Usi del disordine. Identità personale e vita nella metropoli 8876483713, 9788876483714


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Italian Pages 192 [191] Year 1999

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Usi del disordine. Identità personale e vita nella metropoli
 8876483713, 9788876483714

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Richard Sennett (Chicago 1943) insegna sociologia alla New York University e alia London School of Economics. In Italia sono stari tradotti Autorità: subordinazione e insubordinazione. L’ambiguo vincolo tra il forte e il debole (Bompiani 1981), Il declino dell'uomo pubblico (Bompiani 1982), La coscien­ za dell'occhio. Progetto e vita sociale nelle città (Feltrinelli 1992). Nel 1999 ha ottenuto il premio Amalfi per "Nuove prospettive delle scienze sociali".

Richard Sennett Usi del disordine Identità personale e vita nella metropoli

costa &nolan

Ringraziamenti

L’idea di scrivere questo libro mi è venuta un mattino durante una passeg­ giata fatta assieme a Erik Erikson nei pressi del cimitero di una cittadina del New England. Devo quindi ringraziarlo per il suo continuo incoraggia­ mento nei mesi seguenti. Vorrei anche ringraziare Jon Cobb, Jane White e mia moglie, Carol, per avermi aiutato a dare una logica alle mie riflessioni. Infine, ho un debito speciale con Angus Cameron che mi è stato di grande aiuto nel definire meglio gli obiettivi durante la stesura di questo volume.

Titolo originale: The Uses of Disorder. Personal lelentity and City Life Copyright © 1970 by Richard Sennett Copyright © 1992 W.W. Norton & Company, Ine. New-York, London Tutti i diritti sono riservati Traduzione di Loriano Salvadori Grafica Olga Bachschmidt costa & nolan Copyright © 1999 Editori Associati srl Ancona-Milano ISBN 88.7648.371.3

A Carol

Introduzione

Durante gli anni Sessanta, persone di origine sociale e opinioni politiche diverse hanno mostrato una certa attenzione alla necessità di dare una forma nuova al vivere quotidiano nelle città. Le rivolte di quegli anni hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla povertà dei neri, ma soltanto i giovani, che negli anni Sessanta si sono risvegliati dopo il silenzio delle generazion£ precedenti, .hanno dimostrato un interesse per la città e la vita cittadina che, con il passare del tempo, è diventato sempre più vasto e generalizzato. Nella vita all’interno della città, le giovani generazioni hanno visto la possibilità di sviluppare un senso di fratellanza e un nuovo tipo di calore umano.che, per il momento, viene indicato con il termine generico di “comunità". In generale, la ricerca di un rapporto e dFuna qualsiasi forma di condivisione da parte dei giovani al di fuori del ghetto delle comunità urbane ha avuto un carattere autolesionistico. Alcuni hanno provato a cercare questo senso di appartenenza nel ghetto stesso, ma la solidarietà propria delle comunità nere è stata acquisita a costo di molte sofferenze e non per un utilizzo all’esterno della comunità stessa. I neri hanno finito per suggerire ai ric­ chi benestanti di ricercare il calore umano all’interno di loro stessi. Altri hanno cercato di trovare un senso di comunità con la radicalizzazione della classe operaia, la quale però, nella fase attuale, non è alla ricerca di un accordo per una possibile alleanza con gli studenti e ha reagito con durezza, quando ha deciso di reagire. Per questi motivi, tra i giovani - bianchi, ricchi e

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infelici con gli schermi protettivi che i genitori hanno disseminato loro attorno - la ricerca di un senso di comunità si è trasformata nell’individuazione di alcuni princìpi esistenziali. Il processo di esclusione ha indiriz­ zato questa ricerca verso un onesto processo di autoanalisi che ha anche portato a una stasi dell’azione volta a un rinnovamento sia sociale che personale. Che cosa può voler dire per un bianco istruito e benestante l’awertire un senso di comunità? La gente nei sobborghi ha un senso di interezza, il senso di possedere un’identità, di un “noi” inteso come comunità; e tuttavia, questo tipo di coesione sociale è esattamente ciò da cui la maggior parte delle persone che vive nei sobborghi di periferia sta cercando di fuggire. Si tratta di unidea di libertà racchiusa in un nuovo e vago ideale di comunità; ma quale tipo di libertà esiste nella comunità oltre la liber­ tà dai desideri materiali? È ovvio che non è un problema da poco, e neanche una questione secondaria dal punto di vista storico. Ci troviamo davanti alla prima generazione che è vissuta contemporaneamente con l’acquisizione del benessere come elemento caratterizzante e con tutte le proble­ matiche relative alla sua gestione. La spinta al cambia­ mento emersa negli anni Sessanta è giunta a un impasse proprio perché questa generazione non dispone più dei vecchi luoghi in cui nascondersi e, pertanto, non può far fìnta di trovare un’identificazione con le voci dei neri o dei bianchi poveri. Il problema reale di esercitare una vita associativa senza difficoltà di ordine materiale, senza dover lottare per poter soddisfare i propri bisogni e desideri, si è rivelato di difficile soluzione. Oltretutto, la generazione che ha co­ struito quel benessere non è stata in grado di fornire un modello in quanto la tanto pretesa innocenza dei sob­ borghi non sembra essere l’ideale per far nascere una vita associativa; ha, invece, tutti i caratteri di una servitù volontaria nei confronti di una condizione agiata che si pretende serena. Se e quando gli Stati Uniti metteranno fine alla loro avventura nel Vietnam, se la gente sarà messa in grado di trarne una lezione e mettere così una moratoria alle infinite spese militari, assisteremo a un enorme aumento

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di fondi disponibili che potranno e dovranno essere inve­ stiti in un processo di rinnovamento all’interno del paese. Il vuoto generazionale si proporrà in maniera del tutto nuova. Si pone, allora, con urgenza, una domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo risolvere il problema degli alloggi, dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria nelle aree più povere delle città? Dobbiamo continuare a co­ struire come abbiamo fatto finora, in modo da alimentare nei neri e nei bianchi poveri un disagio avvertito anche dai figli dei bianchi, nuovi figli del benessere? Con sempre più forza, i poveri danno voce alle loro accuse nei confronti del vecchio sistema; sostengono che i ghetti dei quartieri eleganti sono comunque migliori se messi a con­ fronto con le meraviglie promesse loro dai nuovi piani per gli alloggi; così come stanno le cose oggi, qualcosa di essenziale definito “comunità” viene oscurato dal soprag­ giungere di forme di benessere nella vita cittadina. Il benessere oltre la linea della Rivoluzione

Uno degli aspetti più inconsueti della moderna vita comunitaria è che tale problema si è spesso incrociato con la linea della Rivoluzione. L’ordine postrivoluzio­ nario in Russia e nei paesi satelliti più ricchi sembra esposto a un complesso di pericoli che pareva fossero stati messi a tacere durante lo svolgersi del processo rivoluzionario. I giovani di questi paesi avvertono come fastidioso l’uso del benessere fatto dai genitori e la loro ostinata semplicità, tipica delle famiglie di burocrati, assieme alle strutture della vita quotidiana che sembra­ no così mortalmente noiose ai giovani di Mosca come ai loro coetanei di New York. Si pone nuovamente il problema circa l’uso che possiamo fare della vita comu­ nitaria quando, finalmente, sia stata raggiunta la libertà dal bisogno? La Rivoluzione ha ridistribuito la ricchez­ za; costituisce comunque un problema il fatto che pro­ prio la Rivoluzione non abbia fissato la quota di benes­ sere finale da utilizzare nella vita comunitaria, così come non abbia stabilito a che cosa dovrebbero dedicarsi gli esseri umani una volta che non hanno più bisogno di lottare per avere abbastanza di cui cibarsi.

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Sono molti i rivoluzionari che hanno espresso la pre­ occupazione per ciò a cui la società deve dare sostegno, oltre alle vecchie piaghe. Al pari dei giovani d’oggi, la loro riflessione ha posto l’attenzione su quale tipo di condivisione di spazi comuni nella comunità dovrebbe esistere in condizioni di relativo benessere economico. Studiosi come Herbert Marcuse e Franz Fanon hanno fornito una risposta precisa. Ritengono che la transizione rivoluzionaria debba essere un’esperienza emotiva che trascenda lo sbarazzarsi della tirannia; si dovrebbe tratta­ re di un tipo di educazione che abitua gli uomini ad accettare una certa dose di anarchia e di disordine nella loro vita. Cambiare i leader di una società senza variare la quan­ tità di disordine che la società stessa dovrà sopportare durante il processo di cambiamento può significare, in ultima analisi, non avere alcuna rivoluzione. Questo fatto lo capì molto bene Marx negli scritti giovanili del 1844 quando scriveva che l’essere liberi in un mondo postri­ voluzionario doveva trascendere il bisogno di ordine. Tut­ tavia, nelle prime opere di Marx, era presente l’idea che l’abbondanza e il benessere economico avrebbero rimosso il bisogno strutturale di ordine della società. In quella fase del suo pensiero, Marx riteneva che l’ordine repressivo avesse origine e si allargasse, non soltanto partendo da un’ineguale distribuzione della ric­ chezza, ma anche dalla limitatezza della stessa. È il motivo per cui critici come Sartre vedono in Marx il filosofo dell’abbondanza, in una società che potrebbe esistere al di là dell’ordine determinato dalla penuria dei beni. Tra gli autori rivoluzionari che hanno compreso come questa idea di libertà non si sarebbe realizzata con una semplice redistribuzione delle ricchezze, Franz Fanon, psichiatra algerino, è stato il più esplicito nell’illustrare in dettaglio il tipo di struttura comunitaria necessaria in una società postrivoluzionaria con l’obiettivo di giungere a un’esistenza non dettata dai canoni dell’abitudine e della routine. Secondo Fanon, la libertà insita nel fare la rivoluzione può continuare a esistere soltanto finché i rivoluzionari si mantengono al di fuori dei confini della vita cittadina. Fanon riteneva che i rivoluzionari doves­ sero guardare alla città come a un insediamento umano,

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a una comunità di uomini ostili perfino alla forza del loro stesso impegno. Pensava anche che le necessità della burocrazia e il carattere anonimo dei contatti umani con­ tribuissero, in sostanza, ad annullare il senso di oppres­ sione di tutti quegli individui che aspiravano a condivi­ dere una vita migliore, più giusta per tutti. Nello stesso identico modo, i grandi agglomerati urbani avrebbero spaventato gli uomini spingendoli a seguire abitudini sicure in cui sapevano cne non sarebbero mai stati so­ praffatti Di conseguenza gli individui sarebEero stati stimolati a creare propri spazi sicuri, e avrebbero finito per perdere la loro carica rivoluzionaria. Questo atteggiamento negativo nei confronti della città da parte dei leader rivoluzionari, messi in difficoltà da quanto poi si è verificato in Russia, è profondamente radicato, come si può ben vedere nel processo di mitiz­ zazione dei contadini effettuato da Mao Tse-tung e, suc­ cessivamente, anche da Fidel Castro. Lo si può vedere chiaramente anche tra i teorici della guerriglia, che in misura sempre crescente abbandonano la lotta nelle città, considerate luoghi senza speranza, per diffondere la fiam­ ma degli ideali rivoluzionari in settori sempre più ampi della popolazione delle campagne. La paura nei confronti della città mostrata da intellet­ tuali come Fanon spinge a fissare un limite alla libertà individuale. Tenersi fuori dalla vita cittadina può mante­ nere intatta là spinta verso la solidarietà, ma può costar caro; vi è infatti il rischio che nel rivoluzionario si affermi una visione troppo semplicistica che riduce la vita a quella possibile in un ambiente tribale o nel piccolo villaggio. Quando persone molto diverse vivono assieme in un grande insediamento urbano, il prezzo per tener vivo lo spirito rivoluzionario diventa, esso stesso, una forma di schia­ vitù, un freno alla diversità nel sociale. Per ironia della sorte, la spinta a evitare la routine viene gratificata dal rendere claustrofobici i confini sociali dell’esistenza. In aggiunta, non vengono affrontati i problemi rela­ tivi a un’organizzazione sociale su larga scala. La formula, il cui esercizio rappresenta un’ammissione di impotenza nell’affrontare e cambiare le stesse strutture burocrati­ che, è più di tipo tribale e privato di quanto sia invece impersonale e burocratica. In questo modo, le teorie

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sostenute da un rivoluzionario contrario al processo di urbanizzazione cozzano contro il problema ora affron­ tato dalle “nuove sinistre” dei paesi occidentali: come è possibile sottoporre a un processo di trasformazione gran­ di apparati burocratici con solide fondamenta nelle città in modo tale da migliorare le condizioni di vita della comunità e rendere possibile il processo stesso? È una domanda da tenere ben presente nell’uso del sistema del benessere prodotto dai singoli in modo da non rimanerne soffocati. Penso che Marcuse e Fanon abbiano ragione quando sostengono che bisogna immaginare un nuovo contesto per il disordine ejierTa^IiversitàfTe regole^ 1F abitudini a sopravvivere in condizioni di penuria economica di­ ventano ora del tutto fuori luogo. La mia riflessione trae origine dalla necessità dFcapire come le città, per quanto grandi, caotiche e opprimenti, possano diventare gli stru­ menti per insegnare agli esseri umani a convivere con questa nuova libertà dal bisogno. Ho dovuto iniziare con la premessa di ciò che la storia degli anni del Dopoguerra ha insegnato a questa genera­ zione: le comunità frutto del benessere e dell’abbondanza economica aprono nuove possibilità agli esseri umani di esercitare una forma di tirannia autoimposta, alla stessa maniera in cui offrono loro una nuova libertà. Per essere in grado di comprendere la vita comunitaria della gente libera dalle ristrettezze economiche, c’è bisogno di scanda­ gliare i desideri più oscuri degli individui che la compon­ gono, il desiderio di una sicura schiavitù che le persone fiottano nelle relazioni sociali. Soltanto attraverso l’anaisi di sentimenti di questo tipo la maggior parte degli esseri umani si troverebbe costretta ad ammettere questa realtà e a far emergere con chiarezza la qualità del desi­ derio di libertà assieme ai mezzi per acquisirla in condi­ zioni di moderno benessere. A differenza di scrittori come Erich Fromm e Hannah Arendt i quali affrontano il problema del desiderio di essere schiavi basandosi su un’ampia scala di elementi psicologici, io sono giunto alla conclusione che, quando tale desiderio si trova correlato a una vita comunitaria ricca dal punto di vista economico, assume una forma del tutto specifica: la linea tra schiavitù e libertà nelle

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comunità opulente dipende dal carattere della transi­ zione che consente agli esseri umani di estendere l’età dell’adolescenza nell’età adulta. La tesi di questo libro è che nell’adolescenza compaiono gruppi di forze e deside­ ri che possono portare a forme di schiavitù autoimposte; che l’organizzazione attuale delle comunità urbane inco­ raggia gli esseri, umani a rendersi„schiavi con modalità adolescenziali; che si può rompere questa struttura per acquisire un’età adulta la cui libertà consista nella accpttazjone del disordine e di una rottura dolorosa; che il passaggio dall’adolescenza a questa nuova, possibile età adulta, dipende, dauna struttura dell’esperienza che può verificarsi soltanto in un insediamento umano grande e incontrollabile, in altre parole, in una città. Il libro ha lo scopo di convincere i lettori di qualcosa al momento spiacevole per molti: la giungla della città, la sua vastità e solitudine, ha un valore positivo per l’uomo. Credo davvero che certe manifestazioni del disordine nella vita cittadina debbano essere aumentate in modo da permettere agli individui di passare a una piena età adulta; mi auguro anche di dimostrare che, in tal modo, gli esseri umani perderebbero la loro inclinazione verso una violenza innocente. A una prima lettura, i conservatori potranno sentirsi confortati da un pensiero di questo tipo poiché potrebbe sembrare che le idee e il malcontento dei giovani possano essere liquidati come delle illusioni dannose destinate a scomparire una volta cresciuti. Invece, è proprio perché la struttura attuale della vita comunitaria originata dal benessere paga un prezzo al liberarsi di nuove forze e passioni nell’età dell adolescenza, come se il loro manife­ starsi in una prima fase della vita non fosse degno di riproporsi in una età più tarda, che questi sentimenti non possono essere pienamente rielaborati. Perciò le spinte verso una schiavitù volontaria rimangono presenti e irri­ solte. Gli adulti nelle comunità opulente sono bloccati dai desideri emersi nella loro adolescenza, che li hanno pro­ gressivamente portati a temere le piene possibilità offerte dalla libertà nell’età adulta. Nella struttura di una grande città, gli esseri umani hanno a disposizione l’opportunità di tirarsi fuori da questo^ impasse; nell’edificazione di città diverse negli obiettivi, la società può fornire agli esseri

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umani l’esperienza di rompere con queste forme di auto­ schiavitù per liberarsi come autentiche persone adulte. Credo che la libertà. di accettare e..vivere ;nel disordine rappresenti Tobiettivo che questa generazione, nella sua ricerca della comunità, ha cercato di raggiungere in ma­ niera vaga e appena abbozzata. Lo sforzo che ho tentato di fare nel ridefìnire e approfondire i termini della ricer­ ca sul senso di comunità è anch’esso troppo vago e appe­ na abbozzato; la mia paura è quella di costituire soltanto una prova, o magari di aver formulato una teoria gene­ rale. Avvertivo comunque il bisogno di porre questo in­ terrogativo alla mia coscienza e mi auguro che anche voi, lettori, sarete mossi a fare lo stesso.

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Parte prima Un nuovo puritanesimo

L’identità purificata

Nel 1928 André Malraux pubblicava il suo primo romanzo, I conquistatori, la storia di alcuni leader della Rivoluzione cinese del 1925. A proposito del libro, l’edi­ tore americano di Malraux scriveva nella quarta di coper­ tina: “Si tratta davvero del primo romanzo moderno in cui il materiale grezzo della politica viene subordinato all’argomento principale: la ricerca di un significato della propria vita da parte dei personaggi”. Il vero soggetto del libro era quella che noi chiameremmo la psicologia della lotta, ovvero le passioni che conducono alla rivoluzione. Al centro del romanzo si trova lo scontro tra due diversi tipi di capi rivoluzionari. Borodin e Garine sono due rivoluzionari russi che si trovano in Cina per gui­ dare i quadri rivoluzionari locali; Hong è un giovane anarchico cinese il quale, all’inizio, fa parte del gruppo di Borodin e Garine finendo poi per entrare in conflitto con entrambi. Borodin e Garine sono rivoluzionari marxisti ma non sono ideologi. La lotta che stanno conducendo si pone in termini di eventi concreti e personalità ben definite, e il loro approccio filosofico alla lotta, prima considerato corretto, si è trasformato con l’evolversi del processo rivoluzionario che sperimentano in prima persona. Borodin e Garine non sono semplicemente dei “tattici”; combat­ tono per un motivo, una causa che comunque non si rivela sorda agli eventi unici e difficili da classificare che la rivoluzione produce in grande quantità. Hong, alla fine loro nemico, è un anarchico e tutta­ via, curiosamente, si dimostra molto più rigido di loro.

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Il suo senso di quale sia la cosa giusta da fare, di ciò che è corretto, si scontra con gli accadimenti della rivoluzio­ ne; nelle sue azioni Hong non mostra alcun desiderio di abbassare il livello ideologico della lotta, non può sotto­ mettersi al caos degli avvenimenti, non può cedere, né lui né il suo impegno, alla prova delle esperienze conflit­ tuali del momento. Al contrario, Hong si deve porre in maniera tale da sembrare che riesca a elevarsi sopra il caos, il suo è un mettersi in salvo mentre gli altri appaiono confusi, al fine di restare caparbiamente immune quando invece Borodin e Garine hanno il coraggio di mostrare i loro dubbi e il loro sconcerto. Sicuramente il dramma che Malraux ha modellato sulle esistenze di questi personaggi - un dramma basato su persone caratterizzate da un forte realismo — deriva dalla loro forza eccezionale in un momento storico particolare. Ma non è il carattere distintivo di questi personaggi a rendere dei rivoluzionari il soggetto degno di un’analisi. Nel carattere di un personaggio come Hong, Malraux distillò l’essenza di certe motivazioni nell’azione che gui­ dano uomini più deboli, meno eccezionali nei loro pro­ blemi quotidiani. È questa affinità nascosta con la routine del mondo che rende Hong così affascinante e le forze che lo animano così rilevanti. Come si può immaginare, lo stato d’animo di giovani medici che stanno per iniziare la carriera di psichiatri può sembrare, almeno in apparenza, lontana, sia nel tono che nel carattere, dalle emozioni provate da uomi­ ni che si battono per la rivoluzione in Cina. Però è interessante prendere in esame i modi in cui questi gruppi così diversi possono essere guidati da una serie di desideri comuni. Recentemente due ricercatori americani, Daniel Leven­ son e Myron Sharaf, hanno compiuto uno studio su un fenomeno specifico rintracciabile nel comportamento di giovani medici psichiatri all’inizio della professione: la tendenza mostrata da molti psichiatri nella fase iniziale della loro carriera professionale di immaginarsi come pic­ cole divinità, del loro rimanere seduti a giudicare i pa­ zienti ostentando un leggero disprezzo. Latteggiamento che Levenson e Sharaf hanno definito come il desiderio

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di onnipotenza degli psichiatri, non è ovviamente genera­ lizzabile, anche se si può trovare con una certa frequenza fra i nuovi terapeuti all’inizio della carriera. Nel corso delle loro ricerche, Levenson e Sharaf sono giunti alla conclusione che il complesso di onnipotenza su piccola scala si verifica in parte a causa del forte timore che i nuovi terapeuti provano di poter essere, in qualche modo, toccati e rimanere coinvolti in modo dolo­ roso dai problemi dei pazienti che, proprio per questo, potrebbero scombussolare la loro identità di individui. L’atteggiamento di porsi in una posizione di giudizio continuo, distanti, con una traccia nascosta di disprezzo, permette loro di difendersi da una paura; in pratica, tracciano in anticipo una linea tra loro e i pazienti in modo da fissare con chiarezza i ruoli e il tipo di relazio­ ne da mantenere. Sia Hong, il giovane rivoluzionario del romanzo di Malraux, che questi giovani medici, hanno utilizzato un genere particolare di forza, il potere di tenersi fuori dal mondo che gli sta attorno, di mostrarsi distanti, magari isolati, definendosi in un modo rigido. Questa chiara autodefìnizione conferisce loro un’arma efficace contro il mondo esterno. Prevengono la possibilità di uno scam­ bio flessibile fra loro e gli uomini attorno a loro; in questo modo acquisiscono una certa immunità al dolore dell’entrare direttamente in contatto con eventi complessi che, altrimenti, potrebbero confonderli, e forse perfino sopraffarli. In Hong questa difesa contro la confusione attraverso una rigida autoimmagine viene usata per re­ spingere la dissonanza originata dalla rivolta rivoluzio­ naria. Rendendosi invariabilmente immutabile negli obiet­ tivi e nelle azioni, Hong può trascendere le esperienze dell’orrore, della colpa sull’assassinio, della pura e tre­ menda tensione che i compagni provano nelle loro batta­ glie con la polizia e gli abitanti delle città. Tra i giovani medici, questo tipo di difesa dalla confusione a mezzo di una rigida autoimmagine li protegge dall’eventualità di sentirsi schiacciati dall’enormità delle sofferenze dei pa­ zienti, un dolore la cui malattia consiste in parte nel fatto stesso che i pazienti non ne hanno alcun controllo. Per entrambi, i rivoluzionari e i giovani medici, la minaccia di essere sopraffatti da diffìcili interazioni sociali viene

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affrontata fissando in anticipo i criteri della loro autoim­ magine, ponendosi cioè come un element^,piutto­ sto che come una persona aperta è con la possibilità di essere toccata in qualche modo da una situazione di inte­ razione nel sociale. In queste azioni di autodifesa il senso del tempo di­ venta più complesso di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Una specifica struttura di comportamento, diffusa fra alcuni urbanisti apparentemente lontani da entrambe le due situazioni, ne mostra il livello di com­ plessità. La tecnica di pianificazione dei grandi insediamenti umani sviluppatasi negli ultimi cento anni ha costituito lo strumento per definire i “bisogni proiettivi”. In so­ stanza, significa calcolare il futuro spazio fìsico e le richieste sociali di una comunità o di una città su cui, poi, basare la spesa e l’energia potenziale in modo da essere preparati ad affrontare la situazione futura pro­ gettata. Nella progettazione del lavoro scolastico, nella sua fase iniziale, gli studenti sostengono di solito che la vita delle persone nel tempo è varia e imprevedibile, che le società hanno una storia nel senso che fanno ciò che non ci si aspettava da loro, al punto da rendere fuorviante lo strumento stesso. Gli insegnanti che pro­ grammano il loro lavoro replicano in genere che, natu­ ralmente, il bisogno progettato sarebbe mutato con le obiezioni pratiche verificatesi nel corso della loro ela­ borazione; l’analisi del bisogno proiettivo come model­ lo delle condizioni ideali piuttosto che una ricetta fìssa. Tuttavia, in anni recenti, i risultati della programma­ zione hanno mostrato che questo processo di discono­ scimento da parte degli urbanisti costituisce qualcosa che neanche loro intendevano davvero come tale. Gli urbani­ sti che hanno progettato le autostrade e la ricostruzione degli insediamenti urbani, e che hanno dato vita a pro­ getti di rinnovamento del centro cittadino, hanno consi­ derato le sfide lanciate loro da comunità o da gruppi della stessa come una minaccia alla validità dei loro piani piuttosto che come un elemento naturale del tentativo di ricostruzione del sociale. Di continuo, nella cerchia ristretta degli urbanisti di professione, si sente parlare di una paura manifesta quando gli esseri umani interessati

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dai programmi di cambiamento diventano anche lieve­ mente interessati ai rimedi proposti per le loro esistenze. “Interferenza”, “blocco”, “interruzione dellavoro” sono i termini con i quali vengono definite le sfide sociali o le deviazioni dalle previsioni degli urbanisti. È successo, invece, che gli urbanisti hanno voluto proporre in anti­ cipo il loro piano, La loro previsione come delle “vere” svolte storiche, degli imprevedibili spostamenti in tempo reale di vite umane. In nome di quale logica gli urbanisti dovrebbero es­ sere orientati a ritenere che si tratti di argomenti da affrontare in modo diverso, costituirà un argomento che tratterò in dettaglio più avanti. Gli elementi fonda­ mentali del loro modo di vedere possono essere già individuati con quello che abbiamo visto finora. Que­ sto tipo di pianificazione della città rappresenta la pro­ iezione di un gruppo rigidamente arroccato sulla pro­ pria autoimmagine simile, nelle sue motivazioni, alle rigide autoimmagini già incontrate fra i giovani rivolu­ zionari e i giovani medici psichiatri all’inizio della car­ riera. In questo futuro proiettato si trova infatti un modo per negare la dissonanza e i conflitti inattesi del­ la società. Questo atteggiamento rappresenta lo stru­ mento per una negazione del concetto di storia, vale a dire che una società si rivelerà diversa da come ci si aspettava che fosse nel passato. In questa maniera, un urbanista seduto al suo tavolo può restare insensibile verso un mondo esterno che gli è ignoto, allo stesso modo in cui un giovane dottore rimjne insensibile~alla paura quando deve trattare con i proprFpazienti, inter­ pretando cosi il ruolo di un “piccolo dio”, distante ed estraneo. Affinché funzioni questo meccanismo di difesa, si rende’ necessario un modo di pensare che ha radici millenarie, una paura delle origini della diversità uma­ na che crea la storia nel suo più vero significato. Quando questa difesa impaurita nei confronti di un futuro ignoto diventa primaria nella vita di un indivi­ duo, un futuro accettabile può essere concepito soltanto nella riproduzione di una forma identica def presente, come condizione esistenziale di un individuo o di un gruppo i cui caratteri sono determinati in modo rigido e sono.anche .privi di sorprese nascoste^

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L’ottimo libro di Norman Cohn, The Pursuit of the Millenium (1970), prendeva in esame la vita di popoli marginali e i culti più rari nel periodo medioevale il cui senso del tempo era regolato in questo modo, li libro si conclude con un saggio stimolante che mette in relazione le fonti dei moderni movimenti millenaristici, come il nazismo in Germania, con i modelli del passato. Studiosi come Cohn sono, a mio avviso, esempi di un fenomeno urbano persino più generalizzato di quanto lo stesso Cohn ritenga. Millenaristi di questo tipo hanno interpretato fino in fondo un modello endemico della paura degli esseri umani, le cui tracce si possono ritrovare nei com­ portamenti di persone cosiddette razionali come i giova­ ni medici psichiatri di cui sopra o degli urbanisti che progettano le città, e contemporaneamente anche di lea­ der laici come l’anarchico che Malraux ha descritto nel suo romanzo. T1 modello di questa struttura della paura e dell’autoconcetto deriva chiaramente dalla religione. Il processo -de£aÌtfQ,. G.noj.a__si. può definire come la ricerca della purezza. L’effetto di questa struttura -difensiva consiste nel creare nella gente il desiderio di purificazione nei termini in cui essi si vedono in relazione affi altri L’azione necessaria al tentativo di costruire un’immagine o un’iden­ tità che sia coerente e unitaria serve da filtro alle minac­ ce nell’esperienza del sociale. Naturalmente gli sforzi di purificazione del sé che si verificano in persone profon­ damente religiose non può essere ridotto o semplificato in modo da darne una spiegazione in termini di paura dell’ignoto. Nel sociale, la paura di perdere la propria identità a causa di minacce esterne gioca spesso un ruolo rilevante nelle conversioni religiose. Il rilievo dato da Michael Walzer al senso di coesione esistente nella comunità puritana originale, nel suo studio sulle origini della coesione sociale, mostra come gli sconvolgimenti del cambiamento sociale e un futuro ignoto hanno fatto nascere tra i puritani la grande paura di non sapere più, loro stessi, chi fossero. A sua volta, questa paura ha determinato, nelle questioni di stretto carattere religio­ so, il desiderio di trovare un’identità assoluta per potersi finalmente e pienamente riconoscere l’un l’altro come veri credenti.

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La ricerca della purezza in termini più moderni, meno condizionati dalla religione, corrisponde per alcuni al com­ portamento tenuto da Hong, il cui desiderio di crearsi un’autoimmagine assolutamente chiara e priva di ogni ambiguità lo rende immune al mondo esterno. L’elemen­ to discordante della vita nel sociale di un individuo può essere liquidato come irreale perché non si adatta a quel particolare oggetto che autoconsapevolmente ha decifrato una serie di credenze, piacevoli e spiacevoli, e abilità che l’individuo assorbe nel corso della sua esistenza per cer­ care di essere se stesso. In questo modo, .il grado in cui le_p_ersone ji sentono spinte a continuare ad affermare .YQgliono_e gjieho _che sentono, è quasi.-,Wl^Ì