Modelli nella storia del pensiero politico Vol. 2 La Rivoluzione francese e i modelli politici 8822236963


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Modelli nella storia del pensiero politico Vol. 2 La Rivoluzione francese e i modelli politici
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IL PENSIERO POLITICO Biblioteca

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MODELLI NELLA STORIA DEL PENSIERO POLITICO II LA RIVOLUZIONE FRANCESE E l MODELLI POLITICI Saggi a cura di

V. I.

COMPARATO

LEO S. OLSCHKI - 1989

« IL PENSIERO POLITICO » BIBLIOTECA

1. SALVO MASTELLONE, Francesco D'Andrea politico e giurista (1648-1698). L'ascesa del ceto civile. 1969, 208 pp. V1TTOR Ivo CoMPARATO, Cardin Le Bret: « Royauté » siero di un consigliere del Seicento. 1969, 212 pp.

2.

3.

SILVIA ROTA GHIBAUDI,

e

« ordre » nel pen-

Giuseppe Ferrari. L'evoluzione del suo pensiero (1838-

1860). 1969, 356 pp. SALVO MAsTELLONE, Venalità e machiavellismo in Francia (1572-1610). All'origine della mentalità politica borghese. 1972, 260 pp.

4.

5. Georges Sorel. Studi e ricerche. 1974, 214 pp. ANNA M. LAZZARINO DEL GROSSO, Società e potere nella Germania del XII secolo (Gerhoch cli Reichersberg). 1974, 368 pp.

6.

7.

CARLO CARINI,

Benedetto Croce e il partito politico. 1975, 244 pp.

ENRICO DE MAs, L'attesa del secolo aureo (1603-1625). Saggio di storia delle idee del secolo XVII. 1982, 316 pp.

8.

9. Bibliografia politica. Storia delle idee e scienza dei comportamenti. Voi. III (1976). 1983, 372. 10. Pensiero e azione politica di Lev Trockii. Atti del Convegno Internazionale per il quarantesimo anniversario della morte. 1982, 2 tomi cli 706 pp. complessive. 11. DIEGO QuAGLIONI, Politica e diritto nel Trecento italiano. Il « De Tyranno » di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357). 1983, 260 pp. con 3 tavv. f.t. 12.

ELUGGERO

Pu, Antonio Genovesi dalla politica economica alla « politica ci-

vile». 1984, 300 pp. 13. CARLO 246 pp.

CARINI,

Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica. 1984,

14. Modelli nella storia del pensiero politico (I). 1987, 228 pp. 15. Modelli nella storia del pensiero politico (Il). 1989, 424 pp.

IL PENSIERO POLITICO Biblioteca

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MODELLI NELLA STORIA DEL PENSIERO POLITICO II LA RIVOLUZIONE FRANCESE E I MODELLI POLITICI Saggi a cura di

V. I.

COMPARATO

LEO S. OLSCHKI - 1989

Volume stampato con il contributo dell'Università degli Studi di Perugia sui fondi della ricerca 40 o/o « I modelli politici in Europa nell'età moderna e contemporanea».

·: ·. ISBN 88 222 3696 3 .

PRESENTAZIONE

La ricerca sui modelli politici è approdata alla Rivoluzione francese, oltre che per naturale successione cronologica, anche per ciò che la precedente esperienza aveva fatto emergere: durante i periodi di crisi acuta dei sistemi politici e sociali i materiali disponibili in una cultura politica tendono ad aggregarsi in sistemi alternativi, ad assumere uno statuto funzionale e a farsi progetti operativi, modelli in senso proprio. Attraverso i modelli politici diventa allora possibile ricercare i nessi tra il livello degli avvenimenti, quello dei gruppi politici e quello delle idee, nella loro reciproca azione di stimolo e di orientamento. Ma come organizzare l'approccio ad un tema così vasto e impegnativo? In occasione del seminario tenutosi nei giorni 9-11 ottobre 1987, presso l'isola Polvese del lago Trasimeno, la scelta è caduta su di una tripartizione cronologica che avesse un senso anche dal punto di vista tematico: modelli per la rivoluzione, modelli nella rivoluzione, modelli dalla rivoluzione. Se, infatti, prendiamo in considerazione l'intero periodo che va dalla metà del '700 al 1848, il decennio rivoluzionario ci appare prima come «rivelazione» di processi in corso da lunga data, poi come frattura «creatrice» di innovazione, essa stessa percorsa da una parossistica contrapposizione di modelli, e infine come « presupposto » che influenza direttamente ogni successiva formulazione di ipotesi politiche in tutta l'Europa. L'intervento di Denis Richet, che apre il presente volume, suggerisce appunto di guardare a tutto lo spazio storico e geografico da cui proviene e su cui si radica la Rivoluzione francese. Una ricognizione dei materiali che dall'universo variegato della philosophie settecentesca portano alla Rivoluzione non era un compito che si potesse affrontare a cuor leggero. Si è inteso in questa sede offrire il contributo di alcuni sondaggi mirati su nodi intellettuali decisivi. Occorreva in primo luogo distinguere tra due procedimenti tra di

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loro antitetici per la formazione di modelli politici: l'uno che prenre le mosse da ciò che è, o al più da ciò che era, dalla storia, e l'altro da ciò che deve essere, dalla ragione regolatrice. I parlamentari francesi che si arrogavano un ruolo di rappresentanza e parlavano di costituzione della Francia, ritenevano di dover restaurare un passato che era andato corrompendosi (Alatri), mentre Rousseau con il Contrat socia! aveva offerto l'esempio di un modello come costruzione della ragione. L'assillo pedagogico dei giacobini « lettori » di Rousseau si comprende bene se pensiamo che una scelta deduttiva, per quante concessioni si facciano al realismo ed alla gradualità (Testoni Binetti), comporta sempre lo sforzo di adeguare la realtà ai principi prestabiliti, in quanto in loro è interamente riposto l'elemento assiologico. Questo carattere induce a classificare sotto un segno analogo non solo l'utopia, ma anche quelle forme di « dispotismo illuminato » che affidavano all'azione del sovrano un programma di razionalità ed eguaglianza sociale o il ricorso a modelli antichi (Rao) che, nella loro evidente alterità, suggerivano una radicale rottura con le istituzioni del presente. Ma la rivoluzione francese non è stata unicamente l'esperimento della repubblica ideale, non si è nutrita solo di rousseauismo, di utopia e di ideali neoclassici. Dai materiali qui raccolti si ricava l'impressione di uno sviluppo di modelli politici per fasi, marcate da una evidente discontinuità. Nella mentalità comune, testimoniata dai cahiers de doléances, v'era una diffusa attesa di rinnovamento, ma non di frattura istituzionale. I costituenti, invece, nella scelta tra i due modelli alternativi di costituzione, consuetudinaria o scritta, optarono per la seconda, cioè decisero che la Francia non aveva costituzione (Carbasse). È in questi frangenti che si determina un cambiamento di statuto delle immagini politiche disponibili (per i rivoluzionari francesi l'Inghilterra, gli Stati Uniti) in modelli politici (Buttà). Gli ordinamenti politici sono assunti a modello sia per il loro nucleo di valori che per la loro funzionalità istituzionale (la loro attitudine ad essere strumento per la realizzazione di quei valori). Può avvenire che l'uno e l'altro aspetto non coincidano. Brissot è un esempio di come un giudizio sulla minore efficacia pratica delle istituzioni inglesi nel realizzare il valore della libertà conduca all'adozione del modello americano (Mazzanti Pepe). Mirabeau rappresenta, invece, la fiducia nella funzionalità del meccanismo parlamentare inglese (il governo di gabinetto, invano auspicato anche per la Francia). È interessante notare che un modello politico, -6-

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quando si identifica con le tendenze di un « partito.», può diventare per le forze antagonistiche un antimodello: l'opposizione dei giacobini al modello inglese culmina nel '94 in una serie di sedute appositamente destinate a confutarlo come principale portatore di un valore negativo, la controrivoluzione (Di Rienzo). Il caso di Bentham è più complesso: egli provava simpatia per la Rivoluzione francese in quanto rendeva possibile la sperimentazione di un suo modello teorico (il panopticon), ma nutriva avversione per le ideologie di tipo giusnaturalistica, già manifestata a proposito delle dichiarazioni dei diritti americane (Campos Boralevi). Il razionalismo e il volontarismo istituzionale rappresentarono per i Francesi, come per gli Americani, la prima forma di discontinuità rispetto al passato. Sieyès e il ceto intellettuale di formazione illuministica erano muniti di esperienze organizzative precedenti, come le società di pensiero (Coco), ma certamente la meccanica istituzionale da lui proposta discendeva, come dimostra Catherine Larrère, da una rigorosa applicazione del « principio » rappresentativo, esplorato in consapevole collegamento con il modello della democrazia diretta. Malgrado ciò, tutta la prima fase della rivoluzione poté sembrare a molti (ma non ai tradizionalisti, che colsero subito il senso della discontinuità costituzionale), ed essere presentata da altri come la conclusione di un movimento ideale in atto da tempo, che aveva avuto in altri paesi le sue prime manifestazioni positive. Ma, terminata la fase costituente, era sopraggiunto qualcosa che si prestava molto meno ad essere inquadrato nel corso della storia come risultato di movimenti lenti e progressivi. Il saggio di Paolo Viola indica un secondo spartiacque, ben altrimenti radicale, nel 1792. La Rivoluzione francese fu in grado di fornire da subito alla coscienza contemporanea i quadri interpretativi dei propri avvenimenti: non a caso comparve allora il modello « catastrofico ». Non si trattò neppure di una sostituzione dell'utopia all'ingegneria istituzionale nella prassi politica. Quando l'utopia settecentesca irruppe nell'età rivoluzionaria subì una « cesura storica», come scrive Aldo Maffey, proprio nel nucleo che l'aveva caratterizzata: la fiducia nella ragione, nella raggiungibilità della perfezione. Quando una cesura si produce all'interno dell'immaginario sociale i materiali per una indagine sui modelli politici non possono essere più cercati tra i progetti già dati o elaborati, bensì al livello più profondo delle mentalità e della produzione simbolica. Se « l'immaginario di-

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venta il principio produttore e organizzatore della realtà» (Ciuffoletti), un paradigma simbolico come il complotto può essere efficace quanto il complotto reale d'un'opposizione controrivoluzionaria. La rottura tra giacobini e sanculotti - che condividono il progetto escatologico, la tabula rasa - si consuma proprio nella sfera del simbolico, sulle questioni della decristianizzazione, dei culti rivoluzionari e del teatro popolare (Bianchi). Il terreno della storia delle mentalità rimane oggi il più stimolante e, per quanto riguarda la Rivoluzione francese, quello che consente di avvicinare con maggiore possibilità di definizione i livelli sociali visti prima unicamente come « aggregati » (popolo, sanculotti, hébertisti ecc.). Si veda, ad esempio, il saggio di D. Roche uscito nel n. 1, 1989 di « Annales » sulla violenza rivoluzionaria vista dal basso. In questo settore, mi sembra, il corpus più imponente, cioè il linguaggio politico, richiede ancora un investimento di energie e uno sforzo di elaborazione considerevoli, che peraltro ha già trovato modo di mostrarsi assai fecondo nei fascicoli della rivista « Mots » e nei contributi apparsi nella sezione « Vocabolario politico » del « Pensiero politico». Un modello politico ci appare, così, come una combinazione assai complessa di elementi culturali, il cui nucleo attivo - il progetto politico che contiene i valori - può essere largamente condiviso, ma poi subire una serie di varianti spesso antitetiche intorno ai mezzi per realizzarlo. In un certo senso, come suggerisce Francesca Sofia per la nascita della statistica, si potrebbe dire che tutti i modelli istituzionali concreti della rivoluzione si sono distribuiti in un ventaglio di alternative circa il modo di dare forma concreta alla rousseauiana « volontà generale ». Sulla base di questa ipotesi l'aporia del modello giacobino discenderebbe dal volersi, ad un tempo, modello di democrazia rappresentativa e popolare-rivoluzionaria, cioè diretta. Quando la Rivoluzione francese rivolse verso l'esterno la sua grandissima potenzialità, essa era tornata al modello rappresentativo, ma non aveva perso la sua carica di esemplarità come rottura irreversibile. Tuttavia, mentre nel mondo francese la disponibilità all'innovazione, la mentalità positivamente tesa verso il nuovo si erano andate radicando fin dagli anni '60 in larghe fasce della popolazione, in Italia e in Europa erano rimaste limitate alle minoranze colte. Spiegare perché si dovesse adottare il modello costituzionale francese fu, in fondo, il compito più arduo dei giacobini italiani e la radice del loro accentuato « pe-

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dagogismo » (Pii). Ovunque i modelli istituzionali francesi dovettero confrontarsi con i programmi politici già elaborati nelle culture nazionali, con le mentalità diffuse nei diversi paesi, con la persistenza dei paradigmi tradizionali. In Sicilia, l'egemonia del ceto aristocratico risultò determinante nell'adozione di un modello attinto all'altra grande filosofia politica dei Lumi, quella montesquiviana, e alle spalle della Rivoluzione francese: il sistema costituzionale inglese (Sciacca). Fino al 1848, comunque, tutta la storia del pensiero politico-istituzionale europeo sembra coincidere con una prolungata e drammatica fase di confronto con i vari aspetti della Rivoluzione, nella continuità, nel superamento o nella decisa avversione. Anche laddove finì per prevalere il rifiuto, come nel mondo inglese, i modelli francesi furono il lievito dei progetti di riforma politica e il punto di riferimento della mentalità 'radicale', in J. S. Mill, ad esempio (Pichetto). Le indagini qui compiute dimostrano che, fino al secondo ciclo rivoluzionario europeo, il giacobinismo rimase il più efficace paradigma - positivo o negativo - nella teoria politico-istituzionale. Se dai grandi teorici si passa a studiare il lavorio di giornalisti, giuristi, uomini di studio, si scopre che la democrazia francese e tutta la democrazia europea sono legate alla faticosa e drammatica separazione degli elementi del modello giacobino adattabili alle singole situazioni da quelli - esaltati o detestati - appartenenti piuttosto al mito. Ciò accadde per i repubblicani francesi (Bracco), per le scuole socialiste (La Puma) e, in definitiva, anche per coloro che, usando la democrazia americana come paradigma, si proposero di mostrare, come Tocqueville, le regolarità di un meccanismo innestato in Europa dalla Rivoluzione (Cuomo). Questa raccolta non pretende di aver esaurito un tema di per sé sterminato. Non presume, d'altra parte, di poter fornire in questo stadio della ricerca un'interpretazione univoca della rivoluzione francese. Sarebbe stato assai importante un esame dei paradigmi generali del pensare politico, che con la loro evoluzione sei-settecentesca avevano reso possibile l'apertura di nuovi spazi teorici e reso obsolete antiche e consolidate procedure per la formazione di modelli politici (organicismo, patriarcalismo, teoria dello stato misto). Con gli arcana imperii tramontano i meccanismi imitativi fondati sulla consuetudine, sulla durata e sulle gerarchie cosmiche. La natura, divenuta tutt'uno con la ragione, si rivela inesauribile riserva per l'immaginazione politica, e la

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storia, che era stata sino all'età dei Lumi perenne monito a non sperare mutamenti della natura umana, suggerisce la pluralità dei modelli politici e si mostra aperta alle possibilità di immaginarne in futuro di migliori. Il rapporto tra l'evoluzione delle categorie che reggono la politica e il concreto manifestarsi dei modelli resta un obbiettivo storiografico di grande interesse; e così l'altro versante: il processo attraverso cui i modelli teorici penetrano nel sentire sociale, attraverso gli strumenti che la modernizzazione dei processi comunicativi consente di usare, consapevolmente o meno, per la formazione della mentalità politica di ceti sempre più ampi. L'opinione pubblica, questa sommatoria di posizioni sfuggenti e impersonali, non prende forse una forma compiuta attraverso i modelli politici che assume? I modelli politici, una volta formulati, sembrano staccarsi e avere vita propria, una propria durata, sulla quale in definitiva misuriamo e decifriamo il passato come civiltà politica. Desidero ringraziare tutti gli studiosi stranieri e italiani che hanno accettato di mettere a disposizione le loro preziose competenze in questa ricerca meno rassicurante - per via del suo porsi in una categoria trasversale - di quanto non siano i generi più consolidati di storiografia. Un sentimento di gratitudine particolare va agli amici Fabrizio Bracco ed Eluggero Pii, che hanno condiviso con me il progetto e gli oneri organizzativi del seminario. Ci auguriamo che quanto le nuove strade abbiano fatto perdere in linearità di percorsi, sia stato riacquistato nella novità dei paesaggi e degli incontri. V1TTOR

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Ivo

COMPARATO

MODELLI PER LA RIVOLUZIONE

DENIS RICHET

LES MODÈLES POLITIQUES EN EUROPE A L'ÉPOQUE DE LA RÉVOLUTION FRANçAISE: ESSAI D'UNE GEOGRAPHIE DE LA DIFFUSION DES IDÉES FRANçAISES

La Révolution française de 1789 n'est pas sortie comme Athena de la tete de Zeus. Elle plonge ses racines dans un terreau à la fois français, européen et mondial (pensons à l'indépendance des colonies anglaises d'Amérique du Nord). Et, à son tour, elle a infléchi en des directions diverses, le devenir de beaucoup de pays européens. C'est que la Révolution n'est pas une, mais multiple, chronologiquement et typologiquement. C'est aussi qu'elle rencontrait, dans l'Europe de la fin du XVIIP siècle, des situations politiques, sociales, religieuses, très différentes les unes des autres. Mais on ne peut la noyer 1 dans une révolution « atlantique », non plus qu'on ne peut noyer la révolution anglaise de 1640 dans les cinq autres mouvements européens de la meme décennie. 2 C'est dans la mesure où elle a été spécifique qu'elle revet une importance internationale. Les modèles qu'elle a proposés ou imposés, meme s'ils prenaient appui sur d'autres expériences nationales, ont été des modèles de portée générale. La seconde moitié du XVIIIe siècle avait connu un type de régime qu'on a arbitrairement confondu avec l'absolutisme louis-quatorzien. Le despotisme éclairé 3 a été une forme de remodélisation de la société qui a pris des aspects différents de part et d'autre de l'Elbe. Les grandes 1 2 3

J.

GonECHOT, Les Révolutions, Paris, PUF, 1983. R. B. MERRIMAN, Six Contemporaneours Revolutions {1938). L. GERSHOY, L'Europe des Princes :éc/airés, Paris, 1965.

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DENIS RICHET

plaines de l'Est n'avaient pas été pénétrées, sauf dans certains foyers urbains le long de la Baltique ou des fleuves allemands par les progrès du grand commerce capitaliste et la formation d'une bourgeoisie marchande ou proto-industrielle. lei tout est venu du Prince. Frédéric Il, Catherine II, Joseph II ont du, pour moderniser leurs Etats, s'adresser à la seule force sociale disponible pour constituer une bureaucratie efficace, la noblesse, meme la moins éclairée. En échange ils ont acero ses pouvoirs sur une paysannerie condamnée à ce qu 'on a appelé le « second servage ». Et c'est là où le despotisme « éclairé » a réussi dans son oeuvre modernisatrice. Non sans laisser les traces d'un conservatisme qui tient aux origines memes d'une modernisation imposée par en haut sans participation non des masses (c'était exclu chez les réformateurs) mais d'une bourgeoisie et d'une petite noblesse associées aux réformes. Dans l'Europe méridionale et occidentale il n'en avait pas été de meme. Non pas que, du XVIe au XVIIIe siècle, la bourgeoisie ait été, comme on l'a souvent dit, une « classe » uniformément montante. Partout, ou presque, elle melait ses aspirations à celles d'une noblesse dont la rente foncière s'est sensiblement accrue pendant le siècle des Lumières. Et les diverses sociétés de pensée permettaient le rapprochement des élites, et les compromis. Compromis difficile en Espagne où le modernisme des pays périphériques - Catalogne, Pays Basque - se heurtait à le résistence du noyau castillan. Plus facile en Italie septentrionale ou centrale, milanaise ou Toscane, des milieux ouverts aux réformes. Mais ce fut, à court terme, un échec. Dès 1776-77 une vague de réaction l'emporta. C'est au creux d'une vague qu'éclata la Révolution versaillaise, puis parisienne et provinciale. En France meme la disgrace de Turgot (1776) avait mis fin à une esquisse de volonté amorcée par Louis XVI dès son avènement ( 1774). En réalité le renvoi du ministre av,ait des racines plus profondes. Trois forces se dessinaient dans l'éventail des opinions et des conduites. Une force traditionnelle - encore qu'elle fut renouvelée par les théoriciens et les juristes attachés à l'absolutisme - une force acquise à une certaine forme de despotisme éclairé - Turgot avant Calonne avait représenté ce voeu de beaucoup de serviteurs de l 'Etat - une force, peu connue avant de devenir toute puissante en 1788, celle d'une opinion libérale, mi-bourgeoise mi-nobiliaire, qui réclamait d'etre consultée et associée aux décisions du pouvoir. On sait que l 'échec de Calonne après la réunion de l'Assemblée des Notables (1787) le renvoi de

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LES MODÈLES POLITIQUES EN EUROPE

Loménie de Brienne (1788) précipitèrent les choses en provoquant la réunion des Etats-Généraux. On ne retracera pas ici les péripéties successives de l 'histoire de la Révolution. Seule m'importe la façon dont les divers pays de l'Europe les ont connues, acceptées ou refusées. De juin 1789 à 1792, la monarchie « constitutionnelle » masquait mal un transfert de souveraineté du roi à la nation 4 qui drapait cette monarchie - dont le roi lui-meme ne voulait pas accepter la caricature - sous une idéologie nouvelle: en germe la République du 10 aout 1792 au 9 Thermidor an II un régime jacobin et terroriste, qui a laissé des traces multiples. Du 9 Thermidor au 18 Brumaire, puis à !'Empire, une expérience césarienne dont je ne crois pas qu'elle ait été une éclipse dans l'histoire de France. Trois modèles ont été ainsi « exportables ». Pourquoi et comment ont-ils été acceptés ou refusés? Le premier modèle n'avait aucun attrait à l'extérieur de la France, compromis hybride, qui n'était ni le libéralisme anglais ni le despotisme éclairé, il n'avait rien pour séduire les élites. Seules des minorités urbaines et paysannes, en Italie comme en Allemagne, ont été soulevées d'espoir par les événements français. « Nous voulons faire comme les Français » criaient les paysans envahissant une petite ville du royaume de Naples. Et le jacobinisme rhénan ou milanais fut précoce. Mais ce n'était pas là une solution politique: c'était une image, une très belle image, qui recouvrait des aspirations séculaires. Ce fut le contact avec les armées françaises qui provoqua désenchantements et fidélités. Contre Brissot, Robespierre avait dit: « Personne n'aime les missionnaires armés ». Dès 1792 et 1793 les révoltes éclatent ça et là contre les pillards français et les assignats. A Francfort en décembe 1792, davant l'arrivée des Prussiens les bourgeois se soulèvent et les massacres contre les soldats éclatent. En mars 1793 l'annexion de la Belgique suscite une réprobation unanime. Mais ce fut la campagne d'Italie de 1796 et les révoltes de 1798-1799 qui démontrèrent la fragilité de l'expansion française. Comme je l'ai écrit ailleurs,5 « peut-on aimer la Révolution sans aimer la France? » Buonarroti avait écrit à Bonaparte: « N'oubliez pas, Français, que l'ltalie fut autrefois votre tombeau et qu'elle pourrait le devenir encore si vous n'entrez pas 4 5

F. FuRET, Communication au Congrès d'Oxford, 1987. F. FuRET et D. RICHET, Paris, 1965.

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DENIS RICHET

en amis des peuples dont vous devez etre les libérateurs ». Mais la plupart des hommes politiques français méprisaient les habitants des pays « libérés ». L'historiographie française a longtemps partagé leur myopie et attribué les révoltes anti-françaises à l'action contre-révolutionnaire de pretres fanatisant une populace rebelle à la liberté. Des témoins pourtant, comme le capitaine Sulkowski, décrivait les éléments antifrançais en Romagne comme des républicains. Il y a plus. La Révolution se confondait avec l'idée nationale. En sacrifiant Venise à l' Autriche (Campo Formio, octobre 1797) Bonaparte, suivi par le Directoire, provoqua le désarroi chez les patriotes italiens, comme le montrent certaines des Ultime Lettere di Jacopo Ortis de Foscolo. L'Espagne et l'Allemagne devaient connaitre, sous !'Empire, cette contradiction. Coincés entre la Contre-révolution et l'impérialisme français, les patriotes étaient condamnés à un dilemme impossible à résoudre. Et pourtant ce fut précisément en Italie - en Italie centrale que Bonaparte trouva le secret d'une formule politique qu 'il appliquera en France après le 18 Brumaire. Contrairement à ce qu'il avait connu il trouvait en Emilie, à Ferrare et à Bologne une alliance de nobles libéraux et de bourgeois éclairés. Il en conçut l'idée - qu'il exprima dans une lettre à Carnot - que c'était l'image d'une république « aristo-démocratique » selon son coeur. Mais une république étroitement subordonnée au pouvoir exécutif. Des trois modèles que la Révolution et le bonapartisme ont présenté à l'Europe, deux ont, dans l'immédiat, échoué: la monarchie constitutionnelle de 1791, le jacobinisme terroriste de 1793. Non que les idées de 1789 n'aient eu une longue destinée en Europe. Mais, à court terme, c'est le césarisme, véhiculé par les armées françaises, qui l'a emporté. La France a payé cher cette évolution. L'Europe plus encore.

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PAOLO ALATRI

PARLAMENTI E PARLAMENTARI IN FRANCIA

Se qui si trattasse soltanto cli modelli rappresentativi, dei parlamenti francesi non si dovrebbe neppure parlare. Non si insisterà mai abbastanza, infatti, sulla fisionomia delle corti sovrane, che oltre ai parlamenti comprendevano anche le Cours des Comptes, le Cours des Aides, le Cours des Monnaies e il Grand Conseil. Ma tra queste corti sovrane, che nella letteratura coeva e posteriore sono definite, con espressione derivata da Montesquieu, corpi intermedi, i parlamenti emergevano per la loro importanza anche politica. Ora, il termine di parlamenti non deve trarre in inganno, non deve far pensare al solo parlamento (questa volta al singolare) esistente in Europa prima della Rivoluzione francese: il parlamento inglese. Quest'ultimo era elettivo e, quindi, rappresentativo. Si possono naturalmente fare tutte le osservazioni possibili sulle limitazioni del diritto di voto, che era ristrettissimo, nonché sulla corruzione elettorale, che limitava fortemente la libertà del voto; ma resta il fatto che nella sua struttura fondamentale la Camera dei Comuni inglesi era un organismo rappresentativo della nazione. Al contrario, i parlamenti francesi (questa volta al plurale, poiché erano nove nel 1590 e salirono a tredici nel XVIII secolo) erano fondamentalmente organismi giudiziari, cioè tribunali, sia pure, di alta istanza, e sia pure chiamati a svolgere, accanto alla loro funzione primaria, che era quella giudiziaria, anche compiti amministrativi, e detenevano l'importante incarico di registrare gli editti regi, con il diritto cli presentare remontrances, cioè osservazioni critiche, le quali, finché non avessero trovato soddisfazione da parte del Consiglio del re, bloccavano l'iter delle leggi. Il diritto cli remontrance, che Luigi XIV aveva ridotto a niente e che era stato restituito ai parlamenti, nel suo pieno vigore, dal reggente Filippo d'Orléans, costituiva quindi una potente arma politica per esercitare pressioni sul governo. Tali pressioni furono per lo più

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PAOLO ALATRI

ostruzionistiche e paralizzanti nei confronti di tutti i tentativi di riforma che pure si ebbero ripetutamente, da parte di ministri illuminati e bene intenzionati, nel corso del '700, fino alla vigilia della Rivoluzione. Ma fermiamo ora l'attenzione sul punto centrale: come si diventava magistrati nelle corti supreme. Lo si diventava acquistando con moneta sonante una carica di nuova istituzione, o acquistando la carica di un magistrato morto senza aver pagato la paulette (carica quindi rientrata nella proprietà del sovrano) mediante il versamento della relativa finance, oppure ancora acquistando la carica da un magistrato disposto a venderla o dai suoi eredi se il magistrato era morto in regola con il pagamento della paulette, ovvero, infine, - e nel XVIII secolo è il caso più diffuso - ereditandola direttamente dal padre o da uno zio. È vero che teoricamente vi erano alcune disposizioni limitative. Vi erano limiti 'di -età; ma questa disposizione era assai raramente rispettata, dato il numero delle dispense concesse. Altre ordinanze prescrivevano che padri, figli e fratelli non potessero appartenere alla stessa corte sovrana; ma anche questa disposizione veniva spesso elusa, cosi che si crearono delle vere e proprie dinastie parlamentari. Ai membri delle corti sovrane si richiedeva infine che avessero la laurea in legge, ma le università la concedevano con la massima facilità dopo un corso abborracciato e abbreviato; e quanto all'esame di ammissione per entrare in una corte sovrana, anch'esso prescritto, si trattava di una specie cli burletta e vi si teneva conto più della condizione sociale del candidato che della sua preparazione giuridica. In conclusione si può affermare che fondamentalmente l'accesso nei parlamenti e nelle altre corti sovrane era affidato alla venalità delle cariche o alla loro pratica ereditarietà. E si può quindi affermare senza ombra di dubbio che i parlamenti non avevano alcun carattere rappresentativo. Eppure, per tutto il corso dell'ancien régime, i parlamenti, e spesso anche le altre corti sovrane, pretesero di essere organismi rappresentativi. Le affermazioni in tal senso sono continue per tutto il XVIII secolo e diventano· sempre più frequenti, insistenti e solenni man mano che ci si inoltra· in quel secolo e ci si avvicina alla Rivoluzione. Soprattutto nel 1788-89, nel pieno della polemica sulla convocazione degli Stati generali e sulle modalità con cui vi si sarebbe dovuto votare, i parlamenti non si peritarono di usare un linguaggio rivoluzionario, facendo appello alla sovranità popolare. Eppure, le loro precedenti prese di posizione erano sempre andate

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PARLAMENTI E PARLAMENTARI IN FRANCIA

nella direzione opposta. Prendiamo ad esempio le dichiarazioni contenute nelle remontrances che il parlamento di Parigi oppose agli editti di Turgot nel 1776. Vi si legge tra l'altro: « Chi mantiene le famiglie nella condizione originaria dei loro avi? I privilegi. Come si sono formati questi ceti antichi e fecondi, che, usciti dal commercio, si sono poi distribuiti in tutti gli strati della società? Mediante quegli stessi privilegi. La prima regola della giustizia è di conservare a ciascuno ciò che gli appartiene, regola fondamentale del diritto naturale, del diritto delle genti e del governo civile, regola che non consente soltanto di mantenere i diritti di proprietà, ma anche di conservare quelli che sono relativi alla persona e nascono dalle prerogative della nascita e della condizione». Tronco qui la citazione, per ragioni di tempo; ma se la completassi, si vedrebbe ancor meglio quanto sfoggio di eloquenza il parlamento di Parigi adoperasse per sostenere l'ineguaglianza naturale degli uomini e i grandi vantaggi che ne deriverebbero. Quanto alla pretesa di essere organismi non soltanto sovrani, ma rappresentativi della nazione, di impersonare e interpretare la volontà nazionale, non aveva avuto torto Luigi "XV, dal suo punto di vista e nell'ambito della monarchia assoluta che vigeva in Francia, quando, nel lit de justice del 3 marzo 1766, passato alla storia con la denominazione di « seduta della flagellazione», aveva fatto dire dall'avvocato generale del parlamento di Parigi Omer Joly de Fleury: « La magistratura non forma un corpo né un ordine separato dai tre ordini del regno; i magistrati sono miei funzionari, incaricati di sollevarmi dal dovere veramente regale di rendere la giustizia ai miei sudditi, funzione che li lega alla mia persona e che li renderà sempre raccomandabili ai miei occhi. I soli e veri nemici della magistratura sono coloro che le fanno dire che tutti i parlamenti formano un solo e medesimo corpo, distribuito in più classi, che questo corpo necessariamente indivisibile è l'essenza e la base della monarchia, che è la sede, il tribunale, l'organo della nazione; che è il protettore e il depositario essenziale della sua libertà, dei suoi interessi, dei suoi diritti; che è responsabile di tutte le parti del bene pubblico non soltanto di fronte al re, ma anche di fronte alla nazione; che è giudice tra il re e il popolo. Come se fosse lecito dimenticare che soltanto nella mia persona risiede il potere sovrano, e che soltanto da me le corti sovrane traggono esistenza e autorità; che a me soltanto appartiene il potere legislativo e che soltanto grazie alla mia autorità i magistrati delle mie corti procedono, non alla formazione, ma alla registrazione, pubblicazione ed esecuzione della legge ». -19-

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È pur vero che i parlamenti avanzarono la richiesta che si convocassero gli Stati generali. Ciò era avvenuto, e sia pure in maniera sporadica, fin da qualche decennio, ma nel luglio-agosto 1787 tale richiesta fu reiterata contro il governo presieduto da Loménie de Brienne, arcivescovo di Tolosa, che tentava in extremis la riforma giudiziaria e finanziaria della Francia. Occorre allora spiegare questo apparente paradosso, tanto più che nel 1788 la rivendicazione che fosse convocata e riunita un'assemblea elettiva e rappresentativa, quale sarebbe stata quella degli Stati generali, fu fatta propria dalla borghesia. Ora, a seconda che tale richiesta provenisse dai parlamenti o dalla borghesia, gli scopi e gli obiettivi che dalle due parti ci si riprometteva erano opposti. Se la borghesia puntava a una radicale riforma istituzionale dello Stato in senso liberale e democratico, i parlamenti miravano invece alla restaurazione cli istituzioni nobiliari perente. Ciò che essi speravano dagli Stati generali era l'instaurazione di una monarchia controllata dall'aristocrazia. Donde la loro disperata battaglia per evitare che il terzo stato ottenesse un numero di deputati pari a quello dei rappresentanti dei due ordini privilegiati sommati insieme e che si votasse per testa invece che per ordine, perché con tali innovazioni sarebbe stato impossibile imporre soluzioni coerenti con il modello aristocratico e nobiliare. In proposito si tenga presente che, se è vero che le corti sovrane erano la roccaforte della nobiltà cli toga e non della nobiltà di spada, è pur vero che le due branche della nobiltà si erano ormai venute integrando, cosicché la nobiltà di toga interpretava anche le aspirazioni della nobiltà di spada: di quella grande nobiltà cli antica estrazione, cioè, che da Luigi XIV in poi era venuta perdendo il controllo dello Stato. In questo ampio dibattito, che si svolse per quasi tutto il XVIII secolo ma che divenne incandescente sullo scorcio dell'ancien régime, qual era la posizione degli illuministi? In generale, salvo qualche rara eccezione o qualche evoluzione negli anni '70 e '80, i philosophes erano per l'assolutismo illuminato e il « dispotismo legale». Essi vedevano in una monarchia forte, ma sorretta dall'ispirazione illuministica, e non ostacolata dalla resistenza dei corpi intermedi, il solo possibile strumento di quelle riforme che essi chiedevano a gran voce: riforme liberali, che, pur non puntando al modello cli una monarchia costituzionale e parlamentare all'inglese, e tanto meno a una soluzione rivoluzionaria, avrebbero modificato profondamente il volto istituzionale e sociale della Francia. Cosl, per almeno mezzo secolo, la filosofia dei lumi andò

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preparando, sia pure indirettamente, il clima e le condizioni etiche e psicologiche da cui, a partire dal maggio 1789, doveva prendere il via la Rivoluzione. È però necessario introdurre in proposito qualche distinzione. Se in generale l'illuminismo, minando le basi del dogmatismo, della tradizione, della fede nella trascendenza, dell'ordinamento gerarchico e feudale, aveva gradualmente distrutto i pilastri ideologici dell'ancien régime, bisogna pur aggiungere che alcuni tra i philosophes si spinsero più avanti nella ricerca di un modello politico che trascendesse quello dell'assolutismo illuminato. Per la Francia basterà fare i nomi di Rousseau e di Diderot. Quanto al primo, non c'è neppure bisogno di insistere sul carattere eversivo della sua dottrina della sovranità popolare, sul suo radicalismo democratico; e non è un caso che a partire dal 1788-89 tutti i rivoluzionari considerassero il Contratto sociale come una specie di Bibbia e ne citassero continuamente gli assiomi, magari semplificandoli e popofarizzandoli. A sua volta Diderot, che aveva riiposto tante speranze in Caterina II di Russia, ricavò dal contatto personale e dai colloqui a quattr'occhi con la zarina una profonda delusione. Allora, nei Mémoires pour Catherine II, scrisse: « Qualunque governo assoluto è cattivo; non ne eccettuo il governo assoluto di un padrone buono, fermo e illuminato. Questo padrone abitua a rispettare e ad amare un padrone, comunque egli sia. Toglie alla nazione il diritto di deliberare, di volere o di non volere, di opporsi anche al bene. In una società di uomini liberi, il diritto di opposizione mi sembra un diritto naturale, inalienabile a sacro. Un despota, fosse anche il migliore degli uomini, governando secondo il suo beneplacito, commette un delitto. È un buon pastore che riduce i suoi sudditi alla condizione di animali; facendo loro dimenticare il sentimento della libertà, sentimento tanto difficile da riconquistare quando lo si è perduto, procura loro dieci anni di felicità che essi pagheranno con venti secoli di miseria». E, sconfessato l'ideale dell'assolutismo illuminato, Diderot delineò un modello che si potrebbe definire di populismo democratico, non senza aver teorizzato - nella collaborazione all'Histoire des Deux-Indes di Raynal - il diritto dei popoli all'insurrezione. contro un potere oppressivo. Sulla scia di Diderot, man mano che gli anni '80 avanzavano, tutta una serie di seri ttori - come ha ricordato Luciano Guerci - diedero voce a una sensibilità antiassolutistica, che andò diffondendosi a livello

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europeo e che non faceva eccezione neppure per l'assolutismo illuminato .. Si trattava, dunque, di un fenomeno largamente europeo. In Spagna la morte di Carlo III nel 1788 apriva la strada all'involuzione. Nell'autunno dello stesso anno gli ufficiali svedesi chiedevano al loro re la convocazione degli Stati generali. La Dieta polacca era in fermento contro l'ingerenza russa nel paese. I patrioti olandesi volevano scuotere il restaurato regime dello statolderato. In Austria neppure l'impeto e la decisione di Giuseppe II sembravano più sufficienti, anche perché, come ha osservato Carlo Capra, l'imperatore non accettava di rivestirsi delle grandi idee del secolo. Nell'impero asburgico le stesse classi dirigenti dei paesi più evoluti, il Belgio e la Lombardia, si sentivano strozzate dal centralismo e mostravano evidenti segni di malcontento. La Prussia, prima ancora che Federico II scomparisse nel 1788, aveva perduto il suo slancio, ed erano venuti in evidenza i limiti dell'eccessiva burocratizzazione. E tuttavia, come ha sottolineato Nicolao Merker, quando nel luglio 1788 Federico Guglielmo Il, sotto cui venne ripristinata la pena della fustigazione per i contadini, emana il cosiddetto « editto sulla religione », che reprime di colpo la tolleranza religiosa instaurata dal suo predecessore, istituendo un collegio di censori incaricato di sequestrare tutte le pubblicazioni che, secondo quel decreto, « minano le verità fondamentali della Scrittura e con il nome di rischiaramento diffondono in modo impudente numerosi e generali errori », e ordina che siano licenziati gli ecclesiastici, i predicatori e gli insegnanti che non ritrattino i loro errori, Andreas Riem pubblica a Berlino un opuscolo (Sull'illuminismo, se esso sia o possa essere pericoloso), in cui sostiene che proprio l'illuminismo rettamente inteso costituisce il migliore e più moderno sostenitore dello Stato, tant'è vero che ai tempi di Federico II fu esso l'artefice della potenza interna ed esterna della Prussia. Il modello resta quello di un sovrano che, padre della propria nazione, attui l'illuminismo dall'alto; e tale figura di idealizzato monarca illuminato viene indicata in Giuseppe II d'Austria. Pochi anni dopo, George Poster, pubblicando a Berlino nel 1791-92 le sue Vedute del Basso Reno, contrasta la tesi che all'illuminismo vada ascritta la responsabilità di aver attizzato la rivoluzione, e dimostra che per molti illuministi tedeschi l'ideale resta quello dell'illuminismo dall'alto, cioè dell'assolutismo illuminato, capace di prevenire un sommovimento violento. Poster invoca una « imparziale ed equa terza parte » tra un potere oppressore -22-

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e il popolo, e anche da lui essa è indicata nell'imperatore Giuseppe Il, che nei possedimenti di casa d'Austria aveva tentato d'introdurre riforme da sovrano «illuminato», ponendosi cosi come moderatore tra il vecchio dispotismo e le nuove rivendicazioni popolari. Insomma, i due modelli, quello riformistico e quello rivoluzionario, si fronteggiavano, ciascuno dei due avendo i suoi sostenitori. Torniamo, anche per concludere, ai parlamenti e ai parlamentari francesi, dai quali il discorso sugli ideali e i modelli che si confrontavano verso la fine del XVIII secolo ci ha allontanati; anche se ci sarà consentito ancora qualche considerazione di ordine più generale. Nell'ambito stesso dell'assolutismo illuminato - poggiasse esso consapevolmente sulle idee « filosofiche » o si presentasse apparentemente da esse distaccato - si possono distinguere due diversi filoni, così come li ha delineati Carlo Capra. Da una parte il modello austriaco in cui domina l'esaltazione dello Stato, e del sovrano che ne è l'incarnazione e il motore, come supremo tutore e garante della felicità pubblica. Dall'altra il modello francese, che pone al centro dell'attenzione la difesa dei diritti e delle libertà individuali, non solo contro i privilegi di nascita e di ceto, ma anche contro l'invadenza dei pubblici poteri. Ma mentre il riformismo austriaco raggiunge alcuni obiettivi fondamentali, l'illuminismo francese deve registrare un quasi totale fallimento; e anche in Italia - come notano Ricuperati e Carpanetto -, in cui le sorti erano tanto legate ai rapporti internazionali e alla dipendenza, diretta o indiretta, dalle potenze straniere e dal loro gioco diplomatico, le riforme settecentesche raggiunsero qualche efficacia dove si attuarono all'ombra della politica asburgica, come soprattutto in Lombardia e poi anche in Toscana, mentre dal modello borbonico non presero corpo progetti generali e coerenti, e gran parte degli spunti innovativi, che pure ci furono, non uscirono dal recinto della battaglia anticuriale e giurisdizionalistica e non sfociarono in una complessiva o anche soltanto significativa revisione dei rapporti giuridici ed economici, né in una riforma degli ordinamenti statali. Così, assistiamo a un apparente paradosso: nello Stato in cui i sovrani - Maria Teresa e Giuseppe II - meno si richiamavano alle idee illuministiche, che anzi spesso aborrivano, gli ideali illuministici, nella misura in cui coincidevano con gli obiettivi riformistici, trovarono, in gran parte, concreta applicazione; al contrario, nella Francia che era la culla e l'epicentro delle idee illuministiche, pressoché nulla riuscì a passare dei progetti di riforme che i philosophes andavano elaborando. -23-

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Ora, se in Francia le cose andarono così, fo in gran parte, se non esclusivamente, a causa della resistenza dei parlamenti; e dico « se non esclusivamente», perché bisogna pur considerare la parte di responsabilità della monarchia, gestita da sovrani come Luigi XV e Luigi XVI, evidentemente insufficienti per la loro inettitudine e debolezza politica. Mentre negli anni '70 e '80 del XVIII secolo il cammino verso la modernizzazione dell'organismo statale fu in generale percorso non a beneficio, ma a discapito di un allargamento della rappresentanza politica, e cioè in direzione di un rafforzamento dell'assolutismo, tanto che dalla Svezia di Gustavo III alla Russia di Caterina II, dalla Spagna di Carlo III all'Austria di Giuseppe II, le riforme più incisive, o almeno i tentativi di tali riforme, si realizzarono con un'accentuazione, piuttosto che con una diminuzione, del potere dispotico dei sovrani, contro il residuo potere dei corpi separati, in Francia il processo fu falsato dalla pretesa dei parlamenti di contrastare l'assolutismo senza averne i titoli, cioè senza essere organismi rappresentativi, ma conservando ed· anzi rafforzando il loro carattere corporativo. Il modello da essi auspicato, di una monarchia controllata dall'aristocrazia, non aveva alcuna possibilità di successo; ma, nel loro tentativo di affermarlo, i parlamenti affossarono l'unica possibilità concretamente esistente, che era quella di un riformismo guidato da un potere centrale forte e autorevole. I magistrati parlamentari chiedevano la convocazione degli Stati generali, non già per dare maggiore possibilità alla nazione di far sentire la sua voce, ma, al contrario, per instaurare una reazione aristocratica e nobiliare. Anche se poi, dalla riunione di quella assemblea, doveva prendere il via un processo di trasfQrmazione che sarebbe andato nella direzione esattamente opposta a quella auspicata dai parlamenti. È pur vero, peraltro, che nel loro demagogico richiamarsi ai diritti e agli interessi dei sudditi, e da ultimo perfino alla sovranità popolare, i parlamenti contribuirono anch'essi - paradossalmente - a diffondere in Francia l'ideologia rivoluzionaria.

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SAFFO TESTONI BINETTI

RIGIDITA E FLESSIBILITÀ NEL MODELLO POLITICO DEL CONTRAT SOCIAL, OVVERO LA PRETESA DI REALISMO DI ROUSSEAU ED I CASI DELLA CORSICA E DELLA POLONIA « ... que la vertu puisse ouvrir toutes les portes que la fortune se plait à fermer ».1

« Peut-etre tout ceci n'est-il qu'un tas de chimères, mais voila mes

idées; ce n'est pas ma faute si elles ressemblent si peu à celles des autres hommes, et il n'a pas dépendu de moi d'organiser ma tete d'une autre façon ». 2 Così scrive Rousseau concludendo le sue Considérations sur le gouvernement de Pologne, consapevole della singolarità delle sue idee, ma nondimeno rivendicandone e riaffermandone, pur dopo tante delusioni, l'aderenza al cuore degli uomini, nonché la attuabilità, « surtout en Pologne, m'étant appliqué dans mes vues à suivre l'esprit de cette République, età n'y proposer que le moins de changements que j'ai pu pour en corriger les défauts ». 3 Con tali riflessioni, e con una coerenza che, per la profonda convinzione dei suoi princìpi, va oltre le disavventure, Rousseau conclude la sua opera politica, ormai nel 1771, nonostante si fosse ripro-

1 J.-J. RoussEAU, Considérations sur le gouvernement de Pologne et sur sa ré/ormation proiettée, in Oeuvres complètes, édition publiée sous la direction de B. Gagnebin et M. Raymond, Paris, Gallimard, 1959-69, voi. III, p. 1029. A questa edizione delle opere di Rousseau, in assenza di altre indicazioni, si riferiscono i rimandi, con i numeri romani da I a IV per il volume, seguiti dalla pagina indicata in cifre arabe. Per queste riflessioni mi sono attenuta soprattutto ai testi di Rousseau, mentre sono ridotti i riferimenti alla storiografia. 2 III, 1041. 3 Ibidem.

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messo fin dal 1762, dopo la condanna dell'Émile e del Contrat socia/, di non scrivere mai più di politica. Invece è proprio con le opere successive, ed in particolare col Projet de Constitution pour la Corse ( 1765, pubblicato postumo nel 1861) e con le Considérations sur le gouvernement de Pologne (1771, anch'esse pubblicate postume nel 1782), oltre che con le più tempestive Lettres écrites de la Montagne ( 1763, pubblicate nel 1764), che egli getta nuova luce sulla sua opera fondamentale, fornendo un rilevante contributo alla sua problematica interpretazione. 4 In esse sviluppa idee che erano già espresse in forma dottrinale nel Contrat social; idee dunque ben radicate, tanto radicate che, nell'incontro con le concrete situazioni storiche e nella conseguente necessità dell'adattamento, si dimostrano passibili di revisione pur nella integrità del fondamento e nella continuità dello spirito. La lettura delle ultime opere politiche rousseauiane dunque consente una rivisitazione del Contrat social come un modello politico solo in parte ed a prima vista rigido, ma in realtà tale solamente in rapporto ai suoi princìpi fondamentali, mentre per certi aspetti è flessibile, ammette varianti e forse è addirittura pensato per ammettere varianti. Quanto meno il breve trattato può essere letto in questa chiave. Ne è garante lo stesso autore. È proprio questo che testimonia, a mio avviso, la pretesa di realismo di Rousseau: egli crede così profondamente nei precetti del Contrat social, da ritenerne possibile l'uso da parte del vero politico che, « en prenant les hommes tels qu'ils sont, et les loix telles qu'elles peuvent etre »,5 sappia conciliare lo spirito peculiare del suo popolo con l'anelito alla libertà. Questa corda tesa tra passato e futuro, questa linea che sorregge un precario collegamento tra sterile teoria e utopia totale, poggiando ora sul riformismo, ora su un progetto rivoluzionario, questa tensione tra utopia e riforma messa in rilievo, pur con accentuazioni ed argomentazioni diverse, nei loro studi da Franco Venturi e Bronislaw Baczko, nonché da Furio Diaz,6 trovano così nell'opera di Rousseau una soluzione originale. In essa la ripresa di temi tradizionali del pensiero utopico 4 Cfr. F. DIAz, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli, Bologna, 11 Mulino, 1986, pp. 300-301. 5 III, 351. 6 Nei loro numerosi e notissimi studi questi studiosi concordano nel sottolineare la presenza di un generale spirito utopico nel pensiero settecentesco accanto ad un più pratico intento riformistico, ed in particolare rilevano una notevole componente utopica nell'opera di Rousseau.

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non basta a fare dell'autore un utopista. 7 Egli evita infatti di rifugiarsi nella contemplazione di un sogno ideale di società perfetta, senza storia e non passibile di trasformazioni. Nonostante la sua concezione pessimistica del divenire storico, che inesorabilmente comporta invecchiamento e degenerazione nella vita dei popoli e degli Stati e corruzione dei valori, tuttavia Rousseau crede nella storia e nella sua inevitabilità, e si applica quindi a costruzioni sociali caratterizzate piuttosto da uno spirito conservatore e dotate di strumenti atti a rallentare i benefici effetti del tempo, più che a modelli di società in sé perfette, di valenza universale, proiettate fuori dal tempo nella dimensione dell'eternità. In luogo della comunità ideale, quindi, balza in primo piano piuttosto l'importanza dell'acquisizione o del consolidamento di una identità nazionale. Da qui le varianti nei modelli progettati. Scrive il Ginevrino nella famosa lettera a Mirabeau del luglio del 1767: « La science du gouvernement n'est qu'une science de combinaisons d'applications et d'exceptions selon les temps, les lieux et les circonstances ». 8 I princìpi del Contrat social dunque non possono essere né disconosciuti né traditi. In particolare essi sono quelli di cui Rousseau tratta espressamente nel primo libro dell'opera, che legittimano l'obbligazione politica e rendono l'ordine sociale un diritto sacro che serve di base a tutti gli altri, precisamente i principi su cui si fonda la costituzione di un'associazione che sia altra cosa da qualsiasi aggregazione, di una società che sia un popolo anziché una molti tu dine, da cui discendono i valori della libertà e dell'uguaglianza. Non si tratta della libertà e dell'uguaglianza naturali, come avverte l'autore, bensì di quelle 'snaturate', civili e morali, che si addicono non a « un animai stupide et borné », bensì ad « un etre intelligent et un homme »,9 limitate dalla volontà generale e dalla convenzione, e che comportano la definizione della libertà civile come quella dell'uomo concreto che è propriamente membro di un popolo ovvero di un corpo fondamentalmente sovrano, quando in seno ad esso egli è all'unisono con gli altri. Sono questi i principi che, rispetto alle istituzioni, assumono nel 7 Cfr. A. MAFFEY, L'utopia della ragione, Napoli, Bibliopolis, 1987, che pure sottolinea una disponibilità del Ginevrino all'utopia, sempre frenata da un suo supposto pessimismo pratico. 8 Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, éd. critique établie et annotée par R. A. Leigh, tome XXXIII, The Voltaire Foundation at the Taylor lnstitutfon, Oxford, 1979, p. 239. 9 III, 364.

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sistema rousseauiano ·importanza primaria. Fondamentale· è essenzialmente la capacità con cui ogni uomo si riconosce nelle istituzioni della sua città e quindi il relativismo con cui si rapporta al suo popolo. Solo in tal modo l'uomo è se stesso, immerso nella sua rete di relazioni sociali, libero. Il tema della libertà poggia cosl sull'analisi delle circostanze. È importante non trascurare questo aspetto, perché in caso contrario l'esito inevitabile ed irreversibile è per il Ginevrino il dispotismo. « Peuples libres, souvenez-vous de cette maxime: On peut acquérir la liberté; mais on ne la recouvre jamais ». 1° Così nel 1762, nel Contrat social. Ma questo principio ricorre in tutta la sua opera e viene ampiamente ribadito nella citata lettera al marchese de Mirabeau del 26 luglio 1767, laddove Rousseau, confutando il principio dell'evidenza su cui si fonda la dottrina del dispotismo legale, rifiuta ogni argomentazione sul miglior governo e sui valori astratti, che gli paiono insignificanti quando si affronta il tema di un gouvernement particulier, dove la prima attenzione va posta alle circostanze in rapporto alla libertà: « ... que deviendront vos droits sacrés de propriété dans le grands dangers, dans des calamités extraordinaires, quand vos valeurs disponibles ne suffiront plus, et que le salus populi suprema lex esto sera prononcé par le despote? ».1 1 E poco più avanti, ricordando tra le sue « vieilles idées » il grande problema della Politica, la cui complessità egli paragona a quella della quadratura del cerchio in geometria e delle longitudini in astronomia, cioè il problema di « une forme de Gouvernement qui mette la loi au-dessus de l'homme », denuncia il rischio massimo, « le pire de tous les Etats politiques » che è « le conflit des hommes et des loix, qui met dans l'Etat une guerre intestine continuelle », per cui non vede e non ammette alcuna soluzione intermedia « entre la plus austère Démocratie et le hobbisme le plus parfait ». Se la perfezione della Città ideale descritta nel Contrat social non è attuabile, meglio mettere l'uomo nettamente al di sopra della legge, passando all'estremità opposta del dispotismo arbitrario, anzi « le plus arbitraire qu'il est possible: je voudrois que le despote put etre Dieu ». 12 Non è qui il caso di discutere delle perplessità generate dalla 10

III, 385.

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Correspondance complète cit., p. 239. Ivi, p. 240.

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radicalità di queste affermazioni, la cui corretta interpretazione comunque non può prescindere dalla considerazione che il loro contesto è la confutazione della dottrina fisiocratica del dispotismo legale (due parole, confessa Rousseau, senza significato nel loro abbinamento). Ciò che qui è importante notare è che, ripercorrendo i testi attraverso un ampio arco temporale (come si è visto, dal 1762 al 1771), si vede che il discorso sulle istituzioni può assumere colorazioni diverse e consente addirittura ulteriori riflessioni sul concetto rousseauiano di democrazia, in seno al quale si possono distinguere un significato più stretto e tecnico, ed uno più ampio. Nel primo senso, la democrazia corrisponde all'ideale del Ginevrino, cioè a quella forma statale quale è dettagliatamente descritta nel Contrat social, modello pressoché immaginario più vicino all'idea della polis antica che alle istituzioni della sua città, alla quale il modello stesso è proposto. Ma nel suo senso ampio essa è da ricercare soprattutto e propriamente nel fondamento di uno Stato libero. Da qui l'interesse per il momento costitutivo della società e dello Stato e per quella comune e insieme peculiare sostanza etica che ne è il presupposto. È per questo che il modello democratico può assumere adattamenti vistosi se non addirittura forme diverse. La democrazia risiede allora nella libera unanimità della convenzione primitiva, nonché nella perfetta identificazione tra il carattere dei singoli e quello del popolo, e tra questo e le sue istituzioni. È tutto questo, piuttosto che la sua forma, che fa di una organizzazione politica una autentica democrazia. Cosl intesa, è la stessa che fa sl che il criterio della maggioranza dei suffragi non sia lesivo della libertà della minoranza dissenziente e che contiene la soluzione del problema fondamentale della libertà di ciascun associato. È ancora la conformità tra il potere legittimo e la volontà del popolo sovrano: se idealmente l'uno non ha bisogno di strumenti di persuasione, l'altro non necessita di un ampio dibattito politico. 13 Persino una forma monarchica potrebbe non essere in contrasto con quest'anima democratica. « Un peuple, dit Grotius, peut se donner à un roi. Selon Grotius un peuple est donc un peuple avant de se donner à un roi. Ce don meme est un acte civil, il suppose una délibération publique. Avant donc que d'examiner l'acte par lequel un peuple élit un roi, il seroit bon d'examiner l'acte par lequel un

13 Cfr. B. BACZKO, La città e i suoi linguaggi, « Studi filosofici», voi. I, Annali dell'lst. Univ. Orientale, Napoli, 1978, pp. 19-38.

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peuple est un peuple. Car cet acte étant nécessairement antérieur à l'autre est le vrai fondement de la société ». 14 Questo concetto di democrazia ridotto al suo fondamento riguarda in ultima analisi principalmente la presenza e l'esercizio nello Stato della volontà generale, la libertà del popolo identificata con la possibilità dell'espressione della sua volontà. La sovranità popolare consiste assai più in questa virtualità, che non nella frequenza della sua consultazione. Da qui il valore attribuito da Rousseau a quelle istituzioni, che sono state capaci di conservare nel tempo l'intima capacità di essere liberi, quale si manifesta inequivocabilmente nel desiderio di libertà. Da un lato dunque i cardini del Contrat Social, i soli che rendono legittima l'obbligazione politica; dall'altro tempi, luoghi, circostanze, ed ancora i popoli con storie e caratteri individuali, col loro patrimonio di tradizioni e di cultura, più o meno disposti a sacrificarsi per mantenere integra la loro libertà e peculiarità, a volte con i loro 'miti' che li unificano sulla strada di un comune destino. Le due cose sono difficilmente conciliabili, ma non sono in contrasto, e pertanto è possibile e necessario il tentativo di ricondurle alla loro sostanziale affinità allo scopo di rendere agibile lo svolgimento di un processo politico vitale. Le vicende della Corsica e della Polonia nella lotta per l'emancipazione, le richieste fatte a Rousseau da Matteo Buttafuoco per un piano costituzionale per i Corsi, e quindi qualche anno più tardi dal conte Wielhorski di un progetto legislativo per la Polonia sono saggi importanti di tale difficile impresa. Le nuove istituzioni immaginate per la Corsica e per la Polonia dunque dovranno essere in consonanza sia con i principi del Contrat social, sia con le loro rispettive storie, ciò che è possibile soltanto se si intende che il sistema descritto nell'opera principale del Ginevrino non contenga solo il modello ideale di democrazia (peraltro immaginato per la città svizzera), ma anche, nel primo libro, un modello teorico fondamentale passibile di eventuali ed opportuni adattamenti non certo sul piano dei princìpi di cui si è parlato, bensì degli ordinamenti. Del resto è in questo modo che Buttafuoco e Wielhorski devono aver letto il Contrat social; non si spiegherebbe altrimenti il loro ricorso ai consigli di Rousseau.

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III, 359.

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Il caso della Corsica è dei due il più semplice. L'isola è un terreno ideale, il popolo corso è il più adatto a ricevere i precetti rousseauiani: « Il est encore en Europe un pays capable de législation; c'est l'lsle de Corse. La valeur et la constance avec laquelle ce brave peuple a su recouvrer et défendre sa liberté, mériteroit bien que quelque homme sage lui apprit à la conserver. J'ai quelque pressentiment qu'un jour cette petite Isle étonnera l'Europe » .15 Cosl nel Contrat social. Si può immaginare l'entusiasmo di Rousseau, qualche anno più tardi, alla prospettiva di essere lui quell '« homme sage ». La premessa al Pro;et contiene il principio fondamentale che già si trovava nel Contrat Social: spesso i governi degenerano, e ciò accade assai presto: « Tout cela vient de ce qu'on sépare trop deux choses inséparables, savoir le corps qui gouverne et le corps qui est gouverné. Ces deux corps n'en font qu'un par l'institution primitive, ils ne se séparent que par l'abus de l'institution ». 16 Occorre dunque prima di tutto evitare tale rischio: non tanto formare un governo per la nazione (declinando inevitabilmente il governo, finirebbe per non essere più adatto), bensì formare la nazione per il governo (la nazione trascinerebbe il governo in un destino comune). Ed ecco che il Pro;et verte intorno alla nazione: « La premiere régle que nous avons à suivre est le caractére nationnal. Tout peuple a ou doit avoir un caractére nationnal et s'il en manquoit il faudroit commencer par le lui donner ». 17 Ed ancora: « Il s 'agit moins de devenir autres que vous n'étes, mais de savoir vous conserver tels ». 18 I Corsi sono isolani, come tali secondo Rousseau hanno un carattere nazionale più spiccato per essersi meno mescolati e confusi con gli altri popoli, e per di più, analogie geografiche tra Corsica e Svizzera comportano caratteristiche simili tra i due popoli; preziosi insegnamenti si possono trarre dalla storia degli Svizzeri. Questi, prima buoni, virtuosi e felici, in armonia con la natura, si sono poi corrotti nel contatto con altri popoli: la moneta, entrata nelle loro abitudini insieme al commercio, all'industria, al lusso ed a tutti i simboli della ricchezza, li ha resi infine poveri ed ineguali. Sono i temi dei Discorsi giovanili: 15 16

17 18

III, III, III, III,

391. 901. 913. 903.

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la disuguaglianza corrompe e rende schiavi. E di tutto questo bisogna tener conto nel dare una costituzione alla Corsica. Più che norme dettagliate, egli dunque fornisce consigli e regole generali, sintetizzabili nei due principi fondamentali del Contrat social: libertà ed eguaglianza, e nelle due condizioni necessarie per il loro mantenimento: indipendenza ed autarchia. Assodato che tutto questo ben si concilia con la vita e l'economia agricola, Rousseau ne fa appunto l'esaltazione: « Le commerce produit la richesse mais l' agriculture assure la liberté »; 19 l'agricoltura favorisce l'incremento demografico più che economico e porta la popolazione a spargersi su tutta la superficie del territorio, installando in tutti sentimenti di attaccamento alla propria terra, di uguaglianza, di contentezza del proprio stato e di amore della patria. Per questo la vita agricola è anche la miglior educazione del soldato. Lasciare la campagna per Rousseau è uno sradicamento totale della natura, perdita di un rapporto vivo con gli esseri umani, che, nell'urbanizzazione, trovano la solitudine.20 Come Montesquieu, anch'egli per questi aspetti precursore di tempi futuri, Rousseau afferma che « chaque forme de Gouvernement a son esprit qui lui est nature!, propre et duquel elle ne s'ecartera jamais ». 21 Alla Corsica conviene la forma meno dispendiosa e la più favorevole all'agricoltura, cioè lo Stato repubblicano ed in particolare quello democratico, che comporta il minor numero di classi diverse. Ma è chiaro che qui il concetto di democrazia implica un confronto con un contesto diverso da quello della città-Stato, inconciliabile con gli ordinamenti descritti nel Contrat social, ma non col modello fondamentale, donde la necessità di apportare alcune modifiche, che adattino il modello sia all'ampiezza del territorio che alla realtà e storia dell'isola. Rousseau fornisce dunque suggerimenti quali il mantenimento delle pievi, la divisione dell'isola in giurisdizioni, l'abolizione della capitale (le città in genere e le capitali in particolare sono luoghi di corruzione, di ozio e di tutti i peggiori vizi; in Corsica basta un capoluogo come sede del governo supremo), infine l'abolizione della nobiltà feudale, condividendo anche in questo caso il principio montesquieuiano, che pone nelle III, 905. 20 D. RocHE, Il popolo di Parigi (1981), tr. it. Bologna, Il Mulino, 1986, p. 64; Cfr. anche R. GRIMSLEY, ].-]. Rousseau, Tue Harvester Press, Sussex-Barnes-Noble Books. New Jersey, 1983, pp. 124-126. 21 III, 913. 19

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« CONTRAT SOCIAL »

monarchie la sede adatta alla nobiltà. Ammette invece tre classi, non ceti: cittadini, patrioti e aspiranti, questi ultimi minori di venti anni. La disuguaglianza qui è fondata sulle persone e non sulla razza o sulla residenza. Anche il sistema economico si attaglia alla civiltà agricola; il cardine è l'abolizione della moneta, possibile solamente laddove nemmeno il commercio abbia ragion d'essere. È il caso appunto dell'isola, che, essendo autosufficiente, può avvalersi dello scambio in natura, che non abbisogna di valori intermedi. Nel livellamento economico sta il principio fondamentale della prosperità della nazione. La nazione, come Rousseau osserva in un frammento, non sarà famosa ma sarà felice, e nel suo seno regneranno l'abbondanza, la pace e la libertà. 22 Tali sono i principi ispiratori del contratto. Esso dovrà essere fatto tramite un giuramento di tutti i Corsi dai vent'anni in su. Anche in questo caso Rousseau sente la difficoltà delle sue idee, ma avverte che non si occupa tanto dell'amministrazione facile quanto dell'amministrazione integra, ed insiste - come nel Contrat social, quando giustificava la necessità di costringere gli uomini ad essere liberi - che il sistema descritto è il migliore, ma che ciò non basta, che occorre fare in modo che il popolo lo ami: « Je ne leur précherai pas la morale, je ne leur ordonnerai pas d'avoir des vertus mais je les mettrai dans une position telle qu'ils auront des vertus sans en connoitre le mot; et qu'ils seront bons et justes sans trop savoir ce que c'est justice et bonté ». 23 Ricerca del senso del passato e prospettive di lente ma radicali trasformazioni in una pretesa continuità sono ancora le idee ispiratrici delle Considérations sur le gouvernement de Pologne. La situazione polacca è tutt'altro che semplice per Rousseau, ma egli, lungi dal rinunciare ai princìpi del Contrat social, li riafferma. L'opera di adattamento però è qui ben più difficoltosa: « Mettre la loi au-dessus de l'homme est un problème en politique, que je compare à celui de la quadrature du cercle en géométrie ». Risolvetelo bene, avverte il Ginevrino, altrimenti state sicuri che « où vous croirez faire régner les loix, ce seront les hommes qui régneront ». 24 Così Rousseau 22 23

24

III, 947. III, 948; cfr. anche Ili, 918. Ili, 955.

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imposta il problema, riprendendo quasi letteralmente il paragone della citata lettera a Mirabeau del 17 6 7, e quindi lo spirito che la animava come animava tutta l'opera politica, ovvero la ricerca di soluzioni adatte al mantenimento della libertà, poiché l'alternativa ad essa non è mai una minore libertà, bensì la schiavitù. Nella Polonia estesa, infatti, circondata da Stati dotati di grande capacità di offesa, debole per l'anarchia che vi alligna, infine desiderosa di tranquillità, vi è un solo elemento che sorprende Rousseau fino alla commozione e che ,è la vera molla che lo spinge a rispondere alle richieste del conte Wielhorski: l'accanimento con cui nonostante tutto i polacchi cercano la libertà; sono in catene, eppure discutono dei mezzi per conservarsi liberi: « Vous aimez la liberté, vous en étes dignes ».25 L'impresa dunque può non essere disperata, se i polacchi sono ancora disposti al sacrificio e capaci di rinunciare al loro desiderio di quiete. Quiete e libertà sono infatti incompatibili, dietro la quiete sta in agguato il dispotismo, bisogna scegliere. Rousseau dunque, come già per la Corsica, indica una serie di princìpi fondamentali, consigli per un buon legislatore, della statura dei grandi legislatori antichi (Mosè, Licurgo, Numa), consigli che sarebbero certamente inutili ed inefficaci per un semplice compilatore di leggi. Si ricordi l'impresa quasi divina a cui il legislatore del Contrai social era chiamato, e si avrà un'idea di ciò che dovrà essere fatto anche in Polonia: l'intuizione di quell'elemento peculiare che ha mantenuto integro il carattere polacco e la costruzione del nuovo ordinamento su quelle antiche e solide fondamenta. « Corrigez, s'il se peut, les abus de votre constitution; mais ne méprisez pas celle qui vous a faits ce que vous étes ». 26 È in questa difficile e delicata opera di trasformazione nella continuità il senso che Rousseau dà al mutamento, se si vuole il suo concetto di 'rivoluzione'. « N'ebranlez jamais trop brusquement la machine ». 27 Solo in questo senso improprio si può pensare a Rousseau come ad un rivoluzionario, o, sarebbe meglio dire, come ad un pensatore di portata rivoluzionaria. Se il modello rousseauiano è servito a molti nell'azione rivoluzionaria, ciò è dipeso dalla lettura che se ne è fatta e dalle suggestioni che se ne sono ricevute, non certo confortate dai testi, 25 26 27

III, 954. Ibidem. III, 1040.

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»

pur se questi prospettano trasformazioni e soluzioni ideali che scaturiscono da evidenti forzature della realtà. Tornando dunque al testo delle Considérations, come nel Contrat social la nascita della nazione era preceduta da un'opera educativa, sia pure di carattere peculiare, quella appunto del legislatore, così anche in Polonia la prima impresa sarà di carattere educativo. Poiché nessuna costituzione sarà mai buona e solida se la legge non regnerà sui cuori dei cittadini, occorre prima di tutto agire su di essi: infondere in tutti l'animo dei confederati, dare loro una fisionomia nazionale capace di resistere all'oppressore, la coscienza di essere polacchi e non semplicemente europei. « Ce sont les institutions nationales qui forment le génie, le caractère, les gouts, et les moeurs d'un peuple, qui le font etre lui et non pas un autre, ... qui le font mourir d'ennui chez les autres peuples au sein des délices dont il est privé dans le sien ». 28 Il piano educativo, rimasto implicito nel Contrat social e nel Projet de costitution pour la Corse, ma che era stato presente in molte opere e sviluppato, in rapporto ai regimi liberi e democratici, fin dal 1754-55 nell'articolo Economie politique per I'Encyclopédie, balza qui in primo piano. L'educazione è condizione per l'efficacia della legge; essa deve essere nazionale, pubblica, uguale per tutti, intellettuale e fisica; deve infondere il patriottismo « par inclination, par passion, par necessité »; 29 deve essere negativa(« empechez les vices de naitre, vous aurez assez fait pour la vertu ») .30 Deve essere infine continua e finalizzata al carattere nazionale. Ancora una volta libertà ed educazione alla libertà finiscono per implicarsi vicendevolmente, risiedendo il concetto di libertà in quel rousseauiano senso di autenticità di chi si sente se stesso uguale agli altri insieme con gli altri. Libertà ed individualità del popolo sono premessa l'uno dell'altro. I polacchi dovranno quindi ripristinare antichi usi, istituire giochi pubblici e feste all'aperto (niente teatro, che rende gli uomini effeminati!). Ed anche qui si riprende un vecchio tema rimasto implicito nel Contrat social, quello dei divertimenti adatti alla repubblica, di cui Rousseau aveva parlato ampiamente nella Lettre à d'Alembert sur les spectacles del 1758. Solo dopo aver trattato dell'educazione il Ginevrino viene ai cardini della costituzione. Ammette naturalmente il sistema dei governi federali, 28

29

30

III, 960. III, 966. III, 968.

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« le seul qui réunisse les avantages des grands et des petits Etats » 31 e

distingue anche qui nettamente il legislativo dall'esecutivo, intervenendo sulle vecchie istituzioni solo per precisare tale distinzione. Mantiene quindi le diete, che debbono avere frequenza notevole, cosl come frequente deve essere il rinnovo dei nunzi; ed affrontando lo spinoso problema della delega per il legislativo, rende trasparente la condotta dei rappresentanti alla dieta attraverso il dovere di risponderne in prima persona, limita la forza del liberum veto che era una delle principali cause di anarchia (solo le leggi fondamentali richiedono l'unanimità, sia per stabilirle che per abrogarle; in tutti gli altri casi è prevista la maggioranza semplice o diversamente qualificata), aumenta il potere della dieta, ed ancora mantiene le dietine. L'esecutivo viene affidato al re ed al senato, ma il loro potere viene precisato ai fini di evitarne l'abuso, il 'vizio intrinseco', come veniva chiamato nel Contrai social. In particolare il potere del re viene limitato: obbligato dai pacta conventa di antica istituzione ed eletto con un sistema in cui l'elezione si combina col sorteggio, le sue funzioni si riducono ad onorare il merito ed a lusingare la vanità, « mais qu'il ne puisse conferer la puissance ». 32 Il quadro monarchico era ammesso anche nel Contrat social, dove un governo di tal forma nulla toglieva all'essenza repubblicana dello Stato. Per la riforma della Polonia dunque Rousseau introduce importanti e non trascurabili modifiche rispetto al passato e nella direzione della costruzione della repubblica, non soltanto nel limitare le funzioni del re fino a renderlo un puro agente del potere sovrano, ma abolendo l'ereditarietà ed il segno nobiliare della carica, sostituendoli con criteri di scelta basati sul merito e sull'opinione, talché a ciascuno può avvenire di diventare re. Considerazioni analoghe si possono fare per la nuova aristocrazia, destinata a sostituire gradualmente la vecchia nobiltà svuotata della sua reale importanza. L'innovazione secondo i princìpi del Contrai social in questo caso non è irrilevante rispetto al mantenimento del quadro socio-politico tradizionale. 33 Rousseau fornisce poi alcune e non nuove indicazioni riguardanti il 31

III, 971. III, 991. 33 Cfr. J. PAPPAS, Les Considérations sur le gouvernement de Pologne et le Contra! socia!: contradiction ou adaptation?, in Rousseau et Voltaire en 1978, Actes du Colloque international de Nice {Juin 1978), Genève-Paris, Slatkine, 1981, pp. 127-132. 32

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« CONTRAT SOCIAL »

sistema economico, che non sarà fondato sulla finanza e sul danaro, ma favorirà l'agricoltura e le arti necessarie per vivere, avendo come scopo la prosperità più che la ricchezza, l'abbondanza più che l'opulenza, la scomparsa insieme del lusso e dell'indigenza. Agli stessi princìpi sono ispirate le poche note sul sistema militare, che, con l'abolizione dell'esercito della corona e delle piazzeforti (possibili nidi di tiranni), prevede l'istituzione della figura del cittadino soldato. Non ritiene invece opportuno che si armino i contadini, servi, se non dopo il loro affrancamento. Ma attenzione, esso deve essere graduale e ponderato, non certo immediato, perché la libertà è un cibo pesante e difficile, e il tollerarla implica preparazione. Continuità col modello fondamentale del Contrai social e riforme particolari si combinano in maniera articolata nelle Considérations, ma le riforme particolari hanno minor importanza in confronto al quadro d'insieme, nel quale il rispetto dello spirito generale del primitivo modello va di pari passo col rispetto di quei costumi polacchi, che non hanno mortificato gli spiriti liberi. Il rapporto politica-morale, libertà-uguaglianza, si presenta così in una relativa varietà di soluzioni, nelle quali l'un termine implica l'altro. Baczko parla a tal proposito di un individualismo tutto particolare di Rousseau, ovvero di una concezione etica e sociale della libera individualità, culminante nell'idea di un popolo portatore dei valori della vita morale, con i quali la razionalità della legge venga a coincidere. 34 Certo il problema di Rousseau è un problema dell'individuo e della libertà individuale; in questo egli non si sottrae radicalmente alla problematica del suo tempo. Ma finisce per idealizzare tipi di comunità in cui l'individuo possa sempre ritrovare se stesso, ed è qui che egli diventa critico dei sistemi esistenti che in tale aspirazione non lo confortano, ed allora fa appello alle tradizioni, agli usi, ai costumi, alla storia, e finisce per precorrere i tempi con spirito conservatore, per annunciare tempi nuovi avendo timore delle novità, proprio lui che cercava la soluzione in cui tutte le contraddizioni si risolvessero. La parola chiave che apre tutte le porte rousseauiane è moeurs, è la storia; è la morale la molla della politica. È vero che l'unica forma legittima di Stato è la repubblica, ma la repubblica è la forma dei 34 Democrazia e conservazione in ].-]. Rousseau, in Interpretazioni dell'Illuminismo a cura cli A. Santucci, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 237-248.

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costumi e delle tradizioni, dal cui seno può nascere un patto, che spetta poi a leggi ed istituzioni custodire. Cosi la politica corona l'etica. Si può dire che, nell'ottica dell'autore, l'uomo viene prima del cittadino, anche se poi il cittadino è superiore all'uomo ed ha il compito di preservarlo come parte intima di se stesso. Si ricordi la Lettre à Christophe de Beaumont del novembre 1762, dove Rousseau, commentando quella falsa religione che suggerisce al credente solo comportamenti esteriori, l'abbina alla politica: « ... L'homme est un etre intelligent auquel il faut un culte raisonnable, et un etre sociable auquel il faut une morale faite pour l'humanité. Trouvons premierement ce culte et cette morale, cela sera de tous les hommes; et puis quand il faudra des formules nationales, nous en examinerons les fondemens, les rapports, les convenances, et après avoir dit ce qui est de l'homme, nous dirons ensuite ce qui est du Citoyen ». 35 Il suo fervore per i casi della Corsica e della Polonia nasce dunque dal fatto che il momento più importante nella vita di un popolo è il momento costitutivo: se questo non poggia su quel comune fondamento etico che è peculiare di quel popolo, fallisce inesorabilmente l'obiettivo della costituzione di una società civile conforme alla natura. Si spiega non ciò l'esagerata cautela e circospezione con cui egli suggerisce di attuare i mutamenti necessari. Dalle opere teoriche ai tentativi di applicazione pratica dei concetti rousseauiani, dai primi giovanili Discorsi ai due progetti in questione, movente non secondario è un problema personale che via via assume dimensioni ed importanza sempre più generali: il disagio di chi non si sente riconosciuto per quello che è, in termini machiavelliani il timore che la fortuna premi gli audaci e punisca i virtuosi. Non a caso il nostro autore riprende proprio questi termini nelle Considérations sur le gouvernement de Pologne, in cui giustifica le sue idee con lo scopo che « la vertu puisse ouvrir toutes les portes que la fortune se plait à fermer ».

35 IV. 969. Per un commento al rapporto tra uomo e cittadino nell'opera rousseauiana cfr. T. ToooROV, Una fragile felicità. Saggio su Rousseau (1985), tr. it. Bologna, Il Mulino, 1987.

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ANNA MARIA RAo

ORGANIZZAZIONE MILITARE E MODELLI POLITICI A NAPOLI FRA ILLUMINISMO E RIVOLUZIONE

1. È nota l'opposizione del pensiero illuministico alla guerra, definita sull'Encyclopédie dal cavaliere de Jaucourt come « una controversia tra sovrani che si risolve per mezzo delle armi », provocata « dall'ambizione, dall'avarizia, dalla gelosia, dalla malvagità », contraria alla « voce della natura, della giustizia, della religione e dell'umanità ».1 Frutto « della depravazione degli uomini », « malattia convulsiva e violenta del corpo politico», rovinosa non solo per il commercio e per l'agricoltura, ma anche per i costumi e per la libertà politica, minacciati dalle « cieche passioni dei principi », 2 la guerra appariva tuttavia inevitabile. Le cose stesse imponevano una riflessione che andasse al di là del senso di frustrazione, di inutile spreco di risorse umane e finanziarie, che accompagnava le guerre settecentesche in Europa,3 nonostante se ne riconoscesse il carattere meno sanguinario, «barbaro» e « selvaggio» che nel passato. 4 Non che mancassero tentativi di relativizzare la guerra, individuando condizioni politiche tali da poterla evitare, anziché considerarla come connaturata alle passioni umane di ogni tempo. Di fronte a una realtà 1 Art. Guerra, in Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri. Testi scelti, a cura di Albert Soboul, Roma, 1976, pp. 119-120. 2 Pace, ivi, pp. 163-164. Sul de Jaucourt cfr. L. GUERCI, Libertà degli antichi e libertà dei moderni. Sparta, Atene e i « philosophes » nella Francia del '700, Napoli, 1979, pp. 17, 44, 96-102. 3 Cfr. F. VENTURI, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, 1969, pp. 59-60 e ss.; L. GUERCI, Le monarchie assolute, Parte seconda, Permanenze e mutamenti nell'Europa del Settecento, « Nuova storia universale dei popoli e delle civiltà ►>, voi. X, t. II, Torino, 1986, pp. 327-358. 4 Cfr. ivi, p. 337 e R. KoSELLECK, Critica illuminista e crisi della società borghese (ed. or. 1959), Bologna, 1972, pp. 66-68.

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che di continuo smentiva gli utopici piani di « pace perpetua » fra i principi d'Europa, come quello dell'abbé de Saint-Pierre,5 in alcuni, come in Mably, si sarebbe fatta strada l'idea, più ampiamente sviluppata alla fine del secolo di fronte al conflitto tra rivoluzione e controrivoluzione, che una generale uguaglianza dei beni avrebbe potuto mantenere la pace, poiché era l'inuguaglianza ad armare le nazioni le une contro le altre. 6 Solo fra repubbliche, scriverà Kant nel 1795, grazie alla necessità del consenso dei cittadini per intraprendere una guerr.a, è possibile una pace perpetua. 7 E l'obiettivo di una pace perpetua attraverso una generalizzata « repubblicanizzazione », la fondazione di una « repubblica universale», sarebbe stato fra i principali motivi ideologici, oltre che di propaganda, dell'espansionismo rivoluzionario armato. 8 La domanda che si imponeva alla riflessione settecentesca, tuttavia, non era tanto come mantenere la pace fra gli stati, quanto piuttosto come e perché si vincevano le guerre. E la risposta non stava tanto nei rapporti di forza internazionali, ma all'interno dei singoli stati, nel rapporto fra principe e sudditi. Nella pace interna risiedeva la condizione principale delle possibilità di difesa di uno Stato e della sua forza verso l'esterno: l'arte della guerra si intrecciava all'arte di governo, l'organizzazione militare si collegava strettamente alla politica, diventava modello politico essa stessa, nella cui elaborazione confluivano da un lato il riferimento alle antiche repubbliche, sulla scorta di Machiavelli e di una plurisecolare tradizione teorica comparativa,9 dall'altro l'esperienza coeva delle monarchie europee, la riflessione sugli imperi e sulle cause

5 Cfr. J. B. DuROSELLE, L'idée d'Europe dans l'histoire, préface de Jean Monnet, Paris, 1965, pp. 123-5. 6 De la législation (1776), Iib. I, cap. II, in Scritti politici di Gabriel Bonnot de Mably, a cura di Aldo Maffey, voi. Il, « Classici politici ►>, Torino, 1965, pp. 217-8. Sulla datazione dell'opera, cfr. L. GUERCI, Libertà degli antichi cit., pp. 137-138, nota 127. 7 Cfr. J. B. DuRoSELLE, op. cit., pp. 125-6. 8 Era il tema, in particolare, del Discours prononcé à la barre de l'Assemblée Nationale, au nom des lmprimeurs, par Anacharsis Cloots, oratettr du genre humain, le 9 septembre 1792, l'an quatrième de la liberté, et le premier de l'égalité; imprimé par ordre de l'Assemblée Nationale. 9 - Cfr. J. R. HALE, Teorie cinquecentesche sulla guerra e sulla violenza (ed. or. in « Past and Present, n. 51, 1971), in Le origini dell'Europa moderna. Rivoluzione e continuità, Saggi a cura di Mario Rosa, Bari, 1977, pp. 247-280. Sulla « compenetrazione» tra guerra e politica nel Settecento e il dibattito illuminista sul « governo militare» . P. DEL NEGRO, Goldoni e i militari (a proposito di un libro recente) (già in « Studi ven. La noblesse de Carcassonne, après avoir affirmé que « la nation désire voir refleurir son antique constitution », demande au roi que les principes en soient « reconnus et consacrés dans la forme la plus solennelle par un acte authentique et permanent ». Le Tiers d'Agen, 13 ELIE CARCASSONNE, qui a dépouillé tous les cahiers de baillage publiés aux Archives parlementaires, donne les chiffres suivants (op. cit., pp. 635-655): Oergé Noblesse Tiers

Aucune allusion à la Costitution

60

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99

Simple mention de la constit. traditionnelle

54

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Voeu que la constitution soit fixée dans une charte

16

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28

5

3

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La France n'a pas de constitution Total des Cahiers dépouillés

168 -

LA CONSTITUTION COUTUMIÈRE

pour « remédier à l'oubli des principes constitutifs », souhaite que le statut politique du royaume soit « irrévocablement fixé », etc .... Ainsi, en s'accordant sur la nécessité d'opérer « le rétablissement des lois constitutionnelles », ou de « reprendre en sous-oeuvre l'édifice ébranlé de la Constitution ►>, les cahiers de 1789 se rattachent pour la plupart au courant politique le plus modéré du XVIIIe siècle. D'après E. Carcassonne, sur 166 cahiers du Tiers, neuf seulement attribuent à la nation la plénitude du pouvoir législatif; encore n'est-il pas certain que leurs expressions doivent etre prises à la Jettre. La position la plus fréquente revient à partager ce pouvoir entre le monarque et la nation, et c'est encore ici la tradition franque et plus précisément l'édit de Pistes, qui sert de référence.1 4 En un mot, les cahiers de doléances sont bien éloignés du langage radical des polémistes les plus avancés. Pour les Français de 1789, le royaume a ► (Discours du 29-08-1798, in Discours et opinions, ed. Boissy d'Anglas, Paris, 1827). Il exprime là, tant sur l'équivalence de la république et de la démocratie, que sur l'impossibilité d'un tel gouvernement, l'opinion la plus commune. Seul, parmi les membres de l'Assemblée nationale, Barnave s'en distingue en appelant démocratie, ou « principe démocratique », l'égalisation des conditions qui résulte des progrès de la richesse mobilière, à la suite du développement du commerce et de !'industrie. Il en trouve peut-etre l'idée chez les défenseurs de la liberté du commerce, et particulièrement chez Condillac qui expose clairment cette égalisation des conditions par le développement du commerce (sans la nommer démocratique cependant) dans Le commerce et le gouvernement (1776). Mais s'il fait de la « classe moyenne » l' « agent politique » du développement du « principe démocratique », Barnave, pour autant, n'en conclut pas à l'opportunité d'un gouvernement démocratique qu'il juge trop « violent », mais appelle de ses voeux une monarchie « libre et limitée », dont la base, celle de la « force publique », est extérieure au « principe démocratique » et dont l'existence garantit le maintien d'une propriété de la terre que le développement des richesses mobilières tend à détruire (d. A. BARNAVE, De la Révolution et de la Constitution, Grenoble, P.U.G., 1988).

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CATHERINE LARRÈRE

Seule est concevable la monarchie. « Vive le roi! », s'étaient écriés, unanimes, les cahiers de doléances, et le comité de constitution, formé au début de juillet 1789, s'emploie à donner forme légale et rationnelle à ce sentiment loyaliste. « Le gouvernement de la France est monarchique >>, affirme l'article I du titre I du projet de constitution que présente Mounier à l 'Assemblée. Il entend ainsi, non pas innover, mais « confirmer », « relever », ou « régénérer » la constitution de la France, sans toucher aux « véritables principes de la monarchie ». 3 Il fallait cependant faire piace, dans cette constitution régénérée, à deux principes nouveaux, que venait d'énoncer la Déclaration des droits de l'homme et du citoyen. Celui de la souveraineté nationale, d'abord, qui entrainait, pour le moins, un changement sémantique: le Roi n'est plus le souverain, ce terme représente la nation, affirme l'abbé Grégoire.4 Celui de la volonté générale, ensuite, et surtout. Selon l'article 6, « la loi est l'expression de la volonté générale ». C'est affirmer, comme l'avait déjà fait Locke, que l'on ne peut etre gouverné que par des lois permanentes, promulguées, acceptées par tous, et non par la décision capricieuse d'un seul, arbitrairement imposée. Mais l'insistance - constante dans les débats de l'Assemblée - sur l'expression de volonté générale, avec sa résonance rousseauiste, dit plus: cette volonté générale, qu'on dit aussi « commune », est bien la volonté du peuple, qu'on sait « puissante »,5 et dont on recherche la claire expression. La référence est donc à la démocratie: « l'état démocratique ne doit avoir à cet égar