Vittorio De Sica 8880332597, 9788880332596


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Italian Pages 220 [163] Year 2003

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Vittorio De Sica
 8880332597, 9788880332596

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Gualtiero De Santi, è studioso di letteratura, estetica e cinema. Ha pubblicato diversi libri, tra cui L’Angelo della Storia, Ritratto di Zavattini scrittore, Maria Mercader. Una catalana a cinecittà e Zavattini e la radio. Per Il Castoro-La Nuova Italia ha scritto le monografie su Louis Malle (1977) e Sidney Lumet (1987); un suo saggio critico su Carlo Lizzani è apparso per i tipi della Gremese nel 2001. Con Manuel De Sica ha curato diversi volumi relativi al cinema di Vittorio De Sica (Miracolo a Milano, I bambini ci guardano, Il tetto, Lohengrin). Insegna Letterature Comparate e Metodologia e analisi dello spettacolo all’Università di Urbino.

Il Castoro Cinema n. 213 © 2003 Editrice Il Castoro srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano [email protected] www.castoro-on-line.it Edizione digitale 2013 www.ridigito.it In copertina: Umberto D. ISBN 978-88-8033-726-3

Gualtiero De Santi

Vittorio De Sica

VITTORIO DE SICA

La famiglia Mio padre era impiegato nella Banca d’Italia; poi lavorò nelle assicurazioni, fece anche il giornalista; e il risultato di tutto fu una povertà sostenuta per anni e anni con una strabiliante dignità. Nessun pernicioso precedente teatrale in famiglia; mio padre mi parlava soltanto di uno zio leggendario, della cui reale esistenza io bambino non fui mai convinto, il quale dava recite in casa (immagino che cantasse canzonette napoletane) e perdette una eredità per non aver voluto troncare una recita e correre al letto di morte di un parente danaroso. Comunque il teatro (anzi si diceva l’arte) era un regno misterioso e affascinante di cui si favoleggiava in casa e non so nemmeno per quale concreto motivo. Io ero l’unico della famiglia che fosse assolutamente refrattario a quei sogni; sicché quando, a dodici anni, mi trovai spinto da mio padre a recitare in un film, la faccenda non mi piacque proprio. Era capitato che un amico di famiglia, un certo Bencivenga, allora celebre regista di Francesca Bertini, stesse girando il film L’affare Clemenceau con la Bertini e Gustavo Serena. Io feci Clemenceau bambino. Guadagnai

settanta o cento lire, apprezzai molto questo aspetto pratico della cosa (servirono a pagare le tasse scolastiche presenti e future), tornai a scuola e non ci pensai più. Napoli Come premio, nostro padre ci mandava a Napoli ogni estate da una zia. Era la gioia più grande che poteva riservarci la vita. La carrozzella che ci portava dalla stazione alla casa giù per il rettifilo, saltava, sbandava fra un lastrone e l’altro ormai divisi da grosse buche. E noi quattro aggrappati alle maniglie del sedile posteriore o alle gambe di chi ci sedeva di fronte, tra il grido del pizzaiolo con il portapizze di stagno sulla testa «c ’o fummo, c ’o fummo» e l’odore mattutino di carrube, catrame, e mare e lo scampanio insistente, ora forte, ora piano, del tram gremito di gente arrampicata lungo tutto il predellino della carrozza posteriore. La finestra della casa che ci ospitava dava in una piazzetta. Là sotto, un uomo spazzolava, con una spazzola da panni, delle pesche. Dalle sue mani le pesche venivano posate sul banco, più gialle, più colorate di prima. Un altro preparava un trionfo di fichi d’India, rossi, gialli, azzurri. Il bisogno di veder bello, colorato. Tutto è simmetrico, ordinato in questo popolo che appare disordinato. Vedo ancor oggi uomini di fatica che trasportano sacchi di farina. Sono stanchi, sudati. Hanno trasportato cento sacchi d’un quintale l’uno. E questi uomini sentono il bisogno di mettere su ogni sacco, la di cui cima somiglia a un cesto bianco, un pomodoro rosso. E cantano. Il loro canto anticamente somigliava al lamento del flamenco spagnolo ma da quando un musicista napoletano ha scoperto la “scala napoletana” il popolo ha cantato napoletano, “ncopp’ ‘o capo ‘e Pusilleco addiruso”, odoroso di mare, di fichi d’India, e di acetilene sopra la fabbrica dell’Ilva dove migliaia di napoletani lavorano anche di notte. Un napoletano quando lavora fa in mezz’ora quello che un altro fa in un giorno. L’uomo del saxofono Ero a Milano un giorno d’autunno dell’anno 1931, le sette di sera; andavo con Adolfo Franci nel negozio di camicie Pozzi, un amico che incontrammo attraversando la strada ci chiese se avevamo letto Il figlio dello spirito (sic) di C. Zavattini che era stato pubblicato da poco, un libricino molto modesto, noi non l’avevamo letto. Gli chiedemmo che cosa ne pensava, lui disse che di quel libro se ne sarebbe parlato molto. Ho raccontato questo perché come una melodia, un suono, un rumore del passato risvegliano in noi certe circostanze dimenticate, così il libro di Zavattini Parliamo tanto di me risveglia in me i ricordi di quel pomeriggio a Milano. Ero, credo, davanti alla chiesa di S. Carlo, l’asfalto era lucido dal bagnato, sentivo il caratteristico odore di Milano, di asfalto e dolciumi… ricordo l’incontro e le possibilità del libro di avere successo. Avevo conosciuto Cesare Zavattini quella mattina, Franci me lo aveva presentato in una redazione di una rivista di Rizzoli. Zavattini mi fece l’impressione di un uomo buono, semplice e un po’ strano; mi propose di interpretare un nuovo personaggio teatrale, «l’uomo del saxofono». La proposta, come ho detto, mi sembrò strana, però il desiderio di quest’uomo nel volermi in quel ruolo mi piacque. Recitavo in inglese, francese, tedesco e naturalmente in italiano, eravamo i primi a portare al successo Ugo Betti allora completamente sconosciuto. Facevamo conoscere al pubblico italiano Noel Coward, Curt Goetz e altri, però lui mi voleva vedere sul palcoscenico inseguito dal saxofono. Io credo che lui mi volesse strabiliare con la sua proposta. Che cosa era: il desiderio di essere originale a ogni costo? Questo semplice cittadino, dai capelli che incominciavano a diventare grigi e con un’espressione del viso dolcissima, voleva farmi pensare a un personaggio inedito, e desiderava vedermi in un ruolo forse di successo o forse no, ma certamente originale. Quella stessa sera leggevo Parliamo tanto di me due volte, ed ebbi conferma della mia prima impressione. Da quel

momento sono diventato amico di Cesare Zavattini… Camerini L’inizio della mia carriera di attore e il mio futuro di regista sono stati influenzati, appunto, dall’arte fine, delicata, di questo grande artista che è Mario Camerini. A lui devo il mio successo, e anche il mio primo ingresso nel buon cinema lo devo a lui, perché si impose contro Pittaluga, contro tanti: per dire la verità, il solo a essere alleato con lui nel volermi protagonista di Gli uomini, che mascalzoni! fu Emilio Cecchi, il quale puntò i piedi. Quindi devo riconoscenza a Camerini per avermi accolto in questo suo meraviglioso film, e sono riconoscente a Camerini per avermi insegnato a essere vero, sincero, e, come regista, a curare molto la recitazione, i rapporti fra i personaggi. I personaggi di Camerini, in queste case borghesi o piccoloborghesi, erano di una delicatezza, di una grazia… Mai di un’ironia spinta, volgare: mai. Era un’ironia leggera, un’ironia malinconica, se si potesse dire. Zavattini Sono ormai molti anni che conosco Cesare Zavattini. La nostra collaborazione risale all’epoca in cui diressi I bambini ci guardano e precisamente nell’anno 1942. Da allora la nostra amicizia e la nostra collaborazione sono diventate una cosa sola. Non posso concepire il nostro rapporto d’amicizia distaccato da quello della collaborazione. Perché lavorando con Zavattini ti accorgi che è un amico, che non ha altro desiderio che quello di esserti utile. Ogni suo suggerimento è fatto alla scopo che il tuo lavoro sia perfetto. Uomo e collaboratore instancabile: ostinato, nel voler modificare quella scena o quella battuta, telefona, per esempio, durante la notte quando già da parecchie ore dormi tranquillo per dirti con voce entusiasta e vibrante la modifica a quella scena o a quella battuta. Testardo, nel voler sostenere un suo punto di vista che potrebbe apparire caparbietà, puntiglio; invece non è altro che partecipazione al tuo lavoro con lo scopo unico e solo, di suggerirti bene e di far bene. Preoccupato, quando una sceneggiatura non è a buon punto e allora sono giorni e giorni di tormento per le correzioni, aggiunte, tagli, spostamenti di scene. Felice, quando il risultato è a parer suo soddisfacente. Io, sin dal 1942, ho sentito questa viva, amichevole, partecipazione di Zavattini al mio lavoro di regista; mestiere che ha tolto a me, ormai, la pace e la tranquillità per le grandi responsabilità che ho assunto verso il pubblico e la critica di tutto il mondo. Zavattini incoraggia chiunque. Ogni giovane che ricorra a lui è messo sulla buona strada. Ogni collega che abbia bisogno di lui per qualche consiglio o aiuto è accontentato disinteressatamente. Come si può rimanere insensibili di fronte all’amicizia di questo grande lavoratore? Prima di finire queste poche righe su Cesare debbo aggiungere che oltre all’apporto di intelligenza, di capacità, di alto senso poetico della vita e dei rapporti umani, Zavattini t’insegna una cosa che è necessaria al nostro lavoro: l’entusiasmo. La prima idea di Sciuscià Giuseppe è un ragazzo di circa dodici anni. Ha un amico inseparabile più piccolo di lui, Luigi. Il loro quartiere generale è il galoppatoio di Villa Borghese, via Lombardia, via Veneto, piazza San Bernardo, la stazione. Li ho seguiti qualche volta per sentire che cosa dicevano e che progetti avevano per il loro avvenire. Ma poco ho potuto sentire, perché i ragazzi, oggi, parlano sottovoce. Li ho avvicinati tempo fa e ho chiesto se si lasciavano fotografare. «Che è, un film?», «Sì, un film», «Non ci metterai mica sul giornale? Perché, sinnò, niente». Li ho traditi. Ho detto che si trattava di un film e la cosa li seduceva. Non potevo spiegare che si trattava di studiare la possibilità di fare un film su di loro. Ho chiesto a Giuseppe: «Fai il ruffiano?», «No», «Vendi le sigarette?», «No», «E allora cosa fai?», «Niente».

Luigi, il più piccolo, prima che io lo interroghi, taglia corto: «Io lavo i piatti in una trattoria di via Lombardia». Poi tutti e due montano su un cavallo e galoppando mi lasciano lì in asso. Sono sfuggiti al mio noioso interrogatorio. Realismo Il mio scopo… è di rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso della piccola cronaca, anzi della piccolissima cronaca, considerata dai più come materia consunta. Che cos’è infatti il furto di una bicicletta, tutt’altro che nuova e fiammante per giunta? A Roma ne rubano ogni giorno un bel numero e nessuno se ne occupa giacché nel bilancio del dare e avere di una città chi volete che si occupi di una bicicletta? Eppure a molti, che non possiedono altro, che ci vanno al lavoro, che la tengono come l’unico sostegno nel vortice della vita cittadina, la perdita della bicicletta è un avvenimento importante, tragico, catastrofico. Perché pescare avventure straordinarie quando ciò che passa sotto i nostri occhi e che succede ai più sprovveduti di noi è così pieno di una reale angoscia? La letteratura ha scoperto da tempo questa dimensione moderna che puntualizza le minime cose, gli stati d’animo considerati troppo comuni. Il cinema ha nella macchina da presa il mezzo più adatto per captarla. La sua sensibilità è di questa natura, e io stesso intendo così il tanto dibattuto realismo. Il quale non può essere, a parer mio, un semplice documento. Umanesimo Crediamo in ciò, abbiamo tutti la necessità di essere certi di ciò, anche se nuove guerre, e nuove atrocità, hanno poi fatto dubitare talora proprio della “umanità degli uomini”! Ma le sofferenze, le miserie, contengono un tossico e un farmaco assieme. Nel dolore gli uomini tornano, per una intrinseca esigenza dello spirito, a quelle verità lontane e fondamentali che sono alla base della nostra cultura, della nostra fede, della nostra stessa natura. Tornano, fatalmente, alla parola, all’insegnamento di Cristo. Gli uomini vi tornano e con essi tutto ciò che da essi promana. L’arte, dunque, nei suoi vari aspetti; la drammaturgia, come tutte le arti figurative, le quali devono parlare un linguaggio umano. È compito divino dell’artista, che è sempre un poco profeta; ed è un’esigenza dell’arte stessa, onde varcare i limiti del successo locale e immediato, a espandersi, più oltre, sino agli uomini più lontani e diversi, a restare nel tempo, come verità non caduca. In quanto al cinema, a questo nostro cinema o arte cinematografica come ormai è considerata dai più, nasconde in realtà una sorta di grosso equivoco. È facile; appare facile; seduce e lusinga gente dalla formazione culturale e spirituale la più sommaria e diversa; si fa, facilmente, come un gioco. In apparenza. Perché questo gioco diviene arte – e non sempre – solo per magica virtù di pochi artisti sommi, Charlie Chaplin, Flaherty, Clair, nomi che onorerebbero qualsiasi forma d’arte. Con loro una stretta cerchia di proseliti: Renoir, Carné, Duvivier, Ford, Wilder, Vidor. Trame e finzioni La trama, si fa presto a raccontarla perché… ecco, ricordate Ladri di biciclette? Che trama c’era lì? Un operaio viene derubato della bicicletta e per un’intera domenica vaga per la città nella speranza di poterla rintracciare. Tutto assai semplice, no? La trama di Umberto D. è altrettanto lineare e scarna. È la storia di un pensionato: la miseria e la solitudine lo sospingono sull’orlo del suicidio, ma all’ultimo momento, quando sta per precipitarsi, insieme al suo cane, il suo solo amico, sotto le ruote di un treno, la bestiola lo richiama bruscamente alla realtà e il nostro pensionato “Umberto D.” ritrova la forza per lottare contro la morte. Italia mia

Si tratta di cogliere qua e là, in Italia, immagini italiane. Carpire momenti di vita, un attimo, un gesto, un brano di dialogo, una espressione, un volto. Zavattini vorrebbe fotografare, e basta. Ma io credo che occorra qualcosa di più. Non credo che l’artista debba rimanere inerte. Egli deve non soltanto elaborare, scegliere, ma ricreare, interpretare la realtà. Si inserisce nella morale dei miei film passati: vorrei fare un ritratto degli italiani, del loro carattere, della loro umiltà profonda, della loro sofferenza sopportata con nobiltà, delle loro grandi qualità. L’ultimo film sognato Ora, rileggendo Le novelle della Pescara, ho scoperto, dietro il virtuosismo della scrittura, un telaio narrativo secco, per nulla somigliante a quegli schemi, che, secondo la convenzione, sarebbero tipicamente dannunziani e cioè falsi. C’è anzi un lucido e affascinante ritratto dell’Italia. Una certa Italia, naturalmente. Quella dei primi anni del Novecento, quando il nostro Paese, appena unito, cercava faticosamente la sua identità. Ed è questo aspetto che mi interessa; questo retroterra che emerge, in modo indiretto, da alcune storie individuali, quelle appunto che voglio raccontare. In modo indiretto. Non l’ho scritto a caso. Nei miei film, infatti, ho sempre cercato di rivelare (o denunciare) certe realtà sociali raccontando le storie di un mini-universo umano, il dramma o la cronaca di alcuni personaggi tipici in una situazione tipica. Che è il passaggio obbligato per tentare di fare qualcosa di creativo, di poetico. Che è anche la grande lezione del neorealismo al quale, con questo mio film, vorrei riallacciarmi poiché penso che l’oggettiva e affettuosa registrazione della vita della gente comune soddisfi il gusto del pubblico assai più delle continue e demagogiche falsificazioni della realtà che è costretto a subire. Non c’è spettatore, anche il più rozzo, che non sia sensibile ai grandi temi della vita e della morte. Dell’amore e dei sensi. I brani su riportati sono tratti da: Vittorio De Sica, Perché fa un film tratto dal “Ladro di biciclette”, «La Fiera Letteraria», n. 5, 6 febbraio 1948; Vittorio De Sica, Umanità del cinema, «Cinedidattica», n. 1, gennaio 1952; Vittorio De Sica, Zavattini t’insegna l’entusiasmo,«La Fiera Letteraria», n. 9, 2 marzo 1958; Vittorio De Sica, Napoli e i suoi personaggi, Rizzoli, Milano, 1968; Vittorio De Sica, Vorrei tornare alla grande lezione del neorealismo, «Paese Sera», 17 novembre 1974; Paolo Nuzzi e Ottavio Jemma, De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, Roma, 1997; Francesco Savio, Cinecittà anni trenta, Bulzoni, Roma, 1979; dichiarazioni rilasciate a Lorenzo Quaglietti per «Noi donne», 22 luglio 1951; colloquio con Tommaso Chiaretti per «l’Unità», 22 gennaio 1952.

L’educazione del cuore L’immagine prima e imperativa che potremmo annettere alla persona di Vittorio De Sica è una gentile, anche piena e gioiosa precarietà legata agli anni della giovinezza, prima di approdare al successo. La figura che la riassume è quella del cantante d’occasione che, a volte con l’accompagnamento del padre, interviene ad animare feste private e rinfreschi, un po’ a mezza strada tra l’artista ispirato con un filo di voce e un’esecuzione in qualche modo avventurata e occasionale, com’era quella del concerto in casa prediletto dalla piccola borghesia. «Conobbi De Sica che ero ragazzo (ed era ragazzo anche lui)», scrive Ermanno Contini nel 1948. «Se ne stava in piedi in un angolo della sala, con quell’aria fra timida e assente che non lo abbandona nemmeno ora e che fa supporre a chi non lo conosce un voluto atteggiamento di distaccata sufficienza. Cantava pianamente, la testa leggermente piegata da un lato, protendendosi in avanti come per dare più intimità alla struggente dolcezza del canto: nei passaggi patetici socchiudeva gli occhi sorridendo appena, estasiato. In disparte il padre se lo mangiava con gli occhi,

beato di vedere tanta gente ascoltare e applaudire quel suo ragazzo spilungone, malinconico e svagato». Gli echi di un tale apprendistato sarebbero arrivati a certe svolte future del lavoro cinematografico. Si potrebbe pensare a quei suonatori che eseguono la Tammurriata nera sul piano della pizzeria in Ladri di biciclette (1948), oppure alla rigorosa esecuzione dei musicanti alla festa privata allestita in casa del giovane uomo (fot. 1), che decide di autopunirsi per il suicidio dell’adolescente, in “Teresa”, uno degli episodi di L’oro di Napoli (1954). E ancora nello stesso film, si direbbe inevitabile il rinvio all’explicit, con il don Ersilio eduardiano che impegna la sua maschera sardonica e sapienziale in quella strimpellata finale conclusa dalla voce fuori campo di De Sica stesso che canta Marechiaro, dove si raccolgono la letizia e la malinconia della gente napoletana. E ancora viene in mente l’Armando Gill cesellato elegantemente da Sergio Bruni in Il viaggio (1974), più attore che cantante nel senso tradizionale, o cantante-attore come già era il giovane De Sica.

FOT. 1

Nato a Sora il 7 luglio 1901 da una famiglia non napoletana (la madre Teresa Manfredi romana di sette generazioni, il padre Umberto sardo), Vittorio De Sica aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza prima a Napoli, dove arrivò all’età di tre anni, poi a Roma, in un quartiere attiguo alla Chiesa di San Camillo, dove una domenica venne scelto per intonare l’Ave Maria di Charles Gounod. L’età di De Sica andava allora sui dieci anni. Era magro, deperito, ma con una voce appassionata. Aveva avuto un’infanzia difficile di cui avrebbe sempre serbato un intenso ricordo e che forse rimane all’origine del suo radicato pessimismo, malgrado il carattere espansivo e aperto e il piacere della vita. Sopraggiunta la guerra, fu giocoforza che si producesse in melodie in lingua napoletana ma anche in canti militari all’ospedale San Camillo per i soldati ricoverati, unendosi in seguito a una “troupe” che dava spettacoli negli ospedali di Napoli. Diplomatosi poi ragioniere negli anni successivi al conflitto mondiale, prestò il servizio militare nello stesso battaglione di Umberto di Savoia, ed è per festeggiare la nomina del principe a capitano che il giovane De Sica propose di interpretare Addio giovinezza, che segna il suo debutto in palcoscenico, per quanto in maniera stravagante e dilettantesca. La sua vocazione musicale, De Sica l’avrebbe trasferita nel cinema. Viene facile pensare alla sequenza-capolavoro di Gli uomini, che mascalzoni! (di Mario Camerini, 1932), in cui il giovane interprete canta e danza con assoluta leggerezza Parlami d’amore Mariù di Cesare Andrea Bixio sciogliendo il film da ogni insidia di opacità (fot. 2). È un passaggio – quello di Gli uomini, che mascalzoni! – non soltanto di voce e suoni, ma anche di piroettanti movenze e di elegantissima energia. Un momento di naturalezza che però si solleva a stile. La prestanza di De Sica, sorridente e fascinosa, presupponeva però sempre un fondo di malinconia. Discendendo da un deposito memoriale di storie e canzoni appartenenti a un mondo diviso tra la cultura popolare e le cifrature già borghesi del varietà e del caffè concerto. Quella fresca agilità gestuale e fisica trovava insomma il proprio coagulo in una dimensione di spettacolo e anche di scena teatrale.

FOT. 2

L’esordio in palcoscenico da professionista avvenne nel 1923 con la compagnia di Tatjana Pavlova, come cameriere nel Sogno d’amore di Kossorotov. Ben presto De Sica divenne un interprete di grande successo arrivando, negli anni Trenta, a “fare ditta” con Sergio Tòfano e Giuditta Rissone (vicino già in teatro a realizzare quel che in cinema si chiamava direzione artistica oppure regia, data l’assenza allora della figura del regista teatrale). Al cinema del resto il regista già esisteva. Contro il parere di Stefano Pittaluga che lo giudicava inadatto per il grande schermo, De Sica fu chiamato ai suoi primi ruoli cinematografici proprio da uno che faceva il regista, Amleto Palermi. E sarà in coppia con Mario Camerini che avvierà una collaborazione che nel decennio 1930-40 avrebbe portato a esiti per molti versi irripetibili, passando da Gli uomini, che mascalzoni! a Darò un milione (1935), da Il signor Max (1937) sino a Grandi magazzini (1939). In questi film De Sica sperimenta per la prima volta gli estri della modernità, pienamente e baldanzosamente accettati ma avvertiti e scolpiti sotto un segno personale, lieto e amarognolo al contempo. Una modernità ingentilita e frenata negli eccessi, come ben si vede nella sequenza del ballo con Lia Franca in Gli uomini, che mascalzoni!. Il brano di Bixio, come ha ricordato Gian Franco Venè, sapeva fondere lo stile della canzone appassionata e malinconica con la foga del canto abbandonato e ardente. De Sica, nella parte di un corteggiatore romantico e truffaldino, un “mascalzone” amabile e garbato, si rivolgeva alla sua amata frugando nel vocabolario del passato, quasi recuperandone i gesti, tuttavia trasportati nella nostra contemporaneità novecentesca. L’immagine del giovane De Sica cantante e interprete è poi svanita nel tempo, è diventata remota come quel mondo e quella cultura (deamicisiana e digiacomiana è stato detto, ma intimamente intrisa degli umori e della vita della gente), che egli avrebbe traghettato nel cinema del dopoguerra già a partire da I bambini ci guardano (1943), con quel romanzo di Giulio Cesare Viola, crepuscolare e consuntamente manierato, che diveniva invece il referto di una distretta esistenziale e storica. Ma poi anche recuperando una linea popolare e naturale all’interno della nostra tradizione, che un certo estremismo engagé tendeva a superare e persino a sopprimere. Si pensi a quella vitalità musicale e plebea invisa a Eduardo ma presente nel contesto partenopeo, nella vita minuta del popolo e dunque anche in certe espressioni artistiche, che De Sica non ignora per istinto. Tale vitalità precede e anche attraversa il suo neorealismo, affiorando in alcuni passaggi di L’oro di Napoli e dettando le pagine positive di Matrimonio all’italiana (1964). E se si accetta l’analisi di Bazin secondo il quale il cinema desichiano mantiene un rapporto con una realtà avvertita nelle sue pulsioni essenziali e ontiche, anche l’irruzione dei volti e dei corpi sul palcoscenico di L’oro di Napoli (la “sfilata” in strada della pizzaiola (fot. 3), la lezione di don Ersilio) traduce qualcosa che appartiene all’antropologia di un popolo.

FOT. 3

Il neorealismo, quello delle grandi opere come Sciuscià (1946), come Ladri di biciclette o Umberto D. (1952), mette forse un freno all’espansione di questa vena, ma non tanto decisamente quanto si era creduto. In fondo, sul palcoscenico della Roma del dopoguerra già il corpo dei bambini e dei popolani tradisce di fatto un valore fenomenologico molto carico, già connotato sotto un proprio riguardo semantico. Tanto che la regia fa scaturire stile e lingua dall’interiorità dei personaggi, e dialoga con essi come con la realtà entro cui agiscono, aspettando da loro la modularità e le evoluzioni del racconto, o almeno concertando su questa materia viva il carattere della scrittura. Di qui il metodo di dirigere le scene senza molto guardare nell’obiettivo. È nel corso degli anni Trenta che matura probabilmente in De Sica qualcosa che lo spingerà verso l’assunzione di maggiori responsabilità e, in breve, verso la dimensione autoriale. La conoscenza con Zavattini accelera questo processo. “Za” colpisce molto De Sica. I due si conoscono a Milano, capitale dell’editoria e dell’innovazione. A Milano Cesare Zavattini è allora una delle figure di punta, inventore straordinario di libri, collane, riviste, giornali, ideatore di pubblicità e di strisce fumettistiche. Dopo Darò un milione, Zavattini fa conoscere a De Sica il soggetto di Date a tutti un cavallo a dondolo, che l’attore acquista proponendosi di curarne una trasposizione per il cinema senza che questa mai si concretizzi. Sta qui il seme di una collaborazione che, cominciata in sordina con Teresa Venerdì (1941), avrebbe avuto il vero inizio con un capo d’opera come I bambini ci guardano, segno di un nuovo cinema in grado di anticipare il nuovo ma anche di forzarne e trascenderne i limiti annunciando, e per molti tratti anticipando, certe svolte degli anni Sessanta. L’altro aspetto che muove De Sica è l’insoddisfazione per il tran-tran imperante nei film degli anni Trenta, noiosa ripetizione della banalità del modello piccoloborghese e fascista. In quella piatta routine l’attore si sente condizionato e limitato. Sono gli anni in cui, anche da noi, va preparandosi un teatro attento ai valori del testo e dove la figura di un interprete più complessivo e coerente deve fornire la sigla dell’insieme. L’endiadi testo-scena, di simoniana e damichiana memoria, elegge l’immagine del regista a proprio rappresentante. Non è più sufficiente la figura dell’esecutore, per brillante che sia, oppure del capocomico. La rivoluzione in atto nel teatro che sanziona anche la fine della compagnia De SicaRissone-Tòfano, accelera in qualche modo la rivoluzione che di lì a poco sarebbe intervenuta nella carriera del futuro regista, trasformandolo da attore brillante e seduttivo in un autore cinematografico verso cui la storia del cinema, e della cultura più in generale, è debitrice di almeno un paio di capolavori dalla portata universale. Le opere dell’esordio Rose scarlatte Per il passaggio alla regia cinematografica, Vittorio De Sica sceglie di volgere in immagini due pièce teatrali di grande successo. Il film propriamente dell’esordio è la trasposizione di uno dei

maggiori exploit della scena italiana nei secondi anni Trenta, Due dozzine di rose scarlatte di Aldo De Benedetti, sceneggiato dallo stesso commediografo (De Sica era stato uno degli interpreti principali della commedia con Giuditta Rissone e con Umberto Melnati, con cui era allora in compagnia; la prima aveva avuto luogo anni prima al Teatro Argentina di Roma, esattamente l’11 marzo 1936). Quanto a Maddalena… zero in condotta (1941), era desunto da un testo dell’ungherese Lászlo Kádár. In questo caso il suggerimento di ricavarne un film venne all’attore dal vecchio Genesi, il proprietario della Artisti Associati. L’assunzione di due modelli classici del racconto teatrale e cinematografico degli anni Trenta poteva orientare il neoregista a una sudditanza verso schemi che erano abituali sulle tavole del palcoscenico come nei teatri di posa. In realtà De Sica mette in crisi il cliché delle commediole rosa e di un paesaggio narrativo al quale il marchio ungherese (o falsamente cosmopolita) garantiva una sorta di internazionalizzazione, a uso e consumo del provincialismo dell’Italietta borghese. Il modello, usato anche per comodo, viene però tradotto in qualcosa che è differente dal testo d’avvio. Similmente a ciò, quel tipo di racconto ormai ridotto a stereotipo si ritrova a sua volta trasbordato entro una diversa temperie che il Paese, nel chiudersi degli anni Trenta, cominciava a percepire o magari soltanto a intuire. Sciolti dal bozzolo della futilità dispersiva che allora dominava sugli schermi e a teatro, i modelli narrativi illuminati sia pure momentaneamente con acutezza, prontamente oliati e fluidati così da ripigliare interesse e ritmo, cominciavano ad avanzare pretese di verità ed effusione emotiva, pur se non ancora improntandosi al realismo. Questo vale anche per Rose scarlatte (1940). La storia bizzarra della signora che per errore riceve un mazzo di fiori accompagnati da un biglietto con una firma misteriosa – e che incuriosita per i continui omaggi floreali si induce a cercare un incontro con quell’ignoto ammiratore – sembra fatta apposta per alimentare gli accenti affabulatori della trama. Tanto più che, a causa di un equivoco, è il marito stesso della donna a spedire i bouquet ben consapevole della crisi che la sua unione è in procinto di attraversare. Ed è l’amico di famiglia evidentemente attratto dalla donna e potenzialmente in tiro per tresche e avventure sentimentali, ad assumere in seconda istanza le vesti di “ignoto seduttore”. Quando nel finale la signora si mostra decisa a recarsi all’appuntamento, il marito accenna all’intrigo che il caso aveva alimentato per la leggerezza e l’imprudenza di entrambi. Per una volta, l’adulterio viene evitato; ma esso sarebbe stato possibile. Gli accenti di I bambini ci guardano sono ovviamente sconosciuti al linguaggio e al piano ideativo di questo film, non lo sono invece il gioco esteriore e se si vuole il cinismo: una certa trafelata ansia di scampare al treno di un’esistenza insoddisfacente quantunque sfolgorante di sicurezza e denaro, di giovane bellezza e di svaghi. D’altronde la parola “evasione” è il leitmotiv che regola sin dall’inizio il comportamento della moglie e altrettanto del marito. Ma per lei sottrarsi alla realtà grigia e opprimente vuol dire coltivare un sogno: lo stesso sogno perseguito dalle donne, a cui fiori, lettere e un approccio immaginativo ridestano sensi sopiti dal matrimonio. L’ingegnere Alberto Verani (Vittorio De Sica) confida all’amico Savelli (Umberto Melnati) la sua soddisfazione per l’imminente partenza della moglie Marina (Renée Saint-Cyr) per Cortina d’Ampezzo. In sua assenza, egli potrà dedicarsi alla caccia di signore e signorine senza la concorrenza che si avrebbe in estate in una città piena di uomini e mariti. Mentre la moglie è fuori a fare compere con un’amica di nome Clara (Vivi Gioi), Alberto riceve al telefono l’ordinazione di due dozzine di rose da parte di una sconosciuta, la contessa Arduini (Rubi D’Alma), che l’ha scambiato per il fioraio. Incuriosito dalla voce della donna, ordina le rose ma chiede che gli vengano recapitate a casa. Indi prepara un biglietto galante firmandolo “Mistero” e chiede a Savelli di essere latore alla signora di quell’omaggio. I due lasciano il bouquet nel salotto dell’appartamento e si allontanano per il pranzo. Quando, in anticipo sui tempi stabiliti, Marina rientra in casa e trova quei fiori, pensa che siano destinati a lei. Messo sull’avviso, Alberto continua a spedire alla propria consorte mazzi di rose con biglietti. Anzi, nel corso di una festa, l’avvicina simulando di essere “Mistero” e le dà appuntamento al Foro Romano, sotto l’arco di Tito: è deciso a porre fine al loro legame se lei va a quell’incontro. Marina però si è innamorata attraverso l’immaginazione di “Mistero” e vorrebbe dar corso al suo sentimento. A quel

punto “Mistero” non si fa più vivo. Alberto si apre a lei rivelandole amareggiato di essere al corrente di tutta la vicenda e di conoscere l’uomo che invia quelle rose. Appare tanto contrariato da lasciar supporre che potrebbe sfidare a duello il romantico corteggiatore. Insicura e inquieta, Marina si confida con Savelli: il quale coglie la palla al balzo per comunicarle di essere lui l’ignoto interlocutore. L’uomo è da sempre attratto dalla donna e soffre del suo isolamento sentimentale. Lei però rimane delusa da quella rivelazione importuna e sgradevole. Si reca allora in tutta fretta alla stazione ferroviaria per spiegare ad Alberto, deciso a lasciarla, che tutto era dovuto allo scherzo di un cretino uso a corteggiare in incognito con il nome di “Mistero”: appunto un imbecille come è di fatto ai suoi occhi l’amico del marito. Di fronte a quella confessione, Alberto acconsente a farsi accompagnare dalla donna in quel suo viaggio per riannodare in qualche modo il loro legame. A Savelli che accorre al binario da dove parte il treno, rimprovera di essere stato oggettivamente un traditore con però il merito di avergli aperto gli occhi: serviva infatti una delusione, qualcosa che mandasse a pezzi il sogno romantico dell’amore e del matrimonio. Il treno che parte lascia l’amico triste e solitario, contornato dal buio della stazione.

Il primo impegno di De Sica è umanizzare e definire psicologicamente figure magari calate nella convenzione, ma tali da combaciare senza contrasti con la messa in scena del plot. Anche se Rose scarlatte si decalca su una commedia per così dire leggera, pure si può far discendere da una lignée iscritta a chiare lettere nella tradizione teatrale e narrativa del secondo Ottocento che, procedendo dal teatro verista, in parte anche dai romanzi di Flaubert, di Theodor Fontane e dal vaudeville, per approdare, attraverso quel susseguirsi di personaggi canonici – il marito, la moglie, l’amante agognato o sospettato – addirittura a Pirandello e a Italo Svevo. La maniera di Aldo De Benedetti non è così indistinguibile da cancellare quelle fonti. E se non risponde al vero che il regista scorga tutt’insieme il maggior giro d’orizzonte dei modelli classici anche cinematografici pur nell’accordo che essi tengono con la pièce debenedettiana, la voglia di apparire scintillanti a tutti i costi fa infine i conti con un risultato a suo modo inquietante (giacché quella tentazione di adulterio, sino a quel momento denegata, o impedita dalla realtà, potrebbe infine rispuntare in ogni momento). L’esordio nella maggior responsabilità di direzione artistica di un film in quell’avvio degli anni Quaranta avviene dunque per De Sica sotto il segno di un’inevitabile ambiguità. Il soggetto prescelto dovrebbe agevolare quell’approdo alla regia da parte dell’interprete di successo, ma anche se evidentemente non c’è ancora una luce di verità più intima il giovane autore sa adoperarsi e prodigarsi con attenzione e intelligenza intorno alla propria materia. Il primo ostacolo, quello per così dire professionale e tecnico, viene in parte aggirato grazie alla collaborazione del direttore di produzione Giuseppe Amato alle dirette incombenze della regia (con il che si tacitavano le apprensioni dei finanziatori, Angelo Rizzoli in testa). Ma anche la presenza di uno scenografo come Gastone Medin, di Gino Brosio nelle vesti di arredatore, di interpreti come la giovane Vivi Gioi e ovviamente del duo De Sica-Melnati, dava elementi di garanzia. Quanto alla partecipazione nel ruolo femminile principale della francese Renée Saint-Cyr, conferiva al film una patente europea che gli sottraeva quel tanto di patina piccoloborghese che abbondava in De Benedetti. Così nella impostazione della regia sbiadisce ogni crepuscolare grigiore mentre prendono quota il cinismo e la brillantezza (forse ancora maggiori nell’edizione francese del ’41, con i dialoghi riscritti da Jacques Dilly e doppiati per l’occasione da Jean Davy, Maurice Porterat e ovviamente dalla Saint-Cyr). Addirittura la fotografia di Tommaso Kemenyffy si fa notare per la volontà di un contrasto tra lo scintillio delle luci (nella sala da ballo, nell’appartamento, nel piano finale della stazione) e l’elaborato disegno dei chiaroscuri, che agevola il tratteggio psicologico e fisico dei personaggi, terreno sul quale eccelle il De Sica teatrante e dove subito si afferma con efficacia di esiti il De Sica regista di cinema. Il secondo ostacolo – non del tutto aggirato e risolto – è dato dal peso della teatralità del soggetto quantunque in parte modificato, nel lavoro di riduzione e trattamento, da parte dello stesso De Benedetti (il quale immette in scena personaggi solamente menzionati nella pièce teatrale, ad

esempio la contessa Arduini e l’amica di Marina). Subito corre nelle immagini una musica che sostiene l’azione e soprattutto alimenta il ritmo. Ordinata e guidata pensatamente, essa si accorda con la rapidità di dialoghi gestiti brillantemente soprattutto da Melnati e da De Sica (il primo sornione e con il suo abituale birignao vocale, l’altro più libero da stilizzazioni ma ugualmente ingegnoso). La determinatezza dell’azione è affidata poi al montaggio alternato tra gli interni e gli esterni (si pensi al piano con i due uomini in casa e le signore in auto, fot. 4), come altrettanto alla costruzione tecnica del film, che alcuni ricordano direttamente e prevalentemente gestita da Amato. Tanto più sensibili e attente appaiono in tal senso sia le carrellate in avanti sia quelle all’indietro, a segno di circoscrivere i personaggi o di inscriverli nell’ambiente scenico (e in tal senso molto bella e quasi hollywoodiana è la carrellata laterale che scopre per intero l’ambiente della sala da ballo al cui interno si conclude l’azione). E infine sono decisamente eleganti le inquadrature ben composte degli interpreti in piano medio, contro uno sfondo sfumato e slabbrato in una materia chiaroscurale, figurativamente ben indovinata.

FOT. 4

Non si tratta unicamente di tecnica, o di una ricerca di connessioni tra inquadratura e inquadratura giocate su un montaggio costruito ad esempio su un raccordo di battute. La suggestione delle riprese punta apertamente al significato. Nella scena del ballo notturno, l’inquietudine sentimentale del personaggio femminile viene suggerita dal bianco della pelliccia nella quale lei si raggomitola, e che la contrassegna nel buio e contrasta con le ombre scure del quadro visivo e con la ballerina che interpreta dietro di lei la morte del cigno. La ricerca del parallelo con quest’ultima parrebbe evidente e del resto viene sottolineata dal disporsi delle due figure l’una in piano medio, l’altra sullo sfondo, quasi sovrimpresse (fot. 5). L’estenuata malinconia del personaggio aduggiato dalle tenebre è infine letta nella chiave del matrimonio quale tomba dell’amore, che pare qui una chiave decisiva.

FOT. 5

La questione sul fatto se De Sica avesse relativamente determinato i movimenti di macchina si è venuta rivogando in differenti occasioni. La testimonianza di Luisa Alessandri – allora collaboratrice di Peppino Amato ma aiutoregista di De Sica da I bambini ci guardano in poi – testimonia il contrario. Anche una nota di «Cinema» (10 febbraio 1940) intorno alle riprese del film,

punta su un De Sica concertatore e suggeritore quasi unicamente per gli interpreti: «Si solleva leggero dal divano, va nel campo d’azione, si sostituisce agli attori mostrando loro come debbano muoversi e atteggiarsi mormorando appena la loro battuta». Ci si ordina nella memoria la sequenza conclusiva, con quegli ammicchi curiosi del controllore e del facchino collocati tra i personaggi della moglie e del marito e di fatto inseriti ironicamente nel loro gioco. Collegatamente qualche accenno di satira sociale si coglie qua e là dentro il film: si pensi a quel cartello della festa che invita i ricchi a bere in favore dei poveri. A ogni buon conto, diremmo sicuramente ascrivibile a De Sica la suggestività del duello immaginario (fot. 6), che ha un’aria surreale e clairiana (richiamante il corteo degli uomini in lutto che in Entr’acte [Id., René Clair, 1924] seguono il carro funebre). In quel passaggio della mente di Marina che immagina il duello, i tre “padrini” sulla destra sono ripresi dal basso e di sbieco, e così specularmente gli altri sulla sinistra. Subito dopo il gruppo è inquadrato dall’alto, poi da dietro e davanti: il tutto con un effetto destrutturante e sicuramente onirico, e con colpi d’occhio che possono ricordare alcune sequenze d’assieme in Miracolo a Milano (1951) (quella ad esempio degli idranti dei pompieri che lanciano acqua sui barboni).

FOT. 6

Decisamente affascinante anche il piano dell’explicit: con quel curioso mister “Mistero” (cioè Umberto Melnati) in cilindro e frac ma con un fisico che è tutto tranne quello del seduttore. Per l’intero corso del film l’attore ci si mostra astratto e confuso, felpato e evanescente nei suoi comportamenti. La gag dell’involontario pedinamento di Clara – dalla stazione a casa Verani – è un modello di comica muta e quasi di commedia dell’assurdo, cui l’agilità stilizzata ed elegante dell’interprete concede un godibile risalto. Ma nel finale scopriamo che egli è solo e triste per questa sua condizione: un tantino dandy involto e travolto dal rossore, un altro poco clown malinconico. La camera lo inquadra con sensibilità da dietro, poi lo riprende dal punto di vista del treno in corsa sollevandosi verso l’alto e allontanandosi una volta per tutte da quella storia sul ritmo di una musichetta swing (fot. 7). La commedia finisce così, divertente nelle sue componenti accessorie, pensosa nella sostanza.

FOT. 7

Maddalena… zero in condotta

In senso stretto, Maddalena… zero in condotta dovrebbe essere il remake di una pellicola ungherese del 1936, Magdát Kicsapjá, tratta dall’omonima commedia di László Kádár e diretta da László Vajda, il padre del più noto Ladislao. Ma il film di De Sica non mostra di voler indugiare negli schemi di una trasposizione. Così il precedente cinematografico viene bellamente ignorato o almeno messo tra parentesi. A ogni modo De Sica non doveva conoscerne l’esistenza, giacché mai ne fa menzione in interviste e conversazioni. Perciò il suo film si colloca, con una inusuale vitalità per i tempi, in un ambito di racconto i cui antecedenti sono non già il teatro o il mondo dei telefoni bianchi, quanto invece le commedie di Mario Camerini, certo cinema americano e francese e soprattutto, sotto il riguardo tematico, il filone dei film di ambientazione collegiale (ancorché a rigore le fanciulline in fiore, compagne di Maddalena, frequentino una scuola privata femminile per corrispondenti commerciali e non si ritrovino alloggiate in un convitto). Anche il richiamo da certuni avanzato a una peculiarità che accosterebbe il film a opere come Seconda B (di Goffredo Alessandrini, 1934) e addirittura Ragazze in uniforme (Mädchen in Uniform, di Léontine Sagan, 1931), rivela invece l’estrema libertà di De Sica nel trattare tanto le fonti quanto gli eventuali modelli (compreso il film antecedente). O meglio ancora, la sua capacità di trasportarli di peso – con una invidiabile souplesse – all’interno di un universo di diversa scalarità e immediatezza. Sino però a quale grado egli fosse portato a distanziarsi dagli schemi del cinema del Ventennio – o più semplicemente dei telefoni bianchi – in quel periodo era alquanto difficile da determinare con esattezza. Ma è un fatto che Maddalena tende anch’esso a superare la sciatteria e la mediocrità dell’esemplare filmico tipico di quegli anni (ché tale esso restava a malgrado delle eccezioni costituite dai Blasetti e dai Camerini oltreché da quanti si provarono a dare senso al loro lavoro). Maddalena Lenci (Carla Del Poggio) è una signorinetta che frequenta la classe quarta B dell’istituto privato femminile “Audax”. Una lettera scritta da una sua giovane professoressa, Elisa Malgari (Vera Bergman) e intestata a un signore menzionato in un libro di testo della scuola, viene da lei temerariamente imbucata. Alfredo Hartman (Vittorio De Sica) è il destinatario della missiva: ricco e celibe, vive e lavora a Vienna. La lettera lo incuriosisce, intende incontrare l’ignota scrivente. Così viene a Roma rivolgendosi al cugino, Stefano Armani (Roberto Villa), che cura i suoi affari in Italia. Insieme con lui si presenta all’istituto dove studia Maddalena, per ritrovare la fanciulla che non conosce ma che egli pensa gli abbia scritto. Per caso incontra Elisa e si innamora di lei. L’attrazione è reciproca, perciò Maddalena li fa incontrare nel salotto della sua abitazione alfine di spingerli l’uno nelle braccia dell’altra. L’idillio ha inizio sotto gli occhi esterrefatti del padrone di casa (Guglielmo Barnabò), che Alfredo crede il padre di Elisa mentre invece lo è di Maddalena. La quale a sua volta trova l’anima gemella nel giovane Armani. Sospesa dalle lezioni per aver inviato la lettera e naturalmente bocciata, Maddalena è promossa a pieni voti nella vita dalla direttrice della scuola (Amelia Chellini).

Il primo dato da osservare è che ogni possibile emblema di film d’evasione riesce a essere superato dalla freschezza d’ispirazione che guida la regia. Una freschezza non solamente legata a procedimenti formali – specie la determinazione del ritmo – ma anche alla ricerca di accenti meno declamati e all’opposto sinceri. L’ironia utilizzata nel film non punta tanto su graduazioni caricaturali quanto sul tratteggio di caratteri e psicologie. La Del Poggio che bamboleggia (ad esempio quando si dondola tra un banco e l’altro rispondendo alla direttrice, o quando dopo aver atterrato la studentessa secchiona e spiona rispunta col suo faccino ammiccante tra le gambe delle compagne, fot. 8), lascia affiorare per un attimo il ricordo di Shirley Temple o Deanna Durbin, ma tanta ne è poi la differenza che nega quegli esempi con la franchezza e l’impulsività del suo carattere. Ciò avviene precisamente nel passaggio del personaggio dallo stereotipo dell’alunna di una scuola superiore, magari trattato con abilità descrittiva, verso la schiettezza di un carattere le cui conformazioni lasciano definitivamente alle spalle ogni imitazione. Del resto il linguaggio del film di De Sica tende alla restituzione di prototipi dell’espressione naturale e della veracità dei sentimenti.

FOT. 8

Tutto questo avviene nella maggior parte delle figure intonate con una qualche profondità di tratto (la giovane professoressa, gli innamorati, il padre burbero, il bidello, la direttrice della scuola). Né c’è contrasto rispetto a quei profili di professori stilati in punta di penna; “Lumacone” ad esempio, il docente di chimica, sempre minaccioso o in malafede ma non sino al punto da apparire negativo; la professoressa di geografia, con il vestito a pois e la camicetta a sbuffo, surreale anche nelle sue definizioni («i giorgiani, prototipo della razza bianca, soprattutto gli uomini»), un giraffone che ricorda in qualche punto la professoressa di greco in Amarcord di Fellini (1973); e poi l’insegnante di ginnastica cui Arturo Bragaglia conferisce un bizzarro risalto (fot. 9), giacché è l’esatto contrario del tipo nerboruto e scattante tipico di quegli anni: ossessionato dalle malattie non sa nemmeno eseguire gli esercizi ginnici più elementari (divertente la sua caduta dal “cavallo” in palestra).

FOT. 9

La bravura di De Sica consiste nel mettere in relazione le diverse tipologie del personaggio (il docente maniacale e quello più convenzionale), accostando garbatamente elementi che a prima vista parrebbero in contrasto tra loro e contaminando la commedia con il dramma. Così nelle sue figurine lo stereotipo continua ad avere una certa eco, ma alla fine si trasforma in carattere. Se mai, ove si debba parlare di ascendenze e richiami, sarebbe evocabile il magistero del miglior Camerini. Un largo momento della scena del “vecchio valzer” cantato da De Sica (e ballato in coppia con Vera Bergman), si direbbe un palese omaggio al maestro di Gli uomini, che mascalzoni!. Le immagini del ballo in Maddalena… zero in condotta si infondono da quelle del film di Camerini in cui il giovane De Sica interpretava con la sua meravigliosa versatilità la canzone di Bixio. Ma la citazione e il correlato omaggio non risultano mai a sé stanti, entrando nelle torniture e modalità narrative e insomma nei problemi formali del film. Le ricerche di una spaziatura di racconto perimetrata con nitore di costruzione e con un sostanziale equilibrio che impedisce di rovinare nella farsa, sono in strettissima misura questioni di regia sin dall’inizio. Così ad esempio, l’ingresso in scena della giovane insegnante è appoggiato da un brioso tremulo d’archi, ed è un segno rivelatore di come la vicenda stia per muoversi sul giusto abbrivio. È costei la professoressa di corrispondenza commerciale, la disciplina che darà l’occasione a una delle linee amorose del film. A partire dal piano del suo arrivo, la sottolineatura degli accordi tra i

vari segmenti narrativi incomincia a farsi notare. Trapassando dalla banda del suono e del commento sull’altra del visivo. Ecco allora – dopo l’arrivo in aula di un’alunna straniera che parla con la voce delle dive d’allora, acutamente e tenendosi su toni striduli – il parapiglia ingenerato dalle compagne di classe. Lei, Irasema Dilian, scampanella in quel suo modo strano: «Io sono una privatista», e le altre le danno la replica molleggiando: «Io sono una privatista, io sono una privatista, privatista, privatista, privatista, privatista». Poi l’ondularità del ritmo si smorza, come è di prassi nelle partiture musicali. Una uguale scansione di racconto si ritrova nella presentazione della sala insegnanti: un docente si tira su dalla seggiola per aprire una finestra e “Lumacone” si precipita a richiuderla; quando arriva la professoressa di geografia avviene l’identica scena. Fatti ordinari della scuola messi sotto il filtro dell’ironia. Più incisiva la gag dell’insegnante di ginnastica: «Un due tre, un due tre», stride il professore ammalazzato e racchio, anche se forse, a parte la gracilità e la bruttezza fisica, lo si direbbe un malato immaginario. Quando trangugia il bicarbonato portatogli da un bidello tuttofare, lascia a quest’ultimo il compito di guidare con la voce gli esercizi ginnici delle ragazze. Molte altre gag andrebbero citate: dalla lettera in odore di peccato che trapassa dalle mani della direttrice sino a quelle dei professori («danno, disdoro e nocumento alla scuola», tuona uno di loro), al piano antecedente con il recapito di quella stessa missiva all’ufficio commerciale del destinatario – e qui in articolazione tripartita la lettera viene consegnata al più anziano dei titolari della ditta Hartman, di lì al figlio e indi al nipote (il fatto è che tutti portano lo stesso nome e tutti vengono interpretati da un Vittorio De Sica uno e trino, fot. 10).

FOT. 10

Questo musicale e geometrico progredire degli accordi trova radice nella natura del regista-attore e nei suoi precedenti teatrali. L’attenzione per una corposa coloritura delle voci rivela una cura formale che si incarna nel film in una sorta di dinamica a contrasto tra i caratteri e i segmenti narrativi, in un trascolorare e armonizzarsi dei movimenti e dei gesti mai spinti sino ad alcuna durezza. Nella frase visiva di De Sica si apre infatti un continuo gioco di rimandi e di echi che fanno perno sul lavoro delle riprese e allo stesso tempo sul montaggio. Quest’ultimo è agilissimamente costruito sulla connessione interna delle azioni e con più evidenza sulla successione alternata dei differenti piani: un diagramma visivo spicciolabile agli occhi degli spettatori specialmente nelle sequenze dialogiche tra De Sica e la Bergman da un lato, Roberto Villa e Carla Del Poggio dall’altro. Tale è il punto cruciale di un blocco diegetico che nel momento del prefinale si intorciglia in un quiproquò da commedia degli equivoci che però guidi allo scioglimento della trama. Ciò infine nel senso del ritrovamento di una verità psicologica e sentimentale che è il punto d’approdo dell’azione (la stessa figura di Maddalena subisce un’evoluzione da un momento bizzoso e adolescenziale sino alla conquista di una maturità solidale e umana: un’evoluzione che se non la redime dalla severità della scuola – tre in chimica, due in tedesco, quattro in storia e appunto zero in condotta – la rende matura nella vita). Il fatto che nel film abbia luogo un ripetuto scambio di persone come in certe pochade ottocentesche non condiziona negativamente l’espressione dei sentimenti. L’intrigo si scioglie infatti da ogni convenzionalità esattamente nel progredire del racconto. Questo sino allo scatto di velocità delle sequenze finali, dove l’accelerazione del ritmo si porta sino a zone di evanescenza (si pensi al turbinio delle coppie amorose sotto gli occhi di un padrone di casa attonito e frastornato, quantunque non sino al punto da perdere il senso della realtà). L’impegno di De Sica è manovrare con polso leggero le dinamiche del ritmo ma anche la recitazione, ciò a partire dal timbro e dall’inflessione delle voci. Queste svariano dalla conformità ai consueti moduli professionali sino a una dizione spontanea (soprattutto in Carla Del Poggio e nel giovane Roberto Villa), giungendo a vere e proprie coloriture dialettali (il vecchio bidello impersonato da Giuseppe Varni è curiosamente doppiato da un Aldo Fabrizi sbuffettante ed estroverso nei suoi bei toni andanti). D’altronde sul set era la parte interpretativa a venir seguita con puntiglio maggiore. De Sica non voleva affatto rinunziare a una precisione che risultasse gradevole e ariosa. Le battute calibrate di Guglielmo Barnabò, di Amelia Chellini e in genere degli attori professionisti si armonizzano con quelle screziate e sciolte degli attori giovani e insieme delle comparse. In una tale concertazione le connessioni di senso ottenute sul piano delle voci scavano anch’esse nella polpa dei sentimenti. Nella stessa ottica la liquidazione definitiva dello stereotipo vocale dei personaggi femminili avviene con la ragazzetta interpretata dalla Dilian, la quale parla come le dive del tempo ma, giacché punta sull’autoironia, le cancella e vanifica in un sol tratto. Per molti versi il superamento della commedia raffazzonata e fittiziamente cosmopolita non poteva essere più decisivo. De Sica non lo dà a vedere e forse neppure se ne accorge, ma contribuisce anche in questo caso a far voltar pagina al cinema italiano. C’è del resto in Maddalena… zero in condotta una breve scena che potremmo avvicinare o accorpare agli schemi di un vecchio sentimentalismo romanzesco, ma che invece lascia presagire il nuovo. Allorché Maddalena presenta Hartman alla sua giovane insegnante con un nome inventato lì per lì e poi li lascia soli perché essi facciano conoscenza e magari qualcosa di più, una serie di piani medi in campo e controcampo mostra i due intenti alla conversazione (fot. 11). «Io vivo molto in campagna», dichiara lui un po’ bubbolone aggiungendo di coltivare i peperoni. «Si vede subito che siete un provinciale», replica lei. Poi di fronte al sobbalzo dell’interlocutore: «Ho detto così perché qui gli uomini sono freddi, aridi, positivi. Vivono la vera vita. Non sanno vivere nel sogno».

FOT. 11

Le parole della giovane professoressa tradiscono probabilmente una qualche frequentazione dei testi e dei concetti della modernità. L’uomo che vive a Vienna, in uno dei centri di questa contemporaneità temuta e agognata, precisa invece che i sogni sono fatti per divenire realtà. E di fronte all’obiezione che la realtà è comunque sempre meno bella del sogno, risponde che all’opposto questa riesce a volte a essere «infinitamente più bella del sogno». Indubitabilmente il copione segue le tracce sentimentali del film di impianto scolasticosentimentale. Non sarebbe nient’affatto arbitrario leggervi una sorta di anticipata affermazione di una visione poetica che si incardina nel fantastico ma altrettanto nella realtà (e di scorgervi in sovrappiù un’eco di quella poetica surreale che giusto in quel torno d’anni Zavattini avrebbe esaltato nelle pagine immortali di Totò il buono). Teresa Venerdì Anche il film successivo segue le modalità tematiche e narrative dei film sui collegi e sulle adolescenze femminili. Stavolta però le jeunes filles en fleur che catturano le corde amorose di De Sica, avviato a varcare la soglia dei quarant’anni, sono le fanciulle di un orfanotrofio. Accanto a esse compaiono in piena evidenza bimbe più piccole, vero e proprio coretto che occupa una bella porzione di schermo. Il patetico fa insomma la sua apparizione nel cinema del nostro, misurandosi sul divario tra ricchezza e indigenza, tra la fatuità anche accattivante dei ricchi e la gentile e scomoda verità dei poveri. Il film desta insomma sensazioni ed emozioni attraverso la consonanza di elementi tra loro difformi, ma non in contrapposizione. Ciò in una connessione tra racconto e ritmo indagata sia nella particolare messa in scena, sia per mezzo del montaggio. Dal plot di Maddalena… zero in condotta scivolano qui dentro elementi di somiglianza data la comune eco ispirativa: l’universo adolescenziale depositario dei sentimenti più puri, e poi la direttrice severa ma buona, la compagna infingarda e spiona, le sorveglianti montate e acchittate zitellescamente, persino lo stratagemma della lettera che dovrebbe sospingere la narrazione verso esiti drammatici e che nondimeno ne accelera la soluzione. Si ricrea anche la rivalità tra il protagonista e un suo amico, senza tuttavia arrivare al duettante conflitto inscenantesi tra De Sica e Villa nel film precedente. Anzi qui De Sica è il consigliere amoroso di un tizio ultraimbranato quanti altri mai. Ma è soprattutto il catalogo dei temperamenti femminili a intrecciare l’articolazione tra reiette e possidenti annunciata in Maddalena… zero in condotta che poi ritornerà in Un garibaldino al convento. A un certo momento la povera (Adriana Benetti) e la ricca (Irasema Dilian) sono ambedue scambiate per servitrici. Appartengono dunque anch’esse a quell’intrecciato gioco di equivoci che è uno dei caratteri narrativi del primo De Sica. Viene persino riproposto il particolare di Guglielmo Barnabò che assiste d’improvviso in casa propria agli ardimenti seduttivi di uno sconosciuto zerbinotto. Ma se in Maddalena… zero in condotta il bacio del protagonista era dato alla giovane insegnante che l’amoroso di turno riteneva la figlia del maturo signore, in Teresa Venerdì si tratta della figlia vera. L’estro registico si affida

insomma alla girandola ammiccante degli equivoci, come avveniva del resto in quel teatro brillante che De Sica aveva praticato con successo. Proprio per un bacio carpito a una ereditiera scambiata per la cameriera della villa (fot. 12), l’ispettore sanitario che il regista-attore impersona, un tipettino gentile nondimeno calamitato dalla fregola degli amori ancillari, si vede costretto a impegnarsi sentimentalmente con la figliuola del nababbo (cui le belle rotondità di Barnabò offrono un cordiale risalto). Ovvero a fidanzarsi con una «stupida bamboletta imbalsamata», «figlia a un volgare materasso», per dirla con le parole spicciole e aggressive della canzonettista Loletta Prima, una popolana romana datasi all’arte, interpretata da un’Anna Magnani pimpante di plebea protervia.

FOT. 12

Come Maddalena, Teresa Venerdì è una fanciulletta in boccio con aspetti ancora infantili. Si gingilla anche lei in pose bambinesche (vedi quando nell’enfasi della recitazione si pencola a un trave). Segno forse del persistere di una irresolutezza nella definizione dei comportamenti che verrà decisamente superata in Un garibaldino al convento. Ma segno anche della ricerca di una maggiore complessità di modi, non facili da raggiungere con interpreti al loro esordio. Un giovane medico, Pietro Vignali (Vittorio De Sica), specializzato in malattie di bambini, accetta il posto di ispettore sanitario all’orfanatrofio femminile di Santa Chiara. È benvoluto da tutti, in maniera particolare da parte di una ragazza che vorrebbe dedicarsi al teatro, tanto che recita anche la scena del balcone da Romeo e Giulietta. Si tratta di una trovatella chiamata Teresa Venerdì (Adriana Benetti), maltrattata un po’ da tutti in collegio e costretta a lavori umilianti. Sensibile e attento sul piano professionale, Pietro ha una vita privata disordinata e si lascia trascinare in un largo vortice di tresche amorose: con una fiera e sanguigna canzonettista, Loletta Prima (Anna Magnani) ma anche con la figlia di un materassaio arricchito (Guglielmo Barnabò), una sciocchina di nome Lilli (Irasema Dilian) curiosamente pungolata dalla fissa delle parole in rima. Scavezzacollo e spendaccione, il medico è inseguito perennemente da una torma di creditori, soltanto a malapena difeso dal fedele servitore Antonio (Virgilio Riento). Teresa conquista il medico con la sua grazia e la sua pulizia interiore. Gli fa mettere giudizio e di fatto lo redime. Finge con Loletta di essere la sorella di Pietro convincendola che solo il matrimonio con la materassaia lo potrà salvare dalla rovina. A Lilli invece dice la verità: che lui la potrebbe sposare solo per i soldi. Alla fine, delle tre pretendenti rimane lei. Il giovane medico allora spedisce un telegramma al padre: «Urgono quarantamila, in compenso accetto posto assistente ospedale Teramo. Mi sposo». Tutto è bene quel che finisce bene.

Il soggetto di Teresa Venerdì è tratto da un romanzo di successo, Péntek Rézi di Rezsö Török, su cui Lászlò Vajda aveva esemplato un film in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia del 1938 (quella di Il porto delle nebbie [Quai des brumes] di Marcel Carné e di Olimpia [Olympia] di Leni Riefenstahl, conclusasi come si ricorda in un’atmosfera di polemiche e tempestose recriminazioni). Török non era certo uno degli autori che potessero lasciare un segno nella letteratura magiara, tuttavia il suo romanzo ebbe l’effetto di una buona accoglienza presso il più vasto pubblico, non soltanto ungherese. Si era insomma in un periodo di infatuazioni scombinate, cui anche De Sica si era dovuto conformare almeno un paio di volte, tuttavia affermando la propria autonomia. Del film di Vajda l’autore di Teresa Venerdì non fa mai menzione. Ma in un saggio recente dedicato alla cosiddetta commedia all’ungherese nel cinema italiano, Francesco Bolzoni rivela come alcune sequenze dei due film appaiano quasi uguali: stessa diegesi, stesse battute e forti affinità persino nei

movimenti di macchina. Eppure, conclude Bolzoni, Teresa Venerdì«è film più elegante nella scrittura, più indovinato nelle scelte degli interpreti, più consistente nel disegno dei personaggi». E proprio mentre sembra servirsene, accelera il distacco dalla commedia all’ungherese. La sceneggiatura vede al lavoro una squadra formata dal commediografo bolognese Gherardo Gherardi, da Margherita Maglione, dallo stesso De Sica. Ma partecipano (pur non accreditati) Franco Riganti che, oltre a essere l’amministratore delegato, segue specificamente la parte dell’adattamento e soprattutto Cesare Zavattini e Aldo De Benedetti (il quale non poteva apporre la propria firma nei titoli di testa a motivo delle leggi razziali). Zavattini e De Benedetti vennero ingaggiati per un lavoro di revisione del testo di nascosto dagli altri sceneggiatori (ma a un certo momento Amidei riferì il fatto a Gherardi). L’intervento di “Za” fu perorato da De Sica. Non si hanno notizie sulle integrazioni e le modifiche apportate, ma esse dovettero temperare e forse correggere una linea troppo andante e facile. E se l’apporto di Zavattini poteva portare intensità di sostanza, quello di De Benedetti rivelava l’attenzione di De Sica per una conduzione brillante e vivace del dialogo (già in una precisa prefigurazione della sua natura espressiva). In ogni modo, dopo che aveva lavorato nel corso della mattinata con gli sceneggiatori ufficiali, De Sica si incontrava di nascosto con Zavattini per rivedere e riscrivere una dopo l’altra tutte le scene. Per queste sue prestazioni, che segnano l’inizio della sua collaborazione con Vittorio De Sica, “Za” si vide elargire dalla produzione del film la bella cifra di cinquemila lire (alto anche il compenso per De Benedetti, quasi il doppio rispetto a Maddalena… zero in condotta). Presenta aspetti interessanti anche la selezione degli interpreti. Ancora una volta De Sica attinge al serbatoio degli attori di solida esperienza, da Virgilio Riento a Barnabò ad Arturo Bragaglia, da Elvira Betrone a Giuditta Rissone (all’epoca moglie di De Sica nonché compagna di lavoro), entrambe specializzate al cinema in ruoli di educatrici (la direttrice dell’orfanotrofio, l’istitutrice Anna, e insieme con loro l’istitutrice Caterina, la maestra Ricci: bellissima galleria pedagogica già in quei nomi e cognomi). Il colpo di genio è però nella sottrazione di Anna Magnani al cliché della comica di quart’ordine. Una “guitta”, come allora qualcuno la reputava, alla quale le qualità istintive e l’estroversione dialettale erigevano ostacoli insormontabili per una vera affermazione. Utilizzata finalmente in un ruolo all’altezza del suo talento, la grandissima attrice indossò le vesti di «una sciantosa dal piglio plebeo e scatenato» (Ugo Pirro, Celluloide, Rizzoli, Milano, 1983), richiamando l’attenzione dei giovani critici della rivista «Cinema» i quali la segnalarono a Visconti per il ruolo di Giovanna Bragana in Ossessione (Luchino Visconti, 1943). Il merito di averla rivelata per il grande schermo deve essere attribuito quindi a Vittorio De Sica, prima ancora che a Rossellini. Ma è la scelta di Adriana Benetti, definita da De Sica un «autentico valore interpretativo», vista per la prima volta in una foto e indi incontrata al Centro Sperimentale di Cinematografia, a tradire l’inclinazione per volti e figure in cui, al di là dei toni finti e delle stesse pertinenze di mestiere, emergesse uno sprazzo di verità. Il regista di Teresa Venerdì – è stato osservato – sembra mosso da una misurata ricerca di autenticità: una ricerca ottenuta con il prudente dosaggio tra professionisti e giovani interpreti ed estensivamente con le comparse e le bambine (fot. 13). Il punto d’equilibrio viene ovviamente fornito dallo stesso De Sica nella parte del medico: diretta incursione dell’autore nei panni del personaggio su cui s’impernia l’azione; raccordo tra le zone di naturalezza e quelle di tono più sostenuto, che il nostro svolge in un missaggio di passaggi e graduazioni, anche sul livello vocale, che fanno della sua performance un modello di bravura saporosa e al contempo discreta.

FOT. 13

Ancor più che in Maddalena… zero in condotta, si profila infatti un modulo di vocalità che si avvale di molte gemmature dialettali, meridionali e romane. Ciò nei personaggi del cameriere Perticone (un Virgilio Riento sapidamente ironico), della guitta d’avanspettacolo (un’espressionistica Magnani, impetuosa e aggressiva nel canto: «Qui nel cuor, qui nel cuor… qui nel sen, qui nel sen…», fot. 14) e anche della Teresa di Adriana Benetti, cui permangono nelle trame delicate della gola certune impronte di ruvida e prosaica ferraresità, ben adatta al personaggio di un’orfana figlia di ignoti allevata da due artisti. Al centro delle gamme interpretative del film, si situano invece gli interpreti professionisti.

FOT. 14

E al punto opposto, in un godibilissimo concerto, la vocetta radiante di Irasema Dilian (Lilli), in lei autentica date le sue origini straniere: un «Cherubino dalla tromba d’argento», così la definisce il giovane medico quando la incontra nel giardino nelle vesti di una comunissima “servante” (che appunto, secondo la letteratura del caso, lui prende a corteggiare e che poi palpeggia e bacia). La voce sporca e insicura della Benetti, la quale si mangia anche le sillabe, entra armonicamente nel contrappunto sia delle inflessioni spumeggianti della Dilian, ereditiera inseguita dalla maledizione della rima, sia del gioco verbale gestito dagli interpreti più consumati. Ancora una volta De Sica mira a scavare nei sentimenti calandoli entro un intreccio narrativo e vocale concertato al meglio. Un tale contemperamento di toni è naturalmente assoggettato al passo della narrazione filmica. Non soltanto il serio viene a connettersi col faceto e (per dirla con le parole del nostro dottore) «l’amor sacro a interfoliarsi con l’amor profano». Anche il tono sentimentale e quello patetico dell’orfanità si allineano ai moduli della commedia e persino a un andamento da operina buffa le cui rilevazioni si allargano alla surrealtà (vedi i tre creditori che irrompono di tanto in tanto nell’abitazione del medico per reclamare il pagamento dei debiti, fot. 15). I punti salienti del racconto appaiono maggiormente evidenti là dove l’attenzione per la realtà, tanto sentimentale che sociale, sa incastonarsi nelle giravoltole di una commedia che raggiunge il culmine nell’incontro tra le tre donne: la povera e diseredatissima Teresa Venerdì, già segnata da quel cognome così visibilmente feriale, la svampita Lilli Passalacqua ereditiera suo malgrado, e la tagliente Loletta Prima. È qui che il racconto si fa spassoso e salace, trascinato assai bene dagli interpreti e da una regia che dipana i

caratteri accostandoli tra loro. Così quel che si direbbe prossimo alla futilità (ad esempio la famiglia dei Passalacqua, ma in genere tutto ciò che è esterno all’orfanotrofio) viene recuperato all’ispirazione di fondo e sciolto definitivamente dai modelli banali cui sembrava appartenere in partenza. E quanto è rivestito di serietà acquista diritto di cittadinanza e di visione nella congiunzione con ciò che il domestico del nostro amoroso definisce a un dato momento la «finizione del mondo».

FOT. 15

De Sica descrive i particolari e monta gli intermezzi con attento dosaggio, pur sempre puntando all’insieme. Guardando in un certo senso a un nesso unitario al quale possano ricondursi anche la location e le riprese, ma soprattutto il montaggio. La ricostruzione in interni dell’orfanotrofio effettuata a Cinecittà sembrerebbe dovuta alla necessità di avere un ambiente che potesse essere filmato anche nei dettagli (non solo sfondo, ma anche spazio vissuto). Ugualmente le riprese risultano molto più accurate che in passato: si vedano le combinazioni studiate tra campo e controcampo, e si osservi il taglio delle inquadrature ottenuto con una macchina da presa che movendo da un’angolazione larga avvicina gli attori e poi gli oggetti fondendoli nel processo narrativo. Conoscere la verità – sia pure quella dell’animo di una ragazzina e estensivamente del reale – significa fissare il movimento di quanto si addensa nelle immagini e di lì poi tradurlo in combinazioni di senso che lo scampino alla casualità. Tale è in Teresa Venerdì il portato congiunto di riprese e montaggio, che la regia desichiana svolge ponendo in relazione l’essenziale con il dettaglio ma anche costruendo una linea di racconto che rovescia continuamente l’azione di un piano all’interno del piano successivo. Di qui anche un montaggio parallelo e in qualche caso analogico, giostrato e combinato sugli accostamenti palesi ma anche sulle allusioni e i suggerimenti (come ha osservato Jean A. Gili) e insomma su lenti e impercettibili, ancorché non del tutto decisivi, spostamenti del senso derivato verso un senso che invece inclina a una diversa poetica e necessità. Un garibaldino al convento Prima ancora che Teresa Venerdì raggiunga le sale (la prima proiezione risale al dicembre 1941), De Sica inizia a girare Un garibaldino al convento. La proposta gli giunge da Renato Angiolillo, che aveva steso il soggetto (poi trattato con Giuseppe Zucca) e che assume l’onere della direzione generale nell’organizzazione delle riprese. De Sica segue come al solito molto da vicino i lavori della sceneggiatura, lavorando fianco a fianco con Maglione, Franci, Vecchietti e Zucca. E opta ancora una volta per interpreti giovani (insieme con Carla Del Poggio, c’erano Leonardo Cortese e Maria Mercader in un ruolo di aristocratica che doveva essere in un primo momento affidato a Elsa De Giorgi, fot. 16), riservando a se stesso il cameo della figurina di Nino Bixio e cancellandosi dai titoli di testa per non disperdere la sorpresa degli spettatori quando l’avessero riconosciuto in vesti per lui tanto inusitate, ma anche forse per sottolineare il suo ruolo di regista.

FOT. 16

Un regista che è decisamente attento a potenziare le proprie possibilità espressive tramite la cinepresa e il montaggio ma anche sensibile alla parte dell’arredamento e dei costumi, e in generale della scenografia. Il colore e il ritmo sono però ancora una volta cercati soprattutto nel coordinamento e nella guida degli interpreti, tanto i protagonisti quanto i comprimari e le comparse. De Sica insomma costruisce l’unità del film perimetrandola sulla centralità e l’armonia della recitazione. Perciò sottopone gli attori a molte prove e si cimenta lui medesimo nei vari ruoli, anche in quelli femminili. Dopo quarant’anni due amiche tornano a incontrarsi. Una delle due, Caterina Bellelli (Gilda Marchiò), racconta alle proprie nipoti la storia di quella sua amicizia. Un lungo flashback ci porta agli albori del Risorgimento quando la giovane Caterinetta (Carla Del Poggio), figlia di commercianti di rango non elevato, e Mariella Dominiani (Maria Mercader), figlia di marchesi, perciò stesso in contrasto tra loro, si ritrovano insieme in un collegio femminile tenuto da monache. Un giorno un garibaldino ferito (Leonardo Cortese) si rifugia nella capanna del vecchio giardiniere Tiepolo. Questi (Fausto Guerzoni) è un fervente patriota e lo assiste, ma Caterinetta li scopre e pretende di aiutarli. Priva com’è di esperienza, deve chiedere aiuto a Mariella la quale riconosce nel garibaldino il proprio fidanzato che non vedeva da tempo. I borbonici sono intanto sulle tracce del giovane. Attaccano il convento incontrando la resistenza delle due ragazze e di Tiepolo. Quando la situazione sta per precipitare, Caterinetta che è di tutti la più ardimentosa si impossessa di un cavallo e raggiunge al galoppo l’accampamento dei garibaldini, dove incontra Nino Bixio (Vittorio De Sica) al quale chiede di intervenire. Il ferito sarà posto in salvo ma morirà ugualmente. Quando dopo tanti anni le due compagne si ritrovano, Caterinetta conferma che Mariella è rimasta fedele alla memoria del suo infelice innamorato.

Ovviamente saltano agli occhi i legami con i film antecedenti. Rintracciabili intanto nella definizione di un film ad ambientazione collegiale, ancorché in questo caso si tratti di un convento. La madre superiora disegnata da Elvira Betrone è apertamente ritagliata nella stessa stoffa della direttrice burbera vista in Maddalena… zero in condotta e in Teresa Venerdì. Del pari i ritratti delle giovani educande ricordano la mossa varietà delle silhouette ricorrenti negli altri film. C’è addirittura una variante del documento intercettato dai superiori in Maddalena… zero in condotta: ma se lì era questione di una lettera, qui si tratta di un libro proibito anzi proibitissimo – Le ultime lettere di Jacopo Ortis – altamente esecrato dalle monache alla pari di un incunabolo satanico. E allo stesso modo di Maddalena… zero in condotta, la testarda e volubile protagonista di Un garibaldino al convento assumerà generosamente di fronte ai propri superiori la responsabilità dell’infrazione contestata per salvare l’interlocutrice di cui vuol mantenere amicizia e fiducia (in Maddalena… zero in condotta l’ingenua e timida professoressa, in Un garibaldino al convento la compagna di convitto). Ma, se alcuni passaggi tematici tirano in ballo le opere antecedenti, rimangono nondimeno escluse ogni inchiostratura e copiatura esteriore (meno che meno dei telefoni bianchi o delle commedie all’ungherese). Questo avviene grazie alla venturosa congiunzione tra la commedia e il film di costume, tra il plot sentimentale e l’opera a sfondo risorgimentale, in breve tra l’afflato partecipativo e una caratterizzazione storica filtrata dalla nostalgia ma incisa nella natura e nella vita circostanti.

L’altro tratto al servizio del film è l’aperta inclinazione a una struttura meglio mirata. In Un garibaldino al convento, De Sica traspone l’attitudine al montaggio in segmenti narrativi graduati. La parte più appassionante si incastona sotto forma di flashback negli snodi di una cornice che ha il compito di cerchiare l’azione principale. Come dire che il passato ottocentesco è visto con il filtro della nostalgia dell’oggi verso qualcosa che si è totalmente perduto (e che viene però rievocato anche con un senso di letizia). Un modo certo non inusuale nelle storie di questo genere ma qui da astringere alla natura sentimentale del regista. De Sica sicuramente si omologa su matrici tradizionali (già da attore aveva preso parte a film ambientati in un passato ricostruito con la memoria, si pensi solo a Napoli d’altri tempi di Amleto Palermi, 1937). Adesso però, in Un garibaldino al convento, la distanza carica la vicenda di significati più intimi. Così per nulla incidentalmente, ogni volta che l’anziana Caterina riprende i fili del racconto, la cinepresa acconcia un movimento avanzante, su lei quasi per entrare nel suo mondo (e il raccordo del montaggio fa sorgere i piani successivi dalle linee in dissolvenza del volto). Il linguaggio insomma, per semplice che sia, si riconnette all’ordine dei referenti testuali. È qualcosa che può avere in un certo modo a che fare con una dimensione gozzaniana, ben illustrata in quel mondo di fanciulle in fiore. E infatti nel film di De Sica ritroviamo gli antichi giardini arcivescovili, le magnolie, le educande, gli afrori e i sentori crepuscolari tipici di Guido Gozzano. Con anche però la percezione malinconica dei trascorsi giovanili. Un universo particolare, che la regia di De Sica punteggia con agilità superando ogni impostazione letteraria grazie alla forza dei sentimenti e all’incisività dei dettagli: o come ben osservava Giuseppe De Santis nel suo articolo per «Cinema», grazie all’impellenza di una «più moderna concezione poetica». La stessa ironia di cui il film fa mostra non ha niente del riporto o della citazione. Essa appare invece come qualcosa di salutare che tempera gli eccessi del romanzesco e della retorica, mettendo per un verso alla berlina l’universo di parrucconi abitanti un Ottocento polveroso e stantio, e per l’altro stringendo ai fianchi ogni tentazione di prosopopea. Con simili modalità, Un garibaldino al convento possiede un colore inconfrontabile con il fasullo cinema eroico prediletto del fascismo. Anzi, è un film controcorrente inammissibile alla conclamata altisonanza del cinema storico d’allora e, per certi aspetti, del cinema illustrativo del Risorgimento. Il neoarricchito don Giacinto Bellelli, che ha l’ardire di presentarsi a una rancida aristocratica lamentando l’errore di una missiva inviata a lei diciott’anni prima, recando in dono tre tomi di versi da lui scritti in onore della divina Galatea, risulta essere un medaglione d’epoca lepidissimo e convincente. Il sorriso di De Sica spazzola via la polvere dagli abiti polverosi di questi soggetti in pantofole e palandrana, raddobbandone le figure con linee almeno verosimili. Da ciò quei suoi personaggi colti in una loro «più vera essenza, non più transitoria non più riempitiva ma inappellabile e concreta» (così ancora De Santis). Oltre a ciò, la declinazione ironica che s’innesta sui caratteri investe anche le situazioni. Ecco dunque la recita che va a sfinirsi nell’assoluto disinteresse degli astanti, anch’essa condotta con un acuto spirito di osservazione; ecco il brindisi proposto in altezza di voce («Levo il bicchiere alla salute di Vostra Eccellenza»), del tutto ignorato dal destinatario viceversa concentrato a divorare il pasto e ottuso alla stregua di un armadio. Onde in progressione ritmica: «Alla salute di Vostra Eccellenza… Brindo alla vostra salute, Eccellenza!» (fot. 17). E quello sempre sordo con la testa giù china sopra il piatto.

FOT. 17

È in quel frattempo che, inattesi, fanno l’ingresso in sala un niveo porcellino d’India, un esercito di galline e anatre, un maialino. In tutto quel bailamme un frutto è lanciato in fronte all’oratore, come nelle comiche mute. Perciò una dama in crinolina soccombe in deliquio. La confusione che ne promana crea le premesse a una forma di racconto eroico-comico, eccettuato da ogni infiltrazione retorica, anzi in parte irriverente e libertario. Lo stesso avviene quando nel convento i merli dell’ortolano Tiepolo intonano l’inno di Mameli. Insomma, De Sica ha assunto le giuste distanze dall’italianissima proverbiosa fragorosità con cui il tema risorgimentale veniva generalmente trattato al cinema. La sua regia «lieve, patetica, spiritosa», come ben argomenta Giuseppe De Santis, è assai più prossima al mondo dei sentimenti che non a quello della propaganda e finzione romanzesca. Per tali ragioni suor Ciabatta viene fatta camminare con un comico strascichio sulle piante dei piedi (che ben s’intonano ai suoni gutturali che emette). Ugualmente Caterinetta sosta su un terrazzino per spiare Mariella, l’odiata rivale aristocratica, e adocchiare i cacciatori, quasi rintanata in piccionaia (tant’è che i piccioni le volano in testa e sulle spalle). È insomma lei quel personaggio piperino – soave come un angelo, notava il critico Calcaterra, e selvaggio come una cinghialessa, meglio una cerbiatta – che accorda spirito all’azione. Avvicinandosi in tal modo alla piena direzione musicale di De Sica. Va da sé che le intavolature ritmiche del film non riguardino le sole sequenze in cui s’eserciti l’ironia. Le simmetrie del visivo non concernono infatti unicamente la commedia, con la giusta distinzione di gesti e battute. Viceversa la più ricca compaginazione investe la parte sentimentale. Suggestivo e bello è ad esempio il piano nel quale i gentiluomini a cavallo discendono giù per un declivio erboso incontrando una carrozza (fot. 18). Il ricordo dei macchiaioli si ritrova in dialogo con il commento musicale di Renzo Rossellini e più intimamente con la direzione di De Sica (e lo stesso accade con quegli interni cesellati e miniati sulla pittura di Silvestro Lega).

FOT. 18

Proprio Renzo Rossellini fece apparire su «Cinema» un suo intervento che guidava l’attenzione dei critici sulle qualità ritmico-musicali delle riprese. In più, come accadeva a quel René Clair indicato a referente del Garibaldino (in uno con La kermesse eroica [La kermesse héroïque, 1935] di Jacques Feyder), il dinamismo delle riprese va ad astrarsi in punteggiature emozionali appena appena

accennate e quasi musicate su una punta di spillo. Il che si direbbe accendersi nel piano notturno delle monache e delle educande che spaventate dai garibaldini rientrano rapide e silenti in convento (presenze eteree e lucenti che anticipano in qualche modo il movimento dei pellegrini nel finale di La porta del cielo). De Sica unisce insomma la veridicità della storia anche la più ufficiale con le emozioni del quotidiano. Nell’incontro con Nino Bixio, che lui stesso impersona, la vivacità adolescenziale di Caterinetta si salda con la stilizzata e allo stesso tempo mossa gestualità dell’attore consumato, che sa di giocare un ruolo attrattivo (fot. 19). Ugualmente l’irruenza giovanile del garibaldino ricoverato nel convento («Conte Franco Amidei, tenente portabandiera agli ordini del generale Giuseppe Garibaldi») viene ritratta e pennellata a fianco dell’ufficiale borbonico che si esprime in stretto dialetto napoletano. Il tutto a significare un lavoro di tassello e rifrazione dei vari spezzoni della realtà in una densità quantitativa delle lingue ma anche delle persone e degli ambienti sociali.

FOT. 19

Sul motivo collegiale s’innesta infatti il tema romantico e quello risorgimentale, saldamente congiunti. Del resto il Risorgimento è sentito nel suo afflato sentimentale e umano. Leonardo Cortese, il garibaldino, ci compare bello e eroico; Maria Mercader, la sua promessa fidanzata, trepida e intensa. E anche la vivacità di Carla Del Poggio sa accordarsi alla naturalezza del giardiniere Tiepolo (un affabile Fausto Guerzoni), con cui ha in comune l’amore per gli animali. Le carrellate avanzanti sul garibaldino ferito (fot. 20) si svolgono con un fervente trasporto che offre bene il senso della passione amorosa. Ma quando il tono sale troppo, arriva opportunamente l’ironia o se si vuole il richiamo della realtà. In fondo Caterinetta e Tiepolo temperano con la loro presenza i pericoli di eccesso di sentimentalità patriottica. A riprova di ciò la parte del sub-plot è affidato alla compagine dei caratteristi, sovente tralignante in buffoneria, e affianca il tema amoroso e risorgimentale senza mai sopravanzarlo.

FOT. 20

Un clima da operina buffa corre infine in parallelo alla parte di prima facciata, mossa e sentimentale. La regia dà colore all’affettività e alle emozioni, ma se queste troppo crescono può ripiegare nel sorriso. Così il film si conclude con l’empito tutto romantico di una vita passata nel ricordo di un amore unico e assoluto, quello di Mariella per lo sfortunato garibaldino. Nonostante

ciò, il fraseggio narrativo di De Sica non si irrigidisce in luci troppo marcate. E alla fine risolve di contenere le passioni. Per questo, nell’explicit quel crescere del racconto alla volta del pensiero di un’esistenza accoratamente votata al culto di un amore che non c’è stato se non nei sentimenti e nel senso ideale, torna a lambire il piano del quotidiano. Al momento conclusivo, le due anziane amiche ricevono la visita di una compagna degli anni di convento, linguacciuta e pettegola come allora. Il passato fa ritorno nel suo corso normale. Il giro sapido di una battuta scivola come goccia d’angostura sull’Ottocento trasparente e azzurro dei ricordi. Nella partitura musicale del film, dopo gli andanti sospirosi, torna l’allegro con brio dell’intelligenza desichiana, meglio della sua ben mirata conduzione del plot. Vale del resto ricordare che De Sica sarebbe voluto divenire un musicista: non però un compositore, quanto invece un direttore, un esecutore. È la trama spazio-temporale del film a dare sfogo a questo suo desiderio. Verso un nuovo cinema: I bambini ci guardano I bambini ci guardano è il primo grande lavoro della carriera artistica di Vittorio De Sica. Un’opera dolorosa e complessa che non solo anticipa il neorealismo, alla stregua e con lo stesso rilievo del viscontiano Ossessione. Ma che in un qualche modo lo attraversa con il peso delle sue determinazioni. E per molti versi lo trascende, arrivando a prefigurare il cinema della solitudine e dell’incomunicabilità. Alla base del film c’è un romanzo breve di Cesare Giulio Viola, Pricò. Una costruzione forse gracile ma a suo modo preziosa e intensa, frutto di quella stagione crepuscolare romana nella quale si congiungevano malinconicità e estetismo, eleganze esterne e decorsi interiori della scrittura. Collaboratore abituale di De Sica, Viola s’era fatto un nome nel nostro teatro. Nullameno il suo mondo apparteneva a un’epoca per moltissimi versi superata. L’ingegno di De Sica fu servirsi del romanzo traghettandolo, come ha scritto Tullio Kezich nel volume dell’Associazione Amici Vittorio De Sica dedicato alla edizione restaurata di I bambini ci guardano, verso un’altra e diversa temperie. Per questo risultò determinante l’apporto di Cesare Zavattini, al quale spetta la paternità di quel titolo, derivato da una sua rubrica giornalistica dei tardi anni Trenta per signore e signorine ma in grado di condensare fattivamente i passaggi drammatici della realtà e corrispondentemente le trasformazioni del nostro costume. Con in più l’idea implicita dell’occhio del cinema che fissa dal buio gli spettatori e di costoro che dal buio guardano lo schermo ritrovandovi in fondo loro stessi. Il cinema, dunque, come continuazione e anzi epitome del flusso indistinto della realtà: luogo di un ritrovamento di se stessi e al tempo medesimo della società circostante. Anche per questo I bambini ci guardano ci appare un film coraggioso o, quantomeno, decisamente inusuale nel panorama cinematografico degli anni Quaranta. In nessuna maniera il racconto di un adulterio, con lo sfaldamento drammatico del nucleo familiare e con un suicidio finale, era un argomento contemplabile nella cultura del Ventennio. Al cinema come in teatro oppure in letteratura, le avventure amorose extraconiugali dovevano collocarsi su un proscenio altoborghese o aristocratico. Un palcoscenico che, nell’epoca dei telefoni bianchi, era per definizione budapestino e cosmopolita: totalmente eccentrico e soprattutto falso sino alle midolla e evasivo. In I bambini ci guardano il discorso narrativo si mantiene invece addosso a una tipica famiglia italiana. Una famiglia borghese – il padre serio e intensamente innamorato della moglie, lei vivace e premurosa, il loro bimbetto serrato con qualche apprensione e malinconia in quel bozzolo familiare, e insieme una donna di servizio che come avveniva un tempo faceva parte della casa (fot. 21). La famiglia emblema della sanità e della modernità italiana diventa all’improvviso – nel precipitare degli eventi – il luogo dove esplode un bubbone mortale: la struttura che in luogo di confermare l’ideologia del regime la pregiudica e la sovverte completamente.

FOT. 21

I bambini ci guardano è insomma una sorta di manifesto della verità più crudele e dolorosa, contro ogni finzione e retorica. E in questo, forse più ancora di Ossessione, è il film che svela radicalmente la realtà italiana in ciò che essa ormai era diventata con la guerra e per quanto teneva al fondo di inesploso. Il dramma che s’accende inatteso nel racconto è finalmente il sintomo di una frattura epocale, divenuta senso ed esperienza comune ma ancora immane nelle coscienze, ancora non chiarita. Pricò (Luciano De Ambrosis) ha sette anni e vive con la mamma Nina (Isa Pola) e col padre Andrea (Emilio Cigoli) in una bella casa governata da un’anziana domestica, Agnese (Giovanna Cigoli). Un giorno, mentre gioca col monopattino ai giardinetti, vede la madre parlare con un uomo. Lei è turbata ma all’arrivo del bambino sembra recuperare il sorriso. La mattina dopo il padre stravolto va a svegliarlo annunciandogli che la madre è partita. Mentre le vicine spettegolano, Agnese conduce il bambino dalla zia, che ha una sartoria. Poi però Pricò si reca in campagna dalla nonna paterna (Ione Frigerio) affezionandosi a Paolina (Zaira La Fratta). Un vaso che egli lascia cadere sul capo della ragazza provoca i furori della vecchia nonna, che vede in lui l’esempio negativo della madre. Così il bambino fa ritorno a Roma. Ma ha la febbre e deve essere curato. Nel delirio invoca la madre: Nina a un certo punto viene a vederlo e alla fine trova anche la forza per rientrare in casa. Andrea accetta di nuovo la moglie e anche per festeggiare la ritrovata felicità, organizza una vacanza ad Alassio. Lui però deve ritornare per il lavoro a Roma. Lascia al mare figlio e moglie. Roberto, l’uomo con cui era fuggita (Adriano Rimoldi), torna a farsi vivo. Tra i due si riaccende forte la passione. Quando Pricò li scopre abbracciati, è spinto da un impulso drammatico a scappare ma è riconsegnato alla madre dai carabinieri. Quando tornano a Roma, lei abbandona ancora una volta marito e figlio. Così Andrea, anche per non esporre ulteriormente il bambino alle morbose curiosità di una vicina (Tecla Scarano), fa entrare Pricò in un collegio. Poi si dà la morte. Saranno la fida Agnese e la madre a comunicare la terribile notizia al bambino, alla presenza del rettore del collegio (Olinto Cristina). Pricò abbraccia la domestica, poi si allontana con le spalle curve e scosse dal pianto.

Proprio il mondano romanzo di Viola – forse al di fuori della volontà degli autori, quantomeno in un primo momento – funziona in modo tale da rovesciare il punto di vista convenzionale sulla realtà: inquadrata da una diversa prospettiva, e fatta smarginare entro le immagini nella sua piena incandescenza. La vicenda sentimentale scivola infatti d’improvviso entro il dettato narrativo, quasi non preannunciata: convogliandolo fatalmente verso la sua tragica conclusione. Ciò malgrado che De Sica non persegua alcuna verità superordinata ai personaggi e agli accadimenti; né costruisca e componga la struttura del racconto dando esca a soluzioni estreme. In questo senso la messinscena, accuratamente composta, sorveglia e regola tanto il contenuto che la forma. Non si incontra mai in I bambini ci guardano alcunché di eccessivo, e quanto vi si muove di turbativo e molesto si accompagna all’immagine dei grandi occhi di Pricò, che osserva muto lo svolgersi degli eventi. Di fronte a lui scorrono i fatti che affondano la sua famiglia: la passione della madre e le sue ripetute fughe da casa; la disperazione del padre; l’inumana curiosità della gente che si autorizza di quelle vicende per un cicaleccio importuno e malizioso. Poco per volta entra nel film un contenuto di verità, non solo d’ordine morale. Si pensi alle due figurine di una vecchia e di un ragazzettino nel parco, quando Pricò rifiuta a quest’ultimo, chiaramente appartenente a una classe inferiore, l’uso del suo monopattino (fot. 22). C’è un

momento in cui le due comparse si assettano in una panchina sulla parte posteriore dell’inquadratura: ignare di quanto avviene dinnanzi a loro, quasi inquadrate incidentalmente dalla cinepresa o entrate per caso nel suo obbiettivo. Per sua parte la pressione di verità della vicenda narrata, ambientata e collocata in uno spazio reale che continua a scorrere nonostante il plot, trova luogo nell’animo dei personaggi: inalbandosi in un dolore muto che cresce lentamente dentro loro, sino alla rovina finale.

FOT. 22

E in questo senso, se c’è qualcosa che richiama la costruzione e lo sviluppo del racconto in una direzione che possa ricordare il climax, esso si affida essenzialmente al sedimentarsi delle emozioni, le quali si succedono inesorabilmente l’una appresso all’altra senza che nulla abbia il potere di arrestarne il flusso. La bravura e la sensibilità del regista intervengono in primo luogo sulla natura degli interpreti: un Emilio Cigoli preciso e misurato nel ruolo del padre; il piccolo Luciano De Ambrosis, concentrato e dolente già nel corpicino indifeso e nel grande volto ansioso; Isa Pola e Adriano Rimoldi in quella vertigine rapinosa ed esiziale dalla quale vengono travolti (fot. 23); l’affettuosa e controllata Giovanna Cigoli, nel ruolo della fantesca di casa.

FOT. 23

Senza alcuna forzatura, la direzione di De Sica contorna i personaggi con le voci di accompagnamento della quotidianità, non assunta cromaticamente e aneddoticamente sullo sfondo ma invece cassa di risonanza delle modulazioni intime e indicibili che il film nullameno riesce a trasmettere. L’autore lavora sull’inscenamento della trama, accuratamente componendola e gestendola. Ma insieme si mostra maestro nell’ellisse, in ciò che non viene detto: assiepando la verità negli intervalli di senso, stringendola anche nella gabbia normativa dei sentimenti, degli sguardi, dei gesti penosi. Così l’annodarsi delle sequenze avviene sul basso portante di una scrittura filmica che s’intrama d’emozioni. Vestito sotto questa forma, il racconto procede su un’analitica interiore, non rifiutando le descrizioni, le soluzioni accorte e abili (non per caso De Sica era un uomo edotto nelle cose dello spettacolo), provatamente ricercando l’esito immaginato. Si sa del resto che egli interveniva sul piccolo De Ambrosis pungolandone il dolore e anche ridestando in lui la memoria della madre persa da poco. Ed è del pari noto che cambiò direttore della fotografia (Giuseppe Caracciolo venne

sostituito da Martelli) a segno di raggiungere una visività più aderente al reale in grado di evocare i contrasti emotivi. La vicenda del film, se letta esteriormente, può venire messa in conto di un procedere inappellabilmente semplice e spontaneo, ma se si pensa a Zavattini si è al caso di giudicarla quale sintomo della situazione sociale e storica. Tutto questo è vero: ma sta nel contrappunto visibile di quell’onda di sensazioni nelle quali si riversa la natura sentimentale di De Sica. Il quale sperimenta per la prima volta sui suoi personaggi l’enorme potenza del dolore. Un dolore distribuito partitamente in tutte le figure del film: non soltanto nell’infelicità del padre e nello sgomento del bambino, ma ugualmente nel tormento di entrambi gli amanti. La straordinaria maturità dello stile, scivolante in una propria dimensione e selezione di fatti che malgrado tutto non si lasciano annotare dall’esterno, si dispone inappellabilmente nel precipitato di un’angoscia che investe e travolge i personaggi senza che nessuno di essi venga mostrato e giudicato in maniera manichea. La scelta di De Sica, forse anche sostenuta dalla vicenda personale che egli andava allora vivendo con una nuova compagna, è non già l’attenuazione del senso morale di fronte alle responsabilità. Ma invece l’intuizione di un disordine che giace nel fondo della realtà. Un senso di negatività collocata (come scrisse Bazin) in un luogo diverso dal cuore degli uomini, in un qualche luogo entro l’ordine delle cose. In questo caso il male si colloca nel vivo della società, dentro il nucleo familiare, dentro le coscienze di individui normali non perversi e nemmeno particolarmente malvagi. Colpevoli di ciò che fanno, ma anche vittime di quel disastro. Anche se come suggerisce il titolo le vittime maggiori sono i bambini. La bellissima sequenza finale – quella dell’incontro del bimbo con la madre (fot. 24), nel collegio dove viene ospitato – interpreta visivamente e simbolicamente il paradigma del dolore quale predestinazione alla vita. Pricò, ancora più minuto e fragile nella divisa che gli è stata confezionata, avanza dal fondo di un salone. Sa che il padre è scomparso; piangendo, si avvicina alla madre vestita di nero e alla fedele domestica che abbraccia. L’acuto pathos desichiano incastella i tratti di uno strazio unicamente temperato di compassione.

FOT. 24

Il tema dell’iniziazione alla vita preme insomma verso la sofferenza. Moltiplicata visivamente dai toni luttuosi dell’inquadratura, tutta cosparsa di macchie nere (il velo e l’abito scuro della madre, ma anche la veste talare del direttore) e ugualmente pressata dall’incombere del soffitto che grava sulle persone, fendente di percezione di una tensione implosiva che appunto si rivela nel dolore. Quel che sino a quell’istante appariva essere plot, esposizione e invenzione narrativa, sia pure ad alto livello, qui diventa emozione fatta di pensieri e cose reali. La scrittura già moderna di I bambini ci guardano raggiunge adesso il vertice, superando e cancellando il vivace e composito minuzzolio di situazioni e persone (la nonna, la zia, le lavoranti, i coinquilini, i villeggianti) che pure ascriveremmo a credito del racconto narrativo e di fatto appuntandosi lontano da ogni richiamo al mondo e alla morale dei “telefoni bianchi” (che alcuni inconsultamente continuano a inalberare per il cinema di De Sica). Ma è in sequenze come questa che il racconto si vuota di ogni elemento e dato esteriore. Dirottando

la propria materia verso l’intensità e il pudore dell’immagine, che è la purezza (alias la crudità) dei sentimenti. Ma anche la loro attualità. Diversamente che nel romanzo di Cesare Giulio Viola, la madre non chiede perdono al bambino né il bambino del resto glielo accorda. De Sica si vieta ogni facilità e rimuove ogni notiziario consolatorio. Alla fine il bimbo si allontana (fot. 25). Non sappiamo cosa avverrà di lui. Ma anche questo – anche la struttura aperta, inconclusa, rinviante al di là dello schermo, alla nostra realtà – fa parte della modernità del film. Appartenendo come avviene a una scrittura che, nel suo punto più alto, si libera di ogni esempio illustrativo per divenire correlato e attraversamento del dolore e della caducità.

FOT. 25

I tempi oscuri della guerra Sugli inizi del 1944 Maria Mercader, divenuta una delle stelle di punta del cinema italiano, ricevette da Salvo D’Angelo la proposta di interpretare un film, La porta del cielo, prodotto dal Centro Cattolico Cinematografico. La Mercader accettò, ma alla condizione che fosse Vittorio De Sica a dirigerla nel film (condizione accettata data la volontà di presentare sullo schermo un’interprete con la faccia pulita e rassicurante, sebbene De Sica non fosse troppo gradito ai finanziatori che per parte loro avevano già indicato Esodo Pratelli, iscritto al fascio quantunque non fanatico). L’impuntamento della Mercader non era soltanto sollecitato da ragioni sentimentali ed estetiche (dopo aver fatto coppia con l’attore in numerosi film, era stata ben valorizzata in Un garibaldino al convento). La sua ostinazione discendeva soprattutto dalla volontà di impedire che l’attore dovesse andare al seguito dei repubblichini, o peggio ancora traslocare a Praga per dirigere su decisione di Goebbels la cinematografia nazionalsocialista. La caduta di Mussolini, dopo la seduta del 10 luglio 1943, aveva turbato De Sica. Ma non c’era dubbio sul fatto che non ci fosse da parte sua alcuna adesione al regime. Va da sé che un film come La porta del cielo presenti caratteri di interesse legati al periodo in cui venne girato, come altrettanto alla formula produttiva. Era infatti una delle pellicole finanziate indirettamente dal Vaticano, allora propenso a incrementare un cinema cattolico. Il viaggio di un gruppo di malati verso il santuario di Loreto per implorare dalla Madonna il miracolo della guarigione, garantiva almeno sulla carta una certa ortodossia. Del resto, figurava tra gli sceneggiatori il cattolicissimo Diego Fabbri. E anche Cesare Zavattini giusto in quegli anni (come si può desumere da Ipocrita 1943) attraversava una crisi dovuta agli orrori della guerra con riflessi sia intellettuali che spirituali. De Sica, per quel che aveva fatto sino ad allora anche come attore, garantiva forse un po’ di meno una conformità piena ai propositi dei finanziatori. Ma restava in positivo il fatto della sua professionalità dopo cinque film tutti ben riusciti. E in ogni caso la posizione espressa dalla Mercader appariva irremovibile: doveva essere lui, e lui solo, a dirigerla. E fu Vittorio De Sica – dopo Teresa Venerdì, dopo I bambini ci guardano – a imbarcare nuovamente Zavattini in questa sua impresa. Lo sceneggiatore era allora riparato con la famiglia a Bevilernica, nei pressi di Roma. Venne chiamato a collaborare a soggetto già prescelto. Sua, dunque, fu soltanto la responsabilità del

testo di sceneggiatura. De Sica confidava molto in Zavattini. Il lavoro di elaborazione delle scene e dei dialoghi venne svolto in una stanza dell’hotel Bristol: c’erano Adolfo Franci, il regista, “Za”, e ovviamente Fabbri, che era dirigente del Centro Cattolico Cinematografico oltre che ben introdotto negli ambienti della Curia romana. Del resto era lui a garantire i finanziatori del film, tra i quali figurava anche monsignor Montini, il futuro Paolo VI (il quale andò anche in visita sul set). Un altro aspetto interessante, che in parte riguarda la biografia personale del regista, in parte una storia minore sinora non sufficientemente indagata delle condizioni del nostro cinema nei mesi della disfatta del fascismo e della caduta dello Stato, è da ascrivere alle vicende della realizzazione del film. Una vera e propria avventura giornaliera, giacché si girava tra un bombardamento e l’altro, con frequentissime irruzioni da parte dei nazisti e delle guardie fasciste che venivano sempre a far controlli sconcertati e irritati dalla durata delle riprese (che fu lo stratagemma che permise a molti, De Sica incluso, di evitare il trasferimento a Venezia nei ranghi della cinematografia della repubblica di Salò). Molto pesava anche la penuria dei mezzi dovuta al momento di particolare disagio (a un certo punto venne meno anche la pellicola, reperita da Aldo Tonti, il direttore della fotografia, al mercato nero). C’era in più l’obbligo di star sempre in attesa dell’istante giusto e magari della luce più favorevole per realizzare le riprese. Avendo poi scelto la stazione ferroviaria di Trastevere come scalo per il treno-ospedale, bisognava approfittare di quando essa si svuotava per l’annuncio dei possibili bombardamenti; o, sennò, si conducevano le riprese su un treno che andava avanti e indietro tra una stazione e l’altra con grande pericolo per l’incolumità di interpreti, comparse e tecnici. L’interno delle vetture venne invece ricostruito in uno spazio sottostante la chiesa di San Bellarmino, in piazza Ungheria, ma altri parlano di San Saturnino, di San Marino oppure di San Clemente. In ogni caso, in questi sotterranei adibiti a set, si girava in orari anch’essi fuori da ogni norma: dalle cinque del pomeriggio sino a ore antelucane o alla prima mattina del giorno seguente. Per dare l’idea del movimento ma anche dell’esterno della città, si facevano scorrere i trasparenti dietro i finestrini dei vagoni in cui si effettuavano le riprese. Invece per la parte finale ambientata nella basilica lauretana, il set venne spostato all’interno di San Paolo fuori le mura. I lavori così complicati e difficili si protrassero ininterrottamente per moltissimi mesi. Proseguivano infatti ancora nel giugno del 1944. L’abbiamo detto: quella decisione ardimentosa impedì comunque il passaggio dell’intera troupe nel nord d’Italia, alla Giudecca di Venezia dove erano allestiti i nuovi stabilimenti. Non corrisponde tuttavia a verità – o almeno non risulta – che De Sica e alcun altro approfittassero di quella loro fortunata condizione per nascondere e salvare ebrei braccati dai nazifascisti. La deportazione della comunità israelita romana si era già compiuta senza che nessuno potesse o volesse arrestarne il corso, neppure il Vaticano. Altro viaggio che non quello verso i campi di sterminio e d’internamento racconta il film: anch’esso un viaggio di dolore ma altrettanto di speranza. De Sica lo descrive con il suo consueto gusto colorito e aneddotista ma anche con l’amore per la vita, concentrandosi almeno nella prima parte sui caratteri e sulle psicologie dei personaggi: operai, commercianti, un pianista, una domestica; alcuni malati, altri che sono accompagnatori o appartengono al personale sanitario (fot. 26).

FOT. 26

Un “treno bianco” sta partendo da Roma alla volta del santuario di Loreto. Trasporta malati che si recano in pellegrinaggio per chiedere il miracolo della guarigione. C’è un bimbo paralitico accompagnato da una ragazza (Maria Mercader); un industriale (Giovanni Grasso), anch’egli colpito da paralisi, che li prende in simpatia; un giovane operaio (Massimo Girotti) privo di vista per un incidente in officina è invece accompagnato da un amico (Carlo Ninchi). Un pianista agnostico se non proprio ateo (Roldano Lupi) ha deciso anch’egli di raggiungere Loreto sperando in un prodigio che gli sciolga la mano dalla paralisi. Invece una anziana donna (Elettra Druscovich) va alla Casa della Vergine per implorare la pace nella famiglia dove ha sino allora prestato le cure di governante. Con loro, viaggia il personale sanitario, tra cui una giovanissima crocerossina (Marina Berti). Arrivati a Loreto, i malati si raccolgono nella basilica invocando la guarigione in una suggestiva e commossa cerimonia.

Era convinzione ricorrente di De Sica che recitare fosse per lui divertente, mentre era faticoso dirigere. Forse per questo, sul set di La porta del cielo come anche dei film successivi, egli mimava e rifaceva i diversi personaggi della storia, se necessario ballando e cantando. Per questo in La porta del cielo appaiono pertinenti e ottimamente rilevati i medaglioni particolari collocati al centro della vicenda (tale la vecchietta interpretata dalla sconosciuta Druscovich bell’esempio di fede innocente e genuina, tale Maria Mercader bionda con calze nere e senza un filo di trucco, come si chiedeva a tutte le attrici dato il carattere del film e gli ambienti in cui si girava). Altrettanto riusciti i profili di svincolo, ad esempio quello del napoletano curiosissimo di Giulio Calì. Risultano anche validamente costruiti i dialoghi ed elaborate con gusto le inquadrature, con una qualcerta inclinazione, come ebbe a osservare Mario Gromo, per i primi piani e un’attenzione particolare per la banda del suono. Insomma De Sica confermava non solo la valentìa di conduttore e armonizzatore degli interpreti, ma era insieme il provetto cesellatore dei dettagli e delle singole scene. In più dava ritmo al suo racconto: si pensi a come egli risolve l’arrivo in stazione della vecchia governante, o a come sul treno i passeggeri reagiscono all’entusiasmo fastidioso di due ragazze che canticchiano un motivetto alla moda. Sui vagoni, e anche fuori, sui marciapiedi della stazione, si intrecciano i destini dei vari personaggi (ma si intrecciano con movimento e agilità di conduzione). Un tale schema, tipico del racconto di viaggio, viene ravvivato dalla mano felice del regista, sempre vicina alla concreta individualità dei personaggi. Ecco allora il bimbo issato su a braccia nel vagone ferroviario che sorride, malgrado la sua infermità; ecco la viva folla dei viaggiatori. Forse sa troppo di patetico la vicenda del cieco (fot. 27) ritagliata sul viso radioso di Girotti (anche considerando che è accompagnato dall’amico che gli ha provocato la lesione agli occhi con uno sbuffo di vapore per vendicarsi del fatto che l’altro gli ha sottratto la ragazza). Melodrammatica e romanzesca è invece la storia della seduzione affidata alla conturbante Elli Parvo. Nondimeno le ambientazioni – la fabbrica di ghiaccio, il vicoletto meridionale, l’interno del treno stesso – appaiono suggestive e convincenti. Non è estraneo alla loro qualità il contributo di Salvo D’Angelo, il quale si era laureato in architettura e urbanistica, era stato docente di composizione architettonica, e poi scenografo e arredatore al cinema (in film come Caravaggio, il pittore maledetto di Goffredo Alessandrini, 1941, o Bengasi di Augusto Genina, 1942).

FOT. 27

Tuttavia La porta del cielo non ha solo il risalto di un’immaginazione cinematografica messa all’opera su una materia composita: un affresco d’assieme che avrebbe dovuto trovare la sintesi nel momento religioso. In un certo senso l’abilità della regia è mantenere un livello descrittivo sottratto a ogni agiografia. Questo in effetti fu, tanto che non si incontrò l’approvazione da parte del Vaticano. Alla fin fine nel film non compariva alcun miracolo, se non quello interiore di chi si confronti con la propria menomazione e la propria coscienza. Si è domandato Ugo Pirro nel suo romanzo Celluloide (cit.): «Di chi poteva essere questa idea, se non di Zavattini?». È forse zavattiniano anche quel particolare del tizio che abbassa la tenda del finestrino mentre è in atto di ingozzarsi, non sopportando di essere osservato dai pellegrini del treno incrociatosi col suo per alcuni attimi (un dettaglio che può far pensare alle reazioni dei viaggiatori del convoglio ferroviario che in Miracolo a Milano costeggia il campo dei barboni). Nonostante ciò il giovane regista fece di necessità virtù. Se doveva estendere il tempo delle riprese, tanto valeva prender la palla al balzo per realizzare un vero film a malgrado delle restrizioni (l’assenza ad esempio dei normali gruppi elettrogeni). Aldo Tonti, che era il direttore della fotografia, ha raccontato tutti i sotterfugi escogitati per illuminare la basilica di S. Paolo, servendosi anche di accumulatori sottratti alle Ferrovie dello Stato. L’ingegno sopperiva alla esiguità dei mezzi. La stessa soluzione adottata per la sequenza conclusiva, che descrive l’ingresso dei pellegrini all’interno della basilica lauretana, fu dovuta alle fiaccole che ognuno recava in mano per l’assenza di lampade normali e insomma di corrente (ancora una volta il suggerimento arrivò da Tonti). Il risultato fu uno straordinario balletto di luci e fiammelle sciamanti nel grande ambiente ovattato e semioscuro (fot. 28): un concerto visivo condotto con la suggestione di movenze delicate ed eteree, riprese quasi in ralenti. Una volta giunte al santuario, tutte quelle figure che la regia aveva saputo prospettare nel loro carattere si scioglievano in una musicazione creaturale e lirica. Animule mulinanti e svirgolanti in un movimento misterioso, quasi imprendibile.

FOT. 28

La cosa più singolare, come osservò Ennio Flaiano, fu il fatto che il film potesse venir condotto a termine in sette terribili mesi di riprese praticamente alla macchia, con la capitale occupata dai tedeschi. Ma, all’interno del film stesso, più straordinario ancora fu il ravvisamento del valore della

natura umana nella relazione con un dolore collettivo. Iniziato durante la guerra, La porta del cielo chiuse la parte delle riprese una settimana dopo l’ingresso degli alleati a Roma. Sarebbe stato presentato al pubblico a liberazione avvenuta. La lingua pura del neorealismo Sciuscià L’idea di Sciuscià venne a De Sica dall’incontro nel 1944 con due ragazzinetti, “Scimmietta” e “Cappellone”, che sbarcavano il lunario lucidando le scarpe ai soldati americani. Di qui il termine con cui li si designava, sciuscià, evidente translitterazione dell’inglese shoe shine. Scimmietta era gracile d’aspetto e gentile, e aveva una gamba inferma; l’altro più tracagnotto e vivace, vassallo e dipendente del primo (fot. 29). Il singolare è che, dopo aver racimolato qualche centinaio di lire con le prestazioni di lustratori, si precipitavano a Villa Borghese per divertirsi con un cavallo, in groppa al quale scorazzavano per alcune ore. Poi facevano ritorno sui marciapiedi di Via Veneto.

FOT. 29

In una qualche misura i tratti fisici dei due ragazzini veri si trasportano nei protagonisti del film: il primo è magro e di belle fattezze, l’altro più piccolo. Tanto annota il testo del soggetto steso da Zavattini: «Pasquale detto “scimmietta” è il più grande: ha un fisico robusto, una faccia ardita e intelligente, un contegno già quasi da uomo, occhi dolcissimi. Giuseppe, chiamato “cappellone”, fisicamente è più minuto dell’amico, quasi ancora bambino, con un fare tra l’ingenuo e il malizioso: ha la faccia camusa, occhi furbi». Una prima traccia del soggetto – pare elaborata da Cesare Giulio Viola già prima della guerra, di fatto estranea all’incontro con i due sciuscià – era stata scartata da De Sica. Si trattava di un abbozzo incentrato su una figura in fondo convenzionale, quella di un giovane buono e sensibile che per continuare gli studi accetta un lavoro di assistente presso un istituto di corrigendi scoprendo in tal modo il dramma della delinquenza minorile. La trama, ripresa da Zavattini in una stesura ulteriore, viene in parte rispettata negli sviluppi ma sostanzialmente rovesciata nell’assunto: mettendo al proprio centro un punto di vista mirato principalmente sui ragazzi e sfrondando il testo primitivo del troppo e del vano. Proprio per questo il produttore, contrario a un film che correva il pericolo di essere eccessivamente discarnato di eventi, scritturò anche Viola e Franci, i quali del resto erano collaboratori abituali di De Sica, e poi ancora Sergio Amidei, reduce dalle fatiche di Roma città aperta (di Roberto Rossellini, 1945) e tenuto in fama di sceneggiatore capace e professionale di cui ci si poteva fidare. Tutto ciò in contrappeso all’eccesso di fantasia di “Za”. Il lavoro di stesura del testo di sceneggiatura – al quale collaborarono Viola, Franci, lo stesso De Sica, Amidei e ovviamente Zavattini, per quanto saltuariamente (lo scrive lui stesso in una lettera a Peppino Marotta) – venne portato a termine nel giro di due mesi, svolgendosi precisamente dalla metà del luglio 1945 sino a tutto mezzo settembre. Ci si incontrava in un appartamento di via Po a Roma, in cui si tenevano anche i provini per la selezione degli interpreti. «Nei momenti di sosta, – raccontò in seguito Adolfo Franci – Viola disegnava svelte figurine di donna sul retro dei “copioni”.

De Sica accendeva una sigaretta fissando gli occhi sulla casa dirimpetto. Amidei dissertava di politica col calore di un neofita…». Il produttore, Paolo William Tamburella, aveva rilevato in quella fase disordinata della nostra vita nazionale la direzione dell’Alfa Cinematografica. La preparazione del film andò dunque avanti tra numerose difficoltà (tra cui i contrasti tra gli sceneggiatori) e costi sempre più crescenti. A un certo punto De Sica ebbe persino la tentazione di tornare al teatro accogliendo una proposta della moglie Giuditta Rissone. Per fortuna scelse di fare Sciuscià le cui riprese, effettuate nell’ultimo scorcio del 1945, terminarono nel gennaio del 1946. Le pagine tracciate da Zavattini erano il primo dei punti fermi del film. Ritraevano con sguardo infallibile il momento di crisi vissuto dal Paese, le distruzioni morali e anche le materiali. La gente che cercando di sopravvivere vivacchiava alla giornata, tra occupazioni precarie e la marginalità. E una società frantumata, annientata dalla miseria e dal cinismo. Soprattutto minata dall’indifferenza dei principi. In queste angustie erano ovviamente i minori a trovarsi più esposti. Sia quelli che avevano perso i genitori (come Pasquale in Sciuscià, o lo scugnizzo napoletano del quasi contemporaneo Paisà, di Roberto Rossellini, 1946), sia coloro che ancora tenevano una famiglia. Talquale l’altro ragazzetto del film, Giuseppe, tuttavia abbandonato a se stesso. Per meglio elaborare la storia, Zavattini ne affrontò de visu i problemi visitando insieme con De Sica ambienti e persone particolari (tra le altre cose, il carcere di Porta Portese che fu ricostruito per le riprese con un’impressionante fedeltà). Il plot narrativo calcato sulle linee del disastro morale e pratico passa così a declinarsi sul versante delle reazioni adolescenziali, elaborandosi sul contrasto tra integrità naturale e violenza della società, tra “ragazzi” (come recita il sottotitolo) e mondo degli adulti. Ma il tema, squisitamente ascrivibile a una linea lirica ed espressiva che trova molti equivalenti nella cultura europea e anche nel cinema, non viene filtrato in una maniera artificiata. All’opposto esso appare subito sciolto in un novero di occorrenze rilevabili dalla realtà più viva. Che è la materia tradotta entro la scena più vasta del racconto, ma da cui poi si desumono le regole della scrittura. Una materia ovviamente connotata sotto il riguardo semantico, già in sé plastica e riconoscibile. Ma in grado di venire ben letta dentro la vicenda che la scandisce e che la rende evidente. De Sica non assume la realtà a modo di copia conforme né ce ne rende accosti con l’impegno del reportage o del documentario. L’azzeramento delle gamme romanzesche avviene invece tramite il riappello a un tessuto di emozioni che si appoggiano sulla verità dei personaggi e del luogo. Tali emozioni vengono sì traslate in struttura di racconto: ma lavorate con una forma in cui si tende maggiormente a sottrarre che ad aggiungere, dove in vece del raccordo palese o dell’eccesso ha peso il passaggio ellittico oppure la sospensione, l’assenza. Con un rinvio del significato sia al tratto sovrasegmentale annodantesi nel flusso storico (da cui l’idea di un disordine adolescenziale attribuito alla guerra e al dopoguerra), sia al corpo delle pulsioni interiori e persino oniriche. Tutto questo emerge nella sequenza conclusiva su cui incombe lo spettro della morte e della totale disperazione, ma dove c’è anche un cavallo bianco che s’allontana sul crinale di un greto. De Sica tende insomma a sviluppare il potere germinativo del soggetto di Zavattini ma poiché non si attiene ad alcun intellettualismo, immerge gli snodi del racconto in un universo di corpi e volti veri. Un universo circonfuso del peculio di verità che recano le strade di Roma e gli interni dimessi, gli abiti consunti e le voci gergali. Non rincorre “Za” nella parte alonata dal surreale, ma ne disvolge le intuizioni in nuclei per così dire essenziali che investe con il calore dei sentimenti. Il suo lavoro come direttore di film – ha osservato in seguito Orson Welles – è un sorta di cancellazione della macchina da presa in funzione dell’immagine. Ma è anche l’immagine che appare in grado di tradurre i numerosi tasselli di verità investendo la materia narrativa con un flusso di emozioni contrastanti e però anche vive. In Sciuscià la vita che scorre dentro il film è complessa e controversa: per raggiungerla, De Sica elimina ogni impenetrabile e arbitrario spessore di schemi. Utilizza sì le proprie risorse di collaudato maestro di attori e pennellatore di tipologie subito colte al

primo gesto (qui in Sciuscià il commissario, il direttore del carcere, gli avvocati). Ma in funzione di un’animazione equilibrata del quadro visivo dove – in analogia al pensiero di Zavattini del “cinema” che avviene nonostante i marchingegni che lo azionano – egli lascia scivolare la vicenda in un proprio letto di immagini. Nel loro respiro trascorre un’immediatezza non velata né offuscata dalla complessità dei problemi e invece soccorsa dal variare dei registri narrativi: in quelle tante sfaccettature che vanno dall’allegro al drammatico, dall’ironia al tragico. Il risultato complessivo è l’investimento emotivo che si citava poco sopra: una luce gettata sulla società ma anche nuovamente sulla solitudine dell’individuo. Pasquale e Giuseppe (Franco Interlenghi e Rinaldo Smordoni) sono due “sciuscià” romani molto uniti tra loro. Lavorano, giocano e vivono praticamente insieme, conservando in comune anche i soldi guadagnati col lucidare scarpe oppure al mercato nero o in affari poco puliti. “Pasquà”, il più grande dei due, ha perso i genitori durante la guerra; Giuseppe ha invece ancora una famiglia, ma sta sempre fuori casa. Il sogno di entrambi è acquistare un cavallo bianco (ogni tanto del resto vanno al galoppatoio di Villa Borghese). Per racimolare la somma necessaria, si lasciano coinvolgere dal fratello maggiore di Giuseppe in un colpo ladresco ai danni di una chiromante (Maria Campi). Acciuffati dalla polizia, nell’attesa del giudizio vengono spediti in un riformatorio per minorenni e mescolati all’esistenza di tanti altri ragazzi, tra i quali c’è Raffaele (Aniello Mele), un napoletanino dalla salute compromessa. Nel carcere agiscono controllori induriti come Staffera (Emilio Cigoli) e altri come Arcangeli (Bruno Ortensi), ancora fiducioso nel recupero dei ragazzi. Il processo di Giuseppe e Pasquale slitta però continuamente. Separati e messi in celle diverse, un po’ per volta i due sciuscià vengono a contatto con disgraziati della peggior risma e finiscono per allontanarsi l’uno dall’altro. Hanno in particolare giurato di non rivelare i nomi dei complici della rapina, ma Pasquale, convinto che Giuseppe venga torturato dalle guardie, cade nel tranello tesogli dal direttore e confessa tutto. Così l’altro gli diventa nemico. Durante una proiezione cinematografica, i due riescono a fuggire assieme ad altri tre ragazzi. Pasquale è presto ripreso e in un momento di sconforto accompagna la polizia nel luogo dove pensa si trovi l’antico amico, dove insomma tengono il cavallo. Giuseppe è appena uscito con l’animale, così egli lo rincorre e, nella colluttazione che hanno, lo fa cadere dalla spalletta di un ponte provocandone la morte. Pasquale urla invano la sua disperazione. Nel frattempo il cavallo bianco corre via nitrendo.

L’infanzia e l’adolescenza, dunque vittime non solo materiali ma morali della guerra. Travolte inevitabilmente dai frantumi di un’intera cultura e società, trascinate avanti tempo in una dura lotta per l’esistenza. Nessuno nel film sembrerebbe salvarsi. Ma anche se coinvolti nei traffici più loschi dai grandi che dovrebbero proteggerli (i due ragazzini sono praticamente abbandonati a se stessi, utilizzati nella vendita illecita di coperte americane sottratte a una chiromante e indi scaricati), anche se inevitabilmente a contatto col crimine e il malaffare, gli “sciuscià” non mutano in una loro verità interiore garantita in parte dalla giovane età e quasi preservata nello stato di deiezione e abbandono in cui vivono. Attraverso la pietà per la loro condizione, De Sica e Zavattini colgono la «luminosa innocenza» (per dirla con Henri Agel, Vittorio De Sica, Éditores Universitaires, Parigi, 1955) che resiste nel vivo delle loro nature. Innocenza disegnata in quella bella amicizia adolescenziale che gli adulti provvederanno a cancellare (si pensi al piano espressionistico delle mani disgiunte) mutandola in un’amicizia tragica e in quel gesto finale che Pasquale compie, quasi angelo giustiziere che colpendo Giuseppe spinge l’azione verso il drammatico explicit (fot. 30). Il mito protoromantico e rousseauiano dell’infanzia contaminata dalla società che attraversa la cultura europea, arriva dunque a lambire anche Sciuscià. Per questo l’amicizia dei due ragazzi si traduce in una “purezza inumana”, anch’essa di matrice culturale ma anch’essa molto vera.

FOT. 30

Ma il senso del proprio tempo impedisce agli autori di cadere nella letteratura. I due sciuscià ci vengono presentati in figura di personaggi spontanei, alla stregua del contesto. Al di là di ogni compassione, di ogni forzatura patetica, la quotidianità non viene descritta ma lasciata muovere nella sua più diretta dimensione (indi elevata a simbolo). La cinepresa, come ha rilevato Philippe Carcassonne in un saggio del 1979, si muove un po’ al ritmo del passo umano attenta a non farsi sentire, a dimenticare se stessa per non sovvertire o alterare le verità che dalle immagini emergono. Non ci sono in Sciuscià utilizzi dell’inquadratura, del montaggio, delle luci in un senso connotativo, ma invece un «tempo fisiologico» della camera stessa di fronte agli oggetti e ai corpi, un tempo – ha scritto Gian Piero Brunetta nel 1991 – dato e portato da loro stessi. Per questa via il caso singolo riesce ad assurgere al valore di esempio di tutta una realtà incontrando un valore universale. L’inchiesta e la statistica visualizzano insomma le persone concrete, e Sciuscià a sua volta narra un soggetto al passo delle indagini sociali oppure sociologiche, cogliendo però ciò che trascorre al fondo delle coscienze, in un alternarsi di ombre e luci, di suggestioni e stimoli. Per la medesima via il quotidiano si eleva a simbolo, condensandosi positivamente nella figurazione del cavallo bianco ma anche addensando i propri toni in una scurità persistente delle inquadrature (cifra stilistica del maestro Anchise Brizzi, il quale era dell’avviso che quando non si sapevano gettare meglio le luci tanto valeva azionare le ombre: ma anche evidenza visibile del buio interiore in cui si era precipitati). La tenebra, reale e anche metaforica, che fascia i personaggi di Roma città aperta contorna anche quelli di Sciuscià. Ma in entrambi i casi questo buio non permette di sfuggire alla congiuntura sociale e storica, anzi ci viene offerto come suo effetto. Con pochi tratti De Sica dà la sintesi degli ambienti. Aria, spazio e libertà connotano le esistenze dei ragazzi e la loro innocenza. Tutt’attorno un contesto che è essenziale si dispone spontaneamente: una materia viva quasi ripresa nei suoi sviluppi e nella luminosità che ne emana (Pauline Kael ebbe appunto a scrivere per Sciuscià di radiance, fot. 31). Poi però messa in abîme, precipitata nell’incubo del carcere minorile (torna in questo caso il microcosmo adolescenziale tratteggiato da De Sica, ma qui quanto mutato e diverso rispetto a Teresa Venerdì o a Un garibaldino al convento, intriso del senso disperato che in quegli anni si provava). L’avvilimento, anzi la distruzione d’ogni frammento di sensibilità, affiora attraverso il pudore delle immagini: una sorta di lirismo lirico, il

quale per un verso lascia la materia scorrere e sedimentarsi in proprio, per altro verso la segna e fa vibrare con un senso di partecipazione e pietà. Così per una parte Sciuscià declina in tratto di verità la sconsolata malinconia e l’esatta percezione storico-sociale del suo sguardo. Per altra parte le sue radici, che attingono alla linfa più limpida del neorealismo, trasformano questa percezione in giudizio sul mondo. Tanto da tradursi in un’estesa luce sopra la vita degli uomini e sopra la loro solitudine.

FOT. 31

Siamo a un grado di pessimismo che anticipa il Rossellini di Germania anno zero (1947). E con un senso così esatto delle voci e dei corpi che scava nella stessa linea ontologico-antropologica su cui avrebbe lavorato Pasolini, in una propinquità al vivente nella quale si riconosce il germe dei pensieri del nostro tempo e della nostra gente. De Sica (l’abbiamo detto) è infallibile nel cogliere le tipologie, non solo macchiettistiche ma anche e soprattutto umane, sfumandole con la sordina degli accenti espressivi. In Sciuscià le timbrature fonetiche e fotogeniche si memorano dell’esperienza quotidiana con il ritmo formicolante della folla (ben esemplificata dal volume dei traffici leciti e illeciti), con l’infingardaggine della burocrazia carceraria, con il cedimento alle cose correnti (onde il volto attonito della madre di Giuseppe, la sconsolata e arresa umanità dell’istitutore buono). L’idea è di far esprimere la realtà direttamente, appena servendosi del diaframma del soggetto: lasciandola serpeggiare e accendere entro gli argini del racconto. Da ciò la scelta felice degli interpreti, individuati e trovati dopo una lunga selezione. «Ragazzi della strada, lerci e sdruciti, operaietti in blusa di meccanico, signorini di buona famiglia, “boxerini” dei Prati, fantinelli delle Capannelle, studenti con i libri sotto il braccio e l’aria tra timida e spaurita di chi si presenta davanti al maestro senza avere imparato la lezione. Ce n’erano di sfrontati e di scontrosi, di brutti e di belli, di linguacciuti (quelli, in genere, della strada) e di silenziosi» (Adolfo Franci in «Cronache»). Da ciò anche la decisione di privilegiare degli attori improvvisati per i ruoli dell’avvocato, dell’ingegnere, della dattilografa, di una vecchia signora, dei ragazzi incarcerati, tutti equamente amalgamati con qualche professionista (Cigoli ad esempio). Questo in ottemperanza a un contrappuntismo che opera a intermittenza sulla materia primaria, affievolendone gli esecutori formali e all’opposto accentuando una veracità perfettamente esatta nei suoi moventi. Una verità superordinata alla finzione: assunta commoventemente dai giovanissimi protagonisti (Interlenghi soprattutto, ma anche Rinaldo Smordoni e il piccolo Aniello Mele che è un indimenticabile Raffaele, il napoletano). E che pienamente si contempera del riscontro verbale: un romanesco radicale e oscuro, colorito e plebeo, sicuramente forgiato dagli interpreti e non coniato in sede di sceneggiatura. Ma un dialetto molto espressivo che non solo s’apparenta alle operazioni tentate dal Rossellini di Paisà e dal Visconti di La terra trema (1949), ma prefigura quella sotterranea vitalità della parola popolare che sarebbe esplosa di lì a dieci anni con il Pasolini dei romanzi romaneschi e dei film sottoproletari. Anche linguisticamente, i personaggi di Sciuscià oscillano tra una recedenza a grumi primari e una autonoma sensibilità espressiva e corporea che li apre al mondo (ancorché questo li ferisca a morte).

La capacità di De Sica nell’infrangere il cristallo tra vita e scrittura, è in tutto operante sul regime di naturalezza lasciato agli interpreti e alle varie classi del profilmico. La risposta espressiva agli stimoli dettati dall’emozione consente la restituzione di una materia nel suo apparire realistica, ma ricca di risvolti simbolici. Ecco allora l’inconfondibile immagine tipica delle sbarre già dall’istante della cattura, con quella specifica alternanza tra soggettivo e oggettivo (ad esempio i due ragazzi che dall’interno del furgone della polizia vedono la realtà “tagliata” dall’inferriata allontanarsi sempre più, loro stessi inquadrati oltre la barriera) che sigla espressionisticamente il precipitare degli eventi (fot. 32). Immagine tipica che è l’intelaiatura fondamentale della vita carceraria.

FOT. 32

Ecco l’immagine del cavallo, simbolo dell’infanzia perduta e dell’impossibile libertà: causa prima dentro il soggetto di Zavattini della non resistibile causalità della tragedia. Ma anche traduzione surrealista e poetica dell’esistenza impossibile e tuttavia agognata, vissuta solo a tratti e trasfigurata col finale in prospettiva onirica. Un’epifania del mondo che si eclissa e svanisce di fronte alla vita vera. Lo straziante estremo gesto della forma e della fantasia sul ciglio della sofferenza e del dolore. Ladri di biciclette Alla sua uscita sugli schermi italiani, Sciuscià non riscosse il successo che ci si sarebbe potuti attendere, incassando meno di sessanta milioni delle vecchie lire. Il che si risolse in un disastro per il produttore. Non molto positiva anche l’accoglienza dei critici. Tutt’accanto a un Raffaele Calzini che nella sua recensione in «Film» del 18 maggio 1946 scrive di un «capolavoro cinematografico», si collocano le riserve di chi tagliando in tutti i punti i panni addosso a De Sica e Zavattini se ne esce con l’arzigogolo che si tratti unicamente di un «film di intenzioni» (Ermanno Contini). Non mancano evidentemente le stroncature, o qualcosa che molto loro somiglia: Orio Vergani ad esempio («Film d’oggi», 4 maggio 1946), dribblante tra qualche apprezzamento e le scontatissime riserve si apre la strada per deplorare l’assenza di un’idea centrale nel testo di sceneggiatura oltretutto diagnosticando un vuoto di commozione, anzi una dubbia lindura da ricreatorio cattolico che renderebbe il film inumano e astratto. Di ben diverso tenore le valutazioni di Antonio Pietrangeli, di Luigi Comencini e di Dino Risi: «

Sciuscià è un film italiano come la nostra miseria, come il nostro sole a lutto, come il nostro amore ferito» («Milano Sera», 29 aprile 1946). Si registrarono ovviamente altri apprezzamenti. Cominciava già allora una campagna orchestrata su vari fronti per contrastare il neorealismo in dispregio ai famigerati «panni sporchi» da lavare a casa. Per nostra fortuna, Sciuscià incontrò invece all’estero un autentico trionfo. «È l’inizio di un Rinascimento», avrebbe annotato Lindsay Anderson («Sequence», n. 4, estate 1948). E il francese Georges Altman lo definisce «ricco di una straziante poesia» («L’Écran Français», 25 luglio 1947). Da fuori Italia il successo del film sarebbe rimbalzato da noi. Così gli venne assegnato il Nastro d’argento per la miglior regia nel 1946 – a pari merito con Un giorno nella vita di Alessandro Blasetti – e anche il Gran Premio di Livorno. In quello stesso 1946 De Sica medita di comporre il secondo tassello di un ideale dittico sull’infanzia raccontando una storia di giovinette travolte a Napoli dalla guerra: una triste e dolorosa vicenda di prostituzione con malattie veneree e degradazioni di ogni genere. Il film si sarebbe dovuto intitolare Ospedale della pace, ma a un certo punto la casa di produzione si tirò indietro. Un’altra proposta venne ventilata da Michele Prisco per la trasposizione di un suo racconto, Immatella Califano, la vicenda di una ragazzina napoletana violentata da un soldato di colore. Anche in questo caso il film non potè arrivare in porto. Il progetto sarebbe poi passato ad Alberto Lattuada trasformandosi in Senza pietà (1948), ancorché l’idea originaria del testo di Prisco si ritrovasse traslata in uno scenario di Tullio Pinelli e Federico Fellini che si rifaceva dichiaratamente a un soggetto di Ettore Maria Margadonna. Nel frattempo Sciuscià aveva conquistato un Oscar speciale (che venne consegnato a De Sica e a Cesare Zavattini nella serata del 31 dicembre 1947 all’Arcobaleno, un piccolo cinema romano) Così suonava la motivazione: «L’alta qualità di questo film italiano portato a vita eloquente in un Paese devastato dalla guerra, è la prova per tutto il mondo che lo spirito creativo può trionfare sull’avversità». Il clamoroso successo internazionale del film obbligava adesso i suoi autori a immaginare e progettare un’opera di uguale levatura morale ed estetica. Ma a Ladri di biciclette ci si arrivò comunque per caso. Una sera Zavattini aveva incontrato per strada Luigi Bartolini ricevendo in dono da lui il suo ultimo libro, andato alle stampe qualche tempo prima. Si trattava appunto di Ladri di biciclette, un arioso e suggestivo racconto picaresco – non invece un feuilleton come è stato scritto da un giovane critico cinematografico in un volumetto sul capolavoro di De Sica (Giaime Alonge, Vittorio De Sica, Ladri di biciclette, Lindau, Torino, 1997) – nel quale un pittore a cui è stata sottratta la bicicletta si mette a cercarla in lungo e largo in tutta Roma sinché non giunge a ritrovarla. “Za” lesse il libro tutto d’un fiato nel corso della notte successiva. «Per quanto tutta la vicenda si svolgesse in un mondo molto diverso dal mio, – dichiarò in seguito a Michele Gandin che lo intervistava – qualcosa si mise in moto nella mia fantasia. Le ore passavano e non riuscivo ad addormentarmi: ero ossessionato dalle biciclette». Cominciava insomma a profilarglisi in testa l’idea del film, da collocare e mettere però a fuoco all’interno di quello che sarebbe dovuto diventare il tema fondamentale. La soluzione fu trovata grazie all’intuizione di sostituire l’artista con un operaio al quale la bicicletta era indispensabile per il lavoro. Già alle ore bianche dell’alba “Za” chiamava al telefono Bartolini per comunicargli il proprio entusiasmo e il fatto che il volume l’avesse come obbligato a leggere per tutta la notte. Un entusiasmo che il sarcastico scrittore-pittore chiosò con egostistica perfidia sul «Giornale d’Italia» («indovina per che cosa? non per dormivegliare con la venere Anna Stickler, o con chi per essa, sibbene per leggere, tutto d’un fiato, il mio libro Ladri di biciclette»). Zavattini gli chiese di stipulare un contratto per la cessione dei diritti d’autore. Bartolini, in eterna carenza di denaro, non si fece pregare: senza batter ciglio e senza frapporre indugi, non appena il giorno si fu fatto accorse in via Regina Elena dove aveva sede la P.D.S., la Produzione De Sica. Approntata ovviamente da Zavattini, la prima stesura della storia venne immediatamente sottoposta

a De Sica. Questi avvertì subito le differenze radicali dalla festosità colorita e iperletteraria del volumetto bartoliniano, apprezzando lo sforzo compiuto da “Za” per definire ambienti, personaggi e infine intendimenti più consoni ai suoi mezzi e scopi. Il soggetto venne rapidamente messo a punto (sarebbe apparso il 25 maggio 1948 sul numero 11 di «Bis»). Le sue intenzioni poematiche risultano già vive dall’inizio: «Che cos’è una bicicletta? Roma è piena di biciclette come di mosche. Ne rubano decine e decine al giorno e i giornali non vi dedicano neanche una riga in corpo sei. Forse i giornali non sono più in grado di stabilire la vera gerarchia dei fatti. Se rubassero, per esempio, la bicicletta a Antonio, i giornali dovrebbero, secondo noi, occuparsi del furto con un titolo su quattro colonne. Per Antonio infatti la bicicletta rappresenta uno strumento di lavoro che possiamo chiamare provvidenziale. Con il lapis alla mano, Antonio vi dimostra che risparmia ogni giorno trenta lire per virtù della bicicletta, tanto spenderebbe per recarsi in città e ritornarsene ogni giorno con l’autobus e il tram. Non si tratta di una bella bicicletta, costerà poco più di quindicimila lire, una somma però che tutta assieme un operaio difficilmente possiede». Antonio ha circa quarant’anni, abita alla periferia, e guadagna lo stretto necessario per non morir di fame, lui sua moglie e suo figlio Bruno. Gli hanno appena dato un posto, dopo lunga disoccupazione, nell’Azienda comunale. E ha dovuto impegnare le lenzuola per disimpegnare la bicicletta. […] E un giorno gli rubano proprio la bicicletta, mentre sta attaccando un manifesto. […] La ricerca a piazza Vittorio è vana malgrado gli aiuti degli amici di “Baiocco”, tutti spazzini. Antonio e il figlio, che sgambetta dietro lui convinto di avere un compito meraviglioso nella ricerca, si precipitano a Porta Portese, altro famosissimo mercato di ladri. Vi arrivano che piove. Assistono all’esodo di carretti e soprattutto di carrettini a mano che portano via velocemente sotto i teloni incerati scarpe, stoffe, ruote, copertoni, telai di biciclette. Antonio crede di ravvisare il ladro in un giovanotto che parla con un mendicante. Troppo tardi. Il giovanotto si dilegua sotto la pioggia. Allora Antonio affronta il mendicante per sapere l’identità dello scomparso. Il mendicante afferma di non conoscere quel giovanotto ma si capisce che lo conosce benissimo; per questo Antonio non lascia la preda e lo segue in una chiesa fuori mano in cui si svolge la domenicale funzione caritativa della messa dei poveri. Niente distrae Antonio, né la predica del prete né il campanello dell’Elevazione durante la messa. Tuttavia il mendicante riesce a eclissarsi e con lui l’ultima speranza di Antonio. […] A Val Melaina senza bicicletta non ci torna, davanti a quella moglie con gli occhi spaventati e addolorati (fot. 33). Sono falliti i mezzi normali? Proverà con i mezzi soprannaturali. E si reca dalla Santona, una donna che inganna il popolino con le sue visioni, i suoi responsi, i contatti con le forze celesti. La moglie di Antonio la conosce. […] O la trovi subito o non la trovi più, dice la Santona con solennità. Uscito da quella stanza, Antonio s’imbatte subito nel ladro. Lo afferra per il collo e urla che rivuole la sua bicicletta. La breve strada si riempie di gente. Invano il ladro ha cercato rifugio in un postribolo. Accorre anche una guardia chiamata da Bruno che è sempre pieno di iniziativa. Sì, questo è il ladro, ma l’omertà degli abitanti di quella strada, generale e clamorosa, finisce col sopraffare Antonio.

FOT. 33

[…] Ecco via Flaminia, nei pressi dello Stadio dove prenderanno il tram. […] Dallo Stadio giungono le grida della folla che assiste alla partita. Antonio prende improvvisamente una terribile decisione. A suscitargliela sono forse state quelle innumeri biciclette depositate sotto una tettoia davanti allo Stadio. […] Dice improvvisamente a Bruno che monti sul tram e che lo aspetti a Montesacro, lui verrà più tardi, ha qualcosa da fare. Il tram arriva, Antonio si allontana in fretta, sembra trasognato. Bruno non riesce a salire sul tram

stracarico di passeggeri ed è pertanto obbligato ad assistere a uno spettacolo che lo agghiaccia: suo padre in fuga sopra una bicicletta inseguito dalle urla del derubato e da quattro o cinque persone, mentre la folla esce dallo Stadio. Antonio è raggiunto, gli sono sopra. Bruno si precipita piangendo fra quegli uomini furenti. Antonio non reagisce. Impietositi dal pianto del bambino gli uomini, ripresa la bicicletta, si allontanano senza farlo arrestare. Gli hanno mandato il cappello nella polvere con un ultimo scapaccione. Antonio e Bruno camminano in silenzio l’uno vicino all’altro. (Tratto dal soggetto di Cesare Zavattini)

Delicato e sottile scorre nella scrittura di “Za” qualcosa di più del primo abbozzo del personaggio dell’operaio. Antonio Ricci, affidato a un vero operaio della Breda romana, Lamberto Maggiorani, si presenta sgraziatamente con il corpo segnato dalla secca angolosità dei poveri, uno sguardo amaro e timido, il camminare insicuro ma, dentro il film, già stampato nella temporalità italiana del dopoguerra. Accanto a lui, nel tessuto informe di una Roma ingranditasi disordinatamente, il figlioletto dell’operaio, Bruno, unito alla figura del padre in una perfetta giunzione poetica. L’uno complemento all’altro in quelli che sono gli incrementi interiori dei due personaggi: il padre smagato e debole, a confronto del ragazzo deciso e determinato (fot. 34); ma anche specchio di una condizione e un destino agli occhi del figliolo, il quale, nell’infilata di scene che segnano il loro peregrinare entro il budello delle stradette e piazze romane, compie inavvertitamente la propria educazione sentimentale. Sullo sfondo e tutt’intorno una città, folgorata dalla cinepresa di Montuori in un tratteggio ancora epico che aggiunge alle miserie del dopoguerra le fatiche e i triboli della ricostruzione. Certo, anche nel film di De Sica e Zavattini si ritrova un picarismo comunque mai stretto in forme letterarie. La metropoli che si apre allo sguardo dei due personaggi è un territorio da attraversare. Un gomitolo di strade affollate di volti e persone, concrete e fuggenti al contempo; un fiume vasto di esistenze che scorre e respira sotto le apparenze di superficie e che i personaggi hanno da penetrare. Un ambiente vivido di una propria suggestione atmosferica, graduata nei passaggi dal nuvolo alla luce, dalla pioggia alla prorompenza del sole. Ma con un sentimento trafelato, agitato da grumi intessuti di realtà (non solo quella disperata di Ricci, ma anche del giovane ladruncolo affetto da mal caduco, quella del vecchio e della stessa moglie dell’operaio, Maria).

FOT. 34

E nullameno incline, malgrado il premere delle condizioni sociali, alle possibilità di una scoperta della verità che trascenda l’oggetto inseguito, la bicicletta rubata. La quale però rimane importante perché importante e addirittura indispensabile era allora per un disoccupato l’utilizzo del mezzo necessario al proprio lavoro. Questo spirito picaresco e aperto, che pure serve a pennellare l’ambiente, si fonde in una tensione surrealistica laicizzata e appunto neorealistica che accoglie nel flusso narrativo il pullulare dei pensieri e delle emozioni. De Sica è straordinario nel cogliere l’universale nel particolare (come già postillava in sede di recensione Arnaldo Frateili) e altrettanto nel notare le vibrazioni di infelicità di un soggetto narrativo incordato sugli amalgami del tempo, quello drammatico e altrettanto vivido degli anni del dopoguerra. Se la messinscena (è stato osservato da Agel) raggiunge un carattere di universalità in un tempo e un

ambiente dati con assoluta precisione, non è perché essa si riallacci a un sistema narrativo ma, all’opposto, perché l’esperienza vissuta dai due protagonisti viene traslata e posta in essere entro un quadro e una durata ben determinati. Rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, la meraviglia nella piccola cronaca, non equivale in definitiva a una pura questione di tecnica di racconto, ma invece si conforma a un’idea di tensione narrativa collegata a una concezione della vita. Una forma di sensibilità che diventa struttura di racconto nel quadro di un pensiero estetico totalmente rinnovato, il quale se non può essere misurato sulle linee del cinema antecedente (come maldestramente hanno tentato di dimostrare i seguaci della cosiddetta revisione del neorealismo), non ricade per ciò stesso sotto la mannaia del verosimile o di un dover essere politico o sociale. L’incipit o se si vuole l’antefatto del furto della bicicletta ha indotto alcuni a congetturare un eccesso di drammatizzazione in quell’accidente. Non si poteva pensare ad altro per rimediare al furto? E non c’era la solidarietà della gente comune e del partito che la doveva risolvere (come pensava e dichiarava Sergio Amidei prima di abbandonare lo staff degli sceneggiatori)? Obiezioni certamente anche giuste, ma in un altro ambito. Viceversa in Ladri di biciclette il meccanismo azionato da De Sica e antecedentemente da Zavattini è quello di uno stato d’animo e una condizione paragonabili (ha scritto Jean Cocteau) a quelli ad esempio dei personaggi di Gogol’, il quale sapeva ordire un dramma attorno a un aneddoto piccolo in sé, ma in grado di accendere valori e sensi generali. Insomma in Ladri di biciclette non ha peso oggettivo il livello di verosimiglianza del furto, quanto il percorso che il film riesce a compiere nei solchi del reale e del simbolico. Tale è del resto la dimensione del racconto moderno nell’atto di puntualizzare le cose magari minime e gli stati d’animo (tanto dichiarava De Sica in un suo articolo per «la Fiera Letteraria» del 6 febbraio 1948). Ma il senso del particolare in Ladri di biciclette non è un postulato generale e teorico, quanto una capacità di messinscena attenta alle singole sfumature e al dettaglio, all’espresso come all’inespresso, al rappresentato e a quanto invece rimane entro le valenze residuali intercettate dalla cinepresa. La linea narrativa si inanella perciò lungo le varie segmentazioni, tutte importanti e tutte egualmente in grado di emozionare e meravigliare deviando ogni volta l’attenzione verso qualcosa di inatteso. Mai a ogni modo il racconto filmico si impasticcia nel perifrastico, né in parallelo l’articolazione narrativa si sperde nel tema generale. Ogni volta infatti che la regia si sofferma a considerare un particolare, chiama alla constatazione della sua vivificazione linguistica e emotiva. Così nel mentre si compie l’esperienza dell’inseguimento dei ladri, dentro le immagini e le inquadrature sempre avvengono ulteriori esperienze: figurazioni gemmee e sostanze variamente fantasticate e gestite, con un valore dunque autonomo (vedasi l’autovettura che sta per investire il piccolo Bruno senza che il padre se ne accorga). E, del resto, intorno ai due protagonisti c’è, vivida per quanto indifferente, la realtà pulsante della vita romana. Il reale, insomma, non dato piattamente né documentaristicamente, entra nello spazio del film conformemente a un disegno diegetico acceso dalle intonazioni atmosferiche e anche dalla specchialità ontologica. L’affabulazione e le emozioni giocano infatti sul filo doppio del referto narrativo e dei filtri di un’immaginazione tesa all’inseguimento degli oggetti reali che la camera cattura per caso. Una vitalità elementare isola gli oggetti e i volti, nella loro naturalità visiva e sensibile. L’immediatezza e agilità compositiva di De Sica equivale insomma a un avvicinamento ai materiali – e quasi una remissione a essi – tanto da farli vivi e parlanti. Con l’effetto di un bilanciamento tra la realtà e i suoi sovrasensi magici e fantastici, tra la condizione sfiduciata dell’operaio per l’assenza di lavoro e le spire della solitudine esistenziale. In breve, tra dimensione reale e spazio simbolico. Senza però che alcuna nozione d’astrattezza ottenga il sopravvento. Il vero merito della regia, osserva André Bazin, è di non tradire le cose lasciandole avanti tutto esistere liberamente e amandole nella loro particolare singolarità. Entrando quasi in conversazione

con una realtà non assunta aprioristicamente né ridotta a pretesto di racconto, ma invece corpo testuale con il quale liberamente colloquiare quasi a prescindere dall’obiettivo cinematografico. È sintomatico che De Sica avesse quasi a fastidio di dover guardare i propri materiali attraverso la macchina da presa: la scena e gli interpreti egli li voleva invece seguire direttamente, in un legame vivo con la situazione. Un’attitudine e una tensione verso il profilmico che egli del resto mantenne sempre. In lui la purezza dello stile neorealista, nella sua capacità di aggirare l’intreccio e ogni partizione narrativa tradizionale, oblitera le cristallizzazioni formali di un Visconti o di un Rossellini per assieparsi in un linguaggio di emozioni. Volgendosi a una semantica del dolore e dei sentimenti (l’endiadi che caratterizza il miglior De Sica) straordinariamente moderna, ma le cui connessioni si scolpiscono non nell’indeterminazione ma all’opposto in un tempo storico e sociale. In poche opere anche letterarie la drammaticità dell’Italia del dopoguerra riesce a trapelare con tanta forza. Ogni particolare mostra infatti la condizione operaia. E ogni episodio – persino il cosiddetto elzeviro zavattiniano della santona – si colloca nelle prospettive d’esperienza e sopravvivenza dei poveri. Ma il punto è che lo stile – annota Aristarco in una recensione – acquisisce maggiore coerenza poiché accetta la piena dimensione umana. Granendosi infatti della luce aurorale della vita del popolo ma anche della precarietà a cui essa è perennemente esposta. Questo carattere, per così dire intimo e corporeo della scrittura, scandendosi in un colorismo naturale e nella limpidezza di immagini epifaniche per l’immediatezza e l’essenzialità di dettato, articola dal proprio interno un carattere reattivo alle situazioni di insicurezza e dolore vissute dai protagonisti. Tanto che è dal senso di partecipazione e dal livello emotivo che nascono i diversi passaggi polemici: ad esempio la sequenza delle dame di carità nella parrocchia, oppure – nella scena della trattoria dove il gruppo dei musicanti esegue la Tammuriata nera – il raffronto tra la maturità commovente di Bruno e il sussiego tutto borghese del ragazzo con il ciuffetto acchittato in fronte, brutto e un po’ alterato nell’aspetto dall’ironia morale dello sguardo desichiano (fot. 35).

FOT. 35

Movendo insomma da una raggiunta maturità espressiva ma poi più precisamente da un’adesione emotiva e intellettuale alla propria materia, il regista descrive l’esistenza proletaria dei poveri del dopoguerra in termini di intensità e profondità di emozioni, oltreché di relazioni entro lo schema

sociale che il film raffigura. Non cancellando le divisioni e le contraddizioni di classe affidate a segnali inoppugnabili, ma nemmeno anteponendo il loro spessore all’esistenza concreta dei personaggi. Che ci si mostrano e si danno a vedere in tutta la loro immediatezza e precarietà (una forza dei sensi e del corpo che è però anche debolezza): in una specificità anche sociale e antropologica che non disperde i caratteri individuali che, anche per questo, tendono a sottrarsi all’indeterminatezza e alla pura generalità consegnandosi a una condizione di isolamento. È la via lungo la quale la rappresentazione incide sulle valenze emotive dei personaggi spingendoli verso la pressione dolorosa del mondo. Ma, insieme, incarnando e condensando nel mutevole fluire delle scene il ritmo e il significato dell’esistenza. Infine nuotando tra le diverse sensazioni che compongono la ricchezza del film – il suo costante avanzare in avanti, il suo divenire – nella confidenza con ciò che non è predeterminato. La forza di Ladri di biciclette è insomma stringere in un nodo formale il racconto ma al tempo stesso immetterlo in una durata proteiforme e mutevole. Sciolti da ogni preventiva protezione, i personaggi si espongono così a ogni possibile rischio. La loro persona e salvezza non vengono garantite dalle strutture sociali («Se il lavoro non c’è, la gente non se colloca… Del resto, poi come cellula abbiamo fatto presente la cosa in direzione e alla Camera del Lavoro»). Né tantomeno dalla carità pelosa dei ricchi, scivolante entro una larga e composita sequenza che anticipa, senza mai eccedere nei toni, talune sferzanti visualizzazioni di Buñuel. Sono i punti in cui le immagini, scampando appunto a ogni prefigurazione, spingono lo smarrimento dei personaggi verso un’ansia e un disordine, verso marcature prima inimmaginabili e moderne: premendole in una condizione di solitudine vestita con panni proletari, dunque attenta al proprio tempo ma tuttavia in grado di antivedere certe svolte del cinema dell’alienazione che sarebbero venute fuori un decennio appresso (si pensi solo a Il grido (Antonioni, 1957), che ha anch’esso a protagonista un operaio, ma si pensi anche a Bresson). Per ciò stesso la tecnica del pedinamento, dell’inseguimento dell’oggetto sottratto ma necessario all’esistenza (fot. 36), si tiene lontana da ogni finzione consolatoria. L’“amoroso detective” di Luigi Bartolini, cioè a dire il narratore e il soggetto dell’opera narrativa del 1946 che nella prima edizione recava il sottotitolo significativo di “Romanzo umoristico del furto e del ritrovamento d’una bicicletta per tre volte”, è qualcuno che nella sua “celeste anarchia” si vuole discosto le mille miglia dal pianeta in cui è condannato a vivere Antonio Ricci.

FOT. 36

Il quale è un perdente, forse anche un predestinato. Ma che è più esattamente un personaggio ferito a fondo sin dall’inizio del film, già stremato dal dramma della disoccupazione e piegato dalla crudeltà e imperscrutabilità dei meccanismi sociali. Così la ricerca della bicicletta, oltre a non imitare l’avventuroso periplo letterario di Bartolini, è invece l’incunabolo di un’angoscia che non incontra appoggio in nessun altro. Alla triste perentorietà delle vicende narrate fa però da contrappunto nel film la tenerezza del regista verso i suoi personaggi: una tenerezza che si allarga in tono elegiaco e in una vasta e fonda malinconia, che già Antonio Pietrangeli aveva inteso quale cifra connotativa dell’arte di De Sica.

Tale arte in Ladri di biciclette si fa cognizione del dolore, ma essa non esiste se non con la sua condivisione. La percezione di un più sottile tono dei personaggi spinge infatti la regia verso una disposizione alla sofferenza, che è in pari tempo sostenerla, comprenderla, persino viverla. Il dolore insomma di quella vicenda affina la capacità di sentire dell’autore. Siluettato nei barbagli grigioformi della fotografia di Carlo Montuori e ancora calcinato dentro la crescente disperazione, l’Antonio Ricci di De Sica si muove in una maniera sonnambolica e con lo sguardo smarrito. Ciò che in parte lo salva è la presenza del suo ragazzino forte e grintoso, per quanto ancora ignaro delle brutalità della vita. Di fronte alla loro tragedia, di fronte ai problemi da cui sono attanagliati, la cinepresa opera al minimo. Lavorando sui molti particolari che recano l’impressione di verità, cassando ogni logica esteriore e spettacolare. Un’arte del levare, del sottrarre, questa del De Sica regista. Infine un’energia che cerca l’essenza e il grido nascosto, e dispoglia la superficie parvente dell’inquadratura per scendere nell’animo dei due personaggi. Quest’arte dell’inscenamento, che parve straordinaria a Welles, è l’arte della cancellazione di ogni impegno e strumentazione troppo evidenti di messinscena. Ed è l’arte dell’immediatezza (De Sica non ha mai girato molta pellicola: gli bastavano in genere due riprese di scena per garantirsi i risultati di freschezza e poesia). In Ladri di biciclette gli angoli di ripresa si sforzano di schivare ogni falsa costruzione dell’immagine e ogni pratica esterna, operando sui masselli luminosi degli oggetti, sui gesti semplici degli interpreti (quantunque a volte costruiti come il salto di Bruno rimproverato dal padre mentre sta orinando), e sul potere di sublimazione del racconto. Che se nella prima parte sembra scandirsi nei tagli di montaggio, nella seconda parte pare quasi sovrimporsi al tempo reale. Il continuo slittamento dei toni espressivi, quello stesso che crea una intima transitività tra i personaggi e l’ambiente, tra la gestualità popolare e lo sfondo metropolitano, dispone l’iter narrativo in una linea prospettica che sfocia nella sequenza conclusiva. Ma prima di quella, il lungo inserto dell’incontro con il ladro e insieme l’inconclusività del lungo inseguimento, danno come un senso di scacco, una sofferenza premente e greve. Sino a farci avvertire come ogni istante divenga per Ricci un supplizio. Poi d’improvviso esplode la sequenza conclusiva. Camminando a fatica, Bruno cerca di raggiungere il padre, il quale procede più velocemente lasciando il figlioletto alle spalle. È il momento in cui un’autovettura potrebbe investire il bambino (fot. 37). Antonio pare quasi fuori di sé, stralunato dalla fatica. Accede sovrappensiero al luogo dell’azione finale, la zona circostante allo Stadio nel quartiere Flaminio. L’avvicinamento è segnalato dall’irrompere sulla banda sonora delle grida dei tifosi, che si mescolano coi rumori delle automobili e con la musica dolorosa di Cicognini. Ripreso in posizione frontale, con un’angolazione dal basso, Antonio guarda di fronte a sé. Sembra in trance. Intanto le urla dei tifosi divengono più concitate. Bruno è seduto sul marciapiede, anche lui stanco e svuotato. Si passa le mani sui capelli e sul capo (e l’angolazione della camera si abbassa adeguandosi alla sua misura, tornando al linguaggio del suo corpo e dei suoi gesti).

FOT. 37

Indi appare sullo schermo uno sciame di biciclette, forse centinaia, allineate l’una accanto all’altra sugli appositi sostegni. Un totale che guida l’attenzione su una bicicletta isolata appoggiata a un muro accanto a una porta, scoperta dall’obiettivo che coincide con lo sguardo dell’operaio con un assestamento panoramico dal basso verso l’alto e con un passaggio obliquo da sinistra verso destra. Qualcosa, nella materia del racconto, sembra entrare in fibrillazione. Antonio si volta di spalle e si allontana, poi torna in avanti all’interno dell’inquadratura sino alla mezza figura. Nuovamente gira di spalle e si discosta, con le mani lasciate giù sui fianchi. Cammina smarrito lungo il marciapiede, si volta ancora e va a mettersi seduto accanto al figlio. La cinepresa segue i suoi movimenti, ma anche autonomamente li anticipa facendosi per così dire sentire. La stessa musica di Cicognini si polarizza in passaggi sospensivi, come di qualcosa che sia in procinto di accadere. Con un pretesto il bimbo è allontanato dal padre: «Bru’, prendi er tramv e va a Monte Sacro. Aspetteme là!». Ma dopo che Antonio ha inforcato la bicicletta ed è inseguito dai passanti (fot. 38), un carrello in avanti obliquo sulla destra, combinato con una panoramica da destra verso sinistra, stringe il bimbo in un primo piano frontale. Come fosse in un incubo, Bruno spalanca sgomento gli occhi.

FOT. 38

Infine il povero ladro viene acchiappato e malmenato. La macchina da presa abbandona il suo ruolo attivo e torna a essere sguardo semplice e primario. E anche le figure dei protagonisti si stagliano in un piano quasi frontale. L’espressione formale torna a sciogliersi nella intenerita semantica del racconto e nella verità umana di quelle due figure (alle quali Lamberto Maggiorani ed Enzo Staiola conferiscono un risalto che le rende indimenticabili, assolute: come anche Lianella Carell (la madre di Bruno), vennero scelti da De Sica tra un nugolo di persone, anzi all’inizio delle riprese per la parte del bambino il regista girò le stesse scene con Staiola e con Enzo Cerusico, sino a optare definitivamente per il primo). Nelle inquadrature finali Antonio si allontana tenendo per mano Bruno (che lo ha salvato col suo pianto da una sicura denuncia e lo ha preso per mano per sostenerlo, anche per pietà). Entrando in campo da sinistra in primo piano, entrambi si allontanano tra la folla che segmenta lo spazio, uscendo sul fondo della strada dove scende l’oscurità della sera. In dissolvenza, sul fondo nero prendono a sgranarsi i titoli di coda e alla fine si spenge anche la musica. Qualche recensore si è chiesto dove potessero mai andare padre e figlio: quale insomma sarebbe stato il loro destino. La risposta non è facile e per niente univoca. L’eliminazione della figura del suicidio, presa in considerazione in sede di sceneggiatura (che rivela comunque una parentela con la riflessione sulla morte in Germania anno zero), conferma il senso di resistenza alle abrasioni e spaccature della vita. Antonio Ricci si trascina meccanicamente, quasi guidato dal bambino che lo ha preso per mano. Forse non si sopprimerà. E, in ogni caso, la solidarietà che il racconto costruisce nell’animo e nella mente degli spettatori è già una cerniera di consolidamento di una pur minima speranza. La struttura delle immagini ordina i significati dipendentemente dall’incertezza se egli possa salvarsi. Nessuna appartenenza cancella la verità di quel vissuto. Ma nell’amalgama delle emozioni

che animano lo stile narrativo, fluisce come il potere germinativo di un senso futuro convivente con qualcosa di difettivo e dolente, qualcosa che ancora manca. Perciò infine la figura plastica e riconoscibile della modernità di Ladri di biciclette è la solitudine dell’operaio, consegnato a un avvenire stentato e oscuro. Il suo peculio di verità è invece in quello sciogliersi dello stile e della finzione in gamme e onde emotive, dove allo stato granulare si rinviene il linguaggio dei sentimenti. Presentato in prima mondiale a Roma il 24 novembre 1948, Ladri di biciclette è una delle opere capitali del nostro Novecento artistico, un film che s’irradia della luce del tempo storico ma premendo e agendo sugli universali. Anche per questo i riconoscimenti furono così tanti: dai sei Nastri d’argento per il miglior film, la miglior regia, e poi il soggetto stesso, la sceneggiatura, la fotografia e la miglior musica nella stagione 1948-49 via via sino all’Oscar 1949 per il miglior film straniero, al premio speciale e al premio Saint-Michel attribuiti nel 1949 rispettivamente ai festival di Locarno e Knokke-Le-Zoute, al Gran Premio al Festival mondiale dei film e delle arti del Belgio sempre nel 1949, ai riconoscimenti dei critici di New York nello stesso anno, dei critici nipponici e del British Film Academy nel 1950. Nel 1958, Ladri di biciclette venne anche eletto al Festival di Bruxelles da una giuria di registi provenienti da tutto il mondo il film più bello della storia del cinema (ex-aequo con altri cinque grandi capolavori). Nel 1951, De Sica avrebbe diretto per «Documento Mensile n. 1», una sorta di giornale cinematografico curato da Riccardo Ghione, un breve film di sei minuti intitolato Ambienti e personaggi. Con lui c’erano Carlo Montuori, Lamberto Maggiorani ed Enzo Staiola (non invece Lianella Carell). Sono passati alcuni anni. Le nuove rapide riprese si presentano come “note a margine” rispetto al film girato: quasi una «critica degli “scartafacci” nel cinematografo», scrisse Pio Baldelli in «La Rivista del Cinematografo» del dicembre 1953 riprendendo alcuni termini della querelle Contini-Croce intorno alla variantistica. Tuttavia le scene che filmano di nuovo brevemente l’inizio (il ritorno di Ricci a Val Melaina dopo aver ottenuto il posto di attacchino), poi l’episodio del vicolo e il finale (il furto della bici e il pianto di Bruno), configurano un backstage che non è mai riscrittura e certo non intende esserlo. Ma che invece vale quale rapido résumé del film stesso in un’ottica iterativa che può vagamente ricordare – ha scritto Marco Vanelli in «Ciemme» – certe pratiche del cinema iraniano di oggi. Purtroppo allora ignorando e malauguratamente rimuovendo l’occasione di sperimentare il neorealismo assoluto di Zavattini: non applicato o applicato sino a un certo punto in Ladri di biciclette e aperto come si sa a ogni possibilità. Miracolo a Milano La storia del cinema neorealista è quella di una stagione straordinaria per creatività e spirito ideale, in un legame stretto con l’evolversi della società e con una cultura le cui intuizioni e conquiste divenivano un patrimonio collettivo. In questo senso essa è anche la storia delle censure e dei boicottaggi attuati dal potere, economico e politico. In breve, la storia dei contributi finanziari difficili e fortunosi, per non dire proprio impossibili. Dopo Sciuscià, De Sica aveva fatto anche per Ladri di biciclette il giro delle sette chiese (come annota Maria Mercader nel suo libro) inseguendo produttori e tycoon americani, inglesi e francesi. Il successo di pubblico e critica arriso in Francia a Sciuscià lo aveva spinto a sperare o almeno a immaginare che a Parigi qualcuno avrebbe finanziato il film successivo. La risposta fu che i francesi sarebbero stati ben orgogliosi di acquistarlo, ma unicamente a film compiuto! Si registrò anche una sorta di interessamento da parte dello scrittore spiritualista Gabriel Pascal. Costui, attivissimo in Inghilterra, non offriva però nulla di più che l’equivalente di dieci milioni di lire. Infine dopo tanto chiedere e girare, la base economica venne coperta da Ercole Graziadei, Sergio Bernardi e dal conte Cicogna, che lasciarono De Sica totalmente libero di operare come voleva dandogli i soldi che servivano (non molti, quasi sessanta milioni, ma sufficienti per Ladri di biciclette).

Nell’occasione di Miracolo a Milano i finanziamenti furono invece messi da De Sica stesso, che impegnò un vero e proprio capitale. C’era sì una partecipazione dell’Enic, che curava la distribuzione, ma le spese rispetto al film antecedente erano addirittura triplicate in ordine ai trucchi molto costosi, i quali da soli impegnarono più della metà del budget. Ci sarebbero voluti anni e anni per compensare i debiti. Anche in questo film, che in parte restava fuori dal quadro neorealistico a lui più congeniale, De Sica ricerca un linguaggio comprensibile alla maggior parte delle persone: un «linguaggio che esca dal nostro cuore, che raggiunga il loro cuore». Dopo Ladri di biciclette, l’ulteriore tappa non poteva non essere un omaggio alla poetica di Zavattini, ispirato a quel sentimento sociale ed etico che era nel concreto del film la messa a nudo del cuore umano. Anche la fantasiosa e commovente storia di Totò il buono serviva insomma a raggiungere quella verità interiore, che per De Sica si congiungeva perfettamente con il documento umano e con il realismo, ma in questa particolare accezione. All’origine si ritrova un libro di Zavattini del 1943, intitolato appunto Totò il buono. Ma insieme venne a suo tempo preparata e elaborata una copiosa lista di soggetti antecedenti o posteriori, uno dei quali firmato da “Za” e dal principe De Curtis in arte Totò, alias il «noto omonimo asso del varietà e dell’infimo cinema», come osservò malizioso Marotta. Il testo zavattiniano che servì di base al film sarebbe apparso su «Il Momento» del 23 febbraio 1950 con disegni di Franco Gentilini. C’era una volta a Milano una signora molto buona, si chiamava Lolotta e aveva quasi ottant’anni. Una mattina trovò nel suo orticello, sotto a un cavolo, un bambino appena nato e lo chiamò Totò (fot. 39). […]

FOT. 39

Un giorno la signora Lolotta si ammalò gravemente. Erano soli nella stanza e lei domandava a Totò: «Quanto fa sei per sei?». E siccome Totò rispondeva trentasei, essa sarebbe morta tranquilla. Quando vennero i medici, uno diceva colite e l’altro polmonite. Il più grosso alzò la voce e il più piccolo non osò insistere. Due giorni dopo il funerale della signora Lolotta attraversò la città… Totò entrò subito in un orfanotrofio e ne uscì che aveva vent’anni. […] Vagò con la sua valigetta per la città e alla sera capitò davanti a un grande teatro. I ricchi vi entravano brillando come diamanti. Totò incantato si mise ad applaudire. Intanto un certo Alfredo molto povero gli rubò la valigia e scappò via. E Totò lo inseguì ma non aveva il coraggio di fermarlo. Finalmente ebbe il coraggio e Alfredo si mostrò così addolorato di dover restituire la valigia che Totò gliela regalò. Divennero amici e siccome era già tardi Alfredo lo portò a dormire nella sua capanna. La capanna di Alfredo era in un grande prato alla periferia della città in mezzo alla nebbia. Lì vicino passavano i treni. C’era mezza dozzina di capanne, una più bassa dell’altra e i poveri che vi abitavano non potevano starci dritti in piedi… e allora Totò consigliò quella gente di costruire capanne più solide e li aiutò. […] Scese la neve, i poveri crebbero di numero e Totò pensava a tutti. […] Le capanne diventarono più di cento e nacquero le strade. Le strade non si chiamavano coi nomi, bensì strada sette per sette quarantanove, oppure strada cinque per cinque venticinque. […] Venne la primavera e Totò inaugurò l’accampamento con una grande festa e la lotteria aveva un pollo lesso per premio. Lo vinse il novanta e Rappi che aveva l’ottantanove voleva una coscia di pollo. […] Nel piantare l’albero della cuccagna era venuto su da terra un enorme zampillo. Prima mancava l’acqua, adesso c’era e i poveri scrissero sui cartelli l’acqua per fare un corteo. […] Ma subito si accorsero che l’acqua era petrolio. Il giorno dopo Totò si alzò all’alba per andare a mettere un fiore sulla finestra di Edvige. Non l’aveva neppure messo che, tac-tac, la finestra si aprì e si chiuse e una mano aveva tirato dentro il fiore. Forse Edvige era stata lì tutta la notte ad aspettare. Passavano i treni, si

intravedevano le altre case della città e la cima degli zampilli del petrolio luccicava al primo sole. Arturo stava per buttarsi ancora una volta sotto il treno e Totò gli spiegò che tutto era bello. Passò Edvige con le sue ciabatte… Totò le portò i secchi d’acqua sino a casa, era contento ma vide arrivare Rappi. Aveva il cappello a cilindro e la pelliccia e dietro di lui c’erano uomini e guardie che scrivevano dappertutto: «Proprietà Mobbi». […] I poveri si armarono di bastoni, meno Totò che continuava a dire che non poteva essere vero. Le guardie e gli uomini di Mobbi tuttavia fuggirono inseguiti dai poveri. Anche Totò li inseguiva ma per dire che nessuno aveva l’intenzione di far loro del male. Corri e corri, arrivarono davanti all’uscio del signor Mobbi. Aspettate un momento, dicevano gli uscieri tenendoli fermi intanto che Mobbi si consultava coi suoi. Mobbi prese una decisione e allora gli uscieri dissero ai poveri: «Entrate». Mobbi offrì del tè, dopo aver domandato se proprio loro erano i capi. Gaetano rispose di sì… Totò e i poveri se ne andarono tranquilli perché il signor Mobbi li aveva salutati picchiando la sua mano sulla loro spalla. Ma quando arrivarono in vista dell’accampamento, il loro cuore tremò: le guardie cacciavano via i poveri… Per fortuna arrivò dal cielo come un lampo la signora Lolotta e diede una colomba celeste a Totò perché con quella lui poteva fare ciò che voleva… Totò fu tanto felice che quasi cascò giù dal palo. Disse: «due uova al burro» e subito due uova al burro apparvero davanti a lui. Capì che non era un sogno e soffiò via tutto il fumo che invadeva l’accampamento… Totò era intanto circondato dai poveri e tutti gli comandavano delle cose. E chi voleva la pelliccia ebbe la pelliccia, chi biciclette o paralumi. Alfredo volle una valigia grande che contenesse la piccola, uno volle diventare più alto e lo zoppo volle diventare diritto… Venne il sole e Mobbi si svegliò e gridò: «Avanti». Si udì subito il fragore dei carri armati, e in breve i poveri furono presi e messi sui furgoni… Totò non aveva più la colomba perché gli angeli l’avevano portata via… I furgoni coi poveri chiusi dentro si avviarono verso la città mentre Edvige piangendo cercava fra le baracche la colomba del suo Totò … come il vento arrivò con la colomba la signora Lolotta che ancora una volta l’aveva sottratta agli angeli. La vecchietta correva come una lepre e guardava al suo fianco Edvige che correva anche lei. […] A un semaforo rosso gli angeli disciplinati si fermarono così Lolotta potè raggiungere Totò e Totò con la colomba diede un grido di vittoria e fece spalancare i furgoni. I poveri volarono via come passeri… Quanta terra c’era sotto di loro… Poi apparve una spiaggia con le onde bianche che la lambivano, poi solo il mare, e volarono verso un regno dove dire «buongiorno» vuol dire veramente «buongiorno». (Tratto dal soggetto di Cesare Zavattini)

La macchina cinematografica di Miracolo a Milano ci è dunque presentata come una macchina liberatoria: qualcosa che si accosta dinamicamente alla poetica di De Sica consentendogli di rivelarsi a se stesso. Dentro l’arte – e dunque dentro il cinema – si può consertare il “miracolo”, o almeno il pensiero di un prodigio che per un attimo riscatti dal mondo. Così il povero inseguito da una fame secolare può finalmente concentrarsi su un pollo arrosto tutto soltanto per lui. E la donna avvezza ad adornarsi di stracci sa, per un momento, sfuggire a quell’ingrata abitudine indossando una “toilette” uguale a quella delle signore per bene. Tutto insomma può accadere. Che la realtà ceda alla fantasia, ma che anche quest’ultima ceda al principio di realtà. Nella celebre sequenza conclusiva, i baracchesi sono in volo verso un «regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno» (fot. 40). Dove vanno? Il racconto filmico pare realizzare la loro integrale libertà sfuggendo alle minacce del mondo (e dunque in questo modo realizzando l’utopia). Ma anche può essere che essi eludano le insidie del potere sottraendosi al suo imperio: abbandonando così quella realtà dove i ricchi esercitano il totale diritto di cittadinanza. La mancata risposta in termini consolatori conferma la struttura aperta dell’opera. Quella sua capacità di proiettarsi oltre ogni singola sequenza e immagine. La forma s’illumina della tensione verso qualcosa che possa intervenire – e che sempre appare nella dinamica delle immagini – e si muove verso il luogo di cui essa è una provvisoria traduzione.

FOT. 40

Il fatto è che la dialettica e la verità intima del film nascono dall’intersezione tra la mente di Zavattini e il cuore di De Sica, tra la libertà fantastica e anarchica dello scrittore e il mestiere sicuro dell’artista che sa dosare alla perfezione le filature di un racconto tirato a squadra. Un equilibrio difficile, e sempre precario: ma quando esso tocca il punto di giunzione, il risultato è indubitabilmente abbagliante. La costruzione dell’utopia prevede in ogni caso personaggi eccezionali. Terse di luce e lievi di trasparenze, le figurine dei barboni milanesi spiccano per grazia e libertà svincolandosi dalla consecutività obbligata della ratio. Non sono assimilabili all’universo borghese, che apertamente le respinge e ignora: ma all’universo razionale e produttivistico non appartengono neppure per opposizione. Non padroni e servi dei padroni, dunque; ma nemmeno proletari illuminati dalla coscienza di classe. In essi De Sica dipinge in figure di emarginazione tuttavia non miserabile e sempre serena, la lestezza aurorale delle creature che stanno quasi al di fuori della vita. I bambini i vecchi; i poveri di spirito e quelli privi di potere, incontaminati e puri; gli esclusi. Non l’esercito del sottoproletariato, il marxiano Lumpenproletariat, privo di ragione e consapevolezza. Ma appunto, le nature particolari sfavorite dalla vita e anche per questo vicine a una fonte di verità. Immagini a somiglianza delle entità creaturali – non perciò meno reali e concrete né tantomeno antistoriche – che hanno affollato la nostra letteratura italiana a cavallo tra le due guerre e poi anche nel secondo dopoguerra. Come anche il Ricci di Ladri di biciclette, avvicinabile per la solitudine e la straziata, nascosta bellezza interiore a questa famiglia di personaggi. Non fu d’altronde Pavese a osservare, all’inizio degli anni Cinquanta, che Vittorio De Sica era a suo giudizio il più importante narratore moderno della nostra letteratura? I “barboni” di De Sica e Zavattini non fanno balenare nessuna loro particolare ideologia, ma in quanto “poveri” sono totalmente contrapposti al regno dei “ricchi”, di qualunque specie esso sia. Certo possono impetrare soldi, scegliere agi e comodità (il cappotto col pelo, la radio, un salotto, il cappello e il frac), ma questo non altera le loro relazioni all’interno del villaggio anarchico che hanno messo in piedi, né le loro coscienze. La forma con cui del resto il film si illumina è quella dell’angelismo. Un’invasione di fantasia proveniente dal cielo (la vecchia signora che reca al figliastro la colomba, i due angeli che scendono a ricuperarla), fantasia che ha modo di determinarsi giacché esistono i barboni con il loro universo e poiché anche esiste Totò il buono, portato a inventare l’impensabile. Il problema di come l’angelismo e il fiabesco di Zavattini potessero trasferirsi sullo schermo non era sicuramente di facile soluzione. De Sica l’affronta per un verso inscrivendo l’autorialità zavattiniana al centro di ogni operazione, per l’altro verso innestando assai brillantemente in essa una propria dimensione e lettura, in breve l’affinamento del mestiere. La parte più facile, quella che sta in relazione con il precedente cinema desichiano, tocca la materia emozionale e patetica. Il ritrovamento del bambino sotto il cavolo, che può apparire la salvezza di un neonato abbandonato. Poi la malattia della madre adottiva, la signora Lolotta, la sua morte e il

melanconico funerale, con l’orfano che solitario segue il carro funebre. La tenerezza del cinema di De Sica qui si stringe in un grappolo d’episodi esemplari e in squarci di commozione. Lo strumento espressivo gioca sulla mobilità dei piani e sulle risonanze timbriche del bianco e nero, gestito magistralmente da G.R. Aldo (nome d’arte di Aldo Graziati). Ma un ruolo rilevante e sotto molti aspetti decisivo, lo svolge anche la musica di Cicognini. Mentre i titoli di testa sono attraversati dalla scoppiettante marcetta, divenuta poi la sigla musicale del film (e per gli studenti della Famu, la nota scuola di cinema praghese, anche un inno di libertà), l’avvio corre sull’andante tenero della zona introspettiva e sentimentale. La prima inquadratura mostra l’acqua di una roggia, con sovrascritto, in calligrafia infantile, «C’era una volta…» (fot. 41). Poi la cinepresa si innalza per scoprire una casa, scivolando in panoramica lungo un orto attraversato in lungo e in largo da una vecchia signora. È giusto la parte musicale a segnalare una viva frenesia, come un’ebrietà che cresce in progressione.

FOT. 41

Dei vagiti attirano l’anziana donna, che rinviene un bambino seminudo tra le foglie azzurrognole dei cavoli. Con movenze accese, sempre la banda musicale spinge in avanti il racconto: Lolotta, la signora, fa saltelli e emette gridi da uccellino, mentre accudisce il bimbo. Il racconto procede con lei che entra in cucina e saluta Totò: «Buongiorno» (è la prima parola del film) e lui risponde al saluto. Del latte tracimato dal pentolino scorre sul pavimento. Lei saltella e pulisce: l’angolazione dell’inquadratura dal basso e quella felicità sopra le righe tradiscono gli svirgolii di una scrittura che impenna la propria linearità in salienze impreviste. Siamo tra il realismo e qualcosa che gli è conseguente. Nel latte finito a terra, lei indica al bimbo la totalità del mondo. Poi con un rapido passaggio, siglato dall’immagine dell’orto al di là della finestra, ormai ammalata gravemente chiede al figlio quanto facciano sette per sette, e sei per sei, e poi tre per tre. Le tabelline si caricano di una semantica degli affetti e di un addio definitivo. Non che il patetico sia il solo dispositivo d’enunciazione, collimando invece come avviene con un qualitativo d’ironia. Lei piccola e bianca nel letto, viene visitata da due dottori in nero. Il borborigmo delle voci si trascina sino all’incipit della bellissima sequenza del funerale. Qui il realismo accetta il peso enfatizzante della scoperta surrealista. Tra le brume e alti casamenti in fuga prospettica, il carro funebre avanza trainato da cavalli infiocchettati. Il selciato è bagnato: pozze d’acqua rispecchiano riverberi di luci e fasci d’ombre. All’incrocio il carro si ferma, lascia il passaggio ad altri mezzi. Il battito degli zoccoli flette il tessuto musicale della ripresa: un movimento delle azioni segnate quasi su un metronomo. La morte della madre è l’avvento di Totò alla vita vera, significato dall’ingresso in una città con nebbie e isolati movimenti di carri e automobili. «Camminate Felici Scarpe Faita». Oppure, sullo sfondo, «Airoldi Di Luigi Fiorista». Il bambino osserva meravigliato. A un certo punto perde di vista il carro funebre. Poi viene affiancato da un uomo inseguito da due poliziotti che entrano dentro l’inquadratura come nelle comiche degli anni Venti. La parte dolorosa e patetica – data da De Sica con trepidi e attenti tocchi – vive adesso in un unico conglomerato insieme con la leggerezza ironica della fantasia. Svanite le due guardie, il manigoldo smette di seguire il funerale e se la dà a gambe.

Il bimbo se ne stupisce: non si scioglie dal dolore, ma rimane attratto dalle cose singolari che gli accadono attorno. Il bellissimo prologo chiude così sui due piani in dissolvenza di lui che è portato all’orfanotrofio, e di lui che ragazzo ormai fatto ne esce e, incontrato un passante, gli dà il proprio buongiorno ricevendone borboglianti rimbrotti. Ormai il paesaggio reale e anche quello psicologico si sono disfatti in un iridescente sbriciolare di movenze e luccicanti invenzioni, che pigliano a riempire il quadro narrativo. Totò ha infatti un cuore naturale e puro: non oppone ostacoli alle folgorazioni che giungono dalla realtà. La città, reale e poetica, oggettiva e potenziale, gli si apre nei suoi straordinari reticoli e nell’intersezione delle esperienze. Attraversa un campo freddo e bagnato di nebbia: dice buongiorno a tutti quelli che incontra (fot. 42). Che significa, gli domanda un tizio stupito? «Vuol dire veramente buongiorno». Entra nel film la parola magica. Uno dei tratti nei quali le cose naturali torcono la loro immediatezza in una profondità che richiede spiegazioni.

FOT. 42

La rapidità del racconto, lo scorrere dei fatti dall’uno all’altro piano, è una condizione perché dal loro colore, dall’energia metaforica che essi riescono a cumulare, emerga poco per volta il prodigio. I personaggi come anche le vicende non si connettono in una logica razionale. Il lampo di verità scatta dall’accostamento di due tratti diversi: il realistico e il fantastico, che si costruisce proprio sul dato concreto (i barboni che escono dalle loro baracche cominciano a saltellare per riscaldarsi: inizia un balletto singolare, fatto misterioso dal velario scenografico di casupole e neve). Tanta verità da un lato, quanta commozione e gioia poetica dall’altro. Questo avviene perché la regia traduce in linguaggio realistico le fantasie zavattianiane, ma anche perché quest’ultime accettano di svolgersi nella realtà, cesellandola e poi modificandone il corso. Quando parte la scena del raggio di sole, il codice-territorio del “miracolo” viene finalmente raggiunto. La realtà pare in fibrillazione: i flussi di intensità e invenzione a getto continuo spingono verso soglie mobili e fluenti, al di là delle quali tutto comincia ad accadere. Insieme ai tralicci leggeri di un realismo tenue che si espande in malinconica poesia, alcuni hanno anche osservato il carattere onirico di diverse inquadrature. Ciò intanto nella specchialità dei bianchi e dei neri, scanditi musicalmente. Si vedano, all’inizio, i piani della Milano biancogrigia e poi subito dopo la città notturna (e si se vuole anche la scena della Scala, con l’inquadratura virata in oscurità dei poveri all’esterno e l’altra luminosa, alternata a questa, delle dame avvolte in candide stole). Anche il funerale di Lolotta (fot. 43), indicativo di ulteriori valenze, ha la suggestione di un sogno e benché ritmicamente screziato tutt’altro che lieto. E così il villaggio dei barboni con le capanne rade e povere, il bianco sporco della neve, il grigiore della nebbia. Con gli effetti coniugati dell’inscenamento scenografico e del disegno e del campo visivo.

FOT. 43

Le prodezze e le bellezze dell’intaglio desichiano sull’asse del ritmo percorrono e modellano il corpo testuale. Già la sequenza del funerale regolava il proprio sestante sulla perfetta dosatura dei toni: due carri funebri si incrociano, ma l’uguale modulazione non si ripete con il tram fermo al passaggio del carro. Anche la vettura della pubblicità delle scarpe s’arresta per un attimo e ugualmente la musica dell’altoparlante. Il tutto poi ripiglierà fiato e lena subito dopo. L’intervallo ritmico è risolto per via breve, semplice, ma con la finezza dell’orecchio del maestro di dizione, o meglio dell’esecutore di scena. Un esecutore che conosce il gioco d’echi librato tra immagine e immagine, tra le figure del racconto e quelle del metaracconto ivi contenuto. Interfoliando levità e gioco, la regia immette dentro il film una musicalità di movenze ed espressioni.

FOT. 44

Se i personaggi di Miracolo a Milano fanno molti saltelli, è perché in essi ha il sopravvento una verità naturale che li porta a manifestare la gioia, che li spinge verso un movimento ascensionale (fot. 44). Saltella Edvige dopo aver gettato su Totò un secchio d’acqua ed effonde il proprio amore arrampicandosi. Saltellano i barboni, trascinati da Totò nel concerto di un legame da ritessere e rinnovare. Dentro il disegno collettivo, l’emanazione della gioia si fa gioco al plurale. Il salto involontario (l’infrazione dettata dal corpo, dal movimento del racconto: il superamento del freudiano principio di realtà) nell’incontro con le altre vitalità e attitudini, anch’esse trasformate in corse e corsette e in andature ondeggianti, entra nelle maglie di un movimento generale. La grazia diventa ballo, qualche volta coreografia (come era in parte avvenuto nel finale di La porta del cielo), più spesso spazialità poetica il cui lo spartito pare infiltrarsi di trasporti umani. Il movimento musicale e ritmico, con il corredo delle danze e di eteree movenze, non è dunque materia sussidiaria protesa ad abbellire uno spazio referenziale. Ma invece effusione, giubilo tenero, che nasce nei personaggi quando siano lambiti dalla bontà di Totò, e che la regia traduce in un’onda tonale non apposta dall’esterno, ma bensì stillante da un’ardenza di tinte fantasiose ma in pari tempo cariche di emozioni. Sul piano di un’altra e diversa tessitura si muovono le immagini dei potenti. Un ritmo jazzistico e sincopato si innalza nelle scene della modernità. L’ingegnere Mobbi e un altro capitalista (fot. 45),

affondati in comode pellicce, si scappellano e poi srotolano la mappa del terreno occupato dai barboni. La contrattazione segue le accelerazioni e decelerazioni delle cifre proposte, presto trasformate in grugniti e singulti, in fonemi incalzanti sino all’abbaiamento. Certa cattiveria chapliniana, e una qualche raffinata ironia clairiana, soccorrono lo schema creato da De Sica che però non forza i confini semantici del proprio film. Non c’è reciproco tra la disponibilità del cuore e il cinismo affarista. Ma nemmeno una contrapposizione spinta al limite. Mobbi non dispone dell’eco ispirativa dei personaggi popolari, ma non viene per questo rappresentato pesantemente. Anche quando lo inscena, il film sa conservare le sue lievi rilegature stilistiche.

FOT. 45

Certo, aumenta l’ironia. L’ufficio del capitalista, con un uomo appeso all’esterno della finestra, palesa un tocco graffiante, appena appena temperato dalle corse dei camerieri sulle punte dei piedi. Come Mussolini (o il capufficio di Fantozzi), l’ingegnere sovrasta gli ospiti da un tavolo sopraelevato al fondo di un salone con tendaggi e statue di finto stile classico, ma in perfetto stile novecentista (nella versione degradata del Ventennio). La vita solidale edificata dalla tensione visionaria del film sembra svanire di fronte alle pressioni della realtà. A questo punto Lolotta fa ritorno dal cielo e porta a Totò la colomba (fot. 46). Per non cedere, per non veder dissolvere le proprie ideali costruzioni (quali il piano del film mostra), la fantasia ha bisogno di un aiuto. La favola dunque torna a innestarsi sul racconto. «Prendi, caro. Questa colomba è tua, può fare tutto quello che vuoi. Vuoi restare con i tuoi amici? Vuoi la luna? Ti ricordi quando volevi la luna?» La fantasia torna infine a librarsi, ma il controcanto emozionale è forte. «Mamma!», esclama Totò in un doloroso intensissimo primo piano.

FOT. 46

E di fatto la colomba, come ha osservato André Bazin, ha il potere di trasportare su un piano concreto la poesia. Esprime la capacità dei baraccati di materializzarla nel confronto con la realtà. L’immaginazione eventica zavattiniana trova nel film la corrispondenza d’una straordinaria coagulazione di evenienze. Il rapido incalzare delle unità ritmiche incontra la realtà dei prodigi in serie: due uova al burro, tre uova al burro; ecco il gas lacrimogeno risoffiato all’indietro (con un “rimonta dei nostri” allusa dalla galoppante marcetta di Cicognini); ecco il gioco degli ombrelli; la carica data dal primo comandante con voce tenorile e quella ancora più ridicola (e di fatto derisa dai

barboni) del comandante in seconda che gorgheggia come un soprano; e il plotone all’assalto che scivola bellamente su un ghiaccio cresciuto dal nulla. La forza della poesia che vuol mutare il mondo scolpisce le figure di Miracolo a Milano, ma esse sono anche figure vive dell’immaginazione in grado di pensare l’impensabile. L’evidenza del cinema amplifica la progettazione fantastica, che trova appunto nelle immagini il proprio tratto ulteriore. L’evento fuori dal normale, e che del normale dentro il film sembra essere una proiezione, viene trasportato sotto gli occhi di tutti. Così per dirla con Agel, visto che l’impossibile accede alla categoria del vero, il vero a propria volta può arrivare alle categorie dell’impossibile. Tutto questo grazie a un’intenzione poematica che affida al “sogno” il compito di sconfiggere la realtà e al personaggio di Totò una carica demiurgica a mezzo tra l’umano e il divino. È perfetta in De Sica la percezione del mondo nella sua dimensione poetica. Quel che conta, è l’invenzione dei gesti, e poi anche la dialettica di volgere il drammatico in favola, l’ingiustizia sociale nel gioco della rappresentazione che la riscatti, imbrigliando la volgarità del potere dentro la rete dell’ironia. E insieme è classica la capacità di prefigurare tutt’accanto alla miseria la bellezza dell’esistenza. «La vita è bella», dice Totò ai suoi compagni, anticipando profeticamente la felicità surreale dello sguardo di Roberto Benigni che, in questo modo, quasi cinquant’anni dopo saprà raccontare la tragedia dell’Olocausto. Indi si apre sullo schermo la grande sequenza del volo dei barboni nel cielo di Milano, verso un regno lontano, forse impossibile, a cavalcioni sulle scope degli spazzini del Duomo (fot. 47). Tutto pare in quell’attimo perduto. La vita assapora lo smisurato, e il film cresce su linee di intensità spinte sino al culmine, guizzanti dall’uno all’altro tono. Rotto insomma l’involucro formale, la vivente tangibilità delle immagini prefigura infine l’utopia. Il senso ascensionale realizza il distacco dell’esistenza imperfetta.

FOT. 47

Intona lieto il coro delle persone che volano in alto: «Ci basta una capanna/ per vivere e dormir,/ ci basta un po’ di terra/ per vivere e morir./ Chiediamo un paio di scarpe,/ le calze e un po’ di pan,/ a queste condizioni crederemo nel doman,/ a queste condizioni crederemo nel doman!». La messinscena che De Sica offre del copione di Zavattini è anche in questo caso perfetta: diretta e musicale, come si conveniva a un autore la cui natura artistica si affidava – come avviene con i direttori d’orchestra – alle qualità della concertazione e dell’esecuzione, ma anche al timbro personale dell’effetto espressivo. In un film che esalta e poetizza il senso collettivo, non può certo tacersi l’apporto dei molti collaboratori. Dal costumista allo scenografo, dall’autore del montaggio (l’eccezionale Eraldo Da Roma) al musicista sino al datore di luci, il grandissimo G.R. Aldo. Né si possono ignorare gli interpreti: quelli che hanno lavorato sulla caratterizzazione dei ruoli, Paolo Stoppa (Pappi), Arturo Bragaglia (Alfredo), Anna Carena (la “signora”), il sorprendentissimo Guglielmo Barnabò nelle vesti di Mobbi. Gli altri più immediati e spontanei: Francesco Golisano, pressoché perfetto nella parte di Totò e doppiato dal milanese Emilio Pozzi, la fragile e apprensiva (e anch’essa in parte

sensitiva, non foss’altro per gli occhi aperti sul “miracolo”) Brunella Bovo (Edvige). Tra l’uno e l’altro gruppo, e l’una e l’altra maniera interpretativa, Emma Gramatica coglie con la signora Lolotta l’occasione della sua più bella apparizione al cinema. Miracolo a Milano ebbe un grande successo all’estero, confermato dalla Palma d’oro e dal Premio della Fipresci al Festival di Cannes nel 1951, oltre che dal premio dei critici di New York per il miglior film straniero del 1951. In Italia venne accolto da polemiche e avvilenti incomprensioni e vinse appena un Nastro d’argento per la scenografia. Umberto D. Il 16 maggio 1951, lo stesso giorno in cui quattro anni prima, nel 1947, s’era avuto il primo ciak di Ladri di biciclette, iniziano in Borgo Santo Spirito a Roma le riprese di Umberto D. Una scelta forse casuale, ma dalla forte valenza simbolica. La società Rizzoli-De Sica-Amato che produceva il film sulla base di una cifra complessiva di centoquaranta milioni, era il punto terminale di una serie di contatti e incontri intesi a realizzare un’opera che nessuno aveva voglia di finanziare. Erano del resto quelli gli anni del diretto boicottaggio del neorealismo, del suo contenimento. L’editore Angelo Rizzoli giunse a proporre a De Sica la regia di Il piccolo mondo di Don Camillo, progetto rifiutato dal regista per “eleganza” e “buon gusto” («Sono stato più volte accusato di essere comunista. Non ho bisogno per dimostrare che non sono comunista, di fare un film dichiaratamente anticomunista… Il mio mondo è un altro»). Peppino Amato, che era socio di Rizzoli, voleva che De Sica almeno accettasse di sostenere il ruolo di protagonista del film sul vecchio pensionato. Rizzoli per sua parte non demordeva dall’idea di Don Camillo: prima si doveva fare questo, poi Umberto D. Mise sul piatto anche il miraggio di una lauta remunerazione per De Sica. Il quale invece, per fortuna, non fece marcia indietro tanto si sentiva innamorato dal film sull’anziano Umberto D., un personaggio maldestro e sfortunato la cui amarezza e malinconia avevano a suo giudizio un carattere di universalità comprensibile a tutti. Il testo originariamente elaborato da Zavattini recava nel suo titolo L’uomo e il cane. Era un soggetto depositato alla Siae già nel 1947. “Za” ne parla a De Sica nel dicembre 1948, come possibile sostituzione per il film allora ventilato su Totò il buono, nel caso esso venisse a rivelarsi di difficile e “lenta fabbricazione”. In quella occasione regista e sceneggiatore discutono insieme dei rispettivi genitori. Nel gennaio 1949 in una lettera inviata ad Alessandro Minardi, l’amico dei tempi gloriosi della «Gazzetta di Parma», Zavattini sottolinea il carattere commovente del suo soggetto «a favore dei pensionati dello Stato, guarda un po’» e che si imperniava sulla coppia anziano-cane. Al titolo ci era giunto un po’ per caso: saltò fuori Umberto D. come sarebbe potuto venire in mente “Antonio D.”. Una scelta poi mediata nella scena al Campidoglio (fot. 48) dove il pensionato deve dare le proprie generalità e taglia corto col suo secondo nome: «Umberto Domenico Ferrari… ma può scrivere: Umberto D. Ferrari… basta». In un primo momento il racconto contemplava in funzione centrale anche la presenza di una figliola amatissima dal pensionato (il quale per lei pensa pure a un delitto) ma non ugualmente legata al padre. La figura della donna poi scomparve dal testo definitivo. Al suo posto prende corpo una padrona di casa volgare e spietata, nel cui carattere “Za” convoca una sua conoscenza ma anche l’eco di un fatto di cronaca nera che l’aveva colpito, un’affittuaria crudele e interessata che aveva spinto a morire il proprio inquilino. E c’era anche stata una serie di suicidi di anziani che avevano toccato l’opinione pubblica.

FOT. 48

L’altro tratto invece fondamentale fu l’idea di rimpiazzare il corteo dei padroni di cani che protestavano per l’eccesso delle tasse a loro carico con un corteo di pensionati. In tal modo si stagliava al centro del film la figura dell’anziano solo e senza alcun sostentamento se non di una pensione mensile che gli consentiva appena di sopravvivere (delle diciottomila lire che riscuoteva mensilmente, dieci andavano per l’affitto della stanza dove teneva le sue cose e dove dormiva, maltrattato e mal sopportato). Umberto abita presso una donna che affitta camere. Le affitta a ore, e voi sapete che cosa significa: i frequentatori della casa sono amanti, adulteri, uomini anziani con giovanette o giovani con donne anziane. Umberto ha una buona camera tutta per lui, la prese in affitto anni fa, ma la nuova padrona vorrebbe cacciare via Umberto cui rivolge la parola soltanto per offenderlo. Tanto più che Umberto ha un cane e la signora Antonia odia il cane perché odia il padrone. È un cane bastardo, attaccatissimo a Umberto. […] C’è anche una domestica di vent’anni, venuta dalla campagna, che si sta corrompendo, sempre alla finestra a parlare coi carabinieri. [Umberto] non ha più niente da vendere. A poco a poco ha venduto quello che aveva. E non avrebbe bisogno di una grande cifra, ma di poche migliaia di lire. Potrebbe domandarle in prestito. A chi? […] A mezzogiorno Umberto va al Ministero dove ha lavorato tanti anni. Aspetta l’uscita degli impiegati. Qualcuno lo ricorda ancora. A chi domandare il prestito? A questo? A quello? Pedina un tale per un lungo pezzo di strada, finalmente si decide a fermarlo, e gli parla di tutt’altro. Mio Dio, com’è difficile. Pensa perfino di domandare l’elemosina. Guarda a lungo i mendicanti, fa i conti di quanto possono incassare in un giorno; e impara che ci sono i posti che fruttano e i posti che fruttano meno. Sceglie un quartiere lontano dal suo e finalmente si decide. Lungo la strada non troppo frequentata, Umberto si appoggia al muro come fanno i mendicanti. Stende la mano in un modo che potrebbe parere che non la stenda (fot. 49).

FOT. 49

[…] E se morissero assieme, lui e il cane? Lì vicino c’è il passaggio a livello. Il vecchio ci va, prende in braccio il cane, e aspetta. […] Il treno appare in fondo. Il vecchio trema, stringe fortemente a sé il cane, tanto forte che il cane gli scappa ancora più lontano e poi si ferma e si volta verso il padrone. Forse la bestia ha capito? Alle spalle del vecchio passa il treno sollevando carta e polvere. Il cane è scomparso tra gli alberi. Ora è il cane che si nasconde. Il vecchio lo cerca a destra e a sinistra fischiettando il richiamo. Finalmente lo ritrova, il cane si lascia finalmente avvicinare dal padrone. Il padrone sembra che abbia vergogna di fronte alla bestia. Ne stava per fare una grossa, si sente colpevole come se avesse attentato alla vita di una creatura umana. Il vecchio prende una pigna tra l’erba e la butta lontano, il cane si precipita a raccoglierla e la riporta al padrone. Dei ragazzi che stanno prendendo a calci un barattolo si fermano per vedere quel

vecchio che corre fortissimo tra gli alberi giuocando con il cane. (Tratto dal soggetto di Cesare Zavattini)

Dopo aver raccontato la derelizione degli sciuscià, la disperazione di un disoccupato, la guerra tra cattivi e buoni cioè tra ricchi e poveri, e aver descritto il mondo dei barboni, De Sica affronta in Umberto D. la solitudine di una persona del ceto medio: un ex impiegato al Ministero del Lavoro andato in pensione, senza nessun parente e una casa propria. Un personaggio del quale si intuiscono gli anni trascorsi grigiamente in ufficio, stretto nel tran-tran quotidiano di azioni sempre uguali e chiuso in un proprio egoismo borghese (del resto il perbenismo di questi anziani impiegati con pensioni da lastrico si osserva già nella sequenza iniziale della manifestazione senza permesso). Stavolta in Umberto D. la solitudine del personaggio non è ascrivibile a un fatto eccezionale, quanto invece alla condizione di chi è arrivato alla pensione e congiuntamente all’età avanzata. Le ragioni sociali e quelle per così dire esistenziali si fondono in un’intima transitività. L’isolamento di Umberto D. Ferrari – l’impossibilità per lui come ha scritto Agel di trovare un posto nella gerarchia sociale una volta uscito dal mondo del lavoro – illumina anche la solitudine dei personaggi antecedenti. Non cancella la loro appartenenza a un preciso periodo storico ma ne sottolinea il carattere di figure inclinate alla sconfitta e il mistero della loro dolorosa creaturalità. Così in un certo senso Umberto D. è l’epitome dei film e delle tipologie psicologiche precedenti, da Pricò a Antonio Ricci. Un essere debole – o meglio reso debole dalla società e dalla vita – che non riesce a uscire dalla miseria e per questo si vota alla solitudine e all’emarginazione. È una figura – questa dell’impiegato – che evoca nella propria risonanza un universo čechoviano e dostoevskiano (e se in De Sica c’è qualcosa del nostro sentimentalismo ottocentesco, esso è prontamente corretto dal trattamento e dalla sceneggiatura di Zavattini, attenta ed epigrammatica a giudizio di Moravia). Per il suo tramite l’analisi della deiezione sociale o almeno dell’ingiustizia si collega alla debolezza congenita della persona (un anziano in questo caso, i minori in I bambini ci guardano e in Sciuscià, una persona introversa e discriminata socialmente in Ladri di biciclette). De Sica insomma è il cantore dei deboli e, per dirla con certo linguaggio sociologico, dell’uomo che si sente e avverte inutile (e tale è reputato) nel «frastuono della civiltà industriale» (Pietro Bianchi). In tal senso inassimilabile alla nuova società moderna, destinato fatalmente allo scacco e alla solitudine. L’elemento unificante di tutti questi film è lo sguardo gettato su un “umiliato e offeso” dei nostri giorni, onde una modalità che si espande in respiro interiore, in elegia. Il pathos delle piccole cose, degli uomini tristi e solitari, in un’opera quale Umberto D. assume il carattere simbolico della vita. Tale pathos si fonde con la deformazione e la satira del potere (vedi l’affittuaria oppure la monaca in ospedale). La reclusione del personaggio – l’impossibilità di stabilire una qualsivoglia relazione con le persone d’intorno – non è qualcosa di arbitrario, lo scotto pagato a una trama che si regge sull’esclusione. Esso è bensì il muro, (come ha osservato Spinazzola), che sempre si erge attorno ai solitari e a quanti sono rifiutati dalla società. La stessa presenza del cagnetto (fot. 50), non è soltanto il poetico complemento del protagonista e un ritrovamento chapliniano, ma il segno lineare di una fenomenologia e una pratica largamente invalse nel nostro panorama umano.

FOT. 50

In questo prospetto così accorato, il rapporto creativo tra De Sica e Zavattini frammette nel flusso delle immagini una tastiera dalle valenze polisignificazionali. Per cui, se per “Za” la vicenda di Umberto D. ha ragion d’essere ove susciti solidarietà (e dunque se essa determini già all’interno del racconto un moto di reazione), il motore primario per De Sica è quello della compassione, cioè della partecipazione piena al dramma del personaggio. L’una e l’altra posizione, l’uno e l’altro seme si integrano e correggono a vicenda: Zavattini arrecando una spinta di attualità e veridicità anche sociale al sentimento di De Sica; quest’ultimo elidendo gli eccessi volontaristici e ideologici della posizione del suo sceneggiatore. Lo stile del film deriva in fondo dalle stesse preoccupazioni. O almeno esso si disvolge proprio dal personaggio dell’ex impiegato e dalla sua vicenda. Si desume insomma dal modo in cui essi ci vengono consegnati da Zavattini e da come vengono illuminati in immagini da De Sica. Tanto che il soggetto è come ingenerato dalla stessa struttura del racconto (così Agel nella sua monografia). Detto diversamente, la realtà colta al volo in quel flusso di eventi si fa storia all’interno del film, e per questa via diventa stile, sentimento estetico del tempo. L’atto d’accusa che secondo Sadoul Umberto D. rappresenta contro la società italiana, è virato attraverso lo sguardo di un vecchio che diventa lo sguardo sull’Italia contemporanea. La realtà si fa dunque storia e si volge in visione – o meglio entra all’interno della visione che il film offre e prospetta. Insomma diventa stile: uno stile che s’arricchisce sul mordente della verità interiore come degli atti esterni, ma che allo stesso modo si alimenta del loro apporto linguistico. Anche questa volta, come in I bambini ci guardano, come in Ladri di biciclette, il film si costruisce secondo un crescendo che potrebbe anche individuarsi in un climax e scandirsi sull’ordine dei piani e delle sequenze, ma che poi corrisponde a un’empatia tanto intensa da spingere il linguaggio emozionale verso forti culminazioni. Sono spinte e risacchi di sensazioni di cui s’empie la struttura del racconto, che investendo il capitale stilistico del film lo spingono verso la deformazione e il grottesco, ma anche lo lasciano scivolare alla volta dell’onirico e dell’incubo. Si pensi al senso di vertigine causato dalla parte visiva e sonora nella scena del canile. Ma più in generale è da considerare la natura e la qualità dell’intervento del grandissimo G.R. Aldo, con le numerose alterazioni dei piani visivi, le angolazioni ribassate o innalzate e comunque inconsuete, per un certo verso anche espressionistiche (fot. 51). Attente comunque a creare risonanze e dilatazioni paurose dentro la coscienza del personaggio e estensivamente degli spettatori. L’uno e gli altri spinti quasi dentro un oscuro dedalo kafkiano le cui motivazioni storiche e sociali sono nullameno pienamente esplicate nell’evidenza delle immagini: in quella loro astanza che nasce anche dalla conformità al reale.

FOT. 51

Corrispondentemente il commento sonoro di Alessandro Cicognini – forse il suo più bello, una scrittura compatta da poemetto musicale che quasi coincide con la durata del film – impania l’incubo con un acuto senso di sofferenza e di partecipazione, contribuendo anch’esso, in osmosi con la regia, a una rappresentazione drammatizzata e universale dello sgomento e del dolore umano. Procedendo come gli avviene dall’interno del personaggio e delle situazioni, ritratte a volte in tempo

reale (valga per tutti gli esempi quello celeberrimo del risveglio della servetta, oppure ancor prima il tentativo del vecchio pensionato di addormentarsi attanagliato dalla febbre e dalle preoccupazioni dei debiti), Umberto D. si avvicina svariate volte a ciò che potrebbe essere il più diretto e puro comportamento umano. E come ha osservato Karel Reisz, il suo angolo di osservazione che è sempre appuntato sull’evidenza storica e sociale è in grado di penetrare immediatamente dentro la coscienza e il mondo interiore dei personaggi. Tutto avviene con la mirabile capacità di De Sica di accostarsi al quotidiano cogliendone la rilevanza simbolica ma insieme anche la concretezza. Attraverso il filtro della tecnica, della sensibilità, del mestiere stesso: per cui un Carlo Battisti, linguista ed etimologo di fama internazionale, offre la più perfetta risoluzione del personaggio coi propri gesti compiti e con una voce educata e borghese, per questo anche più commovente. E Maria Pia Casilio, presa anch’essa come soleva dirsi dalla strada, statutizza con le sue macule d’istintività e incontinenza amorosa lo stampo di un’ordinaria “servante” che entra per caso in sintonia con la tragedia dell’anziano, che in fondo è per lei un’entità speculare. Nell’explicit, in grazia di quell’istinto naturale che l’aveva sottratto al suicidio Umberto D. Ferrari recupera la vita dopo averla quasi buttata. Vittorio Bonicelli nella sua recensione per «Tempo» ritenne di dover evidenziare il carattere evangelico della soluzione. Ma al di fuori dello schema religioso, altri studiosi hanno sottolineato la similarità con lo spirito di Totò il buono: un senso creaturale che sa ritrovare la grazia e la libertà dell’infanzia, del resto richiamata nella parte estrema del finale dall’apparire di una schiera di ragazzini nella foga dei giochi. Umberto D. sarebbe potuto sfociare nel misticismo oppure nel recupero della fiducia nella solidarietà sociale. Non avviene per Agel né l’una né l’altra cosa: all’incontrario la forza di De Sica e di Zavattini è mantenere aperta la contraddizione e lasciare visibile la piaga, sintonizzando sulla banda del suono e della luce, in breve nell’inscenamento, e con la forza dei pensieri mulinanti in testa agli spettatori, quelle vibrazioni di malinconia e infelicità che accorrono sul quadro delle immagini. Ma al contempo alimentando il senso del reale e della solidarietà, come avrebbe voluto Zavattini: il quale tempera l’intuizione desichiana della solitudine da ogni ombreggiatura ottocentesca ricongiungendola col presente. Così nel finale il vecchio signor Umberto, come lo chiama la servetta, non entra d’improvviso in un universo salvifico né si sottrae con la forza della fantasia e dell’invenzione surreale (come in Miracolo a Milano) alla realtà che lo opprime. Zavattini e De Sica non pronunciano insomma incantesimi poetici sulle cose. Per la stessa ragione le cose non possono essere riscattate per forza di volontà (né il film come chiese Ugo Casiraghi doveva cominciare col suicidio e terminare con lo sciopero). In quel continuo e progressivo deflusso di verità che le immagini accolgono, la scena in explicit mostra il vecchio pensionato che prova a riconquistare il proprio cane, il quale era e tornava a essere il suo unico interlocutore. Anche per lui, per Umberto D., si accende l’interrogativo che inseguiva Pricò o l’operaio di Ladri di biciclette: cosa ne sarà di loro una volta arrivati alla fine del film? cosa dunque sarebbe accaduto a Umberto Domenico Ferrari? Questa assenza di un finale chiaramente definito e autentico, perché in se stesso risolutivo, che ad Aristarco appariva la pecca del film, è in realtà il segno della sua apertura, della sua modernità. Il segno – se ci si passa il termine – della sua bellezza e universalità: della sofferenza come sola via d’uscita per tornare a vivere. Entr’acte Stazione Termini Nel giudizio di De Sica, Stazione Termini«realizza una battuta d’arresto in quanto vuole essere un film d’arte realizzato con intenti commerciali». Si direbbe una contraddizione in termini: senonché

l’arte va al passo anche col successo, questo va da sé. Nondimeno il film segna un momento di pausa – o se si vuole di crisi – rispetto alla linea poetica sino ad allora seguita. Un arresto della tensione ideale, se non esattamente un arretramento: giacché in ogni caso De Sica sceglie un diverso terreno rispetto a quello della ricerca neorealista, quasi inseguendo altri approdi (l’esito non positivo di Umberto D. presso il pubblico aveva avuto un suo peso; migliore era stata ovviamente l’accoglienza della critica, ancorché a Cannes nel 1952 non gli fosse stato dato alcun premio: i riconoscimenti che si ebbero furono quelli della critica di New York nel 1955 riservato al miglior film straniero e il Primo premio al Festival di Punta del Este nel 1952, malamente e volgarmente ostacolato dalla delegazione ufficiale italiana). Ai giudizi generalmente negativi o comunque dubitativi su Stazione Termini da parte dei critici più reputati e ascoltati e anche vicini a De Sica – da Georges Sadoul a André Bazin al nostro Aristarco – fanno pendant posizioni più comprensive verso il nodo di smarrimenti che il film si porta dietro. Penso a Henri Agel, che lo descrive come un film attachant carico di segreti più di quanto non si immagini. Penso anche a Pietro Bianchi, il quale in particolare sottolinea la novità ma anche le incongruenze (incongruenze particolari, al modo in cui un Bernard Berenson le trovava in Caravaggio giacché dava in un suo quadro più importanza al cavallo che a Saulo). Aporie e contraddizioni che risaltavano nella definizione dell’ambiente, del dialogo, dei personaggi, dei contenuti “non sociali”, o almeno non immediatamente sociali. All’origine di Stazione Termini c’è un soggetto di Zavattini passato di mano in mano: da Claude Autant-Lara (che venne a Roma per sopralluoghi alla stazione: i suoi interpreti sarebbero dovuti essere Ingrid Bergman e Gérard Philipe) a Max Ophüls e persino a Rossellini. Un soggetto che fu poi acquistato da David O. Selznick. Concepito e stilato da Zavattini in chiave “italiana”, esso descrive il pentimento di un’adultera ansiosa di rivedere la sua bambina e che per questo abbandona l’amante, un giovane professore innamorato sino allo spasimo e che prova in tutti i modi a trattenerla. Lei appartiene all’alta borghesia, lui al ceto medio. Il messaggio d’amore stinge insomma e muore all’impatto con l’istinto materno ma anche con le differenze sociali. De Sica desiderava da tempo fare un film con un budget e un cast internazionale, senza la solita penuria di mezzi. Per questo si era anche deciso a recarsi negli Usa, dove aveva ricevuto diverse proposte. Tra le tante, optò per un film tratto da una commedia per la televisione che però egli avrebbe voluto girare dal vivo nelle strade di Chicago. Lo script, da lui ritenuto meraviglioso, venne messo a punto insieme con lo scrittore Thornton Wilder. Ma il produttore, il controverso e imperioso Howard Hughes, intendeva decisissimamente che il film fosse girato negli studi tradizionali, con i trasparenti in luogo delle riprese in esterni. Tutto doveva insomma rientrare nel sistema americano. Senza indugi e ulteriori retropensieri De Sica ruppe il contratto. Fu a questo punto che Selznick ritenne di contattarlo sottoponendogli il soggetto di Zavattini ambientato nella stazione ferroviaria di Roma. La proposta comprendeva anche un ruolo da protagonista per Jennifer Jones e un coinvolgimento produttivo da parte dello stesso De Sica, trascinato in una curiosa operazione italo-americana con il concorso e il supporto di Marcello Girosi. Le riprese apparvero subito molto travagliate e si protrassero comunque per oltre due mesi. Il luogo dove si girava era ovviamente la stazione Termini, che non potè essere ricostruita in un teatro di posa in conformità al dogma neorealista. Si doveva lavorare di notte, quando rallentava il movimento dei passeggeri e non c’era traffico ferroviario. Al posto della stazione normale si animava un paesaggio di treni e di persone del tutto fittizi, rispondenti alle indicazioni del copione. Selznick faceva ogni giorno recapitare a De Sica un mannello di appunti, all’inizio cavallerescamente valutati e presi in considerazione, poi regolarmente ignorati. Si aggiungevano le bizze della diva, Jennifer Jones, nevrotica e sensibile sempre oltre misura, e last but not least il disordine psicologico di Montgomery Clift, bisognoso d’affetto e già roso dal tarlo

della propria condizione esistenziale (un’angoscia che egli espone apertamente alla macchina da presa, e un desiderio d’affetto reso manifesto dalla continua frequentazione di casa De Sica). Che poi per i dialoghi dei protagonisti fosse stato ingaggiato Truman Capote, anch’egli omosessuale, e che dentro il carattere largamente sentimentale dei testi del prim’attore scivolassero appena percettibili ambiguità e allusioni, aumentò il raggio delle difficoltà del regista. Ma soprattutto il sistema italiano, nella variante neorealistica, faceva a pugni con lo star system americano. Una signora americana, Mary Forbes (Jennifer Jones) è a Roma per un breve soggiorno. Per ragioni familiari – la malattia della sua bambina – deve rientrare in patria. Prima di prendere il treno, però, si fa portare in piazza Navona: di fronte alla casa dove sembra voler entrare tuttavia esita, senza decidersi a suonare il campanello. Va invece alla stazione Termini, da dove telefona alla sorella chiedendole di recapitarle i suoi bagagli. Si reca poi all’ufficio telegrafico, e qui cerca di scrivere un telegramma. Ma è interrotta dall’arrivo del nipote (Dick Beymer) coi bagagli. Mary Forbes è già sul treno quando viene raggiunta da un giovane uomo: un italo-americano, Giovanni Doria (Montgomery Clift) che lei ha conosciuto a Roma e di cui si è innamorata. Lui cerca di trattenerla in tutti i modi, in primis con la forza dei propri sentimenti. Lei è divisa tra la passione e il dovere. A un certo punto si appartano – per restare soli qualche istante – in un vagone isolato. Sorpresi da alcuni poliziotti, vengono portati al commissariato. Possono insorgere delle difficoltà, ma il commissario (Gino Cervi) è comprensivo e li lascia andare. Il treno per Parigi è già in partenza. Giovanni la scongiura di restare, ma lei lascia Roma.

Si annoti intanto che Stazione Termini è una storia d’amore impossibile scandita in un tempo e uno spazio suggestivi, in più stampata – come scrisse Guido Aristarco in «Cinema Nuovo» – «con l’inchiostro di classe dell’operatore G.R. Aldo». È la sua maestria – diciamo pure la sua arte – a farci apparire dall’inizio le immagini di una Roma notturna ovattata tra vibrazioni di luci e di buio. Passano degli autobus, è inquadrato un fanale altissimo. Poi dallo spazio adiacente al luogo deputato all’azione, si entra all’interno della stazione stessa, pennellata con luci non troppo forti, però sensibili e appariscenti, acuite dalla linearità aureolante delle moderne strutture architettoniche. Questo lavoro sulle luci e collegatamente sul valore immaginativo della stazione romana viene sviluppato per tutto il film. Moltiplicantesi in quei tanti ambienti nei quali essa si allarga; segmentato dal procedere dei passeggeri da tutte le direzioni; in grado di fasciare e punteggiare i volti e i corpi dei protagonisti, Montgomery Clift e Jennifer Jones ma anche il giovane nipote, un Richard Beymer ancora adolescente ovviamente non ancora assurto ai fasti di West Side Story (un suo colloquio con la Jones avviene su uno sfondo di colonne (fot. 52), mentre un altro dialogo tra l’attrice e Montgomery Clift si compone in un’inquadratura i cui sfondi si allontanano in prospettiva tagliati obliquamente dal percorso in diagonale della folla).

FOT. 52

Al grande G.R. Aldo (cui venne destinata una 40mm per un bianco e nero il più possibile realistico e italiano), la produzione statunitense volle affiancare Oswald Morris per il lavoro sui due protagonisti. L’impressione che danno le sue immagini è di una costruzione manierata e però efficace. Del resto le luci apposte da dietro e numerose altre soluzioni sono lì per sfumare le imperfezioni. Nel buio fasci luminosi scivolano sul volto della Jones affondato in un’oscurità morbida. A questa scelta stilistica ben si accordano i numerosi campi e controcampi ottenuti con un

gioco di modulazioni (notevole quello che la riprende mentre stende il telegramma d’addio). Ed è comunque di un bell’effetto l’arrivo in primissimo piano del volto tormentato di Montgomery Clift, guizzante sullo schermo dopo una panoramica a raffica sulla folla dei passeggeri (fot. 53).

FOT. 53

L’ultimo incontro tra i due amanti avviene – anzi deve avvenire, secondo l’ottica neorealista – nello stesso spazio dove si muove la gente comune (amata e privilegiata da De Sica e da Zavattini). Ma per una sorta di amaro contrappeso, quelle persone che nelle intenzioni dovevano costituire l’ambito collettivo rimangono nel film estranee alla disperazione degli amanti. Torna, benché variato, il leitmotiv della solitudine individuale, quantunque (come in Sciuscià, come in Ladri di biciclette) fortunosamente legata ad altri. Ma torna in una storia nella quale non esistono ragioni sociali preminenti e dove invece domina la dimensione dell’amore. Proprio per l’assenza di un quadro sociale di riferimento viene difficile pensare al precedente più legittimo di Stazione Termini: cioè a dire I bambini ci guardano. Ma se in quest’ultimo film la figura di Pricò è dominante, in Stazione Termini la figlia della signora americana non viene mai mostrata. Sulla scena del film campeggia invece una volontà di riaffermazione del principio della passionalità amorosa ma nel dubbio e la paura che essa debba finire. Da cui quel senso di rinuncia, che ha portato Agel e Bianchi a evocare la figura raciniana di Bérénice. Probabilmente è eccessivo accordarsi a esempi tanto alti se non per un’indicazione tematica. Resta che il rovesciamento del piano d’analisi di I bambini ci guardano sarebbe stato più radicale e soprattutto più convincente se non avessero troppo pesato, in maniera negativa, dialoghi tanto sopra le righe come quelli di Capote (che però si limitò a scrivere due sole scene preferendo andare in giro per Roma) e le bizze anche erotiche della prima attrice, la quale non sopportava di essere respinta pur nella finzione amorosa dal suo partner. Inoltre su tutto pesò il complessivo sistema operativo e, per dirla con Maria Mercader, la sostanziale assenza di libertà in tutte le scelte di fondo. E sì che invece De Sica tenta una vera contestualizzazione del racconto narrativo. Adunando attorno ai due personaggi una vera galleria di tipi: quattro preti stranieri all’ufficio informazioni; dei bambini sordomuti; passeggeri e passanti vari, tra cui un corteggiatore che potrebbe anticipare un uguale personaggio di Il giudizio universale; bersaglieri; un gruppo di soldati, e poi una coppia di sposini; facchini, inservienti, poliziotti, ladruncoli. Tutti colti in un indaffarato movimento che dà l’impressione che la camera li sorprenda al volo, mentre invece entrano ed escono dal campo con precisa costruzione ritmica (con tanto di contrappunti: ad esempio il flusso della folla in direzione contraria rispetto alla protagonista; o l’avvio dei facchini coi carrelli che consente l’ingresso in scena della Jones e di Clift. Un movimento che assume a volte i modi di un balletto ironico, come nel caso dell’arrivo delle autorità (altro spezzone surrealista ripreso poi per Il giudizio universale). È tutto un corredo di piani rapidissimi che ravvivano le frantumate ed estenuate e in alcuni tratti melense tessiture del discorso sentimentale. Con marcature alimentate dalla banda sonora (cori alpini, canti religiosi) e con la chiamata a raccolta attorno ai due divi di frammenti del neorealismo (la Casilio, Nando Bruno, Oscar Blando, un sardonico e cattivante Memmo Carotenuto arrivato da Ladri di biciclette e da Umberto D.) ma anche del cinema antecedente (Cervi, Stoppa, Glori,

Matania, Porelli). Né manca il bozzetto di genere (il ladro) e nemmeno il reperto sociologico (il minatore che arriva dall’estero con bambini e moglie stremata). C’è anche in Stazione Termini un film sotterraneo che preme su quello di superficie. Un film segnato dall’impazienza dei limiti cernibile nella dilatazione e moltiplicazione degli spazi – il binario, gli uffici, i negozi, il piazzale, il vagone isolato – e anche dal loro lento trasformarsi in una dimensione astratta. I confini sono insomma angosciosi e imprigionanti. Al loro interno l’avventura degli amanti cerca di infrangere le barriere del tempo come dello spazio. Tale tempo è passionale, a suo modo intimo, comunque non compatibile con il senso della durata cronologica (figurata nell’incombere dell’orologio che avvicina vieppiù l’ora della partenza), e non stringibile in quello spazio. Circondati dalle molteplici realtà della stazione ma del tutto isolati nel loro tormentato sentimento, i due amanti riparano in un vagone, avviati a un superamento delle regole che potrebbe salvarli e dannarli insieme (fot. 54). Il principio amoroso in lotta contro l’impossibile tuttavia perde giusto nel contrasto con la società. Dentro il vagone si può anche avere l’impressione che il tempo sfugga. Ma il tempo della società e delle sue regole fa irruzione al suo interno. In luogo dell’abbandono al desiderio e alla passione erotica, c’è l’irruzione degli agenti.

FOT. 54

L’amore impossibile e contrastato entra così in una dimensione da incubo (il sottopassaggio) e viene esposto al grottesco e al ludibrio (ecco il tappeto sul quale i due involontariamente s’incamminano, che è quello approntato e steso per le autorità, ecco le risatine allusive). L’amore totale esposto alla pervadente curiosità degli uomini degrada inevitabilmente. Alla fine, rimane l’illusione del tempo liberato. E rimane la sua corrispondenza linguistica, o se si preferisce filmica: il volto contratto, appenato e grondante disperazione di Montgomery Clift. Stazione Termini ha dietro sé anche una complessa e curiosa questione tecnicofilologica. Non fa dubbio che la copia definitiva sia quella licenziata da De Sica per la proiezione a Cannes nel 1953, la stessa circolata in Italia. Ma il produttore Selznick, ossessionato da smanie di grandezza e dal sospetto di un complotto De Sica-Clift contro la prim’attrice che era anche la sua consorte, fece montare negli Stati Uniti una copia di settantadue minuti (quella italiana dura ottantacinque minuti) intitolata Indiscretion of an American Wife, costruita sul fascino della ripresa in diretta e

dell’autenticità delle voci. Una seconda versione più lunga di diciassette minuti, rispetto a Indiscretion of an American Wife e intitolata Terminal Station dà l’impressione di un nuovo doppiaggio, con il recupero nella seconda parte di passaggi delle voci in diretta. Il fatto è però che mutano molti aspetti del racconto. L’incipit vede infatti la protagonista nell’atto di scrivere una lettera nella quale annota di essere malata di cuore e dove accenna alla malattia della figlia, per cui decide di partire. C’è una voce fuori campo che commenta le azioni. E compaiono anche strani particolari buffi: un tizio che fa le facce alla coppia degli amanti sorpresi in atteggiamento imbarazzante sul vagone del treno, un altro che cammina a quattro zampe. Un Dvd appena pubblicato negli Usa presenta anche uno special che antecede Indiscretion of an American Wife: una sorta di trailer promozionale con un piano fisso su Piazza Esedra, su un’immagine di grattacieli, poi con riprese in un salotto condotte dal maestro James Wong Howe. Una cantante, Patti Page, esegue due canzoni – Autumn in Roma e Indiscretions – attribuite per la musica a Paul Weston e per le parole a Sammy Cahn ma basate sulla colonna sonora di Alessandro Cicognini (dunque un vero e proprio ricalco e plagio). Page canta e dopo compare la scritta «Columbia presents a David O. Selznick production», così ha inizio Indiscretion of an American Wife in versione statunitense, quella voluta dal produttore-padrone per celebrare il mito divistico di Jennifer Jones.

La luce viva del popolo L’oro di Napoli La primissima idea di realizzare un film da L’oro di Napoli di Giuseppe Marotta insorse sul finire degli anni Quaranta, in piena stagione neorealista. Venne però subito accantonata. Sino a quando, per conto della Ponti-De Laurentiis, De Sica e Zavattini diedero l’avvio, nel 1953, alla lavorazione del film, con il contributo all’elaborazione della sceneggiatura dello stesso Marotta. La scelta di fare L’Oro di Napoli (così il titolo del film, che mette in maiuscolo i sostantivi) non nasce dunque da un momento di incertezza sul da farsi. Né è ascrivibile a un qualche raffazzonamento dei modelli narrativi di un’abusata e pittoresca napoletanità. Tuttavia, nel dibattito che gli intellettuali svilupparono nel dopoguerra anche a Napoli – e corrispondentemente in quell’impegno ideale di designazione progressista e marxista che rivoluzionò la cultura italiana – l’appello all’attualità e al rigore sembravano escludere ogni infiorettatura folkloristica. I salienti di quella revisione dei sistemi culturali e intellettuali assunsero nella città del golfo le bandiere di Eduardo De Filippo e di Domenico Rea, ma anche di Anna Maria Ortese e di Pasquale Prunas, di Michele Prisco e di Raffaele La Capria. Non ugualmente di Giuseppe Marotta, calcinato dalla critica in una nicchia da cui non si sarebbe più sciolto. I colori accesissimi di quel suo volume di racconti del 1947 che pure gli aveva portato la celebrità, attirarono da subito strali ironici e dissensi. Eppure, va detto per ragioni di verità, le pagine di quel libro brillano ancora oggi per ricchezza inventiva e verbale, oltreché per una qualità di ricostruzione della vita della città che si offre in figura culturale, fantastica e antropologica. I racconti di Marotta non piegano insomma verso alcuna futilità nella descrizione degli ambienti e dei personaggi. Attraverso un così vivace susseguirsi di vicende e di scene, riemerge un patrimonio umano che gli eventi bellici e i transiti della modernità erano giunti a polverizzare. Vicende e eventi, però, che la vita interiore e fisica della città conservava nelle proprie radici e nel proprio ventre. È quanto rivelano i momenti portanti della scrittura di Marotta, ma è quanto perviene anche a delinearsi sui fondali intarsiati di voci e segni linguistici nel film di De Sica. Il primo cimento affrontato in sede di sceneggiatura è la selezione dei racconti (che nel libro di Marotta erano trentasei) e della loro unità. Si pensa a un film disegnato per episodi, tale da non contraddire una visione corale del mondo napoletano. Intervistato da Ermanno Rea, in quegli anni giornalista per «l’Unità», De Sica specifica che gli episodi prescelti – sei, rispetto ai quattro pensati originariamente – potevano essere, secondo una bella intuizione di Zavattini, il risultato di una unione e contaminazione di più racconti. Così “Pizze a credito”, ispirato principalmente a Gente nel vicolo, accoglieva all’interno del proprio disegno diegetico anche La morte a Napoli. E l’episodio di Totò unificava “Il guappo” e altri molteplici spunti e testi, tra cui Porta Capuana. Idem per l’episodio eduardiano di don Ersilio Miccio, nel quale vengono congiunti “Il professore” e “Lo sberleffo”. I “brevi racconti” marottiani (“ritratti, bozzetti”, per dirla con le parole di Mario Gromo), ognuno dei quali in grado di restituire il volto della città, diventavano la materia idonea per trasmettere i caratteri e l’atmosfera napoletana. In più l’ordine prescelto (modificato diverse volte, già in sede di sceneggiatura) prevedeva un’alternanza tra episodi dove prevalesse una vitale prorompenza dei sensi e altri nei quali invece s’affaccia il tema della morte (fot. 55). Su un lato, “Il professore”, “Il guappo” e “I giocatori”; sull’altro lato “Funeralino”, “Teresa” e anche “Pizze a credito”. Gli uni avvicendati agli altri, in scansione ritmica e estensivamente semantica.

FOT. 55

Perciò “Il guappo” è seguito da “Pizze a credito”, nel mentre che “Funeralino” anticipa “I giocatori”, e “Teresa” precede a sua volta “Il professore”. Ma, a rigore, il senso drammatico della morte è presente soltanto in “Funeralino, tratto da un soggetto originale di Zavattini. Viceversa negli altri casi vita e morte si combinano nella vasta embricatura dei rimandi, a segnalare come cultura e esperienza viva del popolo napoletano si ritrovino l’una contiguamente all’altra. Del resto a Napoli la tradizione e il colore, la verità sociale e l’appariscenza gioiosa tendevano a congiungersi alla stessa stregua che l’esistenza e la fine. Le contraddizioni della città erano ugualmente la sua forza, o come scrive Marotta il suo “oro”. Un aspetto e un valore che per lo scrittore – si rilegga il racconto eponimo – equivale alla capacità dei napoletani di risorgere e tornare a vivere dopo le ferite e le percosse inferte dalla guerra: cioè a dire, la «possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta; una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza». Ma che negli intenti di Zavattini è poi la forza di sapersi misurare con la storia, la volontà di sollevare quella “saggezza” (si pensi a don Ersilio) a strumento di conoscenza e di trasformazione della realtà. De Sica guarda avanti, ma allo stesso tempo è catturato e galvanizzato dalla naturale vitalità del popolo: scindendosi tra un risvolto melanconico e segreto per la miseria e la morte, e un senso di esuberanza e festosità di fronte allo spettacolo della città. In L’oro di Napoli di Marotta, egli ritrova insomma la verità antropologica e corporale della sua gente. E la ritrova esattamente nel momento in cui essa stava per soccombere – o almeno per mutare – sotto i fendenti della nostra modernità. Sono quelli gli anni in cui la canzone classica napoletana sta dando i suoi ultimi colpi d’ala, prima di trasformarsi in un modello asservito al mercato e alla televisione. Siamo insomma alla vigilia di modificazioni – il miracolo economico, l’omologazione ai pattern del consumismo – che avrebbero stravolto l’Italia lasciando però in parte indenne Napoli. “Il guappo”. Don Saverio, un napoletano di mezza età (Totò), si reca ogni giorno al cimitero per tener pulita la tomba della moglie di un guappo che è costretto a ospitare a casa sua. La presenza di don Carmine il camorrista (Pasquale Gennaro) è per lui molto ingombrante: mal sopportata dai figli e dalla moglie (Lianella Carell). Alla fine Don Saverio troverà il coraggio di cacciarlo. “Pizze a credito”. Una giovane e prosperosa pizzaiola, donna Sofia (Sophia Loren), ha smarrito il suo anello. Il marito (Giacomo Furia) pensa che le si sia impastato in una delle pizze a credito – mangiate immantinente e pagate in seguito – che ella confeziona giornalmente. Così fanno il giro dei clienti che possono aver acquistato la pizza contenente l’anello. Non s’arrestano di fronte al pianto sconsolato di un uomo (Paolo Stoppa) che ha appena perduto la moglie. Questi urla e piange e fa mostra di gettarsi dal terrazzo, ma viene calmato con una buona mangiata. L’anello verrà infine riportato dall’amante di Sofia (Alberto Farnese), che dichiara d’averlo trovato in una pizza. Per amore e per atavica saggezza, il goffo consorte della pizzaiola accetta quella spiegazione. “Funeralino”. Attraverso le viuzze di un quartiere di Napoli e poi per il lungomare si snoda il corteo funebre per un bambino morto. Dietro il carro sono la madre (Teresa De Vita) e un nugolo di compagnetti e vicini di casa. “I giocatori”. Un vecchio conte (Vittorio De Sica) costringe il figlio del portiere del suo palazzo a giocare a carte con lui. Il bambino (Pierino Bilancioni) è triste e imbronciato. Ma è sempre lui a vincere. “Teresa”. Una prostituta, Teresa (Silvana Mangano) esce dal postribolo per sposarsi. Un intermediario

(Ubaldo Maestri) la conduce in casa del giovane che sarà suo marito. Ma, lui, Nicola (Erno Crisa), l’ha scelta solo per punirsi del suicidio di una ragazzina: insomma per espiare la propria colpa. Teresa è ferita nella propria dignità e lascia la casa del futuro marito. Vi farà però ritorno. “Il professore”. Don Ersilio Miccio (Eduardo De Filippo) vive nel suo basso dispensando consigli ai propri clienti: conia iscrizioni – ad esempio quella per la vecchia beghina (Tina Pica) – ma anche modi di comportamento che smontino l’arroganza dei potenti. Quando ha finito di dare lezioni, va a suonare in trattoria con un gruppo di musicanti.

L’oro di Napoli è il canto del cigno di una vita e una esuberanza al limite della scomparsa. Per questo la gioiosità che l’invade non è un cedimento al bozzettismo, come taluni mostrarono di credere, ma invece il miracolo dell’apparizione di corpi e voci consegnati indelebilmente al futuro. Entrato all’interno dei vicoli della sua città, De Sica ne ritrova il carattere primario e originale. La “lezione” di don Ersilio è qualcosa di più che l’esibizione di una saggezza posta in vendita, quanto il sale della natura vera e dell’intelligenza di Napoli. In parallelo la passeggiata della Loren (diciannovenne prototipo di una venustà meridionale) sul proscenio di una lunga via che dall’abitazione dell’amante conduce al basso dove si vendono le pizze, tradisce un carattere che appartiene assai meno alla spettacolarità della maggiorata fisica – come si diceva allora delle attrici esuberanti e dotate fisicamente – e molto più invece a un rituale popolare e pagano. Un rituale cioè in cui l’esibizione del corpo erotico all’ammirazione di tutti si ritrova inserito in una dimensione antropologica non inabituata al risalto e alle vibrazioni del simbolico. Sul versante correlato si profila però la morte: che è la continuazione della vita, ma che è anche l’insidia che ne inflette e modifica la condotta naturale e in breve la felicità. Sulla morte si può anche ridere, magari per esorcizzarla (ed ecco la mirabile performance tragico-comica di Paolo Stoppa [il vedovo], preannunciata dall’ironia gigionesca e dalla sprezzatura di una caratterista di vaglia quale Tecla Scarano [l’amica del vedovo]: «Donna Sofì, avete saputo? Che strazio! Una càsa distrùtta», fot. 56).

FOT. 56

Si può anche non senza incomodi polemizzare contro vita e morte, come fa Totò fortificandosi nell’avversione e nella rabbia per il guappo che gli occupa la casa e lo manda a infiorare la tomba della sua defunta consorte. Ma senza alcun mantello d’affettazione, la morte può divenire il colore radiante della fine di un’epoca. Quando, malgrado le modificazioni della condotta sociale e malgrado l’indigenza e a volte la miseria spietata, la saggezza del popolo riusciva a tenere vivo il legame con le cose. Così senza sostanziali divisioni le classi agenti sul palcoscenico del film sono il popolo e gli aristocratici. Il primo collocato a fianco agli altri, al modo in cui nella città i bassi fiancheggiano le chiese e i palazzi nobiliari, in una naturale transitività che può sfociare nel contrasto (e allora sarà salutare lo sberleffo) ma che anche stabilisce i caratteri di una vita in comune, non priva di proprie curiose inflessioni forse altrove irripetibili. Si veda allora l’episodio del pernacchio, la più bella apparizione cinematografica di Eduardo De

Filippo. Non la pernacchia, ma invece un “pernacchio”, cioè a dire un’arte (fot. 57). L’arzillo nobile (Gianni Crosio) che ogni volta con l’ausilio di una guardia municipale e del proprio autista redarguisce i popolani e li obbliga a liberare la strada giacché egli deve passare con la sua automobilona, grazie alla perspicacia di don Ersilio Miccio, il professore, riceverà finalmente il giusto guiderdone. Così quando si ripresenta nel vicolo con tutta la sua alterigia, i tre napoletani ammaestrati dal venditore di saggezza gridano tutti in coro: «Duca Alfonso Maria di S. Agata dei Fornari!», e poi fanno risuonare un potente pernacchio, impressionante per la sua vastità e acutezza, perfetto esempio dell’irrisione popolare nei riguardi del potere.

FOT. 57

E si veda anche l’altro episodio di “I giocatori”, nel quale un grande De Sica incarna un vecchio conte, roso dal tarlo delle carte, che costringe il figlio del portiere del suo palazzo a giocare con lui. Siamo a un piano di connotazione che espone la naturalezza del bambino contro l’ossessione degli adulti, e ugualmente la semplicità e schiettezza dei poveri nel contrasto con gli ingorghi psicologici e le manie dei ricchi. Tali distinzioni appaiono legate a un cincischiamento e modellamento di formule di per sé molto diffuso anche in area napoletana. Ma poi, sotto il mantello della commedia e oltre il divagamento ironico, avanza qualcosa di maniacale, di estremo. Un’irrequietezza di marca dostoevskiana che si addensa nell’episodio del giovane napoletano il quale per autopunirsi prende a moglie una prostituta (“Teresa”). Quella malinconia ossessiva, per non dire tetraggine, che insapora tanta nostra narrativa meridionale dal verismo in poi, qui si connota di un senso di impotenza morale che è anche l’impotenza di una classe ormai destinata a scomparire. Sul versante opposto c’è la verità della prostituta, la sua stessa semplicità popolare che la fa più forte nell’opporsi a quello scempio della sua dignità di persona. Portato a una tale incandescenza, l’episodio raggiunge le svolte di una consapevolezza e una modernità, che devono molto alle conquiste attuate dalla nostra democrazia (vent’anni prima sarebbe apparsa inconcepibile una simile rappresentazione in termini etici oppure umanistici). Ma per converso quasi specularmente alla giovane prostituta – resa con dolente immediatezza da Silvana Mangano – lo sviluppo della vicenda raggiunge il corno estremo con la silenziosa intensità della maschera di Erno Crisa, ormai scivolato in una propria vertigine masochistica le cui impronte d’astrazione conferiscono suggestività alla narrazione (fot. 58). Accanto insomma al versante luminoso e sonoro, prende senso nel film anche una componente oscura, confitta nei nodi del malessere, presente e attiva in quello schema vitamorte su cui va a fondarsi l’apriori narrativo del film.

FOT. 58

Scrive Giuseppe Marotta: «Ogni uomo, a Napoli, dorme con sua moglie e con la morte; in nessun Paese del mondo la morte è domestica e affabile come laggiù fra Vesuvio e mare». Altra cosa è però se scompare un bambino. Del resto a Napoli muoiono ancora troppi bambini: scritta che si sarebbe dovuta sovrimporre sulla prima inquadratura di “Funeralino”, l’episodio espunto dall’edizione italiana del film ma anche da quella francese (tagliato evidentemente per decisione dei produttori, che ne ritenevano troppo drammatica la rappresentazione). L’immagine d’avvio di “Funeralino” guarda i tetti della città. Poi con lieve panoramica sulla sinistra, la cinepresa inquadra un vespillone con in braccio una minuscola bara bianca (fot. 59), seguita da una donna e una ragazzina. Scendono le scale. Il rumore dei passi echeggia in una tristezza quasi metafisica. Il carro si muove dopo che la donna ha sistemato i compagni di scuola del suo bambino, schierati in fila e col grembiulino. In quel minuscolo corteo funebre, tutto dev’essere a posto: la bara in primo luogo; poi il carro candido con i fregi e i cavalli impennacchiati; le vicine di casa; un signore con dei fiori, che la madre chiama accanto a sé perché risalti per intero la solennità dell’episodio.

FOT. 59

Da questo punto comincia a snodarsi il percorso del funerale del bimbo prima per le vie del quartiere, poi nella strada che costeggia il mare. Il movimento articolato e naturale della messinscena di De Sica libera una figuratività quasi evanescente. Il carro passa davanti ai bassi, scivola lieve dentro il traffico cittadino. Il dolore forte si intesse del filo di una significazione

essenziale, quasi di un rito: come se la morte del bimbo avesse fatto riemergere le radici profonde dell’esistenza. La morte anche atroce e incomportabile fa insomma riscoprire la vita, giacché con essa convive. A un certo punto la madre lancia alcune manciate di confetti (fot. 60). Il corteo a questo gesto sbanda. Frotte di scugnizzi accorrono e gli stessi scolaretti si accapigliano per raccoglierne alcuni in terra: «Ridenti e furiosi non sentono che la morte li chiama e li conta», annota Marotta.

FOT. 60

Alla fine, nell’ultima inquadratura, con ornata e conveniente circonvoluzione, alcuni ragazzetti fanno la conta del bottino. Qui si arresta e si spegne la pagina più alta di L’Oro di Napoli desichiano. La stessa in cui la rappresentazione della morte insorge dalla viva verità dell’animo napoletano. Ma uguale a come sarebbe potuta essere nel linguaggio più limpido del neorealismo. Quello di I bambini ci guardano e di Ladri di biciclette, di Miracolo a Milano e delle pagine più astratte e lancinanti di Umberto D. L’oro di Napoli ebbe un grande successo al botteghino. De Sica vinse la Grolla d’oro 1954-55 per il miglior film della stagione, mentre due Nastri d’argento 1954-55 vennero assegnati a Silvana Mangano (miglior attrice protagonista) e a Paolo Stoppa (miglior attore non protagonista). Ma avrebbero ben meritato il premio anche Totò e il sublime Eduardo, e lo stesso De Sica in un ruolo che molto fa capire i suoi rovelli di giocatore (in un’ulteriore cascata di sensi dostoevskiani che qui lambiscono la sua esistenza prima ancora che la sua arte). La sua qualità di maestro di recitazione eccelle nella sagacia con cui dirige il coro dei caratteristi e dei comprimari: dall’ottimo Giacomo Furia a Tecla Scarano a Teresa De Vita, dalla sulfurea e surreale Tina Pica a Erno Crisa alla stessa Loren, nel primo ruolo folgorante della sua carriera. Del resto, la sua rara abilità nella conduzione degli attori aveva avuto modo di manifestarsi su altri set che non quelli riconosciuti come propri. Nella filmografia apparsa in «Cinema Nuovo» nell’ottobre 1956, curata da Valentino De Carlo e Guido Gerosa, De Sica viene indicato quale «direttore della recitazione» in Domani è troppo tardi di Léonide Moguy (1951), come anche in Pane amore e fantasia (1953) e Pane amore… e gelosia dell’anno seguente (entrambi firmati da Luigi Comencini) e nel successivo Pane, amore e… di Dino Risi (1955). Idem per Il segno di Venere sempre di Risi e per Gli ultimi cinque minuti di Giuseppe Amato, anch’essi usciti nel 1955. Ed è anche supervisore alla regia di Natale al campo 119 di Pietro Francisci (1947). In tutti questi film egli compariva in qualità di interprete: non è difficile pensare che la sua riconosciuta maestria dovesse spingersi sino alla conduzione degli attori che gli erano compagni di lavoro. C’è tuttavia qualcosa di più: sul set di Domani è troppo tardi De Sica organizzò anche le riprese. E ugualmente (si veda la testimonianza di Gina Lollobrigida in Viva De Sica, il programma televisivo, andato in onda tra il 1983 e il 1984, diretto dal figlio Manuel con la collaborazione di Luisa Alessandri, l’assistente storica in quasi tutti i film), questo sarebbe avvenuto con Pane, amore e fantasia, Pane, amore…e gelosia e anche Pane, amore e… (almeno quando Risi si assentava dal set). Nel caso di Il segno di Venere si ebbe anche un curioso caso di collaborazione con Franca Valeri, che scrisse personalmente le scene in cui lei compariva con De Sica.

Ma soprattutto abbiamo la non troppa vessata o vessabile questione di due regie che gli debbono essere attribuite in toto. La prima concerne la realizzazione al Teatro Olimpia di Milano nel 1946 di Le cocu magnifique di Ferdinand Crommelynck. De Sica si trovava in scena con Nino Besozzi, Vivi Gioi, Antonio Pierfederici. Il regista ufficiale era Mario Chiari, il quale gli cedette la mano dopo aver constatato la difficoltà a condurre l’impresa in porto (ne parla apertamente nelle sue memorie Vittorio Caprioli, anch’egli della partita). Più rilevante l’occasione di Mamma mia, che impressione!, ufficialmente diretto da Roberto L. Savarese (1951) ma nei cui titoli di testa Vittorio De Sica viene indicato insieme con Sordi come realizzatore del film. Mamma mia, che impressione! sta tra due capi d’opera come Miracolo a Milano e Umberto D. (girato nello stesso anno di Ambienti e personaggi). Sceneggiato da Zavattini e da Alberto Sordi, rappresenta il vero esordio dell’attore romano nelle vesti di protagonista. De Sica lo produsse insieme con Rizzoli e con lo stesso Sordi. Ma affermò sempre di averne diretto le riprese, affermazione avvalorata anche da precise testimonianze di Sordi che si considerava suo figlioccio artistico prima ancora che di Fellini. Mamma mia, che impressione! rimane comunque un film bizzarro e geniale, che mescola gli umori surrealisti di Zavattini con i caratteri infantili e scapati dei primi personaggi di Sordi (tipo Mario Pio). Un film sicuramente minore, che per i suoi estri può rientrare a buon titolo nella filmografia desichiana. In grado di chiarire per un verso lo stretto livello di collaborazione in atto in quegli anni nel nostro cinema tra interpreti, sceneggiatori ed autori, ma per altro verso tale da aggiungere elementi concreti alla definizione di una personalità, stretta tra la voglia d’espressione e l’incombenza di sbarcare il lunario (anche nell’affronto continuo all’ossessione della roulette). Abbiamo insomma una vera e propria questione filologica di attribuzione e ugualmente di definizione di un corpus testuale, dominato da una creatività e una professionalità decisamente fuori del comune. Ma anche ascrivibile alla necessità di prendere in mano la situazione se essa avesse dato segni di cedimento e se la baracca avesse scricchiolato troppo pericolosamente. Il tetto Con Il tetto, Vittorio De Sica e Cesare Zavattini tornano al nucleo essenziale della poetica neorealista accentuandone la radicalità e il carattere sperimentale. A Zavattini risale la prima idea del film. Ispirata da persone concrete (un muratore friulano, Natale Zambon, che abitava non lontano dalla casa di “Za”, in via Vasi, e la sua fidanzatina diciassettenne, Luisa, che faceva la domestica in una famiglia dirimpettaia, al numero quaranta di Via S. Angela Merici), ma con un retroterra emotivo che rimontava a esperienze antecedenti. «Credo – dichiarò “Za” in un’intervista per l’«Avanti!» – che dovrei risalire molto lontano per trovare il primo dei fatti che mi impressionò sulla linea dei cattivi alloggi, degli scarsi alloggi. Nientemeno che a quella visita nelle borgate romane che facemmo, un gruppo di scrittori, parecchi anni fa, dopo la guerra e che fu naturalmente accusata di demagogia. C’era una ragazza di circa dieci anni sull’uscio di una camera con il pavimento tutto bagnato dall’acqua appena spazzata fuori, perché era il periodo dell’acqua che inondava le borgate. Questa bambina aveva due cerchioni neri sotto gli occhi come non ho mai visto; era piuttosto bella, ma patita, impaurita, con i calamari enormi che ho detto. Nella camera c’era solo un letto matrimoniale sfatto, niente altro: vi dormivano il padre, la madre della bambina, più tre fratelli della bambina, mi pare dagli otto ai quindici anni, e lei». Il tetto non nasce comunque in quanto reazione a uno stato sociale insostenibile, e anche se suscita pietà e indignata partecipazione, non è se non in qualche tratto il risultato di una polemica politica. Del resto, è proprio la conoscenza della vera Luisa e del vero Natale a spingere lo scrittore verso certe sue curiosità. «In breve si sposarono e la loro situazione era questa: quattro dormivano in una camera e cinque in un’altra, tra i genitori, cognati e nipoti. “Allora, come fate a fare l’amore?”, gli domandai. Lui si

mise a ridere e disse: “Ieri sera, ad esempio, siamo usciti dalla camera in punta di piedi e siamo andati nell’orto”. Un’altra volta mi disse che cercava una camera per lui e sua moglie, avevano una grande voglia di stare un po’ da soli, ma che era molto faticoso trovarla, dati i prezzi. Nel 1954 seppi che si trasferivano a Ostia… in quella campagna dove pascolano puledri, passano pecore e c’è un canale pieno di rane» (Il tetto, a cura di Michele Gandin, Cappelli, Bologna, 1956, fot. 61).

FOT. 61

L’amicizia con i due Zambon (che nel film con lieve e ben modulato décalage assumeranno il cognome Pilon), si arricchisce sul piano umano: Zavattini accetterà di essere il padrino al battesimo del loro primo figlio. Dalla loro vicenda, emblematica del dramma della casa per le giovani coppie povere, lo sceneggiatore avrebbe tratto l’idea per un episodio da inserire in un film il cui titolo doveva essere Seguendo gli uomini. Il film non verrà realizzato, così “Za” pensò di proporre la storia dei due giovani coniugi a Roberto Rossellini, con il quale tra il 1952 e il 1953 stava preparando Italia mia. Ma anche questo fu un progetto destinato ad avviarsi in nube. Quando Zavattini propone il soggetto a De Sica, il regista accetta subito con entusiasmo ed emozione. De Sica capisce perfettamente l’ansia di rinnovamento di Zavattini; e si può dire che la sposi senza riserve. Tuttavia si pone il problema di una struttura stilistica di localizzazione di quella fluenza di vita reale che Zavattini voleva far incontrare con la macchina da presa. Il regista ha ben presente la posta in gioco. E sa di disporsi su un terreno periglioso e però anche entusiasmante, giacché esso riconduce alla vita delle immagini quel che sembrava venire in dissoluzione e perdersi. La stesura definitiva del soggetto segna finalmente il passaggio al lavoro di sceneggiatura. Una primissima annotazione reca la data del 7 giugno 1955. L’ultimissima versione è portata a termine nel novembre del medesimo anno. Intanto De Sica è in fermento per i sopralluoghi e la ricerca degli interpreti, che dovranno, in conformità alla prassi consolidata del cinema neorealista, essere presi dalla strada. Lavora anche a spron battuto come protagonista in un paio di film ( La bella mugnaia di Camerini (1955), Pane amore e… di Dino Risi), per mettere insieme più denaro possibile per Il tetto, che decide di finanziare in prima persona al fine di avere la più completa libertà dai condizionamenti. Ovunque vada (anche a Saint Vincent nel 1955, dove deve ritirare la Grolla d’Oro per L’oro di Napoli), chiede se esistano in periferia villaggi di baracche più o meno legali. E in ogni città cerca volti e corpi, che possano corrispondere a quelli descritti da Zavattini e all’immagine che dei personaggi del film lui stesso s’è fatto. Le riprese iniziarono il 31 ottobre 1955 per terminare il 7 aprile dell’anno successivo: dodici settimane di interni a Roma, negli stabilimenti Titanus, e di esterni tra l’altro in una spiaggia nei pressi di Lavinio (con un’interruzione nel gennaio dovuta all’impegno di De Sica per Mio figlio Nerone, di Steno, 1956). La prima proiezione si tenne il 10 Maggio 1956 a Cannes, a conclusione della presentazione della selezione ufficiale e prima che la giuria, in quella stessa serata, rendesse pubblico il verdetto che escludeva Il tetto dal palmarès. Una decisione ingiusta e, come si usa dire, scandalosa. Ma coerente

con un’accolita di snob messi di fronte a un film che difendeva i poveri e la loro quotidianità senza ricercare orpelli e giustificazioni. Del resto, la linea stilistica di Il tetto tende a riconoscersi nella realtà. Non tanto per il soggetto, o per il fatto che l’azione centrale, la costruzione della casa, dovesse avvenire in un corso di tempo essenziale e breve. Quanto al contrario perché la poetica definitamente neorealistica dei suoi autori era in grado stavolta di accettare una scrittura pura e sperimentale. Luisa (Gabriella Pallotta) e Natale (Giorgio Listuzzi) si sposano ma vivono in famiglia con i parenti di lui. Non hanno intimità e a volte scoppiano dissapori con suoceri e cognati. Per le magre finanze del giovane l’acquisto di una casa pare impossibile. Siccome fa il muratore, Natale decide di costruirne una abusivamente, ma le guardie se ne accorgono e lo costringono a demolire tutto. Dopo qualche tempo il giovane tenta ancora: lavora strenuamente tutta la notte aiutato dalla moglie, dai compagni di cantiere e dal cognato (Gastone Renzelli). Ma, nel primo mattino, arrivato quasi al tetto sopraggiungono nuovamente le guardie, le quali fingono però di non vedere (se la casa è infatti completata sino al tetto, non la si può abbattere). Rimane il problema della multa. Quando un vigile chiede l’indirizzo per recapitargliela, Natale dà il nome della via dove sorge la nuova casupola. L’amore e la tenacia dei due sposi hanno avuto il sopravvento su ogni ostacolo.

Nella sua tessitura, nell’immediatezza delle cose mostrate, la semplicità del film vale apertamente l’azzardo delle posizioni d’avanguardia. Il suo paradosso è quello medesimo del neorealismo: essere cioè un tratto, anche linguistico, culturalmente e moralmente avanzato senza orientarsi verso una maggiore e soprattutto evidenziata elaborazione formale. Della sceneggiatura di Zavattini, De Sica non si prova unicamente a rendere il senso, non alterandone le sfumature, il tocco (questo infatti ricadrebbe nel dominio di ogni regista). Invece si prodiga intorno ai nodi della poetica di Zavattini, assunta tout court come poetica del neorealismo e mai così totalmente inquadrata anche nelle sue germinazioni linguistiche. Così il racconto ha da sfrondarsi di ogni stabbio aneddotico e spettacolare, puntando al contenuto che in esso preme: il rapporto d’amore di due giovani proletari reso impossibile dall’assenza di una propria abitazione. La dinamica del pedinamento diventa in Il tetto l’inseguimento della realtà nel suo divenire. Da ciò, l’elaborazione di una storia che non è data da un plot cardinale e unico, ma che deve costruirsi sulle fluttuazioni della realtà, su una linea eventica, che non è stavolta, come in Miracolo a Milano, effusione di sentimenti e di pulsioni fantastiche e desiderative, ma invece un qualcosa di intrinseco alla trama. Ciò che dà movimento al film, recando accelerazioni non già al racconto ma ai fatti del racconto, è quella turbolenza eccitata e felice che scopre nell’escamotage della baracchetta edificata di notte la possibilità di uscire dalle angosce dell’indigenza abitativa. La forma irrelativa dove il racconto centrale della storia dei due sposi si interrompe per puntare al cantiere di lavoro, alla casa del cognato, alla visita ai genitori di Luisa, discende certo anche dai tagli apportati in sede di nuovo montaggio, dopo la proiezione di Cannes. La conferma (derivata dalla testimonianze di coloro che hanno visto entrambe le versioni), di un acquisto di maggiore scorrevolezza e agilità, potrebbe far pensare a decisi aggiustamenti rispetto al modulo caratterizzante della cinepresa che scende dentro la realtà, e pertanto si concede tempi lunghi, ellissi, passaggi in apparenza morti. La riduzione dell’episodio al contenuto umano come anche alle virtualità del suo accadere, suppone infatti che il testo prenda peso poco per volta. Ma che anche poi si perda per qualche attimo, elaborando lentamente il proprio contenuto. Il film in controtendenza auspicato da Zavattini, perciò ribelle a ogni regola, anche quelle del neorealismo, potrebbe esser stato ricondotto in sede di regia e in seguito di montaggio (sia il primo sia quello successivo, più rapido), a motivi formanti e stilisticamente caratterizzanti indubitabilmente più vicini alla sensibilità narrativa di De Sica.

Così la viva impressione di presenze e accadimenti che nascono copiosi dentro quella realtà sussiste grazie a una formulazione di racconto la cui struttura conti almeno due direzioni: la prima, cardinale, situata nel prolungamento dal generale al particolare (onde ogni dettaglio appare debitore al tema della costruzione di un tetto, e da esso non si eccettua); la seconda volta a incastellare episodio su episodio, sequenza su sequenza, senza un’apparente connessione e sino al punto, nella seconda parte, che la messa a fuoco del tema e plot principale crei un’accelerazione del ritmo, decalcato sul montaggio alternato (i muratori che lavorano alla casa cercando di finirla e le guardie che stanno per sopraggiungere), ma anche centrato sull’intensità delle questioni in campo che chiamano in causa non soltanto la mente, ma anche una qualche intenzione emotiva. Infine, se è vero che Il tetto cerca di ripetere la purezza di linguaggio di Ladri di biciclette ma esplicitando in contrappunto una essenzialità narrativa che si scioglie dalla ricchezza assai ben articolata dei film antecedenti, è altrettanto indubbio che la ricerca del “durante”, cioè a dire del tempo di durata di avvenimenti senza obblighi di trama, o anche l’annodarsi lento e lieve delle sequenze che cercano di folgorare la vita, non danno uno stile freddo (come ad esempio in Rossellini). Né una scarnificazione, al modo ad esempio bressoniano, che privi il racconto della sua densità materiale e psicologica. Non c’è, nel cinema di De Sica, e forse meno ancora in quello pensato da Zavattini, alcuna impennata metafisica, né una linea di espressione che non serva immediatamente i sentimenti. Onde il declinare di questa linearità, espressa su una scala limitata di evenienze e sul pudore dei personaggi, verso una tonalità che potremmo dire olmiana (ma che di fatto anticipa alcune particolarità di quel cinema). Non per questo Il tetto è parente meno stretto degli antecedenti film di De Sica (ancorché si provi ad aprire strade nuove senza rinnegare il passato). C’è un evidente parallelo, ovviamente in termini di funzionalità narrativa, tra la ricerca di una bicicletta da lavoro e la costruzione di una casupola dentro la quale abitare. In entrambi i casi un dato in sé non rilevante diviene una questione vitale. In eguale misura la coppia uomo-bambino di Ladri di biciclette è in diretta sintonia con quella marito-moglie di Il tetto (e alla figura forte del primo film, costituita dal figlio, si appaia in questo caso quella femminile della ex domestica, che ricorda i personaggi popolari e romaneschi del cinema neorealista). Il guizzo di gioia evocativo dell’evasione dalla realtà, che in Sciuscià traluceva nelle immagini vagabonde coi cavalli, si ripete nel film del 1956 in quel volo d’aerei che alimentano le fantasie di Luisa e dell’amica (fot. 62), la quale ultima richiama anche nel fisico la servetta di Umberto D.

FOT. 62

Ma ancor più, di fronte a un mondo ostile che non concede tregua ad alcuna nostalgia e necessità, la trovata tutta popolare della costruzione abusiva introduce nel film una soluzione paradossale che, prima di essere l’effetto della solidarietà, è invenzione della fantasia. La coincidenza con Miracolo a Milano sembrerebbe addirittura eclatante. Non cantavano, del resto, i baraccati di quel film che bastava loro una capanna per vivere e dormire (evocando essi per primi il tema della “felicità edilizia” collocato al centro di Il tetto)? E non è comune ad ambedue i film un’idea di solidarietà che, per rendersi viva, deve in un qualche modo eccedere di possibilità e dunque trascendere i

divieti, o almeno aggirarli? Il principio di fantasia che governa la poetica zavattiniana è con Il tetto trasportato verso il vivo flusso dell’esistenza quotidiana, colta al livello della vita popolare e delle sue esigenze. A differenza di Totò il buono, nulla che sia straordinario eleva Luisa e Natale sopra la loro normalità, se non quel desiderio d’amore che esige il concorso della giustizia sociale. Nuovamente si vede come De Sica e Zavattini rifiutino con Il tetto ogni mimetismo nell’ingranaggio e nelle figure del reale. L’eccitamento di una felicità cercata non arriva dall’alto, suggerita dalla creatività del regista e dello sceneggiatore; ma deve nascere dal vivo flusso della materia, che vuol essere la stessa della vita. Onde la coincidenza di poesia e semplicità, di grazia espressiva e vitalità proletaria. Il De Sica che tratteggia con riserbo le emozioni interiori e che si illumina della realtà dolorosa di un vecchio o di un bambino, guarda ai suoi protagonisti con partecipazione ma anche con uno stato d’animo musicale. Per questo Luisa e Natale non sembrano soltanto il riflesso dell’ambiente sociale, ma sono creature tratteggiate poeticamente nella loro realtà. Riscattate grazie alla loro umanità, e anche alla loro gioia, dal rischio di ogni generalizzazione. Tutto questo appare in sintonia con la strategia neorealistica del film, la quale fissa sulla carta i punti forti narrativi della coppia di sposi e della casa, e poi li immette in piena libertà non nel flusso della vicenda, ma in quello della vita che l’ambiente e il soggetto rispecchiano. Da ciò l’impressione non già di freddezza ed estraneità, come pure alcuni osservarono, ma invece di nuclei autonomi di esistenza che i due personaggi attraversano, oppure unicamente lambiscono. Quasi che il plot, sostanziato di verità interiore e sociale, coinvolgesse nel suo usuale scorrimento quelle faglie di racconto che potrebbero, dentro il film, anche continuare a sussistere da sole. L’impressione che alcuni hanno riportato per Il tetto di tante possibili storie, ora appena delineate, ora anche concretizzate, in altri casi invece abbandonate a una loro inerzia, nasce dalla restituzione nel film di zone irrelative più o meno intervallate al racconto centrale. Questo presuppone non già un appiattimento sulla realtà, ma invece un’estrema mobilità: l’attitudine a ricevere i suggerimenti di un profilmico dentro cui fermenti e albeggi qualcosa di ontologico. Una simile attitudine non può non essere poetica, per meglio dire non può non essere guidata da una appassionata sensibilità corporea e intellettuale, che coglie la verità assoluta della propria materia a segno di ordinarla, o almeno di fletterla liricamente, negli anelli della propria definizione. Il tetto oscilla tra un regime di libertà piena solo a tratti possibile, e il cappio del racconto mirato, reso intenso dai segni di punteggiatura emotiva (attribuibili a De Sica) e sociale (e questi forse appartengono più a Zavattini). Il gesto formale della cinepresa vive sempre nella perenne approssimazione a un valore, dove immagine e realtà finiscano col coincidere. La poetica della vulnerabilità, che privilegia in De Sica il pathos e i personaggi deboli, non è del resto mai indifferenziata. L’ottusità dei parenti di Natale non risulta implicita, ma invece provocata da disagi e paure. Uguale è l’indifferenza dei borgatari, presi dai loro problemi. A un certo momento, nondimeno, si accende in essi una luce, che appartiene all’antropologia prima ancora che alla solidarietà di classe. L’opaca vita popolare di Il tetto, patita direttamente nei sensi, nei rapporti interpersonali, non è cerchiata dentro argini che impongano marcature. Ed è una tale libertà a lasciar emergere dal convenuto gli elementi nuovi, a far crescere su un fondo in parte documentario le molte vibrazioni fantastiche. Non si tratta solo di accorgimenti della ripresa: con lo scenario delle borgate suburbane di Roma (fot. 63), che l’impasto delle luci del bravo Carlo Montuori fa quasi vedere per la prima volta al cinema. Il film non disegna essenzialmente uno spazio e una realtà problematici, quanto all’opposto una linea di confine, non soltanto tra la città reale e la baraccopoli, ma tra le diverse forme di esistenza. Da un lato un mondo popolare al limite della sopravvivenza, dimenticato dal potere ma in

cui contano alcuni valori essenziali; dall’altro, un’umanità già in parte degradata e torva.

FOT. 63

Affacciandosi sulla vertigine di quest’universo, Il tetto sospende i suoi protagonisti sopra il magma sottoproletario. Nei gesti, nelle inflessioni rimpastate con l’incipiente melting pot delle lingue e dei dialetti, si ravvisa un qualcosa di violento, qui ancora trattenuto in un quadretto di genere (vedi la lite nella casa del borgataro che ha fatto la spiata alla polizia). Ma è un fatto che il paesaggio suburbano di queste periferie già prefiguri le borgate dei film sottoproletari di Pasolini, e anche riecheggi i suoi romanzi romaneschi (o almeno in parte li ricordi). L’inclinazione pessimistica di De Sica si deversa, per quanto discretamente, sui fondamenti ideologici del suo film. Ma il senso esistenziale della precarietà e quell’amore per le persone comuni e semplici che è l’espressione plastica del suo neorealismo (così lo straordinario Agel nella sua recensione nei «Cahiers du cinéma»), sono poi tra loro perfettamente inscindibili. Nella sua corposa recensione al film apparsa su «Il Contemporaneo», Luigi Chiarini sottolinea il carattere creaturale e simbolico dei personaggi immaginati da Zavattini, personaggi costruiti secondo tessere analitiche che si compongono in una sintesi arrecata dalla realtà. Conforme al suo «esasperato cronachismo lirico», lo scrittore li osserva, questi personaggi, intendendo conoscere e ovviamente mostrare e approfondire la loro condizione sociale. Si potrebbe osservare che quanto essi sentono e immaginano, le riflessioni cui sono spinti, discendano da quella medesima situazione. Per cui essi sono tipici e tuttavia particolari: sono due giovani sposi proletari, e più esattamente Luisa e Natale Pilon, veneto originario di Cavarzere; ma poi lui è, estensivamente, l’operaio disoccupato di Ladri di biciclette ma anche Antonio Ricci; e l’anziano pensionato che è corrispondentemente il personaggio di Umberto D., alias Umberto Domenico Ferrari. In eguale misura la realtà che il film costruisce poeticamente si identifica con la disperante amarezza e l’urgenza del problema della casa. E in questo gli autori non avrebbero immaginato nulla limitandosi a far parlare la realtà; o per meglio dire la loro inventiva agisce sulla realtà spingendola finalmente a palesarsi. De Sica conduce il film con la sua solita mano leggera, sa che oltre questo limite un racconto cinematografico non potrebbe spingersi, pena il pericolo di dissolvere la narrazione. Eppure, il punto massimo di una tanto arrischiata poetica – il neorealismo, lo zavattinismo – non dà il superamento di uno steccato ma all’opposto un evento spoglio e limpido, se mai gravato da qualche eccedenza sentimentale che nasce da quella distanza che già Chiarini segnalava: una distanza voluta da uno sguardo attivo che ha di fronte a sé una materia altrettanto autonoma. Onde la necessità di relazionarsi a questa, senza indurvi turbolenze e confusione. Diciamo, per esemplificare, che la macchina da presa osserva il profilmico intenta a cogliervi ogni intimo moto. E scopre e rimira un po’ discosti anche i personaggi: meglio le loro evidenze umane, prima ancora che sociali e psicologiche. In questa distanza, il mondo che affolla i territori di Il tetto è di fatto quasi contemplato. Ma per quella luce che accende la mente di Zavattini, e per il sentimento che spinge De Sica sino al punto

di mettere il suo cinema al servizio dei poveri, i diseredati di Il tetto sono segnati dai movimenti profondi di una naturalità che non potrebbe sopraggiungere se non dalla loro condizione sociale. Una sorta di allegria ingenua, e insieme di primordiale scontrosità, veste le loro figure. La poetica lontananza del cineocchio che non cede a prossimità banali, li vede semplici e ingentiliti nelle forme, misteriosi nel riserbo che li contorna, nei silenzi, nel pudore degli affetti. Quella realtà, magmatica e semovente, che la camera di Carlo Montuori a tratti intercetta, produce la vita esteriore e palesata del quotidiano, nel male e però anche nel bene. Ma da essa scaturiscono altresì i miracoli, sia pure rivestiti di stracci e miseria. Si accendono i prodigi appartenenti a quella medesima realtà. Il ragazzo smilzo e burino che sortisce all’improvviso dal buio accanto alla baracca, è in fondo un prodotto puro dell’immaginazione neorealista (fot. 64). Viene dalla notte magmatica di Roma, da un universo sotterraneo di abbandono e fors’anche di miserie, da cui però non è stato ancora marchiato. Parla un romanesco chiuso, ruvido; più che dare aiuto, pare ricercare lui stesso una qualche interlocuzione.

FOT. 64

La teoria zavattiniana di una realtà più immaginosa di ogni possibile invenzione, presenta un perfetto esempio, che in parte ricorda la svagatezza picaresca dei bambini in Sciuscià, in parte evoca i pischelli e i giovinetti magri e imberbi della nostra letteratura d’allora (Pier Paolo Pasolini, Sandro Penna, Elsa Morante). Ma per altro verso, con la disavvertita e disarmonica ritmicità del suo procedere, tiene anche qualcosa del clochard di periferia: cui De Sica accorda i tocchi di una musicalità interiore e ballerina, e l’accento di un personaggio d’invenzione chapliniano o se si vuole alla René Clair, che insorge quasi dal nulla. Al Festival di Cannes Il tetto avrebbe ottenuto il premio dell’Ocic. Sempre nel 1956, Zavattini conquistava il suo quinto Nastro d’Argento proprio per la sceneggiatura di Il tetto, mentre a Gabriella Pallotta sarebbe andata la Noce d’oro per la giovane rivelazione. La Ciociara Dopo l’esperienza di Il tetto, De Sica assume la supervisione artistica di Montecarlo (regia di Samuel Taylor e per la versione italiana di Giulio Macchi, 1957) e successivamente di Anna di Brooklyn (regia di Carlo Lastricati e Reginald Denham, 1958) oltre che di Pane, amore e Andalusia di Javier Setó (1958). In tutti e tre i film viene anche ingaggiato come interprete e, nel caso del secondo, è autore delle musiche insieme con il fidato Alessandro Cicognini. L’idea invece di un film da girare a Montecarlo venne a Dino Risi: se si voleva la sua presenza come attore, cosa c’era di meglio di un soggetto legato al mondo del casinò? La proposta di realizzare La Ciociara arrivò successivamente a un viaggio negli Usa. I diritti d’autore del libro di Alberto Moravia, acquistati da Carlo Ponti, prevedevano inizialmente la presenza di Anna Magnani nella parte di Cesira e quella della Loren nelle vesti improbabili della figlia. E che ci fosse una contraddizione in termini fu chiaro quando la grande Magnani si ritirò da quel poco affidabile pateracchio. Così la Loren passò al ruolo principale di Cesira determinando il

primo mutamento di rilievo nel film rispetto al romanzo. Non c’era più una donna di media età con una figlia giovane, quanto una donna giovane con una bambina. Richiamato urgentemente da Cuba dove s’era recato per incontri con intellettuali dell’isola, Cesare Zavattini rientrò di mala voglia a Roma. Non era affatto attratto e convinto da quel lavoro su La Ciociara. L’opera di riduzione e trattamento iniziava così con una presa di distanza dal libro di Moravia, o almeno dalla constatazione di una differenza oggettiva. Ma diversamente da quanto si pensò allora da parte della grande maggioranza dei critici, non era l’aspetto intellettuale e per così dire esistenzialistico a dividere Zavattini da Moravia (dato che nei suoi libri degli anni Trenta e Quaranta si era di molto accostato alla temperie moraviana), quanto l’idea che i due scrittori professavano del realismo o se si preferisce del neorealismo: problematica e tematizzata in termini intellettuali in Moravia, sperimentale e innovativa in Zavattini. Era convinzione di Zavattini che un film come La Ciociara arrivasse fuori tempo massimo anche per un regista della tempra di De Sica. Tuttavia, più che Zavattini, è proprio quest’ultimo a distinguersi maggiormente da Moravia: uniformando la durezza degli assunti narrativi del romanzo – e estensivamente della poetica moraviana – a un inquadramento e uno sviluppo sentimentale e patetico della vicenda. Comune a entrambi (ed estensivamente a Zavattini) si direbbe il nucleo tematico della violenza inferta dalla guerra ai poveri e ai deboli: uno stravolgimento e una degradazione della coscienza interiore più di quanto non avvenga sul piano materiale e fisico. Nel finale del film, dopo lo stupro e dopo essersi data a un camionista, la tredicenne Rosetta ritrova la propria umanità sciogliendosi in un pianto liberatorio. È una soluzione che De Sica contorna con la sua consueta sensibilità: madre e figlia si ricongiungono in un drammatico abbraccio al centro dell’inquadratura (fot. 65), e tale da prolungare il leitmotiv della guerra nel rapporto tra le due donne.

FOT. 65

Parallelamente alle pagine moraviane, il dolore le smuove dall’indifferenza e dall’assenza di pietà. Un dolore che nasce – all’interno del libro – tutt’attraverso il canto e le lacrime («d’improvviso mi dissi che lei, invece, era sempre la Rosetta di una volta, buona, dolce e innocente come un angiolo. Infatti, mentre pensavo queste cose, la guardai e vidi allora che aveva gli occhi pieni di lacrime»). Ma che nel film di De Sica insorge invece dal ricordo di Michele, il giovane intellettuale trucidato dai nazisti. Cesira (Sophia Loren) è una ciociara che vive a Roma dove possiede un ben avviato negozio di alimentari. A causa della guerra lascia il negozio alle cure di un carbonaio innamorato di lei (Raf Vallone) e torna con la figlia Rosetta (Eleonora Brown) nel paese d’origine. Qui conosce Michele, un giovane intellettuale (Jean-Paul Belmondo), molto attratto da lei, che sarà tradotto via da un gruppo di tedeschi in fuga. L’arrivo degli alleati vede le due donne in cammino alla volta di Roma. In una chiesa diroccata vengono sorprese e entrambe violentate da un gruppo di marocchini. Rosetta reagisce dandosi al camionista Florindo (Renato Salvatori). Ma alla notizia della morte di Michele, si scioglie in pianto e torna a essere se stessa nel ritrovato abbraccio della madre.

La coppia padre-figlio di Ladri di biciclette si ricompone al femminile, ma stavolta il proscenio è quello degli anni di guerra. E a differenza dal capolavoro del 1948, la figura adulta appare adesso

forte e determinata, mentre è la più giovane a ritrovarsi esposta ai colpi della sventura. Insomma, La Ciociara riesce a essere un film sulla guerra ma è al contempo anche un film sull’unità degli affetti familiari. Su tale endiadi riposa l’ispirazione registica di De Sica. Nella definizione dunque di un legame che mette in valore e anche in essere una possibilità di resistenza alla devastazione delle cose e a quella più perniciosa che sovverte l’innocenza. La letteratura moraviana, e insieme il sentimento degli eventi sociali e storici, vengono profferti come disegni diegetici sui quali s’inerpica per cammini propri lo stile narrativo di De Sica. Stile che rima la propria minuta poesia sulle verità sottostanti del romanzo tanto quanto della memoria collettiva di quegli eventi. Una luce di speranza – come è evidente dalla scena finale – che prende insomma il posto di un pensiero narrativo redolente di problematicità. Il fatto è che i temi di cui il romanzo si satura transitano nelle immagini di De Sica, ma in qualche misura amputati di alcune pulsioni originarie (le esistenziali e le sessuali, ad esempio) e soprattutto liberi da quei termini definitori che appartengono alla poetica dello scrittore romano. Se si ha nel film la relativa sparizione dell’aspetto erotico e anche di una vera traccia sentimentale, rimpiazzati nel personaggio protagonista dalla volontà di anteporre l’amore per la figlia e la sua salvaguardia a ogni altro possibile rapporto, ciò avviene per una sorta di selezione naturale e per precise situazioni linguistiche. Infine, le tonalità moraviane intraudite nel lavoro di scelta di Zavattini divengono suscettive delle modalità tematiche peculiari a De Sica. E più che pensieri e riflessioni, i fatti narrati sullo schermo, anche quelli drammatici dello stupro, debbono produrre soprattutto emozioni nell’animo. Alle contaminazioni a livello di dialogo tra il testo moraviano e gli apporti di Zavattini che cercano di aprirvi delle fratture, si aggiunge il modo in cui De Sica riceve un romanzo dominato e egemonizzato dalla personalità del suo autore, ma da questi poi prontamente liberato di ogni condizionamento in sede di risoluzione filmica. I fatti, a parte alcuni tagli, sono i medesimi, ma il significato pur estratto da quella precisa testualità accede alle immagini per altre vie. De Sica insomma rinnova le proprie parole e le immagini con i suoi sottosuoni e con quelle oscillazioni tra intensità e mestiere con cui modella la narrazione e insieme l’espressione degli interpreti. In primo luogo la Loren, naturale ed espansiva ma mai dimentica del suo carattere di star (da cui ad esempio un certo incedere matronale e monumentale forse eccessivo per una contadina inurbata). Una Loren che con questo film ottiene nel 1961 il premio Oscar e il premio per la migliore interpretazione femminile a Cannes (dopo aver vinto anche il Nastro d’argento). Ma l’attrice raggiunge soprattutto il traguardo di una recitazione a pieno campo, scivolante dal dramma alla commedia, dall’esuberanza dei gesti ai movimenti più riposti dell’animo (fot. 66). In una performance apprezzata ovunque, ma che non riesce a cancellare la riflessione su cosa avrebbe saputo tirar fuori la Magnani da quel personaggio.

FOT. 66

Una performance volutamente programmata a tavolino dal produttore, in vista di un lancio definitivo della star. Che rende per ciò stesso ancora una volta cruciale nel lavoro della regia la direzione dell’interprete e con essa l’impegno della messinscena. Come sempre in De Sica, l’esecuzione formale supplisce alle ambiguità e incertezze interpretative del romanzo dando luogo alla sua lettura. L’Italia dell’epoca, ricostruita sulla base delle memorie e dei dagherrotipi fotografici, come si evince dai titoli di testa (fotografie che a un momento dato si animano), viene ben colta nel suo carattere urbano oltre che nel fenomeno dell’inurbamento. Ma dacché l’obiettivo si apre alla piena campagna, ci si inoltra in un universo contadino a base fantastico-georgica (fot. 67). Un proscenio virgiliano, se così si può dire (ma così si espresse Leo Pestelli) in forme e modi meridionalistici. Ecco allora i totali del paesaggio montano della Ciociaria, con il lavoro dei contadini nei campi: una tavolozza visiva umettata di nebbioline e di una natura chiaroscurata, che rimemora la pittura popolare ma anche le grandi sequenze agresti di Giuseppe De Santis (si pensi come esempio alla scena della raccolta delle erbette di campo).

FOT. 67

Sono immagini che si accendono del sentimento meridionalista. Un sentimento che trova voce dentro il film nel personaggio di Michele, figura complessa come si sa, quasi travolto dal carattere melanconico e da ondate di dubbio. Un po’ messianico nella sua dedizione a un ideale che egli riesce appena a formulare, ma che nel film ci si formula in termini di destino, di predestinazione alla morte ma altrettanto di esemplarità morale. Il Michele di De Sica e Zavattini è un “sovversivo” più

di quanto non lo sia quello di Moravia («uno de core bono», commenta Cesira nel film, ma che «non c’ha tanta voglia de lavorà»). Prima di essere trascinato via dai tedeschi, saluta Rosetta e Cesira dicendo loro di volersene andare sulle montagne, dopo la rotta dell’8 settembre e la fuga dei nazifascisti. Il giovane Belmondo (fot. 68), che l’interpreta con una certa intensità, ha nella versione italiana la stessa voce che ha Alain Delon in Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti (1960): una voce dolorosa e fratturata e anche in lui increspata di fatalismo. Permeata dell’uguale tristezza e introversione delle voci intellettuali del sud, dunque indirettamente saldata al grande modello viscontiano. E mai sovraesposta e gridata, come invece accade nel film di Visconti; densa di risonanze interiori.

FOT. 68

Il fatto è che il tono assunto da De Sica in La Ciociara tende al semplice. Nel nitore di impaginazione delle sue sequenze non corrono significati che esulino dalla fulgida gravità degli esseri umani umiliati nella loro dignità. Tale è stato in fondo l’ancoraggio di una poetica, che non tira all’idillio o, come nelle pagine di Moravia, a sovramondi intellettuali, ma ribatte su una semantica del dolore che in De Sica è affrontata direttamente nella esistenza delle persone e quasi si direbbe nella loro corporeità. In questa direzione anche l’atroce sequenza dello stupro di gruppo si nutre della misura e della significazione conveniente: costruendosi quasi come un balletto, che eviti la più terribile rappresentazione rivolgendosi alle sue modulazioni e rispondenze. Cercando di cogliere la violenza in quanto emblema di una perdita di umanità e di una desolazione provocate dalla guerra e non sanabili se non nella nuda camera dell’animo. Rosetta insomma si salva, a differenza di Pricò o di Pasquale, perché le riesce di tradurre il suo dolore nel dolore per la scomparsa del giovane antifascista e in quello della madre, divenendo anche lei un personaggio epico dell’Italia contadina che s’avviava alla democrazia. Presentato al Festival di Cannes del 1961, La Ciociara vi ottenne insieme con il premio alla Loren quello per la miglior selezione, individuata nei quattro film italiani in concorso tra cui appariva in una collocazione certamente primaria anche il film di De Sica. Le favole e le immagini del boom Il giudizio universale «La storia si svolge in una provincia italiana non identificata: un giorno si sente una voce improvvisa e misteriosa (fot. 69), la quale annuncia che: “Alle diciotto inizia il Giudizio Universale”. Tanto basta per provocare il caos fra gli uomini. In un primo momento si crede che l’annuncio sia pubblicitario, ma poi il timore si fa posto e una viva ansia comincia a serpeggiare fra gli abitanti, un’ansia che si ingigantisce sempre di più fino a divenire parossismo. L’ora del “Giudizio” si avvicina, incalza, e tutti, ormai convinti della paurosa realtà, corrono ai ripari, cercando di sgravare il proprio animo delle colpe commesse, l’uno per essere stato goloso, l’altro avaro o ladro, e così via. Alla fine, però, la voce per incanto tace; gli uomini allora dimenticano il

momento drammatico vissuto e tornano alla loro vita quotidiana: sono sempre gli stessi, nulla è cambiato in loro. Questa è sostanzialmente l’essenza del racconto». Ma che cosa succederebbe se da un momento all’altro il Padreterno chiamasse a raccolta gli uomini chiedendo conto della loro condotta?

FOT. 69

Gli indicatori e le fantasie di Zavattini investono evidentemente il finito, l’ambito sociale e storico. Eppure nell’uso di quella figura del giudizio c’è qualcosa di escatologico, che segnala un qualche orizzonte spirituale. Ma per un altro verso esso rinvia a un uso a contrario della metafora religiosa: la verità del sacro receduta sotto la serie interminabile delle nequizie degli uomini – le ruberie, il traffico e la vendita dei bambini, e poi il peculato, l’abigeato, il credito sempre millantato, la truffa, la speculazione, l’estorsione, le corruzioni di tutti i tipi, e ancora usurpazione, ricettazione, subordinazione, concussione, diffamazione, falsificazione, prevaricazione, collusione (volendo limitarsi alla lista di illegalità spiattellate ai quattro venti dalla consorte dell’imprenditore napoletano del film). Napoli, una Gran Voce annunzia dal cielo prima ai turisti poi a tutta la popolazione l’inizio del Giudizio Universale per le ore diciotto. La voce continua a scandire l’annuncio nel corso della giornata entrando inevitabilmente nelle molteplici esistenze delle persone e nelle loro case. Una signora sui trent’anni (Anouk Aimée) si sta finendo di acconciare quando le arriva in casa l’amante (Georges Rivière) introdotto dal marito ancora inconsapevole (Paolo Stoppa). In un grande albergo un ambasciatore rinsecchito e ben vestito (don Jaime de Mora y Aragón) fa licenziare un cameriere, Antonio (Nino Manfredi), reo d’aver risposto per le rime a un suo insulto. Nell’aula del tribunale un truffatore è processato mentre l’avvocato difensore (Vittorio De Sica) lo difende con ben cesellata enfasi. Tutto sembra dunque continuare nella normalità. Comincia però a serpeggiare la paura e poco per volta la città si abbandona al caos. In tutto quel bailamme un freddo e cinico funzionario (Alberto Sordi) prosegue imperterrito a raccogliere bambini da affidare, o meglio vendere, a facoltosi genitori stranieri. A un certo momento si alza un grande vento e comincia a piovere a dirotto. Quando alle diciotto comincia il Giudizio Universale una folla immensa si ritrova adunata in Piazza del Plebiscito, ma molti seguono l’evento in televisione, giacché Dio si rivolge a tutto il mondo e inizia a chiamare a una a una le persone per ordine alfabetico (un avaro francese, un razzista di Little Rock, ecc.). Nel Grand Hôtel l’ambasciatore e una avventuriera straniera (Melina Mercouri) approfittano del momento per darsi a qualche eccesso erotico e per sniffare cocaina. Ma in casa del costruttore Matteoni (Jack Palance), la moglie terrorizzata (Silvana Mangano) rivela per intero le malefatte del consorte e regala pellicce e gioielli a un disoccupato (Lamberto Maggiorani) che era venuto solo per chiedere un lavoro. Confusione e panico continuano a imperare sino a quando Dio interrompe non si sa perché il Giudizio. Così alla sera tutti si ritrovano a ballare al Teatro San Carlo per celebrare lo scampato pericolo.

Alle diciotto comincia il Giudizio universale. Si dia allora inizio al ballet. Nella scelta di De Sica di conferire un ritmo clairiano alle intuizioni e visioni poetiche di Zavattini, c’è evidentemente anche un filo di interpretazione. Ma c’è anche un punto di sintesi tra il suo mondo sentimentale e lo sguardo più distaccato e ideologico di Zavattini. Se dunque il volteggio delle immagini, culminante nella sequenza riassuntiva al Teatro S. Carlo, trasferisce sullo schermo la danza implicita degli episodi e dei piccoli e grandi personaggi disegnati nel copione, il testo scritto esibisce di continuo una delle prerogative del cinema: l’uso di quella

libertà diacronica, che fa sì che sullo schermo gli eventi anche più distanti si diano simultaneamente e contemporaneamente. Zavattini imbarca la sua eccezionale inventiva e creatività in una gran quantità di figure, gag, profili e flussi di racconto. Non è detto che essi combacino senza contrastarsi, oppure che ricerchino di agganciarsi al disegno narrativo nel suo insieme secondo un escamotage o un superiore punto di saldatura. Quel che li caratterizza è però il principio di simultaneità (e ovviamente anche il graduarsi della temporalità in successione). Tutto accade quasi nello stesso istante, per gli accordi che si realizzano automaticamente nei diversi ambienti e luoghi della città sull’esca di quell’annunzio terrificante. Lo schermo dovrebbe lasciarsi invadere da quelle immagini. Dovrebbe reggere e trasportare tutte quelle forme in un suo nuovo mastice; aprirsi in una pluralità di sguardi, di visioni: scorgere tutt’insieme il maggiore giro d’orizzonte, tutto essendo scritto in una materia che attendeva solo di essere illuminata. Questo non interviene nel concreto (anche per l’altezza inventiva della sceneggiatura). Ma in maniera distinguibile c’è, nel testo scritto da Il giudizio universale, un carattere sperimentale, che vuol servirsi della bozzettistica delle azioni per una possibile ulteriore strada da aprire al cinema. Tutto ciò nella logica del pensiero innovativo di Zavattini. L’argomento invocato a molteplici riprese che il relativo fallimento di Il giudizio universale fosse da ascrivere al peccato originale di una sceneggiatura datata e anacronistica, ferma ai giochi letterari tentati e elaborati da Zavattini prima dell’approccio alla gran fenice del neorealismo, è non soltanto infondato e banale, ma palesemente grossolano. Fraintendente di fatto non solo il lavoro di sceneggiatore di Zavattini, la sua idea del cinema e la sua concezione del realismo, ma anche la sua stessa letteratura. È un fatto che De Sica condivida sino in fondo il progetto di Il giudizio universale. Segue e discute la sceneggiatura; è consapevole dell’importanza di quel lavoro che riporta anche lui agli obiettivi e alla strada maestra di Miracolo a Milano. Considera il pur fortunato La Ciociara una parentesi e osserva: «Dal mondo magico dei barboni milanesi dovevamo assolutamente, dopo il periodo realistico di Umberto D. e Il Tetto, tentare di portare il nostro intelletto e il nostro umorismo a considerare di rendere favola anche una storia borghese per personaggi borghesi». Parla al plurale, considerandosi materialmente e moralmente unito a Zavattini; ma forse in quel richiamo al lavoro comune c’è implicita la considerazione che si tratta pur sempre di due punti di vista e di due sensi critici, differenti benché in ultima analisi vicini e tra loro interagenti. Soprattutto ha presente che una cosa è assumere coi flussi magnetici della favola l’universo degli umili e dei deboli, per i quali la corda emotiva della solidarietà acquisti quasi naturalmente effetti di luce poetica e umana; altro è invece restituire magicamente e fantasiosamente l’ambiente borghese, per quanto esso appaia ben evidente nei suoi caratteri e nelle sue modalità. Di qui i problemi di conduzione ritmica e di stile. Nella situazione del nuovo film, nel quale accanto alla vita profonda della città viene indagata una realtà sociale cruda e sgradevole, la favola insomma non riuscirebbe a contemperare e innalzare quella levità che le compete. Un “giudizio”, per giunta universale, non sembra essere in prima battuta liberatorio e meraviglioso all’uguale stregua di un “miracolo” e di un fatto comunque fantastico. Non si potevano dunque ricalcare gli schemi dell’affresco da capo d’opera sui barboni meneghini. La cruda realtà esigeva uno sguardo consapevole e critico che, spinto all’impatto con la chiave umoristica ( naturaliter zavattiniana ma anche in qualche parte desichiana) doveva guidare di necessità verso il grottesco e la farsa. Nello spazio delle questioni serie e delle tristezze di tutt’intero un popolo, lo sguardo filmico non poteva in alcun modo condursi e tratteggiarsi su un filo lirico e partecipe. In più, in quella rilevazione en moraliste dei caratteri della natura umana, della sua fragilità e mediocrità, si inframmette una certa indulgenza, che è poi l’indulgenza di autori in fondo acclusi

alla società degli uomini ma anche integrati nell’universo borghese. Su questo punto l’ottica di De Sica si sovrappone sicuramente all’altra più radicale ed eversiva di Zavattini; ma anche nel testo zavattiniano le situazioni e le figure, pur localizzate (e per giunta localizzate nella efflorescente antropologia di Napoli), si pongono d’impegno nel marcare caratteri in qualche sorta universali. Un tale prospetto critico viene perfettamente avvertito da De Sica. Che ne ricerca i corrispettivi filmici all’interno del cinema antecedente. Ma che anche si appella alle maschere e ai mimi, dunque a qualcosa che richiama tanto il teatro quanto la più tipica scena popolare, soprattutto partenopea. Ecco dunque Pulcinella e il Pazzariello che attraversano e percorrono in lungo e in largo il palcoscenico del Giudizio. Ma si ricordi anche il tumulto ben orchestrato della fuga in massa della popolazione dalle zone basse della città su verso le colline del Vomero; e poi il ritorno in direzione contraria. E si veda l’intera treccia di sequenze concernenti il traffico di bambini (fot. 70), con un truce e bistrato Alberto Sordi che per questo suo ruolo prescelse a modello il criminale nazista Eichmann, osservato nelle udienze del processo che in quel periodo gli veniva intentato in Israele.

FOT. 70

Involti nella turbolenza delle immagini e nella concitazione delle scene, i personaggi e gli oggetti si stagliano nel vivo di un paesaggio umano e sociale, che è moralizzato. Si ritrovano radicati nelle panie degli eventi narrati grazie a un tratteggio realista e bozzettistico, ma da questo tratto si sollevano e si trasformano in forza di una vitalità per così dire simbolica, incorporando le loro specifiche esistenze a qualcosa che li trascenda, conformandosi al segno che riesca a metterli in evidenza. Tale segno il regista lo rinviene in una segmentata e accesa vivacità che non è solamente della colonna sonora. Essa all’opposto si conserta in una costruzione per così dire all’italiana o meglio alla napoletana delle gag, ma poi anche si stilizza in quel generale richiamo al balletto e alla musicazione del ritmo. Scivolano infatti dentro il fraseggio narrativo del De Sica regista una levità e un fioritura di espressioni e modulazioni naturali, declinate in immediatezza comunicativa e in sagace narratività. Tra i due opposti poli del dettaglio bozzettistico e della connotazione formale si apre e distende il ventaglio di colori di questa Napoli raggiunta dalla macchina da presa nel corso dell’inatteso rivolgimento universale, sotto una obliquità di luci e toni nei quali si riconosce anche l’irrisolta e sempre attiva contraddizione tra reale e fantastico, tra il serpeggiare dell’umorismo e lo sfrangiarsi della catena degli eventi che si succedono incessanti sulle teste e sui gropponi degli attoniti e atterritissimi abitanti della città del golfo. Il senso della narrazione, distribuita in diciotto storie, deve agire e premere per ottenere un suo peculiare dinamismo e insieme ha da cercare una propria sintesi. C’è un effetto di confusione che insorge da una sorta di vacillamento della continuità diegetica. Vacillamento e incertezza che la regia non corregge con un esito complessivo di unità, e che non trasferisce in un linguaggio il cui corrispettivo sia una sorta di aperto sperimentalismo. Che non traduce in un segno insomma chiaro e inequivocabile, quantunque legato alle irrelazioni del caos o, dove si preferisca, agli sconvolgimenti causati da quella apocalisse.

Forse il punto nodale riposava sulla possibilità di condensare nel testo realizzato quella percezione che tanto Zavattini quanto De Sica (per la parte che gli competeva) avevano tradotto nel lavoro di limatura della sceneggiatura: riassumere nelle immagini il senso di tutte le discussioni e esperienze antecedenti, gli investimenti d’ordine etico e intellettuale, altrettanto che emotivi e personali, le intuizioni e invenzioni concrete messe a segno da Zavattini. Un film materiato di così tante occorrenze emotive e culturali e per giunta carico di una così enorme responsabilità non poteva che dar brividi a chiunque. De Sica doveva insomma quasi costruire – o elaborare ex novo – un macchinario che fosse stilistico e interpretativo allo stesso momento: che desse uno stile al copione di Zavattini e insieme lo leggesse e lo decrittasse. Conferire movimento alla scrittura per un verso impaginando le scene con saporosa e semplice eleganza, per l’altro verso facendo tesoro dei propri antecedenti d’autore. Serviva una musicazione narrativa in grado di recuperare il timbro clairiano per poi sciogliersi in passaggi e movimenti quando inturbinati quando invece felpati, capaci tuttavia di disporre animi e menti al sorriso e alla riflessione. E insieme, un’articolazione ritmica del racconto elaborata sui singoli segmenti incasellabili dentro una più vasta cornice, al cui interno lasciar prevalere il grottesco e la satira sociale e il cui vestigio massimo fosse una sorta di circolarità che, come nel caso della cantilena intonata dal razzista yankee, si provi a fare da collante per la complessiva materia dell’insieme. Nell’esempio appena richiamato infatti, tutti o quasi tutti, nelle varie regioni del mondo e in ogni vico napoletano o cantone di strada come in ogni basso o salotto borghese, s’inducono per paura a mugolare un’incredibile e inattesa ninnananna sollevando reverenti il capo al cielo o semplicemente guardando la televisione: «Ninna nanna ninna nanna/ Non sei nero ma sei bianco/ ma sei bianco come panna/ Tu sei bianco più di me». Questo avviene sotto il largo crepitare di una pioggia scrosciante quasi al passo di un fox-trot, in una sorta di litania liberatoria e purificante che congiunge l’oriente del mondo con l’occidente, il nord dei ricchi coi poveri e i reietti del sud, e che vede in prima fila i personaggi umanamente e moralmente più disprezzabili: il venditore di bambini incarnato sinistramente da Alberto Sordi, il razzista Adlai Arrison (fot. 71), i pescecani indigeni della politica e dell’industria con i loro macchiettistici lacchè, i grandi speculatori e corruttori con mogli, ganze, drude e ruffiani. Tutti unificati da quella canzonetta che dovrebbe redimerli e innalzarli al bene (e dietro la quale nascondono le loro malversazioni e ipocrisie).

FOT. 71

L’acme è raggiunto (o così dovrebbe essere) nella sequenza conclusiva del ballo al San Carlo. Signore e signori elegantissimi si abbandonano nel parterre all’ebbrezza delle danze. La scala d’accesso al teatro rifulge e sfolgora nelle luci. Quello, sarebbe dovuto essere il gran ballo in favore dei disoccupati della città di Napoli. Ma adesso si trasforma nel rito di conferma non soltanto del potere ma altrettanto dell’immodificabilità della gente. È la restaurazione degli egoismi e delle ipocrisie dopo la fifa e la tremarella di fronte al Giudizio divino. Tutti dunque tornano a essere presenti e protagonisti in questa arena della vanità e della

degradazione interiore: l’alta personalità con il consueto codazzo di portaborse e servitori; l’imprenditore meridionale con signora; l’ambasciatore e l’avventuriera; la coppia borghese con tanto di zerbinotto al seguito; il venditore di bimbi. La chiave surreale, suggerita ironicamente dall’occhio blu della moglie dell’imprenditore, introduce la possibilità che tutto possa di nuovo ricominciare. Così quando una voce somigliante alla Gran Voce si fa sentire dall’altoparlante, ognuno interrompe il ballo immobilizzandosi in un gesto che quasi intende denegare quel ritorno alla normalità di sempre (fot. 72).

FOT. 72

Ma il colpo di bacchetta poetico stavolta non trasforma la realtà (come in parte succedeva in Miracolo a Milano). Se mai la rivela nella sua coriacea indifferenza, nella durezza e nella resistenza a modificarsi. La arresta in quell’immobilità che emblematicamente le viene conferita dalla corruzione morale. Eppure l’atto del Giudizio presupponeva il mutamento, per quanto definitivo: ordinava e chiedeva la rimessa in causa di tutto. Il miracolo però non si ripete. Il fatto è che già la struttura circolare – e confusamente, cromaticamente mosaicata – del racconto indiziava al fondo una dispersione di sensi e semi, che ancora si potevano trovare raccolti nel momento iniziale, nella dinamica delle prime avvisaglie del giudizio. Poi però essa era fatta progredire verso una zona contrassegnata da una confusione parossistica (che De Sica rende con divertita concitazione) per ritrovarsi infine governata dal ritorno a una normalità anormale, segnata dalla coda della falsa e gesuitica riappacificazione con tutti i possibili poteri, anche quello spirituale e superiore. Anche con la coscienza e la religione. L’esito – lo si è detto – rimane però a suo modo strabiliante, temerario. Zavattini nel suo testo pensa non solo con le parole, ma con le immagini che evoca: mentre la musica del ballo cresce trionfalmente e dopo che si sono uditi i guaìti di un cagnolino stravolta stretto nel laccio che gli cinge il capino, sopra l’inquadratura della piazzola antistante il teatro «arriva come una folgore a zigzag la parola fine» (così nella sceneggiatura). Il racconto eccede da se stesso: gli spunti di realismo divengono grotteschi e segnali plastici, la vicenda umana degli uomini comuni ascende al livello metafisico o similmetafisico per lasciarsi capire e per far capire. La fantasia si erige infine a livelli di immaginazione quasi fantascientifica; onde il basso che si confonde con l’alto. Onde ancora il continuo e confuso mescolarsi di voci e persone; il salire di tutti verso le zone collinari della città, e poi il precipitoso, anche festoso e riposante ridiscendere in basso. È una prospettiva eufemizzante ed aerea che De Sica bene intende, e che si ingegna a restituire con anche volanti immagini. Ma, nel caso di Il giudizio universale, calca sul pedale dell’accelerazione sarcastica allorché si tratta di critica a sfondo sociale, e all’incontrario lavora sulla decelerazione ritmica e musicata nei passaggi dell’intonazione più corale e della toccata sentimentale. A ogni buon conto Il giudizio universale, pur con tutti i suoi limiti, con i condizionamenti imposti dalla produzione che trasforma un film “napoletano” in un film internazionale, dunque ne rovescia la natura, rappresenta precisamente un unicum nel cinema italiano, in forza della grazia surreale e dell’ironia musicale e ritmica da cui si lascia circonfondere. Un’operazione filmico-poetica

eccezionale nel suo genere e del resto mai più da allora ripetuta nella storia del nostro cinema. La riffa “La riffa” è il quarto atto di un film ideato nel suo impianto generale da Cesare Zavattini. All’inizio furono preventivate dieci storie boccaccesche, cioè giocose, libere, tipicamente italiane da affidare a dieci registi e da ambientare in altrettante città. Poi però i registi vennero ridotti a quattro: Monicelli, Fellini, Visconti e appunto De Sica. Il titolo scelto fu Boccaccio 70 (originariamente Boccaccio 1961, che si confondeva con il nome di un altro progetto zavattiniano, Italia 1961). L’intento era scavare nell’eros degli italiani, nello stesso anno – il 1962 – di Le italiane e l’amore (Nelo Risi, Lorenza Mazzetti, Francesco Maselli, Giulio Questi, Gianfranco Mingazzi, Giulio Macchi, Gian Vittorio Boldi, Piero Nelli, Marco Ferreri, Florestano Vancini, Carlo Musso, 1962) e con due anni d’anticipo sui pasoliniani Comizi d’amore (1964). Una tale linea muove ovviamente da L’amore in città, tramata dunque sull’acceso temperamento zavattiniano ma anche sul contrasto, ancora forte allora in Italia, tra sesso e società. Quelli di Boccaccio 70 sono medaglioni narrativi cesellati da registi importanti, due dei quali in un momento di radiante creatività. Luchino Visconti realizza infatti “Il lavoro” (con una superlativa Romy Schneider) e Fellini pennella da par suo “Le tentazioni del dottor Antonio”. Quanto a Mario Monicelli, bistrattato dal produttore che tolse il suo episodio dalla copia proiettata a Cannes, filma una acciarpata e sintetica versione moderna di I Promessi sposi, cioè “Renzo e Luciana”. E De Sica, dopo l’exploit di La Ciociara, torna a far coppia con Sophia Loren, celebrata dalla cinepresa di Otello Martelli nel massimo della sua irruente corporeità, accentuata da un abito rosso che lei porta tutto il tempo. Zoe (Sophia Loren) lavora al tiro a segno di una fiera. Per aiutare due poveri compagni di ventura decide di essere il primo premio di una lotteria, offrendosi di passare la notte con l’acquirente del biglietto vincente. Il fortunato vincitore è un sacrestano brutto e sfigato. Nel frattempo, però, Zoe ha conosciuto Geno (Luigi Giuliani), un ragazzo ben piantato e gentile. Per lui rinuncerà a quel “sacrificio”, che comunque le ha fruttato un bel po’ di soldini.

La sceneggiatura di Zavattini tratteggia un ambiente ridanciano ma anche incantato, paradossale: con donne esuberanti e omaccioni vogliosi. Ponendo in relazione (ma anche in dissonanza) il sacro con il profano ma anche l’impulso naturale con le regole della società. Il tutto affondato in una Romagna crassa e festosa, ambientato in una cittadina agricola, Lugo, con un mercato di bestiame pullulante di commercianti (fot. 73), pescatori, contadini, mediatori, villici già raggiunta dalla febbre del boom economico (onde la canzonetta sui soldi che sta in contrappunto al mare di cavalli e maiali e mucche e tori che, come sottolinea col suo solito vivo linguaggio la sceneggiatura di Zavattini: «Aspettano tra i muggiti le contrattazioni sulla loro pelle»).

FOT. 73

Una Romagna forse già allora inesistente, con giostre, vitelloni, bonazze, canti e scherzacci. In un’esuberanza di facce accese e temperamenti dove cade come il cacio sul maccherone una lotteria

la cui posta è una napoletana con un corpo che non finisce più. «Se volete godere, ci penso io», va in giro a promettere ma con circospezione un tizio mingherlino e triste, che si rivolge a omoni e contadinotti focosi e panciuti. Il disegno di questi contrasti – su cui De Sica gioca in maniera ritmica – torna nell’alternanza tra tipi grossi e tipi smunti. E si protrae in scenettine di svincolo, come quella che vede l’attesa per l’esito della riffa peccaminosa mescolarsi ai convenevoli delle devote che si recano alla benedizione. E, in più, a vincere la lotteria è un sacrestano brutto al pari della fame, che forse nemmeno è mai stato con una donna. «Divertet anca te, divertet anca te, divertet», l’esorta la madre anziana e ossuta, rovesciandogli addosso una busta di borotalco. «Divertet anca te» (fot. 74).

FOT. 74

La rivendicazione del primato della natura diventa insomma all’interno di quest’ottica anche un risarcimento sociale e politico. Senonché il racconto cede alla misura del bozzetto, pur dilettandosi di far muovere i gruppi dei villani quasi al ritmo di una marcetta; ironizzando amabilmente su quel loro correre a valutare e concupire la merce, cioè il corpo della Loren; e anche non lesinando sulla presenza di tipologie strampalatissime, tipo il veterinario col camice bianco e il collo grosso, animalesco, che recita a spron battuto di non essere uno struzzo nel mentre che avanza il pericolo della guerra, dunque lui non può essere uno struzzo pur avendone i tic. Vagamente surreale, quasi ripescata negli scampoli di Miracolo a Milano, è la strana coppia della donna incinta e dell’uomo che propone i biglietti della riffa, ambedue in contrappunto ritmico con la bellezza piena e bollente di Zoe, la quale però come vogliono le regole del caso è anche buona e generosa. Tanto che per aiutare i due sfigati si abbassa a concedere le sue grazie. L’altalena tra i termini contrari fa eco anche nelle oscillazioni verbali del personaggio principale tra il napoletano e le inflessioni settentrionali (il tutto condito con un birignao che non può non essere stato suggerito da De Sica). Anche linguisticamente, Zoe sta in bilico tra un passato preindustriale e un presente in cui la sicurezza è tutto: «Mi voglio metter da parte sei sette otto milioni», dichiara reputando di continuare con quella balzana lotteria ancora per qualche tempo, «e allora sono indipendente, mi sposo quello che voglio io». Ma lo sposo è già lì all’angolo del baracchino in cui lei lavora. Un gagliardo giovanottello romagnolo tutto muscoli e bellezza. Il diavolo fa insomma le pentole, ma non i coperchi. Così l’agrodolce storiellina finisce in favola d’amore. Con il risultato di una dispersione degli umori corrosivi, o almeno maliziosi, di cui Zavattini aveva saputo condire le sue vivande aspettando che qualcuno si decidesse a cuocerle a dovere. Ma comunque anche questo aiutò “La riffa” a essere l’episodio determinante per la fortuna che arrise a Boccaccio 70 nelle sale italiane. “I sequestrati di Altona” Presentato in prima mondiale il 23 settembre 1955 al Théâtre de la Renaissance a Parigi, poi pubblicato nel 1960 da Gallimard, I sequestrati di Altona è il nono lavoro teatrale di Jean-Paul Sartre, coevo alla elaborazione della Critica della ragion dialettica, anch’essa uscita nel 1960. Un

testo potente e ossessivo pur entro le misure concettuali, che incarna il dibattito sartriano sull’esistenza, sull’orrore del vivere – come recita il personaggio di Johanna – ma anche sulla responsabilità individuale di fronte alle infamie della guerra (un tema che qui Sartre interconnette alla Germania nazista, ma per parlare soprattutto della società francese). Nella rappresentazione parigina, l’allucinato protagonista del dramma, questo «Amleto, questo Lorenzaccio nazi» (così Gilles Sandier su «L’Arc»), vantava il portamento di un indimenticabile Serge Reggiani. Nel film realizzato da De Sica nel 1962 ci sono il volto e le algide, nervose movenze di Maximilian Schell, reduce dal successo e dall’Oscar di Vincitori e vinti, (1961). Ma è proprio il repertorio morale e iconografico del film di Stanley Kramer – e insieme il suo successo, il suo tasso di spettacolarità – a suggerire a Carlo Ponti e a De Sica lo spunto per ripetere l’exploit di La Ciociara. Abby Mann, autore del racconto letterario di Judgement at Nuremberg da cui il film di Kramer è tratto, nonché della sceneggiatura, si ritrova ingaggiato tra gli autori di questo “I sequestrati di Altona” (con tanto di virgolette, forse per dare un peso di oggettività al testo sartriano) al fianco di un Cesare Zavattini che avverte quell’operazione lontana dai propri interessi ma anche dalla natura degli improvvidi realizzatori. Zavattini si pente e fa ripetutamente ammenda di «aver dedicato centinaia di ore a rendere chiaro e possibile per De Sica, per la Loren, per Ponti, e dintorni, un testo a loro oscuro come la notte per vederlo poi manomesso, o meglio lasciato manomettere, non per ragioni critiche, lo avesse voluto il cielo, ma per debolezza, confusione e peggio». Le “ragioni critiche” di Zavattini – e anche di Abby Mann – sono anch’esse alquanto distanti dalla problematica esistenziale peculiare a Sartre. Tant’è che, pur nella sostanziale conformità alla base testuale, si volgono a illuminare una più diretta ragione storica agevolata in quel periodo da una ripresa dell’antifascismo anche nel nostro cinema, dopo la sua svolta degli anni Sessanta e dopo un tentativo di colpo di Stato clerico-fascista nell’Italia del 1960 (con il governo Tambroni), e dall’inizio di una riflessione autocritica sul nazismo fuori e dentro la Germania. Le ragioni dell’operazione condotta dagli autori risultano essere insomma nobili. D’altronde l’intento di volerle sviluppare a un livello alto viene ben illustrato dall’adozione della undicesima sinfonia di Dmitrij Šostakovič per un commento musicale che subito ha da comunicare il senso tormentato dei tempi, come anche dalla scelta dei disegni di Renato Guttuso che investono espressionisticamente le pareti della stanza nella quale ha scelto di segregarsi un ex ufficiale della Wehrmacht. Germania del secondo dopoguerra: un ufficiale nazista, Franz von Gerlach (Maximilian Schell) vive recluso in una stanza-bunker della casa paterna. Il solo tramite di contatto con l’esterno è la sorella Leni (Françoise Prévost), che gli è legata da un affetto incestuoso e gli ha fatto credere che la Germania è stata ridotta a un cumulo di rovine dagli eserciti stranieri. Franz indossa sempre un’uniforme da ufficiale: vuol testimoniare ai posteri il genocidio del popolo tedesco. Nel frattempo, negli anni della ricostruzione, la sua famiglia ha recuperato per intero il potere economico: il padre Albrecht (Fredric March) è riuscito a rimettere in piedi i cantieri navali. Ma malato di cancro intende affidarne la direzione al figlio più giovane Werner (Robert Wagner). Questi è sposato con un’attrice teatrale, Johanna (Sophia Loren), che s’accorge degli strani movimenti della cognata e scopre il nascondiglio di Franz. Il rapporto tra Johanna e Franz è coinvolgente e dialettico. A un certo momento egli esce dalla villa e compie un giro notturno per Amburgo, scoprendo una Germania ricca e consumistica ben lontana dai suoi vaneggiamenti. La scelta inevitabile è allora la morte, per se stesso e per il padre.

Nel dramma sartriano il tema della reclusione cita ovviamente l’antecedente A porte chiuse ma anticipa anche l’allucinante autoisolamento dei personaggi bernhardtiani in Prima della pensione (e per l’aspetto della pazzia simulata può anche evocarci il pirandelliano Enrico IV). Il nesso autoreclusione-nazismo è infatti uno dei punti di forza del copione sartriano, ritenuto, tuttavia, per ragioni più o meno giuste di spettacolarità, improponibile al cinema. Così Zavattini e Mann hanno in primo luogo da spezzare la rigida unità del tempo e dello spazio sartriano. Un tempo e uno spazio

in cui si intercetta la tragedia classica, con segmenti di narrazione che traducono in azione i numerosi microtemi del testo originale. Perciò l’avvio, dopo le immagini della bufera di neve a Smolensk su cui scorrono i titoli di testa, si ordina nella scena della visita al medico (fot. 75, campi e controcampi su sfondi asettici e bianchi), poi nel passaggio teatrale che introduce il personaggio di Johanna (ex attrice in Sartre, ma nel film ancora in attività anzi attrice impegnata) e infine in una serie di esterni che moltiplicano lo spazio e in definitiva illustrano visivamente la presenza di un potere economico ritornato forte ma anche il peso delle sue colpe passate. Ecco il rinvio verbale al campo dietro la collina dei sempreverdi, ceduto ai nazional-socialisti perché vi edificassero un lager.

FOT. 75

Il film vanta insomma una struttura e un impatto visivo di impressiva e calcolata efficacia (primo tassello di una collaborazione di De Sica con il direttore della fotografia Roberto Gerardi che sarebbe proseguita in Matrimonio all’italiana). Ma come sottolinearono i critici, appare alla fine poco sartriano. Il che non sarebbe di per sé un difetto, e potrebbe semmai essere testimonianza di una volontà del regista di inseguire altre strade e altri percorsi rispetto a quelli sperimentati in precedenza. Il lavoro della messinscena e della trasposizione filmica deve di fatto operare sopra intarsi complicati: una deriva visionaria e ossessiva in buona parte estranea alla natura desichiana. Reduce dalla realizzazione in teatro di Liolà di Luigi Pirandello, portato in scena il 31 ottobre 1961 al Quirino di Roma con Achille Millo nel ruolo del protagonista e con siparietto e fondali ottenuti dai bozzetti di Guttuso (il che sicuramente garantì l’utilizzazione del pittore per “I sequestrati di Altona”), De Sica aveva affrontato i problemi di scansione del linguaggio drammatico sulle tavole del palcoscenico in quella che rimane l’ultima sua esperienza teatrale. Ma certo altra cosa era un film, dove il regime dei segni comunque filava via seguendo proprie linee di pendenza e dove il racconto, pur se di matrice teatrale, si sarebbe comunque dovuto muovere su diversi ritmi e più velocità. In più, in “I Sequestrati di Altona” c’è un richiamo inesfuggibile a una gestualità espressionistica, leggibile nei disegni guttusiani della stanza di Franz (fot. 76) evocanti apertamente la celebre serie di Gott mit uns (che è una frase del resto scritta sulla parete) e altrettanto – e con maggiore appariscenza – nell’accoglimento di una struttura drammaturgica che va a riflettersi entro gli specchi di un immaginario brechtiano raffigurato con spezzoni dell’Arturo Ui (filmato nell’originale tedesco) oltre che di Terrore e miseria del Terzo Reich. Un’esemplarità espressiva e critica, che qui viene accolta in ordine vuoi all’ammonimento sulla persistenza di quel bubbone velenoso che aveva provocato il nazismo e che ancora minacciava l’Europa, vuoi all’ambizione di avvicinarsi a un così alto modello, in quegli anni ritenuto cruciale sul terreno culturale e ideologico (proprio Zavattini aveva messo mano a un suo lavoro teatrale, Come nasce un soggetto cinematografico, rappresentato nel 1959 dalla compagnia del Piccolo Teatro di Milano).

FOT. 76

Ma una struttura di discorso raggruppata tra la grumosa materia sartriana e il risalto politicodidattico del linguaggio brechtiano è forse contraddittoria in sé. Forse è anche usata in assenza di una autonoma chiave interpretativa (non fornita neppure dal testo di sceneggiatura). E tuttavia il film, in una propria impaginazione che coglie anche l’occasione degli aspetti spettacolari, ricerca a suo modo una corrispondenza tra il dentro e il fuori: inarcandosi come fa tra i recessi coscienziali dei personaggi (in quelle velature e discese agli inferi rappresentate in un bunker-reclusorio che è una figura oscura della psiche) e l’esplosione espressionistica verso l’esterno, verso il Kammerspiel familiare, culminante nella passeggiata di Franz per le vie di una metropoli tedesca gaudente e iperconsumista e mai come in quelle immagini lontana da ogni dramma legato al problema della responsabilità storica e individuale nel passato nazista. «Meglio affrontare la verità, anche a qualsiasi costo», dice Johanna, il solo personaggio positivo, a Franz. Le città germaniche rase al suolo, i macchinari industriali travolti e sventrati, l’industria saccheggiata, l’aumento della tubercolosi e della disoccupazione, l’azzeramento delle nascite di bambini tedeschi, insomma quel vero e proprio assassinio consumato contro il proprio Paese e che Franz immagina nei suoi vaneggiamenti volendolo testimoniare e consegnare ai posteri del lontano trentesimo secolo, tutto ciò non è altro che l’allucinazione di una mente che cerca invano di spiegare il passato. Il colpo d’ala del film desichiano sta nella soluzione di far uscire l’ufficiale dal suo bunker. Attraversato il parco della villa paterna, egli scorge nel buio i cantieri di proprietà di famiglia con la scritta luminosa “Gerlach”. Nella città notturna, lui ancora bardato nella consunta uniforme nazista, incrocia una folla in festa che sciama per i bar affollati e lungo vie percorse da automobili. Il conservatore bavarese Strauss annuncia in televisione i traguardi toccati dalla Repubblica Federale. Nel suo ansioso girovagare, l’uomo è attirato da grandi foto dei capi nazionalsocialisti sulla facciata della Schauspielhaus. Vi si rappresenta l’Arturo Ui brechtiano, metafora dell’ascesa non resistita della dittatura nazista. A recitare in palcoscenico c’è anche Johanna (fot. 77). A un certo punto Franz comincia a gridare: «De profundis clamavi Führer… Arturo Ui non è morto». Infatti ognuno dei presenti in sala è Ui, ognuno è Hitler. La coscienza della colpa, della responsabilità collettiva, unitamente alla loro mancata elaborazione critica da parte dei tedeschi, sedimenta il film di De Sica. «La sconfitta è che la Germania è la più grande potenza d’Europa. Fummo abbattuti e ora dominiamo. Cosa avremmo fatto se avessimo vinto?» si chiede Franz.

FOT. 77

L’Amleto nazional-socialista è insomma giunto al punto d’approdo: che per lui, dopo la rivelazione del meccanismo incontrastabile della guerra («non la si fa: è lei che ci fa», così scrive Jean-Paul Sartre), sancisce il rapporto tra il conflitto criminale scatenato dai nazisti e la presenza massiccia dei mercati, dell’impresa: macchine autentiche del dominio sugli uomini e tramite oggettivo del loro trasformarsi in assassini, boia e torturatori. Più esplicitamente di quanto non avvenga nel testo sartriano, inviluppato nelle spire dell’angoscia e della paura dell’altro, la riduzione cinematografica di “ I sequestrati di Altona” punta sul tema della colpa storica. La cinepresa inquadra i personaggi, li tallona e stringe in una loro vorticante demenza e nelle oscillazioni interiori. La storia, punteggiata e stampata nei disegni di Guttuso, cifrata sul cumulo di rovine rovesciate dentro la stanza di Franz, mediata dalla musica di Šostakovič, è la traccia di ogni azione e scelta. L’accesso alla consapevolezza da parte di Franz vuol dire la scelta del suicidio per se stesso e per il padre, anch’egli colpevole. Suicidio che il film rappresenta (a differenza del testo teatrale) in una sequenza potente e visivamente ricca di contrasti: anch’essa momento di rivelazione per le coscienze degli spettatori colti e democratici cui il film si rivolge, malgrado le concessioni a uno star system redatto sui canoni organizzativi che hanno a punto basilare la presenza della consorte del produttore. Una Sophia Loren indurita nel volto e non alleggerita di carichi anche intellettuali (qui è addirittura un’interprete dell’epica brechtiana, con tanto di cerone e nero sul volto), e tutto sommato congiungibile per via di specchialità alla vertigine prosciugata di Fredric March (Albert von Gerlach) e alla divorante disperazione del Franz von Gerlach portato scena da Maximilian Schell, cui viene concesso il prefinale prima che i cadaveri di padre e figlio inquadrati dall’alto vengano soccorsi dagli operai dei cantieri. «Notte, tribunale della notte», (grida Schell), «Tu che fosti, che sarai e che sei. Io, Franz von Gerlach, qui in questo luogo, ho preso il mio secolo sulle spalle e ho detto ne risponderò da solo, per oggi e per sempre». Allocuzione vibrante ma non certo equivoca sul piano ideale e politico, cioè a dire sulla scelta di campo antinazista. Eppure Dmitri Šostakovič si lagnò in una lettera a De Sica del fatto che la sua sinfonia sui caduti di Leningrado – la celebre e bellissima n. 11, opus 103 – fosse stata messa al servizio di un film nazista. Il boom Sviluppato dal soggetto L’uomo che vendette un occhio, scritto da Zavattini negli anni Quaranta, e indi detratto da una costola del suo Come nasce un soggetto cinematografico, precisamente dal passaggio della commedia in cui il protagonista Antonio incontra un operaio disposto a cedere un occhio, Il boom segna una ulteriore tappa nello sforzo di rinnovamento del cinema desichiano. La notizia giornalistica di un tizio in giro per la Lomellina a perorare la strana compera, suggerisce a Zavattini l’idea del poveraccio costretto dalla miseria ad alienarsi quella parte del suo corpo (fot. 78). Così lo spunto entra con modulo sarcastico nella commedia che egli scrive per il Piccolo Teatro nel 1959.

FOT. 78

Quando nel 1963, stante il contratto che legava De Sica a De Laurentiis per la realizzazione di un film si rese necessario trovare una storia, Zavattini sottopose a De Sica quel breve scampolo di racconto, che subito attrasse regista, produttore e anche l’attore scelto per il ruolo principale, Alberto Sordi. Dopo l’incontro, nel momento di congedarsi da loro di fronte alla propria abitazione, Zavattini conia quel titolo, Il boom, che piacque subito per la concisione e la pertinenza (si era d’altronde negli anni del cosiddetto miracolo economico). Il grottesco sviluppato nel testo teatrale entra ovviamente nel disegno del racconto visivo, ma sul piano stilistico nel film si specificano un’atmosfera patetico-riflessiva e insieme un andamento brillante. L’elaborazione formale si alimenta infatti dei colori della nuova commedia all’italiana, ma collocandosi in una posizione di lettura critica di quegli anni di crescita incontrollata e cinismo, e anche intingendosi nelle fratturate tessiture di una psicologia – quella dell’uomo che vende l’occhio – violentata e conculcata dal potere. Tanti elementi semantici e stilistici diversi avevano comunque da essere fusi e amalgamati. Il racconto doveva insomma imperniarsi sul chiassoso e estroflesso rilievo di un passaggio della commedia zavattiniana, ma imprimendosi dei trasalimenti umani destati dalla situazione. De Sica seleziona la deformazione ironica soprattutto per la coppia di ricconi che vogliono accaparrarsi l’occhio (e in fondo è questa la parte in cui più fa tesoro del proprio mestiere e dei suoi affinamenti). A sua volta il momento morale poteva sembrare detraibile dai modelli in atto allora nel cinema italiano. Tuttavia era arduo sintetizzare i due livelli di stile con i riflessi dolorosi del personaggio. Così l’eco ispirativa lasciata risuonare su molteplici tonalità incontrava infine un qualche affanno. Per compiacere la sua giovane e avvenente compagna, Giovanni Alberti (Alberto Sordi) deve mantenere un tenore di vita superiore alle sue possibilità. Attanagliato dai debiti, propone finti affari a destra e a manca. Senza però cavare un ragno da un buco. Il risultato è che la moglie Silvia (Gianna Maria Canale) lascia la loro casa e torna dal padre generale (Federico Giordano). Nel frattempo Alberto viene fatto oggetto della richiesta del neoarricchito commendator Bausetti (Ettore Geri) affinché gli ceda un occhio in cambio di denaro. Cerca di resistere in ogni modo. Ma alla fine si piega convinto dalla consorte del commendatore (Elena Nicolai) e nella prospettiva di riconquistare Silvia.

Il racconto s’identifica da subito con un andamento ritmico, scandito da un motivo in sé anche gradevole, Wheels di Billy Vaughn, sul modello delle canzonette commerciali del tempo. Al posto dei festosi suonatori ambulanti del finale di L’oro di Napoli, o di quelli popolari che nello stesso film accompagnano il fidanzamento di Teresa, scivolano dentro Il boom strimpellatori striduli e fastidiosi in finto stile modernizzante. L’Italia povera e gentile sembra ormai un ricordo alle spalle: messa fuori scena (in Il boom anche concretamente, se si pensa alle figure dei genitori del protagonista tenuti sempre in disparte) da un esercito di mestatori affaristi intrallazzatori arrivisti d’ogni risma, insomma dalle truppe d’assalto del miracolo economico. Il congedo da un Paese ferito dalla guerra e povero, ma non alterato nella sua natura profonda, si compie definitivamente con le ariose sequenze contadine di La Ciociara e dopo l’invasione piccolo e medio borghese di Il giudizio

universale. L’epica del neorealismo si è anche per De Sica ormai chiusa definitivamente. In suo luogo accorrono in scena industriali in pappagorgia, commercialisti e capi d’impresa, politicanti e segretari con tanto di mogli e amanti. Le donne hanno fianchi corpulenti e grevi, gli uomini appaiono laidi e deformi. La fauna umana su cui s’abbattono gli strali della nostra commedia è qui, in Il boom, particolarmente ributtante. Sulla parete di uno di questi interni altoborghesi un pittore di prima linea traccia crittogrammi à la page. Frizzano in mente per associazione i segni grafici di Giuseppe Capogrossi, apposti contrastivamente alla volgarità e vuotezza di quelle figure. La spietatezza visionaria di “I sequestrati di Altona” non si addice loro, e se la presenza dello stesso scenografo, Ezio Frigerio, ordina la soluzione, essa è comunque stabilita sotto colore della critica di costume. Le qualità e il grottesco del testo zavattiniano forse consentirebbero approdi più radicali. Ma De Sica si pone un limite e, come in Il giudizio universale, come in Miracolo a Milano, i suoi capitalisti non vengono privati di una luce di umanità. Perciò i procedimenti narrativi e descrittivi fissano embricature in cui l’ironia, il sarcasmo, le deformazioni ricercano gli sviluppi di una qualche concomitanza tra la critica sociale e l’icasticità raffigurativa, tra i segni del tempo del boom e un più indefinibile stemma di caratteri in cui si ritrova qualcosa che ricorda il tratteggio della moralité. Una tipologia concreta e astratta al contempo: immersa nel tempo ma infine sovrastante il tempo corrente. Oscillante tra mezze verità e approssimazioni, tra il senso del ridicolo e uno sguardo maggiormente indagatore del malcostume nazionale, Il boom gioca sui registri di un gattopardismo d’accatto alimentato da lestofanti e neoarricchiti, da vitaioli e faccendieri. Il punto più rilevante – insieme con le giunture del grottesco – è in quel suo spingersi verso un terreno di doppiezze rivoltate in divertimento, in un trasformismo che mina l’unità della persona. Valga la partita a tennis in cui il protagonista (fot. 79), alla vana ricerca di un prestito, pietisce denaro e poi di fronte ai dinieghi assume il tono di chi simula per mero spasso. O sia ancora la scena nella quale il donnone impersonato dalla Nicolai abborda il pover’uomo lasciandogli involontariamente balenare un possibile interesse sessuale.

FOT. 79

Il tasto del camaleontismo, già segnalato da Mino Argentieri, offre insomma il destro per una maggiore articolazione nella direzione dei registri ma altrettanto della loro ambivalenza. Il punto debole del film è non aver portato a unità tutti questi differenti toni: per cui la commedia s’impasta di sdegno morale ma il grottesco non diventa figura di pensiero e s’ingroviglia nel perifrastico e in qualche parte nella farsa. La sequenza in cui Alberto Sordi si ubriaca e, eccitato dai soldi acquisiti con la vendita dell’occhio, recupera la strafottenza e getta in faccia ai commensali una sua verità, non è il tratto definente di una sintesi morale e politica scolpita sulla fenomenologia dei comportamenti. Più che i momenti di resipiscenza e di lucidità, è il tono della commedia all’italiana con il suo cinismo a rappresentare la realtà in movimento, o meglio l’approdo a una realtà collettiva che rovescia le aspirazioni del periodo postbellico. L’interessante è che Sordi, dopo aver rappresentato la mostruosità del potere in

Il giudizio universale, impersoni stavolta la mostruosità della vittima. Nel suo limite, Il boom consente anche di riflettere sulla connivenza tra i carnefici e i loro zimbelli. Tra il vecchio e il nuovo mondo Ieri oggi domani Vittorio De Sica è da sempre un regista intimamente musicale. Le sue messinscene, eleganti e distese a ogni tipo di semplicità, ma altrettanto concentrate sugli smalti del ritmo, si fanno trascinare da un quasi inestinguibile senso armonico. Ciò avviene anche nelle opere secondarie. Perché, si domandava Tommaso Chiaretti nel 1963, può interessare un film come Ieri oggi domani (un film cioè fatto di pochade, con immagini da cartolina e qualche ricorrente facilità)? La risposta è precisa e contraddittoria: «Oggi ancora una volta, e con più grande presunzione, si torna ad affrontare grandi temi con la cosiddetta “mano leggera”: cioè a dire con la più grande leggerezza», oltreché però «con la noncuranza di chi forse si vuole ritirare dalla mischia, e dedicarsi a saggi investimenti del proprio capitale di esperienze professionali». Il tocco e la mano leggera della regia avevano saputo guidare persino il «breve interludio milanese» (è ancora Chiaretti), cioè il secondo episodio di Ieri oggi domani. Forse anche in questo caso De Sica rinunzia alla poesia della sua miglior vena, e nello scompiglio che gli s’ingenera tra mestiere e ispirazione spinge in campo la più smagata immaginazione ritmica. Una leggerezza e felicità di impaginazione e articolazione dai forti collanti fonematici e musicali. La napoletanità di “Adelina” e dei bassi si affaccia d’altra parte sul rovescio milanese dell’episodio di “Anna”, per poi rimbalzare e riecheggiare in quel terzo tempo dedicato a “Mara”. Il sud, il nord e il centro giungono a stringersi in un racconto articolato, nel quale si contrastano le lingue dialettali e le vocalità, oltre che i costumi, e dove anche entrano in campo le latitudini temporali (ieri, oggi e domani: ma se il passato è equivalentemente quello di Adelina, costretta a partorire figli per non andare in galera, qual è la sostanza dell’oggi e del domani: quella recata dall’ordine degli episodi, “Anna” essendo dunque l’oggi e “Mara” il domani, oppure dal loro contrario?). “Adelina”. Adelina Sbaratti (Sophia Loren) è una popolana di Forcella: vive nei bassi e smercia sigarette di contrabbando. Per non andare in galera, si fa puntualmente mettere incinta dal marito Carmine (Marcello Mastroianni). Il quale però accusa la stanchezza di quell’impegno. A un certo momento si fa sotto per la bisogna un amico di famiglia, Pasquale Nardella (Carlo Giuffrè). Ma Adelina preferisce andare in carcere coi suoi figli più piccoli, sostenuta e aiutata dalla gente del quartiere. “Anna”. Anna Molteni (Sophia Loren), signora sofisticata e alla moda, è sposata a un industriale, ma ha come amante un intellettuale, Renzo (Marcello Mastroianni), intelligente ma imbranato. Il loro idillio avviene in macchina. Vagano per la periferia milanese, poi si dirigono verso l’autostrada. A un certo punto l’auto ha uno sbandamento, si ferma. Lui non riesce a farla ripartire, perciò lei in quattro e quattr’otto lo pianta in asso e se la fila con un distinto signore (Armando Trovajoli). “Mara”. Mara (Sophia Loren) fa la ragazza squillo: ha un appartamentino che si affaccia su piazza Navona e in esso riceve i clienti. Il suo terrazzo confina con quello di una coppia di anziani che ospitano, per qualche tempo, il nipote seminarista, Umberto (Giovanni Ridolfi). Questi è attratto dalla giovane donna; è ubbidiente e timorato di Dio, ma perde ugualmente la testa. La nonna disperata (Tina Pica) si fa ricevere da Mara supplicandola di aiutarla a riportare il ragazzo sulla retta via. Mara diviene sua complice: non solo intervenendo in una qualche misura sul giovane ma decidendo di fare qualche fioretto, tra cui l’astensione dai commerci carnali coi suoi danarosi visitatori. Perciò manda in bianco un tipo di Bologna, certo Augusto Rusconi (Marcello Mastroianni), il quale è a Roma per trattative al ministero. L’esito è che Umberto farà ritorno giudiziosamente in seminario. Per festeggiare, Mara si produce in uno spogliarello mozzafiato per Rusconi, ma il rapporto carnale non può esserci. Devono aspettare una settimana per onorare il fioretto.

Sono – quelle di Ieri oggi domani – storie interpretabili in vari modi, ma che vennero lette siccome cedimenti al box office. De Sica si rivela abile e sagace nell’occultare e fors’anche cancellare il senso delle proprie opzioni, sicuramente dettate anche da ragioni esteriori e contingenti. Ma rimane il modo – esso sì naturale, non governato da sovraimmissioni produttive – di delineare e inanellare

le immagini. E qui il regista è appunto intendentissimo nel suo ventaglio di intarsi melodici, con i sensi e i suoni che soverchiano le idee, e anche le disperdono in un amalgama nel quale contano le corde e le timbrature armoniche, rese nella cromatica efflorescenza di un ritmo modulato in punta di bacchetta, come farebbe un direttore d’orchestra. Certo, un film come Ieri oggi domani sente fortemente le sfrangiature e il bozzetto, nonostante la qualità dei collaboratori, da Eduardo De Filippo (soggettista e sceneggiatore di “Adelina”) a Zavattini, da Piero Tosi (il costumista) a Giuseppe Rotunno (il direttore della fotografia). Tramato infatti su una punta di spillo, malgrado una qualcerta “serietà” dei temi (la sopravvivenza in condizioni al limite nei bassi napoletani, l’aridità interiore, il sacrificio dei sentimenti e della vitalità corporea), scivola alquante volte in una sostanziale genericità di toni, ma in diversi tratti assume le inflessioni e il ritmo delle migliori commedie popolari. Il colore di Napoli prorompe in piena evidenza nell’episodio di Adelina, dedita al contrabbando e allo spaccio di sigarette nel popolosissimo quartiere di Forcella. Dal bel principio si libera sullo schermo il reticolo delle immagini tipiche e dei rumori d’ambiente: una tavolozza che la partitura musicale di Armando Trovajoli traspone in tessiture di espressionismo folklorico, e che la banda del suono arricchisce con la trama macchiata delle voci, ancorchè colte al volo o viceversa cantanti. D’improvviso si effonde l’effervescenza di un Core ingrato passionalissimo e impulsivo, poi sullo stesso palcoscenico di piole, vicoli e stradette scivola il tremolo malinconico di Vierno. La Napoli di De Sica (come sarebbe stato in seguito quella del teatro di Enzo Moscato), si interiorizza nelle vibrazioni cromatico-sonore e nei lacerti di canto, che però in “Adelina” accendono intensità e fantasia. Non invece negatività e dubitosa sospensione (come appunto in Moscato, e ancor prima in Eduardo). Ma è questo il punto: perché con un simile gioco di frastagliate, ondose rifrangenze e disegni di genere, si rompe definitivamente la rappresentazione realistica che Eduardo riteneva d’aver delineato nel suo testo di sceneggiatura. De Sica si avventura in altra direzione e acquerella quella materia umana e sociale, riconsegnandola a una tipicità forse anche di cartolina, ma nella quale si esprime la natura carnale e sonora del popolo napoletano. Quest’arte di raccontare le virtù della gente comune deve, giacché si è al cinema, fare i conti con le regole del box office e di un nostrano star system. Ha infatti da appigionarsi a un ordine produttivo che cerca soltanto le calibrature d’effetto per ciò che s’appartiene alla lettera dello spettacolo popolare e all’esaltazione dell’immagine della diva. Che è qui Sophia Loren, affiancata da una spalla d’eccezione come Marcello Mastroianni, il quale non per mero caso rimane in perpetuo subordine e, rispetto al ruolo dominante della partner, sviluppa una sorta di controcanto gattonesco e ironico in cui egli quasi fisicizza e a tratti animalizza i personaggi impersonati, ma poi da essi assume tutte le distanze. Basta comunque che compaiano le immagini di Napoli che sullo schermo fa irruzione l’intreccio variopinto dei motivi più tipici: le vie affollatissime; i banchi di vendita appoggiati agli usci dei bassi; gli stracci e gli abiti miseri, stavolta però colorati e vivaci; squarci di anditi pittoreschi e, ovviamente, il brusio perenne su cui lievita a tratti la grazia di un canto intonato. Tutto un ambiente appunto musicale e sonoro, che il regista affronta con un’affine natura e modalità. Così De Sica coglie infallibilmente un’antropologia, soprattutto aiutandosi con i suoi interpreti partenopei. Ma poi picchietta anche di un ritmo festoso il racconto che deve per ciò stesso musicalizzarsi e nel quale, se scatta lo schema dell’abbozzo episodico, albeggia pur sempre qualcosa del balletto popolare trasfuso nella prosa dei giorni. Qualcosa che dalla sua natura e dal suo carattere si contempera in una pur mediata concertazione formale (come è del resto sempre stato anche nell’esempio dei film maggiori), ma involgendo a nuovo, e con dolce festosità, le persone e le cose del racconto. In questo modo svanisce inevitabilmente la esemplarità critica – sul piano storico e sociale; sul piano stesso del rigore realista della narrazione – di quella vicenda di popolana costretta a fare il

contrabbando per mantenere la famiglia e, poi, a sfornare marmocchi per non farsi incarcerare. Di questo dovette addolorarsi Eduardo: e dovettero adontarsi i recensori e studiosi impegnati. Ma tant’è. “Adelina” (e l’intero film), sono altra cosa che non le elettive grandi immagini dei film del dopoguerra. E però qualcosa di fervido e di vitale sussiste comunque. Questo qualcosa è come scandito sottotraccia da corde e leganti musicali. Sempre nel primo dei tre episodi, dopo che sono stati presentati i personaggi e l’ambiente, il racconto si inoltra nella sua parte più curiosa. Sopraggiunge un ufficiale pignoratore per accertare che nel vano in cui vive Adelina con i suoi familiari non ci sia davvero nulla da sequestrare. Ma una volta che costui se n’è andato, ricompaiono d’incanto mobili ed oggetti, eclissati temporaneamente in fondi e tuguri e ritrasportati con movimenti da balletto nella primitiva collocazione. Ancora successivamente le cose tornano a complicarsi: per non finire sotto i rigori della legge, serve d’urgenza un avvocato. O meglio necessita uno stratagemma, che è rinvenuto nella pancia a pinnacolo di Adelina, cioè nel fatto che lei sia incinta. «Tene a’ panza, tene a’ panza» (fot. 80): declama eccitato il leguleio, e così afferma la di lui sorella, questo dicono le donne che spacciano sigarette clandestine giù per le scale di Forcella. Tanto poi ripeteranno cantando e con ritmica danzante i ragazzini del rione (ed è il punto in cui il film declina più esplicitamente il legame con una orditura impagliata in scansioni ritmiche). Insomma, la regia fa di necessità virtù: sviluppando gli assunti narrativi (e di costruzione del film, dei piani e delle sequenze) secondo una vena melodica e scintillante propria veramente del De Sica direttore e interprete. Del De Sica che si diverte a far recitare i suoi attori ma anche a inscenare il copione quasi si trattasse delle pagine di uno spartito.

FOT. 80

Una tale musicalità accresce e conferma la coralità del racconto, il fatto che tutto avvenga e disvenga alla luce del giorno e di fronte a tutti. Ancora una volta, come nel dopoguerra, la natura popolare suppone la partecipazione collettiva. In “Adelina” tutti prendono parte alle avventure della protagonista, quelle gioiose e altrettanto le inquietanti. Le immagini di De Sica si aprono sulla solidarietà (delle donne del quartiere che si tassano per pagare la multa di Adelina; anche quella dell’amico che farebbe volentieri il supplente del marito perché lei potesse essere incinta). In un’esistenza che aleggia tra la grazia naturale e il verminaio morale, tra l’amore e gli intrighi, tra il lecito e l’illecito. Nuovamente nel cinema di Vittorio De Sica, i poveri sono costretti all’irregolarità a segno di sopravvivere. La loro ingenita armonia viene a ostentarsi di fronte al disordine sociale. Più che all’operaio di Ladri di biciclette oppure ai barboni di Miracolo a Milano, la venditrice di merce da contrabbando di Ieri oggi domani si reclama all’incantata e disincantata vitalità della coppia di Il tetto – e forse per la forza naturale evoca assai di più la romanesca Luisa di quel film. E di fatto, l’antropologia di “Adelina” è apertamente meridionale e napoletana. Insieme alla scelta della linea naturale, entra in ballo un’altra qualità di De Sica: il birignao ironico e al contempo autoironico; le cadenze raffinate fatte graduare verso l’imitazione e il sarcasmo; insomma, quella gestione della voce e del corpo, frutto di trenta e più anni di palcoscenico e di

dominio della scena. Sotto tale definizione potremmo iscrivere la sapida coppia partenopea dei due fratelli formata da Agostino Salvietti (l’avvocato Verace) e da Tecla Scarano (la sorella) ma anche la performance di Mastroianni nel primo dei tre episodi (in cui lui è però memore di certi burbanzosi umori eduardiani), e anche quella della Loren in “Anna”. In questo secondo tassello, tratto da un racconto di Moravia e sceneggiato da Zavattini con il concorso di Billa Billa Zanuso (una scrittrice milanese nota negli anni Sessanta) forse per la necessità di un’infarinatura meneghina, l’attrice impersona una donna giovane, stretta nella morsa dell’alienazione causatale dalla ricchezza e dalla pari aridità di sentimenti, presa da smanie esistenziali derivate dalla moda dell’incomunicabilità e perciò nel suo caso del tutto gratuite e fasulle. Bellissima, snob, elegante e annoiata, presenzialista e mondana: tale il personaggio immaginato da Zavattini, che forse il grande sceneggiatore aveva pennellato con una più attiva cattiveria e che il regista introduce in un suo sistema di temperata, divertente e anche intelligente ironia. La figura della borghese alienata, che il cinema di quegli anni stava elaborando nelle silhouette antonioniane e in genere nella letteratura esistenzialista, volteggia adesso dentro un filtro divertito e tagliente. Più che moraviana (o zavattiniana), Anna pare esserci consegnata da una rubrica giornalistica di Camilla Cederna. All’opposto il giovane con cui ha un appuntamento e che sale sulla sua Rolls-Royce, è uno scampolo ritagliato in quella tipologia di intellettuale autentico e tuttavia disincantato che, da La dolce vita (Federico Fellini, 1960), era passato a contrassegnare molti personaggi del nostro Mastroianni. Di suo, Vittorio De Sica mette un bel tratteggio ironico: che è quanto conferisce all’episodio un ritmo felpato, una souplesse che sa mordere nel reale senza essere fastidioso e che si articola in una successione di inquadrature lasciate scorrere pulitamente. Ecco dunque la cinepresa piazzata dietro le teste con il campo visivo delimitato dal parabrezza e sempre puntato su Milano (i Navigli, la periferia, la grande circonvallazione); poi il controcampo volteggiante sulla sola Loren (fot. 81); e il rituale, semplice alternarsi di campo e controcampo su loro due in chiacchiera.

FOT. 81

Non si deve tuttavia credere che la regia trascini il ritrattino verso una copia seriosa del cinema dell’alienazione. Come al solito, il piglio di De Sica è andante e leggero. L’episodio viene narrato sulle punte dell’eleganza: meglio in punta di penna. Che è ancora una volta una penna o bacchetta musicale nondimeno in sussurrando e in sordina, che agisce sui rimandi, sulle intonazioni, che gioca sulle repliche scanalate di tic, gesti e evenienze varie (ad esempio il macchinone di lei che invariabilmente urta le macchine più piccole). Tutto è già chiaramente inscritto nella materia letteraria. La regia non insegue il controcanto sordo e triste, ma insiste su una propria ariosa ironia. E così facendo concerta il racconto su un pedale ritmico e sapientemente pausato (che per sua parte il commento di Armando Trovajoli assai ben egregiamente sottolinea). Forse non proprio per incidenza il compositore romano si è visto chiamato a sostenere il ruolo del soccorritore in conclusione di episodio. Ma in quel punto nel quale la vicenda abbandona il lato critico e recupera il dono dell’innocenza (e il personaggio del giovane protagonista la propria libertà

e integrità morale), dalla biaccosa mattinata lombarda emerge all’improvviso un ragazzetto che vende fiori (fot. 82). È per evitarlo che l’intellettuale scassa il macchinone della riccona. Risale alla memoria degli spettatori di cinema qualche figuretta di barbone bagnato e avvolto dalle nebbie in Miracolo a Milano, e ancor più soccorre il ricordo del ragazzetto nell’antifinale di Il tetto, anch’esso emerso improvvisamente a significare la poeticità e imprevedibilità del reale, il suo carattere salvifico.

FOT. 82

Nell’ultimo episodio, “Mara”, Sophia Loren impersona una squillo di alto bordo, biondeggiante e con le forme opulente. Accoglie e ristora i clienti nel suo attico di Piazza Navona. La sua non è propriamente una maison de passe e non dà perciò tanto nell’occhio. Questo spiega perché tenga per vicina una vecchia signora (Tina Pica nella sua ultima interpretazione), la quale temporaneamente ospita in casa sua un nipote seminarista. Il diavolo e l’acqua santa dunque, entrambi stretti su un filo di sinopia: ma è tale il caso che è l’acqua santa a vedersi attrarre dal diavolo. Ciò per forza di natura: la natura giovane del ragazzo destinato a diventare sacerdote. Per questo terzo episodio la critica ha parlato di pochade, ma sembrerebbe tutto sommato un termine fuori posto. La regia rassoda le forme narrative intervenendo sui contrasti e sul grottesco. La stessa situazione di partenza – con il seminarista che rimane attratto da una prostituta, peccaminosa nel corpo, ma buona di sentimenti e timorosa di Dio – parrebbe insistere nelle croste del convenzionale. Se non fosse che al centro c’è pur sempre la sofferenza del giovane, che la rappresentazione incornicia nel racconto a effetto facile culminante infatti in una scena di spogliarello (fot. 83), ma che non cancella. Quello stesso che Robert Altman avrebbe ironizzato e mitizzato più di trent’anni dopo nel suo Prêt-à-porter (1984).

FOT. 83

Matrimonio all’italiana Come ha ben spiegato Roberto De Simone, il film ispirato a Filumena Marturano (commedia teatrale scritta da De Filippo nel 1946 e portata sullo schermo dallo stesso nel 1951) è precisamente bello perché sfugge alle regole eduardiane. Con Matrimonio all’italiana Vittorio De Sica ritrova quella linea di tradizione che gli anni e la modernità avevano tentato di distruggere. L’occhio e

l’istinto colgono la verità naturale e antropologica di Napoli anche se non ne fanno l’oggetto del cinema e non vi s’internano. E neppure ne restituiscono le coordinate e le accentuazioni profonde, se non giusto all’interno di un’incorniciatura in parte bozzettistica e in parte invece naturale. Per il resto De Sica non si prova per nulla a eduardeggiare. Non ne aveva bisogno, ma doveva anche avvertire un certo ritegno e anche qualche apprensione. Rispetto al testo teatrale, il suo film si definisce per sottrazione e inclusione a un tempo. Si vuota per così dire dei mezzi consoni a De Filippo e si screpola nei risultati, escludendo, magari senza volerlo, una presa di coscienza in senso sociale e politico, ma portandosi a intendere i sentimenti in un modo forse più diretto. La sua Filumena è più passionale e fragile che non quella del film di Eduardo o delle sue recite teatrali: assai più esposta nell’esplicitazione erotica del corpo e però anche nella sua mercificazione, nel meretricio. È comunque soprattutto questa figura ad accogliere in sé il respiro imperituro della napoletanità. Offrendo della stessa una pronuncia multipla, antica e moderna al contempo, a partire da quel vacillamento della realtà quotidiana configurato nel tradimento del suo compagno-padrone, e insieme da una originaria disposizione se non all’inganno, almeno alle cose fatte di soppiatto, a insaputa degli uomini, dentro la penombra di una stanza o di un basso e, come avvenne nel suo caso, nella camera greve di un postribolo, allorché decise di non sopprimere il figlio concepito in una notte d’amore (senza appunto che Soriano lo sapesse e perciò stesso la costringesse all’aborto). Nella spenta, in fondo risibile ferialità del suo caso, emerge la donna arcaica e tradizionale, una sorta di Medea disposta a tutto. E però anche traluce la donna moderna, che chiede a voce alta i propri diritti di madre e di persona. Di questa complessa intonazione, Filumena è il significante primario. Da lei s’induce un senso antico imbevuto di sudore e passioni, di assilli quotidiani e dolori. La messinscena di De Sica ha, in ciò, il punto di mira accentrato sull’alta figura e sul volto della Loren (fot. 84), nel quale ultimo l’energia sensoriale e per così dire la veracità si oscurano e tumefanno nelle borse sotto gli occhi e nell’appesantimento della persona. Anche l’impaccio con cui indossa gli abiti e le scarpe del giorno di nozze è un di più rispetto a Eduardo.

FOT. 84

Insomma, il disordine può avere fine. Per una come Filomena, la nottata dei sentimenti e della ragione pare dunque dover passare. Con la sua sensibilità, anche con il suo senso dello spettacolo, De Sica coglie o quantomeno affina le minute verità umane e psicologiche dei personaggi. La sua scrittura s’interpone, senza troppo darlo a vedere, nelle maglie della trama del testo originario, dissolve i nuovi archetipi teatrali per ritrovare i valori antichi. Cresce d’altronde nel film la dimensione umana e sentimentale convogliata all’esterno e poi amplificata sui gesti e sulle battute. Forse per queste opzioni lo schema di partenza della commedia, l’invenzione che marca il carattere eventico della rappresentazione eduardiana, e che è tratto alla lettera dal tesoro culturale e antropologico della Napoli pulcinellesca e carnale, viscerale e plebea (appunto l’escamotage della finta agonia), viene volto nel film in una chiave di necessità, discutibile e accettata al contempo. Un vizio e una virtù della nostra nazione e del nostro popolo, a cui i poveri

sono obbligati dall’indigenza e dalla marginalità (come in Miracolo a Milano e in Il tetto; come anche in “Adelina”). Filumena Marturano (Sophia Loren) viene ricondotta in casa dopo un malore. D’urgenza si chiama un medico e poi subito il prete: pare infatti grave. Trascinato dagli eventi, il suo convivente don Domenico Soriano (Marcello Mastroianni), la sposa in extremis sul letto di morte. Subito dopo ripensa agli anni in cui la conobbe quasi bambina in un postribolo, quando poi la condusse in casa sua per accudire la madre e fare la servaamante. Si commuove anche un po’. Ma la sorpresa è che Filumena improvvisamente “guarisce”. Soriano capisce subito di essere stato ingannato. Il suo avvocato spiegherà a Filumena che quel matrimonio non esiste perché carpito con l’inganno: per diventare davvero la signora Soriano, lei doveva morire. Filumena capisce la situazione, accetta di lasciare la casa ma rivela a Soriano di avere tre figli, uno dei quali avuto da lui. Tre figli ormai grandi, che non si conoscono e che non la conoscono. Con l’aiuto della fida Rosalia (Tecla Scarano) e del devoto Alfredo (Aldo Puglisi), li ha convocati tutti e tre, per rivelare la propria identità. Dopodiché lascia la casa per andare a vivere con uno di loro. Domenico cerca in tutti i modi di capire quale dei tre giovani sia suo figlio. Si riavvicina anche a Filumena. Rinasce insomma il loro antico amore, coronato da un matrimonio alla presenza dei tre ragazzi. Dopo tanti e tanti anni, Filumena si abbandona al pianto.

La parte introduttiva di Matrimonio all’italiana si svolge dunque senza la scena-chiave della commedia di Eduardo, quella per l’appunto di Tummì Soriano che dopo essersi congiunto in nozze estreme a Filumena sul letto di morte, la vede improvvisamente “guarire” e capisce di essere stato turlupinato. Il testo per le scene ha inizio invece con l’ex prostituta che sta per essere scacciata dal suo mantenitore e amante: ci fa stare nel vivo della fabula su cui si regge la rappresentazione drammaturgica. Ma anche in questo la struttura del racconto visivo di De Sica evita di ripetere l’originale. In fondo, già nei titoli di testa, il film si dichiara liberamente ispirato alla commedia di Eduardo, e quella “libertà” pare essere approvata e benedetta dalla presenza del grande drammaturgo nella schiera degli sceneggiatori: dove Leo Benvenuti e Piero De Bernardi garantiscono le necessarie limature del mestiere e di fatto provvedono a una qualche definizione del testo, Renato Castellani scrive tutto il flashback del postribolo, e Tonino Guerra è un po’ come un’apparizione, chiamato all’ultimo momento dalla produzione giacché reputato in grado di arrecare un tocco di poesia (dunque scarsa e debole parte in causa e anche poco disposto, o legittimato, a ricercare ulteriori soluzioni: a lui comunque spetta in sede di sceneggiatura la scena del “montarozzo”, quella in cui Filumena e Soriano si rivedono e ritrovano l’antica passione). L’avvio del film appare scandito da un ampio e coinvolgente tema musicale, una specie di via regia che consenta di accedere a quella vicenda di sentimenti e commozione su cui fa perno De Sica. Anche per tutto ciò Matrimonio all’italiana non può partire dal colpo di scena del ripudio della convivente. Né può mischiare e confondere pianto e dolore con un umorismo loico e stralunato, di impianto intellettuale e di ascendenza pirandelliana, qual era quello eduardiano. Le prime sequenze del film offrono invece altre escavazioni: non si decalcano su alcuna rappresentazione, per memorabile che sia; evitano la scarabocchiatura degli antecedenti scenici; amputano anche la memoria intima del pubblico di interpreti straordinarie e mitiche, tipo Titina De Filippo (protagonista della versione cinematografica del 1951 alla quale comunque il film viene dedicato), e la stessa Regina Bianchi, una delle più importanti interpreti teatrali di Filumena. La diva Loren arriva a un ruolo impegnativo e deve dimostrare di essere almeno all’altezza della situazione. La messa in scena ha dunque, per ciò che le compete, da semplificare e al meglio agevolare l’approccio e evitare ogni inutile confronto. Ma per poterlo fare, accetta di scompaginare le carte in tavola, allineando i materiali in diverso modo e con un diverso ritmo; lumeggiando ulteriori prospettive (perciò ad esempio andando a ritroso nel tempo, cioè a dire lavorando su un asse temporale che il teatro non possiede). Deve soprattutto accuratamente evitare le attribuzioni formali e gli elementi troppo vicini allo stile di Eduardo. Se la Napoli di Eduardo, nella commedia messa in scena nel 1946, è ancora un conglomerato urbano preindustriale, quella filmata da De Sica delinea invece una città oscillante tra

passato e futuro, in bilico tra l’atroce miseria del vicolo (che Filumena del resto descrive nel suo celebre monologo) e i grandi caseggiati moderni. In Matrimonio all’italiana circolano sciaveri e bagliori dell’aria nuova del miracolo economico esploso negli anni Sessanta, con le sue mitologie di superficie e le facili e ingenue musichette del primo rock. In un punto soprattutto Matrimonio all’italiana elabora a propria posta la vicenda di Filumena: nella scelta di ricostruire il passato della donna, non ignorando la casa di malaffare di Vico Fantasia dove lei aveva visto e amato don Domenico Soriano la prima volta, durante una notte di bombardamenti. La quasi ancora bambina Filumena teneva soltanto diciassette anni e da tre giorni era entrata, tra “lacrime” e “suspire”, nel postribolo. Aveva i capelli corti tagliati malissimamente. Era terrorizzata di morire sotto le bombe, ma le sembrava più dura la vergogna di scendere nel rifugio mostrando a tutti quello che era diventata (fot. 85).

FOT. 85

Si scioglie in queste immagini qualcosa che si direbbe essenziale nel film, sostenendone l’assetto e le strutture profonde. Ma infine, perché la grande sequenza del disvelamento della madre ai propri figli ottenga tutto l’esito immaginato agendo sui registri dell’amplificazione emotiva e del ritrovamento dei sentimenti più profondi, occorre che la “colpa”, per quanto indotta dalla miseria, venga rappresentata. Quelle lunghe onde di emozioni che investono la mente degli spettatori di Filumena Marturano non sono esattamente le stesse che raggiungono il cuore del pubblico di Matrimonio all’italiana. La regia di De Sica semplifica e spettacolarizza la vicenda, ma nel suo film l’emozione dilaga a tocchi corposi. Le azioni guadagnano in scioltezza; le sensazioni forse sono meno tagliate e sottili, ma esse colgono davvero nel segno. La sua Filumena ha insomma bisogno della catarsi (e con lei ne ha bisogno tutto il pubblico popolare che l’accompagna per via sin dalla prima scena, quel pubblico che quasi coro amplificato assiste alla sua tragedia e ai suoi strazi, che conosce le sue vergogne e però loda e ammira il suo coraggio: il pubblico che l’attornia sullo schermo e l’altro che la guarda dalla platea). Per questo non deve essere celato quel che nel testo di Eduardo rimane invisibile: non soltanto la colpa, ma altrettanto il fiorire della giovinezza e insieme la prorompente impetuosità dei sensi. Ecco allora accendersi sul grande schermo la bellissima giovane risplendente nei colori sgargianti dei vestitini di un povero e fantasioso dopoguerra, eccola discendere da una corriera attraverso un finestrino, aiutata (e abbracciata) dal valentissimo autista. Eccola ancora mentre avanza trionfalmente, stavolta con un abito nero e bianco che ne sottolinea il portamento statuario, per recarsi all’appuntamento amoroso con Soriano. L’interprete, Sophia Loren, quasi si doppia sul personaggio di Filumena, proiettandovi la propria adolescenza, la propria infanzia. Lo assume nelle sue contraddizioni e ferite, nell’accesa fisicità, nel desiderio di redenzione e purificazione da un passato ingrato. Lo coglie nei tratti più scheggiati, in quella dispersione di sensi durata tutta una vita che si ricompone e placa nell’incontro con i figli ormai grandi. Nei giri di questa specchialità, la diva napoletana ritrova come per miracolo anche le emozioni e i

dolori della bambina costretta a vendersi, e poi della donna matura che prova a ritrovare e riconquistare i propri figli. La sua Filumena Marturano è una tra le più coinvolgenti e estroflesse che il teatro oppure il cinema abbiano saputo presentarci. Dunque per questo, il premio da lei conquistato al Festival di Mosca nel 1965, appunto per la miglior attrice, veniva di fatto a sanzionare l’ardenza e la passionalità delle tinte di un ruolo esercitato e patito sino allo spasimo. Ma in Matrimonio all’italiana le sequenze emotive e per così dire di più alta incombenza, si sciolgono da un tessuto narrativo ricco anche di passaggi aggradevoli in genere dosati sul tono medio, dove appunto la tragedia convive con la commedia, il dramma si coniuga con il sorriso e la letizia. Tutta la prima parte, sino alla grande scena dell’esplicitazione dell’inganno, si porta in fondo sul passo di una commedia. Una commedia di sentimenti, questo sì: che dunque sa incontrare e valorizzare il mezzotono e il contrasto. Che fonde i tormenti con le gioie, persino il sacro col profano (ecco il cipiglio del prete alla vista delle riviste pornografiche scoperte nella valigia di Soriano). Ma infine una commedia che è anche drammatica, nella quale il pianto non è differenza costitutiva rispetto al riso, e l’allegrezza briosa non contraddice le emozioni più profonde. Così nella sequenza in cui Filumena si presenta per la prima volta ai figlioli si innesta un sottofondo di una qualche temperata ironia il cui compito è contenere l’empito emotivo – si pensi ad esempio alle reazioni e gesticolazioni dei due servitori, Rosalia e Alfredo, di fronte alle rimostranze e alle sollecitazioni del padrone di casa perché tutti sloggino al più presto (visti al di là della vetrata della sala da pranzo, essi si stagliano in una immobilità e una stilizzazione quasi testimoniali, nel mentre che commossi assistono alla grande scena della rivelazione, fot. 86).

FOT. 86

Ancor meglio e più, la sapiente e calibratissima ostensione delle battute e dei gesti tratti dal lascito prestigioso e unico delle scene napoletane, si esalta nella sapidissima performance di Tecla Scarano. Grande veterana del palcoscenico e dello spettacolo partenopeo, la gloriosa attrice fornisce qui in Matrimonio all’italiana uno dei suoi risultati migliori (tanto da aver davvero meritato la conquista del Nastro d’Argento 1964 per la miglior attrice non protagonista). Di suo, reca un fraseggio ironico e sussiegoso, ma è evidente come questa recitazione ricordi le eleganze sottili e gigionesche del De Sica commediante e attore, le sue inflessioni e sprezzature. Infine, la multiversa rappresentazione desichiana sa dipingere al naturale il novero delle cose, ma così facendo può tutto ricoverare sotto un mantello di indicatori temporali e tematici tra loro armonizzati, però anche dosati e lavorati secondo una ben collaudata orchestrazione, ora brillante ora in sordina. In ragione di ciò le tonalità lievi ed i passaggi anche flautati, affidati alla verve degli interpreti maggiori e anche minori, non solo non contravvengono l’emozione intensissima delle sequenze centrali (quelle dell’incontro con i figli, fot. 87), ma le caricano di un ulteriore significato di verità.

FOT. 87

De Sica guarda con tatto e sobrietà a quei suoi accordi, che in parte ritrova nel testo di Eduardo, ma che anche raffina con garbo e inventiva. Lima tratto dopo tratto i diversi passaggi: ravvicina insomma, secondo una sua abitudine cernibile anche nei grandi capolavori del dopoguerra, le vibrazioni interiori dei personaggi a un soppesato aeramento delle scene e della dizione. Con un esito di elegante e svagata levità e di colorata effervescenza che tengono radici essenzialmente nei suoi precordi di napoletano acquisito. Una tale confidenza con le regole della commedia e dell’ironia a volte scorcia le espressioni e prende la mano. E allo stesso modo, tutta la parte che si aggrega intorno alla storia d’amore si ritraduce in qualche passaggio in enfasi. Insomma Matrimonio all’italiana ha numerosi difetti. Ma a differenza di quel che credettero di rilevare alcuni critici al momento della sua uscita nelle sale, De Sica non dà del testo di Eduardo una versione che sembra fedele nella lettura esteriore, ma che è invece evasiva e superficiale, edulcorata o addirittura eversiva. Se Filumena Marturano è il dramma della riconquista della dignità e della libertà femminile, nel film di De Sica questo aspetto trova ampia accoglienza. La si coglie nel continuo scambio che nel personaggio interpretato dalla Loren riusciamo a osservare tra il disagio quotidiano e il ritrovamento dei valori sia nella famiglia sia nel legame sentimentale, nella continuità tra lo splendore della giovinezza e le mortificazioni e umiliazioni della prima maturità (Filumena ha quarantotto anni, ma è come fosse già anziana: e l’attrice ne assume coraggiosamente il carico portandosi su questo lato d’ombra della vita). Ma la commedia di Eduardo è anche lo spazio nel quale si danno le grandi scene. Le stesse che mettono d’accordo le ragioni dello spettacolo e le verità della speranza e dignità umane. Se il piano della “resurrezione” di Filumena dal letto di morte segue le regole di un fraseggio vaporante degli umori sottostanti del testo, lasciato partire armonicamente sugli accordi drammatici della Loren e quelli invece in puntasecca sarcastica del don Domenico di Mastroianni, la sequenza dell’incontro con i figli toglie ai personaggi quel baluginio di irrealtà teatrale che ciascuno si portava addosso. Sophia dice e vive con forte emozione il grande monologo in cui racconta l’infanzia e l’adolescenza di Filumena, recitato prima di lei da altre grandi interpreti della nostra scena. «Avvoca’, ’e ssapite chilli vascie… I bassi… A San Giuvanniello, a ’e Virgene, a Furcella, ’e Tribunale, ’o Pallunetto! Nire, affumecate…». E in quel momento tutto l’apparato dei marchingegni e grimaldelli della

finzione cinematografica arretra di molte spanne, e pare quasi che si riaffacci quella purezza di emozioni e di fitte dolorose che era stata appannaggio dei personaggi popolari del cinema del dopoguerra. De Sica non tacita il lato “eduardiano” della vicenda. Ma di esso sviluppa per un verso l’aspetto narrativo e cromatico, quel colore di napoletanità legato a una propria dizione e affabilità vernacolare, cordiale e spontanea; per altro verso recupera la disposizione emotiva e sentimentale che anche appartiene al testo originale, al di là del disegno logico, al di là di quella tornitura dura e realistica che marca il livore del maturo possidente e la rabbia dell’ex prostituta, la quale fa i propri calcoli e decide di assicurare a se stessa e ai figli un più sicuro avvenire. Facendo questo si svincola dalla rigorosa ma anche rigida consecutività formale e logica del testo originale, da quel suo pessimismo centellinato e anche occultato tratto dopo tratto (come ha scritto Italo Moscati in Il cattivo Eduardo, Marsilio, Venezia, 1998), a cui contrappone una fiducia nel futuro che ha sempre fatto parte del prospettivismo del nostro cinema del dopoguerra, ma anche del suo lascito morale. Eduardo – è noto – si dolse e molto si querelò dell’esito complessivo di Matrimonio all’italiana; e dovette sicuramente non avere a genio il fatto che i più grandi successi di pubblico di opere cinematografiche tratte dai suoi testi, o a essi ispirate, Ieri oggi domani e insieme Matrimonio all’italiana, non fossero stati filmati da lui ma nemmeno condivisi o approvati. Forse anche si adombrò per il ringiovanimento dei personaggi e per la sottolineatura di una componente amorosa e persino erotica, del tutto assente nella commedia originale e nel film del 1951. Partito da quella specie di vacillamento di realtà che la scena del teatro di Eduardo De Filippo impone, De Sica accorpa poco per volta tutte le tessere dell’esistenza, dal dolore alla degradazione, dalla letizia naturale al riscatto. Non tutto gli si incastra alla perfezione, questo va da sé; e non sempre l’emozione evita la crollanti cadenze di una tendenza a sentimentaleggiare. Ma, infine, pur con tutte le interferenze bozzettistiche e spettacolari, il suo Matrimonio all’italiana è un commosso racconto popolare sugli intrecci di vite segnate dal bisogno, nel contatto con l’accadere totale di una città fantasiosa e drammatica qual era Napoli. Un mondo nuovo Un mondo nuovo, o meglio Un monde nouveau (giacché la pellicola è stata girata e prodotta in Francia) è un’opera che raccoglie con lo stupore e il fervore con cui si affronta la realtà una buona parte delle preoccupazioni che Cesare Zavattini nutriva intorno alla metà degli anni Sessanta, confluite poi anche nei suoi libri. Corre in questo film il sentimento delle cose nuove che stavano avvenendo – a chi raccontarle, come operare per poterle dire a tutti (e qui si riconosce l’ansia di comunicare propria di Zavattini) – e forse non per mero accidente i due protagonisti sono ambedue giovani, sciolti dagli obblighi degli adulti ma anch’essi involti in un laccio di contraddizioni. Nino Castelnuovo replica in parte un suo carattere di quegli anni (che Godard avrebbe codificato nell’episodio girato per Amore e rabbia (Carlo Lizzani, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Jean-Luc Godard, Marco Bellocchio, 1969, cioè a dire L’amore): quello di un giovane europeo meridionale di buoni sentimenti e anche nutrito di utopie, con una corporeità e le fattezze del volto gentili e maschie, vivo di un’intensità che gli ferve dentro negli sgorghi del sangue e in una sessualità pronta a esplodere. Lei è una figurina stralciata da un’ideale iconografia del cinema francese. Ovviamente emancipata, ma già in grado di esprimere un nodo di voci e pensieri nuovi che avanzavano nel mondo d’allora. Anna (Christine Delaroche) incontra Carlo (Nino Castelnuovo) a una festa da ballo. Lui è un fotografo apprendista che per sottrarsi alla minaccia di fare l’avvocato (è il rampollo di una famiglia dell’alta borghesia italiana), ha lasciato il suo Paese per venire a Parigi. Lei è una giovane studentessa francese figlia di un fornaio di provincia. Subito attratti sul piano fisico, si innamorano l’uno dell’altra. Vivono un periodo di trasformazioni culturali e si interrogano sul futuro. Quando lei rimane incinta, il loro rapporto sembra entrare

in crisi. Ma è anche per la fiducia che nutre in un mondo rinnovato che lei deciderà di tenere il bambino.

I due ragazzi del film di De Sica e Zavattini non configurano un io, un tu, o un loro: sono insieme il nuovo che cresce nella società europea del tempo e negli ambienti giovanili. La coppia di Un mondo nuovo si porta infatti addosso il retaggio del passato ma viene ovviamente investita dai processi che investono la vita moderna, emblematizzati ad esempio dal fatto di stare in aule universitarie fianco a fianco con studenti africani. La Francia multirazziale e cosmopolita offre a De Sica e a Zavattini lo scenario consono a un allargamento degli orizzonti e a un recupero della loro migliore linfa creativa. Ciò nella direzione delle grandi novità del decennio: la nuova Africa, già indagata da Pasolini in Il padre selvaggio (una sua sceneggiatura non realizzata poi pubblicata come testo letterario), si affaccia qui nel film con la giovane studentessa in medicina che guida l’angustiata protagonista alla coscienza della maternità. Ma è anche in quel viavai di giovani di tutte le razze che affollano il collegio universitario: corpi e umori disturbanti e seduttivi al contempo (vedi l’avversione di un’amica di lei per i negri ma insieme il desiderio di congiungersi a loro, denegato e respinto dalla sua falsa ideologia borghese). Il nuovo, pronto a esplodere nella ribellione del Sessantotto e ancora tenuto sotto la cenere, è anche nelle istanze di una cultura che si interroga incessantemente sulla realtà. A un certo momento si sparge la notizia di una conferenza di Sartre intorno ai problemi dell’arte e al loro significato. Il film s’ambienta in Francia, dunque l’interrogazione sul mondo che cambia assume il tratteggio della cultura francese. Così le domande di Sartre finiscono dentro il film: «E allora, a che cosa serve l’arte? In che cosa – chiede un personaggio incontrato incidentalmente – essa offre aiuto a coloro che combattono nel Vietnam oppure in Colombia?». L’apertura agli orizzonti mondiali viene più esplicitamente sottolineata dal lavoro svolto dal nostro fotografo, i cui soggetti appaiono essere i poveri e i diseredati del Terzo Mondo, le persone comuni (con la fissa dei volti in primo piano), ma anche i grandi personaggi storici, da Mao a Gandhi (fot. 88). Attraverso tale rivolo narrativo, la realtà irrompe nella costruzione del film con immagini epocali (valga per tutte quella celebre del partigiano indocinese massacrato dagli americani), che appuntate su pannelli murali sono colte dalla cinepresa in una serie di zoom folgoranti che si organizzano in sequenza. Lo sviluppo degli scatti fotografici diventa in tal modo il quadrante del mondo con cui si confrontano i due protagonisti. Un mondo la cui alterità e contraddittorietà, riflesse nei due protagonisti, si danno a vedere giusto tramite quelle immagini (come sarebbe avvenuto con il fotografo di Blow-up, di Michelangelo Antonioni, 1966).

FOT. 88

È una società strutturata nei suoi conflitti e nelle insicurezze ad attorniare i due giovani: con il peso dei pregiudizi, specie nel ragazzo che si porta dietro un retaggio maschilista e fallico; con il dramma dell’indigenza che esplode nella visione dell’anziano riverso sul selciato; soprattutto con quelle angosce che attanagliano Carlo rendendolo irresoluto e ambiguo. Torna in un qualche modo in Un mondo nuovo la coppia di Il tetto: l’uomo fragile; la ragazza più matura e pregna di senso positivo. Come nel film del 1956, anche qui sarà la donna a sciogliere i problemi decidendo nel suo caso di tenere il bambino e rinunziando a un aborto che avrebbe avuto il significato di negare la loro unione. L’ultima scena non dà però conferma di un superamento delle incertezze: giacché qualcosa di indeciso continua a vagare negli occhi del personaggio maschile. La domanda zavattiniana sul nuovo diviene sgomento, paura nel giovane italiano: «Vorrei proprio crederci, bisognerebbe cambiare tutto e non si sa mai da che parte cominciare… c’è troppa gente da convincere… solo questi qui che stanno passando, come li fermi, come gli parli?». Detto in altro modo, la fiducia e la curiosità zavattiniane si incontrano con la percezione di De Sica e con il suo accoramento. Perciò l’attesa di futuro incute timore. E anche il miracolo di quella storia d’amore si incasella in un mondo di solitudini e guerre. Ancora una volta Zavattini fornisce materiali a De Sica e questi li traduce all’interno della sua sensibilità e poetica. Rispetto ai tempi del neorealismo, molto si è trasformato. Sono mutati nel frattempo anche i costumi sessuali. C’era una vena erotica in Il tetto, e anche evidentemente nei film dei primi anni Sessanta, che rispunta in Un mondo nuovo. Con l’aggiunta però di una rivoluzione che ha disinnescato le antiche consuetudini. L’incontro tra i due giovani al ballo della Salle Wagram provoca in loro un turbamento e una foga conclusi nel coito consumato dietro una tenda. Irrompe infine nel cinema di De Sica il sesso: espresso nelle belle e delicate scene d’amore come nella quasi nudità dei personaggi (Castelnuovo è attrattivo in quelle candide mutandine che fasciano il suo inguine scuro; forse sarebbe dovuto apparire nudo o almeno pensiamo che la sceneggiatura di Zavattini lo contemplasse tale; in ogni caso le scene erotiche paiono innovative e coraggiose per la media del cinema europeo di quegli anni, fot. 89).

FOT. 89

Ma se De Sica tempera nella sua rappresentazione dell’eros l’irruenza terragna di Zavattini, la sua regia sceglie una forma d’espressione che oscilla tra lo stile francese e quello italiano: lambendo il romanticismo dei film d’oltralpe (del resto citati nella visualizzazione dell’Hôtel du Nord del film di Marcel Carné, Albergo Nord, 1938), ma in essi immettendo il legame con la realtà che da sempre appartiene al suo cinema. D’altronde la direzione degli attori si esalta anche nella prestazione dei mostri sacri delle due nazioni. Ci sono in Un mondo nuovo Pierre Brasseur, Georges Wilson, Madeleine Robinson. E c’è la nostra Isa Miranda nel ruolo di una delle due dottoresse che debbono praticare l’aborto, radiosa di un sorriso spietato e cinico tutt’accanto a un’altra arpia che solleva invece le braccia in aria, quasi si muovesse in un balletto anticipato dai passettini della serva allorché fa strada verso lo studio medico. Come dire che per un momento la realtà si sospende per ragioni di stile. O anche si enfatizza in un raptus crudele e ridicolo. Insomma anche l’atroce ha costituzionalmente in sé qualcosa di surreale. Il set internazionale Caccia alla volpe Le intenzioni e anche le qualità di Un mondo nuovo non furono colte dal pubblico e nemmeno dalla critica. Dopo l’insuccesso anche economico, nella seconda metà degli anni Sessanta De Sica si mette a disposizione di produzioni internazionali. In After the fox, che da noi suona col titolo di Caccia alla volpe, viene proposta una visione casalinga della Pantera Rosa, con il rovesciamento del personaggio di Peter Sellers non più alato e svagato detective ma invece ladro inventivo e casalingo specializzatosi nel settore dell’oro. Aldo Vannucci, soprannominato la “volpe” (Peter Sellers) è esperto in furti d’oro. Mentre guarda un film con la sorella Gina (Britt Ekland), ha un’idea geniale per metter le mani sul cosiddetto “oro del Cairo”. Si tratta di far finta di girare un film su quel soggetto con un attore americano passato di moda (Victor Mature), aspettando in tutta calma che arrivi via mare il carico d’oro protetti per giunta dalla polizia. La questione finisce però in tribunale. La prova lampante della colpa di Aldo è che quel film non può essere stato filmato da un vero regista tanto è venuto male. Un critico grida ugualmente al capolavoro, ma non salva la “volpe” dalla galera. Aldo uscirà come aveva annunciato il primo aprile – alle ore quindici in punto! – con un’idea strabiliante per un nuovo furto.

Neil Simon, l’autore della commedia d’origine, è l’estensore della sceneggiatura insieme con Cesare Zavattini. Collaboratori di lusso Burt Bacharach per la canzone dei titoli di testa, Mario Garbuglia per le scenografie, il grande Piero Tosi per i costumi, Leonida Barboni per la fotografia, più un cast di tutto rispetto che fa da contorno al protagonista: Akim Tamiroff, l’ibernato e redivivo Victor Mature, più i nostri Paolo Stoppa, Tino Buazzelli, Carlo Croccolo, Maria Grazia Buccella, Giustino Durano. De Sica fa addirittura se stesso in un ruolo di svincolo: è lì che si appresta a filmare una scena in un improbabile deserto egiziano, quando si fa involare cinepresa e riflettori durante una tempesta di sabbia amplificata dai lestofanti (fot. 90).

FOT. 90

L’umorismo brillante inglese dovrebbe combinarsi con la commedia all’italiana. L’esito è un prodotto spurio, che non trova l’astraente finezza della commedia britannica e sfocia spesso su medaglioni di pseudofolklore specie nelle scene siciliane. In più c’è il cinema nel cinema. «Che cos’è il neorealismo?», chiede l’attore americano sul viale del tramonto. Gli viene risposto: «Panni sporchi». Il suo agente non capisce che in questo tipo di espressione le idee e il testo di sceneggiatura stanno nella testa del regista e meglio ancora nel corpo vivo della realtà. Il dettato autoreferenziale, che diremmo di mano zavattiniana, ironizza garbatamente sul cinema passato ma investe anche l’esteriorità di quello corrente. L’estro inventivo già sperimentato da Zavattini nelle lontane e fantasiose Cronache da Hollywood, dove egli si fingeva inviato speciale per una rivista nella capitale del cinema, delinea ad esempio la figura del grande regista per definizione, indirettamente evocata dal nome che il ladro trasformato in director assume, Federico Fabrizi (evidente riferimento a Fellini). Ma è da notare anche la banalizzazione satirizzata del tema dell’incomunicabilità, già apparente nel secondo episodio di Ieri oggi domani, e che qui emerge in quell’azione o ripresa del nulla che vede i due attori posti l’uno di fronte all’altro agli estremi di un tavolo con la distesa del mare sullo sfondo. Una scena che il finto regista deve filmare (fot. 91) ma dove non può e non deve succedere niente («Pronti per il niente… Azione per il niente!»), l’esatto opposto dunque dell’estetica zavattiniana. Oppure ecco l’esempio della fuga dal sé, il cui significato simbolico starebbe in una corsa velocissima che non consente di sfuggire a se stessi.

FOT. 91

Nei passaggi in cui il cinema ripercorre con ironica levità i temi supposti dell’individuo che insegue una propria identità, lievita un’arguzia che è la parte migliore di Caccia alla volpe. Questo non modifica il ritmo anfanante e faticoso. L’ironia fredda e sosfisticata del duo Simon-Sellers non si compone né tantomeno si armonizza con gli spaccati di simpatia calda e umana del De Sica regista. “Una sera come le altre” “Una sera come le altre”, l’episodio conclusivo di Le streghe (gli altri registi erano Luchino Visconti, Mauro Bolognini, Pier Paolo Pasolini, Franco Rossi, 1967), è in qualche misura

assimilabile alla serie di ritratti femminili che sarebbero stati tracciati nel successivo Sette volte donna (1967). L’unità si direbbe sostanziata dalla presenza di Zavattini, che in ambedue i casi aziona un movimento di scrittura oscillante tra l’usura della realtà e le pulsioni del subconscio (o se si preferisce del desiderio), tra il racconto in prima istanza e il racconto che si edifica (o potrebbe occasionarsi) sulla base del primo, in una situazione correlativa e conseguente. Giovanna (Silvana Mangano) è una casalinga a suo modo moderna: intelligente ed equilibrata, dedita a marito e figli. In superficie tutto sembra andare per il meglio. Lei e il consorte Carlo, un americano (Clint Eastwood), formano una bella coppia. Preso nel tran-tran quotidiano lui la trascura. Così il subconscio della donna si ribella trasportandola sul piano del sogno e sospingendola verso una dimensione in cui lei si trasforma in una femmina voluttuosa e sensuale, desiderata dagli uomini ed esplicitamente trasgressiva. Invano Carlo – sempre nella sovrarealtà onirica – cerca di richiamarla all’ordine: lei gli si ribella facendolo prendere a cazzotti dagli eroi dei fumetti, Flash Gordon, Mandrake e Batman. Il principio di desiderio sembra avere per un momento il sopravvento, poi però rientra nell’ombra e tutto ritorna alla normalità quotidiana.

In Le streghe, l’opacità è quella del matrimonio. Da una parte c’è un marito americano preso negli ingranaggi del lavoro; dall’altra una casalinga ancora in stato fiorente, toccata dall’onda del femminismo e dell’emancipazione, ma come scissa tra una vita palesata, quella di moglie e madre, e una vita interna in cui la grana spenta del quotidiano entra nel reticolo della coscienza profonda, indagata nei bagliori del flou di Giuseppe Rotunno (fot. 92).

FOT. 92

È in questa seconda vita, o in questa parte della sua vita, dove immagini e corpi fluttuano nella brillantezza ovattata del colore, che la donna può manifestare i suoi desideri. Lì il sogno allenta il freno del principio di realtà. Talché lei finalmente esterna le frustrazioni ma dà anche corso a una rivalsa, svillaneggiando e colpendo al volto il marito (un Clint Eastwood assonnato e lontano dal suo modello di virilità) e infine esponendosi voluttuosamente agli sguardi di un esercito di corteggiatori. L’uomo, sgomento, in mezzo alla folla dei vilains la supplica: «Giovanna, pensa ai figli, pensa alla famiglia!». Grido e ammonimento per risvegliare in lei la coscienza piccolo borghese: «Abbiamo l’obbligo di pensare ai figli, questo deve essere il nostro pensiero dominante». Per tutta risposta lei si reca in uno stadio tutto popolato di maschi esponendosi all’universale concupiscenza. Il dinamismo della sceneggiatura di Zavattini, coadiuvato da Fabio Carpi ed Enzo Muzii, risiede nell’impennarsi della apparente linearità psicologica ed esistenziale in salienze e gorghi di carattere surreale (o psicanalitico). La regia desichiana fa una certa fatica a tenere dietro a tale profluvio di fantasia, che nelle immagini balena soltanto per istanti. Si dà le basi per un racconto avanzato, e nel suo carattere anche eversivo, per poi però ricadere nella convenzione del discorso sentimentale. Certo pesa negativamente l’invadenza imbarazzante di Dino De Laurentiis, il produttore-factotum. E tuttavia l’episodio deve il proprio significato più a certi guizzi della Mangano, al caleidoscopico cromatismo dei costumi di Piero Tosi (gli abiti e i copricapi della signora, il pigiama del marito yankee), anche alle elaborazioni di una messinscena che comunque concede allo sketch un proprio cordiale aeramento. Incuriosente è ad esempio la scena in cui l’uomo viene preso a pugni. Come

fossimo in un fumetto, i vari colpi sono commentati da didascalie che s’imprimono sul fotogramma: «Sock! Vlang crack bang!» (fot. 93). E singolari anche le soluzioni scenografiche di Piero Poletto, che bene rendono – con la descrizione della città negli infernali ingorghi di traffico e nel caos che la domina – il trafelato fervore di fantasia di sceneggiatore e regista.

FOT. 93

Il gusto tutto zavattiniano delle parole, anzi delle “straparole” («Non mentire, Carlonaccio!», «Tu volevi fagocitarmi») si spinge surreale e futuristico verso una dimensione quasi solo sonora delle frasi. «Cornuto!», lei esclama abbandonandosi a una frenesia liberatoria del dire. «Sgualdrina!», mugugna lui concedendosi una vendetta e un risarcimento ed espandendo alla voce il significato delle azioni e insomma del plot (anticipando in una qualche misura le soluzioni tentate in sede letteraria da Zavattini con Non libro più disco, pubblicato nel 1970, dove appunto un disco con la voce dell’autore monologante e ululante soppianta la scrittura). Ecco: se assunto realmente nell’ottica dello Zavattini di allora, Una sera come le altre avrebbe potuto allargarsi verso una dimensione innovativa. Questo non avviene perché in quel periodo De Sica non sembrava propenso a sperimentare novità. Sette volte donna Se in Caccia alla volpe si assiste a una curiosa e reciproca assimilazione di modi – con Sellers che si adopera senza molto costrutto a fare un personaggio da commedia all’italiana dalle inflessioni e dai gesti coloritamente gergali, e De Sica intento ad acquisire la nonchalance della commedia rosa alla Blake Edwards e appunto alla Neil Simon, in Sette volte donna, così intitolato perché formato da sette episodi, l’impegno è quello di una produzione internazionale e più segnatamente anglosassone. Un’impresa sul fondamento inevitabile di un apporto italiano, ma dato che le riprese avvenivano a Parigi anche su base francese (con l’apporto di tecnici prestigiosi come lo scenografo Bernard Evein e il direttore della fotografia Christian Matras, oppure di interpreti talentosi del genere di Philippe Noiret o di una delle colonne della Comédie Française, Catherine Samie). Ma soprattutto esemplata su un consistente contributo di attori inglesi e statunitensi ruotanti attorno al trespolo della divaattrice che è protagonista di tutti gli episodi: una Shirley MacLaine non all’altezza delle sue possibilità, spesso e sovente fuori ruolo rispetto ai caratteri interpretati. “Il corteo funebre”. Distrutta dal dolore, Paulette (Shirley MacLaine) segue il feretro del marito, ma si lascia subito distrarre e abbindolare da un accompagnatore (Peter Sellers). “Amateur Night”. Rientrando a casa, Maria Teresa (Shirley MacLaine) trova il marito (Rossano Brazzi) a letto con un’amica. Sconvolta lascia la casa e, vagando nella sera, incontra un gruppo di prostitute, che la consolano e ammaestrano. La donna torna a casa più forte di prima. “Due contro uno”. A un congresso internazionale, Linda (Shirley MacLaine) riceve le attenzioni di due spasimanti (Vittorio Gassman e Clinton Greyn). Ma reagisce ricordando loro che ama soltanto un certo Bob, il quale l’ascolta, la capisce, la eleva spiritualmente con la poesia. I due pretendenti finiscono nel letto di lei, che recita tutta nuda un poema. Colpiti dalla sua bellezza, ne rilevano le qualità spirituali. Ma attendono anche di combinare qualcosa di più. Intanto litigano: Linda allora prima cede a una crisi di nervi, poi si eccita e getta dalla finestra la foto di Bob. Dopo di che…

“La super Simone”. Uno scrittore (Lex Barker) legge alla moglie Edith (Shirley MacLaine) le vicende di Simone un personaggio da lui inventato. Una donna idealizzata, fantastica: il contrario di quel che è lei, semplice, modesta, come le conferma un’ammiratrice del marito (Elsa Martinelli) incontrata in un negozio. Perciò Edith si trasforma: canta, danza. Rik, il marito, la trova strana e, preoccupato, convoca in casa un medico (Robert Morley) che però egli fa passare per avvocato. Lei passa davanti ai due vestita con veli e trainata da pattini a rotelle. Il medico-avvocato dice che è una bambina: la guarda, la soppesa, la esplora. Lei capisce che c’è una congiura. Urla di non essere fuori di sé, scappa sui tetti e grida: «Non sono pazza, sono innamorata». Il marito la stringe a sé. “Una sera all’opera”. Eve (Shirley MacLaine) è la moglie di un capitalista (Patrick Wymark). Al teatro dell’Opera si accorge che una rivale porta un abito simile al suo. Prima schiuma di rabbia, poi esplode in un riso liberatorio. “I suicidi”. Amanti da tempo, Marie (Shirley MacLaine) e Fred (Alan Arkin) decidono di uccidersi. Si incontrano perciò in una mansarda della periferia di Parigi. Nessuno dei due ha però il coraggio di sopprimersi per primo. La donna si salva lasciando in asso il compagno. Il binomio Amore-Morte può attendere. “Neve”. Jean (Shirley MacLaine) e Claudie (Anita Ekberg) sono pedinate da un fascinoso signore (Michael Caine). Tornate a casa, Jean vede l’uomo sotto la sua finestra, sotto la neve parigina. Pensa perciò di essere lei la corteggiata: in realtà si tratta di un detective messole dietro dal marito (Philippe Noiret).

La regia di De Sica trasforma e anamorfizza questi caratteri e personaggi in episodi impaginati entro un modulo vagamente all’inglese, dove più che il rilievo ironico e lo spunto paradossale spicca un’idea di ritmo condotto con souplesse e se si vuole con eleganza. E il film, che scende sotto tono negli episodi dove più giungono a sfumarsi i contorni (“Due contro uno” oppure “ Amateur Night”, conduzioni surreali sui luoghi comuni), si accende là dove torna una materia di figure sentite nella loro indegnità morale o se si vuole nella loro normalità. Tale il personaggio della signora del capitalista impavidamente in corsa per battere una rivale in fatto di moda (“Una serata all’opera”), oppure quello della dama pedinata da un finto corteggiatore, vittima delle incertezze del caso ma anche della propria vacuità. Non mancano passaggi descrittivi svaganti e impalpabili come l’improvvisa caduta della neve su Parigi (fot. 94). Un’astuzia della poesia che agisce nonostante la mediocrità di queste esistenze.

FOT. 94

Amanti Amanti, tratto da una commedia di Brunello Rondi vincitrice del Premio Idi-Saint Vincent 1967 poi tempestivamente portata in scena nello stesso anno dalla compagnia Proclemer-Albertazzi, fa toccare all’internazionalizzazione della carriera di De Sica il suo punto più critico. Finanziato da Carlo Ponti, il film è una coproduzione con la Francia che tuttavia guarda soprattutto al mercato statunitense. Il nome della versione americana, il più autentico giacché gli interpreti recitano in inglese, è A Place for Lovers, lo stesso della canzone dei titoli di testa eseguita da Ella Fitzgerald. «Come and walk with me», modula Ella nella sua voce inimitabile. Era la prima volta che questo accadeva in un film ed è forse l’esito più ragguardevole di Amanti. Il brano cantato dalla Fitzgerald (parole di Norman Gimbel, musica di Manuel De Sica che fa il suo esordio nel cinema e nella

collaborazione con il padre e cui si deve lo scoop del coinvolgimento della cantante), è insieme col quadro scenografico, con la bellezza felpata delle immagini, con i colori acquarellati degli abiti della protagonista, uno degli elementi più interessanti di un mix che supporta un racconto altrimenti assai precario. Una signora americana, Giulia (Faye Dunaway), in Italia apparentemente per una vacanza, telefona a uno sconosciuto, incontrato casualmente in aereoporto, da cui ha ricevuto il biglietto da visita. Valerio (Marcello Mastroianni), questo è il nome dello sconosciuto, è un ingegnere: lei per caso lo rivede in televisione, così l’invita per alcuni giorni nella sua residenza palladiana. Partono insieme per la montagna e vivono un rapporto d’amore intenso. Sino a quando arriva un’amica di lei (Caroline Mortimer) per condurla in ospedale. Giulia è infatti gravemente ammalata. Lei resiste, vuol godere ancora quella inattesa, forse ultima felicità. Una mattina s’allontana meditando di uccidersi. Poi però chiama Valerio. Sembra quasi che voglia morire insieme a lui. Finalmente si placa e accetta che lui le stia vicino.

L’apparenza è quella di una storia d’amore, anzi di un mélo che potrebbe apparentarsi a Love Story, su uno sfondo di montagne e ville venete con affreschi alle pareti e sui pennacchi delle volte (fot. 95). Questo paesaggio raffinato inquadra l’incontro sentimentale, che dall’occasione di un’avventura si espande sino alla passione. C’è un punto in cui la Dunaway è presa dalla frenesia di gridare «Ti amo!», e lo stesso Mastroianni si direbbe catturato dall’uguale eccitata felicità espressa con maschia gagliardia. Poi però, come avviene in questo tipo di storie, la passionalità viene a inscriversi in uno scenario di malattia e morte incombente, con tanto di tentazione di un volo liberatorio giù per un botro dolomitico attorniante Cortina.

FOT. 95

L’operazione – l’abbiamo visto – poteva vantare una propria consistenza sul piano del mercato, in parte rammemorando i toni e le suggestioni di Stazione Termini. De Sica e Mastroianni l’avevano accettata per ragioni – per così dire – alimentari. Ma vuoi per la fragilità del testo e per la sua distanza dalla sensibilità di De Sica, vuoi per l’ibrido della combinazione produttiva, Amanti fallisce il suo obiettivo. Ciò accade malgrado l’ambizione di aggirare la pura ovvietà evocando il vuoto di sentimenti indagato dal cinema europeo del tempo, da cui la curiosa reiterazione dei richiami sia ad Antonioni sia a Fellini (blandamente citato nella sequenza della festa all’interno della villa veneta). Richiami mediati probabilmente da Tonino Guerra (abituale collaboratore di Antonioni) e da Brunello Rondi (collaboratore di Fellini), entrambi compresi nella rosa degli sceneggiatori. Ma pur ammettendo uno scavo delle coscienze, la risposta del film è una overdose di sentimenti conclamati e gridati sino allo spasimo, tanto da volgersi in dramma. Una contraddizione in termini per un racconto ovattato e plastificato. Ritorno alla storia I girasoli De Sica filma I girasoli dopo il passo falso di Amanti. La produzione vede ancora in prima persona Carlo Ponti con l’accoppiata italo-francese Compagnia Cinematografica Champion-Les Films

Concordia (la stessa di Matrimonio all’italiana, di Ieri oggi domani, di Amanti). Questo veicola obbligatoriamente la presenza di Sophia Loren e, per associazione, di Marcello Mastroianni, i quali replicano spezzoni di scene ipernote agli spettatori. Lei è naturale e pimpante nella sua napoletanità; Mastroianni, invece, propone un’accentuazione estesamente caricaturale propiziata da una situazione che non può non divertire (l’ingoio di un orecchino nella foga del bacio) ed esplicitata da una cadenza emilianeggiante un po’ sopra le righe. La presenza di Giuseppe Rotunno alla fotografia garantisce una professionalità ad alto livello (è l’ultima sua collaborazione con De Sica). Ma la novità consiste nel ritorno a un soggetto per così dire impegnato, ambientato nel tempo del secondo conflitto mondiale con la conseguente devastazione di esistenze, valori, affetti. Anche per questo la sceneggiatura è affidata a due pezzi da novanta: Zavattini e Tonino Guerra. Con l’aggiunta di un praticone georgiano gradito alla nomenklatura sovietica: Georgij Mdivani, il quale pare stesse all’arte «come un chiodo arrugginito a un culo» (così lo definisce un filosofo che De Sica conosce in casa di Guerra). Il concettuoso e arduo giudizio sarà però prestamente confermato dalle scene scritte da Mdivani, che De Sica provvede subito a emendare e cassare data l’assenza sul set in Urss dei suoi due sceneggiatori. Sempre in fase di riprese, il soggetto originale del film viene definitivamente modificato da Ponti, che non intendeva accettare che la moglie si producesse in una figura di donna abbandonata dal suo uomo. Se questo, come è nella storia di I girasoli, comunque doveva accadere, al personaggio maschile non poteva non essere capitato qualcosa di grosso, tipo la perdita della memoria. Viceversa nel soggetto originale scritto da Cesare Zavattini, Giovanna, la protagonista è una povera calabrese alla ricerca del marito in Svezia, Paese dove lui era emigrato per lavorare in miniera. La donna incontra ovviamente infinite difficoltà: ma si spinge ugualmente sino alle zone artiche e infine conosce la nuova moglie di lui con la figlioletta ma non riesce a confessare loro di essere la moglie italiana. Tra le due donne nasce però subito un’intesa profonda: sino a quando lei se ne fugge via lanciando un grido, dopo aver rivisto l’ex marito. Quel grido pare avesse molto colpito Carlo Ponti. Ma nel suo giudizio sarebbe stato più efficace in un finale positivo e corregge il soggetto zavattiniano: il minatore calabrese, quindi, di ritorno dal lavoro riconosce la moglie, lei lancia il suo grido ma tutto si ricompone. In quattro e quattr’otto il soggetto originale veniva rovesciato e svuotato delle sue caratteristiche. Al suo posto sarebbe comunque subentrata una storia di passioni ed emozioni storico-sentimentali: suggestiva e interessante, questo sì, ma diversa nei contenuti, quantunque aperta a una problematica attuale almeno per noi: il destino dei soldati italiani combattenti in territorio russo nel corso della seconda guerra mondiale (fot. 96).

FOT. 96

Primi anni Quaranta. Antonio, un giovane soldato proveniente dal nord Italia (Marcello Mastroianni), si innamora di una bellissima ragazza napoletana, Giovanna (Sophia Loren) e con lei si fidanza anche per avere diritto a una licenza di dieci giorni. Per non separarsi da lei, si finge addirittura pazzo. Ma, scoperto, viene inviato a combattere per punizione sul fronte russo. Ad alcuni anni dalla fine della guerra, Giovanna

attende ancora il ritorno di Antonio, con cui s’era sposata alla vigilia della partenza. Vive adesso nel nord con la madre di lui (Anna Carena). Un reduce (Glauco Onorato) alla stazione di Milano le racconta di averlo visto l’ultima volta riverso in mezzo alla neve, privo di forze e quasi assiderato, durante la ritirata dell’esercito italiano. Ma Giovanna è convinta che Antonio sia ancora vivo, così decide di recarsi in Unione Sovietica per cercarlo lei stessa. Per caso si imbatte in un operaio italiano che è rimasto in Russia (Silvano Tranquilli), il quale non sa o forse non vuole fornirle indicazioni precise. Viene anche aiutata e sostenuta da funzionari ministeriali, tuttavia senza esito. Finché non arriva in un villaggio, dove incontra Masa (Ljudmila Savel’eva), la moglie russa di Antonio, che la invita a casa sua. Tra le due donne nasce un’intima intesa, ma quando Antonio rientra Giovanna non resiste e fugge via senza parlargli. La donna fa ritorno in Italia e inizia una nuova vita con un metalmeccanico, Ettore (Germano Longo), che la ama da anni. Un giorno Antonio giunge in Italia. Vuol spiegare a Giovanna quel che gli è successo, riannodare se possibile il loro legame. Ma è ormai inutile: lei è madre, lui pure ha i suoi figli. Lei comunque lo ama ancora. Ma il loro è un amore travolto dalla guerra. Così lo accompagna alla stazione e assiste in pianto alla sua partenza.

È una vicenda attuale, in un certo senso, quella di I girasoli. Tuttavia trattata in una maniera troppo sentimentale prolungantesi in una sorta di mélo condito melenziosamente dal commento musicale di Henry Mancini e in più appesantita dal frequente impiego dello zoom e da panoramiche impegnate a inquadrare la diva nazional-popolare in campo lungo, in mezzo a giganteschi girasoli gialli (questo almeno per onorare il titolo). Oppure a mostrarla tra la folla sovietica o ancora in un cimitero arrampicato su una collina (e in questo passaggio Rotunno riesce a darci un’inquadratura aerea quasi metafisica, piena del senso della vastità dei territori russi, fot. 97). Fuori campo una voce slava esclama in italiano: «ogni girasole, ogni albero, ogni campo di grano, nasconde i corpi di soldati italiani, russi, tedeschi e anche i corpi di molti contadini russi, vecchi, donne, bambini».

FOT. 97

L’afflato emotivo è insomma sincero, ma viene portato a spengersi nei toni enfatici. Il racconto del resto riesce meglio allorché tratteggia personaggi in sofferenza. La solitudine di Giovanna è ad esempio ben tratteggiata in certe precise immagini, come quella che ce la mostra mentre mangia da sola in un interno rischiarato da un getto di luce lasciato scivolare sul divanetto e dei frutti che stendono ombre sopra il tavolo. La materia in ogni caso stenta a crescere. Non rassodata nei passaggi più lirici (i due matrimoni di lei, il primo tra un nugolo di bambini festanti e il secondo sotto un’acqua fitta; il funerale russo incontrato dal camion che trasporta le masserizie della famiglia di Antonio), e nemmeno espressionisticamente sbalzata a una valevole evidenza da soluzioni formali renitenti alla abituale dimensione del cinema desichiano. Si pensi all’uso strumentale della bandiera rossa elevata all’improvviso in fronte alle truppe italiane in fuga, o a quella corposa sequenza dove in sovrimpressione il drappo vermiglio sventola su scene di soldati che combattono e periscono nell’inferno russo. Il giardino dei Finzi-Contini L’esito non soddisfacente di I girasoli mise in luce i contrasti di De Sica con i due produttoripadroni (Loren-Ponti) ma accentuò anche i dissapori con Zavattini, restio a condividere le ultime

scelte del regista. Era un periodo insomma molto critico e decisamente avaro di soddisfazioni. Per questo la proposta che arrivò di trasferire in un film Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, venne accolta da De Sica in un certo senso come una liberazione, ma anche con la speranza di tornare agli antichi esiti data l’importanza del libro. I diritti d’autore del romanzo bassaniano erano stati acquisiti dalla Documento Film sin dal 1963, l’anno della sua uscita. Il regista allora designato per la trasposizione cinematografica fu Valerio Zurlini, appena reduce dal successo di Cronaca familiare (1962) e particolarmente idoneo a portare sullo schermo tematiche esistenziali e letterarie. Col passare degli anni l’interesse di Zurlini venne però scemando. Quando Il giardino dei Finzi-Contini fu proposto a De Sica, lo sceneggiatore di fiducia della società, Vittorio Bonicelli, riprese il copione precedentemente scritto con Zurlini e lo risistemò lavorando fianco a fianco col romanziere. I materiali passarono successivamente in mano a Ugo Pirro, il quale conferì al testo quel carattere storico-sociale piuttosto che memoriale che trascorre inevitabilmente nel film, provocando le diffidenze di Bassani nei riguardi prima della sceneggiatura e poi del film completato. Lo scrittore sapeva perfettamente cosa fossero una riduzione e un trattamento, avendo collaborato a decine di copioni cinematografici. Stavolta però, forse anche in ragione del rilievo che il suo libro aveva assunto nell’ambito della nuova letteratura italiana, le sue reazioni e il disappunto non vennero celati, anzi al contrario messi in evidenza e esibiti polemicamente. Le ragioni per cui il film non incontrò il suo favore erano da attribuire al fatto che esso tradisse o in parte mutasse lo spirito del romanzo – detto brevemente, i movimenti della memoria e dell’interiorità – ma anche al modo in cui fu trattata la figura del padre, da Bassani particolarmente avversata. Lo scrittore si indusse perciò non solo a ritirare il proprio nome dal gruppo degli sceneggiatori, ma impose (o richiese) che il film allentasse anche visibilmente il legame con il romanzo a cui liberamente si ispirava facendo cadere dal cognome del titolo il trattino di congiunzione. Non più Finzi-Contini ma invece Finzi Contini (non una grande distinzione, lo si deve ammettere, ma qualcosa pur era). Rimane nel titolo del film il richiamo al luogo emblematico, il “giardino”, lo spazio separato di quelle persone e di quella particolare famiglia. L’hortus conclusus in cui la suggestiva misteriosità e luminosità della figura di Micòl (fot. 98, Millicent Marcus in un suo saggio evoca il lemma “radiance”), trovano modo di manifestarsi.

FOT. 98

Un giovane intellettuale ferrarese, Giorgio (Lino Capolicchio) è innamorato di una misteriosa e bellissima ragazza ebrea, Micòl Finzi Contini (Dominique Sanda), che vive con i suoi in una villa circondata da un grande giardino. Anche Giorgio è ebreo, ma suo padre (Romolo Valli) è un commerciante che, simpatizzando col fascismo, minimizza le leggi sulla razza. Pochi sono gli ammessi al giardino dei Finzi Contini per giocare a tennis. Giorgio ovviamente, ma anche Bruno Malnate (Fabio Testi) un ragazzo di idee socialiste amico di Alberto (Helmut Berger), il fratello di Micòl. Quando Giorgio scopre che Bruno è diventato amante di Micòl, preferisce tenersi in disparte e allontanarsi. Intanto la situazione precipita tragicamente. C’è la guerra e con essa la persecuzione degli ebrei. Giorgio sfugge per puro caso a una retata; non così la sua famiglia e quella dei Finzi Contini. Prima di essere deportati nei campi di sterminio, Micòl e il padre di Giorgio si abbracciano

con la gioia di sapere che almeno il ragazzo si è salvato.

Il tono della rimembranza interiore uniforma sin dalle prime battute la costruzione musicale di Manuel De Sica, allora decisamente giovane ma già artisticamente sensibile e maturo. Sopra le immagini descriventi il giardino, sulle quali scorrono i titoli di testa, si espandono suoni evocativi modulati da un pianoforte, che poi si sciolgono, con l’avvio vero e proprio della vicenda, in un tema arioso confidato agli archi. La camera di Ennio Guarnieri si sbizzarrisce liricamente in svolazzanti movimenti e rovesciamenti verso l’alto, con le riprese dal basso in su dei grandi tronchi secolari del parco (fot. 99).

FOT. 99

Il luogo elettivo della storia indicato nel titolo brilla nei rossi fulvi delle foglie, svarianti dalle tonalità più scure sino ai viraggi sui contorni chiari e sui gialli radiosi. Se l’adozione dello zoom tende da subito all’eccesso, la scelta del flou insistito, che è uno dei tratti distintivi delle riprese di Guarnieri, qui aderisce a un’alonatura memoriale e proustiana che il cinema poteva accogliere con pieno agio. De Sica asseconda tutte queste suggestioni. Il primo cimento della messinscena – il primo ostacolo – era far vedere il luogo indicato nel titolo. Quel giardino e quel muro che lo circonda e cinge e che lo separa dal resto del mondo, in un’aristocratica distinzione. Siamo nella Ferrara anteguerra, a ridosso dell’emanazione delle leggi razziali (la data 1938-1943 segnala un quinquennio che sfocia dritto nella guerra). Nonostante ciò le atmosfere restano delicate: incise ad esempio nel pallore esangue e nella malata fiacchezza di Alberto, ma anche nella perlata ombrosità di Micòl. In breve in quella distanza che il luogo identifica con la sua elettezza, l’approccio a un simile universo viene condotto dall’esterno, vuoi perché De Sica non possiede per cultura la semantica dell’ebraismo, vuoi per la scelta di una struttura narrativa forgiata a discernere altre e ulteriori dimensioni. De Sica si affida al personaggio di Giorgio che – come sarebbe accaduto a Primo Levi – si scopre ebreo per effetto delle leggi fasciste sulla razza per snidare e penetrare il fascino di quell’universo ovattato e quasi lontano, ma anche le sue ambiguità. Un dentro che però presuppone il fuori. Nel contrappunto emerge il quadro sociale dell’esterno, con le sue regole classiste, le discriminazioni, la violenza squadrista. Uno strillone annuncia a gran voce la riunione del Gran Consiglio del Fascismo. Il richiamo va alle terribili leggi razziali. Ma quella data apposta in limine, 1938-43, riporta alla mente l’altra seduta del Gran Consiglio che condurrà alla caduta del fascismo accelerando la tragedia degli ebrei. Insomma, se la partenza del film costruisce atmosfere in una qualche misura aderenti al libro di Bassani, i suoi sviluppi cercano una più larga gravitazione. Suddiviso complessivamente in due grossi quadri sequenziali, il racconto di immagini s’accosta alle esperienze private dei personaggi ma si allarga alle vicende politiche e storiche che con quelle hanno continuità. Di qui forse discende la perdita di circolarità (che Giorgio Bassani aveva ricavato da Proust), con l’acquisto invece di una spiccata linearità. Il personaggio centrale, il personaggio-cerniera, è quello di Giorgio, lo scrittore che oscilla tra le

pressioni anche sentimentali che Micòl e il suo mondo esercitano su lui, e una presenza alle cose e alla realtà che lo sottraggono all’astrattezza. Al padre che lo esorta a uscire dall’isolamento in cui sembra volersi recludere, Giorgio risponde che non sta con la testa tra le nuvole al modo dei giovani intellettuali. Non cammina o agisce in un puro vuoto. Infatti, giacché ebreo, è stato già espulso dal circolo del tennis. La scena del suo allontanamento dalla biblioteca pubblica è del resto uno dei passaggi di riferimento del film (che accenna solo verbalmente all’esclusione dalle scuole). La costruzione delle immagini si accompagna sempre a un serrato confronto di pensieri come nel colloquio tra Giorgio e il direttore della biblioteca, il quale deve applicare le regole scritte dal potere, cioè dai fascisti. Tale schema s’impenna nel dialogo con il padre (fot. 100).

FOT. 100

Dice questi con convinzione: «Eh, sì, ho capito. Però, devi ammetterlo. Non è che le cose qui da noi vadano poi tanto male. D’accordo: niente matrimoni misti, ma questo d’altronde non è che… Niente nomi sul libro del telefono. Niente scuole: e questo sì, questo – lo ammetto – è grave. Niente servizio militare, e anche questo è grave se permetti. Niente annunci funebri sul giornale. E adesso niente donna di servizio. Ma, per il resto, devi riconoscerlo, uno può vivere, circolare, possedere. Essere insomma un cittadino». Con la sua voce suadente Romolo Valli dà corpo alle contraddizioni dell’ebraismo borghese, nazionalista per vocazione e conservatore. Gli risponde amaro il figlio: «Di serie c». «Di serie c, se vuoi, ma sempre un cittadino, che può godere dei diritti fondamentali». «Quali? Ce ne sono sempre stati pochi, di diritti, e pochi per tutti. Quello che si può dire è che siamo stati i primi a essere perseguitati, ecco: questo sì. Ma siamo stati zitti quando non toccava a noi». Sbalzato in avanti nel primo piano, il giovane compare frontalmente in un’inquadratura che coniuga la compattezza delle gamme cromatiche con matasse di luce. Nei piani alternati del colloquio col padre, ha alle proprie spalle una finestra da dove arriva lucentezza. La modalità del racconto desichiano ricerca la forma strutturata e precisa. Perciò, ripreso obliquamente, il padre ha invece dietro sé un ambiente compatto e scuro, senza modulazioni. La scelta di De Sica è stringere l’attenzione su profili a grumo di realtà. La sentenziosità del padre ostentata in clausole apparentemente ragionevoli, si arresta di fronte alla repulsa morale del giovane,

cui Lino Capolicchio offre immagine di riserbo e rigore, di sdegno morale e sofferenza. Nello spazio della illusorietà borghese si consuma la colpa dei personaggi adulti: grado a grado inconsapevoli di ciò che accade attorno a loro, solo redenti dal destino che li attende. Così, diversamente che nel romanzo, il padre di Giorgio verrà catturato dai fascisti e per questo riscattato dalle sue responsabilità. L’incontro nel finale con Micòl Finzi Contini, nell’aula di una scuola dove sono reclusi, avviene in termini quasi romanzati. Per di più i due s’abbracciano e si consolano ricordando che Giorgio è salvo (quasi che a questo personaggio forse perché scrittore fosse decretato il compito della memoria). Il monologo che sta al centro della scrittura bassaniana cede insomma il posto a campiture che scintillano sul riverbero del dramma della deportazione. La scena nella quale si mostrano i fascisti repubblichini in atto di arrestare i Finzi Contini ha qualcosa di teatralmente tragico, di esibito. Calcolatamente cesellate, quelle immagini tengono come mastici i sentimenti della pietà e della commozione. Misteriosa e lontana sino a quel momento, la lunare Micòl (una bellissima Sanda) si trasforma in una sorta di madre consolatrice, che ricorda in qualche modo l’explicit di La Ciociara. Solo che stavolta è la giovane a tenere stretta tra le braccia l’anziana nonna (fot. 101). Torna insomma la poesia degli affetti familiari, che insieme al collante storico consentono la decrittazione dell’universo separato di quegli ebrei.

FOT. 101

Poco per volta la vicenda carpita al libro di Bassani si volge dentro il film in misura e sguardo storici. Il chiaroscuro memoriale non ha più ragioni per vibrare in questa seconda parte del film. Rimane alle spalle il senso di possesso delle cose realizzato col ricordo (che è ciò che caratterizza la ragazza e ovviamente anche il giovane scrittore, quello che li avvicina). Il finale non allude all’incomprensione dei destini umani, ma bensì all’oscurità dei tempi del terrore, tanto più lancinanti quanto li si riveda da lontano col bagaglio della consapevolezza. Forse su quel mutamento della figura del padre, e sul riscatto che il racconto gli concede affidandolo manzonianamente al novero delle vittime, discende l’eco di una riflessione generazionale da parte di chi, come De Sica, aveva attraversato quegli anni terribili senza capire e a volte senza contrastare il male (un assillo che fu anche di Zavattini). Questo sentimento amaro e complesso, il regista lo lumeggia sul risvolto della sensibilità bassaniana. Nel plot della memoria, procedendo per intervalli emotivi e sensibili, egli ritrova una propria visione del dolore (quello corporale di Alberto, quello più tremendo recato ai deboli e alle vittime) ma anche una sua idea di bellezza (espressa in questa famiglia raffigurata nel momento dell’ultima felicità all’interno delle loro stanze e del loro giardino). E ritrova le radici della nostra storia: onde un’idea di civiltà coniugata con l’antifascismo, che apparve a lui in quegli anni Settanta un modo per non perdere il contatto col presente. Il film ottenne un ragguardevole successo soprattutto di pubblico anche per i suoi postulati umanistici. Presentato nel 1971 al Festival di Berlino, vi guadagnò l’Orso d’oro. Poi nel 1972 avrebbe conquistato l’Oscar per il miglior film straniero (il quarto della carriera di De Sica). Tra gli altri riconoscimenti è da ricordare la nomination di Manuel De Sica quale autore della colonna sonora a quella medesima edizione degli Oscar.

Una tale ripresa d’attenzione per temi di maggiore respiro storico appare del resto certificata anche dai due lavori approntati per la televisione italiana nel 1971, molto puntuali ma esenti da piglio autoriale. La prima regia riguarda un programma allestito nell’occasione del venticinquesimo anniversario della Repubblica: De Sica ne diresse il secondo episodio, “Dal referendum alla Costituzione ovvero il 2 giugno”, mandato in onda nel giugno 1971. Due mesi dopo, per la precisione nella serata del 31 agosto, il secondo canale televisivo trasmetteva I cavalieri di Malta, realizzato con Ennio Guarnieri alla fotografia. Il percorso estremo Un leone e i “nuovi mostri” del divismo Finanziato dallo stesso produttore di Il giardino dei Finzi Contini, Gianni Hecht Lucari, “Il leone” compare in un film (Le coppie, 1971) che non ne prevedeva all’inizio la presenza e il cui nucleo per così dire binario si scandiva negli episodi diretti da Monicelli (“Il frigorifero” con Monica Vitti) e da Alberto Sordi (“La camera”). Episodi lunghi in sé, ma che si immaginò non potessero coprire la durata di un normale lungometraggio. Nello sketch desichiano i due mattatori del film – Vitti e Sordi – compaiono insieme: nel ruolo di una napoletana triviale lei e di un indossatore con cappotto di cammello e cappello a falde nere lui. Antonio (Alberto Sordi) e Giulia (Monica Vitti) si incontrano come di consueto nella villetta del principale dell’uomo. Hanno tra loro una relazione amorosa e ostentano mille carinerie al momento di lasciarsi. Senonché un giorno davanti alla porta della casa trovano un leone fuggito avventurosamente da un circo. La situazione precipita: non potendo uscire dalla villa, i due si accusano a vicenda e si insultano ferocemente. L’animale verrà però presto abbattuto. I due amanti tornano così a corteggiarsi e a farsi i soliti falsi complimenti. Solo il padrone del leone ne piangerà la perdita.

Il soggetto di “Il leone” era tra quelli che stavano più a cuore a Zavattini. La vicenda dei due amanti che non riescono a uscire dalla villa dove convengono per i loro incontri, è di quelle che accendono la fantasia in investimenti surreali. Vestito sotto questa forma – e se fosse stato realizzato con uno stile conseguente – ne sarebbe uscito uno sketch graffiante e solido. Ma l’intuizione centrale del testo si trova a fare i conti con i contingenti bassi del linguaggio dei film a episodi, epigoni della commedia all’italiana. Il risultato è l’assenza di inventiva – nel senso di un evento che ci si presenti in una sua determinazione e astanza, strano però reale – o un’inventiva non attraversata dalla crudeltà dei corrispettivi esemplari surrealisti e nemmeno dalla innocenza zavattiniana. Diciamo che la potenzialità degli spunti presenti nella sceneggiatura eccede i margini della poetica desichiana del tempo. Il luogo dell’azione è il villino dove i due sono soliti incontrarsi. Qui in un primo tempo gli amanti si sdilinquiscono in convenevoli sentimentali, presto fugati dalla scoperta del leone che blocca l’uscita. Così il formalismo galateale trapassa in villania e aggressività. La frattura dell’andamento normale della realtà fa precipitare la situazione (che subito però si ricompone dato che il leone scompare). Uno sketch spietato e illuminante, questo ideato da Zavattini: rovinato dai due interpreti, pesi massimi della commediaccia all’italiana che giocano a rubarsi i primi piani del tutto dimentichi di lavorare con uno dei maestri della storia del cinema. Ne sarebbe potuto uscire un breve film di impianto buñueliano – il pensiero può correre facilmente a L’Angelo sterminatore (1962) – con la crudeltà metafisica ingentilita nell’umorismo e nella satira. Lo chiameremo Andrea La tentazione surrealista torna con Lo chiameremo Andrea, ancorché l’inventiva zavattiniana giochi su una performatività del discorso fantastico spinta sulla scala della favola ecologica e dell’universo infantile. Forse nel testo di Zavattini – incredibilmente corretto e rimaneggiato dai due sceneggiatori

assunti a rincalzo dal produttore (Leo Benvenuti e Piero De Bernardi) – il tema della difficoltà ad avere figli insorge in relazione all’ambiente dove essi vivono e lavorano: una scuola isolata in un paesaggio di campagna invasa dall’inquinamento. In questo senso la favola d’amore è un racconto ecologico e morale. Commentato appunto – come accade con l’ingegnosissima e inventiva partitura di Manuel De Sica – da un coro di bambini che entra nel flusso normale delle sequenze: «Come sono belli i mandorli in fiore/ c’è la speranza di un mondo migliore» (ed è il solo caso di film il cui commento musicale sia del tutto affidato a voci infantili). Ciò nonostante, se cambia la direzione del vento una bordata di polvere si rovescia sui banchi e sulle lavagne, scivolando giù nei polmoni canterini dei fanciulli. Paolo (Nino Manfredi) e Maria Antonazzi (Mariangela Melato) sono due maestri elementari, che insegnano in una bella scuola ubicata però nei pressi di un cementificio. Il loro cruccio è di non aver bambini: fanno particolari visite mediche in Svizzera, cercano di cogliere il “momento giusto” per la procreazione, insomma si arrabattano in tutti i modi. Un’indovina predice loro che potranno sbloccarsi in una notte di luna piena. E in una strana notte, appunto, Maria e Antonio si ritrovano distesi in un prato. All’improvviso un raggio lunare li illumina. Chissà…

Una traccia della levità fantastica zavattiniana è l’ironia che inappellabilmente si attrezza a far conoscere la realtà. L’altezza sproporzionata e deforme del direttore della scuola allude in qualche modo a una stortura del personaggio e a una sua stupidità istituzionale. Siamo nel 1971, dunque ogni idea di rinnovamento può essere sovversiva agli occhi dei burocrati. «Sua moglie – grida il lanternuto dirigente – ha una mentalità extraparlamentare» (fot. 102). Il marito di lei ne spiega il comportamento con quella storia del bambino che non nasce. E il direttore, grottescamente: «Se si tratta delle ovaie! Certo, di fronte alle ovaie bisogna essere comprensivi».

FOT. 102

La satira investe anche la pubblicità come altrettanto le istituzioni. Zavattini in questo senso è profetico. Ma il suo testo pretende a una stilizzazione che gli potrebbe conferire un tono volante ed epigrammatico: quel senso di innocenza e meraviglia sparsi nel testo originale. Nella restituzione offerta sullo schermo ogni spunto fa però i conti con le leggi dello spettacolo. Si trasforma in commedia nella quale un grottesco pedestre preme il pedale sull’acceleratore (ecco le figure dei due svizzeri: il primo che traduce lubrico e insinuante; l’altro, il medico, schematico e superficiale). Ancora in questo caso i due distinti mondi di De Sica e Zavattini non s’amalgamano a dovere. Perciò da un lato corre e sfuma nel contesto del film una tersità intrepida e quintessenziale, per altro verso il tono poetico-ironico si affisa sopra il materiale aneddotico che via via affluisce privilegiando un garbo e una misura cordiali. È un periodo in cui Zavattini è preso dal mondo dei ragazzini e dalla sperimentazione nelle scuole, mentre De Sica si direbbe tormentato da problemi più intimi. Ma l’altalenante resa si specifica anche attraverso la recitazione: connotata da stupori stralunanti in Mariangela Melato, che aveva evidentemente percepito il carattere del testo, e invece con il cuore in mano e la battuta ammiccante in Nino Manfredi. Entrambi infine copie conformi delle difformità agenti nel film. Ma anche responsabili, soprattutto Manfredi, per l’eccesso divistico di certe sue

posizioni (all’origine De Sica aveva pensato a Luisa De Santis e Paolo Villaggio, non ancora sugli scudi del successo). Certo, quel che si ha sotto gli occhi e che si deve giudicare è il prodotto confezionato e licenziato. Ma certi esiti sono il risultato preciso di obblighi e coartazioni, di pressioni e manipolazioni in atto già dal dopoguerra. Una storia del nostro cinema non girato – perché non finanziato, impedito, censurato e sforbiciato – è ancora da fare. Nel caso di De Sica, essa racconterebbe le vicende incredibili della ricerca di denaro per Ladri di biciclette e Umberto D.; evidenziando la povertà culturale dei governanti e la meschinità dei produttori (Ponti e De Laurentiis che tagliano “Funeralino”, la Magnani costretta a chiamarsi fuori dal progetto di La Ciociara giacché il padroneproduttore voleva imporre la sua non tenera consorte nella parte della figlioletta tredicenne). Lo scandalo di Lo chiameremo Andrea è in primo luogo il massacro della sceneggiatura di Zavattini, una poetica favola ecologica nel quadro di un’Italia che sembrava mutare. Tanto rimaneggiata e alterata dal duo Benvenuti-De Bernardi con lo zampino qua e là persino di Iaja Fiastri, da rendere da allora evidente che l’Italia non stava per nulla mutando; abbruttita e cancellata nella sua natura lirica e conoscitiva, le cui sole tracce restano certi spunti e alcune soluzioni stilistiche. Come avviene nella scoppiettante musica di Manuel De Sica, che riprende in canzoni intonate da voci infantili i capoversi del copione zavattiniano e i piccoli mottetti che accompagnano la vicenda. In sede di riprese, un Manfredi abituato a spadroneggiare si abbandonava persino a rifare le scene già girate da De Sica, adattandole alla misura non trascendentale del suo personaggio. De Sica licenzia la “sua” copia definitiva del film, ma quella che noi oggi abbiamo è la copia infiltrata delle pesanti manomissioni compiute dall’attore-divo in sede di montaggio e missaggio. La favola surrealista di Zavattini, disseminata di invenzioni straordinarie come quella di una madre che fa fare le acrobazie a un suo bimbetto piccino (nella sceneggiatura originale di Zavattini si trattava di un neonato) e che in tale veste si produce di fronte ai due insegnanti, sfuma in normale gag comica, prova patente non già della decadenza di un maestro come De Sica ma delle inaudite prevaricazioni del sistema. Con questo il film non manca di un proprio garbo e una specifica misura di racconto. Per quanti sforzi facessero insieme Marina Cicogna (produttrice del film), Manfredi, Benvenuti e De Bernardi, non diventa una commediaccia all’italiana. Nel finale, Paolo e Maria si ritrovano in un campo all’aperto, proprio come aveva vaticinato l’indovina. «Chi se la prende la responsabilità di mettere al mondo dei figli oggi? Un mondo dove nel mare non ci sono più pesci, in aria non ci sono più uccelli, in terra non c’è neanche più posto per respirare». Poi come d’incanto il disco della luna prende a scorrere dietro le nubi. Il chiarore illumina la coppia riversa sul prato e, in un totale, i giochi della luce intessono magiche iridescenze (fot. 103). All’improvviso un treno sbuffante e scoppiettante passa come in Miracolo a Milano sul rialzo della gettata di terra scandendo circolarmente lo spazio. Forse Andrea è già lì in procinto di essere concepito, in quella notte, in quel buio. Per un attimo la poesia patetica e surreale di De Sica e Zavattini torna a dare qualche colpetto timido.

FOT. 103

Una breve vacanza Dopo aver cesellato il suo ruolo in Il Delitto Matteotti (Florestano Vancini, 1973), senz’ombra di dubbio il più significativo della sua carriera di attore dopo la svolta del 1968, Vittorio De Sica arriva sul set di Una breve vacanza. Il desiderio ancora di cimentarsi nel lavoro procede al passo con la comprovata professionalità. In più c’è lo scatto d’orgoglio per i riconoscimenti andati a Il giardino dei Finzi Contini e per essere stato scelto per una parte di impatto ideale da un regista come Vancini. Ed è giusto Florestano Vancini che espresse ammirazione e meraviglia per la forza interiore di De Sica: «Due giorni dopo aver finito le sue pose per Il delitto Matteotti, attaccò le riprese del suo film; per me un tour de force del genere – continua Vancini – sarebbe semplicemente inconcepibile; mi ci vorrebbero almeno due mesi di tempo a entrare nel clima del nuovo film, specie di un film come quello, che tratta della condizione operaia, della migrazione interna, delle condizioni della donna». Tutti temi che, attorno agli anni Settanta, erano caratterizzati da molta partecipazione politica ma anche da polemiche feroci e impietose, tali da far tremare vene e polsi a chiunque. Figurarsi a un De Sica liquidato impietosamente dalla critica engagée (cioè al passo con le ultime parole d’ordine), che si potrebbe riassumere negli attacchi portati al neorealismo dal convegno pesarese che accompagnava la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema del 1968. Clara Martaro (Florinda Bolkan) è un’operaia calabrese emigrata a Milano. Lavora in fabbrica ma ha anche l’incombenza della casa sulle sue spalle. L’oppressione familiare, con un marito violento e incomprensivo, anche lui operaio (Renato Salvatori), e le condizioni del lavoro nella fabbrica le causano la tubercolosi. Viene perciò ricoverata in una clinica in montagna, dove rinasce poco per volta alla vita nel rapporto con le sue compagne di malattia, molte delle quali facoltose. Una di loro, una certa Scanziani (Adriana Asti), morirà nella disperazione. In clinica Clara ritrova persino un giovane meccanico anche lui malato, Luigi (Daniel Quenaud), che la corteggia discretamente. Quando i familiari le chiedono di rientrare a casa per riprendere a lavorare, deve abbandonare il sanatorio e fare ritorno a Milano.

I titoli di testa scorrono sul primo piano di una Florinda Bolkan ancora immersa nel sonno. I riflessi della memoria mettono in campo altri risvegli cinematografici: da Quattro passi tra le nuvole (Alessandro Blasetti, 1942) alla servetta di Umberto D. L’appoggiatura tematica viene però usata per altri fini: dare una lustra di verità alla quotidianità proletaria di una calabrese emigrata nel nord

Italia. L’azione è infatti subito nervosa: lei si alza dal letto, va al bagno, parla a voce alta. Fa freddo, l’acqua del rubinetto non funziona: meglio far la puttana – dice – piuttosto che continuare una vita del genere. Dall’esterno arriva un suono stridulo e prolungato. Al centro dell’inquadratura pende il bagliore accecante e espanso di una lampadina nuda. Alla suocera che le domanda indicazioni su cosa dar da mangiare a marito e figli, replica irritata: «Tutto ’a mmia m’avite a domandare». Quando esce di casa, lo spettro azzurro-ghiaccio della prima mattina la chiude in una fascia gelida. Lei pedala sulla sua bici, raggiunge la stazione (fot. 104). Prende il treno per andare in fabbrica, lì lavora sino a quando si sente male. I movimenti rapidi della cinepresa che la seguiva al momento del risveglio si acuiscono nel ritmo convulso del lavoro meccanico in fabbrica, che avrà il sopravvento su di lei.

FOT. 104

Tale l’antefatto di Una breve vacanza: un blocco di sequenze suddivise tra la parte del risveglio e quella invece del trasbordo in treno e dall’arrivo allo stabilimento, e infine del lavoro. Vero e proprio campionario visivo di cui s’impasta la successiva materia del film, ma a suo modo l’accestire e il crescere di una tensione entro cui si avvita concretamente la condizione operaia all’inizio degli anni Settanta. Una fenomenologia e il sentimento di una situazione dati con le forme stilistiche del docudramma e di un crescendo in climax. Nel suo carattere e persino nei suoi limiti, tutto questo squarcio di film presenta qualcosa di esemplare. Poche volte la vita operaia e l’alienazione del lavoro in fabbrica, con il carico delle fatiche e delle umiliazioni, sono state mostrate al cinema con un’eguale intensità. Meglio che nei film femministi, la condizione della donna proletaria e meridionale si specifica allo spettatore nelle immagini di una famiglia tradizionale e chiusa, dominata come avveniva allora da un autoritario primato dell’uomo. Eppure questo non impedì al film di incorrere nella contestazione di spettatori e critici iperideologizzati in una Mostra veneziana tutta ferro e fuoco, dove si contava chi era nemico e chi stava con la rivoluzione (viceversa a un festival più “impegnato” e anche “operaio” per statuto, quello cecoslovacco di Karlovy Vary, Una breve vacanza avrebbe ottenuto un premio nel corso dell’edizione del 1974). Più che risvegliare il neorealismo, come scrisse Tom Milne (cfr. il «Monthly Film Bulletin» del maggio 1975), De Sica recupera la sua vista sottile verso le persone dal cuore semplice. Il materiale che Zavattini gli serve pone a corredo del racconto il paradosso della malattia e della tregua dal lavoro, quale condizione per i poveri di ritrovare se stessi. Impotenti dinnanzi agli arbitri del potere (come in Miracolo a Milano) e alle crudezze della vita, per sopravvivere debbono uscire al di fuori della legge (tale la regola di Ladri di biciclette o di Il tetto, e ancor prima di Sciuscià). Oppure, come in Miracolo a Milano e in questa Breve vacanza, accettano la sospensione del corso normale della realtà. L’oppressione in questo film si chiama fabbrica e sfruttamento, ma si chiama anche brutalità maritale, tanto più forte se a esercitarla è un proletario meridionale chiuso nei pregiudizi e nel proprio egoismo (ruolo nel quale Renato Salvatori traduce senza romanticismi lo stesso carattere negativo gestito per Visconti in Rocco e i suoi fratelli). Ma le mitologie proletarie del tempo non

potevano accettare una simile verità (e la critica femminista al maschilismo operaio era ancora di là da venire). Traslucente di semplici evidenze, Una breve vacanza trascrive dalla vita comune un quotidiano considerato ancora impertinente, qualcosa che precede il livello della vita operaia giunta alla coscienza di classe o filtrata in un quadro narrativo, dove le ragioni di classe vengono portate in primo piano. Si tratta di un’ottica che, in questi termini, non appartiene a De Sica e nemmeno allo Zavattini che racconta il reale. Attraverso il paradosso zavattiniano e soneghiano della “vacanza in sanatorio” in quanto interruzione di un flusso di vita insostenibile provocato dalla malattia, De Sica racconta in fondo il dolore delle persone. Non solo della calabrese proletaria che sta al centro del film, ma anche delle signore borghesi colpite dalla tisi e destinate a spegnersi (in ciò ereditando certi spunti di Amanti). In questo senso il ritratto che Adriana Asti dà del suo personaggio, istrionamente eccessivo e sopra le righe, gingillato sul birignao vocale, pieno di tic e di manie, monta grazie alla direzione di De Sica in una sua vertigine e in un suo fraseggio straziato e spontaneo dentro cui risuona ben percepibile l’eco della disperazione (fot. 105, 106). L’attrice, in quegli anni al massimo della sua carriera, lo gestisce al meglio, tanto da ottenere il Nastro d’argento per l’attrice non protagonista.

FOT. 105

FOT. 106

Di fatto la differenziata tonalità del film – quella nervosa della fabbrica e della casa, quella più sfumata e anche sentimentale del sanatorio – si unifica in una fenomenologia del dolore calato in una figura inabituata a esprimerlo, per cultura – quella della donna remissiva – e per violenza – quella dei padroni e del marito. Il volto fisso e statico della Bolkan, trascorso da piccoli moti, da trasalimenti che lei cerca di reprimere, è in fondo una forma plasticamente abbagliante di questo male normale, quotidiano. Il fatto che non ne venga fuori una grande e persino indimenticabile figura è meno dovuto ai limiti dell’attrice, i quali pure esistono, e invece assai più ai condizionamenti della produttrice Marina Cicogna, che voleva un film sentimentale e comunque divistico (non impedendosi di entrare sovente in conflitto con lo stesso Zavattini). Per quel ruolo, Vittorio De Sica avrebbe voluto Silvana Mangano che era, insieme con la Magnani, il modello dell’attrice che egli prediligeva. Ma ogni genitura filmica è dovuta anche ai produttori.

Onde l’imposizione della Bolkan, che in quella definizione del personaggio elabora una recitazione ridotta al minimo e felpata, comunque efficace. In un saggio pubblicato pochissimo tempo dopo la scomparsa di De Sica, Colin Westerbeck (in Howard Curle and Stephen Snyder, Vittorio De Sica, Contemporary Perspectives, University of Toronto Press, Toronto, 2000) avanza un parallelo tra La montagna incantata di Thomas Mann e Una breve vacanza. In entrambe le opere il sanatorio è rappresentato come un luogo perfetto, quasi magico (al sanatorio Clara riprende a vivere riacquistando la sua bellezza di donna e oggettivamente superando la malattia). La clinica di Sandalo, su tra le nevi, lontana dalla bruttezza della città industriale e dalla doppia schiavitù della fabbrica e della famiglia, è il luogo in cui lei prende coscienza sia della realtà, sia della sostanziale inappartenenza a essa. La costruzione parallela di un’altra realtà suggerisce il contrasto, ma anche l’impossibilità di risolverlo con la decisione di restare in clinica: inimmaginabile per ogni tipo di malato, tanto più per lei sollecitata dai congiunti a tornare al lavoro e a casa. Tale impossibilità rivela che Clara è, se non meno, altrettanto alienata in sanatorio di quanto non lo fosse nella vita all’esterno. Questo in qualche modo la avvicina ai grandi personaggi del neorealismo desichiano – il malinconico genitore di Pricò, l’operaio Ricci, il pensionato Umberto D. – ma anche a certe rassegnate figure letterarie. Nel suo ingrigito silenzio c’è in lei qualcosa della serva Félicité del primo dei Tre racconti flaubertiani (un progetto zavattiniano di quegli anni). De Sica ne elabora l’unità con le altre figure precedenti su una sequenza di accordi relativi proprio all’insolubilità di quella sua condizione. La scena finale la mostra nel treno di ritorno: che farà una volta rientrata a casa? La differenza più marcata rispetto al passato è che stavolta agisce una critica di quella cultura patriarcale e maschile, che invece era ancora dominante nei film neorealisti (non forse nei film giovanili di De Sica e in quelli della fase avviata con La Ciociara). In questo senso – hanno ragione Howard Curle e Stephen Snyder che in De Sica, Contemporary Perspectives (cit.) ospitano e chiosano il saggio di Westerbeck – Una breve vacanza segna la fuoriuscita del grande regista ma anche di Zavattini da ogni possibile prospettiva patriarcale. Il viaggio Il congedo di De Sica dal cinema è segnato da Il viaggio, un piccolo e tuttavia prezioso film reso ricco dalla sensibilità del regista per le figure in chiaroscuro ma viziato dalla destinazione internazionale (con due star, Sophia Loren e Richard Burton, la prima inadatta al ruolo, benché premiata al Festival di San Sebastian, il secondo imbolsito e legnoso; con anche una parte sentimentale dilatata oltre misura). Ispirato liberamente a un bellissimo racconto di Luigi Pirandello (uscito nel 1910, indi inserito nella raccolta eponima), il film recupera quel mondo ottocentesco cui per formazione il regista appariva legato, tanto che dopo Il viaggio pensava di metter mano a Le novelle della Pescara di Gabriele D’Annunzio. In un simile universo non appare del tutto essenziale la ricomposizione visiva, ancorché le scene di Scaccianoce e i costumi di Marcel Escoffier offrano un copioso materiale da cui spillare l’evidenza dei tempi e dei luoghi. E nemmeno il ritrovamento di una certa sicilianità, pretesa dai finanziatori (il tema musicale del viaggio è ad esempio decalcato su un tema popolare siciliano per precisa volontà dei produttori Carlo Ponti e Turi Vasile). All’opposto ha peso un senso intimo e riposto della realtà: quelle ombreggiature esistenziali che qui si riflettono in una figura rassegnata e nel suo modo doloroso, segnata dalle paure e dalle sofferenze di una condizione femminile defilata nel film ma centrale in Pirandello. Insieme all’operaia di Una breve vacanza e alla “servante” del lungamente inseguito e però mai realizzato (per l’ignavia dei produttori) film tratto da Un cuore semplice di Gustave Flaubert, la signora borghese di Il viaggio va a comporre un’ideale quadreria di figure di donne ripiegate in loro stesse, le quali scoprono la vita – e l’amore – nella lontananza dalla condizione normale. Il

“sanatorio” di Sandalo, in Una breve vacanza, ha un possibile corrispettivo nel “viaggio” al centro del film successivo anch’esso occasionato da una malattia che condurrà inesorabilmente alla morte. Un destino legato alla figura di una donna abbattuta in una vita nascosta (fot. 107), immersa nella rinuncia e nel dovere (e in questo senso rispetto a Pirandello la traccia narrativa del film fissa sin dall’inizio la posizione simmetrica di Adriana e del cognato: non a caso esso ha inizio con l’episodio della lettera del padre di lui che, nel lascito testamentario, pone la condizione che la ragazza sposi il figlio minore e non invece l’uomo di cui lei è innamorata e che la ama, cioè il figlio maggiore).

FOT. 107

Sicilia, inizio Novecento. Cesare Braggi (Richard Burton) va a consegnare in casa De Mauro la richiesta che Adriana (Sophia Loren), figlia unica di una famiglia borghese, sposi il suo fratello più giovane, Antonio (Ian Bannen). Adriana è da sempre innamorata di Cesare, ma viene forzata dalla madre (Barbara Pilavin) preoccupata per il loro futuro. Acconsente così a quel matrimonio. L’unione con Antonio risulta in apparenza serena. Cesare è sempre in viaggio e, quando torna a casa, racconta al fratello le sue molteplici avventure. Adriana ha un figlioletto adorato dallo zio e appare sempre più assorbita dal suo ruolo di madre. Quando Antonio scompare in un incidente d’auto, lei si chiude a tutta prima in un rigoroso lutto vedovile. Poi però in lei e in Cesare rinasce la speranza di una vera felicità amorosa. La gioia è tuttavia breve: Adriana ha frequenti disturbi. Cesare la conduce a Palermo da un cardiologo, ma il responso è per lei drammatico. Così lei gli chiede di continuare il viaggio e di non tornare a casa. Vanno a Napoli, dove assistono a un recital di Armando Gill (Sergio Bruni). Indi proseguono per Venezia, dimentichi di tutto il resto, anche dello scandalo che attorno a loro si va sollevando. Adriana morirà in una stanza d’albergo della città lagunare.

L’Ottocento di De Sica – se di questo si tratta – è quello di una letteratura che ricerca inutilmente la felicità: di una vita annegata sotto le convenzioni e destinata a sfociare nel sacrificio e nella morte dei personaggi più deboli. È una linea sui cui avanzamenti culturali non si ha difficoltà a ritrovare poi Pricò, Umberto D. o Clara Martaro, l’operaia meridionale di Una breve vacanza. Ma in cui si colloca perfettamente la figura di Il viaggio, che scrostata del divismo della Loren sarebbe stata perfettamente vicina al modello pirandelliano della creatura che ingiallisce e declina nel corpo, sino a morirne. Un sacrificio il cui carattere e il cui senso possiedono un fondamento sociale e storico che la nostra cultura – non ottocentesca, ma moderna perché quell’Ottocento, anche quello di De Sica, appartiene alla modernità – ha saputo mostrare. E che nel film è come circumnavigato dal passaggio in scena della figura di Giacomo Puccini, grande cantore di donne cui non soccorre un alito di vita che le scampi dalla fine. De Sica non sceglie il pirandellismo, cioè l’inscenamento intellettuale dell’opera dello scrittore siciliano. Quel che da lui profila è invece il lato malinconico, umbratile, ciò che ristagna nell’animo e nelle camere silenti della casa prima che la materia acceleri in un suo turbine. Intorno ad Adriana e alla sua esistenza appartata esplodono tuttavia gli eventi del tempo: la Calabria e la Sicilia devastate dal terremoto; il conflitto libico; l’attentato di Sarajevo con la dichiarazione di guerra da parte dell’Austria alla Serbia. Ma Adriana sembra vivere nel respiro stretto della sua difficile condizione, in stanze intarsiate d’ori e di cristalli cui rimane estranea e che però le fanno da sfondo psicologico. Talché la scena del

colloquio per convincerla a lasciare la sua “cittaduzza” per farsi visitare a Palermo, avviene in un salotto tappezzato di rosso. La diffrazione tra la sontuosità del luogo e l’intimità della sua natura può evocare sicuramente Pirandello. Negli ori e negli specchi si riflette un’immagine diversa da quella interiore, più vera e più sfuggente. Assumendone il significato, il personaggio di Cesare dice a un certo punto che di fronte agli specchi si ha da proclamare sempre gioia e felicità. Ma il sarcasmo doloroso legato anche alla sua particolare vicenda fa leva sulla natura antifrastica dell’asserto, sul pirandelliano avvertimento del contrario. Questa intuizione, il direttore della fotografia, Ennio Guarnieri, la elabora soprattutto nel piano del terrazzo, dove lo stilismo delle immagini fluettate e alonate suggerisce lo sdoppiamento del personaggio della donna lasciato profilare oltre le lenzuola e le biancherie stese al vento (fot. 108). Ma in più in generale l’utilizzo del flou viene messo in atto da Guarnieri per modellare i contorni luminosi attorno alle figure e agli oggetti: un velo che si libra sulla loro pelle e patina, e che conduce in una dimensione memoriale profferta in recupero di un mondo lontano che continua però a vivere nell’animo. Estremo residuo di un passato che sta anch’esso per svanire.

FOT. 108

De Sica non rifà Pirandello, ma non è nemmeno estraneo alla sua natura. Così il ritratto femminile di Il viaggio diviene quasi il proprio autoritratto, un distacco da quel mondo in cui erano lievitate le sue prime esperienze artistiche, e con l’abbandono progressivo della vita riflesso nei mancamenti improvvisi, nella perdita delle forze, nel declinare del respiro e della voce che segna le pagine più drammatiche del film, quello della morte della protagonista in un albergo veneziano. In quel fitto spasimo così fortemente rilevato l’anziano regista dovette sicuramente riflettere qualcosa di sé, ma sempre con il riserbo che lo contraddistingueva, con la slegatezza solo apparente di un personaggio femminile che faceva da schermo. Ma è soprattutto nel senso del tempo che si avverte il senso della nostalgia e della commozione, quasi in un congedo ormai non più differibile. Così il brano più parlante del film è quello dell’esibizione di Armando Gill nel caféchantant di Napoli, presso la galleria Umberto, che si erige maestosamente in un folgorante totale che la inquadra dal basso, prima che una carrozza accolga i due cognati di ritorno all’albergo. Su quella carrozza i due ritroveranno il loro amore. E tuttavia l’amore in Il viaggio non è solo una questione del cuore, ma il riconoscimento di una verità che può dare un segno alla vita. Un’astrazione nel suo modo, come ha annotato Ernesto G. Laura, «un respiro superiore» che mira a una forma conclusiva e per questo a suo modo alla classicità. Nella scena se non più bella, certo più evocativa, il grande Sergio Bruni si produce nelle vesti di Gill interpretando una delle canzoni più popolari del repertorio del cantautore napoletano: «Chi vuole con le donne aver fortuna/ non deve mai mostrarsi innamorato». È la medesima che in Morte a Venezia (1971) di Visconti un musicante ambulante getta in faccia ad Aschenbach, con un uso impressionistico dello spartito musicale. De Sica (che avverte in questa sua ultima fase un certo influsso viscontiano) invece rimette la canzone nel suo pieno essere. Di profilo, con gli occhiali appena lucentati di azzurrino, Bruni modula la sospirosa e nostalgica canzone con un «filillo e’

voce» proprio come doveva aver fatto De Sica nei primi anni di carriera. «Giochi d’azzardo, senza ritardo/ con fatti e non parole,/ e poi vedrà/ come otterrà/ tutto quello che vuole». Il clima del café-chantant, la sua civiltà, si ricompongono in pochi tratti. Il totale del palscoscenico si alterna coi campi medi ora dell’interprete canoro ora dei due personaggi principali, Adriana e Cesare. Lei sorride ingenuamente per quello straordinario e gradito svago, libera un po’ del suo ordinario tumulto. Continua Armando Gill (fot. 109): «Passo sul ponte a sera e guardo il fiume/ e vedo tutto il cielo rispecchiare/ vedo la luna in cielo che fa lume/ vedo le mille stelle scintillare/ come m’attira il letto di quel fiume». Una vaga eco leopardiana, romantica, con una densità di pensieri, trascorre nelle immagini (ed estensivamente leopardiana è quell’inquadratura dove semplice e poetico si innalza un canto notturno).

FOT. 109

Nel profilo lunante e musicale della scena con Sergio Bruni in palcoscenico passa un tratto di pena indefinibile, un turbamento che vela il sorriso di Adriana. «Vorrei morire/ per non soffrire/ ma il core si ribella». La prima proiezione di Il viaggio ebbe luogo il 5 marzo 1974. De Sica sarebbe scomparso alcuni mesi dopo, il 13 novembre del medesimo anno. L’ultimo suo desiderio fu uscire dalla clinica in cui si trovava ricoverato – l’ospedale americano di Neuilly-sur-Seine vicino a Parigi e vicino alla cittadina di Fans dove nel 1968 s’era sposato con Maria Mercader, testimone per lei Roberto Rossellini – per gustare un piatto di pesce con la sua compagna e poi rivedere Ben Hur. «Era il suo addio “alla grande” al cinema e alla vita», così il figlio Manuel. Il maestro di Sciuscià e di Ladri di biciclette si spegneva rendendo in qualche modo omaggio al cinema come evento popolare, testimonianza di una matrice entro cui si poteva ravvisare una parte della creatività degli uomini del Ventesimo secolo. Una modernità che nondimeno mai scadeva nel mero mestiere e nella volgarità consumistica pur accettando il piano dello spettacolo (De Sica considerava un demerito collaborare alla pubblicità, girare spot per le vendite di prodotti dove l’autore delle riprese si acconciava a fare il barista). La rivendicazione di una dimensione comunicativa del cinema era comunque contenuta nella lettera con cui egli replicava alle osservazioni critiche avanzate su Il viaggio da Gian Luigi Rondi, il quale, in un articolo per «Il Tempo», gli rimproverava di non essersi attenuto a rigorose regole estetiche e pirandelliane. Dalle quali – rileva De Sica – sarebbe certo uscito un’opera aderente allo stile della novella di Pirandello, «un film scuro, chiuso, con un’interprete che poteva benissimo essere un’altra attrice, forse una non professionista». Un’attrice non estroversa come la Loren ma invece introversa, una Elena Varzi giovane ad esempio, o meglio una Magnani giovane: «Ecco il fisico ideale, e l’attrice ideale per questo tipo di personaggio». «Carissimo Rondi, ho il rimorso di non aver seguito questa linea di racconto, come in passato ho dato prova qualche volta di esser stato fedele a uno stile più severo di quello adottato per Il viaggio, con un’ambientazione, così come tu vuoi, cupa e realistica al cento per cento. Vedi per esempio la severità e l’asciuttezza del mio Umberto D. Ma quanti pochi, ahimé, hanno visto quel film». Un film paragonabile a quello era certo ben arduo da realizzare con due attori attaccati alla propria

immagine divistica come la Loren e Burton (sino al punto da richiedere che venissero preparate scene in campo lungo di loro belli e giovani: scene scritte da Diego Fabbri ma per fortuna mai filmate). Ma insieme con il dolore per non riuscire a tornare alle grandi verità del neorealismo, al rigore anche etico dei passati capolavori, dolore che lacerò ed esacerbò De Sica nei suoi ultimi anni, c’è anche la consapevolezza di dovere e voler parlare a un pubblico più vasto. Una scelta di compromesso, anche in parte giusta e nel suo proprio modo necessaria. Tale in fondo era stato e continuava a essere il cinema. Forse, all’interno di Il viaggio, il piano del cinematografo sul cui schermo si proiettano immagini di Méliès allude involontariamente a una simile modalità. Conciliare l’arte con la comunicazione popolare è stato del resto il tema araldico della carriera di De Sica: il vero fondamento che unifica le altitudini del neorealismo e della sua lingua più pura con le altre significazioni e persistenze della cultura dello spettacolo, in una incessante e reciproca osmosi da cui si sarebbero dispiegati alcuni dei capolavori dell’arte del secolo passato. In quest’arte, e reciprocamente nella civiltà dello spettacolo, De Sica ha occupato e occupa ancora una delle posizioni soprastanti.

1940 | Rose scarlatte

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: Vittorio De Sica, dalla commedia Due dozzine di rose scarlatte di Aldo De Benedetti; sceneggiatura: Aldo De Benedetti; fotografia: Tommaso Kemeneffy; musica: Renzo Rossellini; scenografia: Gastone Medin; montaggio: Maria Rosada; interpreti: Vittorio De Sica (Alberto), Renée Saint-Cyr (Marina), Umberto Melnati (Tommaso), Vivi Gioi (Clara), Luisella Beghi (Rosina), Ruby D’Alma (la contessa Arduini), Olga von Kollar (la danzatrice), Marcello Di Laurino, Aristide Garbini, Livia Minelli, Vasco Lavoratori; direttore di produzione: Nino Mariani; produzione: Amato-Era Film; distribuzione: Minerva Film; origine: Italia; lunghezza: m. 1.801. 1941 | Maddalena… zero in condotta

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: dalla commedia Magdát Kicsapjá di László Kádár; sceneggiatura: Ferruccio Biancini; fotografia: Mario Albertelli; musica: Nuccio Fiorda; scenografia: Gastone Medin; montaggio: Mario Bonotti; interpreti: Carla Del Poggio (Maddalena), Vera Bergman (l’insegnante Elisa Malgari), Vittorio De Sica (Alfredo Hartman, suo padre, suo nonno), Roberto Villa (Stefano Armani), Guglielmo Barnabò (il signor Emilio Lenci), Amelia Chellini (la direttrice), Irasema Dilian (Eva, la privatista), Giuseppe Varni (il bidello), Arturo Bragaglia (il professore di ginnastica), Pina Renzi

(un’insegnante), Paola Veneroni (l’alunna spiona), Dora Bini (l’allieva Caricati), Enza Delbi e Vera Ruberti (due allieve), Lina Marengo (la professoressa di geografia), Armando Migliari (il professore di chimica), Livia Minelli, Alda Grimaldi, Titti Speri, Irma Corelli, Gina Moneta Cinquini; direttore di produzione: Giorgio Genesi; produzione e distribuzione: Artisti Associati; origine: Italia; lunghezza: m. 2.114. 1941 | Teresa Venerdì

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: dal romanzo Péntek Rézi di Rezsö Török; sceneggiatura: Gherardo Gherardi, Vittorio De Sica, Margherita Maglione, Franco Riganti e (non accreditati) Aldo De Benedetti e Cesare Zavattini; fotografia: Vincenzo Seratrice; musica: Renzo Rossellini; scenografia: Ottavio Scotti; montaggio: Mario Bonotti; interpreti: Adriana Benetti (Teresa Venerdì), Vittorio De Sica (dott. Pietro Vignali), Anna Magnani (Loletta Prima), Virgilio Riento (Antonio), Irasema Dilian (Lilli Passalacqua), Guglielmo Barnabò (Agostino Passalacqua), Elvira Betrone (la direttrice dell’orfanotrofio), Giuditta Rissone (l’istitutrice Anna), Clara Auteri Pepe (Giuseppina), Zaira La Fratta (Alice), Olga Vittoria Gentilli (Rosa Passalacqua), Alessandra Adari (l’istitutrice Caterina), Lina Marengo (la maestra Ricci), Nico Pepe (dottor Pasquale Grosso), Annibale Betrone (Umberto Vignali), Armando Migliari (l’impiegato postale), Arturo Bragaglia (Primo creditore), Giacomo Almirante (Secondo creditore), Antonio Garrone (Terzo creditore), Vittorina Benvenuti, Federico Collino, Dina Romano, Anna Maresti, Carlo Simoneschi, Luciana Campion, Liliana Farkas, Giorgio Rivalico, Franca Leardini; direttore di produzione: Luigi Giacosi; produzione: C.O. Barberi per A.C.I. - Europa Film; distribuzione: Fincine; origine: Italia; lunghezza: m. 2.544. 1942 | Un garibaldino al convento

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: Renato Angiolillo; sceneggiatura: Adolfo Franci, Margherita Maglione, Giuseppe Zucca, Vittorio De Sica; fotografia: Alberto Fusi; scenografia, arredamento e costumi: Veniero Colasanti; musica: Renzo Rossellini; montaggio: Mario Bonotti; aiuto regista: Alberto Vecchietti; interpreti: Carla Del Poggio (Caterinetta Bellelli), Maria Mercader (Mariella Dominiani) Leonardo Cortese (Franco Amidei), Fausto Guerzoni (Tiepolo, il giardiniere), Elvira Betrone (la madre superiora), Olga Vittoria Gentilli (la marchesa Dominiani), Federico Collino (don Giacinto Bellelli), Vittorio De Sica (Nino Bixio), Gilda Marchiò (Caterina anziana), Clara Auteri Pepe (Geltrude Corbetti), Dina Romano (suor Ignazia), Lamberto Picasso (Giovanni Bellelli), Armando Migliari (Raimondo Bellelli), Achille Majeroni (il Governatore), Miguel del Castillo (il capitano borbonico), Evelina Paoli (Mariella anziana), Amalia Pellegrini (la suora guardiana), Adele Mosso (Geltrude anziana), Virginia Pasquali (la governante di Caterina), Licia D’Alba e Tatiana Farnese (le nipoti di Caterina), Carlo Mariotti (Matteo), Adele Garavag1ia (Nunziata), Lina Marengo (la signorina Colombelli), Luciana Campion, Aldo Lombardi, Giulio Tempesti, Nucci Bagnani, Franca Leardini, Renata Gori; direttore di produzione: Baldassarre Negroni; produzione: Mario Borghi per Incine; distribuzione: Tirrenia Cinematografica; origine: Italia; prima proiezione pubblica: marzo 1942. 1943 | I bambini ci guardano

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: dal romanzo Pricò di Cesare Giulio Viola; adattamento e sceneggiatura: Cesare Zavattini, Cesare Giulio Viola, Margherita Maglione, Adolfo Franci, Gherardo Gherardi, Vittorio De Sica; fotografia: Giuseppe Caracciolo e Otello Martelli; musica: Renzo Rossellini; scenografia: Amleto Bonetti; montaggio: Mario Bonotti; interpreti: Luciano De Ambrosis (Pricò), Emilio Cigoli (Andrea, il padre), Isa Pola (Nina, la madre), Adriano Rimoldi (l’amante della madre), Giovanna Cigoli (Agnese), Tecla Scarano (la signora Resta, la vicina), Ione Frigerio (la nonna), Olinto Cristina (il rettore), Maria Gardena (la signora Uberti), Dina Perbellini (la zia Berelli), Nicoletta Parodi (Giuliana), Claudia Marti (Dada), Ernesto Calindri (Claudio), Mario Gallina (il dottore), Zaira La Fratta (Paolina), Armando Migliari (il commendatore), Guido Morisi (Gigi Sbarlani), Achille Majeroni (il cavaliere Ponti), Augusto Di Giovanni (il fratello di Andrea), Agnese Dubbini (la padrona della pensione), il prestigiatore Gabrielli (il mago Gabrielli), Lina Marengo (la signora sul treno), Riccardo Fellini (l’uomo alla stazione), Gino Viotti (il professore che gioca a bocce), Giovanna Ralli (una bambina), Luigi A. Garrone, Aristide Garbini, Rita Livesi, Carlo Ranieri, Vasco Creti, Giulio Alfieri; direttore di produzione: Franco Magli; produzione e distribuzione: Scalera Film – Invicta; origine: Italia; lunghezza: m.2.368. 1944 | La porta del cielo

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini, Diego Fabbri, Vittorio De Sica, Adolfo Franci, Carlo Musso; fotografia: Aldo Tonti; musica: Enzo Masetti scenografia: Salvo D’Angelo; montaggio: Mario Bonotti; interpreti: Maria Mercader (Maria), Marina Berti (la crocerossina), Massimo

Girotti (il giovane cieco), Roldano Lupi (Giovanni Brandacci), Carlo Ninchi (il compagno del cieco), Elli Parvo (la signora elegante), Giovanni Grasso (il vecchio paralitico n. 28), Elettra Druscovich (Filomena), Giuseppe Forcina (l’ingegnere), Giulio Calì (il napoletano curioso), Amelia Bissi (la signora Enrichetta), Cristiano Cristiani (Claudio Gorini), Pina Piovani (sua zia), Giulio Alfieri e Enrico Ribulsi (i due ragazzi snob), Annibale Betrone, Gildo Bocci; direttore di produzione: Alberto Tronchet; produzione: Orbis; distribuzione: Lux Film; origine: Italia. 1946 | Sciuscià

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: Cesare Zavattini; sceneggiatura: Cesare Zavattini, Sergio Amidei, Adolfo Franci, Cesare Giulio Viola; fotografia: Anchise Brizzi; musica: Alessandro Cicognini; scenografia: Ivo Battelli; montaggio: Nicolò Lazzari; interpreti: Franco Interlenghi (Pasquale), Rinaldo Smordoni (Giuseppe), Emilio Cigoli (Staffera), Aniello Mele (Raffaele), Bruno Ortensi (Arcangeli), Gino Saltamerenda (il “panza”), Anna Pedoni (Nannarella), Leo Garavaglia (il commissario), Irene Smordoni (la mamma di Giuseppe), Enrico De Silva (Giorgio), Antonio Lo Nigro (Righetto), Angelo D’Amico (il siciliano), Antonio Carlino (l’abruzzese), Francesco De Nicola (Ciriola), Pacifico Astrologo (Vittorio), Maria Campi (la chiromante), Mario Volpicelli (il direttore del carcere), Giuseppe Spadaro (l’avvocato Bonavino), Antonio Nicotra (Bartoli, l’assistente sociale), Claudio Ermelli (l’infermiere al commissariato), Guido Gentili (Attilio), Tony Amendola, Armando Furlai, Achille Ponzi, Piero Carini, Edmondo Costa, Leonardo Bragaglia, Gino Marturano, Edmondo Zappacarta, Mario Jafrati, Mario Del Monte jr.; direttore di produzione: Nino Ottavi; produzione: Paolo William Tamburella per Alfa Cinematografica; distribuzione: Globus Film; origine: Italia; lunghezza: m. 2.623. 1948 | Ladri di biciclette

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: Cesare Zavattini, dal romanzo omonimo di Luigi Bartolini; sceneggiatura: Cesare Zavattini con Oreste Biancoli, Suso Cecchi D’Amico, Vittorio De Sica, Adolfo Franci, Gherardo Gherardi, Gerardo Guerrieri; fotografia: Carlo Montuori; musica: Alessandro Cicognini; scenografia: Antonio Traverso; montaggio: Eraldo Da Roma; interpreti: Lamberto Maggiorani (Antonio Ricci), Enzo Staiola (Bruno, suo figlio), Lianella Carell (Maria Ricci), Elena Altieri (la patronessa di beneficenza), Gino Saltamerenda (“Baiocco”), Vittorio Antonucci (Alfredo, il ladro), Ida Bracci Donati (la Santona), Giulio Chiari (un attacchino), Michele Sakara (il segretario alla beneficenza), Fausto Guerzoni (un filodrammatico), Carlo Jachino (il mendicante), Massimo Randisi (il bambino borghese alla trattoria), Peppino Spadaro (il brigadiere), Mario Meniconi (Meniconi, lo spazzino), Checco Rissone (il vigile a piazza Vittorio), Giulio Battiferri (il tizio che difende il vero ladro), Sergio Leone (un seminarista), Memmo Carotenuto (l’uomo appoggiato al muro), Nando Bruno, Emma Druetti, Giovanni Corporale, Eolo Capritti; direttore di produzione: Umberto Scarpelli; produzione: Vittorio De Sica per Pds; origine: Italia; lunghezza: m. 2.561. 1951 | Miracolo a Milano

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: Cesare Zavattini, dal suo romanzo Totò il buono; sceneggiatura: Cesare Zavattini, Vittorio De Sica, in collaborazione con Suso Cecchi D’Amico, Mario Chiari, Adolfo Franci; fotografia: G.R. Aldo [Aldo Graziati]; direzione trucchi: Ned Mann; operatori dei trucchi: Vaclav Vich e Enzo Barboni; collaboratori ai trucchi: Sid Howell, Dave Matture, Mattia Triznya; musica: Alessandro Cicognini; scenografo: Guido Fiorini; costumi: Mario Chiari; montaggio: Eraldo Da Roma; interpreti: Francesco Golisano (Totò), Brunella Bovo (Edvige), Emma Gramatica (la signora Lolotta), Paolo Stoppa (Rappi), Guglielmo Barnabò (Mobbi), Arturo Bragaglia (Alfredo), Anna Carena (la “signora”),Virgilio Riento (il sergente), Erminio Spalla (Gaetano), Alba Arnova (la statua vivente), Flora Cambi (l’innamorata dell’uomo di colore), Jerome Johnson (l’uomo di colore), Renato Navarrini (il balbuziente), Iubel Schembri (l’uomo pelato), Riccardo Bertazzolo (l’atleta), Angelo Prioli (il comandante in prima), Francesco Rissone (il comandante in seconda), Walter Scherer (Arturo), Egisto Olivieri (l’avvocato di Mobbi), Giuseppe Berardi (Giuseppe), Enzo Furlai (Brambi), Francesco Rissone, Giuseppe Spalla; direttore di produzione: Nino Misiano; produzione: Vittorio De Sica per Pds, in associazione con l’Enic; origine: Italia; distribuzione: Enic; lunghezza: m. 2.746. 1951 | “Ambienti e personaggi” (episodio di Documento mensile n.1)

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Vittorio De Sica e Cesare Zavattini; fotografia: Carlo Montuori; interpreti: Vittorio De Sica, Lamberto Maggiorani, Enzo Staiola, Carlo Montuori; produzione:

Marco Ferreri e Riccardo Ghione; origine: Italia; durata: 6’. 1952 | Umberto D.

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia: G. R. Aldo; operatore: Giuseppe Rotunno; musica: Alessandro Cicognini; scenografia: Virgilio Marchi; montaggio: Eraldo Da Roma; interpreti: Carlo Battisti (Umberto Domenico Ferrari), Maria Pia Casilio (Maria, la servetta), Lina Gennari (Antonia, la padrona della pensione), Alberto Albani Barbieri (Paolo, il “fidanzato” della padrona), Elena Rea (la suora all’ospedale), Memmo Carotenuto (un ammalato all’ospedale), Ileana Simova (la signora ai giardinetti); direttore di produzione: Nino Misiano; segretario di produzione: Pasquale Misiano; produzione: Giuseppe Amato per Rizzoli-De Sica-Amato; distribuzione: Dear Film; origine: Italia; lunghezza: m. 2.502. 1953 | Stazione Termini

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: Cesare Zavattini; sceneggiatura: Cesare Zavattini in collaborazione con Luigi Chiarini e Giorgio Prosperi; dialoghi inglesi: Truman Capote; fotografia: G.R. Aldo (e Oswald Morris); musica: Alessandro Cicognini; scenografia: Virgilio Marchi; montaggio: Eraldo Da Roma; interpreti: Jennifer Jones (Mary Forbes), Montgomery Clift (Giovanni Doria), Gino Cervi (il commissario), Dick Beymer (Paul), Paolo Stoppa (il commesso viaggiatore), Nando Bruno (primo ferroviere), Oscar Blando (secondo ferroviere), Enrico Glori (il brigadiere), Memmo Carotenuto (Venturini il ladro), Clelia Matania (una viaggiatrice con parecchi bimbi), Enrico Viarisio (il signore ilare all’ufficio postale), Giuseppe Porelli (il viaggiatore galante), Maria Pia Casilio (la sposina abruzzese), Liliana Gerace (la siciliana partoriente), Gigi Reder (lo sposino abruzzese), Attilio Torelli (l’emigrante siciliano), Pasquale De Filippo (il signore derubato), Roberto Rai (il frenatore), Charles Fawcett (il signore triste alla posta), Mariolina Bovo (la biondina sul treno), Mimmo Poli (il grassone), Amina Pirani Maggi (la signora del telegramma), Ciro Di Castro, Claudio Del Pino, Puccio Pintabona, Jean Mollier, Teresa Paliani, Bill Barker, Gino Anglani, Giovanni Corporale, Vincenzo Milazzo, Gino Passarelli, Marcella Genuino; direttore di produzione: Nino Misiano; produzione: Vittorio De Sica per Films V. De Sica- Girosi/ David O. Selznick Studio; distribuzione: Lux Film; origine: Italia-Usa; lunghezza: m. 2.526. 1954 | L’oro di Napoli

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: dal libro omonimo di Giuseppe Marotta; soggetto di “Funeralino”: Cesare Zavattini; adattamento: Cesare Zavattini; sceneggiatura: Cesare Zavattini, Giuseppe Marotta, Vittorio De Sica; fotografia: Carlo Montuori; musica: Alessandro Cicognini; scenografia: Gastone Medin; montaggio: Eraldo Da Roma; aiuto regia: Luisa Alessandri e Sandro Montemurro. “Il guappo” - interpreti: Totò (don Saverio, il marito), Lianella Carell (la moglie), Pasquale Gennaro (don Carmine Savarone, il guappo), Agostino Salvietti (Gennaro Esposito, il salumiere), Nino Vingelli (un guappo); “Pizze a credito” - interpreti: Sophia Loren (Sofia, la pizzaiola), Giacomo Furia (il marito), Paolo Stoppa (il vedovo), Alberto Farnese (l’amante), Tecla Scarano (una amica del vedovo), Pasquale Tartaro (Cafiero), Luciano Rondinella (un carrettiere), Rosetta Dei; “Funeralino” - interprete: Teresa De Vita (la madre del morticino); “I giocatori” interpreti: Vittorio De Sica (il conte Prospero B.), Pierino Bilancioni (Gennarino), Mario Passante (Giovanni, il maggiordomo), Irene Montalto (la contessa), Lars Borgström (il portiere, padre di Gennarino); “Teresa” interpreti: Silvana Mangano (Teresa), Erno Crisa (don Nicola), Ubaldo Maestri (Ubaldo, l’intermediario); “Il professore” - interpreti: Eduardo De Filippo (don Ersilio Miccio), Tina Pica (la beghina), Nino Imparato (Gennaro), Gianni Crosio (il duca Alfonso); direttore di produzione: Nino Misiano; produzione: Dino De Laurentiis e Carlo Ponti per la Ponti-De Laurentiis; distribuzione: Paramount; origine: Italia; lunghezza: m. 3.600. 1956 | Il tetto

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia: Carlo Montuori; musica: Alessandro Cicognini; scenografia: Gastone Medin; montaggio: Eraldo Da Roma; interpreti: Gabriella Pallotta (Luisa), Giorgio Listuzzi (Natale), Gastone Renzelli (Cesare), Angelo Bigioni (il maggiore Baj), Maria Di Rollo (Gina), Luciano Pigozzi (il borgataro aggressivo), Maria Di Fiori (la moglie di Cesare), Carolina Ferri (la moglie di Francesco), Aldo Boi (Luigi, un ragazzo), Ferdinando Gerra (Francesco), Giuseppe Martini (padre di Luisa), Emilia Martini (madre di Luisa), Maria Sittorio (madre di Natale), Angelo Visentin (Antonio Pilon, padre di Natale), Luisa Alessandri (la signora Baj); direttore di produzione: Nino Misiano; produzione: Vittorio De Sica e Marcello Girosi per V. De Sica Produzione; distribuzione:

Titanus; origine: Italia; lunghezza: m. 2.760. 1960 | La Ciociara

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: dal romanzo omonimo di Alberto Moravia; riduzione e sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia: Gabor Pogany; musica: Armando Trovajoli; scenografia: Gastone Medin; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Sophia Loren (Cesira), Eleonora Brown (Rosetta), Jean-Paul Belmondo (Michele), Raf Vallone (Giovanni), Renato Salvatori (Florindo), Carlo Ninchi (il padre di Michele), Andrea Checchi (un fascista), Pupella Maggio (una contadina), Vincenzo Musolino (Alessandro, figlio della contadina), Emma Baron (Maria, la madre di Michele), Franco Balducci (il tedesco nel pagliaio), Bruna Cealti (una sfollata), Ettore G. Mattia (un passeggero sul treno), Luciano Pigozzi (“Scimmione”), Mario Frera, Luciana Cortellesi, Carolina Carbonaro, Tony Caliò, Elsa Mancini, Antonio Gastaldi, Antonella Della Porta, Curt Lowens, Remo Galavotti, Giuseppina Ruggeri, Luigi Terribile; direttore di produzione: Ione Tuzi; produzione: Carlo Ponti per Compagnia Cinematografica Champion, Roma/Les Films MarceauCocinor, Société Générale de Cinématographie, Parigi; distribuzione: Titanus; origine: Italia-Francia; lunghezza: m. 2.713. 1961 | Il giudizio universale

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia (bianco e nero e Eastmancolor -Dupont): Gabor Pogany; operatore: Mario Capriotti; musica: Alessandro Cicognini; scenografia: Pasquale Romano; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Nicola Rossi-Lemeni (la “voce”), Alberto Sordi (il trafficante di bambini), Georges Rivière (Gianni), Paolo Stoppa (Giorgio), Anouk Aimée (Irene, sua moglie), Maria Pia Casilio (la cameriera), don Jaime de Mora y Aragón (l’ambasciatore), Melina Mercouri (la signora straniera), Nino Manfredi (il cameriere), Vittorio De Sica (l’avvocato difensore), Vittorio Gassman (Cimino), Renato Rascel (Coppola), Silvana Mangano (la signora Matteoni), Jack Palance (il signor Matteoni), Lamberto Maggiorani (il disoccupato), Gaddo Treves, Maria Karamann, Andreina Pagnani, Alberto Bonucci (ospiti di casa Matteoni), Mike Bongiorno (se stesso), Lilly Lembo (l’annunciatrice televisiva), Ernest Borgnine (il ladro), Jimmy Durante (l’uomo dal gran naso), Fernandel (il vedovo), Elli Davis (la ragazza bionda), Akim Tamiroff (il regista teatrale), Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (i due disoccupati), Eugenio Cuomo (il bambino del pomodoro), Marisa Merlini (sua madre), Giuseppe Janigro (la “Personalità”), Giuseppe Porelli (l’accompagnatore della “Personalità”), Eleonora Brown (Giovanna), Lino Ventura (suo padre), Elisa Cegani (sua madre), Sergio Iossa (Luca), Domenico Modugno (il cantante), Paul Demange (l’avaro a Parigi), Agostino Salvietti (un cameriere), Mario Abussi, Holmsted Remington, Nando Angelini, le Peter Sisters, Giacomo Furia, Regina Bianchi, Luigi e Vittorio Bonos, Ottavio Bugatti, Ugo D’Alessio, Eugenio Maggi, Teresa De Vita, Pietro De Vico, Enzo Petito, Gigi Reder, Giuseppe Iodice, Mario Passante, Nello Ascoli, Alfredo Melidoni, Vittorio Bottoni, Alberto Castaldi, Pasquale Gennaro, Nino Di Napoli, Alberto Barbieri Albani, Pasquale Cutolo, Eliana De Sabata, Arturo Lattanzio, Antonio Rispoli, Mario Siniscalco, Gennaro Rotondo, Vincenzo De Rosa, Carmine Ferrari, Alfio Vita, Alfredo Patierno, Pilade Collaveri, Carlo Taranto, Hilde Maria Renzi; direttore di produzione: luigi De laurentiis; produzione: Dino De Laurentiis per Dino De Laurentiis Cinematografica, Roma/Standard Films, Paris; distribuzione: Dino De Laurentiis; origine: Italia-Francia; lunghezza: m. 2.600. 1962 | “La riffa” |(episodio di Boccaccio ‘70)

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia (Eastmancolor): Otello Martelli; musica: Armando Trovajoli; scenografia: Elio Costanzi; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Sophia Loren (Zoe), Luigi Giuliani (Geno), Alfio Vita (Cuspèt), Tano Rustichelli (Turàs), Antonio Mantovani (il veterinario), Valentino Macchi (il ragazzo del luna-park), Antonio Ravaglia, Romano Lolli, Luciano Baldrati, Angelo Casadio, Giovanni Minghetti; direttore di produzione: Alfredo Melidoni; produzione: Carlo Ponti e Antonio Cervi per Concordia Compagnia Cinematografica, Cineriz, Roma/Francinex, Gray Films, Paris; distribuzione: Cineriz; origine: Italia-Francia; lunghezza: m. 5.412. Boccaccio ’70 si compone di quattro episodi: “Renzo e Luciana” di Mario Monicelli, “Le tentazioni del dottor Antonio” di Federico Fellini, “Il lavoro” di Luchino Visconti e “La riffa” di Vittorio De Sica. 1962 | “I sequestrati di Altona”

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: dal dramma omonimo di Jean-Paul Sartre; sceneggiatura: Abby Mann e Cesare Zavattini; fotografia: Roberto Gerardi; musica: Nino Rota sul tema della Sinfonia n. 11, opus 103 di Dmitri Šostakovič; scenografia: Ezio Frigerio; disegni: Renato Guttuso; montaggio: Manuel Del Campo,

Adriana Novelli; interpreti: Maximilian Schell (Franz von Gerlach), Sophia Loren (Johanna), Fredric March (Albrecht von Gerlach), Françoise Prévost (Leni von Gerlach), Robert Wagner (Werner von Gerlach), Ekkehard Schall (Arturo Ui), Alfredo Franchi (il guardiano dello stabilimento), Lucia Pelella (la moglie del guardiano), Roberto Massa (l’autista), Antonia Cianci (la governante), Carlo Antonini (un poliziotto), Armando Sifo (un altro poliziotto), Aldo Pecchioli (il cuoco), Gabriele Tinti, Rolt Tasna, Dino Di Luca, Piero Leri, Tonino Ciani, Mirella Ricciardi (attori della compagnia brechtiana); direttore di produzione: Luciano Perugi; produzione: Carlo Ponti per Titanus, Roma/Société Générale de Cinématographie, Parigi; distribuzione: Titanus; origine: Italia-Francia; lunghezza: m. 3.056. 1963 | Il boom

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia: Armando Nannuzzi; musica: Piero Piccioni; scenografia: Ezio Frigerio; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Alberto Sordi (Giovanni Alberti), Gianna Maria Canale (Silvia, sua mog1ie), Ettore Geri (Bausetti), Elena Nicolai (la signora Bausetti), John Karlsen (oculista), Mariolina Bovo (signora Faravalli), Antonio Mambretti (Faravalli), Alceo Barnabei (Baratti), Gloria Cervi (Cinzia Baratti), Sandro Meri (Dronazzi), Sandra Verani (signora Dronazzi), Silvio Battistini (Riccardo), Matelda Scotti (moglie di Riccardo), Gino Pasquarelli (direttore della Fides Prestiti), Maria Grazia Buccella (segretaria del direttore della Fides Prestiti), Federico Giordano (il padre di Silvia), Ugo Silvestri (Gardinazzi), Felicita Tranchina (madre di Giovanni), Alfredo Zambuto (cameriere di casa Bausetti), Franco Abbina (assistente oculista), Mario Cipparone (un cliente della Fides Prestiti), Rosetta Biondi (infermiera dell’oculista), Alfio Vita (l’inquilino di fronte), Vittorio Casella (segretario del cantiere Bausetti), Franco Bologna (geometra del cantiere Bausetti); direttore di produzione: Giorgio Morra; produzione: Dino De Laurentiis; distribuzione: Dino De Laurentiis; origine: Italia; lunghezza: m. 2.567. 1963 | Ieri oggi domani

Regia: Vittorio De Sica; fotografia (Techniscope, Technicolor): Giuseppe Rotunno; musica: Armando Trovajoli; fonico: Ennio Sensi; scenografia: Ezio Frigerio; montaggio: Adriana Novelli; “Adelina” soggetto: Eduardo De Filippo; sceneggiatura: Eduardo De Filippo e Isabella Quarantotti; interpreti: Sophia Loren (Adelina Sbaratti), Marcello Mastroianni (Carmine Mellino, suo marito), Aldo Giuffré (Pasquale Nardella), Agostino Salvietti (l’avvocato Domenico Verace), Tecla Scarano (Bianchina Verace, sorella dell’avvocato), Silvia Monelli (Elvira Bardella), Carlo Croccolo (l’imbonitore), Pasquale Cennamo (il capitano di polizia), Lino Mattera (Amedeo Scapace), Antonio Cianci (il medico); “Anna” - soggetto: dal racconto Troppo ricca di Alberto Moravia; sceneggiatura: Cesare Zavattini, Billa Billa Zanuso; interpreti: Sophia Loren (Anna Molteni), Marcello Mastroianni (Renzo, il suo amante), Armando Trovajoli (Giorgio Ferrario); “Mara” - soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini; interpreti: Sophia Loren (Mara, la ragazza squillo), Marcello Mastroianni (Augusto Rusconi, i1 bolognese), Tina Pica (la nonna del seminarista), Giovanni Ridolfi (il seminarista Umberto), Gennaro Di Gregorio (il nonno del seminarista); direttore di produzione: Antonio Altoviti; produzione: Carlo Ponti per Compagnia Cinematografica Champion, Roma/Les Films Concordia, Paris; origine: Italia-Francia; lunghezza: m. 3.288. 1964 | Matrimonio all’italiana

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: dalla commedia Filumena Marturano di Eduardo De Filippo; sceneggiatura: Eduardo De Filippo, Renato Castellani, Antonio Guerra, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi; fotografia (Eastmancolor): Roberto Gerardi; musica: Armando Trovajoli; fonico: Ennio Sensi; scenografia: Carlo Egidi; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Sophia Loren (Filumena Marturano), Marcello Mastroianni (Domenico Soriano), Tecla Scarano (Rosalia), Aldo Puglisi (Alfredo), Marilù Tolo (Diana), Vito Morriconi (Riccardo), Generoso Cortini (Michele), Gianni Ridolfi (Umberto), Enza Maggi (Lucia, cameriera), Pia Lindstrom (la cassiera), Raffaello Rossi Bussola (l’avvocato Nocella), Rita Piccione (Teresina, la sarta), Vincenza Di Capua (donna Matilde Soriano), Vincenzo Aita (don Alfonso, il prete), Alfio Vita (un pasticciere), Lino Mattera, Anna Santoro, Alberto Gastaldi, Mara Marilli, Antonietta D’Onofrio; direttore di produzione: Ione Tuzi; produzione: Carlo Ponti per Compagnia Cinematografica Champion, Roma/Les Films Concordia, Parigi; distribuzione: Interfilm; origine: Italia-Francia; lunghezza: m. 2.769. 1965 | Un monde nouveau | Un mondo nuovo

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini in collaborazione con Riccardo Aragno; fotografia: Jean Boffety; musica: Michel Colombier; scenografia: Max Douy; montaggio:

Paul Cayatte; interpreti: Christine Delaroche (Anna), Nino Castelnuovo (Carlo), Tanya Lopert (Maria), Pierre Brasseur (un fotografo), Isa Miranda (una dottoressa), Nadeige Ragoo (Judith), Madeleine Robinson (la ricca signora), Georges Wilson (il primario medico), Jeanne Aubert, Françoise Brion, Franco Bucceri, Jean-Pierre Darras, Arlette Gilbert, Paul Mercey, Charles Millot, Laure Paillette, Jacques Masson, Alex Serban, Antoine De Rudder; direttore di produzione: Leon Sanz; produzione: Raymond Froment per Terra Film, Les Productions Artistes Associés, Parigi/Sol Produzione, Compagnia Cinematografica Montoro, Roma; distribuzione: Dear Film-United Artists; origine: Francia-Italia; lunghezza: m. 2.117. 1966 | Caccia alla volpe

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: da una commedia di Neil Simon; sceneggiatura: Neil Simon, in collaborazione con Cesare Zavattini; fotografia (Panavision, Technicolor): Leonida Barboni; musica: Piero Piccioni; scenografia: Mario Garbuglia; montaggio: Russel Lloyd, Adriana Novelli; interpreti: Peter Sellers (Aldo Vannucci), Victor Mature (Tony Powell), Britt Ekland (Gina), Akim Tamiroff (Okra), Paolo Stoppa (Pollo), Tino Buazzelli (Siepi), Maria Grazia Buccella (la sorella di Okra), Lidia Brazzi (Teresa Vannucci), Martin Balsam (Harry), Lando Buzzanca (il capitano della guardia), Vittorio De Sica (se stesso), Mac Ronay (Carlo), Tiberio Murgia (primo poliziotto), Francesco De Leone (secondo poliziotto), Roberto De Simone (Marcel Vignon), Pier Luigi Pizzi (il dottore), Maurice Denham (il capo dell’Interpol), Enzo Fiermonte (Raymond), Carlo Croccolo (il proprietario del caffè), Marcella Rovena (sua moglie), Nino Musco (il sindaco), Lino Mattera (il cantante), Daniele Vargas (l’avvocato dell’accusa), Franco Sportelli (un giudice), Carlo Pisacane (un altro giudice), Nino Vingelli (un terzo giudice), Giustino Durano (il critico), Mimmo Poli (l’attore), Angelo Spaggiari (Felix Kessler), Timothy Bateson (Michael O’Really), Enrico Luzi (il regista a Via Veneto), Piero Gerlini (il capo carceriere), Ugo Fangareggi (un secondino), David Lodge (un altro poliziotto), Daniela Igliozzi (una ragazza di Sevalio); direttore di produzione: Orazio Tassara; produzione: John Bryan per la Compagnia Cinematografica Montoro, Roma/Nancy Enterprises Inc., Londra; distribuzione: Dear Film-United Artists; origine: Italia-Gran Bretagna; lunghezza: m. 2.824. 1967 | “Una sera come le altre” | (episodio di Le streghe)

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: Cesare Zavattini; sceneggiatura: Cesare Zavattini, in collaborazione con Fabio Carpi ed Enzo Muzii; fotografia (Technicolor): Giuseppe Rotunno; musica: Piero Piccioni; scenografia: Piero Poletto; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Silvana Mangano (Giovanna), Clint Eastwood (Carlo, suo marito), Valentino Macchi (l’uomo dello stadio), Armando Bottin (Nembo Kid), Gianni Gori (Diabolik), Paolo Gozlino (Mandrake), Franco Moruzzi (Sadik), Angelo Santi (Gordon), Piero Torrisi (Batman), Corinne Fontaine (signora con occhiali); direttori di produzione: Giorgio Adriani e Giorgio Morra; produzione: Dino De Laurentiis per Dino De Laurentiis Cinematografica, Roma/Les Productions Artistes Associés, Parigi; distribuzione: Dear-United Artists; origine: Italia-Francia; lunghezza: m. 3.050. Le streghe si compone di cinque episodi: “ La strega bruciata viva” di Luchino Visconti, “Senso civico” di Mauro Bolognini, “ La terra vista dalla luna” di Pier Paolo Pasolini, “La siciliana” di Franco Rossi e “Una sera come le altre” di Vittorio De Sica. 1967 | Sette volte donna | Woman Times Seven

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia (Eastmancolor): Christian Matras; musica: Riz Ortolani; scenografia: Bernard Evein; montaggio: Teddy Darvas, Victoria SpiriMercanton; “Il corteo funebre” - interpreti: Shirley MacLaine (Paulette), Peter Sellers (Jean), Elspeth March (Annette); “Amateur night” - interpreti: Shirley MacLaine (Maria Teresa), Rossano Brazzi (Giorgio), Catherine Samie (Jeanine), Judith Magre (la trentenne), Laurence Badie (la smilza), Zamie Campan (un’altra prostituta), Robert Duranton (il protettore); “Due contro uno” - interpreti: Shirley MacLaine (Linda), Vittorio Gassman (Cenci), Clinton Greyn (MacCormik); “La super Simone” - interpreti: Shirley MacLaine (Edith), Lex Barker (Rik), Robert Morley (il dottor Xavier), Elsa Martinelli (una donna al supermercato), Jessie Robbins (Marianna); “Una sera all’opera” - interpreti: Shirley MacLaine (Eve Minou), Patrick Wymarck (Henri Minou), Adrienne Corri (la signora Lisière), Michael Brennan (il signor Lisière); “I suicidi” interpreti: Shirley MacLaine (Marie), Alan Arkin (Fred); “Neve” - interpreti: Shirley MacLaine (Jean), Anita Ekberg (Claudie, la brunetta), Michael Caine (il giovanotto), Philippe Noiret (Victor); direttore di produzione: Jacques Juranville; produzione: Arthur Cohn per Embassy Pictures, 20th Century Fox, S.N.

Films Cormoran; distribuzione: Dear Film-20th Century Fox; origine: Usa; lunghezza: m. 2.730. 1968 | Amanti

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: tratto dalla commedia omonima di Brunello Rondi; sceneggiatura: Ennio De Concini, Vittorio De Sica, Tonino Guerra, Brunello Rondi, Cesare Zavattini (e anche, secondo fonti anglosassoni, Julian Halevy e Peter Baldwin); fotografia (Technicolor): Pasquale De Santis; scenografia: Piero Poletto; montaggio: Adriana Novelli; musica: Manuel De Sica; interpreti: Faye Dunaway (Giulia), Marcello Mastroianni (Valerio), Caroline Mortimer (Maggie), Karin Eugh (Griselda), Enrico Simonetti (l’organizzatore dei giochi nel salotto), Esmeralda Ruspoli (la moglie dell’avvocato), Mirella Panfili (una invitata alla festa); organizzazione generale: Jone Tuzi; produzione: Carlo Ponti per Compagnia Cinematografica Champion, Roma / Les Films Concordia, Parigi; distribuzione: Interfilm; origine: ItaliaFrancia; lunghezza: m. 2.045. 1970 | I girasoli

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Antonio (Tonino) Guerra e Cesare Zavattini con la collaborazione di Georgij Mdivani; fotografia (Technicolor): Giuseppe Rotunno; musica: Henry Mancini; scenografia: Piero Poletto, David Vinickij; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Sophia Loren (Giovanna), Marcello Mastroianni (Antonio), Ljudmila Savel’eva (Masha), Anna Carena (la madre di Antonio), Germano Longo (Ettore), Galina Andreeva (Valentina), Nadežda čeredničenko (la contadina nel campo di girasoli), Glauco Onorato (un reduce), Silvano Tranquilli (un operaio italiano in Urss), Pippo Starnazza (impiegato all’ufficio informazioni), Marisa Traversi (una prostituta), Gunnar Zilinskij (un ufficiale sovietico), Carlo Ponti jr. (il figlio di Giovanna), Dino Peretti, Giorgio Basso, Umberto Di Grazia, Giuliano Girardi; direttore di produzione: Jone Tuzi; produzione: Carlo Ponti e Arthur Cohn per Compagnia Cinematografica Champion, Roma/Les Films Concordia, Parigi, in collaborazione con Mosfil’m di Mosca; distribuzione: Euro International; origine: Italia-Francia; lunghezza: m. 2.922. 1970 | Il giardino dei Finzi Contini

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: tratto liberamente dal romanzo di Giorgio Bassani, Il giardino dei FinziContini; sceneggiatura: Vittorio Bonicelli, Giorgio Bassani, Ugo Pirro; fotografia (Eastmancolor): Ennio Guarnieri; musica: Manuel De Sica; scenografia: Giancarlo Bartolini Salimbeni; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Lino Capolicchio (Giorgio), Dominique Sanda (Micol), Romolo Valli (i1 padre di Giorgio), Helmut Berger (Alberto), Fabio Testi (Bruno Malnate), Camillo Cesarei (il prof. Ermanno Finzi Contini), Inna Alexeieff (la nonna di Micol), Barbara Leonard Pilavin (la madre di Giorgio), Ettore Geri (il maggiordomo di casa Finzi Contini), Marcella Gentile (Fanny), Cinzia Bruno (Micol bambina), Franco Nebbia (un amico di Giorgio), Giampaolo Duregon (Bruno), Michael Berger (lo studente tedesco a Mentone), Edoardo Toniolo (il direttore della biblioteca), Raffaele Curi (Ernesto), Alessandro D’Alatri (Giorgio bambino), Katina Viglietti (Olga Finzi Contini), Camillo Angelini-Rota; direttore di produzione: Romano Dandi; produzione: Gianni Hecht Lucari, Arthur Cohn per Documento Film, Roma/CCC Filmkunst, Berlino; distribuzione: Titanus; origine: Italia-Repubblica Federale Tedesca; lunghezza: m. 2.575. 1970 | “Il leone” | (episodio di Le coppie)

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: Cesare Zavattini; sceneggiatura: Ruggero Maccari, Rodolfo Sonego, Stefano Strucchi; fotografia (Eastmancolor): Ennio Guarnieri; musica: Manuel De Sica; scenografia: Flavio Mogherini; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Alberto Sordi (Antonio), Monica Vitti (Giulia); direttore di produzione: Renato Jaboni; segretario di produzione: Paolo Vandini; produzione: Gianni Hecht Lucari per Documento Film; distribuzione: C.I.C.; origine: Italia; lunghezza complessiva dell’intero film: m. 3.225. Il film si compone di tre episodi: “Il frigorifero” di Mario Monicelli, “ La camera” di Alberto Sordi e “Il leone” di Vittorio De Sica. 1972 | Lo chiameremo Andrea

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: Cesare Zavattini; sceneggiatura: Cesare Zavattini, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi; fotografia (Eastmancolor): Ennio Guarnieri; musica: Manuel De Sica; scenografia: Giancarlo Bartolini Salimbeni; montaggio: Adriana Novelli; interpreti: Nino Manfredi (Paolo Antonazzi), Mariangela Melato (Maria Antonazzi), Antonio Faà Di Bruno (il direttore didattico), Maria Pia Casilio (Bruna Barini), Isa Miranda (un’insegnante), Esmeralda Ruspoli (un’altra insegnante), Guido Cerniglia (Arturo Soriani),

Violetta Chiarini (Mafalda Soriani), Daniele Patella (l’interprete svizzero), Herbert Tiede (il sessuologo svizzero), Giulio Baraghini (il prof. Mariani), Pietro Tordi (un insegnante), Anna Maria Aragona (una maestra), Donato Di Sepio (Spadacci), Enzo Monteduro (l’insegnante di religione), Solvejg D’Assunta (la madre di Nino), Alessandro Iacarella (un altro maestro), Antonio Spaccatini (Nino), Kai S. Seefeld (la chiromante), Alberto Schiappadoti (Mario), Luigi Antonio Guerra (il bidello), Lino Patruno; direttore di produzione: Michele Marsala; produzione: Marina Cicogna per Verona Produzione; produttore associato: Arthur Cohn; distribuzione: Cinema International Corporation; origine: Italia; lunghezza: m. 2.008. 1973 | Una breve vacanza

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: Rodolfo Sonego; sceneggiatura: Cesare Zavattini; fotografia (Eastmancolor): Ennio Guarnieri; musica: Manuel De Sica; scenografia: Luigi Scaccianoce, Adolfo Copino; montaggio: Kim Arcalli; interpreti: Florinda Bolkan (Clara Martaro), Renato Salvatori (Franco Martaro, suo marito), Adriana Asti (la Scanziani), Daniel Quenaud (Luigi, il meccanico), Anna Carena (la madre di Franco), José Maria Prada (il dottor Ciranni), Teresa Gimpera (Gina), Hugo Blanco (il fratello di Franco), Julia Peña (Edvige), Miranda Campa (l’infermiera Guidotti), Angela Cardile (la rossa), Christian De Sica (il giovane in treno), Monica Guerritore (Maria), Maria Mizar (l’infermiera Garin), Alessandro Romanazzi (il figlio di Maria), Franca Mazzoni, Enrico Baroni, Edda Conti, Lia Giovanella, Claudio Vinale, Giampaolo Rossi, Luigi Antonio Guerra, Mario Garriba; direttori di produzione: Claudio Vinale, Garcia Trueba; produzione: Marina Cicogna per Verona Produzione, Roma/Azor Film, Madrid; distribuzione: Cinema International Corporation; origine: Italia-Spagna; lunghezza: m. 2.855. 1974 | Il viaggio

Regia: Vittorio De Sica; soggetto: liberamente ispirato alla omonima novella di Luigi Pirandello; sceneggiatura: Diego Fabbri, Massimo Franciosa, Luisa Montagnana; fotografia (Eastmancolor): Ennio Guarnieri; musica: Manuel De Sica; scenografo: Luigi Scaccianoce; montaggio: Kim Arcalli; interpreti: Sophia Loren (Adriana De Mauro), Richard Burton (Cesare Braggi), Ian Bannen (Antonio Braggi), Annabella Incontrera (Simona), Barbara Pilavin (la madre di Adriana), Sergio Bruni (Armando Gill), Daniele Vargas (il notaio Salierno), Renato Pinciroli (il dottor Mascione), Olga Romanelli (Clementina), Ettore Geri (Rinaldo), Paolo Lena (il piccolo Nandino), Isabelle Marchal (la fioraia), Riccardo Mangano (il radiologo dottor Carlini), Barry Simmons (il dottor De Paolo), Bernardo Lo Cascio, Antonio Anelli, Luca Bonicalzi, Francesco Leone, Giovanni Lo Cascio, Giovanna Lo Monaco, Giuseppe Namio, Franco Lauriano, Tito Nicotra; direttore di produzione: Michele Marsala; produttore associato: Turi Vasile; produzione: Carlo Ponti per Compagnia Cinematografica Champion, Roma/Capac, Parigi; distribuzione: Interfilm; origine: Italia-Francia; lunghezza: m. 2.720. REGIE TELEVISIVE 1971 | Nascita della Repubblica – Il 2 giugno

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Vittorio De Sica in collaborazione con Fabrizio Onofri; supervisione storica: Paolo Ungari; interpreti: Giuseppe Addobbati, Nicola Pagano; produzione: RaiRadiotelevisione Italiana; origine: Italia; prima trasmissione televisiva: 2 giugno 1971. 1971 | I cavalieri di Malta

Regia: Vittorio De Sica; soggetto e sceneggiatura: Peter Dragadze; consulenza storica: Denis Calnan; fotografia (colore): Ennio Guarnieri; voce del commento: Arnoldo Foà; produzione: Peter Dragazde per RaiRadiotelevisione Italiana; origine: Italia; prima trasmissione televisiva: Rete Due, 31 agosto 1971. TESTI DI SCENEGGIATURA E SOGGETTI 1940 | Rose scarlatte

Regia: Vittorio De Sica 1941 | Maddalena… zero in condotta

Regia: Vittorio De Sica 1941 | Teresa Venerdì

Regia: Vittorio De Sica 1941 | L’avventuriera del piano di sopra

Regia: Raffaello Matarazzo

1942 | Se io fossi onesto

Regia: Carlo Ludovico Bragaglia 1942 | Un garibaldino al convento

Regia: Vittorio De Sica 1942 | La guardia del corpo

Regia: Carlo Ludovico Bragaglia 1943 | I bambini ci guardano

Regia: Vittorio De Sica 1943 | I nostri sogni

Regia: Vittorio Cottafavi 1943 | L’ippocampo

Regia: Giampaolo Rosmino 1944 | La porta del cielo

Regia: Vittorio De Sica 1946 | Il marito povero

Regia: Gaetano Amata 1946 | La notte porta consiglio (Roma città libera)

Regia: Marcello Pagliero 1946 | Sciuscià

Regia: Vittorio De Sica 1946 | Abbasso la ricchezza

Regia: Gennaro Righelli 1947 | Sperduti nel buio

Regia: Camillo Mastrocinque 1948 | Ladri di biciclette

Regia: Vittorio De Sica 1948 | Cuore

Regia: Duilio Coletti 1950 | Miracolo a Milano

Regia: Vittorio De Sica 1951 | Ambienti e personaggi

Regia: Vittorio De Sica 1952 | Buongiorno, elefante! (Sabù, principe ladro)

Regia: Gianni Franciolini 1952 | Miracle in the rain (non realizzata) 1954 | L’oro di Napoli

Regia: Vittorio De Sica 1968 | Amanti

Regia: Vittorio De Sica 1971 | Nascita della repubblica – Il 2 giugno

Regia: Vittorio De Sica FILM E PROGRAMMI TELEVISIVI SU VITTORIO DE SICA 1958 | Meet De Sica

Regia: Bika De Reisner; fotografia (16mm): Julian Lugrin; musica: Dorita Y. Pete; montaggio: Stanley Smith; interprete: Vittorio De Sica; produzione: Christopher Lee Smith per Santa Lucia; origine: Italia; durata: 45’.

1958 | Ritratto d’attore: Vittorio De Sica

Programma a cura di: Fernaldo Di Giammatteo; produzione: Rai-Radiotelevisione italiana; origine: Italia, 1958; prima trasmissione televisiva: 1 marzo 1959. 1964 | Vittorio De Sica. Autoritratto

Regia: Giulio Macchi; sceneggiatura e adattamento: Gian Luigi Rondi; montaggio: Fausto Flammini; interventi di: Giuseppe Amato, Leonardo Cortese, Carla Del Poggio, Marcello Girosi, Emma Gramatica, Franco Interlenghi, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Mario Mattoli, Paolo Stoppa, Sergio Tòfano, Cesare Zavattini; origine: Italia; prima trasmissione televisiva: 13 marzo 1964. 1974 | Vittorio De Sica. Il regista, l’attore, l’uomo

Regia: Peter Dragadze; soggetto e sceneggiatura: Peter Dragadze, Alfredo Leto; fotografia: Ennio Guarnieri; musica: Manuel De Sica; montaggio: Raimondo Cruciani; produzione: Rai-Radiotelevisione Italiana; origine: 1974; prima trasmissione televisiva: Rai Uno, 17 ottobre 1974. 1974 | Les pères du néo-réalisme

Regia: Michel Random; soggetto e sceneggiatura: Michel Random; fotografia (colore): Michel Bonnat; produzione: Antenne 2; origine: Francia. 1983-1984 | Viva De Sica

Regia: Manuel De Sica; collaborazione alla realizzazione: Luisa Alessandri; voce narrante: Gina Lollobrigida; riprese filmate: Sebastiano Rendina, Alessandro Macajone; montaggio: Antonio D’Onofrio; produzione: Studio D per Rai-Radiotelevisione italiana; date delle programmazioni televisive: “Gli anni trenta”, 29 dicembre 1983; “Pane, amore e…gioco”, 5 gennaio 1984; “I potenti”, 12 gennaio 1984; “La realtà”, 19 gennaio 1984; “Le donne”, 26 gennaio 1984; “I bambini”, 9 febbraio 1984, “Vittorio e gli altri”, 16 febbraio 1984. 1991 | “Parlami d’amore Mariù”. La vita e l’opera di Vittorio De Sica

Regia: Anna Maria Bianchi; ideazione: Giancarlo Governi; autori: Christian De Sica, Luca Verdone, Anna Maria Bianchi; montaggio: Nicola Pittone; produzione: Rai-Radiotelevisione italiana / Rino Maenza e Vittoria Cine; origine: Italia; programmazioni televisive: 7 puntate dal 5 settembre 1991. 2001 | Vivere. Un’avventura di Vittorio De Sica

Regia: Franco Bernini; soggetto: Bruno Restuccia; sceneggiatura: Franco Bernini con la collaborazione di Sandro Veronesi; fotografia: Vincenzo Marinese; scenografia: Marianna Sciveres; montaggio: Carla Simoncelli; interpreti: Marco Paolini, Toni Bertorelli; produzione: Passo Doble Film in collaborazione con Iole Film; origine: Italia.

Testi di Vittorio De Sica

Vittorio De Sica, Napoli e i suoi personaggi, Rizzoli, Milano, 1968. Vittorio De Sica, Lettere dal set, a cura di Emi De Sica e Giancarlo Governi, Sugarco, Milano, 1987. Vittorio De Sica, La porta del cielo. Memorie 1901-1952, con introduzione di Gualtiero De Santi, Avagliano editore, Cava de’ Tirreni, 2004. Paolo Nuzzi e Ottavio Jemmi, De Sica & Zavattini, Parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, Roma, 1997. Soggetti e sceneggiature

Alberto Bevilacqua (a cura di), Il giudizio universale, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1961. Orio Caldiron e Manuel De Sica (a cura di), Ladri di biciclette, Editoriale Pantheon, Roma, 1997. Gualtiero De Santi e Manuel De Sica (a cura di), I bambini ci guardano, (sceneggiatura desunta), Editoriale Pantheon, Roma, 1999. Gualtiero De Santi e Manuel De Sica (a cura di), Il tetto, Editoriale Pantheon, Roma, 1999. Gualtiero De Santi e Manuel De Sica (a cura di), Ieri oggi domani, Associazione Amici di Vittorio De Sica, Roma, 2003.

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Massimo Angelillo, in «Rivista del Cinematografo», XLIV, n. 1, gennaio 1971. Giovanni Grazzini, in «Corriere della Sera», 27 dicembre 1970. Lo chiameremo Andrea

Ermanno Comuzio, in «Cineforum», n. 118, ottobre-dicembre 1972. Sergio Frosali, in «La Nazione», 28 ottobre 1972. Tullio Kezich, Il Millefilm, cit.

Una breve vacanza

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Indice

Verità e umanità del cinema Vittorio De Sica L’educazione del cuore Le opere dell’esordio Rose scarlatte Maddalena… zero in condotta Teresa Venerdì Un garibaldino al convento Verso un nuovo cinema: I bambini ci guardano I tempi oscuri della guerra La lingua pura del neorealismo Sciuscià Ladri di biciclette Miracolo a Milano Umberto D. Entr’acte Stazione Termini La luce viva del popolo L’oro di Napoli Il tetto La Ciociara Le favole e le immagini del boom Il giudizio universale La riffa “I sequestrati di Altona” Il boom Tra il vecchio e il nuovo mondo Ieri oggi domani Matrimonio all’italiana Un mondo nuovo Il set internazionale Caccia alla volpe “Una sera come le altre” Sette volte donna Amanti Ritorno alla storia I girasoli Il giardino dei Finzi-Contini Il percorso estremo Un leone e i “nuovi mostri” del divismo

Lo chiameremo Andrea Una breve vacanza Il viaggio

Filmografia Nota bibliografica