingere il management a realizzare politiche di gestione particolarmente aggressive, dunque a incrementare il rischio dell’impresa. Inoltre, un fenomeno strettamente correlato con la diffusione dei piani di stock options è quello della lievitazione dei compensi del management: nella quasi totalità dei casi, infatti, il valore delle stock options assegnate al management non è stato in alcun modo compensato da una corrispondente riduzione nell’ammontare della retribuzione per cassa, il che ha inevitabilmente portato a un incremento nel livello medio della retribuzione corrisposta al management.

Sintesi La funzione finanziaria, intesa come luogo delle competenze strumentali alla gestione dei rapporti dell’impresa con i mercati finanziari, svolge le seguenti attività: 1) supporto alle decisioni. Tale attività consiste nel fornire a tutte le aree aziendali il necessario supporto per la conversione dei dati economici collegati alle decisioni effettuate o da effettuare in parametri significativi che misurino la creazione o distruzione di valore per gli azionisti dell’impresa. I metodi utilizzati a tale scopo sono soprattutto quelli basati sui flussi di cassa attualizzati, come il VAN; 2) attività legate alla struttura del capitale. Hanno principalmente l’obiettivo di individuare un rapporto tra capitale di credito e capitale proprio che massimizzi il valore dell’impresa; 3) programmazione e controllo dei flussi finanziari. Uno dei compiti tradizionalmente affidati alla funzione finanziaria è quello della redazione e gestione dei piani finanziari dell’impresa. Questa attività si sostanzia di due fasi: la prima consiste nell’evidenziare le conseguenze prodotte sui flussi finanziari dalle scelte strategiche e operative programmate dalle altre aree aziendali, allo scopo di determinare il fabbisogno complessivo di capitale; la seconda fase consiste nella predisposizione degli interventi necessari a ottimizzare la gestione dei flussi finanziari; 4) gestione speculativa dei flussi finanziari dell’impresa. La disponibilità di risorse finanziarie, spesso ingenti, offre un’opportunità di realizzare profitti attraverso una gestione orientata a finalità speculative. La gestione finanziaria speculativa diventa un business collaterale, volto a sfruttare le imperfezioni dei mercati e dei sistemi d’imposizione fiscale per conseguire margini di profitto. Le metodologie finanziarie consentono anche di attribuire un valore economico alle alternative strategiche a disposizione delle imprese a livello di corporate (per esempio,

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

fusioni e acquisizione) e di business (per esempio, differenziazione di prodotto). La valutazione delle strategie d’impresa è guidata dall’obiettivo di creazione del valore, che richiede al management di massimizzare il valore di mercato del capitale netto dell’impresa. Nel capitolo sono stati analizzati due principali metodi per la determinazione del valore di una strategia: 1) metodo del valore azionario. Questo metodo determina il valore di una strategia in base all’incremento che si presume genererà nel valore di mercato del capitale netto dell’impresa. Tale metodo richiede di stimare i flussi di cassa operativi disponibili creati dalla startegia e di attualizzarli utilizzando il costo medio ponderato del capitale (WACC). Il metodo del valore azionario consente di trasformare considerazioni di natura strategica sul potenziale vantaggio competitivo in parametri economico-finanziari (i cosiddetti value driver) necessari alla stima dei flussi di cassa operativi disponibli e del WACC; 2) metodo delle opzioni reali. Il metodo delle opzioni reali riconosce che i progetti strategici possono incorporare alcune forme di flessibilità che, sulla base dell’analogia con le opzioni finanziarie, possono essere definite opzioni reali, esercitabili dalla direzione aziendale nel momento più opportuno. Il modello valutativo che emege da tale considerazione, definito VAN esteso (Extended NPV), si basa sull’idea che il valore di un progetto strategico sia determinato da due componenti: il valore attuale dei flussi di cassa scontati (come avviene nel metodo tradizionale) e un premio per il valore delle opzioni reali incorporate nel progetto. Il capitolo descrive diversi tipi di opzioni reali che è possibile trovare in un progetto strategico (differimento, espansione, contrazione, lancio, abbandono, conversione, sospensione temporanea).

Domande ed esercizi ▫ b. tanto minore quanto maggiori sono t e il costo opportunità del capitale. c. insensibile a t e al costo opportunità del capitale. ▫

Domande di verifica 1. 2.

3. 4. 5. 6.

7. 8. 9.

Quale ruolo ha la funzione finanziaria nella gestione aziendale? Perché il Valore Attuale Netto (VAN) è il metodo teoricamente corretto per valutare i nuovi progetti di investimento? Che cos’è la struttura di capitale dell’impresa? Quale relazione esiste tra ciclo finanziario e Capitale Circolante Netto (CCN)? Come può la finanza aziendale operare a fini speculativi? Perché la valutazione di una strategia aziendale è differente rispetto alla valutazione di un progetto di investimento? Come possono essere utilizzati i multipli nella valutazione della strategia? Quale effetto può avere una strategia sul valore azionario? Quali sono i principali cambiamenti introdotti dal metodo delle opzioni reali nella valutazione della strategia?

Test a risposta multipla 1.

A parità di altre condizioni, una somma disponibile al tempo t ha un valore attuale: ▫ a. tanto maggiore quanto maggiori sono t e il costo opportunità del capitale.

2.

Il ROE di una società indebitata è maggiore del ROI. ▫ a. Sempre. ▫ b. Mai. ▫ c. Quando il costo del debito (rD) è maggiore del ROI. ▫ d. Quando il costo del debito (rD) è minore del ROI.

3.

L’obiettivo di creazione di valore impone ai manager di massimizzare: ▫ a. la ricchezza degli azionisti. ▫ b. la crescita dell’impresa. ▫ c. il costo del capitale.

4.

I flussi di cassa operativi disponibili rappresentano la liquidità disponibile per: ▫ a. gli azionisti. ▫ b. i creditori. ▫ c. tutti i portatori di capitale.

5.

Secondo il metodo del valore azionario, il valore economico di una strategia è uguale alla variazione del: ▫ a. valore contabile del patrimonio netto. ▫ b. valore di mercato del capitale netto. ▫ c. valore residuo.

Capitolo 10 La funzione finanziaria e la valutazione economica delle strategie

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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La gestione delle operations

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Maria Elena Nenni

Gli obiettivi del capitolo Il significato di questo capitolo è reso ancora più rilevante dall’osservazione che molti gruppi industriali stanno basando il proprio vantaggio competitivo proprio sulla ottimale e innovativa gestione delle operations. Gli obiettivi di questo capitolo sono quindi di analizzare le operations, tenendo conto delle sue dimensioni peculiari di sistema aperto, dinamico e in continua evoluzione. All’interno del capitolo sono presi in esame i principi teorici più importanti delle operations, sia per i beni sia per i servizi, nelle sue tre fasi di Configurazione, Pianificazione e Miglioramento. Dato il taglio del volume, si è poi ritenuto opportuno puntualizzare alcuni concetti economici che supportano l’operations manager nelle sue decisioni.

11.1 Introduzione Sono molti i gruppi industriali che negli ultimi decenni hanno fatto la loro fortuna proprio grazie a una revisione totale del loro modo di gestire le operations. Il gruppo spagnolo Zara ha esteso il suo impero in più di 50 Paesi, partendo da un piccolo negozio a La Coruña. Le sue parole d’ordine sono state: • • •

centralità del cliente; velocità di risposta al mercato; azzeramento delle scorte.

Gli abiti sono trattati alla stregua di prodotti alimentari altamente deperibili: devono arrivare sempre “freschi” nei negozi e le scorte devono essere minime. IKEA deve invece il suo vantaggio competitivo al drastico abbattimento dei costi, ottenuto grazie all’idea di vendere i prodotti in unità da assemblare (ciò che ha ridotto i costi di trasporto, imballaggio e immagazzinamento) e di organizzare il punto vendita come un magazzino, in cui i clienti possono prelevare da soli i prodotti (abbattendo così i costi di distribuzione). Obiettivo di questo primo paragrafo è di fornire una chiara ed esaustiva definizione di cosa sia l’operations management. L’ambito dell’operations management e il suo stesso scopo è ampio e non sempre perfettamente delineato, per questo motivo vogliamo curare molto attentamente tutte le definizioni e fornire tutti i distinguo che possono contribuire a chiarire in maniera definitiva e completa il quadro di riferimento.

L’operations management affronta una grande varietà di problemi all’interno di un’impresa, che vanno dalla ripianificazione della produzione in caso di guasto di una macchina, al dimensionamento della capacità produttiva, alla scelta di localizzazione delle facilities.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

11.1.1 Definizione e classificazione delle operations Procediamo step by step, cominciando dalla definizione del solo termine operations. Per chiarire il termine operations in maniera esaustiva ricorriamo a una definizione in tre punti. 1. Le operations hanno come obiettivo la produzione di beni e servizi: assemblare un’automobile o costruire un ponte sono operations; produrre un paio di scarpe di squisita manifattura italiana o cucinare un pasto in un ristorante sono operations. Anche servizi di consulenza o di ICT sono erogati grazie a delle operations. Infine le organizzazioni no-profit, come quelle pubbliche, ospedali, università, forniscono servizi alla comunità attraverso delle operations. 2. Tutte le aziende hanno una funzione operations perché tutte le organizzazioni producono beni o servizi o mix di uni e altri. 3. Le operations rappresentano quindi quell’insieme di attività che devono essere eseguite per trasformare gli input in output utilizzando un opportuno processo di trasformazione. Dall’ultimo punto della definizione impariamo che le operations sono un insieme di processi. Tutti i processi che all’interno di un’impresa sono strettamente riconducibili alla produzione di beni e servizi (manufacturing, acquisti ecc.) sono inclusi nelle operations. Altri tipi di processi governati invece da altre funzioni (Marketing, Risorse Umane ecc.) sono ugualmente cruciali per l’impresa, ma non sono capaci di produrre beni o servizi. Per esempio il processo di recruiting di nuovo personale è fondamentale per l’esistenza stessa dell’impresa, ma di per sé non è coinvolto nella produzione di beni e servizi e quindi non è un processo di operations. Concentriamoci ora sulle diverse tipologie di operations, prendendo in considerazione la classificazione sviluppata attraverso la matrice Volume Varietà di Hayes and Wheelwright (1984) (Figura 11.1).

Progetto

Grado di varietà

Job shop Batch Group Technology Flow shop Continuo

Figura 11.1 Matrice Volume Varietà. Fonte: adattata da Hayes and Wheelwright, 1984.

Volume

Capitolo 11 La gestione delle operations

In questa matrice sull’asse orizzontale è riportato il volume dei prodotti e dei servizi. Elevati volumi comportano un elevato grado di standardizzazione, sistematizzazione delle attività e tecnologia specializzata. Si persegue la massima efficienza e i costi unitari sono bassi. Se i volumi sono invece bassi, il personale è normalmente multitasking ed è chiamato a svolgere un’ampia gamma di compiti; d’altra parte le attività sono meno sistematizzate. Sull’asse verticale è invece riportata la varietà dei prodotti e dei servizi: grande varietà richiede ampia gamma di attività eterogenee, ampio ventaglio di competenze e tecnologie, maggiore complessità (più input e output da gestire) e maggiori costi. I processi, che vanno dal progetto al processo continuo, sono invece organizzati lungo la diagonale. Vediamo in dettaglio i singoli tipi di processi. •





Nel processo su progetto la personalizzazione del prodotto/servizio e il coinvolgimento dell’acquirente nella progettazione e realizzazione del prodotto toccano il livello più alto (varietà altissima, volumi estremamente bassi). Le principali caratteristiche sono che l’organizzazione del sistema produttivo ha un carattere transitorio e adopera risorse estremamente flessibili. Questo perché a causa dell’unicità del prodotto, non è possibile standardizzare i cicli produttivi. Il layout, ovvero l’organizzazione delle risorse produttive, viene detto “a posto fisso” perché le risorse vengono fatte convergere sul sito nel punto in cui avviene la fabbricazione del prodotto. Esempi classici sono i progetti di ingegneria civile, come la costruzione di ponti. Ma anche il lancio di un nuovo prodotto o una produzione cinematografica sono progetti. Il processo a piccoli lotti o job shop, ha caratteristiche che si discostano di poco dal progetto. Infatti anche in questo caso la differenziazione rimane elevata e le risorse sono generalmente molto esperte e flessibili (le risorse umane sono multiskill e le macchine e attrezzature vengono definite general purpose, proprio perché devono essere in grado di svolgere entrambe un’ampia gamma di attività). L’organizzazione del lavoro è però profondamentamente diversa. Infatti le risorse in questo caso vengono raggruppate in base alla similitudine delle skill che possiedono. Questo tipo di organizzazione è chiamata layout “per reparti”. Il tipico esempio è il ristorante self-service che si trova per esempio lungo le autostrade, in cui sono allestite delle “isole” in base alla tipologia di pietanza (primi, piatti freddi ecc.). Il cliente può essere visto come la “commessa” che gira da un’isola all’altra, dando vita così al suo personalissimo menu e tracciando in questa maniera il relativo ciclo di lavorazioni (sequenza di operazioni). I principali limiti di questa tipologia di organizzazione sono dati dai frequenti tempi persi per effettuare i cambi prodotti (tempi di set-up), dal livello di scorte che spesso viene generato a causa delle code che si creano per le inevitabili attese e infine dai costi di trasporto da un reparto o isola all’altro. Inoltre aumenta la complessità per riuscire a gestire un flusso di materiali e informazioni così variegato. Nei processi a grandi lotti o batch, il layout è generalmente per reparti come nel caso job-shop. La principale differenza sta nel fatto che i prodotti non vengono processati uno a uno, ma appunto in lotti uniformi (quantità fisse maggiori dell’unità). Tipici esempi di questo tipo di processo sono la produzione di mobili o di calzature e le copisterie. Ovviamente si perde in personalizzazione e varietà (le caratteristiche dei prodotti appartenenti a uno stesso lotto sono uguali), ma si guadagna in semplicità di gestione perché i flussi,

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volume

varietà

progetto

job shop

batch

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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flow shop o mass production



celle



Group Technology

processi continui



pur essendo intermittenti, seguono uno standard. Migliora quindi l’efficienza e la capacità di sfruttare le risorse. Si abbattono ovviamente i tempi persi dovuti al set-up (che non avviene più per ogni prodotto, ma dopo ogni lotto), si abbattono le code e quindi anche le scorte. I processi per linea a flusso teso (flow shop o mass production) sono tipici dell’industria di base (assemblaggio di automobili o elettrodomestici, trasporto pubblico). Il prodotto viene ottenuto da una sequenza fissa di lavorazioni che vengono svolte da stazioni di lavoro disposte lungo la sequenza del ciclo. Questo tipo di organizzazione si chiama appunto layout in linea e può essere ottenuto grazie a macchine specializzate sulle lavorazioni da eseguire su un singolo prodotto o su una famiglia ristretta di prodotti con caratteristiche molto simili. Questo tipo di organizzazione fa sì che ogni linea debba essere dedicata appunto al prodotto, quindi il ciclo produttivo è vincolato alla posizione delle stazioni di lavoro, non sono necessari set-up o comunque sono molto ridotti e il flusso è molto semplificato. A causa della rigidità del ciclo di lavorazione, la varietà di prodotti ottenibile è piuttosto limitata. In compenso però l’assenza di tempi di trasporto, la maggiore efficienza delle risorse, i ridotti tempi di set-up e la specializzazione delle risorse stesse permettono di abbattere notevolmente i tempi di produzione e di produrre conseguentemente alti volumi. Questo tipo di processo fu introdotto da Henry Ford che rese la produzione di automobili un processo produttivo ripetitivo e molto deterministico. A causa della ripetitività delle mansioni, questo è il tipo di processo in cui si riscontra anche un massiccio impiego di automazione, giustificato anche dall’alto volume prodotto, il cui fatturato è in grado di coprire gli investimenti. Il processo per celle, o a Group Technology, è a metà strada tra il batch e la linea. In una cella sono riunite tutte le risorse produttive in grado di compiere una sequenza finita o sensata di operazioni su una famiglia di prodotti. Questo corrisponde a segmentare il flusso produttivo in sottoinsiemi a cui sono dedicate risorse specifiche e che sono deputate a svolgere operazioni su specifici prodotti. All’interno della cella le risorse sono organizzate in modo tale che ogni singolo pezzo possa subire la lavorazione senza aspettare che sia stato completato il lotto. Nel processo a celle viene gestito un flusso produttivo composto da un singolo pezzo, one-piece-flow, così come richiesto dai sistemi avanzati di gestione della produzione (come la Lean Production). Il principale vantaggio di questo processo è quello di rappresentare un buon compromesso tra varietà ed efficienza e il suo orientamento a rendere più soddisfacente il lavoro delle risorse umane che lavorano con un team ristretto di colleghi e vedono il frutto del loro lavoro in maniera compiuta. I processi continui sono tipici dell’industria di base, come l’industria chimica, i cementifici e la produzione di energia elettrica. La caratteristica principale è che il prodotto è standard, quindi la diversificazione è bassissima e la possibilità da parte del cliente di incidere sulle caratteristiche del prodotto è nulla. Un processo produttivo è di tipo continuo se l’impianto nel quale il processo si svolge è concepito per fornire una sola varietà di prodotto e per svolgere un solo tipo di lavorazione per un periodo indeterminato. Nel processo produttivo in continuo il prodotto subisce delle trasformazioni fisicochimiche a causa delle lavorazioni, pertanto il prodotto finito non è identificabile con nessuno dei semilavorati e/o delle materie prime che concorrono alla sua realizzazione (per esempio, il petrolio). Questi processi sono altamente

Capitolo 11 La gestione delle operations

automatizzati (l’automazione è giustificata anche in questo caso dagli alti volumi) e con un impiego scarso di personale. Sono richiesti forti investimenti. L’organizzazione del lavoro è molto rigida con risorse estremamente dedicate. In genere è impossibile distinguere i diversi stadi delle lavorazioni e non esistono set-up né work in progress, però ci sono scorte di prodotti finiti perché questo tipo di processo lavora solo per magazzino. Si realizzano forti economie di scala sia sulle materie prime, che possono essere acquistate in larga scala, sia sui prodotti finiti. La manodopera, con tutta la sua complessità gestionale, è ridotta ai minimi livelli. Le risorse non sono flessibili, quindi in caso di contrazione della domanda di mercato l’azienda non può utilizzare diversamente i propri impianti e quindi perde moltissimo capitale. Come si può vedere nella matrice volume/varietà, tutti i processi produttivi sono posizionati sulla diagonale. Questo perché le due aree sopra e sotto la diagonale sono infattibili o antieconomiche. In particolare al di sotto della diagonale troverebbero posto solo processi che richiedono maggiori costi, mentre al di sopra della diagonale si perdono dei costi opportunità. Alcuni sforzi di mettere insieme i vantaggi di più processi contigui sono stati fatti dalle moderne metodologie di gestione delle operations, come la Lean Production. Un esempio ne è il processo per celle. In generale parliamo di mass customisation (Tseng e Jiao, 2001) quando cerchiamo di concepire la produzione dei beni, con il riconoscimento della centralità delle esigenze e dei desideri dei clienti, ma senza alcuna rinuncia all’efficienza, all’efficacia e al contenimento dei costi. La mass customisation è particolarmente efficace in tutti i settori fortemente assistiti dall’Information Technology. Per esempio i motori di ricerca su Internet, sfruttando una tecnologia agent-based, riescono a personalizzare il risultato in base alle caratteristiche peculiari dell’utente.

11.1.2 Ambiti di competenza del management delle operations All’interno dei processi di operations occorre fare un distinguo tra processi adibiti alla vera e propria creazione di beni ed erogazione di servizi, e i processi che invece si occupano più strettamente della gestione del flusso di materiali e informazioni (Figura 11.2). Tra questi i processi di logistica che, in base alla definizione dell’Associazione Italiana di Logistica (AILOG), è proprio “l’insieme delle attività organizzative, gestionali e strategiche che governano nell’azienda i flussi di materiali e delle relative informazioni dalle origini presso i fornitori fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti e al servizio post-vendita”. La gestione dei flussi materiali e informativi è in ogni caso indispensabile per la produzione di beni e servizi, ne consegue che la logistica, a pieno titolo, può essere ricompresa nell’ambito di competenza della gestione delle operations. Tuttavia il focus della logistica è più specificamente sul coordinamento delle attività e la sua mission è di raggiungere il pieno soddisfacimento delle esigenze del mercato: non solo consegnare il prodotto/servizio giusto, ma al momento giusto, al posto giusto, nelle condizioni giuste e al costo minimo. La logistica deve quindi essere vista come ciò che consente all’organizzazione di divenire un sistema aperto, in grado di interagire propriamente ed efficacemente con mercato e fornitori. Tra i processi di competenza della logistica annoveriamo: (i) i processi di approvvigionamento, che si occupano del reperimento delle materie prime, beni e

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Initial suppliers

Second layer of suppliers

First layer of suppliers

First layer of customers

...

Second layer of customers

Final customers

...

Procurement Manufacturing/ Retailing Providing/ Internal Logistic Logistic Supply Chain Figura 11.2 Processi di Operations Management, Logistica e Supply Chain Management.

servizi necessari al funzionamento dell’attività produttiva; (ii) i processi di logistica interna, che invece riguardano la movimentazione e distribuzione dei semilavorati all’interno dell’azienda; (iii) e i processi di distribuzione del prodotto finito fino al cliente finale. L’aspetto interessante e peculiare della logistica è che il suo influsso parte dall’azienda, ma arriva fino al cliente finale. Un esempio di questo è dato dall’attività di packaging che tiene conto già nel sito produttivo non solo delle esigenze del cliente diretto, ma anche delle specifiche di tutta la catena, fino al cliente finale. Quando la responsabilità dei processi non è più ripartita in maniera funzionale, in favore di un approccio trasversale e complessivo, si parla di logistica integrata. In questo caso tutti i processi sopra descritti risultano interdipendenti e fra loro correlati. L’affermazione di un approccio integrato alla logistica è fortemente favorito dallo sviluppo di nuove tecnologie, telecomunicazioni e trasporti, che forniscono all’organizzazione la possibilità di un controllo più esteso e interdisciplinare. Analogamente, quando i confini aziendali si allargano ulteriormente, fino a ricomprendere tutti i clienti e fornitori della catena logistica, con cui si stabiliscono collaborazioni strategiche, si arriva al concetto di Supply Chain Management (SCM).

11.1.3 Un modello per le operations management Dopo aver chiarito e classificato le operations, siamo pronti al passo successivo di enunciare la definizione di operations management. La più autorevole è dell’APICS (Advanced Productivity, Innovation and Competitive Success), Associazione di operations management:

Capitolo 11 La gestione delle operations

“il settore che si focalizza sull’efficace pianificazione, programmazione, esercizio e controllo di un’azienda manifatturiera o di servizi attraverso lo studio di concetti che appartengono alla progettazione, all’ingegneria industriale, ai sistemi informativi, alla gestione della qualità, alla produzione e scorte, alla contabilità e ad altre funzioni che operano all'interno dell’azienda.” (APICS Dictionary, XI edizione) Ci sono poi altre definizioni interessanti, tra le quali scegliamo di citare quella di Barnett (1996): “L’operations management si propone di impiegare nella maniera più efficiente possibile tutte le risorse in possesso di un’organizzazione per fornire ai propri clienti i prodotti finiti e i servizi di cui necessitano attraverso processi efficaci sia dal punto di vista dei tempi sia dei costi”. Da entrambe le definizioni emergono alcuni aspetti peculiari dell’operations management che meritano di essere approfonditi. •









Il processo di trasformazione è cruciale per l’operations management perché è quello che assicura la conversione di input e output e come tale assicura la creazione di valore. Di conseguenza il focus dell’operations management è concentrato tutto sulla progettazione, pianificazione e controllo del processo di trasformazione. Produrre beni o servizi non modifica il modo di fare operations management: aziende di servizi, come ospedali, hotel o università, fanno le stesse cose di un’azienda manifatturiera; prevedono la domanda, pianificano le attività, selezionano i fornitori, acquistano beni e servizi, gestiscono le scorte e assicurano la qualità. Oltretutto, la distinzione tra imprese che producono beni e imprese che producono servizi si sta sempre più assottigliando (per approfondimenti si veda il paragrafo dedicato alla Servitization). Tuttavia alcuni aspetti peculiari della produzione di servizi meritano di essere approfonditi e compresi appieno. A questo scopo è dedicato il Paragrafo 11.6. L’operations management affronta una grande varietà di problemi all’interno di un’impresa, che vanno dalla ripianificazione della produzione in caso di guasto di una macchina, al dimensionamento della capacità produttiva, alla scelta di localizzazione delle facilities. Tale ampia gamma di problemi richiede e chiama in causa una altrettanto ampia varietà di metodologie e competenze. L’operations management è un approccio sistematico: a dispetto delle diverse competenze e metodologie chiamate in causa, i problemi e le attività devono essere affrontati in un’ottica sistemica, che eviti una mera ottimizzazione locale ai danni di una globale ottimizzazione. L’operations management non è un sistema chiuso e isolato, ma lavora in un contesto, le cui caratteristiche ne influenzano pesantemente l’operato e i risultati. Così l’operations management è una funzione che deve interagire con tutte le altre funzioni aziendali. Il comportamento e la performance di ognuna ha impatto su tutte le altre e sulla performance aziendale nella sua globalità.

L’operations management è quindi un sottosistema di un’organizzazione più complessa. Ottimizzare, migliorare l’organizzazione significa ottimizzare e migliorare necessariamente i suoi sottosistemi, ma non vale il contrario, ovvero non è ottimizzando i singoli sottosistemi che si ottimizza automaticamente la

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

performance dell’intera azienda. Questo perché gli obiettivi dei sottosistemi possono essere in conflitto tra loro: per esempio l’operations management preferirebbe prodotti standardizzati per abbattere i costi (la Ford T non a caso veniva prodotta nell’unica variante di colore nero), ma il Marketing vuole invece prodotti customizzati per incrementare il market share. La funzione Finanza vuole giacenze basse (le scorte comportano costi), ma l’operations management invece le vuole alte per minimizzare le fermate e quindi le perdite. Ai tempi della costbased competition, il punto di vista dell’operations management risultava vincente, ma ora la competizione si gioca su troppi tavoli (per approfondimenti si veda il Paragrafo 11.5) e quindi la vera sfida è cambiare la gestione delle operations per rendere il suo obiettivo di minimo costo scontato e non interferente con gli altri, così da liberare nuove energie da dedicare a obiettivi sempre più alti. Questa è stata la sfida raccolta e vinta dai grandi gruppi industriali attualmente emergenti (Zara, Ikea ecc.). L’operations management cambia continuamente in risposta ai cambiamenti del mondo esterno. I cambiamenti legislativi, le condizioni di lavoro, la tassazione e il regime fiscale, la burocrazia, il potere dei sindacati sono tutti fattori che impattano fortemente sulla sua performace. Questi impatti assumono ora una grande importanza perché quello che si osserva è un rapido cambiamento che genera a catena un deciso rinnovamento proprio dell’operations management. Più in generale, il contesto cambia nel senso che diviene scontata e per questo sempre più spietata la competizione basata sui costi, sono più alte le aspettative di qualità da parte del cliente, la richiesta è per un migliore servizio, il cliente ricerca più scelta e varietà, le tecnologie evolvono rapidamente, nuovi prodotti/servizi devono essere introdotti frequentemente, quindi si accorcia il ciclo di vita dei prodotti/servizi, aumenta la sensibilità per gli aspetti etici e ambientali, la legislazione è più stretta, l’importanza data alla sicurezza cresce. Le operations rispondono attraverso la globalizzazione dei sistemi produttivi, l’utilizzo di tecnologie information-based e internet-based, l’integrazione delle attività, l’adozione della Supply Chain Management, del Customer Relationship Management, la ricerca della flessibilità, la mass-customisation, il time-to-market, la Lean Production, lo sviluppo di relazioni di partnership con i fornitori ecc. A questo punto occorre introdurre un modello che permetta la lettura dell’operations management, tenendo conto delle sue dimensioni peculiari di sistema aperto, dinamico e in continua evoluzione. Il modello proposto è basato su un adattamento di Pycraft (2000). In accordo a questo modello, sono stati organizzati anche i successivi paragrafi del capitolo. Il modello prevede quattro differenti fasi dell’operations management (Figura 11.3). 1. Strategia: vengono fissate le scelte strategiche dell’azienda da cui deriva la strategia anche per l’operations management. 2. Configurazione: vengono scelti gli assetti strutturali e infrastrutturali delle operations. 3. Pianificazione e controllo: in questa fase l’esercizio delle operations viene pianificato e ne viene monitorata la fase esecutiva. 4. Miglioramento: fase in cui vengono messe in atto tutte le azioni per apportare miglioramenti alla performance delle operations. Il ciclo di vita, per così dire, dell’operations management non è aperto, ma tende a ricominciare periodicamente con una frequenza che dipende dalla fre-

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Pianificazione

Configurazione

Miglioramento

Strategia Figura 11.3 Modello di gestione delle operations. Fonte: adattata da Pycraft, 2000.

quenza di aggiornamento, ovvero quanto spesso sono emanati i piani strategici dell’azienda.

11.1.4 La strategia dell’operations management La prima fase che affronta l’operations management è quella di definizione della strategia, ovvero un insieme di principi generali che guideranno le decisioni nel lungo termine. Una buona definizione della strategia delle operations è di Slack e Lewis (2007): “L’operations strategy è l’insieme delle decisioni che stabiliscono le capacità a lungo termine di ogni tipo di operations e il loro contributo alla strategia aziendale complessiva, attraverso la riconciliazione delle richeste di mercato con le risorse operative”. La strategia delle operations è quindi l’insieme di decisioni di lungo termine che definiscono il modo in cui l’organizzazione decide di rispondere alle richieste del mercato, attraverso la produzione di beni e servizi. La strategia delle operations ha come obiettivo principale quello di massimizzare il valore aggiunto per i clienti. L’efficacia di una strategia può essere proprio valutata dalla sua capacità di creare o incrementare il valore aggiunto per il cliente. Massimizzare il valore aggiunto è però un concetto che varia fortemente da cliente a cliente e quindi da mercato a mercato. Alla stessa maniera il modo in cui le operations realizzano il prodotto è fortemente vincolato dalle risorse (dagli input) di cui l’azienda si può avvalere e di come intende svilupparle negli anni a venire. Da questo punto di vista possiamo dire che la strategia delle operations: • • •

guarda al mercato; è fortemente vincolata dalle risorse dell’azienda; è strettamente collegata al loro sviluppo.

La strategia delle operations è l’insieme di decisioni di lungo termine che definiscono il modo in cui l’organizzazione decide di rispondere alle richieste del mercato, attraverso la produzione di beni e servizi.

400

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

C’è una stretta dipendenza tra la strategia di business e la strategia delle operations. In particolare la seconda gioca tre ruoli fondamentali. 1. Supporta la strategia di business: uno dei compiti delle operations è di sviluppare le risorse in modo da permettere all’organizzazione di raggiungere i suoi obiettivi strategici. Per esempio se un’azienda stabilisce che la fonte del proprio vantaggio competitivo è nella capacità di innovare, le operations devono organizzare le proprie risorse in modo tale da essere sempre in grado di capire come cambiare il proprio assetto in risposta alle modifiche dei nuovi prodotti. Ogni aspetto delle operations, la tecnologia, lo staff, i suoi sistemi e procedure, deve concorrere ad attuare la strategia dell’azienda e deve essere sempre aggiornata. Il gruppo Zara ha fatto completamente suo questo importante principio e si è dotato di un assetto produttivo altamente reattivo in modo tale da soddisfare l’esigenza di avere continuamente nuovi prodotti nei punti vendita. 2. Implementa la strategia di business: senza le operations, la strategia di business rimane astratta. Tutti conoscono il grande successo avuto nel primo decennio del nuovo millennio dalle compagnie aeree low cost, ma la strategia di attrarre un certo segmento di clientela è stata applicata abbattendo il costo operativo attraverso scelte mirate (scali decentrati, no frills ecc.). Possiamo dire che la strategia di business è una dichiarazione di intenti, ma sono le operations che la rendono concreta. In questo senso il ruolo delle operations è veramente significativo perché la migliore strategia di business è inutile se le operations non sono in grado di renderla efficace. 3. Guida la strategia di business: se le operations hanno una cattiva performance, l’azienda ne risente. Invece operations efficaci impattano in maniera positiva sulla possibilità di incrementare il vantaggio competitivo di un’azienda. Inoltre la strategia delle operations ha il ruolo chiave di guidare il miglioramento, come dimostrano le metodologie Lean e affini che nascono e si sviluppano in ambito produttivo.

L’operations management impatta sulla performance di un’azienda secondo quattro determinanti: costi, ricavi, investimenti e competenze.

Dalle scelte strategiche derivano poi gli obiettivi per l’operations management. Tuttavia è importante sottolineare come il successo di un’azienda non sia solo dovuto alla capacità di raggiungere gli obiettivi proposti, ma soprattutto dipende da quanto la strategia sia effettivamente lo specchio delle richieste del cliente e come la strategia riesce a essere efficacemente tradotta in un set pesato opportunamente di obiettivi. L’operations management impatta sulla performance di un’azienda secondo quattro determinanti: costi, ricavi, investimenti e competenze. In particolare i costi, perché la funzione operations ha la responsabilità diretta dei costi aziendali, quindi il suo compito principale è tenerli sotto controllo. Il modo in cui le operations permettono di raggiungere servizio e qualità impatta sui ricavi. Dal momento che sono oggetto di forti investimenti, è loro compito garantirne il migliore ritorno. Infine gestiscono una competenza che può essere fonte di forte vantaggio competitivo. Dunque da tutte le operations ci si deve aspettare che contribuiscano al successo dell’azienda controllando i costi, incrementando i ricavi, rendendo più efficaci gli investimenti e migliorando le competenze di lungo termine. Per questo motivo è necessario pensare all’operations management strettamente collegato a un appropriato sistema di valutazione della performance attraverso il quale il processo produttivo possa essere governato e migliorato per incontrare i bisogni del cliente.

Capitolo 11 La gestione delle operations

401

Il sistema di valutazione della performance è particolarmente delicato nella sua articolazione. Infatti occorre tenere conto che l’operations management non può prescindere dall’intera organizzazione in cui opera. In particolare la finalità dell’azienda è di creare valore per il cliente. L’operations management declina questa finalità nella produzione di beni e servizi. Le dimensioni secondo cui questa finalità è declinata è in genere quello della triade tempi-costi-qualità. Un approccio un po’ più fine e recente declina invece la principale finalità in cinque principali obiettivi (Slack et al., 2007). 1. Qualità: è da intendersi come rispetto delle specifiche. Il cliente soddisfatto torna a comprare il prodotto o il servizio o lo consiglia, pertanto genera fatturato; inoltre il rispetto o l’assicurazione della conformità comporta generalmente meno errori e sprechi e quindi un generale abbattimento dei costi. 2. Velocità di risposta: è il tempo che intercorre tra quando un cliente richiede un bene o un servizio fino a quando lo ottiene. Nei confronti del cliente esterno, la velocità di risposta è importante e spesso è possibile richiedere anche un extra prezzo per un servizio più veloce (per esempio il servizio di consegna o il servizio postale). Inoltre aumentare la velocità per l’impresa significa ridurre le scorte e diminuire l’esposizione al rischio, quindi abbatte i costi. Se parliamo di servizi, per esempio in un ristorante, velocizzare il servizio ai clienti significa permettere a un maggior numero di clienti di essere servito e questo genera maggiori ricavi per l’azienda. 3. Affidabilità: significa non proprio rispondere velocemente, ma al tempo giusto, ovvero rispettare i tempi promessi. È questa una dimensione particolarmente apprezzata dal cliente, a volte più della velocità della risposta perché consente al cliente di poter contare sul proprio fornitore e quindi a sua volta non essere costretto a considerare scorte troppo elevate per fronteggiare eventuali problemi. Dal punto di vista dell’azienda, essere affidabili comporta risparmi di costo (mancanza di penali, niente scorte inattese, riorganizzazioni ecc.), inoltre regala una certa stabilità che porta ad aumentare l’efficienza (come vedremo di seguito, la stabilità è un elemento vincolante per cogliere i benefici per esempio di un sistema Just in Time). Inoltre l’affidabilità consente anche di migliorare il tempo di risposta perché lavorare su un sistema affidabile, significa lavorare su un sistema sotto controllo, in cui i miglioramenti sono più facili e duraturi. 4. Flessibilità: è l’obiettivo più complesso perché esistono diversi modi di essere flessibili in azienda (Brandolese et al., 1991), ma in generale la flessibilità indica il concetto di essere reattivi a quanto richiesto dal mercato e come tale concorre alla soddisfazione del cliente. Dal punto di vista interno, la flessibilità aiuta a mantenere i costi bassi, a essere più veloce ecc. Esistono quattro tipi di flessibilità: • la capacità di cambiare il volume di produzione; • la capacità di adattare il tempo necessario per produrre; • la capacità di modificare il piano di produzione; • la capacità di innovare attraverso un nuovo bene o servizio. 5. Costo: è ovviamente una dimensione abusata. Il contributo che è possible dare è che ognuno dei quattro altri obiettivi, concorre ad abbattere i costi. Questa è da considerare la più grande rivelazione nel campo dell’operations Mangement degli ultimi decenni. Dopo anni in cui ci si scontrava sempre in maniera diretta con il solo obiettivo di tenere i costi bassi, ora finalmente

qualità

velocità di risposta

affidabilità

flessibilità

costo

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Ristorante 5 stelle

Fast food

Costo

Costo

Affidabilità

Velocità

Qualità

Figura 11.4 Esempio di diverso peso agli obiettivi in diversi contesti.

Flessibilità

Affidabilità

Velocita

Qualità

Flessibilità

è chiaro come lo stesso obiettivo possa essere ottenuto in maniera anche più efficace agendo in modo trasversale, attraverso gli altri obiettivi. Ovviamente non tutti i cinque obiettivi sono perseguiti nella stessa maniera e con la stessa intensità da tutte le aziende. Il diagramma polare rappresentato in Figura 11.4 illustra molto bene come ogni azienda possa trovare il suo proprio assetto che può variare sensibilmente anche nello stesso settore in base alle caratteristiche dell’azienda, del mercato in cui opera e del target di clienti di riferimento. Per esempio, nello stesso settore ristorazione, un fast food e un ristorante cinque stelle possono avere una diversa distribuzione dei pesi sui cinque obiettivi.

11.2 La configurazione delle operations Una volta stabilità la strategia, in perfetto accordo con la strategia aziendale di business, la fase successiva riguarda le decisioni che il management si trova a dover prendere per dare alle operations una precisa configurazione. Tali decisioni sono di due tipologie. 1. Decisioni strutturali: sono decisamente di lungo termine e coinvolgono maggiori investimenti e influenzano come le operations lavoreranno in futuro e determinano il loro futuro potenziale. Ogni cambiamento strutturale è talmente dispendioso da rendere spesso più conveniente adeguare la strategia aziendale alle operations piuttosto che il viceversa. Le principali decisioni strutturali riguardano: la localizzazione delle facilities, il dimensionamento della capacità produttiva, il grado di integrazione verticale e la scelta del processo tecnologico. 2. Decisioni infrastrutturali: hanno una valenza nel lungo termine, ma, dal momento che possono essere più facilmente ed economicamente modificate

Capitolo 11 La gestione delle operations

403

rispetto alle decisioni strutturali, hanno una valenza anche nel medio termine. Scelte infrastrutturali inappropriate possono avere effetti devastanti sulla performance delle operations. Le tipiche scelte infrastrutturali riguardano la forza lavoro e la loro organizzazione, la politica per la qualità, la pianificazione della produzione ecc. Per gli scopi di questo libro, entreremo nel dettaglio delle sole decisioni strutturali all’interno di questo paragrafo. Tuttavia molte delle decisioni infrastrutturali vengono trattate, ma non in maniera specifica, all’interno dei prossimi paragrafi, di cui il successivo è interamente dedicato alla pianificazione della produzione.

11.2.1 La localizzazione delle facilities Questa scelta strutturale riguarda la localizzazione, la dimensione e il focus a cui sono dedicate le risorse opertaive. In pratica si intende dove devono essere posizionati i siti produttivi (o distributivi), quanto devono essere grandi, quali beni e servizi devono essere lì prodotti, quale mercato deve essere servito, ecc. È questo un aspetto importante perché incide su costi e ricavi, sul servizio al cliente e sull’investimento del capitale. Ci sono tre momenti principali in cui deve essere presa in considerazione la scelta di localizzazione:

La localizzazione delle facilities riguarda dove devono essere posizionati i siti produttivi (o distributivi), quanto devono essere grandi, quali beni e servizi devono essere lì prodotti, quale mercato deve essere servito ecc.

1. in caso di creazione di un nuovo business; 2. in caso siano mutati i fattori ambientali (cambiano i costi dei fattori produttivi, si sposta il cliente, cambiano le condizioni politiche ed economiche, imprese possono fondersi rendendo superfluee alcune location); 3. in risposta a una politica di espansione dell’azienda. Per esempio cosa succederà all’intero indotto FIAT a seguito di uno spostamento del gruppo industriale? Il processo decisionale comprende l’elenco di possibili location e la valutazione di ciascuna opzione rispetto a una serie di criteri razionali. La scelta finale nascerà poi da un trade off tra i fattori considerati a cui farà seguito una necessaria analisi dei fattori di rischio. È interessante rilevare che per questa tipologia di scelta si riscontra una delle poche interessanti differenze tra la produzioe di beni e la produzione di servizi. Infatti i criteri di scelta possono essere raggruppati in due famiglie distinte: i criteri inerenti l’offerta (supply-side) e i criteri inerenti la domanda (demand-side). Le aziende prevalentemente di manufacturing, che producono beni, saranno ovviamente maggiormente influenzate dai criteri della prima famiglia, diversamente per le aziende che producono servizi. Criteri supply-side I criteri supply-side sono principalmente legati a fattori di costo. I principali sono i seguenti. •

Costi di trasporto e distribuzione: possono essere considerevoli, soprattutto per le imprese manifatturiere che maneggiano prodotti tangibili. In

costi di trasporto e distribuzione

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

costo del lavoro



costi per l’acquisto del sito e di costruzione



altri fattori di costo



fattori intangibili



base al costo di trasporto della materia prima o del prodotto finito, il baricentro sarà più o meno spostato verso il fornitore o verso il cliente. Particolarmente interessante è il caso di materie prime come il marmo, il quale perde considerevolmente peso a valle della sua trasformazione in manufatti, abbatendo così il costo di trasporto. Non deve sorprendere se quindi le imprese che lavorano questa materia prima sono tutte nelle immediate vicinanze di cave estrattive. La vicinanza di infrastrutture di trasporto (aeroporto, ferrovie, autostrada ecc.) gioca ovviamente un ruolo fondamentale. Costo del lavoro: è questo un fattore molto controverso. Considerare solo il costo effettivo del lavoro porta a delle scelte di localizzazione votate alla ricerca dell’assetto a più basso costo. Il trasferimento quasi di massa di molte imprese in Cina o in India testimoniano proprio questa tendenza. Tuttavia occorrerebbe tenere in conto anche aspetti come le skill della manodopera, capacità di adattamento e predisposizione all’innovazione. Mano a mano che questi aspetti qualitativi diventano più importanti, come è nei servizi, il fattore di costo perde importanza. Al contrario, se le operations sono di basso valore intellettivo (per esempio il data entry: molte aziende grazie all’IT delocalizzano l’operazione verso bacini in cui la manodopera, di basso livello, costa molto poco), le aziende tengono in maggiore considerazione il valore di costo. Costi per l’acquisto del sito e di costruzione: entrambi i costi possono essere considerevoli, soprattutto se il sito ha bisogno di essere oppurtanamente sistemato per ospitare la facility. Altri fattori di costo: sono legati ai tassi di interesse locali, la restrizione alla libera circolazione dei capitali, assistenza finanziaria del governo, stabilità politica, relazioni sindacali. Fattori intangibili: sono gli unici di questa famiglia non strettamente legati ad aspetti finanziari o economici, ma assumono una forte importanza. Sono per esempio: vincoli o opportunità ambientali, condizioni di vita in grado di attrarre la migliore manodopera, potenziale di espansione a fronte di un incremento dei livelli di attività. Capacità di adattamento ai cambiamenti che potrebbero intervenire nei fattori di input o output.

Criteri demand-side I principali criteri demand-side sono i seguenti. • • •

Abilità della manodopera: è il fattore complementare del costo della manodopera. Immagine dell’azienda: alcune aziende (per esempio quelle legate al mondo della moda o della ristorazione e del divertimento) devono essere posizionate in un’area che ben si adatta all’immagine che si vuole trasmettere. Convenienza del cliente: in alcuni casi la localizzazione deve essere conveniente per il cliente, per esempio gli ospedali, per cui la velocità di risposta, legata ovviamente alla loro localizzazione, è fondamentale.

Dopo avere elencato e pesato i diversi fattori, si può procedere all’applicazione di una tecnica di selezione della location che prevede che ogni fattore venga pesato rispetto a tutti gli altri. Per ciascuna location viene calcolato un punteggio e la location selezionata è quella con il punteggio più elevato. Esistono altri strumenti di selezione della location più sofisticati, che però non trattiamo in questa sede e che citiamo solo con opportuno riferimento per completezza: metodo del centro di gravità, programmazione lineare, analisi costo volume.

Capitolo 11 La gestione delle operations

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11.2.2 Il dimensionamento della capacità produttiva Questa scelta strutturale di lungo periodo è volta a determinare il livello di risorse necessarie all’azienda per avere garantita una determinata “capacità” di rispondere alla domanda di mercato. È una scelta critica perché incide direttamente sulla capacità di competere dell’azienda: una capacità insufficiente può portare a una perdita di clienti. Pochi sanno che proprio un errore in termini di stima della domanda ha fatto sì che una piccola fetta di mercato dei Pc fosse lasciata da IBM, nei lontani anni ’80, a un insignificante produttore come Apple. Al contrario, una capacità eccessiva può drenare risorse e investimenti da altre iniziative più vantaggiose per l’azienda. Il concetto di dimensionamento della capacità produttiva chiama in causa le economie di scala e di apprendimento. Quindi effettuare investimenti industriali sovradimensionati, rispetto alle esigenze di capacità produttiva iniziale, è giustificato dalla possibilità di conseguire eventuali economie di scala e quindi una riduzione del costo unitario del prodotto. Ovviamente il vantaggio economico è conseguito dall’azienda, soltanto quando il volume di produzione cresce al punto di saturare la capacità produttiva predisposta (Silvestrelli, 2003). Analogamente al crescere del volume di produzione cumulato, l’esperienza diventa una determinante dell’efficienza. Al contrario ovviamente, il sovradimensionamento della capacità diventa un punto di debolezza qualora non fosse completamente sfruttata: il costo di fabbricazione del prodotto potrebbe essere superiore nel grande impianto sottoutilizzato rispetto alla piccola unità produttiva sfruttata al massimo. Infine nel determinare il livello ottimo della capacità produttiva bisogna tenere in considerazione che ogni incremento di capacità si traduce in un aumento dei costi fissi. Quindi ci deve essere un output che giustifica ricavi tali da coprire costi fissi e costi variabili. Le scelte di dimensionamento implicano ulteriori considerazioni. In primo luogo la capacità può essere dimensionata in maniera diversa in base alla strategia produttiva che viene scelta. Si riconoscono due diversi tipi di strategia (Figura 11.5). 1. Strategia chase o di inseguimento della domanda: si sceglie l’approccio chase quando la domanda è difficile da prevedere o è impossibile intervenire su di essa; è facile e poco costoso variare il livello di risorse a disposizione (servizi postali o bancari per esempio). Richiede un alto grado di flessibilità delle risorse. Gli svantaggi sono che potrebbe implicare una scarsa utilizzazione della capacità stessa, l’aumento dei costi delle scorte, difficoltà a gestire la manodopera. Il più grande vantaggio è nell’abbattimento delle scorte. I modi per aiutare una strategia chase sono: • modificare la forza lavoro (straordinari, lavoro a tempo determinato ecc.); • condividere la capacità con altre parti del sistema; • trasferire le risorse da una parte all’altra (le risorse devono essere multiskill); • nel caso dei servizi per esempio ricorrere al self service. 2. Strategia level o di livellamento della capacità produttiva: la capacità produttiva rimane costante indipendentemente dalla domanda, che è soddisfatta grazie alla creazione di scorte durante i periodi di abbattimento della domanda. La forza lavoro e il livello delle risorse rimane costante anche quando non c’è domanda da parte del mercato. In questa maniera si creano ovviamente scorte che però vengono consumate quando la domanda del mercato aumenta, assorbendo il surplus di scorte. L’aspetto positivo è la stabilità che

Il dimensionamento della capacità produttiva è una scelta volta a determinare il livello di risorse necessarie all’azienda per avere garantita una determinata capacità di rispondere alla domanda di mercato.

strategia chase

strategia level

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Dic.

Nov.

Set.

Ott.

Ago.

Giu.

Lug.

Apr.

Mag.

Feb.

Mar.

Gen.

Scorte Produzione

Dic.

Nov.

Ott.

Set.

Ago.

Giu.

Lug.

Apr.

Mag.

Mar.

Domanda

Strategia Mixed 180 160 140 120 100 80 60 40 20 0 -20

Scorte Produzione

Dic.

Nov.

Ott.

Set.

Ago.

Giu.

Lug.

Domanda

Apr.

Combinare le precedenti strategie bilanciandone i vantaggi e gli svantaggi

Strategia Level 180 160 140 120 100 80 60 40 20 0 -20

Mag.

Strategia Mixed

Domanda

Mar.

Mantenere una produzione stabile in ogni periodo dell’orizzonte di pianificazione

Produzione

Feb.

Strategia Level

Scorte

Gen.

Inseguire la domanda modificando i livelli di produzione in ogni periodo di pianificazione

Strategia Chase 180 160 140 120 100 80 60 40 20 0 -20

Feb.

Strategia Chase

Gen.

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Figura 11.5 Descrizione delle strategie di produzione.

si ripercuote in un migliore sfruttamento delle risorse e anche a migliori rapporti per quanto riguarda la manodopera. Lo svantaggio è rappresentato dalle eccessive scorte. Si sceglie l’approccio level quando: • la domanda è stabile o è possibile intervenire su di essa; • è difficile o costoso variare il livello di risorse a disposizione, per esempio in imprese che erogano servizi professionali, Hotel, ristoranti, compagnie aeree, industrie di processo. La strategia level cerca di influenzare la domanda attraverso cambiamenti di prezzo, advertising e promozioni, oppure lasciando attendere il cliente.

capacità produttiva teorica o di targa capacità produttiva effettiva

È anche possible adottare un approccio a metà strada che prevede l’adozione di una strategia level in uno specifico intervallo temporale, ma consente poi l’adeguamento della capacità alla domanda in pieno accordo con una strategia chase. Parlando poi di capacità occorre fare un distinguo tra: • capacità produttiva teorica o di targa: rappresenta il massimo livello di domanda a cui può rispondere l’azienda in condizioni ideali; • capacità produttiva effettiva: rappresenta l’effettiva capacità dell’azienda di rispondere alla domanda di mercato in base al grado di efficienza che riesce a ottenere.

Capitolo 11 La gestione delle operations

11.2.3 L’integrazione verticale e outsourcing L’integrazione verticale è una strategia di sviluppo con la quale l’impresa cerca di acquisire il controllo sui propri input (integrazione a monte) o sui propri output (integrazione a valle) o su entrambi (Pellicelli, 2009). Il grado di integrazione viene normalmente valutata come il numero di fasi della filiera produttiva sotto il controllo di una sola organizzazione o anche come il valore aggiunto complessivo delle fasi sotto il controllo di una sola organizzazione. Si differenzia dall’integrazione orizzontale, che riguarda invece organizzazioni che gestiscono la stessa parte della filiera produttiva e che viene fatta normalmente per permettere all’organizzazione di operare su più mercati, anche geograficamente diversi. Il gruppo Luxottica riconosce una chiave di successo proprio nel fatto di essere totalmente integrata lungo la filiera produttiva: dalla progettazione alla vendita, tramite i propri punti vendita diretti. Legato ma in contrapposizione al concetto di integrazione è l’outsourcing che invece descrive la pratica di dare all’esterno (esternalizzare) una parte del processo produttivo. Ovviamente sia nel caso l’azienda scelga di integrarsi sia di esternalizzare ci sono diversi tipi di vantaggi e svantaggi da tenere in considerazione. •

• •



Vantaggi interni: più bassi costi di transazione, indipendenza dai fornitori, sincronizzazione della filiera, più bassa incertezza, favore a più alti investimenti, protezione delle proprie core competencies, capacità di monopolizzare il mercato, indipendenza strategica (soprattutto se le materie prime sono rare), possibilità di avvalersi di economie di scala. Vantaggi esterni: migliore opportunità di investimento grazie alla riduzione dell’incertezza e capacità di tenere meglio la posizione contro i competitors. Svantaggi interni: più alti costi di coordinamento e costi di organizzazione, complessità organizzativa, cade la motivazione a monte della filiera perché le vendite sono garantite, mancanza di flessibilità soprattutto nell’innovazione del prodotto, grossi investimenti iniziali, necesità di formare adeguatamente il personale Svantaggi esterni: mercati monopolistici, strutture organizzative troppo rigide.

Ovviamente tutti questi vantaggi e svantaggi risentono del livello tecnologico in cui l’organizzazione opera. Al crescere del livello tecnologico e soprattutto dell’innovazione tecnologica, l’organizzazione è meno disposta a integrarsi perché perde la possibilità di avvalersi dei risultati ottenuti dai potenziali fornitori. Ci sono poi delle soluzioni intermedie tra integrazione e outsourcing che permettono di modulare gli svantaggi sopra presentati: alleanze strategiche e joint venture, relazioni informali, relazioni contrattuali, relazioni di lungo termine e comakership.

11.2.4 La scelta del processo tecnologico La scelta strutturale relativa al processo tecnologico riguarda il grado e la tipologia di tecnologia utilizzata nel processo produttivo, per macchine e attrezzature di supporto. Per esempio una tipica scelta tecnologica è quella relativa al grado di automazione. È una scelta critica perché impatta fortemente su qualità, velocità e tutti gli indicatori di performance. Distinguiamo due diverse famiglie di tecnologie.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Tecnologie che interferiscono direttamente con il processo produttivo e sono di tre tipi. 1. Tecnologie per i materiali: che permettono il processamento (stampaggio, imbutitura, ecc.) di metalli, plastica e altri materiali. Esempio di questo tipo di tecnologie è dato dalla macchine a controllo numerico. 2. Information Technology: è l’acquisizione, processamento, immagazzinamento e diffusione di informazioni vocali, testuali o numeriche (network IT, internet and intranet, e-business, decision support systems and expert systems, RFID). 3. Tecnologia per il cliente: è quella che permette l’interfaccia tra cliente e azienda (bancomat, sistemi di pagamento o vendita su Internet, call center automatizzati ecc.). L’altra famiglia riguarda le tecnologie indirette che supportano i manager nel pianificare e controllare le proprie attività (sistemi di contabilità, ERP). Sono le tecnologie che stanno attualmente acquistando sempre maggiore importanza. Gli operations manager non sono di per sé esperti di tecnologia, in genere, ma devono interfacciarsi quotidianamente con essa in tre termini: 1. devono essere in grado di comprendere le potenzialità e i limiti di ogni scelta tecnologica; 2. devono essere in grado di valutare alternative tecnologiche dal loro punto di vista; 3. devono essere in grado di sfruttare la tecnologia in modo da ricavarne il massimo beneficio.

11.3 La pianificazione delle operations Per pianificazione delle operations si intende la funzione della gestione cui compete il compito di selezionare gli obiettivi di un’organizzazione e stabilire le strategie, le politiche, le procedure, i programmi e i progetti necessari al loro raggiungimento.

Per pianificazione delle operations si intende la funzione della gestione cui compete il compito di selezionare gli obiettivi di un’organizzazione e stabilire le strategie, le politiche, le procedure, i programmi e i progetti necessari al loro raggiungimento. Analizziamo la fase di pianificazione dal punto di vista degli output attesi, degli obiettivi perseguiti e dell’approccio adottato. La pianificazione delle operations, a fronte di ordini e/o di previsione di vendita, restituisce in output: • • • •

la generazione degli ordini di produzione; l’assegnazione degli ordini di produzione alle differenti unità produttive; la pianificazione del fabbisogno di materiale e risorse per soddisfare le richieste del mercato; il sequenziamento delle lavorazioni sulle diverse unità produttive.

Gli output in questione sono frutto di differenti scelte che sono prese perseguendo diversi obiettivi: • • •

minimizzazione dei costi di produzione; mantenimento di un adeguato livello di scorte di materie prime, work in process e prodotti finiti, allo scopo di contenere i costi di magazzinaggio; raggiungimento di una maggiore efficienza attraverso un appropriato utilizzo delle risorse produttive;

Capitolo 11 La gestione delle operations



soddisfazione delle richieste del mercato nel rispetto delle date di consegna pattuite con i clienti (Artiba et al., 2001).

A causa della diversa natura e della complessità dei problemi di pianificazione delle operations, la ricerca di una soluzione richiede la scissione del problema generale in più sottoproblemi, secondo un ordine gerarchico. Per questo motivo l’approccio che in genere si sceglie per la pianificazione delle operations è di tipo gerarchico. Un modello gerarchico di riferimento delle fasi in cui si può articolare la pianificazione delle operations all’interno dell’intera azienda è presentato in Figura 11.6 (Monks, 1987). Questo approccio gerarchico può essere a sua volta analizzato in base a tre diversi livelli: 1. fasi temporali (strategica, tattica od operativa); 2. principi metodologichi applicati (previsione dei volumi produttivi, Push vs Pull, confronto tra capacità produttiva teorica e necessaria, Gestione delle scorte). Figura 11.6 Flusso decisionale nella pianificazione 3. piani di produzione generati. delle operations.

Pianificazione strategica Previsione della domanda Pianificazione aggregata

Pianificazione di lungo periodo

Previsione dei volumi di produzione

Pianificazione delle Operations

RRP

RCCP

MRP

Pianificazione di medio periodo

MPS

CRP

FAS SFC

Pianificazione di breve periodo

Produzione push e pull

Confronto tra capacità produttiva necessaria e disponibile

Principi metodologici

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Fasi temporali nella pianificazione delle operations La pianificazione delle operations avviene quindi attraverso l’individuazione delle scelte che, secondo l’orizzonte temporale in cui sono proiettate e secondo il coinvolgimento dei diversi livelli aziendali, si possono suddividere nei seguenti. pianificazione di lungo periodo



pianificazione di medio periodo



pianificazione di breve periodo



Pianificazione di lungo periodo: determina la scelta della strategia di produzione, fornisce un’indicazione di massima sul carico di lavoro che l’azienda intende sostenere e, approssimativamente, sulle risorse produttive necessarie. Il suo orizzonte temporale è di 3-5 anni. Recepisce in input altri piani aziendali, quali il piano delle vendite e del marketing, il piano della ricerca e sviluppo e il piano finanziario. L’output è la formazione di un piano in cui sia fissato un budget di produzione per ogni unità produttiva a fronte di determinati target di fatturato o di uno specifico portafoglio prodotti. L’unità produttiva è generalmente modellizzata come una black box ed esistono vincoli deboli sull’utilizzo delle risorse; anzi come detto, uno degli output di questa fase è proprio l’indicazione di quante risorse è necessario rendere disponibili. In questa fase vengono prese decisioni relativamente a differenti alternative (make or buy, acquisizione o cessione di capacità produttiva, organizzazione della manodopera ecc.) e vengono stabiliti gli obiettivi (target di livello di servizio e di produttività degli impianti, della manodopera, ecc.). Entrambi implicano contenuti decisionali di tipo strategico, che impattano pesantemente sulla redditività aziendale. Pianificazione di medio periodo: è finalizzata alla stesura di un piano principale di produzione (Master Production Schedule, MPS); stabilisce, per ogni prodotto finito, il carico di lavoro che si vuole realizzare in ogni periodo dell’orizzonte considerato. L’input principale è il piano aggregato di produzione, in cui si ricerca la soluzione che minimizzi i costi di produzione. Il periodo di riferimento, in questo caso, è il mese e l’orizzonte di programmazione è semestrale o annuale. Pianificazione di breve periodo: si propone di allocare le risorse disponibili a ogni singola attività, individuando la sequenza precisa delle lavorazioni da effettuare su ogni unità operativa. In generale, il numero di vincoli è elevato (disponibilità effettiva delle materie prime, capacità produttiva disponibile ecc.). Il periodo di riferimento, in questo caso, può variare, in base alle differenti tipologie produttive, dalle due settimane fino al singolo turno.

È possibile poi fare riferimento a una quarta fase che è quella del controllo dell’avanzamento della produzione: lo scostamento tra programmi e realtà è inevitabile e occorre, quindi, inserire una fase di controllo avente lo scopo di fornire le informazioni necessarie per sviluppare le più opportune azioni correttive. L’attività di controllo consente un meccanismo di retroazione su piani e programmi grazie alla raccolta e aggiornamento delle informazioni di produzione mediante tecnologie informatiche. Verifiche di fattibilità Oltre al controllo dell’avanzamento, parallelamente allo sviluppo della pianificazione si procede alla verifica della sua fattibilità: i piani elaborati, oltre a essere i migliori tra le possibili alternative, in grado cioè di sfruttare al meglio le risorse assegnate, devono essere fattibili, cioè non devono violare vincoli non direttamente considerati nel piano. In genere questa verifica si rende necessaria in quanto il principale limite dell’approccio qui presentato alla pianificazione delle operations risiede nel fatto che viene sviluppata “a capacità finita”, senza tenere quindi in considerazione i vincoli effetti di capacità produttiva.

Capitolo 11 La gestione delle operations

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Verifiche di fattibilità devono essere svolte a ogni livello: dalla contrapposizione tra capacità produttiva disponibile e capacità produttiva necessaria si genera una prima verifica di fattibilità, che può essere supportata dall’impiego di sistemi Resource Requirements Planning (Orlicky, 1975). Prima che il Master Production Schedule sia invece rilasciato, deve esserne testata la fattibilità attraverso il Rough Cut Capacity Planning, che non fa altro che costruire diagrammi di carico per le risorse su cui poggia il piano. Una volta sviluppato il Material Requirement Planning (si veda il Paragrafo 11.3.6), infine, occorre verificare che il tempo necessario a soddisfare tale piano (in termini di ore standard di impianti e manodopera) sia disponibile presso i centri di lavoro; la valutazione del carico su ogni centro viene fatta solitamente a capacità infinita; l’aggiustamento capacità-carico viene cercato riallocando la forza lavoro, valutando cicli alternativi, sub-appaltando alcune lavorazioni o proponendo, eventualmente, modifiche al piano principale di produzione (anticipo o ritardo di alcuni ordini). A tutti i livelli, in caso di soluzione negativa, occorre procedere alla ripianificazione, ricercando modalità di ampliamento della capacità produttiva. In caso la verifica dia invece esito positivo, è possibile passare alla fase successiva.

11.3.1 Le politiche di gestione Push e Pull Le politiche di gestione Push o Pull riguardano come viene gestito il flusso produttivo, rispetto alle richieste di mercato. Una politica di tipo Pull è quindi caratterizzata dal fatto che l’ingresso delle risorse materiali nel sistema è “tirato” a valle del processo produttivo. Una gestione di tipo Push è invece caratterizzata dal fatto di “spingere” da monte le risorse nel sistema allo scopo di garantire il tempo di consegna richiesto dal mercato; l’avanzamento, in questo secondo caso, è regolato non sui fabbisogni a valle, ma sulla base di previsioni di tali fabbisogni. Per scendere più nel dettaglio delle due politiche, è necessario preliminarmente definire due parametri caratteristici del flusso produttivo (Caramia e Dell’Olmo, 2006). 1. Production Time: è il tempo di attraversamento cumulato di un prodotto, dal momento in cui parte l’ordine per le materie prime, a quello in cui ne viene ultimato il processo di trasformazione in prodotto finito, passando attraverso le varie fasi del processo. 2. Delivery Time: è il tempo di consegna, ovvero l’intervallo di tempo compreso tra il momento in cui il cliente ordina un prodotto e il momento al più tardi in cui accetta che gli venga consegnato. La sua entità è generalmente fissata dal cliente o dal mercato ed è quindi un dato non modificabile dalla produzione. Il Delivery Time dipende strettamente dal tipo di business e di mercato considerato. Un sistema produttivo si definisce di tipo Push se presenta un Production Time strettamente maggiore del Delivery Time, viceversa si dice per il tipo Pull. In un sistema Pull, pertanto, i materiali vengono “tirati” dentro al sistema dagli ordini presenti in portafoglio; ciò è possibile in quanto il Delivery Time di tali ordini copre il Production Time. Viceversa in un sistema Push è necessario anticipare l’ingresso dei materiali nel sistema e gli ordini di lavorazione perché il Production Time è più lungo dell’orizzonte del portafoglio ordini. Il principale inconveniente dei sistemi Push è legato alle eventuali variazioni del piano di pro-

Le politiche di gestione Push o Pull riguardano come viene gestito il flusso produttivo, rispetto alle richieste di mercato.

Production Time

Delivery Time

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

412

duzione: se esso cambia, i materiali che sono stati già lavorati risultano non più necessari e devono quindi essere messi a magazzino in attesa di un loro eventuale futuro utilizzo. In un sistema Push si generano quindi maggiori scorte. Nella realtà operativa la maggioranza dei casi è costituita da sistemi misti Push-Pull. Per ovviare infatti agli inconvenienti di una logica piuttosto che di un’altra, è possibile realizzare in Push i semilavorati nelle prime fasi e invece gestire in Pull le fasi terminali del processo. Si definisce cerniera il punto di collegamento che segna la transizione tra le due logiche nel flusso produttivo. La cerniera funziona da elemento di disaccoppiamento delle fasi gestite Pull da quelle gestite Push, pertanto è costituita da un buffer (magazzino) di semilavorati opportunamente dimensionato. Si noti che è necessario collocare la cerniera almeno nell’istante pari alla differenza tra il Production Time e il Delivery Time. Se fosse più a monte non permetterebbe il rispetto dei tempi di consegna; se fosse più a valle non sfrutterebbe al meglio le potenzialità del sistema. In base al posizionamento della cerniera, è possibile introdurre un’interessante classificazione dei flussi produttivi, proposta da Wortmann (1992), che li divide in base al punto in cui la produzione passa da una politica Push a una Pull (Figura 11.7). • • Figura 11.7 Classificazione dei flussi produttivi. Fonte: Wortmann, 1992.

Make To Stock (MTS): è una produzione di prodotti standard che corrisponde alle produzioni (per il magazzino) di prodotti sulla base delle previsioni di vendita. Commodities, alimentari, beni di largo consumo in genere. Assembly To Order (ATO): prevede la produzione su previsione di sottogruppi standard e la successiva personalizzazione del prodotto finito in fase di assemblaggio finale in base a quanto richiesto dall’ordine. In questa

Production Time Make To Stock

Produzione per magazzino (commodities, alimentari, beni di largo consumo in genere)

Assemble To Order Produzione mista (mobili componibili, macchine agricole, gruppi meccanici ecc.)

Delivery Time

Area PUSH

Make To Order Area PULL

Produzione standard per commessa (automobili utilitarie, elettrodomestici, componentistica ricorrente per l’industria manifatturiera ecc.)

Purchase To Order Produzione personalizzata per commessa (manufatti convenzionali con optional non ricorrenti)

Progettazione

Approvvigg.

Fabbricazione Assemblaggio

Engineer To Order Produzione speciale non ricorrente effettuata in base a progetto (grandi cantieri navali, nautica di lusso, macchinari speciali per industria)

Capitolo 11 La gestione delle operations



• •

categoria sono presenti le produzioni a elevata ampiezza di mix di codici prodotto finito, caratterizzati, però, dalla comunanza di alcuni sottogruppi standard, come mobili componibili, macchine agricole, gruppi meccanici ecc. Make To Order (MTO): la produzione parte solo una volta che l’ordine è stato acquisito, quindi possono essere anticipate solo le fasi di progettazione/ingegnerizzazione. Esempi tipici sono la produzione di automobili utilitarie, elettrodomestici, componentistica ricorrente per l’industria manifatturiera ecc. Purchase To Order (PTO): è una produzione personalizzata per commessa ed è tipica di manufatti convenzionali, contenenti optional non ricorrenti, che vengono acquistati appositamente per il cliente. Engineer To Order (ETO): solo al momento dell’ordine partono anche le operazioni di progettazione/ingegnerizzazione. Qui si riconoscono i tipici elementi delle commesse singole, generalmente di elevato valore unitario. È da notare che in questo caso la progettazione entra a far parte integralmente del processo produttivo, quindi i tempi di realizzazione possono essere anche molto lunghi. In genere riguarda grandi cantieri navali, nautica di lusso, macchinari speciali per l’industria.

11.3.2 La previsione dei volumi produttivi La previsione dei volumi produttivi è fondamentale ogni qual volta sia necessario prendere una decisione inerente, per esempio, il fabbisogno di capacità produttiva, il livello delle scorte o lo sviluppo di un piano di produzione. Può essere un importante fattore di successo per l’azienda, in quanto permette di assumere un comportamento proattivo verso l’ambiente di riferimento. Anche la previsione dei volumi produttivi può essere classificata in base all’orizzonte temporale coperto, in previsioni di lungo, medio o breve termine. Le previsioni si differenziano fondamentalmente per il crescente grado di aggregazione degli oggetti della previsione, man mano che aumenta l’orizzonte della previsione. Ovviamente le previsioni non sono necessarie in ogni fase del ciclo produttivo/distributivo ma bisogna fare delle distinzioni sul quando e sul che cosa prevedere, come evidenziato dalla Figura 11.8. Prima di parlare di come effettuare una previsione è necessario fare una distinzione tra prodotti a domanda dipendente, che dipendono appunto, dal piano generale di produzione che è stato formulato, ovvero la domanda di tali prodotti dipende dalla domanda di altri beni; tutti gli altri sono a domanda indipendente. Questa distinzione è utile perché per i materiali a domanda dipendente, la gestione avviene in un ambiente deterministico. Quindi il fabbisogno di quegli articoli che vengono utilizzati come componenti del prodotto finito è ricavato deterministicamente una volta nota la domanda dei beni di cui fanno parte. Per i materiali a domanda indipendente, invece, non si conosce la domanda (almeno in termini deterministici), quindi su di loro si concentra l’attività di previsione. I metodi di previsione possono essere classificati in soggettivi (o qualitativi) e oggettivi (o quantitativi). Un metodo soggettivo è basato sul giudizio umano. Tra questi menzioniamo: valutazioni del reparto vendite, indagini di mercato, panel di esperti, metodo Delphi.

413

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

414

Sviluppo prodotto

Acquisti

Make To Stock

Fabbricaz.

Previsione

Make To Order

Distribuz.

Ordini

Previsione

Assembly To Order

Ordini

Previsione

Ordini Ordini

Purchase To Order Ordini

Engineering To Order

Figura 11.8 Oggetto della previsione in base ai flussi produttivi.

Assembly

I metodi di previsione oggettivi impiegano, invece, modelli matematici e dati storici per prevedere la domanda. L’ipotesi base è che il futuro si assume essere uguale al passato. Esistono due classi di metodi oggettivi: il metodo degli indicatori economici e il metodo delle serie storiche. Il metodo degli indicatori economici consiste nel ricercare un’espressione funzionale che pone in correlazione l’entità della domanda di un prodotto finito, o una famiglia di prodotti finiti, ad alcuni indicatori economici. Questi indicatori sono delle variabili che descrivono le condizioni economiche prevalenti in un determinato periodo di tempo. Esempi di indicatori sono: reddito nazionale lordo, reddito procapite, reddito agricolo e industriale, licenze edilizie concesse, produzione automobilistica, livello di occupazione, prezzi al consumo e all’ingrosso, depositi bancari, produzioni industriale, produzione di acciaio e cemento ecc. Metodi basati sulle serie storiche I principali sono:

media mobile



smorzamento esponenziale



regressione lineare



regressione multipla



media mobile: è adatta ai casi di domanda stazionaria, in quanto considera per la previsione un numero prefissato delle ultime osservazioni della domanda; smorzamento esponenziale: considera per la previsione le osservazioni di domanda attribuendo un peso progressivamente minore alle osservazioni via via più vecchie; regressione lineare: nel caso di una sola variabile esplicativa è possibile interpolare l’andamento della domanda. Tale approccio è tanto più valido quanto più l’andamento della domanda è assimilabile a una retta; regressione multipla: è l’estensione del caso precedente, da usarsi in presenza di più variabili esplicative del modello di previsione;

Capitolo 11 La gestione delle operations



modelli di Box-Jenkins (1976): analizzano la serie storica e scelgono tra i molti modelli possibili quello più adatto e stimarne i parametri. Generano un processo stocastico e sono generalmente complessi da applicare.

415

modelli di Box-Jenkins

11.3.3 Il piano strategico Rappresenta il piano di produzione che deriva direttamente dal piano strategico aziendale. Il suo scopo è la valutazione delle risorse necessarie (terreni, stabilimenti, impianti, risorse umane ecc.) a conseguire gli obiettivi del piano strategico, con un anticipo di tempo sufficiente per approvvigionarle. A questo livello si realizza il legame con il piano finanziario: definite, infatti, le risorse necessarie, verrà prodotta una tempificazione dei finanziamenti necessari per approvvigionarle. Il piano strategico di produzione è rivisto generalmente a scadenze di 1-2 anni.

11.3.4 Il piano aggregato Ha l’obiettivo di valutare il modo più efficiente per far incontrare il mercato con la produzione; questo significa tradurre gli ordini dei clienti e le previsioni di vendita in un piano di ciò che si intende realmente produrre, con un anticipo sufficiente a gestire tutte le risorse. L’orizzonte temporale tipico di un piano aggregato è l’anno; l’intervallo temporale, o bucket, con cui segmentare il piano, può essere il mese. La ciclicità di programmazione, legata al bucket o ai suoi multipli, è su base mensile: il piano è rolling e, al passare di ogni mese, viene sviluppato quello successivo. Gli input necessari per la formulazione del piano aggregato di produzione sono: le previsioni di produzione, che comprendono non solo le previsioni di vendita, ma anche gli ordini già acquisiti e l’eventuale produzione di scorte di sicurezza e i profili della capacità produttiva disponibile e necessaria. L’adeguamento della capacità produttiva disponibile a quella necessaria può essere visto come un problema di ottimizzazione nel quale la funzione obiettivo è la minimizzazione dei costi e i vincoli sono rappresentati dal soddisfacimento della domanda e dai vincoli sull’impiego delle risorse. La struttura del piano risente della strategia (Chase o Level) scelta dall’impresa. Invece quattro categorie di costo sono rilevanti nella programmazione aggregata della produzione. 1. Costi di produzione, fissi o variabili: sono legati alla produzione di un determinato prodotto in un determinato periodo. In questa categoria sono considerati i costi del lavoro diretto e indiretto, sia in orario regolare sia straordinario. 2. Costi associati ai cambiamenti del tasso di produzione:sono quelli legati all’assunzione, all’addestramento e al licenziamento del personale. 3. Costi di mantenimento a scorta: sono dovuti principalmente all’immobilizzo di capitali nel magazzino (immagazzinamento, assicurazioni, tasse, deterioramento e obsolescenza delle merci stoccate). 4. Costi di back-log o stock-out: sono difficili da misurare, in quanto comprendono i costi dovuti all’attesa, alla perdita dei clienti e alla perdita dei ricavi di vendita dovuti al backlog o allo stock out.

Il piano aggregato di produzione ha l’obiettivo di tradurre gli ordini dei clienti e le previsioni di vendita in un piano di ciò che si intende realmente produrre, con un anticipo sufficiente a gestire tutte le risorse.

costi di produzione

costi associati ai cambiamenti del tasso di produzione costi di mantenimento a scorta

costi di back-log o stock-out

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

416

Le variabili controllabili che possono essere modificate per incontrare l’obiettivo della pianificazione aggregata sono le seguenti. livello di impiego



straordinario e part-time



creazione di scorte



stock-out e back-orders



subappalto



Livello di impiego: consiste nel modificare la forza lavoro tramite assunzioni e licenziamenti. È particolarmente adatta nel caso di modifiche del valore medio della capacità produttiva ma può essere non facilmente praticabile nel caso di fluttuazioni stagionali. Straordinario e part-time: la forza lavoro viene mantenuta stabile ma si consente il ricorso alla cassa integrazione o al part-time quando la domanda è bassa e allo straordinario o al part-time nei momenti di picco. Creazione di scorte: la capacità produttiva viene fissata sul valore medio della domanda attesa e si lascia alle scorte il compito di assorbire le oscillazioni della domanda. Stock-out e back-orders: parte della domanda non viene soddisfatta o viene soddisfatta in ritardo a causa dell’insufficiente capacità produttiva. Subappalto: si fa fronte alle differenze tra capacità produttiva e domanda ricorrendo alla produzione di terzi.

La scelta dell’opportuna miscela di queste strategie può essere compiuta avvalendosi di strumenti tipici della ricerca operativa quali la programmazione lineare e la simulazione. È necessario sottolineare, però, che non sempre può essere conveniente decidere di soddisfare interamente la domanda prevista: i costi opportunità di mancata vendita possono risultare, infatti, inferiori a quelli di mantenimento delle scorte o ai costi di lavoro straordinario così da far preferire una politica di back-orders a ogni altra possibile soluzione.

11.3.5 Il piano principale di produzione Il piano principale di produzione, o Master Production Schedule (MPS), è un piano formale che definisce quali prodotti devono essere realizzati, in quali quantità e con quali tempi. L’orizzonte minimo è l’insieme dei tempi necessari per l’approvvigionamento e la produzione di un bene o l’erogazione di un servizio, presumendo che non ci siano scorte di magazzino. È ottenuto disaggregando il piano aggregato lungo le dimensioni tempo e prodotto. Mentre il piano aggregato di produzione stabilisce un livello di produzione che approssimativamente bilancia le richieste del mercato con le risorse disponibili, il piano principale di produzione traduce questo piano in specifici prodotti, tali da saturare adeguatamente la capacità produttiva disponibile. Nella formulazione dell’MPS è necessario conciliare molteplici esigenze relative alle diverse funzioni aziendali interessate ai risultati dell’elaborazione: • • • •

esigenze della produzione, che vorrebbe mantenere un ritmo produttivo costante e produrre per grandi lotti al fine di contenere i costi di produzione e ridurre i tempi di set-up; esigenze del commerciale, che vorrebbe disporre sempre, o quanto meno in tempi brevi, di un’ampia gamma di prodotti, per garantire ai clienti un elevato livello di servizio; esigenze dell’amministrazione, che vorrebbe limitare gli immobilizzi finanziari in scorte di materie prime e prodotti finiti; esigenze del personale, che vorrebbe piani di produzione con un profilo di utilizzo della manodopera livellato.

Capitolo 11 La gestione delle operations

417

11.3.6 Il Materials Requirement Planning (MRP) Il Materials Requirement Planning (MRP) ha lo scopo di ricavare, tramite l’esplosione del piano principale di produzione, le quantità e le date di emissione al più tardi degli ordini di approvvigionamento o di lavorazione interna. Input principale dell’MRP è, oltre al piano principale di produzione, la distinta base, anche chiamata Bill of Materials (BOM). La BOM è l’insieme di tutti i semilavorati, componenti, sottocomponenti e materie prime necessarie per produrre un bene. La rappresentazione grafica più diffusa di una BOM è attraverso un albero (Figura 11.9), la cui radice è il prodotto finito, da cui partono dei rami. I nodi posti sui rami rappresentano, via via con maggiore dettaglio, tutte le componenti del prodotto finito, fino alle cosiddette “foglie” che sono il massimo livello di disaggregazione. In corrispondenza di ogni legame tra due nodi (uno padre e uno figlio) esiste un documento, che contiene l’elenco di tutte le operazioni necessarie per trasformare il figlio nel padre e il “coefficiente di impiego”, ovvero quante unità di “padre” sono necessarie per produrre un “figlio”. Inoltre il tempo necessario per la produzione o l’approvvigionamento, l’eventuale tempo di set-up, il coefficiente di scarto e tutte le informazioni utili alla produzione. Altro input fondamentale dell’MRP è la situazione di magazzino che informa circa il livello delle giacenze, ovvero indica la quantità corrente di materiale presente nel deposito. Affinché il sistema MRP abbia successo, è necessario che i dati sulle giacenze di magazzino siano ben accurati, che la distinta base sia correttamente strutturata e che il piano principale di produzione sia affidabile. Una volta noti tutti gli input necessari, l’MRP si sviluppa grazie a una procedura in quattro passi.

Il Material Requirement Planning ha lo scopo di ricavare, tramite l’esplosione del piano principale di produzione, le quantità e le date di emissione al più tardi degli ordini di approvvigionamento o di lavorazione interna.

distinta base Bill of Materials (BOM)

1. Netting: determinare i fabbisogni netti a partire dai fabbisogni lordi. Tenendo cioè conto la disponibilità di scorte, i fattori di scarto, gli ordini in corso ecc. 2. Lot-sizing: organizzare i fabbisogni netti in ordini di approvvigionamento o di produzione, tenendo conto delle dimensioni ottimali dei lotti, sulla base dei costi di stoccaggio e dei costi di lancio ordine (e della situazione relativa alla capacità produttiva).

LIVELLO A: prodotti finiti

LIVELLO B: semilavorati

LIVELLO C: componenti

LIVELLO D: materia prima

D20

C11

D24

B12

C13

D32

A16

A12

C23

D41

B16

C29

D44

A20

B20

C30

D47

netting lot-sizing

A25

B38

C40

D58

B42

C67

D62

B67

C83

D70

D71 Figura 11.9 Esempio di distinta base.

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

418

off-setting

BOM explosion

3. Off-setting: calcolare le date di lancio degli ordini di approvvigionamento e di produzione, sulla base dei tempi di lavorazione e di consegna da parte dei fornitori. Occorre tenere anche in conto i relativi possibili ritardi, sia di produzione sia di consegna, derivabili da eventi imprevisti: per questo motivo il calcolo dell’anticipo con cui lanciare l’ordine è effettuato in genere sovrastimando i tempi necessari. 4. BOM explosion: generare i fabbisogni lordi dei nodi al successivo livello della distinta base. L’MRP restituisce come principali output alla funzione Produzione: • • •

fabbisogni tempificati di semilavorati; necessità di anticipo o opportunità di ritardo nelle lavorazioni; informazioni circa la possibilità o impossibilità di rispettare le consegne.

Gli output per i fornitori sono invece: • •

fabbisogni tempificati di materie prime e componenti; necessità di anticipo o opportunità di ritardo negli approvvigionamenti.

Nota dolente del sistema MRP è a seguito di due assunzioni di fondo molto restrittive: 5. il lead-time viene sempre considerato fisso e costante per ogni prodotto; 6. la capacità di produzione dei macchinari viene assunta infinita. Nell’MRP il lead time è anzi normalmente maggiorato per ricomprendere anche il tempo di attesa del prodotto prima di subire una trasformazione. Lo scopo di estendere il lead time a un orizzonte più ampio del tempo fisico di produzione dell’oggetto, permettendo così ai suoi componenti di aspettare in fila, è quello di raggiungere più ammissibilità nel caricamento dei centri di lavoro. Ovviamente questa assunzione genera dei tempi di attesa non necessari per i prodotti e aumenta quindi il work in progress. Per ciò che riguarda la capacità infinita di produzione, questo è un forte limite del sistema MRP perché aumenta la possibilità di generare un piano che sia infattibile e quindi di dover ricorrere a procedure di correzione come il CRP (si veda il Paragrafo 11.3).

11.3.7 Confronto tra MRP e Just In Time Le metodologia Just In Time (JIT) è stata sviluppata, come è noto, dalla Toyota negli anni ’60 e si basa sul concetto di veloce scorrimento del materiale attraverso i vari stadi di produzione. Il prodotto, secondo il JIT, deve arrivare “nel momento giusto, nella quantità giusta, al posto giusto”, decretando il completo superamento dell’idea fordiana di accumulo delle scorte. Tale concetto, anche se apparentemente semplice, in realtà richiede dei requisiti ben specifici per giungere a un buon grado di efficacia. specializzazione della produzione



Specializzazione della produzione: l’applicazione del JIT è ovviamente semplificata al suo massimo livello nelle aziende che producono sempre lo stesso prodotto, su un’unica linea di produzione, essendo facilitata in questo

Capitolo 11 La gestione delle operations









• • •



modo la sistematica eliminazione di ogni tipo di irregolarità o problema. Per tendere a questo ideale, che è proprio di un ristretto numero di realtà, si ricerca in maniera forte di semplificare la struttura del prodotto e di renderlo il più possible modulare. Group Technology: per ottenere gli stessi benefici presi in considerazione nel punto precedente, in caso di flusso di materiale molto intricato è possibile riorganizzare la produzione usando il concetto di produzione per celle o Group Technology. Si cerca quindi di raggruppare prodotti, componenti e lavori simili in modo da semplificare la linea di produzione. Si introduce quindi la nozione di famiglia di prodotti come aggregato di articoli con caratteristiche produttive comuni. Livellamento della produzione: il JIT stabilizza il livello della produzione quotidianamente attraverso una gestione mixed-model, ovvero l’impianto produce contemporaneamente modelli diversi o varianti diverse. Al contrario, l’MRP mira a bilanciare il livello di produzione delle diverse fasi di lavorazione. Produzione Pull: il JIT utilizza un sistema Pull, quindi i prodotti finiti sono “tirati” a partire dall’operazione finale in risposta agli ordini dei clienti. Ciò conduce a una reazione a catena in cui ogni stazione richiama il materiale dalla stazione precedente attraverso il sistema dei cartellini o kanban. Lotti di produzione unitari: tanto minori sono le dimensioni di un lotto di produzione, tanto più facile risulterà la sua movimentazione e risulterà valida la sua gestione finanziaria (minori scorte, minori problemi di obsolescenza ecc.). La riduzione della dimensione dei lotti richiede l’abbattimento dei tempi di set-up ed è funzionale alla produzione mixed-model. Produzione verso “zero difetti”: non solo il prodotto finale deve rispettare i requisiti di qualità, ma lo deve fare sin dall’inizio. Viene quindi a cadere il concetto di “correzione” a favore della “prevenzione” della non qualità. Affidabilità degli impianti: perché il meccanismo del JIT funzioni, occorre che le stazioni di lavoro siano disponibili. Per questo motivo si preferisce un’attività manutentiva preventiva per evitare l’insorgere di guasti improvvisi. Rete di fornitura: l’esigenza di abbattere i costi attraverso una politica di approvvigionamento di tipo buy deve essere conciliata con la necessità di avere fornitori affidabili per qualità e tempi di consegna. Questo si ottiene creando rapporti forti con i fornitori e formando un sistema rete di piccole imprese unite tra loro come in una ragnatela all’azienda leader. Manodopera disciplinata, coinvolta e multi-skill: tutta la manodopera è responsabilizzata per la realizzazione di tutti gli obiettivi. Inoltre per lavorare in una Group Technology deve possedere necessariamente competenze diversificate.

Volendo fare un confronto tra i due sistemi JIT e MRP, possiamo sintetizzarlo nella Tabella 11.1.

11.3.8 L’inventory management Si definisce scorta il quantitativo di materiale presente in un sistema produttivo, in attesa di subire una lavorazione (materia prima o work in process) o di essere distribuito (prodotto finito). Le scorte implicano per il loro mantenimento, un fabbisogno economico-finanziario notevole. È ben chiaro quindi perché le scorte

Group Technology

livellamento della produzione

produzione Pull

lotti di produzione unitari

produzione verso “zero difetti”

affidabilità degli impianti

rete di fornitura

manodopera disciplinata, coinvolta e multi-skill

419

420

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Tabella 11.1

Confronto fra i sistemi JIT e MRP MRP

Capacità produttiva Focus Logica Lotto di produzione

Infinita Date di consegna Push Basato su vincoli tecnici o economici Gestione delle scorte Ottimizzare le scorte Ipotesi sul contesto –

JIT

– Costi, tempi e qualità Pull Tendente all’unità Ridurre le scorte a zero Stabile

sono sempre oggetto di un accurato controllo gestionale e la letteratura ha sviluppato innumerevoli strumenti di gestione. In sintesi, sono note due principali logiche di gestione: 1. la logica del “guardare avanti” o look ahead: presuppone la conoscenza del programma di produzione dei prodotti finiti e calcola con esattezza, in cascata, il fabbisogno di semilavorati, componenti e materiali impiegati; 2. la logica del “guardare indietro” o look back): l’ordine di approvvigionamento è lanciato quando le rimanenze sono insufficienti per coprire la domanda prevista. Il concetto alla base è quello di “reintegro” della giacenza: ogniqualvolta la scorta raggiunge un prefissato livello (o intervallo) di riordino, si provvede all’approvvigionamento. La logica look ahead si concentra più che sulla giacenza fisica, sul flusso di scorta che attraversa i vari stadi della supply chain. Comporta minore capitale immobilizzato, minore rischio di obsolescenza e migliore reattività alle variazioni della domanda. Di contro presuppone l’impiego di strumenti informatizzati, che in genere sono sofisticati e costosi. I metodi usati sono l’MRP o il JIT e il kanban. La logica look back adotta diversi modelli per il reintegro delle scorte. • sistemi di controllo a quantitativi di riordini fissi (Re Order Level, ROL)

sistemi di controllo a cicli di riordino fissi (Re Order Cycle, ROC)



Sistemi di controllo a quantitativi di riordini fissi (Re Order Level, ROL): prevedono che un ordine venga emesso non appena il livello di giacenza disponibile risulta inferiore al prestabilito livello di riordino (LR). In questo modello l’intervallo temporale tra le emissioni degli ordini è variabile ed è collegato alla velocità del consumo, mentre la quantità approvvigionata è fissa. Sono caratterizzati da un monitoraggio continuo del livello di giacenza (Figura 11.10). Sistemi di controllo a cicli di riordino fissi (Re Order Cycle, ROC): prevede che il controllo delle giacenze sia effettuato non in maniera continua, ma soltanto periodica. La quantità ordinata è pari alla differenza tra un livello obiettivo di scorta (uguale alla scorta di sicurezza sommata al consumo medio previsto nell’orizzonte temporale, che a sua volta è pari al tempo medio di approvvigionamento più un intervallo di riordino) e la giacenza disponibile nell’istante della verifica. La caratteristica che più differenzia tale metodo dal precedente è che la scorta di sicurezza è normalmente più elevata perché deve coprire la variabilità della domanda attesa non solo durante il tempo necessario per approvvigionarsi della parte, ma anche durante l’intervallo tra un monitoraggio e l’altro. Contrariamente al caso precedente, nel modello in esame l’intervallo di approvvigionamento è fisso,

Capitolo 11 La gestione delle operations

q

q = quantità t = tempo LR = livello di riordino

421

TA = tempo di approvvigionamento SS = scorte di sicurezza

LR SS

TA

TA

TA

t

TA

Figura 11.10 Modello Re Order Level.

IR

q

LR’

SS’

TA q = quantità t =tempo LR = livello di riordino

TA

TA

TA = tempo di approvvigionamento SS = scorte di sicurezza IR = intervallo di riordino

Figura 11.11



t

mentre varia la quantità approvvigionata. Questo sistema è più semplice e Modello Re Order Cycle. si adatta ad articoli a consumo non uniforme. Di contro la scorta sicurezza e i relativi costi di mantenimento sono più elevati (Figura 11.11). Sistemi di controllo a scorta minima e massima: prevede l’emissione sistemi di controllo a scorta minima e massima di un ordine variabile, pari alla differenza tra un livello di giacenza detto scorta massima (limite superiore) e la disponibilità, qualora quest’ultima risulti inferiore a un livello di giacenza detto scorta minima (limite inferiore) (Figura 11.12).

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

422

q

IR

IR

LO

SS

TA q = quantità t = tempo LO = livello obiettivo

TA

TA

TA

t

TA = tempo di approvvigionamento SS = scorte di sicurezza IR = intervallo di riordino

Figura 11.12 Modello con livello obiettivo. sistemi di controllo a reintegro della scorta



Sistemi di controllo a reintegro della scorta: si tratta di una semplificazione del metodo a cicli di riordino fissi. Il modello prevede di emettere un ordine, qualora la disponibilità risulti inferiore al livello ottimale. L’ordine è pari alla differenza tra il livello ottimale e la disponibilità (Figura 11.13).

Non esiste ovviamente a priori un modello migliore dell’altro, ma occorre calarsi nello specifico contesto aziendale, analizzando, ai fini della scelta, i seguenti parametri: • • • • •

criticità della parte; costo del monitoraggio; costi di emissione dell’ordine; costi di mantenimento; variabilità della domanda e del tempo di approvvigionamento.

11.4 L’operations improvement I temi del miglioramento e della qualità, pur tenendo banco da diversi decenni, continuano a incrementare la loro rilevanza alla luce di una crescente pressione concorrenziale e di un contesto di generale crisi di risultati. Per restare competitivi è necessario quindi perseguire con assiduità il miglioramento delle prestazioni. Aziende eccellenti (Zara, IKEA ecc.) hanno dimostrato come, focalizzandosi sul sitema produttivo, sia possibile ottenere progressi notevoli attraverso appropriate metodologie. Obiettivo di questo paragrafo è di

Capitolo 11 La gestione delle operations

423

Smax

Smin

SS

TA t = tempo Smax = scorta massima Smin = scorta minima

IR

TA

TA

t

TA = tempo di approvviogionamento SS = scorte di sicurezza IR = intervallo di riordino

Figura 11.13 Modello scorta minima-scorta massima.

tracciare un quadro generale di queste metodologie, ilustrandone sinteticamente i caratteri generali e peculiari e individuando anche i contesti in cui rendono al meglio. Tutte queste metodologie, ferme restando le loro diversità, sono accumunate da alcuni principi cardine. •





Il miglioramento è pensato per il cliente: la ragione è che una qualsiasi azienda esiste perché i clienti sono disposti ad acquistare i suoi prodotti. La soddisfazione del cliente diventa quindi il primo principio ispiratore nella gestione del cliente. Questo intuitivo concetto si complica nel momento in cui le tipologie di clienti si moltiplicano e le loro esigenze si specializzano. Ma è questa una condizione oramai di fatto che no regredirà certo in futuro, semmai si amplificherà a causa della globalizzazione e della competitività esasperata. Il miglioramento è continuo: è il concetto base sviluppato da Deming (1982), secondo il quale solo la costante interazione tra ricerca, progettazione, test, produzione e vendita permette di “soddisfare i bisogni presenti e futuri del cliente”. Inoltre il miglioramento, sempre secondo Deming, si ottiene riducendo la varianza dei processi attraverso una metodologia sistematica che prevede l’applicaizone continua di quattro fasi in stretta successione: Plan-Do-Check-Act. Quality first: è anche noto come approccio “zero difetti” e rappresenta il vero impegno del management nei confronti del miglioramento. L’idea è che i processi devono funzionare da subito. Non si deve più risanare in corso d’opera, ma si deve inseguire la qualità già in fase di progettazione del prodotto e del servizio.

miglioramento pensato per il cliente

miglioramento continuo

Plan-Do-Check-Act Quality first

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Fermi restando questi principi cardine, esiste poi una pletora di metodologie che insegue il miglioramento ognuna attraverso una sua propria strada e portando avanti specifiche convinzioni. Molto spesso in passato si è sentoto decantare un metodo piuttosto che un altro, come un’autentuca devolution. La verità è che non esiste l’ottimo assoluto, ma differenti strategie e mercati mettono l’accento su diversi aspetti della performance, che necessitano ognuno di specifici metodi di miglioramento. Per questo è importante averne una panoramica completa.

11.4.1 Il Total Quality Management Il TQM (Total Quality Management) è un approccio gestionale orientato a far eccellere l’azienda in tutte quelle dimensioni del prodotto e del servizio importanti per la clientela.

Il TQM (Total Quality Management) è un approccio gestionale orientato a far eccellere l’azienda in tutte quelle dimensioni del prodotto e del servizio importanti per la clientela. Tra le tante definizioni disponibili, scegliamo di citare quella di Sashkin & Kiser (1993), che mettono molto bene in luce come il TQM sia un “ombrello” sotto il quale sono riuniti strumenti e metodi diversi, tutti accumunati dal principio di costante ricerca della customer satisfaction: “TQM significa che la cultura aziendale è definita per supportare una costante ricerca della customer satisfaction attraverso un sistema integrato di strumenti, tecniche e formazione”.

Total

Quality Management

valorizzazione delle risorse umane

cliente interno

partnership con i fornitori

Tuttavia, per comprendere al meglio cosa differenzia il TQM da tutti gli atri metodi di operations improvement, dobbiamo completare la precedente definizione attraverso il contributo di Tauno Kekäle (2010), uno dei maggiori esperti europei in TQM, che ha sintetizzato in modo molto efficace gli aspetti peculiari di questo metodo, analizzando l’acronimo in questo modo. • Total: la qualità deve essere totale, ovvero deve coinvolgere tutte le persone e le funzioni di un’organizzazione, che viene vista come un sistema in cui i risultati di una sua parte si ripercuotono, nel bene e nel male, su tutti. • Quality: la qualità è un “progetto” che va perseguito nel lungo periodo, in modo tale che diventi un pilastro stesso dell’organizzazione. • Management: per essere applicato, il TQM ha bisogno di una leadership coinvolta che creda nella sua efficacia, che sia disposta a investire nelle risorse necessarie e ad applicare costantemente i sui principi. Oltre ai principi cardine comuni un po’ a tutte le metodologie per il miglioramento, obiettivi specifici della TQM sono anche: • valorizzazione delle risorse umane: questi diventano attori di primo piano, attraverso i quali individuare e portare avanti le azioni di miglioramento (si pensi alla “rivoluzione” dei Circoli di Qualità, introdotti proprio dalla TQM) e interlocutori preziosi, in quanto profondi conoscitori dei più piccoli ingranaggi del sistema azienda; • cliente interno: nei momenti di contatto tra diversi uffici, funzioni o fasi di produzione, ognuno dovrebbe considerare l’entità ricevente come un “cliente interno”, da dover soddisfare; • partnership con i fornitori: ogni fornitura deve avere e mantenere nel tempo lo stesso livello qualitativo dell’azienda a cui è destinata e questo si ottiene solo attraverso la creazione di rapporti duraturi e solidi con fornitori, basati sulla fiducia e il vantaggio reciproci.

Capitolo 11 La gestione delle operations

11.4.2 La Lean Production Verso la metà degli anni Settanta, in contrapposizione alla produzione di massa, si afferma in Giappone il modello di fabbrica integrata basato su un modello flessibile e snello di produzione. Il metodo è noto come Lean Production o anche Toyota Production System, dal nome dell’azienda in cui ha visto la luce e si è sviluppato. La Lean Production sostituisce il tradizionale paradigma produttivo produrre-consegnare-vendere con una concezione vendere-produrre-consegnare, in cui il consumatore è inteso come cliente committente in grado di presentare le richieste qualitative che gli interessano. L’idea alla base della Lean Production è che la complessità di per sé è un costo. Occorre quindi ripensare l’intero processo produttivo in modo tale da renderlo più semplice e flessibile, con conseguente utilizzo ottimale degli impianti, riduzione dei tempi di giacenza nei magazzini e abbattimento degli errori. Un flusso di produzione visivamente semplice da comprendere e da seguire fa risaltare subito i risultati e consente aggiustamenti rapidi in corso d’opera. Per fare ciò occorre ricercare una strettissima integrazione della produzione con le altre funzioni aziendali, guardare al cliente come punto di arrivo e motivo stesso di essere dell’azienda. Inoltre rimane fondamentale la ricerca di un miglioramento continuo dei processi attraverso piccoli incrementi qualitativi (kaizen) e della qualità totale che adegui il frutto della produzione alle esigenze dei clienti. Da quanto detto, è chiaro che possiamo considerare la Lean Production quasi come un’evoluzione della TQM. Il suo grande punto di forza, da cui poi deriva il suo forte impatto innovativo, è nel taglio metodologico che è orientato a produrre il maggiore valore possibile con il minore utilizzo di risorse attraverso la continua ricerca ed eliminazione degli sprechi. Altro aspetto non originale, ma che viene decisamente stressato, è l’investimento sul capitale umano. Attraverso soprattutto una continua e mirata formazione viene operata una vera e propria rivoluzione culturale rispetto alle logiche tradizionali. A riprova si è affermato negli anni anche il modello Lean Thinking, che non è altro che l’estensione della Lean Production alle altre aree dell’impresa. Dunque un ripensamento del complesso organismo aziendale che diventa cultura aziendale.

11.4.3 Il Six Sigma e il Lean Six Sigma La metodologia Six Sigma si pone anch’essa di portare la qualità di un prodotto o di un servizio al livello richiesto dal cliente. La differenza è che lo fa concentrando l’attenzione sulle variazioni dei processi aziendali rispetto al loro comportamento standard. Il nome Six Sigma deriva esattamente dal fatto che in questo metodo si controlla lo scarto quadratico medio di un processo, normalmente indicato con la lettera greca Sigma. L’obiettivo della metodologia è di raggiungere un tale controllo del processo da avere soltanto 3,4 parti difettose per milione; traguardo che si raggiunge se la deviazione standard non supera un dodicesimo della larghezza delle specifiche. La metodologia Six Sigma mira quindi all’eliminazione dei difetti e degli sprechi, piuttosto che al semplice miglioramento della prestazione media. Questo garantisce un impatto diretto sul cliente e segna un progresso rispetto all’approccio tradizionale al miglioramento. Inoltre consente al management di conoscere le motivazioni delle variazioni e di predire i risultati finali del processo.

produrre-consegnare-vendere vendere-produrre-consegnare

produrre il maggiore valore possibile con il minore utilizzo di risorse attraverso la continua ricerca ed eliminazione degli sprechi

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Nella pratica, questo principio non è applicato quasi mai in modo rigoroso. La metodologia viene vista per lo più come un metodo generale per la riduzione dei difetti. Per queto motivo trova un’efficace applicazione in tutti gli ambiti di impresa, dalla produzione alla logistica, dalla direzione al commerciale; e anche in ambienti non produttivi in senso stretto, per esempio nei servizi, in cui viene usata non tenendo conto rigorosamente degli aspetti statistici. Per questo motivo, il Six Sigma non può essere visto solo come uno strumento per miglioramento, ma spinge le aziende a una continua auto-analisi delle proprie inefficienze, tracciando un quadro di quelli che sono i punti più critici dell’organizzazione. Altra considerazione che merita di essere citata è che il metodo Six Sigma è sempre più spesso utilizzato in stretta commistione con la Lean Production. Questo perché si è notato che gli strumenti Lean a volte non sono sufficienti per perseguire i risultati di miglioramento voluti. D’altra parte un programma Six Sigma sarà più efficace se lavorerà su processi snelli e semplici. Il Six Sigma si focalizzerà in questo caso sulla variabilità, riducendo la difettosità di processo, mentre la Lean Production contribuirà a tagliare gli sprechi, migliorando l’utilizzo delle risorse. La sinergia tra Lean Production e Six Sigma produce due effetti simultanei: flessibilità dei processi produttivi e decisionali e miglioramento della qualità delle operazioni aziendali, dei prodotti e dei servizi offerti alla clientela.

11.4.4 Il World Class Manufacturing L’ultimo metodo che prendiamo in considerazione è il World Class Manufacturing (WCM), che è stato introdotto nel 1986 da R. Schonberger, sviluppato negli Stati Uniti negli anni 90 e recentemente è balzato in Italia agli onori della cronaca perché è stato implementato nel gruppo FIAT, di cui si sta rivelando una delle ragioni della recente svolta positiva. Volendone dare una definizione completa, il WCM è un programma di miglioramento continuo, basato sulla progressiva eliminazione degli sprechi, in modo da garantire la qualità del prodotto e la massima flessibilità nel rispondere alle richieste del cliente, e sul coinvolgimento e la motivazione di tutti. È evidente che anche in questo caso il WCM non dice nulla di nuovo, ma si limita apparentemente a integrare insieme i concetti provenienti dal Total Quality Control e dalla Lean Production. Il suo contributo però si manifesta energicamente nella tecnica del Cost Deployment, grazie alla quale i problemi di qualunque tipo sono priorizzati e poi affrontati sulle base della loro incidenza economica. Il Cost Deployment si serve del controllo di gestione per evidenziazione le fonti di perdita economica che gravano sulla parte variabile dei costi di produzione. Attraverso il Cost Deployment il WCM indirizza gli sforzi di miglioramento e monitora poi i risultati conseguiti nel tempo, valorizzando dal punto di vista economico tutte le attività. Il WCM punta inizialmente agli sprechi in produzione, ma in seguito si concentra anche sull’eliminazione degli sprechi della struttura organizzativa e di quelli derivanti dalle pratiche del management. È concentrata in maniera ossessiva sul cliente e questo significa che aggredisce ogni fonte di sua possibile insoddisfazione.

11.5 Gli economics delle operations In risposta alla crescente pressione competitiva, abbiamo visto che al manager delle operations è richiesto di allargare il campo delle proprie competenze e di

Capitolo 11 La gestione delle operations

perseguire una performance multi-dimensionale (si veda il Paragrafo 11.1.3). La circostanza ha nell’immediato, l’effetto di affrancare il manager dalla necessità di inseguire sic et simpliciter l’obiettivo di tagliare i costi. Tuttavia in prospettiva si vede che l’aspetto della valorizzazione economica delle attività, invece di essere superato, è reso ancora più delicato e complesso. Si moltiplicano, per l’operations manager, le opportunità costituite da metodi e strumenti di miglioramento, ma d’altra parte la performance può essere valutata secondo più dimensioni, ciò che accresce i vincoli e la complessità del sistema. La regola generale che rimane comunque valida è che il manager deve lavorare per ottenere un output dell’attività di produzione con un valore economico superiore, o almeno uguale, a quello degli input; se questo non accade significa che non c’è stata creazione di valore con il conseguente spreco di risorse. Per affrontare questo argomento, scegliamo di prendere in considerazione due differenti prospettive di analisi: 1. come le scelte produttive impattano sulla redditività dell’impresa; 2. come il costo di produzione rappresenta un driver per le scelte aziendali.

11.5.1 Gli impatti delle scelte produttive sulla redditività dell’impresa Per valutare l’impatto di scelte produttive sulla redditività dell’impresa, esistono diversi modelli decisionali, che mirano tutti a ottimizzare le scelte con riferimento a prezzi, costi e margini. Questi modelli si differenziano per l’orizzonte temporale su cui insistono le decisioni. Quindi parliamo di: •



modelli operativi o di breve periodo: i valori di costo e prezzo sono dati di input, mirano a massimizzare il grado di sfruttamento della struttura produttiva, che viene considerato non modificabile, influenzando per lo più i costi variabili. Esempi di queste decisioni sono la scelta dei volumi e dei mix di produzione, l’identificazione del portafoglio prodotti, l’utilizzo della struttura produttiva in condizioni di maggiore economicità; modelli strategici o di lungo periodo: possono modificare la struttura produttiva, per esempio provvedendo un investimento per l’acquisto di nuove attrezzature, e incidere sui fattori che determinano prezzi, costi e margini. Incidono quindi sulla struttura dei costi fissi e variabili e il loro rapporto, sull’elasticità gestionale e sulla composizione reddituale, finanziaria e patrimoniale.

modelli operativi o di breve periodo

modelli strategici o di lungo periodo

In generale, esistono due famiglie di metodi per la valutazione dell’impatto delle scelte sulla redditività aziendale. • •

Analisi degli investimenti: è un metodo tipico per valutare le scelte di lungo periodo per cui si rimanda al Capitolo 13. Analisi differenziale del margine di contribuzione: è un metodo tipico per le scelte di breve periodo e si basa sulle analisi dei ricavi e dei costi differenziali. Non si considerano gli ammortamenti perché relativi a scelte di lungo periodo non modificabili. Può supportare il manager nello sviluppare ragionamenti ipotetici e comparativi e per risolvere problemi specifici, nel rispetto di un’autonomia decisionale limitata da strategie ben definite.

analisi degli investimenti analisi differenziale del margine di contribuzione

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Il principale limite dei metodi quantitativi, in generale, è di non riuscire a ricomprendere al loro interno tutti i fattori e i vincoli normalmente presenti in un contesto reale. Per questo, riteniamo corretto analizzare di seguito le principali scelte produttive, corredando l’analisi di tutte le considerazioni che siano da ritenere utili per prendere decisioni efficaci e convenienti dal punto di vista economico. Scelta di make or buy È una delle scelte produttive più frequenti. L’espressione make or buy riporta alla possibilità di produrre internamente (make) materiali o di acquistarli da fornitori (buy). In generale l’argomento è stato già affrontato nel Paragrafo 11.2.3. Dal punto di vista quantitativo, la scelta deve essere fatta sulla base del confronto tra i costi totali da sostenere nei due casi. Ma si tratta di una decisione strategica fondamentale per l’azienda, che definisce in questo modo il grado di integrazione, l’organizzazione e il posizionamento sul mercato e determina anche la struttura dei costi. Occorre quindi studiare a fondo i pro e i contro delle due alternative nello specifico contesto (si veda il Paragrafo 11.2.3) e inoltre tenere in considerazione le caratteristiche della fornitura esterna, in special modo eventuali criticità, e anche la quantità e la qualità delle risorse disponibili per il make all’interno dell’azienda. In generale l’outsourcing delle attività è favorito dalla maturità del settore industriale, perché aumentano i vantaggi di specializzazione e le economie di scala. Negli ultimi decenni, la tendenza globale è quella di mantenere all’interno dell’impresa le attività della gestione caratteristica, basate sulle competenze chiave, e quelle con forte potenziale di sviluppo, su cui si fonda il vantaggio competitivo di lungo termine, esternalizzando tutte le altre. Il sempre più frequente ricorso all’outsourcing è legato a: • • •

esigenze di focalizzazione sul core business e necessità di perseguire logiche di Lean Production; globalizzazione, che porta spesso a un’organizzazione delle imprese come network di servizi per sviluppare valore per il cliente (organizzazione virtuale); scelte di ottimizzazione del ROI perché l’esternalizzazione di attività non core comporta la riduzione del capitale investito.

Scelta del livello di capacità produttiva ottimo Anche questa scelta è stata trattata nel Paragrafo 11.2.2. Qui è allora sufficiente precisare alcune considerazioni. Nell’operare questa scelta occorre principalmente tenere in conto che i costi collegati alla capacità produttiva sono in gran parte fissi; pertanto ogni modifica che si dovesse presentare necessaria sarebbe in genere assai costosa e non attuabile in tempi brevi. D’altra parte è anche vero che i costi fissi non aumentano proporzionalmente all’aumentare della capacità produttiva, quindi è conveniente in parte puntare a livelli di capacità produttiva più elevati, anche per tenere in considerazione eventuali futuri incrementi della domanda di mercato. Oltre un certo punto però intervengono le diseconomie di scala, che sono riferite ai costi di trasporto (accentrando la produzione aumentano i costi di trasporto sia delle materie prime sia dei prodotti finiti) e all’aumento della complessità (costi di coordinamento e comunicazione). Frazionamento della capacità produttiva È questa una scelta strettamente connessa alla precedente. Infatti, se l’impresa è orientata a minimizzare i costi di produzione, è anche portata ad accentrare

Capitolo 11 La gestione delle operations

tutta la capacità produttiva in pochi siti, per sfruttare al meglio le economie di scala e di apprendimento. Una simile scelta però, può causare forti difficoltà ad adeguarsi alle mutevoli esigenze del mercato. Se l’azienda opera in mercati in cui è richiesta una elevata flessibilità, è preferibile frazionare la capacità produttiva in impianti di dimensioni più ridotte, in cui è più facile variare rapidamente i volumi e diversificare o innovare i prodotti. Altro vantaggio a favore del frazionamento della capacità produttiva risiede nella riduzione dei costi di trasporto e di distribuzione, dovuta a una migliore ubicazione dei siti rispetto ai mercati di approvvigionamento delle materie o ai canali di vendita dei prodotti finiti. Introduzione dell’automazione nei processi produttivi Un elevato grado di automazione dei processi produttivi esige cospicui investimenti in beni strumentali e inoltre richiede un livello di professionalità dei dipendenti tale da rendere spesso necessari rilevanti interventi formativi. A fronte della spesa, si deve tener conto che, grazie all’automazione flessibile, cioè in grado di compiere lavorazioni diverse su uno stesso tipo di prodotti (oppure le stesse operazioni su prodotti differenti), la produzione può raggiungere i seguenti obiettivi: • • • •

ampliare la gamma di prodotti potenzialmente realizzabile; variare rapidamente ed economicamente il “mix” di produzione; ottenere prodotti con un livello qualitativo mediamente più alto, perché i sistemi automatici rispettano tolleranze molto basse e richiedono l’impiego di materie prime di elevata qualità; adattare facilmente il prodotto a particolari esigenze del cliente.

Vale la pena sottolineare che il concetto stesso di automazione ha visto nel giro di pochi anni un’iperbolica amplificazione grazie allo sviluppo e diffusione delle tecnologie digitali, a cui si deve ricondurre la quarta rivoluzione industriale nota con il nome di Industry 4.0 (per approfondimenti si veda il box Esperienza). Scelta del mix produttivo Consiste nel selezionare quali prodotti produrre in presenza di risorse scarse, per esempio una capacità produttiva finita. La scelta va presa privilegiando i prodotti con i margini di contribuzione più elevato o scegliendo la configurazione che massimizza il margine di contribuzione complessivo. Tuttavia occorre considerare anche la domanda di mercato per ogni prodotto e tenere presente tutti i vincoli produttivi, commerciali e logistici. Inoltre è opportuno valutare in che fase del proprio ciclo di vita si trova ogni prodotto. Politiche di produzione La redditività dell’impresa è fortemente influenzata dal valore dell’invenduto e delle giacenze. Un segnale di allarme del fatto che scorte troppo elevate stanno erodendo il profitto dell’azienda è dato dall’indice di rotazione delle scorte, che descrive appunto quanto “velocemente” girano le scorte in magazzino. L’obiettivo di tenere sotto controllo le scorte deve essere raggiunto anche attraverso una politica di produzione il più possibile Pull.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Esperienza

La quarta rivoluzione industriale (Industry 4.0): un’occasione per cambiare marcia Le ultime due decadi sono state caratterizzate dal prepotente ingresso, tra i protagonisti della competizione internazionale, dei Paesi in via di sviluppo, che detengono allo stato attuale circa il 40% della produzione manifatturiera mondiale contro il 25% dell’Europa. Tuttavia esiste adesso una concreta possibilità di recuperare competitività: da una parte ci sono l’aumento dell’incertezza lungo l’intera catena del valore e la spinta crescente del mercato, che richiede prodotti/servizi sempre più innovativi, ad alto valore aggiunto e fortemente customizzati, e dall’altra le opportunità offerte dallo sviluppo delle tecnologie digitali. Entrambe le forze hanno dato corpo a quella che si propone come la “quarta rivoluzione industriale” o Industry 4.0. È questo il termine che viene utilizzato per descrivere l’evoluzione del settore industriale operato grazie alla “digital transformation” dei processi organizzativi e produttivi delle organizzazioni. Industry 4.0, è principalmente la presa di coscienza della possibilità di utilizzare le tecnologie digitali per migliorare i processi produttivi di un’organizzazione. In particolare Industry 4.0 si concretizza nell’interconnessione del mondo reale (quello delle industrie, degli impianti di produzione, dei prodotti, macchinari, sistemi di stoccaggio, ecc.) con il mondo virtuale (quello delle nuove tecnologie), attraverso sistemi definiti Cyber Phisical Systems. Questi nello specifico, lavorano attraverso una sensoristica avanzata e intelligente in grado di scambiarsi autonomamente informazioni e dati, e innescare di conseguenza meccanismi di azione-reazione e controllo autonomo sui processi. Industry 4.0 prevede inoltre una integrazione informativa tra gli attori della catena del valore. In una fabbrica targata Industry 4.0 ci sono perciò sensori, device mobili e robot; ma soprattutto circolano più informazioni, più precise, già integrate e in tempo reale, che vengono analizzate e utilizzate per migliorare appunto i processi. Molte delle tecnologie alla base di Industry 4.0 sono tutt’altro che innovative e già da tempo utilizzate nei processi produttivi. La novità consiste però in una nuova visione dei processi produttivi. Si passa cioè da un’ottimizzazione dei processi fine a se stessa, a una integrazione complessiva di processi e attori (fornitori, clienti, service providers, ecc.) finalizzata a raggiungere elevati livelli di efficienza, maggiore flessibilità e soprattutto una risposta al mercato più rapida ed efficace. Altro aspetto peculiare della rivoluzione di Industry 4.0 è dato da un nuovo modello di automazione industriale: digitalizzare un processo non significa più automatizzarlo, sostituendo all’uomo un robot, ma principalmente permettere alle informazioni di circolare. Le fabbriche del futuro sono descritte o immaginate come spazi capital intensive attraversati da flussi di dati da e per il mercato, con volumi ridotti e piu armonicamente inserite nel ter-

11.5.2 L’impiego dei costi di produzione per le scelte industriali Il costo di produzione, anche detto costo industriale, ricomprende i costi delle risorse che sono destinate alla realizzazione di un prodotto, a esclusione dei costi generali (amministrazione, assicurazioni, marketing ecc.). Si ottiene sommando: • •

il costo primo: la somma dei costi direttamente imputabili a un prodotto, materie prime di materie accessorie e costi per la manodopera diretta; i costi indiretti: devono essere imputati a ogni singolo prodotto attraverso una operazione di riparto che utilizza opportuni driver (per esempio il costo di ammortamento o il costo dell’energia elettrica che possono essere ripartiti in base alle “ore macchina” necessarie per la produzione dei singoli prodotti).

Capitolo 11 La gestione delle operations

ritorio. In questo senso Industry 4.0 rappresenta davvero l’ultima opportunità per i Paesi a economia matura, come quelli europei, di ritagliarsi un’area di competitività specializzandosi in attività ad alta tecnologia e know-how. Per essere concreti vediamo alcune delle practice più interessanti adottate nei sistemi produttivi, a seguito della diffusione del modello di Industry 4.0. Tra i primi processi a essere interessati dalla digital transformation ci sono quelli logistici. Come abbiamo detto la logistica è per definizione focalizzata sullo scambio dei flussi anche informativi. Conseguentemente l’opportunità di far circolare in modo più veloce, integrato ed efficace un maggior numero di dati tra gli attori rappresenta un vantaggio competitivo notevole. Tra le applicazioni più interessanti c’è la “smartizzazione” dei prodotti, ovvero la pratica di dotare gli oggetti di una sensoristica avanzata e renderli in tal modo “intelligenti”, in grado di comunicare con apparati e attori. Si realizzano in questo modo la sincronizzazione delle attività (qualche volta grazie alla cosidette control tower, cioè delle centrali di servizio in grado di smistare le informazioni e coordinare le attività) e il più autentico “just-in-time”. Inoltre si semplifica la tracciabilità e la rintracciabilità lungo tutta la catena di fornitura e per tutta la durata del ciclo di vita del prodotto. Sono questi requisiti sempre più imprescindibilmente richiesti dal mercato che vuole essere garantito, ma anche informato rispetto a ciò che consuma. Come già detto, Industry 4.0 ha il merito di cambiare il concetto stesso di automazione dei processi, creando una nuova forma di relazione uomo-macchina in cui collaborazione e cooperazione sono gli spunti emergenti. Esempio ne è la nuova generazione di robot leggeri, in grado di condividere lo spazio fisico di lavoro con gli operatori senza comprometterne la sicurezza. Anche i dispositivi per la realtà aumentata, con cui in tempo reale e attraverso apparecchi di uso comune e immediato, tra cui occhiali e caschi intelligenti, vengono fornite in tempo reale informazioni e supporti documentali non cartacei agli operatori per lo svolgimento delle proprie attività. Infine meritano di essere menzionate le innovazioni digitali che agiscono sull’impatto ambientale o sul consumo energetico degli apparati produttivi, come per esempio l’uso di sensori e algoritmi di controllo intelligenti per ottimizzare le emissioni degli impianti. In sintesi, Industry 4.0 rappresenta in primo luogo un’opportunità, per far risalire la competitività delle industrie del mondo occidentale; apre infatti, un nuovo tavolo su cui giocare, dove il basso costo non è più elemento determinante, ma invece lo diventano il know-how e la capacità di trasferire tecnologia. Al tempo stesso rappresenta però, per chi si occupa di operations management, una sfida che costringe a ripensare completamente i processi produttivi, l’organizzazione della fabbrica e l’apporto del fattore umano.

Il costo primo serve per valutare i semilavorati e per determinare il margine di contribuzione. Il costo industriale invece è per valutare i prodotti finiti e per trovare il costo del venduto. Sommando al costo di produzione la quota dei costi commerciali e amministrativi si ottiene il costo complessivo che è usato per valutare la redditività dei prodotti. Il costo economico-tecnico viene determinato partendo dal costo complessivo e aggiungendo una quota degli oneri figurativi (stipendio direzionale, interesse di computo, rischio d’impresa ecc.) e serve per valutare se il prezzo di vendita, oltre ai vari costi, compensa l’attività imprenditoriale. Negli ultmi decenni si è assistito a una progressiva riduzione del peso dei costi diretti. Così il costo delle materie prime impiegate è stato notevolmente abbattuto grazie, per esempio, all’uso di plastica al posto delle leghe metalliche. Parallelamente sono aumentati i costi dovuti all’impiego delle nuove tecnologie, la spesa in R&D, i costi di marketing, gli oneri di distribuzione e i costi per l’assistenza post-vendita.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

11.5.3 La costruzione del budget della produzione Il budget della produzione è finalizzato alla quantificazione economica delle attività di pertinenza delle operations. Ha come input fondamentali le quantità da produrre, che sono desumibili dal piano delle vendite, e i costi standard, che esprimono i costi attesi per svolgere le attività in condizioni considerate “normali”. Presuppone inoltre che siano state prese le opportune decisioni relative alla gestione delle scorte. Restituisce: • •

costi da sostenere per i volumi di produzione programmati; investimenti relativi all’area della produzione.

Si compone dei seguenti budget operativi. budget delle materie prime



budget della manodopera diretta



budget delle spese generali di produzione



Budget delle materie prime: a partire dal volume di prodotti finiti, valorizza il consumo di materie prime. Presuppone la conoscenza dei rendimenti standard e del livello delle rimanenze iniziali e finali delle materie in magazzino. Budget della manodopera diretta: a partire dall’organico necessario per realizzare i volumi previsti e dalle sue caratteristiche (nuovi assunti o ricollocati, a tempo indeterminato o meno ecc.), viene quantificato il costo per le attività a cui sono destinati. Budget delle spese generali di produzione: le spese generali si riferiscono ai servizi che supportano le attività produttive di impresa (servizi amministrativi, legati alla gestione del personale, organizzativi, finanziari, di pianificazione e controllo ecc.).

11.5.4 Gli indicatori economici per il controllo delle operations Di seguito si riportano alcuni indici economici per il controllo delle operations. • • •

Costo del Venduto/Ricavi Vendite: esprime l’incidenza percentuale di tutti i costi diretti sostenuti per ottenere i prodotti e/o i servizi disponibili per la vendita. Costo del Personale/Ricavi Vendite: mostra quanto incidono, in percentuale, tutti i costi del personale dipendente sui ricavi delle vendite. Indice di Efficiente Produzione: Ricavi Conseguiti/Ricavi al Punto di Equilibrio = (Ricavi – Costi Variabili)/Costi Fissi = (Ricavi – Costi Variabili)/(Costi Totali – Costi Variabili): esprime la capacità dell’impresa di produrre reddito. Si ottiene calcolando il rapporto tra i ricavi conseguiti e i ricavi al break-even point. Quando l’indice è superiore a 1, vuol dire che l’impresa può produrre reddito.

11.6 Le operations nei servizi Esistono diverse tipologie di servizi: • • • • •

business-to-consumer (servizi finanziari, retail, leisure); business-to-business (consulenza, office equipment provision and support, comunicazioni); servizi interni (personale, information technology); pubblici (polizia, istruzione, sanità); not-for-profit (caritas, faith organisations, croce rossa).

Capitolo 11 La gestione delle operations

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Sebbene il manifatturiero e i servizi siano presentati spesso come settori separati, dal punto di vista delle operations questa distinzione non è assolutamente significativa. La dimostrazione è che nei passati paragrafi abbiamo, per esempio, portato indistintamente casi di produzione di beni e di servizi e abbiamo sottolineato più volte come le procedure, le metodologie e le tecniche si applichino a entrambi i settori in maniera invariata. L’unica differenza sta nell’output del sistema: in un caso un bene tangibile, fisico, nell’altro un servizio. Anche questa distinzione sta perdendo però valore. Infatti sono sempre più frequenti i casi di mix di servizi e beni, in proporzioni che tendono sempre più a spostarsi verso il servizio offerto in modo congiunto ai clienti. Un esempio tipico è il servizio post-vendita o l’estensione di garanzia che sono offerti in maniera congiunta con gli elettrodomestici. Inoltre anche i servizi vengono erogati con gli stessi modelli produttivi con cui vengono prodotti i beni (Figura 11.14).

11.6.1 La peculiarità dei servizi e i motivi di complessità nella loro gestione Nonostante appunto la oramai totale sovrapposizione tra la gestione del manifatturiero e dei servizi, vale comunque la pena in questa sede soffermarsi su alcuni caratteri peculiari dei servizi. Intangibilità: i servizi non possono essere toccati, ma solo consumati. Come conseguenza non possono neanche essere immagazzinati, la qual cosa rende difficile conciliare la domanda e l’offerta. Dal punto di vista delle operations, il fattore critico è la capacità produttiva che deve essere certamente flessibile, per adeguarsi alle richieste del mercato. Un buon esempio è costituito dala trasformazione che hanno subito negli ultimi anni gli uffici postali, dove gli sportelli sono divenuti multi-tasking proprio in risposta alla differenziazione

intangibilità

Interior designer, personal trainer, wedding planners

Grado di varietà



Società di consulenza, ospedali, centri estetici Copisterie, ristorazione Trasporto aereo Telecomunicazioni

Volume

Figura 11.14 Esempi di processi per l’erogazione dei servizi. Fonte: B. Mahadevan.

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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eterogeneità



produzione e consumo simultanei



deperibilità



dei servizi offerti. Altra criticità legata all’intangibilità dei servizi è che la valutazione della loro qualità è molto soggettiva. Questo rende più lasco il legame esistente tra gli attributi del servizio, le richieste del cliente e la performance dell’impresa. Eterogeneità: i servizi non possono mai essere esattamente uguali a se stessi perché la loro performance dipende fortemente dal contesto e da chi li riceve. Un dentista che esegue la stessa identica operazione su due differenti pazienti, non potrà mai eseguirla esattamente nella stessa maniera. Il carattere di eterogeneità richiede di qualificare al meglio il rapporto con il cliente per migliorare la sua percezione del servizio. Produzione e consumo simultanei: molto spesso il servizio viene prodotto in presenza dello stesso consumatore, che anzi viene coinvolto nella sua preparazione. L’esempio tipico è costituito dal cliente che preleva contanti da un Bancomat. Il problema è che in questa maniera vegono a cadere tutti quei filtri a garanzia della qualità tipici dell’industria manifatturiera. Deperibilità: i servizi sono deperibili quindi non possono in alcun modo essere conservati in caso di parziale o mancato utilizzo. Per esempio i biglietti per uno spettacolo teatrale che sono invenduti rimangono tali. Non possono per lo stesso motivo essere trasportati facilmente. Quindi la localizzazione di un servizio assume un valore strategico notevole.

Da quanto detto, appare chiaro che la produzione dei servizi implica alcune peculiarità e complessità sue proprie. Tra le quali, oltre a quelle descritte in stretta dipendenza alle caratteristiche dei servizi, la più importante a livello generale è l’organizzazione della produzione in una fase di back office e in una di front office, dove quest’ultima assume, rispetto al settore manifatturiero, un’importanza notevole per formare la percezione di qualità che il cliente si fa del servizio ricevuto. Altra importante peculiarità rilevante nell’organizzazione del servizio riguarda il fatto che il cliente può decidere di abbandonare il servizio in corso di erogazione (per esempio un cliente che, spaventato dalla fila, decide di uscire da un negozio). Altri aspetti di complessità tipici della produzione di servizi sono: • • • • •

gestione anche simultanea di clienti diversi; comprensione delle richieste e della prospettiva del cliente; coordinamento tra front office e back office; gestione real time; gestione contemporaneamente del breve termine e del lungo termine (soddisfare il cliente rispetto al presente servizio, fidelizzare il cliente per il futuro).



11.6.2 Il servitization: i servizi delle aziende manifatturiere Il termine servitization è usato per descrivere l'attuale tendenza ad ampliare il contenuto di servizi anche nella produzione di beni e a introdurre in pianta stabile molti servizi all’interno del portafoglio prodotti.

La relazione tra beni e servizi è in continua evoluzione. Particolarmente nei settori ad alto contenuto tecnologico i servizi giocano un ruolo fondamentale al pari dei prodotti. Il termine servitization è usato per descrivere prorpio questo trend. Il fenomeno non è radicale o nuovo (il termine fu coniato da Vandermerwe e Rada nel 1988), ma ha effetti sempre più dirompenti. Attualmente si osserva un crescente contenuto di servizi anche nella produzione di beni e l’introduzione in pianta stabile di molti servizi all’interno del portafoglio prodotti (Figura 11.15).

Capitolo 11 La gestione delle operations

435

Assicurazioni Contenuto di servizio Pubblicità Progettazione Ristorazione Cosmetico Automotive

Servizio

Produzione acciaio

Bene

Figura 11.15

Il principio fondamentale della servitization è capire come il cliente userà il pro- Contenuto di servizio nei beni. dotto. Questa conoscenza aiuta l’impresa ad aumentare la value-proposition attraverso l’erogazione di servizi addizionali che pongono davvero il cliente al centro del business. Il risultato della servitization è dato in utili incrementati, in un avanzamento e una personalizzazione del prodotto e in una affiliazione del cliente.

Sintesi La gestione delle operations si esplica secondo un modello iterativo che prende le mosse dalla definizione della strategia e si declina poi nelle fasi di configurazione, pianificazione e controllo e infine miglioramento. Occorre percorrere in maniera continua queste fasi per garantire che l’impresa sia sempre allineata con quelle che sono le esigenze e le caratteristiche del mercato in cui opera. Nella fase di configurazione vengono prese le decisioni di lungo e medio periodo che poi influiranno sulla performance globale dell’impresa. La fase di pianificazione ha il compito fondamentale di generare e di assegnare, in base a un approccio gerarchico tempificato, gli ordini di produzione e di approvvigionamento, perseguendo obiettivi di costo, di efficienza e di soddisfacimento del mercato. Per quanto concerne l’approccio alla gestione dei materiali, si contrappongono le due più importanti metodologie del Material Requirement Planning e del Just in Time. Scemato l’iniziale fanatismo per quest’ultima, a cui si riconosce comunque il fondamentale ruolo rinnovatore del pensiero in materia, è assodato che entrambe le metodologie sono valide e, in base alle loro specifiche caratteristiche, possono essere efficacemente applicate in contesti diversi o anche affiancate in uno stesso ambito. Ampio spazio deve essere poi dedicato ai modelli per la gestione delle scorte, per il peso che quest’ultime hanno in termini di costo di mantenimento. Esistono (e sono stati presentati in questo capitolo) diversi modelli per la gestione e il controllo delle scorte, dal Re Order Level al modello scorta minima– scorta massima. L’ultima fase, quella di miglioramento, è preposta al progresso e allo sviluppo dell’impresa. È questo il motivo per cui negli ultimi decenni le metodologie per il miglioramento hanno attirato una così forte attenzione e si sono anche moltiplicate. Dalla più tradizionale Total Quality Management si è passati all’efficace integra-

436

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

zione tra Lean Production e Six Sigma, fino alla recentissima World Class Manufacturing. L’aspetto peculiare di questa metodologia, che per il resto non fa altro che sistematizzare e riproporre concetti noti, è l’attenzione fortissima ai costi. Questo aspetto della performance aziendale, se pure mai dimenticato, ovviamente, in ambito operativo, era rimasto decisamente snobbato dalla teoria. Questa ritrovata attenzione a livello metodologico, ha suggerito agli autori di dedicare un intero paragrafo agli economics delle operations, ovvero alla gestione delle operations dal punto di vista della determinazione dei costi. L’ultimo paragrafo è stato dedicato al trattamento delle specificità della produzione di servizi. Troppo spesso si sottolinea come produrre beni o erogare servizi non presenta sostanziali differenze dal punto di vista della metodologia per la gestione delle operations. Pur vero, è bene anche bilanciare sottolineando che alcune peculiarità dei servizi si riflettono in peculiarità del flusso produttivo e arrivano a modificare la complessità della sua gestione.

Domande ed esercizi Domande di verifica 1.

2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.

Illustrare I principali modelli di operations e come essi si differenziano in base al volume e alla varietà della produzione. Per quale motivo la strategia delle operations necessita di essere continuamente aggiornata? Che differenza passa tra le decisioni strutturali e quelle infrastrutturali? Illustrare I principali criteri per la localizzazione delle facilities. Illustrare I caratteri peculiari delle strategie chase e level. Quali sono I principali vantaggi e svantaggi di integrare verticalmente le attività produttive? Quali sono le attività e gli obiettivi della pianificazione e controllo della produzione? Illustrare le differenze tra logica Push e logica Pull. Illustrare le categorie di costo che intervengono nella fase di programmazione aggregata della produzione. Illustrare I modelli per la gestione e il controllo delle scorte. Indicare le caratteristiche peculiari del Material Requirement Planning rispetto al Just in Time. Illustrare I principi cardine che accomunano tutte le metodologie per l’operations improvement. Perché risulta efficace l’integrazione tra Lean Production e Six Sigma? Illustrare come è strutturato il budget di produzione. Che cosa si intende con il termine servitization?

Test a risposta multipla 1.

Nella produzione make to stock quando avviene la vendita del prodotto? □ a. Prima dell’approvvigionamento dei materiali necessari per la produzione. b. Durante la fase di produzione. □ c. Dopo la fine dell’intero processo di produzione e □ di assemblaggio.

2.

Il Master Production Schedule è costituito da: □ a. un elenco dei prodotti da realizzare, suddivisi per famiglia e per grado di complessità. □ b. un piano che definisce i prodotti da realizzare, la loro quantità e i tempi entro i quali devono essere disponibili. □ c. un sistema di pianificazione strategica configurata sulla base di priorità e urgenze.

3.

Per un sistema MRP i dati di input sono costituiti da: □ a. il Master Production Schedule, i lead time di produzione, di assemblaggio, di acquisto, la disponibilità dei diversi codici, la distinta base. □ b. il Master Production Schedule, i lead time di produzione, la disponibilità dei diversi codici, la sequenza delle fasi di processo. □ c. il Master Production Schedule, i lead time di acquisto, la disponibilità dei diversi codici, la capacità del sistema produttivo.

4.

Il sistema Just in Time richiede soprattutto: □ a. un’accurata previsione della domanda di mercato. □ b. un assiduo collegamento con la rete dei fornitori. □ c. la costituzione di un elevato stoccaggio di parti e componenti.

Capitolo 11 La gestione delle operations

437

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La logistica

12

Francesco Filippi

Gli obiettivi del capitolo Il presente capitolo ha due principali obiettivi. Il primo obiettivo è di porre le basi conoscitive della logistica. Vengono fatti cenni sulla logistica dall’antichità ai giorni nostri, il passaggio dall’arte militare alla società civile e l’ampliamento del campo di applicazione. Viene posta attenzione alla rilevanza della logistica nel Pil e nella competitività di un Paese. Viene esaminato il ruolo della logistica per la competitività e profittabilità delle aziende. Il secondo obiettivo riguarda la logistica aziendale ed è più operativo. Spiega l’approccio sistemico della logistica nell’azienda e la necessità di trade off, il concetto dei costi totali, di livello di servizio e di profittabilità dei clienti. Esamina le applicazioni della Information and Communication Technology (ICT) alla logistica aziendale e gli effetti sulle prestazioni aziendali. Descrive i principali trend e le cause del cambiamento del sistema logistico aziendale (Logistics Network Design, LND). Esamina la logistica urbana o dell’ultimo miglio, come conseguenza della crescente attenzione ai problemi ambientali, e fornisce indicazioni sui principali interventi. Infine tratta della logistica “verde” e dei modi per ridurre le esternalità della logistica, la soluzione dei problemi richiede il concorso del pubblico e del privato.

12.1 Definizioni di logistica 12.1.1 Le origini del termine La teoria scientifica dei numeri era indicata nella Grecia classica con la parola arimhtikh (aritmetica), mentre logistikh (logistica) aveva il significato pratico di calcolo numerico. Il termine veniva utilizzato in un contesto militare, per riferirsi a qualsiasi aspetto delle operazioni strategiche o tattiche che si basavano sul calcolo. Il mondo romano non aveva una parola analoga, anche se era consapevole dell’importanza dei rifornimenti per mantenere l’esercito efficiente, e considerava argomento degno di studio come rifornire l’esercito. Il termine latino più vicino alla logistica nel senso moderno è res frumentaria (approvvigionamento) usato da Giulio Cesare. Il termine logistica fu usato per la prima volta nel X secolo dall’imperatore bizantino Leone il Saggio, nel senso dell’arte per approvvigionare un esercito. Scrittori europei del Settecento impiegarono il termine logistique per indicare l’acquartieramento militare. Il termine gradualmente passò in disuso in Europa, ma continuò a essere utilizzato negli Stati Uniti e il suo significato fu am-

Il termine logistica veniva utilizzato in un contesto militare, per riferirsi a qualsiasi aspetto delle operazioni strategiche o tattiche che si basavano sul calcolo.

440

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Esperienza

Logistica collaborativa per i distretti industriali Il caso si riferisce all’export verso Paesi europei di piccole e medie imprese (PMI) appartenenti a un distretto del nord Italia. Il distretto è di tipo concorrenziale con decine di imprese di piccole e medie dimensioni con prodotti simili. Le imprese del distretto esportano in concorrenza i loro prodotti in nord Europa affidandoli ad autotrasportatori. Non sempre riescono ad affidare dei carichi completi, a meno di allungare i tempi di consegna, quindi mediamente le tariffe sono alte. La tendenza è di una sempre maggiore integrazione logistica per sfruttare i vantaggi delle economie di scala. L’isolamento delle PMI è così un ostacolo allo sviluppo e alla competitività. La perdita dei vantaggi di un sistema logistico integrato riduce la loro capacità di rispondere in modo flessibile e differenziato alla domanda di diversità e variabilità su cui hanno costruito la loro competitività. La Figura 12.1 mostra il sistema logistico del distretto. L’inbound logistics è rappresentato dagli approvvigionamenti dei fornitori esterni (F) e subfornitori interni (S). L’outbound logistics è rappresentato dalle produzioni delle PMI trasportate verso i clienti (C). L’obiettivo del progetto è di far collaborare le imprese per consolidare le loro spedizioni, così da ridurre i costi complessivi del trasporto e i tempi di consegna ai clienti. Gli attori principali del progetto sono le imprese del distretto e gli autotrasportatori che hanno aderito alla iniziativa e i clienti esterni, con i loro ordinativi. Il sistema è affidato a un broker, incaricato dalle imprese partecipanti al progetto. Il broker, con

Inbound logistics F Fornitori

Distretto

Outbound logistics Clienti

PMI

S

PMI C

PMI

F

PMI PMI

S C PMI

F

PMI

PMI F

C

S

Figura 12.1 Il sistema logistico del Distretto.

pliato per riferirsi a tutti gli aspetti dell’approvvigionamento di un esercito, capaci di soddisfare le necessità nel luogo e nel tempo giusto.

12.1.2 La definizione del Council of Logistics Management La logistica nella seconda metà del XX secolo è passata dall’arte militare al settore civile. Il Council of Logistics Management (CLM),1 un’associazione statunitense di professionisti, nel 1986 ha definito logistica “il processo di pianificazione, esecuzione 1 Il CLM ha in seguito cambiato denominazione in Council of Supply Chain Management Professional (http://cscmp.org).

Capitolo 12 La logistica

Inbound logistics F

Distretto

Outbound logistics C

PMI PMI

441

S

F

PMI

PMI

S

C

PMI Broker

PMI

F

PMI

PMI F

S C

Figura 12.2 Il nuovo sistema logistico collaborativo del Distretto.

l’ausilio di un sistema informativo, riceve i dati delle spedizioni dalle imprese e le consolida per destinazioni all’interno di un orizzonte temporale in modo da rispettare i tempi di consegna e minimizzare i costi del trasporto. Il broker negozia con gli autotrasportatori le spedizioni consolidate per ottenere il migliore prezzo a parità di qualità del servizio. La Figura 12.2 mostra il nuovo sistema logistico collaborativo. Il software, che facilita il lavoro del broker e in parte lo solleva da molti compiti, è un sistema webbased con un algoritmo euristico molto veloce sviluppato dal CTL.* Il sistema dispone di interfacce personalizzate per tutte le imprese, a seconda dei loro sistemi informativi precedenti al progetto. Il broker, attraverso l’ausilio del software, genera un programma ottimizzato nell’orizzonte temporale considerato delle spedizioni. L’output generato automaticamente viene presentato con testi e grafici al broker e può essere modificato manualmente se alcune esigenze particolari devono essere prese in considerazione. Il programma viene proposto alle imprese di autotrasporto e, una volta concordato, i clienti del distretto ricevono una lista dei tempi di consegna previsti e possono seguire lo stato delle spedizioni in tempo reale. Le imprese partecipanti ricevono dal loro sistema informativo i dati con le spedizioni e controllano lo stato delle spedizioni in corso. La visibilità è limitata alle proprie spedizioni. I risultati sono minori costi di trasporto e servizi di consegna più celeri. Un’altra fonte di risparmio non secondaria per le imprese del distretto deriva anche dalla riduzione dei costi di elaborazione degli ordini, conseguita dal sistema informativo centralizzato. * Centro di ricerca per il Trasporto e la Logistica, Sapienza Università di Roma.

e controllo di un efficiente ed efficace flusso e immagazzinamento di materie prime, semilavorati, prodotti finiti e delle relative informazioni dal punto di origine al punto di consumo per soddisfare le richieste del cliente”. La definizione si riferisce alla logistica industriale o aziendale (Business Logistics). Sono richiamate tre specifiche attività aziendali: pianificazione, esecuzione e controllo. I beni devono essere trasportati, movimentati e immagazzinati in modo efficiente con il minimo costo. Le relative informazioni seguono i beni fino al punto di consumo. La soddisfazione dei clienti con il minore costo totale è l’obiettivo finale. La definizione ha subito in venti anni diversi aggiustamenti per corrispondere meglio alla continua e pervasiva evoluzione della logistica. Il flusso considerato è quello di tutte le aziende che partecipano al soddisfacimento della domanda

La logistica è “il processo di pianificazione, esecuzione e controllo di un efficiente ed efficace flusso e immagazzinamento di materie prime, semilavorati, prodotti finiti e delle relative informazioni dal punto origine al punto di consumo per soddisfare le richieste del cliente”.

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

442

logistica integrata logistica di ritorno

dei consumatori finali. È la cosiddetta logistica esterna all’azienda (logistics outside the firm), che con i sistemi informativi e internet diventa la logistica integrata (integrated logistics) a gestione unificata. Il processo dal punto di origine al punto di consumo prevede anche l’inverso, ovvero la cosiddetta logistica di ritorno (reverse logistics). Lo scopo è di recuperare valore dai prodotti obsoleti o alla fine del loro ciclo di vita o semplicemente di favorire un adeguato smaltimento dei rifiuti, dei prodotti finiti resi dai clienti e vuoti a rendere. La definizione di Logistica del Comitato Europeo di Normazione (CEN – Technical Committee 273 Logistics) ha esteso il concetto dai beni alle persone, le informazioni sono diventate più genericamente attività di supporto, il tutto non più finalizzato a soddisfare i clienti, ma per raggiungere specifici obiettivi.

12.1.3 I campi della logistica civile

La definizione del CEN include le moderne diversificazioni della logistica civile. Tutte comprendono le tre attività: pianificazione, esecuzione e controllo. logistica delle rinfuse logistica dei progetti

logistica dei grandi eventi logistica delle emergenze

logistica RAM

logistica dei servizi

La generalizzazione del CEN deriva dal crescente inserimento dell’attività logistica in settori differenti da quello “tradizionale” industriale, come i servizi pubblici o la progettazione e realizzazione di sistemi complessi. La definizione include le moderne diversificazioni della logistica civile. Tutte comprendono le tre attività: pianificazione, esecuzione e controllo. La logistica delle rinfuse (bulk logistics) tratta la movimentazione e l’immagazzinamento di materie prime alla rinfusa in grandi quantitativi, quali petrolio, carbone e cereali. La logistica dei progetti (project logistics) considera gli approvvigionamenti necessari in uomini, mezzi e materiali per la realizzazione di sistemi complessi, quali centrali elettriche e impianti chimici, e l’efficiente rimozione e smaltimento dopo la realizzazione. I tempi dell’operazione possono essere di diversi anni. La logistica dei grandi eventi (event logistics) è simile alla precedente, meno complessa, e richiede generalmente tempi minori. La logistica delle emergenze (emergency logistics o humanitarian logistics) riguarda tutte le attività di approvvigionamento, di evacuazione e di supporto per operazioni di assistenza alle popolazioni colpite da un disastro naturale o non. Le due fasi principali di assistenza sono la risposta immediata e la ricostruzione. La logistica RAM (Reliability, Availability, Maintainability) riguarda i prodotti ad alta tecnologia (telecomunicazioni, velivoli, megacomputer ecc.) per i quali sono essenziali caratteristiche quali l’affidabilità, la disponibilità e la manutenibilità. La logistica dei servizi (service logistics) considera gli approvvigionamenti necessari per sostenere le operazioni di un servizio, quale una linea marittima o un ospedale.

12.1.4 La logistica e il Supply Chain Management rete logistica o supply chain azienda centrale

La Figura 12.3 rappresenta indifferentemente una rete logistica o una supply chain, che data la struttura sarebbe meglio denominare una supply network o una supply/demand network. Nel centro è posizionata l’azienda centrale (focal company), che separa la parte produttiva del sistema e la parte distributiva verso il consumatore finale. L’azienda centrale è nella situazione di poter governare le attività della rete e dei sui membri, sviluppa processi e capacità allo scopo di massimizzare la creazione di valore e la propria competitività. A monte sono le

Capitolo 12 La logistica

Fornitore

Azienda Centrale

443

Nodo logistico Dettaglio CD

Fornitore CD Marketing

Materie Prime

Finanza

Dettaglio

Logistica Organizzazione aziendale

Produzione

Consumatori

Altre funzioni

aziende fornitrici di materie prime, componenti e semilavorati. A valle è rappresentato un nodo logistico, che nel caso specifico è un porto, e due centri di distribuzione (CD), che riforniscono negozi al dettaglio e quindi i consumatori finali. Le aziende della distribuzione possono avere attività produttive di completamento, fasi finali di produzione per ridurre i costi e migliorare la personalizzazione del prodotto. L’azienda, come rappresentato in Figura 12.3, ha le funzioni logistica, marketing, produzione e finanza e altre funzioni, generalmente di minore importanza. Il nodo logistico, i centri di distribuzione e i negozi al dettaglio hanno principalmente funzioni di logistica e di marketing. La differenza tra la logistica nelle sue variazioni più moderne e il supply chain management è soprattutto di livello. All’interno dell’azienda la funzione logistica interagisce con le altre funzioni aziendali, mentre le altre aziende della rete sono considerate limitatamente alla loro funzione logistica. Il supply chain management considera la rete di aziende, ma ciascuna azienda con tutte le funzioni. La differenza tra le due gestioni è quindi di livello manageriale, la sola funzione logistica, anche se estesa alla rete di aziende, o tutta l’azienda con le funzioni chiave. Il supply chain management può così affrontare problemi più complessi e trasversali. Le aziende della rete logistica, attraverso un processo di allineamento, condividono gli stessi sistemi e informazioni, collaborano con acquirenti e fornitori, sviluppano congiuntamente nuovi prodotti allo scopo di conseguire migliori livelli di servizio al cliente e costi minori per l’intera supply chain. Questa forma di collaborazione si sta diffondendo con la tendenza delle aziende a concentrarsi sulle loro eccellenze e a terziarizzare tutte le altre attività. È l’impresa estesa, una confederazione di aziende collegate tra loro dalla rete, caratterizzate da affidabilità, reciproca fiducia, assenza di confini amministrativi, trasparenza delle informazioni e una strategia comune. Il supply chain management richiede specializzazioni, strumenti e capacità manageriali nettamente diverse da quelle per la gestione di funzioni, anche se interaziendali. La complessità incontra perciò molti ostacoli nell’attuazione, al

Figura 12.3 La rete logistica o supply chain.

Il supply chain management considera la rete di aziende, ma ciascuna azienda con tutte le sue funzioni.

444

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

punto che alcuni autori hanno messo in dubbio se il supply chain management sia concretamente realizzato nella pratica aziendale (Halldorsson A., Larson P., 2004; Gibson B.J., Mentzer J.T., Cook R.L., 2005).

12.2 La logistica nell’economia

La logistica e il supply chain management giocano un ruolo importante in qualsiasi economia e sono un contributo fondamentale per la facilitazione degli scambi, per lo sviluppo economico e la competitività di un Paese.

La logistica assicura al consumatore la disponibilità del giusto prodotto (tipo e quantità), nelle giuste condizioni, nel posto e nel tempo giusto, e al giusto costo (the five rights of logistics).

Gli sviluppi più importanti dell’economia mondiale degli ultimi anni sono stati il rallentamento della crescita nei Paesi industrializzati, la rapida espansione di industrie e mercati in nuovi Paesi e la crescita della competizione. L’economia mondiale sta diventando sempre più interdipendente. Le aziende sono spinte a sfruttare le opportunità offerte dai mercati mondiali. La globalizzazione degli acquisti, la produzione e la vendita così come la divisione del lavoro sono aumentati. Le aziende si concentrano sulle loro competenze di base, riducono l’integrazione verticale, creano complesse reti di relazioni interaziendali internazionali. La crescita dei flussi di merci è una componente fondamentale dei cambiamenti nei sistemi economici su scala globale, regionale e locale. La logistica e il supply chain management giocano un ruolo importante in qualsiasi economia e sono un contributo fondamentale per la facilitazione degli scambi, per lo sviluppo economico e la competitività di un Paese. Il miglioramento del sistema logistico globale, regionale e locale permette di specializzare le varie aree geografiche e scambiare beni e servizi rapidamente e con minori costi di transazione, di sfruttare nuove opportunità di mercato e di rafforzare la competitività. La logistica aggiunge valore ai prodotti creando utilità. Il prodotto è reso disponibile dove e quando è necessario. Il valore si crea sia nell’azienda, fornendo materie prime e semilavorati alle linee di produzione, sia nel mercato, fornendo i prodotti ai consumatori. Più specificatamente la logistica assicura al consumatore la disponibilità del giusto prodotto (tipo e quantità), nelle giuste condizioni, nel posto e nel tempo giusto e al giusto costo (the five rights of logistics). La logistica è un’importante componente del PIL; nei Paesi sviluppati varia tra il 10 e il 20%. I Paesi più sviluppati hanno valori più bassi, mentre, per esempio, la Cina, il cui sviluppo economico è più recente, ha valori più alti. Gli USA hanno visto ridursi il valore percentuale dei costi della logistica dal 16% nel 1980 a meno del 10% nel 2006, per un totale di 1305 miliardi di dollari, per due effetti: miglioramento dell’efficienza del sistema e incremento della quota dei servizi sul PIL. La Tabella 12.1 riporta i costi attribuiti alla logistica, suddivisi per 4 voci. La voce di gran lunga più rilevante è rappresentata dai trasporti; oltre la metà dei costi sono attribuiti al trasporto stradale extraurbano. I governi sono sempre più consapevoli dell’importanza di un efficiente ed efficace sistema logistico per promuovere lo sviluppo. Gli interventi devono migliorare le prestazioni del sistema logistico evitando aumenti di costi per inefficienze dovute alla congestione e alla regolazione. Occorre assicurare capacità e qualità dei servizi nei nodi principali del sistema, promuovere l’efficienza dei trasporti attraverso una migliore ripartizione modale, sostenere le piccole e medie imprese (PMI) e gli operatori logistici. La Tabella 12.2 riporta gli interventi a media-elevata efficacia con il livello di difficoltà di attuazione e di investimento. Gli interventi sono così diventati più complessi. Sono necessari stretti rapporti e coordinamento tra il pubblico e il

Capitolo 12 La logistica

Tabella 12.1

Costi logistici nella contabilità nazionale USA 2006

Voci di costo

Miliardi di USD

Inventario su un totale di 1763 miliardi di USD Interessi Tasse, obsolescenza, deprezzamenti e assicurazioni Magazzino Trasporti Stradale extraurbano Stradale urbano Ferroviario Vie d’acqua Aereo Condotte Spedizionieri Costi del mittente Amministrazione logistica Totale costi logistici

Tabella 12.2

445

446 93 252 101 801 452 203 54 37 38 10 27 8 50 1305

Interventi pubblici di medio-alti costi/efficacia per il sistema logistico

Difficoltà di attuazione politica e istituzionale

Infrastrutture Alto investimento

Regolazioni Basso investimento

Alta

Porti e aeroporti Terminali

Bassa

Strozzature della rete Telecomunicazioni

Dogane Autotrasporto Ferrovia Porti e aeroporti

privato per attuare un programma incisivo sul sistema logistico. Inoltre è cresciuta l’attenzione per gli aspetti ambientali e per la sostenibilità, che si traduce in disposizioni di legge per ridurre gli impatti attraverso standard, politiche dei prezzi e incentivi. Il vantaggio competitivo delle aziende risiede nella capacità di operare a costi inferiori e di avere valori percepiti dei prodotti superiori ai concorrenti. L’aumento delle vendite produce economie di scala che riducono i costi, ma l’avvio del circolo virtuoso dipende dalla capacità dell’azienda di differenziarsi positivamente dai concorrenti. Gli strumenti tradizionali, come la forza del marchio o dell’immagine aziendale, sono spesso in declino e la tecnologia tende a uniformarsi per prodotti simili. La logistica è in grado di migliorare il valore del prodotto, aumentare l’efficienza e la produttività e quindi contribuire in modo significativo alla riduzione dei costi unitari. I costi della logistica, nelle industrie manifatturiere di diversi Paesi del nord Europa, rappresentano percentuali sul fatturato dal 10 a oltre il 20%. Inoltre la logistica influenza i processi produttivi, la struttura dei costi e dei ricavi delle aziende e la loro competitività in settori come i tempi e la puntualità delle consegne, la rapidità e flessibilità di risposta alle esigenze dei clienti.

aspetti ambientali e sostenibilità

I costi della logistica, nelle industrie manifatturiere di diversi Paesi del nord Europa, rappresentano percentuali sul fatturato dal 10 a oltre il 20%.

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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Strumenti

L’indice di prestazione logistica (LPI, Logistics Performance Index) La Banca Mondiale ha messo a punto nel 2007 uno strumento di benchmarking, basato su un indice e 6 indicatori, per misurare e comparare le prestazioni del sistema logistico di 150 Paesi. L’indice consente a un Paese di identificare i punti di forza e di debolezza del proprio sistema logistico e di quello dei partner commerciali e di impostare le azioni di miglioramento. I Paesi in grado di connettersi in modo efficace alla rete logistica globale hanno un accesso facilitato ai mercati e questo è un fattore chiave per lo sviluppo economico. L’indice e gli indicatori sono stimati annualmente. L’ultima stima disponibile è del 2010, sulla base di un sondaggio a livello mondiale rivolto a spedizionieri e corrieri espressi nazionali e internazionali. Di seguito sono elencati i sei indicatori. 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Customs: efficienza del processo di transito della frontiera (per esempio, velocità, semplicità e prevedibilità delle formalità) delle agenzie di controllo delle frontiere, compresa la dogana. Infrastructure: qualità del commercio e delle infrastrutture di trasporto (come porti, ferrovie, strade, e tecnologie dell’informazione e della comunicazione). International shipments: facilità di organizzare le spedizioni a prezzi competitivi. Logistics competence: competenza e qualità dei servizi logistici. Tracking & tracing: capacità di monitorare e tracciare le spedizioni. Timeliness: puntualità dell’arrivo a destinazione delle spedizioni.

L’indice è la somma pesata degli indicatori. La Figura 12.4 riporta il valore dell’indice per i sette Paesi più industrializzati. La Germania è il Paese con il più alto valore dell’indice, seguito dal Giappone e dal Regno Unito. L’Italia è l’ultima tra i Paesi occidentali, mentre la Cina è la prima dei Paesi BRICK, ma con l’indice che è il minimo tra i sette, segno che il sistema logistico fatica ad adeguarsi al rapido sviluppo industriale. L’Italia è particolarmente penalizzata dagli indicatori customs e timeliness. I tempi sono più alti e soggetti a maggiore aleatorietà. L’analisi della Banca Mondiale valuta il sistema logistico di ciascun Paese in relazione ai seguenti aspetti: qualità delle infrastrutture e dei servizi, efficienza dei processi di import ed export e cause di ritardo, e i cambiamenti nel sistema logistico dal 2005. Le differenze più significative tra la Germania, primo della classe, e l’Italia si riscontrano nella qualità delle infrastrutture e dei servizi, in particolare la ferrovia italiana è la più penalizzata. Altra differenza significativa è nelle attività criminali (furti dei carichi), assente in Germania. La richiesta di pagamenti informali risulta con sorpresa doppia in Germania. I cambiamenti logistici dal 2005 sono invece simili, ma in Italia si riscontra un netto miglioramento nelle procedure doganali.

12.3 La logistica nell’organizzazione aziendale 12.3.1 Le attività logistiche

Le diverse attività della logistica sono finalizzate a realizzare un determinato livello di servizio al cliente, in modo efficiente ed efficace.

Lo sviluppo della produzione di massa ha richiesto, per motivi di efficienza ed efficacia delle aziende, che diverse funzioni, quali i trasporti, il magazzino, le scorte e gli approvvigionamenti, venissero ricondotte a un’unica responsabilità sotto la direzione della logistica. La Figura 12.5 riporta le attività logistiche principali e complementari nell’organizzazione aziendale che concorrono a un efficiente ed efficace flusso e immagazzinamento di materie prime, semilavorati, pro-

Capitolo 12 La logistica

LPI 4,2 4,1 4 3,9 3,8 3,7 3,6 3,5 3,4 3,3 3,2 3,1

Germania Giappone

Regno Unito

USA

Francia

Italia

Cina

Figura 12.4 L’indice per i sette Paesi più industrializzati.

La Banca d’Italia* attribuisce il ritardo del sistema logistico nazionale a tre principali fattori di criticità. Il primo risiede nella scarsa interconnessione multimodale, infrastrutturale e organizzativa che ostacola l’intermodalità, privilegia la rete stradale e provoca congestione alla periferia dei grandi agglomerati urbani. Il secondo dipende dalla struttura del sistema logistico con la frammentazione degli operatori, la scarsa integrazione tra di essi, le inefficienze localizzate nelle singole modalità di trasporto, che creano ostacoli alle economie di scala, alla riduzione e affidabilità dei costi e dei tempi, alla programmazione dei servizi e più in generale alla loro scarsa qualità. Il terzo fattore è riferibile a inadeguatezze di carattere programmatorio e normativo di responsabilità soprattutto regionale in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione. Fonte: Banca Mondiale, Logistics Performance Index, www.worldbank.org.

* Le infrastrutture in Italia: dotazione, programmazione, realizzazione (2011), Banca d’Italia.

dotti finiti, flussi di ritorno e strategie localizzative per soddisfare il livello di servizio del consumatore. Il servizio al consumatore è l’elemento finale, ma informa tutto il sistema. L’esecuzione delle attività è guidata dal rispetto dell’obiettivo di soddisfare un determinato livello di servizio e concorre alla formazione del costo logistico totale. La logistica assicura con le sue attività compiti essenziali per il servizio al cliente. • • • •

Disponibilità del prodotto e dei ricambi. Tempo di consegna (lead time). Affidabilità nei tempi. Flessibilità nelle quantità e nei tempi di consegna.

447

448

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Attività logistiche Servizi al consumatore • Assistenza ricambi e servizi • Sostituzione prodotti in garanzia Sistema informativo Elaborazione ordini clienti Acquisti Trasporti Movimentazione dei materiali Magazzino • Imballaggi Scorte • Previsione della domanda Logistica di ritorno Localizzazione siti aziendali

Figura 12.5 Le attività logistiche finalizzate a conseguire un dato livello di servizio.

• •

Livello di servizio al consumatore

Facilità di comunicazione con l’azienda. Completezza delle informazioni dall’azienda.

La Figura 12.6 mostra l’importanza della disponibilità del prodotto nello scaffale di un supermercato. Il 37% dei consumatori, quando non trovano un prodotto nello scaffale, cambia marca e il 21% cambia insegna. Il livello di servizio influisce sui costi logistici in relazione alla flessibilità e rapidità di risposta del sistema logistico, alla frequenza e velocità dei trasporti, alla localizzazione e dimensione dei magazzini e delle scorte. Un tipico trade-off è tra emissioni degli ordini, trasporto delle spedizioni e livello delle scorte. I costi aumentano con l’aumento degli ordini e delle spedizioni, mentre i costi del trasporto per unità spedita diminuiscono con la quantità e con l’aumento delle dimensioni delle unità di carico; un container costa meno dell’equivalente in pallet, con la regolarità delle spedizioni, mentre aumentano con la velocità. I costi delle scorte all’opposto aumentano con spedizioni meno frequenti e con quantità spedite minori. Ordinare grandi quantità a intervalli di tempo elevati riduce il costo del trasporto per le note economie di scala, ma aumenta il livello medio delle scorte e di conseguenza i costi di immobilizzo. Lo stesso livello di servizio si ottiene così con diversi trade-off, ma con risultati economici differenti.

9%

16%

37%

Non acquista Cambia formato Ritorna Cambia insegna Cambia marca 17%

Figura 12.6 Le reazioni del consumatore alla disponibilità del prodotto sullo scaffale. Fonte: Ricerca ECR Europa 2008.

21%

Capitolo 12 La logistica

449

12.3.2 Le interazioni tra la logistica e le altre funzioni Il livello di servizio della Figura 12.5 è il risultato dell’interazione tra logistica e marketing e viene determinato in base a un’attenta valutazione dei vantaggi in termini di vendite e degli svantaggi in termini di costi. La logistica ha importanti interazioni non solo con il marketing. ma con tutte le funzioni aziendali. Le principali sono la produzione, la finanza e la contabilità. La produzione per lotti è un classico esempio di interazioni che richiedono, per concludersi a vantaggio dell’azienda, la collaborazione tra le funzioni e la determinazione di soddisfacenti trade-off. Ogni lotto di produzione comporta diversi costi. I principali sono dovuti ai lavori per l’attrezzaggio delle linee, ai cambiamenti per l’alternarsi dei prodotti, quali le movimentazioni dei materiali, alla perdita di capacità per il fermo delle linee durante i lavori, a perdite di materiali residui, a inefficienze iniziali delle linee, alla programmazione, all’emissione degli ordini. La somma di questi costi nell’arco dell’anno è tanto minore quanto maggiori sono le dimensioni dei lotti e quindi minore la frequenza degli attrezzaggi. La produzione può quindi spingere alla realizzazione di grandi lotti per ridurre i costi e aumentare le quantità prodotte. La dimensione dei lotti si riflette su molti altri costi a cui sono sensibili le altre funzioni aziendali. Il marketing potrebbe vedere il livello di servizio al consumatore ridursi in conseguenza della minore flessibilità di risposta alla domanda e maggiore probabilità di mancanza del prodotto. Nel caso di prodotti di rapido invecchiamento, come nella moda, crescono le quantità in saldo. La carenza di prodotti può aumentare i costi di elaborazione degli ordini e di informazione a causa dell’aumento da parte dei consumatori di richieste sulla disponibilità e di cancellazione per ritardi nelle consegne. La Figura 12.7 mostra la logistica come funzione chiave per la realizzazione di un livello delle scorte capace di rispondere ai diversi punti di vista. La forma finale del prodotto, che esce dalla fabbrica, può essere il risultato di un trade-off tra il servizio al cliente e la riduzione dei costi di produzione e logistici. Per esempio, il prodotto potrebbe non essere finito e richiedere un lavoro addizionale di montaggio da parte del cliente. Questo consente un risparmio nei costi di produzione, ossia meno lavoro sulle linee e meno trasporto, in quanto l’imballaggio risulta molto compatto: “aria fuori, prodotto dentro” è il

Il risultato dell’interazione tra logistica e marketing viene determinato in base a un’attenta valutazione dei vantaggi in termini di vendite e degli svantaggi in termini di costi.

Marketing Minori rischi di rottura con maggiori scorte Produzione Minori attrezzaggi con maggiori lotti e scorte

Logistica

Livello scorte

Finanza Minori scorte per ridurre il capitale investito Flussi d’informazione

Figura 12.7 Obiettivi funzionali e livello delle scorte.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

detto dell’IKEA. Altri risparmi si hanno nel costo dei magazzini e degli spazi espositivi: minore occupazione di spazio e minore movimentazione perché il magazzino coincide con gli scaffali di vendita al pubblico. Infine, si ha minore capitale investito in scorte, perché il prodotto non finito contiene minore lavoro e quindi ha un valore inferiore. Il trade-off è in definitiva tra una minore qualità del servizio al cliente, un prezzo competitivo e la facilità di trasporto, per esempio anche su una modesta autovettura.

12.4 L’approccio sistemico della logistica

L’approccio sistemico della logistica ha come obiettivo la determinazione dell’ottimo tra livello di servizio e costo totale.

Un sistema è inteso come un insieme di elementi interdipendenti, atti a svolgere una o più funzioni, che interagiscono per il conseguimento di obiettivi in modo efficiente. L’approccio sistemico della logistica ha come obiettivo la determinazione dell’ottimo tra livello di servizio e costo totale. La Figura 12.8 è una rappresentazione di questo approccio sotto forma di matrice. Sono riportate nelle colonne le diverse attività della logistica, nelle righe la produzione e distribuzione P&D dei prodotti P. La singola cella contiene il costo marginale per lo svolgimento del compito C, svolto dall’attività corrispondente alla colonna per contribuire al raggiungimento del livello di servizio L in fondo alla riga. Il livello di servizio L è associato a un ricavo R dalla vendita del prodotto P. La somma per colonne fornisce il costo sostenuto dall’attività per svolgere tutti i compiti, mentre la somma per righe fornisce il costo per ottenere il livello di servizio L e di conseguenza il ricavo R. L’espressione S (R – C) è la somma di tutti i ricavi meno tutti i costi. Un obiettivo aziendale può essere il massimizzare la differenza. Per cogliere l’obiettivo bisogna analizzare la profittabilità dei clienti, per capire fino a che punto sia conveniente servirli. Il costo può variare sensibilmente e potenziali clienti con esigenze di servizio elevate possono dare un contributo negativo alla sommatoria. La Figura 12.9 mostra l’andamento dei costi totali e dei ricavi cumulati e la loro differenza. Nella prima fase 0A l’azienda è in perdita, i ricavi dalla vendite non recuperano i costi, nel tratto AC la differenza R – C è positiva e nel punto

Servizi Trasporti Elaborazione Magazzini al consumatore ordini P&D P1

Scorte

Altre attività

Ricavi

CP1 R1

L1

CP2 R2

L2

CP3 R3

L3

P2 P3 ... Costi logistici

Figura 12.8 L’approccio sistemico alla logistica.

C1

C2

C3

R-C

Capitolo 12 La logistica

Costi totali cumulati

Ricavi vendite cumulati

R–C 0 A

B B’ C

Livello di servizio

Figura 12.9 Analisi della profittabilità.

B si ha il massimo; dopo B i nuovi clienti danno un contributo negativo e l’azienda perde di nuovo dopo il punto C. Il numero di clienti ottimale è nell’intorno del punto B. L’andamento interessante è quello dei costi. Nel primo tratto fino ad A l’azienda realizza economie di scala nella produzione, ma anche nelle attività logistiche come i trasporti e i magazzini. I costi per unità di prodotto sono così decrescenti, così come la derivata della curva. Nell’intorno del punto B i costi unitari aumentano con tassi via via crescenti verso destra. Il fenomeno ha diverse cause. I consumatori a destra del massimo sono più aleatori e più esigenti, bisogna servire picchi di domanda, crescono i costi dei magazzini, degli inventari e dei trasporti. La Figura 12.10 riporta l’andamento della domanda con la parte costante e quella variabile. In figura sono riportate tre rette orizzontali B, Be C corrispondenti ai punti della Figura 12.9. La retta B delimita la domanda costante con cui si raggiunge il massimo della differenza R – C. La retta B delimita un valore intermedio nella zona di domanda variabile in cui l’incremento di utenti aumenta fortemente il gradiente dei costi. La retta C incrementa ancora il numero di

Domanda variabile Quantità

C B’ B

Domanda costante

Tempo

Figura 12.10 Andamento della domanda.

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452

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Figura 12.11 Variabilità del tempo desiderato di consegna.

goal programming





σ

m

clienti, ma in una zona dove la domanda è a forte variabilità. I costi eguagliano i ricavi, gli ulteriori incrementi di clienti portano a perdite. Non tutti i clienti sono uguali. Pochi clienti richiedono un elevato livello di servizio. Il fenomeno è rappresentato in Figura 12.11 da una distribuzione di frequenza di tipo normale o gaussiana con media m e varianza s2 (anche detta scarto quadratico medio e indicata con s). Le ascisse rappresentano il tempo di consegna richiesto dal potenziale cliente. Il tempo corrispondente a m – s soddisfa l’84% dei potenziali clienti. La Tabella 12.3 mostra il rendimento decrescente nel numero dei potenziali clienti acquisito con decrementi eguali s del tempo di consegna. È possibile indicare diverse impostazioni matematiche del problema riportato in Figura 12.8. La funzione obiettivo è la massimizzazione della differenza R – C con i vincoli dati dalla struttura dell’azienda e della rete logistica esistente. I livelli di servizio Li sono assunti come vincoli, dunque il problema matematico diventa minimizzare la somma dei costi C soggetta ai vincoli della struttura. I livelli di servizio Li rappresentano gli obiettivi delle distribuzioni di prodotti Pi. Il problema con obiettivi multipli nella ricerca operativa può essere affrontato come goal programming, dove ogni funzione obiettivo viene trasformata in un vincolo rilassato, e la soluzione minimizza gli scarti con i vincoli eventualmente pesati nel rispetto dei vincoli della struttura e dei costi totali. Nella pratica il responsabile della logistica dovrà concordare con i responsabili delle altre funzioni aziendali dei trade-off, che fissino il livello dei vincoli e che gli permetta di stimare il costo C totale logistico. È un processo collaborativo e iterativo, che si conclude non con l’ottimo, ma con dei soddisfacenti compromessi. Tabella 12.3

Tempi di consegna e incremento clienti

Tempo di consegna

Potenziali clienti soddisfatti

%

D

%m

50 m

+s

+

84

68,0 m

+ 2s

98

16,7 m

+ 3s

≈100

2,0

Capitolo 12 La logistica

453

12.5 Le principali applicazioni della tecnologia2 La gestione efficace delle informazioni è una priorità per rispondere con la logistica al livello di servizio richiesto dai clienti. L’applicazione dell’Information and Communication Technology (ICT) alle attività logistiche migliora diversi aspetti del sistema logistico e dell’azienda. L’automazione della immissione e della trasmissione dei dati riduce i costi, incrementa la velocità, qualità e quantità delle informazioni. La accuratezza delle informazioni migliora i processi decisionali nella gestione. La riduzione di compiti ripetitivi, manuali e a basso contenuto professionale riduce la manodopera di basso livello, aumenta la produttività e la specializzazione, l’attenzione si sposta sulla clientela, sull’innovazione e sui processi logistici della azienda. La ICT consente lo sviluppo di sistemi di pronta risposta agli ordini del cliente e di maggiore affidabilità. La collaborazione tra le funzioni aziendali per nuovi prodotti è facilitata e l’allineamento delle funzioni aziendali è realizzata con maggiore efficacia e porta alla riduzione del time to market. La comunicazione rapida, accurata e tempestiva di informazioni consente la visibilità della supply chain (SCV) a tutte le aziende della rete, così da poter seguire in tempo reale i flussi di componenti e prodotti in transito dal fornitore al cliente. La SCV è di grande importanza per la soddisfazione dei clienti e la stabilità del sistema logistico, consente rapide risposte ai cambiamenti nella domanda e nella offerta senza gli effetti destabilizzanti dell’effetto frusta (bullwhip effect). La ICT contiene l’hardware per l’informatica e le comunicazioni, i sistemi operativi e le applicazioni software. Le applicazioni della ICT possono essere raggruppate in tre sistemi: informazione, comunicazione e identificazione. I sistemi informativi sono costituiti dall’hardware informatico, dei sistemi operativi e delle applicazioni software. Il sistema combina hardware e software per pianificare, eseguire e controllare le attività logistiche. Le applicazioni software per la logistica riguardano la gestione delle scorte, la distribuzione, ai trasporti, la gestione dei clienti e dei fornitori. La principale applicazione è l’Enterprise Resource Planning (ERP). È una applicazione multi-modulo per la gestione in tempo reale delle informazioni attraverso tutte le aree funzionali dell’azienda, e in particolare la logistica con i moduli per gli acquisti, per le scorte, per gli ordini e per la distribuzione. Il principale sistema di comunicazione è Internet. Un protocollo, ossia un insieme di standard per la comunicazione di rete, serve per il collegamento dei computer tra loro. I grandi vantaggi di Internet sono i costi e l’accessibilità. Internet offre un ambiente aperto, veloce, diffuso e a basso costo per la trasmissione e gestione dei dati. In questo modo, anche imprese piccole che vogliono evitare gli alti investimenti associati con i sistemi proprietari di Electronic Data Interchange (EDI), possono beneficiare dei vantaggi della trasmissione di dati in formato elettronico. Internet è la rete globale, intranet è la rete interna dell’azienda, extranet è l’estensione della rete aziendale alle aziende associate, ai fornitori e ai clienti per le attività business-to-business (b2b). Lo sviluppo di internet ha portato all’eCommerce con ricadute notevoli anche per la logistica. I cosiddetti processi di back-end, in contrapposizione al front-end che identifica i processi di vendita sul web, sono operazioni più complesse che implicano, tra l’altro, la gestione di scorte, l’integrazione di sistemi informativi diversi, la gestione degli ordini, e la 2

Il Paragrafo 12.5 e il box La Logistica preventiva sono stati scritti da Andrea Campagna.

Le ICT sono tecnologie abilitanti per la logistica e il supply chain management, consentendo l’efficientamento dei flussi informativi e la realizzazione della visibilità della supply chain.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Strumenti

L’effetto frusta (bullwhip effect) L’effetto frusta è un fenomeno dinamico della supply chain. L’evento inizia con piccole variazioni nella domanda dei clienti amplificate dagli ordinativi emessi dai successivi produttori e fornitori a monte della supply chain. La principale causa è la debolezza del sistema informativo, poche informazioni e insufficiente integrazione, lentezza nelle risposte alle variazioni, previsioni poco affidabili e incertezza crescente. Gli operatori prendono decisioni sulle scorte in base al loro livello e all’informazione proveniente dall’operatore successivo nella supply chain, senza conoscere il reale stato delle vendite. In realtà le variazioni nelle vendite possono dipendere dal ritardo per il consolidamento degli ordini e da strategie sui prezzi. Il consolidamento degli ordini riduce i costi di elaborazione degli ordini e sfrutta le economie di scala dei trasporti, ma riduce anche la rapidità di risposta e porta a scarsità o assenza del prodotto in magazzino. Il fornitore a monte non ha informazioni sulla domanda dei consumatori finali ed è portato a premunirsi rispetto alla crescita della domanda con un coefficiente di sicurezza per evitare che la volta successiva possa trovarsi con scarsità del prodotto. Le strategie sui prezzi, come gli sconti alla fine della stagione per rispettare i piani, aumentano le vendite, ma riducono i margini, svuotano i magazzini e contribuiscono ad amplificare le variazioni a monte. La Figura 12.12 rappresenta schematicamente l’effetto frusta dal cliente al fornitore. Le informazioni risalgono a monte, ma provengono dall’operatore immediatamente a valle della supply chain, che manca di un sistema informativo integrato capace di dare completa visibilità. Il fenomeno si esalta nei successivi passaggi e diventa ondulatorio. L’effetto frusta è stato studiato per primo da Jay Forrester con un programma di simulazione al computer “Dynamo”. Il programma segue una semplice analogia idraulica con variabili di flusso (derivate) e variabili di livello (integrali). La Figura 12.13 rappresenta il fenomeno dell’effetto frusta. Un aumento delle vendite riduce le scorte al dettaglio, quindi per evitare la mancanza del prodotto il negoziante può ordinare il prodotto nella quantità Q con un qualche coefficiente di sicurezza k. La sicurezza, pur rimanendo costante il coefficiente richiesto dagli operatori nei successivi n passaggi a monte della supply chain, si esalta con il prodotto kn; è l’inizio dell’effetto frusta. Successivamente le scorte risulteranno eccessive per delle vendite che solo temporaneamente avevano manifestato un qualche incremento. Il comportamento si inverte e si tende a chiedere meno nel periodo successivo, quindi si generano delle oscillazioni nel livello delle scorte.

reportistica. Per questo il back-end spesso viene affidato a un fornitore terzo. L’eProcurement automatizza gli acquisti e riduce i costi. Lo standard di comunicazione mobile sta evolvendo dal consolidato General Packet Radio Service (GPRS) alla rete 3G, mentre la disponibilità di sistemi geografici di informazione (GIS) va a sviluppare servizi a valore aggiunto e basso costo forniti anche attraverso il web, a beneficio degli operatori logistici. I sistemi di identificazione più tradizionali sono i codici a barre. Sono composti da un insieme di elementi grafici a contrasto elevato disposti in modo da poter essere letti da un sensore a scansione e decodificati per restituire l’informazione contenuta. Ci sono stili diversi di codici a barre detti simbologie. In un codice a barre i bit di informazioni sono codificati. Uno scanner o una telecamera rileva il modello di barre chiare e scure, decodifica il significato e restituisce la stringa di informazioni ivi contenuta. Il sistema consente di conoscere in tempo reale tutti i dati relativi a un oggetto (prodotto, confezione, pallet) ai fini di una corretta gestione ed esecuzione delle movimentazioni, senza liste cartacee e supporti similari. Tuttavia il limite di informazioni che il sistema può contenere è ormai insufficiente per molte applicazioni. Sono state

Capitolo 12 La logistica

Informazioni

Fornitore

Produttore

Centro di distribuzione

Deposito locale

Clienti

Livello Tempo

Le scorte diminuiscono

Scorte grossista

k3Q

Scorte dettaglio

Richiesta del prodotto k2Q

Figura 12.12 L’effetto frusta.

Le vendite aumentano

Vendite

Richiesta del prodotto kQ

Figura 12.13 L’effetto frusta rappresentato con Dynamo.

Per contrastare il fenomeno serve un sistema informativo, la visibilità della supply chain, accurate previsioni, possibili con grandi quantità e poca varietà, o rapidità di risposta in situazioni poco prevedibili e altamente variabili.

sviluppate versioni più evolute a matrice, il 2D bar code o a tre dimensioni con l’uso del colore. I sistemi Radio Frequency Identification (RFID) svolgono compiti analoghi ai codici a barre; il vantaggio è che le informazioni contenute sono diversi kilobyte e si trasmettono automaticamente via onde radio. I costi sono ancora alti per sostituire i codici a barre, che ancora sono lo standard largamente più diffuso. Un sistema RFID3 consiste di tre componenti: un tag RFID, un’antenna e un lettore (reader). L’antenna permette la diffusione del campo elettromagnetico alle frequenze previste; ce ne sono di varie dimensioni e forme in base alla potenza di emissione (i limiti sono imposti). Il reader, fisso o portatile, è il dispositivo necessario per comunicare con i tag le informazioni ricevute/trasmesse con l’antenna. È interfacciato con i sistemi di controllo (PC e o Palmari). Il TAG è il dispositivo di Trasmissione e Ricezione, detto anche Transponder combinazione di transmitter and responder. Esistono due

3

Il video del sito http://www.dpdhl.com/en/logistics_around_us/from our divisions/rfid.html spiega in modo efficace come funziona un RFID.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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La quarta rivoluzione industriale: stampa 3D, Internet of Things, automazione e realtà aumentata.

versioni: passivo, con un costo da pochi centesimi ad alcuni euro, senza batterie, memoria di 16k e lettura a pochi metri; attivo, con un costo fino a qualche decina di euro, con batterie, memoria di 512k e lettura a distanze di oltre 30m. Il sistema di posizionamento tradizionale è il Global Positioning System (GPS). La conoscenza istante per istante della posizione del mezzo dotato di ricevitore GPS consente di sviluppare sistemi di tracking, che, abbinati a terminali di comunicazione di bordo, permettono di tracciare il mezzo e di implementare sistemi di gestione a valore aggiunto (Fleet Management Systems). Oltre alle applicazioni delle tecnologie ICT, si stanno affermando altre tecnologie che andranno fortemente a influenzare il settore logistico e non solo. Fino a pochi anni fa la stampa 3D, l’Internet delle cose, la consegna con i droni e la realtà aumentata potevano considerarsi fantascienza. Oggi molti ritengono che siamo all’inizio della quarta rivoluzione industriale caratterizzata dalla rete Internet diffusa ovunque e su sistemi mobili, da sensori sempre più piccoli, potenti ed economici, dall’intelligenza artificiale e dall’apprendimento automatico. Due Esperienza

La gestione della flotta commerciale del Gruppo Pigliacelli* Il Gruppo Pigliacelli SpA è una grande impresa di autotrasporto del Frusinate. L’azienda possiede trattori, semirimorchi e casse mobili per il trasporto centinato e sfuso e opera per una vasta tipologia di clienti: compagnie di navigazione, agenzie marittime, industrie e privati. Il Centro di ricerca per il Trasporto e la Logistica della Sapienza – Università di Roma – ha progettato, realizzato e validato un’applicazione pilota per la gestione delle flotta. La strumentazione di bordo è composta da un GPS, che localizza il veicolo, e da un On Board Unit (OBU), che interagisce con i sistemi diagnostici di bordo e raccoglie da questi oltre alla segnalazione di eventuali guasti anche gli input degli autisti e le reazioni del veicolo. L’OBU trasmette in tempo reale gli allarmi e i messaggi urgenti e immagazzina i dati da storicizzare per poi scaricarli al rientro in deposito. Una piattaforma informativa a terra, riportata nella Figura 12.14, riceve e immagazzina i dati, interagisce con i sistemi di pianificazione e di contabilità dell’azienda, pianifica e monitora i giri di distribuzione e raccolta. Il sistema acquisisce una serie di parametri. •

• •



Lettura a distanza e in tempo reale del cronotachigrafo digitale. L’operazione è stata eseguita sia per eventi sollecitati dal veicolo (per esempio, troppo tempo di guida) sia per eventi sollecitati dalla sede (per esempio, verifica del tempo di guida già trascorso). Lettura a distanza e in tempo reale dei dati di rifornimento: litri di gasolio immessi, luogo dell’immissione da sincronizzare con le analoghe informazioni provenienti dalle pompe di gasolio convenzionate. Immagazzinamento e scarico automatico al rientro dei dati di viaggio, di funzionamento della macchina e del comportamento dell’autista fruibili tramite interfaccia web e scaricando dei file Comma Separated Values (CVS) da elaborare tramite Excel e/o con i software già a disposizione dei servizi officina e logistica del Gruppo Pigliacelli. Valutazione del comportamento dell’autista in associazione con il consumo di combustibile e l’usura del mezzo.

* L’esperienza è stata scritta da Adriano Alessandrini.

Capitolo 12 La logistica

professori del prestigioso istituto MIT (Massachusetts Institute of Technology) hanno definito questo periodo come la “seconda era delle macchine” (2014), caratterizzata proprio dalla crescente sofisticazione e integrazione delle tecnologie digitali, in grado di trasformare la società e l’economia globale. L’aspetto interessante è che questo cambiamento viene considerato repentino e in grado di produrre cose inedite. In Germania si è incominciato a parlare di “Industry 4.0” (2011): fabbriche intelligenti in un mondo in cui i sistemi fisici e virtuali collaborano globalmente e in modo flessibile. Questo consente l’assoluta personalizzazione dei prodotti e comporta la definizione di nuovi modelli operativi. La fabbricazione digitale (fabbing) crea oggetti solidi e tridimensionali in base a disegni digitali. Questo metodo, utilizzato ampiamente in manifattura per la creazione rapida di modelli e prototipi, sfrutta tecniche additive (stampa 3D) e sottrattive (taglio laser e fresatura). Le macchine utilizzate per la fabbricazione digitale hanno costi competitivi e sono di facile utilizzo. Le applicazioni sono molteplici dal biomedico all’auto-costruzione e modifica di oggetti.

GPS

GSM/UMTS WiFi GATEWAYS

GUI basata su Internet

LAN/VPN

Analisi GUI

Rapporti GUI Flotta di veicoli

Applicazioni/DB server

Figura 12.14 Il sistema di gestione della flotta. GPS (Global Positioning System), sistema di posizionamento globale; GSM (Global System for Mobile Communications), sistema globale di comunicazione della telefonia mobile cellulare più diffuso; UMTS (Universal Mobile Telecommunications System), uno standard di telefonia mobile cellulare, evoluzione del GSM; WiFi, Wireless Fidelity o semplicemente un marchio commerciale; GATEWAY indica il servizio di inoltro dei pacchetti (sequenze finite e distinte di dati) verso l’esterno; LAN (Local Area Network), rete in area locale, o rete locale; VPN (Virtual Private Network), una rete di telecomunicazioni privata; GUI (Graphic User Interface), interfaccia grafica di un computer; DB server, un programma del computer che fornisce un servizio di base di dati ad altri computer.

I principali risultati ottenuti da questo pilota sono riassunti di seguito. • • • •



La buona organizzazione degli itinerari riesce a minimizzare le percorrenze a vuoto (32%) a fronte di quelle a pieno (68%). Tra i modelli di autocarri utilizzati nell’applicazione pilota esistono significative differenze di consumi (2,4 contro 2,1 km/l di consumo medio complessivo). La scelta di itinerari ottimizzati consente dei significativi margini di riduzione dei costi operativi (fino al 20% dei consumi). Si possono prevedere margini per l’incremento di produttività, migliorando la comunicazione con spedizionieri e destinatari: infatti per oltre il 50% del tempo il veicolo è fermo per soste tecniche di carico e scarico. I dati di litri consumati e litri riforniti sono sovrapponibili, garantendo che tutto il combustibile è stato effettivamente consumato dall’autocarro e non disperso in alcun modo.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

La stampa 3D, anche conosciuta come addictive manufacturing (AM), è considerata una delle più grandi novità nelle tecnologie di produzione degli ultimi anni. Ha catturato l’immaginazione del pubblico e del settore produttivo come niente altro dall’invenzione del PC e di Internet. In alcuni anni, la tecnologia si è così evoluta che oggi è possibile produrre praticamente qualsiasi cosa usando metalli, plastica, materiali compositi e anche tessuto umano. Il mercato globale per le stampanti 3D è in rapida crescita e sono previsti tassi di crescita tra il 33% e il 45% fino al 2018(1).4 La “stampa a domanda” riduce la supply chain e le scorte in magazzino. I fornitori di servizi logistici del futuro consegneranno materie prime invece che prodotti finiti e molti forniranno servizi di stampa 3D proprio nei punti di consegna, sviluppando una fonte di guadagno complementare. L’internet delle cose o Internet of Things (IoT) è una visione del mondo nella quale qualsiasi oggetto può trasmettere e ricevere dati da Internet. Si tratta di sensori intelligenti in grado di comunicare sia M2M (machine-to-machine, da macchina a macchina) e M2H (machine-to-human, da macchina a essere umano). Si stima che nel 2020 più di 26 miliardi di apparati saranno in grado di comunicare via Internet. L’azienda Cisco ha stimato che il mercato dell’IoT aggiungerà un valore pari a 14 000 miliardi di dollari all’economia globale, con un fatturato incrementale di 310 miliardi di dollari per le imprese. L’inserimento di sensori in qualsiasi oggetto e apparato consentirà di raccogliere dati in tempo reale, abilitando un monitoraggio quanto mai preciso di tutti i processi di business, dalla produzione, alla movimentazione (trasporto e logistica) e alle vendite. Perché IoT possa essere implementato con successo, un’azienda deve necessariamente sapere che: il valore dell’IoT non è nella tecnologia ma nei nuovi modelli di business e servizi che possono essere sviluppati; la disponibilità e l’accesso ai dati sarà democratico e terze parti potranno apprendere cose di cui un’azienda non si accorge; la standardizzazione porta alla ripetibilità e al miglioramento delle previsioni; i sensori non durano per sempre; la qualità dell’informazione dipende dalla qualità e affidabilità dei sensori; i dati per essere utili necessitano di essere contestualizzati; la quantità di dati richiederà adeguate infrastrutture informatiche; IoT si regge sulla integrazione e fruizione dei dati raccolti dai sensori. La visibilità è uno dei più grandi problemi delle merci in viaggio. L’applicazione dell’IoT renderà possibile tenere traccia dei singoli item (pacchi, container, confezioni sfuse, …) e delle loro condizioni. L’IoT impiegherà l’identificazione a radio frequenza (RFID) per far sì che i diversi item possano “dialogare” tra di loro. I sensori di cui ciascun item disporrà, trasmetteranno dati identificativi della merce, la posizione, la temperatura, la pressione locale e l’umidità. In questo modo le merci non andranno più perse o dirottate, dal momento che ciascun item trasmetterà la propria posizione. I rischi di danneggiamento saranno ridotti. Ogni item sarà anche in grado di fornire a una centrale di controllo i dati relativi al trasporto: dati di guida, condizioni di traffico, velocità. La visibilità di tutte queste informazioni in tempo reale consentirà ai 3PL di migliorare le proprie prestazioni e quindi la propria redditività. Nel corso degli ultimi anni i trasporti senza conducente stanno affermandosi con effetti rivoluzionari nella logistica. I droni sono velivoli senza pilota controllati a distanza o lasciati volare autonomamente attraverso piani di volo controllati da software. I droni sono leggeri, piccoli, operativamente poco costosi e possono raggiungere luoghi irraggiungibili 4

Columbus L., Roundup of 3D Printing Market Forecasts and Estimates. Forbes, 1 Aprile 2015.

Capitolo 12 La logistica

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per altri modi di trasporto. I veicoli a guida automatica stanno mostrando un grande potenziale anche per la logistica e il trasporto merci. L’ostacolo principale al loro sviluppo è la legislazione attuale. Strumenti

La logistica preventiva Le supply chain sono generalmente caratterizzate da processi reattivi poco in grado di soddisfare le richieste di un ambiente logistico dinamico come quello attuale. Ecco perché si sta affermando un nuovo modello chiamato logistica preventiva (anticipatory logistics) che consiste in un metodo di anticipazione della domanda e conseguente movimentazione delle scorte prima che un ordine sia piazzato. La logistica preventiva sfrutta algoritmi predittivi che lavorano su grandi basi di dati (big data) per consentire agli operatori logistici di migliorare significativamente l’efficienza dei processi e la qualità del servizio, riducendo i tempi di consegna. Dalla rivoluzione industriale in poi, il modello di business dominante è stato caratterizzato dalla previsione della domanda futura del cliente. La logistica preventiva anticipa la domanda basandosi sull’analisi delle ricerche fatte dai clienti su Internet, dalle abitudini di shopping, dalle liste dei desideri salvate sui motori di e-commerce, e anche semplicemente dalla registrazione dei tempi di movimento del cursore del mouse su una pagina web. Il tutto, al fine di spedire un prodotto prima che l’ordine del cliente sia piazzato. Un esempio per tutti è Amazon. Nel dicembre 2013, Amazon ha registrato il brevetto di un nuovo sistema di “spedizione anticipata” dei prodotti (anticipatory shipping). Si tratta un metodo di ottimizzazione della distribuzione per il quale un prodotto può essere spedito prima ancora che venga ordinato on line sul portale di Amazon. Alla base di tale strategia risiede il potenziamento del customer profiling e la riduzione dei tempi di spedizione. Il profiling del cliente prevede la ricostruzione, mediante la tracciatura degli acquisti e delle ricerche pregresse, della “personalità” del cliente, in base alla quale probabilisticamente si assume che costui andrà a piazzare un ordine di acquisto. Quindi, prima ancora che egli manifesti il desiderio di acquistare, il prodotto viene spedito, ossia immesso nel circuito distributivo che lo porta nei pressi del cliente. Questo dovrebbe ridurre fino quasi a eliminare il leadtime tra ordine e consegna del prodotto. L’attrattività del mercato elettronico è determinata proprio dall’affidabilità di questo leadtime. Secondo il brevetto di Amazon, i prodotti, meglio se best sellers o di consumo massificato, sono quindi immessi in circolo senza destinatario; sono concentrati in aree di smistamento quanto più possibile vicine alle aree in cui probabilmente si verificherà un ordine. Mentre il prodotto è in viaggio, l’interazione tra customer service e cliente, sia per un suggerimento di acquisto che un ordine, andranno a completare le informazioni sulla destinazione finale effettiva del prodotto. Una spedizione preventiva, se recapitata ma non corrispondente ai desideri del cliente, potrebbe essere rifiutata. In questo caso il prodotto verrebbe rimesso in circolazione e magari offerto a un prezzo scontato. Nel brevetto Amazon non stima di quanto il metodo sia in grado di ridurre i tempi di consegna. La competizione tra le aziende operanti nei beni di consumo si giocherà molto sulla capacità di stare dietro al trend della logistica preventiva. Le modalità specifiche per mettere in piedi una supply chain preventiva varieranno da settore a settore e probabilmente da azienda ad azienda. Tuttavia, valgono alcuni principi generali. Indubbiamente la logistica preventiva si basa su analisi avanzate di enormi quantità di dati per elaborare le previsioni e sullo scambio di dati tra fornitori di servizi e clienti, tenendo conto degli aspetti di sicurezza e privacy. Inoltre, tali previsioni devono essere allineate con le strategie aziendali e supportate da una leadership forte e di talento in grado di maneggiare analisi avanzate. Infine, contrariamente alle tendenze, è probabile che un fattore di successo anche per attività di business a scala globale sarà la regionalizzazione. Proprio in relazione a questo ultimo punto, è interessante notare che la leva per rendere le supply chain più agili e adattive è quella di una maggiore regionalizzazione. Le aziende, sempre in cerca di guadagni, tendono ad adattare le supply chain e per aumentare la velocità di risposta e soddisfare la domanda tendono a implementare concetti quali il “nearshoring”, sviluppando la capacità produttiva più vicino ai mercati primari. In una tale situazione, la logistica preventiva spinge a posizionare preventivamente le potenziali consegne proprio vicino ai mercati, in controtendenza con la centralizzazione dei depositi a cui si è assistito negli anni passati.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

La realtà aumentata consiste nell’arricchimento della percezione sensoriale umana mediante informazioni, in genere elaborate e presentate elettronicamente, che non sarebbero percepibili con i cinque sensi. Il cruscotto dell’automobile, l’esplorazione della città puntando lo smartphone, la chirurgia robotica a distanza, sono tutti esempi di realtà aumentata. Anche se oggi è ancora immatura, nel futuro le aziende ne faranno più ampio uso per migliorare le proprie decisioni e i processi lavorativi. Nel mondo virtuale, gli operatori impareranno a interagire con le macchine cliccando su rappresentazioni virtuali. Saranno anche in grado di cambiare parametri e recuperare dati e istruzioni per la manutenzione dei veicoli, per esempio. La realtà aumentata consentirà ai 3PL di recepire informazioni critiche sulla merce che trasportano o movimentano, relative per esempio al contenuto, al peso e alla destinazione. La visibilità ottenibile mediante questa tecnologia migliorerà l’handling (picking più veloce e affidabile), aumenterà la velocità del processo di consegna e ne ridurrà il costo totale.

12.6 I trend e le strategie logistiche

Non sono più le aziende a competere tra loro, ma piuttosto sono i sistemi logistici che competono con altri sistemi.

Il mercato globale è caratterizzato oggi da un eccesso di capacità produttiva, intensa competizione, mobilità dei fattori della produzione, personale preparato alle sfide della globalizzazione, aziende collegate da sistemi di trasporto reti di computer e di telecomunicazioni. In questo panorama il successo di un’azienda non è più assicurato semplicemente dal design, dall’innovazione, dai prezzi competitivi e dalla qualità. Il successo dipende certamente da queste abilità, ma in misura sempre maggiore dalla capacità di fare arrivare prodotti, componenti e materiali, insieme a informazioni dettagliate, attraverso estesi ed efficienti sistemi logistici, con elevati livelli di servizio a clienti sempre più esigenti. Non sono più le aziende a competere tra loro, ma piuttosto sono i sistemi logistici che competono con altri sistemi. In un mondo globalizzato aumentano anche le opportunità e le minacce allo status quo dell’azienda. La Tabella 12.4 riporta le principali forze del cambiamento logistico organizzate secondo due categorie dell’analisi SWOT: opportunità e minacce. Ambedue richiedono l’analisi del sistema logistico e il suo cambiamento. Gli interventi di cambiamento per essere appropriati devono operare in un’ottica di lungo termine. Un primo gruppo di interventi riguarda la progettazione della rete logistica LND (Logistics Network Design), composta da nodi (facility) e collegamenti (link). • • • •

I fornitori (numero, prodotti e localizzazione). La produzione (numero, prodotti, specializzazione e localizzazione). I magazzini a monte del prodotto finito, i centri di distribuzione (numero, dimensione e posizione). I collegamenti tra i nodi (modi di trasporto, dimensioni e servizi).

Un secondo gruppo completa la progettazione del sistema logistico. • • • •

Le modalità della produzione e della logistica, per esempio: acquisti, lotti, push e pull, lean, agile, postponement e Built to Order (BTO). Le applicazioni di ICT. La terziarizzazione (outsourcing). La collaborazione lungo la rete logistica e tra reti logistiche.

Capitolo 12 La logistica

Tabella 12.4

Le principali forze del cambiamento logistico

Opportunità

Commenti

Nuovi fornitori

Nel mercato globale emergono nuovi fornitori geograficamente lontani. Il sistema logistico deve essere riprogettato e devono essere valutati gli effettivi vantaggi, compresi i rischi di una rete logistica vasta e dispersa. Per raggiungere nuovi mercati occorre riprogettare la rete distributiva, ma anche rivedere i siti produttivi e le loro specializzazioni. Tutte richiedono una riprogettazione del sistema logistico per cogliere economie di scala e di scopo.

Nuovi mercati Acquisizioni e fusioni Minacce Esigenze crescenti dei clienti Spostamenti dei mercati Capacità di competere

Regolamentazioni e leggi

Il sistema logistico non risulta più adeguato a fornire i livelli di servizio richiesti dai vecchi e nuovi clienti. I mercati tradizionali sono in declino o saturi, nuovi mercati emergono, ma sono in un ambiente fortemente competitivo. Analisi di benchmarking rilevano costi non più competitivi con le altre aziende, causa strutture obsolete, localizzazioni superate e cambiamenti socio-economici. L’efficienza logistica contrasta a volte con la protezione dell’ambiente. I governi hanno una crescente responsabilità dell’ambiente e questo si riflette nei regolamenti e nelle leggi.

La terziarizzazione è la cessione a terzi di parti del sistema logistico e riguarda: • • •

i servizi di trasporto e di magazzino a imprese di trasporto e operatori logistici First Party Logistics Provider (1PL) e Second Party Logistics Provider (2PL); i servizi precedenti con in più la gestione dell’inventario, imballaggi, finali di produzione e spedizioni ai Third Party Logistics Provider (3PL); le attività di integrazione del sistema logistico aziendale con sistemi ICT ai Fourth Party Logistics Service Provider (4PL).

La rete logistica di un’azienda con i trasporti e magazzini, i rifornimenti di materie prime e componenti, può conseguire notevoli miglioramenti nei costi e nel livello dei servizi attraverso la collaborazione con altre aziende. La collaborazione riguarda l’uso comune di risorse per gli approvvigionamenti e la distribuzione e l’uso degli stessi fornitori. La visibilità del sistema logistico è un importante fattore della collaborazione. Altri risultati della collaborazione possono essere il pooling e il cross-docking. Il pooling riguarda la messa in comune dei flussi e delle risorse per gestirli, per esempio la domanda dei clienti e le scorte con cui servirli, oppure il flusso di navi per lo scarico dei contenitori e le gru. L’efficacia del pooling è in presenza di fenomeni aleatori. Il pooling è un metodo per gestire l’incertezza. Il cross-docking è un’operazione che avviene in un centro per la distribuzione senza o con scarso stoccaggio. Le spedizioni dei fornitori arrivano con veicoli stradali grandi al centro, i prodotti sono scaricati, deconsolidati, movimentati, consolidati e ricaricati nei veicoli piccoli in uscita per i giri di consegna, con nessuno o molto poco stoccaggio. Un veicolo grande trasporta i prodotti di un singolo fornitore, un veicolo piccolo trasporta i prodotti di tutti i fornitori. La Figura 12.15 rappresenta schematicamente una rete logistica semplificata. L’ascissa rappresenta l’asse dei tempi. La lunghezza della retta LT (Lead Time) equivale al tempo per consegnare un prodotto al centro di distribuzione CD, par-

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

F

D

Azienda P M1

F

PA PB

M2

M3

T2

T1

CD

D

F

D LT DT2 DT1

Figura 12.15 Rete logistica dell’azienda P, tempi di consegna LT e tempi desiderati DT.

scorta strategica

de-coupling point postponement

A

t1

B t2 C t3 D

F M

Fornitore Magazzino

E T CD

F

G

H

I

Terminale ferroviario Centro di Distribuzione

L

M N D

O P

Q

R

tempo

Deposito locale Flusso/trasporto

tendo dal fornitore e attraversando tutte le lavorazioni e magazzini. Le rette DT (Desired delivery Time) rappresentano i tempi di consegna desiderati dai clienti. I flussi tra i magazzini M interni all’azienda sono linee di lavorazione. Tra M2 e M3 vi sono due linee per indicare la produzione di due prodotti distinti PA e PB. Il trasporto tra il magazzino M e il centro di distribuzione CD utilizza la strada fino al terminale T1, poi il treno fino a T2 e quindi di nuovo la strada. Il diagramma permette di sviluppare delle analisi strategiche sull’LND. Di seguito sono riportati alcuni esempi. Il sistema logistico rappresentato in Figura 12.15 è coerente con il DT richiesto dai clienti, se questo equivale in tempo al segmento QR, letto lungo l’asse delle ascisse. Se il DT dei potenziali clienti è DT1, è possibile eliminare il centro di distribuzione CD e i depositi locali D. I prodotti partono direttamente dal magazzino M3 dell’azienda e raggiungono il cliente nel tempo DT1. Nel caso il DT dei potenziali clienti sia DT2, M2 diventa il magazzino della scorta strategica, confine tra la produzione push e pull, push-pull boundary o de-coupling point. Il prodotto viene completato all’ordine per lo specifico cliente a partire dal magazzino aziendale M2. Produrre prodotti intermedi fino al decoupling point e aspettare l’ordine per completarli è il postponement. È una strategia che massimizza i benefici e minimizza i rischi ritardando i costi del completamento. Richiede un LT che almeno eguagli il DT, e un sistema informativo adeguato. Il postponement si può realizzare anche nel centro di distribuzione CD eliminando i depositi locali e riducendo i tempi di trasporto se è valida la seguente diseguaglianza (vedi Figura 12.15): QR = DT ≥ LT LT = tt + tp dove: tt = tempo di trasporto tp = tempo di completamento del prodotto Anche con DT1 è possibile produrre all’ordine a partire da M2, se vengono ridotti i tempi di trasporto, eliminando il transito per i terminali ferroviari T e usando il tuttostrada.

Capitolo 12 La logistica

La segmentazione della domanda, in relazione ai DT, permette di ridurre le scorte nel centro di distribuzione CD e nei centri C, servendo la clientela con minori esigenze direttamente dal magazzino aziendale M3 o M2, con la pratica del postponement. Nel caso di grandi quantità prodotte, domanda abbastanza prevedibile, poca varietà di prodotti e un sistema informativo che consente la visibilità a tutti del sistema è possibile una produzione lean e push. In questo caso possono essere eliminate gran parte delle scorte e dei relativi depositi. I prodotti escono dalla azienda e, rispettando i diversi DT della clientela, arrivare a destinazione. Lo stesso risultato si può ottenere con il BTO in condizioni di domanda meno prevedibile e con grande varietà di prodotti, ma con sistemi produttivi e logistici rapidi nella risposta alla clientela. I sistemi logistici moderni sono in effetti reti complesse, la cui vulnerabilità dipende dal rischio di mancato o ridotto funzionamento dei nodi e dei collegamenti che la compongono. Queste reti possono essere rappresentate con tecniche reticolari tipo Program Evaluation and Review Technique (PERT), il Critical Path Method (CPM) e Failure Mode and Effect Analysis (FMEA) il per individuare le criticità di questi malfunzionamenti. Per esempio allungamenti degli LT, arresti della produzione, formazione di colli di bottiglia.

12.7 La logistica urbana5 La logistica urbana si occupa dei flussi di merci che hanno origine e destinazione in localizzazioni all’interno delle aree urbane. I flussi maggiori sono quelli relativi alla distribuzione commerciale, dal momento che la trasformazione della città da industriale a post-industriale, ovvero a città dei servizi, ha spinto le industrie a localizzarsi all’esterno. L’attività di distribuzione commerciale che si svolge nelle aree urbane, il cosiddetto ultimo miglio, è finalizzata a far giungere le merci ai destinatari: grande distribuzione organizzata (GDO), piccolo dettaglio, negozi in franchising, consumatori finali, utilizzando diversi canali distributivi. •







5

Canale diretto, dalla fabbrica o dal magazzino del fornitore/produttore o del suo logistico, al punto vendita al dettaglio, eventualmente per il tramite di un rappresentante o di un operatore di tentata vendita; è tipico dei prodotti deperibili destinati al piccolo dettaglio. Canale diretto con centralizzazione dei flussi presso un CD, ove avvengono lo stoccaggio e l’eventuale personalizzazione dei prodotti e che può essere gestito dal produttore, dalla GDO o da un loro operatore logistico; è tipico della GDO e del franchising. Canale indiretto in cui avviene l’intermediazione tra produttori e dettaglianti da parte di un grossista, come nel caso dell’abbigliamento e dei farmaci, o di un centro all’ingrosso (mercato o cash and carry), spesso con auto-approvvigionamento del commerciante presso il centro, come nel caso dei prodotti ortofrutticoli, carne e pesce. Canale indiretto, intermediato da un operatore specializzato: distributore, come nel caso dei giornali e tabacchi, o concessionario, come nel caso delle automobili. Il Paragrafo 12.7 e le esperienze Cityporto e Monoprix sono state scritte da Paolo Delle Site.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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Esperienza

L’ottimizzazione della logistica della moda La moda è sottoposta a grandi fluttuazioni stagionali e a rapide variazioni nei gusti del pubblico, soprattutto giovanile. Le imprese più innovative assecondano il mercato con rapidità, dimezzando così i saldi ridotti al 15–20% delle vendite rispetto al 30–40% delle imprese più tradizionali. I maggiori nomi della moda stanno quindi concentrandosi sempre più sulle prestazioni dei loro sistemi logistici. Il settore della moda ha così sviluppato quello che è diventato noto come fast fashion, basato su una rapida risposta del sistema logistico ai cambiamenti del mercato. Il secondo caso riguarda una grande impresa della moda italiana che importa da PMI, prodotti eseguiti su precise specifiche dei suoi progettisti. Non tutti i prodotti della moda sono uguali e hanno quindi le stesse esigenze logistiche. I prodotti essenziali con un lungo ciclo di vita sono competitivi in base al prezzo; diversamente per i prodotti di moda e di tendenza, subentrano fattori chiave della logistica come l’affidabilità, la velocità e la flessibilità. Il sistema logistico deve quindi diversificare l’offerta, in modo da soddisfare le esigenze di ciascun prodotto e la variabilità del mercato, ma nello stesso tempo minimizzando i costi. Il consolidamento delle spedizioni e la gestione di tutti i trasporti dal distretto turco avviene franco fabbrica sotto la regia di un 4PL, fornitore di servizi logistici integrati in modalità di partnership con l’azienda cliente. Le spedizioni da consolidare vengono fatte transitare per un centro di consolidamento (CC) in Turchia e successivamente avviate a un centro di distribuzione (CD) in Italia. Sono stati esaminati tre sistemi di trasporto tra la Turchia e l’Italia: tutto strada, ferrovia e nave. I costi crescono sensibilmente dalla nave alla strada, circa il doppio. La strada è il sistema più affidabile, veloce e flessibile. La ferrovia è intermedia tra i due modi. La Figura 12.16 riporta schematicamente la funzione del 4PL e del sistema logistico, mentre la Figura 12.17 riporta i tre sistemi di trasporto.

ICT – 4PL

PMI

CC

DC

D

Dettaglio

Figura 12.16 Gestione del sistema logistico.

e-commerce pick-up point

Per alcuni beni, quali gli alimentari e i beni per i quali sono necessari servizi di montaggio e installazione, la consegna avviene a domicilio. Si utilizza il canale diretto del primo punto anche nelle vendita diretta al consumatore finale, ecommerce attraverso Internet o per corrispondenza, con la differenza che il destinatario è il domicilio del consumatore o un pick-up point. Altre scelte caratterizzanti la distribuzione urbana sono quelle relative al numero, ampiezza e localizzazione dei magazzini o di altre strutture logistiche, la scelta tra conto proprio e conto terzi, le unità di carico e la tipologia di veicolo, le tempistiche di movimentazione in termini di frequenze e orari di consegna. Le frequenze di consegna sono molto differenziate a seconda della filiera: dalle

Capitolo 12 La logistica

Centro di distribuzione Ferrovia

Strada Centro di consolidamento

Nave

Figura 12.17 I tre sistemi di trasporto.

L’ottimo logistico si trova variando opportunamente i fattori. L’aumento dei costi di produzione consente di ridurre i costi di inventario e i saldi, la nave consente di spedire grandi quantità a basso costo, mentre la strada serve soprattutto i prodotti della fascia alta e le punte della domanda. I principali benefici del progetto sono l’ottimizzazione dei flussi attraverso un 4PL, che ha a disposizione due centri e tre sistemi di trasporto alternativi. Il sistema da gestire è però molto complesso e richiede cambiamenti in tutta la catena del valore. I principali svantaggi sono tempi più lunghi per parte delle spedizioni rispetto a un tutto strada organizzato dalle singole PMI, ma con costi che sarebbero molto elevati con carichi non completi. La forte variabilità potrebbe a volte compromettere il consolidamento e le esigenze di economicità.

frequenze stagionali dell’abbigliamento a un massimo di quattro o cinque consegne giornaliere nel caso dei farmaci. Gli orari di consegna tendono generalmente a concentrarsi nella mattina. Interessano le aree urbane, in aggiunta ai flussi della distribuzione commerciale, i flussi relativi alle seguenti attività: • •

logistica dei ritorni (reverse logistics), in cui si movimentano imballaggi, resi e altri rifiuti riciclabili e non; movimentazione di buste e piccoli pacchi (messaggeria), gestita principalmente dai corrieri espressi;

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica



L’obiettivo è duplice. Da una parte occorre garantire l’efficienza della distribuzione e l’accessibilità ai veicoli che effettuano il trasporto delle merci. Dall’altra devono essere minimizzate le esternalità negative associate con i flussi di tali veicoli.

centri di distribuzione urbana (CDU)

movimentazione dei valori che si scambiano tra le banche e gli esercizi commerciali.

Vi sono, infine, i flussi di veicoli merci connessi alle attività nei cantieri e alle attività di manutenzione e riparazione presso imprese o domicili. C’è una crescente consapevolezza da parte dei decisori pubblici impegnati nel governo delle città circa la necessità di intervenire sulla mobilità delle merci. L’obiettivo è duplice. Da una parte occorre garantire l’efficienza della distribuzione e l’accessibilità ai veicoli che effettuano il trasporto delle merci. Dall’altra devono essere minimizzate le esternalità negative associate con i flussi di tali veicoli. L’efficienza della distribuzione è compromessa dalla congestione stradale e dalla mancanza di adeguati spazi per la sosta. Allo stesso tempo, i flussi dei veicoli che trasportano merci hanno impatti significativi. La sosta illegale per le operazioni di carico e scarico crea ostacoli agli altri veicoli. Le emissioni di polveri sottili di cui sono responsabili i veicoli diesel, che costituiscono la quasi totalità dei veicoli merci, rappresentano un costo sociale elevato. Esistono infatti evidenze epidemiologiche che stabiliscono una correlazione tra queste emissioni e l’incidenza di malattie a carico dell’apparato respiratorio e cardio-circolatorio nella popolazione esposta. Statistiche a livello europeo indicano come la quota del traffico merci sul traffico totale urbano sia in media, quando misurata in termini di percorrenze, dell’ordine del 15%. Attualmente si riscontra una tendenza a un aumento delle frequenze delle consegne accompagnata da un riduzione della dimensione dei lotti. Tale tendenza ha come effetto un aumento delle percorrenze. Tra i fattori che contribuiscono alla tendenza figurano la crescita dell’e-commerce, la riduzione degli spazi adibiti a magazzino soprattutto nei centri storici per via degli elevati valori immobiliari, le aspettative da parte dei rivenditori di un calo dei consumi nella corrente congiuntura economica. L’intervento più comunemente adottato dai decisori pubblici è quello delle limitazioni al traffico dei veicoli merci nelle aree dove sono più sensibili i problemi di carenza di spazio, protezione del patrimonio storico-architettonico, difesa della salute e della qualità della vita dei cittadini. Le limitazioni sono differenziate sulla base della dimensione del veicolo e dell’ora della giornata. In misura crescente, vengono adottate differenziazioni in modo da creare incentivi per gli operatori in favore di comportamenti virtuosi. Tra i comportamenti desiderati la scelta di veicoli a basso impatto ambientale e la scelta del conto terzi, in quanto più efficiente del conto proprio per via della minore incidenza dei viaggi a vuoto. In alcune città le amministrazioni pubbliche e gli operatori privati hanno cooperato per realizzare sistemi di distribuzione, i cosiddetti centri di distribuzione urbana (CDU), in grado di conseguire miglioramenti di efficienza in termini di riempimento dei veicoli attraverso il consolidamento dei carichi. L’effetto di riduzione degli impatti ambientali è ottenuto attraverso la riduzione delle percorrenze accompagnata dall’utilizzo di veicoli a basso impatto ambientale. Un’altra misura innovativa che tende alla sostenibilità è quella incentrata sull’uso della ferrovia per l’ingresso delle merci nell’area urbana. Le merci sono trasportate su di un treno shuttle da un terminale esterno all’area urbana ad un terminale interno che prende il nome di centro di distribuzione urbana multimodale. Da qui le merci sono trasportate alle destinazioni finali con mezzi stradali ecologici.

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Esperienza

Cityporto Cityporto è il servizio di distribuzione urbana delle merci con mezzi a basso impatto ambientale realizzato a Padova. Il servizio è gestito da Interporto Padova, la SpA a partecipazione pubblica che gestisce l’omonimo interporto. Cityporto è promosso da Comune di Padova e Interporto Padova SpA, in collaborazione con Provincia, Camera di Commercio di Padova e APS Holding SpA – Divisione Mobilità. Cityporto è operativo dal 21 aprile del 2004. Le merci sono consegnate a una piattaforma logistica a ridosso della città (all’interno delle strutture di Interporto Padova SpA). Da qui partono i mezzi, a metano ed elettrici, per la distribuzione in centro. Le merci ricevute entro le 9.00 vanno in consegna la mattina, quelle ricevute entro le 14.00 il pomeriggio. Attualmente il servizio utilizza 1500 mq di magazzino presso l’Interporto di Padova e serve il settore del collettame. Dal 2011 è attiva l’estensione ai settori del fresco e delle bevande. L’adesione al servizio, rivolto sia agli operatori in conto terzi sia in conto proprio, è volontaria. I clienti del servizio sono in prevalenza corrieri. Il Comune ha adottato una regolamentazione finalizzata a incentivare l’uso del servizio: i veicoli di Cityporto non sono soggetti a limitazioni di orario per l’accesso al centro, al contrario degli altri veicoli merci, e hanno la possibilità di utilizzare le corsie preferenziali degli autobus e taxi. Il successo dell’iniziativa è dimostrato dal numero di consegne, cresciute dalle 44 400 del 2005 alle 57 800 del 2010 e alle 100 000 del 2015. I clienti usano oggi il servizio anche per consegne al di fuori del centro (è attivo un servizio giornaliero per l’area termale di Terme Euganee a vocazione turistica). La neutralità del gestore elimina le barriere alla trasmissione di informazioni. Le consegne vengono effettuate utilizzando le bolle degli stessi corrieri. Per l’acquisto dei primi veicoli sono state utilizzate sovvenzioni pubbliche e l’infrastruttura è messa a disposizione da Interporto Padova, minimizzando in questo modo gli ammortamenti. Il modello gestionale di Cityporto è oggetto di interesse e di studio in varie città italiane per iniziare analoghi servizi. Un servizio omonimo che utilizza il modello gestionale del Cityporto di Padova è stato attivato ad Aosta. Altre città hanno adottato in passato le soluzioni di Padova a livello organizzativo (Brescia, Como, Modena).

12.8 La logistica “verde” Negli ultimi due decenni, è cresciuta nei Paesi sviluppati l’attenzione del pubblico e di riflesso dei governi sulla protezione e conservazione dell’ambiente. Lo sviluppo di specifiche politiche di riduzione degli impatti ambientali ha spinto le aziende a tenere maggiormente in conto i costi esterni delle attività economiche, come il cambiamento del clima, l’inquinamento dell’aria, le vibrazioni e gli incidenti. Le aziende più avanzate e sensibili al pubblico hanno integrato tali questioni nella propria mission aziendale. La logistica verde (green logistics) è un risultato di questo processo. Il 35% delle aziende in un’indagine (Bearing Point, 2008) a livello mondiale dichiara di avere introdotto strategie in merito alla green supply chain nella vision aziendale. A livello europeo (Eyefortransport, 2007) il 67% dichiara che le questioni ambientali sono importanti o molto importanti nelle strategie aziendali. Due importanti temi della logistica verde sono la stima della produzione di gas serra nel sistema logistico dal produttore al consumatore e l’esame dei modi per rendere efficiente il sistema logistico e per ridurre i gas serra. I metodi di stima sono ancora oggi in una fase sperimentale.

Le aziende più avanzate e sensibili al pubblico hanno integrato tali questioni nella propria mission aziendale. La logistica verde (green logistics) è un risultato di questo processo.

gas serra

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Esperienza

Due cambiamenti rivoluzionari nella logistica urbana Due innovazioni aprono cambiamenti rivoluzionari nella logistica urbana: le consegne affidate a semplici cittadini con patente e auto (crowd-shipping) e i trasporti senza conducenti (driverless). Uber ha introdotto per prima l’utilizzo di conducenti privati disponibili con la loro vettura a trasportare passeggeri con l’aiuto di una semplice app, che mette in comunicazione domanda con offerta. Recentemente l’attenzione si è spostata con successo al trasporto di prodotti al consumatore finale (Figura 12.18). È un modo per reinventare i servizi di distribuzione, specialmente quelli normalmente definiti “ultimo miglio”, in modo da soddisfare la domanda crescente del commercio online. Il crowdshipping entra in funzione quando un individuo o un’azienda, che necessita di un trasporto di un bene, si rivolge ha una società di crowdsourcing. La società grazie a una piattaforma ICT gestisce rete di autisti certificati, che non sono dipendenti, ma hanno dato la disponibilità per servizi di corriere. La seleziona dell’autista è basata di solito sul prezzo, sui requisiti del bene da trasportare e sul punteggio dell’autista, valutato dai clienti. La forza del crowdshipping è che non richiede investimenti fissi. Usa la tecnologia per mettere in rete risorse sottoutilizzate. Si tratta di un modello di asset-light tipico della sharing economy, come Uber e Airbnb. I benefici del crowdshipping sono duplici. Gli operatori logistici sono interessati per la riduzione dei costi, dei vincoli e dei problemi di consegna in un settore del mercato della logistica dove i margini sono molto ridotti e il ritorno degli investimenti basso. I cittadini hanno un nuovo mezzo di generazione di reddito extra o un modo per sovvenzionare le spese di un viaggio, che avrebbero fatto egualmente. Le tariffe del trasporto sono basse, ma lo sono anche i costi incrementali. Il risultato è un ampio margine netto che rende l’attività attraente. I trasporti automatici hanno svolto un ruolo nella movimentazione materiali e prodotti per più di 60 anni. Il primo sistema di veicoli automatici (Automated Guided Vehicle, AGV) è stato costruito e introdotto nel 1953 da Barrett Elettronica di Northbrook in Illinois US. Il veicolo era un trattore di traino guidato da un campo magnetico creato da un cavo nel pavimento. Il trattore era in servizio in un magazzino di generi alimentari. Entro la fine del 1950 e primi anni 1960, gli AGV erano in funzione in molte fabbriche e magazzini.

Esigenza di trasporto di un’individuo o un’azienda

Piattaforma ICT di raccolta e distribuzione

Risposte dagli autisti

Invia un ordine alla rete di autisti con le seguenti informazioni:

Antonio B.

€ 50

****

Enzo R.

€ 60

**

Franco P.

€ 45

*

• tipo e dimensioni di imballaggio • quando e dove

Scelta dell’autista

Figura 12.18 Come funziona il crowdshipping.

Per valutare gli impatti ambientali di un’azienda occorre definirne i confini, problema non semplice in sistemi logistici complessi. Standard di metodi di calcolo e di misura sull’impatto ambientale, oggi disponibili, includono: • •

BSI + Carbon Trust – PAS 2050; ISO 14064;

Capitolo 12 La logistica

Nel 1973, Volvo realizzò linee di assemblaggio servite da AGV. Oggi i veicoli automatici sono in servizio nei magazzini, nelle fabbriche e nei porti per la movimentazione dei container. L’innovazione radicale è di utilizzarli non solo in ambienti confinati e controllati, ma nel traffico stradale. L’automazione nella distribuzione urbana ha due principali direzioni: veicoli automatici stradali a bassa velocità e i famosi droni di Amazon. L’ottima dimensione della spedizione si riduce drasticamente con l’automazione, il costo del magazzino e l’importanza crescente della rapidità dei tempi di consegna. Veicoli e velivoli sono quindi di piccola capacità, sufficiente per consegne individuali di pacchi. I beni vengono spediti con continuità in regime di just in time senza necessità di consolidare. Una nuova società Starships Technologies ha annunciato i suoi programmi di introdurre nella distribuzione urbana un piccolo veicolo automatico con 6 ruote, riportato in Figura 12.19. Il veicolo ha una velocità di 6,5 km/h e può trasportare 9 kg. La bassa velocità riduce il raggio di azione del veicolo e pertanto per essere efficace il nuovo sistema di distribuzione richiede molti piccoli transit point. Il gigante Amazon ha invece puntato sui droni per sfuggire al caos delle strade. I droni potrebbero essere in combinazione con magazzini automatici presidiati da robot e veicoli automatici. La tecnologia è pronta, mancano le regole per poter sviluppare il futuro, ma in tutto il mondo sono in corso test su strada e i governi stanno preparandosi ad accogliere con apposite leggi e regolamenti la nuova tecnologia.

Figura 12.19 Il veicolo automatico per la distribuzione urbana.

• • •

Global Reporting Initiative; World Business Council For Sustainable Development; DEFRA, Environmental KPIs.

Lo sviluppo della logistica verde richiede un sostegno pubblico e la collaborazione delle aziende industriali e degli operatori della logistica.

469

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

470

Esperienza

Monoprix, Parigi L’organizzazione della distribuzione della merce ai punti vendita della catena di grandi magazzini Monoprix è basata a Parigi sull’uso della ferrovia. Il servizio è operativo dal 2007. Treni navetta utilizzano i binari della RER collegando, su circa 30 km, due centri esterni (Combs-la-Ville e Lieusaint) alla stazione di Bercy situata nella zona sud-orientale del centro urbano. Di qui la distribuzione ai magazzini avviene utilizzando mezzi a metano. La merce trasportata comprende abbigliamento, prodotti di bellezza, bevande. La merce viene caricata sui treni tra le 13 e le 18,30. Il treno shuttle parte alle 20,00 e arriva in un’ora a Bercy. La merce è consegnata il giorno seguente. La misura ha contributo ad alleviare alcuni impatti causati dalla distribuzione delle merci nell’area parigina. Le percorrenze totali dei mezzi pesanti nella regione Ile-de-France sono state ridotte con effetti benefici sulla congestione delle strade. Il risparmio di carburante ha dato luogo a riduzioni delle emissioni di anidride carbonica e di ossidi di azoto. L’uso dei mezzi a metano per l’ultimo miglio, equipaggiati con dispositivi antirumore e cambio automatico, ha contributo a ridurre nelle aree più centrali gli impatti negativi solitamente creati dal traffico merci. La misura si è rivelata però più costosa per l’impresa della soluzione tutto strada, a causa dell’uso della ferrovia, la gestione del deposito a Bercy, i trasbordi addizionali e l’uso dei veicoli a metano. In particolare, incide sui costi l’imposizione da parte dell’operatore ferroviario di una tariffa forfettaria basata su treni di 22 vagoni, mentre la variabilità della domanda comporta un carico medio di 17 vagoni. Una delle ragioni che ha spinto Monoprix ad adottare la misura è stata la paventata introduzione di misure di pricing del trasporto stradale che avrebbero aumentato sensibilmente il costo della soluzione tutto strada. Se ciò dovesse avvenire, Monoprix godrebbe di una posizione di vantaggio competitivo. La scelta della misura è dovuta inoltre a motivi di immagine. Monoprix ha fatto della sostenibilità ambientale il principale messaggio pubblicitario, non solo in virtù del trasporto ferroviario, ma anche dell’utilizzo di mezzi ecologici per l’ultimo miglio, la vendita di prodotti biologici e il rinnovamento dei punti vendita per diminuire i consumi energetici. Un nuovo centro di distribuzione urbana multimodale a Parigi è in corso di costruzione per conto della società di logistica Sogaris. Il centro prende il nome di Chapelle International Logistics Hotel e sarà collegato con treni shuttle a terminali della zona nord della regione Ile-de-France. Una misura analoga è stata proposta per la città di Roma nell’ambito del Piano della Mobilità della regione Lazio.

carbon tax

regulation through revelation

I principali compiti degli amministratori pubblici sono: interventi sulle tariffe allineandole alle emissioni (carbon tax), definire e regolamentare i metodi di calcolo, misurare gli standard delle etichette, incentivare gli interventi di decarbonizzazione e il riciclaggio. Inoltre devono investire sulla rete per eliminare i colli di bottiglia, favorire l’uso di modi di trasporto più efficienti e investire sui nodi del trasporto per facilitare il consolidamento dei carichi. Un modo innovativo per impegnare le aziende è la cosiddetta regulation through revelation. Questa regolazione agisce rivelando al pubblico con adeguata e codificata informazione gli impatti sull’ambiente dell’azienda. In presenza o no di sistemi di incentivazione al comportamento verde la regulation through revelation contribuisce a ridurre gli impatti, in particolare le emissioni di CO2, spingendo delicatamente nella direzione giusta le aziende (nudge). Le aziende industriali devono ottimizzare le reti distributive e i flussi di trasporto, ridurre e re-ingegnerizzare gli imballaggi, decelerare il sistema logistico, impiegare edifici ecosostenibili e ottimizzare il layout dei magazzini. Gli operatori del trasporto e della logistica devono: impiegare veicoli e modi di trasporto (si veda la Tabella 12.5) con minori consumi ed emissioni, crescere dimensionalmente e/o trovare accordi di collaborazione.

Capitolo 12 La logistica

Tabella 12.5

471

Efficienza energetica ed emissioni per modo di trasporto

Vie d’acqua Ferrovia Strada Aereo

MJ/tkm

tCO2e/tkm

0,1 ÷ 0,3 0,3 2,7 10,0

7 ÷ 21 18 180 680

Esperienza

L’azienda uShip Uno dei casi di successo relativo all’ottimizzazione della supply chain mediante l’uso della ICT è quello della azienda uShip. Nata nel 2004, l’azienda ha sviluppato un servizio di consolidamento delle spedizioni finalizzato a rendere più economico e meno inquinante il trasporto. Il fattore di carico dei veicoli risultava basso, molti km erano percorsi quasi a vuoto, cresceva il numero dei veicoli circolanti e il costo del servizio. La soluzione è stata di offrire la capacità residua a un pubblico più vasto dei clienti abituali mediante un portale web di incontro domanda-offerta, vale a dire un e-marketplace, con un meccanismo di asta inversa. Il risultato è stato di ridurre le percorrenze a vuoto, i veicoli circolanti e i costi, ma anche le emissioni. uShip ha poi concordato un meccanismo di compensazione della CO2 prodotta, con TerraPass, azienda americana specializzata in soluzioni per la riduzione delle emissioni di CO2.

Sintesi La logistica è il processo di pianificazione, esecuzione e controllo di un efficiente ed efficace flusso e immagazzinamento di materie prime, semilavorati, prodotti finiti e delle relative informazioni dal punto di origine al punto di consumo per soddisfare le richieste del cliente. La logistica è un’importante componente del PIL e varia tra il 10 e il 20%. I governi devono assicurare capacità e qualità dei servizi nei nodi principali del sistema, promuovere l’efficienza dei trasporti attraverso una migliore ripartizione modale, sostenere le piccole e medie imprese (PMI) e gli operatori logistici. Il servizio al consumatore è l’elemento finale, ma informa tutto il sistema. L’esecuzione delle attività è guidata dal rispetto dell’obiettivo di soddisfare un determinato livello di servizio e concorre alla formazione del costo logistico totale. La logistica assolve con le sue attività compiti essenziali per il servizio al cliente. L’approccio sistemico della logistica ha come obiettivo la determinazione dell’ottimo tra livello di servizio e costo totale. La gestione efficace delle informazioni è una priorità per rispondere con la logistica al livello di servizio richiesto dai clienti. L’applicazione dell’Information and Communication Technology (ICT) alle attività logistiche migliora diversi aspetti del sistema logistico e dell’azienda. In un mondo globalizzato aumentano le opportunità e le minacce allo status quo dell’azienda, che per questo deve cambiare. Gli interventi di cambiamento devono operare in un’ottica di lungo termine. Uno strumento di progettazione è il Logistics Network Design (LND) che interviene sui nodi (facility) e collegamenti (link) della rete logistica. La logistica urbana si occupa dei flussi di merci che hanno origine e destinazione in localizzazioni all’interno delle aree urbane. L’obiettivo è duplice. Da una parte occorre garantire l’efficienza della distribuzione e l’accessibilità ai veicoli che effettuano il trasporto delle merci. Dall’altra devono essere minimizzate le esternalità negative associate con i flussi di tali veicoli. Negli ultimi due decenni, è cresciuta nei Paesi sviluppati l’attenzione del pubblico e, di riflesso, dei governi sulla protezione e conservazione dell’ambiente. Lo sviluppo della logistica verde richiede un sostegno pubblico e la collaborazione delle aziende industriali e degli operatori della logistica.

472

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Domande ed esercizi □ b. La comunicazione tra i sistemi informativi dei clienti con i fornitori. □ c. La gestione unificata della logistica interna ed esterna all’azienda.

Domande di verifica 1. 2. 3. 4.

5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.

12.

13. 14.

Illustrare il concetto di logistica collaborativa e descrivere i principali benefici per le piccole e medie imprese. Spiegare il concetto di efficienza e di efficacia nel caso di attività logistiche. Illustrare la differenza tra logistica e supply chain management mediante un esempio aziendale. Descrivere in che modo la logistica contribuisce allo sviluppo economico e alla competitività di un Paese e di un’azienda. Illustrare i sei indicatori che costituiscono l’indice di prestazione logistica. Descrivere in che modo la logistica supporta il raggiungimento di un determinato livello di servizio al cliente. Spiegare perché le interazioni tra logistica e altre funzioni aziendali richiedono trade-off. Illustrare cosa si intende per approccio sistemico della logistica. Descrivere l’effetto frusta in un’ipotetica supply chain presa per esempio. Illustrare in che modo lo sviluppo della rete Internet ha portato benefici alle attività di logistica. Illustrare il concetto di Fleet Management System e in che modo l’uso di un tale sistema comporta benefici per un’azienda di autotrasporto. Spiegare in che modo un sistema logistico può diventare maggiormente competitivo e quali sono le principali forze del cambiamento. Illustrare in che modo un centro di distribuzione urbana rappresenta una soluzione logistica. Illustrare gli obiettivi della logistica verde e i principali compiti dei vari soggetti, pubblici e privati, interessati.

Test a risposta multipla 1.

2.

In un distretto in regime di logistica outbound collaborativa qual è la funzione del broker? □ a. Cercare per conto delle imprese mittenti le migliori tariffe di trasporto. b. Operare il consolidamento delle spedizioni per de□ stinazione minimizzando i costi di trasporto. □ c. Definire i percorsi di prelievo e consegna per minimizzare i tempi e i costi di trasporto. Cosa si intende per logistica integrata? □ a. Il coordinamento logistico delle diverse funzioni aziendali.

3.

Qual è in media la dimensione dell’incidenza del valore della logistica sul PIL dei Paesi più sviluppati? □ a. 10-20% □ b. 1-2% □ c. Oltre 40%

4.

Quale delle seguenti non è un’attività logistica? □ a. Determinazione del prezzo di vendita. □ b. Assistenza post-vendita. □ c. Previsione della domanda.

5.

Quali sono le più importanti tecnologie di identificazione? □ a. GPRS e GPS. □ b. BarCode e RFID. □ c. GIS ed EDI.

6.

La definizione di logistica aziendale (business logistics) del CLM non include: □ a. pianificazione. □ b. manutenzione. □ c. controllo.

7.

La scorta strategica: □ a. riduce i costi di inventario. □ b. ottimizza il servizio al cliente. □ c. minimizza i costi dello sviluppo di un nuovo prodotto.

8.

Il postponement: □ a. riduce le scorte. □ b. aumenta le scorte. □ c. è indifferente.

9.

Il Logistics Network Design è: □ a. uno strumento di progettazione della supply chain. □ b. un sistema di gestione della supply chain. □ c. un sistema di produzione.

10. La messa a punto di un sistema logistico inizia: □ a. dalla previsione della domanda. □ b. dalla definizione della mission per la funzione logistica. c. dalle esigenze del cliente. □

Capitolo 12 La logistica

11.

Perché tende a ridursi l’incidenza percentuale della logistica sul PIL dei Paesi più sviluppati? □ a. Cresce la quota dei servizi sul PIL. □ b. Cresce il PIL. □ c. Aumenta il costo dell’energia.

473

12. Lotti grandi diminuiscono i costi: □ a. di produzione. □ b. del marketing. □ c. della logistica.

Bibliografia Teti di riferimento generali Bearing Point (2008), How mature is the Green Supply Chain?, Survey Report, Dallas. Coyle J.J., Bardi E.J., Langley C.J. (2003), Management of Business Logistics: A Supply Chain Perspective, 7a ed., South-Western, Thomson Learning. Christopher M. (2005), Logistics and Supply Chain Management Creating Value-Adding Networks, 3a ed, New York, Pearson Education. Delle Site P., Filippi F., Nuzzolo A. (a cura di) (2013). Linee Guida dei Piani di Logistica Urbana Sostenibile. Maggioli, Santarcangelo di Romagna. Eyefortransport (2007), Green Transportation & Logistics, Global Report, November.

Gibson B.J., Mentzer J.T., Cook R.L. (2005), Supply Chain Management: the Pursuit of a Consensus Definition, «Journal of Business Logistics», vol. 26, n. 2, pp. 17-25. Grant D.B., Lambert D.M., Stock J.R. et al. (2006), Fundamentals of Logistics Management, European Edition, Milano, McGrawHill. Halldorsson A., Larson P. (2004), Logistics versus supply chain management: an international survey, «International Journal of Logistics», vol. 7, n. 1, pp. 17-31. Maggi E. (2007), La Logistica Urbana delle Merci. Aspetti Economici e Normativi, Milano, Polipress. McKinnon A., Cullinane S., Browne M. et al. (2009), Green Logistics: Improving the environmental sustainability of logistics, Londra, Kogan Page.

Sul sito www.ateneonline.it/n/fontana5e sono disponibili le soluzioni e il test interattivo

L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo: analisi e gestione strategica degli investimenti in R&S

13

Paolo Boccardelli, Federico Munari, Maurizio Sobrero Gli obiettivi del capitolo Questo capitolo è dedicato alla comprensione dei problemi legati all’analisi e alla gestione strategica dell’innovazione tecnologica. Gli obiettivi sono pertanto: • • • • •

presentare i concetti base dell’economia e della gestione dell’innovazione aziendale; evidenziare i principali fattori per trarre rendimenti economici dagli investimenti in tecnologia; identificare i modelli di analisi e gestione strategica della tecnologia, esaminandone criticamente i punti di forza e di debolezza e le occasioni nelle quali possono apparire utili alle decisioni; collegare l’analisi strategica effettuata a principi e metodologie di gestione operativa; offrire spunti di riflessione e piccole finestre sulla realtà delle imprese in relazione al fenomeno dell’innovazione tecnologica.

A tal fine il capitolo si sviluppa in cinque parti. Il Paragrafo 13.1 introduce alcuni concetti di base relativi allo studio dell’innovazione tecnologica, concetti necessari per la comprensione e lo sviluppo dei modelli di analisi presentati nei Paragrafi 13.2 e 13.3, rispettivamente sulla profittabilità derivante dagli investimenti in tecnologia, e sull’analisi e la gestione strategica dell’innovazione. Gli ultimi Paragrafi, 13.4 e 13.5, presentano alcuni modelli di gestione delle attività dal punto di vista operativo e organizzativo, con particolare riferimento alle problematiche legate alle collaborazioni per la ricerca e sviluppo (R&S) e alla gestione di un portafoglio di progetti d’innovazione.

13.1 Gli investimenti in R&S, l’innovazione tecnologica e i problemi di natura strategica Il concetto di innovazione tecnologica quale attività eroica risultante dagli sforzi straordinari di individui dotati di talento e capacità fuori del comune ha caratterizzato per molto tempo gli studi sulla gestione dei processi d’innovazione in ambito aziendale. Sebbene affascinante e suggestiva, tale visione del fenomeno risulta inadeguata a offrire risposte operative in grado di orientare l’azione manageriale. Al fine di fornire contorni più precisi al fenomeno, alle sue dimensioni e alle problematiche in ottica gestionale occorre, pertanto, avere un’idea più chiara di questo concetto, rispondendo in primis ad alcuni quesiti: che cosa si intende per innovazione in uno specifico settore? Qual è la fonte dell’innovazione? In quale misura i diversi soggetti coinvolti (imprese, clienti, fornitori, isti-

476

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

tuzioni) sono interessati dall’introduzione di innovazione? In quale misura l’innovazione va considerata un fenomeno esogeno o endogeno all’attività dell’impresa? Che cosa intendiamo con innovazioni radicali e innovazioni incrementali? Qual è la relazione tra innovazione di prodotto e di processo? Qual è il ruolo della dimensione tecnica dell’innovazione? In quale misura i processi innovativi generano necessità di intervento a livello organizzativo? La risposta a queste e ad altre domande passa attraverso l’analisi dell’innovazione secondo tre diversi approcci (Sobrero, 1996): 1. il rapporto tra variabile tecnologica e progresso economico; 2. tecnologia e innovazione come manifestazione del cambiamento in artefatti fisici; 3. tecnologia come conoscenza e innovazione, ossia come processo di evoluzione delle conoscenze.

13.1.1 L’innovazione tecnologica e il progresso economico La distribuzione a livello mondiale delle risorse investite in attività di R&S appare piuttosto eterogenea.

attività di invenzione attività di sfruttamento commerciale

La distribuzione a livello mondiale delle risorse investite in attività di R&S appare piuttosto eterogenea, evidenziando, da un lato, Paesi con un elevato rapporto tra investimenti in R&S realizzati dalle imprese e PIL, dall’altro Paesi con percentuali d’investimento ben più limitate. Il mercato mondiale dei prodotti ad alta tecnologia, tuttavia, cresce, in media, a un tasso significativamente maggiore rispetto agli altri prodotti e l’attività economica nei settori high-tech si trova ormai alla guida dei trend di crescita di molti Paesi. L’innovazione, intesa quale combinazione di un’attività di invenzione, vale a dire di generazione di nuove idee, e di un’attività di sfruttamento commerciale, vale a dire dell’individuazione di opportunità per l’ottenimento di un guadagno dalla vendita/applicazione dell’idea generata, rappresenta, in altre parole, uno dei motori fondamentali del progresso e della crescita dei sistemi economici. Le attività di R&S poste in essere dai ricercatori di Palo Alto Research Center (PARC) della Xerox Corporation costituiscono, per esempio, una delle testimonianze principali di come l’innovazione possa essere alla base di vere e proprie rivoluzioni industriali che si manifestano con la nascita di nuove imprese, di nuovi settori e con la creazione di risorse e capitali immensi nell’arco degli anni. Allo stesso modo esistono altri casi, forse meno significativi sul piano della conoscenza scientifica e tecnologica ma altrettanto importanti su quello dello sviluppo economico, quale quello dei Laboratori Fairchild le cui ricerche hanno costituito le origini dell’attuale colosso Intel Corporation e la base di partenza per la nascita dell’industria dei semiconduttori e dell’information technology. Analoghi risvolti destarono le ricerche di Bell e Grey i quali, sviluppando una tecnica per variare rapidamente la corrente elettrica e, dunque, per modificare il tono dei suoni in tempo reale, posero le basi per quello che oggi noi comunemente definiamo telefono e per la nascita dell’industria delle telecomunicazioni1. La storia industriale, tuttavia, è costellata anche di idee eccellenti da un 1

Durante la corsa all’innovazione di quel periodo, Bell riuscì a depositare il suo brevetto poche ore prima di Grey. Bell tentò di offrire per 100 000 dollari il suo brevetto alla Western Union Telegraph Company, che allora era il leader nella fornitura di servizi telegrafici negli Stati Uniti, ma questa rifiutò e Bell nel 1877 fondò la sua compagnia, la Bell AT&T.

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

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punto di vista tecnico che non hanno generato alcun ritorno economico, così come di iniziative commerciali prive di alcun presupposto di sostenibilità. La sfida gestionale sta proprio nella combinazione di questi due elementi così elementari, ma così difficili da coniugare. Questa definizione dei processi innovativi deriva da alcune considerazioni empiriche sull’analisi dei cambiamenti nella funzione di produzione misurata a livello di singolo Paese e considera la tecnologia elemento fondamentale per l’identificazione e la localizzazione delle fonti di variazione nel progresso dell’economia (Solow, 1957). L’innovazione tecnologica, in altre parole, riflette cambiamenti nella base tecnologica del settore o dell’economia osservata, che risultano da: • • •

processi diffusi d’adozione di nuove e migliori alternative; processi di razionalizzazione attraverso l’espulsione dei soggetti caratterizzati dall’utilizzo di soluzioni meno efficienti; evoluzione della stessa base tecnologica grazie a progressi scientifici, all’organizzazione della ricerca o a fenomeni di apprendimento da esperienza.

Una prima considerazione rilevante a livello di singola impresa è la valutazione circa il grado di influenza che un singolo attore o un insieme di attori può avere su questo processo. In altre parole, si pone il problema di considerare le imprese come soggetti passivi del processo innovativo, che vengono a subire eventi ambientali esogeni, oppure come soggetti attivi, in grado di influenzare con le proprie scelte il percorso di sviluppo della tecnologia (Schmookler, 1966). La caratterizzazione della variabile tecnologica come esogena corrisponde alla posizione cosiddetta demand pull, secondo la quale la direzione e la velocità dello sviluppo sono “trainate” dalla domanda e le imprese costruiscono la propria posizione di vantaggio competitivo attraverso l’anticipazione di queste tendenze e la loro soddisfazione. Al contrario, la caratterizzazione della variabile tecnologica come endogena corrisponde alla visione technology push dei processi innovativi, nella quale il ruolo chiave è giocato dall’offerta. Le imprese diventano quindi il motore del progresso tecnologico e trovano negli investimenti diretti e indiretti in attività innovative i presupposti per i propri profitti. Il confronto tra queste due posizioni consente di riconsiderare alcuni assunti fondamentali dell’analisi dell’innovazione tecnologica e del suo ruolo nell’economia dell’impresa. Da un lato una prospettiva di tipo demand pull sottolinea il valore strategico della scansione dell’ambiente per la ricerca di nuove idee, la criticità della valorizzazione di contributi sviluppati all’esterno dell’impresa, l’importanza di azioni di standardizzazione per l’omogeneizzazione della domanda. Dall’altro lato la prospettiva technology push introduce la necessità di considerare elementi legati a effetti di scala in ambito di attività di ricerca, all’influenza della struttura del settore sull’ammontare e la tipologia degli investimenti innovativi, alla valutazione delle opportunità di protezione delle rendite derivanti dallo sfruttamento di idee innovative. La riflessione su ciascuno di questi aspetti porta alla necessità di distinguere le componenti legate alla produzione di nuova conoscenza e alla sua successiva applicazione commerciale. In una prospettiva strategica questo significa preoccuparsi di condurre non solo un’analisi dell’ambiente esterno, ma anche delle caratteristiche dei diversi soggetti presenti nello scenario competitivo e del loro rapporto con le dinamiche tecnologiche individuate.

La caratterizzazione della variabile tecnologica come esogena corrisponde alla posizione cosiddetta demand-pull.

La caratterizzazione della variabile tecnologica come endogena corrisponde alla visione technology push.

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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Esperienza

Palo Alto Research Center: il ruolo dell’innovazione sul progresso economico* Su una collina nei pressi dell’Università di Stanford, a Palo Alto nel mezzo della Silicon Valley in California (USA), sorge il Palo Alto Research Center (PARC) della Xerox Corporation, il paradiso per molti ricercatori dotati di un talento straordinario. Sebbene nei soli primi 14 anni di vita di PARC la Xerox avesse ottenuto ritorni economici dall’attività del centro ben più modesti rispetto agli oltre 150 milioni di dollari d’investimento, è ormai convinzione comune che PARC debba essere considerato più una risorsa della comunità scientifica e tecnologica mondiale che di un’azienda specifica. Fondato nel 1969, PARC doveva diventare il centro di sviluppo delle tecnologie a sostegno della missione di Xerox, che all’epoca intendeva assumere il ruolo di “architetto dell’informazione negli uffici”, sostegno in parte realizzato da PARC con le innovazioni nella progettazione di chip customizzati per le macchine fotocopiatrici laser, che nei primi anni ’80 erano al centro di un business per Xerox del valore di 250 milioni di dollari. Ma PARC, in 10 anni di totale libertà e assenza di interferenza dalla casa-madre, ha realizzato molto di più. I fondi investiti nel centro sono stati impiegati dai ricercatori, più o meno in parti uguali, nelle tecnologie delle scienze fisiche e del computer science, da cui proviene la fama del centro. I ricercatori di PARC utilizzarono la libertà concessa da Xerox per esplorare concetti che dieci anni più tardi sarebbero risultati fondamentali per la nascita dell’industria dei personal computer. Ecco alcuni esempi. •



I display: tutti i primi personal computer lanciati sul mercato offrivano display basati sulla tecnologia (ancora oggi concettualmente in uso) dei pixel (o punti) che possono essere illuminati o spenti in base al codice binario di informazioni memorizzato nel computer. Quella tecnologia è stata sviluppata e testata in origine dai ricercatori di PARC negli anni ’70 e lo sviluppo della qualità e definizione dei monitor ha riguardato per decenni il numero di pixel gestiti e, successivamente, i colori. Sistemi operativi menu-driven: si trattava del primo personal computer a utilizzare videate suddivise in finestre, gestite da un sistema operativo che non richiedeva la scrittura di comandi per utilizzare funzioni e programmi applicativi diversi, ma che impiegava un device, chiamato mouse dalla conformazione che lo rendeva simile a un topolino da muovere sulla scrivania, con cui puntare, selezionare

* Materiale di riferimento: Uttal B. (1983).

13.1.2 L’innovazione tecnologica e i cambiamenti negli artefatti fisici

Una risposta è data dalla definizione di “tecnologia” come l’insieme degli strumenti, delle attrezzature e delle conoscenze che mettono in relazione gli input e gli output dell’attività dell’impresa o generano nuovi prodotti e servizi. tecnologie di processo tecnologie di prodotto

Nonostante le importanti evoluzioni che hanno ampliato lo spettro di influenza della nozione di innovazione tecnologica come attività responsabile del progresso economico, questa definizione resta ancora incompleta per un utilizzo concreto e diretto a livello dell’impresa. Ai fini dell’analisi del ruolo e delle caratteristiche dell’innovazione nell’ambito dell’economia della singola impresa, diventa quindi necessario utilizzare altre nozioni. Una risposta in questo senso è data dalla definizione di “tecnologia” come l’insieme degli strumenti, delle attrezzature e delle conoscenze che mettono in relazione gli input e gli output dell’attività dell’impresa o generano nuovi prodotti e servizi. Nel primo caso, si fa riferimento a tecnologie di processo, mentre nel secondo si fa riferimento a tecnologie di prodotto. L’innovazione diventa

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo





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e avviare le operazioni di elaborazione direttamente sullo schermo, fu Apple Lisa. All’epoca lo standard maggiormente diffuso era l’assai meno funzionale IBM-MS/DOS, ma i successivi sviluppi degli anni ’90 intercorsi nell’industria si rifecero ai prodotti pionieristici all’epoca sviluppati e lanciati da Apple Computer, basati su questa tecnologia che fu concepita e testata ancora una volta dai ricercatori di PARC negli anni ’70. Concetto di personal computer: durante la metà degli anni ’70 i ricercatori di PARC si focalizzarono sullo sviluppo di ALTO, un progetto costoso che mirava all’ottenimento di una macchina basata sul concetto di personal computer e che avrebbe dovuto servire come strumento per i ricercatori stessi di PARC. Lungi dall’essere soddisfatti di un impiego più efficiente dei mainframe, i ricercatori decisero di creare qualcosa di nuovo da utilizzare in modo semplice durante le loro attività di R&S. Con ALTO nasceva quindi il personal computer e molti dei ricercatori coinvolti nel progetto maturarono la convinzione che il prodotto avrebbe potuto avere un buon successo commerciale. Nonostante il successo del progetto, la Xerox non considerò utile trasformare quel prototipo in un nuovo prodotto da lanciare sul mercato e non permise il trasferimento del progetto dal centro all’unità di sviluppo prodotti. Alcuni dei ricercatori di PARC andarono a rinforzare le fila di aziende quale IBM e Apple. Software applicativo: al fine di rendere funzionali ALTO e il corollario di prodotti sviluppati a suo supporto, alcuni gruppi dentro PARC si concentrarono sulla creazione di pacchetti software. Tra questi il caso più famoso è quello di Charles Simonyi, che si autodefinisce “l’RNA del virus di PARC”. Durante i suoi sette anni di lavoro presso PARC, Simonyi tra le altre cose sviluppò BRAVO, un software di elaborazione testi, da utilizzare sui pc ALTO. Il prodotto non raggiunse mai il mercato con la Xerox, poiché il management non considerava che avesse potenzialità. Tuttavia, Simonyi era convinto che BRAVO fosse la ragione per cui era stato sviluppato ALTO e pertanto lasciò PARC per raggiungere una società allora di medie dimensioni e in forte crescita, Microsoft Corporation. In Microsoft, Simonyi ideò una versione più leggera e aggiornata di BRAVO, che fu presentata al mercato con il nome di Microsoft Word.

Il patrimonio di immenso valore proveniente da queste innovazioni e da molte altre, tuttavia, non è stato se non in minima parte valorizzato da Xerox, che non è riuscita ad appropriarsi delle rendite economiche derivanti da tutte le nuove tecnologie. Sebbene Xerox non abbia avuto la capacità di sfruttare questo potenziale enorme, o non ne abbia compreso il valore, PARC può essere senza ombra di dubbio considerato uno dei padri fondatori dell’attuale industria dell’information technology. Un’industria che negli ultimi anni è stata la forza trainante per l’economia mondiale e che ha avuto un impatto determinante sul progresso tecnologico di tutti gli altri settori e sulla nascita di altre industrie, come quella delle biotecnologie.

quindi l’introduzione di modifiche a uno qualsiasi di questi elementi. Il cambiamento di un macchinario nel processo produttivo, la riorganizzazione della logistica per la riduzione degli stoccaggi, l’informatizzazione del processo produttivo sono tutte azioni tese all’introduzione di innovazione nelle attività industriali, l’allargamento della gamma di prodotti offerti, l’introduzione sul mercato di una nuova versione di un prodotto esistente o di un prodotto completamente nuovo, l’arricchimento di un prodotto esistente attraverso l’elaborazione di un nuovo servizio sono tutti interventi sull’innovazione di prodotto. Gli studi sull’innovazione di prodotto tendono a enfatizzare cambiamenti sostanziali nella base tecnologica di riferimento, mentre gli studi sull’innovazione di processo mostrano la rilevanza di progressivi adeguamenti delle tecnologie, documentando l’impatto economico di miglioramenti incrementali che risultano sovente da un complesso di interventi di modesta entità, se presi se-

Gli studi sull’innovazione di prodotto tendono a enfatizzare cambiamenti sostanziali nella base tecnologica di riferimento, mentre gli studi sui processi mostrano la rilevanza di progressivi adeguamenti delle tecnologie.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

paratamente, ma in grado di produrre, se cumulati, notevoli effetti. Queste due diverse prospettive sono ricomposte in una serie di modelli che legano l’innovazione tecnologica alle strutture organizzative dell’impresa, per individuare le interrelazioni tra prodotto e processo e le alternative strategiche per trarne profitto. Dal punto di vista dell’analisi strategica, focalizzare l’attenzione sugli artefatti fisici come manifestazione del processo innovativo consente di approfondire alcuni aspetti cruciali, i quali permettono altresì di comparare la propria posizione tecnologica rispetto alla concorrenza. Ne deriva un’analisi attraverso modelli di portafoglio tecnologico, siano essi considerati da soli o più in generale in combinazione con altri modelli tradizionali, che contribuiscono a mappare in uno spazio di riferimento le scelte operate internamente rispetto a quanto fatto dai competitor. In questo senso, oltre a una comparazione diretta basata sulle specificità tecniche o sulle differenze in termini di prestazione, è possibile derivare indicazioni anche relativamente alla combinazione di scelte di tipo tecnico e scelte di tipo commerciale.

13.1.3 L’innovazione tecnologica come cambiamento della base di conoscenze e competenze

Per fare questo la tecnologia può essere definita come l’insieme delle tecniche, delle procedure e dei compiti attraverso i quali si sviluppa l’attività dell’impresa.

La materializzazione del concetto di tecnologia attraverso l’individuazione delle tipologie di oggetti e della loro funzione per lo svolgimento dell’attività dell’impresa offre alcuni spunti importanti per la verifica dell’impatto del cambiamento nella base tecnologica sulla posizione competitiva. Questa prospettiva, tuttavia, resta implicitamente ancorata a una concezione dell’impresa come soggetto economico pienamente razionale, ossia in grado di scegliere l’opzione migliore tra quelle disponibili, date le proprie risorse e la struttura dell’ambiente esterno, e in seguito a tali scelte porre in essere le azioni appropriate. Il problema non è, quindi, se i singoli soggetti siano in grado di sviluppare innovazione tecnologica, ma quale sforzo innovativo si debba perseguire considerato il mix di risorse a disposizione e le caratteristiche dell’ambiente esterno. Eppure, per considerare a fondo le caratteristiche dei processi innovativi e il loro impatto sull’impresa è necessario individuare una definizione di tecnologia e di innovazione tecnologica che consenta di analizzare il problema empirico fondamentale nello studio del cambiamento tecnologico: che cosa stimola e cosa impedisce la nascita, lo sviluppo e lo sfruttamento di innovazione? Per fare questo la tecnologia può essere definita come l’insieme delle tecniche, delle procedure e dei compiti attraverso i quali si sviluppa l’attività dell’impresa. Lo studio della tecnologia è orientato all’analisi di come la struttura e i comportamenti dell’impresa siano influenzati dalle caratteristiche e dalla natura delle tecniche, delle procedure e dei compiti svolti. Lo studio dell’innovazione tecnologica analizza l’impatto sull’impresa dei cambiamenti nella base tecnologica dovuti a evoluzioni dell’insieme delle tecniche, compiti e procedure a seguito di azioni interne o esterne. I processi innovativi sono dunque caratterizzati dalla ricerca di soluzioni a problemi attraverso le quali si generano nuove regole, nuove possibilità di applicazione per le regole esistenti, o anche nuove modalità di ricerca delle soluzioni. In una logica strettamente funzionale questo tipo di approccio può portare a concentrare l’attenzione su quelle specifiche parti dell’impresa che più diret-

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

tamente partecipano al processo innovativo o possono essere interessate dallo stesso. Ecco quindi che si sviluppano i modelli di analisi strategica per la funzione R&S, piuttosto che per la funzione Sviluppo Nuovi Prodotti. Ciononostante, in una chiave di lettura più ampia, i due elementi d’interesse dell’analisi strategica che vengono suggeriti da questa prospettiva trovano una loro collocazione a livello più generale. Da un lato, infatti, diventa importante definire in che modo l’insieme delle conoscenze e competenze interne è in grado di proporsi rispetto alla ricerca e individuazione di nuove soluzioni e nuove idee, dall’altro si deve analizzare l’impatto che l’introduzione di innovazione può avere su questo insieme di conoscenze e competenze. Suddetta prospettiva offre un utile complemento all’analisi strategica centrata sulla risoluzione di un problema di posizionamento e di confronto con la concorrenza. Essa fa leva sulla concezione di impresa come insieme articolato di conoscenze e competenze e sul concetto di strategia come attività volta all’analisi e combinazione di tali risorse per la massimizzazione del valore dell’impresa. In questo modo si considerano inoltre con maggiore attenzione le dimensioni organizzative interessate dal processo innovativo e con esse i riflessi operativi che la creazione e l’adattamento di innovazione generano all’interno delle imprese. L’analisi sin qui realizzata, lascia però aperte alcune questioni sul ruolo che l’investimento in tecnologia gioca nella definizione delle strategie competitive e nel perseguimento delle relative condizioni di vantaggio. In particolare, qual è l’impatto dell’innovazione tecnologica realizza in settori caratterizzati da un preesistente equilibrio competitivo? Quale strategia appare più efficace nel fronteggiare situazioni di discontinuità o dinamica tecnologica? Quali decisioni rendono vincente l’impresa che investe in R&S? La risposta a tali domande richiede innanzitutto la comprensione dei possibili risultati ottenibili da un investimento in attività innovative. In altre parole, il quesito cui occorre dare una risposta è: qual è l’impatto dei cambiamenti nella base tecnologica sulla struttura dei profitti dei diversi attori coinvolti?

13.2 La tecnologia e la profittabilità: protezione dell’innovazione e incentivi all’investimento Un elemento centrale nell’analisi strategica delle opportunità di investimento in nuove tecnologie è legato alla difesa dei benefici economici derivanti dall’innovazione. In termini generali è possibile affermare che le imprese abbiano a disposizione in questo ambito un insieme di opzioni da esercitare, sotto il vincolo del contesto istituzionale di riferimento, che può esso stesso fornire strumenti specifici più o meno efficaci. Il problema in estrema sintesi può essere analizzato in relazione al concetto di appropriabilità delle rendite provenienti dall’innovazione. Tale formulazione consente di: • •

identificare i modelli competitivi di base nell’ambito dell’economia dell’innovazione; individuare gli strumenti legali disponibili per la protezione dell’innovazione e apprezzarne i limiti e il valore strategico;

appropriabilità delle rendite provenienti dall’innovazione

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

• •

comprendere l’importanza delle relazioni con altre organizzazioni come modalità strategica esplicita di influenza dei processi di affermazione dell’innovazione; formulare un’analisi settoriale sulle criticità nella protezione dell’innovazione e sulle alternative disponibili, a seconda delle caratteristiche dell’impresa osservata.

13.2.1 Le scelte strategiche e la protezione dell’innovazione

vantaggio del primo entrante

L’applicazione di alcuni modelli economici all’analisi degli investimenti in nuove tecnologie suggerisce la presenza di un vantaggio concreto ad anticipare le mosse dei concorrenti attraverso attività in ricerca e sviluppo che consentano di entrare per primi sul mercato. La semplicità nella formulazione del modello e alcuni assunti di base rendono nondimeno necessarie alcune precisazioni e alcuni approfondimenti per poter esaminare in maggiore dettaglio queste conclusioni. Il primo aspetto è relativo alla struttura del mercato e a una valutazione delle possibili mosse della concorrenza. Il secondo aspetto è legato agli strumenti necessari per garantire la possibilità di sfruttamento del vantaggio del primo entrante. Per ritornare alla sequenza appena esaminata, ciò significa spiegare non tanto che cosa consenta a un’impresa di muovere per prima, quanto come sia possibile proteggere questo vantaggio.2 Al fine di analizzare questo secondo problema, è possibile utilizzare una serie di modelli teorici di riferimento che rappresentano la competizione per l’innovazione come una gara tra due o più imprese il cui premio è rappresentato da un brevetto, vale a dire da un titolo legale che garantisce all’innovatore una posizione di monopolio per un certo periodo di tempo in un determinato territorio. Nell’ambito di questi modelli, si dimostra che, nel caso di un’innovazione radicale, per quanto concerne un nuovo entrante aumenta la probabilità di entrata sul mercato, poiché il premio è rappresentato da una nuova posizione monopolistica che risulta particolarmente attraente; il monopolista, invece, affronta investimenti in R&S caratterizzati da rendimenti marginali decrescenti quale strumento per anticipare l’innovazione dei nuovi entranti e, attraverso il presidio della tecnologia, impedirne l’ingresso. Per cercare di contrastare la pressione competitiva, infatti, il monopolista già presente sul mercato può scegliere di optare per una traiettoria tecnologica che richieda elevati investimenti per ogni singola unità di tempo. Aumentando tali investimenti aumenta anche la probabilità di introduzione anticipata dell’inno-

2 In riferimento al primo problema è possibile dimostrare che il monopolista ha meno incentivi a impegnarsi nell’introduzione di un’innovazione, sia marginale sia radicale, poiché tale operazione comporta come risultato l’introduzione di un’offerta sostitutiva alla precedente a livelli di prezzo successivi più bassi. Si verifica, pertanto, quello che Arrow ha definito vincolo di sostituzione, secondo il quale il monopolista ha in generale minori incentivi a investire in tecnologia, poiché si trova in ogni caso a sostituire se stesso a condizioni di mercato meno favorevoli rispetto alla situazione precedente all’introduzione d’innovazione. Sebbene questi risultati aiutino a comprendere alcune situazioni di sotto-investimento nella R&S, non tengono presente alcuna considerazione di tipo strategico legata all’anticipata introduzione di innovazione (Sobrero, 1999).

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

vazione e con essa l’incentivo per il monopolista a persistere negli investimenti per garantirsi il successo. Il risultato di tali investimenti è un’innovazione marginale, poiché, visti gli elevati costi di R&S sostenuti, l’impatto sulla riduzione dei costi di produzione sarà minore. Un importante contributo di questi modelli è dunque la formalizzazione di un maggiore impegno da parte delle imprese già operanti sul mercato sull’innovazione marginale e una maggiore probabilità di osservare l’introduzione di innovazioni radicali da parte di nuovi entranti. Un secondo risultato è la formalizzazione del valore strategico di elevati livelli di investimenti in R&S come modalità di innalzamento di barriere all’entrata, anche in presenza di una posizione competitiva di dominanza. Si pensi, a questo proposito, al caso di Intel che da tempo detiene la leadership di mercato nel settore dei microprocessori e destina ogni anno un considerevole ammontare di risorse al finanziamento dell’attività di ricerca, sia in valore assoluto sia come percentuale del proprio reddito complessivo. Una limitazione di questi modelli è l’esclusione di effetti legati all’apprendimento, che sono viceversa tipici dei processi innovativi, nei quali le conoscenze necessarie per passare dalla generazione dell’idea alla sua applicazione industriale vengono sviluppate in maniera cumulativa nel corso di momenti successivi. Riprendendo quanto discusso nel modello del primo entrante, è possibile dimostrare che, nel caso in cui la probabilità di successo in ogni istante di tempo sia funzione non solo dell’investimento al tempo t, ma anche di quanto sia stato investito in periodi precedenti, le imprese già presenti sul mercato hanno una più elevata probabilità di innovare e, dunque, un maggiore incentivo ad allocare risorse in questo senso, qualora la nuova tecnologia appartenga alla classe di tecnologie sulle quali si è già sviluppata esperienza. Nel caso in cui i problemi affrontati siano completamente nuovi, invece, i nuovi entranti hanno più possibilità di scavalcare i concorrenti già presenti sul mercato o sfruttando asimmetrie informative che rendono possibile nascondere i propri investimenti, oppure considerando la corsa al brevetto come composta di più stadi, il primo dei quali consiste nell’accumulo di esperienza, condizione necessaria ma non sufficiente per il successivo ottenimento di un brevetto. In questo caso il rischio di dissipazione di ricchezza senza un corrispondente ritorno è molto elevato per chi è già presente sul mercato, mentre, semplificando, si potrebbe dire che i nuovi entranti non hanno nulla da perdere. Questi risultati sono allineati con quanto emerge dagli sviluppi più recenti in ambito di teoria dell’innovazione, dove la modellizzazione diventa più complessa per consentire di rappresentare in maniera formale l’attività di R&S come un processo ad accumulazione, legato all’esperienza passata, che si traduce in progressivi approfondimenti lungo la traiettoria tecnologica individuata. In questo modo, gli investimenti in periodi precedenti hanno tanto un effetto positivo di aumento della probabilità di sfruttamento economico dei risultati della ricerca in ambiti tecnologici noti, quanto un effetto negativo sulla propensione a investire in tecnologie non familiari rispetto alla base di conoscenze e competenze accumulate. L’effetto di lock-in della conoscenza posseduta aumenta in altre parole nel tempo, rendendo i concorrenti già presenti sul mercato più vulnerabili alle minacce di natura tecnologica provenienti da nuovi entranti, anche in presenza di forti asimmetrie in termini di dimensioni e risorse possedute.

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Elevati livelli di investimenti in R&S come modalità di innalzamento di barriere all’entrata, anche in presenza di una posizione competitiva di dominanza.

L’effetto di lock-in della conoscenza posseduta aumenta nel tempo.

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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13.2.2 Gli strumenti per la protezione dell’innovazione

Con appropriabilità si intende, la possibilità dell’innovatore di beneficiare in via esclusiva dei ritorni economici derivanti dal nuovo prodotto o dal nuovo processo. strumenti legali natura della tecnologia

novità attività inventiva applicabilità industriale

Una volta concesso, il brevetto ha una durata ventennale a valere dalla data di deposito. La tutela legale ottenuta tramite il brevetto consente uno sfruttamento esclusivo dell’innovazione in un determinato periodo di tempo e in un ambito geografico ben preciso, le cui violazioni sono sanzionabili con ammende di tipo economico. Il diritto di sfruttamento esclusivo si configura per il potenziale investitore come il premio disponibile alla fine degli sforzi di ricerca.

In tutti i casi che abbiamo considerato fino a questo momento, un assunto centrale è rappresentato dalla possibilità per l’innovatore di garantirsi un ritorno esclusivo dallo sfruttamento dell’innovazione. Ciò rappresenta l’incentivo all’investimento di risorse economiche, finanziarie e umane in attività di R&S. Usando una terminologia diffusa nell’economia dell’innovazione, per poter osservare investimenti nella ricerca di nuove tecnologie è dunque necessario disporre di un regime di appropriabilità forte, dove con appropriabilità si intende, appunto, la possibilità dell’innovatore di beneficiare in via esclusiva dei ritorni economici derivanti dal nuovo prodotto o dal nuovo processo. Teece (1986) propone di affrontare il problema del regime di appropriabilità distinguendo tra due classi di fattori: gli strumenti legali e la natura della tecnologia. Nel primo caso rientrano i brevetti, i diritti d’autore e, in alcuni Paesi, i cosiddetti segreti commerciali. Nel secondo caso è opportuno distinguere tra tecnologia di prodotto e tecnologia di processo, nonché tra conoscenze codificate e conoscenze tacite. Per quanto riguarda gli strumenti legali, i brevetti sono spesso indicati come la soluzione più efficace per la protezione di idee innovative di natura tecnologica. La possibilità di brevettazione è riconducibile a tre elementi fondamentali: 1. novità: sono brevettabili tutte le nuove invenzioni; la novità dell’invenzione implica che essa non è compresa nello stato attuale della tecnica; 2. attività inventiva (originalità): l’invenzione non deve risultare in modo evidente dallo stato della tecnica per una persona esperta del ramo; 3. applicabilità industriale: il frutto di quest’attività inventiva deve avere un’applicazione industriale. Di converso non sono brevettabili tutte le invenzioni, che, se pure di rilevo, non comportano lo sviluppo di un’attività industriale. Una volta concesso, il brevetto ha una durata ventennale a valere dalla data di deposito.3 La tutela legale ottenuta tramite il brevetto consente uno sfruttamento esclusivo dell’innovazione in un determinato periodo di tempo e in un ambito geografico ben preciso, le cui violazioni sono sanzionabili con ammende di tipo economico. Questo diritto è garantito a fronte di una pubblicazione dettagliata degli elementi costituenti l’innovazione tecnologica brevettata. Il diritto di sfruttamento esclusivo si configura per il potenziale investitore come il premio disponibile alla fine degli sforzi di ricerca. In alcuni settori, per esempio il farmaceutico e il chimico, tuttavia, per quanto apparentemente molto estesa, la distanza tra il momento di registrazione del brevetto e l’effettiva commercializzazione del prodotto, dovuta a ulteriori necessità di messa a punto dell’innovazione brevettata, può portare anche a sostanziali riduzioni nel periodo di vita economica del brevetto stesso, agendo così negativamente sulla struttura di incentivi all’investimento. Nonostante la correttezza a livello teorico di queste osservazioni, tuttavia, le evidenze empiriche mostrano tassi di ritorno sugli investimenti sufficientemente elevati da rendere lo strumento brevettuale ancora 3

Nel caso dei farmaci esiste la possibilità di estendere la validità dei brevetti alla durata di 25 anni.

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

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attrattivo anche in presenza di un accorciamento nei tempi di sfruttamento commerciale. Il dibattito sull’efficacia e il ruolo dei brevetti e degli altri sistemi di protezione legale del diritto di sfruttamento esclusivo dell’innovazione è piuttosto articolato e ricco di contributi sia teorici sia empirici. Tale eterogeneità deriva da alcuni altri elementi caratteristici di tali strumenti legali. •







In primo luogo, è possibile aggirare i limiti definiti dal brevetto concentrandosi su altre soluzioni che mantengano un’originalità di forma e combinazione delle tecnologie utilizzate, pur utilizzando principi già presenti in soluzioni brevettate. In secondo luogo, l’onere della scoperta della violazione del brevetto e dell’istruzione della causa legale per il risarcimento ricade sul titolare del brevetto, che deve così affrontare i costi di controllo associati alla tutela della propria innovazione. In terzo luogo, l’efficacia della protezione brevettuale risulta fortemente legata all’efficienza del sistema giudiziario di riferimento, sia con riferimento ai tempi e ai costi necessari per evadere la pratica di registrazione del brevetto sia con riferimento ai tempi e ai costi necessari per risolvere in giudizio la causa di violazione del brevetto. Infine, sebbene il valore economico di un brevetto non sia facilmente quantificabile e soprattutto appaia soggettivo in molti casi o dipendente dal metodo di valutazione in altri, esso si confronta con alcuni costi, questi abbastanza noti e molto elevati, derivanti dal procedimento di registrazione del brevetto e dalla gestione di questo durante il suo ciclo di vita (Pitkethly, 2002).

In relazione all’ultimo punto, occorre rilevare come il valore di un brevetto possa essere definito quale la differenza tra il valore economico delle attività di sfruttamento della tecnologia sottostante il brevetto in presenza di una tutela legale e il corrispondente valore di queste in assenza di tutela (Munari e Oriani, 2011). Tale valore deve essere poi confrontato con i costi del procedimento di registrazione del brevetto e con i costi del monitoraggio e della gestione di quest’ultimo durante il suo ciclo di vita. In considerazione di questi diversi elementi, in numerose indagini si rileva che la valutazione sull’effettiva utilità del brevetto come strumento di appropriabilità dell’innovazione sia in molti casi limitata. In particolare, tra le evidenze emerse si osserva che i brevetti sono considerati più efficaci nel proteggere innovazioni di prodotto piuttosto che innovazioni di processo e, inoltre, in molti settori a elevata intensità tecnologica l’efficacia dei brevetti è messa in discussione rispetto ad altri elementi nelle strategie di protezione dell’innovazione. Fra quelli legali vale la pena ricordare i cosiddetti segreti commerciali, che individuano una conoscenza che viene mantenuta segreta dopo il suo sviluppo e che può successivamente essere ceduta in licenza sotto il vincolo di non divulgazione. Analogamente si osserva che esistono alcune forme alternative rispetto agli strumenti legali del brevetto e del segreto commerciale per garantire l’appropriabilità dell’innovazione, quali l’entrata anticipata su un mercato, la cui rilevanza si basa sulle caratteristiche della conoscenza associata ai processi innovativi. Tanto più le conoscenze critiche risultano essere codificabili in una qualche forma (disegni, procedure, istruzioni, manuali) quanto più è possibile fare ricorso a strumenti legali. In questo senso, la rilevanza del brevetto come strumento di pro-

Il valore di un brevetto può essere definito quale la differenza tra il valore economico delle attività di sfruttamento della tecnologia sottostante il brevetto in presenza di una tutela legale e il corrispondente valore di queste in assenza di tutela.

I brevetti sono considerati più efficaci nel proteggere innovazioni di prodotto piuttosto che innovazioni di processo. segreti commerciali

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

tezione nel settore chimico e nel settore farmaceutico deriva dalla possibilità di formulare con precisione il composto sviluppato e le sue variazioni molecolari principali e vedere così riconosciuta la tutela degli sforzi effettuati per lo sviluppo. In molti casi, tuttavia, la conoscenza sviluppata può non essere codificabile per limiti oggettivi dei soggetti coinvolti o per la rilevanza del contesto di applicazione. Nel primo caso il problema è legato da un lato all’economicità della codifica della conoscenza, che potrebbe portare a una struttura di costi eccessiva, dall’altro all’effettiva capacità dei soggetti coinvolti nel rendere disponibile tutte le informazioni necessarie. Nel secondo caso il problema è legato all’impossibilità di replicazione delle caratteristiche accessorie del processo di sviluppo al di fuori del contesto specifico nel quale le conoscenze sono state sviluppate. Un esempio tipico in questo senso è legato all’esperienza accumulata nello sviluppo e implementazione di innovazioni nei processi produttivi, che può essere replicata solo con l’assistenza e il supporto dei soggetti che l’hanno sviluppata.

13.2.3 Le risorse complementari e gli standard tecnologici nel posizionamento competitivo

Gli strumenti per la tutela legale dell’innovazione non sono né necessari né sufficienti a garantire un ritorno economico accettabile.

risorse complementari processi di affermazione degli standard tecnologici

risorse complementari generiche risorse complementari specializzate

A fronte delle inefficienze proprie degli strumenti istituzionali di protezione dell’innovazione diventa importante creare le condizioni strategiche per un completo sfruttamento delle rendite derivanti dall’innovazione attraverso altre modalità. In termini generali, infatti, potremmo affermare che gli strumenti per la tutela legale dell’innovazione non sono né necessari né sufficienti a garantire un ritorno economico accettabile. Non sono necessari poiché in molti casi, oltre a essere inefficienti, possono essere adeguatamente sostituiti dall’entrata anticipata nel mercato o dalla rapida diffusione di una soluzione tecnologica che aumenta i costi di riconversione degli utilizzatori finali. Non sono sufficienti poiché, anche nei casi in cui risultano efficaci strumenti di protezione, non garantiscono il passaggio con successo dalla fase dell’invenzione a quella dello sfruttamento commerciale. È quindi importante riflettere su altri due elementi sui quali deve concentrarsi l’analisi: 1. il ruolo delle risorse complementari; 2. il ruolo dei processi di affermazione degli standard tecnologici. In entrambi i casi si tratta di analizzare aree specifiche nelle quali la singola impresa può intervenire direttamente per influenzare la probabilità di successo dell’innovazione. In questo senso, dunque, le decisioni in proposito sono strategiche, poiché influiscono direttamente sul posizionamento competitivo dell’impresa. Il concetto di risorse complementari è legato alla presenza di una relazione di complementarità tra risorse, che deriva dall’osservazione di una variazione del valore e dunque delle opportunità di reddito generate da una risorsa in presenza o in assenza di altre risorse. Se la redditività attesa di una risorsa cresce con la disponibilità di un’altra risorsa, quest’ultima presenterà le caratteristiche di risorsa complementare rispetto alla prima, e viceversa. Le risorse complementari possono essere generiche o specializzate. Le risorse complementari sono generiche quando soddisfano un’esigenza comune non legata a una particolare attività innovativa. Le risorse complementari specializzate, al con-

Dipendenza delle risorse dall’innovazione

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

Specializzate (dipendenza unilaterale delle risorse dall’innovazione)

Cospecializzate (dipendenza bilaterale)

Generiche

Specializzate (dipendenza unilaterale dell’innovazione dalle risorse)

Dipendenza dell’innovazione dalle risorse complementari

trario, sono caratterizzate da una dipendenza diretta dell’innovazione dalla risorsa, della risorsa dall’innovazione, o da una dipendenza reciproca tra la risorsa e l’innovazione. In quest’ultimo caso risorsa e innovazione si diranno cospecializzate (Figura 13.1). La nozione di specializzazione delle risorse complementari ha le sue radici nell’economia dei costi di transazione ed è finalizzata a identificare le aree strategiche di attenzione per lo sfruttamento delle proprie risorse e competenze. Difatti, tanto più l’attività innovativa richiede la presenza di risorse complementari per un suo sfruttamento commerciale, quanto maggiore dovrà essere lo sforzo dell’innovatore per assicurarsi attraverso le modalità più appropriate il controllo e la disponibilità di tali risorse. Inoltre, tanto più queste risorse saranno specializzate, quanto maggiore sarà il ruolo di queste risorse sulla capacità di trarre rendite dall’innovazione, quindi tanto più elevato sarà l’incentivo ad avviare interventi specifici di integrazione come necessari per lo sfruttamento dell’innovazione, oppure a decidere la cessione dei propri risultati di ricerca a soggetti che siano meglio attrezzati per una valorizzazione completa. Nel settore delle telecomunicazioni, per esempio, molte piccole società specializzate nello sviluppo di applicazioni, anche multimediali, per reti di telefonia, sviluppano innovazioni e poi cercano di cederle ai grandi operatori di telefonia che controllano la rete e le altre tecnologie complementari. Per quanto riguarda il concetto di standard, una prima distinzione può essere fatta tra standard di qualità e standard di uniformità.

Figura 13.1 Risorse complementari generiche, specializzate e cospecializzate. Fonte: adattamento da Teece (1986).

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

standard di qualità



standard di uniformità



standard di intercambiabilità standard di prodotto

Gli standard di qualità comprendono tutte le scelte e le soluzioni richieste in ambito di processo (per esempio, procedure di testing) o di prodotto (per esempio, livello di difettosità) affinché vengano soddisfatte le esigenze e le aspettative del cliente. Sebbene interessanti di per sé e oggetto di numerose analisi approfondite in chiave di strategia di produzione e di organizzazione delle attività dell’impresa, nell’ambito dell’analisi strategica della tecnologia, questo tipo di standard è più una conseguenza delle scelte effettuate che un elemento guida. Al contrario, gli standard di uniformità identificano aree specifiche di attenzione nella formulazione delle politiche tecnologiche e consentono di valutare l’insieme di minacce e opportunità derivanti da investimenti finalizzati allo sfruttamento dei risultati dell’attività di ricerca attraverso manovre di imposizione sul mercato di soluzioni tecnico-commerciali di riferimento. Tra gli standard di uniformità è possibile distinguere tra standard di intercambiabilità e standard di prodotto. I primi sono finalizzati all’integrazione di prodotti o componenti differenti tra loro, per esempio il Wireless Application Protocol (WAP), che rende possibile l’utilizzo dei telefoni cellulari quali browser Internet. I secondi, invece, consentono una riduzione di varietà in una particolare classe di prodotti, per esempio i sistemi operativi MS-DOS/Windows e Apple-Macintosh nei personal computer. Nel caso degli standard di intercambiabilità, la pressione competitiva si manifesta sull’affermazione delle modalità di interfaccia, ma rimane ampio spazio di differenziazione tecnologica sul lato dei componenti stessi. Nel caso degli standard di prodotto, al contrario, la competizione avviene direttamente a livello del prodotto.

Entrambe le tipologie di standard di uniformità consentono di beneficiare di una serie di vantaggi rispetto alla concorrenza: riduzione dei costi



opportunità di differenziazione a basso costo



riduzione dei costi: grazie alla possibilità di fare leva su economie di scala, di esperienza e di approvvigionamento; in quest’ultimo caso, trasferendo il processo di standardizzazione a monte e riducendo così i costi totali di transazione sul lato degli acquisti; opportunità di differenziazione a basso costo: la standardizzazione permette di ridurre la varietà a livello di singolo componente, mantenendo la possibilità di aumentare la differenziazione e l’ampiezza della gamma attraverso la combinazione di diversi componenti. Il settore degli hi-fi rappresenta un caso specifico nel quale è possibile perseguire entrambi i tipi di strategia.

I benefici sul lato dell’offerta non necessariamente si traducono in perdita di potere contrattuale o minore ritorno complessivo sul lato della domanda. L’affermazione di standard di uniformità, pur riducendo la competizione sul mercato di acquisto, aumenta la competizione sul lato dell’assistenza post-vendita e garantisce contro i cosiddetti rischi di orphaning, vale a dire l’uscita dal mercato del produttore con conseguente ricaduta negativa sui problemi futuri di assistenza e aggiornamento del bene e, dunque, una variazione del costo opportunità dell’investimento. Vi sono inoltre occasioni di ottimizzazione congiunta, sia sul lato dell’offerta sia sul lato della domanda, che rappresentano aree specifiche di analisi strategica per la valutazione dell’opportunità di investimenti finalizzati all’affermazione di standard tecnologici, basati sul conseguimento di network externalities (esternalità di rete), che evidenziano come il valore di un bene aumenti in funzione della nu-

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

merosità dei soggetti che lo utilizzano e della varietà dei prodotti a esso complementari (quali gli accessori). Per esempio, il valore e la diffusione di servizi della telefonia mobile è cresciuto fortemente in funzione dello sviluppo della rete di telefonia stessa, del numero di utenti e dell’offerta di accessori e servizi eterogenei. Gli standard di uniformità possono emergere a seguito di attività collettive deliberate o di iniziative strategiche di singoli competitori. Nel primo caso rientrano la definizione di standard su base istituzionale da parte di un qualche organismo governativo nazionale o internazionale di riferimento (per esempio, gli standard ISO) e la definizione di standard da parte di un comitato settoriale attivato autonomamente da diversi produttori (per esempio, gli standard per il GSM, GPRS e UMTS per la telefonia mobile).4 Grazie alle ricadute positive indirette (per esempio, vendita di prodotti complementari, servizi) derivanti dall’affermazione di uno standard tecnologico, la diffusione di una soluzione proprietaria può essere conveniente anche in assenza di una tutela legale forte della stessa. In questi casi, tuttavia, può non essere sufficiente garantirsi una posizione di vantaggio rispetto alla concorrenza tramite manovre di entrata anticipata. Insieme ai vantaggi legati alla possibilità di definire il concetto di prodotto, di stabilire una leadership tecnologica, di avanzare rapidamente lungo la curva d’esperienza, di affermare un marchio di riferimento o di controllare risorse complementari scarse, il primo entrante (l’innovatore), infatti, corre concretamente il rischio di vedersi sfuggire i ritorni maggiori dell’attività innovativa, derivanti non tanto dalla leadership nelle fasi iniziali dello sviluppo del settore, quanto dalla leadership nelle fasi successive di diffusione e affermazione su larga scala.5 In aggiunta, occorre evidenziare che il vantaggio temporale di un’introduzione anticipata può essere estremamente limitato nel caso di mercati in rapida crescita e dove l’importanza di esternalità positive sia particolarmente rilevante. In questi casi, infatti, i follower che non si limitano a processi imitativi residuali, ma investono anch’essi in sviluppo tecnologico, possono introdursi facilmente nella competizione per l’affermazione dello standard, scontando il ritardo in entrata attraverso investimenti dedicati nella promozione di compatibilità e disponibilità di beni complementari che favoriscano un processo di diffusione indiretta della propria soluzione. In secondo luogo, le possibili asimmetrie tra i tassi di crescita della domanda e i tassi di crescita della capacità produttiva interna agiscono da incentivo per la costituzione di alleanze più o meno strutturate volte alla creazione di una massa critica difficilmente realizzabile da un singolo competitore. In questi casi, tipicamente, le resistenze a opzioni strategiche di collaborazione appaiono più elevate da parte dell’innovatore che da parte del follower. In terzo luogo, sebbene le opportunità di differenziazione del prodotto appaiano limitate sul lato della variabile tecnologica, la progettazione di una piattaforma di riferimento che consenta l’introduzione di numerosi varianti del prodotto base per supportare una strategia di segmentazione anticipata del mercato risulta critica per garantirsi ampi tassi di penetrazione orizzontale, influenzando così direttamente le esternalità di rete sul lato della domanda. Sempre nell’elettronica, ma in ambiti diversi, come i lettori di cassette e cd portatili, Sony è riuscita a mantenere la lea4

Sebbene importanti, i processi di definizione degli standard a livello governativo sono numericamente limitati rispetto ai casi di introduzione volontaria o strategica. Secondo una ricerca del National Bureau of Standardization statunitense, infatti, nel 1983 in questa seconda categoria rientrava circa l’80% degli standard già presenti o in corso di definizione. 5 Si veda in proposito il box Caso memorandum.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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Esperienza

Caso memorandum* Background La posizione dichiarata della Apple nel mercato dei personal computer è quella di leader tecnologico. Questo implica che Apple debba creare uno standard su una tecnologia nuova e avanzata. Deve fare affermare un’architettura “rivoluzionaria”, che coinvolge necessariamente nuovi sviluppi non compatibili con architetture esistenti. Apple deve far diventare Macintosh uno standard. Tuttavia, nessun produttore di pc, neppure IBM, può farcela senza un supporto indipendente. Anche se questo è apparso chiaro alla Apple, non si è stati capaci di sviluppare questo supporto indipendente necessario per essere percepito come uno standard. Investimenti significativi nella definizione di un “pc standard” (in special modo per quanto riguarda il supporto indipendente) offrono occasioni di rinforzo per l’architettura sulla quale questo è basato. In particolare, l’architettura pc dell’IBM continua ad attirare ingenti investimenti e a rafforzarsi. Gli investimenti nell’architettura dell’IBM includono lo sviluppo di prodotti complementari, quali software e periferiche, l’addestramento e la familiarizzazione con il prodotto degli utenti e dei canali di vendita, e, cosa più importante, atteggiamenti e percezioni difficili da cambiare. I punti di debolezza dell’architettura IBM sono eliminati rapidamente dal supporto indipendente. La scelta di architettura chiusa impedisce investimenti simili per il Macintosh. Se compariamo l’architettura IBM con quella Macintosh, è possibile affermare che la prima abbia a disposizione un ammontare di risorse di progettazione superiore di circa 100 volte se consideriamo il contributo di produttori di cloni. Se poi includiamo anche i produttori di schede di espansione, il rapporto diventa ancora più grande. Conclusione All’aumentare degli investimenti indipendenti sullo standard lo stesso si rinforza. Il settore dei pc ha raggiunto una struttura tale per cui è impossibile per Apple pensare di introdurre e affermare un proprio standard basandosi esclusivamente sulle proprie risorse tecnologiche e senza il supporto di altri produttori di pc, e della loro immagine sul mercato. Quindi Apple deve “aprire” l’architettura Macintosh per ottenere il supporto necessario per rafforzarsi e affermarsi come uno standard. Il Mac non è diventato uno standard. Macintosh non è stato in grado di raggiungere la massa critica necessaria per essere considerato una tecnologia con la quale fare i conti nel lungo periodo: • •

• •

le imprese considerano rischiosa l’assenza di produttori di cloni Mac poiché le pone in una condizione di dipendenza nella quale si trovano a subire scelte di prezzo e sono limitate nelle loro scelte; Apple ha confermato la percezione di rischiosità della scelta introducendo con lentezza sul mercato miglioramenti sia hardware sia software (per esempio, disco rigido, file server, schermo più grande, migliore tastiera, più memoria ecc.); alcune recenti pubblicità negative sulla Apple ne hanno minato l’immagine di un concorrente di lungo periodo nel mercato dei pc; i produttori di software e hardware Mac-compatibili sono stati anch’essi lenti nell’introdurre prodotti chiave, rinforzando così la percezione di rischiosità nell’acquisto di Macintosh da parte delle aziende;

* Il presente caso è costruito per scopi didattici e non intende fornire una chiave di lettura della moderna realtà del settore, nella quale sono subentrati i tablet e gli smartphone e gli investimenti di R&S sono stati definiti sulla base di presupposti molto diversi. Tuttavia, il caso presentato resta comunque un ottimo esempio utile ad approfondire e comprendere il fenomeno della valorizzazione dell'innovazione.

dership indiscussa per oltre un decennio grazie a crescenti investimenti sulla base tecnologica di riferimento, anche senza rendere tali soluzioni visibili ai clienti finali. È importante, infine, analizzare le caratteristiche dei processi di diffusione degli standard, poiché in numerose circostanze ciò avviene a seguito di coalizioni,

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

• •

le dimensioni limitate della forza vendita dedicata alla clientela commerciale hanno impedito che questa avesse la presenza, la formazione e il supporto che le grandi imprese si aspetterebbero in questi casi; le pressioni nazionalistiche nei Paesi europei spesso premono nella direzione di produttori locali. In Europa ci sono fornitori di IBM, ma non di Apple. Apple perderà terreno in tutta Europa come accaduto recentemente in Francia.

Raccomandazioni Apple dovrebbe concedere in licenza la tecnologia Macintosh a 3-5 produttori di rilievo sul panorama internazionale per la realizzazione di macchine Mac-compatibili: •





produttori statunitensi e contatti: i partner ideali, oltre a un’elevata credibilità, possiedono una forza di vendita specializzata in grandi clienti, che consentirebbe una diffusione dell’architettura Mac in società di grandi dimensioni; per esempio, AT&T (James Edwards), Wang (Ann Wang), Digital Equipment Corporation (Ken Olsen), Texas Instruments (Jerry Junkins), Hewlett Packard (John Young); altre imprese (forse candidati più probabili): Xerox (Eliott James o Bob Adams), Motorola (Murray A. Goldman), Harris/Lanier (Wes Cantrell), NBI (Thomas Kavanagh), Burroughs (W. Michael Blumenthal e Stephen Weisenfeld), Kodak; produttori europei: Siemens, Bull, Olivetti, Philips (sic).

Apple dovrebbe concedere in licenza la tecnologia Mac a imprese statunitensi ed europee, in modo da fare sì che queste possano a loro volta rivolgersi ad altre imprese per la produzione. Sony e Kyocera sono dei buoni candidati per impostare rapporti di OEM per macchine Mac-compatibili. Microsoft è molto determinata ad aiutare Apple nell’implementazione di questa strategia. Noi conosciamo i produttori chiave, le loro strategie e i loro punti di forza e abbiamo anche una grossa esperienza di OEM nell’ambito del sofware di sistema. Ragioni • Le imprese licenziatarie aggiungerebbero credibilità all’architettura Mac. • Queste stesse imprese amplierebbero la tipologia di prodotti disponibili attraverso le loro offerte di prodotti Mac-compatibili: ognuna di loro introdurrebbe innovazioni aumentando la varietà del prodotto e aggiungendo nuove funzionalità, quali diverse configurazioni di memoria, monitor, tastiere ecc.; Apple farebbe leva sulla capacità dei partner di produrre un più ampio numero di periferiche di quanto non potrebbe fare da sola al proprio interno; i clienti apprezzerebbero l’effetto competizione avendo a disposizione una reale scelta in termini di prezzi e prestazioni. • Apple potrebbe sfruttare i canali distributivi dei licenziatari. • La percezione di una maggiore base di macchine a tecnologia Mac attirerebbe l’interesse di softwaristi e di produttori di hardware di cui Apple ha bisogno. • Apple beneficerebbe di un notevole supporto commerciale e pubblicitario. Ogni volta che (sic) un produttore di Mac-compatibili fa pubblicità, lo fa all’architettura Mac. • Concedere la licenza per Mac-compatibili aumenterebbe la percezione di Apple come azienda all’avanguardia della tecnologia. È ironico, ma IBM è percepita come fortemente innovativa. Questo perché i produttori di cloni sono restii a introdurre troppe innovazioni e allontanarsi così dallo standard. Fonte: Bill Gates – A: John Sculley e Jean Luis Gassée – Data: 22/6/85, Re: Concessione in licenza del sistema Mac da parte della Apple.

manifeste o non manifeste, realizzate da diverse classi di soggetti economici. Sebbene, infatti, la presenza di normative anti-trust sia frequentemente invocata come meccanismo di regolazione e correzione delle eventuali distorsioni del mercato, le imprese realizzano una condotta rivolta a influenzare non tanto la diffu-

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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sione di una soluzione particolare, quanto i successivi interventi di modifica e adattamento di una o più soluzioni attraverso un processo di interpretazione delle soluzioni tecnologiche.

13.3 L’innovazione tecnologica e la strategia d’impresa 13.3.1 Il ciclo di vita della tecnologia e i problemi di natura strategica

non-coordinato

segmentato

sistemico

L’innovazione di prodotto, rappresenta una nuova tecnologia o combinazione di nuove tecnologie introdotte commercialmente per soddisfare un bisogno espresso dal mercato o coerente con un segmento dello stesso.

massimizzazione delle prestazioni

Rispetto alle diverse tipologie di innovazione che possono essere rilevanti per individuare le fonti di minacce e opportunità per l’impresa, un primo passaggio per la definizione del quadro di riferimento competitivo è legato allo sviluppo di un’analisi dell’ambiente esterno che aiuti a coniugare la dimensione tecnica con quella strategica. Abernathy e Utterback (1978) affrontano questo problema definendo un modello nel quale innovazioni di prodotto e innovazioni di processo evolvono in maniera interdipendente, attraverso fasi distinte alle quali corrispondono differenze nella struttura del settore e, conseguentemente, nella fonte di vantaggio competitivo. A fasi iniziali dello sviluppo della tecnologia, caratterizzate da un’intensa competizione per l’affermazione della soluzione tecnologica preferita dal mercato, fanno seguito fasi caratterizzate dal recupero di efficienza attraverso interventi sul processo rivolti alla riduzione dei costi di produzione. Parallelamente, durante il processo cambia l’enfasi sull’allocazione delle risorse e delle aree tecnologiche critiche, che passano progressivamente dall’area del prodotto all’area del processo, con modifiche sempre meno radicali e sempre più finalizzate a miglioramenti incrementali di soluzioni esistenti. Con riferimento all’innovazione di processo, è possibile distinguere una traiettoria tipica di evoluzione e sviluppo nel tempo che può essere scomposta in tre stadi distinti e specifici. 1. Non-coordinato: durante questo primo stadio del ciclo di sviluppo della tecnologia il processo è flessibile e si basa su una serie di lavorazioni per lo più non specifiche per le quali si utilizzano macchinari generici. 2. Segmentato: a seguito dell’affermazione sul mercato di un disegno dominante che definisce la combinazione di tecnologia di prodotto e di processo vincente in termini di quota e di varietà di segmenti coperti, il processo produttivo si trova in questo secondo stadio a dover fronteggiare volumi crescenti con una forte riduzione nella varietà di configurazioni richieste e una maggiore necessità di riduzione dei costi di produzione. 3. Sistemico: nel terzo e ultimo stadio le caratteristiche distintive delle tecnologie di processo sono legate a un’estrema specializzazione delle singole parti del processo, che diventa quindi molto rigido e automatizzato. Il passaggio successivo è la definizione di innovazione di prodotto, che rappresenta una nuova tecnologia o combinazione di nuove tecnologie introdotte commercialmente per soddisfare un bisogno espresso dal mercato o coerente con un segmento dello stesso. Grazie a questa definizione è possibile analizzare come mutano nel tempo le criticità sul lato del prodotto, spostandosi progressivamente dall’enfasi sulle prestazioni, all’enfasi sulla standardizzazione e i volumi. Gli stadi evolutivi diventano pertanto: • massimizzazione delle prestazioni: in questo primo stadio il mercato è ancora limitato e caratterizzato da una grande varietà nella tipologia di pre-

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo





ferenze espresse relativamente alle prestazioni richieste dal prodotto. Soprattutto per i mercati legati a tecnologie avanzate, è evidente in questa fase l’assenza di uno standard e la base di consumatori risulta caratterizzata per lo più dai cosiddetti early-adopters; massimizzazione delle vendite: è in questo secondo stadio che si manifestano gli effetti della competizione sullo standard tecnologico e d’uso legato al prodotto che ha caratterizzato lo stadio precedente; questa fase conduce a un consolidamento della base competitiva, con un conseguente spostamento dell’attenzione sull’aumento dei volumi di vendita e una contemporanea riduzione nel mix di prodotti/versioni di prodotto offerti. minimizzazione dei costi: nel terzo e ultimo stadio la varietà di prodotto è ridotta al minimo e la standardizzazione viene indirizzata verso la creazione di una domanda sostanzialmente omogenea e sensibile principalmente al costo del prodotto. La conseguente riduzione dei margini e la spinta verso più elevati livelli di efficienza produttiva riducono l’incentivo all’impiego di risorse ingenti sul fronte dell’innovazione di prodotto, dove i miglioramenti sono sempre di natura incrementale.

L’utilizzo di questo modello di riferimento, oltre ad analizzare l’impatto sulle caratteristiche della singola impresa, ci consente di effettuare un’analisi dell’evoluzione strategica delle diverse forze competitive operanti nel settore nell’arco dell’intero ciclo di vita e sviluppo delle tecnologie. In tal modo configura la possibilità di osservare non solo la natura e il tipo di innovazione tecnologica rilevante per il conseguimento di un vantaggio competitivo nelle diverse fasi, ma anche l’insieme delle opzioni strategiche disponibili a fronte dell’evoluzione della dimensione tecnologica. Attraverso l’adozione del modello delle cinque forze competitive di Porter è possibile mappare l’ambiente di riferimento e osservare l’impatto che la nuova tecnologia ha su esso nelle diverse fasi (Tabella 13.1). Per quanto riguarda la pressione concorrenziale all’interno del settore si osservano differenze in termini sia quantitativi sia di area principale di influenza. Nel primo stadio del ciclo di vita della tecnologia, infatti, la frammentazione dell’offerta e la dimensione relativa dei singoli competitori rappresentano fattori critici nella prospettiva di definizione di standard di settore, piuttosto che di pressione concorrenziale sui prezzi. Questo secondo aspetto, tuttavia, aumenta nelle fasi successive, fino a sedimentarsi potenzialmente nell’ultima fase dove l’emergere di strutture oligopolistiche può allentare considerevolmente la pressione sui costi in cambio di una segmentazione rigida del mercato. Analogamente, la distribuzione del potere contrattuale tra l’offerta e la domanda lungo la dimensione verticale del settore va al di là di semplici valutazioni collegate all’evoluzione dei prezzi. In proposito, dal lato dei clienti, questi diventano importanti come fonti di informazioni tecniche nelle fasi iniziali, per trasformarsi progressivamente in gruppi di consumo indifferenziati caratterizzati da un aumento nel livello di sensibilità al prezzo piuttosto che alle prestazioni del prodotto. Investimenti specifici sulla base di consumo nelle fasi iniziali, oltre che contribuire all’affinamento del prodotto, diventano ambiti di intervento critico anche per l’affermazione di standard di riferimento. Un ragionamento simile è applicabile al caso dei fornitori, seppure in un’ottica ribaltata. Mentre nelle fasi iniziali, può essere maggiore la tendenza ad approvvigionarsi presso fonti generiche che risultano pertanto poco incentivate a sviluppare relazioni più stabili e finalizzate allo sviluppo congiunto di tecnologia, nelle fasi successive diventa altresì

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massimizzazione delle vendite

minimizzazione dei costi

Attraverso l’adozione del modello delle cinque forze competitive di Porter è possibile mappare l’ambiente di riferimento e osservare l’impatto che la nuova tecnologia ha su esso nelle diverse fasi.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Tabella 13.1

Mappatura dell’ambiente e analisi dell’impatto della tecnologia sull’impresa attraverso il modello delle cinque forze di Porter Stadio evolutivo Processo non coordinato /Massimizzazione delle prestazioni

Minaccia competitiva

Concorrenti

Nuovi entranti

Prodotti sostitutivi Clienti

Fornitori

Alternative strategiche

Processo segmentato/Massimizzazione delle vendite

Bassa sul prodotto, elevata sulla definizione dello standard

In aumento sul prodotto e soprattutto sul processo

Basso potere contrattuale e non specializzazione per la maggior parte della componentistica

Aumento della criticità della differenziazione realizzata dai fornitori

Processo sistemico /Minimizzazione dei costi

Stabile sia sul prodotto, sia sul processo a seguito di processi di concentrazione oligopolistica Elevata, a causa In diminuzione, a causa del processo Bassa, sulle vecchie di incertezza tecnologica di standardizzazione in atto tecnologie, elevata per e difficoltà di sfruttamento l’introduzione di nuove di barriere all’entrata tecnologie Elevata, ma distribuita su In diminuzione a seguito Rilevante su specifici una domanda in crescita dell’accettazione dello standard segmenti e come fonte e differenziata dal mercato di discontinuità tecnologica Maggiore potere negoziale Rilevante capacità di influenza Elevata capacità di switch individuale e rilevanza del processo di definizione a causa nell’indirizzo dello sviluppo dello standard della standardizzazione tecnologico del prodotto Polarizzazione delle fonti di approvvigionamento critiche e frammentazione dell’offerta di componentistica standard Focalizzazione su nicchie Focalizzazione sulla differenziazione. Focalizzazione sul costo. ben distinte. Investimenti in Diffusione della tecnologia per Enfasi sull’affidabilità beni complementari. Uso di definitiva affermazione dello e durata del prodotto. clienti pilota. Pressione per standard. Attivazione di rapporti Attivazione di collaborazioni la definizione di uno privilegiati con la fornitura. per monitorare nuove standard Investimenti in barriere all’entrata tecnologie

Fonte: Sobrero (1999).

importante impostare un’attività di selezione dei fornitori per identificare partner potenziali da coinvolgere nello sviluppo successivo del prodotto. Allo stesso tempo è importante sottolineare il valore di scelte di standardizzazione nella componentistica fin dal principio come opzione per limitare i rischi derivanti dall’affermazione di design dominanti sviluppati dalla concorrenza. Dal lato dei nuovi entranti, i tassi di sviluppo del mercato, l’elevata frammentazione dell’offerta e la presenza di una base della domanda differenziata e in evoluzione, sono tutte caratteristiche che rendono particolarmente interessante l’inizio di attività nel settore. I nuovi entranti possono configurarsi come attori pericolosi nella corsa per l’affermazione dello standard tecnologico, soprattutto se provenienti da settori correlati o derivanti da operazioni di diversificazione attuate da soggetti dotati di maggiori risorse finanziarie, commerciali e organizzative. Negli stadi successivi, tuttavia, quando l’enfasi della competizione tecnologica si sposta su traiettorie di tipo incrementale, si liberano risorse per aumentare investimenti specifici in barriere all’entrata che possano aiutare a tutelarsi in questo senso. Diverso, invece, è lo scenario che si configura per i prodotti sostitutivi, che cominciano a diventare una minaccia sempre più rilevante quanto più la domanda diventa sensibile alla variabile prezzo. Al contrario, nelle fasi iniziali, è difficile

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

parlare realmente di prodotti sostitutivi, dal momento che non si è ancora configurata una combinazione alternativa dal lato del prodotto e i clienti esprimono preferenze fortemente differenziate, con una conseguente riduzione delle aree possibili di sovrapposizione di prodotti concorrenti. Tushman e Anderson hanno sviluppato ulteriormente lo strumento dell’analisi dell’ambiente esterno in chiave tecnologica per supportare l’attività di pianificazione strategica. Secondo questi autori, per riuscire a identificare le aree critiche sulle quali concentrare l’attenzione per impostare la strategia dell’impresa è necessario utilizzare tre concetti fondamentali: 4. in primo luogo è necessario ragionare in termini dinamici, associando allo sviluppo tecnologico un percorso evolutivo di riferimento; 5. in secondo luogo, bisogna individuare in questo quadro di riferimento alcuni eventi critici in grado di cambiare sensibilmente le regole del gioco competitivo, e che possano quindi essere utilizzati come segnali per anticipare eventi futuri e adeguare la base di risorse e competenze dell’impresa; 6. in terzo luogo, è importante riconoscere che questi momenti critici possono avere conseguenze diverse per gli attori coinvolti, a causa delle differenze che caratterizzano questi ultimi per esempio in termini di familiarità con la vecchia e la nuova tecnologia, risorse dedicate, tempo di permanenza sul mercato. La prima classe di eventi critici è rappresentata dalle discontinuità tecnologiche, che sono definite come tipologie di prodotto fondamentalmente differenti, in grado di offrire un vantaggio significativo in termini di costo, qualità o prestazioni rispetto a prodotti già presenti sul mercato. Esempi di discontinuità di prodotto sono i personal computer rispetto ai mainframe, le centrali di telecomunicazioni wireless rispetto a quelle wireline, i file Mp3 rispetto ai cd-audio. Le discontinuità tecnologiche di processo, invece, sono modi fondamentalmente diversi di realizzare un prodotto che consentono di abbattere in maniera significativa i costi di produzione e di innalzare corrispondentemente la qualità del prodotto realizzato. Esempi di discontinuità di processo sono il forno Bessemer per la produzione dell’acciaio, i forni a rulli per la produzione delle piastrelle, i caroselli di termoformatura per la produzione dei frigoriferi, l’introduzione della tecnologia di pressofusione rispetto alla fusione normale. Le discontinuità tecnologiche possono manifestarsi saltuariamente e in modo inaspettato nel settore e portano a un periodo di instabilità nell’ambiente strategico di riferimento, cosiddetto era di fermento che è caratterizzato dall’emergere di competizione su due ambiti. Da un lato il cambiamento delle regole del gioco acuisce lo scontro tra potenziali nuove soluzioni, dall’altro, anche in considerazione degli sforzi già fatti nel settore dai concorrenti presenti fino a quel momento, si sviluppa un confronto aspro tra le nuove soluzioni e le vecchie tecnologie. In risposta alle nuove sfide tecnologiche le imprese già presenti sul mercato di solito si impegnano sempre più nello sviluppo e nell’introduzione di miglioramenti delle tecnologie affermate, con risultati spesso sorprendenti in termini di prestazioni e qualità del prodotto. Questa reazione, oltre che dalla presenza di investimenti anche ingenti in tecnologie della generazione precedente, sono giustificate dall’elevata incertezza che accompagna questo stadio evolutivo. Tale incertezza si manifesta sia sul lato tecnico sia sul lato commerciale. Sul lato tecnico è possibile che diverse discontinuità tra loro non compatibili approdino quasi contemporaneamente sul mercato rendendo difficile effettuare una comparazione tecnica e basata sulle pre-

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ragionare in termini dinamici individuare eventi critici

riconoscere conseguenze diverse

Le discontinuità tecnologiche sono definite come tipologie di prodotto fondamentalmente differenti, in grado di offrire un vantaggio significativo in termini di costo, qualità o prestazioni rispetto a prodotti già presenti sul mercato. Le discontinuità tecnologiche di processo, invece, sono modi fondamentalmente diversi di realizzare un prodotto che consentono di abbattere in maniera significativa i costi di produzione e di innalzare corrispondentemente la qualità del prodotto realizzato. Le discontinuità tecnologiche possono manifestarsi saltuariamente e in modo inaspettato nel settore e portano a un periodo di instabilità nell’ambiente strategico di riferimento.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

L’era di fermento contribuisce a generare varianza nell’ambiente competitivo, sia sul lato tecnico sia su quello commerciale.

Il disegno dominante si configura come una soluzione architetturale che stabilisce un punto di riferimento inequivocabile in una classe di prodotto o di processo.

stazioni. Allo stesso tempo, non è chiaro quali siano le dimensioni tecniche rilevanti sulle quali concentrare i propri sforzi di sviluppo. In maniera analoga, sul lato commerciale, anche gli utilizzatori del prodotto devono confrontarsi con informazioni scarse circa le potenzialità della nuova tecnologia e spesso non sono in grado di esprimere con chiarezza quali aspetti debbano considerarsi critici per gli sviluppi successivi. In aggiunta a ciò, la nuova tecnologia potrebbe non essere soddisfacente su dimensioni apparentemente secondarie, ma comunque importanti per la prestazione complessiva del prodotto. Nel caso degli apparecchi per la diagnostica medica a ultrasuoni, per esempio, inizialmente i radiologi non erano sicuri se spingere sulla rapidità di esecuzione dell’esame o sulla risoluzione dell’immagine ottenuta e le aree di uso prevalente erano legate alla diagnostica tumorale pre-operatoria, mentre minore attenzione veniva data alla diagnostica prenatale, che invece consentiva risultati migliori grazie all’effetto di risonanza generato dal liquido amniotico. L’era di fermento contribuisce a generare varianza nell’ambiente competitivo, sia sul lato tecnico sia su quello commerciale, con un prolungamento delle condizioni di incertezza dovuto anche alle reazioni difensive delle imprese già presenti sul mercato. Affinché questo processo di generazione di varianza consenta una certa sedimentazione di soluzioni tecniche superiori, è necessario che si sviluppino anche opportunità di selezione e ritenzione. È a questo proposito che risulta importante recuperare il concetto di disegno dominante, che rappresenta il secondo evento critico del modello. Il disegno dominante si configura come una soluzione architetturale che stabilisce un punto di riferimento inequivocabile in una classe di prodotto o di processo. Esempi di disegno dominante sono la configurazione QWERTY nelle tastiere delle macchine da scrivere prima e dei calcolatori poi, il sistema VHS nei videoregistratori, il linguaggio HTML per la programmazione su Internet, il sistema operativo MS-DOS, il linguaggio Java nella programmazione di applicazioni su Internet, l’architettura del database Oracle. L’affermazione di un disegno dominante sul mercato riduce l’incertezza tecnologica circoscrivendo le aree fondamentali di sviluppo futuro, stimolando gli investimenti in prodotti complementari e indirizzando gli sforzi successivi lungo traiettorie migliorative di natura essenzialmente incrementale. Questo tipo di sforzi caratterizzerà il settore fino all’avvento di un’altra discontinuità tecnologica. La diminuzione dell’incertezza interna all’ambito tecnologico di riferimento sposta il baricentro dell’azione innovativa dall’architettura complessiva alle sue singole componenti, sviluppando in questo modo opportunità di specializzazione legate alle caratteristiche del prodotto.

13.3.2 L’analisi strategica delle risorse e competenze tecnologiche Nei modelli sin qui proposti l’innovazione tecnologica si muove lungo uno spazio monodimensionale, che la caratterizza in funzione del suo impatto sull’impresa, a seconda che operi un rinforzo di competenze e risorse interne, o le renda obsolete e non più sfruttabili commercialmente. In questa prospettiva diventa centrale analizzare nel dettaglio la struttura e le caratteristiche della base di risorse e competenze possedute dalla singola impresa per poter articolare una strategia difensiva utile a fronteggiare momenti di turbolenza tecnologica, o una strategia offensiva finalizzata all’introduzione di discontinuità sul mercato

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

che possano mettere in difficoltà i concorrenti e limitare le minacce dei nuovi entranti. Per proseguire in questa direzione è utile distinguere due aree complementari all’interno delle quali riconsiderare le risorse e le competenze dell’impresa, che sono legate alla definizione di innovazione tecnologica come combinazione di attività inventiva e capacità di sfruttamento commerciale. Abernathy e Clark propongono un modello di analisi del portafoglio tecnologico per definire in maggiore dettaglio la posizione competitiva occupata da una singola impresa o da una specifica tecnologia rispetto alle evoluzioni osservate nell’ambiente esterno distinguendo tra dimensione tecnica e dimensione commerciale delle risorse e competenze dell’impresa. • La dimensione tecnica comprende tutti gli aspetti legati alla scoperta, sviluppo e ingegnerizzazione della nuova idea di prodotto o di processo. • La dimensione commerciale comprende tutte le leve che è necessario attivare per potere beneficiare economicamente dell’introduzione di nuove idee e soluzioni di prodotto e di processo. Questa distinzione risulta piuttosto importante poiché l’enfasi dei modelli finora esaminati è stata indirizzata principalmente agli aspetti tecnici. Al contrario, è possibile applicare la stessa logica che ci porta a distinguere tra innovazione incrementale e radicale, o tra innovazione che rinforza o distrugge le competenze esistenti, anche agli aspetti commerciali, che risultano centrali per assicurarsi opportunità di profitto dalle risorse investite sul lato tecnico. La Tabella 13.2 riporta una lista di aree specifiche di intervento che possono essere ricondotte alla dimensione tecnica e alla dimensione commerciale dell’attività dell’impresa all’interno delle quali andare a individuare le caratteristiche delle risorse e competenze possedute rispetto ai cambiamenti introdotti sul mercato. Per quanto riguarda la dimensione tecnica possiamo distinguere risorse e competenze legate a: • design/incorporazione della tecnologia; • sistemi produttivi; • conoscenze tecniche (operative, manageriali, forza lavoro); • materie prime/fornitori; • impianti; • know-how e riferimenti di base. Gli elementi legati al design di prodotto e all’incorporazione delle soluzioni tecniche individuate nel prodotto o nel processo rappresentano l’ambito dove più tipicamente si concentra l’attenzione nella valutazione e comparazione di diverse possibili soluzioni tecnologiche. Come anche nel caso degli impianti e in parte dei sistemi produttivi, infatti, i parametri sono più facilmente individuabili e consentono una valutazione apparentemente più oggettiva. In questi ambiti specifici i problemi maggiori emergono, tuttavia, qualora le caratteristiche di innovatività e cambiamento tecnologico richiedano mutamenti significativi nella struttura stessa dei parametri di valutazione. Per esempio, un’impresa farmaceutica che utilizza processi fortemente orientati allo sviluppo di nuove molecole attraverso un approccio basato sulla sintesi chimica trova oggettive difficoltà a valutare i benefici di un approccio fondato sulle biotecnologie a causa della distanza in termini di caratteristiche distintive dei due approcci. In questo caso l’impatto si estende anche alla dimensione del know how di base attorno al quale si è sviluppata l’attività dell’impresa e che ne ha orientato nel tempo lo sviluppo.

dimensione tecnica dimensione commerciale

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Tabella 13.2

Aree specifiche di intervento ricondotte alla dimensione tecnica e alla dimensione commerciale dell’attività dell’impresa

Dimensione rilevante

Tipologia di impatto dell’innovazione

Dimensione tecnica • Design/incorporazione della tecnologia • Sistemi produttivi • Conoscenze tecniche (operative, manageriali, forza lavoro) • Materie prime/fornitori • Impianti • Know-how e riferimenti di base

Dimensione commerciale • Relazioni con la base di clienti

Miglioramento del design esistente

Offerta di design nuovi e originali

Rafforzamento dei flussi e dei cicli

Introduzione di nuovi sistemi/lavorazioni/stazioni Obsolescenza delle risorse esistenti Sostituzione di materiali e fornitori

Ampliamento dell’ambito di applicazione di risorse esistenti Ampliamento delle opportunità di impiego delle materie prime, allargamento della base di fornitura Miglioramenti prestazionali degli impianti esistenti Ampliamento dell’ambito di applicazione di conoscenze di base

Introduzione e utilizzo di nuovi macchinari Collegamenti con ambiti di conoscenza e discipline di riferimento completamente nuove

Rafforzamento dei legami con la clientela attuale Miglioramento delle prestazioni di prodotti esistenti

• Applicazioni del prodotto • Canali di distribuzione e servizi collegati • Conoscenza del prodotto da parte del cliente • Modalità di comunicazione con il cliente

Attivazione di rapporti con clienti completamente nuovi Introduzione di nuove possibilità di applicazione e nuove configurazioni del prodotto Rafforzamento dei canali distributivi Utilizzo di forme distributive nuove e di servizio esistenti e di nuovi servizi alla clientela Estensione della conoscenza e Distribuzione della conoscenza familiarità del prodotto per il cliente del cliente relativa al prodotto Miglioramento/rinforzo di strumenti, Ampliamento/estensione mezzi e stili di comunicazione degli strumenti, mezzi e stili di comunicazione

Fonte: adattamento da Abernathy e Clark (1985).

Per quanto riguarda la dimensione commerciale, invece, possiamo distinguere tra cinque diverse aree critiche: 1. 2. 3. 4. 5.

relazioni con la base di clienti; applicazioni del prodotto; canali di distribuzione e servizi collegati; conoscenza del prodotto da parte del cliente; modalità di comunicazione con il cliente.

Nel primo caso si tratta di valutare in quale misura il cambiamento in atto, sia esso sviluppato internamente o dalla concorrenza, porta a cambiamenti nei mercati serviti, valutabili secondo le diverse dimensioni usualmente utilizzate per una segmentazione della domanda. Analogamente, il secondo aspetto si riferisce all’uso che i clienti fanno del prodotto stesso e agli ambiti di applicazione delle soluzioni tecnologiche in esso incorporate. I due punti possono essere collegati, chiaramente, in quanto un aumento delle funzionalità può facilmente portare a un allargamento della base di clienti serviti anche in termini di segmenti differenti. Allo stesso tempo, tuttavia, soprattutto nel caso di generazioni successive del prodotto e in caso di domanda di riacquisto, un aumento delle funzionalità del prodotto può essere un modo per continuare a mantenere fedele una base di clienti consolidata. Gli aspetti legati ai canali di distribuzione e alla tipologia di servizi offerti, nonché alle scelte relative ai diversi elementi legati alle attività di comunicazione, identifi-

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

cano aree specifiche sulle quali concentrare i propri sforzi innovativi per favorire processi di crescita della domanda e di diffusione della tecnologia, ma anche aree nelle quali potrebbe essere necessario intervenire a seguito di cambiamenti nella struttura del mercato di riferimento per accompagnare investimenti sul lato tecnico. Si pensi a questo proposito agli sforzi pubblicitari della Intel per promuovere il proprio marchio e il nome dei propri processori e a come questa strategia abbia contributo a influenzare il consumatore nella scelta di acquisto dei personal computer. Un’attenzione particolare meritano, infine, gli aspetti legati all’impatto delle nuove soluzioni introdotte in termini di familiarità della clientela con alcune caratteristiche base del prodotto. Il nodo cruciale qui è verificare fino a che punto le conoscenze d’uso possedute dal cliente sono rese obsolete dalle nuove soluzioni. Tanto più elevato sarà, infatti, l’investimento di riqualificazione attraverso il quale dovrà passare il cliente, quanto maggiori saranno le resistenze all’adozione delle nuove soluzioni rispetto a quelle precedenti e quanto più lento sarà il processo di diffusione. Per ognuna delle aree di attenzione lungo la dimensione tecnica e la dimensione commerciale è possibile identificare ambiti di variazione da utilizzare per la costruzione di una check-list con la quale valutare nel dettaglio le caratteristiche di innovatività delle soluzioni tecnologiche considerate e l’impatto dell’innovazione sulla base di risorse e competenze di riferimento. Questa valutazione può essere espressa prendendo come riferimento la concorrenza, per generare informazioni necessarie a un’attività di comparazione nel posizionamento relativo, oppure focalizzando l’attenzione sulla realtà della singola impresa, per comparare tra di loro diverse possibili soluzioni, non necessariamente alternative. Il risultato finale è la mappatura delle differenze e delle similitudini evidenziate dalle alternative tecnologiche esaminate, o dai concorrenti sui quali ci siamo concentrati, oppure ancora dai diversi progetti interni considerati in uno spazio bidimensionale, dove una dimensione sarà quella tecnica e l’altra sarà quella commerciale. Per entrambe le dimensioni, il campo di variazione si svilupperà tra casi che rinforzano le competenze e le risorse esistenti e casi che le distruggono. Utilizzando questi concetti è possibile costruire due matrici di portafoglio tecnologico. La prima matrice (Figura 13.2), definita anche mappa di transilienza, può essere ottenuta a tre livelli: 1. il livello più generale, per distinguere tra diverse innovazioni tecnologiche; 2. il livello del settore, per collocare le diverse innovazioni introdotte rispetto all’impatto avuto in termini tecnici e commerciali; 3. il livello della singola impresa, per identificare tipologie differenti di progetti o innovazioni tecnologiche. A tutti e tre i livelli la mappa può essere utilizzata come strumento di analisi statica per ottenere una fotografia di una situazione specifica in un particolare istante di tempo, o anche come strumento di analisi dinamica, per rappresentare l’evoluzione di una serie di progetti o di idee innovative. Il contributo distintivo in questo senso è legato alla relazione tra discontinuità tecnologica e tipologia di competenze rese obsolete dalle nuove soluzioni proposte sul mercato. Attraverso l’utilizzo del concetto di discontinuità tecnologica nell’ambito della matrice, è possibile allargare la prospettiva d’analisi e valutare più in generale l’impatto dell’innovazione sull’insieme di risorse e competenze dell’impresa. Se, infatti, i cambiamenti introdotti sul mercato utilizzano un insieme di

mappa di transilienza

499

500

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Innovazioni creatrici di nicchia Limitata resistenza al cambiamento

Innovazioni rivoluzionarie Massima resistenza al cambiamento

Es. nodi radio WBAS (wireless broadband access system)

Es. tecnologie ISDN nelle redi di tlc

Innovazioni regolari Limitata o assente resistenza al cambiamento

Innovazioni architetturali Elevata resistenza al cambiamento

Es. tecnologia x-dsl per le tlc wireline

Es. reti di tlc con RSS (Remote Switching System) che permette un controllo distribuito

Cambiamento legami esistenti/creazione di nuovi legami

Dimensione commerciale

Mantenimento/ rafforzamento dei legami esistenti

Figura 13.2 Dimensioni commerciale e tecnica dell’innovazione. Fonte: adattamento da Abernathy e Clark (1985).

Le imprese già presenti in un settore riescono con successo ad allargare la base di segmenti serviti o a modificare le politiche di marketing, ma incontrano grandi difficoltà nel reagire a cambiamenti tecnologici anche di natura non rivoluzionaria.

Mantenimento/rafforzamento delle conoscenze possedute

Generazione di nuove conoscenze

Dimensione tecnica

conoscenze e risorse sedimentato e disponibile ai concorrenti già presenti sul mercato, ci troveremo di fronte a un conseguente rinforzo delle risorse e conoscenze possedute. Se, al contrario, la nuova traiettoria tecnologica porterà con sé la necessità di riconfigurare strutturalmente la base di risorse e conoscenze interne per poter affrontare i cambiamenti in atto, allora ci troveremo di fronte a una distruzione della base di risorse e competenze sulla quale si è costruito il proprio vantaggio competitivo. Le imprese già presenti sul mercato saranno avvantaggiate rispetto all’introduzione di discontinuità tecnologiche che rinforzano la base di competenze interne, ma saranno particolarmente vulnerabili all’introduzione da parte di nuovi entranti di tecnologie in grado di distruggere e rendere obsoleti il know-how e le risorse tecnologiche già affermate. In relazione a questa matrice, infine, occorre rilevare che numerose ricerche hanno mostrato come sia più agevole per le imprese l’evoluzione lungo la dimensione mercato piuttosto che lungo la dimensione tecnologia. Le imprese già presenti in un settore riescono con successo ad allargare la base di segmenti serviti o a modificare le politiche di marketing, ma incontrano grandi difficoltà nel reagire a cambiamenti tecnologici anche di natura non rivoluzionaria. Le cause di queste difficoltà sono da ricercarsi nell’analisi delle modalità attraverso le quali le competenze tecniche sono state sviluppate all’interno dell’impresa e come la loro combinazione si riflette nelle scelte organizzative adottate. Henderson e Clark affrontano questo aspetto proponendo un’altra matrice di portafoglio tecnologico, che permette di distinguere in maggiore dettaglio la dimensione del cambiamento tecnico, separando gli aspetti legati ai singoli componenti utilizzati, dagli aspetti legati alla loro integrazione (Figura 13.3).

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

Innovazioni architetturali: ridefinizione delle interpedenze Modificato

Innovazioni radicali: simultanea ridefinizione di competenze e interdipendenze

Es. telefono analogico

Es. telefono digitale

Innovazioni incrementali: naturale evoluzione delle competenze interne

Innovazioni modulari: ridefinizione della base di competenze senza alterare le interdipendenze

Es. telefono portatile

Es. DECT

Legame tra i componenti

Inalterato

Rinforzati

Ridefiniti

Componenti fondamentali del prodotto/servizio

Figura 13.3 Relazione tra concetti fondamentali del prodotto/servizio, sue componenti e tipologia di innovazione. Fonte: Sobrero, (1999); adattamento da Henderson e Clark (1990).

Se è vero che un’impresa ha a disposizione diverse leve per intervenire su parti distinte del prodotto deputate a svolgere una specifica funzione, non necessariamente visibile o percepita dal cliente, d’altro canto le modalità di combinazione, ottimizzazione, integrazione delle diverse componenti così definite sono tutti gli aspetti sui quali è possibile fare leva per modificare tecnicamente la propria offerta. Nella matrice è realizzata un’analisi, incentrata sul lato tecnico, che consente di distinguere le dimensioni delle componenti fondamentali del prodotto/servizio considerato, dalle modalità di integrazione delle stesse. Per la sua costruzione sarà possibile procedere attraverso la definizione di una check list per la valutazione di aspetti di dettaglio legati alle singole dimensioni, da ricombinare successivamente per il posizionamento nella matrice delle alternative oggetto di valutazione. In tale prospettiva, questa seconda matrice aiuta a essere più precisi nell’aggregazione delle informazioni tecniche per un loro confronto con la corrispondente posizione commerciale e quindi diventa una componente chiave di un’analisi di portafoglio tecnologico, da combinare successivamente con i modelli tradizionali di portafoglio per l’analisi strategica.

13.3.3 La strategia di sviluppo e valorizzazione delle competenze tecnologiche L’analisi strategica dell’innovazione tecnologica, svolta nei paragrafi precedenti, è propedeutica a un percorso di definizione delle strategie tecnologiche rivolte al rafforzamento delle risorse e competenze dell’impresa, sia sul lato tecnico sia su quello commerciale, a fronte di minacce e opportunità rinvenibili nell’ambiente competitivo e tecnologico. La definizione di strategie o approcci strategici alla

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Le strategie evolutive sono rivolte allo sfruttamento delle tecnologie esistenti attraverso processi innovativi di carattere incrementale.

Le strategie rivoluzionarie sono finalizzate allo sviluppo di nuovi paradigmi tecnologici e di nuove generazioni di prodotti.

risorse property-based

gestione della R&S, tuttavia, è apparsa sempre focalizzata su aspetti quali la tecnologia in senso stretto e la spinta tecnologica come fonte dell’innovazione, i requisiti di mercato e l’approccio demand pull, i cambiamenti organizzativi resi necessari per migliorare la performance tecnica delle unità di R&S. Solo recentemente, grazie alla formalizzazione operata dalla prospettiva basata sulle risorse e competenze, si è cercato di sviluppare una relazione concettuale forte tra tecnologia, innovazione, vantaggio competitivo e fonti di profittabilità proprio utilizzando il concetto di competenze distintive (McGrath, Tsai, Venkataraman et. al., 1996; Coombs, 1996). L’apparente difficoltà incontrata nello spiegare la razionalità economica di determinate scelte sulle politiche di crescita tecnologica adottate dalle imprese, inoltre, ha indotto alcuni studiosi a identificare gli elementi necessari a realizzare un’efficace gestione strategica delle tecnologie (Gilardoni, 1998). I numerosi contributi degli studiosi in materia concordano sulla presenza di due elementi di assoluto rilievo: la creazione e sviluppo di conoscenze tecnologiche; le capacità organizzative interne all’unità di R&S e quelle che realizzano la gestione dei confini con le altre aree aziendali, finalizzate allo sviluppo e sfruttamento degli investimenti in tecnologia. Tale interpretazione risiede nell’analisi delle attività di R&S quali generatori di capacità strategiche per l’impresa, ovvero quali fonti di competenze e conoscenze di valore, da integrare con altre risorse presenti nel sistema di business dell’impresa attraverso l’adozione di strumenti, meccanismi e conoscenze di tipo procedurale e manageriale al fine di realizzare condizioni di vantaggio competitivo e di profittabilità. L’integrazione delle differenti risorse, realizzata da processi e competenze organizzative, può condurre, infatti, le imprese a creare competenze distintive o capacità strategiche. Le politiche di sviluppo della tecnologia, in questo senso, alimentano lo stock di risorse e competenze dell’impresa e contribuiscono al conseguimento di vantaggi competitivi. Le strategie di R&S, tuttavia, possono essere di tipo sia evolutivo sia rivoluzionario (Iansiti, 2000). • Le strategie evolutive sono rivolte allo sfruttamento delle tecnologie esistenti attraverso processi innovativi di carattere incrementale; esse appaiono quali decisioni manageriali volte a rinforzare, proteggere e sostenere le fonti di vantaggio competitivo, attraverso un costante ma limitato sforzo di adeguamento delle conoscenze e competenze tecnologiche ai mutamenti del contesto competitivo e di mercato. Si tratta di attività innovative finalizzate a modificare in modo parziale i prodotti e le tecnologie in essi incorporate, al fine di presentare al mercato un portafoglio di soluzioni sempre più competitivo rispetto ai concorrenti e alle aspettative dei clienti. • Le strategie rivoluzionarie sono finalizzate allo sviluppo di nuovi paradigmi tecnologici e di nuove generazioni di prodotti; esse sono rappresentate da decisioni manageriali prese per stravolgere radicalmente la configurazione degli asset di risorse, poiché sono finalizzate a modificare in modo sostanziale non solo le tecnologie adottate, ma anche le risorse complementari, quali quelle da attingere nei mercati di fornitura. Tale distinzione di fondo nasce dalla considerazione del ruolo che l’ambiente competitivo gioca nel successo delle strategie aziendali e sull’efficacia degli investimenti. Le risorse fondamentali in ambienti stabili o moderatamente dinamici, infatti, sono le risorse definibili property-based, in relazione alle quali è neces-

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

sario stabilire barriere all’imitazione da parte dei concorrenti al fine di esercitare un adeguato controllo e presidio e attraverso queste godere di rendite stabili nel lungo periodo. In ambienti dinamici, al contrario, le rigidità caratteristiche di queste risorse impediscono il conseguimento di profitti. In tali ambienti le risorse knowledge-based, poiché di difficile imitazione per la loro intangibilità e dinamicità, flessibili e maggiormente pronte al cambiamento, appaiono più adatte a generare fonti di vantaggi e profittabilità. A una prima lettura, pertanto, è possibile identificare strategie di crescita tecnologica appropriate in funzione dell’ambiente competitivo. La strategia evolutiva appare di successo in ambienti più stabili, dove il possesso di risorse property-based è al centro delle fonti di vantaggio competitivo e il principale obiettivo per il management è la definizione di strategie di sostegno, che mirano al controllo, allo sfruttamento e alla protezione degli asset distintivi che derivano da investimenti passati. Le strategie di tipo rivoluzionario, al contrario, potrebbero sembrare più adatte a fronteggiare ambienti dinamici attraverso la creazione e utilizzo di risorse knowledge-based e attraverso la definizione di strategie di sviluppo volte a creare nuove competenze. La realtà, tuttavia, è ben più eterogenea di quanto possa apparire a una prima lettura, poiché lo sviluppo di tecnologie innovative richiede l’investimento di ingenti risorse che successivamente dovranno essere recuperate attraverso politiche di valorizzazione e strategie di sostegno degli assetti costituiti. Appare, pertanto, troppo semplicistico suddividere in due categorie nettamente separate le strategie di sostegno da quelle di sviluppo in funzione della dinamica ambientale, pur se certamente le due tipologie di ambiente identificano degli orientamenti strategici di fondo, come illustrato nella Tabella 13.3. Le strategie tecnologiche, da quanto specificato, appaiono differenti in funzione del tipo e dell’intensità di dinamica che caratterizza l’ambiente competitivo dell’impresa. Tali specificità, tuttavia, possono essere legate anche alla fase di sviluppo della tecnologia, che richiede decisioni differenti in funzione del grado di sviluppo delle competenze tecnologiche e delle relative modifiche nell’ambiente competitivo da queste indotte. In tal senso, le strategie tecnologiche si articolano lungo due dimensioni principali: 1. sviluppo delle tecnologie: finalizzato all’acquisizione delle competenze tecnologiche attraverso percorsi di sviluppo sia evolutivi sia rivoluzionari; permette all’impresa di costituire le risorse e competenze per fronteggiare Tabella 13.3

503

risorse knowledge-based

sviluppo delle tecnologie

Gli orientamenti strategici di base rispetto alle due tipologie di ambiente: stabile e dinamico Ambiente stabile

Ambiente dinamico

Risorse di valore

property-based, quali brevetti

Orientamento strategico

di sostegno evolutive sulla base di risorse protette (per esempio, attraverso brevetti)

knowledge-based, quali conoscenze tecniche incorporate nei prodotti e processi di sviluppo rivoluzionarie, volte alla creazione continua di nuove basi di risorse e al conseguimento di vantaggi di prima mossa sviluppo di tecnologie e scouting di opportunità tecnologiche

Strategie tecnologiche

Allineamento dell’organizzazione a

protezione e innovazione incrementale

Fonte: adattamento da Boccardelli P. (2002).

504

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

valorizzazione delle tecnologie

la dinamica competitiva; si fonda su progetti di ricerca di base o applicativa, finalizzati all’ottenimento di brevetti o conoscenze tecnologiche fondamentali per sviluppare famiglie o piattaforme di prodotto, e impiega politiche eterogenee che fanno spesso ampio uso degli accordi e delle collaborazioni per la ricerca. Di recente, numerosi investitori industriali di grandi dimensioni hanno attivato programmi di corporate venture capital finalizzati allo scouting di nuove tecnologie attraverso il finanziamento di start-up a base tecnologica sviluppatisi in ambienti industriali e geografici anche lontani; 2. valorizzazione delle tecnologie: attraverso una pluralità di iniziative consente di valorizzare il patrimonio di competenze tecnologiche possedute; si basa sull’incorporazione di conoscenze e competenze in prodotti e applicazioni da lanciare sul mercato, operazioni di licensing-out, scorporazione e cessione di asset e operazioni di spin-off. Negli ultimi anni la formalizzazione di programmi di internal venturing sostenuti da fondi di venture capital ha permesso agli investitori industriali di valorizzare le competenze tecnologiche complementari attraverso processi di spin-off particolarmente significativi. Le strategie del primo tipo fanno riferimento a scelte del management rivolte alla creazione, acquisizione dall’esterno e selezione di competenze tecnologiche e mirano allo sviluppo di opzioni di valore per il futuro attraverso la realizzazione di progetti esplorativi e la selezione delle tecnologie da mantenere on shelf; le strategie di secondo tipo fanno invece riferimento alla capacità di combinare, integrare e trasformare gli asset posseduti in modo da utilizzarli per operazioni di valorizzazione sul mercato dei prodotti/applicazioni e sul mercato delle tecnologie. Le strategie di sviluppo sono fondamentali per rinnovare la base di conoscenze tecnologiche e mantenerla costantemente allineata alle opportunità migliori da un punto di vista tecnico, ma anche per costituire una base di competenze di valore da cui attingere attraverso le attività con un maggiore focus di sfruttamento e un maggiore orientamento al mercato. Queste ultime, attraverso le strategie di valorizzazione, prelevano le conoscenze di valore, le trasformano e adattano nel modo più adeguato e le incorporano in prodotti e applicazioni integrandole alle altre conoscenze necessarie per arrivare al mercato. In altre parole, il risultato ricercato e conseguito dalle strategie di sviluppo appare poco efficace se in un dato momento del ciclo evolutivo delle tecnologie non intervengono le attività di valorizzazione, che trasformano in valore effettivo il potenziale economico delle conoscenze tecnologiche create nelle precedenti fasi. L’allineamento dell’impresa e delle sue strategie di business e tecnologiche alle sfide poste dall’ambiente competitivo, appare, dunque, un compito tutt’altro che agevole, soprattutto nell’ambito di compagnie diversificate nelle quali il patrimonio di competenze tecnologiche appare molto articolato ed eterogeneo. I modelli di analisi strategica della tecnologia sin qui considerati si dimostrano assai utili nella formulazione di politiche di sviluppo delle competenze all’interno di business specifici, ma risultano carenti di una visione d’insieme che può derivare solo da un’analisi del portafoglio delle competenze possedute e delle iniziative intraprese per svilupparle. La domanda che ci si pone e cui occorre fornire ancora una risposta, è, in altre parole, quali strumenti di analisi possono essere utilizzati per indirizzare in modo uniforme e costante le strategie tecnologiche

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

505

di imprese che operano in ambienti di business fortemente dinamici ed eterogenei? Possono questi strumenti fornire indicazioni alla gestione operativa delle attività di sviluppo e valorizzazione delle tecnologie? O in altri termini, quali risvolti presenta questa prospettiva strategica della R&S sulla dimensione operativa e organizzativa dell’impresa?

13.4 La gestione del patrimonio di competenze tecnologiche: aspetti organizzativi e gestionali 13.4.1 La gestione dinamica del patrimonio tecnologico: i riflessi sull’organizzazione Il possesso o controllo di uno stock di Il possesso o controllo di uno stock di risorse tecnologiche, sebbene necessario, risorse tecnologiche, sebbene non risulta condizione sufficiente per operare in ambienti competitivi carattenecessario, non risulta condizione rizzati da forte instabilità e marcate dinamiche. Il rinnovamento continuo imposto sufficiente per operare in ambienti competitivi caratterizzati da forte dall’interazione competitiva e dal susseguirsi di innovazioni messe a punto e proinstabilità e marcate dinamiche. poste al mercato dagli operatori più diversi implica un orientamento dell’impresa a una gestione dinamica del patrimonio di competenze tecnologiche, finalizzata a mantenere quest’ultimo sempre allineato alle modifiche dell’ambiente competitivo attraverso iniziative rivolte al suo sviluppo e iniziative rivolte alla sua valorizzazione. In altre parole, la capacità di realizzare tale gestione dinamica rende possibile selezionare il tipo di processi operativi, le competenze di base e i percorsi evolutivi, che sostengono l’impresa nel passaggio da una specifica configurazione di competenze a una nuova che risulta maggiormente aderente alle sfide poste dall’ambiente competitivo. Da un punto di vista operativo, le traiettorie evolutive che realizzano la gestione dinamica del patrimonio tecnologico si fondano sull’acquisizione di conoscenze tecnologiche da fonti interne ed esterne. Esse non rappresentano due alternative specifiche, ma piuttosto gli estremi di un continuum di soluzioni organizzative e gestionali che fanno riferimento alla contrapposizione tipica tra gerarchia e mercato come modalità di governo delle transazioni economiche (Williamson, 1975). Come per altre attività caratteristiche dell’azione imprenditoriale, anche per quelle di innovazione è possibile identificare forme alternative di gestione delle attività operative e di progettazione delle soluzioni organizzative, che meglio soddisfano le esigenze specifiche dell’impresa. Tali forme alternative possono essere analizzate come nella Figura 13.4. Per quanto riguarda gli estremi, lo sviluppo interno e l’acquisizione di tecnologie attraverso operazioni di licensing-in, rappresentano le forme più semplici, poiché comportano, da un lato, l’investimento attraverso progetti di sviluppo interni, dall’altro lato l’acquisto di un diritto di sfruttamento di tecnologie ready- Figura 13.4 alternative di governo delle to-use. Nel primo caso l’impresa decide di fare leva su risorse e competenze interne Forme attività di acquisizione delle competenze

tecnologiche.

Forme gerarchiche Sviluppo interno

Operazioni di fusione e acquisizione

Collaborazioni di tipo equity

Collaborazioni su base contrattuale

Modelli di sviluppo open source

Forme di mercato Licensing-in

506

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

per attivare un processo di sviluppo che si realizza lungo un certo arco temporale, mentre nel secondo caso decide di accedere al patrimonio tecnologico di altre imprese per motivazioni legate alla rapidità della soluzione e al tipo di competenze acquisite, che potrebbero riguardare domini tecnologici distanti dall’attuale base di conoscenze possedute. Esistono tuttavia altre forme per bilanciare in vario modo il ricorso alle competenze interne con l’accesso a quelle esterne, che richiedono soluzioni gestionali e organizzative diverse, ma che fanno tutte riferimento all’ampio tema della collaborazione tra imprese per lo sviluppo di innovazione, sia di tipo verticale, ossia con clienti e fornitori, sia di tipo orizzontale, ossia con i concorrenti.

13.4.2 L’analisi delle collaborazioni nella R&S: aspetti strategici e organizzativi Ai fini dell’analisi del problema, occorre in primo luogo valutare in termini strategici l’opportunità o meno di attivare una qualche forma di collaborazione per lo sviluppo di innovazione. Successivamente, una volta definita la valenza strategica della collaborazione si pone il problema dell’articolazione della distribuzione dei diritti residuali tra i partner relativamente all’oggetto della collaborazione stessa, attraverso la scelta della forma di governo legale preferibile in funzione delle diverse condizioni specifiche. Infine, è necessario procedere a una valutazione della forma organizzativa più adeguata in funzione delle risorse possedute dai partner al momento dell’accordo, al fine di definire appropriate modalità operative di coordinamento e integrazione, che risultano essere un’area critica sulla quale molte delle collaborazioni falliscono. Da un punto di vista strategico vi sono molteplici motivazioni che rendono attrattiva l’opzione di attivare collaborazioni sul piano della R&S con altre imprese. economie di scala



economie di scopo



ripartizione dei costi e dei rischi



allargamento della base di risorse e competenze interne



Economie di scala: i costi legati alle attività di R&S evidenziano un aumento progressivo in molti settori delle risorse necessarie per portare al successo commerciale una nuova idea. Ciò dipende principalmente da due fattori: la crescita della soglia minima di investimento necessario per ottenere risultati; la necessità di recuperare con i progetti di successo le risorse impiegate sull’intero portafoglio progetti. Economie di scopo: esse in ambito tecnologico implicano la possibilità di sviluppare competenze che possano dare luogo a diverse applicazioni commerciali. Le collaborazioni permettono l’implementazione di strategie multiprodotto e multimercato grazie a investimenti dedicati in una competenza tecnologica distintiva, quale per esempio quella della Sony nella miniaturizzazione dei componenti elettronici. Ripartizione dei costi e dei rischi: attraverso le collaborazioni è possibile ridurre l’ammontare complessivo di risorse investite individualmente grazie a una suddivisione dell’impegno di spesa. Tale opzione permette anche di ripartire su più soggetti il rischio di insuccesso e dunque di redditività nulla o addirittura negativa dell’investimento effettuato. Allargamento della base di risorse e competenze interne: questa motivazione fa riferimento a una prospettiva basata sulle competenze; permette di apprezzare il ruolo delle collaborazioni per lo sviluppo di innovazione come modalità strategica per l’accesso a risorse di valore quali know how e competenze tecniche. Tale motivazione è spesso osservata in corrispondenza di

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

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processi di diversificazione: la collaborazione, infatti, consente l’apertura di una cosiddetta “finestra tecnologica” all’impresa per l’accesso a mercati e business diversi da quelli attualmente presidiati. Una volta assegnata la valenza strategica all’opzione di collaborare con altre imprese nello sviluppo delle innovazioni, occorre valutare in modo concreto i benefici e i limiti delle diverse forme organizzative di governo delle collaborazioni. Tale attività, come in precedenza anticipato, fa riferimento all’impostazione teorica dei costi di transazione. Secondo la teoria dei costi di transazione (Sobrero, Schrader, 1998), la funzione dei costi totali dell’impresa include due componenti fondamentali, ovvero i costi di produzione e i costi di transazione. I primi derivano dalle attività di trasformazione degli input per la realizzazione dei prodotti o dei servizi offerti dall’impresa; i secondi sono invece tutti quei costi che l’impresa sostiene per organizzare ogni relazione finalizzata al trasferimento di beni e/o servizi necessari per la propria attività. I costi di transazione vengono distinti in costi associati alla definizione ex ante della transazione (per esempio, la definizione del contratto di acquisto) e quelli associati al suo controllo ex post, nonché all’applicazione di eventuali sanzioni (per esempio, la risoluzione di conflitti tramite arbitrato). L’interazione tra costi di produzione e costi di transazione determina la struttura ottimale entro la quale condurre l’attività d’impresa. Da un punto di vista strettamente teorico, il fenomeno dei costi di transazione è legato a: • • • • • •

Secondo la teoria dei costi di transazione, la funzione dei costi totali dell’impresa include due componenti fondamentali, ovvero i costi di produzione e i costi di transazione.

esistenza di imperfezioni nei mercati dovuta ad asimmetrie informative; specificità degli investimenti generati dalla transazione; incertezza ambientale, legata al compito e caratteristica degli obiettivi della transazione; frequenza d’interazione tra i soggetti coinvolti; razionalità limitata degli attori economici; rischio di comportamenti opportunistici o azzardo morale, che mina la struttura fiduciaria di ogni relazione.

Quando i costi di transazione generati da un particolare rapporto contrattuale diventano elevati, la teoria individua nell’integrazione verticale (gerarchia) la struttura ottimale nella quale si realizzano le transazioni. Viceversa, quando tali costi risultano contenuti, il mercato rappresenta la soluzione più conveniente per gli attori coinvolti. Le attività di collaborazione, tra cui quelle nella R&S, sono collocate tra alternative di mercato (acquisto di know how tramite licenze, brevetti) e gerarchia (sviluppo interno autonomo). Facendo riferimento alla natura dell’attività di sviluppo di innovazione, occorre rilevare che l’attività di collaborazione nella R&S comporta: •



un elevato grado di specificità degli investimenti che può tradursi in una non utilizzabilità degli stessi in ambiti diversi; per esempio, nel settore delle biotecnologie la specificità dei progetti di ricerca è così elevata da rendere quasi impossibile il reimpiego delle componenti di conoscenza ottenute per altri sviluppi; un elevato livello di incertezza per definizione, poiché non solo è difficile prevedere il livello dell’output, ma in molti casi anche il momento di manifestazione dei risultati;

elevato grado di specificità degli investimenti

elevato livello di incertezza per definizione

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

presenza di asimmetrie informative tra i partner



la presenza di asimmetrie informative tra i partner coinvolti, che determina come soluzione lo svolgimento di progetti secondo moduli separati e gestiti autonomamente dai singoli partner; per esempio nello sviluppo della prima versione digitale del Minilink di Ericsson Telecomunicazioni, un nodo-radio per lo sviluppo di reti di telecomunicazioni wireless, Ericsson Microwave e Motorola hanno deciso di collaborare gestendo unità di progetto completamente separate.

Queste caratteristiche, pertanto, rendono le collaborazioni nella R&S molto delicate, poiché, se non pianificate attentamente sia nella fase di definizione della relazione/transazione sia in quella di gestione ordinaria, il rischio di veder crescere i costi di transazione appare piuttosto elevato. In relazione a questi aspetti, pertanto, occorre tenere in considerazione alcuni elementi specifici legati alla dimensione organizzativa e contrattuale della relazione interimpresa. Per quanto riguarda la prima, facendo riferimento all’articolazione classica in cinque variabili della dimensione organizzativa nello sviluppo di innovazioni (Clark e Fujimoto, 1991), è possibile cercare di definire in modo ottimale: • la collocazione temporale delle attività svolte dai vari attori della relazione; • la tipologia di mezzo di comunicazione utilizzato per il trasferimento dell’informazione; • la frequenza del contatto tra le parti; • la direzionalità dei flussi di informazione; • il collegamento tra collocazione temporale delle attività e momento di trasferimento dell’informazione tra attività collegate. Passando alla dimensione contrattuale, occorre definire in modo ottimale i rapporti di scambio dei diritti tra le parti coinvolte, al fine di garantire il governo della combinazione degli agenti e delle funzioni interessate dalla relazione e il conseguimento degli obiettivi concordati. I meccanismi fondamentali interessati da questa dimensione fanno dunque riferimento alla regolamentazione attraverso un sistema di norme di uno degli aspetti fondamentali legato all’interdipendenza tra le parti, vale a dire la possibilità di intervenire nel governo della relazione e di appropriarsi formalmente dei risultati da essa prodotti. La soluzione a questi problemi si richiama all’approccio transazionale, poiché identifica modalità di governo delle relazioni più o meno formalizzate, andando a definire diverse tipologie relazionali che variano in uno spettro caratterizzato ai suoi estremi da forme contrattuali dove la distribuzione dei diritti tra le parti è nulla o massima. Nelle forme basate sul mercato, infatti, l’unico elemento utilizzato per governare la transazione è il prezzo, che non coinvolge in alcun modo la struttura dei diritti di alcuna delle parti. Al contrario, all’interno di una gerarchia, un soggetto diventa dominante e stabilisce il trasferimento presso di sé di una notevole parte dei diritti altrui. In mezzo a questi estremi si trovano forme alternative di distribuzione contrattuale dei diritti, quali per esempio le joint venture, le acquisizioni di minoranza o di maggioranza, i contratti di lungo termine o aperti e ogni altra forma resa possibile dal contesto istituzionale di riferimento. È utile sottolineare che oltre alla formalizzazione giuridica si utilizzano altre due variabili per articolare il grado di strutturazione contrattuale della relazione: 1. la dimensione della compartecipazione azionaria, quale strumento di controllo reciproco;

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

Tabella 13.4

Alcuni aspetti di natura organizzativa e legale nella strutturazione contrattuale della relazione tra le parti coinvolte Dimensioni per la strutturazione della relazione

Caratteristiche dall’oggetto della relazione

Meccanismi di coordinamento contrattuale

• Specificità • Incertezza nei compiti

• Tipo di accordo legale • Durata dell’accordo legale

• Incertezza negli obiettivi

• Specificità dell’accordo legale • Distribuzione dei diritti sull’informazione prodotta

Meccanismi di coordinamento organizzativo

• Frequenza di trasferimento dell’informazione • Collocazione temporale del trasferimento dell’informazione • Direzionalità del trasferimento dell’informazione • Tipologia di mezzi di comunicazione utilizzati per il trasferimento dell’informazione

Fonte: adattamento da Sobrero e Schrader (1998).

2. l’estensione temporale del vincolo contrattuale, che tende a riassumere le conseguenze comportamentali legate all’interazione prolungata nel tempo. Gli aspetti di natura organizzativa e legale sono sinteticamente rappresentati nella Tabella 13.4.

13.4.3 La scelta delle modalità di collaborazione nello sviluppo d’innovazione La scelta tra le forme alternative di collaborazione nella R&S può essere condotta in relazione alla tipologia di progetto di sviluppo di innovazione intrapreso dall’impresa, in particolare in relazione alla base di risorse possedute e ricercate attraverso la collaborazione stessa. La finalità di quest’analisi è legata al confronto tra le risorse e competenze, tecniche e commerciali, possedute e quelle da acquisire attraverso la collaborazione. A tale proposito può essere di ausilio un modello di portafoglio elaborato da Roberts e Berry (1985), che, sebbene concepito per valutare le modalità migliori per attivare processi di diversificazione, permette di analizzare le forme ottimali di collaborazione in funzione della base di risorse e competenze (Figura 13.5). Il modello si sviluppa in tre momenti successivi: 1. in primo luogo si identificano diverse possibili forme di collaborazione: riprendendo l’intervallo gerarchia-mercato definito dall’approccio transazionale e trascurando gli estremi (sviluppo interno e licensing-in), è possibile individuare sette diverse alternative organizzative, che differiscono tra loro per la tipologia di apporto richiesto ai partner, per il grado di coinvolgimento gestionale e finanziario e per la collocazione rispetto all’attività ordinaria dell’impresa, all’interno delle quali collocare le attività di collaborazione: acquisizioni, joint ventures/consorzi, alleanze strategiche, acquisizioni educative, internal ventures, corporate venture capital, venture capital; 2. successivamente se ne valutano limiti e potenzialità in funzione del grado di novità lungo la dimensione tecnologica e lungo quella commerciale; 3. infine, si individua la soluzione potenzialmente migliore per una data combinazione mercato/tecnologia. Prima di identificare gli elementi essenziali per la scelta tra le diverse alternative, è utile commentare brevemente ciascuna, analizzandone i vantaggi potenziali e i relativi limiti.

si identificano diverse possibili forme di collaborazione

se ne valutano limiti e potenzialità si individua la soluzione potenzialmente migliore

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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Fattori di mercato

Nuovo non familiare

Joint-ventures

Sviluppo interno del mercato o Acquisizioni

Nuovo familiare

(o Joint-Ventures)

Sviluppo interno di base

Base

(o Acquisizioni)

Base

Venture capital o Corporate venture capital o Acquisizione educativa

Venture capital o Corporate venture capital o Acquisizione educativa

Internal venturing o Acquisizioni o Licensing

Venture capital o Corporate venture capital o Acquisizione educativa

Sviluppo interno del prodotto o Acquisizioni o Licensing

New style Joint ventures

Nuovo familiare

Nuovo non familiare

Tecnologie o servizi incorporati nel prodotto

Figura 13.5 Forme di collaborazione e competenze. Fonte: Roberts e Berry (1985). acquisizioni



joint venture



Acquisizioni: queste operazioni rappresentano la modalità più vicina a una transazione di mercato dopo l’acquisizione di licenze. L’acquisizione di un’altra impresa è il modo più rapido per entrare in mercati non familiari e arricchire rapidamente lo stock di conoscenze tecnologiche disponibili. Spesso per superare le difficoltà di valutare l’azienda da acquisire, si realizza un periodo di transizione pre-acquisizione, durante il quale si stringono legami di tipo informale, come le alleanze strategiche, o si dà vita a forme di compartecipazione azionaria più limitate, per valutare fino in fondo il beneficio derivante dall’investimento. Joint venture: prevede un coinvolgimento congiunto dei partner nel controllo giuridico e formale dell’iniziativa di collaborazione, attraverso la creazione di una terza società, distinta dai partner, nella quale gli stessi detengono una quota del capitale. Queste iniziative, se coinvolgono un numero maggiore di partner, sono più comunemente chiamate consorzi. Questo nuovo soggetto giuridico ha come obiettivo specifico l’oggetto stesso della collaborazione, che può quindi essere la realizzazione di un progetto, lo sviluppo di un par-

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo







ticolare prodotto o ancora la commercializzazione di una tecnologia in un’area geografica definita. Le difficoltà di conciliare gli interessi di tutti i partner nel progetto ha indotto gli operatori a definire le cosiddette new style joint venture, che offrono particolari vantaggi poiché vedono coinvolte due entità, una di piccole dimensioni, ma con risorse tecnologiche particolarmente innovative, e una di più grandi dimensioni, con una forte posizione di mercato e le competenze e le risorse necessarie per impostare un piano commerciale per il lancio della nuova tecnologia. Alleanze strategiche: differiscono dalle precedenti soprattutto lungo la dimensione contrattuale, poiché i partner interessati si accordano per lo svolgimento di un determinato progetto senza dare luogo ad alcun soggetto giuridico e neppure, in molti casi, a uno specifico contratto di collaborazione. La formulazione legale della collaborazione rimane a livello di un protocollo di intesa, più o meno dettagliato, ma esplicitamente selezionato per sottolineare la minore formalizzazione e la maggiore flessibilità come elementi fondamentali per attivare la collaborazione. Anche in questo caso è possibile pensare a questa alternativa come una soluzione di carattere transitorio per arrivare successivamente a una maggiore formalizzazione dell’accordo. Acquisizioni educative: descrivono un insieme di operazioni che si sono sviluppate negli ultimi anni come modalità di accesso privilegiato da parte di imprese di medie o grandi dimensioni al patrimonio di idee e tecnologie di imprese di piccole dimensioni o di recente costituzione. L’obiettivo è la costruzione di un legame strategico attraverso l’acquisizione di una quota di minoranza, con eventuale opzione per aumentare la stessa in momenti successivi. La logica è quella di garantirsi la possibilità di interagire in maniera esclusiva con un gruppo di esperti. Un punto fondamentale è la separazione delle attività tra la partecipata e partecipante e l’uso di meccanismi di coordinamento dedicati, per evitare che le differenze nelle caratteristiche organizzative e anche nelle culture delle due imprese possano depauperare la collaborazione. La ricerca di piccole realtà dinamiche e innovative è motivata dalle difficoltà di imprese di più grandi dimensioni, costrette ad agire in una logica di consolidamento del business, nello sviluppo di idee radicalmente nuove. Internal venturing, corporate venture capital e venture capital: queste alternative possono essere considerate come un insieme di opzioni più o meno strutturate in funzione delle specificità del mercato del lavoro interno dell’impresa e della propensione a considerare il coinvolgimento di terzi nello sviluppo di innovazione secondo una logica di portafoglio industriale o finanziaria. L’internal venturing ha quale obiettivo principale quello di recuperare imprenditorialità interna, vale a dire la capacità di generare nuove idee, in grado di aprire nuove opportunità di business, e la capacità di portarle avanti, tramutandole in azioni gestionali concrete dalle quali scaturiscano progetti operativi. Si tratta di una forma alternativa di sviluppo interno di competenze sia tecniche sia commerciali. Numerose grandi imprese, come 3M, DuPont, Motorola, Oracle, Raytheon e Microsoft, hanno avuto buoni successi da questo tipo di operazioni, per le quali rimane comunque fondamentale promuovere l’imprenditorialità come un valore centrale all’interno dell’organizzazione. Il corporate venture capital e il venture capital sono alternative che vengono a supporto di queste iniziative, preoccupandosi delle fasi di selezione e supporto finanziario e manageriale delle iniziative ritenute

alleanze strategiche

acquisizioni educative

internal venturing, corporate venture capital e venture capital

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

percorribili, ricercando opportunità d’investimento sia all’interno dell’impresa sia all’esterno. L’elemento comune a questi due tipi di intervento è il finanziamento in conto capitale di iniziative innovative. Sebbene i due strumenti siano ben sviluppati nei mercati anglosassoni, anche diverse imprese italiane hanno attivato esperienze analoghe, come Olivetti, Pirelli/Telecom Italia ed Enel. La logica che sottende queste operazioni può essere sia prevalentemente strategica, di scouting di nuove tecnologie e di partnership con piccole imprese molto innovative, sia prevalentemente speculativa di crescita del rendimento medio del portafoglio di investimenti in imprese.

forza centrifuga

forza centripeta

La scelta tra le diverse alternative, a questo punto, può essere guidata dalla considerazione che tanto più ci si allontana da ambiti noti e già affrontati, in termini di risorse e competenze, quanto più è opportuno scegliere operazioni nelle quali si rinuncia a una parte del controllo legale della collaborazione, riconoscendo il valore differenziale apportato dal partner come un elemento fondamentale, da preservare organizzativamente puntando sulla separazione della collaborazione dall’attività ordinaria dell’impresa. Tale considerazione porterebbe a selezionare le acquisizioni educative o il corporate venture capital quali modalità particolarmente indicate per progetti innovativi su aree tecnologiche distanti dalle competenze interne e rivolte a mercati sui quali non si è avuto modo di operare. Quando invece la dimensione di novità è prevalente sugli aspetti commerciali o sugli aspetti tecnici, l’alternativa in grado di offrire potenzialmente le migliori condizioni per lo sviluppo e la gestione della collaborazione è legata alla formazione di una joint venture. Forme di internal venturing, inoltre, appaiono indicate in situazioni intermedie, quando le competenze interne sono sufficienti per valutare l’opportunità di appoggiare o meno l’iniziativa e quando le competenze sviluppate lungo la dimensione commerciale possono essere utilizzate come base di partenza. Nel caso di maggiore vicinanza, sia sulla dimensione tecnica sia su quella commerciale dell’innovazione esaminata, è più facile ricorrere a opzioni che favoriscono il controllo interno, sia attraverso acquisizioni d’impresa sia attraverso acquisizioni di licenze. Accanto alle forme citate precedentemente di governo delle transazioni legate alle attività di R&S, in anni recenti si sono affermate alcune modalità alternative in settori, quali quello dello sviluppo del software, in cui l’esigenza di collaborare strettamente con i clienti assume una valenza strategica. Queste modalità si richiamano all’interpretazione della gestione dei processi innovativi, quale la ricerca di un bilanciamento ottimale tra una forza centrifuga, la quale deriva dalla presenza di elementi strutturali e processi che aumentano la qualità e quantità di idee, conoscenze e informazioni cui è possibile accedere all’esterno dell’impresa, e una forza centripeta, che riguarda quelle strutture e quei processi che integrano le idee, le conoscenze e le informazioni disponibili (Sheremata, 2000). Mentre le forze centrifughe agiscono per raccogliere le conoscenze disperse al di fuori dell’organizzazione, quelle centripete trasformano il potenziale innovativo che emerge in azioni rivolte a obiettivi specifici. Le imprese che adottano una logica di sistema chiuso nello sviluppo delle innovazioni evolvono verso una principale finalità, quella di minimizzare i disturbi e le perturbazioni provenienti dall’ambiente esterno per stabilizzare progressivamente il lavoro di sviluppo. In questo modello il controllo e il coordinamento del processo d’innovazione è affidato ai meccanismi della gerarchia. In anni recenti, tuttavia, è stato avanzato un modello di sviluppo dell’innovazione alterna-

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

tivo, chiamato il movimento dell’open source, in origine sviluppato per inserire il contributo dei clienti nel lavoro di R&S e che trova i suoi fondamenti nei meccanismi di mercato per il coordinamento di un processo innovativo distribuito. Il caso dello sviluppo del sistema operativo Linux è emblematico in questo senso, poiché evidenzia il passaggio da una logica, quella di Microsoft, volta a proteggere il know how tecnico, a una legata ai meccanismi d’innovazione distribuita, in cui la rinuncia alla protezione delle conoscenze tecnologiche è controbilanciata dal contributo allo sviluppo apportato da attori esterni che partecipano a una comunità tecnologica aperta. Mentre la prima fattispecie valorizza al massimo le opportunità di appropriazione dei risultati dell’innovazione, limitando al contempo le potenzialità creative del sistema, nel modello dell’open source il sistema, accettando e favorendo il contributo libero di attori esterni, tende a massimizzare la probabilità di introdurre opportunità inattese e di generare caos creativo; in questo secondo caso, tuttavia, la carenza di meccanismi di governo e coordinamento aumenta il rischio di instabilità e, dunque, di incapacità di pervenire a risultati apprezzabili. Il modello dell’open source in questo senso, sebbene valorizzi in modo efficace il contributo di una molteplicità di attori esterni, rischia di essere carente dal lato del governo delle relazioni con tali attori. Per tale motivo, una variante di rilievo è quella della comunità di creazione, che ricerca un corretto equilibrio tra ricorso a fonti esterne e stabilizzazione del numero degli attori esterni, attraverso la selezione e l’accreditamento di un numero, sebbene elevato, limitato di operatori in funzione del loro contributo agli obiettivi dell’impresa. Questa soluzione ricerca un bilanciamento tra crescita del potenziale innovativo e costi per la gestione delle transazioni, attraverso la strutturazione efficace ed efficiente delle relazioni tra i partner al fine di ottimizzare il percorso evolutivo della conoscenza prodotta. Da quanto analizzato, i processi di sviluppo delle innovazioni fanno ampio ricorso alle competenze esterne attraverso modalità alternative di collaborazione con partner nelle attività di R&S. In particolare, si osserva che sebbene in condizioni caratterizzate da incertezza, razionalità limitata e opportunismo, quale ogni relazione nell’ambito della R&S, il modello della gerarchia riduca i costi di transazione, il passaggio alle economie di rete e le motivazioni strategiche inducono il ricorso a una prospettiva finalizzata alla massimizzazione del valore transazionale creato da un network di attori. In questo modo l’eventuale perdita di efficienza dovuta alle transazioni con attori esterni è controbilanciata da una superiore efficacia nella combinazione di risorse e competenze complementari e nel conseguimento degli obiettivi. L’accesso a bacini di competenze esterne all’organizzazione si configura come una soluzione intermedia tra il mercato e la gerarchia che, in funzione del peso delle transazioni e della distribuzione del lavoro tra i membri delle reti, si avvicina a uno dei due estremi indicati, al fine di permettere all’organizzazione considerata una gestione ottimale delle traiettorie evolutive del patrimonio tecnologico. Dall’analisi sin qui svolta emerge ancora la necessità di identificare alcuni principi e strumenti per la gestione operativa delle competenze tecnologiche. In altre parole, le ultime domande cui occorre fornire una risposta risultano essere: sulla base di quali criteri l’impresa gestisce concretamente il portafoglio di iniziative di R&S? Quali sono i principi alla base di una gestione ottimale della singola iniziativa innovativa?

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

Esperienza

Nokia Ventures Organization: lo sviluppo dei programmi di Corporate Venture Capital* Nel 1998 Nokia ha istituito Nokia Ventures Organization (NVO), con l’obiettivo di testare e sviluppare le idee emerse all’interno dell’organizzazione residenti ancora in uno stato embrionale, ma con elevato potenziale di sviluppo. Tale iniziativa nasce essenzialmente per portare alla luce tutte quelle idee di valore che non riescono a emergere autonomamente, ma che restano imbrigliate nelle maglie a volte soffocanti di un’organizzazione così grande e complessa come quella di Nokia. La missione di NVO consiste, dunque, nel cercare tutte le opportunità, intese come idee e progetti, che attualmente sono fuori dai limiti dei business esistenti, ma che possono rientrare nella visione globale di Nokia. Una volta che i progetti sono stati individuati, essi vengono inseriti in NVO per un periodo di incubazione durante il quale NVO agisce in qualità di acceleratore dei processi innovativi e dei processi decisionali, impegnandosi nella ricerca di ogni soluzione in grado di facilitare il lavoro al gruppo e di rimuovere ostacoli quali la mancanza di informazioni, conoscenze, competenze e risorse finanziarie. Arrivati alla fase terminale si decide se investire ulteriormente nel progetto, attraverso il finanziamento di uno spin-off finalizzato alla costituzione di una società autonoma per il lancio di applicazioni sul mercato o attraverso la costituzione di un nuovo business group da reinserire nelle operazioni delle business unit. Nel primo caso la decisione è finalizzata a valorizzare in modo alternativo le competenze tecnologiche sviluppate dal gruppo, che essendo poco allineate all’esistente struttura di business non potrebbero essere sfruttate in modo adeguato attraverso l’inserimento nell’ambito delle operazioni del gruppo finlandese. La decisione, infatti, dipende da una valutazione attenta sulla compatibilità dei risultati del progetto con le tecnologie, i mercati e le strategie che Nokia Corporation intende realizzare. In caso negativo, se il progetto può generare aspettative di cash-flow positivi viene finanziato lo spin-off, altrimenti viene terminato se possibile con il disinvestimento degli asset e delle attività che aveva generato. In caso di spin-off il ritorno economico sarà realizzato attraverso una cessione di quote di capitale o il collocamento in borsa. Da questo progetto embrionale, Nokia ha cominciato a strutturare una serie di elementi nell’ambito dell’organizzazione, con l’intento di fornire all’unità tutti gli strumenti e le condizioni per operare al meglio.

* Materiale di riferimento: Day J., Mang P.Y., Richter A., Roberts J. (2001).

13.5 La gestione operativa: innovare per progetti La gestione delle attività innovative da un punto di vista operativo può essere analizzata impiegando due prospettive differenti, quella del portafoglio di iniziative o progetti su cui l’impresa decide di investire e quella del singolo progetto da realizzare. Da un punto di vista gestionale queste due prospettive fanno riferimento alla visione dell’innovazione quale insieme articolato di progetti caratterizzati da obiettivi specifici tra di loro integrati in un unico disegno strategico comune di sviluppo e valorizzazione del patrimonio tecnologico. Inoltre, pur focalizzandosi su livelli di analisi differenti, condividono l’obiettivo comune di identificare una serie di principi gestionali e tecniche operative che permettano di ottimizzare le performance complessive dei progetti di innovazione, generalmente riconducibili a tre dimensioni chiave. qualità del nuovo prodotto/servizio/processo

1. Qualità del nuovo prodotto/servizio/processo: è definibile in termini generali come il grado di coerenza esistente tra il prodotto e il suo contesto,

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

Tra queste, di particolare rilievo è il sistema di incentivi, che, pur stimolando i fenomeni di internal venturing o imprenditorialità interna, non discrimina tra le risorse coinvolte nelle attività di business e quelle di NVO. Tale scelta consente di evitare fenomeni negativi quali la resistenza alla diffusione nell’organizzazione della conoscenza legata ai progetti innovativi. Uno dei progetti più importanti seguiti da NVO è quello che ha condotto alla costituzione di Nokia Internet Communications (NIC). Inizialmente, NIC era costituita da un gruppo molto ristretto di ingegneri che furono trasferiti dal centro di ricerca all’interno di NVO per continuare a sviluppare da un punto di vista tecnico e commerciale la tecnologia Wireless Application Protocol (WAP). La prima decisione presa da NVO in merito al progetto fu quella di far collaborare strettamente il gruppo di NIC con risorse provenienti dall’unità di business che gestisce la rete e da quella che gestisce i terminali mobili. Sulla base del lavoro svolto da questo gruppo, con la collaborazione anche di risorse esterne, NVO ha poi costituito un’unità di business che genera alcune centinaia di milioni di dollari ogni anno. A tutto ciò occorre aggiungere Nokia Venture Partners (NVP), ovvero un fondo di venture capital che inizialmente ammontava a 100 milioni di dollari, ma che recentemente è stato esteso a 650 milioni di dollari, di cui NVO è general partner, con sede a Menlo Park in California e uffici a Washington, Londra, Helsinki, Hong Kong e Tokyo per mantenere un’attenzione elevata anche su mercati diversi da quello statunitense. Le attività di NVO e di NVP si sostengono e rinforzano reciprocamente. Mentre, infatti, NVO può utilizzare le risorse finanziarie e le competenze dei professionisti di NVP per supportare operazioni di spin-off o per realizzare lo scouting di opportunità di investimento in tecnologie utili per il gruppo, NVP può far leva sulle competenze interne NVO, che sono essenziali per attivare un processo di due diligence tecnica, propedeutica a ogni operazione d’investimento nel capitale di start-up a base tecnologica. Le attività di internal venturing ed external venturing sono così riunite nel felice connubio tra due unità differenti con finalità diverse ma integrate: NVO ha finalità soprattutto strategiche, ovvero di rafforzare la struttura strategica dei business in cui opera Nokia, sostenendo progetti ambiziosi, sviluppando idee che possono portare allo sfruttamento di sinergie con le attività esistenti e stimolando NVP nello scouting di opportunità tecnologiche su cui investire allo scopo di attivare partnership strategiche; NVP ha finalità soprattutto speculative, sostenendo la valorizzazione del patrimonio tecnologico esistente, attraverso il finanziamento degli spin-off e investendo in aziende con prospettive di crescita economico-finanziaria particolarmente brillanti. Grazie anche a questo programma così articolato di corporate venture capital, Nokia è diventata e rimane una delle aziende leader nel settore delle telecomunicazioni a livello mondiale.

dove quest’ultimo è costituito in primo luogo dall’insieme dei clienti e degli utilizzatori. Il concetto di qualità è essenzialmente multidimensionale: mentre alcune delle sue caratteristiche sono facilmente misurabili (tipicamente le prestazioni tecniche, quali la velocità massima di un’automobile o il suo consumo di benzina o la frequenza di un microprocessore), altre sono fortemente qualitative e soggettive (per esempio, l’estetica e lo stile del prodotto), pertanto di difficile quantificazione. 2. Tempi di sviluppo: in genere si fa riferimento al cosiddetto lead-time di sviluppo, ovvero l’intervallo di tempo intercorrente tra la generazione dell’idea di prodotto e la sua effettiva commercializzazione (anche detto time-to-market). La compressione del time-to-market permette di conseguire benefici legati alla possibilità di ottenere un vantaggio di prima mossa nell’introdurre un’innovazione sul mercato e nella capacità di sostenerlo nel tempo grazie a un rinnovo più frequente della gamma prodotti rispetto ai concorrenti. Inoltre, consente di rendere più affidabili e accurate le previsioni circa i bisogni futuri dei consumatori e lo stato

tempi di sviluppo

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

risorse impegnate e i costi dello sviluppo

della competizione, impattando positivamente sulla qualità percepita del prodotto finale. 3. Risorse impegnate e i costi dello sviluppo: ci si riferisce all’ammontare di risorse – umane, tecniche e finanziarie – richieste per portare il progetto dallo stato embrionale di concetto a quello del prodotto finito e commercializzabile. Nei contesti di R&S è tipico calcolare indicatori basati sulle ore-uomo (o mesi-uomo) totali di progettazione richieste per completare il progetto, come misura dell’impegno sul progetto di personale qualificato. I costi per la realizzazione di prototipi e test, delle attrezzature e degli impianti contribuiscono, inoltre, in modo significativo ai costi complessivi dello sviluppo, soprattutto nel caso di prodotti sistemici complessi (per esempio, automobili). La prospettiva incentrata sul singolo progetto interpreta lo sviluppo di innovazione come un processo evolutivo di arricchimento ed elaborazione di informazioni e conoscenze grazie al quale si passa progressivamente da un insieme iniziale di idee generali a un nuovo prodotto/servizio pronto per essere commercializzato, attraverso cicli ripetuti di risoluzione di problemi. La prospettiva incentrata sul portafoglio di progetti parte, invece, dal presupposto che il singolo progetto innovativo non debba essere considerato come un’entità autonoma e separata dal resto dell’organizzazione, ma come parte di un portafoglio. Nei prossimi paragrafi approfondiremo alcuni dei principali elementi evidenziati dalle due prospettive d’analisi.

13.5.1 La gestione del singolo progetto innovativo: modelli a confronto Un progetto innovativo è definibile come la sequenza di attività attraverso le quali i nuovi prodotti, processi o servizi vengono concepiti, progettati, realizzati e introdotti sul mercato.

Nell’approccio individuale le metodologie di gestione dell’innovazione sono articolate attorno al singolo progetto innovativo, definibile come la sequenza di attività attraverso le quali i nuovi prodotti, processi o servizi vengono concepiti, progettati, realizzati e introdotti sul mercato. Gli strumenti gestionali individuati si riferiscono a un insieme di modelli sviluppati con l’intento d’identificare i principi e i meccanismi che costituiscono la base del successo di progetti di sviluppo di innovazione. Si evidenziano in particolare tre principali modelli che si sono succeduti nel tempo: i modelli sequenziali, i modelli integrati e i modelli flessibili allo sviluppo di nuovi prodotti/servizi.6

I modelli sequenziali functionaloriented nascono con l’intento di razionalizzare il processo d’investimento in attività innovative caratterizzate da alti costi ed elevati rischi.

L’approccio sequenziale allo sviluppo di innovazione I modelli sequenziali functional-oriented nascono con l’intento di razionalizzare il processo d’investimento in attività innovative caratterizzate da alti costi ed elevati rischi. Tale sforzo si è tradotto nella suddivisione del processo in stadi di attività

6

Per facilitare l’esposizione, la descrizione successiva presenta i tre modelli separatamente, seguendo l’ordine cronologico attraverso il quale sono stati applicati nella pratica aziendale e quindi formalizzati in letteratura. Si sottolinea comunque come nella realtà è possibile trovare esperienze che incorporano elementi comuni ai diversi modelli. In linea di principio, l’approccio sequenziale sarebbe maggiormente appropriato in contesti relativamente stabili e prevedibili sul piano delle tecnologie, del mercato e della concorrenza, magari modificato da elementi che rafforzino l’integrazione interna ed esterna al crescere della complessità del progetto. L’approccio flessibile risulta più appropriato in contesti fortemente dinamici, caratterizzati da forte incertezza e da un rapido cambiamento sul fronte delle tecnologie e del mercato.

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

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Mesi prima del lancio Avvio del progetto 36 27 Approvazione del programma

18

9

Introduzione sul mercato 0

Concetto Primo prototipo Prog. preliminare Rilascio finale

Ing. di prodotto

Ing. di processo

Produzione pilota

Lancio sul mercato

Ramp-up

Figura 13.6 Le fasi di un progetto di sviluppo di nuovi prodotti. Fonte: adattato da Wheelwright e Clark (1992).

tra loro indipendenti, nella messa a punto di un processo di pianificazione e controllo delle attività e nell’organizzazione delle attività di tipo sequenziale. Il modello così impostato si fonda sulla suddivisione dell’intero progetto in stadi tra loro indipendenti, ciascuno dei quali necessita del ricorso a competenze altamente specializzate tipiche dell’organizzazione funzionale delle attività di sviluppo delle innovazioni. Per esempio, la Figura 13.6 riporta una rappresentazione di un generico progetto di sviluppo di un nuovo prodotto della durata complessiva di 36 mesi in cui si identificano sei fasi tipiche (occorre però sottolineare che non esiste un’unica suddivisione standardizzata, dal momento che ogni organizzazione adotta proprie modalità tipiche, che possono variare a seconda del tipo di prodotto e di progetto). 1. Definizione del concetto di prodotto: in questa fase si cerca di chiarire la personalità del prodotto dal punto di vista del cliente attraverso la generazione di idee alternative e la selezione di un concetto che definisca, in termini ancora approssimati e generali, la forma, lo stile, le caratteristiche tecnologiche e le principali funzioni del prodotto. 2. Progettazione preliminare: in questa fase il concetto è tradotto in specifiche più dettagliate, in termini di struttura, obiettivi prestazionali, costo e investimenti richiesti. Questa fase conduce alla definizione dell’architettura del prodotto e della sua suddivisione in sottosistemi e componenti. 3. Progettazione di dettaglio del prodotto (engineering di prodotto): in questa fase si specificano completamente la geometria, i materiali e le tolleranze dei diversi componenti e sottosistemi del prodotto. Un momento centrale di questa fase riguarda la costruzione dei prototipi del prodotto, sui quali vengono condotte prove e test per individuare difetti, problemi di integrazione, deviazioni rispetto al concetto iniziale e modificare di conseguenza i disegni di partenza.

definizione del concetto di prodotto

progettazione preliminare

progettazione di dettaglio del prodotto

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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progettazione di dettaglio del processo

produzione pilota lancio sul mercato del nuovo prodotto

4. Progettazione di dettaglio del processo (engineering di processo): in questa fase si progettano le attrezzature e i sistemi per la produzione in serie del nuovo prodotto e si definiscono i cicli di lavorazione, i flussi dei materiali ed eventualmente il nuovo lay-out dello stabilimento di fabbricazione. 5. Produzione pilota, per provare e perfezionare quelli che saranno gli effettivi processi e sistemi di produzione e addestrare adeguatamente la forza lavoro. 6. Lancio sul mercato del nuovo prodotto, spesso preceduta da uno stadio di ramp-up, nel quale il prodotto viene reso disponibile in volumi limitati solo a clienti preferenziali, per essere ancora valutato e controllato con attenzione e cautela. La partecipazione delle diverse funzioni aziendali nel processo di sviluppo in questa visione sequenziale varia a seconda dello stato di avanzamento del progetto. Oltre alle figure tecniche impegnate prevalentemente nelle fasi di progettazione di prodotto, il coinvolgimento viene esteso anche alle funzioni marketing (in particolare nelle fasi iniziali di definizione del concetto, per l’analisi delle aspettative del mercato, e in quelle finali per il lancio nel mercato del nuovo prodotto) e tecnologie di produzione (per la progettazione del processo produttivo del nuovo prodotto). La divisione e la specializzazione del lavoro permettono una gestione delle attività altamente professionale e la possibilità di migliorare la performance della singola area del progetto per effetto di economie di specializzazione ed esperienza. Questo modello si è poi evoluto nello Stage-Gate System (Cooper, 2001), ovvero nel modello che sottolinea ulteriormente e valorizza la forte sequenzialità del processo, poiché ogni stadio rappresenta un filtro che permette di decidere se portare avanti il progetto o terminarlo.

cicli integrati di problem solving

gruppi inter-funzionali di progetto

co-design

L’approccio integrato allo sviluppo di nuovi prodotti Questo primo step evolutivo è stato sottoposto a un processo di ulteriore revisione e sviluppo, il quale ha condotto ai modelli integrati d’innovazione, in cui l’accento è posto, appunto, sul valore dell’integrazione tra le differenti unità coinvolte nel processo di sviluppo. Tale modifica di approccio si basa sul riconosciuto ruolo del coordinamento tra unità e fasi, in precedenza separate in modo netto, rispetto alla capacità dei processi innovativi di generare risultati ottimali sul piano della performance operativa. In particolare, il contributo di Clark e Fujimoto (1991), relativamente all’organizzazione del processo di sviluppo prodotto dei principali costruttori di automobili giapponesi (Toyota e Honda) contrapposti ai produttori europei e statunitensi, ha evidenziato il concetto di cicli integrati di problem solving come fattore determinante per lo sviluppo di innovazioni di successo sul piano di tempi, costi e qualità dei progetti intrapresi. La novità rilevante di questi modelli integrati risiede nel passaggio da una prospettiva meramente funzionale a una legata al progetto come unità di riferimento per lo sviluppo del lavoro innovativo. Uno dei presupposti organizzativi consiste quindi nella costituzione di gruppi inter-funzionali di progetto, per permettere ai responsabili delle principali funzioni coinvolte a vario titolo nel processo di sviluppo – marketing, progettazione, industrializzazione, produzione, acquisti, qualità, finanza – di lavorare insieme come una vera squadra fin dalle fasi iniziali del progetto. La partecipazione al gruppo di progetto può inoltre essere allargata ai fornitori strategici, secondo pratiche di co-design. In queste forme avanzate di collaborazione, i fornitori strategici devono disporre di capacità

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

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Strumenti

Il sistema Stage-Gate nello sviluppo di nuovi prodotti Il sistema Stage-Gate rappresenta una metodologia strutturata per pianificare e controllare l’avanzamento efficiente del processo di sviluppo sotto l’aspetto della qualità, in quanto esso viene suddiviso in un insieme prefissato di fasi (Stage), intervallate da momenti di controllo (Gate). Nella maggior parte dei casi di applicazione di questo approccio vengono identificate dalle quattro alle sei fasi principali (nella proposta originale di Robert Cooper si identificano 5 fasi: analisi preliminare; studio di fattibilità; sviluppo; test e validazione di prodotto; lancio), eventualmente scomponibili in un insieme di ulteriori sotto-attività. Non esiste comunque un numero univoco e ottimale di fasi nelle quali scomporre il progetto, in quanto questa decisione deve essere presa tenendo in considerazione il grado di complessità, di novità e prevedibilità dei progetti di sviluppo realizzati dall’impresa. L’avvio di ogni fase viene quindi preceduto da un momento di controllo, nel quale un gruppo composto dai senior manager provenienti dalle diverse aree funzionali coinvolte nel processo valuta i risultati delle attività intraprese nella fase precedente sulla base di un insieme di criteri predefiniti, per poi decidere se proseguire nello sviluppo del prodotto e definire quindi i risultati attesi dalla fase successiva. Le decisioni tipiche che vengono prese in ogni Gate sono pertanto di tipo Go (continuare il lavoro sul progetto, facendolo avanzare verso la fase successiva), Kill (interrompere il progetto, sospendendolo o cancellandolo) o Hold (recuperare ulteriori informazioni e riconsiderare il progetto allo stesso “Gate” una volta che queste sono disponibili). Per esempio, nella Divisione Construction Equipment di CNH, la società del Gruppo Fiat specializzata nella commercializzazione di macchine movimento terra e macchine per l’agricoltura, lo sviluppo dei nuovi prodotti nel 2004 seguiva un processo Stage-Gate costituito da 5 fasi principali (sviluppo del concetto; analisi di fattibilità; ottimizzazione; verifica; implementazione) e 8 momenti di controllo. Per permettere una valutazione chiara e oggettiva il management di CNH aveva elaborato una lista di controllo (check-list) contenente risultati attesi per ciascuna milestone. La documentazione relativa alla procedura di valutazione per ogni momento di controllo conteneva anche una matrice predefinita, denominata DOA (Delegation Of Authority), che illustrava i ruoli organizzativi delegati all’approvazione delle milestones, in funzione della dimensione finanziaria del progetto e del tipo di milestone. La rigidità dei metodi e degli strumenti che derivano dall’approccio sequenziale allo sviluppo di innovazione genera però una serie di debolezze che sono state rilevate dalla letteratura della seconda metà degli anni ’80. In particolare, la separazione in stadi e il percorso sequenziale rendono possibile la specializzazione funzionale, ma limitano la possibilità di considerare i legami reciproci tra fasi successive e, inoltre, presuppongono che le informazioni necessarie siano univoche e chiaramente disponibili. Nella realtà l’ambiguità e l’incertezza che caratterizza il lavoro di R&S non permettono una visione così razionalistica e univoca delle attività innovative. Tali rilievi hanno indotto alcune modifiche nell’approccio tradizionale, che risalgono per lo più all’introduzione del principio del lavoro in parallelo, o concurrent engineering, che rende possibile l’attivazione di circuiti di feedback tra le diverse attività e risorse. Tali principi sono poi stati incorporati in modo sistematico nei modelli integrati allo sviluppo dei nuovi prodotti, formalizzati nel corso degli anni ’90.

tecnologiche autonome per contribuire in modo significativo alla progettazione e all’ingegnerizzazione dei nuovi prodotti dell’impresa cliente. L’integrazione inter-funzionale può poi essere ulteriormente rafforzata dalla collocazione in un’unica sede di tutti i membri chiave del progetto, in modo da favorire i processi di comunicazione diretta, confronto e presa di decisioni. Un esempio significativo è fornito da Renault, che dal 1998 ha riunito in un unico complesso appositamente costruito vicino a Parigi, il Technocentre, più di 7500 ingegneri e tecnici impegnati nel processo di sviluppo di nuovi prodotti (tra cui più di un migliaio esterni all’impresa, per la maggior parte fornitori), che in precedenza erano dispersi in più di 50 luoghi diversi.

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

concurrent engineering

Il ricorso a gruppi inter-funzionali, eventualmente allargati ai fornitori chiave, può indurre una serie di benefici sostanziali nello sviluppo di innovazione (Brown ed Eisenhardt, 1995; Clark e Fujimoto, 1991). Innanzitutto, permette di aggregare un insieme variegato di competenze che non si potrebbero trovare in una singola area disciplinare. Inoltre, attiva una rete di relazioni con le diverse funzioni e attori esterni attraverso la quale è possibile apportare una maggiore varietà e quantità d’informazioni all’interno del gruppo, rendendo più semplice la sovrapposizione delle attività e il trasferimento del lavoro da una fase all’altra. Infine, consente di individuare in anticipo alcuni problemi di integrazione – come la mancata comprensione delle esigenze del cliente da parte dei tecnici o le difficoltà di produzione dei componenti da parte dei fornitori derivanti da scelte progettuali inadeguate – che diversamente si manifesterebbero in una fase più avanzata del processo e sarebbero ben più complessi e costosi da risolvere. Un ulteriore elemento fondamentale nell’organizzazione del lavoro innovativo secondo l’approccio integrato consiste nella parallelizzazione e sovrapposizione delle attività poste su fasi diverse del processo, pratica anche nota come concurrent engineering. Per esempio, la sovrapposizione temporale può richiedere che i cicli di costruzione dei prototipi e di esecuzione dei test inizino quando ancora le specifiche di prodotto devono essere congelate, o, analogamente, che l’ingegnerizzazione di processo inizi quando ancora si stanno eseguendo i test sui prototipi. L’obiettivo dello sviluppo simultaneo del prodotto e dei processi produttivi è quello di considerare sin dalle fasi iniziali tutti gli aspetti del ciclo di vita del progetto, cercando di anticipare e affrontare in modo collegiale le principali decisioni che riguardano in modo trasversale le diverse unità coinvolte. Questa sovrapposizione può portare alla compressione dei lead-time complessivi di sviluppo, ma acuisce al tempo stesso l’incertezza delle previsioni e rende più stretta l’interdipendenza fra le diverse fasi. È quindi necessario che le pratiche di concurrent engineering siano supportate da strutture e processi organizzativi che rafforzino le interazioni e intensifichino lo scambio di informazioni tra le unità coinvolte nel processo, rendendolo più ricco, frequente e puntuale. Si richiede quindi che le diverse funzioni coinvolte si scambino il prima possibile informazioni preliminari, in quanto non definite ancora con precisione oppure potenzialmente soggette a ulteriori cambiamenti in futuro. È inoltre necessario che aumenti la frequenza e la ricchezza dello scambio informativo e che questo assuma natura bi-direzionale, attraverso iterazioni e confronti continui per arrivare a decisioni condivise secondo una logica di ottimizzazione congiunta. Le moderne tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione a supporto dei processi di progettazione e sviluppo, come i sistemi CAD-CAM (Computer Aided Design/Computer Aided Manufacturing) o i software di Product Data Management, hanno un impatto enorme sulla capacità del gruppo allargato di lavorare secondo una logica di concurrent engineering, per almeno due motivi: favoriscono la condivisione delle informazioni e il coordinamento tra i diversi attori coinvolti nel processo di sviluppo, interni ed esterni all’azienda; permettono poi di apportare correzioni immediate al progetto, grazie alla possibilità di effettuare numerosi cicli di sperimentazione su modelli virtuali del prodotto (Thomke, 2003). Le principali imprese multinazionali operanti in settori tecnologicamente avanzati, come l’aereospaziale, l’automobilistico o l’elettronico, ricorrono per esempio sempre più diffusamente a sistemi CAD accessibili dai propri fornitori che permettono a gruppi di progettazione geograficamente dispersi, anche in diverse nazioni, di condividere disegni e dati tramite la rete Internet.

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

L’approccio flessibile allo sviluppo di innovazione Le soluzioni precedenti, in larga parte emerse all’interno dell’industria automobilistica (Clark e Fujimoto, 1991; Thomke, 2003), sono state poi adottate da un ampio spettro di imprese e settori, mostrando la loro validità soprattutto in contesti stabili e maturi, nei quali il processo di sviluppo di nuovi prodotti può essere concepito come una sequenza di attività magari assai complesse, ma relativamente definite e prevedibili. Più recentemente, a partire dalla fine degli anni ’90, numerosi studi incentrati su settori ad alta tecnologia – quali lo sviluppo software, le applicazioni e i servizi per Internet, gli apparati di telecomunicazioni, l’informatica, i semiconduttori – hanno invece evidenziato una serie di pratiche particolarmente efficaci in contesti fortemente dinamici e turbolenti, nei quali cambiamenti significativi e non prevedibili sul fronte delle tecnologie, del mercato e della concorrenza possono emergere nel corso dello stesso progetto (MacCormack et al., 2001). Le esperienze di imprese di successo, quali Microsoft, Intel, Dell, Yahoo! e Google, dimostrano che in contesti dinamici il processo di sviluppo di nuovi prodotti dovrebbe diventare maggiormente flessibile, per essere in grado di adattarsi rapidamente e a costi limitati a variazioni del contesto esterno, che possono presentarsi anche a ridosso delle fasi finali di lancio sul mercato. Una prima condizione per gestire il processo di sviluppo di nuovi prodotti in modo flessibile consiste nell’eseguire numerose e frequenti iterazioni progettuali, intendendo con questo la ripetizione frequente del ciclo di progettazione, costruzione del prototipo, esecuzione di test e prove. Per farlo è necessario adottare un approccio sperimentale, arrivando a costruire in tempi rapidi un primo prototipo, fisico o virtuale, che, anche se ancora incompleto dal punto di vista funzionale, permetta almeno di definire l’essenza del prodotto. Si consideri, per esempio, il caso del browser Internet Explorer 3.0 sviluppato da Microsoft a metà degli anni ’90 per entrare nel nuovo mercato delle applicazioni per Internet. La prima versione funzionante del nuovo prodotto (alpha release), rilasciata internamente all’azienda per essere testata da parte dei dipendenti, conteneva solo il 30% di quelle che sarebbero divenute le funzionalità finali del prodotto, ma permise comunque di ottenere importanti commenti sul suo funzionamento. La prima beta release rilasciata all’esterno includeva fino al 70% delle funzionalità finali, mentre la seconda circa il 90%. Lungo tutto il processo i team di sviluppo furono in grado di incorporare velocemente le nuove informazioni per modificare il prodotto, che in tal modo fu influenzato sostanzialmente dai suggerimenti degli utilizzatori (MacCormack, 2001). L’esempio riportato suggerisce che un’altra condizione fondamentale per perseguire l’adattamento rapido nel corso del processo di sviluppo risiede nel coinvolgimento diretto, continuo e attivo dei clienti nel progetto (si parla in questi casi di customer-driven innovation). Nell’approccio flessibile, infatti, i clienti non sono contattati solo all’inizio del progetto, in fase di analisi e definizione dei bisogni, ma intervengono anche negli esperimenti condotti nelle fasi più avanzate per fornire un feedback immediato su estetica, funzionalità e prestazioni di prodotto. Inoltre, la voce del cliente entra direttamente nel progetto, senza essere mediata dalla funzione marketing, per esempio grazie alla partecipazione di clienti pilota al team di progetto nel caso di beni industriali o, nel caso di beni destinati al consumatore finale, sfruttando la rete Internet per recuperare idee, suggerimenti, critiche e commenti dai propri clienti in modo efficiente e puntuale. A tale proposito, si considerino gli esempi dei modelli open

frequenti iterazioni progettuali

coinvolgimento diretto, continuo e attivo dei clienti

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

architetture di prodotto modulari

source di sviluppo software, dove gli stessi utilizzatori possono accedere al codice sorgente per apportare modifiche sostanziali attraverso l’aggiunta di nuovo codice, l’aggiunta di nuove funzionalità o la risoluzione di errori. Oppure l’esperienza del sito web dedicato alla nuova Fiat 500, attivato dalla casa torinese diversi mesi prima del lancio sul mercato del nuovo modello. Il sito conteneva un video configurator che consentiva di personalizzare a piacere il proprio modello virtuale di Fiat 500 selezionando colori, tessuti, optional, per un totale di quasi 500. 000 opzioni diverse. Grazie al grande successo del sito, l’azienda fu in grado di inserire nel nuovo modello di automobile una serie di idee innovative proposte direttamente dagli utilizzatori. Questo ultimo esempio illustra bene come le imprese possano ottenere un enorme contributo di idee, suggerimenti e critiche costruttive dalle comunità di utilizzatori e clienti per alimentare il processo di sviluppo di innovazione (Tapscott e Williams, 2006). Imprese appartenenti a settori molto diversi, come Barilla, Lego, Snaidero, Starbucks, Google e Microsoft, solo per citare alcuni nomi, utilizzano in modo estensivo siti web dedicati, blog e online communities per ottenere input importanti per lo sviluppo di nuovi prodotti, processi e servizi. Non da ultimo, occorre sottolineare come le imprese che operano in contesti soggetti a cambiamenti rapidi debbano essere in grado di incorporare nel nuovo prodotto in modo economico, veloce e protratto nel tempo la nuova conoscenza generata nei diversi cicli di progettazione. In altre parole, è necessario che il modello concettuale del prodotto possa evolvere il più possibile nel corso del progetto, per effettuare cambiamenti sostanziali anche molto tardi senza che questo comporti significativi ritardi a cascata. Le scelte relative all’architettura di prodotto hanno un’importanza fondamentale per potere garantire la modificabilità in fasi avanzate (Munari e Zamarian, 2004). Si possono infatti conseguire benefici significativi ricorrendo ad architetture di prodotto modulari, nelle quali il prodotto è suddiviso in parti (moduli) indipendenti che implementano singole funzioni e tali da essere sviluppate autonomamente grazie alle definizione di interfacce standard. La definizione di un’architettura modulare può essere d’aiuto nell’isolare i cambiamenti sviluppati all’interno di un singolo modulo dal resto del sistema. In questo modo diventa possibile effettuare un cambiamento sostanziale di un modulo anche in una fase molto avanzata del progetto, senza dovere contemporaneamente intervenire sul resto del prodotto. Per esempio, il sistema operativo Linux, sviluppato secondo il modello Open Source, è fondato su una progettazione modulare e scalabile del codice, essenziale per permettere lo sviluppo parallelo e decentralizzato del progetto attraverso l’introduzione successiva di nuove linee di codice da parte dell’ampia comunità di programmatori.

13.5.2 Il multi-project management I concetti esposti evidenziano una prospettiva del lavoro innovativo fortemente legata alla gestione dei flussi d’informazione intra– e inter-unità; la stessa progettazione delle soluzioni organizzative si basa sull’analisi dei fabbisogni informativi e di comunicazione. Tale principio, inizialmente applicato in una logica sequenziale e intra-funzionale, si è andato a evolvere nel tempo verso uno sviluppo delle operazioni secondo un modello simultaneo e inter-funzionale basato sul lavoro project-oriented. L’inasprimento delle condizioni competitive, tuttavia, ha reso questo approccio focalizzato sul singolo progetto e fortemente legato al ruolo

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

dell’informazione, poco adatto a fornire strumenti validi per la gestione delle traiettorie evolutive delle competenze tecnologiche nei business a base tecnologica. Nella seconda metà degli anni ’90, pertanto, diversi contributi erano rivolti alla ricerca di nuovi approcci per contrastare la sempre maggiore pressione competitiva sui centri di sviluppo delle innovazioni. Tali tentativi hanno condotto a quello che abbiamo definito l’approccio multi-project. L’elemento distintivo di tale approccio consiste nella convinzione che la sostenibilità o riproducibilità dei vantaggi competitivi derivano da una costante ricerca di successi ripetuti nell’ambito di un intero programma di innovazioni, che si sviluppa nel tempo in modo coordinato e pianificato. I limiti dei modelli tradizionali possono essere riassunti nell’eccessiva focalizzazione degli sforzi e delle attività su un unico progetto innovativo. Tale fattore determina almeno due conseguenze: l’insorgere di un elevato rischio di indirizzare le attività innovative verso obiettivi che non derivano in maniera completa dalla visione strategica dell’impresa; l’emergere di elevati costi nello sviluppo a causa della mancata valorizzazione di sinergie e interdipendenze che potrebbero invece essere sfruttate tra progetti diversi. Al fine di risolvere queste difficoltà, nell’approccio multi-project il focus viene spostato dal singolo progetto all’intero portafoglio di progetti di sviluppo, cercando di evidenziare le interrelazioni tra progetti paralleli o posti in una sequenza di tipo longitudinale, che permettono la condivisione di componenti di conoscenza tecnica (De Maio et al., 1994). Il progetto cessa così di essere un’entità autonoma per divenire parte di un portafoglio coerente e bilanciato, in cui i diversi progetti sono collegati da interdipendenze o complementarità negli orizzonti strategici e temporali, condividono tecnologie e risorse, e sono gestiti come parte di un flusso, che lega i progetti presenti a quelli passati e futuri. A seguito di questo passaggio di prospettiva, dunque, le attività di sviluppo di nuovi prodotti vengono concepite come un investimento in conoscenza e competenze a livello d’impresa con un orizzonte di lungo periodo, che va oltre il singolo progetto e il singolo prodotto. Da qui discende il ruolo chiave della pianificazione del portafoglio progetti di innovazione, ovvero l’insieme di attività che, prendendo in esame l’intero spettro di possibili progetti di interesse per l’azienda, seleziona un numero ristretto di prodotti da sviluppare in uno specifico arco temporale e ne definisce il contenuto innovativo. Essa ha le finalità di fornire un indirizzo strategico al processo di sviluppo, guidando la selezione dei progetti e le decisioni di allocazione delle risorse. Un primo requisito consiste nell’articolare chiaramente le linee di indirizzo strategico dell’impresa lungo la dimensione tecnologica e commerciale, in modo tale da assegnare diversi livelli di priorità ai progetti e guidare l’assegnazione delle risorse agli stessi. È stato messo a punto un insieme variegato di strumenti e tecniche per supportare le decisioni di valutazione e selezione dei progetti d’innovazione in una logica di portafoglio, in riferimento a parametri quali il ritorno finanziario, il rischio tecnico, l’attrattività del mercato, il grado di novità delle tecnologie. Il box Strumenti riporta a titolo d’esempio la matrice di portafoglio rischio-rendimento, che consente una mappatura dei progetti lungo tre dimensioni chiave: il rendimento atteso, il livello di rischio connesso e l’ammontare di risorse richieste. Qualora il processo di scelta non soddisfi il decisore, egli potrà intervenire modificando la dotazione di risorse, ridefinendo i progetti e dunque modificandone le tre dimensioni principali e, infine, modificando il grado di avversione al

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approccio multi-project La sostenibilità o riproducibilità dei vantaggi competitivi derivano da una costante ricerca di successi ripetuti nell’ambito di un intero programma di innovazioni, che si sviluppa nel tempo in modo coordinato e pianificato.

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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Strumenti

La selezione dei progetti: la matrice di portafoglio rischio-rendimento La selezione delle iniziative da avviare e che devono essere inserite nel portafoglio dei progetti in realizzazione risulta un compito assai rilevante poiché in presenza di risorse scarse o comunque limitate comporta la scelta di progetti da attivare e progetti da scartare. Tale selezione può essere effettuata attraverso una matrice rischio-rendimento, in cui ogni progetto è identificato lungo tre dimensioni: 1.

2.

3.

rendimento: è il valore generato dal progetto, stimabile in termini di valore economico-finanziario apportato o più semplicemente in relazione all’impatto sulla competitività dell’impresa e sul valore strategico del patrimonio tecnologico; rischio: è associato a ciascun progetto, misurabile in linea generale attraverso il grado di variabilità associato al rendimento atteso del progetto e che nello specifico può riferirsi alla variabilità legata ai costi, ai ricavi futuri da prodotti o licenze, ai lead-time di progetto, al valore dei brevetti che esso genera e alle quote di mercato dell’impresa; risorse impegnate: è l’ammontare di risorse investite, in termini di ore-uomo, di ricercatori e progettisti o valore economico-finanziario dell’investimento.

Le tre dimensioni sono poi riunite in un’unica matrice (Figura 13.7), i cui assi sono rappresentati dal rischio e dal rendimento, mentre la terza dimensione, quella delle risorse, è rappresentata in scala attraverso l’ampiezza dei cerchi che identificano ciascun progetto. Nella figura, inoltre, si osserva che una prima tipologia di vincoli consiste nell’identificare un livello minimo di rendimento accettabile e un livello massimo di rischio sostenibile. La considerazione dei due vincoli permette di restringere il campo e di escludere alcuni progetti che appaiono esterni all’area della matrice di maggior interesse per l’azienda. Un secondo vincolo è quello delle risorse disponibili, che viene rappresentato come una retta che divide in due porzioni la matrice, quella in alto a sinistra che contiene i progetti da accettare e inserire nel portafoglio gestito e quelli alla destra della retta, che non possono essere accettati. La retta del vincolo delle risorse è costruita come una curva di utilità lineare, la cui inclinazione misura il grado di avversione al rischio del decisore. La retta viene inserita nella matrice partendo dall’angolo in alto a sinistra, che identifica un’area di alta rilevanza e basso rischio e, pertanto, i progetti maggiormente at-

rischio, ovvero decidendo di sopportare un profilo di rischio complessivamente più alto o più basso. Un ulteriore elemento caratterizzante l’approccio multi-project riguarda lo sforzo consapevole e pianificato di collegare l’insieme dei progetti sia dal punto di vista tecnologico, attraverso la progettazione di una base comune di componenti, sia dal punto di vista organizzativo, attraverso la sovrapposizione delle responsabilità e del lavoro dei project manager e dei singoli ingegneri. Una prima applicazione nella gestione di tali relazioni è l’effetto carry over longitudinale o trasversale tra progetti, che permette lo sfruttamento e il riutilizzo della conoscenza in numerose iniziative. La considerazione di tali relazioni porta a formulare le seguenti tipologie di politiche di gestione del portafoglio di progetti (Nobeoka e Cusumano, 1997): new design



rapid design transfer



new design: è finalizzato allo sviluppo di nuove conoscenze senza alcuna base conoscitiva di partenza, cioè attraverso una progettazione totalmente innovativa; questa politica non realizza alcun effetto carry over; rapid design transfer: in esso la conoscenza tecnologica viene trasferita a un altro progetto ancora prima del termine del progetto-sorgente;

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

Rischio Basso

Alto

Vincolo di risorse

Rilevanza

Alta

Portafoglio selezionabile

Bassa

Ymin: minima rilevanza accettata

Xmax: massimo rischio accettato

Figura 13.7 Matrice rischio-rendimento. Fonte: adattamento da De Maio et al., 1994.

trattivi, e viene trascinata verso l’angolo opposto, che indica un’area progressivamente meno attrattiva poiché caratterizzata da alto rischio e basso rendimento. In questo movimento la retta incontra progressivamente i progetti in ordine di utilità decrescente, arrestandosi in corrispondenza della saturazione delle risorse. In questo senso la retta identifica il portafoglio selezionabile.

• •

sequential design transfer: in cui il trasferimento avviene solo al termine del progetto in cui la conoscenza è stata prodotta; design modification: è finalizzata a un processo di innovazione incrementale a partire da una base originaria, che si sviluppa nel tempo attraverso limitate modifiche di design durante il ciclo di vita.7

Un esempio concreto di applicazione di politiche di carry over è rappresentato da Renault, che ha concepito il modello della nuova automobile low-cost Logan con l’obiettivo principale di contenere al massimo i costi, in modo da proporre sul mercato una vettura particolarmente economica (gli annunci iniziali di Renault prevedevano un prezzo di vendita della Logan a 5000 Euro). Per questo 7

Nel loro studio Nobeoka e Cusumano (1997), attraverso un’indagine di una popolazione di 210 progetti di sviluppo realizzati da 17 imprese produttrici di automobili, osservano che la strategia di carry over tra progetti parzialmente sovrapposti (cioè il rapid design transfer) risulta quella che ha i maggiori effetti positivi sul time to market dei nuovi prodotti, sull’efficiente utilizzo delle risorse di progettazione e sulla crescita del volume di fatturato.

sequential design transfer design modification

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

piattaforme o famiglie di prodotto

motivo, il nuovo modello ha ereditato la quasi totalità dei componenti principali da modelli precedenti Renault, per limitare la riprogettazione di nuove parti e i costi di sviluppo: il pianale e buona parte della meccanica erano presi dalla Clio II, mentre i motori erano già stati sviluppati per i modelli Kangoo e Clio. Le politiche che sfruttano in vario modo il carry over, inoltre, assumono il loro massimo valore se combinate con piattaforme o famiglie di prodotto, che, definendo popolazioni di progetti raggruppati per omogeneità di obiettivi, risorse, vincoli e conoscenze tecnologiche di base, permettono di evitare le difficoltà nella fase di replicazione e riutilizzo della medesima conoscenza da un progetto a un altro. La piattaforma di prodotto è definibile come un insieme di sottosistemi e relative interfacce che formano una struttura comune dalla quale è possibile sviluppare e produrre in modo efficiente prodotti distinti per servire diversi segmenti di mercato (Meyer e Lenherd, 1997). I benefici ottenibili dall’adozione dell’approccio per piattaforme riguardano la possibilità di: • • • • •

realizzare in modo efficiente e rapido un’ampia gamma di prodotti distinti che soddisfino i bisogni di specifici segmenti di mercato; ridurre i costi di produzione, grazie alla realizzazione su larga scala di componenti e moduli condivisi; ridurre i tempi e i costi dello sviluppo di nuovi prodotti, facendo leva su componenti e moduli già definiti; ridurre i costi di gestione dei materiali e delle scorte, della logistica, delle vendite e dell’assistenza al cliente grazie alla riduzione del numero di parti e processi; ridurre i rischi, limitando gli investimenti necessari per lo sviluppo e la produzione dei nuovi modelli.

Per raggiungere questo tipo di benefici, per esempio, la pianificazione dei modelli di automobile Fiat per il periodo 2007-2010 prevedeva un intervento sostanziale nella strategia di standardizzazione e condivisione di piattaforme comuni di prodotto. Era prevista una progressiva riduzione nel corso del tempo del numero di architetture di base di prodotto, dalle 19.00 del 2006 alle 11.00 del 2012, associata a un incremento del numero medio di modelli derivabili da ciascuna architettura (da 1,7 ai 3,7) e dei volumi di produzione medi ottenibili da una stessa architettura. Uno strumento fondamentale in fase di pianificazione delle piattaforme è la mappa di prodotto (o il piano di prodotto), che riporta la distribuzione nel tempo dei prodotti dell’impresa raggruppati per piattaforma, evidenziando i collegamenti tra le generazioni successive (Figura 13.8). Oltre a fornire una rappresentazione della tempistica pianificata dei prodotti e dei rispettivi collegamenti, la mappa di prodotto permette di sintetizzare anche altre informazioni rilevanti, per esempio i distinti segmenti di mercato a cui si indirizzano i nuovi modelli oppure il dettaglio dei componenti o sottosistemi critici su cui si è progressivamente intervenuti. È importante però sottolineare anche i rischi connessi a uno sfruttamento eccessivo di architetture o componenti comuni. Questi risiedono principalmente nel pericolo di limitare le prestazioni del prodotto, soprattutto per quanto riguarda la perdita di distintività del prodotto agli occhi del consuma-

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

Piattaforma di Generazione 1 prodotto originale della famiglia di prodotto Sviluppo della Prodotto derivato 1 Prodotto derivato 2 piattaforma Prodotto derivato 3 Programma di generazioni multiple Estensione della piattaforma

Definizione di una nuova architettura di prodotto. Si utilizzano alcuni sottosistemi delle vecchie piattaforme, e si integrano nuove tecnologie per raggiungere nuovi livelli prezzo/performance e nuovi mercati

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tempo

Generazione 2 della famiglia di prodotto Prodotto derivato 1 Riduzione di costi e aggiunta di nuove Prodotto derivato 2 caratteristiche di prodotto, così come . . . Prodotto derivato N nuove applicazioni di mercato

Nuova piattaforma Generazione 3 di prodotto della famiglia di prodotto Prodotto derivato 1 Prodotto derivato 2 . . . Prodotto derivato N

tore finale, o di rallentare l’avanzamento tecnologico dei modelli derivati. Riguardo al primo punto, è dunque opportuno cercare di enfatizzare il ricorso alla standardizzazione soprattutto per quei componenti che rimangono invisibili al cliente finale e non pregiudicano, quindi, l’immagine di differenziazione di prodotto. Infine, al concetto di piattaforma di prodotto può essere aggiunto il ricorso alla shelf of innovation, che consente di costituire un archivio di invenzioni e innovazioni attualmente non impiegate poiché non adatte alle condizioni dei mercati, ma che potranno essere recuperate per progetti futuri. Occorre però prestare attenzione ai possibili contrasti che possono nascere tra la costituzione di una shelf of innovation e la definizione delle piattaforme di prodotto, a causa della mancanza di organicità e sistematicità dei progetti realizzati per soluzioni da porre on the shelf.

Figura 13.8 La mappa del prodotto: rinnovo della piattaforma e lancio di nuovi prodotti. Fonte: Maver e Lenherd (1997)

shelf of innovation

Sintesi Nel capitolo sono stati affrontati gli aspetti più importanti della gestione strategica dell’innovazione tecnologica. Dapprima vengono illustrati i concetti di base, necessari per la definizione del fenomeno e per la comprensione delle sue dimensioni, nonché delle problematiche in ottica gestionale. Un elemento centrale nell’analisi strategica delle opportunità di investimento nelle nuove tecnologie è la difesa dei benefici economici derivanti dall’innovazione. Si analizzano, quindi, i vantaggi del primo entrante e gli strumenti per la protezione dell’innovazione, nonché l’importanza delle risorse complementari e degli standard tecnologici come condizione strategica per un completo sfruttamento delle rendite derivanti dall’innovazione. Il capitolo prosegue evidenziando il rapporto tra innovazione tecnologica e strategia d’impresa, partendo dalle problematiche legate al ciclo di vita delle tecnologie e proseguendo con la definizione di strategie di sviluppo volte alla valorizzazione dell’insieme di risorse e competenze tecnologiche possedute dalla singola impresa. Le traiettorie evolutive che guidano la gestione dinamica del patrimonio tecnologico si fondano sull’acquisizione

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Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

di conoscenze tecnologiche da fonti interne ed esterne; per questo vengono analizzati sia i riflessi sull’organizzazione sia le modalità e le caratteristiche della collaborazione nella R&S. L’ultima parte del capitolo descrive una serie di principi gestionali e tecniche operative che permettono di ottimizzare la gestione dei progetti di sviluppo di innovazione. Si presenta dapprima un insieme di soluzioni organizzative che sono state associate nella prassi aziendale e nelle ricerche accademiche alla progettazione efficace di nuovi prodotti e servizi. Successivamente, l’unità di analisi si sposta dal singolo progetto al portafoglio di progetti di sviluppo nuovi prodotti, per discutere le fondamenta strategiche, organizzative e tecnologiche della gestione multiprogetto.

Domande ed esercizi Domande di verifica 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16.

17.

18.

Qual è il concetto di innovazione tecnologica? Quali sono le fonti dell’innovazione? In quale misura l’innovazione va considerata un fenomeno esogeno o endogeno all’attività dell’impresa? Che cosa si intende con innovazioni radicali e innovazioni incrementali? Qual è la relazione tra innovazione di prodotto e di processo? Qual è il ruolo della dimensione tecnica dell’innovazione? Qual è il concetto di regime di appropriabilità dell’innovazione? Qual è il ruolo delle risorse complementari nel trarre rendimenti dall’innovazione? Qual è l’obiettivo della mappa di transilenza nell’analisi strategica dell’innovazione? Qual è l’obiettivo della matrice di Henderson e Clark nell’analisi strategica dell’innovazione? Quali strategie l’impresa può perseguire nello sviluppo del patrimonio tecnologico? Quali strategie l’impresa può perseguire nella valorizzazione del patrimonio tecnologico? Quali sono l’obiettivo e le modalità d’implementazione della matrice di portafoglio rischio-rendimento? Quali sono le problematiche da affrontare nelle collaborazioni per la R&S? Illustrare il fenomeno dei costi di transazione con riferimento alle attività di R&S. Illustrare le diverse modalità di collaborazione nello sviluppo di innovazione attraverso la matrice di Roberts e Barry. Quali sono gli elementi essenziali che caratterizzano i modelli functional-oriented nella gestione dei progetti d’innovazione? Quali sono gli elementi essenziali che caratterizzano i modelli sequenziali modificati e integrati nella gestione dei progetti d’innovazione?

19. Quali sono gli elementi essenziali che caratterizzano i modelli flessibili nella gestione dei progetti d’innovazione? 20. Qual è l’impatto dell’innovazione tecnologica sugli equilibri competitivi? 21. Quale strategia appare più efficace nel fronteggiare situazioni di discontinuità o dinamica tecnologica? 22. Qual è l’impatto dei cambiamenti nella base tecnologica sulla struttura dei profitti dei diversi attori coinvolti dall’innovazione? 23. Qual è il significato di standard tecnologico? 24. Quale ruolo riveste nella strategia competitiva?

Test a risposta multipla 1.

Il lead time di sviluppo: ▫ a. misura l’intervallo di tempo che intercorre tra la progettazione preliminare e la progettazione di dettaglio. b. misura l’intervallo di tempo che intercorre tra lo ▫ sviluppo da parte di un’impresa di un prodotto e di quello successivo. c. misura l’intervallo di tempo tra la generazione ▫ dell’idea di prodotto e la sua effettiva immissione sul mercato finale. d. misura l’intervallo di tempo tra l’affermazione di ▫ uno standard tecnologico e la sua effettiva adozione da parte di un’impresa.

2.

Quale tra le seguenti affermazioni circa l’utilizzo dei brevetti come misura dell’attività innovativa delle imprese è falsa? ▫ a. La proteggibilità delle invenzioni garantita dal sistema brevettuale varia in modo significativo a seconda del settore e del Paese oggetto d’analisi. b. I brevetti rappresentano un indicatore efficace dei ▫ risultati derivanti dalle attività di ricerca di base dell’impresa.

Capitolo 13 L’innovazione tecnologica e il vantaggio competitivo

▫ c. I brevetti variano significativamente tra di loro per il valore tecnologico ed economico delle invenzioni sottostanti. ▫ d. Le citazioni ricevute dai brevetti possono essere usate per misurare la loro qualità relativa. 3.

Che cosa si intende per disegno dominante? ▫ a. Il design di prodotto che viene selezionato al termine della fase di definizione di concetto nell’ambito dei progetti di sviluppo di nuovi prodotti.

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▫ b. Una soluzione architetturale che stabilisce un punto di riferimento inequivocabile in una classe di prodotto o processo. ▫ c. Uno standard de jure definito da appositi comitati. ▫ d. Un insieme di sottosistemi che costituiscono una base comune condivisa da diverse varianti di prodotto.

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530

Parte II La gestione aziendale in chiave strategica

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Sul sito www.ateneonline.it/n/fontana5e sono disponibili le soluzioni e il test interattivo

Indice analitico

A

C

acquirenti, 23 affidabilità, 447 alleanze, 136 – strategiche, 136 – tattiche, 136 alleanze strategiche, 137 – ciclo di vita delle, 137 – condizioni di successo delle, 138 ambiente, 10, 30, 99 – competitivo, 10, 30, 99 – esteso, 10 ambiente competitivo, 11 – specifico del business, 11 ammortamento, 430 arbitraggio, 361 Area Strategica di Affari (ASA), 226 Assembly To Order, 412 associazioni di rappresentanza, 25 attributi soglia, 84 autorità pubbliche di regolamentazione, 25

cambiamento logistico, 461 canali distributivi, 332 – struttura dei, 332 capacità, 135 – di collaborare, 135 – organizzativa, 82 capacità produttiva, 397, 402, 405, 406, 410, 413, 416, 428 – effettiva, 406 – teorica, 406 Capital Asset Pricing Model (CAPM), 376 – beta, 376 – premio al rischio del portafoglio di mercato, 376 – rendimento atteso del portafoglio di mercato, 376 – rendimento dell’attività priva di rischio, 376 capitale, 79, 305 – intangibile, 305 – intellettuale, 79 – sociale, 79 – strutturale, 79 – umano, 79 capitale circolante netto, 352, 360, 369, 371 – ciclo completo di movimentazione del CCNc, 354 – commerciale, 352 – finanziario, 352 catena, 114 – delle relazioni, 114 catena del valore, 111, 114, 122 – riconfigurazione della, 122 causal ambiguity, 88 celle, 394 centri di distribuzione urbana (CDU), 466

B barriere, 15, 19 – all’entrata, 19 – all’uscita, 15 – strategiche, 19 batch, 393 benchmarking, 87 Bill of Materials (BOM), 417 brand equity, 312 break even point, 16 brevetti, 484 budget, 217 Built to Order (BTO), 460 business, 254 – captive, 254 – cerniera, 254 business-to-business (b2b), 453

co-design, 518 codici a barre, 454 collegamenti (link), 460 commercio elettronico, 334 competenza, 84, 87, 91 – appropriabilità, 85 – distintiva, 87, 91 – replicabilità, 87 – rilevanza, 85 – scarsità, 84 – trasferibilità, 87 complessità, 30 – ambientale, 30 comunicazione, 296, 326 – modalità innovative di, 330 – strategia di, 328 concentrazione, 14 – assoluta, 14 – relativa, 14 concurrent engineering, 520 confini verticali, 176, 178 – ciclo di vita del settore, 178 – costo, 176 conoscenza, 79, 80, 87, 91 – di tipo “tacito”, 87 – profonda, 91 consorzi, 137 cooperazione, 132 – in linea laterale, 132 – in linea orizzontale, 132 – in linea verticale, 132 core business, 254 core competences, 86 core products, 86 corporate governance, 383 – stock options, 387 costellazione del valore, 113 costi, 391, 395, 405, 407, 415, 417, 427 – dei fattori produttivi, 403

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Indice analitico

– – – – – – – –

di back-log, 415 di distribuzione, 391 di lancio ordine, 417 di mantenimento, 415, 422 di produzione, 408, 415, 428, 430 di stock-out, 415 di transazione, 407 di trasporto e di distribuzione, 403, 429 – diretti, 431 – fissi, 405, 427, 428 – indiretti, 430 – opportunità, 395 – variabili, 405, 427 costo, 120, 401, 405, 450, 466 – determinanti del, 120 – industriale, 430 – primo, 430 – sociale, 466 – totale, 450 – unitario, 405 creazione di valore, 363 customer-driven innovation, 521

D decisione strategica, 209 Delivery Time, 411 demand pull, 477, 502 Desired delivery Time, 462 differenziazione, 16, 115, 123 – vantaggi della, 125 direzione di divisione, 240 diritti d’autore, 484 discontinuità tecnologiche, 495 – di processo, 495 disegno dominante, 496 disponibilità, 447 distinta base, 417 distribuzione, 452 – gaussiana, 452 – normale, 452 diversificazione, 185, 187 – conglomerale, 186 – correlata, 186 – potere di mercato, 190 – riconversione, 191 – rischio, 189 domanda, 395, 405, 413, 420 – di mercato, 395, 405 – dipendente, 413 – indipendente, 413 – stazionaria, 414

E economie, 19, 120 – di apprendimento, 120 – di esperienza, 19 – di estensione, 19, 120 – di scala, 19, 120 effetto frusta (bullwhip effect), 453

Engineer To Order, 413 Enterprise Resource Planning (ERP), 453 esternalità di rete, 488 extranet, 453

F fabbisogno finanziario, 352, 356 – massimo, 358 – permanente, 357 – tasso di crescita interno, 358 – tasso di crescita sostenibile, 358 – totale medio, 357 fiducia, 79, 80 First Party Logistics Provider (1PL), 461 flessibilità, 80, 401 flow shop, 394 flussi di cassa, 346, 369 – ammortamenti, 370 – crediti verso clienti, 371 – debiti verso fornitori, 371 – investimenti, 370 – Net Operating Profit After Taxes, 369 – operativi disponibili, 368, 369 – scorte, 371 – value driver, 370, 372 flussi finanziari, 351 – autofinanziamento, 356 – autofinanziamento della gestione, 354 – ciclo economico, 354 – ciclo finanziario, 354 – ciclo monetario, 354 – ciclo produttivo, 354 – flusso della gestione corrente, 356 – gestione dei, 351 – razionamento del capitale, 352 focalizzazione, 130 fornitori, 23 forza vendita, 336 forze competitive, 13 Fourth Party Logistics Service Provider (4PL), 461 franchising, 185 funzione finanziaria, 341 funzione obiettivo, 452 funzioni d’uso, 320

G General Packet Radio Service (GPRS), 454 Global Positioning System (GPS), 456 grande distribuzione organizzata (GDO), 463 Group Technology, 394 gruppi, 518 – inter-funzionali, 518

I incumbent, 17 inerzia, 109 Information and Communication Technology (ICT), 453 informazioni, 448 innovazione, 475 – di processo, 476 – di prodotto, 476 – incrementale, 476 – radicale, 476 integrazione, 180, 402, 407 – verticale, 180, 402, 407 integrazione verticale, 180, 182, 183 – free-riding, 181 – leva operativa, 182 – quasi-, 183 – verso valle, 180 internazionalizzazione, 192 Internet, 453 interrelazioni, 235 – con i concorrenti, 235 – intangibili, 235 – tangibili, 235 intranet, 453 ipercompetizione, 90, 109

J job shop, 393 joint ventures, 137 Just In Time (JIT), 418

K kanban, 419

L layout, 393, 470 Lean Production, 425 leva finanziaria, 349 leva operativa, 16 livello di servizio, 410, 450 LND (Logistics Network Design), 460 lock-in, 109, 483 lock-out, 109 logistica, 439, 463, 465, 467 – collaborativa, 440 – dei grandi eventi (event logistics), 442 – dei progetti (oroject logistics), 442 – dei ritorni (reverse logistics), 465 – dei servizi (service logistics), 442 – delle emergenze (emergency logistics o humanitarian logistics), 442 – delle rinfuse (bulk logistics), 442 – di ritorno, 442 – industriale o aziendale (Business Logistics), 441

Indice analitico

– integrata (integrated logistics), 442 – RAM (Reliability, Availability, Maintainability), 442 – urbana, 463 – verde (green logistics), 467 logistica verde, 467 – green supply chain, 467

M make or buy, 410 Make To Order, 413 Make To Stock, 412 management, 218 – strategico, 218 mappa cognitiva, 310 mappa di transilienza, 499 marca, 296, 312, 313 marketing, 295, 296, 304 – obiettivi del, 304 – strategia di, 296 Master Production Schedule (MPS), 410, 416 Materials Requirement Planning (MRP), 417 matrice Volume Varietà, 392 mercati, 22 – contendibili, 22 mercati azionari, 364 – efficienti, 364 metodo del valore azionario, 366 – analisi di sensibilità, 377 – costo del capitale, 375 – flusso di cassa operativo disponibile, 368 – posizione finanziaria netta, 366, 368 – valore azionario iniziale, 368 – valore dei surplus asset, 368 – valore residuo, 367, 368, 373 – valore societario, 366, 368 – valore strategia, 368 – value driver, 370, 372 miglioramento, 423 mission, 100 mission aziendale, 467 missione, 220, 227

N nodi (facility), 460 nudge, 470

O operatori logistici, 454 opzioni reali, 378, 384 – contrazione, 382 – conversione, 383 – differimento, 381, 385 – espansione, 382

– lancio, 383 – modello binomiale, 384 – opzione call, 380 – opzione put, 380 – opzioni finanziarie, 380 – risk-neutral, 381 – sospensione temporanea, 383 – VAN esteso, 379 outsourcing, 407

P pallet, 454 path dependence, 91 pianificazione, 205, 208, 217, 315, 398, 408, 410 – approccio razionalista, 209 – di breve periodo, 410 – di lungo periodo, 410 – di lungo termine, 217 – di marketing, 315 – di medio periodo, 410 – processo di, 208 – top-down, 218 pianificazione finanziaria, 352, 358 – a breve termine, 359 – a medio-lungo termine, 359 – bilanci pro-forma, 359 – budget di tesoreria, 360 – orizzonte temporale, 359 – rendiconti finanziari previsionali, 359 pianificazione strategica, 211, 217 piano, 219, 415, 416 – aggregato, 415 – principale di produzione, 416 – strategico, 415 piattaforma di prodotto, 526 PIL, 444 politiche di gestione, 411 – Pull, 411 – Push, 411 portafoglio progetti, 523 posizionamento, 296, 309 potere contrattuale relativo, 24 prezzo, 16, 184, 321, 323 – determinanti del, 323 processi, 394 – continui, 394 prodotto, 23, 129, 319 – gestione del, 319 – integrità del, 129 – sostitutivo, 23 Production Time, 411 produzione, 449, 462 – de-coupling point, 462 – lean, 463 – per lotti, 449 – pull, 462 – push, 462 – push-pull boundary, 462

533

progetto, 393, 514 Purchase To Order, 413

Q quality first, 423 quota di mercato, 305

R Radio Frequency Identification (RFID), 455 reader, 455 redditività potenziale, 26 relazione con i clienti, 296 rendiconto finanziario, 352 – gestione corrente, 354 – gestione finanziaria, 353 – investimenti, 353 – rendiconti finanziari previsionali, 359 reputazione, 82 resource based, 77 Resource Requirements Planning, 411 resourced based theory, 93 resources-based view, 281 rete 3G, 454 rete logistica, 442 risorse, 78, 80, 88, 239, 486 – complementari, 486 – complementarietà delle, 88 – intangibili, 78, 80 – tangibili, 78 risorse complementari, 486 – generiche, 486 – specializzate, 486 risorse umane, 248 ROE (Return On Equity), 349 ROI (Return On Investment), 349 Rough Cut Capacity Planning, 411 routine organizzative, 83

S S.W.O.T. analysis, 233 scenari, 225 scenario planning, 215 scorta, 415, 419, 420 – di sicurezza, 420 scorta strategica, 462 scorte, 448 Second Party Logistics Provider (2PL), 461 segmentazione, 296, 305 segmenti, 307 – target, 307 servizi, 432 servizio, 23 – sostitutivo, 23 sistema, 1, 4, 247 – autopoietico, 4 – cognitivo, 1

534

Indice analitico

– organizzativo aziendale, 247 sistema del valore, 113 sistemi, 275, 280, 454 – di gestione delle risorse umane, 280 – geografici di informazione (GIS), 454 – operativi di coordinamento, 275 Six Sigma, 425 – Lean, 425 Stage-Gate, 519 stakeholders, 4, 79 standard, 487 – di intercambiabilità, 488 – di prodotto, 488 – di qualità, 487 – di uniformità, 487 strategia, 175, 235, 238, 296, 335, 398, 405 – chase, 405 – di marketing, 296 – distributiva, 335 – level, 405 – orizzontale, 235 – verticale, 175, 238 strategia funzionale, 243 – obiettivi della, 243 strategic assets, 85 strategic thinking, 213 strategie, 115, 122, 131, 276 – competitive, 115 – di collaborazione, 131

– di diversificazione, 276 – vantaggio di costo, 122 struttura del capitale, 348 – azionisti, 348 – capitale di credito, 348 – capitale proprio, 348 – leverage, 349, 358 – teoria di Modigliani e Miller, 349 successo, 103 – fattori critici di, 103 supply chain, 442 sviluppo di un nuovo prodotto, 517 – approccio multi-project, 523 – approccio sperimentale, 521 – architettura modulare, 522 – fasi, 517 switching costs, 88 SWOT, 460

T TAG, 455 tasso d’interesse, 346 technology push, 477 tempo di consegna, 447 terziarizzazione (outsourcing), 460 Third Party Logistics Provider (3PL), 461 time to market, 453 time-to-market, 515 Total Quality Management, 424 Toyota Production System, 425 Transponder, 455

U utilità, 444

V valore, 111, 345, 346, 347, 373 – attuale netto, 346 – attuale netto (VAN), 347 – catena del, 111, 114 – costellazione del, 113 – creazione di, 345 – residuo, 373 – sistema del, 113 vantaggio, 115, 118 – di costo, 115, 118 vantaggio competitivo, 84, 103, 107, 115 – sostenibilità del, 107 varianza (o scarto quadratico medio), 452 – scarto quadratico medio (o varianza), 452 vendite, 296 vision aziendale, 467 visione, 220, 227

W Weighted Average Cost of Capital, WACC, 368, 375 – costo del capitale azionario, 375 – costo del debito, 375 – struttura finanziaria obiettivo, 376 World Class Manufacturing, 426