E-learning: modelli e strategie didattiche 8879466615, 9788879466615


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E-learning: modelli e strategie didattiche
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Erickson

Maria Ranieri

E-LEARNING: MODELLI E STRATEGIE DIDATTICHE

I quaderni di Form@re Collana diretta da Antonio Calvani

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© Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

MARIA RANIERI Insegna Instructional Design da alcuni anni al Master in «Progettista e gestore di formazione in rete» presso l’Università di Firenze. Per Erickson ha tradotto e curato il volume di Badrul H. Khan, E-learning: progettazione e gestione, 2004.

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INDICE

Introduzione

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Capitolo 1 Alla ricerca di principi e metodologie: il ruolo dell’Instructional Design

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Capitolo 2 E-learning

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Capitolo 3 Modelli e strategie didattiche

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Capitolo 4 Multimedialità e comunicazione didattica

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Conclusione

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Appendice

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Bibliografia

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Sitografia

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RINGRAZIAMENTI Il lavoro non sarebbe stato possibile senza l’esperienza didattica triennale di insegnamento di Instructional Design all’interno del Master in «Progettista e gestore di formazione in rete» dell’Università di Firenze, e senza l’accesso ai documenti e materiali elaborati nel Master stesso. Il primo ringraziamento va dunque alla Direzione del Master e a tutti i colleghi docenti per la loro disponibilità alla condivisione delle esperienze e per i loro suggerimenti, in particolare a Mario Rotta, Maria Chiara Pettenati, Giovanni Bonaiuti, Maurizio Masseti, e agli stessi studenti, le cui interazioni hanno rappresentato l’alimento teorico di molte riflessioni. Ringrazio altresì i colleghi ricercatori del progetto FIRB, in particolare Stefania Manca, Maura Striano, Giuseppe Tortora, Luigi Sarti e Antonio Fini, e il Direttore dell’INDIRE Giovanni Biondi: le conversazioni e gli scambi che in più occasioni ho intrecciato con loro hanno arricchito la mia ricerca e il mio lavoro.

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Introduzione

Sono ormai numerosi anche nel nostro paese, i contributi nel campo dell’e-learning. Dopo le indagini pionieristiche di Trentin nell’ambito della formazione degli insegnanti (1999), in pochi anni si è sviluppata un’ampia letteratura sui modelli teorici e sugli scenari dell’e-learning (Calvani e Rotta, 1999, 2000; Trentin, 2001, 2004; Rivoltella, 2003; Bonani, 2003; Galliani, 2004), sugli aspetti metodologici e didattici (Trinchero e Todaro, 2000; Banzato, 2002; Frignani, 2003; Isidori, 2003; Galliani e Costa, 2003; Maragliano, 2004), sugli standard e gli strumenti tecnologici di gestione dei contenuti (Fontanesi, 2003; Fini e Vanni, 2004; Lucchini, 2002), sui costi dell’e-learning (Boccolini e Perich, 2004), sulle applicazioni in azienda (Biolghini e Cengarle, 2000; Recchioni, 2001; La Noce, 2002; Vescovi, 2002, Nacamulli, 2003; Di Nicola e Comunello, 2003), all’università (Biolghini e Cengarle, 2000; Calvani, 2001c; Galliani, 2002; Tortora, 2003) e nella Pubblica Amministrazione (CNIPA, 2004), e infine sulle interdipendeze tra e-learning e knowledge management (Costa e Rullani, 1999; © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

E-learning: modelli e strategie didattiche

Micelli, 2000; Micelli e Rullani, 2001) o tra e-learning e life long learning.1 Ciò nonostante la dimensione espressamente didattica dell’elearning rimane ancora un campo che è stato studiato solo parzialmente, le cui implicazioni vanno oltre la pur complessa questione di come fare didattica in rete; una riflessione sull’aspetto didattico dell’e-learning può anche essere considerata una strada per un ripensamento della didattica tout court: le trasformazioni tecnologiche possono rendere meglio comprensibili, e in qualche caso più produttive, le metodologie e tecnologie più tradizionali. In questo lavoro, recuperando esigenze già avanzate dalla riflessione educativa, verranno messe in risalto la significatività e la specificità della dimensione didattica, da collocare al centro delle più ampie problematiche della progettazione e-learning. Un forte rischio che corre l’e-learning è infatti di essere identificato con la dimensione più strettamente «erogativa» (la tipologia content and support, si veda il capitolo 2). Il professionista dell’elearning avverte profondamente questo rischio e per affrontarlo richiede orientamenti e criteri che lo supportino nelle sue scelte. Anche se la costruzione di un progetto didattico rimane un’operazione sostanzialmente «ermeneutica» e quindi non riducibile a un processo rigido e sequenziale, è necessario che la ricerca individui in modo più concreto le scelte e le possibilità che gli si presentano. Questo lavoro riguarda essenzialmente l’apporto che può venire all’e-learning da quell’area che, nel linguaggio anglosassone, si chiama comunemente Instructional Design. Nell’intento di individuare un complesso di criteri concretamente impiegabili, in primo luogo si cercherà di elaborare un modello del processo di progettazione e-learning. Per comodità di analisi, si sosterrà che a livello didattico la progettazione possa/debba essere articolata in due fasi distinte, per quanto correlate: nella prima il progettista 1

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In questo ambito specifico è in atto il Progetto Nazionale FIRB (Fondi Innovazione Ricerca di Base), coordinato dal Prof. P. Orefice, Università di Firenze.

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Introduzione

interagisce con altre figure e professionisti, concorrendo a definire quella che verrà denominata la macrostruttura didattica del progetto (caratterizzabile intorno a tre aspetti fondamentali: macrometodologia didattica, integrazione virtualità-presenza, autogeneratività o meno dell’azione formativa); una volta definita la macrostruttura la progettazione passa, per così dire, a un livello microdidattico. La microstruttura didattica comporta la valutazione/scelta/adattamento di «modelli» e strategie didattiche; anche se l’attività del progettista non è da intendersi come meramente «applicativa», in quanto rimane sempre essenzialmente di esplorazione e di costruzione creativa, in questa fase è utile disporre di un «campionario» di modelli e soluzioni praticabili. In sintesi il libro si articola nel modo seguente: nel capitolo 1 verrà illustrato lo stato dell’arte nell’ambito dell’Instructional Design, con particolare attenzione a David Merrill da un lato e ai più recenti orientamenti del costruttivismo sociale dall’altro: i principi e le teorie presi in esame orienteranno il progettista nelle scelte che opererà in fase didattica. Nel capitolo 2 vengono presentate e discusse le tipologie di e-learning più diffuse e viene successivamente suggerito un modello orientativo del processo di progettazione; si esaminano qui gli aspetti relativi alla dimensione didattica, sia a livello di macro che di microprogettazione: il lettore potrà trovare delle indicazioni operative per la definizione della macrotipologia didattica più adatta rispetto ai vincoli di contesto e per la messa a punto dello story board dei contenuti del corso. I capitoli 3 e 4 esplorano, e approfondiscono le problematiche affrontate in fase di micro-progettazione didattica: si tratta della fase più delicata, e spesso più trascurata, quella nel corso della quale il progetto e-learning acquista una consistenza sul piano didattico. Per questo nel capitolo 3 si dedica ampio spazio da un lato ai modelli didattici o alle architetture a cui il progettista può riferirsi per operare le sue scelte, dall’altro alle strategie didattiche di cui può avvalersi tenendo conto delle specificità della rete. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Il capitolo 4 suggerisce delle piste di lavoro che possano aiutare il progettista nelle scelte che riguardano più specificamente la comunicazione didattica dei contenuti. Anche qualora le condizioni siano tali per cui l’unica soluzione possibile sia quella di allestire dei moduli «erogativi», è necessario conservare uno spazio di lavoro specifico per la riflessione didattica. La presentazione stessa dell’informazione a scopo educativo richiede infatti che vengano seguiti accorgimenti particolari: troppo spesso e superficialmente si identifica «comunicazione» con «comunicazione didattica», allo stesso modo in cui si identificano «multimedialità e interattività» con «efficacia comunicativa». Alcuni temi e nuovi spazi di approfondimento che meriterebbero di essere ulteriormente sviluppati, sono stati appena accennati nel presente lavoro; si tratta del resto di limiti a cui la stessa ricerca in ambito Instructional Design per l’e-learning è sottoposta. Uno di questi riguarda le peculiarità dell’habitat «rete», gli apporti della comunicazione mediata dal computer (CMC) e la specificità della fenomenologia dell’«essere in rete» (a questo proposito è stato inserito un paragrafo iniziale sull’argomento, ma si tratta di un campo in continuo sviluppo); un secondo ambito che andrebbe approfondito concerne il processo stesso di contaminazione/integrazione a cui l’e-learning è sottoposto (ad esempio, nei confronti del mondo del networked learning, delle comunità di pratica, ecc.). È verosimile pensare che fattori di questa natura saranno in grado di condizionare in modo rilevante i formati della didattica: modelli di comunità di apprendimento virtuale, fenomenologia della rete e nuovi formati della didattica si presentano come domini strettamente connessi.

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Capitolo 1

Alla ricerca di principi e metodologie: il ruolo dell’Instructional Design Affordances e criticità della rete Qualsiasi riflessione sull’educazione non può prescindere dalla considerazione delle affordances e delle limitazioni del contesto all’interno del quale l’attività formativa prende corpo (Norman, 1999). Che cosa si intende con il termine affordance? È una parola coniata da Gibson (1979) per riferirsi a delle proprietà attivabili attraverso l’interazione tra un ambiente e un agente (umano o animale): si tratta cioè di proprietà che «emergono» proprio in virtù di una relazione e che quindi non possono essere considerate potenzialità esplicite. Le trasformazioni della didattica in atto nell’e-learning sono principalmente legate al fatto che l’attività formativa si colloca all’interno di un nuovo ambiente: la rete. Quali sono allora le affordances della rete e quali le sue criticità? Partiamo da un semplice e banale confronto, quello tra una tradizionale lezione in aula e l’e-learning. La differenza che sussiste tra le due esperienze è basilare: negli incontri in presenza allievo e © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

E-learning: modelli e strategie didattiche

insegnanti, allievi e allievi, si vedono e si osservano direttamente. Ciò non accade nella rete dove invece le comunicazioni sono decantate dalla fisicità dei gesti e della corporeità visibile: si tratta di una comunicazione mediata dal computer (CMC).1 Il primo vincolo che viene a cadere nella CMC è quello della compresenza fisica degli attori dell’interazione: le nuove tecnologie della comunicazione consentono infatti a più soggetti di comunicare, indipendentemente dalla condivisione di un luogo fisico come condizione per lo scambio. Anche la variabile temporale assume differenti connotazioni. In un web forum o attraverso la posta elettronica due o più soggetti possono comunicare senza il vincolo della simultaneità: il mittente può inviare un messaggio senza che dall’altra parte vi sia un destinatario pronto a leggerlo nell’immediato; viceversa il destinatario può leggere il messaggio dove e quando vuole. Si tratta quindi di un sistema di trasmissione e ricezione che non presuppone alcuna contemporaneità. Diverso è il caso della comunicazione sincrona: in una chat i soggetti comunicano in tempo reale e questo ovviamente vincola la comunicazione alla simultaneità. Lo scambio è rapido e immediato, non meno che in una comunicazione faccia a faccia. In sostanza rispetto all’asse spazio-temporale, la CMC avviene in condizioni di: 1. spazialità delocalizzata o deterritorializzata (sganciamento dal luogo fisico); 2. temporalità a densità variabile, coesistenza e compossibilità della comunicazione differita (dilatazione) e di quella simultanea (contrazione). 1

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Con questa espressione si indicano tutte le forme di comunicazione, sincrona (come la chat o il videoconferencing) e asincrona (come il mailing, il web forum o il newsgroup), rese possibili grazie alla mediazione del computer (inteso non tanto come calcolatore ed elaboratore di dati, quanto piuttosto come terminale della rete e punto di accesso ad essa). Per la verità nell’accezione più tradizionale con il termine CMC ci si riferisce alla comunicazione elettronica basata su testo scritto (posta elettronica, chat, web forum ecc.). Oggi tuttavia l’espressione è usata in senso più ampio, includendo anche forme di comunicazione basate su canali audio e video.

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Alla ricerca di principi e metodologie

Nella CMC basata su testo sono assenti tutti quegli elementi metacomunicativi che costituiscono la cornice all’interno della quale avviene una comunicazione faccia a faccia, vengono meno cioè tutti quegli aspetti paralinguistici (come il tono della voce), mimico-gestuali (postura, espressione del volto) e prossemici (disposizione dei parlanti nello spazio) che arricchiscono la comunicazione verbale (Rivoltella, 2003). Non solo, ma il rarefarsi della possibilità di ricevere un feedback immediato aumenta il rischio della decodifica aberrante (ibidem). Tutti questi aspetti, ai quali abbiamo solo brevemente accennato, sono oggetto di un campo d’indagine specifico che rappresenta ancora un terreno aperto di discussione (Paccagnella, 2000): ci si interroga sulle conseguenze che la CMC ha sulla socialità e sull’identità delle persone, sui contesti di vita e sulle relazioni. Gli studi più recenti (Riva, 2001) nell’ambito della CMC sottolineano che: 1. in rete non si può parlare né di falsificazione dell’identità né di dissoluzione dell’identità, quanto piuttosto di identità multiple e socialmente costruite; 2. la comunicazione non va intesa come passaggio di informazione, ma come co-costruzione di significati; 3. la presenza sociale è legata alla tensione verso un obiettivo e alla condivisione di un progetto; 4. la socialità è legata al contesto in cui si colloca la comunicazione. Questo in generale, ma quali sono gli effetti che la CMC ha sull’apprendimento? Per lungo tempo ha prevalso in questo settore l’approccio legato alla Teoria della presenza sociale, che definisce la presenza sociale come quella sensazione di essere insieme che gli interlocutori avvertono nel corso di una interazione comunicativa (Short, Williams e Christie, 1976). Questa sensazione è strettamente legata alla capacità che il medium tecnologico ha di trasmettere indizi sociali (social cues) identificati con il tono della © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

voce, la postura, l’espressione del viso, ecc. Come rileva Manca (2004), il problema merita di essere ancora investigato: varie sono le sollecitazioni (dall’ortodossia della Teoria della presenza sociale all’ambito degli studi realizzati dal computer-supported cooperative work-CSCW e dal human computer interaction-HCI) a muoversi in direzioni alternative, che superino la logica imitativa che a lungo ha caratterizzato la ricerca nel settore. Gli studi fin qui condotti evidenziano comunque aspetti diversi. Da un lato, come sintetizzano Rourke e Anderson (2002), l’assenza di elementi paralinguistici ed extra-linguistici può provocare tre effetti: 1. mancanza di informazioni circa l’attenzione reciproca: «La comunicazione asincrona li (gli studenti, nda) fa sentire lontani, distaccati e isolati» (Bullen, 1998, p. 10); 2. assenza di feedback immediato: la comunicazione online implica un rischio personale: «una risposta, qualsiasi risposta viene generalmente interpretata come un successo mentre il silenzio significa fallimento» (Feenberg, 1989, p. 489). Questo può produrre fraintendimenti e ansia comunicativa: Jonassen (2000) osserva che per quanto l’ansia comunicativa non sia una caratteristica ascrivibile esclusivamente alla comunicazione online, questa può tuttavia amplificare le insicurezze e impedire alle persone di partecipare apertamente e pienamente; 3. difficoltà a stabilire un senso di coesione. Dall’altro, Warschauer (1997) fa rilevare che gli studi sulla CMC dimostrano una maggiore partecipazione degli studenti rispetto alla classe tradizionale. In particolare, dagli studi sulla scrittura collaborativa mediata dal computer risulta che gli studenti scrivono di più e meglio, sono più collaborativi e più versatili. Queste scoperte sono coerenti con le ricerche che mostrano che la CMC favorisce anche forme conversazionali di carattere informale ed esplorativo (Weedman, 1999), consentendo agli studenti e agli insegnanti di 14

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Alla ricerca di principi e metodologie

correre meno rischi e di condividere conoscenze. In uno studio condotto su 80 scuole, Ahern, Peck, e Laycock (1992) hanno riscontrato che uno stile conversazionale di interazione da parte del docente produce livelli più alti e complessi di partecipazione degli studenti. Quando i docenti online sono più informali e spontanei nei loro commenti, gli studenti interagiscono maggiormente tra loro. Dai lavori di Garrison, Anderson e Archer (2000) emerge, inoltre, che la maggior parte degli studenti percepisce l’ambiente sociale della CMC come amichevole, caldo e affidabile, personale e disinibente. In questo modo l’idea diffusa che la comunicazione asincrona e testuale sia inefficace nel supportare l’interazione sociale sta diventando insostenibile, alla luce di prove sempre più numerose che testimoniano il contrario. L’insoddisfazione è invece spesso legata a un «eccesso di socialità». In sintesi gli studi nel settore mostrano, da una parte, come in rete aumenti il senso di isolamento ed estraneità dello studente e diminuisca il senso di coesione; dall’altra, sottolineano che in rete si sviluppano dibattiti molto più vasti e articolati rispetto alla comunicazione in presenza e che le dinamiche relazionali possono anche essere molto calde e motivanti. Per quanto, come abbiamo già sottolineato, sia ancora necessario approfondire le ricerche nel settore, chiunque si accosti alla rete per farne un «luogo» di formazione, deve tener conto di questi limiti e potenzialità.

Instructional Design: che cos’è, di cosa si occupa Un grosso settore della riflessione educativa negli ultimi anni ha cercato di favorire, nel contesto italiano, un approccio critico e metodologicamente avveduto alla didattica, abbandonando il concetto tradizionale gentiliano secondo il quale è sufficiente «sapere» per «saper insegnare» (Pellerey, 1982; Fornaca, 1985; Frabboni, 1992, 1994; Ghelfi e Guerra, 1993; Tassinari, 1995; © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Gennari,1996; Monasta, 1997; Laneve, 1993, 1998; Maragliano, 1998; Calvani, 2000; Cerri Musso, 2002). Se si considera tuttavia il settore dell’e-learning, la riflessione appare ancora piuttosto carente, come testimonia la tendenza diffusa a concepire la didattica in rete come una semplice trasposizione della didattica in presenza nella sua accezione più tradizionale. Di qui la necessità di affrontare un aspetto molto importante: occorre mettere in risalto la significatività e la criticità della riflessione didattica all’interno della rete, riscoprendone la specificità. Da dove partire? Un terreno di confronto fertile è dato dall’Instructional Design a cui questo capitolo fa riferimento. In ambito internazionale, la dimensione «instructional», cioè del come insegnare, è oggetto di centinaia di ricerche (Wilson e Cole, 1991; Gagné e Briggs, 1974; Savery e Duffy, 1995; Dijkstra et al., 1997; Seels e Glasgow, 1998; Reigeluth, 1983, 1999; Smith e Ragan, 1999; Merrill, 2001; Dick, Carey L. e Carey J.O., 2002; ecc.) e ha dato vita a un filone di studi specifico. Cosa significa Instructional Design? Che cosa è stato e di che cosa si occupa oggi? Storicamente l’Instructional Design (ID) si sviluppa a partire dagli anni Sessanta. Uno dei testi fondamentali per la nascita di questo settore è stato The conditions of learning (1965) di Robert M. Gagné. Secondo lo psicologo americano, esistono diversi tipi o livelli di apprendimento, ciascuno dei quali richiede diversi tipi di istruzione. Sono sostanzialmente otto i tipi di apprendimento possibile, ordinati gerarchicamente secondo il loro livello di complessità: 1) apprendimento di segnali; 2) apprendimento stimolo-risposta; 3) concatenazione motoria; 4) concatenazione verbale; 5) apprendimento di discriminazioni multiple; 6) apprendimento di concetti; 7) apprendimento di un principio; 8) soluzione di problemi. Per ciascun tipo di apprendimento sono necessarie diverse condizioni esterne e interne. Se l’acquisizione di determinate capacità dipende da specifiche condizioni, si 16

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Alla ricerca di principi e metodologie

tratterà di individuare quali sono i risultati d’apprendimento desiderati e le strategie didattiche più adeguate per conseguirli. Gagné propone nove eventi «instructional» che forniscono le condizioni necessarie per l’apprendimento e che servono come base per la scelta delle strategie educative: 1) stimolare l’attenzione; 2) informare gli studenti degli obiettivi; 3) stimolare la memoria delle conoscenze pregresse; 4) fornire uno stimolo; 5) guidare l’apprendimento; 6) promuovere la pratica; 7) fornire feedback; 8) valutare le prestazioni; 9) migliorare l’assorbimento e il transfer. L’Instructional Design si configura quindi sin dai suoi primi esordi come quel campo di indagine che si occupa di definire le regole che presiedono alla scelta dei metodi d’istruzione più adeguati, tenendo conto delle conditions of learning e delle diverse tipologie di apprendimento. Eppure questo settore di ricerca è stato spesso confuso con altri ambiti, generando equivoci e ambiguità che ancora oggi si riflettono nelle cattive traduzioni dell’espressione: ad esempio, tradurre Instructional Design con «progettazione didattica» tout court risulta, come vedremo, quanto meno fuorviante, se non addirittura errato. I due ambiti sono infatti correlati, ma vanno tenuti distinti. Recentemente uno dei maggiori studiosi di ID, Reigeluth (1999), docente presso la Indiana University, ha prodotto un’attenta e articolata riflessione volta a chiarire quale sia l’ambito specifico dell’Instructional Design, soffermandosi in particolare sullo statuto epistemologico delle teorie ID. In prima analisi, l’ID si profila come un corpo di teorie accomunate dal tratto caratteristico di offrire indicazioni, più o meno generali, su come facilitare l’apprendimento e lo sviluppo cognitivo, emozionale, sociale e fisico delle persone. Ma in che senso va inteso il termine «teoria» e in cosa consiste la specificità di una teoria ID rispetto ad altri ambiti teorici? Innanzitutto una teoria ID è design-oriented, si focalizza cioè sui modi attraverso i quali raggiungere certi risultati in termini © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

di apprendimento. Essa ha dunque un carattere eminentemente prescrittivo, in quanto il suo scopo non è quello di descrivere le relazioni causa-effetto tra eventi, bensì di indicare come conseguire certi risultati. Una teoria ID non è vera o falsa, ma più o meno preferibile, implica cioè una scelta, una decisione tra possibili modalità d’intervento, soddisfacendo così non tanto criteri di validità, quanto criteri di preferibilità. Un po’ superficialmente, dall’esterno, si tende a identificare l’ID con l’area delle teorie dell’apprendimento; ovviamente il rapporto con questo ambito di ricerca è stretto, le teorie dell’apprendimento hanno un ruolo per così dire «fondazionale», spiegano cioè il motivo per cui una teoria ID è efficace o meno. Una teoria ID cerca però soprattutto di definire i metodi per facilitare l’apprendimento e indicare quando (ossia, le situazioni in cui) è preferibile usarli o non usarli. I metodi hanno dunque carattere situazionale e non universale, funzionano in certe situazioni e non in altre: la situazione influenza la scelta del metodo e ne condiziona l’applicabilità. Una teoria ID identificherà pertanto non solo i metodi, ma anche le situazioni, ossia quegli aspetti del contesto che influenzano la scelta del metodo. In qualsiasi situazione di istruzione, gli aspetti significativi sono riconducibili a due macrocategorie: le condizioni di istruzione e i risultati auspicati. Tra le prime vanno considerate: la natura di ciò che deve essere appreso (apprendere concetti, ad esempio, è diverso da acquisire abilità); le caratteristiche dello studente (per esempio, le sue conoscenze pregresse, le sue strategie di apprendimento, le motivazioni); le caratteristiche dell’ambiente di apprendimento (l’attività si svolge a casa, in una classe di 20 persone, oppure in piccoli gruppi in azienda) e i vincoli organizzativi ed economici. Tutte queste condizioni possono influenzare la scelta dei metodi che meglio si adatteranno a raggiungere i risultati desiderati. Esse non devono però essere confuse con le conditions of learning di Gagné, poiché le condizioni interne 18

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Alla ricerca di principi e metodologie

fanno parte della categoria «caratteristiche dello studente», mentre le condizioni esterne sono metodi d’istruzione e non condizioni di istruzione. I risultati desiderati riguardano i livelli di efficacia, efficienza (costi/tempo) e appeal (attrazione per lo studente) con i quali ci si aspetta di raggiungere gli obiettivi di apprendimento. La situazione è dunque definita in termini piuttosto complessi, poiché le variabili sono molteplici. Questo implica un’ulteriore caratteristica dei metodi ID: essi hanno sempre carattere probabilistico, ossia una teoria ID non ci garantisce che l’applicazione di un adeguato metodo in una certa situazione condurrà automaticamente o deterministicamente al risultato auspicato, ma ci indica che, con un buon grado di probabilità, data una certa situazione, il metodo funzionerà. Un metodo può inoltre essere descritto a vari livelli di generalità. Esso è infatti costituito da parti o componenti che possono essere più o meno esplicitate: maggiore è il dettaglio, più utile sarà per l’educatore il metodo. In sintesi una teoria di Instructional Design individua i metodi adeguati affinché, date certe condizioni di istruzione, l’apprendimento risulti efficace, efficiente e attraente (figura 1.1). Se una teoria ID si caratterizza per gli aspetti appena illustrati, quali sono gli ambiti con cui non deve essere confusa? Innanzitutto, come abbiamo già accennato, le teorie ID in quanto prescrittive non possono essere confuse con le teorie dell’apprendimento. È evidente poi che l’ID, focalizzando l’attenzione sul come insegnare, si differenzia dalle teorie del curriculum, che sono invece orientate al che cosa (obiettivi) insegnare. Non sempre tuttavia questa distinzione è possibile o è del tutto chiara, anche perché il che cosa insegnare fa parte di una delle condizioni di istruzione di cui l’ID deve tener conto. Un’altra frequente confusione consiste nell’identificare l’attività dell’Instructional Designer con quella di colui che si occupa © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Teoria ID

SITUAZIONI

METODI

Risultati desiderati

Efficacia Efficienza Appeal

Figura 1.1

Condizioni d’istruzione

Allievo

Apprendimento

Vincoli Ambiente d’apprendimento

Elementi di una teoria ID (adattato da Reigeluth, 1999).

delle fasi di articolazione di un’attività progettuale o dell’organizzazione del curriculum (o altre attività volte a definire la successione più opportuna delle fasi di un processo). Seguire le fasi di un curriculum o individuare le caratteristiche di un ambiente di apprendimento non è però sufficiente per sapere se gli apprendimenti saranno poi efficaci o efficienti: si posso seguire in modo puntuale le fasi formali di progettazione (analisi, sviluppo, valutazione, ecc.) e ottenere un oggetto in concreto del tutto irrilevante. Non si hanno elementi che indicano se l’istruzione sarà efficace, efficiente e attraente. Che cosa occorre? Una serie di conoscenze teoriche ed empiriche a cui è pervenuta la ricerca scientifica, tali per cui si può ragionevolmente dire che «date determinate condizioni è preferibile impiegare queste tecniche e metodologie didattiche, perché sono queste che garantiscono (pur sempre in termini probabilistici) un risultato migliore» (Reigeluth, 1999). In sintesi possiamo dire che l’Instructional Design si occupa sì di progettazione (design), ma non a livello di sistema (definizione delle fasi procedurali di un progetto educativo, aspetto questo che è oggetto dell’Instructional Design System), quanto piuttosto delle modalità di selezione degli specifici modelli e delle particolari 20

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Alla ricerca di principi e metodologie

strategie che occorre mettere in atto per promuovere l’apprendimento. Abbiamo introdotto due nuovi termini: modelli e strategie. A cosa ci riferiamo? Un modello, come una teoria ID intesa nel senso sopra specificato, non è altro che un sistema di prescrizioni dal carattere probabilistico, un complesso di raccomandazioni, da declinare e interpretare rispetto a ogni specifico contesto, che indicano come creare situazioni favorevoli per un apprendimento efficace, efficiente e appealing. Ogni modello incorpora a sua volta delle strategie di intervento che riguardano direttamente il modo di fare didattica. Le strategie rendono in un certo senso operativi i modelli, ma su questi due concetti e sulle relative relazioni torneremo nel capitolo 3. Siamo giunti a questo punto a definire un proprium dell’ID. Vediamo ora quali sono le indicazioni che possiamo ricevere da questo settore. Guardando alla vasta produzione teorica che ha impegnato negli ultimi dieci anni gli studiosi di ID, troviamo una varietà di contributi che si collocano sia a un livello metodologico, che a uno più empirico e sperimentale, ossia: – rassegne sui modelli e le teorie che hanno avuto maggiore risonanza; – formulazione dei principi che sottostanno a tali modelli; – specifiche comparazioni sperimentali (stato dell’arte delle ricerche sperimentali). Al di là delle singole ricerche sperimentali e dei vari modelli instructional (si veda il capitolo 3), in questo capitolo ci soffermeremo da un lato sui principi ID, elaborati nell’ambito di un approccio più tradizionale all’Instructional Design, dall’altro sulle più recenti evoluzioni dell’ID dovute agli apporti del costruttivismo. Esistono infatti oggi due principali orientamenti che attraversano questo settore di ricerca: il primo, di taglio più tradizionale, che potremmo definire «istruttivista»; il secondo, meno incline a parlare in termini di «istruzione», preferisce espressioni alternative quali «comunità di apprendimento» e filosofie vicine al costruttivismo. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Perché soffermarsi sui principi ID? Innanzitutto perché sono presenti, se non del tutto, almeno in parte, nella maggioranza dei modelli ID; in secondo luogo, perché tengono conto delle ricerche effettuate nella psicologia dell’apprendimento. Vediamo ora quali sono e in cosa consistono.

Esistono «principi fondamentali» di Instructional Design? Richiamandosi ai lavori classici di Gagné, David Merrill (Merrill et al., 1996; Merrill, 2001) rivendica energicamente il diritto dell’ID, pena la perdita di credibilità e identità del settore professionale, a enucleare i principi e le regole fondamentali dell’istruzione (instructional basic methods), attraverso un lavoro di comparazione progressivo tra i modelli esistenti. Come potrebbe una disciplina mostrarsi socialmente rilevante e utile se non avesse un suo corpo di conoscenze solide e non riuscisse a rendere evidente la differenza di comportamento tra chi possiede tali conoscenze disciplinari e chi ne è estraneo? Esistono, secondo Merrill, principi d’istruzione ben conosciuti, verso cui converge la maggior parte dei modelli e delle teorie elaborati in alcuni decenni di storia dell’ID: una comparazione di tali modelli è doverosa ed è obbligo di chiunque si occupi del settore conoscerne adeguatamente i risultati e continuare ad approfondirne le implicazioni. Conosciamo qualcosa di questi elementi fondamentali (first principles of instruction)? Si! Usiamo ciò che sappiamo? Raramente! (Merrill, 2001, p. 4).

Un principio (o metodo basilare) è una relazione che risulta sempre vera sotto appropriate condizioni, indipendentemente dai programmi e dalle singole pratiche didattiche. I principi sono «basilari» e in quanto tali trasversali a una serie di fattori o livelli che rimangono subalterni e con cui non vanno confusi. Possono essere infatti applicati in ogni dominio 22

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(o sistema di contenuti) e in modo trasversale rispetto a ogni sistema di distribuzione (live, internet, ecc.), a una varietà di «architetture d’istruzione»,2 a stili di apprendimento o ad aspetti più specificatamente pratici, nonché in un’ampia varietà di contesti sociali (studio individuale piuttosto che collaborativo, ecc.). I principi primi dell’istruzione inoltre non sono da intendersi come principi di apprendimento, bensì come delle prescrizioni: essi sono design-oriented, sono cioè volti a dare indicazioni su come costruire ambienti di apprendimento. L’apprendimento sarà quindi facilitato in diretta proporzione al grado in cui questi principi basilari sono consapevolmente implementati, piuttosto che applicati casualmente. Se un’esperienza o un ambiente d’istruzione non rispetta o viola tali principi, non si verificherà apprendimento efficace, efficiente e attraente, e si verificherà un impoverimento dell’apprendimento. Ma quali sono questi principi ed è possibile descriverli in una forma che, per il principio di parsimonia, a cui la mente umana deve richiamarsi, dovrà essere necessariamente sintetica? Al termine dell’analisi comparativa tra molteplici modelli e teorie ID, Merrill afferma che le dimensioni generali sono cinque, schematizzabili nei seguenti termini: problem, activation, demonstration, application, integration (figura 1.2). Infatti, rileva Merrill, gli ambienti di apprendimento più efficaci sono quelli problem-based e che coinvolgono lo studente in quattro distinte fasi: 1. attivazione dell’esperienza precedente 2. dimostrazione di abilità/capacità 2

Espressione utilizzata da Clark (1998, 2000) per indicare a un metalivello le «famiglie» di strategie didattiche. Clark ne distingue quattro: ricettiva, direttiva, a scoperta guidata, esplorativa. Ciascuna di esse presuppone una particolare teoria dell’apprendimento e implica modalità diverse di intendere l’attività educativa. Su questi aspetti si veda il capitolo 3.

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3. applicazione di abilità/capacità 4. integrazione di abilità/capacità in attività real world.

INTEGRATION

ACTIVATION

PROBLEM

APPLICATION

Figura 1.2

DEMONSTRATION

Diagramma dei principi primi dell’istruzione (tratto da Merrill, 2001, p. 2).

Che cosa affermano questi principi? Vediamolo analiticamente per ciascuna dimensione.

Problem L’apprendimento è facilitato quando gli studenti sono impegnati nella soluzione di problemi autentici. Molti lavori di psicologia cognitiva lo dimostrano e i modelli d’istruzione basati sul problembased learning sono delle valide esemplificazioni di tale principio. Si pensi al modello dell’apprendistato cognitivo o a quello del goal-based scenario (si veda il capitolo 3, nota 4). Da questo principio seguono alcuni corollari, secondo i quali l’apprendimento è facilitato quando: – agli studenti viene mostrato il compito che saranno in grado di svolgere o il problema che saranno in grado di risolvere al termine del corso: è molto più efficace infatti mostrare cosa sapranno fare piuttosto che fissare degli obiettivi di apprendimento astratti; 24

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– lo studente è impegnato a svolgere un compito o a risolvere un problema non solo a livello di semplice azione o operazione; imparare a risolvere un problema implica infatti quattro livelli di istruzione: il problema, il compito richiesto per risolvere il problema, le operazioni che il compito include, le azioni implicate dalle operazioni. Lo studente deve essere impegnato quindi a più livelli: azione, operazione, compito e problema; – lo studente risolve più problemi posti in ordine di complessità crescente, per consentire un’acquisizione graduale e progressiva delle competenze.

Activation L’apprendimento è facilitato quando la conoscenza preesistente viene attivata come fondamento per la nuova conoscenza. È sorprendente, osserva Merrill, come spesso si tenda a presentare nuove informazioni in forma molto astratta, senza aver prima preparato il terreno perché esse possano essere comprese. L’attivazione implica molto di più che verificare le conoscenze pregresse; significa piuttosto attivare quei modelli mentali che possono essere modificati per consentire allo studente di integrare le nuove conoscenze con quelle preesistenti. Il miglior schema per l’attivazione è quello che prevede l’utilizzo degli advance organizers. Secondo Ausubel (1960, 1963), i nuovi significati si acquisiscono mediante l’interazione della nuova conoscenza con concetti e proposizioni precedentemente appresi. L’apprendimento si rivela veramente significativo quando la nuova informazione viene organicamente integrata nelle strutture cognitive preesistenti. La funzione degli organizzatori anticipati è per esempio quella di fornire al lettore una breve sintesi del contenuto di un brano, che presenta un certo grado di complessità e difficoltà, e di attivare e sviluppare strutture cognitive adeguate, di cui il soggetto è presumibilmente privo per scarsa o nulla conoscenza dell’argomento: queste strutture © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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costituiscono una impalcatura sulla quale andranno ad ancorarsi le nuove idee espresse nel brano in questione. Ausubel raccomanda che gli advance organizers siano a un livello superiore in termini di astrazione, generalità e inclusività rispetto al compito. Essi forniscono all’allievo non solo una sintesi del materiale, ma soprattutto idee più generali utili a inquadrare un nuovo tema/problema. Gli studenti apprendono quindi meglio quando vengono stimolati a ricordare, a mettere in relazione, a descrivere oppure ad applicare conoscenze precedenti che possono essere usate come fondamento per la nuova conoscenza, o ancora quando viene data loro l’opportunità di dimostrare conoscenze e competenze precedentemente acquisite.

Demonstration L’apprendimento è facilitato quando, piuttosto che dare semplicemente informazioni su ciò che deve essere appreso, lo si dimostra. Spesso la conoscenza viene presentata a un livello troppo generale e non attraverso esempi. Sarebbe invece opportuno fornire esempi e controesempi per i concetti, dimostrazioni per le procedure, visualizzazioni per i processi e modellamento per i comportamenti. La demonstration implica la presenza di una guida che aiuti lo studente a selezionare le informazioni rilevanti, l’offerta di rappresentazioni molteplici della conoscenza e infine il confronto tra una molteplicità di esempi.

Application L’apprendimento è facilitato quando agli studenti viene data l’opportunità di praticare e di applicare le nuove conoscenze o abilità nella soluzione di una varietà di problemi. È necessario ovviamente fornire adeguato supporto (coaching) e feedback nel corso delle prestazioni. 26

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Integration L’apprendimento è facilitato quando lo studente viene incoraggiato a trasferire le nuove conoscenze/abilità nella vita reale; quando gli viene data l’opportunità di dimostrarle pubblicamente; quando può analizzare, discutere e difendere le sue nuove conoscenze. L’integration ha notevoli ricadute sulla motivazione: se agli studenti viene offerta l’opportunità di dimostrare i propri progressi, la motivazione aumenta.

Instructional Design e costruttivismo Com’è noto, negli ultimi vent’anni, gli studi nell’ambito delle scienze cognitive e della psicopedagogia hanno condotto a una significativa ridefinizione del concetto di apprendimento. In particolare si sono sviluppate tre principali linee di ricerca che, pur presentando molteplici elementi di contatto, pongono l’accento su aspetti diversi (Striano, 1999): una linea di marca costruttivista che, recuperando e approfondendo il lavoro di Piaget, offre una lettura dell’apprendimento come processo adattivo nel quale il soggetto che apprende svolge un ruolo attivo di costruzione-decostruzione di strutture e schemi di conoscenza; una linea storico-culturale che, richiamandosi a Vygotskij, propone un’interpretazione dell’apprendimento come esperienza mediata e come processo socialmente condiviso e culturalmente costruito, in cui le relazioni intersoggettive e le risorse culturali presenti in un determinato contesto giocano un ruolo centrale; e infine una linea contestualista, che riconosce la collocazione «ecologica» dei processi apprenditivi e di costruzione della conoscenza nell’ambito di peculiari configurazioni contestuali, individuando come unità di analisi la dimensione contestuale, non identificabile tout court con quella ambientale (Striano, 1999, p. 20).

Ciò che entra in gioco è infatti, © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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una complessa realtà di natura essenzialmente socio-cognitiva, costruita dai soggetti in esso implicati, ed evolvente attraverso processi di cambiamento e sviluppo che si danno sulla base di una costante e reciproca interazione tra forze individuali, che vengono così interpretati come contestualmente situati e distribuiti tra il soggetto, gli artefatti culturali e le relazioni sociali in cui è implicato (ibidem).

In questo quadro, anche in ambito ID sono emersi nell’ultimo decennio nuovi orientamenti che vanno sotto il nome di constructivist instructional design (Dick, 1991; Jonnassen, 1994; Savery, e Duffy, 1995; Wilson, 1996) e che riflettono le istanze emerse sul piano della riflessione psicopedagogica. I modelli didattici di impronta costruttivistica pongono l’accento sul concetto di ambiente di apprendimento: esso è definito come un luogo in cui coloro che apprendono possono lavorare aiutandosi reciprocamente avvalendosi di una varietà di risorse e strumenti informativi in attività di apprendimento guidato o di problem solving (Wilson, 1996, p. 5).

L’idea è che intorno ai soggetti che apprendono si possono disporre impalcature di varia natura di cui il soggetto potrà avvalersi nel suo avanzamento conoscitivo: si tratta del concetto di scaffolding (impalcatura di sostegno), derivato da quello vygotskijano di area di sviluppo prossimale, con il quale Vygotskij indica l’insieme delle potenzialità che l’individuo può manifestare, se opportunamente aiutato. Attorno a ogni soggetto va dunque allestito un variegato repertorio di risorse di apprendimento, tecniche, organizzative, interpersonali, affinché ciascuno possa trovare un clima congeniale e gli «appigli» più idonei per procedere. Altri autori sottolineano aspetti ulteriori. Gli ambienti di apprendimento dovrebbero, secondo Collins (1996), offrire molteplici rappresentazioni della realtà, evitare semplificazioni rappresentando la naturale complessità del mondo reale, porre l’attenzione sulla costruzione della conoscenza e non sulla sua 28

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trasmissione e riproduzione, offrire occasioni di apprendimento desunte dal mondo reale, basate su casi, piuttosto che sequenze istruttive predeterminate, alimentare pratiche riflessive, permettere costruzioni di conoscenze dipendenti dal contesto e dal contenuto e favorire la costruzione cooperativa della conoscenza attraverso la negoziazione sociale. In sintesi, i tratti essenziali di un ambiente di apprendimento di taglio costruttivista sono riconducibili ai seguenti punti: attenzione rivolta alla costruzione e non alla riproduzione/trasmissione della conoscenza; tendenza a contestualizzare piuttosto che ad astrarre, presentando compiti autentici e basandosi su casi reali; presentazione di versioni molteplici e complesse della realtà, stimolando e alimentando pratiche riflessive e metacognitive; enfasi sulla costruzione cooperativa della conoscenza (Calvani e Rotta, 1999). Dai principi del costruttivismo di matrice storico-culturale e vygotskijana derivano poi in particolare le teorie sulla community of learners (Ligorio, 1994; Brown, 1996) e sulle comunità di pratica (Lave e Wenger, 1991). La peculiarità che definisce una learning community (Collins e Bielaczyc, in Reigeluth, 1999) è l’esistenza di una cultura dell’apprendimento in cui ciascuno si impegna in uno sforzo collettivo di comprensione del senso. Quattro sono le specificità che caratterizzano tale cultura dell’apprendimento: 1. la diversità di expertise tra i membri della comunità; 2. la condivisione dell’obiettivo di far crescere continuamente le competenze e le conoscenze collettive; 3. l’enfasi sull’imparare a imparare; 4. la messa a punto di dispositivi per la condivisione di ciò che viene appreso. Come progettare/facilitare una comunità di apprendimento? Vi sono diverse problematiche da considerare, che Collins e Bielaczyc (in Reigeluth, 1999) propongono di inquadrare all’interno di otto dimensioni: © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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1. Scopo della comunità Il fine di una learning community è di promuovere una cultura dell’apprendimento, in cui sia gli individui che la comunità imparino a imparare. I membri della comunità condividono gli sforzi personali per giungere a una comprensione più profonda di ciò che studiano. I soggetti imparano a considerare molteplici prospettive, a risolvere i problemi in una varietà di modi, a utilizzare le conoscenze e le abilità gli uni degli altri come risorse per risolvere collaborativamente i problemi.

2. Attività di apprendimento Le attività di una comunità di apprendimento hanno lo scopo di: a) promuovere lo sviluppo individuale e la costruzione collaborativa di conoscenza; b) favorire la condivisione delle conoscenze e delle abilità tra i membri della comunità; c) rendere il processo di apprendimento visibile e articolato. Tra le attività di apprendimento tipiche di una learning community si possono annoverare: ricerche individuali e di gruppo; discussioni; tutoraggio tra pari; collaborazione alla creazione di artefatti per rendere pubblico ciò che si è appreso; problem solving collaborativo in cui gli studenti assumono un particolare ruolo verso uno scopo comune. Brown e Campione (1996) sostengono che le attività di una comunità di apprendimento si caratterizzano per due aspetti: le attività operano come un sistema, sono cioè tutte interdipendenti, e i loro obiettivi sono articolati e interconnessi.

3. Ruolo del docente e trasformazione della relazione educativa In una comunità di apprendimento, il docente assume il ruolo di organizzatore e facilitatore. Lo studente diventa responsabile del proprio apprendimento e dell’apprendimento altrui. 30

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4. Centralità/perifericità e identità L’identità del soggetto è legata alla centralità/perifericità del ruolo che ricopre all’interno della comunità e dal grado di riconoscimento ricevuto dagli altri membri della comunità stessa (Lave e Wenger, 1991). In una comunità di apprendimento i ruoli centrali sono quelli di coloro che contribuiscono in modo più diretto alle attività collettive e alla crescita delle conoscenze della comunità. Vi sono tuttavia opportunità per tutti e i soggetti che partecipano assumendo ruoli periferici sono comunque valutati per i loro contributi. La centralità e la perifericità dipendono dal contesto. L’identità individuale si costruisce attraverso la partecipazione; emerge così un senso di identità della comunità: operando infatti verso un fine comune si sviluppa una consapevolezza collettiva, che può oltretutto favorire lo slittamento dalla perifericità alla centralità.

5. Risorse In una comunità di apprendimento i contenuti appresi e i processi di apprendimento innescati da fonti esterne vengono condivisi tra i membri e divengono parte della conoscenza collettiva.

6. Discorso Nelle comunità di apprendimento il linguaggio utilizzato per comunicare idee e pratiche emerge nella comunità stessa attraverso l’interazione con diverse fonti di conoscenza e la co-costruzione e negoziazione di significati tra i membri della comunità. Le comunità di apprendimento costruiscono un linguaggio comune attraverso il quale articolano processi di apprendimento, piani, scopi e assunzioni. Il discorso assume la funzione di medium per la formulazione e lo scambio di idee; promuove inoltre la motivazione alla ricerca e alla riflessione sollecitando nuove domande e ipotesi che danno luogo a ulteriori ricerche. In questo processo i membri della comunità si aiutano reciprocamente. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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7. Conoscenza Nelle comunità di apprendimento si enfatizzano sia l’expertise individuale che la conoscenza collettiva. Si privilegiano argomenti che si focalizzano su principi o idee che possono generare comprensioni più ampie e profonde dell’argomento stesso. Si verifica anche una crescita circolare di conoscenza nel momento in cui la discussione all’interno della comunità su ciò che gli individui hanno appreso conduce gli individui a cercare altra conoscenza, da condividere poi con la comunità. Esiste quindi una interrelazione tra la crescita personale e quella del gruppo.

8. Prodotti In una comunità di apprendimento i membri collaborano per produrre artefatti che possono essere utilizzati dalla comunità per comprendere altri temi o problemi. Per quanto riguarda nello specifico le comunità di pratica, definite da Lave e Wenger (1991) come gruppi di persone che condividono un interesse o una passione e che interagiscono regolarmente per imparare a fare meglio, tre sono le caratteristiche cruciali che le contraddistinguono: un’identità che si definisce sulla base di un interesse condiviso; l’appartenenza a una comunità i cui soggetti si aiutano reciprocamente; la condivisione delle pratiche e non solo degli interessi. Una comunità di pratica costruisce infatti un repertorio condiviso di risorse, ossia di esperienze, storie, strumenti, modalità di risoluzione dei problemi, in breve un repertorio di pratiche.3 3

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Per approfondimenti sulle comunità di apprendimento e le comunità di pratica si segnalano due numeri della rivista online Form@re: Tanoni I. (a cura di, 2003), Comunità di apprendimento e comunità di pratica, Form@re, n. 19, marzo, in Internet: http://formare.erickson.it/archivio/ marzo_03/editoriale.html; Calvani A. (a cura di, 2003), Comunità di pratica, comunità di apprendimento, reti di conoscenza o cos’altro?, Form@re, n. 22, settembre-ottobre, in Internet: http://formare.erickson.it/archivio/ set_ott03/editoriale. html. Si rimanda inoltre a Manca S. e Sarti L. (2001).

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Capitolo 2

E-learning

Tipologie di e-learning Il termine e-learning è oggi molto di moda, ma viene impiegato secondo accezioni diverse, riflettendo pratiche e visioni differenti. Anche da un punto di vista strettamente terminologico il termine viene comunemente usato quale sinonimo di altre espressioni, alcune delle quali già in uso nello scorso decennio: online learning, online education (Harasim, 1990), computer mediated distance learning (Palloff e Pratt, 1999), web-based learning o web-based training (WBT) (Oakes), distributed learning (Resnick, 1996) e distributed training (Serjak, Curtis), computer-assisted learning, online resource based learning (ORBL), networked collaborative learning (NCL), computer-supported collaborative learning (CSCL), ecc. (Ally in Anderson e Elloumi, 2004; Khan, 2004). Possiamo dire in prima approssimazione che con questa espressione ci riferiamo all’insieme di metodologie e tecnologie che consentono di attuare percorsi di formazione a distanza, avvalendosi prevalentemente, anche se non esclusivamente, della rete. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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Facciamo un passo ulteriore e chiediamoci: attualmente quante tipologie di e-learning esistono? Mason (1998, 2002) della Open University fornisce due differenti, per quanto almeno in parte convergenti, classificazioni. Nella prima (1998) distingue tre diverse tipologie di e-learning: • content and support: si tratta della tipologia più diffusa ed economica (se il livello di multimedialità e interattività dei materiali è basso) e si basa sull’erogazione di contenuti (materiali stampati o pagine web) e sul supporto minimale di un tutor (per e-mail o computer conferencing); si caratterizza per la netta distinzione tra contenuto e supporto; • wrap around: consiste nella combinazione di risorse Internet, attività e discussioni online con libri, cd-rom e tutoriali; si lascia maggiore spazio e libertà allo studente, il contenuto è meno strutturato e assume diverse connotazioni a seconda delle attività; il tutor assolve il ruolo di facilitatore interagendo singolarmente o con piccoli gruppi; • integrated model: si basa essenzialmente su attività collaborative in piccoli gruppi; i contenuti del corso sono fluidi e dinamici e in un certo senso viene meno la distinzione tra contenuto e supporto, poiché il contenuto nasce proprio dall’interazione e dalla negoziazione tra i partecipanti e con il tutor; in questo caso il tutor/docente diventa un moderatore e animatore di comunità di apprendimento. Nella seconda classificazione Mason (2002) allarga la prospettiva includendo le più recenti evoluzioni dell’e-learning e distinguendo tra: • web-based training: utilizzato soprattutto nella formazione aziendale, si basa sull’erogazione di contenuti senza interazioni significative con un tutor o tra pari; • supported online learning: si caratterizza per l’interazione con il tutor, il dialogo tra pari, la ricerca di risorse e il lavoro collaborativo: 34

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E-learning

Tabella 2.1 Tre tipologie di e-learning (Mason, 1998) Content and support

Wrap around

Integrated model

Si focalizza sul contenuto

Si focalizza sullo studente

Si focalizza sul gruppo

Si basa sull’erogazione

Si basa su attività e risorse di vario tipo

Si basa su attività collaborative

È orientato all’apprendimento individuale

È orientato all’apprendimento individuale e in piccoli gruppi

È orientato all’apprendimento in piccoli gruppi

Prevede un grado minimale di interazione con il tutor

Prevede interazioni significative con il tutor

Prevede forme di peer tutoring

Non prevede nessun tipo di collaborazione tra pari

Prevede interazioni tra pari

Prevede interazioni dense tra pari

il gruppo discute e dialoga utilizzando la posta elettronica, il web forum o la chat, il tutor o moderatore organizza le interazioni; il supporto prevede periodici incontri face-to-face, supervisione online da parte del tutor, sostegno tra pari, consulenza da parte di esperti, feedback alla performance, servizi e strumenti di supporto; • informal e-learning: rinvia a forme di apprendimento che si collocano al di fuori di un corso istituzionalmente organizzato e che si basano sull’interazione tra colleghi e lo scambio di esperienze. Come si può vedere confrontando le due classificazioni, le tipologie web-based training e supported online learning coprono sostanzialmente le tre tipologie indicate nella tabella 2.1: la novità è rappresentata da una nuova tipologia emergente indicata da Mason con il termine informal e-learning.1 Esso comprende il vasto 1

L’apprendimento informale è oggetto di ampia trattazione. In generale esso si pone alla confluenza di prospettive di riflessione diverse. Un filone di primaria importanza riguarda oggi l’apprendimento organizzativo e la complessità delle sue diverse componenti: questo tipo di apprendimento si riferisce ai comportamenti, alle regole e ai linguaggi che definiscono l’appartenenza a un’organizzazione (Ajello, 2004). Sui rapporti tra educazione informale e nuove tecnologie in particolare si segnalano Bruschi e Mariani (2002) e Trentin (2004).

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Tabella 2.2 Tre tipologie di e-learning (Mason, 2002) Web-based training

Supported online learning

Informal e-learning

Si focalizza sul contenuto

Si focalizza sullo studente

Si focalizza sul gruppo

Si basa sull’erogazione

Si basa sulle attività

Si basa sulla pratica

È orientato all’apprendimento È orientato all’apprendimento individuale in piccoli gruppi

È orientato all’apprendimento all’interno delle organizzazioni

Prevede un grado minimale di interazione con il tutor

Prevede interazioni significati- I partecipanti agiscono come ve con il tutor studenti e tutor

Non prevede nessun tipo di collaborazione tra pari

Prevede intense interazioni tra pari

Prevede molteplici modalità d’interazione tra gli studenti

(Riadattata da Mason, 2002)

e variegato mondo del networked learning e delle online learning communities. Il campo costituisce ormai un vero è proprio ambito di studio. Esiste infatti un’ampia letteratura sulle dimensioni delle virtual o online communities (Palloff e Pratt, 1999; Wellman, 1999; Prece, 2000), anche se, come rileva Mason, si tratta di un settore di studi che merita ulteriori approfondimenti. In generale quando si parla di networked learning o di online learning communities ci si riferisce a comunità legate principalmente alla pratica professionale, basate sul peer learning e sulla condivisione di conoscenze e informazioni. Alla base c’è l’idea che l’interazione sociale rappresenti un agente di rilievo nell’apprendimento. La partecipazione dei soggetti alla vita della comunità può essere più o meno intensa; la forza delle online learning communities risiede principalmente nella capacità di generare processi di continua affiliazione e di mutuo apprendimento. Mason utilizza l’espressione informal e-learning per indicare tutto quell’ambito che oltrepassa i confini del formal e-learning: con quest’ultima espressione ci si riferisce a interventi formativi in contesti istituzionali basati su percorsi progettati ad hoc, finalizzati al conseguimento di obiettivi mirati e supportati in termini di risorse umane (tutor, 36

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E-learning

docenti, esperti, ecc.) e contenuti educativi; con la prima, invece, si intende una situazione di apprendimento non formale in cui più soggetti, legati da relazioni informali e accomunati da interessi simili, si scambiano spontaneamente informazioni e condividono conoscenze. Nell’ambito dell’informal e-learning possiamo includere anche forme di esplorazione libera per uso personale: il soggetto ricerca sul web risorse, accedendo a siti, data base, documenti, ecc. Un’altra significativa classificazione ci viene da Bellier (2001) che, basandosi non tanto sugli aspetti metodologici quanto sulle pratiche correnti, distingue tra le seguenti cinque principali modalità di e-learning.

1. Completamente a distanza senza l’intervento di un tutor Tutto si svolge a distanza, il discente è completamente autonomo nel processo di apprendimento: si iscrive a distanza, paga a distanza, accede ai contenuti e ne fa ciò che desidera. Anche i quiz e le valutazioni prescindono da qualsiasi contatto con un tutor. I contenuti sono essenzialmente di carattere procedurale e riguardano per la gran parte l’informatica, la contabilità, l’uso di Internet, procedure ammistrative, ecc. Dal punto di vista progettuale presuppone chiarezza e tono conviviale delle consegne, presentazioni e spiegazioni, scomposizione granulare dei contenuti. Tipicamente questo genere di formazione riguarda più gli individui che le organizzazioni, per quanto un’organizzazione possa decidere di farne uso con formule che vanno dal «self-service» completo al corso obbligatorio, che ciascuno segue secondo i propri ritmi entro scadenze predefinite.

2. Completamente a distanza, ma con il supporto di un tutor Si tratta di una categoria molto ampia: le modalità in cui può essere effettuato il tutoraggio online possono infatti essere estre© Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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mamente diverse, dando luogo a dispositivi tecnici e pedagogici di natura differente. Il tratto comune sta nel fatto che l’apprendimento avviene completamente a distanza e che i discenti vengono seguiti individualmente da un tutor. Il tutor può avvalersi di strumenti di comunicazione sincrona (video-audio conferenze tutor-discente, video-audio conferenze in classe virtuale, chat, ecc.) o asincrona (e-mail, forum). Queste diverse modalità possono variamente integrarsi.

3. Misto distanza/presenza con autoformazione a distanza In questo caso, la formazione vera e propria avviene a distanza; gli incontri in presenza vengono organizzati in base a un ritmo che può variare secondo diversi schemi: a) all’inizio dell’attività formativa perché i partecipanti si conoscano e per la messa a punto tecnica; lo svolgimento della formazione avviene a distanza; ciascuno viene seguito più o meno individualmente, si organizzano dei forum e possono essere attivate delle classi virtuali se la durata della formazione a distanza è relativamente lunga; b) durante la formazione a distanza per verificare direttamente che gli apprendimenti abbiano avuto luogo e siano di fatto operativi. Il fine di questi incontri in presenza è quello di far passare i discenti dalla formazione online alla messa in opera in situazione concreta. Si tratta perlopiù di incontri che hanno la forma di workshop, studi di caso o situazioni operative. Teoricamente i corsisti hanno già acquisito delle nozioni, si lavora dunque sul modo in cui utilizzarle. Gli incontri in presenza possono anche essere concepiti come un’occasione per approfondire nozioni complesse, capacità relazionali e conoscenze teoriche; c) alla fine dell’attività formativa, per verificare se ciascuno, nel proprio contesto lavorativo, è riuscito a rendere operative le conoscenze acquisite. Questi incontri permettono inoltre al 38

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E-learning

gruppo di rivedersi e di consolidare una rete di relazioni che può proseguire oltre l’attività formativa. Questa modalità mantiene tutti i vantaggi dell’e-learning: ciascuno può organizzarsi autonomamente secondo i propri ritmi; gli spostamenti si riducono drasticamente; aumentano le opportunità di personalizzazione del percorso. Inoltre gli incontri in presenza riducono il rischio del senso di isolamento e di abbandono che di solito si ascrive alla formazione a distanza. Due sono le condizioni necessarie per la riuscita di questa modalità: 1. i materiali di studio (esercizi, casi, simulazioni) devono essere ben progettati sul piano didattico perché si possa parlare di apprendimento e non di semplice trasmissione di informazione: è necessario quindi un vero lavoro pedagogico sui contenuti; tanto più i contenuti saranno complessi tanto più la loro realizzazione sarà costosa; 2. un alto grado di professionalità da parte dei tutor, i quali si trovano di fronte a corsisti che, sul piano delle conoscenze, hanno avuto accesso a molteplici informazioni e risorse.

4. Misto distanza/presenza con attività complementari a distanza L’attività di apprendimento avviene perlopiù in presenza, mentre le attività a distanza sono concepite come complementari, per l’approfondimento. Si tratta in questo caso di completare e arricchire un insegnamento che si svolge essenzialmente in forma immediata. Il tutor/formatore si comporta in modo non dissimile da un tradizionale formatore e il corsista può utilizzare le risorse per il lavoro a distanza come userebbe il manuale tradizionale, ma con un diverso formato: video, quiz, esercizi, esempi, mini-casi, ecc. Al tempo stesso a metà percorso potranno essere previste interazioni in classe virtuale. In questo caso sarà importante saper distinguere tra ciò che costituisce il cuore dell’apprendimento e ciò che invece © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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rappresenta un arricchimento, distinzione non sempre facile da operare.

5. Lavoro collaborativo a distanza Una parte di lavoro collaborativo può essere presente anche nelle modalità precedentemente descritte: se un forum funziona, ad esempio, si può parlare di attività collaborativa. Così anche in una classe virtuale, se il tutor sollecita scambi tra i partecipanti o se valorizza le presentazioni reciproche, promuove forme di collaborazione. Tuttavia quando si parla di lavoro collaborativo come una forma di e-learning ci si riferisce ad altro. Nei casi precedenti il lavoro collaborativo rappresenta un elemento all’interno di un dispositivo basato sulla trasmissione dei contenuti da apprendere. In questo caso, al contrario le conoscenze esterne al gruppo hanno minor valore e l’apprendimento stesso si genera a partire dalla partecipazione e dallo scambio. Il fatto stesso di lavorare insieme genera contenuto e apprendimento. Il tutor svolge la funzione di organizzatore e animatore di scambi e il suo ruolo consiste essenzialmente nel monitorare che il lavoro sia fonte di apprendimento per tutti. Oltre a ciò, non controlla né i contenuti né la forma che essi assumeranno, né il ritmo o il modo in cui gli apprendimenti avranno luogo. Questa modalità avvicina molto l’e-learning al knowledge management, oltrepassando però la questione della capitalizzazione dei saperi, per concentrarsi sulla loro diffusione e appropriazione da parte dei membri di una medesima comunità professionale. E se si vuole andare oltre, si può immaginare che al di là di una comunità di pratica, il lavoro collaborativo sia organizzato in modo trasversale e divenga un’occasione di apprendimento anche in domini sconosciuti. Le modalità 3 e 4 si caratterizzano non tanto per l’approccio metodologico, quanto per le possibili integrazioni tra presenza e distanza. Il criterio che le individua si colloca su un piano diverso 40

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rispetto quello utilizzato per descrivere le modalità 1, 2 e 5. Queste ultime non si discostano sostanzialmente da quelle indicate da Mason. Prescindendo dal fattore blending (misto presenza/distanza), proviamo ora a riassumere in uno schema di sintesi le varie tipologie indicate (figura 2.1). Fatta questa classificazione che, come tutte le schematizzazioni, tende per certi versi a semplificare la varietà e la complessità delle esperienze, è importante osservare che: – l’e-learning non è un oggetto definito, bensì un insieme di metodologie e di tecnologie in continua evoluzione; – non sempre queste tipologie esistono in forma «pura»: ad esempio, all’interno di un percorso formativo basato principalmente su attività collaborative, potrebbe essere comunque necessario prevedere momenti di studio individuale di carattere più erogativo e direttivo;

Content and support o web-based training (ricettivo/direttivo)

Formal

Esplorazione individuale

e-learning Wrap around (attivo)

Informal Integrated model (collaborativo)

Community networked learning

Figura 2.1 Tipologie di e-learning definite in base all’approccio metodologico e con un riferimento alla distinzione, da intendersi in forma non rigida, tra formal/informal (Mason, 2002).

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– come abbiamo segnalato nel nostro schema, nella distinzione tra formal e informal e-learning vi è in realtà un’area di confine, che in futuro prossimo sarà verosimilmente oggetto di riconfigurazione e che si colloca a metà strada tra l’e-learning basato sulla collaborazione e il mondo del networked learning: è tale l’osmosi che sussiste tra queste due diverse tipologie di e-learning che sarà necessario riconsiderare la distinzione stessa tra formale e informale. Questa ipotesi è ulteriormente avvalorata dall’attuale dibattito sulle relazioni tra e-learning e knowledge management: quest’ultimo può essere visto come un sistema di capitalizzazione dei saperi a cui una comunità di apprendimento attinge, oppure come un sistema di risorse integrato con percorsi formativi on the job; – le diverse tipologie di e-learning, a cui abbiamo appena accennato, possono a loro volta essere variamente declinate in base alle differenti modalità di integrazione con incontri in presenza (sistema blended), generando una varietà di applicazioni (si veda la Scheda 1).

Progettare e-learning: fasi e dimensioni Esistono dunque diverse tipologie di e-learning. Questo significa che, nonostante sia diffusa la tendenza, da parte di istituzioni e organizzazioni, a orientarsi verso soluzioni tipicamente erogative (content and support) dall’impianto metodologico-didattico poco raffinato e appiattito su modelli didattici trasmissivi, un progetto e-learning può in realtà assumere diverse configurazioni. Per comprendere quel processo che conduce alla messa a punto del progetto, soprattutto riguardo alle scelte di carattere metodologico-didattico, abbiamo bisogno di un modello. Soprassedendo in questa sede su tutta l’area dell’informal e-learning possiamo avvalerci di un’ipotesi orientativa? 42

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E-learning

Prima di tutto dobbiamo riflettere su che cosa significa progettare e-learning. Per certi aspetti questa progettazione pone problematiche analoghe a quella didattico-tecnologica tradizionale, campo, com’è noto, oggetto di una vasta trattazione (Bloom, 1956; Gagné, 1965; Maragliano e Vertecchi, 1977; Pellerey, 1982; Vertecchi, 1992; Olimpo, 1993; Maragliano, 1994; Gagné e Briggs, 1974; Cerri Musso, 1995; Galliani et al., 1999; Calvani, 2001a). La progettazione di e-learning, come quella didattica, presenta un taglio «sistemico»: a qualunque livello si operi, da quello «minimale» della progettazione di un corso o di una lezione, a quelli ben più complessi della progettazione di sistemi d’istruzione e/o di ambienti di apprendimento, è opportuno che prevalga la tendenza a cogliere una complessità di elementi interconnessi nei loro rapporti reciproci. Anche nella trattazione dell’e-learning si ritrova inoltre la classica disputa tra modelli di progettazione lineare, basati sull’organizzazione sequenziale degli interventi didattici, e modelli di taglio costruttivistico, dal carattere aperto e ricorsivo (Khan, 2004). In particolare, la questione può essere così formulata: la preparazione di un corso o ambiente e-learning può/deve essere predisposta nel dettaglio in anticipo dal progettista, che deve scomporre analiticamente i contenuti, definire operativamente gli obiettivi, valutare le conoscenze in ingresso e prevedere un sistema di feedback continuo; oppure ci si deve limitare a fornire un sistema di innesco, destinato a evolversi grazie alla partecipazione stessa dello studente che, negoziando obiettivi e contenuti, diventa egli stesso coautore del progetto educativo? (Calvani, 2000, 2004) Si tratta di un dibattito ancora aperto e che esprime una diversità di impostazioni per certi versi irriducibile. Sicuramente però un progetto di formazione e-learning, in modo più marcato rispetto alla progettazione tradizionale, incorpora queste tre dimensioni: – negoziale: aspettative della committenza, ipotesi del progettista, valutazioni dei tecnologi, ecc. generano un articolato sistema di © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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impegni che si vanno definendo e ridefinendo nel corso dell’attività attraverso continue negoziazioni; – rappresentazionale: le variabili e gli aspetti che entrano in gioco sono così tanti che inevitabilmente le soluzioni si prospetteranno in forma di immaginazione preventiva di un sistema di scenari o di eventi possibili; – ermeneutico-circolare: la messa a punto del progetto si traduce in un processo di ricerca e definizione del «senso» che necessariamente assume un carattere ricorsivo. La progettazione di e-learning non è dunque facilmente schematizzabile, tuttavia se dovessimo rappresentare l’intero processo progettuale, l’immagine più appropriata sarebbe quella di una spirale che evoca l’idea di un sistema aperto e ricorsivo in cui si procede attraverso continui rimandi e aggiustamenti, una spirale che si potrebbe suddividere in tre fasi come raffigurato nella figura 2.2. Vediamo più analiticamente in cosa consiste ciascuna di queste fasi.

LIVELLO MACRODIDATTICO

utenza

obiettivo infrastruttura Macrotipologia didattica – tipologia di e-learning – virtualità-presenza – autogeneratività

contenuto

LIVELLO MICRODIDATTICO

Architetture didattiche

obiettivo contenuto

Strategie didattiche

infrastruttura utenza

Comunicazione didattica

– Story board – Layout

PRODUZIONE-SVILUPPO Contenuto

Interazione

Figura 2.2 Fasi di elaborazione di un progetto e-learning. 44

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Prima fase: Definizione della macrotipologia didattica Questa fase muove dall’analisi dei vincoli d’ingresso e delle relazioni sussistenti tra questi e si conclude con la produzione di un documento di lavoro che presenta la struttura complessiva del progetto (la macrotipologia didattica). A questo livello di output tre dimensioni caratterizzanti sembrano essere le più rilevanti: a) la tipologia di e-learning b) il grado di integrazione tra presenza e distanza c) il grado di «autogeneratività» dell’attività formativa.2 Quali sono i vincoli da considerare? Sono complessivamente quattro: utenza, contenuto, obiettivo e infrastruttura.3 Analisi dell’utenza Il primo dato da analizzare riguarda le caratteristiche dei destinatari in relazione ai seguenti aspetti. a) Distanza fisica: i partecipanti potrebbero essere distribuiti sul territorio nazionale, in quanto appartenenti a particolari categorie (ad esempio gruppi di insegnanti partecipanti a progetti pilota, disabili, ecc.) e potrebbero avere difficoltà nel raggiungere fisicamente la sede della formazione. Questo fattore agisce direttamente sul numero di incontri in presenza realizzabili: è ovvio infatti che maggiore è la distanza, minori sono le possibilità di incontri in presenza. La difficoltà a incontrarsi in presenza potrebbe costituire un fattore di criticità nel caso in cui i destinatari fossero informaticamente poco alfabetizzati. b) Numero: il numero dei partecipanti svolge un ruolo decisivo, soprattutto in rapporto alla disponibilità della risorsa tutorship; 2 3

Su questi aspetti si veda in dettaglio la Scheda 1, Definizione della macrotipologia didattica. Lo schema dei vincoli qui presentato è la rielaborazione di uno schema tratto da Calvani e Rotta (2000), pp. 277-284.

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la possibilità di orientarsi verso soluzioni che prevedono forme di mentoring avanzate dipende direttamente dalla proporzionalità tra numero di partecipanti e numero di tutor. c) Accesso dell’utente alla tecnologia: riguarda sia il livello di alfabetizzazione tecnologica (information litteracy) sia le possibilità di accesso che l’utente ha rispetto alle tecnologie. Da questo punto di vista, occorrerà chiedersi: quali sono le abilità informatiche dei destinatari? Gli utenti dispongono di hardware e software adeguati? Hanno dimestichezza con gli strumenti e gli ambienti che useranno? Sanno ragionevolmente far fronte a eventuali inconvenienti tecnici che possono subentrare? Possiamo distinguere alcuni livelli: 1. inadeguato: computer e connessione Internet da acquisire, scarsa o assente familiarità tecnologica; 2. di base: disponibilità di computer e connessione Internet, capacità di utilizzo di programmi di videoscrittura, di navigazione e di posta elettronica; 3. alto: disponibilità di computer e connessione Internet, esperienze tecnologiche pregresse di vario tipo, scarsa difficoltà a imparare l’uso di eventuali altri ambienti (per esempio, groupware). Fornire attrezzature e corsi di familiarizzazione tecnologica, come attività preliminare alla formazione in rete, può costituire un’operazione non economica e può pertanto indurre a soluzioni che si avvalgono di mezzi tradizionali (testi, videocassette, ecc.). d) Expertise di dominio dell’utente: si tratta del grado di conoscenza/competenza/esperienza che il partecipante possiede in materia: se i partecipanti hanno scarsa expertise, hanno anche scarsa opportunità di condivisione; il valore aggiunto della condivisione e delle interazioni orizzontali aumenta in funzione dell’esperienza pregressa e della disponibilità alla condivisione: il modello ideale è dato dalle comunità dei ricercatori che si accingono a lavorare sinergicamente. 46

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e) Omogeneità/disomogeneità di interesse tra i partecipanti: qualora i partecipanti avessero interessi tra loro molto diversi, difficilmente saranno ipotizzabili percorsi basati sulla condivisione o collaborazione e ancora più difficile sarà creare situazioni di autogeneratività tali per cui i partecipanti continuino a interagire anche e oltre il termine dell’attività formativa istituzionale. f ) Disponibilità del partecipante alla condivisione e collaborazione: è un fattore rilevante ai fini della scelta della tipologia didattica più adeguata; occorre tuttavia valutare se tale condivisione sia utile e se esista disponibilità in tal senso nei partecipanti stessi. Rivalità e interessi antagonistici potrebbero, ad esempio, rendere inopportuna l’apertura di spazi comuni per la collaborazione. Analisi dell’obiettivo Quali sono gli obiettivi formativi del progetto? Come li possiamo operazionalizzare? Com’è noto esistono diverse tassonomie degli obiettivi educativi (Bloom, 1956; Ausubel, 1963; Gagné, 1965; Anderson, 1983; Merrill, 1983); quella di Bloom (1956), in particolare per quanto riguarda la categorizzazione degli obiettivi educativi nel dominio conoscitivo, è stata da più parti ripresa. Bloom distingueva tra: 1. conoscenza: capacità di rievocare materiale memorizzato, di richiamare alla memoria fatti, metodi e processi, modelli, strutture, ordini; 2. comprensione: capacità di afferrare il senso di una informazione e di saperla trasformare (trasposizione e traduzione, interpretazione e riorganizzazione, estrapolazione e previsione); 3. applicazione: capacità di far uso di materiale conosciuto per risolvere problemi nuovi e di utilizzare quindi rappresentazioni astratte (idee generali, regole di procedimento, metodi diffusi, principi, idee, teorie) in casi concreti; 4. analisi: capacità di separare degli elementi evidenziandone i rapporti in modo da rendere esplicita la gerarchia delle idee e/o delle relazioni fra esse sussistenti; © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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5. sintesi: capacità di riunire elementi e parti al fine di formare una nuova struttura organizzata e coerente (produzione di un’opera originale, elaborazione di un piano d’azione, deduzione autonoma di regole e/o di relazioni astratte); 6. valutazione: capacità di formulare autonomamente giudizi critici di valore e di merito in base all’evidenza interna e a criteri prestabiliti. Reigeluth e Moore (in Reigeluth, 1999), attraverso un lavoro comparativo tra le diverse tassonomie (tabella 2.3), hanno ridotto le sei tipologie di obiettivi a quattro: memorizzare informazioni, comprendere relazioni, applicare abilità semplici e applicare abilità generali. È chiaro che se il progetto si propone, ad esempio, di promuovere l’acquisizione di conoscenze assumerà contorni diversi rispetto a un percorso formativo finalizzato a imparare come eseguire procedure o risolvere problemi. Gli obiettivi vanno quindi definiti molto accuratamente. Questo aiuterà anche a risolvere le difficoltà che si riscontrano solitamente quando si cerca di tradurre i contenuti forniti dagli esperti in obiettivi di apprendimento. Tabella 2.3 Tassonomie degli obiettivi educativi (Reigeluth e Moore, in Reigeluth, 1999, p. 54) Bloom

Gagnè

Ausubel

Anderson

Merrill

Reigeluth

Conoscenza

Informazione verbale

Apprendimento di quantità discrete di informazione

Conoscenza dichiarativa

Memoria verbale

Memorizzare informazioni

Memoria associativa

Comprendere relazioni

Applicazione di regole

Applicazione di abilità semplici

Scoperta di nuove regole

Applicazione di abilità generali

Comprensione

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Apprendimento significativo

Applicazione

Abilità intellettuali

Analisi Sintesi Valutazione

Stategie cognitive

Conoscenza procedurale

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Analisi del contenuto Entrano poi in gioco le caratteristiche proprie del contenuto, che sono le seguenti. a) Apertura o chiusura: i contenuti sono specifici, chiusi, formalizzabili, predefinibili a priori oppure all’opposto, aperti, problematici e multiprospettici? Avrebbe senso dare spazio al confronto di opinioni, alla molteplicità dei punti di vista, al racconto e confronto di esperienze dirette? Per fare un esempio: se il corso si rivolgesse a contabili che devono imparare a usare un sistema software per la gestione della contabilità sarebbe un corso dai contenuti predefinibili, «chiusi»: organizzazione dei contenuti, percorso e sistema di verifica potrebbero essere strutturati in forma rigida, con controlli automatici; se invece il corso si rivolgesse a funzionari con compiti di responsabilità, la discussione e il confronto di esperienze tra partecipanti potrebbero avere un peso maggiore, potrebbero essere cioè significativi. Tenendo conto del grado di chiusura e apertura, si possono distinguere cinque tipologie di contenuti (Clark e Mayer, 2003) (tabella 2.4). b) Stabilità o instabilità: i contenuti sono «fissi», statici o dinamici? Sono destinati a restare perlopiù invariati nel tempo oppure sono soggetti ad aggiornamenti continui? Una regola grammaticale ad esempio resterà sempre la stessa, mentre disposizioni legislative, politiche, ecc. possono variare continuamente (Khan, 2004). Potrebbe avere senso quindi realizzare un prodotto multimediale, anche costoso, per l’insegnamento di base di una lingua straniera riutilizzabile in altre occasioni, mentre si potrebbe ricorrere a semplici link a siti istituzionali, per segnalare delle leggi. c) Testualità/multimedialità/interattività: il tipo di contenuto da trattare è tale per cui è sufficiente usare essenzialmente testo, corredato eventualmente da grafici e immagini con un livello minimo di interattività (per esempio, link, evidenziazioni di termini, ecc.), oppure sono necessarie simulazioni interattive © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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Tabella 2.4 Tipologie di contenuti (Clark e Mayer, 2003) Tipo di contenuto

Definizione

Esempio

Fatti (chiuso)

Un insieme di dati dal caratte- Norma giuridica re specifico e unico

Concetti (chiuso/aperto)

Una categoria che include al suo interno molteplici esemplificazioni

Ipertesto

Processi (aperto)

Un flusso di eventi o attività

Progettazione e valutazione di un sistema informativo

Procedure (chiuso)

L’esecuzione di una prestazio- Come eseguire un log on ne consistente in azioni stepby-step

Principi (aperto)

L’esecuzione di una presta- Come portare a termine una zione adattando delle linee vendita guida

(Riadattato da Clark e Mayer, 2003)

ad alto contenuto multimediale? Se occorrono simulazioni interattive, i costi possono essere molto alti. Analisi dell’infrastruttura Nell’analisi dell’infrastruttura rientrano sia la valutazione degli aspetti tecnologici che quella delle risorse umane disponibili per la tutorship online. ASPETTI TECNOLOGICI

Quali sono le risorse tecnologiche di cui si dispone? Gli elementi da considerare sono: 1. tecnologie per la gestione amministrativa dei corsi (learning management system); 2. tecnologie per la gestione dei contenuti (learning content management system); 3. piattaforme e-learning che consentano sia la gestione amministrativa che quella dei contenuti; 50

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4. supporto tecnico per la produzione dei contenuti (in termini di personale); 5. supporto tecnico per la gestione del processo (in termini di personale); 6. materiali didattici riusabili (learning object). Se, ad esempio, non si dispone di una piattaforma e-learning, si può scegliere di ricorrere a piattaforme commerciali, i cui costi però possono incidere pesantemente sul budget del progetto; oppure si può decidere di avvalersi di una piattaforma open source. Questa seconda opportunità presenta sicuramente dei vantaggi dal punto di vista economico. Inoltre una piattaforma open source è sicuramente più flessibile e quindi più personalizzabile di una piattaforma esistente sul mercato. Le piattaforme per l’e-learning, inoltre, differiscono tra loro sulla base della loro centratura (Rotta in Calvani e Rotta, 2000): • sul docente: tecnologie orientate prevalentemente a supportare l’erogazione dei contenuti e ambienti specializzati per il training a distanza; • sullo studente: tecnologie volte a supportare un alto livello di interazione; • sul gruppo: tecnologie orientate a supportare attività collaborative tra pari. Oggi si assiste allo sviluppo di una quarta categoria centrata sulla community network: si tratta di tecnologie a supporto della condivisione delle conoscenze e delle esperienze vissute in contesto aziendale e si configurano come ambienti integrati e specializzati per il knowledge management (Trentin, 2004). DISPONIBILITÀ DI RISORSE UMANE (TUTOR)

Quando si parla di tutorship, occorre distinguere tra: 1. un livello di counseling, ossia di supporto da parte di una figura esperta del dominio, che si limita a rispondere alle richieste © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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(soluzione compatibile anche con lo scenario content and support); 2. un livello di mentoring e coordinamento, ossia di supporto fornito da una figura dalle competenze più evolute nella gestione delle interazioni. La seconda possibilità rappresenta una sorta di precondizione favorevole alla possibilità di un approccio personalizzante che valorizzi maggiormente il potenziale della formazione online. Al termine dell’analisi dei vincoli di input e dei reciproci condizionamenti, si procede alla definizione della macrotipologia didattica, che può essere più orientata ai contenuti, alle interazioni o all’attività collaborativa e prevedere diversi schemi di combinazione tra presenza/distanza (si veda la Scheda 1).

Seconda fase: Definizione metodologico-didattica Entriamo in un momento delicato e cruciale per la nostra riflessione. È questa infatti la fase in cui entra maggiormente in gioco la dimensione propriamente instructional. Cerchiamo di chiarirne il senso. Il processo di progettazione si sviluppa senza soluzione di continuità rispetto alla fase precedente, anzi, le variabili che abbiamo appena analizzato continuano ad agire sullo sfondo come condizioni che si vanno ulteriormente a definire e dalle quali emergono le soluzioni metodologico-didattiche in senso stretto. Come abbiamo già sottolineato, infatti, la progettazione si delinea come un processo ricorsivo e aperto che impone continue ridefinizioni. È in questa fase che si operano le scelte didattiche rispetto a quattro principali problematiche: 1. quali modelli o quali architetture didattiche risultano più efficaci ed efficienti rispetto alle nostre condizioni d’istruzione; 2. quali strategie didattiche utilizzare e come combinarle; 52

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E-learning

3. come valutare gli apprendimenti conseguiti; 4. come comunicare i contenuti d’apprendimento in modo che la comunicazione risulti didatticamente efficace, sia cioè in grado di favorire l’apprendimento. Per comprendere meglio, facciamo un esempio. Stiamo progettando un corso online di diritto internazionale rivolto a studenti universitari. Il corso, rivolto a 25 studenti coordinati da un tutor, si propone di promuovere l’acquisizione di conoscenze in ambito giuridico e lo sviluppo di capacità di analisi e problem solving. Ipotizziamo che si verifichino le condizioni per sviluppare una soluzione prevalentemente integrated, ossia collaborativa, e che siano possibili incontri in presenza. Il passo successivo sarà quello di chiedersi: quali sono i modelli e le strategie didattiche che meglio si prestano per favorire il conseguimento degli obiettivi nel modo più efficace, efficiente e appealing? Ad esempio, potrebbe essere indicato un approccio basato sullo studio di caso collaborativo? Se sì, perché? Quali altri strategie potrebbero essere impiegate e come integrarle? Cosa viene valutato e come avviene la valutazione? Contestualmente si pone il problema della comunicazione didattica: in che modo presentare le informazioni? Come combinare testo e immagini? Quali immagini utilizzare e con quale funzione? Proprio affrontando e rispondendo a questi interrogativi, si entra nel vivo di quella che possiamo definire microprogettazione didattica. Queste domande vengono spesso trascurate nel corso della progettazione di e-learning, ma è proprio entrando nello specifico delle soluzioni metodologiche che un progetto assume una consistenza didatticamente significativa. È sempre in questa fase inoltre che emerge in tutta la sua complessità il problema dell’acquisizione e trasformazione dei contenuti. Infatti, l’esperto di contenuti (SME, subject matter expert) spesso non è anche un esperto di metodologie didatti© Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

che: occorrono quindi specifiche competenze professionali per trasformare un contenuto informativo in un contenuto didatticamente efficace. La complessità del problema emerge con maggiore evidenza se si pone l’attenzione sul fatto che scegliere una strategia didattica piuttosto che un’altra significa ridisegnare, riconfigurare, riscrivere un contenuto, e questo ovviamente implica un processo di continue negoziazioni con l’autore. Due sono le principali tecniche che si possono adoperare per acquisire contenuti: • partire da un testo prodotto dall’esperto e sceneggiarlo • intervistare l’esperto per ricavarne indicazioni. Le due operazioni ovviamente non si escludono; al contrario, sono entrambe auspicabili, presupponendo in ogni caso una conoscenza seppur minimale del dominio in questione. Questa fase si conclude con la produzione di un documento operativo che descrive analiticamente la struttura del corso, lo story board dei contenuti e il layout di ogni singola pagina (si veda la Scheda 2).

Terza Fase: Contenuto o interazione La fase finale del progetto può innescare a sua volta due diversi processi, a seconda dell’impianto didattico generale e delle metodologie didattiche scelte nello specifico: infatti, in base al peso assegnato ai contenuti e/o alle interazioni, si procede da una parte all’implementazione dei contenuti, dall’altra alla gestione delle interazioni. I due processi non si escludono reciprocamente, ma è importante sottolinearne la differenza, poiché non tutti i progetti e-learning terminano necessariamente con una fase di implementazione e sviluppo dei contenuti. In altri termini, per un progetto e-learning non necessariamente varrà il seguente schema. 54

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E-learning

Progettazione metodologico-didattica

Realizzazione, ossia produzione dei materiali

Erogazione dei corsi

Come indicato nella spirale il processo può prendere infatti due diverse direzioni ed eventualmente dare luogo a una community.

Realizzazione dei materiali didattici Progettazione metodologicodidattica Gestione delle interazioni

Attività didattiche con contenuti più o meno strutturati e interazioni

E V E N T U A L E C O M M U N I T Y

Il ruolo dell’Instructional Designer Fin qui abbiamo analizzato il processo, individuandone le caratteristiche e indicando i prodotti attesi al termine di ciascuna fase. Dove si colloca l’intervento dell’Instructional Designer? Riprendiamo il nostro modello, indicando questa volta a quale livello sono necessarie specifiche competenze professionali in ambito didattico (figura 2.3). L’Instructional Designer interviene sin dalla fase iniziale per definire l’impianto didattico generale del progetto, ma fornisce il massimo del suo apporto nella fase di definizione metodologicodidattica in tutti i suoi aspetti. Il suo ruolo consiste infatti: © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

LIVELLO MACRODIDATTICO

utenza

obiettivo Instructional Designer contenuto

LIVELLO MICRODIDATTICO

Architetture didattiche

obiettivo contenuto

Instructional Designer Comunicazione didattica

infrastruttura Macrotipologia didattica – tipologia di e-learning – virtualità-presenza – autogeneratività

infrastruttura utenza

Strategie didattiche – Story board – Layout

PRODUZIONE-SVILUPPO Contenuto

Interazione

Figura 2.3 Collocazione dell’Instructional Designer all’interno del processo di progettazione di e-learning.

– nell’individuare la macrotipologia didattica più idonea: in questo caso si interfaccia principalmente con il project manager, per effettuare l’analisi dei vincoli iniziali, e con la committenza con cui negozia scelte e finalità; – nel selezionare modelli e strategie didattiche: in questo caso si interfaccia con l’esperto di contenuti, affrontando tutte le problematiche cui abbiamo sopra accennato; – nel definire le strategie di valutazione; – nell’indicare le strategie di comunicazione dei contenuti più efficaci sul piano didattico (organizzazione dell’informazione, selezione dei media-immagini, audio e video, dosaggio testo/immagine, ecc.); in questo caso l’Instructional Designer collabora anche con un esperto di interfacce e di navigazione (figura 2.4). Mentre la ricerca è giunta a risultati ormai consolidati sulle possibili macrotipologie didattiche, molto meno chiara è la galassia dei modelli e delle strategie didattiche per l’e-learning e ancora 56

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E-learning

meno la sfera concernente la comunicazione didattica. È proprio su questi due ambiti che ci soffermeremo nei prossimi capitoli.

Project manager

Instructional Designer

Esperto interfacce

Esperto di contenuti

Figura 2.4 Schema di sintesi delle figure professionali con le quali l’Instructional Designer si interfaccia nel corso della progettazione didattica a livello macro e micro.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Scheda 1 – Definizione della macrotipologia didattica Il processo decisionale che conduce alla definizione della macrotipologia didattica passa attraverso le scelte da operare relativamente alla tipologia di e-learning, al giusto grado di integrazione tra presenza e distanza e all’autogeneratività o meno del corso.

a) Tipologia di e-learning (equilibrio contenuto/tutorship) Costruiamo una matrice a partire dalle tipologie di e-learning che abbiamo distinto tenendo conto del ruolo che hanno i contenuti, del grado di libertà dell’utente e del livello di interazione con il tutor e tra pari. Tabella 2.5 Matrice tipologie di e-learning Tipologia di e-learning

Contenuto

Tutorship

Content and support

1a) Materiale prestrutturato prevalentemente testuale, scarsa interattività con i contenuti (basso costo)

a) Counselor (Basso costo pro capite e basso livello di qualità del corso) b) Couselor, percorso guidato, individualizzazione (costo medio alto pro capite)

1b) Materiale prestrutturato multimediale buon livello di interattività (alto costo)

Counselor (Basso costo pro capite)

2a) Materiali parzialmente strutturati in un contesto globalmente strutturato (basso costo)

Individualizzazione Ruolo attivo (Costo medio-alto)

2b) Materiali parzialmente strutturati in un contesto aperto (sviluppi ulteriori di percorsi su Internet, ecc.)

Personalizzazione mentor (Costo alto)

Wrap around

(continua)

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E-learning

(continua)

Tipologia di e-learning

Contenuto

Tutorship

Integrated model

Materiale parzialmente strutturato (basso costo)

Collaborazione coordinator (costo alto)

Esplorazione individuale

Assenza di materiale strutturato; libero accesso a risorse Internet

Assenza di tutorship

Networked learning

Assenza di materiale strutturato

Interazioni tra pari

b) Blending (equilibrio presenza/ distanza) Consideriamo ora gli incontri in presenza. Essi possono essere giustificati per una serie di motivi che qui possiamo esemplificare. Consegna materiali e strumentazioni

Ad esempio libri, cd-rom di supporto, altri strumenti di lavoro (funzionali ai contenuti).

Familiarizzazione tecnologica

Incide soprattutto quando si tratta di utenze a scarsa competenza e disponibilità tecnologica. Aumenta se c’è necessità di installare o adattare software, ecc.

Addestramento

Se vi è necessità di acquisire pratiche comportamentali dall’imitazione diretta in contesti non riducibili alla comunicazione video (è legata alla natura dei contenuti).

Esigenza di socializzare

Necessità di conoscere de visu soggetti e colleghi con cui si interagirà in forma collaborativa (superamento del senso di estraneità, necessario se si crea una classe virtuale).

Necessità di stabilire accordi, decisioni in tempi ristretti

Per momenti di «collaborazione densa», selezione, indicazione di ruoli e funzioni; decisioni importanti.

Identificazione istituzionale

In particolare dove, per l’estraneità dei partecipanti all’istituzione, sussista la necessità di un riconoscimento fisico dell’istituzione erogatrice e della comunità degli esperti, ecc.

Certificazione delle acquisizioni finali

Mentre la valutazione formativa — ossia il feedback in itinere — può essere agevolmente gestita in rete, quella sommativa/certificativa, soprattutto per motivi giuridici (ad es. per l’identificazione del candidato), richiede normalmente la presenza; in futuro, grazie all’evoluzione delle tecnologie le cose potrebbero comunque cambiare.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

c) Autogeneratività Con autogeneratività o autosostenibilità ci si riferisce al fatto che al termine di un corso online i partecipanti continuino spontaneamente a scambiarsi idee, informazioni ed esperienze dando vita a una vera e propria community. Al di là della casualità con cui tali processi si possono innescare, esiste un margine di prevedibilità entro il quale si può ipotizzare che un normale corso online sopravviva a se stesso nella forma di una comunità professionale? Se sì, in quali casi è auspicabile e possibile? Quali dispositivi si possono mettere in atto per favorire o facilitare tali processi? L’argomento merita sicuramente una trattazione che oltrepassa i confini di questo volume. Molto sinteticamente possiamo dire che nella prospettiva della formazione continua è in generale quasi sempre auspicabile uno sconfinamento verso la community. Vi sono tuttavia ambiti per i quali la nascita di una comunità professionale sembra essere quasi lo sbocco naturale di un’attività formativa. Si pensi, ad esempio, all’aggiornamento professionale degli insegnanti per i quali lo scambio e il confronto di esperienze rappresenta un canale fondamentale per innovare le proprie pratiche. Sia che si tratti di un corso orientato ai contenuti, sia nel caso di un corso centrato sulle interazioni, la creazione sul web di spazi organizzati di comunicazione e di condivisione di risorse, come pure l’assegnazione di ruoli di leadership ad alcuni soggetti opportunamente individuati, rappresentano le precondizioni minimali perché al termine del corso si attivi una community. Esistono poi altri aspetti da considerare quali la condivisione di interessi e di valori. A questo punto esaminiamo alcuni modelli di macrotipologie didattiche dal punto di vista dello sviluppo nel tempo. Distinguiamo preliminarmente tre fasi riassunte nel seguente schema. 60

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Prework

Fase preliminare al corso vero e proprio, giustificabile per la messa a punto tecnica e la familiarizzazione tecnologica, oppure per l’allineamento sui contenuti. Può svolgersi totalmente online ed essere breve, in contesti tecnologicamente avanzati. Può richiedere diversi incontri in presenza ed essere lunga, in contesti con scarsa competenza e accessibilità tecnologica.

Work

Può essere o meno suddiviso in fasi. Una fase può essere scandita dal cambio di una metodologia e/o da un incontro in presenza (valutazione, ecc.).

Re-use

Il corso può prospettarsi come una modalità destinata a essere ripetuta negli anni, in altri contesti, oppure no.

Nei modelli indicati di seguito (figura 2.5) la fase di prework si caratterizza differentemente. Si consideri comunque non vincolante il rapporto tra la fase di prework e di working.

Online prework

Modello 1

Content and support (e-counseling) Face-to-face

Face-to-face

Modello 2

Online prework

Content and support (e-counseling)

Wrap around (e-mentoring) Face-to-face

Face-to-face

Modello 3

Online prework

Integrated (e-collaboration project group)

Wrap around (e-mentoring) Face-to-face

Face-to-face

Face-to-face

Tempo

Figura 2.5 Modelli di macrotipologie didattiche.

Il modelli 1 e 2 sono centrati sull’individuo, non considerano la dimensione community. In linea generale il modello 1 descrive una situazione tipicamente tradizionale, ossia di scarsa competenza tecnologica da parte dell’utenza, in cui diventa necessaria un’azione preliminare di sostegno, con integrazione di interventi in aula e © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

momenti online, seguita da una fase prevalentemente erogativa del tipo content and support, in cui il supporto si configura essenzialmente come e-counseling. Il modello non ha una evoluzione interna, salvo la distinzione tra una fase di prework (online e in presenza) e una di working. Più analiticamente i fattori che concorrono a orientarsi verso questa soluzione sono: a) alto numero di partecipanti in rapporto alla risorsa tutorship; b) scarsa familiarizzazione tecnologica o necessità di uno start up in presenza, legata a varie ragioni quali consegna materiali, presenza dell’istituzione, ecc.; c) contenuti «chiusi» ed enfasi sull’apprendimento di fatti e concetti; d) scarsa disponibilità dei corsisti a collaborare; e) scarsa disponibilità di tutorship qualificata sul piano delle interazioni. Il modello 2 è una variante più sofisticata. Consente l’evoluzione da una fase content and support a una wrap around con possibilità di individualizzazione o personalizzazione negli esiti di apprendimento dei soggetti. In questo caso il tutor, almeno da una certa fase in poi, non si limita a dare indicazioni generali e rispondere a quesiti, ma orienta singolarmente verso esiti confacenti alle necessità individuali (e-mentoring). Rispetto al modello precedente presuppone: a) una maggiore competenza tecnologica degli utenti; b) una disponibilità numerica di tutor; c) una tutorship qualificata sul piano delle interazioni; d) un interesse a garantire una maggiore personalizzazione del risultato di apprendimento; e) disponibilità al dialogo e all’interazione. Il modello 3 è metodologicamente più «evoluto». Prevede uno sviluppo interno che può prescindere anche dalla disponibilità di tutorship. 62

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E-learning

In generale implica: a) la necessità di un minor numero di incontri in presenza nella fase di start up; b) l’integrazione tra una parte di apprendimento individuale e una collaborativa. La fase collaborativa è quella finale. Vi si arriva dopo che i soggetti sono stati adeguatamente orientati e predisposti alla partecipazione a un project group. La fase collaborativa è orientata alla produzione di un progetto, ecc. Per essere attuata richiede: a) esperienza tecnologica b) competenza di dominio nei partecipanti c) comunanza di interessi d) disponibilità a collaborare d) carattere aperto e problemico dei contenuti. Può comportare qualche incontro in presenza per la fase organizzativa dei project work. Se l’expertise dei partecipanti (nelle due variabili, tecnologica e di dominio) è alta, può essere alleggerito (con possibile risparmio) il ruolo del tutor coordinatore. Paradossalmente il maggior beneficio si può avere con gruppi dalle competenze già evolute, capaci di autogestirsi, in condizioni in cui il tutor si può limitare a facilitare il prodursi di conoscenza collettiva e sorvegliare in forma morbida il prodursi delle dinamiche collaborative.

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Scheda 2 – Struttura del corso, story board, layout e navigazione L’output della seconda fase consiste in un documento operativo che descrive analiticamente: – la struttura del corso – lo story board e layout – la navigazione. Tale documento dovrà essere da un lato sufficientemente autoesplicativo da consentire all’implementatore di passare alla fase di sviluppo e, dall’altro, di immediata lettura e comprensione. Esso può presentarsi in forma esclusivamente testuale oppure in forma schematica. Di seguito proponiamo un esempio della documentazione che dovrà essere prodotta al termine della fase di microprogettazione didattica.

Struttura del corso Descrivere la struttura del corso significa indicarne l’articolazione, specificando il numero di moduli, lezioni e unità che esso prevede. Già a questo livello si possono indicare titoli, obiettivi e strategie didattiche (si veda la figura 2.7).

Story board e layout Story board è un’espressione che deriva dall’industria cinematografica: è lo strumento attraverso cui si descrivono le scene di un film sequenza per sequenza. Nel nostro caso lo story board descrive la sceneggiatura didattica di ogni unità, indicando non solo i contenuti (testuali e/o multimediali), ma anche gli strumenti di comunicazione di cui avvalersi (forum, chat, e-mail, ecc.). Nella figura 2.6 viene presentato un esempio di story board. 64

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Modulo n. – Titolo > Lezione n. – Titolo > Unità n. – Titolo – Obiettivi specifici – Introduzione: testo e immagine – Overview: video + sottotitoli – Presentazione personaggio 1: testo e immagine – Presentazione personaggio 2: testo e immagine – Presentazione personaggio 3: testo e immagine – Documentazione sul caso: testo e immagine – Documentazione sul caso: organigramma aziendale – Documentazione sul caso: trascrizione di una telefonata – Sessione collaborativa: testo con 3 domande stimolo per l’analisi dei punti problematici e interazioni nel web forum moderate dal tutor – Sessione collaborativa: interazioni nel web forum moderate dal tutor per analisi delle ipotesi di soluzione del caso e produzione di un documento di raccomandazioni – Sessione conclusiva: testo con 3 domande stimolo per l’analisi retrospettiva dei punti di vista degli attori coinvolti e interazioni nel web forum moderate dal tutor Figura 2.6 Esempio di story board.

Lo story board non è ancora completo: mancano indicazioni sul layout dei contenuti, ossia sulla disposizione delle singole componenti (testo, immagine, video, ecc.) del prodotto finale (ad esempio, una pagina) prima che questo venga realizzato, e sulla navigazione. Per facilitare il processo di produzione è opportuno definire dei template, ossia dei modelli di pagina in cui siano chiaramente indicati la tipologia dei contenuti, la loro disposizione nella pagina, le loro caratteristiche (lunghezza, dimensioni immagini, dimensione finestra video, eventuali pop up) e le loro funzionalità. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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Titolo del corso

Modulo 1 Titolo Breve descrizione Obiettivi

Lezione 1 Titolo

Modulo 2 Titolo Breve descrizione Obiettivi

Lezione 2 Titolo

Unità 1 Titolo Obiettivi specifici Strategia didattica (es. Presentazioni + 5 esercizi in drill and practice con feedback correttivi)

Modulo 3 Titolo Breve descrizione Obiettivi

Modulo 4 Titolo Breve descrizione Obiettivi

Lezione 3 Titolo

Unità 2 Titolo Obiettivi specifici Strategia didattica (es. Studio di caso con sessioni collaborative e feedback del tutor)

Pagina 1 Pagina 2

Pagina n.

Figura 2.7 66

Schema rappresentativo della struttura di un corso.

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E-learning

Esempio di template per schermata con video. Logo

Modulo 2 Titolo

Lezione 2 – Titolo > Unità 2 – Titolo Menù di navigazione Introduzione Overview I personaggi I luoghi Documenti Forum Scrivi al tutor

Overview

Video

Sottotitoli

Una volta definito il set di template necessari (T1…Tn), possiamo indicare nello story board anche il layout di ciascuna pagina. Ad esempio, alla pagina Overview assoceremo il template T2 (template di schermata con video).

La navigazione Il problema della navigazione si pone su diversi piani sia a livello di strutturazione e organizzazione generale dei contenuti (livello della struttura del corso e relazioni tra le parti), sia a livello delle singole pagine di ogni unità. Gli approcci possibili sono sia di carattere sequenziale che reticolare. Ciò che è importante, è segnalare sempre all’utente in quale punto si trovi.4 4

Il problema della navigazione di contenuti didattici multimediali fruibili via web è ampio e complesso. Si veda a questo proposito Jones e Farquhar (1997).

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Nello story board vanno date chiare indicazioni sulla sequenza delle schermate e sui link previsti per ogni schermata. In sintesi, uno story board completo di tutte le informazioni necessarie per l’implementazione potrebbe assumere una forma di questo tipo.

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Modulo n. – Titolo > Lezione n. – Titolo > Unità n.: Titolo

Modulo n. – Titolo > Lezione n. – Titolo > Unità n.: Titolo

Numero della pagina: 1 di 10

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Descrizione dei contenuti «Obiettivi specifici» Solo testo

Descrizione dei contenuti «Introduzione» Testo e immagine

Template: T1

Template: T2

Testo: obiettivi.doc

Testo: intro.doc

Immagini:

Immagini: azienda.jpg

Audio:

Audio:

Video:

Video:

Strumenti di comunicazione:

Strumenti di comunicazione:

Link:

Link:

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Capitolo 3

Modelli e strategie didattiche Modelli e architetture didattiche Ci occupiamo in questo capitolo della dimensione propriamente instructional di un progetto e-learning. Come abbiamo già sottolineato, questo significa affrontare problematiche inerenti alla microprogettazione didattica, operando scelte che riguardano da un lato i modelli o le architetture didattiche, dall’altro le specifiche strategie per rendere operativi i modelli o le architetture selezionate. Prima di proseguire è opportuno soffermarsi sui termini che stiamo utilizzando, per far posto ad alcune precisazioni terminologiche e concettuali e comprendere il sistema di relazioni esistenti tra i modelli e le architetture da un lato, e le strategie dall’altro. Per «modelli didattici» intendiamo delle sequenze prefigurate di interventi educativi che, essendo state ben analizzate e illustrate all’interno di un più generale riferimento teorico, assumono una forma «paradigmatica» e in questo senso possono costituire un «modello», model (Reigeluth, 1999). In quanto tali rappresenta© Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

E-learning: modelli e strategie didattiche

no una sorta di «campionario» di riferimento a cui il progettista può rivolgersi, rimanendo comunque consapevole del fatto che la progettazione resta fondamentalmente un’attività interpretativa, che non potrà mai risolversi nella pura e semplice applicazione di un modello e che richiede sempre un forte orizzonte teorico di riferimento. Ovviamente un modello deve la sua fortuna all’autorevolezza del suo autore e alla solidità della cornice teorica di riferimento in cui esso si incardina. Possiamo dire, basandoci sul lavoro di Reigeluth, che i modelli più noti sul piano internazionale possono essere considerati attualmente circa una ventina: alcuni pongono particolare enfasi sulla collaborazione e il problem solving (ad esempio, Jonassen, constructivist learning environments-CLE1 oppure Nelson, collaborative problem solving-CPS2), altri sulla promozione di forme di apprendimento esperienziale (ad esempio, Hannafin, Land e Oliver, open learning environments-OLE3 oppure

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Il modello di Jonassen (Jonassen in Reigeluth, 1999, pp. 215-239) è centrato sul problem solving. Risulta particolarmente adatto per lo sviluppo di conoscenze in domini cognitivi poco strutturati, ossia per l’analisi di problemi per i quali non esistono soluzioni univocamente determinabili. Il problema assume una rilevanza fondamentale, esso deve essere mal definito, ossia deve possedere molteplici soluzioni o diversi modelli di soluzione o anche nessuna soluzione, presupporre differenti criteri per la valutazione delle soluzioni, presentare incertezza circa quali concetti, principi o regole sono necessari per la soluzione, richiedere agli studenti di formulare giudizi sul problema e di difendere le loro posizioni esprimendo opinioni e credenze personali, essere motivante, interessante e significativo. Il modello di Jonassen si richiama inoltre a quello dell’apprendistato cognitivo (Brown, Collins e Newman,1989), che rivaluta l’apprendimento per imitazione di un comportamento esperto, tipico del tradizionale apprendistato. L’idea è che l’apprendista osserva prima il maestro o l’esperto che mostra «come si deve fare» una certa attività e poi lo imita (modeling); il maestro o l’esperto assiste e agevola il lavoro (coaching), fornisce un sostegno in termini di stimoli e risorse (scaffolding), e infine diminuisce progressivamente il supporto per lasciare maggiore autonomia a chi apprende (fading). Anche il modello di Nelson (in Reigeluth, 1999, pp. 241-267) pone particolare enfasi sul problem solving, attività tuttavia fortemente contestualizzata all’interno di processi di apprendimento collaborativo. L’obiettivo primario della teoria di Nelson consiste nel promuovere l’acquisizione di conoscenze in domini cognitivi complessi e lo sviluppo di capacità di problem solving, critical thinking e collaborative. Si presta pertanto per compiti euristici e non di carattere procedurale ed è più adatta per promuovere lo sviluppo di strategie cognitive che per facilitare la memorizzazione di conoscenze di tipo fattuale. Una precondizione necessaria è che docenti e studenti siano disposti ad assumere atteggiamenti volti alla collaborazione. Questo modello (Hannafin et al., in Reigeluth, 1999, pp. 115-140) è adatto per sviluppare forme di apprendimento di carattere euristico e ha per obiettivo quello di promuovere la soluzione di problemi complessi. Si basa su: uso di strumenti di visualizzazione e manipolazione per facilitare la

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Modelli e strategie didattiche

Schank, Berman e Macpherson, goal-based scenario-GBS4), altri ancora sulla comprensione dei contenuti (Gardner, Multiple Approaches to Understanding5 o Reigeluth, The Elaboration Theory6). Se però la situazione è tale per cui non è possibile o utile avvalersi di uno dei modelli canonici — e questo accade frequentemente — occorre allora riferirsi a una componentistica ad hoc, a partire dalle architetture didattiche tipiche o più caratteristiche. Per architetture didattiche, espressione mutuata da Clark (1998, 2000), intendiamo «famiglie» cioè complessi di strategie intrinsecamente affini. Quali sono queste famiglie? Riadattando uno schema di Clark7, ne distinguiamo quattro, indicando contestualmente in quali casi è opportuno avvalersene (tabella 3.1).

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sperimentazione di fenomeni complessi; contesti autentici per favorire la connessione tra conoscenza formale ed esperienza quotidiana; ambienti ricchi di risorse per supportare il lavoro degli studenti. Si avvale pertanto di ambienti di simulazione che consentono agli studenti di manipolare variabili e osservare i risultati in contesti privi di rischio. L’approccio di Schank et al. (Schank et al. in Reigeluth, 1999, pp. 161-181) si basa sull’apprendimento in learning by doing. Il modello GBS (Goal Based Scenario) ha infatti come obiettivo primario quello di promuovere lo sviluppo di capacità/abilità nel loro contesto d’uso, privilegiando il «sapere come» piuttosto che il «sapere che». Il GBS consiste in una simulazione attraverso cui gli studenti esercitano specifiche abilità e utilizzano particolari conoscenze per conseguire l’obiettivo prefissato. L’idea chiave è di collocare gli obiettivi d’apprendimento nel contesto di una storia che motivi gli studenti ad apprendere e a sviluppare le operazioni da compiere per il raggiungimento degli obiettivi. Il modello di Gardner (Gardner in Reigeluth, 1999, pp. 69-89) pone l’accento sulla comprensione dei contenuti, promuovendo le diverse intelligenze (intelligenza linguistica, logico-matematica, spaziale, cinestetica-corporea, musicale, interpersonale, intrapersonale e naturalistica) di cui gli esseri umani sono dotati (Gardner, 1983). Esso si articola in tre fasi: entry point, telling analogies e approaching the core. L’idea base è che per facilitare l’apprendimento di contenuti è opportuno innanzitutto introdurre l’argomento in modo coinvolgente, attraendo l’attenzione degli studenti e valorizzando i diversi stili di apprendimento e le diverse forme di intelligenza. Obiettivo di questo modello (Reigeluth, 1999, pp. 425-453) è aiutare gli studenti a selezionare e ordinare i contenuti in modo da ottimizzare il raggiungimento degli obiettivi. È adatto per lo sviluppo di conoscenze in domini cognitivi mediamente complessi, ma non in domini affettivi. Il modello di Reigeluth si basa sulla suddivisione sequenziale dei contenuti o dei compiti da realizzare, ma a differenza di un approccio squisitamente sequenzialista l’obiettivo finale è lo stesso per ciascuna sequenza di contenuti o di compiti. Si tratta quindi di un approccio di carattere olistico, in cui la visione del tutto è presente in ogni singola parte. Anche Clark (1998, 2000) parla di quattro architetture: ricettiva, direttiva, a scoperta guidata ed esplorativa; tuttavia a differenza di Clark, introduciamo nel nostro schema la famiglia delle strategie collaborative in alternativa all’architettura esplorativa. Clark caratterizza le architetture esplorative in questi termini: alto controllo del discente sul processo di apprendimento; ambienti da esplorare; orientamento alla navigazione dell’ambiente.

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Tabella 3.1 Architetture didattiche

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Tipologia

Caratteristiche

Quando avvalersene

Ricettiva

Si basa sulla trasmissione dell’informazione

Si ricorre ad architetture di questo tipo prevalentemente per comunicare o trasmettere informazioni essenziali e propedeutiche (informazioni preliminari, conoscenze e lessico di base, parole chiave, glossari, ecc.) Secondo Merrill, è bene avvalersene il meno possibile: la presentazione/esposizione di informazioni costituisce infatti la parte residuale di un corso. Tanto più un corso è erogativo, tanto meno sarà interessante e coinvolgente.

Sequenziale o direttiva

Si basa su: 1. brevi lezioni 2. pratica 3. feedback correttivi 4. progressione dal semplice al complesso

È opportuno ricorrere ad architetture sequenziali per l’apprendimento di abilità procedurali, per l’addestramento informatico o anche per l’apprendimento di base nei domini tecnicoscientifici o nelle lingue. È possibile quando i contenuti possono essere organizzati in forma strutturata.

A scoperta guidata

Si basa su: 1. approccio problem-based 2. apprendimento situato 3. uso di simulazioni esperienziali 4. valorizzazione dell’errore 5. coaching e modelli esperti

È indicata per sviluppare capacità di problem solving e favorire l’acquisizione di competenze in domini cognitivi complessi. È necessario che l’allievo possegga una qualche conoscenza di base del dominio in questione e che sia disponibile una tutorship altamente qualificata.

Collaborativa

Si basa su: 1. peer learning 2. peer tutoring 3. orientamento al project work 4. apprendimento situato 5. approccio problem-based

Vi si può ricorrere quando gli studenti posseggono un alto grado di autonomia, competenze pregresse e disponibilità al dialogo e alla comunicazione. Si presta per particolari tipologie di apprendimento, ad esempio elaborazione progettuale.

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Modelli e strategie didattiche

Date la varietà delle situazioni e la complessità dei contesti in cui si collocano di solito le azioni del progettista, accade spesso che un intervento instructional comporti la combinazione di più architetture, con passaggi dall’una all’altra. Anche se le diverse architetture, in linea teorica, si possono raccordare tra di loro in tutte le forme, alcune sequenze sono di fatto più ragionevoli di altre. Proponiamo di seguito uno schema che illustra le possibili sequenze in termini di maggiore ragionevolezza (figura 3.1).

Ricettiva

Sequenziale

A scoperta guidata

Collaborativa

Figura 3.1 Combinazioni ragionevoli tra le quattro architetture. Lo schema evidenzia come sia più ragionevole procedere da un’architettura ricettiva o sequenziale iniziale verso soluzioni che possono essere o a scoperta guidata o collaborative.

I tragitti suggeriti nello schema sono dunque i seguenti, prevedendo sempre una fase iniziale di presentazione delle informazioni essenziali. 1. Ricettiva-Sequenziale oppure Ricettiva-Sequenziale-A scoperta guidata-Sequenziale-A scoperta guidata: il percorso si apre con la presentazione di informazioni di base, seguono esercizi con feedback correttivo; ci si può fermare a questo livello, ripetendo la sequenza, oppure si può aprire il percorso introducendo elementi, tornando successivamente a una sequenza più lineare e concludendo con un approccio nuovamente problemico. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

2. Ricettiva-A scoperta guidata-Collaborativa: il percorso si apre con la presentazione di informazioni di base e procede gradualmente da un approccio problemico, in cui ancora centrale resta il supporto di una guida esperta, a uno collaborativo dove l’apporto del tutor si sposta in secondo piano per lasciare spazio a forme di peer learning e peer tutoring. 3. Ricettiva-Collaborativa: questa sequenza è proponibile quando la comunicazione delle informazioni riguarda solo particolari aspetti del corso, essendo la collaborazione più indicata in situazioni in cui i partecipanti posseggono già buone conoscenze di dominio. 4. Ricettiva-Sequenziale-Collaborativa: questa sequenza è meno probabile, in quanto si presume che i partecipanti abbiano già un certo grado di expertise prima di collaborare.

Strategie didattiche per la rete Una volta scelti i modelli di riferimento o le architetture (comprese le loro combinazioni), si passa a indicare le specifiche strategie. Cosa si intende per strategia didattica? Ci riferiamo in generale alle «sequenze di interventi istruttivi che normalmente mette in atto l’educatore nell’ interazione con l’allievo nell’intento di facilitare l’apprendimento» (Calvani, 2000). In senso analogo si parla talora anche di «formati» e «tecniche didattiche»: un formato, in realtà, a differenza di una strategia didattica che consente margini di libertà e adattamenti da parte del docente, va inteso come una sequenza algoritmicamente ordinata di interventi didattici; mentre se si cerca una definizione puntuale dell’espressione «tecniche didattiche» si constaterà che essa viene genericamente utilizzata senza essere previamente definita (Calvani, 2001a). Per questo preferiamo parlare di «strategie didattiche». Queste si differenziano tra loro per una varietà di aspetti. Reigeluth e Moore (in Reigeluth, 1999) hanno individuato sei descrittori che consentono una lettura comparativa tra le diverse strategie. 74

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Modelli e strategie didattiche

• Tipo di apprendimento: memorizzazione delle informazioni, comprensione di relazioni, applicazione di abilità semplici, applicazione di abilità generali; • controllo dell’apprendimento: centratura sul docente/centratura sul discente; • focus dell’apprendimento: dominio conoscitivo, argomento, problema, interdisciplinarità; • individuale o di gruppo: individuale, a coppie, in piccoli gruppi (3-6 persone), in gruppo (più di 7 persone); • interazioni: umane (studente-docente; studente-studente; altro) o non umane (studente-strumenti; studente-informazioni; studente-ambiente; altro); • supporto per l’apprendimento: cognitivo o emozionale. Quali sono le strategie di cui possiamo avvalerci? Secondo una lunga consuetudine e un’ampia letteratura (Reigeluth, 1999; Calvani, 2000), le strategie didattiche possono essere così classificate: 1. lezione 2. tutoriale, drill and practice e skill training 3. modellamento 4. discussione 5. studio del caso 6. simulazione 7. role playing 8. problem solving 9. collaborazione. È anche vero, tuttavia, che a volte le strategie si contaminano tra loro: ad esempio, lo studio di caso (presentazione di situazione reale o verosimile) presenta elementi rintracciabili nella simulazione e prevede tra i suoi dispositivi essenziali la discussione. Non sempre quindi è facile tirare delle linee di separazione netta. Così all’interno di una architettura basata sulla scoperta guidata, potremmo avvalerci di strategie diverse come ad esempio lo studio di caso oppure la simulazione o anche il role playing, ecc. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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Presentiamo ora analiticamente ciascuna di queste strategie, entrando nello specifico di come esse si possono riconfigurare in rete.

Lezione È sicuramente la strategia didattica più nota e familiare. Quando si parla di lezione, il ricordo di tutti va alla scuola e alla classica situazione in cui il docente spiega oralmente agli allievi argomenti, temi e contenuti, ossia «fa lezione». Oltre a essere ancora una delle modalità più diffuse, è anche tra quelle più antiche (Tomassucci Fontana, 1997; Castagna, 2002). Essa deriva infatti dalla lectio medievale, che consisteva nella lettura di un testo cui seguiva il commento del magister e l’eventuale disputa dei discepoli. Nell’epoca moderna ha perso questo carattere dialettico, trasformandosi nella semplice esposizione di contenuti/informazioni da parte del docente a un pubblico di ascoltatori in posizione passiva. Con l’avvento della pedagogia attivistica, la lezione è venuta ad assumere declinazioni diverse: il momento espositivo si è ridotto a un orientamento iniziale per lasciare maggiore spazio ad attività di studio, ricerca e discussione (Laeng, 1978). Si può quindi distinguere tra due principali modalità: lezione espositiva o frontale e lezione euristica o socratica. Lezione espositiva o frontale Consiste nella presentazione e spiegazione di un argomento, secondo modalità trasmissive: gli allievi ascoltano, prendono appunti, cercando di memorizzare informazioni, mentre il docente decide l’ordine e le modalità di presentazione dei contenuti, i tempi e il ritmo dell’esposizione stessa. Questa è, e resta, la modalità più diffusa perché presenta alcuni indubbi vantaggi: ottimizzazione dei tempi e conseguente «economicità» (consente di affrontare un gran numero di argomenti in un tempo piuttosto contenuto e rivolgendosi a un gran numero di persone), standardizzazione (la sequenza resta fondamentalmente inalterata, poiché univocamente determinata dal docente), strutturazione (se ben preparata). 76

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Modelli e strategie didattiche

Lezione euristica o socratica Consiste in brevi presentazioni a cui si alternano domande o scambi di opinioni, ha dunque un carattere più attivo e dialogico: gli allievi non sono soggetti passivi del processo, tabulae rasae su cui «imprimere» o trasferire informazioni, ma prendono parte alla formulazione stessa dei contenuti, venendo continuamente sollecitati in questo senso dal docente che maieuticamente li guida alla scoperta di nuove conoscenze. Questa declinazione della lezione assume i tratti dell’apertura e della problematicità, che rappresentano indubbiamente anche i suoi punti di forza: lo studente non solo acquisisce nuove conoscenze, ma sviluppa anche capacità metacognitive, impara a ragionare, a formulare domande, a individuare problemi. Al tempo stesso, però, una soluzione di questo tipo è sicuramente più dispendiosa: non è praticabile infatti con un numero elevato di studenti né tantomeno è facilmente riproducibile poiché i tragitti che può assumere dipendono dall’interazione con gli studenti, radicandosi in qualche modo nel «qui e ora». Questa distinzione è stata ben tematizzata dallo stesso Bruner, il quale parlava per il primo caso di insegnamento espositivo o algoritmico e nel secondo di insegnamento ipotetico o euristico. Quali connotati può assumere una lezione in rete? Quali spazi il web offre per discostarsi dal formato puramente trasmissivoespositivo della lezione? A un livello minimale, ci si può limitare a erogare materiali di studio scaricabili online, accompagnati da una presentazione sintetica su schermo, che fornisca allo studente un’overview degli argomenti che verranno affrontati in modo da orientare anticipatamente l’attenzione sugli aspetti più rilevanti e suscitare al tempo stesso aspettative, curiosità, interesse. Un’overview può anche essere attivante nel senso che dà al termine Merrill, può avere la funzione di preparare il terreno proprio come gli organizzatori anticipati di Ausubel: l’anticipazione in termini generali di quanto poi dettagliatamente verrà affrontato può attivare quegli schemi mentali © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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necessari per acquisire nuove conoscenze, per facilitare cioè quel processo di ristrutturazione cognitiva che ha luogo ogni volta che il soggetto è posto davanti a nuove conoscenze. A un livello metodologicamente più evoluto, invece, oltre ai materiali di studio si possono prevedere spazi per attività di ricerca e discussione attraverso l’uso di un web forum (figura 3.2), in cui il docente invita i partecipanti a riflettere con domande e quesiti volti ad attivare le preconoscenze, a stimolare l’attività di ricerca e autodocumentazione e a promuovere il confronto di opinioni. Una soluzione di questo tipo sarà sicuramente auspicabile, poiché consente di ridurre gli svantaggi della lezione tradizionale (passività degli studenti) e di valorizzare due tra le principali potenzialità della rete: la spazialità nel senso dell’ubiquità relazionale che la rete consente, e la temporalità intesa come ampliamento dello spazio di riflessione, consentito dal superamento del vincolo della simultaneità (Calvani, 2004), offrendo spazio a forme di didattica non lineare.

Figura 3.2 Esempio di consegna di lavoro di stimolo/attivazione (post estratto dal web forum del Master «Progettista e gestore di formazione in rete», Università di Firenze, 2004). 78

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Tutoriale, drill and practice e skill training L’approccio tutoriale si basa sulla suddivisione del percorso di apprendimento in sequenze di unità di conoscenza orientate al raggiungimento di uno specifico obiettivo formativo e accompagnate da domande o esercizi con possibilità di controllo delle risposte. Il modello di riferimento è quello dell’istruzione programmata, che, come noto, è di chiara matrice comportamentista. Indipendentemente dallo strumento utilizzato (libro o macchina, scheda o calcolatore), tre sono le principali caratteristiche di questo approccio (Boscolo, 1969): presentare all’allievo una certa quantità di informazione richiedendo frequenti risposte; immediatezza della retroazione che consente all’allievo di controllare subito la correttezza della risposta; possibilità di apprendimento individualizzato, ossia secondo il ritmo dello studente. Il percorso può essere organizzato in modo lineare secondo il modello elaborato da Pressy e Skinner oppure ramificato secondo il modello ideato da Crowder. In entrambi i casi, il passaggio da una sequenza all’altra è vincolato all’esito positivo della risposta: se la risposta è esatta si può infatti proseguire nel percorso, altrimenti è necessario il riapprendimento. Questa strategia consente il padroneggiamento graduale di abilità (le sequenze di contenuti sono ordinate dal semplice al complesso) e un buon grado di individualizzazione del percorso (il discente può infatti cominciare dalla sequenza a lui più congeniale e progredire secondo il proprio ritmo personale). L’approccio tutoriale è stato tuttavia criticato per il suo carattere direttivo e chiuso: l’allievo rimane fondamentalmente in una posizione passiva, limitandosi a eseguire le istruzioni impartite. Il tutoriale ha trovato molte applicazioni, soprattutto in ambito aziendale, grazie all’uso del computer. Già negli anni Sessanta si parlava di CBT, computer-based training, per indicare dei prodotti informatici pensati soprattutto per l’autoistruzione, o di CAI, © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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computer-assisted instruction. Si tratta ancora di prodotti molto semplici, tipicamente dischetti con informazioni strutturate (sequenze di schermate) e strumenti per l’autoverifica. Negli anni Ottanta e per buona parte degli anni Novanta i CBT continuarono a essere progettati e prodotti o per usi specifici (soprattutto training di operatori in servizio all’interno di organizzazioni pubbliche o private, particolarmente nell’ambito dell’autoapprendimento di abilità nell’uso di nuovi software o nuove procedure di lavoro) o, sempre più spesso, per usi più ampi e generalizzati: si pensi, ad esempio, ai corsi multimediali di lingue diffusi attraverso i canali della vendita al dettaglio o come allegati alla stampa periodica. Oggi si ricorre anche al web per la diffusione dei tutoriali. Un tutoriale online può essere articolato in cinque fasi (Portree, 2002). 1. Introduzione: presentazione sintetica degli obiettivi dell’unità didattica, istruzioni sull’uso del tutoriale, tempo necessario per lo svolgimento dell’attività, indice dei contenuti. 2. Presentazione dell’informazione: contenuti brevi e sintetici; layout coerente e accattivante; grafica semplice; chiara organizzazione dei contenuti (informazioni, concetti, regole, abilità) 3. Domande e risposte o batterie di esercizi drill and practice: le domande devono essere formulate dopo aver fornito una certa informazione; esse inoltre devono essere gerarchicamente ordinate in base al loro grado di difficoltà; lo spazio per rispondere deve essere collocato vicino alla domanda; è opportuno inoltre consentire allo studente di chiedere aiuto e fornirgli tutto il tempo necessario per rispondere. 4. Feedback: se la risposta è corretta, è sufficiente comunicarlo; se la risposta è scorretta, si consente allo studente di riprovare oppure dopo un certo numero di tentativi, si può dare la risposta corretta. 5. Conclusione: se l’utente deve temporaneamente sospendere il tutoriale, è opportuno fornirgli un quadro riassuntivo di ciò che ha fatto. 80

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Modelli e strategie didattiche

La sequenza si ripete per ogni unità di apprendimento. Nel corso del tutoriale, inoltre, lo studente deve poter sempre controllare i propri progressi. Sul web sono molto diffusi i tutoriali per l’addestramento all’uso di software (figura 3.3). Esistono poi delle varianti del tutoriale, ossia l’audio-tutoriale, sviluppato da S.N. Postlethwaite nel 1961 presso la Purdue University, e lo skill training, messo a punto da J. Utterstrom nel 1993. Tali varianti si caratterizzano per l’impiego prevalente di video e audio. Mentre l’audio-tutoriale viene utilizzato soprattutto per l’apprendimento delle lingue, lo skill traning trova le sue maggiori applicazioni in ambito aziendale, per l’addestramento finalizzato all’acquisizione di specifiche competenze (uso di una macchina

Interazione basata sul «point & click»

Figura 3.3 Schermata esemplificativa di un tutoriale per l’addestramento all’uso di software. Nell’esempio l’obiettivo della lezione è quello di insegnare all’utente come creare un pulsante con il software KnowledgePresenter. L’utente interagisce eseguendo sempre e solo un’azione alla volta secondo due modalità predefinite: cliccando su una certa regione dello schermo (come avviene in questa schermata) oppure inserendo i valori indicati nelle istruzioni all’interno di un campo di testo prestabilito.

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industriale, manutenzione di un automezzo, funzionamento di un impianto) o all’apprendimento di determinate procedure (come si spegne un incendio, evacuazione di un edificio, norme di sicurezza). Un corso basato su questa strategia prevede: 1. una sezione di studio in autoapprendimento basata su testo, audio e video in cui un esperto mostra come si esegue un’azione o una procedura; 2. una sezione di verifica attraverso la quale l’allievo può testare le conoscenze acquisite. Nella sezione di studio le stesse informazioni vengono comunicate mediante quattro media differenti allo scopo di rinforzare il messaggio: vengono mostrate a video, illustrate a voce (audio), schematizzate in grafici e «ribadite», nel testo, «con parole diverse» e per punti (figura 3.4). Va tuttavia sottolineato che per quanto sia vero che l’uso di media differenti possa favorire l’apprendimento, l’utilizzo con-

Figura 3.4 Esempio di mobile learning basato su skill training. 82

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temporaneo di tre canali comunicativi diversi potrebbe causare sovraccarico cognitivo (si veda il capitolo 4). Un corso sviluppato secondo questo approccio può essere distribuito su cd-rom, pubblicato su web, oppure ottimizzato per mobile device (PocketPC, eBook, TabletPC, si veda figura 3.4).

Modellamento Consiste nell’osservazione e nell’imitazione da parte dello studente di una prestazione esemplare eseguita da parte del docente o di un esperto che dimostra, eseguendo la prestazione, come portare a termine un certo compito. L’apprendimento per imitazione o riproduzione di un modello, che deriva dalla Teoria dell’apprendimento sociale di Bandura (1962), può andare da forme più rigide e automatiche (mimetismo, ripetizione) a forme più flessibili o interpretative di significati (per esempio astrazione e trasferimento di uno schema di comportamento da una situazione a un’altra). Tradizionalmente oggetto dell’imitazione è una qualità dinamica, un’azione (sia essa solo gestuale che dotata di intenzionalità) (Laeng, 1978). Il concetto di modellamento è stato ripreso e sviluppato in ambito costruttivista da autori come Brown, Collins e Newman (1989), arricchendosi di ulteriori connotazioni di carattere più marcatamente cognitivo. Collins (1991) distingue tra due tipi di modeling: modellamento di processi osservabili e modellamento di processi cognitivi inosservabili. Nel primo caso allo studente viene offerto un esempio della prestazione desiderata, passo dopo passo, evidenziando tutte le singole azioni e decisioni sottese alla prestazione, in modo che non sia costretto a dedurre i passaggi. A questo scopo si può far uso di worked examples, ossia di «esempi svolti» che comprendono una descrizione puntuale di come i problemi sono stati risolti dall’esperto (Sweller e Cooper, 1985). Nel secondo caso si tratta di illustrare allo studente il ragionamento sotteso ad ogni step © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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del processo, in modo da facilitare la metacognizione. Le due forme di modellamento andrebbero integrate, alla dimostrazione dovrebbe sempre accompagnarsi una spiegazione (reflectionin-action). Così, ad esempio, i worked examples dovrebbero essere accompagnati dal ragionamento che ha guidato l’esperto nella soluzione del problema. Forme di modellamento cognitivo sono attuabili anche sul web: 1. fornendo le opinioni di diversi esperti su un determinato argomento, introducendo per esempio delle spiegazioni nel testo oppure delle interviste; 2. mostrando video o immagini di modelli nei quali vengano illustrati e spiegati i punti critici; 3. facendo vedere come un esperto svolgerebbe un certo compito o risolverebbe un determinato problema ed esplicitando il perché; 4. introducendo nel corso di una dimostrazione un agente che spiega a se stesso il perché di una certa procedura (Clark e Mayer, 2003) (figura 3.5).

Discussione In generale, la discussione consiste in uno scambio-confronto di idee tra docente e studente e tra studenti. Il riferimento classico è Socrate, la cui maieutica si basa su un processo dialettico di approssimazione alla verità attraverso la discussione e la tecnica del domandare e del sollevare dubbi in chiave problematizzante. Di solito, la discussione viene considerata come un elemento da integrare a una tradizionale lezione espositiva. Essa può in realtà essere usata anche in combinazione con altre strategie: durante e al termine di uno studio di caso, in un’attività di gruppo basata sul problem solving, nel corso di un role playing, ecc. In alcuni casi la discussione viene vista in opposizione o alternativa alla lezione stessa, in particolare quando la discussione è centrata sul gruppo e 84

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Ascolta in che modo il Supervisor Joe spiega a se stesso la procedura.

1. Seleziona 4 oggetti in sequenza ogni ora per 24 ore (sono i tuoi sottogruppi).

Audio: Per prima cosa noto che i sottogruppi sono stati selezionati con regolarità, 4 ogni ora.

Studia questi step, poi vai alla schermata successiva per spiegare un esempio a te stesso.

Figura 3.5 Esempio di dimostrazione guidata di procedura con esplicitazione dei ragionamenti sottesi ad ogni step del processo, attraverso il ricorso a un coach virtuale (tratto e riadattato da Clark e Mayer, 2003).

la pratica discorsiva viene considerata di per se stessa motore della conoscenza e dell’apprendimento. Gli approcci che conferiscono alla discussione una maggiore rilevanza sono quelli che attribuiscono all’interazione sociale una funzione chiave nel processo di apprendimento e di sviluppo delle stesse funzioni cognitive. Un primo riferimento è dunque costituito da Vygotskij e dalla prospettiva socioculturale. Secondo questa visione l’apprendimento è un fenomeno sociale in cui gli studenti acquisiscono competenze interagendo tra pari e con gli adulti. Come spiega Pontecorvo (2004, p. 31), nella concezione vygotskijana, «la psicologia individuale è un aggregato di relazioni sociali interiorizzate, il che vuol dire che la dimensione sociale è primaria nel tempo sia filogeneticamente che ontogeneticamente». In altri termini, le relazioni sociali tra le persone sono geneticamente prioritarie © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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per tutte le funzioni superiori e il passaggio dall’individuale al sociale avviene attraverso il meccanismo dell’interiorizzazione e la presenza di una «zona di sviluppo prossimale», definita come «quell’area di funzionamento psicologico che è possibile al soggetto se è sostenuto dall’aiuto di un altro, e quindi da una forma di interazione e di regolazione, che sostiene e attiva quelle funzioni che non operano ancora da sole, ma che hanno bisogno del supporto esterno» (Pontecorvo, 2004, p. 32). L’attività sociale di articolare, esplorare, testare e dibattere le idee ha così un impatto significativo sulle forme del ragionamento e sulle funzioni cognitive dello studente. Un ulteriore riferimento per la centratura sul gruppo è costituito da Dewey e più in generale dai sostenitori della pedagogia attiva. Torneremo sugli specifici apporti di questa tradizione quando affronteremo le strategie basate sulla collaborazione. Nella discussione il ruolo del docente slitta da quello di istruttore a quello di tutor facilitatore che non trasmette conoscenze, ma supporta lo studente in attività cognitive quali pensare, ragionare, argomentare, ecc. La discussione consente dunque un maggiore coinvolgimento degli studenti, facilita i processi di scoperta, ridistribuisce il controllo sullo studente e sul gruppo, ma presenta anche alcuni svantaggi. L’utilizzo della discussione infatti può richiedere molto tempo; elementi deboli possono venire sopraffatti, non riuscendo a contribuire in alcun modo alla discussione e sentendosi di fatto emarginati, altri invece potrebbero monopolizzare la discussione attraverso interventi lunghi e ridondanti o inibirla formulando giudizi troppo sistematici; i singoli apporti potrebbero risultare dispersivi rispetto ai temi e problemi da affrontare oppure troppo numerosi, rendendo la discussione inconcludente o bloccandola. Condizioni favorevoli per una discussione partecipata e paritetica sono senso di autocontrollo e forte motivazione da parte dei partecipanti, fattori più facilmente riscontrabili in gruppi di adulti. 86

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In rete le discussioni possono avvenire in modalità asincrona (attraverso web forum, mailing list,8 ecc.) o sincrona (attraverso chat, messaging, audio-videoconferenza): nel primo caso, i messaggi vengono prodotti in forma testuale e vengono inviati e ricevuti in tempi diversi; nel secondo i messaggi testuali vengono inviati e ricevuti nello stesso tempo, oppure la comunicazione orale avviene in tempo reale. Poiché si tratta di due modalità comunicative che presentano aspetti differenti le considereremo separatamente.

a) Discussione asincrona Data l’assenza di vincoli spazio-temporali, una discussione online asincrona consente ai partecipanti di: 1. prendere parte alla discussione senza recarsi in un luogo fisico; 2. replicare ai messaggi secondo i propri tempi e ritmi personali; 3. differenziare i livelli comunicativi, decidendo se rivolgersi a tutti i partecipanti o a una parte di essi; 4. intervenire senza sovrapporsi ad altri; 5. avere maggior tempo per pensare e ripensare, non esaurendosi la discussione nel limitato spazio temporale dell’incontro. Da un certo punto di vista, quindi, alcuni dei fattori che pesano negativamente sulla discussione in presenza sembrano superabili grazie alla rete. Non solo: una discussione online potrebbe essere integrata con una discussione in presenza anticipandola, e quindi preparandola, o posticipandola, consentendole di proseguire in altre forme. Inoltre, trattandosi di una comunicazione che avviene in forma testuale ed essendo ogni messaggio archiviabile, i partecipanti a una discussione asincrona possono: 8

Le mailing list (ML) permettono lo scambio di comunicazione molti-molti all’interno di un gruppo predefinito di persone che condividono un medesimo interesse: ogni messaggio inviato all’indirizzo di posta elettronica del gruppo viene automaticamente ricevuto da tutti gli iscritti alla lista. Anche il web forum, talora detto «bacheca elettronica», consente come le ML un tipo di comunicazione molti-molti. Il vantaggio principale del web forum sta nel fatto che garantisce di solito una migliore visualizzazione dell’andamento della discussione in corso (thread) (Calvani e Rotta, 1999).

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rileggere le proprie e altrui affermazioni; analizzarle retrospettivamente; ricostruire argomentazioni; costruire argomentazioni a partire dalle argomentazioni degli altri; – prendere in considerazione tutte le idee e scegliere se e quale eventualmente sviluppare; – ritrovare informazioni scambiate nel corso dell’interazione; – monitorare la discussione e dunque essere maggiormente consapevoli del processo in atto. Sono tutte operazioni che una discussione in un web forum può facilitare. In generale, una discussione online consente ai partecipanti di preparare con cura e attenzione le proprie argomentazioni, di scambiare idee, di interagire tra pari, di fare commenti più riflessivi e interventi integrativi. L’interazione tra pari consente poi di apprendere non solo dai feedback del docente, ma anche dai commenti e dalle opinioni degli altri partecipanti. Vi sono però anche degli svantaggi che una discussione asincrona può comportare fra i quali alcuni sono legati alle caratteristiche della CMC (si veda il capitolo 1), altri sono comuni alla discussione in presenza. Tra i più salienti sicuramente: – senso di inadeguatezza rispetto al medium e ansia; – rischio di senso di isolamento; – rischio di minore coesione sociale; – possibilità di decodifica distorta dei messaggi con opportunità ridotte di chiarimento immediato e conseguente crescita della tensione; – assenza di feedback immediato; – indecifrabilità dell’assenza di feedback (silenzio) e conseguente incertezza; – eccessiva dilatazione dei tempi o perdita del controllo sulla gestione dei tempi. 88

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Come si può impostare un’efficace discussione online in modo da valorizzare le potenzialità della rete, riducendo al tempo stesso gli svantaggi? Una discussione online può assumere connotazioni e formati diversi a seconda di alcune variabili (Cummings, 2000, in Bonk e Wisher, 2000): – presenza/assenza di un moderatore – presenza/assenza di ruoli predefiniti – presenza/assenza di ruoli scelti dai partecipanti – grado di definizione del tema o problema da affrontare – scopo della discussione. In particolare sull’ultimo punto occorre precisare che una discussione può essere variamente orientata: • alla libera espressione di opinioni e punti di vista (brainstorming); • alla condivisione delle idee e allo scambio di informazioni (sharing); • al confronto dialettico tra idee diverse (dibattito); • alla costruzione collaborativa di conoscenza (centratura sul gruppo). A seconda della finalità, le strategie di discussione cambiano e le altre variabili possono essere diversamente giocate all’interno del processo. In particolare, l’assegnazione di ruoli volti a promuovere il conflitto cognitivo favorisce l’interazione sociale e la negoziazione dei significati, consentendo di ottenere risultati migliori in termini di apprendimento. Diversamente nei gruppi autoregolati, ossia che non prevedono l’assegnazione di specifici ruoli né la presenza di un moderatore o che prevedono la scelta da parte dei partecipanti dei ruoli da svolgere, la partecipazione alla discussione tende ad essere più ampia, ma il livello al quale si perviene è più superficiale e i gruppi tendono a morire rapidamente (Cummings, 2000, in Bonk e Wisher, 2000). Solitamente le discussioni moderate prevedono una fase iniziale di accoglienza, mentre le fasi successive presentano caratteristiche specifiche che dipendono dalle finalità della discussione. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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La fase preliminare si può articolare nel modo seguente: il moderatore accoglie i partecipanti con frasi di benvenuto, cercando di mettere i corsisti a loro agio; si presenta e si rende disponibile a fornire supporto tecnico via e-mail in caso di necessità; presenta le regole di netiquette,9 direttamente nel forum o rinviando a una pagina dedicata, e invita tutti i partecipanti ad attenervisi; presenta inoltre il tema e le finalità generali del forum. Vediamo ora più analiticamente in cosa consistono le fasi caratterizzanti, considerando ciascuna tipologia di discussione.10 Discussione orientata alla libera espressione di opinioni e punti di vista Tende a favorire e valorizzare il potenziale creativo e immaginativo dei partecipanti; tutte le idee vengono registrate ed è inibito qualsiasi giudizio o valutazione. CONDIZIONI

• È opportuna la presenza di un moderatore che garantisca il rispetto della netiquette, rafforzi la motivazione a intervenire, solleciti interventi da parte dei partecipanti, registri progressivamente tutte le idee e richiami coloro che giudicano le idee altrui; • non sono previsti ruoli per i partecipanti; • il tema o problema è poco definito per lasciare maggiore spazio alla generazione di idee. 9

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In generale con il termine netiquette ci si riferisce alle regole di comportamento che consentono il buon andamento delle interazioni in rete. In Internet sono disponibili delle linee guida sulla netiquette: The Net: User Guidelines and Netiquette, URL: http:www.efluxa.it/netiquette/; oppure Netiquette a cura di Livraghi G., URL: http://new.elbalink.it/elbalink/netiquette.php. I formati dialogici qui presentati sono stati sperimentati nell’ambito del Corso di Perfezionamento in «Metodi e tecniche della Formazione in rete» (Università di Firenze, 2003-04), avvalendosi dei web forum di Synergeia, una piattaforma di supporto all’apprendimento collaborativo sviluppata nell’ambito del progetto di ricerca ITCOLE, finanziato dall’UE (2001-03). Per approfondimenti sul progetto ITCOLE si rimanda a Ligorio (2004).

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Modelli e strategie didattiche

SVILUPPO

Lo sviluppo avviene in tre fasi. 1. Socializzazione: i partecipanti si autopresentano brevemente. 2. Generazione di idee: il moderatore invita i partecipanti a intervenire liberamente sul tema, li sollecita a partecipare, richiama chi giudica, pone domande, riformula questioni; i partecipanti esprimono liberamente idee, riflessioni, opinioni. 3. Sintesi: il moderatore registra e sintetizza le idee emerse. Discussione orientata alla condivisione delle idee e allo scambio di informazioni CONDIZIONI

• Può essere utile la presenza di un moderatore che garantisca il rispetto della netiquette, rafforzi la motivazione a intervenire, solleciti interventi attraverso la tecnica del questionning (sollevare domande), aiuti i partecipanti a individuare le risorse di cui hanno bisogno tra quelle segnalate; la presenza non è tuttavia necessaria se i partecipanti hanno una buona motivazione, sono in grado di autocontrollarsi e condividono un orizzonte valoriale comune; • è opportuno assegnare o far scegliere a uno o più partecipanti i seguenti ruoli: – «cacciatore di informazioni» (surfer): il suo compito è quello di cercare e segnalare al resto del gruppo informazioni pertinenti; – mediatore di informazioni: il suo compito è di valutare le informazioni segnalate e di evidenziarne l’utilità e l’interesse, organizzandole opportunamente; i due compiti possono ovviamente essere svolti dalla stessa persona; – eventuale coordinatore a supporto del moderatore con compiti di sintesi della discussione; • di solito una discussione di questo tipo presuppone che il tema sia abbastanza definito, anche se l’accesso ad altre informazioni può aprire ulteriori ambiti d’interesse collegati al tema principale. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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SVILUPPO

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5.

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Lo sviluppo avviene in sei fasi. Socializzazione: i partecipanti si autopresentano, dichiarando i loro interessi rispetto al tema generale, raccontando brevemente le proprie esperienze e comunicando le proprie aspettative. Definizione dei temi: tenendo conto degli interessi e delle aspettative dei partecipanti, il moderatore individua due o tre nuclei tematici attorno ai quali potrebbe svolgersi la discussione e li propone ai partecipanti. Si apre una fase di negoziazione tra i partecipanti e tra il moderatore e i partecipanti per arrivare a definire i temi da affrontare. Organizzazione e assegnazione dei ruoli: il moderatore procede ad aprire un thread per ogni tema o problema su cui discutere. Ad alcuni corsisti, su invito del moderatore o dietro richiesta volontaria, vengono assegnati i ruoli di surfer e mediatore di risorse, con il compito di alimentare lo scambio di informazioni e favorirne la visibilità, e di coordinatore con il compito di produrre delle sintesi. Ricerca, scambio e valutazione: in questa fase tutti i partecipanti sono invitati a: – segnalare, analizzare e valutare informazioni – esprimere opinioni – confrontare le proprie opinioni con quelle altrui. Il surfer e il mediatore faciliteranno la segnalazione e la valutazione delle informazioni, mentre il moderatore animerà il confronto e l’espressione di idee, ponendo domande e mettendo in relazione idee e opinioni. Richiamerà eventualmente i partecipanti per comportamenti inadeguati o per interventi fuori tema e inviterà alla partecipazione. Sintesi: il coordinatore produce una sintesi degli interventi, evidenziando informazioni particolarmente utili ed eventuali punti di disaccordo tra i partecipanti. Il moderatore, se necessario, riorienta la discussione e la riavvia sollevando ulteriori domande.

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Le fasi 5 e 6 possono ripetersi secondo una periodicità concordata. Discussione orientata al confronto dialettico Favorisce il conflitto cognitivo, il ragionamento, lo sviluppo di capacità argomentative. Consente di assumere diversi punti di vista da cui esaminare un certo tema o problema. Se adeguatamente moderata, i partecipanti apprendono anche a rispettare le idee altrui. CONDIZIONI

• È opportuna la presenza di un moderatore che garantisca il rispetto della netiquette, controlli il grado di conflittualità, solleciti interventi; • è prevista l’assegnazione del ruolo di critico o difensore; • il tema è definito e sono definite anche le posizioni che i partecipanti dovranno sostenere. SVILUPPO

1. 2.

3.

4.

5.

Lo sviluppo avviene in cinque fasi. Socializzazione: i partecipanti si autopresentano brevemente. Definizione dell’argomento: il moderatore invita tutti i partecipanti a esprimersi liberamente su un certo tema e, sulla base degli input ricevuti, seleziona un argomento controverso da dibattere. Assegnazione dei ruoli e apertura del dibattito: il moderatore assegna a ogni partecipante il ruolo di critico o difensore e apre la discussione chiedendo a tutti i critici e difensori di inviare un messaggio in cui vengono definite le loro posizioni iniziali. Argomentazione: i partecipanti rileggono tutte le posizioni iniziali e replicano ad almeno due posizioni, commentando o sollevando domande. Successivamente formulano almeno un argomento contro la posizione iniziale a cui si oppongono. Conclusione: sulla base di una revisione di tutte le argomentazioni, i commenti e le domande emersi, ogni partecipante rielabora una propria posizione personale.

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Discussione orientata alla costruzione collaborativa di conoscenza La discussione orientata alla costruzione collaborativa di conoscenza è fortemente centrata sul gruppo e i contorni che essa assume sono strettamente legati alle concezioni del costruttivismo sociale. Come sottolineano Cesareni et al. (2001) Esistono ormai diverse prove empiriche che documentano come la discussione in un forum online possa sostenere il processo di costruzione collaborativa della conoscenza […] e coinvolgere gli studenti nelle tre dimensioni (conoscitiva, sociale ed emozionale) rilevanti per l’apprendimento (p. 55).11

Proponiamo di seguito un possibile formato di discussione collaborativa.12 CONDIZIONI

• Non è necessaria la presenza di un moderatore, piuttosto di un facilitatore che sostenga senza in alcun modo dirigere i partecipanti; • è opportuno assegnare o far scegliere a uno o più partecipanti i seguenti ruoli: – «cacciatore di informazioni» (surfer); – mediatore di informazioni; – critico: il suo compito consiste nel far emergere i nodi problematici che generano divergenza e conflittualità tra i partecipanti; laddove non fossero sufficientemente espliciti o ancora troppo superficiali, dovrebbe porre domande volte ad approfondire ed esplicitare la divergenza; 11

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Il riferimento è, tra gli altri, ai lavori di: Scardamalia e Bereiter, 1992 e 1994. Per ulteriori rimandi si veda di seguito Collaborazione. Per la descrizione di questo formato dialogico ci si avvale degli studi sulle interazioni volte alla costruzione sociale della conoscenza condotti da Kanuka e Anderson (1998). In Italia un importante lavoro sulle metodologie di analisi della comunicazione mediata dai web forum viene svolto dal gruppo Cooperative Knowledge Building Group (CKBG), costituito da M. Beatrice Ligorio, Stefano Cacciamani e Donatella Cesareni e ispirato all’approccio di Scardamalia e Bereiter. Recentemente un intero numero della rivista online Form@re è stato dedicato a questa problematica: Ligorio M.B., Cacciamani S., Cesareni D. (a cura di, 2004), Metodologie di analisi della comunicazione mediata dai forum, Form@re, n. 27, maggio. In Internet: http://formare.erickson.it/archivio/maggio_04/editoriale.html.

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– monitor: il suo ruolo è di monitorare il processo, di sollecitare la partecipazione e la metariflessione; – eventuale coordinatore a supporto del moderatore con compiti di sintesi; • il tema o problema è scarsamente definito; • richiede un numero basso di partecipanti (massimo 5 o 6). SVILUPPO

1.

2.

3.

4.

Lo sviluppo avviene in 5 fasi. Socializzazione e condivisione/confronto di idee e informazioni: i partecipanti si autopresentano, dichiarando i loro interessi rispetto al tema generale, raccontando brevemente le proprie esperienze e comunicando le proprie aspettative. Esprimono opinioni e osservazioni sul tema o problema da affrontare, manifestano un eventuale accordo con posizioni altrui e formulano domande per avere maggiori chiarimenti o informazioni sulle affermazioni degli altri partecipanti. Portano esempi a sostegno delle loro idee, attingendo alla propria esperienza o all’esperienza degli altri. Scoperta della dissonanza e dell’incoerenza: i partecipanti che svolgono il ruolo di critici, supportati dal moderatore, individuano le aree di disaccordo e pongono domande per chiarimenti sui punti problematici, conflittuali. Ogni partecipante riconsidera le proprie affermazioni e avanza ulteriori possibili argomenti a supporto della propria posizione. Negoziazione del significato/co-costruzione della conoscenza: in questa fase i partecipanti, supportati da un facilitatore, sono impegnati a: – negoziare e chiarire i significati dei termini – negoziare il peso assegnato a ciascun argomento – trovare un accordo su concetti contrastanti – proporre metafore o analogie per integrare o adattare. Verifica e adattamento delle sintesi proposte: una volta che i partecipanti hanno negoziato termini, concetti e argomenti e

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sono giunti a una prima ipotesi condivisa di sintesi, la verificano rispetto: – ai loro schemi cognitivi – all’esperienza personale – ai dati raccolti – a posizioni contrastanti presenti nella letteratura. A questo punto il coordinatore può produrre una sintesi. 5. Metariflessione: al termine i partecipanti, sollecitati dal monitor, si interrogano sul modo in cui la nuova conoscenza costruita potrà essere applicata nei rispettivi ambiti lavorativi e sul modo in cui il processo di costruzione della conoscenza ha generato in loro un cambiamento.

Es. di label: «Propongo»

Es. di label: «Arricchisco»

Figura 3.6 Schermata esemplificativa di una discussione svolta in un web forum orientato alla costruzione collaborativa di conoscenza attivato in Synergeia. Tra le peculiarità di questo ambiente di discussione vi è il fatto che è possibile etichettare i messaggi che si postano nel forum attraverso apposite label, da intendersi come descrittori del pensiero, che sollecitano e supportano la metacognizione, facilitando al tempo stesso la costruzione del discorso attraverso formati dialogici orientativi. 96

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b) Discussione sincrona A differenza delle discussioni asincrone, un confronto via chat o in audioconferenza impone il vincolo della simultaneità. Non sarà dunque facilmente praticabile come la partecipazione a un web forum. Soprattutto per categorie di soggetti non sottoposte sul piano lavorativo a vincoli orari particolarmente rigidi può diventare davvero difficile partecipare ad appuntamenti in realtime. Si pensi ad esempio agli insegnanti che, a differenza degli impiegati di un’azienda, hanno ritmi di vita e di lavoro piuttosto diversi. Oltre a questa prima osservazione, occorre rilevare che per le caratteristiche proprie della comunicazione sincrona una discussione in chat o in audioconferenza appare meno indicata per confronti ampi e approfonditi, che richiedono riflessione e ragionamento. In una chat infatti la comunicazione è molto rapida, le frasi sono brevi, si perde facilmente il filo del discorso, gli interventi rischiano di sovrapporsi e accavallarsi, i tempi per riflettere e pensare si riducono drasticamente. Può addirittura insorgere ansia causata dal timore di arrivare in ritardo rispetto agli interventi degli altri. Insomma, l’uso di strumenti di comunicazione sincrona sembra mostrarsi più adeguato per creare momenti di socializzazione che per vere e proprie discussioni. I due principali formati per la discussione sincrona sono: • discussione orientata alla libera espressione di idee e opinioni (rapido brainstorming); • discussione orientata alla presa di decisioni. Anche nel caso della discussione sincrona, vanno considerate le variabili segnalate per la discussione asincrona. Tuttavia, una discussione sincrona non moderata rischia di essere molto dispersiva; è importante inoltre che si focalizzi sul conseguimento di specifici obiettivi. La discussione sincrona, indipendentemente dalle sue finalità, richiede una fase preparatoria in cui il moderatore: © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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1. fissa l’appuntamento, valutando le disponibilità; 2. definisce l’ordine del giorno, indicando analiticamente i punti (decisioni da prendere e sintesi del tema/problema su cui confrontarsi) sui quali si chiede al gruppo di intervenire; 3. definisce i tempi (durata della discussione e tempi riservati a ciascun aspetto da prendere in esame); 4. assegna i ruoli; 5. comunica a tutti i partecipanti data e orario dell’appuntamento, l’ordine del giorno, i tempi e i ruoli in modo che ciascun partecipante possa adeguatamente prepararsi a intervenire. Discussione orientata alla libera espressione di idee e opinioni (rapido brainstorming) CONDIZIONI FAVOREVOLI

• È importante la presenza di un moderatore con facoltà di dare e togliere la parola, fissare i tempi, proporre l’argomento, animare e riorientare la discussione, motivare i partecipanti a intervenire e partecipare; potrebbe essere inoltre importante la presenza di un tutor tecnico, in grado di aiutare il partecipante in caso di difficoltà: è difficile infatti per il moderatore durante una sessione di chat o di audioconferenza curare sia gli aspetti relazionali e gestionali che quelli tecnici; • è opportuno assegnare a uno dei partecipanti il compito di registrare tutte le idee progressivamente espresse, di sintetizzarle e comunicarle successivamente a tutti i membri del gruppo; • il tema o problema deve essere abbastanza definito; • richiede un numero basso di partecipanti (massimo 5 o 6). SVILUPPO

Lo sviluppo avviene in 2 fasi. 1. Accoglienza: il moderatore verifica che tutti i partecipanti siano presenti e che tutti abbiano preso visione dell’ordine del giorno. Il tutor tecnico si rende disponibile per eventuali difficoltà. 98

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2. Generazione di idee: il moderatore ripresenta brevemente il tema/problema e lascia la parola ai partecipanti, i quali a turno esprimono le loro idee e opinioni. Nei momenti di silenzio, il moderatore interviene per animare e rilanciare la discussione. Un partecipante registra i vari interventi. Al termine del brainstroming, viene redatto un verbale che viene inviato a tutti. Discussione orientata alla presa di decisioni CONDIZIONI FAVOREVOLI

• Anche in questo caso è importante la presenza di un moderatore e di un tutor tecnico con le funzioni sopra delineate; • è opportuno assegnare a uno dei partecipanti il ruolo di tenere conto dei favorevoli e dei contrari, di registrare tutte le decisioni prese, di sintetizzarle e comunicarle successivamente a tutti i membri del gruppo; può essere utile assegnare ad alcuni partecipanti il ruolo di critico e di difensore, con i compiti rispettivamente di portare argomenti contro o a favore delle strategie comunicate in fase preparatoria; • le questioni da decidere devono essere ben definite; può essere utile presentare per ogni questione due o tre alternative in fase preparatoria; • richiede un numero basso di partecipanti (massimo 5 o 6). SVILUPPO

Lo sviluppo avviene in 3 fasi. 1. Accoglienza: il moderatore verifica che tutti i partecipanti siano presenti e che tutti abbiano preso visione dell’ordine del giorno. Il tutor tecnico si rende disponibile per eventuali difficoltà. 2. Valutazione delle alternative: il moderatore presenta la questione su cui discutere e le principali alternative. Il critico avanza obiezioni contro tutte le alternative, mentre il difensore presenta argomenti a favore di tutte. I partecipanti si esprimono © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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comunicando la loro posizione o proponendo un’ulteriore alternativa. 3. Presa di decisione: il moderatore sintetizza brevemente le alternative emerse e chiede a tutti di pronunciarsi esprimendo una sola preferenza. Le preferenze vengono contate e infine si verbalizzano le conclusioni. Le fasi 2 e 3 si ripetono in base al numero delle decisioni da prendere. Al termine della discussione, viene redatto un verbale che viene inviato a tutti.

Studio del caso Lo studio di caso è una tecnica che nasce in ambito giuridico: anticamente fu usato alla Sorbona per lo studio dell’applicazione delle leggi in casi di una certa complessità (Rotondi, 2000). Fu rivalutato negli anni Venti presso l’Università di Harvard (USA) e successivamente utilizzato anche in altri ambiti quali la medicina, l’economia, l’ingegneria, l’agricoltura, ecc. Oggi riceve grande attenzione in ambito costruttivista, come testimonia l’ampia letteratura che sul metodo del caso si è prodotta (Ertmer e Russell, 1995; Kinzie, Hrabe e Larsen, 1998, Kovachick et al., 1998; Holotescu, 2004, ecc.). Lo studio di caso consiste nel presentare agli allievi un problema o una situazione reale o verosimile da analizzare, su cui formulare ipotesi o per cui sia necessario prendere delle decisioni adeguate. Reynolds (1980) ha classificato i casi secondo tre tipologie fondamentali. 1. Studio di caso orientato alla decisione (decision o dilemma cases): ai partecipanti vengono presentati i problemi che devono essere affrontati o le decisioni che devono essere prese dal protagonista o dai protagonisti di un storia. Il caso consiste di solito in un breve paragrafo introduttivo che presenta il problema da risolvere e introduce colui o coloro che devono 100

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decidere nel momento della crisi. Una sezione di sfondo completa il quadro fornendo le informazioni storiche necessarie per comprendere la situazione e una sezione narrativa presenta successivamente gli sviluppi che hanno portato alla crisi che il protagonista o i protagonisti devono affrontare. Seguono delle appendici che includono tabelle, grafici, lettere o documenti su cui basarsi per formulare una possibile soluzione del problema. 2. Studio di caso orientato all’individuazione e all’analisi di problemi (appraisal cases o issue cases): ai partecipanti viene presentato del materiale e il docente pone semplici domande quali: «Che cosa è successo o che cosa sta succedendo?». Di solito manca un personaggio centrale e ai partecipanti non viene chiesto di prendere decisioni, quanto piuttosto di analizzare e valutare le problematiche del caso. 3. Case histories: si tratta di storie concluse e generalmente meno coinvolgenti delle precedenti proprio perché già concluse. Possono essere utilizzate come modelli esemplificativi a cui fare riferimento. Si pensi ad esempio al resoconto in forma narratologica di scoperte scientifiche attraverso cui si cerca di far comprendere allo studente come avviene una scoperta, quali sono i fattori che entrano in gioco, ecc. Uno studio di caso può comunque essere impostato in modo da richiedere sia di analizzare gli aspetti rilevanti e le cause, che di prendere decisioni rispetto a situazioni problematiche. Lo scopo dello studio di caso non è comunque quello di trovare la soluzione giusta o corretta, ma di porre il partecipante davanti a scenari molto vicini a situazioni in cui potrebbe venire a trovarsi, presentandogli problemi reali, problemi che potrebbe ragionevolmente incontrare all’interno di un normale contesto lavorativo, generando forme di apprendimento situato (Kinzie, Hrabe e Larsen, 1998). A differenza di una lezione, lo studio di caso possiede quindi un carattere meno astratto. Ai partecipanti non vengono presentati teorie e principi generali, ma situazioni in © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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cui applicare le teorie e verificarne la validità, colmando per così dire il divario tra teoria e pratica. Lo studio di caso genera pertanto situazioni di apprendimento orientate all’azione secondo il modello del learning by doing, si basa su processi induttivi piuttosto che deduttivi ed è focalizzato sullo studente o sul gruppo che apprende, piuttosto che sull’insegnante (Merry,1954). Il principale svantaggio dello studio di caso è la sua obsolescenza relativamente rapida. Per esempio, un caso basato su problematiche attinenti a una certa tecnologia informatica rischia di non essere più utilizzabile una volta che quella tecnologia sarà superata. Uno studio di caso può essere significativo solo per due o tre anni, poi deve essere aggiornato. Le aree di contenuto che meglio si adattano a essere affrontate attraverso il metodo dei casi sono quelle che si prestano maggiormente all’interpretazione. Per esempio, può essere estremamente utile per insegnare a stabilire priorità, a sviluppare piani strategici, a prendere decisioni o ad applicare teorie e principi. Questa strategia può risultare più produttiva con soggetti che hanno già un’esperienza personale del dominio in questione, per esempio nella formazione professionale. In rete si possono ipotizzare due principali modalità di sviluppo dello studio di caso: una basata su studio individuale e feedback automatizzato, l’altra su tutorship e interazione tra pari. Sicuramente la modalità più efficace è quella basata sull’attività in piccoli gruppi, che in rete può essere supportata dall’uso di un web forum. Vediamo ora come si articolano le due modalità. Studio del caso individuale con feedback automatizzato Se non è possibile garantire al partecipante un feedback da parte di un tutor o di un docente, diventa fondamentale consentire al partecipante di confrontare, al termine dell’attività, la sua personale visione con quella di un esperto, che può essere 102

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registrata in formato audio/video o semplicemente presentata in forma testuale attraverso una serie di schermate. Il confronto con un parere esperto è utile non solo perché può offrire indicazioni operative, ma anche e soprattutto perché offre l’opportunità di riflettere sul ragionamento che l’esperto sviluppa per elaborare la soluzione. In questo senso l’esperto diventa una sorta di modello a cui potersi riferire anche in altre situazioni e il focus si sposta sulla metariflessione e sullo sviluppo di capacità metacognitive. Un ulteriore espediente che permette al partecipante di prendere in considerazione altri punti di vista oltre al suo, consiste nel proporgli le valutazioni soggettive degli attori coinvolti nella storia, in modo che possa riconsiderarla alla luce di altre interpretazioni. Questa modalità di studio del caso prevede 5 fasi di sviluppo. 1. Documentazione personale In questa fase il partecipante si documenta sul caso: in alcune schermate gli vengono presentati il problema e i vincoli della situazione (introduzione); in un’overview viene ricostruito storicamente il contesto del problema e vengono descritti personaggi e luoghi, offrendo, se possibile, testimonianze in formato audio/video e tutta la documentazione del caso in questione. L’overview si conclude con un report aggiornato delle azioni più recenti e con un dilemma, quello che il protagonista o i protagonisti (soggetti o organizzazioni) devono affrontare, senza anticipare ciò che è realmente accaduto. 2. Analisi dei punti problematici Attraverso un questionario a scelta multipla dal valore esclusivamente formativo si induce il partecipante a riflettere sulle principali problematiche del caso. Il partecipante potrà verificare le sue risposte al termine dell’attività confrontandole con l’analisi effettuata dall’esperto. 3. Valutazione delle ipotesi e scelta In una serie di schermate, vengono presentate al partecipante tre possibili ipotesi di soluzione del problema/dilemma: il corso delle azioni descritte in ciascuna delle ipotesi dovrà essere © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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plausibile e basarsi sulla documentazione resa disponibile al partecipante, con espliciti richiami ad essa. Il partecipante sarà chiamato a valutare i vari aspetti di ogni ipotesi, assegnando un valore, all’interno di un range predefinito, a ciascuna delle azioni, sulla base del grado di efficacia stimato. Gli verrà successivamente sottoposto un questionario a scelta multipla attraverso il quale esprimerà la sua opinione circa l’ordine di priorità delle azioni da compiere, formulando così una sua personale ipotesi di risoluzione. 4. Confronto dei punti di vista A questo punto al partecipante verrà presentato l’effettivo svolgimento dell’azione nella realtà e parallelamente potrà ascoltare il parere dei soggetti coinvolti sulla conclusione della storia, sollecitando così una riflessione retrospettiva su tutto il caso. 5. Metariflessione Al termine dell’attività il partecipante ascolterà il parere di un esperto con il quale potrà confrontare la sua analisi dei punti problematici della storia e la sua personale ipotesi di soluzione. Per sintetizzare può essere utile lo schema nella pagina seguente. Studio di caso basato su tutorship e collaborazione tra pari Il processo può essere esemplificato in 5 fasi. 1. Documentazione personale Ai partecipanti viene presentato il caso e ciascuno individualmente si documenta sulla storia e comincia a riflettere sulle problematiche che essa evidenzia. In alternativa il caso viene proposto da uno dei partecipanti (autocaso). 2. Analisi dei punti problematici e dei punti di vista In un web forum il tutor invita i partecipanti a identificare i punti problematici presenti nel caso e ad analizzarli successivamente dal punto di vista degli attori coinvolti. 104

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Introduzione – Definizione del problema – Descrizione dei vincoli

Overview – La storia – I personaggi – I luoghi – L’organizzazione – La documentazione (videointerviste, lettere, trascrizioni di telefonate, documenti) – Link a risorse esterne

Presentazione dell’ipotesi A

Analisi dei punti problematici Test a scelta multipla per ciascuno dei key issues

Analisi delle ipotesi di soluzione e pianificazione dell’azione – Ipotesi A – Ipotesi B – Ipotesi C

Presentazione dell’ipotesi B

Presentazione dell’ipotesi C

Per quale di queste ipotesi opteresti? Quali conseguenze potrebbe avere questa linea d’azione? Confronta la tua scelta e le tue risposte con: – l’azione realmente accaduta e le relative conseguenze – le opinioni dei protagonisti – il parere di esperti

Ogni partecipante produce un report segnalando gli aspetti problematici e analizzando il punto di vista di almeno uno degli attori coinvolti. Il tutor, o eventualmente un partecipante con il ruolo di coordinatore, produce una sintesi riassumendo tutte le questioni emerse. 3. Prima valutazione delle ipotesi di soluzione Questa fase si apre con un brainstorming in cui ogni partecipante esprime liberamente la propria opinione su come il caso potrebbe essere risolto. Vengono registrate tutte le ipotesi formulate in un documento comune. Solo successivamente ogni partecipante individua due punti deboli per ogni ipotesi avanzata. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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4. Proposta di soluzione Si passano al vaglio tutti i punti deboli per verificare quali di questi possono essere superati. Il tutor, o un esperto, può intervenire per dare suggerimenti. Alcune ipotesi vengono scartate, le rimanenti sono suscettibili di integrazione. Il coordinatore prova a fare una sintesi, i partecipanti la revisionano suggerendo modifiche. Si giunge a una soluzione condivisa. 5. Metariflessione In fase finale il tutor chiede ai partecipanti di valutare le conseguenze dell’intervento proposto, di riflettere sulla trasferibilità della soluzione in altri contesti e propone infine un confronto con il parere di esperti.

Overwiew sul caso: lo scenario viene presentato combinando testo e video

Figura 3.7 Schermata esemplificativa di uno studio di caso realizzato dalla Harvard Business School. Dalla barra in alto si accede al test di autovalutazione con feedback automatico da compiere prima di iniziare l’attività (Checkin), ai concetti chiave (Concepts), alla presentazione del caso (Case), alle consegne di lavoro da svolgere online (@Work), a una faq (Faq), a proposte di esercitazioni (Practice), a un test di verifica finale (Check-out) e alle risorse (Resources). La pagina qui riportata si riferisce alla presentazione del caso. 106

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Simulazione Consiste nel riprodurre, in una situazione protetta, problemi ed eventi quanto più possibile simili a quelli del mondo reale, consentendo allo studente di agire in un ambiente controllato e di apprendere dalle conseguenze delle proprie azioni (Joyce e Weil, 1996). Le forme in cui essa si presenta sono varie: dal gioco alle più complesse simulazioni basate su modelli matematici e implementate con il computer, fino alla realtà virtuale. In generale la simulazione si basa su un modello di apprendimento di tipo esperienziale che si articola in sperimentazione, analisi e concettualizzazione come indicato nei modelli di Kolb, Pfeiffer e Jones (Quaglino, 1985). L’idea generale su cui si fonda è infatti che, piuttosto che leggere e studiare teorie, principi o casi a tavolino sia importante provare, sperimentare, esplorare, formulare ipotesi e verificarle in contesti simulati e dunque privi di rischi. Lo studente o il partecipante non ricevono informazioni, ma scoprono nuove conoscenze o sviluppano nuove abilità sperimentando in prima persona. A partire dagli anni Sessanta, le simulazioni basate sul computer hanno trovato ampia applicazione in ambito educativo: si pensi per esempio ai simulatori di volo (Joyce e Weil, 1996). Come possiamo definire le simulazioni basate sul computer? Si tratta di programmi che consentono di rappresentare un sistema reale partendo da un modello matematico. Mediante l’interazione è possibile verificare gli effetti e i cambiamenti provocati dalle nostre azioni nei differenti contesti di riferimento. Contributi alla teoria della simulazione vengono dalla dinamica dei sistemi (Senge, 1992) per le simulazioni di processo, dove è possibile modellare la struttura e il funzionamento di sistemi complessi di tipo economico e sociale che presentano ritardi nel feedback e non linearità, e dalla psicologia cognitivista (Schank) per le simulazioni scenarios based, dove uno scenario di azione o un comportamento è strutturato in uno script, con percorsi che variano in funzione delle decisioni prese dall’utente. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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Come sottolinea Caravita (a cura di, 2003), ci sono vari modi di utilizzare le potenzialità del computer di produrre rappresentazioni, simulazioni intese in senso più o meno forte: ci sono programmi che permettono di interagire con oggetti o con interlocutori veri ma virtuali, con situazioni che emulano episodi di vita reale, con visualizzazioni di oggetti e processi non esperibili nella realtà, con micromondi, con modellizzazioni di sistemi.

Esistono poi anche modi diversi di integrare questi mondi virtuali nell’insegnamento: in alcuni casi si sottolinea l’importanza dell’interazione con modelli della realtà per far emergere «in situazione» e «in azione» i modelli concettuali degli studenti (Cognition and Technology Group at Vanderbilt, 1993), che possono diventare oggetto di discussione con i compagni, ma anche di riflessione per sé (valenza metacognitiva); in altri casi, si privilegia la possibilità di inserire gli ambienti artificiali nel momento cruciale del processo di cambiamento concettuale, ossia quello dell’insorgenza del conflitto cognitivo e in questo senso i micromondi o mondi artificiali, risultato delle manipolazioni degli studenti, presentano il vantaggio di far liberamente sperimentare, esplorare e riconciliare il conflitto concettuale tra le idee degli studenti e le loro osservazioni (Caravita, 2003). Tenendo conto dei molteplici usi che si possono fare delle simulazioni, non è facile fornirne una classificazione. Parlando dei laboratori virtuali basati sulla simulazione, cioè di ambienti di apprendimento online, in cui sia possibile «osservare, descrivere, sperimentare e condividere esperienze», Trinchero (2002) ne propone una possibile e molto articolata classificazione. Seguendo Trinchero, segnaliamo tre principali tipologie.13 1. Laboratori virtuali (di taglio realista) come luogo di simulazione per lo studio del comportamento e dell’evoluzione di sistemi 13

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Per un resoconto completo delle tipologie individuate da Trinchero si consulti: Trinchero R. (2002), Apprendere in rete: laboratori virtuali e condivisione dell’esperienza, Form@re, n. 2, ottobre. In Internet: http://formare.erickson.it/archivio/ottobre_02/trinchero.html.

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reali (dai simulatori di volo ai planetari, dai laboratori per lo studio delle interazioni molecolari alle operazioni chirurgiche simulate). «Lo studente può conoscere e comprendere i fenomeni oggetto del suo apprendimento, osservando e manipolando il sistema, intervenendo sui parametri endogeni ed esogeni e studiando le evoluzioni prodotte dalle sue manipolazioni, ipotizzando situazioni, strategie e loro varianti, scenari ed evoluzioni possibili, verificando validità e limiti delle previsioni». Questo tipo di simulazione sottintende modelli rigidi prefissati. 2. Laboratori (di marca costruttivista) come luogo per apprendere ruoli in organizzazioni. A differenza della tipologia precedente, in questo caso le regole sono molto meno rigide e il sistema è quasi totalmente determinato dalle azioni degli individui. «L’enfasi è infatti posta sull’evoluzione del sistema come risultato delle azioni di tutti gli attori che vi partecipano, e quindi come costruzione collettiva e sociale». Ci si riferisce a questo genere di simulazioni indicandole con l’espressione «what…if» e rientrano in questa tipologia le simulazioni del tipo «simulimpresa»14 (si veda figura 3.9) o i business game.15 «In queste simulazioni i partecipanti imparano a comportarsi come decisori utilizzando le informazioni in loro possesso, a osservare gli effetti delle loro decisioni sul sistema, combinate con quelle degli altri partecipanti al gioco, e a riflettere sulle conseguenze. L’interazione tra i partecipanti avviene sulla base di un insieme di regole condivise, che determinano la libertà

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La simulazione d’impresa è divenuta una pratica abbastanza diffusa nelle scuole superiori a indirizzo tecnico-economico. Utilizzata da oltre quarant’anni in Germania, solo dal 1994 ha trovato un riconoscimento per così dire ufficiale anche in Italia (Arrigoni, 2004). Nel business game viene simulata una specifica realtà organizzativa. I partecipanti, sulla base di dati e informazioni predefinite, prendono decisioni i cui effetti vengono elaborati dal calcolatore che produce anche un report dei risultati. Questi ultimi vengono rivisti e analizzati prima di prendere le decisioni successive. Questo processo si ripete più volte (di solito da sei a otto) in modo che i partecipanti possano apprendere dai loro errori, esplorare le problematiche e verificare le dinamiche d’impatto delle loro decisioni.

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di azione dei decisori nel sistema e le modalità di evoluzione di questo», realizzando un apprendimento di tipo esperienziale. 3. Laboratori come luogo di studio di sistemi concettuali e algoritmi di modellazione, nei quali lo studente assume le vesti di un ricercatore ed è coinvolto in un processo di astrazione nei confronti di osservazioni ed esperienze concrete. «In una prospettiva realista, gli viene richiesto di esercitare le sue capacità induttive e deduttive per ricostruire il modello sotteso al funzionamento del sistema preso in esame, sulla base delle osservazioni, sperimentazioni, valutazioni da lui condotte [...]. In una prospettiva costruttivista, gli viene chiesto di formulare interpretazioni dotate di validità e attendibilità su un insieme di dati empirici, confrontandosi con altri e mediando le proprie interpretazioni con quelle altrui». Provando ora a sintetizzare, classifichiamo le simulazioni in due macrocategorie (Gredler, 1996): simboliche ed esperienziali (a carattere più o meno aperto). Nelle prime, all’utente vengono offerte delle rappresentazioni dinamiche del comportamento di un sistema o di una serie di processi: l’utente può manipolare, osservare gli effetti delle proprie manipolazioni, ma non è attore diretto della rappresentazione (per esempio le simulazioni di fisica); quelle esperienziali pongono invece lo studente all’interno di un ambiente simulato, assegnandogli un compito reale da svolgere e conferendogli un alto livello di controllo nella presa di decisione. Riportiamo di seguito delle schermate esemplificative di questa seconda categoria (figure 3.8 e 3.9). A proposito delle simulazioni esperienziali, Schank (Schank et al., 1995) sottolinea come esse rendano possibili forme di learning by doing, consentendo di: – sperimentare attivamente il processo di soluzione di problemi realistici che richiedono l’integrazione di conoscenze, abilità e atteggiamenti personali; – esercitare abilità e verificare le proprie intuizioni sulla base delle conseguenze delle proprie azioni in ambienti privi di rischio; 110

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Figura 3.8 Schermata esemplificativa di una simulazione esperienziale (gentile concessione di Simulare S.r.l.). L’ambiente si basa sull’esplorazione libera di un ufficio virtuale e su compiti da svolgere o problemi da risolvere che simulano le reali attività di un lavoro complesso. Un sistema di posta elettronica «simulata», ma realmente funzionante, consente al partecipante di interagire non solo con il computer ma anche con dei formatori che, a distanza, impersonano altri protagonisti della vicenda (Landriscina, 2004b).

– formulare e verificare ipotesi, identificare i propri modelli e i comportamenti degli altri, prendere decisioni e osservarne le conseguenze; – osservare l’impatto dei cambiamenti derivati e modificare decisioni e azioni; – sbagliare e correggere gli errori grazie al feedback. In particolare, rispetto a questo ultimo punto, Schank osserva che è importante prevedere forme di tutoraggio, se possibile, oppure di integrare la simulazione con esempi reali o racconti di esperti: per esempio, nel caso del simulatore di volo, se uno stu© Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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Figura 3.9 Schermata esemplificativa di un simulatore di impresa (gentile concessione di Simulare S.r.l.). Nell’esempio in questione la simulazione si basa su uno specifico caso aziendale derivato dalla realtà: un’azienda si trova di fronte a diverse politiche strategiche fra cui scegliere nell’ipotesi di investire o no nel lancio di una nuova linea di prodotti. Il caso viene presentato in forma di storia. Il partecipante ne diventa protagonista e può cambiare leve strategiche come il numero di venditori, il prezzo, l’investimento in ricerca e sviluppo. Nella simulazione, il finanziamento è concesso solo se la strategia dell’azienda sta portando a risultati convincenti e coerenti con l’evoluzione dei mercati (Landriscina, 2004b).

dente-pilota commette un errore che causa un incidente, potrebbe avere senso interrompere la simulazione e raccontare dettagliatamente l’accaduto. La simulazione, rileva ancora Schank, permette inoltre agli studenti di situare il compito in un contesto significativo che li motiva ad essere partecipanti attivi; facilita la contestualizzazione nei casi in cui un contesto reale sarebbe impraticabile; consente agli studenti di investigare processi complessi e di costruire e ristrutturare i propri modelli mentali. Una delle maggiori critiche che viene di solito rivolta alla simulazione riguarda il fatto che essa non è in grado di ripro112

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durre la complessità dei sistemi reali e di conseguenza non offre l’opportunità di sperimentare in ambienti reali privi di rischi. Questa obiezione riguarda non solo la simulazione di sistemi sociali, ma anche quella di sistemi naturali: in entrambi i casi il grado di complessità dei sistemi sfugge alla rappresentazione. Si potrebbe inoltre aggiungere che, se «la mappa non è il territorio», la simulazione costituisce un mondo a sé stante che poco ha a che fare con il mondo reale. Resta comunque vero che una simulazione può essere utilizzata per stimolare la riflessione sui modelli sottesi alla simulazione stessa ed eventualmente per esplorare nuovi scenari. Progettare e realizzare simulazioni può essere comunque molto complesso e sicuramente costoso.

Role playing Il role playing in senso stretto nasce dallo psicodramma e le teorie di riferimento risalgono a Jacob Levy Moreno. L’idea di fondo su cui si basa è che mettere in scena un problema in forma drammatica consente di far emergere aspetti del comportamento che difficilmente si manifesterebbero, sia verbalmente che razionalmente. Questa tecnica fa appello infatti alla drammatizzazione di comportamenti: si simula una situazione in cui i partecipanti si identificano con specifici personaggi, assumendone il ruolo, e si comportano conseguentemente (Caprinico, 1997). Il role playing viene utilizzato soprattutto nella formazione degli adulti: si presta infatti per lo sviluppo di capacità comunicative e relazionali e di atteggiamenti flessibili e adattabili ai diversi contesti. Nel role playing i partecipanti interpretano ruoli che possono essere assegnati o scelti da loro sulla base di copioni più o meno dettagliati; il tutor prepara e organizza il role playing, scegliendo il tema, scrivendo un profilo per i vari ruoli, presentando la situazione e il problema, definisce gli obiettivi e inoltre segue e anima tutto il processo guidando il debriefing finale. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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La modalità più indicata per il role playing in rete prevede attività in piccoli gruppi e la presenza costante di un tutor che organizza, modera e facilita il processo (Ip, Linser e Naidu, 2001). Lo svolgimento di un role playing online può essere esemplificato in 4 fasi. 1. Definizione dei ruoli, delle regole e della situazione Dopo una breve presentazione dei personaggi e delle regole del gioco, ogni partecipante comunica privatamente al tutor via email la scelta del personaggio. Il tutor organizza i partecipanti in piccoli gruppi, assegnando a ciascuno di essi un ruolo sulla base delle preferenze espresse. In alternativa li assegna d’ufficio. Una volta assegnati i ruoli, il tutor presenta sinteticamente la situazione e dà ai partecipanti le seguenti consegne di lavoro da svolgere individualmente: a) trovare informazioni sul ruolo e costruire il profilo del proprio personaggio; b) documentarsi sullo scenario sia attraverso materiali prestrutturati che attraverso risorse Internet. 2. Presentazione del/i problema/i Viene presentato il problema. I singoli gruppi si documentano nel merito e approfondiscono cercando e selezionando informazioni su Internet. 3. Definizione della strategia, interazione e dibattito Ogni gruppo si attiva per mettere a punto la propria strategia d’intervento coerentemente con il personaggio scelto e con i profili degli altri personaggi, avvalendosi prevalentemente di un web forum «privato». Definire una strategia di intervento può significare decidere di costruire un sistema di alleanze contattando per e-mail altri gruppi/personaggi, restare in attesa di verificare le strategie messe in atto dagli altri gruppi/personaggi, cercare informazioni rilevanti che possano incidere sulle scelte altrui, ecc. Successivamente in un web forum «pubblico» tutti i gruppi/personaggi si confrontano, mettendo in atto le strategie definite in precedenza. 114

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L’attività in piccoli gruppi e il dibattito pubblico si alternano secondo un andamento ciclico che si può ripetere anche due o tre volte e durante il quale i singoli gruppi possono modificare la propria strategia. 4. Debriefing e valutazione Al termine del role playing, il tutor apre una discussione su quanto è accaduto, chiedendo ai partecipanti di esprimere delle valutazioni da tre punti di vista: il proprio, quello del personaggio interpretato e quello di un eventuale osservatore esterno, per rielaborare l’esperienza e valutare la trasferibilità in altri contesti delle strategie messe in atto. Le quattro fasi sono riassunte nella figura 3.10. Per i giochi di ruolo in rete ci si può avvalere anche dei software per le «simulazioni immersive», come ad esempio i MUD (multi users dungeons), i MOO (mud object oriented) o i MUSE (multi users simulation environment). Si tratta di ambienti di simulazione multiutente già ampiamente utilizzati dagli utenti della rete per i giochi di ruolo online, che hanno avuto negli ultimi anni una certa diffusione anche nella didattica in rete.

Definizione dei ruoli, delle regole e della situazione

Accesso a risorse (siti internet, data base, ecc.) per documentarsi

Presentazione del/i problema/i

Attività in piccoli gruppi per la messa a punto di strategie (web forum, chat, e-mail) Debriefing e valutazione (web forum) Interazione e dibattito pubblico (web forum)

Figura 3.10 Schema riassuntivo di role playing online.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Problem solving Quando si parla di apprendimento basato sulla soluzione di problemi, il primo riferimento va a Dewey. Se da un lato, infatti, il problem solving rappresenta una prassi didattica di lunga tradizione funzionale allo sviluppo di abilità logico-matematiche, dall’altro è a partire da Dewey che ha assunto il carattere di uno stile di indagine e scoperta che riguarda più in generale tutto l’apprendimento. Anche la nozione gestaltica di insight o quella di apprendimento per scoperta (Bruner) rientrano in questa visione (Boscolo, 1986). I sostenitori del problem solving inteso in questa accezione più generale sottolineano che far rivivere agli allievi i processi tipici dei ricercatori (ipotesi-verifica) è la via più stimolante per aumentare la motivazione, mentre i critici evidenziano come sia difficile ipotizzare situazioni problematiche, in grado di avviare una ricca produzione di ipotesi, e come apprendimenti di questo tipo comportino tempi lunghi, così da rendere scarsamente estendibile il metodo (Calvani, 2000). Nonostante le critiche, la filosofia dell’apprendimento per scoperta ha ricevuto grande attenzione in ambito costruttivista, dove autori come Ann Brown (Brown et al., 1989) hanno proposto una via intermedia rappresentata dalla scoperta guidata: il concetto di «guida» può essere inteso come delimitazione dello spazio del problema, facilitazione da parte del docente o anche supporto tra pari. Sempre in ambito costruttivista, uno studioso che ha prestato molta attenzione al problem solving è stato Jonassen (2004). Questo autore propone una classificazione delle diverse tipologie di problemi in relazione a quattro aspetti. 1. Grado di strutturazione: i problemi possono essere ben definiti o mal definiti. I primi richiedono l’applicazione di un numero limitato e conosciuto di concetti, regole e principi da studiare all’interno di un dominio ristretto; essi sono tali per cui sono chiari sia la situazione iniziale, sia l’obiettivo da raggiungere, sia la procedura di soluzione (per esempio i problemi di arit116

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Modelli e strategie didattiche

metica); al contrario gli altri presentano aspetti sconosciuti, per essi infatti non esiste una soluzione prevedibile, ma molteplici soluzioni; il soggetto non dispone di un criterio preciso per decidere se e quando il problema sia definitivamente risolto: fare un progetto o definire una strategia di intervento sono esempi di questa seconda tipologia. 2. Complessità: i problemi variano per il loro grado di complessità; la complessità di un problema è determinata dal numero di fattori o di variabili coinvolte, dalla tipologia di relazioni tra esse sussistenti e dal grado di stabilità nel tempo di queste relazioni; i problemi mal definiti tendono ad essere più complessi. 3. Dinamicità: i problemi complessi sono di solito «dinamici», nel senso che l’ambiente all’interno del quale è situato il compito/problema tende a mutare nel tempo: quando le condizioni cambiano, il soggetto deve di conseguenza adattare la propria comprensione del problema, cercando nuove soluzioni. 4. Specificità/astrazione del dominio (contesto): le attività di problem solving sono situate, dipendono pertanto dalla natura del contesto e dal dominio conoscitivo: all’interno di un contesto organizzativo i problemi vengono risolti in modo diverso rispetto ad altri contesti. A seconda della tipologia di problemi esisteranno differenti strategie cognitive da mettere in atto per risolverli e si potranno ipotizzare differenti attività di apprendimento (si veda la Scheda di approfondimento). In rete le più significative applicazioni di questo approccio si basano sulla collaborazione e sull’analisi e la soluzione di problemi complessi e mal definiti (si veda di seguito Collaborazione).

Collaborazione Il valore educativo dell’apprendimento collaborativo è stato da tempo sottolineato in ambito didattico. In particolare l’attivismo, © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

da Dewey in poi, ha considerato il lavoro collaborativo rilevante oltre che sul piano della motivazione e dell’apprendimento, anche su quello etico e sociale. Più recentemente sulla collaborazione come dispositivo fondamentale per l’apprendimento e la costruzione di conoscenza ha posto molta enfasi il costruttivismo (si veda il capitolo 1). Lo sviluppo delle tecnologie di rete ha poi fornito a partire dagli anni Novanta un ulteriore impulso alla riflessione teorica, favorendo la nascita di un nuovo campo di ricerca: la CSCL.16 L’acronimo, che sta a indicare computer supported collaborative work, è stato coniato, nel 1990, da Timothy Koschmann della Southern Illinois University, nel corso del Workshop on Computer Supported Collaborative Learning. Gli strumenti CSCL sono nati dall’esigenza di supportare modelli didattici capaci di valorizzare il lavoro di gruppo e la costruzione collaborativa di conoscenza attraverso la discussione (Scardamalia e Bereiter 1992, 1994) e, più in generale, gli approcci di taglio costruttivista, siano essi orientati all’indagine progressiva (Muukkonen Hakkarainen e Lakkala, 1999) che all’investigazione di problemi reali (problem-based learning) (Koschmann et al., 1994). Oggi la produzione teorica sulla collaborazione in rete è molto vasta. Ai nostri fini ci concentreremo su due principali approcci: quello orientato al problem-based learning e quello basato sul project-based learning. Collaborazione basata sul problem-based learning Il processo si articola in cinque fasi, per ciascuna delle quali è previsto uno specifico apporto da parte di un tutor: formulazione del problema, studio individuale, riesame del problema, astrazione e riflessione. Vediamo come si può svolgere in rete.

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Per una discussione dei principali orientamenti nell’ambito delle tecnologie a supporto dell’apprendimento collaborativo si rimanda a: Bonaiuti (a cura di) 2004 e Bonaiuti e D’Agostino (2003).

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Modelli e strategie didattiche

CONDIZIONI

• Non è necessaria la presenza di un moderatore, piuttosto di un facilitatore che sostenga senza in alcun modo dirigere i partecipanti; • è opportuno assegnare o far scegliere a uno o più partecipanti i seguenti ruoli: – «cacciatore di informazioni» (surfer); – critico: il suo compito consiste nel far emergere i nodi problematici sui quali esiste divergenza e conflittualità tra i partecipanti; laddove non fossero sufficientemente espliciti o ancora troppo superficiali, dovrebbe porre domande volte ad approfondire ed esplicitare la divergenza; – monitor: il suo ruolo è di monitorare il processo, di sollecitare la partecipazione e la metariflessione; – eventuale coordinatore a supporto del moderatore con compiti di sintesi; • il tema o problema è scarsamente definito; • richiede un numero basso di partecipanti (massimo 5 o 6). SVILUPPO

Lo sviluppo prevede le seguenti fasi. 1. Formulazione del problema: agli studenti viene presentata una situazione problema, vengono date alcune (non tutte) informazioni per consentire loro di individuare e definire il problema. La prima difficoltà nel problem solving è proprio quella di costruire una rappresentazione del problema, attività che si basa sull’interpretazione dei dati forniti. Una volta definito il problema gli studenti sono invitati ad abbozzare delle ipotesi di soluzione confrontandosi nel web forum o via chat. 2. Studio individuale: ogni studente si documenta accedendo a un data base di risorse informative selezionate, confrontandosi con casi autentici analoghi e chiedendo supporto al tutor. 3. Riesame del problema: inizia la verifica; le informazioni raccolte consentono agli studenti di operare una selezione tra le © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

ipotesi precedentemente formulate e di avanzare una possibile soluzione. 4. Astrazione: in questa fase i partecipanti si confrontano e mettono in opposizione i casi, formulando collegamenti che permettano di accrescere l’utilità delle conoscenze ottenute negli specifici contesti considerati. 5. Riflessione: il gruppo rianalizza l’esperienza e individua le aree in cui migliorare. Collaborazione basata sul project-based learning A differenza del problem-based learning, nell’approccio basato sull’elaborazione progettuale, l’enfasi cade sulla costruzione da parte del soggetto di un prodotto che rappresenti ciò che ha appreso. La didattica per progetti risale a Kilpatrik (1917), secondo cui «il modo migliore per apprendere è quello di trovarsi di fronte a compiti “reali” piuttosto che a percorsi didattici artificiali nei quali gli apprendimenti sono frazionati opportunisticamente e messi in sequenza» (citato in Rossi, 2003, p. 14). In generale si parla di didattica per progetti (Rossi, 2003) se: – si ottiene come risultato un prodotto di cui siano state stabilite in precedenza caratteristiche, utilizzazione e limiti di accettabilità; – si richiede la realizzazione di attività non riducibili alla semplice applicazione di procedure; – si coinvolgono gli studenti nella definizione del tema, dei termini del contratto e della metodologia; – l’insegnante svolge un ruolo di consulenza e non prescrittivo. Nel project-based learning la produzione dell’artefatto si configura come un processo continuo di problem solving nel corso del quale chi apprende formula e riformula domande, discute idee, fa previsioni, progetta o sperimenta, raccoglie e analizza dati, trae conclusioni, comunica le proprie idee agli altri, formula nuove domande e crea artefatti. 120

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Modelli e strategie didattiche

Solitamente un’attività ispirata a questo approccio presuppone o include quattro elementi essenziali: disponibilità di tempo, collaborazione, investigazione, ricerca e costruzione di un artefatto. In rete il processo di costruzione collaborativa di artefatti o prodotti si può articolare nel seguente modo. CONDIZIONI

• Non è necessaria la presenza di un moderatore, piuttosto di un facilitatore che sostenga senza in alcun modo dirigere i partecipanti; • è opportuno assegnare o far scegliere a uno o più partecipanti i seguenti ruoli: – coordinatore; – «cacciatore di informazioni» (surfer); – critico: il suo compito consiste nel far emergere i nodi problematici sui quali esiste divergenza e conflittualità tra i partecipanti; laddove non fossero sufficientemente espliciti o ancora troppo superficiali, dovrebbe porre domande volte ad approfondire ed esplicitare la divergenza; – monitor: il suo ruolo è di monitorare il processo, di sollecitare la partecipazione e la metariflessione; • il progetto/prodotto deve riguardare problematiche legate agli interessi e ai contesti di vita dei partecipanti; • le azioni del tutor sono prevalentemente di supporto intellettuale, ma talora anche tecnico/operativo, oltre che di richiamo al rispetto di tempi e compiti assegnati a ciascun componente; • richiede un numero basso di partecipanti (massimo 5 o 6). SVILUPPO

Lo sviluppo avviene in cinque fasi. 1. Ideazione del prodotto da realizzare: brainstorming di gruppo moderato dal tutor per valutare proposte e ipotesi di possibili oggetti da produrre. Ogni partecipante avanza una proposta motivandola. Il tutor media per far convergere il gruppo verso © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

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la scelta comune del prodotto da realizzare. Incide molto sulla scelta la fattibilità del prodotto stesso. Analisi e studio preliminare: una volta individuato l’oggetto, ogni partecipante effettua ricerche in rete per documentarsi sulle caratteristiche di oggetti analoghi già esistenti, valutandone punti di forza e criticità. Prima definizione della bozza del prodotto: il coordinatore del gruppo presenta un’ipotesi di design e invita i singoli partecipanti a fare osservazioni, commenti e critiche per arrivare a definire una prima bozza progettuale, che raccolga i suggerimenti di tutto il gruppo. Revisione della bozza: la prima versione della bozza viene sottoposta a revisione, a ogni partecipante viene quindi assegnato dal coordinatore il compito di valutare un particolare aspetto del prodotto che si intende realizzare (per es. funzionalità, reale possibilità di utilizzo, rispondenza al target, ecc.). Il coordinatore apporta successivamente le modifiche. Implementazione del prodotto e test di verifica: la realizzazione vera e propria dell’oggetto viene effettuata dividendosi i compiti: ogni partecipante darà un contributo personale, in base alle proprie competenze.

Come abbiamo visto, il mondo delle strategie didattiche è ricco e articolato. La varietà di soluzioni che si prospettano per l’Intructional Designer è dunque altrettanto ampia.

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Modelli e strategie didattiche

Scheda di approfondimento – Problem solving Jonassen (2004) ha fornito una classificazione delle tipologie di problem solving riadattata e semplificata nello schema seguente. Tipo di problema

Attività di apprendimento

Input

Criteri di successo

Contesto

Grado di strutturazione

Problema logico

Manipolazione e controllo logico di un numero finito di variabili; soluzione di puzzle

Puzzle

Manipolazione efficiente (numero di movimenti pari a quelli necessari)

Compito astratto

Scoperta

Algoritmo

Sequenza procedurale di manipolazioni; calcolo o produzione di risposta

Formula o procedura

Risposta o prodotto che soddisfi i valori e la forma

Astratto

Procedura prevedibile (ben definito)

Story problem (tipicamente ambito scientifico)

Disambiguare variabili; selezionare e applicare algoritmi per produrre risposte corrette utilizzando metodi definiti

Storia con formula o procedura

Algoritmo usato correttamente

Limitato a elementi predefiniti

Ben definito; procedura prevedibile

Uso di regole

Processo procedurale vincolato da regole; selezione e applicazione di regole per produrre risposte o prodotti vincolati al sistema

Situazione all’interno di un sistema vincolato; numero di regole finite

Produttività

Accademico, mondo reale, vincolato

Esito non prevedibile

Presa di decisione

Identificare vantaggi e svantaggi; individuare opzioni; selezionare alternative e giustificarle

Situazioni decisionali con un numero limitato di alternative

Risposta o prodotto che soddisfi i valori e la forma

Decisioni della vita quotidiana

Esito definito

(continua)

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E-learning: modelli e strategie didattiche

(continua)

Tipo di problema

Attività di apprendimento

Input

Criteri di successo

Contesto

Grado di strutturazione

Trouble-shooting

Esaminare e testare un sistema; fare ipotesi e scoprire ciò che funziona

Sistemi che non funzionano

Identificazione dei guasti

Sistemi chiusi, mondo reale

Esito definito

Diagnosi

Selezionare, valutare opzioni e monitorare

Sistemi complessi con diverse soluzioni/opzioni disponibili

Strategia usata; efficacia ed efficienza del trattamento; giustificazione del trattamento adottato

Mondo reale, tecnico, sistemi chiusi

Esito definito

Performance strategica

Applicare tattiche per mettere in atto strategie; performance complesse

Performance complesse in real time con necessità emergenti

Raggiungere obiettivi strategici

Performance real time

Strategie mal definite; tattiche ben definite

Analisi di caso

Identificazione della soluzione e delle azioni alternative, argomentazione della posizione

Sistemi complessi con molteplici finalità mal definite

Molteplici, non chiari

Mondo reale, vincolato

Mal definito

Design

Agire con lo scopo di produrre un artefatto; strutturazione e articolazione del problema

Finalità vaghe, pochi vincoli, richiesta di strutturare

Molteplici criteri non definiti; non c’è «giusto» o «sbagliato», ma solo «meglio» o «peggio»

Situazioni complesse del mondo reale con un certo grado di libertà di azione

Mal definito

Dilemma

Valutare prospettive non conciliabili

Situazioni con posizioni antinomiche

Esprimere una preferenza con una qualche giustificazione

Complesso e interdisciplinare

Esiti indefiniti, molteplici ragioni

(Riadattato da Jonassen, 2004)

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Capitolo 4

Multimedialità e comunicazione didattica Media e apprendimento: quali rapporti? Molti corsi e-learning si basano sull’erogazione di contenuti in formato testo, audio o video. Nonostante alcune limitazioni di carattere tecnico, che in una certa misura ancora ostacolano la possibilità di presentare materiali ad alto contenuto mediale, la natura digitale del nostro habitat consente l’integrazione di più media a supporto della comunicazione didattica. Se da un lato questo aspetto può essere considerato come un valore aggiunto del medium, dall’altro riapre problemi che sono stati oggetto di ampi e appassionati dibattiti negli anni passati, nell’ambito dei linguaggi e delle tecnologie didattiche (Lumbelli, 1994; Galliani,1998; Maragliano, 1998; Pellerey, 1998; Calvani, 2001b) e dell’educazione ai media (Masterman, 1997; Rivoltella, 2001). Il problema, da un punto di vista pedagogico e didattico, riguarda il rapporto tra media e apprendimento: come deve modificarsi la comunicazione didattica quando essa avviene attraverso canali diversi da quelli tradizionali (lezione in presenza, libri), ossia attraverso la multi© Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

E-learning: modelli e strategie didattiche

medialità e la rete? Come comunicare contenuti di apprendimento in modo efficace senza causare sovraccarico cognitivo? Comunicare un contenuto didattico non significa trasmettere semplicemente informazioni, ma attivare processi cognitivi complessi come trasferire quanto si è appreso da un contesto a un altro, imparare a imparare oltre che ovviamente comprendere e ricordare. Non sono molti gli studi empirici che si sono soffermati su come rendere efficace una comunicazione didattica multimediale. Uno dei pochi autori che più di altri negli ultimi anni ha cercato di affrontare in termini scientifici simili problematiche, rispetto alla comunicazione testuale o multimediale, è stato lo psicologo cognitivo californiano Richard Mayer, a cui abbiamo già fatto riferimento in altre occasioni (si veda il capitolo 2). In questo capitolo ci soffermeremo sul contributo offerto da Mayer sul tema della multimedialità, ampliandolo e integrandolo con altre linee di ricerca per rispondere principalmente alle seguenti domande: come e quando avvalersi di più codici espressivi per la presentazione di contenuti didattici? Come presentare contenuti informativi in modo significativo per l’apprendimento? Quali sinergie didatticamente rilevanti si possono instaurare tra il testo e l’immagine? Procediamo per gradi.

Principi di multimedialità didattica Mayer, tenendo conto da una parte del carattere costruttivo dell’apprendimento e avvalendosi dall’altra di teorie cognitive classiche, come quella del carico cognitivo di Sweller e la teoria del doppio codice di Paivio, suggerisce una serie di tecniche su come presentare/comunicare i contenuti didattici (Mayer, 1999) e formula alcuni fondamentali principi su come progettare interfacce multimediali (Mayer, 2001). 126

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Multimedialità e comunicazione didattica

Le tecniche e i principi teorizzati da Mayer si basano sul SOI model of learning (Mayer, 1996), ossia su una teoria della cognizione di carattere costruttivistico incentrata su tre processi cognitivi: selezionare informazioni (S), organizzare informazioni (O) e integrare informazioni (I). Il modello può essere schematizzato nel seguente modo.

Messaggio didattico

Immagini

Working memory

Selezionare

Percezioni Organizzare visive

Long-term memory

Modello mentale visivo Conoscenza preesistente

Selezionare Parole

Percezioni Organizzare uditive

Modello mentale verbale

Figura 4. 1 SOI model of contructivist learning (schema tratto e riadattato da Mayer, 1999, p. 143).

Più analiticamente, secondo Mayer, nel corso del processo di apprendimento lo studente compie tre operazioni fondamentali: seleziona le informazioni rilevanti attraverso due canali distinti e paralleli (visivo e uditivo); organizza nella working memory le percezioni visive o uditive selezionate in un modello mentale visivo o verbale coerente, connettendo cioè in modo appropriato (ad es. attraverso una relazione di tipo causale) le percezioni selezionate; integra infine le nuove rappresentazioni visive o verbali, utilizzando le conoscenze preesistenti (nella long-term memory) e ottenendo una rappresentazione integrata del materiale presentato. Le assunzioni di fondo sono invece che esperienze visive e uditive sono elaborate in distinti e separati canali e ciascun canale di elaborazione è limitato nella sua capacità di trattare informazioni. © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Che cosa implica sul piano della comunicazione didattica (che si tratti di messaggi di contenuto didattico testuali o multimediali) un simile modello? Quali indicazioni se ne possono ricavare? Secondo Mayer (2001) la comunicazione multimediale può migliorare l’apprendimento, ma solo ad alcune condizioni. Occorre infatti tener conto che lo studente apprende meglio: – da parole unite a immagini, piuttosto che solamente da parole (principio di multimedialità); – quando le parole e le immagini corrispondenti sono vicine tra loro sulla pagina o sulla schermata (principio di contiguità spaziale); – quando le parole e le immagini corrispondenti sono presentate simultaneamente piuttosto che successivamente (principio di contiguità temporale); – quando le parole, le immagini o i suoni estranei sono esclusi (principio di coerenza); – quando le animazioni sono accompagnate da narrazione audio, piuttosto che da testi scritti sullo schermo (principio di modalità); – da animazioni accompagnate solo da narrazione audio piuttosto che accompagnate sia da narrazione che da testi sullo schermo (principio di ridondanza). La multimedialità (uso di immagini, testi, audio, ecc.) ha quindi di per sé un valore aggiunto, a patto però di evitare il sovraccarico cognitivo, derivante dall’eccessivo impiego di un singolo canale (visivo o uditivo). Così ad esempio presentare un testo scritto insieme a un’animazione complica piuttosto che facilitare l’integrazione delle informazioni: il canale visivo viene in tal caso sovraccaricato e non può gestire la duplice sorgente visiva. In generale le soluzioni migliori si ottengono quando sia il canale visivo che uditivo sono coinvolti, in modo da fornire informazioni tra loro coerenti, per esempio nel caso di una dimostrazione in cui una breve animazione visiva sia coerente128

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Multimedialità e comunicazione didattica

mente accompagnata da una narrazione audio: in questi casi si impiegano sinergicamente i due canali, visivo e uditivo, senza che nessuno dei due vada incontro a sovraccarico, con integrazione reciproca delle informazioni. Partendo dagli stessi presupposti, Clark e Mayer (2003) hanno recentemente elaborato delle linee guida sulla multimedialità nell’e-learning. In particolare, se si ricorre principalmente all’uso del canale visivo (testo e immagini statiche o dinamiche), gli autori suggeriscono di: – utilizzare grafici e testi significativi per comunicare il contenuto (principio della multimedialità); – integrare testo e immagini sullo schermo (principio di contiguità); – evitare grafici, storie e testi lunghi e scarsamente significativi (principio di coerenza); – utilizzare uno stile conversazionale (principio di personalizzazione); – avvalersi di coach virtuali per presentare esempi o dare suggerimenti (principio di personalizzazione). Se invece è possibile far uso sia di audio che di video, è preferibile: – comunicare il contenuto utilizzando grafici significativi, accompagnati da narrazione audio di carattere esplicativo (principio di multimedialità); – lasciare sullo schermo quelle informazioni che comportano tempi più lunghi di memorizzazione, come ad esempio nuovi termini (eccezione al principio di modalità); – se si fa uso di grafici, presentare le informazioni descrittive o in formato testuale o in formato audio, ma non in entrambi i formati (principio di ridondanza); – evitare video, animazioni, audio, ecc. poco significativi (principio di coerenza).

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Tecniche di presentazione e comunicazione dei contenuti Sempre basandosi sul modello SOI, Mayer indica alcune tecniche per migliorare la presentazione dei contenuti e promuovere l’apprendimento, facilitando l’attivazione dei tre processi cognitivi di selezione, organizzazione e integrazione delle informazioni (Mayer, 1999). Innanzitutto, come aiutare lo studente a selezionare le informazioni rilevanti e significative, per esempio nella lettura di un testo o in una presentazione multimediale? Secondo lo psicologo californiano alcune tecniche possono essere: • evidenziare le informazioni più importanti attraverso l’uso di titoli, corsivo, grassetto, sottolineature, dimensioni del carattere, spazi bianchi, ripetizioni dei concetti importanti, icone, immagini, ecc.; • aggiungere delle domande e/o esplicitare gli obiettivi didattici in modo da richiamare l’attenzione sui contenuti rilevanti; • fornire delle sintesi riepilogative; • eliminare le informazioni irrilevanti e adottare uno stile conciso, in modo da ridurre il «rumore». In che modo poi è possibile facilitare il processo di organizzazione delle nuove informazioni e aiutare lo studente a mettere in relazione le rappresentazioni selezionate, così da costruire una rappresentazione mentale coerente? Il processo di costruzione di rappresentazioni mentali coerenti dipende dalla capacità dello studente di riconoscere la struttura concettuale del testo. Pertanto, in questo caso, è utile: • strutturare in modo chiaro e comprensibile il testo, ossia esplicitare le relazioni concettuali esistenti tra le sue parti (confronto/comparazione, relazione causa/effetto, classificazione, grado di generalità, ecc.); 130

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Multimedialità e comunicazione didattica

• fornire una «scaletta» dei passaggi critici; • segnalare i passaggi attraverso parole chiave; • offrire rappresentazioni grafiche attraverso cui mettere in relazione i nuovi concetti (schemi, mappe concettuali). Infine Mayer ci suggerisce come aiutare lo studente ad attivare e utilizzare le conoscenze pregresse, quelle cioè «depositate» nella memoria a lungo termine, e in che modo facilitarlo nel processo di integrazione delle nuove rappresentazioni attraverso le conoscenze preesistenti. In questo caso, si può far uso di: • anticipatori (advance organizer) contenenti ad esempio analogie; • illustrazioni multiframe, cioè per esempio presentazioni simultanee di una stessa spiegazione in formati diversi (animazione e narrazione); • esempi; • domande.1 Accanto al lavoro di Mayer, che resta un punto di riferimento per gli studi nel settore, si possono segnalare altri contributi basati su presupposti in parte analoghi o comunque ispirati a modelli cognitivisti. Ally (in Anderson e Elloumi, 2004), per esempio, riferendosi direttamente alla presentazione di informazioni su video, suggerisce una serie di strategie per: a) promuovere l’attenzione: • le informazioni importanti devono essere poste al centro dello schermo; • le informazioni cruciali per l’apprendimento dovrebbero essere in qualche modo evidenziate, per esempio attraverso i titoli o le intestazioni; 1

Le ricerche condotte negli anni Settanta hanno confermato che inserire delle domande all’interno del testo espositivo (prima, durante e dopo) migliora l’apprendimento: «le domande aggiunte prima del materiale cui si riferiscono attivano processi di attenzione selettiva rivolta all’informazione necessaria per rispondere alle domande, mentre le domande aggiunte dopo il materiale producono processi generali e specifici di rassegna e revisione dell’informazione letta» (Rickards, in Boscolo, 1999).

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E-learning: modelli e strategie didattiche

• agli studenti dovrebbero essere comunicati gli obiettivi della lezione; • il livello di difficoltà del materiale dovrebbe essere proporzionato alle capacità cognitive dello studente. b) per favorire la costruzione di legami e relazioni nella memoria tra nuove informazioni e informazioni già acquisite: • utilizzare gli anticipatori per attivare le strutture cognitive preesistenti o dare informazioni sui dettagli della lezione; • fornire modelli concettuali che lo studente possa utilizzare per richiamare alla memoria modelli mentali preesistenti o per acquisire la struttura necessaria per apprendere i nuovi concetti presenti nella lezione; • utilizzare domande che sollevino aspettative e attivino le strutture cognitive preesistenti. Anche l’organizzazione dell’informazione svolge un ruolo centrale nel favorire il processo di organizzazione delle nuove informazioni.2 Si tratta di un problema complesso che rinvia alla più ampia questione del rapporto tra organizzazione della conoscenza e apprendimento significativo: «L’apprendimento significativo — spiega Novak con riferimento al lavoro teorico di Ausubel (1968), nda — si verifica quando chi apprende decide di mettere in relazione delle nuove informazioni con le conoscenze che già possiede. [...] L’apprendimento meccanico avviene invece quando chi apprende memorizza le nuove informazioni senza collegarle alle conoscenze precedenti, o quando il materiale da studiare non ha alcuna relazione con tali conoscenze» (Novak, 1998, p. 31). Nell’ottica di facilitare forme di apprendimento significativo, 2

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Come sottolinea Trinchero, «chiunque aspiri a comunicare agli altri una qualsiasi conoscenza deve prevederne una strutturazione. È il vecchio problema dell’instructional design, della progettazione didattica, che nella formazione online si trova ad affrontare nuovi problemi e accede a nuove possibilità. Come strutturare le informazioni su di un corso di formazione assistita dalla Rete? La forma testo classico (si pensi ai corsi online che prevedono come materiali didattici dei testi Pdf da scaricare), unidimensionale, o la multidimensionalità dell’ipertesto sono forme ottimali per veicolare la conoscenza in un corso online?» (Trinchero, 2004).

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Multimedialità e comunicazione didattica

che implicano i processi di decostruzione e ristrutturazione dei modelli mentali del soggetto che apprende, la ricerca si è a lungo soffermata sul problema della rappresentazione della conoscenza e delle sue implicazioni sull’educazione, esplorando le potenzialità dell’uso delle mappe concettuali sia dal punto di vista del docente sia da quello del discente (Novak, 1991; Beissner, Jonassen e Yacci, 1993; Wandersee, Mintzes e Novak, 1994; Novak, 2001). Mentre sono stati raggiunti risultati ormai consolidati sull’uso delle mappe concettuali nella formazione in presenza, resta ancora da approfondire in che modo questi strumenti cognitivi possano guidare il progettista nell’organizzazione dei materiali didattici online (Trinchero, 2004). Come rileva Ally (in Anderson e Elloumi, 2004), partendo dal presupposto che per evitare il sovraccarico cognitivo è necessario frammentare le informazioni, il suggerimento oggi più frequente è quello di suddividere le informazioni in blocchi autoconsistenti evidenziandone le relazioni. Una lezione online dovrebItem 1 be così articolarsi in pochi punti (item) compresi tra Item 2 cinque e nove; se invece si sofferma su molteplici Item 3 aspetti sarebbe opportuno Item 4 organizzare i vari punti in una mappa, per mostrare in Figura 4. 2 Mappa lineare delle informazioni. che modo sono organizzati. Una mappa delle informazioni fornisce un’overview della lezione e può essere lineare, gerarchica o radiale (si vedano le figure 4.2, 4.3 e 4.4) (Ally, in Anderson e Elloumi, 2004). Nel corso della lezione vengono presentate le varie informazioni e al termine la mappa delle informazioni viene ripresentata, mostrando contestualmente anche le relazioni esistenti tra i vari punti (item). © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Item 1

Item 2

Argomento principale

Item 6

Item 3

Item 5

Item 4

Figura 4. 3 Mappa radiale delle informazioni.

Argomento principale

Item 1

Item 2

Item 3

sub-item 1

sub-item 2

sub-item 3

Item 4

Figura 4. 4 Mappa gerarchica delle informazioni.

La leggibilità del testo Un testo su monitor deve essere predisposto per un tipo di lettura diversa da quella di un testo cartaceo: si tratta infatti di una lettura veloce, basata su sguardi rapidi e acquisizione dei nodi essenziali, senza che lo schermo offra la possibilità di riesame analitico dei passi precedenti, come invece consente il libro. Di qui la maggiore necessità di «segnalibri» concettuali, fraseologia concisa, titolature, ecc. Jakob Nielsen (2000) nel 1987 condusse una serie di esperimenti sul tema della leggibilità del testo a video. Nielsen sottopose agli utenti cinque diverse versioni dello stesso sito (stessa struttura, stessa grafica), modificando solo lo stile: si trattava di un sito turistico di cui produsse una versione promotional (stile enfatico e ridondan134

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te), una concise (stile simile al primo, ma meno ridondante), una objective (stile meno enfatico e più preciso), una scannable (cioè leggibile a colpo d’occhio per le sue caratteristiche tipografiche: elenchi puntati, spazi bianchi, titolazioni, ecc.) e un’ultima infine che era al tempo stesso concise, objective e scannable. Ne risultò che quest’ultima versione era ampiamente più leggibile delle altre. Seguendo Nielsen possiamo concludere che un testo a video risulta più facilmente leggibile quando i testi sono concisi, il lessico è chiaro, si fa uso di costruzioni paratattiche, evitando frasi dalla sintassi troppo complessa e si riducono le informazioni ridondanti, disponendo in posizione primaria le informazioni più importanti. Queste conclusioni convergono con le indicazioni di Mayer, che oltre a considerare la leggibilità e comprensibilità dei testi, valuta anche, come abbiamo visto, il grado in cui certe caratteristiche tipografiche e di stile facilitano l’apprendimento. In sintesi, proviamo a riassumere ora in uno schema le caratteristiche essenziali di un testo elettronico facilmente leggibile, comprensibile e che supporti le attività cognitive del soggetto che ne fruisce. Caratteristiche

Commento

Massimo 800 caratteri per schermata

• Per facilitare la lettura

Ogni schermata dovrebbe esprimere una unità di senso compiuto e contenere non più di uno o due concetti

• Per facilitare la comprensione

Presenza di titoli e sottotitoli

• Per mantenere l’articolazione del discorso • Per sottolineare i concetti importanti

Sintesi e prevalenza di paratassi

• Per non disperdere l’attenzione • Per facilitare la lettura • Per ridurre le informazioni irrilevanti

Lessico chiaro

• Per facilitare la comprensione

Uso di grassetto

• Per evidenziare concetti chiave • Per segnalare passaggi importanti

Uso di spazi bianchi

• Per incorniciare ed evidenziare concetti

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Si potrebbe obiettare che rispettando almeno alcune di queste indicazioni (per esempio, sintesi e prevalenza di paratassi), potrebbe conseguirne un impoverimento della natura argomentativa di un testo e una eccessiva contrazione dell’espressività della lingua stessa. Il problema è che la lettura su schermo, come abbiamo già sottolineato, presenta caratteristiche specifiche e richiede quindi che i testi vengano adeguatamente predisposti. Nulla vieta di offrire all’utente versioni alternative da stampare che presentino testi più lunghi e articolati. Vi sono però anche altri modi per arricchire una presentazione online di contenuti, suscitando riflessioni più ampie e profonde: uno di questi consiste nell’integrare opportunamente l’esposizione testuale con immagini adeguate e pertinenti.

Il testo e le immagini: quali sinergie? Il rapporto tra linguaggio verbale e linguaggio iconico è stato a lungo oggetto d’indagine delle scienze cognitive, nelle quali sono prevalsi storicamente due principali orientamenti (Manca, 2001): quello proposizionalista, secondo cui le rappresentazioni mentali (verbali o visive) sono di contenuto logico-proposizionale, e quello pittorialista, che invece reclama l’autonomia simbolica del linguaggio inconico, sulla base della teoria del «doppio codice», cui abbiamo fatto riferimento precedentemente. Entrambi gli orientamenti condividono comunque la Teoria rappresentazionale della mente, secondo cui le rappresentazioni mentali sono il risultato della relazione causale che governa i processi percettivi tra mente e mondo esterno. Il concetto di rappresentazione ha ovviamente un ruolo decisivo nella determinazione dei possibili rapporti tra parole e immagini: come sottolinea Manca (2001), la possibilità di costruire un rapporto di cooperazione tra linguaggio iconico e linguaggio verbale, superando la contrapposizione tra proposizio136

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Multimedialità e comunicazione didattica

nalisti e pittorialisti, risiede proprio in una diversa interpretazione del concetto stesso di rappresentazione. Sul piano teoretico la questione è dunque assai complessa. Più semplicemente si cercherà di seguito di esplorare alcune possibili sinergie tra testo e immagine, con la consapevolezza da un lato che l’argomento merita di essere ulteriormente indagato, e dall’altro con il riferimento a spunti e suggestioni provenienti da ambiti diversi. Partiamo da alcune considerazioni. Le immagini possono restituire una visuale diversa rispetto al testo. Utilizzare non solo testo, ma anche immagini, grafici o animazioni consente di offrire rappresentazioni molteplici di uno stesso fenomeno, evento, concetto, processo. Per alcuni studenti può essere più significativa un’immagine che un testo esplicativo: si pensi ai diversi stili di apprendimento, alle intelligenze multiple di cui parla Gardner (1983). Le immagini hanno un potere fortissimo e vanno di conseguenza selezionate con cura e attenzione. Una scelta casuale o inconsapevole ne svilirebbe le potenzialità e potrebbe addirittura determinare effetti controproducenti, rendendole fuorvianti. Non sarebbe meno dannosa un’immagine utilizzata esclusivamente in funzione decorativa, che potrebbe addirittura distrarre o distogliere l’attenzione. Con questo non si vuole escludere totalmente la presenza, all’interno di una schermata, di elementi puramente decorativi, che concorrono ad accrescere la gradevolezza di ciò che si guarda, inducendo il lettore a soffermarsi più a lungo sulla schermata stessa. Tuttavia l’interesse in questa sede è di riflettere sulle possibili relazioni tra testo e immagine, per arrivare a circoscrivere i principali utilizzi delle immagini all’interno di una presentazione elettronica di contenuti d’apprendimento. È evidente che qualsiasi tentativo di elaborare una tassonomia circa l’uso delle immagini nella comunicazione didattica sarebbe fallimentare in partenza: una stessa immagine può avere tanti significati almeno quanti sono i contesti d’uso. E ancora: una stessa immagine può essere letta, interpretata e vissuta in tanti modi diversi a seconda di chi la guarda. Anzi, possiamo dire che © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

è proprio in questo che risiede la forza delle immagini: nonostante in ogni immagine sia presente il punto di vista di chi l’ha prodotta, le immagini restano universi aperti in virtù della loro polisemicità. Ci limiteremo allora a indicare alcuni possibili usi dell’immagine in relazione al testo, dando anche alcuni suggerimenti su come integrarli. Uno spunto per le nostre riflessioni ci viene dalle analisi di Roland Barthes, anche se scaturiscono dal contesto del linguaggio pubblicitario. Lo studioso francese si chiede: «Quali sono le funzioni del messaggio linguistico in rapporto al messaggio iconico (doppio)? Sembra che ve ne siano due: ancoraggio (ancrage) e ricambio (relais)» (Barthes, 1985, p. 30). Nel primo caso, i due diversi codici esprimono un medesimo messaggio rafforzandosi reciprocamente: l’immagine illustra il testo e il testo a sua volta pilota la «lettura» dell’immagine. È il caso delle didascalie che riducono lo spazio polisemico dell’immagine, indirizzando il fruitore verso certi elementi, selezionando cioè i segnali da cogliere; lo stesso vale per le illustrazioni riferite alle informazioni contenute in un testo allo scopo di ottimizzarne la memorizzazione. Nel secondo caso invece tra testo e immagine esiste un rapporto di interdipendenza, tale per cui il significato è costituito dal risultato della combinazione di entrambi i codici: è un rapporto di complementarità i cui effetti non restano inalterati al variare del testo o dell’immagine. È la funzione più rara, osserva Barthes, e la si ritrova soprattutto nei disegni umoristici e nei fumetti. Soffermiamoci sulla relazione più comune e approfondiamo l’analisi cercando di individuare gli usi significativi dell’immagine per l’apprendimento. Come abbiamo detto, un tipico esempio di questa funzione è costituito dalle illustrazioni che sono state utilizzate a scopo educativo sin dal XVI secolo (Farné, 2002). Tuttavia, almeno in contesto italiano, bisogna arrivare agli anni Sessanta-Settanta per vedere finalmente riabilitato l’uso 138

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Multimedialità e comunicazione didattica

dell’immagine e dell’illustrazione nel contesto didattico.3 Bruno Munari, in un breve intervento del 1971 su come illustrare i libri per l’infanzia, distinse tra due funzioni dell’illustrazione: «una di semplice commento al testo scritto, una di completamento al testo stesso» esemplificandole in questi termini: «Per esempio se il testo dice: “Giuseppe, seduto sulla panchina, guardava il lago”; nel caso dell’illustrazione di commento io vedrò un Giuseppe qualunque seduto su una panchina qualunque. Nel secondo caso io vedrò un tipo di Giuseppe vestito in modo insolito, seduto su una panchina fatta di… che guarda il lago e vede… mentre sulla panchina vicino alla sua spalla si è posato un… sceso da un ramo vicino e sotto la panchina dorme un…, e via dicendo secondo lo spirito del racconto» (brano citato in Farné, 2002, p. 167). Il pregio del secondo tipo di immagini — sicuramente consigliabili — risiede proprio nel fatto che giocano un ruolo che va oltre la semplice funzione esornativa, arricchendo la lettura di suggestioni e nuove informazioni. Un tentativo di classificazione delle illustrazioni è stato avanzato da Levin, secondo cui: «Le immagini interagiscono con il testo per produrre livelli di comprensione e memorizzazione che non possono essere replicati in forma puramente testuale » (Levin, 1989). Levin attribuisce alle illustrazioni le seguenti funzioni: • decorativa: può trattarsi di riproduzioni di oggetti o di eventi che si riferiscono alle informazioni contenute nel testo; in questo caso le immagini non hanno particolari ricadute sull’apprendimento;

3

Nonostante la situazione dagli anni Sessanta-Settanta si sia notevolmente evoluta, ancora oggi Rossi fa rilevare che: «Pur essendo i bambini circondati nel loro quotidiano da informazioni che utilizzano i media più differenti, la scuola non prepara ancora adeguatamente alla analisi e alla comprensione di messaggi come quelli televisivi o cinematografici. La lettura che ne viene fatta risulta troppo spesso di superficie e ripete luoghi comuni per cui il media viene o demonizzato o enfatizzato. Più raramente lo studente è consapevole di come la combinazione dei media determina la percezione della realtà, emozioni e passioni. Se l’analisi testuale risulta adeguatamente curata nella maggioranza delle situazioni, l’analisi iconica sufficientemente, l’analisi dell’audio è raramente effettuata. Quasi mai poi viene analizzata l’interazione dei media, elemento questo centrale in quanto il significato del comunicato multimediale non è dato dalla sola sommatoria dei significati dei comunicati in esso presenti» (Rossi, 2004).

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E-learning: modelli e strategie didattiche

• rappresentativa: si tratta di immagini che guidano l’attenzione su un elemento del testo, orientando i processi di selezione dell’informazione; • organizzativa: sono immagini che aiutano il lettore a cogliere i legami tra le informazioni contenute nel testo, per esempio l’immagine di un sistema; • interpretativa o esplicitativa: nel caso di immagini che illustrano il funzionamento di processi o sistemi in termini di causalità, attivando processi di integrazione. Tenendo conto delle varie suggestioni, suggeriamo a questo punto alcuni usi possibili delle immagini in funzione educativa, fornendo in alcuni casi delle esemplificazioni. Le immagini possono essere usate: – per fornire informazioni aggiuntive (illustrazioni, foto o disegni), arricchendo il testo di ulteriori dettagli; – a scopo esplicativo o dimostrativo, soprattutto nei casi in cui la descrizione di un oggetto, di un sistema o di un processo risulta complessa e difficilmente comprensibile avvalendosi esclusivamente di testo. Per esempio, si può utilizzare un’immagine fissa (foto o disegno) per la rappresentazione di oggetti (figura 4.5) o sistemi (figura 4.6); il testo può presentarsi in forma narrativa o discorsiva accanto all’oggetto oppure ridursi a una breve didascalia, o ancora a una descrizione sintetica delle parti dell’oggetto.

scala colonnina di mercurio capsula di metallo

sistema di livelli catena

riferimento dello zero serbatoio vite di regolazione

cassa di metallo con leva che si muove con la pressione atmosferica

lancetta mobile scala graduata

Figura 4.5 Esemplificazione di un barometro con indicazione delle singole componenti dell’oggetto. 140

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Multimedialità e comunicazione didattica

Figura 4. 6 Schema elettronico usato per descrivere il calcolo della resistenza in uscita in funzione dei parametri di un amplificatore a transistor.

Oppure si può ricorrere a un’immagine dinamica (video, filmato o animazione) per la rappresentazione di processi; – per visualizzare dati (grafici, tabelle, diagrammi, istogrammi, figura 4.7); Distribuzione occupazionale dei corsisti dopo il Master 11% 22%

Azienda

7%

Pubblica amministrazione Università o Enti di Ricerca

4%

Agenzie di formazione professionale Associazioni 11% 15%

Scuole Non ha continuato a lavorare nel settore della formazione in rete

30%

Figura 4. 7 Esempio di istogramma.

– per facilitare la memorizzazione e il consolidamento dei concetti acquisiti (per esempio schemi di sintesi, figura 4.8). © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Figura 4. 8 Esempio di uno schema di sintesi.

Uno schema può precedere o seguire un testo, può essere collocato all’inizio come incipit introduttivo oppure alla fine per riepilogare o anche all’interno, per esemplificare il testo stesso; – per rinforzare/sottolineare i concetti rilevanti, supportandone così la comprensione (figura 4.9); Community of Learning

Discourse

SOCIAL PRESENCE

COGNITIVE PRESENCE

ROLE IDENTITY Climate

Content

TEACHING PRESENCE (Structure/Process)

Medium Communication

Figura 4.9 Esempio di schematizzazione per la messa a fuoco di concetti (immagine tratta da Garrison, Anderson e Archer, 2000, p. 88). 142

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Multimedialità e comunicazione didattica

– per evidenziare o illustrare relazioni concettuali in termini di opposizioni, di nessi causa-effetto, di somiglianze, ecc. (per esempio mappe concettuali, figura 4.10);

Figura 4. 10 Esempio di mappa concettuale (tratta da Novak, 1998, trad. it. 2001, p. 153).

– in funzione attivante, ossia come un anticipatore dei contenuti che prepara lo studente alla comprensione; si pensi per esempio a un’immagine astratta o simbolica che metaforicamente sintetizza i contenuti; – in funzione problematizzante, ossia come punto di partenza per esplorare concetti e visioni; il testo può accompagnare l’immagine, completandola, ma non in forma di didascalia quanto piuttosto di domanda, di interrogativo o di formulazione problematica a cui l’immagine offre uno spazio aperto di riflessione; – per evocare situazioni, creare scenari immersivi, aumentando il grado di coinvolgimento e di motivazione del lettore (figura 4.11); © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Figura 4.11 Immagine d’impatto.

– per esemplificare procedure attraverso una sequenza di immagini fisse oppure attraverso immagini dinamiche; nel caso venga usato un filmato potrebbe essere opportuno segmentarlo alternando le immagini a parti di testo che ne mettano in evidenza gli aspetti rilevanti. Concludendo possiamo riassumere con una schema di sintesi i principali usi individuati. Tabella 4.1 Possibili usi dell’immagine

144

Tipologia d’immagine

Focus

Funzione

Immagine illustrativa

Informazioni a completamento

Presentazione/informazione

Immagine informativa

Visualizzazione di dati

Presentazione/informazione

Immagine esplicativa/ dimostrativa

Oggetti o dati/sistemi/ processi/procedure

Presentazione/dimostrazione

Immagine focalizzante

Concetti nuovi

Rinforzo

Immagine consolidante

Relazioni tra concetti nuovi

Memorizzazione

Immagine attivante

Concetti pregressi

Attivazione preconoscenze

Immagine problematizzante

Nuovi concetti, principi, atteggiamenti

Esplorazione

Immagine evocativa o d’impatto

Emozioni, atteggiamenti

Coinvolgimento/ immedesimazione

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Capitolo 4

Conclusione

La natura intimamente complessa della progettazione formativa (in contesto tecnologico o meno) ha portato spesso gli addetti ai lavori a «dicotomizzare» le strade possibili: a) da un lato l’approccio creativo: ogni progetto è sempre unico e diverso, l’autore è una sorta di «artista» che opera essenzialmente in virtù del suo intuito o estro immaginativo; b) dall’altro l’approccio deterministico: ogni progetto è riducibile a una sequenza di passaggi obbligati; oltre a ciò si tende a ritenere che da un modello generale si possano desumere tutte le applicazioni possibili. Tra i due poli l’Instructional Design tratteggia una terza via, rifiutando sia l’approccio «individualizzante» (ogni caso è unico), sia quello «generalizzante» (le applicazioni possono derivare da leggi generali): tra casi e situazioni concrete esistono livelli diversi di somiglianza, si possono così costituire delle «famiglie-prototipo», che è compito della ricerca descrivere, classificare e controllare con cura. La comparazione di più esperienze condotte in vari contesti porta ragionevolmente a riconoscere che alcuni criteri hanno © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

E-learning: modelli e strategie didattiche

maggiore probabilità di risultare efficaci ed efficienti, rispetto ad altri: nei termini di una «ragionevolezza probabilistica» si colloca il senso di ogni ricerca didattica. Il progettista ha bisogno di repertori delle strumentazioni disponibili, con indicazioni di suggerimenti preferenziali. Di tali strumentazioni non potrà avvalersi in modo univoco, in quanto non esiste alcun nesso deterministico tra condizioni di apprendimento e tecniche d’istruzione: però la presentazione delle possibilità disponibili e un orientamento di convenienza, garantito dalla ricerca, sono già indicazioni preziose. Nell’ambito della cornice teorica fornita dall’Instructional Design, e avvalendomi dell’esperienza operativa condotta con studenti progettisti di e-learning, in questo lavoro ho cercato di valutare quali modelli e strategie didattiche fossero applicabili all’e-learning e quali linee guida essenziali potessero essere fornite al progettista. Ho trovato conveniente rappresentare l’attività progettuale dell’Instructional Designer suddividendola in due fasi, una di macroprogettazione didattica e l’altra di microprogettazione. Il risultato della prima fase consiste nella scelta della macrotipologia didattica più idonea rispetto ai vincoli di contesto. La macrotipologia didattica si definisce sulla base delle possibili combinazioni tra metodologie, integrazione di presenza e virtualità e grado di autogeneratività o meno del corso. Abbiamo suggerito tre modelli, ciascuno dei quali risulta particolarmente conveniente dati certi vincoli iniziali. La seconda fase invece conduce alla descrizione analitica dei contenuti didattici e del sistema di interazioni educative del corso. È in questa fase che si apre una dimensione propriamente didattica, le cui potenzialità innovative non dovrebbero essere sottovalutate. È stato presentato un repertorio di modelli e di strategie quali la discussione, lo studio di caso, la simulazione, il problem solving, la collaborazione, ecc., e sono state suggerite alcune ipotesi di com146

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Conclusione

binazioni delle stesse secondo un approccio che, qualora possibile, muove gradualmente verso la complessità. Mi sono soffermata anche sui formati della comunicazione didattica di cui si tende generalmente a sottovalutare l’impatto sui processi di apprendimento. Valutazioni di questo ordine non possono essere lasciate agli esperti di comunicazione tout court: se l’efficacia di una comunicazione è legata al contesto in cui essa si colloca, è chiaro che il nostro contesto impone un intervento consapevole da parte di un professionista della progettazione educativa. Alcuni aspetti meriterebbero di essere ulteriormente approfonditi. L’e-learning, come abbiamo sottolineato in più occasioni, è un settore in continua evoluzione e ci induce a una costante riflessione e revisione dei modelli di cui ci avvaliamo per orientarci. Il vasto e articolato campo del networked learning ci appare in questo senso uno degli orizzonti più stimolanti cui dedicarsi nel prossimo futuro.

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Appendice

Appendice

Presentiamo in questa appendice alcuni esempi di feedback forniti agli studenti del Master «Progettista e gestore di formazione in rete» dell’Università di Firenze (edizione 2003-04), nell’ambito delle esercitazioni previste per l’insegnamento di Instructional Design. Ai corsisti viene chiesto di progettare un modulo online di Pedagogia interculturale secondo metodologie didattiche evolute, di elaborare un template esemplificativo e di ipotizzare due soluzioni: una per 25 mediatori interculturali seguiti da due tutor, e un’altra per 50 studenti universitari supportati da tre tutor. Volutamente i feedback evidenziano elementi di inadeguatezza nell’impianto concettuale assegnato all’interfaccia e sono stati scelti in funzione della frequenza con cui gli studenti incorrono in tali problematiche. Il feedback invita i corsisti ad andare oltre la soluzione fornita, ricercando soluzioni di qualità didattica e comunicativa superiore. Nell’elaborazione del feedback il tutor considera i seguenti aspetti: 1. qualità e originalità delle soluzioni sul piano metodologico-didattico, ossia: a) corrispondenze opportune con i principi di Merrill b) selezione di strategie didattiche pertinenti c) indicazione di sistemi di valutazione adeguati d) chiarezza e sistematicità del modello. 2. efficacia della comunicazione didattica e della navigazione (in contesto prevalentemente erogativo), ossia:

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a) b) c) d) e)

adeguatezza del linguaggio (chiarezza, dimensione) significatività didattica delle scelte iconografiche rispetto al testo riduzione dell’overload (sovraccarico) cognitivo strumenti di navigazione adeguati eventuali elementi interattivi o multimediali o tecniche di attivazione-attenzione-sorpresa.

Negli esempi che analizzeremo di seguito, ci soffermeremo prima sull’efficacia didattica della comunicazione (esempi 1, 2, 3, 4 e 5) e successivamente sulle scelte metodologiche (esempi 6 e 7).

Esempio 1 Cominciamo mostrando un esempio di errore molto banale e tuttavia frequente (figura 1). Riguarda nella fattispecie il dosaggio del testo e il linguaggio utilizzato.

Testo troppo denso

Figura 1 Schermata esemplificativa di uso inadeguato del testo a video.

Giudizio del tutor: «Il testo è troppo denso; trattandosi oltretutto di una legge sull’immigrazione riferita come da Decreto legislativo il linguaggio non è di immediata comprensione e la sintassi è piuttosto articolata. La lettura di testo a video è faticosa: testi lunghi e densi vanno evitati. In questi casi è preferibile presentare una sintesi dei punti salienti e consentire all’utente di scaricare e stampare i materiali». 150

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Appendice

Esempio 2 Ci avviciniamo ora al problema dell’uso delle immagini: dove collocarle? Con quale funzione? Procediamo per gradi con un primo esempio di correzione. Nel caso che stiamo considerando, si accedeva all’immagine (figura 2b) attraverso un link posto in fondo alla pagina (figura 2a).

Il corso Moduli Percorso iconografico Attività preparatorie Test Forum Risorse FaQ

Figura 2a Schermata con link disattivo.

Il corso Moduli Percorso iconografico Attività preparatorie Test Forum Risorse FaQ

Figura 2b Schermata con link attivato.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Giudizio del tutor: «L’uso di pop up per visualizzare un’immagine utilizzata in funzione puramente decorativa prolunga in questo caso inutilmente i tempi di fruizione. Trattandosi di immagine d’impatto ed essendo l’argomento di questa unità relativo al tema dello schiavismo, avrebbe potuto essere eventualmente utilizzata in funzione attivante accompagnando l’immagine con domande stimolo; l’uso del pop up non è di per sé scorretto, ma è opportuno che l’immagine in questo caso arricchisca di ulteriori informazioni il testo a un livello più specifico».

Esempio 3 Analizziamo ora le relazioni tra testo e immagine e tra immagini stesse. Nella schermata seguente (figura 3), vengono utilizzate due immagini con funzione illustrativa.

Figura 3 Schermata esemplificativa di uso inadeguato di immagini.

Giudizio del tutor: «Queste immagini sono troppo generiche, non aggiungono nulla al testo. Sono quindi scarsamente significative. Tra le immagini scelte inoltre non esiste alcun tipo di correlazione. Si suggerisce di togliere un’immagine; nel caso si decida di utilizzarne due, si ponga attenzione ai rapporti di significato sussistenti tra le immagini stesse». 152

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Appendice

Esempio 4 Soffermiamoci ancora sulle scelte iconografiche, sulla loro pertinenza semantica rispetto al testo e sulla loro significatività didattica. Il target di riferimento è costituito da adulti nell’ambito di un corso di formazione per mediatori interculturali. Come appare nella figura 4, il testo spiega che cosa si intende con «assimilazionismo», un modello che interpreta l’integrazione degli immigrati come assoggettazione alla cultura del paese d’approdo a partire, tra le altre cose, dall’educazione dei figli. L’immagine avrebbe lo scopo di illustrare questo concetto.

Scarsa significatività dell’immagine

Figura 4 Esempio di schermata con uso esclusivamente esornativo dell’immagine.

Giudizio del tutor: «Il grado di genericità dell’immagine scelta non arricchisce la presentazione trasformando l’immagine in mera appendice del testo. In alternativa, ad esempio, il concetto avrebbe potuto essere introdotto attraverso una vignetta o una breve simulazione, ecc.».

Esempio 5 In questo esempio viene proposto un video (figura 5). Si tratta di un laboratorio in cui si insegna a costruire uno strumento musicale: da una parte il testo descrive le modalità di produzione dell’oggetto, dall’altra il video mostra come il processo si svolge.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Figura 5 Esempio di uso inadeguato del video.

Giudizio del tutor: «Utilizzo poco adeguato delle possibilità della multimedialità, il video appesantisce la fruizione e la navigazione senza facilitare la comprensione concettuale del processo. In questi casi, è preferibile segmentare il processo e presentare delle immagini statiche, corredate di didascalia e affiancate da testo descrittivo, focalizzando l’attenzione su ogni singolo step ed evidenziando eventualmente aree dell’immagine stessa attraverso frecce, cerchi, riquadri, ecc.».

Esempio 6 Passiamo a considerare le scelte metodologiche. In questo esercizio è stata progettata ed esemplificata un’unità didattica sul dominio colonialista a Capo verde rivolta a 50 studenti universitari supportati da 3 tutor. Scorrendo il menù a sinistra si rileva subito la scelta di un approccio tipicamente erogativo: vengono inizialmente presentati i contenuti in forma espositiva (figura 6) e al termine della presentazione è previsto un test (figura 7). 154

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Appendice

Approccio erogativo

Presentazione/ esposizione dei contenuti

Figura 6 Esempio di schermata di tipo presentazione/erogazione.

Test di fine modulo

Figura 7 Esempio di schermata con test a scelta multipla.

Giudizio del tutor: «Soluzione di scarsa significatività didattica (secondo i parametri di Merrill «zero stelle!»). Sono assenti sollecitazioni problematizzanti come © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

pure stimoli volti a suscitare l’attenzione. Si suggerisce di cercare una soluzione più coinvolgente, ricorrendo ad esempio a tecniche di attivazione-sorpresa attraverso l’uso di audio (figura 8) oppure di immagini, accompagnati da domande stimolo o attivanti (figura 9) che invitano lo studente a “mobilitare” le sue preconoscenze. Trattandosi di un contenuto aperto, a metà tra la storia e l’antropologia, suscettibile di molteplici interpretazioni, si può anche proporre allo studente di formulare ipotesi di lettura oppure, come esemplificato nelle figure 10a e 10b, di preparare degli strumenti (per esempio un’intervista) per effettuare una verifica sul campo». Approccio a scoperta guidata

Introduzione audio con ascolto di brano musicale

Figura 8 Esempio di schermata introduttiva con elementi di multimedialità.

Esempio di applicazione del principio di attivazione

Figura 9 Esempio di uso di tecniche di attivazione. 156

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Appendice

Esempio di messa in situazione

Figura 10a Esempio di introduzione all’attività.

Definizione del compitoproblema

Figura 10b Esempio di consegna di lavoro.

Esempio 7 Ci soffermiamo ancora sugli aspetti metodologici. L’unità didattica progettata riguarda la formazione di mediatori interculturali. Nella definizione del target il corsista ha scelto di rivolgersi a docenti incaricati di aggiornarsi sull’educazione interculturale. L’approccio scelto è di tipo problemico-progettuale: si chiede infatti al destinatario di redigere un Progetto dal titolo «Globalizzazione» (figura 11). © Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A. – Copia concessa all’autore. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata.

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E-learning: modelli e strategie didattiche

Genericità del problema

Figura 11 Schermata esemplificativa di un problema formulato in modo troppo aperto.

Giudizio del tutor: «Buona la scelta di orientarsi verso un approccio problemico data la tipologia di contenuto. Tuttavia il problema posto alla discussione è formulato in termini troppo generici. Si consiglia di formulare il problema in termini più concreti, contestualizzandolo maggiormente, suggerendo delle piste di lavoro e indicando delle risorse a cui potersi riferire».

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E-learning: modelli e strategie didattiche

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Sitografia

Esemplificazioni online delle diverse strategie didattiche A) Tutoriali con esercizi interattivi, quiz e drill and practice • The Grammar Gym http://www.english.vt.edu/~IDLE/Gym2/ • Interactive English Language Exercises http://www.english-forum.com/00/interactive/ • Economics Interactive Tutorials http://hadm.sph.sc.edu/Courses/Econ/Tutorials.html • Amusement Park Physics http://www.learner.org/exhibits/parkphysics/coaster.html Tutoriali per l’addestramento all’uso di software • E-learning Center – Free Courses http://www.e-learningcenter.com/freecourses.htm • Interactive Java Tutorial http://micro.magnet.fsu.edu/primer/lightandcolor/java.html • SumTotal http://www.sumtotalsystems.com/toolbook/showcase/index.html Skill training • elearning.it http://www.elearning.it/mobile/case_study_volta/case_volta.htm • Formazione a distanza/e-learning http://www.formazioneadistanza.com/now.htm • SkillTraining.it http://www.skilltraining.it/ B) Discussione • Comparative Education http://www.mrs.umn.edu/courses/ed1051/viewsch/viewschools.html

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E-learning: modelli e strategie didattiche

• Computer-Based Chats and Discussions in Education http://online.usu.edu/openhouse/greatest/greatesthits.html C) Studio del caso • Sul sito del National Center for Case Study Teaching in Science della State University of New York at Buffalo sono pubblicati vari studi di caso organizzati per ambito disciplinare. Il sito mette a disposizione anche delle linee guida sull’uso dei casi proposti. In Internet: http://ublib.buffalo.edu/libraries/projects/cases/ubcase.htm • Case Studies – Explorations in Instructional Technology & Design http://curry.edschool.virginia.edu/go/ITcases/home.html Il sito raccoglie quattro studi di caso nell’ambito dell’Instructional Design. • Prescribing on-line resource – London Metropolitan University http://www.prescribing.info/casestudies.htm • Coaching – Studio di caso sviluppato dalla Harvard Business School http://elearning.hbsp.org/demos/coaching/coa_index.html • Arctic Circe – Virtual Classroom http://arcticcircle.uconn.edu/VirtualClassroom/ • Case Studies in Small Animal Cardiovascular Medicine http://www.vmth.ucdavis.edu/cardio/cases/ • Cases for Undergraduate Educational Psychology Classes http://www.indiana.edu/~caseweb/ • The «Virtual» Veterinary Center http://niah.naro.affrc.go.jp/link/mirror/vetmed/Vet-mirror.html#Path-CASE • ChemCases http://science.kennesaw.edu/~mhermes/gatorade.htm • CaseNet http://csf.colorado.edu/CaseNet/ • Patient Simulation/Virtual Patient http://www.vh.org/welcome/tour/patientsimulations.html • Investigative Case-Based Learning http://www.bioquest.org/case99.html D) Simulazione • Simulware http://www.simulware.it • Learning Simulations http://www.learnativity.com/simulations.html • Engines for education http://www.engines4ed.org/hyperbook/nodes/educator-outline.html#NODE-337 • Survey of simulation http://www.thesimguy.com/Projects/websim/survey/survey.html • Simulation and Modeling, Department of Computer Science, Virginia Tech, Blacksburg, Virginia http://manta.cs.vt.edu/cs4214/

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Sitografia

• Simulations for Skill Training http://home1.gte.net/simres/index.htm • Business-Simulation http://www.searchamateur.com/Business-Simulation/Business-Simulation-Games. htm E) Role playing • Mekong e-Sim, Adelaide University http://services.eng.uts.edu.au/~robertm/mekong/default.htm • Fablusi demo http://www3.fablusi.com/demos/ • Misterio en Toluca di Terri J. Nelson e Walter C. Oliver, California State University, San Bernardino http://flan.csusb.edu/dept//VU_info/Overview/25title.htm • SimPlay http://www.simplay.net/ • Simulation Portal, Department of Political Science, University of Melbourne http://ausis.com.au/polsim/afr1/ F) Problem-based learning • «Buffalo Commons Problem» http://www2.imsa.edu/programs/pbl/whatis/Bisonproj/pblacknowl.html • PBL di fisica http://www.physics.udel.edu/wwwusers/watson/phys345/lab/flashlight.html • PBL di biologia http://www.udel.edu/pbl/curric/biology-prob.html • PBL medico http://www.uclan.ac.uk/facs/health/nursing/sonic/scenarios/scenario1.htm http://www.uclan.ac.uk/facs/health/nursing/sonic/scenarios/scenario2.htm http://www.uclan.ac.uk/facs/health/nursing/sonic/scenarios/scenario3.htm http://www.uclan.ac.uk/facs/health/nursing/sonic/scenarios/scenario4.htm http://www.uclan.ac.uk/facs/health/nursing/sonic/scenarios/scenario5.htm • The Ancient World Explorer http://score.rims.k12.ca.us/activity/ancientworld/index.html#task G) Project-based learning • Multimedia History Tutorials http://www.acs.ucalgary.ca/HIST/tutor/ • Virtual CEO http://www.iavalley.cc.ia.us/~excel/VIRTUAL2.HTM • Origins of Western Religion http://www-relg-studies.scu.edu/rs011/ • Anthropology and Sociology http://www.qvctc.commnet.edu/brian/archivm.html • World History Chronologies http://campus.northpark.edu/history/WebChron/

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2010 da Legoprint – Lavis (TN) per conto delle Edizioni Centro Studi Erickson srl Trento

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