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Italian Pages 550 Year 1984
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Aree di movimento nella metropoli a cura di Alberto Melucci
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STUDI E RICERCHE GEXXII.
ALTRI CODICI Aree di movimento nella metropoli
a cura di Alberto Melucci
SOCIETÀ EDITRICE IL MULINO
_ ISBN 88-15-00353-3
Copyright © 1984 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
INDICE
Prefazione, di Alberto Melucci
11
Alla ricerca dell’azione, di Alberto Melucci I, DI 35 4.
OLI
Molti perché
15 27 38 48
Mosaici del metodo Tra il dire e il fare
Nuovi perché
Giovani
sul territorio
urbano:
l’integrazione
minimale, di Giovanni Lodi e Marco Grazioli
III.
IV.
15
63
da I movimenti giovanili tra innovazione culturale e azione politica DI L’area milanese come specchio delle culture e delle forme di azione giovanile DI Le dimensioni dell’azione collettiva dei giovani come attori di movimento 4. Conclusioni
103 123
Militanti di se stesse. Il movimento delle donne a Milano, di Marina Bianchi e Maria Mormino
127
ib La configurazione del movimento delle donne nell’area milanese . Le dimensioni dell’azione Il movimento delle donné come attore collettivo Il gruppo naturale Alcuni problemi di concettualizzazione . Conclusioni DSUÙAWN
128 141 148 156 166 IA!
Ecologia: quali conflitti per quali attori, di Cirzia Barone
175
de Azione ecologista e mobilitazione antinucleare
LT
>)
63 a
2. L’ecologismo in Italia e le aggregazioni dell’area milanese. Una mappa 3. Cultura ecologista e trasformazione della società. Un approccio «dall’alto»: il collettivo di redazione de «La Nuova Ecologia» 4. Un approccio «dal basso»: il gruppo di lavoro Ecologia 15 5. Conclusioni
Mai52 191
205 ZIO
L’area della «nuova coscienza» tra ricerca indivi-
duale ed impegno civile, di Mario Diani
223
1. Introduzione 2. L’incontro con l’Oriente 3. Il Centro Ghe Pel Ling: un gruppo «metropolitano» . L’esperienza spirituale: la pratica, il maestro . La solidarietà collettiva, l’organizzazione, il «conVa
223 226
tratto»
. I contenuti «conflittuali» dell’azione . L'esperienza religiosa tra integrismo e laicizzazione — 8. L’area della «nuova coscienza»: strutture di servi-
230 234
25% 243
Na
zio, centri di meditazione, gruppi devozionali 9. La solidarietà, il mondo, il maestro 10. L’antagonismo simbolico, la «vita alternativa», l’integrismo 11. Conclusioni
VI.
La mobilitazione collettiva negli anni Ottanta: tra condizione e convinzione, dî Marco Grazioli e Giovanni Lodi 1. Verso l’identificazione dei fattori di facilitazione 2. La dimensione storica della mobilitazione collet-
251 256 260 265
267 267
. Un nuovo spazio di mobilitazione collettiva? . Forme di mobilitazione nelle aree di movimento ASSI O . Conclusioni
286 DI 296 309
L’oscuro oggetto del desiderio: /eadership e potere nelle aree di movimento, di Mario Diani e Paolo R. Donati
315
1. Movimenti senza leaders?
55)
tiva
VII.
247
6
. La teoria: uno sguardo critico . La leadership nei nuclei . La leadership di area NMUDAWN . Conclusioni
VIII.
Il potere della definizione: le forme organizzative dell’antagonismo metropolitano, di Paolo R. Donati e Maria Mormino . L’intreccio tra la proposta e la sua creazione Obiettivi Aree di movimento e ambiente Allocazione delle risorse Ruoli e divisione del lavoro . Distribuzione e scambio di incentivi . Ideologia SINIE COTONE . I labirinti dell’identità: la cultura e le norme
IX.
Ideologia, azione simbolica e ritualità: nuovi percorsi dei movimenti, di Joseph Sassoon . . . .
L'ideologia come residuo Ideologie e legittimazione Dimensione simbolica e nuove forme di rivolta Sfide simboliche I rituali . Tamburi metropolitani . Insidie
x.
Movimenti Melucci
349 349 352 334 365 369 32 376 378
385 386 390 393 397 406 410 413
in un mondo di segni, di Alberto
1. Fine dei movimenti? 2. Società di informazioni
3. Contro/sensi
Bibliografia
519 325 335 342
417 417 429 435
449
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https://archive.org/details/altricodiciareed0000unse
«When I use a word — Humpty Dumpty
said in a rather scornful tone — it means just what I choose it to mean, neither more or less». «The question is — said Alice — whether you can make words mean so many different things». «The question is — said Humpty Dumpty — which is to be master, that's all». Lewis Carrol, Through the Looking-Glass
«Where
is the wisdom we have lost in knowledge? Where is the knowledge we have lost in information?». Thomas Stearns Eliot
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PREFAZIONE
Dei movimenti si è persa traccia, eppure molti ne parlano. Per commemorarli, per biasimarli, per auspicarli. Abbiamo voluto semplicemente interrogarli. E ascoltarli. Siamo andati a cercarli dove il silenzio li nascondeva. Nelle pieghe delle metropoli, nella rete nascosta ma viva dei gruppi, dei luoghi, delle esperienze. Dove le spinte profonde del cambiamento operano senza clamore, ma in modo irreversibile. Dove il passato è alle spalle e il domani un’avventura che si è disposti a rischiare. Per fare il nostro mestiere intellettuale. Di sociologi e di ricercatori. Per vedere e per capire, senza rinunciare ad essere appassionati. Sapendo che la conoscenza è una risorsa fragile, ma che c’è dignità e fatica nel conoscere. E che può capitare di essere diversi, dopo. Quattro anni di lavoro per una ricerca. Un gruppo numeroso, con una storia di entusiasmi, di difficoltà, di scoperte, che interessa solo quelli che l'hanno vissuta. E ora un libro che condensa, in troppe pagine ancora, e in troppo poche, il risultato laborioso di questo percorso. Siamo andati a incontrare gli attori dei movimenti dove si trovavano. Non per metterli sotto vetro, né per portar loro un messaggio. Ma per proporre uno scambio, che ancora oggi ci appare onesto. Il nostro sapere, esitante talvolta ma reale, in cambio dell’azione. Già, perché è dell’azione che volevamo conoscere. Non delle opinioni o delle frequenze. Ma dell’azione che si orienta e si costruisce, riconoscendo limiti e risorse, decidendo e scambiando, sulla base di ciò che sa e di ciò che è disposta a rischiare, o a cre-
dere. Non ci interessava un’azione qualunque. Volevamo studiare dei movimenti. Un’azione cioè che non prende la società come un dato, ma la interroga e la discute, ne smaschera il potere, la cam-
bia talvolta. Di questa azione si sa ben poco. Ne parlano gli ideologi per celebrarne i fasti passati. O i chierici del potere per relegarla negli angoli bui del nonsenso.
11
Abbiamo corso il rischio di un metodo inusuale. Che permettesse a noi di vedere in azione i processi per cui un movimento esiste e si riconosce per ciò che è. E che permettesse agli attori dei movimenti di riflettere su di sé, di ritornare sulla propria azione per immettervi un sovrappiù di conoscenza.
Milano è stata il nostro campo. Metropoli alla periferia dell’impero, ma pur sempre toccata dalle spinte vorticose di cambiamenti che riusciamo appena a nominare. Abbiamo incontrato gruppi di giovani, di donne, di ecologi. E gruppi di quell’area che troppi considerano solo variopinta, senza raccogliere l’interrogativo inquietante che sta dietro la ricerca di una «nuova coscienza». Con alcuni di questi gruppi abbiamo trascorso molte ore, a giocare l’azione e a coglierne i nessi. Facendo del video il nostro occhio e del nostro mestiere di sociologi una guida aperta sul dubbio. Abbiamo osservato come ci si riconosce nell'azione. Come si organizzano le differenze e il potere. Come si percepisce ciò che sta fuori del gruppo. Il materiale raccolto è stato il nostro oggetto di analisi. Abbiamo messo in gioco quanto la teoria e l’esperienza ci offrivano. E quanto eravamo capaci di far fruttare. Questo libro raccoglie ciò che abbiamo ricavato. Le differenze che hanno fatto la nostra ricchezza durante la ricerca, sono ancora tutte presenti. Non abbiamo prodotto un trattato, ma un libro che porta sui movimenti contemporanei delle conoscenze e degli interrogativi. Le une e gli altri sono il nostro provvisorio, ma convinto, bilancio.
Il libro presenta nella prima parte i saggi sulle aree studiate. Nella seconda analizza le dimensioni che sono state oggetto della ricerca. Il saggio introduttivo passa in rassegna i problemi teorici e metodologici affrontati. Quello conclusivo sintetizza e discute i risultati. Sui movimenti abbiamo imparato qualcosa. Sappiamo che essi esistono anche nel silenzio. Sappiamo che ciò che portano è vitale per le società dei segni. Sappiamo che senza la creazione paziente dei movimenti, senza la loro sfida sui codici, i sistemi contemporanei cesserebbero di interrogarsi sul senso, per chiudersi nell’ordine asettico delle procedure.
A.M. Questa ricerca è stata finanziata con contributi del CNR (7902029; 8100429; 8201236; 830090) del Ministero della Pubblica Istruzione. Un contributo, per la parte relativa al movimento delle donne, è venuto
12
anche dal Centro Studi Devianza e Emarginazione della Provincia di Milano. Il Servizio Audiovisivi dell’ Assessorato Cultura della Provincia ha fornito il supporto tecnico per il montaggio dei feed-back. L’OPPI di Milano ha messo a disposizione una sala per la ripresa (con l’assistenza tecnica di Vincenzo Samson). Roberto Minini ha curato le riprese. Franca Olivetti ha condotto la supervisione del gruppo dei ricercatori nella fase di trairing. Al lavoro di ricerca hanno partecipato in tutte le sue fasi Antonio Valente e Lorenza Zanuso, che non hanno però potuto contribuire alla stesura finale dei saggi. Nel corso di quattro anni questa ricerca ha accumulato debiti di riconoscenza verso molte persone, che sarebbe difficile nominare per esteso. Vanno ricordati anzitutto i partecianti ai gruppi naturali e ai dibattiti di area, le persone intervistate per la Le chi siete, coloro che ci hanno fornito informazioni sulle aree nella
fase iniziale e nel seguito della ricerca. Due seminari con ricercatori e colleghi di altre Università hanno fornito stimoli e contributi sostantivi, sia sul metodo che sui contenuti. Un montaggio che seleziona parti del materiale videoregistrato è stato realizzato, per uso scientifico interno, a cura
di Laura Benzi. Siano qui tutti caldamente ringraziati.
do
ALBERTO
MELUCCI
ALLA RICERCA DELL’AZIONE
1. Molti perché 1.1. Dualismo
L’emergere di forme di azione collettiva in aree non toccate in precedenza dai conflitti sociali fu negli anni Sessanta l'evento che colse di sorpresa le società più avanzate dell’area capitalistica, avviata apparentemente verso una crescita senza scosse !. L’onda
lunga di questi conflitti si ripercosse sull’azione politica e sulla riflessione teorica, rendendo evidente la crisi degli apparati, organizzativi e concettuali, che dovevano misurarsi col nuovo. Nel corso degli anni Settanta, mentre un lento e faticoso processo di aggiustamento si metteva in moto sul versante delle isti-
tuzioni politiche e culturali, già i movimenti emergenti stavano mutando forma. Le certezze maturate attraverso i conflitti del capitalismo industriale sembravano sbriciolarsi di fronte a fenomeni che non rientravano in alcuno degli scenari consueti. Mentre alcuni, come spesso accade, tentavano affannosamente di adattare
i vecchi quadri, altri riconoscevano che un ampliamento della base conoscitiva e una ridefinizione delle categorie di analisi erano i compiti più urgenti. Questa ricerca è nata con l’intento (e certo anche con l’ambizione) di contribuire al vasto processo di riformulazione, prima
ancora che delle risposte, delle domande da porre ai fenomeni in questione. La necessità di una ricognizione puntuale delle forme empiriche assunte dai movimenti contemporanei sembra raffor-
Giovanni Lodi ha curato la stesura dei paragrafi 1 e 3. Marco Grazioli quella del paragrafo 2; le conclusioni sono state stese in comune. Antonio Valente ha partecipato alla ricerca sul campo e alla discussione preliminare dei risultati.
1 Sui movimenti degli anni Sessanta, che a partire dali Stati Uniti si diffusero in tutti i paesi avanzati, si veda Freeman [1983], Fox Howard [1974], Gerlach e Hine [1973].
15)
Piven e Cloward [1980],
zata dai dati che si vanno accumulando sul funzionamento delle società complesse: a) emerge il carattere permanente e non congiunturale di forme di aggregazione sociale a carattere conflittuale, che si affiancano “le appartenenze più consolidate (classi, gruppi di interesse, associazioni) e che, nella variabilità dei loro tratti empirici, si presentano tuttavia come componenti stabili e irreversibili della struttura di società complesse ?; b) queste realtà svolgono nel tessuto metropolitano una funzione di socializzazione e di partecipazione sommersa, che crea nuovi canali di formazione e di reclutamento delle élites, accanto a quelli più noti ed eplorati; le vie tradizionali della socializzazione
politica, dell’innovazione culturale, della modernizzazione istituzionale si trovano cosî ridefinite, lasciando spesso smarriti coloro che si ostinano a tenerle in vita};
c) il governo della complessità contiene tra i problemi centrali quelli del rapporto tra sistemi istituzionali di rappresentanza e di decisione, e forme di azione collettiva difficilmente riducibili ai canali preesistenti di partecipazione politica, perciò scarsamente prevedibili nei loro sviluppi e nei loro sbocchi; ciò aumenta i già elevati margini di incertezza dei sistemi complessi ‘. La ricerca è nata dunque per riempire un vuoto conoscitivo e anche per mettere alla prova un orientamento teorico che si è andato definendo nell’arco di un decennio attraverso aggiustamenti successivi [Melucci 1974a, 1976, 1977, 1982]. Essa ha preso le mosse in un panorama di stallo delle teorie tradizionali dell’azione collettiva. Il dualismo tra analisi della struttura e credenze degli attori è stato l’eredità ingombrante di una sociologia carica di sue origini filosofiche (idealistiche o materialistiche) e
incapace di pensare l’azione come sistema e come costrutto relazionale?. I movimenti come effetto della crisi o delle contraddizioni del sistema, oppure i movimenti come realizzazione di fini e di orientamenti si sono i due modi ancora diffusi di affrontare il fenomeno. 2 In questo senso va per esempio la nozione di Socia/ Movement Sector proposta da Zald [Garner e Zald 1981], per indicare quell’area strutturata, ma variabile,
che raccoglie all’interno di una società le diverse «organizzazioni di movimento». 3 Sul ruolo degli intellettuali sul mercato culturale di massa cfr. Rositi [1982]. Sulla crisi della comunicazione politica Grossi [1983], Ferraro [1981].
4 Una sintesi esauriente del dibattito sulle società complesse si trova in Pasquino [1983]. Si veda anche Rusconi [1979], Gallino [1979]. ? Per una riflessione critica su queste tradizioni rinvio in particolare a Melucci [1976, 1982].
16
La consapevolezza dello stallo e l’urgenza di superarlo si è fatta strada negli anni Settanta in due direzioni che si presentano entrambe come tentativi di uscire dal dualismo: Touraine da una parte [1975], e il resource mobilization approach [McCarthy e Zald 1973, 1977, 1979; Gamson 1975; Oberschall 1973; Tilly 1978],
nonché gli sviluppi «costruttivistici» nella teoria dell’organizzazione dall’altra [Crozier e Friedberg 1978]. Identificando il campo dei conflitti come sistema di azione storica, come quell’insieme cioè di orientamenti culturali e di vincoli entro i quali una società si produce, Touraine lega i movimenti alla lotta per il controllo della capacità che un sistema ha di agire su sé stesso. Mantenendo dunque l’ispirazione migliore di Marx, Touraine non rinuncia a cercare nella struttura le ragioni del conflitto, ma intende uscire dal determinismo facendo dei movimenti i produttori conflittuali degli orientamenti fondamentali della società. Di qui discende l’ampio lavoro empirico avviato alla ricerca del movimento centrale delle società post-industriali che dovrebbe occupare il ruolo svolto dal movimento operaio nelle società industriali [Touraine 1978; Touraine ed altri 1978b, 1980, 1981].
Il resource mobilization approach (a cui riconduco qui per comodità autori per molti aspetti diversi tra loro) ha applicato
all’analisi dei movimenti, soprattutto nei lavori di Zald, i risultati dell'enorme sviluppo della teoria organizzativa. Facendo della variabile organizzazione la cerniera fondamentale tra i vincoli-opportunità offerti dal sistema e i comportamenti degli attori, questa prospettiva ha dato all’azione collettiva uno spessore autonomo: essa si presenta infatti come la capacità di un attore di mobilitare risorse all’interno di un sistema di scambi (vincoli/op-
portunità, interno/esterno, ecc.) con un calcolo mutevole e (pit o meno) adattabile dei costi e dei benefici. In presenza di eventi
definiti come movimenti sociali (o come protesta) è possibile cosî spiegare come si forma e come si mantiene nel tempo l’attore collettivo. L’interesse e i limiti di entrambe le prospettive sono visibili nell’accostamento di questi pur sommari richiami. Il problema
6 Cfr. Mc Carthy e Zald [1973, 1977], Zald e Mc Carthy [1979] Gamson [1975], Oberschall [1973], Tilly [1978]. L'apporto di Crozier [Crozier e Friedberg
1978] non ha per oggetto i movimenti, ma ai fini del discorso proposto qui, è ampiamente assimilabile: l’obiettivo è infatti quello di cercare nel costrutto organizzativo e nell’azione strategica il nesso tra attore e sistema.
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con cui si scontra l’analisi di Touraine è di non disporre di alcuno strumento per spiegare il passaggio dal conflitto sistemico all’azione di attori empirici determinati. Il suo merito fondamentale è di aver indicato una via di uscita dal dualismo attraverso una definizione del conflitto sistemico come azione che investe gli orientamenti della produzione sociale: sistema e senso vengono cosf legati nell’azione. Ma in fondo il vecchio problema marxiano del passaggio dalla classe in sé alla classe per sé, dalle contraddizioni strutturali all’azione di classe, anche se non si pone più in termini deterministici (struttura/sovrastruttura) rimane ancora irrisolto.
D’altro canto gli autori americani sono difficilmente in grado di dire qualcosa sull’orientamento, sul «senso» di un movimento all’interno di un sistema. La loro analisi è praticamente indifferente a questo problema e ciò trova riscontro, del resto, nella definizione puramente convenzionale o tautologica di movimento (e di protesta). Movimento finisce per significare tutto ciò che nella società si muove (per o contro che cosa?) e protesta equivale ad ogni comportamento disruptive (disruptive di che?). In realtà l’unico campo possibile di riferimento diventa il sistema politico. L’analisi viene circoscritta di fatto alle azioni rivolte contro un'autorità costituita. Ma, come si può intuire, questa è una riduzione arbitraria e priva di fondamento analitico dei significati dell’azione collettiva, in particolare di quella contemporanea (per una discussione più approfondita di questi problemi rimando al saggio finale di questo volume). 1.2. Conflitti sistemici?
Questa ricerca ha dunque inteso percorrere una strada che tenesse conto delle acquisizioni e dei limiti che ho segnalato. Tenendo sullo sfondo una ipotesi generale sul conflitto sistemico, essa ha analizzato i processi attraverso cui gli attori collettivi emergenti si formano e si mantengono (mobilitazione, leadership, organizzazione, ideologia): e ciò nell’assunto che questo specifico livello di analisi potesse fornire delle risposte sul legame tra determinanti di sistema e azione collettiva. L’ipotesi generale cui ho fatto cenno deriva da un’analisi delle profonde trasformazioni delle società contemporanee. Ne ho dato una formulazione più estesa in Melucci [1982], ma essa può essere sintetizzata nel modo seguente. Le società altamente differenziate producono e distribuiscono risorse crescenti di individuazione: risorse che aumentano cioè la capacità degli individui di produrre
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e riconoscere la propria azione come campo irripetibile e distinto di identificazione. Questo processo ha natura sistemica: le risorse di automia individuale, di autorealizzazione, di differenziazione personale sono infatti la condizione perché i singoli possano funzionare come terminali affidabili ed efficaci di sistemi ad alta densità di informazione”. I sistemi complessi si producono attraverso un'estensione della capacità simbolica e della capacità riflessiva: l'informazione ne diviene la risorsa fondamentale e la struttura bio-psichica individuale nella sua capacità di produrre e decodificare segni funziona come medium universale. D'altra parte, per questa stessa ragione, i sistemi complessi devono assicurare la loro integrazione estendendo il controllo sulle medesime risorse. Essi spostano cioè la regolazione verso la capacità individuale di produrre senso, verso le strutture biologiche e motivazionali dell’agire umano. In questo paradosso sistemico si radicano i conflitti antagonisti nelle società contemporanee 8. Come è subito evidente un’ipotesi di questo genere non si presta in quanto tale a nessuna verifica empirica; spezzoni di conoscenza empirica possono però rafforzarla o indebolirla. La tradizione sociologica europea non ha comunque mai rinunciato a ipotesi cosîf generali a favore di un empirismo operazionale assunto come valore (il quale del resto ha condotto spesso la ricerca statunitense a dimostrare l’ovvio, ma con sofisticate operazioni!). Questa ricerca ha dunque tenuto sullo sfondo l’ipotesi che ho enunciato, assegnandole però sul piano operativo un ruolo residuale; facendola intervenire cioè, come vedremo meglio nel corso di questo libro, solo quando altri criteri di spiegazione erano stati esauriti. Il carattere antagonista dei comportamenti e la natura sistemica dei conflitti non sono stati gli assunti da cui partire, ma piuttosto delle chiavi di lettura da utilizzare quando altri livelli di analisi lasciavano inspiegate parti rilevanti delle condotte osservate. ? Questa ipotesi ha alle spalle molte delle riflessioni contemporanee sulle società complesse e sul ruolo che l’informazione e l'espansione dei sistemi simbolici vi svolgono. Cfr. Gallino [1979], Luhmann [1983]. Sulla trasformazione dei sistemi comunicativi: Luhmann [1981], Gobert [1981], Moles [1981], Queré [1982]; sulla «rivoluzione micro-elettronica»: Friedrichs [1982], Forester [1982],
Dizard [1983], Bretz e Schmidbauer [1983].
8 I processi di individuazione come effetto della modernizzazione sono stati segnalati tra gli altri da Germani [1980]; l'emergere di nuove contraddizioni legate all’identità è al centro della riflessione pi recente di Habermas [1979]. Sulla penetrazione del controllo nella dimensione «privata» degli individui e sulla necessità di ridefinire i confini del sé, Bensman e Lilienfeld [1979], Sennett [1982]; sulle strategie di riduzione del socia! noise, Klapp [1978]; sulla manipolazione genetica, Cherfas [1982].
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Questo modo di procedere ha, come si vedrà pit oltre, delle conseguenze importanti sul piano del metodo e si differenzia in maniera netta dal percorso tourainiano che intende verificare empiricamente l’esistenza o meno de/ movimento centrale (inteso nel senso pi alto di azione che investe la storicità di una società). Mi sembra di cogliere qui un residuo «essenzialista», l’idea cioè che esista un nucleo essenziale (pid nobile) dei movimenti che la
ricerca dovrebbe rivelare, senza tener conto del concreto struttu-
rarsi dell’azione collettiva in termini di risorse e di vincoli. Il fatto di mantenere un’ipotesi generale sul conflitto sistemico differenzia però questa ricerca anche dall’approccio in termini di scambio politico [Pizzorno 1977, 1980, 1983a, 1983b].
Anche Pizzorno si pone il problema di come si formano e si mantengono le identità collettive: da questo punto di vista il suo contributo è tra i più convincenti prodotti negli ultimi anni ed ha esercitato non a caso una grande influenza. Molte delle analisi proposte in questo volume utilizzano le sue indicazioni. Ma, come vedremo, nei fenomeni contemporanei di azione collettiva non tutto si riduce allo scambio e non tutto è calcolabile. Ci sono dimensioni delle condotte che sfuggono a questa interpretazione, che non hanno come referente un mercato politico, e che solo un'ipotesi in termini di conflitto antagonista può aiutare a spiegare. Ma l’esistenza di tale contenuto antagonista che si sottrae al mercato può risultare però solo dopo aver utilizzato fino in fondo la capacità esplicativa del paradigma «scettico» dello scambio, che
dà ragione dei comportamenti a partire da un calcolo di utilità. Assumere l’esistenza del conflitto antagonista come un dato originario ne fa una sorta di entità metafisica Sr accredita semplicemente le rappresentazioni «nobili» che gli attori tendono a dare dei propri interessi. 1.3. Sistemi d’azione Empiricamente l’analisi si è concentrata, come si è detto, su
forme e processi di mobilitazione, formazione dei leaders e meccanismi decisionali, dinamiche dell’organizzazione, ruolo e contenuti dell’ideologia. Si trattava di stabilire il rapporto tra determinanti macro-sociologiche a livello del sistema globale, nazionale e dell’area empirica considerata, e il funzionamento di TA sistemi d’azione. Tra le determinanti «di sistema» e il livello delle motivazioni individuali si è voluto indagare il gioco complesso
delle interazioni che rende possibile il costituirsi dell’azione col-
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lettiva e il mantenimento nel tempo dell'identità prodotta. È su questo livello specificamente sociologico che la ricerca si è concentrata con l’intenzione di offrire un contributo innovativo e pertinente alla comprensione delle forme contemporanee di azione collettiva non istituzionale. Questo livello di analisi è inoltre decisivo se si tiene conto
dello spostamento del campo dei conflitti sistemici che ho appena segnalato. I problemi dell’identità diventano infatti centrali e creano un intreccio nuovo tra livelli «strutturali» e dimensioni «soggettive» dell’azione. «Il personale è politico» non è stato solo uno slogan a forte potere evocativo che ha percorso i movimenti. Esso esprime proprio la novità dell’intreccio tra livello motivazionale e livello strutturale dell’azione collettiva, tra percorsi individuali e solidarietà. L'analisi dei processi attraverso cui l’identità collettiva si costituisce e si mantiene sembra dunque, anche da Je punto di vista, un passaggio necessario che può illuminare il senso di molti fenomeni contemporanei. I problemi metodologici assumono di conseguenza per questa ricerca particolare rilievo. Tra l’analisi delle determinanti strutturali e quella delle motivazioni o delle rappresentazioni ideologiche manca infatti, nella tradizione, un consistente patrimonio di ricerca e di riflessione metologica sull’azione collettiva come sistema. Le ricerche empiriche sui movimenti e sull’azione collettiva si possono ricondurre a tre filoni, tutti in qualche modo ricchi di suggestioni concettuali, ma scarsamente utilizzabili sul piano specificamente metodologico. Un primo filone ha seguito la strada della classificazione sistematica degli eventi (variamente definiti come protesta, violenza collettiva e cosî via, e desunti in genere
dalla stampa o da altre fonti pubbliche di registrazione). Questa vasta base quantitativa viene poi correlata a variabili strutturali
(tipo di attori, tipo di risorse, ciclo economico, stato del sistema olitico ecc.): nella versione di Tilly [Snyder e Tilly 1972, 1974;
sona e Tilly 1974; Tilly 1975] l'accento viene posto in particolare sul sistema politico, mentre nella versione di Gurr [1970] sono le variabili strutturali suscettibili di produrre frustrazione ad essere privilegiate. Un secondo filone riguarda le ricerche sulla militanza e la partecipazione ai movimenti e risponde prevalentemente alla domanda «chi e perché partecipa». In parte esso è riconducibile all’orientamento precedente e dove se ne differenzia ciò avviene per l’importanza attribuita alle motivazioni degli attori. Qui lo strumento principale è quello della survey o dell’intervista in profondità [cfr. per esempio Rogers, Barb e Bultena 1975; Roper,
29
Chadwick
1975; Barnes, Kaase 1979; Muller 1980]. Infine le
ricerche si sono concentrate sull’ideologia utilizzando in particolare i documenti prodotti dai movimenti [cfr. per esempio Becheldi loni 1973; Bouchier 1978; Mueller e Dimieri, 1982]. Ciascuno
questi orientamenti ha una sua legittimità, sia per il campo di osservazione prescelto, sia per i metodi utilizzati. Le difficoltà nascono però dal fatto che questi approcci parziali vengono spesso usati per spiegare l’azione di un movimento nella sua globalità. Sulla REA già aperta da Tilly, Zald e Gamson? un orientamento recente di ricerca sembra voler superare i limiti precedenti, muovendosi verso una considerazione sistemica dell’azione collettiva. La protesta viene messa in relazione con le risposte del sistema politico e si valutano gli effetti dell’interazione su entrambi gli attori [Tarrow 1982, 1983; Webb 1983]. Questa direzione di ricerca costituisce certamente un segnale importante di un mutamento di prospettiva in corso. L’azione collettiva diventa un sistema di opposizioni, di scambi, di negoziati tra gli attori, anziché coincidere con l’«essenza» o le motivazioni di un
solo attore. Si esce dall’idea dei movimenti-personaggi per considerare il campo che struttura l’azione. Il limite che permane (e che discuterò più ampiamente nel saggio finale di questo volume) è quello di assumere la protesta (o il movimento) come un dato omogeneo, senza interrogarsi sui suoi
orientamenti. Un attore o una condotta non sono mai univoci ed unificati: analizzare il sistema d’azione significa scomporre l’unità apparente del fenomeno e ricostruire l'insieme di relazioni che lo costituiscono. Idealmente occorrerebbe ricomporre l’intero campo d’azione; nel caso di un conflitto l’attore, gli avversari, gli spettatori e le loro relazioni. Sul piano pratico un’analisi empirica deve limitarsi di fatto ad alcuni attori, formulando assunzioni sugli altri. Nel caso di questa ricerca l’attenzione empirica si è concentrata sull’attore-movimento e sul suo sistema d’azione, di cui però si analizza la costituzione in rapporto con l’ambiente (comportamento dell’avversario, risposte del sistema politico, opportunità strutturali e cosî via) !°.
? Attraverso per esempio il concetto di opportunità offerte dal sistema [Tilly 1978, Mc Carthy e Zald 1977] o attraverso i rapporti tra movimenti e contro-movimenti [Garner e Zald 1981]. 10 Si tratta di un percorso inverso a quello che ho utilizzato in Melucci [1974b] dove, analizzando l’azione imprenditoriale nell’industrializzazione, ho tenuto conto pet quanto possibile del sistema di interazioni con le lotte operaie. L’idea di sistema d’azione nasce dal confronto tra l'apporto teorico di Touraine [1975] e le
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Basta qui aver segnalato un problema di metodo che va al di là della capacità di questa ricerca di risolverlo, ma che ne ha tuttavia orientato le scelte e le procedure. Su un terreno circoscritto, per quanto riguarda cioè il sistema d’azione interno all’attore-movimento, la ricerca si è proposta di elaborare e mettere alla prova uno strumento di rilevazione empirica adeguato all’oggetto che intendeva considerare. I paragrafi successivi ne illustreranno nel dettaglio i problemi e le caratteristiche. È stato comunque necessario da un lato circoscrivere a livello micro un campo di indagine su cui sperimentare una metodologia originale, inventando o adattando tecniche specifiche. Dall'altro, ricorrendo a strumenti pi tradizionali come lo spoglio di fonti storiche e documentarie, l’osservazione partecipante, l’intervista in profondità, si è ricostruita a livello macro l’azione del movimento nel suo insieme. Il confronto tra questi diversi livelli di informazioni è stato condotto alla ricerca di regolarità significative. 1.4. Aree di movimento
Il campo empirico della ricerca si colloca nell’area metropolitana milanese. Nella città e nel suo binterland è presente la gamma più vasta di forme di azione collettiva non istituzionale sviluppatesi in Italia dalla seconda metà degli anni Settanta. Oltre alle aggregazioni giovanili e femminili, diffuse anche in altri centri urbani di grandi e medie dimensioni, nell’area REALE milanese si concentrano esperienze comunitarie, neo-religiose e culturali centrate sulla ricerca di una «nuova coscienza». Inoltre,
soprattutto dalla fine degli anni Settanta, si è sviluppata un’area di sensibilità ecologica molto composita per qualità dell’aggregazione e per livelli di organizzazione. | La metropoli quindi come luogo dei movimenti. O piuttosto Milano come specchio della complessità, dei processi di innovazione e di disgregazione, come campo di sperimentazione di quella società dell'immagine, di quell’era dell’informazione di cui si parla con insistenza!!. L’area metropolitana milanese è stata teorie del rational choice, in particolare Coleman [1966, 1975]. Per una discussione degli approcci in termini di scambio e di scelta razionale, Heath [1976]. 11 Dizard [1983], Bell [1981], Tremblay [1981], Komatsuzaki [1981]. Per una analisi dei sistemi metropolitani e della loro centralità rispetto alle trasformazioni in corso: Castells [1976], Anderlini [1982]. Per una rassegna dei conflitti urbani negli Usa dalla metà degli anni Settanta, Turnaturi [1980-1981]. L’area metropoli tana milanese come centro dell’innovazione e dei processi di ridefinizione tecnolo-
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scelta cosî come campo empirico da esplorare in profondità e da comparare poi con le informazioni disponibili sulla società italiana nel suo insieme e con i movimenti presenti in altri paesi. Un problema di non facile soluzione ha riguardato la delimitazione dell’oggetto-movimento. Infatti dopo una prima fase che giunge fino alla metà degli anni Settanta e in cui le organizzazioni della nuova sinistra aggregavano le domande conflittuali intorno a modelli ideologici e organizzativi ereditati dalla tradizione marxista, si assiste ad un abbandono delle forme pit consolidate di partecipazione politica e all'emergere di nuove forme di aggregazione !2, I gruppi si impegnano su obiettivi più settoriali, con tecniche e modalità più specifiche, spesso professionalizzate. Non sono più riconoscibili degli attori omogenei, ma piuttosto delle aree di aggregazione, di socializzazione, di sperimentazione intorno ai problemi della condizione metropolitana. Questa è la situazione che la ricerca ha dovuto affrontare nella sua fase di avvio [1979 e 1980]. A mano a mano che il contatto
con queste realtà si approfondiva risultavano più chiari alcuni elementi: 4) la presenza di connotati conflittuali che si mantenevano
al di là di azioni di scontro sociale aperto; £) il carattere culturale dell’aggregazione, centrata sulla definizione di bisogni e sulla sperimentazione di risposte di natura prevalentemente simbolica; c) ciò induceva a pensare che il senso di questi fenomeni non si riducesse alla lotta, né tantomeno allo scontro con gli apparati di stato, anzi, che il silenzio e la latenza dei movimenti fossero una condizione della loro azione visibile. Si è resa cosf necessaria una ridefinizione del campo attraverso un chiarimento concettuale. Il termine «movimento sociale» viene infatti utilizzato per indicare fenomeni diversi. Nella gran parte delle definizioni un movimento viene qualificato attraverso una serie di caratteri descrittivi, che variano da autore ad autore, e che finiscono molto spesso per coincidere con quelli del senso comune !. Si tratta quasi sempre di generalizzazioni empiriche gica, culturale, amministrativa di una società complessa è oggetto di un vasto progetto di ricerca presentato in L’area metropolitana milanese tra crisi e sviluppo [1982].
12 Lascio da parte qui il problema della violenza e del terrorismo. Per una analisi più dettagliata di questi processi cfr. Melucci [1982], capitolo terzo. 13 Si veda per esempio la definizione di Tilly: «...una serie continuata di interazioni tra autorità nazionali e persone che a buon titolo intendono parlare a nome di una base che manca di rappresentanza formale...» [Tilly 1978, 6]. O quella di Zald: «...un insieme di opinioni e credenze in una popolazione che esprime preferenze per cambiare alcuni elementi della struttura sociale e/o della distribuzione
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che assumendo l’unità del fenomeno osservato, ne isolano alcuni tratti ritenuti significativi.
In lavori precedenti ho proposto una definizione di movimento che intende invece situarsi esclusivamente sul terreno analitico e si presenta dunque come uno strumento di analisi di quei fenomeni empirici normalmente denominati movimenti [cfr. Melucci 1977, 1982]: un movimento è un’azione collettiva che manifesta un conflitto attraverso la rottura dei limiti di compatibilità del sistema di riferimento in cui si situa l’azione. Questa
definizione ha il vantaggio di rendere possibile una scomposizione dei fenomeni empirici e di distinguere le qualità specifiche dell’azione-movimento, separandola nel contempo da altre forme di azione collettiva (devianza, conflitto istituzionalizzato, condotte
di aggregato), che sono spesso contemporaneamente presenti nella stessa realtà osservata. Una tale definizione analitica contiene tuttavia una difficoltà perché lo stesso termine movimento continua ad essere usato sia come concetto, sia per indicare l'emergere empirico di un attore collettivo che si mobilita in una società concreta (nel senso per
esempio in cui si parla di movimento delle donne, movimento giovanile, ecc.); il termine movimento indica inoltre forme di azione, di lotta e cosf via. Di qui una fonte di equivoci potenzialmente
senza fine. Il problema terminologico non sembra di facile soluzione in questo momento. Esso indica tuttavia il grado di usura semantica a cui è giunto il termine movimento rispetto agli sviluppi della teoria. Come molti altri termini che vengono dalla cultura del capitalismo industriale esso andrà probabilmente abbandonato e sostituito con concetti più adeguati. Nel frattempo, con qualche slittamento inevitabile del linguaggio, che si ritroverà nel corso di questo volume, è possibile tuttavia giungere a qualche precisazione. Il termine movimento verrà utilizzato qui per indicare il concetto analitico definito più sopra. Per connotare l'attore empirico si parlerà tuttavia inevitabilmente di movimento delle donne, dei giovani e cosî via, ma più spesso si utilizzerà la nozione di area di movimento (si veda oltre). Infine le forme di azione che
coinvolgono l’attore collettivo in un confronto visibile con un avversario verranno qualificate come mobilitazioni o lotte. Questo chiarimento permette di tornare alla delimitazione empirica del campo. La ricerca ha infatti considerato quattro aree delle ricompense in una società» [Mc Carthy e Zald 1977, 1217-1218]. Per una
rassegna di definizioni Denisoff [1974], Lauer [1976], Traugott [1978].
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di movimento
(giovanile, delle donne,
ecologica, della nuova
coscienza), che verranno ampiamente illustrate nelle monografie
ad esse dedicate. Le aree di movimento sono definite in termini empirici dalla presenza di un reticolo di aggregazioni che condividono la cultura di un movimento. Gli indicatori empirici per la delimitazione dell’area sono: a) l’esistenza di aggregazioni con qualche carattere di stabilità (un nucleo identificabile di parteci panti, una localizzazione, una certa continuità nel tempo); 4) la
presenza di un’autodefinizione del gruppo come parte del movi-
mento; c) l’esistenza di un reticolo più o meno esplicito di relazioni tra i gruppi.
E evidente che questi criteri empirici sono necessari ma non sufficienti a delimitare un’area di movimento e hanno lasciato inevitabilmente un margine di indeterminatezza, variabile da area ad area, sui gruppi da includere nella rilevazione empirica. Questa difficoltà ha tuttavia messo in evidenza che non si tratta di un concetto puramente descrittivo: infatti l’esistenza dell’area è a sua volta un problema, che la ricerca deve verificare 4 posteriori attraverso la propria capacità di individuare una strutturazione significativa del campo «movimento» e una definizione della sua identità. Una delimitazione strettamente operazionale dell’area in una prima fase (ipotesi empirica), rende possibile in una fase successiva una definizione analitica dell’area stessa (identità collet-
tiva). Come si vedrà nel corso del volume, il concetto di area di movimento sembra in grado di rendere conto in maniera adeguata sia delle fasi di visibilità che di latenza di un movimento. Esso trova qualche riscontro nel concetto di social movement industry proposto da Zald [McCarthy e Zald 1977] per definire l’insieme delle organizzazioni di un movimento orientate verso lo stesso tipo di mutamento sociale. La differenza è che nel nostro caso l’area di movimento include anche forme di aggregazione a bassa formalizzazione e gli individui che ruotano intorno ai nuclei !4. La ricerca ha dunque esplorato le quattro aree indicate, lungo le dimensioni interne (mobilitazione, leadership, organizzazione, ideologia) che sono state assunte come significative per la rico14 Nella più recente definizione di social movement sector [Garner e Zald 1981] che si riferisce all'insieme dei movimenti presenti nella società, si critica l’eccessivo «economicismo» della nozione di social movement industry e si propone una definizione più inclusiva, che comprende tutte le azioni orientate verso i fini dei
movimenti e non solo quelle Rrodoradale organizzazioni. Questa definizione è pit vicina al nostro concetto di area di movimento.
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struzione dei sistemi d’azione dei movimenti. Questa lettura che rende possibile un confronto tra tipi diversi di aggregazioni e di culture secondo una griglia omogenea, è stata guidata da due criteri generali di metodo che riassumono le considerazioni svolte fin qui: a) l’azione collettiva non è l’espressione di un movimento-personaggio, ma un insieme di sistemi d’azione che contengono orientamenti e livelli analitici diversi. Compito dell’analisi è scomporre questi elementi e mostrare le loro relazioni; b) nei fenomeni contemporanei il livello individuale dell’azione, anche nei suoi connotati effettivi e tradizionalmente considerati «psicologici», assume un significato peculiare che si lega alle trasformazioni generali delle società complesse e al ruolo che i processi di produzione-controllo dell’identità vi assumono. Ciò crea un intreccio tra dimensione individuale e dimensione collettiva dell’azione tutt’affatto particolare, che l’analisi deve sciogliere. Ciò comporta anche una ridefinizione delle categorie, dal momento che strumenti e metodi tradizionalmente utilizzati per i due distinti livelli devono essere adattati al nuovo oggetto. Questa ristrutturazione del campo conoscitivo avviene dunque sia sul piano concettuale che su quello propriamente metodologico. 2. Mosaici del metodo
Come si è visto la tradizione di ricerche empiriche sui movimenti conferma l’eredità del dualismo: esiste da una parte un bagaglio consolidato di strumenti e di tecniche per l’analisi di variabili strutturali a cui si fanno risalire dei comportamenti; dall’altra per l’analisi di orientamenti, rappresentazioni, opinioni degli attori (oltre naturalmente alla possibilità di correlare questi due piani). Manca invece una tradizione di analisi dei sisterzi d’azione, anche per le evidenti difficoltà pratiche di cogliere questi sistemi «in atto» con tecniche che non siano l’osservazione, più o meno partecipante. In altre discipline come l’antropologia, la psicologia sperimentale e la psicologia sociale, sono state messe a punto tecniche di ricerca capaci di cogliere sistemi d’azione nel corso del loro funzionamento. In sciolga se si eccettua la consistente tradizione della osservazione partecipante !5, la ricerca ha cominciato solo negli anni recenti ad orientarsi sistematicamente 15 Rinvio per i riferimenti alla bibliografia ragionata in fondo al volume.
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in questa direzione. Nell’ultimo decennio sembrano essersi moltiplicati gli sforzi per produrre metodologie qualitative che permettessero un’osservazione ravvicinata di sistemi d’azione in atto. Si tratta di contributi diversi che hanno tuttavia in comune l’accento messo su un intervento più diretto del ricercatore nel campo osservato, una qualche forma di interazione tra ricercatore e attore, la messa a punto di tecniche qualitative capaci di rilevare i comportamenti nel loro verificarsi, o addirittura di stimolare i comportamenti stessi, per sottoporli ad osservazione in funzione di certe ipotesi di ricerca. Inoltre si sono moltiplicati, con reciproco vantaggio, gli scambi tra discipline tradizionalmente distinte e una serie di contributi del bagaglio antropologico, psicologico e psico-sociale sono stati filtrati nel campo della ricerca sociologica. Uno degli obiettivi di questa ricerca è stato, come già si è detto, quello di elaborare e mettere alla prova un metodo di rilevazione qualitativa capace di applicarsi ad un oggetto cosf caldo e mobile come i movimenti contemporanei. Le difficoltà in questa direzione erano molteplici. In primo luogo, se la dimensione individuale assume rilevanza per l’azione collettiva, era necessario integrare strumenti di diversa provenienza disciplinare, rendendoli pertinenti all'oggetto. Inoltre il campo stesso presentava alcuni rischi specifici: quello che gli attori rifiutassero un’interazione prolungata coi ricercatori; quello di un eccessivo coinvolgimento di questi ultimi, sia attraverso un’identificazione affettiva, sia trasformandosi in «demiurghi» dell’azione collettiva; il rischio infine di rendere l’intervento sul campo uno strumento di tecnologia sociale, anche se pit illusorio che efficace. A tali difficoltà si è cercato di far fronte mettendo a confronto apporti metodologici e tecniche di ricerca diversi, per costruire uno strumento di analisi empirica che tenesse conto senza eclettismo dell’esperienza già accumulata e che nello stesso tempo fosse in grado di affrontare problemi quali: il contratto tra ricercatori e gruppi; la molteplicità di livelli compresenti nell’analisi; il controllo delle interferenze dovute all’interazione tra ricercatori e attori.
2.1. Interventi
Ho già fatto cenno alla moltiplicazione di approcci qualitativi di ricerca e di intervento sul campo nell’ultimo decennio. Sembra che nella diversità dei punti di partenza e degli oggetti conside\
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rati, si delinei un orientamento della sociologia contemporanea verso una pratica sperimentale più vicina a quella delle altre scienze e verso l’integrazione nel campo di analisi delle dimensioni individuali e affettive del comportamento, non pi relegate al livello «psicologico» ma riconosciute come componenti costitutive dell’agire sociale !6. Questa rivalutazione del qualitativo non mi sembra casuale. Essa corrisponde, in termini di sociologia della conoscenza, ad una modificazione degli oggetti osservati, all’emergere nella società e nella cultura di spinte verso la qualità, di bisogni individuali di autorealizzazione, di un’attenzione verso le dimensioni emozionali dell’esperienza. Non è forse un caso che proprio una ricerca sui movimenti come questa sia stata più di
altre sensibile a questo tipo di orientamenti. Il panorama a cui ho fatto riferimento non ha però nessun legame diretto con l’analisi dei movimenti, mentre l’unico autore che ha proposto un metodo di ricerca-intervento nel campo dei movimenti sociali, cioè Touraine, non sembra per parte sua particolarmente sensibile o interessato a questo vasto rinnovamento delle metodologie qualitative. Per una ricerca sui movimenti la proposta di Touraine rappresenta un riferimento obbligato e costituisce un buon punto di partenza per la discussione degli apporti che hanno reso possibile l'elaborazione del metodo adottato in questa ricerca. L’intervention sociologigue [Touraine 1978a, 1980b, 1982a,
1982b] tende a ricostruire una situazione rappresentativa del conflitto in cui il movimento è implicato. L’intervento si articola in diverse fasi. Nella prima i ricercatori formano un gruppo composto da militanti provenienti dai diversi settori in cui il movimento si articola. Successivamente il gruppo viene osservato nel suo ruolo militante in una serie di confronti con i suoi avversari e con altri attori sociali. L'obiettivo dei ricercatori è quello di fare apparire la posta in gioco nel conflitto e di rinviare al gruppo un’interpretazione della sua azione che corrisponda al significato più alto della sua azione. Si avvia di qui l’autoanalisi del gruppo: il compito del ricercatore è quello di condurlo alla «conversione» cioè al riconoscimento (o meno) della sua natura di movimento sociale. I
risultati dell’autoanalisi vengono poi diffusi e confrontati all’interno dei movimenti nella fase detta della «sociologia permanente».
16 Per una rassegna esauriente di questi contributi si veda la bibliografia ragionata.
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Il metodo dell’intervention sociologigue ha posto in maniera esplicita il problema di una pratica di ricerca adeguata all’oggetto-movimento. Inoltre ha indicato la necessità di mettere al centro dell’analisi il sisterza di relazioni tra gli attori, ricavando di qui il senso dell’azione. Infine ha segnalato l’importanza di un rapporto ricercatore-attore che non sia di identificazione reciproca. Questi orientamenti mi sembrano un contributo metodologico prezioso e non vengono intaccati dalle numerose critiche rivolte all’intervention sociologique!?.
I problemi aperti riguardano piuttosto, come ho già segnalato, l'impianto categoriale che sta alla base dell’intervento. L’assunto fondamentale è che esiste un significato «alto» dell’azione del movimento che il sociologo deve far emergere attraverso l’interpretazione che propone.
Il gruppo vi si riconoscerà o meno
a
seconda di quanto è «movimento». La domanda a cui questo metodo vuol rispondere è in definitiva se il fenomeno empirico osservato sia #/ movimento della società post-industriale. A parte l'evidente sproporzione tra la portata della domanda e il campo empirico a cui si applica e a parte un certo spirito missionario del sociologo a cui spetta di rivelare al movimento il senso della sua azione, il problema centrale è che questo impianto non dispone degli strumenti per isolare quei significati che intende far emergere. Infatti in un piccolo gruppo, com'è quello su cui si svolge l’intervento, operano contemporaneamente molti livelli d’azione che vanno dalla dinamica affettiva fino all’eventuale identità di movimento. Ammettendo che esista un significato «alto» dell’azione del gruppo (e ciò fa già problema), niente assicura che esso possa emergere se non sono stati azzerati o tenuti sotto controllo i significati «bassi». Nel metodo nessuna attenzione è posta ai problemi
della dinamica affettiva; non sono previsti strumenti per isolare SR dell’azione guidati dalla logica del calcolo e dello scambio; infine l'osservazione avviene esclusivamente sui contenuti verbali prodotti dal gruppo (non è oggetto di analisi né la grammatica della comunicazione, né il gioco delle interazioni, né i comportamenti non verbali). In queste condizioni niente assicura che ciò che viene assunto alla fine come prodotto dalla «conversione» non sia invece il risuli 17 Una discussione critica del metodo di Touraine si trova in Amiot [1980], Minguet [1980], Gosselin [1982] e in alcuni interventi contenuti in Touraine [1982b]. In quello stesso volume ho anticipato alcune delle osservazioni che qui sviluppo.
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tato di altri fattori che poco hanno a che vedere con il procedimento adottato e che dipendono piuttosto dalle «perdite» dell’impianto categoriale. In altre parole si può ipotizzare un rischio permanente di «affioramento» delle variabili che non sono tenute sotto controllo (in particolare la dinamica affettiva, trattandosi di un gruppo costuito ad hoc per la ricerca). Un’altra causa di «perdita» quasi irrimediabile è il fatto che non sia previsto nessuno strumento di controllo sulla relazione ricercatore-gruppo, assunta come un dato quasi-naturale. La relazione si fonda in realtà sulla promessa del ricercatore di rivelare al gruppo il senso della sua azione. Il problema non è qui, come alcuni critici hanno avvertito, che il ricercatore possa manipolare il gruppo. Il vero problema è che una relazione siffatta non fonda alcuna autonomia del gruppo e non prevede alcuno spazio riflessivo sulla relazione stessa. Anche in questo caso niente assicura che ciò che viene prodotto sia quanto i ricercatori pretendono (cioè per esempio il «senso» dell’azione del movimento), e non invece Îmodo in cui il gruppo gratifica o punisce il ricercatore, si conquista la sua attenzione o si difende da lui. L’impostazione metodologica di Touraine condivide i limiti comuni a tutti gli approcci in termini di ricerca-azione. Mentre la action research americana degli anni Cinquanta era finalizzata alla soluzione di conflitti sociali (in particolare all’integrazione delle minoranze etniche) attraverso la sperimentazione sul campo di
modalità di «miglioramento del clima sociale», l’attuale ricercaazione si presenta come processo di apprendimento dei soggetti che coinvolge in modo paritario ricercatori e attori. Ciò che collega vecchia e nuova action research sono solo alcuni aspetti tecnici e ansa diretto del ricercatore sul campo. La nuova ricercaazione è stata sviluppata soprattutto in Germania !8 in riferimento
a situazioni di tipo pedagogico, dalla generazione di ricercatori del dopo ’68, formatisi nell’ambito della Teoria critica. La ricercaazione vuole innescare processi di cambiamento nella società e
18 Si veda in particolare Moser [1977], Lukesch e Zecha [1978]. Altri riferimenti sulla ricerca-azione sono contenuti nella bibliografia ragionata. A questo filone si possono collegare anche tutte le esperienze che hanno prodotto tecniche «militanti» di ricerca, in connessione con i movimenti. Si possono ricordare tra l’altro i «laboratori del futuro» [Jungk 1978], una sorta di brainstorming collettivo attraverso cui un gruppo sociale progetta in forma utopica la soluzione ad un problema: la critica dell’utopia permette di avviare forme concrete di cambiamento e di azione. Nella stessa direzione vanno certe applicazioni della socioanalyse in Francia, in connessione con la cultura gauchiste del dopo ’68 (vedi nota seguente).
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trasformare il campo durante il processo di ricerca. Il concetto di «emancipazione» è infatti centrale, insieme al mutato rapporto tra ricercatore e oggetto. I limiti che questi approcci hanno in comune, e che la proposta di Touraine non supera, riguardano due punti principali: a) il compito missionario-pedagogico assegnato al ricercatore (e contenuto nei concetti di «emancipazione» o «conversione») è un’opzione etica rispettabile, ma come tale non costituisce un criterio di validità delle procedure e una garanzia di rigore del metodo. Accresce casomai i rischi di confondere ricerca e agitazione politica e si presta molto facilmente ad esprimere le frustrazioni di ruolo degli intellettuali che si sentono «separati dalla realtà». In termini di sociologia della conoscenza non è un caso che l’interesse per questi metodi abbia un andamento ciclico, in connessione con fasi di turbolenza sociale o di accelerato mutamento;
b) Il problema della relazione ricercatori-attori rimane irrisolto. Nel caso della ricerca-azione c'è una semplice identificazione, mentre Touraine, che pure insiste sulla separazione dei ruoli, non dispone di nessuno strumento per sottoporre a controllo la relazione stessa. Anzi questo problema non viene neppure preso in considerazione.
2.2. Dentro e fuori del campo Questi limiti non possono essere superati se non facendo del rapporto tra ricercatori e attori un oggetto di analisi nel corso dellaricerca edefinendo la specificità del ruolo di conoscenza del ricercatore. Nella prima direzione alcune indicazioni provengono dall’esperienza dell’«analisi istituzionale» 19, mentre sul secondo punto l'apporto di Crozier [Crozier e Friedberg 1978] offre utili orientamenti. L’analisi istituzionale mantiene ancora un orientamento missionario-pedagogico. Infatti il presupposto teorico, generico e spesso confuso, è che le istituzioni tendono ad occultare l’atto istituente che le fonda, per presentarsi come un dato 19 L'analisi istituzionale o socioanalisi è una corrente di analisi e di intervento nelle istituzioni sviluppata in Francia in particolare da autori come. Lapassade [1970, 1971, 1975] e Lourau [1969, 1971, 1973], con agganci con l’intervento psi-
cosociale e con la psicoterapia istituzionale. I suoi campi di applicazione sono soprattuttoleorganizzazioni complesse, le strutture pedagogiche e assistenziali, le associazioni volontarie. Per una rassegna si veda Hess [1975, 1981].
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(l’istituito), eterno e legittimato dalla sua stessa esistenza: si tratta di una formulazione linguisticamente più immaginifica e più oscura, di quanto Weber e Michels avevano detto a suo tempo assai pi chiaramente. Compito dell’analisi è dunque quello di rivelare l’«energia nascosta» (l’istituente) che si oppone alla cristallizzazione delle istituzioni. Il vitalismo naif di questo quadro di riferimento riporta ad una visione pre-sociologica del sociale, superata da tempo. Gli spunti più interessanti provengono invece dai criteri dell’intervento: 4) analisi della domanda, compresa la domanda
ufficiale da confrontare eventualmente con le diverse domande dei gruppi all’interno dell’istituzione, con la domanda latente e cosî via; 5) autogestione dell’intervento da parte del richiedente (tempi, luoghi, aspetti organizzativi e finanziari); c) regola del dire tutto o della libertà di espressione, che permette di far emergere il non detto istituzionale; d) analisi dell’implicazione dell’analista-ricercatore, che viene definita, con una trasposizione discutibile del linguaggio psicoanalitico, analisi del transfert e del contro-transfert istituzionale: e) individuazione o costruzione di analizzatori, cioè di elementi che per le contraddizioni che introducono nelle organizzazioni ne rivelano la logica profonda (gli analizzatori sono naturali, per esempio un gruppo deviante, oppure costruiti, per esempio degli stimoli). In questo tipo di intervento dunque l’analisi della domanda dell’attore e dellimplicazione dei ricercatori, insieme alla definizione di spazi di autonomia del gruppo, aprono all’interno dell’esperienza una dimensione riflessiva sull’esperienza stessa, che rende potenzialmente controllabili le interferenze dell’interazione ricercatori-attori. Le ricerche di Crozier sul comportamento degli attori in situazione organizzativa si fondano sull’analisi strategica. Il ricercatore comincia con l’assumere le condotte per come si presentano o
come gli attori tendono a rappresentarle. Per quanto irrazionali
per
e
contraddittori possano apparire, i comportamenti corrispondono
però ad una razionalità intrinseca, a delle strategie d’azione che gli attori mettono in opera nei sistemi di relazioni di cui fanno parte. Per arrivare a coglierle occorre che il ricercatore compia una deviazione nell’interiorità degli attori, al fine di ricostruire dall’interno la logica delle situazioni quali sono vissute dagli attori stessi. Infine il ricercatore deve nuovamente uscire dal campo, per selezionare la massa dei dati osservati e per individuare le strategie e i giochi che strutturano il campo stesso. Nel procedimento di ricerca il ricercatore si muove dunque tra due poli, la posizione
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critica dell’osservatore esterno e l'assunzione del «punto di vista» degli attori inseriti nella situazione. Il ruolo del ricercatore è qui sgravato da ogni compito pedagogico e consiste in una funzione di conoscenza, da cui derivano eventualmente ipotesi di cambiamento organizzativo: tale funzione si esercita in un «andirivieni» tra punto di vista dell’attore e punto di vista dell’analisi (che lascia comunque irrisolto il problema della relazione di cui ho parlato sopra).
Due problemi sembrano ancora aperti dopo questa discussione: il ruolo dei processi interattivi e comunicativi in situazioni di ricerca che implicano un rapporto faccia a faccia con piccoli gruppi; la natura «sperimentale» di un processo di ricerca che sottrae comunque gli attori alle condizioni naturali della loro azione. Riguardo al primo punto, sembra difficile evitare di sottoporre ad osservazione e ad analisi questi livelli del funzionamento di un gruppo. Oltre che per le ragioni dette fin qui (controllo delle variabili in gioco Tala situazione, relazione ricercatore-gruppo) i problemi della comunicazione sono importanti perché essi determinano la qualità delle informazioni raccolte: come è noto per esempio lo stesso contenuto verbale in situazione di interazione può assumere significati molto diversi a seconda della punteggiatura emozionale, interattiva, gestuale che lo caratterizza. In questa direzione l’interazionismo simbolico e l’etnometodologia da una parte, la scuola di Palo Alto dall’altra, hanno segnato un salto irreversibile che rende out of date una pratica di ricerca «ingenua» rispetto ai processi comunicativi 20.
Interazionismo e etnometodologia si collocano in una tradizione di field analysis che tende a ridurre al minimo le interferenze tra ricercatore e campo osservato (opposta dunque agli approcci discussi fin qui). Quello che però interessa è il rilievo assegnato
alle forme di espressione e di comunicazione non verbale, ai rituali di interazione, ai codici simbolici che la fondano. L’attenzione posta alle strutture permanenti dell’interazione, al corzzzon sense understanding, alle regole implicite dello scambio, segnala dei punti decisivi per l’osservazione, da cui un lavoro sul campo non può prescindere. 20 Sulla Scuola di Palo Alto si veda Watzlawick [1971, 1980]; per gli sviluppi nell’ambito della terapia della famiglia, Selvini Palazzoli [1975], Pizzini [1980].
Per gli approcci dell’interazionismo simbolico e dell’etnometodologia il riferimento è ai lavori di Goffman da una parte, di Garfinkel e di Cicourel dall’altra. Intorno a questi autori si è sviluppata una vasta messe di ricerche e di studi. Una rassegna sommaria dei riferimenti utilizzati si trova nella bibliografia ragionata.
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La scuola di Palo Alto, da parte sua, ha ricordato che il significato dei comportamenti va cercato nelle relazioni comunicative, nel sistema in cui si svolge l'interazione. Per esempio l’interazione può essere simmetrica (basata sull’eguaglianza) o asimmetrica basata sulla disuguaglianza); inoltre la qualità della comunicazione può essere molto diversa a seconda che si abbia conferma (accettazione della comunicazione), rifiuto (negazione del contenuto della comunicazione, comunque accolta) o disconferma (non
reazione alla comunicazione). Cosf per esempio il ruolo determinante del «paziente designato» nella famiglia segnala l’importanza di non trascurare nell’analisi le figure sociali apparentemente meno centrali nel sistema preso in considerazione. Il secondo problema che ho indicato riguarda il fatto che un gruppo in situazione di ricerca si trova comunque in condizioni sperimentali e niente assicura che il suo comportamento corrisponda a quello «naturale». Questo problema è tanto più forte se ciò che si vuol ricostruire è il sistema d’azione del gruppo. Esperienze come quelle di Touraine o della ricerca-azione chiedono in realtà a un gruppo di comportarsi in modo naturale in un contesto artificiale: il quadro della ricerca intende infatti mantenere il gruppo in condizioni «realistiche» e gli chiede di agire come se fosse nella realtà; ma ciò contrasta con la natura costruita della situazione sperimentale. Non sembra possibile risolvere questo problema senza una rottura esplicita della situazione «naturale», che permetta al gruppo di assumere il quadro sperimentale come campo dell’interazione, senza tuttavia cancellare le sue logiche d’azione. In altre parole si tratta di spostare l'osservazione dai contenuti (che potranno essere
solo in parte aderenti all’esperienza reale del gruppo) alle logiche d'azione che permangono sotto quei contenuti. Il problema diventa allora quello di fornire degli stimoli che favoriscano questo obiettivo. Nel caso di Touraine gli stimoli coincidono con la situazione naturale del gruppo e ciò si scontra col contesto sperimentale in cui di fatto il gruppo si trova. La direzione da seguire sembra invece quella di utilizzare stimoli che favoriscano il gioco e la simulazione, rendendo esplicita per il gruppo la natura sperimentale della situazione di ricerca (il che non impedisce naturalmente di operare confronti con stimoli realistici). Se l’obiettivo è quello di far emergere logiche d’azione da sottoporre ad analisi, molte indicazioni possono venire dall’area di ricerche ed esperienze che vanno sotto il nome di simulation and games. Si tratta di contributi eterogenei, ma in essi coesiste un’intenzione di elaborazione teorica e una pratica di
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giochi di simulazione, tesi a riproporre in situazione di laboratorio processi e relazioni sociali che possono poi essere sottoposti ad analisi. Utilizzati soprattutto come strumenti didattici, i giochi di simulazione si prestano tuttavia ad un’applicazione creativa nel campo della ricerca: essi possono infatti fornire, se opportunamente costruiti, stimoli capaci di mettere in azione sistemi di relazioni reali e nel contempo delimitati dal quadro sperimentale e i dalla finzione del «gioco» 2!. In questa direzione un altro fondamentale filone di contributi proviene dalla psicologia sociale e dalle numerose tecniche di gruppo che si sono sviluppate negli ultimi vent’anni?2. Questi studi e queste tecniche, oltre che fornire strumenti per individuare e sottoporre ad analisi le interferenze dello scambio affettivo all’interno dei gruppi e tra i gruppi e i ricercatori, offrono un patrimonio di giochi e di stimoli che permettono di mettere in evidenza specifici aspetti dell’azione (per esempio processi di decisione e conflitti, giochi di ruoli e cost via). 2.3. L'alleanza provvisoria
Concludendo questa discussione posso indicare gli orientamenti generali che ne derivano e che hanno guidato l'elaborazione del metodo utilizzato in questa ricerca: a) Non
si può studiare l’azione sociale come
una «cosa».
L’azione è un processo i cui significati si instaurano attraverso l'interazione. Gli attori quindi non sozo propriamente l’oggetto
di analisi, ma producono l'oggetto di analisi e ne agiscono i significati. Il ricercatore che entra in contatto col campo attiva un processo di cui gli attori sono protagonisti quanto lui. Il rapporto ricercatori-attori è un problema che non è esterno alla ricerca. b) Il processo di riflessione è distinto dall’azione. Esiste una distanza, più o meno grande, tra azione e senso che dipende dalla tensione permanente tra attore e sistema; quest’ultimo è qualcosa - di più della somma dei suoi componenti, ma nello stesso tempo è
21 Si veda la bibliografia ragionata. 22 La letteratura psico-sociale e sulle dinamiche di gruppo è ormai vastissima. Alcuni riferimenti essenziali qui utilizzati sono Minguzzi [1979], Spaltro [1970], Tajfel-Fraser [1979], Moscovici [1972], Tedeschi, Schlenker e Bonoma [1973],
Pagès [1970], Argyle [1969]. Una sperimentazione di nuove tecniche di gruppo è avvenuta poi negli anni Sessanta all’interno della Humzanist Psychology, entrando nel patrimonio diffuso. Si veda tra gli altri Perls [1976].
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la loro interazione che lo costituisce. L’attore è dunque sempre parte di un sistema di relazioni che dà senso alla sua azione, ma ha anche una qualche capacità autonoma di definirsi. La conoscenza, che è una funzione riflessiva e coincide con la capacità di cogliere le relazioni di sistema, è dunque un bisogno-risorsa dell’attore sociale, per massimizzare l’efficienza-efficacia della sua azione. c) A partire di qui il rapporto tra ricercatore e attore può configurarsi solo come un rapporto contrattuale. Entrambi hanno infatti il controllo di risorse specifiche: il ricercatore controlla un «sapere» fatto di ipotesi di ricerca e di tecniche, che non possono essere verificate e messe in atto senza la partecipazione degli attori; questi hanno il controllo sull’azione e sui suoi significati,
ma hanno anche l’esigenza di una conoscenza riflessiva n: accresca le loro possibilità d’azione: possono in questa direzione ritenere necessaria una funzione di analisi, come quella svolta dal ricercatore. Il rapporto è quindi di interdipendenza, ma non di coincidenza o di sovrapposizione dei ruoli. La diversità — dichiarata e consensuale — dei ruoli è infatti l’unico elemento che giustifica la provvisoria alleanza tra ricercatori e attori per l’acquisizione di una nuova conoscenza: l’unica cosa che dà senso al contratto.
Il contratto si fonda dunque sull’incontro temporaneo di due domande: gli obiettivi conoscitivi del ricercatore, legati al suo ruolo; l’esigenza degli attori di dare risposta a problemi che emergono dalla loro pratica sociale. Il ricercatore offre informazioni che provengono dall’applicazione di codici e di tecniche; gli attori offrono informazioni che derivano dalla loro azione. Su questa base è possibile uno scambio non autoritario e non strumentale.
d) î contratto salvaguarda la distanza che di fatto esiste tra i contraenti, la loro non identificazione. Ciascuno persegue obiettivi diversi: il ricercatore gli interessi conoscitivi (o personali, o di prestigio, o politici) che motivano la sua ricerca e che sono comunque connessi al suo ruolo istituzionale; gli attori l'acquisizione di informazioni sulla propria azione in grado di accrescerne il potenziale. La distanza non è data una volta per tutte all’inizio del rapporto, ma deve essere via via ristabilita facendo della relazione ricercatori-attori un oggetto di analisi. Ciascuna parte conserva cosf il controllo e la responsabilità degli investimenti nella relazione. Solo in questo modo si può garantire ùna trasparenza sufficiente al rapporto che è a termine e sempre rivedibile. Quando esso si conclude ciascuna delle parti può utilizzarne i risultati in funzione dei propri interessi.
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3. Tra il dire e il fare
Presenterò ora il metodo e le procedure della ricerca, lasciando al paragrafo finale la discussione dei problemi che ne derivano. 3.1. Fasi della ricerca
a) La prima fase del lavoro ha comportato un censimento e una mappatura delle aree di movimento considerate. Attraverso uno spoglio della documentazione disponibile (materiali di ricerca, documenti prodotti dalle aree), attraverso interviste in profondità e testimoni privilegiati, attraverso l'osservazione diretta di momenti collettivi, si sono individuate le diverse componenti dell’area: gruppi, luoghi di incontro, forme più o meno stabili di azione, storia recente.
Si è proceduto quindi ad interviste in profondità con i gruppi di cui si era accertata l’esistenza e che presentavano caratteristiche empiriche di appartenenza all’area (cfr. il primo paragrafo). Le interviste, condotte con due o più membri dei nuclei (e talvolta con l’intero gruppo) miravano ad ottenere informazioni sistematiche sulla storia, la composizione, la struttura e le forme di azione dei gruppi. Esse erano finalizzate anche all’individuazione del gruppo con cui condurre in ogni area la fase propriamente sperimentale della ricerca. In tal senso si trattava di accertare le caratteristiche dei gruppi, la loro collocazione rispetto all’area e la loro eventuale disponibilità-domanda verso il percorso proposto. Queste informazioni, oltre a permettere la scelta del gruppo «naturale», dovevano portare anche alla definizione dei gruppi che per caratteristiche e disponibilità sarebbero stati inclusi nei dibattiti di area (o gruppi costruiti, si veda oltre) 23. Dopo il completamento del primo censimento (ottobre 1981) e mentre le fasi successive procedevano, le aree sono state tenute sotto costante osservazione, con l’aggiornamento della documentazione, la partecipazione agli eventi e alle occasioni pubbliche, il 23 Eliminando le situazioni con cui il contatto è stato parziale o insufficiente, i gruppi sui quali è stato possibile raccogliere una informazione completa e su cui si è basato il seguito della ricerca, sono stati 19 per l’area giovani, 18 per l’area donne, 10 per l’area ecologica e 14 per l’area della nuova coscienza. In totale i gruppi contattati sono stati circa 80 a cui vanno aggiunte le realtà semi-istituzionali ai confini dell’area (Arci, Upi, Feci, sezioni verdi di DP).
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contatto con testimoni privilegiati. I dati raccolti nell’arco di tre anni di osservazioni mantengono una sostanziale omogeneità e non forniscono elementi che modificano in modo rilevante i risultati iniziali. b) La seconda fase prevedeva, come ho detto, la scelta di un gruppo per ogni area, sulla base delle sue caratteristiche interne, della collocazione rispetto agli altri e della disponibilità-domanda verso la ricerca. Con questo gruppo è proseguita la fase «di laboratorio» di cui dirò oltre. L'orientamento è stato quello di scegliere un gruppo centrale, rispetto alle dimensioni significative dell’area; in presenza di polarizzazione o dispersione dei gruppi, la scelta è caduta invece su situazioni polari. Le monografie illustreranno più ampiamente i criteri della scelta, caso per caso. La decisione di centrare la ricerca su gruppi di base, piuttosto che su situazioni fortemente strutturate, peraltro quasi inesistenti, sembra meglio favorire l'emergere dei punti di tensione, la pluralità dei significati dell’azione presenti nel movimento. Queste dimensioni tendono ad essere cancellate nell’ideologia unificante delle organizzazioni, dove le esigenze di integrazione hanno il sopravvento. Nello stesso tempo queste realtà di base possono essere messe agevolmente a confronto con altre forme più strutturate e con altre definizioni del movimento, quali appunto quelle dei portavoce, dei «politici», degli osservatori e cost via. Il lavoro con gruppi «naturali» sembra inoltre temperare il carattere artificiale dellasituazione di laboratorio perché gli attori possono far riferimento ad un’identità più o meno consolidata. Il gruppo non esiste solo per la ricerca e ciò gli permette di mantenere nella situazione sperimentale lo spessore autonomo (e talvolta anche l’opacità) dei suoi meccanismi abituali di funzionamento. I rischi sono da una parte il particolarismo dell’esperienza rispetto al resto dell’area, dall’altra la resistenza opposta alla situazione sperimentale (l’opacità, appunto) attraverso il ricorso ai rituali abituali, alla complicità sui codici interni e sulle regole implicite. Tuttavia questi limiti possono essere superati attraverso un confronto tra le informazioni raccolte nel gruppo naturale e quelle che riguardano il resto dell’area e attraverso l’uso di opportune tecniche di conduzione e di osservazione. I rischi sono in ogni caso minori di quelli connessi alla situazione di un gruppo interamente costruito dalla ricerca. Gruppi sperimentali come quelli formati da Touraine con militanti provenienti da diversi settori ed organizzazioni del movimento, sono infatti esposti ad un’interazione prolungata che viene creata interamente dalla situazione di ricerca: ciò non può non favorire un'identità di
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gruppo basata sulle dimensioni affettive prodotte dalla situazione sperimentale. Qui il gruppo esiste solo per la ricerca e, quali che siano le appartenenze esterne dei singoli, si produrranno dinamiche interne capaci di distorcere notevolmente la qualità dell’interazione attesa. L’idea di mettere a confronto le diversità e le tensioni presenti nel movimento sembrava però interessante. Si è cosfî deciso di affiancare al gruppo naturale alcuni dibattiti di area, costruendo dei gruppi con individui provenienti dalle diverse situazioni: questi gruppi sono però centrati su un’interazione di breve durata
(una seduta) e focalizzata su un tema. In tal modo si è ritenuto di annullare virtualmente gli effetti delle dinamiche affettive sull’interazione del gruppo, centrandolo ogni volta su un compito (i dibattiti sono più di uno e i gruppi mutano composizione ogni volta) che riguarda un problema cruciale per l'identità dell’area. c) Un passaggio assai delicato è stato quello del contratto coi gruppi che costituiscono la base della ricerca. L’obiettivo dei ricercatori era, come si è detto, quello di raccogliere attraverso
l'osservazione e la registrazione delle condotte di gruppi esposti a certi stimoli, informazioni da sottoporre ad analisi successiva con strumenti pertinenti. Per gli attori, oltre a motivazioni specifiche per i diversi gruppi, la partecipazione all’esperienza si è fondata sull’interesse ad utilizzare un'occasione di riflessione su di sé. In situazioni in cui l'identità collettiva era in fase di formazione (ecologi, nuova coscienza) o di ristrutturazione (giovani, donne), uno spazio di riflessione non immediatamente finalizzata all’azione ha costituito per i gruppi e per gli individui una risorsa desiderabile 24, E stato tuttavia importante che la ricerca si presentasse come uno spazio aperto, in cui gli obiettivi dei ricercatori e degli attori potessero incontrarsi senza coincidere e in cui ciascuno dei part-
24 La disponibilità-domanda verso la ricerca è stata diversa nelle varie aree. Nel caso dei giovani l’eredità politica degli anni Settanta contribuiva ad alimentare un atteggiamento di diffidenza verso i «sociologi», i loro obiettivi, le loro fonti di finanziamento. Il timore della manipolazione e le preoccupazioni sull’uso politico dei materiali prodotti sono stati fantasmi che solo gradualmente l’esperienza ha potuto dissolvere. Nel caso delle donne le maggiori garanzie richieste hanno riguardato invece la professionalità dei ricercatori e in particolare la capacità del conduttore di non trasformare l'interazione in situazione terapeutica. Nelle altre due aree la disponibilità è stata invece piuttosto pronta e non sono state richieste particolari informazioni o garanzie, oltre a quelle che già la proposta dei ricercatori conteneva. In tutti i casi è stato comunque determinante il riconosci-
mento autonomo da parte del gruppo di una esigenza di autoriflessione.
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ners potesse restare responsabile del suo specifico investimento nel lavoro comune. I ricercatori intendevano raccogliere materiale per la loro analisi, di cui erano interamente responsabili; i gruppi partecipanti alla ricerca potevano farne un’occasione di riflessione su di sé, con piena responsabilità dei risultati che ne avrebbero ricavato: questi obiettivi sono stati negoziati in partenza e sono
rimasti negoziabili nel corso dell’esperienza. Il processo di auto-riflessione del gruppo non è stato dunque l’obiettivo della ricerca. Esso è stato per un verso uno strumento metodologico per raccogliere informazioni pertinenti sull’oggetto che si voleva indagare, cioè i processi di formazione e di mantenimento di un’identità collettiva. Per l’altro, è stato il terreno del contratto col gruppo. ‘I ricercatori non hanno un messaggio da portare ai movimenti. I risultati del loro lavoro conoscitivo sono messi a disposizione dei gruppi che hanno partecipato alla ricerca in due modi: attraverso la restituzione nel corso dell’esperienza e attraverso questo libro, allo stesso titolo di ogni lettore della normale produzione scientifica e del pubblico pi vasto. d) La fase di lavoro sperimentale coi gruppi verrà esposta in dettaglio nel paragrafo 3.2. Si tratta di una serie di incontri interamente registrati con videotape, la cui dinamica generale consiste nell’esporre il gruppo a certi stimoli, nel selezionare le immagini significative e nel rinviarle al gruppo come nuovo input. In un feed-back finale i ricercatori restituiscono una sintesi selezionata di ciò che il gruppo ha prodotto. e) La parte finale della ricerca ha riguardato l’analisi del materiale videoregistrato (circa 80 ore)? e il confronto con tutti gli altri dati raccolti (interviste e documenti relativi alle aree, dati sui movimenti in Italia e in altri paesi). La decodifica del materiale
video ha tenuto conto in particolare della presenza contemporanea di diversi significati nelle condotte di un gruppo che appartiene a un movimento. Il gruppo agisce contemporaneamente come parte di un movimento più vasto; come mercato in cui coesi-
stono diversi interessi e in cui operano processi di scambio e di decisione; come sistema di ruoli; come rete di relazioni affettive;
come somma di motivazioni individuali. È stato dunque necessario utilizzare diversi livelli di osservazione: comportamento non verbale; interazione affettiva; stabilità, mutamento e scambio dei ruoli; processi decisionali, alleanze, conflitti; uso del linguaggio;
aspetti motivazionali del comportamento individuale. La possibi 25 A cui vanno aggiunte oltre venti ore del test preliminare.
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lità di isolare le dimensioni propriamente sociologiche è dipesa dall’efficacia di questo processo di decantazione. Il passaggio, o meglio l’andirivieni, tra analisi micro e analisi macro è stato condotto con riferimento alle ipotesi teoriche che ho delineato in precedenza e che i saggi di questo volume sviluppano. 3.2. Procedure
L’elaborazione delle procedure «di laboratorio» ha richiesto una lunga sperimentazione e una messa a punto progressiva in
funzione dei numerosi problemi teorici e tecnici, che in parte ho enunciato e che in parte discuterò nel paragrafo finale. Una serie di stimoli e di tecniche furono sperimentati dal gruppo dei ricercatori su di sé e si giunse infine ad un test preliminare con un gruppo volontario 26. Nel corso della ricerca alcuni adattamenti si sono resi necessari rispetto al modello di partenza e la struttura che ne risulta è quella de segue 27. I gruppi vengono invitati a partecipare a una serie di sedute in
un ambiente appositamente predisposto. Il setting è una normale sala di riunione con le sedie a semicerchio e una telecamera mobile per la videoregistrazione, portata a spalla da un operatore. Un ricercatore guida la seduta sedendo di fronte al gruppo, mentre due altri, visibili ma fuori del campo di ripresa, fungono da osservatori rispettivamente per gli aspetti verbali e non verbali dell’interazione. La telecamera tende a seguire chi prende la parola e alterna questa ripresa selettiva con carrellate o campi totali. Vengono proposte due situazioni stimolo 28: 26 Il gruppo di studenti della Facoltà di Scienze Politiche di Milano aveva condotto nella primavera del 1981 una esperienza di seminario autogestito in polemica con la didattica ufficiale. Si trattava dunque di un gruppo naturale sui gereris, ma con caratteri vicini, per natura conflittuale e per tipo di solidarietà, a molte delle situazioni che la ricerca voleva indagare. Il percorso sperimentale condotto nel maggio-giugno 1981 fu un’occasione per mettere alla prova gli strumenti predisposti, per vederne confermata l'efficacia e per adattarne nel contempo il funzionamento. Nello stesso tempo questa esperienza, che coinvolgeva un gruppo di giovani mobilitati su un terreno specifico, permise di intravvedere molti dei contenuti che la ricerca avrebbe trovato confermati nel seguito. 27 La pratica sul campo ha indotto a modificare in qualche punto il progetto iniziale presentato in Melucci [1981]. In particolare si è ridotto il percorso a otto sedute (vedi nota successiva) e si è scelto di usare una sola camera con un operatore professionista, dopo aver verificato nel test preliminare gli svantaggi tecnici legati all’uso di due camere e all’utilizzazione dei ricercatori per le riprese. 28 Inizialmente era stata prevista anche una situazione chi parla per chi centrata su processi decisionali. Questo stimolo è stato sperimentato nel gruppo degli
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a) la situazione chi siamo: al gruppo è richiesto di definirsi a partire da sé. Le tecniche utilizzate tendono a facilitare l’emergere delle diverse facce dell’identità del gruppo in relazione al movimento di cui è parte; b) la situazione chi siete: il gruppo è esposto a definizioni date dall’esterno. Per ognuna di queste fasi è prevista una seduta di feed-back che rinvia al gruppo una selezione e un montaggio dei materiali registrati, operato attraverso la griglia di osservazione di cui si è detto. Il montaggio proposto funziona da stimolo per l’autoriflessione e anche la seduta di feed-back viene a sua volta registrata; il processo termina con un feed-back finale che riassume l’intera esperienza e ne permette un bilancio. Vediamo ora queste fasi più in dettaglio. a) La fase chi siamo si articola in tre momenti: merzoria, autorappresentazione, come.
I. La memoria non interessa tanto per i contenuti fattuali (che possono essere ricostruiti per altra via) quanto come stimolo per
produrre dei puzzles di rappresentazioni, moltiplicando le voci con cui l’identità è raccontata, spezzando l’unità del punto di vista del gruppo e cercando di far vivere la rete multipla e contraddittoria delle interazioni, cioè degli interessi e dei ruoli che compongono in realtà l'identità collettiva. Il gruppo esce dall’armonia
delle rappresentazioni
sistema d’azione. seguente:
e comincia
La sequenza
a manifestarsi come
degli strumenti proposti è la
i) narratore: una voce fuori campo ricostruisce brevemente la
storia del gruppo quale si desume da eventuali documenti o dalle interviste preliminari; îî) chi: il conduttore chiede ad ogni partecipante qual è la sua storia nel gruppo, come ci è arrivato, che cosa ci fa oggi; iii) assenti: il conduttore
chiede quali sono
i membri
del
gruppo che avrebbero potuto essere presenti, ma non partecipano all'esperienza. Propone quindi a coloro che hanno evocato un assente di giocarlo in prima persona, come se rispondesse alle domande del chi;
studenti (test preliminare) e nel gruppo delle donne, rivelando una scarsa efficacia del dispositivo adottato. L'analisi dei processi decisionali è stata allora concentrata nelle simulazioni della fase chi siazzo e completata dalle osservazioni partecipanti dei gruppi in situazione naturale.
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iv) quando: dopo aver chiesto quali sono le fasi della storia del gruppo e aver lasciato emergere varie interpretazioni, il conduttore propone a ciascuno di riprendere la fase o le fasi che ha segnalato, raccontando attraverso di essa la storia del gruppo; 1) dove: il conduttore chiede quali sono i luoghi del gruppo; dopo un primo giro di risposte propone a coloro che li hanno indicati, di raccontare attraverso di essi la storia del gruppo, come per il quando. i ui. Per l’autorappresentazione le situazioni proposte sono delle simulazioni e il gruppo vi gioca in immagini la sua identità. L’obiettivo è ancora di dare la parola alle facce diverse, al sistema di scambi e di opposizioni di cui si compone l’identità collettiva. La situazione di gioco e il riferimento a un medium su cui proiettare l’identità del gruppo rompe le immagini più direttamente ideologiche e favorisce anche in questo caso il puzzle dei significati. La produzione di un’immagine avviene dapprima in uno scenario completamente immaginario, passando poi via via a contesti
più realistici. I giochi proposti permettono anche di sperimentare processi di decisione, mettendo in evidenza i meccanismi di ruolo, di leadership, di divisione del lavoro. La sequenza dei giochi adottati è la seguente: î) Isola: «Siete un gruppo di naufraghi appena sbarcati su un’isola deserta. Avete potuto vedere che ci sono alberi, animali, frutti. La terra più vicina è a 200 km. Cosa fate». Con queste informazioni il conduttore mette il gruppo in situazione e lo lascia libero di giocare, limitandosi a fissare e a far rispettare un tempo di gioco 29; îi) TV: «Avete un canale televisivo a disposizione per una settimana. Cosa fate». La situazione procede come sopra; iti) Foto: «Vi è stato chiesto di presentare il vostro gruppo per un servizio fotografico con dieci immagini. Sceglietele». Come sopra. Si tratta come si vede di stimoli in cui il livello di distanza dalla realtà è decrescente e in cui i vincoli posti dall’esterno all’azione del gruppo sono sempre pit realistici. Sia per le immagini che per le decisioni questo andamento ad imbuto è, come si vedrà, molto importante. m. Il comze consiste in un rinvio al gruppo dei termini con cui si è definito fino a quel punto. Dalle registrazioni vengono isolati 22 Il tempo adottato è stato di 45-60 minuti per l’Isola, 30-45 minuti per la TV, 20-30 minuti per le Foto.
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termini significativi o ricorrenti che sono stati utilizzati per qualificare il gruppo o la sua azione. Dopo averne letto la lista, si chiede ai singoli di indicare quali termini qualifichino in positivo e in negativo l’azione del gruppo. A scelta avvenuta ciascuno dei partecipanti è invitato a riprendere le parole prescelte e a parlare del gruppo «in quei termini». La convergenza o divergenza delle scelte alimenta il dibattito nel gruppo. Il conduttore rilancia come stimoli i termini non scelti, che nascondono quasi sempre dei problemi, e chiede al gruppo di riprenderli. A questo insieme di sedute segue il primo feed-back, che il gruppo è chiamato a discutere.
b) Nella fase chi siete il gruppo si confronta con definizioni date dall’esterno: in particolare quelle di «portavoce», cioè di persone che parlano a nome del movimento, di «osservatori», cioè di persone vicine all’area del movimento ma non direttamente implicate; di «avversari». Per i primi due tipi di interlocutori vengono mostrate al gruppo delle interviste videoregistrate e gli si chiede di reagire. Gli intervistati rispondono alle domande: «Esiste un movimento (giovanile, delle donne, ecc.)? Che bisogni esprime?». Nel confronto con queste definizioni esterne il gruppo è spinto a situarsi. Per quanto riguarda gli «avversari», in una prima fase si chiede al gruppo di individuarli, e se si tratta di persone fisiche, di giocarli con la stessa tecnica usata per gli assenti. Successivamente si mostra un’intervista video con un «avversario» ipotizzato dai ricercatori che costituisce un nuovo stimolo per la riflessione del gruppo 59. Un secondo feed-back riprende il materiale prodotto nella fase chi siete. Infine un feed-back finale propone al gruppo un montaggio su tutte le sedute, comprese quelle in cui sono stati discussi i montaggi intermedi. 30 Nell’area giovani gli intervistati erano: un dirigente nazionale dell’Arci Giovani; un giornalista famoso; l’assessore alla cultura del Comune di Milano; un
manager dei concerti e della musica per i giovani. Nell’area donne: una leader del femminismo storico; un noto pubblicista; un ginecologo impegnato nella politica dei servizi; una donna-mzanager che guida un'associazione di donne dirigenti. Nell’area ecologica: un portavoce delleiobreecologiche degli anni Settanta; un intellettuale-politico che ha influenzato la cultura ecologica; un manager consulente di grandi imprese sui problemi ecologici. Nell'area della nuova coscienza è stato più difficile individuare sia dei «portavoce» significativi, sia degli «avversari»: si sono proposte cosf una intervista a un leader storico dei ’68 e una intervista ad un giornalista che si è occupato dei fenomeni neo-religiosi su un grande quotidiano. Il confronto con la militanza politica tradizionale e con il mondo dei media sembrava uno stimolo adeguato per rappresentare l’esterno con cui si misura questa area.
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L’intero percorso si svolge in otto sedute di tre ore ciascuna ?!. Alcune precisazioni completano questo quadro. a) La scelta del video nasce da un motivo di economia rispetto all’informazione, perché questo sembra lo strumento che fa perdere meno informazioni sul comportamento di un gruppo in situazione sperimentale. Inoltre è un mezzo molto efficace per il feedback. Di questi aspetti discuterò ampiamente pit oltre. Ciò che qui interessa è che il ricorso al video produce un’inevitabile selezione delle immagini, dunque dell’informazione raccolta. Questo problema è evidente se si usa una sola camera, ma resta anche usando più di una camera con la differenza che la funzione selettiva si sposta dall’operatore alla regia (occorrerebbe fare due registrazioni complete e separate, soluzione impraticabile in termini di costi e di tempo). Un modo per mantenere omogenea la distorsione è stato di utilizzare lo stesso operatore professionista per tutte le riprese, con la consegna di inquadrare per quanto possibile chi prendeva la parola. L'altro correttivo introdotto è stata la presenza di due osservatori. Il primo tiene una registrazione il più possibile fedele e completa degli scambi verbali, annotando inoltre le direzioni della comunicazione e i nodi su cui si concentra. Il secondo osserva alcuni elementi del comportamento non verbale (distribuzione nello spazio, abbigliamento, flussi di parola e silenzio, posizioni, sguardi, gesti). Questi verbali di seduta vanno a integrare le perdite di informazione dell'immagine video, permettendo una sintesi soddisfacente. b) La dimensione organizzativa dei gruppi naturali non può essere rilevata in maniera esauriente nella situazione sperimentale, se non per quanto riguarda i riferimenti indiretti dei partecipanti, i modelli di /eadersbip, alcune forme di strutturazione dell'interazione. Occorre dunque integrare la situazione sperimentale con l'osservazione partecipante del gruppo nel suo ambiente naturale. L'analisi è stata dunque completata da osservazioni, pre31 La fase di laboratorio si è svolta dal novembre 1981 al giugno 1982. Il percorso di otto sedute si è tenuto nell’area giovani e nell’area donne. Nell’area ecologica, che per la sua conformazione ha richiesto due gruppi naturali (cfr. il saggio di Barone), esso è stato realizzato in due sequenze di quattro sedute: una dilatazione della durata delle sedute e l’eliminazione del feed-back intermedio (chi siete) ha permesso di mantenere inalterata la struttura degli stimoli. La stessa cosa è accaduta per l’area della nuova coscienza, dove per esigenze di tempo, il percorso è stato concentrato in quattro sedute più lunghe. I gruppi naturali avevano la seguente composizione: area giovani 6 partecipanti (di cui due donne); area donne 8 partecipanti; area ecologica 10 partecipanti (una donna) e 7 partecipanti (una donna); area nuova coscienza 9 partecipanti (quattro donne).
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cedenti e successive all’esperienza di laboratorio, con la partecipazione a occasioni normali di riunione. Per le aree nel loro insieme sono state compiute osservazioni nelle occasioni, non numerose,
di mobilitazione pubblica. c) I dibattiti di area con gruppi costruiti sono, come si è detto, un utile complemento di informazioni sulla strutturazione delle aree e offrono lo spettro delle rappresentazioni ideologiche del movimento. Dei gruppi interamente prodotti dalla ricerca possono tuttavia funzionare come «gruppi di movimento» solo se in essi non prevalgono le dinamiche interpersonali. Di qui, come ho già detto, la scelta di creare situazioni di interazione a brevissimo termine e focalizzate su un obiettivo. L’esperienza dei gruppi naturali ha fornito il campo dei problemi su cui si struttura lilen tità del movimento. Di qui è derivata per ogni area l’indicazione dello stimolo da proporre come tema del dibattito e come ipotesi su cui verificare la strutturazione di area. I gruppi sono stati costruiti con uno o due militanti provenienti dallerealtà che nella fase del censimento
si erano dichiarate disponibili (si trattava
dunque sempre di membri dei nuclei). Per ogni area erano previsti tre gruppi costruiti da sottoporre rispettivamente a tre stimoli: un tema emerso come nodo centrale nella fase chi siazzo del gruppo naturale (per esempio marginalità/professionalità, militanza/impegno) e due interviste della fase chi siete (una di un «portavoce» o un «osservatore», una di un «avversario»). I partecipanti cambia-
vano per ogni seduta, della durata di circa tre ore 2. I vantaggi di un’interazione breve si sono scontrati con la difficoltà di motivare adeguatamente i gruppi presenti nell’area e i loro membri a partecipare a un percorso cosf circoscritto come quello dei dibattiti. L'andamento variabile della partecipazione ai gruppi costruiti oltre che rispecchiare problemi specifici di ogni area segnala due questioni che ritorneranno in questo libro. Da una parte la sproporzione tra gli investimenti dei ricercatori pet rendere possibili le riunioni (si pensi al tempo e ai contatti necessari e all'investimento materiale per predisporre il settirg video) e
32 Tre dibattiti, secondo lo schema indicato, sono stati realizzati nelle aree giovani e donne. Nelle altre due aree, per la scarsità dei gruppi presenti, gli stimoli sono stati unificati in una sola seduta più lunga. Le difficoltà della motivazione si sono manifestate nella grande variabilità della partecipazione e nel divario costante tra la disponibilità dichiarata e l’elevato tasso di assenteismo alle sedute. Ai gruppi costruiti hanno partecipato rispettivamente 7, 5, 7 membri di gruppi dell’area giovani: 6, 12, 3 dell’area donne; 6 dell’area ecologica; 10 dell’area nuova coscienza.
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l’alea dei risultati: questo esempio introduce il problema potere dei ricercatori/potere dei gruppi che affronterò nel prossimo paragrafo. La seconda questione che questo esempio segnala, riguarda la cultura specifica, propriamente organizzativa dell’area, che non assegna più un valore vincolante alla partecipazione a riunioni e che non separa pit l'aspetto strumentale (efficacia di una riunione rispetto ai fini) dal piacere/gratificazione che se ne può ricavare. L’assenza o il ritardo sono anch'essi dei modi di partecipare. Con queste difficoltà i dibattiti di area hanno fornito tuttavia una base consistente di informazioni sulla strutturazione di quel campo, che con un'ipotesi empirica era stato definito «area di movimento» e la cui esistenza, come ho già detto, andava verificata sul piano analitico.
4. Nuovi perché 4.1. Esistono fasi preliminari?
Tutti i contatti che precedono la fase sperimentale sono finalizzati a un duplice obiettivo: 4) permettere una raccolta di informazioni sulle realtà esistenti nell’area; 4) presentare la ricerca a dei potenziali
partecipanti e nello stesso tempo acquisire informazioni
per la scelta del gruppo naturale e dei componenti i gruppi costruiti. Questo duplice obiettivo crea una situazione particolare, perché si tratta di mantenere il contatto nei limiti dell’obiettivo 4) senza compromettere l’obiettivo 2). Il problema è dunque quello di fornire tutte le informazioni necessarie senza falsare la natura del rapporto, ma nello stesso tempo riservandosi gli elementi di valutazione che sono responsabilità dei ricercatori. Si tratta dunque di ottenere informazioni senza estorcerle sotto altri pretesti, ma dichiarando gli obiettivi della ricerca. Nello stesso tempo occorre trasmettere informazioni relative alla ricerca
che siano congruenti con il livello di interazione raggiunto. I primi contatti contengono già l’obiettivo 4) e sono dunque determinanti per il seguito suule del rapporto. In questo senso il problema è quello di valutare se esiste un’esigenza di autoriflessione e di fornire informazioni sufficienti a trasformare questa esigenza in disponiblità-domanda verso la ricerca. Una parte rilevante di queste informazioni consiste nel comportamento stesso dei ricercatori
che anticipa e dimostra la logica che guiderà il rapporto nel corso della ricerca.
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La linea seguita è stata perciò quella di restituire al gruppo contattato, fin dall’inizio, elementi di analisi in cambio delle informazioni che si ricevono. Il rapporto può considerarsi in tal modo concluso ogni volta attraverso uno scambio equilibrato che non lascia niente in sospeso e che mantiene aperta nello stesso tempo la possibilità di riprendere il contatto in una fase successiva. I primi contatti sono cosf già anticipazione del tipo di rapposo che la ricerca propone e lo esemplificano concretamente. ello stesso tempo essi non vanno al di là della disponibilità attuale del gruppo e rispettano la qualità dell’interazione esistente. La chiarezza dello scambio toglie ogni carattere strumentale alla raccolta di informazioni e nello stesso tempo rende possibile fin dall’inizio un contratto che potrà essere riformulato fino alla sua forma finale di partecipazione alla ricerca, oppure conclu-
dersi nelle fasi intermedie senza residui. Per rispettare questi orientamenti i contatti con le aree hanno percorso delle fasi che costituiscono dei passaggi verso la situazione sperimentale: dal contatto informale, alle interviste in profondità, alla decisione dei ricercatori di proseguire o meno il rapporto sulla base delle caratteristiche emerse. La proposta di partecipare alla ricerca nasce da una valutazione che tiene conto dei dati rilevati e della qualità della domanda: si giunge cosî alla scelta del gruppo naturale e dei partecipanti ai gruppi costruiti. Segue allora il contratto con la presentazione dettagliata dei contenuti della ricerca, del suo setting sperimentale, dei suoi aspetti organizzativi, su cui ci -si accorda. In senso proprio nessuna di queste fasi è «preliminare» e ognuna di esse costituisce una parte integrante della ricerca e della sua logica complessiva. 4.2. Restituzione
L’orientamento verso la restituzione rimane una costante dell’intero processo sperimentale. Esso si manifesta in maniera più sistematica nei feed-back, ma caratterizza continuamente il rapporto tra ricercatori e gruppi. Alla fine di ogni seduta (e ciò vale per i gruppi naturali e per i dibattiti di area) il conduttore rinvia degli elementi di osservazione su quanto è accaduto. Un rinvio pis occasionale avviene anche nel corso della seduta su specifici aspetti. Ciò che accomuna questi rinvii è l’attenzione 4/ come e non al perché: ciò che viene restituito verbalmente ha virtualmente le stesse qualità dell'immagine video rinviata dai feed-back. Riguarda cioè elementi fenomenologici del comportamento del
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gruppo e non introduce interpretazioni di tipo causale. La restituzione funziona cosf da stimolo che alimenta l’autoriflessione del gruppo e rende ogni volta visibile il contratto tra le parti. Durante la restituzione alla fine della seduta il gruppo viene invitato anche ad esprimere le proprie impressioni e valutazioni sull'esperienza appena vissuta.
La ricerca distingue cosi nettamente due livelli di analisi: 2) quella ferorzenologica nel corso dell’esperienza e 5) quella interpretativa a esperienza conclusa. a) Durante le fasi di laboratorio sia le restituzioni verbali che i feed-back mirano ad alimentare l’autoriflessione del gruppo, lasciandogli la responsabilità di utilizzare i rinvii di tipo fenomenologico che riceve. E evidente che la selezione dei comportamenti osservati e delle immagini da rinviare non è neutra e avviene in base ad una griglia. Non si tratta però di un insieme di ipotesi causali sull’azione del gruppo (qui la domanda sarebbe: perché il gruppo agisce cosî?); ma di un’ipotesi fenomenologica sul ruolo che certi comportamenti svolgono nello strutturare la Gestalt, cioè nel dare coerenza all’azione del gruppo e/o degli individui (qui la domanda è: come agisce il gruppo? come si struttura questo comportamento e che cosa fa dell'insieme un insieme?). Si potrebbe parlare qui di sisterzi di rilevanza [Schutz 1975]. L’attenzione si sposta dalla ricerca delle cause all’individuazione delle regolarità, delle cesure, dei ritmi del comportamento. Ciò che viene osservato e rinviato è piuttosto l’addensarsi o il diluirsi delle condotte intorno a certi nodi, le rotture e i silenzi nei flussi comunicativi e nella capacità di definizione del campo, il posto dell’azione individuale e dei singoli eventi nel sistema #3. Questo orientamento non interpretativo del rinvio dei ricercatori da un lato li libera da ogni ruolo di «maieuti» del senso del movimento, dall’altro sul piano strettamente metodologico permette di uscire da un circolo vizioso che caratterizza tutti i metodi di ricerca-intervento. In questi casi infatti si continua a parlare di ricerca e non di agitazione politica o di militanza, perché permane un assunto sugli obiettivi conoscitivi dell’intervento. Si presume anzi che il mutamento degli attori debba derivare proprio dall’im3 E evidente qui il riferimento oltre che alla fenomenologia alla teoria percettiva della Gestalt [Kohler 1962] e alle applicazioni che ne sono state fatte negli ultimi vent'anni nel campo della comunicazione e della relazione. Pur divergendo per molti aspetti, sia la Scuola di Palo Alto [Watzlawick 1980] che Fritz Perls [1976] condividono un atteggiamento gestaltico, più attento alla strutturazione del campo che alla ricerca delle cause.
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missione di questa conoscenza. Si produce però in questo modo un tipico circolo vizioso: infatti se l'osservatore modifica il campo mentre lo osserva, senza avere strumenti per controllare le modificazioni che introduce, la conoscenza che può ricavarne è priva di valore: niente assicura che ciò che viene osservato sia imputabile al gruppo e non invece agli input introdotti, oppure al caso. La conoscenza produce l’azione che produce la conoscenza. Questo circolo vizioso è evidente in Touraine. Egli intende scoprire il «senso» del movimento attraverso l'osservazione del comportamento del gruppo nel contesto sperimentale. Uno dei momenti fondamentali di questa situazione è quello della «conversione», cioè la risposta del gruppo all’ipotesi interpretativa prodotta dal ricercatore. L’esito
della conversione (accettazione o
rifiuto dell’interpretazione proposta) viene a sua volta utilizzato per stabilire il «senso» del movimento (cioè per fondare il risultato conoscitivo della ricerca). Ma nulla assicura che ciò corrisponda al
«senso» dell’azione del gruppo e non invece alla distorsione che, in situazione di laboratorio, il contenuto proposto dai ricercatori ha prodotto. Non si tratta qui di manipolazione, come alcuni critici rimproverano a Touraine in termini banalmente moralistici, quasi che i gruppi non avessero la capacità di difendersi dalle pressioni dei ricercatori. Il problema ha tutt'altro spessore e si sposta sul piano epistemologico. I risultati conoscitivi sul «senso» del movimento contengono quanto il ricercatore vi ha immesso. In una situazione «costruita» e avendo come obiettivo l’analisi del «senso» del movimento, si utilizza uno stimolo che ha la stessa qualità di ciò che si vuole scoprire e che risulta perciò indistinguibile dai suoi effetti. Le condizioni dell’esperimento risultano capovolte e lo stimolo è causa e effetto nello stesso tempo. I comportamenti e i significati osservati non si possono considerare un prodotto dell’azione del gruppo, ma come minimo risultano dall’interazione con l’ipotesi interpretativa introdotta dal ricercatore. Il fatto che il gruppo si riconosca (o meno) nell’ipotesi proposta non dice nulla sul «senso» della sua azione, ma indica soltanto il grado di vicinanza o di distanza, culturale e affettiva, dal ricercatore.
Tornando all’approccio non interpretativo che ho presentato (che si riferisce, si badi bene, solo alla fase sperimentale), esso sembra assicurare una via di uscita dal circolo vizioso in cui cade ogni situazione sperimentale che comporti una modificazione del campo osservato da parte dell’osservatore, senza controllo sugli
stimoli introdotti. Infatti introducendo stimoli di natura fenomenologica (il rinvio sul come), ciò che si modifica attraverso l’auto-
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riflessione è il campo delle risorse e dei vincoli in cui il gruppo agisce, o meglio la percezione di questo campo: il gruppo ridefinisce le opportunità e i limiti della sua azione e fa delle scelte, non sulla base di contenuti, di orientamenti sostantivi proposti dai ricercatori, ma sulla base della ridefinizione del campo che la restituzione favorisce. Questa ridefinizione resta sotto il controllo del gruppo, che evolve nella situazione sperimentale senza ricevere alcun «suggerimento» di merito sul dove sta andando o dove deve andare. Il campo osservato viene modificato anche in questo, come in tutte le situazioni di interazione diretta ricercatori/attori; ma qui è possibile controllare in misura ragionevole gli effetti dello stimolo e distinguere ciò che il gruppo produce da ciò che i ricercatori immettono nel campo. Infatti il rinvio sul come si avvicina idealmente a una forma vuota, che permette al gruppo di ridefinire il suo campo d’azione riempiendolo dei contenuti che via via produce. In altre parole ciò che questo quadro sperimentale permette di osservare è precisamente il formarsi e il definirsi dell’azione del gruppo. Il risultato conoscitivo dell’esperienza, cioè il materiale registrato, si può considerare cosf un insieme di protocolli sul modo in cui, attraverso una ridefinizione autonoma del campo prodotta per autoriflessione, il gruppo mette in funzione la sua identità collettiva, la mantiene o la modifica nel tempo. b) A questo punto prende senso l’analisi interpretativa condotta sul materiale registrato nella fase finale della ricerca. Qui non è più in gioco l’interazione col gruppo, dunque le condizioni di validità dell'esperimento. Sui protocolli ottenuti in precedenza possono intervenire ora ipotesi causali che legano tra loro i comportamenti, che li connettono a variabili dell’attore-movimento o del contesto più vasto.
4.3. La ricerca, situazione artificiale
Sottraendo un gruppo al suo contesto naturale e ancor pit costruendo dei gruppi per la ricerca, si determina fin dall’inizio una situazione artificiale. Non si può partire dunque da un assunto ingenuo sulla «naturalità» dell’azione del gruppo osservato, ma occorre piuttosto lavorare sulla situazione artificiale rendendola capace di fornire le informazioni attese. Ciò può avvenire solo se ricercatori e attori assumono il quadro sperimentale come campo entro il quale avviene il loro scambio. Per gli attori ciò significa l’accettazione di questo contesto costruito come condi-
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zione per il processo di autoriflessione, come condizione cioè per acquisire le risorse di informazione a cui aspirano. Per i ricercatori si tratta di rendere questo contesto non già il più possibile simile alla realtà, ma di esplicitare il più possibile il suo carattere artificiale: ciò significa renderlo capace di attivare e rilevare delle logiche d’azione al di là dei contenuti specifici, e nello stesso tempo di distribuire agli attori quelle informazioni che ne motivano l’investimento. In questa ricerca l’artificialità riguarda l’insieme della situazione sperimentale, ma si possono distinguere al suo interno alcuni aspetti di particolare rilievo. La natura costruita del contesto dipende a) dagli stimoli utilizzati e dal ricorso alla videoregistrazione; 5) dal carattere riflessivo del processo proposto che induce continuamente a una presa di distanza dall’azione abituale: c) dall’assenza di un «esterno» con cui i gruppi si confrontano invece nella loro esperienza reale. L’artificialità del contesto sperimentale pone due problemi: il primo di come motivare i partecipanti ad entrarvi e ad accettarne le condizioni e le regole; il secondo di come tener conto della «distorsione» eventuale che l’assetto della ricerca introduce sui risultati dell’interazione. Per affrontare questi problemi (si veda oltre paragrafo 4.4.) vorrei prima discutere i fattori di artificialità che ho indicato.
a) Gli stimoli. Il carattere artificiale degli stimoli è visibile soprattutto nella sirzu/azione e nell’uso del videotape. I. La simulazione è un tipo di stimolo che rompe i circuiti comunicativi abituali, allenta il controllo sulle condotte e permette di far emergere le logiche d’azione al di sotto dei contenuti. Mentre nel contesto naturale i contenuti riempiono la «forma» dell’azione, coincidono con essa e in qualche modo la occultano, nella situazione simulata i contenuti sono dei
pretesti, da cui
l’analisi può prescindere per cogliere i rapporti, gli orientamenti, le opportunità e i vincoli entro cui l’azione si muove. I limiti di questo strumento sono che quanto più la simulazione astrae i gruppi dalla loro esperienza reale, tanto maggiore è il rischio di rendere asettica l’azione, privandola dei connotati emozionali e delle qualità dinamiche che essa ha nella realtà; inoltre tanto più difficile è ottenere il coinvolgimento degli attori nel «gioco». In questa ricerca sono stati utilizzati gradi diversi di simulazione: î) interazione focalizzata, per esempio la ricostruzione della memoria del gruppo (chi, dove, quando). Qui l’intervento del ricercatore consiste solo nel focalizzare l’interazione su certi
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aspetti e nel mantenerla centrata sull’obiettivo. I contenuti sono tutti riferiti all'esperienza reale; si tratta dunque di una situazione di interazione quasi-naturale. ii) interazione riflessiva, in cui il gruppo attraverso lo sdoppiamento permesso dal gioco di ruoli produce delle immagini. I contenuti sono ancora quelli dell'esperienza reale (per esempio il gioco degli assenti e degli avversari), ma si allentano i vincoli di spazio e di tempo. iti) simulazione realistica, in cui il gruppo agisce a partire da uno scenario che mantiene vincoli realistici e che rientra nel contesto della sua esperienza possibile (per esempio TV, Foto). I contenuti sono invece aperti all'invenzione, col solo vincolo di essere compatibili col contesto. iv) simulazione pura, in cui il gruppo agisce in uno scenario completamente immaginario o formalizzato (per esempio Isola). Non c’è relazione al contesto possibile di esperienza e l’unico vincolo è costituito dall’aderenza alla situazione. Le prime due situazioni esigono un intervento meno diretto del ricercatore, mentre le altre due sono create dal ricercatore che invita il gruppo ad entrarvi. Nel passaggio cresce la dimensione di «gioco»: verso il polo di interazione quasi-naturale tendono a prevalere gli stereotipi e le regole codificate del gruppo, mentre verso il polo di simulazione pura è più facile l'osservazione di sistemi formali, con i limiti che ho segnalato. Il confronto dei comportamenti del gruppo rispetto a questi stimoli diversi permette di compensare i limiti reciproci. . n. Il videotape, scelto come lo strumento di registrazione che fa perdere meno informazioni, è anche uno dei fattori principali di «costruzione» del contesto sperimentale. Accanto allatelecamera e alla presenza dell’operatore, va segnalato il fatto che le sedute si tengono in un luogo distinto da quello abituale di riunione del gruppo e caratterizzato da un assetto particolare (in cui un ruolo non marginale hanno le luci necessarie per la ripresa). Il video rappresenta in sé uno stimolo. Il rischio principale è qui quello che il gruppo agisca «per la ripresa». Cosf posto, il problema è insolubile; ma si tratta di una difficoltà più astratta che reale. Anzitutto perché la presenza del video tende a venire rapidamente assorbita nel contesto e dopo i primi momenti non sembra costituire un fattore rilevante di disturbo; poi perché, come mostra l’esperienza delle ricerche etnologiche e antropologiche condotte attraverso l’immagine, se il fatto di essere oggetto di ripresa viene accettato dai soggetti, esso tende a
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favorire più che a inibire i comportamenti significativi34. In sostanza una volta che l’uso del video è stato accettato nel contratto, esso non fa che confermare al gruppo la natura costruita del contesto, ma non costitusce come tale un fattore di distorsione più importante di altri stimoli che rendono artificiale la situazione di ricerca. b) La riflessività del processo. La natura riflessiva del processo sperimentale è alimentata: dai feed-back (1); dalle restituzioni verbali del conduttore e dai momenti di discussione sull’esperienza alla fine delle sedute, in cui intervengono talvolta anche gli osservatori (11); dall’accumulazione stessa dell’autoriflessione a mano a
mano che l’esperienza procede (1). I. I feed-back video hanno il carattere di una restituzione forte. Talvolta l’immagine è fin troppo esplicita e crea una difficoltà del gruppo a riconoscersi e a ridefinire il campo della sua azione (per esempio certi feed-back provocano lunghi silenzi). In tutti i casi però questo tipo di restituzione ha prodotto un’intensificazione del processo di autoriflessione: il primo feed-back ha segnato per tutti i gruppi un salto nella qualità dell’interazione e nell’implicazione. Il gruppo passa, da una definizione stereotipa e appiattita della sua azione, a cogliere il sistema di relazioni che lo compone e che lo lega all’esterno, comincia ad inviduare i nodi del proprio agire e si focalizza su di essi. In termini generali gli effetti che il feed-back video crea sul gruppo si possono indicare nel modo seguente 5: i) modifica le regole dell'attenzione del gruppo e permette una diversa percezione del campo; îî) accentua in questo modo la percezione di risorse e limiti per l’azione, sia facendo emergere possibilità latenti, sia rendendo visibili paradossi e crisi; iii) accresce la quantità dell’interazione interna, la circola-
zione e lo scambio di informazioni (in più di un gruppo è comparsa l'affermazione: «queste cose ce le diciamo qui per la prima volta»);
34 Per una classica riflessione sul cinema etnologico: Rouch, Morin [1962]. Per l’uso del videotape nelle ricerche sul campo: Polunin [1970], Gottdiener [1979],
Palisi [1980]. 35 Devo alcune di queste osservazioni al contributo prezioso di discussione di G. A. Micheli.
5)
iv) accelera il tempo originale: uno dei problemi più delicati dell’esperienza di laboratorio è che questa accelerazione non è sempre compatibile con i ritmi di integrazione del gruppo. L’unica garanzia in questo caso è fornita dal contratto, cioè dalla possibilità per il gruppo di misurare il proprio coinvolgimento e di decidere del proprio ritmo di evoluzione; v) alimenta la dimensione del rito e del gioco, più di quanto non avvenga in condizioni «naturali». ui. Le restituzioni puntuali nel corso e alla fine delle sedute hanno, rispetto al video, la specifica qualità di produrre una ridefinizione immediata della situazione, con i vantaggi e i limiti segnalati appena sopra nei punti iii e iv. mm. Il procedere dell’autoriflessione produce un processo cumulativo che cresce su se stesso, integrando via via gli elementi che acquisisce. Il gruppo cambia e si ridefinise nel corso dell’esperienza. Per tutti i gruppi che hanno partecipato alla fase sperimentale si possono indicare alcuni elementi che caratterizzano questo processo cumulativo: 7) acquisizione di informazioni prima non disponibili o non circolanti relative ai membri; #7) diversa defini-
zione del campo d’azione del gruppo tra la prima e l’ultima seduta; i) la consapevolezza delle differenze tra il gruppo in situazione sperimentale e in situazione naturale; iv) il riconoscimento degli effetti dell’esperienza (valutati positivamente da tutti i partecipanti) 55. c) Presenzafassenza dell’esterno. Nella situazione sperimentale proposta il gruppo è separato dalle condizioni esterne abituali con cui si misura la sua azione. Se non si considera l’azione come espressione di un’«essenza», il rapporto con l’ambiente è importante quanto l’orientamento dell’attore. Riportare in laboratorio le condizioni esterne sarebbe una pretesa impossibile, ma esiste il problema di situare l’attore nel sistema di relazioni di cui fa parte. La soluzione adottata da Touraine di portare fisicamente degli interlocutori ad interagire con il gruppo si presta a due obiezioni principali. Una di ordine metodologico, e cioè che nell’interazione faccia a faccia tendono a prevalere le caratteristiche personali e le dinamiche affettive, rispetto al «ruolo» che l’interlocutore dovrebbe impersonare per il gruppo: ciò che si osserva è dunque
36 Questa valutazione è stata confermata a distanza di un anno negli incontri realizzati per sottoporre ai gruppi alcune delle ipotesi interpretative ricavate dall’analisi del materiale.
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principalmente l’interazione col Signor X e non la relazione sociale, per esempio con un avversario. Il secondo motivo, di ordine teorico, è che gli avversari dei conflitti sociali nei sistemi ad alta complessità non si incontrano faccia a faccia, perché le relazioni sono mediate dalla opacità di apparati istituzionali di grandi dimensioni. In questa ricerca la presenza dell’esterno è rappresentata dai ricercatori e dalle interviste della fase chi siete. I. I ricercatori hanno un ruolo che li lega a un’istituzione. In tal senso il rapporto ricercatori-gruppo può essere letto come un indicatore dei rapporti del gruppo con l’esterno: si tratta di un livello di lettura che può iniziare dalle prime fasi del contatto, in cui i ricercatori rappresentano davvero un esterno, e può proseguire per tutto il corso dell’esperienza ??.
n. Nella fase sperimentale vera e propria le interviste videoregistrate portano l’esterno, nella forma di figure simboliche, nel campo d'azione del gruppo. Questi stimoli hanno natura eminentemente simbolica, dato che le relazioni esterne del gruppo sono sempre più di tipo sistemico. È difficile infatti identificare persone fisiche che coincidano con la funzione di «portavoce» o di «avversario» dell’area: il gruppo ha relazioni dirette solo col suo ambiente immediato e ha relazioni «di sistema» col resto dell’ambiente. Le figure prescelte per le interviste, con i margini di arbitrio dovuti alle opportunità e alle decisioni dei ricercatori, rappresentano perciò il campo simbolico di riferimento del gruppo. In tal senso sono uno stimolo e non producono un confronto «naturale» (che del resto è problematico anche nella realtà). Ciò
37 Per esempio molto significativo è stato il contatto con il gruppo dell’area giovani. Qui i timori sulle intenzioni recondite dei ricercatori, la diffidenza e la richiesta di informazioni sul committente (il CNR sospettato di essere agente delle multinazionali), hanno fornito informazioni significative sul rapporto del gruppo con l’esterno, confermate poi nel corso dell'esperienza di laboratorio: la marginalità come distanza e disinformazione, la percezione stereotipa e impotente di un avversario impersonale su cui non si sa quasi nulla, l’estraneità alle istituzioni ecc. Nel caso delle donne il gruppo misto dei ricercatori ha rappresentato un esterno che ha fatto emergere la difficoltà a comunicare con un ambiente segnato dalla cultura maschile: per esempio di fronte a un feed-back in cui il gruppo faticava ad accettare la propria immagine, ne ha attribuito la responsabilità ai ricercatori maschi, mentre nei fatti erano state le'ricercatrici ad occuparsi del filmato. Su questo episodio si è innestata la riflessione del gruppo sul problema della comunicazione, centrale nella definizione dei rapporti con l’esterno. Nelle altre due aree è revalso invece un orientamento di apertura e di confronto sulle cose: i ricercatori Fiora rappresentato una risorsa da utilizzare caso per caso, senza la necessità di garanzie 4 priori.
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che si osserva non è dunque la mimesi illusoria della realtà (come si comporterebbeilgruppose...), mailmodoincuigliattori definiscono illoro campo d'azione, le logiche che li guidano nei rapporti conl’ambiente. Da questo punto di vista, anche la simulazione della TV offre elementi importanti circa l'orientamento del gruppo verso l'esterno.
Si può considerare questo livello di osservazione ancora insufficiente e tale è il mio sentimento a conclusione della ricerca. Mala via percorsa mi sembra tuttaviaun passo avanti, siarispetto adanalisiche pretendono di individuare il campo d’azione di un movimento a partire dalle opinioni degli attori, oppure che lo deducono dalla condizione strutturale del gruppo. 4.4. Relazionee
potere
Restano ora per concludere i due problemi che ho richiamato più sopra: a) sela situazione di ricerca è una situazione artificiale, come si
ottiene l'adesione alle regole e ai codici che la governano, cioè come accade che ricercatori e attori «giochino il gioco?»; 5) come si valuta
inoltre la distanza dalla situazione «naturale»? a) Il primo problema è dunque quello della motivazione. Questo modello di ricerca non ha altro strumento di motivazione che il contratto che si stabilisce tra ricercatori e attori. In altre parole niente assicura in partenza chela fase sperimentale produca irisultati attesi. Infattiseilcontrattoèrivedibile, ciò che accade dipende dall’investimento dei partners. Ciò che iricercatori ottengono in termini di informazioni non discende automaticamente dagli stimoli utilizzati, ma dall’investimento degli attori e dalla loro disponibilità a giocare il gioco. D'altra parte però, gli attori si accorgono rapidamente che ciò che essi ottengono come restituzione non dipende da un sapere 4 priori dei ricercatori, ma da ciò che il gruppo stesso produce nella situazione sperimentale. i Ungrupporeticente o nondisponibile a «mettere in gioco» la propria azione, arriverebbe rapidamente allo stallo: le condizioni Do ricerca sono tali che è possibile interrompere il rapporto in ogni momento. Ciò non si è verificato con nessuno dei gruppi, ma certamente il grado di coinvolgimento è stato diverso nelle varie aree: il gruppo naturale dell’area giovani per esempio, per ragioni legate alla sua situazione e alla cultura dell’area, ha rivelato le maggiori difficoltà ad assumere la situazione artificiale della ricerca come campo d’azione. Si chiarisce qui un altro aspetto della relazione ricercatori/ gruppi: non c’è asimmetria di potere, ma solo diversità di risorse.
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Infatti se i ricercatori mantengono un controllo privilegiato su alcuni aspetti della situazione sperimentale, il gruppo dispone di un potere di sanzione molto elevato. La competenza dei ricercatori si esercita nella proposizione degli stimoli e nella selezionemontaggio per il feed-back. Le discussioni alla fine delle sedute e le spiegazioni introduttive delle simulazioni (che non anticipano però la chiave del gioco) riducono continuamente questa area privilegiata di controllo. A fronte di ciò, il gruppo ha la possibilità, con la semplice assenza, di annullare in ogni momento tutti gli investimenti, di tempo e materiali, fatti fino a quel punto dai ricercatori 8. Inoltre può erogare le informazioni con i criteri che ritiene più opportuni ??. 5) I Age ema finale riguarda la «distorsione» dei risultati in situazione artificiale. Dovrebbe essere ormai chiaro che questa formulazione è già fuorviante. Infatti la situazione della ricerca è artificiale e non si tratta di compararla con una situazione «naturale» presupposta. Il contesto sperimentale si propone come un campo in cui il gruppo produce la sua azione e la ridefinisce attraverso l’autoriflessione. Il problema è allora di depurare il più possibile questo campo dalle interferenze che possono modificare l'oggetto di osservazione e cioè le logiche d’azione di un attore collettivo che è parte di un’area di movimento. Il gruppo viene mante-
nuto dagli stimoli il più possibile centrato sulla sua definizione sociologica: l’unico serio fattore di disturbo è il rischio che si trasformi in un gruppo di dinamica o in un gruppo terapeutico.
Lo strumento fondamentale è qui il controllo sulla relazione ricercatori-attori. Questo livello è stato continuamente tenuto sotto osservazione nel corso della ricerca e molte energie del gruppo dei ricercatori sono state investite in questa direzione. Elencherò alcuni degli strumenti utilizzati: a) una formazione dei ricercatori che hanno utilizzato il proprio gruppo come campo di autoanalisi. Senza trasformare un gruppo di lavoro in situazione terapeutica, i ricercatori hanno tuttavia sperimentato su di sé alcuni degli strumenti utilizzati successivamente coi gruppi e hanno fatto ricorso a una supervisione esterna di tipo professionale. In questa ricerca la fase di contatto 38 È quanto è accaduto per la prima seduta dell’area giovani, dove malgrado gli accordi, il gruppo non si è presentato. Solo il superamento delle diffidenze e delle obiezioni ideologiche ha permesso successivamente l’avvio dell’esperienza. 39 Sempre nell’area giovani e per le ragioni già richiamate, i partecipanti hanno mostrato molta reticenza a fornire informazioni personali, che andassero al di là della situazione del gruppo, come per esempio l’età o il lavoro svolto.
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coi gruppi, il contratto, l'osservazione delle sedute, la selezionemontaggio del materiale video richiedevano ski//s specifici. Per non essere strumenti ciechi occorreva tarare le differenze e moltiplicare all’interno del gruppo di ricerca gli «occhi» con cui guardarsi. Si è realizzato cosf un allenamento all’analisi dei processi interattivi, riducendo le interferenze dovute alle particolari qualità percettive e affettive dei singoli ricercatori; 5) l’unicità della conduzione delle sedute ha garantito un’omogeneità nella proposta degli stimoli e nello «stile» della restituzione. Una formazione del conduttore è stata una condizione dell’esperienza ‘9; c) l’analisi della relazione ricercatori-gruppo: questo livello di osservazione è stato fondamentale per mantenere lo scambio all’interno dello specifico livello sociologico prescelto. Nella fase del contatto iniziale con i gruppi i ricercatori ne hanno analizzato la domanda, ma congiuntamente si sono concentrati sulla propria implicazione: scoprendo per esempio che molte difficoltà nascevano dalle paure e dalle proiezioni dei ricercatori più che da reali resistenze dei gruppi, i quali si rivelavano invece disponibili e interessati a proseguire i contatti. Nella fase delle sedute, un certo tempo è stato sempre dedicato all’interno del gruppo di ricerca ad un'analisi della conduzione e dei livelli affettivi della relazione. La figura 1 sintetizza il modello complessivo della ricerca e i problemi che ho discusso fin qui. Si può ritenere, in conclusione, che il quadro sperimentale si sia mantenuto nei limiti del contratto e si sia centrato sul livello propriamente sociologico dell’azione dei gruppi, secondo l’obiettivo previsto. L'analisi condotta nella fase finale ha permesso poi di distinguere ulteriormente gli aspetti dell’azione e di connettere quelli pertinenti con i dati generali raccolti per altra via. Controllando in misura ragionevole gli effetti degli stimoli introdotti e riducendo, se non azzerando, il peso di altre variabili, si è potuto ricostruire quel livello intermedio di analisi tra sistema e attori, tra condizione e azione che questa ricerca ha assunto come oggetto significativo. A partire di qui è stato possibile riproporre la domanda sui conflitti sistemici a natura antagonista nelle società complesse, ricavando degli indizi di risposta e degli orientamenti per formulare domande più specifiche. I saggi per aree e per dimensioni e il saggio finale illustrano i risultati di questo lavoro. 40 Per la conduzione ho potuto contare sul fatto che accanto alla esperienza sociologica ho maturato una formazione in psicologia clinica, conclusa da un dottorato presso l’università di Paris-VII.
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GIOVANI SUL TERRITORIO URBANO: L’INTEGRAZIONE MINIMALE
1. I movimenti giovanili tra innovazione culturale e azione politica
1.1. I giovani come co-attori del cambiamento
Riferirsi ai «giovani» significa oggi riferirsi ad una realtà eterogenea. Anzitutto perché sta emergendo una crescente ambiguità su tale qualifica sociale. Se è acquisito che lo strutturarsi di una condizione specifica tra prima adolescenza e età adulta fa parte degli «effetti della modernizzazione economico-sociale» [Gillis 1981, 51 ss.], meno sicurezza e univocità esistono circa i parame-
tri che ne stabiliscono i confini attuali!. A livello statistico-descrittivo è convenzionalmente considerato giovane chi ha superato l’età dell’obbligo scolastico e non ha ancora una collocazione stabile sul mercato del lavoro. Ma se tale criterio può fissare la soglia d’entrata nella condizione sociale di giovane, il superamento di certi limiti d’età e la collocazione garantita sul mercato del lavoro non segnano necessariamente l’ingresso in quella adulta. Soprattutto per certi comportamenti (nei consumi, nel /eisure time, nel privato) emergono la tendenza e la possibilità di fruire di certe prerogative attribuite alle giovani generazioni (edonismo, vitalismo, espressività, indefinitezza delle scelte), indipendentemente dalla collocazione professionale e/o di età. La «condi-
Giovanni Lodi ha curato la stesura dei paragrafi 1 e 3; Marco Grazioli quella del paragrafo 2; le conclusioni sono state stese in comune. Antonio Valente ha partecipato alla ricerca sul campo e alla discussione preliminare dei risultati. 1 Queste stesse perplessità sono espresse da V. Capecchi a commento del Convegno «Giovani lontano. Da dove?», organizzato dall'Istituto Gramsci dell’Emilia-Romagna nel novembre 1981. Egli si chiede: «... è sufficiente definire una “certa età” per parlare di “giovani”? E qual è questa età?». La sua risposta è che l'impossibilità attuale a riunificare i parametri usati dai diversi approcci non dipende tanto dagli effetti della complessità e della crescente differenziazione nella struttura sociale e dei modelli di analisi, quanto dalla crisi del «paradigma economicistico» con cui in passato si sono interpretati i fenomeni sociali [Capecchi 1982].
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zione giovanile» va dunque articolandosi non solo in riferimento ai criteri tradizionali di differenziazione interna ma anche in base a variabili esterne di natura culturale. La «gioventi» smette di funzionare da fase di passaggio 2per divenire un’esperienza che l’individuo può inserire e mantenere attiva in fasi diverse della propria vicenda sociale ed esistenziale. Si trasforma in simbolo: la giovinezza come evocazione di anticonformismo, trasgressione,
ricerca del rischio e del piacere, onnipotenza. Le culture giovanili come «stile» [Hebdige 1979]. In questo quadro socialmente mutato, alcune categorie di giovani assumono la funzione di sperimentare ciò che la società non può ancora praticare. Si realizza uno scambio fondato su bisogni diversi che s'incontrano in un punto: i sistemi complessi devono continuamente innovare e innovarsi; alcune avanguardie giovanili hanno il monopolio di certe dimensioni del cambiamento 4. Su uno scenario sociale connotato dall’incremento costante di terziario e di quaternario, dalla trans-nazionalità di culture e di stili di vita, dalla frantumazione di credenze consolidate, alcuni settori dell’universo giovanile possono esibire e spendere la propensione al nuovo, al diverso, all’insolito che li connota. L’offerta di tali risorse trova attenzione sia presso i talent-scouts del mercato, dell'industria culturale, del costume, sia presso i pianificatori del controllo sociale. Da quando — con gli anni Cinquanta — il bisogno di innovazione è diventato una costante, le insorgenze giovanili hanno funzionato da referente per l'abbandono di atteggiamenti, comportamenti, ruoli e identità non funzionali alla transizione verso la
? L’ipotesi della condizione giovanile come fase funzionale al passaggio da una collocazione familistico-protetta ad una pubblico-competitiva risale a S.N. Eisenstadt [1956] anche se è chiaramente derivata dalla teoria generale di T. Parsons. 3 Il privilegiare questo aspetto non significa disconoscere l’importanza degli elementi che tradizionalmente strutturano la condizione giovanile e che rimandano alle contraddizioni di ambiti quali la famiglia, la scuola, il mercato del lavoro. L'azione giovanile travalica questi ambiti anche se trova in ognuno occasioni strutturali per emergere. Segnaliamo alcuni contributi che in parte ridefiniscono l’approccio tradizionale in termini di «condizione». Per «giovani e famiglia»: Ricolfi e Sciolla [1980]; Bettin [1982]; Paci [1980]; Willis [1983]. Per «giovani e scuola»: Ricolfi e Sciolla [1980]; Bianchi, Genovese e Grandi [1982]; Willis [1977]. Per «giovani e mercato del lavoro»: Capecchi [1980, 1981, 1983]; De Masi [1983];
Piccone Stella [1982]. 4 Per una ricostruzione storica del rapporto tra propensione all'innovazione di alcuni gruppi
sociali più vicini al «sottosistema culturale-scientifico» (intellettuali e
giovani della borghesia) e il bisogno di sperimentazione della società capitalistica cfr. Rositi [1978].
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società di massa a crescente differenziazione. Gli anni Sessanta hanno visto questa funzione estendersi al sistema politico. Agli antipodi geo-politici (Usa e Cina) gli «studenti» hanno sperimentato le loro capacità-possibilità di innovazione politica. Questo episodio è emblematico dei costi che i sistemi complessi devono pagare per modernizzarsi. L'invenzione di nuovi modelli del sociale presuppone spazi di autonomia, di libertà, di sperimentazione. Il sistema li deve accordare se vuole garantirsi le potenzialità innovative dei gruppi sociali che le detengono. Questi gruppi possono usarne in modo più o meno conflittuale secondo le contingenze storiche e la conformazione del campo in cui si trovano ad agire. Negli anni Cinquanta sono i giovani proletari anglosassoni che sperimentano, per primi e insieme, il consumismo e il ribellismo giovanili. Dispongono di salari crescenti e verificano la dissoluzione dei valori tradizionali: agendo sul mercato dei nuovi simboli giovanili e aggregandosi per bande danno forma e contenuto all’identità collettiva emergente tra le giovani generazioni ?. Nei Sessanta sono gli studenti che rifiutano di legittimare il passaggio alla programmazione tecnocratica del sociale e praticano, in alternativa, la politica dal basso e la partecipazione diretta 6. Nei Settanta, in piena società dell’immagine, tecnologica e computerizzata, i giovani, profeti della creatività, reinventano l’espressività a partire dal corpo e dai segni che ne accompagnano la presenza”. Negli Ottanta i sedicenni del post-terrorismo riscoprono la pace e la usano per affermare una diversità fatta di universalismo e di disincanto 8. Volta per volta le poste in gioco sono state nell’ordine del possibile e dell’impossibile. Come ogni attore collettivo, anche queste avanguardie giovanili hanno cercato di capitalizzare al meglio le risorse che controllavano. Hanno dovuto confrontarsi con una contraddizione peculiare: come riportare ai criteri di razionalità 5 Riguardo a questo fenomeno cfr.: Cohen [1963]; Hall e Jefferson [1976]; Mungham e Pearson [1976]. Per la «riconversione» di questi modelli di comportamento negli anni Ottanta a Milano cfr.: Calabrò e Leccardi [1983].
6 Sulla «contestazione studentesca» degli anni Sessanta, per gli Usa: Draper [1966], Keniston [1972]; per il Giappone: Bellieni [1969]; per la Francia: Touraine [1968], Morin [1968]; per la Germania: Bergmann e altri [1968]; per l’Italia: Oliva e Rendi [1968]. ? Per la «creatività» degli anni Settanta: Roszak [1971]; Melucci [1977, 1982]; Carrera [1980]; Willis [1978]; Hebdige [1979].
8 Per il movimento per la pace degli anni Ottanta: Rampini [1982]; Baccelli e Della Croce [1982]; Isernia [1983];
Hegedus [1983].
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dello scambio politico risorse affidate alle rotture, alle improvvisazioni, alle intempestività. Questa contraddizione è presente in tutte le occasioni che hanno visto la società entrare in collisione con i microcosmi «alternativi» di matrice giovanile. Lo scontro è avvenuto sul significato e sui limiti da assegnare all’innovazione. Entrambe le parti sono interessate al cambiamento: il sistema vuole e può accedervi solo in maniera controllata e mediata dal consenso diffuso (o dall'autorità); le avanguardie giovanili lo vogliono finalizzare al proprio bisogno di protagonismo e di realizzazione. La post-modernità delle società contemporanee ridefinisce entrambe le strateie. L’imperativo di sopravvivere alla «crisi» rimette in circolo orme tradizionali di organizzazione sociale. Metropolitanità e regionalismo, assistenzialismo e self-help, tecnologia e artigianato si combinano dando vita a rapporti sociali in bilico tra passato e futuro, tra vecchio e nuovo. Le avanguardie giovanili sono sospese tra la rappresentazione caricaturale degli esiti della crisi e l’estraniazione da un contesto sociale che minimizza la domanda di cambiamento e svalorizza le risorse di innovazione. Essendosi garantiti spazi di sopravvivenza, i giovani assistono a rituali che li riguardano solo in parte. Tra assenza e integrazione minimale essi non hanno smesso di agire collettivamente: «Students may be cynical (about politics) but they're not stupid. When action can make a difference, action occurs»?. 1.2. Movimenti giovanili e sistema politico
Le prime insorgenze di un movimento a base giovanile focalizzato sul sistema politico si manifestano nella prima metà degli anni Sessanta. Sono le nuove leve di studenti americani che, a partire dai campus più progressisti, pongono in discussione anzi-
tutto la legittimità del sapere accademico e la sua subordinazione al potere economico; inoltre — e in termini più generali — l’in-
? Questa affermazione chiude il lavoro di Segall e Pickett [1979] sul coinvolgi-
mento «politico» degli studenti americani negli anni Settanta, da cui emerge che né la crisi economica e i suoi effetti disgreganti, né la crescente differenziazione della base studentesca, indotta anche dall’apertura degli accessi e da politiche assistenziali differenti sulla base di sesso, razza, reddito, hanno impedito l’azione collettiva degli studenti, soprattutto di classe media (i più danneggiati dalle politiche assistenziali). Alla coesione e agli obiettivi universalistici degli anni Sessanta si sono sostituiti differenziazione ed obiettivi puntuali.
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coerenza tra i valori affermati dalla società adulta e la loro pratica reale. Su queste basi si realizza una convergenza immediata con il movimento per i Diritti Civili e con quello di opposizione alla guerra del Vietnam !°, Tuttavia se questi fattori agiscono da detonatori della mobilitazione, esistono ragioni di natura strutturale che giustificano la rivolta studentesca. I mutamenti intervenuti nei processi produttivi attribuiscono un’importanza crescente alle risorse di «capitale umano» di cui sono depositari privilegiati le generazioni coinvolte nell’espansione della scolarità ai livelli superiori !!. Questa nuova rilevanza potenziale non comporta di per sé un immediato riconoscimento in termini di rappresentanza politica e di autonomia sociale. Si delineano le condizioni per la trasformazione del rapporto giovani-adulti da semplice processo generazionale, anche se di natura conflittuale, in un antagonismo che vede contrapposti due progetti alternativi di organizzazione sociale. Nonostante la «crisi delle ideologie» questo antagonismo si colloca in società che investono ancora molto sul futuro e si affidano alle possibilità di uno sviluppo ininterrotto. Su tali orientamenti i gruppi sociali emergenti sono chiamati a misurare le richieste di cittadinanza politica e i progetti di cambiamento sociale di cui si fanno portatori: ciò spiega il ricorso massiccio a progetti globali di lungo periodo, tipico dei movimenti studenteschi degli anni Sessanta. Inoltre la qualifica di forza lavoro istruita (seppur in formazione) consente alle élites studentesche mobilitate di proporsi come potenziale leadership di ricambio in un’ipotesi di mutamento radicale dei rapporti di potere: la memoria storica delle avanguardie intellettuali nei moderni processi rivoluzionari dà coerenza a tali aspettative. Infine questi movimenti presentano una sostanziale omogeneità sociale in quanto i loro attori provengono dalle classi medio-alte e fanno capo alle università più avanzate. Questi caratteri giustificano l’adozione di ideologie in senso forte: la richiesta di cittadinanza si colloca in un progetto più ampio di ridefinizione dei rapporti sociali e ciò assicura una notevole integrazione ideologica a un movimento già socialmente e culturalmente omogeneo.
10 Alcune recenti analisi hanno fatto il punto sulle mobilitazioni studentesche negli Stati Uniti: Freeman [1983], Martinelli [1978], Youth Protest in the 60°s [1980].
11 Sulla natura e sul ruolo degli studenti come nuova intelligentsia cfr.: Tou-
raine [1968-1969]; Flacks [1971]; Bowles e Gintis [1976].
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In questa prima fase non sono i giovani in quanto tali a mobilitarsi ma una loro componente, quella che meglio controlla le risorse idonee a proporre il massimo di universalismo e a parlare in nome non solo di una generazione ma di una classe. Ciò limita e rende selettive le appartenenze, ma assicura al movimento una notevole coesione. La ragione che ne segna la sconfitta soprattutto nel nostro paese non va allora cercata tanto nella sua fragilità, ma piuttosto nell’impossibilità ad applicare le forme di azione collettiva proprie delle fasi iniziali dello sviluppo capitalistico al tardo capitalismo !2. La complessità sistemica annulla la possibilità per qualsiasi gruppo sociale di esercitare un’egemonia complessiva: nessun attore collettivo è sufficientemente omogeneo
e/o
escluso da elaborare un progetto di alternativa globale all’esistente. Mercati del lavoro differenziati in quote forti e in quote deboli, coesistenza funzionale di settori produttivi avanzati e arretrati, gli effetti dissociativi delle politiche di welfare, l’azione dei media e della cultura di massa sono alcuni degli elementi che spingono verso la sovrapposizione degli interessi e delle identità. Inoltre, nel passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta, la forza-lavoro giovanile altamente scolarizzata, che si era proposta come potenziale avanguardia di un processo rivoluzionario, si trova indebolita. L'istruzione superiore assume dimensioni di massa; l’inizio di una fase di recessione toglie competitività a settori avanzati che avrebbero dovuto garantirne l’assorbimento. Dequalificazione e disoccupazione pongono fine alla spinta conflittuale espressa dagli studenti e delineano le nuove condizioni di disagio giovanile !4. Con gli anni Settanta, la «crisi» è dunque in grado di ridefinire l'orizzonte strategico delle società complesse intervenendo sia nei modelli di funzionamento del sistema che sulle aspettative degli attori sociali. Se gli «studenti» avevano impersonato le attese tardive di un’utopia basata sul futuro, i «giovani» degli anni Settanta accettano di misurarsi non solo con il cambiamento di prospettiva, ma con gli esiti più dirompenti delle nuove strategie sistemiche: focalizzano gli obiettivi sul presente e scelgono di misurarsi col sistema a partire dalla propria marginalità. Testimone privile-
12 A questo proposito si veda Grazioli, Lodi in questo volume. 13 Le analisi classiche di questi temi sono in O°Connor [1977] e in Offe [1977]. 14 Sul rapporto tra scolarizzazione di massa e disoccupazione giovanile esiste una bibliografia sterminata. Per le analisi più recenti si veda la sezione «Giovani» della bibliografia ragionata.
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giato delle contraddizioni che traversano il tardo-capitalismo, emerge una nuova figura sociale di giovane: proviene da un entroterra socio-culturale eterogeneo, non ha aspettative di valorizzazione professionale, perde i caratteri della omogeneità sovranazionale e si adatta ai diversi contesti territoriali. Per quanto riguarda la situazione italiana, questi fattori si combinano nel movimento del ’77 che fa propri l'assenza di un progetto di lungo termine e una dichiarata contingenza degli obiettivi 15. Il permanere della crisi e la crescente competizione per risorse sempre più scarse annullano le condizioni per un’azione collettiva con intenti di solidarietà e uguaglianza. A questa situazione di blocco sociale, le generazioni del post ’68 rispondono esasperando le contraddizioni lasciate aperte dalla fase precedente. Prendono atto dell’impossibilità di ruoli egemoni in società che si reggono sulla frammentazione degli interessi e rivendicano autonomia; intervengono sul concetto classico di razionalità e rifiutano l’azione progressiva tradizionalmente svolta dalle élites intellettuali; accettano il ridimensionamento delle possibilità di mutamento e scelgono di agire in spazi sociali minimi ed esclusivi. A partire dallo «specifico giovanile» il movimento del ’77 sceglie di trasformare la diversità in risorsa, accentuando invece che occultare il particolarismo degli interessi e delle appartenenze. Ciò consente a questi «giovani» di affermare una presenza autonoma in società che tendono a negarla o comunque a controllarla. In termini più generali essi vogliono assicurarsi un’esistenza separata in sistemi che inglobano e annullano gli interessi non caratterizzati e quindi non competitivi. Queste strategie rivolte all’esterno rispondono contemporaneamente alla sostanziale eterogeneità degli attori della mobilitazione: l'allargamento degli accessi universitari e la diffusione del lavoro precario da un lato, dall’altro il sovrapporsi di culture e stili giovanili eterogenei sono tutti fattori che inducono provenienze e collocazioni disomogenee. Rinunciando a obiettivi universalistici, questo movimento rende esplicita la frantumazione dei conflitti
15 Nella vasta produzione riguardo il movimento del ’77 è oggi soprattutto interessante rifarsi alla documentazione originale prodotta in quel periodo: Vivere insieme [1977]; Bologna Marzo 1977 [1977]; I non garantiti [1977]; Dalla riforma universitaria alla rivolta nelle facoltà [1978]; Berardi [1977]; Bernocchi e altri [1979]; Castellano [1980]; Circoli proletari giovanili di Milano [1977]; Collettivo
redazionale «La Nostra Assemblea» (19771; Eroio [1977]; Martignoni, Morandini [1977].
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operata dalle società complesse. La limitata progettualità ne facilita l’estensione ma impedisce un’integrazione ideologica di lungo periodo. L’utopia dei «bisogni radicali» nelle sue diverse versioni si rivela una parola d’ordine efficace quanto di portata strategica limitata: il suo potere di coinvolgimento è immediato ma destinato a esaurirsi nel breve periodo. Questa fase del movimento verifica che l’esasperazione della diversità e della separatezza è
una strategia vincente fintanto che riflette una emarginazione sociale. Nel momento in cui, sia a livello simbolico che reale, il sistema è in grado di colmare il vuoto che isola il «diverso», essa si
riduce a ghettizzazione. Se il movimento del ’77 era riuscito, sulla base di una reale
subalternità che i giovani sperimentavano
ai vari livelli del
sociale, a creare una nuova solidarietà al di là della atomizzazione
degli interessi e a segnare una precisa distanza da ‘un «esterno» rappresentato come avversario generalizzato e diffuso, i giovani degli anni Ottanta si trovano collocati in un contesto mutato e
mutano di conseguenza le strategie di azione collettiva. A livello del sistema, i processi avviati nella seconda metà degli anni Settanta provocano una diversificazione interna della marginalità [Paci 1982]. I giovani, chiaramente penalizzati sul mercato del lavoro garantito, trovano parziali compensazioni in termini di assistenzialismo, prestazioni di servizi, partecipazione ai trasferimenti di risorse pubbliche alle famiglie. Inoltre, per chi ha fatto esperienze organizzate di mobilitazione, si va consolidando la possibilità di valorizzare professionalmente le competenze acquisite e di collocarsi negli spazi trascurati dal mercato e dalle istituzioni. Infine il voto ai diciottenni (1975) costituisce il sintomo pit for-
malizzato e palese di una strategia di integrazione in termini di riconoscimento della cittadinanza. Se non sono sufficienti a mutare nella sostanza una collocazione di per sé subalterna, questi elementi sono in grado di interrompere quella continuità nei fattori di emarginazione che aveva caratterizzato l’esperienza giovanile degli anni Settanta. Inoltre la riscoperta del privato, al di là della sua banalizzazione in termini di «riflusso», assegna una rilevanza nuova agli ambiti più ravvicinati dell’esperienza individuale. L'abbandono di progettualità politica assume un duplice significato: anzitutto di adattamento a una situazione di stasi sociale in cui tuttavia alcune delle discriminazioni più vistose sono state rimosse; in secondo luogo di trasferimento delle aspettative di identità dal sistema politico ad altri ambiti del sociale. Da qui l'ipotesi che i giovani del post ’77, sulla base delle modificazioni nel frattempo intervenute, abbiano rinunciato all’esasperazione
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di interessi settoriali in funzione ideologica; da qui la scelta di ridefinire dall’interno del sistema la loro collocazione sociale. Questo percorso non significa un ritorno a una situazione del tipo anni Cinquanta. Al contrario, le modificazioni intervenute nel sistema nel.suo complesso, e nel «privato» in particolare, rendono impossibile un semplice arretramento a condizioni superate. Tuttavia valutare il segno di quelle emergenti è ancora difficile. Questa provvisorietà di giudizio risulta confermata dalle mobilitazioni attuate di recente dai giovani. Assumendo come emblematica la partecipazione studentesca alle prime uscite del movimento per la pace nell'autunno 1981, si nota un’adesione di massa ad obiettivi di natura intergenerazionale, ma anche il rifiuto di collocare la «campagna per la pace» in una strategia politica più ampia. Questa scelta ha inteso esprimere una distanza sostanziale da un sistema politico sempre più professionalizzato e selettivo. Tuttavia essa si accompagna a un mutato atteggiamento di confronto con il mercato e le istituzioni. L’obiettivo dei giovani come attori collettivi diventa quello di assicurarsi spazi garantiti di autonomia e di facilitazione per azioni nel presente. L’analisi empirica sull'area milanese ha traversato, in una sorta di prospezione geologica, strati diversi dell’azione giovanile, ritrovando le tracce del passato e i segni del nuovo. Quanto abbiamo richiamato fin qui in termini generali costituisce il quadro in cui si muove la ricognizione empirica: i dati ne sono illuminati e contemporaneamente contribuiscono a ridefinirlo. 2. L’area milanese come specchio delle culture e delle forme di azione giovanile 2.1. Una mappa delle aggregazioni giovanili a Milano
L’indagine sulle forme di aggregazioni giovanili presenti a Milano ha investito in primo luogo i centri sociali. Ciò che è apparso subito chiaro è che i centri sopravvissuti all’esperienza di trasformazione in circoli giovanili nel periodo ’75/78 hanno perso la caratteristica di punti di aggregazione per gli abitanti del quartiere; essi si sono riconvertiti, mediante l’accentuazione delle tendenze già presenti nel triennio indicato e pur col permanere di istanze politiche soprattutto sul problema della casa, verso attività prevalentemente rivolte nell’ambito cultural-musicale, del tempo libero o della controinformazione, senza tuttavia manifestare la stessa forza aggregante degli anni precedenti [Sor-
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lini 1978]. Teatro, musica, professioni tradizionali in segmenti di mercato alternativo, corsi di animazione, di mimo, di fotografia, attività artigianali coesistono spesso nei locali del centro, a volte occupato, a volte concesso dagli enti locali. nche la struttura organizzativa presenta dei cambiamenti. La «gestione democratica» attraverso l’assemblea settimanale è un omaggio al passato a cui ci si richiama, ma che ha lasciato in genere il posto all’occupazione degli spazi del centro da parte dei gruppi interessati ad utilizzarli; non si avverte la necessità di decisioni collettive al riguardo e non si costituiscono organismi collettivi che vogliano o siano in grado di dare un significato ideologico all’utilizzo dello spazio liberato. Le diverse situazioni aggregative presenti nello stesso centro convivono spesso senza che intercorra alcun rapporto tra loro. I centri sociali attivi a Milano nei primi mesi dell’81 erano circa una decina e la loro presenza copriva un arco che andava da realtà paraistituzionali, appoggiate direttamente o indirettamente dall’ente locale, a situazioni con strutture organizzative quasi inesistenti, o puntellate da consolidate relazioni di tipo amicale tra i membri, che rifiutavano ogni rapporto con le strutture del decentramento. Contemporaneamente forme di aggregazione sostitutive o nuove, almeno per l’area milanese, stavano invece emergendo soprattutto nella forma di nuovi comportamenti o di nuove modalità espressive. Nascono numerosi gruppi che, almeno nel modo di proporsi, si rifanno alle bande giovanili americane o inglesi degli anni Cinquanta e Sessanta (e anche Settanta nel caso dei punk). Mods, punk, rockers, ska, rockabilly e new dandy pongono la musica al centro del loro modo di partecipare e di essere. La scelta di una delle diverse articolazioni del rock, che da trent’anni ispira forme di comportamento, di costume e contribuisce a creare cultura giovanile, è ciò che rende riconoscibile una «banda spettacolare» dall’altra, insieme alle caratteristiche esteriori (abbi-
gliamento, modo di portare i capelli) e al diverso uso-rapporto con le sostanze stupefacenti. I luoghi di aggregazione diventano bar, discoteche, negozi di abbigliamento o di dischi, certe piazze, mentre l’agire è tutto condensato nel modo di presentarsi e l’immagine sembra diventare l’unico referente di sé di fronte alla società. Il crescere dell'importanza dell'immagine e del messaggio immediato sembra accompagnarsi al contemporaneo declino della dimensione progettuale. Nei rapporti personali, cosf come nei comportamenti collettivi, il piacere immediato e momentaneo, la
sensazione, la soddisfazione di ogni desiderio appaiono imprescindibili e, uniti ad un atteggiamento che ha superato il rifiuto nei
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confronti del consumo, configurano una sorta di edonismo collettivo. L'assenza di volontà-capacità di prevedere il proprio futuro assume la connotazione di un rifiuto del progetto: nessun risultato finale può giustificare sacrifici, abnegazione, militanza in senso tradizionale. È il trionfo di un presente che vorrebbe utilizzare un linguaggio contrario e parallelo a quello dominante e che, almeno per ora, sembra solo confermare, come molte altre tendenze nel
mondo giovanile, il tramonto dei valori acquisitivi e dell’immagine della giovinezza come transizione (tensione al futuro) verso ruoli adulti definitivi [Ricolfi e Sciolla 1980]. Proprio per ciò che si è detto in precedenza (atteggiamento verso il consumo, edonismo collettivo) non può essere trascurato il ruolo del mercato e dei media nel canalizzare la domanda giovanile e nel creare modelli-miti da emulare. Ma ridurre tutto il fenomeno delle bande metropolitane a manipolazione è assolutamente impossibile: certo, new dandy, rockabilly, ska e mods assumono sempre più l’aspetto di fenomeni collettivi di aggregato [Alberoni 1968] destinati ad esaurirsi velocemente, ma i punk, il cui numero sembra crescere continuamente (800 circa alla fine del 1982) con-
sigliano una lettura più attenta [Hall e Jefferson 1976; Heath 1977; Willis 1978; Hebdige 1979].
Riassumendo dunque, la presenza di aggregazioni giovanili sul territorio metropolitano è caratterizzata da un lato dalle modalità di relazione con le istituzioni (negoziato oppure scontro/rifiuto/ distanza); dall’altro dal permanere di una dimensione politica, intesa come volontà di cambiamento della struttura della società attraverso l’azione organizzata, oppure dall’importanza della dimensione culturale, intesa sia come proposizione di servizi, di modelli o di rappresentazioni, sia come cambiamento del modo stesso di interpretare e strutturare l’esistenza.
Le tendenze presenti in questo quadro sono almeno quattro: i) Istituzionalizzazione o avvio di rapporti stabili con le istituzioni, che consentano di svolgere attività nell’ambito socio-culturale, avendo accesso a risorse tecniche ed economiche gestite da operatori da professionalizzare o che si sono professionalizzati lavorando al centro (Centro Culturale di Piazzale Abbiategrasso, Centro Culturale Lario, Centro Culturale Neruda, Centro Comu-
nitario di Via Lampugnano dopo la ristrutturazione). L'obiettivo è quello di avere il maggior numero possibile di utenti, di cui gli operatori diventano i rappresentanti nei confronti dell’ente locale. I rapporti tra gli operatori e l’istituzione e la scarsa iniziativa degli utenti sono le fonti da cui scaturiscono i problemi maggiori. L'iniziativa culturale e il ruolo propulsivo di coordinamento
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(soprattutto Abbiategrasso), svolti spesso insieme alle radio (soprattutto Radio Popolare), sono le funzioni più rilevanti in un contesto caratterizzato dalla mancanza di /eaders unificanti di tipo tradizionale. Un esempio sono le mobilitazioni studentesche dell’81, che hanno riguardato temi universalistici (pena di morte, detenuti, pace) e hanno trovato scarsa rispondenza nelle aggregazioni giovanili presenti nell’area, mentre hanno coinvolto gli studenti, pronti ad utilizzare il sostegno organizzativo e di coordinamento offerto dalle due realtà che hanno scelto l’istituzionalizzazione (Abbiategrasso) e la professionalità (Radio Popolare). Il rapporto tra degli operatori, che concepiscono ancora il loro ruolo in termini di militanza, e degli utenti, divisi tra partecipazione e consumo culturale, rimane un problema aperto per questo tipo di aggregazioni.
ii) Rifiuto di ogni rapporto con le istituzioni o rapporto esclusivamente strumentale; permangono una pratica e un linguaggio politico ormai datati, che si rifanno di volta in volta alle espe-
rienze del 68 o del ’77, ma che, nella maggioranza dei casi, tendono ad un recupero ideologico delle categorie marxiste-leniniste (Centro Sociale Via U. Betti, Centro Sociale Sempione (Cps: collettivo proletari s.), Centro Sociale Cadore (CAF Vittoria: comitato antifascista v.), Centro Sociale Viale Piave, Centro Sociale Cologno Monzese, Centro Sociale S. Gottardo, Centro Sociale Piazza Dateo, Centro Sociale Garibaldi).
Il tratto significativo di queste presenze sul territorio è la progressiva perdita di potenzialità di intervento nel quartiere (fanno eccezione le iniziative per la casa del S. Gottardo in passato e di Piave, Garibaldi e Dateo, legato a DP, nel presente). Ciò conduce ad una sostanziale inazione verso l’esterno, che si accompagna al ripiegamento su di sé e alla valorizzazione dei rapporti interpersonali (i gruppi che fanno espresso riferimento a questi centri e che
sostanzialmente li gestiscono sono sempre di ridotte dimensioni e piuttosto coesi). Questa modalità organizzativa risponde all’esigenza, peraltro comune a tutti i gruppi osservati, di non separare lo «stare bene insieme» come componente esplicita del far politica e il bisogno di socializzazione tra pari. iti) Distarta come improponibilità od elusione manifesta del rapporto con le istituzioni ed assunzione della dimensione conflittuale attraverso la pratica subculturale e l’espressione di sé come immagine (punk anarchici, gruppi rock che rifiutano il rapporto col mercato discografico e alcune componenti delle bande spettacolari). Questa tendenza tiene in realtà insieme fenomeni e situa-
zioni molto diversi. La differenza è quella che separa ad esempio i
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punk anarchici che usano lo spazio del Virus (ex discoteca) all’interno della casa occupata di Via Correggio e i punk che si ritrovano al bar Concordia: entrambi sono impegnati a rivendicare per sé la purezza interpretativa del punk. Ma i primi la esprimono con una pratica contro che assume in certi casi (ad esempio la festa contro l’uso di eroina dell’ottobre ’81 al Virus) la forma di un’a-
zione rivolta all’esterno; questa si accompagna all’utilizzo di uno spazio occupato e al rifiuto, da parte dei gruppi musicali che fanno parte di quest'area, non solo ri col mercato discografico (atteggiamento comune ad altri gruppi rock milanesi), ma anche dell'opportunità di suonare in locali o in occasioni non patrocinate od organizzate dal proprio gruppo di riferimento. I secondi invece risolvono il proprio antagonismo esclusivamente nel modo dissacrante ed aggressivo di proporsi e i gruppi che si rifanno a quest'area manifestano un atteggiamento di tipo «acchiappatutto» nei confronti delle opportunità che il mercato presenta, in una prospettiva di sfruttamento alla rovescia [Fraboni 1983]. iv) Mediazione tra la dimensione politica e quella culturale, intese nell’accezione di cui si è detto. Quest'area comprende realtà che, in misura maggiore di quelle finora descritte, presentano al loro interno spinte diverse e orientamenti in alcuni casi contrastanti, che consentono di volta in volta il prevalere dell’una o dell’altra tendenza (Centro Sociale Leoncavallo, Centro Sociale
Lunigiana, Centro Sociale Isola, Casa occupata di Via Correggio, Comitato contro le tossicodipendenze di Via De Amicis, Comitato contro l’emarginazione sociale e le tossicodipendenze di Quarto Oggiaro). Il rapporto con le istituzioni anche dove appare necessario (Comitato contro le tossicodipendenze) o dove è sollecitato (Comitato di Quarto Oggiaro) è sempre conflittuale o rivendicativo. Anche quando la scelta di campo appare definitiva, come nel caso dell’attività teatrale svolta dal Centro Sociale Isola, essa si accompagna all’utilizzazione di spazi occupati. In altri casi è la presenza di realtà diverse nello stesso spazio ad orientare in un senso o nell’altro l’azione: è ciò che accade per la casa occupata di Via Correggio, che, come si è detto, è il punto di riferimento e di incontro per una parte dei purk. O per il Leoncavallo, che ospita diversi gruppi: solo alcuni di essi riconoscono la legittimità di un comitato di occupazione egemonizzato da un gruppo iperpolitico; esso viene spesso scavalcato da iniziative che, partendo dal centro stesso, si collocano sui pit diversi terreni. Andare al centro sociale o «fare qualcosa con altra gente» rappresenta il tentativo di far fronte alla differenziazione sociale con la ricerca di un punto di
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riferimento, che si trova quasi sempre tramite appartenenze già
sperimentate, dove possano convivere modelli culturali diversi e dove si possa ridare un senso di continuità alla propria esperienza.
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[ conservazione (difesa) ] (asse dei fini)
' Fic. 9.
gettuali che investono i fini. Leghe come quella per l'abolizione della caccia o per la protezione degli uccelli vengono a trovarsi cosf a cavallo tra il primo ed il quarto quadrante. Il terzo quadrante raccoglie le associazioni protezionistiche tradizionali e l’area delle aggregazioni localistiche per la difesa degli assetti territoriali tradizionali. Sono gruppi che perseguono fini di conservazione attraverso forme di azione diretta (creazione di oasi naturali
o iniziative consimili). La maggiore o minore distanza dall’asse delle ordinate indica la propensione relativa ad adottare tali forme di azione. Pit complessa ed eterogenea la composizione dell’ultima area (secondo quadrante). Essa comprende prevalentemente forme di aggregazione di base autogestite che abbracciano un campo di esperienze assai vasto (alimentazione, agricoltura, medicina, energia, inquinamento, «metropolitanità», ecc.). Questa è l’area su cui
si è concentrata la nostra indagine: la sua trattazione dettagliata è oggetto delle pagine seguenti. La figura proposta permette di
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distinguere graficamente due piani — ecologia politico-sociale ed ecologia ambientale — che corrispondono, a livello empirico, ai due fondamentali orientamenti espressi dall’ecologismo nazionale. È bene tuttavia ricordare ancora una volta che una mappatura di questo genere ha un valore prevalentemente descrittivo degli orientamenti presenti nell’universo ecologista. Ogni quadrante potrebbe essere a sua volta scomposto, con un identico procedimento, assumendo come unità di misura i singoli gruppi. Infine, all’interno di ogni gruppo, sarebbe possibile identificare la presenza dei diversi orientamenti analitici. Questo gioco di scatole cinesi richiama la provvisorietà delle classificazioni empiriche e la priorità di un criterio metodologico generale che afferma la non coincidenza tra forme empiriche e significati analitici dell’azione. In questa prospettiva, quando considererò, tra breve, le forme di azione collettiva nell’area milanese ed i gruppi oggetto della ricerca, mi propongo di procedere pi in profondità nel scomposizione analitica. Per il momento, lo schema tracciato permette di delimitare concettualmente lo spazio empirico della nostra indagine. Come si è detto, esso è situato sul piano che ho definito dell’ecologia politico-sociale ed è costituito prevalentemente dai gruppi a si collocano nel secondo quadrante. La ricerca sul campo ha riguardato quindi i gruppi «di base» a bassa formalizzazione ed i gruppi «professionali» alternativi. Nel delimitare il campo di indagine, è necessaria una precisazione per quel che riguarda il militantismo politico-ecologista e le espressioni del movimento antinucleare. Empiricamente, l’area del militantismo politico-ecologista è composta dalle sezioni «verdi» dei partiti minori
(Democrazia
Proletaria e Partito Radicale),
da
quelle della Federazione giovanile comunista e dalla Lega per l'Ambiente. Mentre i primi due tipi di aggregazione non rivestono interesse diretto ai fini di una ricerca orientata, come già detto, verso le forme «non istituzionali» dell’azione collettiva, quello della Lega per l'Ambiente è un caso particolare. Trattandosi di un’organizzazione-ombrello che offre risorse di centralizzazione e coordinamento alle varie espressioni dell’ecologismo italiano, la Lega, pur non essendo un gruppo «di base», tuttavia rientra di fatto dat oggetto dell'analisi. Infatti, in virti della sua politica e delle modalità associative previste dal suo statuto !! — par-
Di L’art. 5 dello statuto della Lega recita: «Tutti, indipendentemente da condi-
zioni personali, convinzioni ideali, politiche e religiose, sesso e cittadinanza, età e
professione, hanno facoltà di iscriversi alla Lega per l'Ambiente e di portare il pro-
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ticolarmente aperte ed inclusive — tale organismo ha, negli ultimi due anni, moltiplicato i suoi iscritti, rappresentati in larga misura da quei gruppi minori che sono, appunto, l’oggetto specifico di questa indagine. Sebbene in linea teorica la ricerca comprendesse nel suo oggetto tutte le forme associative espresse, in anni meno recenti, dal movimento antinucleare e, ultimamente, dal movimento per la pace (ossia: comitati antinucleari, gruppi antimilitaristi, leghe per il disarmo e simili) ci sono almeno due ragioni, una
teorica e l’altra eminentemente pratica che hanno portato ad escludere tali gruppi dal campo di indagine. Anzitutto i comitati antinucleari nati negli anni dal 1976 al 1979 sono, per una quota rilevante, di emanazione o ispirazione
radicale, o comunque legati ad organizzazioni politiche (altri partiti minori e, in qualche caso, settori del sindacato): in quanto tali,
quindi, sono ai confini del campo indagato, ma non interessano direttamente questa ricerca..Sul piano pratico, infine, non è stato possibile includere neppure i gruppi autonomi, perché non presenti nell’area territoriale considerata !2. Prima di presentare i gruppi dell’area milanese vorrei anticipare un dato riguardante la loro composizione, cosf come emerge dall’esame dei percorsi individuali dei membri. Nei gruppi a debole strutturazione interna (cfr. quadrante 2) i militanti pro-
vengono spesso dai settori confinanti: associazioni protezionistiche tradizionali (quadrante 3) ed area del militantismo politicoecologista (quadrante 1). Anzi, il passaggio da un settore all’altro si configura come un continuum storico che caratterizza i percorsi di un certo numero di militanti dei gruppi esaminati. Per esempio, il percorso di Marina, come vedremo in seguito, è emblematico: prima aderente al WwrF, in seguito simpatizzante della Lega per l’abolizione della caccia ed infine membro del gruppo Ecologia 15, che ha partecipato a questa ricerca.
Nell'area milanese, all’epoca del censimento (effettuato nel 1981 attraverso interviste in profondità) risultavano operanti:
a) Aggregazioni territoriali a bassa struttura formale: Ecologia 15, Circolo Campo dei fiori, Comitato Valle del Lambro;
b) Gruppi di nuova alimentazione e tecniche di coltivazione naturale: Cooperativa Il Papavero, Cooperativa Il Girasole, Associazione Terra Biodinamica; prio contributo, secondo disponibilità e capacità, alle scelte ed alle attività dell’associazione». 12 Mentre, al contrario, sono numerosi ed attivi sul territorio di alcune province lombarde come Mantova, Brescia e Bergamo, zone particolarmente «calde» per
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c) Gruppi professionali: Collettivo di Medicina Democratica, Geologia Democratica, Cooperativa la Nuova Ecologia e il Comitato Milano Ovest, un'associazione di cittadini residenti per la difesa del territorio tradizionale. I gruppi che hanno manifestato una disponibilità a partecipare alla ricerca sono: la Cooperativa Il Papavero, il Comitato Valle del Lambro, il Circolo Campo dei fiori, il gruppo Ecologia 15 e la Cooperativa la Nuova Ecologia. Tenendo conto del carattere composito e multiforme dell’area, la scelta del gruppo naturale presentava non poche difficoltà: si è cosf optato per il frazionamento del percorso sperimentale in due tranches più brevi, in modo da poter condurre l’esperienza con due diversi gruppi, Ecologia 15 e La Nuova Ecologia. Le ragioni di questa scelta risiedono in parte nel fatto che essi costituivano due «tipi» sufficientemente diversificati e tali da costi‘tuire dei poli significativi dell’universo milanese censito. Nell’impossibilità di reperire un gruppo «centrale», la scelta di due gruppi «polari» è parsa assicurare una sufficiente attendibilità ai dati raccolti. Le aggregazioni restanti sono state invitate a partecipare al dibattito di area. Veniamo ora all’individuazione delle dimensioni che delimitano il campo dell’indagine nell’area milanese. Come già indicato, esso si situa sul piano che ho definito dell’ecologia politico-sociale. Questa duplice connotazione può essere ora articolata in due distinte dimensioni analitiche, benché sul piano empirico azione politica ed azione sociale siano sovente compresenti. Definirò ecologia politica quel tipo di azione che tende alla trasformazione dei meccanismi che regolano i processi decisionali in sede politico-istituzionale. L'approccio i attori ai temi dell’ecologia è sovente mediato intellettualmente e politicamente connotato. Il polo ecologia sociale si riferisce invece a forme d’azione miranti alla trasformazione dei modelli culturali che regolano i rapporti tra l’uomo
e l’ambiente,
inteso innanzitutto
come
ambiente
sociale. La motivazione all’ecologia è più sovente riconducibile, in questo caso, a contingenze specifiche od a situazioni di disagio percepito (ad esempio: situazioni di forte disagio connesse al vivere in una metropoli). Il tipo di intervento nel sociale è prevalentemente pragmatico e capillare. L’asse cosi individuato si configura come più direttamente connesso alle dimensioni strutturali dell’azione ecologista, cioè al la presenza di centrali nucleari, a carbone o miniere di uranio (a Novazza, in provincia di Bergamo).
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tipo di mezzi. Per quanto riguarda i fini, in analogia con la «mappa» presentata precedentemente, resta centrale per la rappresentazione ecologista della realtà, il sistema di rapporti Uomo/ Società/Natura. Si potranno cosî distinguere due diversi modelli di azione che pela rispettivamente alla trasformazione del rapporto Uomo/Natura e Società/Natura. Nel primo caso l’azione è orientata prevalentemente verso la trasformazione del rapporto tra uomo e natura attraverso la fruizione individuale dei vantaggi derivanti dall’azione. Nel secondo caso, l’azione persegue fini di trasformazione complessiva dei rapporti uomo/società/natura, subordinando tale obiettivo alla trasformazione dei rapporti sociali. In questo caso il fine è raggiungibile solo collettivamente cosf come la fruizione dei vantaggi derivanti dall’azione. La figura 10 rappresenta graficamente questo campo e colloca, rispetto alle dimensioni individuate i diversi gruppi, che assumono in tal modo una funzione idealtipica. Non occorre insistere sull’avvertenza metodologica già richiamata, e cioè sul divario tra dimensioni analitiche dell’azione ed unità empiriche di osservazione. In tal senso, nessuno dei gruppi, nella sua multidimensionalità, può coincidere interamente con la posizione assegnatagli. Cosf, benché complementari, le dimensioni ecologia politica ed ecologia sociale possono manifestarsi a livello empirico come delle posizioni polari espresse, per esempio da settori diversi nella medesima area o, in un’ottica ancor più micro, da diversi individui nel medesimo gruppo. Allo stesso modo all’interno di ciascun gruppo può convivere chi pratica l'ecologia a partire da sé e chi la concepisce come fattore di trasformazione solo se inserita in un contesto sociale articolato e complessivo. Pur all’interno di una stessa area o di uno stesso quadrante obiettivi e strategie dei singoli gruppi possono quindi coprire un vasto spettro di possibilità. Isolando nella figura 9 le coordinate azione diretta/trasformazione, si delimita l’area a cui si applica la scomposizione proposta nella figura 10. Possiamo ora completare questo quadro con alcune osservazioni generali sulla composizione dei gruppi e sulle loro caratteristiche interne. Tutti i gruppi oggetto dell'indagine vedono una prevalenza di
individui altamente scolarizzati: la differenza massima si ha tra gruppi più intellettualizzati come il Comitato Valle del Lambro e la Nuova Ecologia, in cui è elevata la presenza di laureati, insegnanti e tecnici, e gruppi come il Circolo Campo dei fiori ed Ecologia 15, nei quali milita una quota di lavoratori manuali; la maggioranza dei membri è tuttavia rappresentata anche qui da diplo-
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società/natura
La Nuova Ecologia
ecologia
politica
Ecologia 15
Comitato Valle Lambro
2
1
Circolo Campo dei Fiori
3 pl 4
an
ecologia sociale
Cooperativa Il Papavero uomo/natura (fini)
Fic. 10.
mati della scuola media superiore. L’età è compresa tra i 25 e i 35 anni e la quasi totalità dei militanti condivide precedenti esperienze associative (scoutismo o impegno in associazioni giovanili del mondo cattolico) o di militanza politica (nei gruppi della sinistra extraparlamentare) o nella Fcci.
Una quota proviene dalle associazioni protezionistiche tradizionali (in particolare dal Wwr), ma la maggior parte dei militanti arriva all’ecologia attraverso e dopo l’esperienza nelle organizzazioni politiche sivedano più avanti i percorsi dei membri dei due gruppi naturali). E possibile riconoscere in questi soggetti due generazioni di militanti: quelli del movimento studentesco e del successivo impegno nei gruppi politici dell'estrema sinistra (nel periodo che va dal 1968 fino alla crisi delle organizzazioni, intorno al 1975) e la generazione pit giovane, che ha avuto quale esperienza associativa centrale la partecipazione al movimento del °77. A livello dei singoli percorsi è frequente il fenomeno dell’accumulazione di esperienze partecipative non tanto per gli individui più «anziani», quanto per coloro che, entrati nella scuola secondaria intorno agli anni 1970-1972, hanno iniziato a «fare palivca nelle organizzazioni e, dopo lo scioglimento di queste, anno vissuto l’esperienza del movimento del ’77 partecipando a livello individuale (i cosiddetti cani sciolti), ovvero come membri
di circoli giovanili o centri sociali.
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(mezzi)
Il dato comune a questi gruppi è rappresentato da un’affinità di tipo culturale ed esperienziale che scaturisce da un percorso di formazione condiviso. Ciò non significa, tuttavia che tra i gruppi non vi siano delle differenze: è stata segnalata in precedenza quella tra aggregazioni su base territoriale (Circolo Campo dei fiori, Ecologia 15) e aggregazioni «professionali» o semi professionali, come Geologia Democratica o la Nuova Ecologia (il Comitato Valle Lambro occupa una posizione intermedia tra queste due tipologie); e quella tra i livelli di scolarità. Altre differenze sono riscontrabili in relazione al grado di struttura formale interna, i cui poli estremi sono rappresentati da un lato dalle forme professionali e cooperativistiche di aggregazione
(maggiormente
strutturate), come la Cooperativa
Nuova Ecologia e hiCooperativa il Papavero, e dall'altro da gruppi come il Circolo Campo dei fiori, fondato sulla base di amicizie già esistenti. i In relazione ai contenuti espressi nell'azione la mappa presentata illustra le differenti posizioni, che si riflettono tell scelta del campo di intervento: iniziative su base locale finalizzate alla sensibilizzazione della popolazione residente, od alla pressione a livello istituzionale per Ecologia 15, Circolo Campo dei fiori e, in parte,
per il Comitato Valle Lambro; interventi pedagogico-divulgativi per il Comitato Valle Lambro e Nuova Ecologia; servizio a fruizione individuale attraverso la commercializzazione di alimenti naturali, con iniziative di sensibilizzazione, per la Cooperativa il Papavero. Non vi sono invece sostanziali differenze dal punto di vista dei rapporti con le istituzioni: tutti i gruppi intrattengono rap-
porti (sporadici o continuativi) con la pubblica amministrazione. La conflittualità maggiore si esprime nei rapporti con l'Ente locale (Comune, Provincia e Regione), mentre rapporti di tipo interlocutorio o collaborativo sono intrattenuti con le strutture del decentramento
urbano
(Consigli di zona), con le istituzioni educative
(scuole, asili) e con il sindacato. In ogni caso, tutti i gruppi esaminati manifestano una certa indifferenza nei confronti diforme di partecipazione istituzionale e rivendicano una sostanziale distanza dai modi e dal linguaggio della politica. A questo proposito va aggiunto che sono proprio i soggetti pit ricchi di risorse esperienziali ed intellettuali (ovvero i gruppi più favoriti come la Nuova Ecologia) che enfatizzano maggiormente tale distanza.
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3. Cultura ecologista e trasformazione della società. Un approccio
«dall’alto»: il collettivo di redazione de «La Nuova Ecologia»
La rivista «La Nuova Ecologia» è una pubblicazione mensile che si occupa dei problemi della degradazione ambientale sviluppando un punto di vista critico nei confronti del modo di produzione capitalistico e delle politiche di gestione del territorio e delle risorse. La testata del giornale recita: «mensile di analisi e lotta contro la degradazione ambientale per un ambiente gestito da chi ci vive». La rivista, oggi diffusa su tutto il territorio nazionale, è nata nel
1976 dall’iniziativa di un gruppo di militanti politici sensibili alle problematiche ecologiche; di questo nucleo originario fanno tuttora parte del collettivo di redazione 4 o 5 persone, due delle quali hanno fatto parte anche del gruppo che ha partecipato alla ricerca (10 persone c.a.). Il collettivo di redazione de «La Nuova Ecologia» (dal 1978 Cooperativa Ecologia) è composto in larga misura da laureati (o laureandi), alcuni dei quali già inseriti nel mondo del lavoro
come Ruggero (geologo fondatore del gruppo professionale Geologia Democratica), Cesare, 28 anni, biologo (impiegato in un’azienda in cui si occupa, tra l’altro, di lombricoltura) e Beppe, 29 anni, responsabile milanese della Lega per l'Ambiente. Altri occupano posizioni più marginali sul mercato del lavoro (incarichi di supplenze nella scuola media superiore, collaborazioni a ricerche nell’ambito universitario). Gabriele, 26 anni, iscritto alla Facoltà di Chimica e Davide, 25 anni, laureato in architettura, stavano svolgendo, al momento della ricerca, il servizio civile: l’uno presso il sindacato (all’interno di uno SmAr) e l’altro presso la Lega dell’ Ambiente («distaccato» alla Cooperativa Ecologia); Stefano, 31 anni, e Paolo, 28, laureandi rispettivamente in Ingegneria e Filosofia, sono
saltuariamente impegnati come supplenti nella scuola media superiore; Alberto, 28 anni, giornalista professionista, è coordinatore di redazione. Angelo, 28 anni, studente alla facoltà di Ingegneria è stato — insieme a Ruggero ed altri — uno dei fondatori della rivista ed è l’unico che se ne occupa a tempo pieno, non svolgendo nessun altro tipo di attività. Infine Teresa, 26 anni, laureata in architettura, è ricercatrice CNR presso la stessa facoltà. Tutti hanno alle spalle una carriera di i politici, iniziata per alcuni, già nel 1968 e proseguita, almeno fino alla prima metà degli anni Settanta, all’interno delle organizzazioni della sinistra parlamentare (Fcci, PpuP) o extraparlamentare (Avanguardia Operaia, Lotta Continua). Per Teresa, inoltre, quelli tra il 1975 e il 1977 sono anni di doppia militanza tra l’organizzazione politica e il movimento delle donne, del quale fa tuttora parte.
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3.1. La scelta del collettivo: un problema di identità Il collettivo di redazione de «La Nuova Ecologia» è un gruppo socialmente privilegiato. Affrancato da problemi di ordine finanziario, Lichito dall’alto livello di istruzione e di esperienza politica dei suoi membri esso è reso stabile dalla presenza nel tempo, al suo interno, di un piccolo gruppo di persone legate dalla comune esperienza politica e da vincoli di amicizia di lunga durata, oltre che dal progetto autogestito della rivista. I meccanismi di solidarietà interna funzionano su codici interattivi collaudati nel tempo, quasi dei rituali attraverso i quali il gruppo è in grado di garantire il mantenimento dell’equilibrio interno. Esso può dipendere, di volta in volta, dalla esternalizzazione dei conflitti latenti
attraverso
ferocissimi
scontri
verbali
(«scazzi»)
ovvero dalla totale dissimulazione degli stessi in una sorta di sopportazione o tolleranza forzata delle reciproche e contrastanti opinioni, quando il dibattito teorico-politico tende a travalicare l’ambito delle decisioni operative (cioè quasi sempre). Il fattore di coe-
sione del gruppo è rappresentato certamente dall’impegno nella redazione del giornale ma anche e soprattutto dalla possibilità di fruire del collettivo di redazione come di un ambito privilegiato di dibattito e confronto sui temi di comune interesse. : Per molti dei membri, infatti, l’impegno sui problemi dell’ecologia non è che l’ultima, in ordine di tempo, tappa di un percorso intellettuale e politico iniziato nei primi anni Settanta nella scuola secondaria o nell’università — vivacizzata in quegli anni dal dibattito intorno alla neutralità della scienza, dal quale hanno preso le mosse le prime elaborazioni teoriche ed i primi tentativi di interpretazione della realtà in chiave ecologica — e proseguito fino ad oggi 4. Non fa meraviglia quindi che l'impegno ecologista nasca, per questo gruppo, da una scelta mediata intellettualmente, piuttosto che da una reale situazione di disagio personale (ossia da
una condizione), come invece è più frequentemente registrabile
nelle aggregazioni su base territoriale, come Ecologia 15. E quindi prima di tutto un interesse di tipo culturale quello che motiva la scelta di occuparsi di una rivista di ecologia, un «bisogno di conoscenza», definito da Teresa come il «bisogno di utilizzare le proprie capacità di riflessione, di intuizione, di elaborazione (per col-
13 Altrettanto importanti nel determinare la diffusione delle idee ecologiste furono in quegli anni gli scritti di: Commoner, [1972]; Conti [1977]; Shumacher, [1977].
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tivare) il piacere del proprio cervello». L'accesso a questa conoscenza non passa però, nelle rappresentazioni del gruppo, attraverso i canali tradizionali di trasmissione del sapere, perché essa è conoscenza «altra» da quella trasmessa dai grandi apparati. Dev'essere acquisita in modo autonomo ed autoregolato, plasmata e perfezionata attraverso il confronto e la critica, liberata dagli schemi rigidi e impositivi della dottrina, valorizzata individualmente e collettivamente per dare status a nuove professioni, accumulata, infine, perché possa diventare coscienza per sé e progetto per tutti. Nelle convinzioni di molti tra i membri del collettivo, il gruppo, il giornale, l’ecologia non sono, in certo senso, che gli
strumenti per realizzare questo ambizioso programma. Ciò che fa da sfondo a questa prospettiva sembra essere la ricerca (o il consolidamento) di un'identità sociale e professionale da parte dei singoli, che sia coerente con le passate esperienze e le attuali convinzioni politiche. L’impegno nel giornale garantiscè in qualche modo la continuità e la coerenza tra l'identità precedente di militanti e quella attuale, o in formazione, di professionisti «alternativi» o ecologi. Non v’è dubbio, infatti, che la collaborazione prestata gratuitamente e continuativamente alla rivista, cosf come il rispetto (che dura ormai da anni) della scadenza settimanale
della riunione di redazione siano riconducibili a forme di militanza. Il costo di tale militanza, ossia l'investimento di risorse
personali nel giornale, sembra essere in questo caso sufficientemente ricompensato dall’acquisizione di vantaggi non materiali quali, appunto, l’accumulazione di risorse conoscitive utilizzabili professionalmente o la gratificazione derivante dalla possibilità di controllo diretto sul prodotto del proprio impegno. La partecipazione al progetto-giornale cessa, in questo caso, di essere strumentale alla pubblicazione ed acquista un valore in sé: attraverso la partecipazione i membri strutturano le proprie identità, riorientano le proprie scelte e decidono collettivamente dei propri destini o, quantomeno, di parti di essi. Va infatti notato che il collettivo di redazione non esaurisce da solo il quadro delle ina sociali dei singoli membri, essendo la maggior parte i questi impegnati in altre cooperative dell’area o in formazioni sociali confinanti con essa. Tuttavia la rivista ha — più in passato che in tempi recenti — assorbito la gran parte delle risorse dei membri del collettivo, divenendo per un certo tempo elemento forte dell'unità e fonte di identificazione del gruppo. Le dichiarazioni dei partecipanti fanno riferimento ad un periodo (tra il ’76 ed il ’79) nella storia del collettivo, in cui lo stare nel gruppo
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andava al di là del lavoro di redazione fino ad investire il tempo libero, le vacanze e perfino il tempo quotidiano. In quella fase di «stato nascente» il livello di coinvolgimento personale era altissimo mentre l’integrazione del gruppo era facilitata dal fatto che esso era interamente composto di maschi. Nella fase attuale il gruppo non ha del tutto perso la sua immagine di gruppo di amici, il bisogno di comunicazione, di scambio affettivo incidono ancora, per alcuni di essi, sulla scelta di ritrovarsi insieme, anche se la dimensione della solidarietà tende a restringersi insieme all’intensità dell’identificazione dei singoli col gruppo. Il richiamo rappresentato dalla possibilità di contribuire alla realizzazionedi un progetto collettivo che si sta facendo grande esercita tuttora un certo fascino su più di un membro, ma le gratificazioni che il gruppo può distribuire oggi non sono pit di ordine emotivo, bensi di ordine culturale. Il collettivo di redazione diventa l’ambito privilegiato dello scambio di idee e del confronto di esperienze, diventa il luogo della crescita intellettuale, della
formazione ed anche della produzione. La dimensione della produzione costituisce infatti un altro importante stimolo alla continuità dell’impegno di questo gruppo e la rivista ne è il segno tangibile. Essa è al tempo stesso risultato di un progetto collettivo e memoria di un percorso, è atto e testimonianza e condensa in sé le esperienze, le speranze e le aspettative del gruppo. La rivista concorre a dare a questi attori il senso della loro azione: la possibilità di tradurre in testo scritto e di diffondere le proprie idee è fonte di auto ed etero riconoscimento, è un’altra tessera che va ad aggiungersi al mosaico delle loro identità sociali e professionali. Alla base delle motivazioni individuali che hanno spinto questi attori ad aggregarsi vi è quindi, prima di tutto, un progetto che riguarda l’identità dei singoli, progetto le cui direttrici principali sono costituite dall’interesse per la dimensione della produzione (non tanto in quanto produzione concreta della rivista, bensi in quanto produzione di senso delle proprie azioni); dalla tensione verso la crescita intellettuale (formazione) e dalla ricerca 0 consoli-
damento di professionalità (vale forse la pena di chiarire che non è la professione del giornalista quella alla quale i partecipanti si riferiscono parlando di professionalità: pon è ovvio che chi scrive su di una pubblicazione scientifico-politica come «La Nuova Ecologia» non è solo o non è affatto un giornalista). Si tratta di «nuova» professionalità che, nei propositi dei partecipanti, va contro la concezione tradizionale di professione come pratica di specialità definite e delimitate dai rigidi confini che l’organizzazione istituzionale del sapere da un lato e gli albi pro-
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fessionali dall’altro impongono e statuiscono. Al contrario: interdisciplinarietà e riconvertibilità sono le caratteristiche principali di tale nuova concezione. Formazione, professionalità e produzione di identità sono quindi leggibili come obiettivi individuali dei membri del collettivo, che, in certo senso, fruiscono strumentalmente della loro appartenenza ad esso per ottenerne il raggiungimento. Non è necessario sottolineare che, naturalmente, i bisogni che stanno
dietro a questi obiettivi sono espressi con enfasi differenti (ed anche da persone diverse) all’interno del gruppo. Come anche vedremo in seguito, la coesistenza di orientamenti diversi si traduce, sul piano pratico, in un sistema di tendenze rispecchianti almeno tre differenti interpretazioni che i membri danno della loro appartenenza al gruppo ed al loro impegno nel giornale. 3.2. Struttura e funzionamento
Il collettivo di redazione si incontra ogni settimana per decidere operativamente l’impostazione del giornale e la spartizione degli incarichi. In realtà, le riunioni non di rado si trasformano in accesi dibattiti di natura teorico-politica, lasciando sullo sfondo i problemi redazionali. La divisione dei compiti tra imembri segue criteri di competenza e avviene in base alle singole preferenze (autocandidature) o disponibilità. Non vi sono attribuzioni fisse
di ruoli eccetto che per Paolo, che si occupa anche dell’amministrazione della Cooperativa ed è stipendiato. Non vi sono figure di «capo» o leadership riconosciute, anche se formalmente, nell’or-
ganigramma della rivista, Angelo ne è il direttore e Alberto il coordinatore di redazione. La divisione interna del potere tuttavia non è altrettanto trasparente ed univoca: almeno tre (a volte quattro) persone si spartiscono, a seconda delle contingenze, risorse di influenza ed incarichi decisionali. Tutte le decisioni che non vengono prese collettivamente restano, implicitamente, affidate ad Angelo che, grazie a questo ed alla sua primitiva appartenenza al gruppo, è considerato (pi dall’esterno che dai suoi stessi compagni) personaggio centrale del collettivo. In realtà l’unica forma di potere che sembra esercitare Angelo (oltre alle decisioni di cui si è detto prima, che gli vengono delegate dagli altri perché ritenute d una seccatura che una fonte di prestigio) passa attraverso la firma degli editoriali e la correzione delle bozze. La carica formale di direttore e la firma degli editoriali sono le due uniche forme visibili di potere all’interno della redazione.
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Quella di collettivo di redazione non è però l’unica identità che il gruppo si attribuisce, né la più significativa. L'aspetto relazionale dello stare insieme sembra a volte prevalere su quello funzionale e ciò che vale, in termini di regole e decisioni, per il «gruppo/giornale» non necessariamente è vincolante per il «gruppo/ gruppo». Quest'ultimo, infatti, non necessita di un /eader né tollererebbe la presenza al suo interno di qualsivoglia forma di esercizio del potere. La regola del gruppo è, almeno a livello di autorappresentazione, l’egualitarismo, implicante il rifiuto di ogni forma di gerarchizzazione di ruoli o di accentramento di autorità. Coerentemente con tali impostazione, il gruppo non è disposto a riconoscere né ad Angelo né ad altri il potere di influenza che di regola viene riconosciuto ad un /eader. Una simile funzione è necessaria per garantire la continuità dell'impegno e la sopravvivenza del giornale, ma tale obiettivo non viene raggiunto attraverso il ricorso al metodo tradizionale della distribuzione di ricompense o sanzioni, bensi attraverso l’assunzione volontaria da parte di Angelo delle responsabilità inerenti al funzionamento del giornale. La sua posizione centrale nel collettivo di redazione non trova però corrispondenza a livello di gruppo, dove la capacità di influenza sembra ugualmente ripartita tra più persone, secondo criteri variabili situazionalmente: anzianità, esperienza politica, competenza specifica, ecc. Anche all’interno del collettivo di redazione, vi sono tuttavia decisioni che non possono essere prese individualmente, nemmeno da Angelo: sono queste le decisioni in merito alla «linea» del giornale, sulle quali hanno voce invece Ruggero e Cesare. Si viene a configurare in questo modo in una sorta di triunvirato, la leadership operante a livello interno, con compiti di coordinamento operativo, funzionale agli scopi (Angelo) e di impostazione teorico/politica del giornale (Ruggero e Cesare), mentre verso l’esterno, la figura del leader unico viene mantenuta ma con una mera funzione rappresentativa e di pubbliche relazioni. È probabile che sia la lontananza «strutturale» di questo gruppo dalle sedi del conflitto a motivare — almeno in parte — l'assenza di una leadership accentrata e riconosciuta. Tuttavia, sulla base delle osservazioni compiute su altri gruppi di questa stessa area e su gruppi di altre aree (giovani, donne) è possibile affermare che la figura tradizionale del /eader è in declino, sostituita da forme di /eadership collettiva, o multipla, o policefala. A livello di gruppo trova qui conferma la tesi di Gerlach [Gerlach 1971] secondo la quale nei nuovi movimenti la leadership tende ad essere distribuita tra i membri pit abili o competenti a seconda
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delle contingenze ovvero attribuita ai gruppi la cui azione si dimostra efficace in talune circostanze [Freeman 1979]. Il dato empi-
rico inoltre dimostra che, in assenza di conflitto, la funzione stessa dei leaders è soggetta a forme di riconoscimento sempre meno evidenti e che nessun rapporto di deferenza o sottomissione intercorre tra queste leadership policefale e la base dei militanti. Nel caso specifico del collettivo Ecologia questa situazione è resa ancor più evidente dall’effettiva mancanza di squilibrio tra la risorse che ciascun membro è in grado di mettere a disposizione del gruppo. La sostanziale equiparabilità degli sk://s individuali rende il gruppo piuttosto omogeneo sotto questo profilo e lo qualifica come uno dei gruppi più ricchi di risorse tecniche ed esperienziali nell’area considerata. 3.3. Risorse
Le brevi note biografiche riportate in apèrtura di paragrafo sono già eloquenti dello stato delle risorse nel gruppo. Alti livelli di scolarizzazione, professionalità pertinenti al tipo di intervento e lunga esperienza politica sono le risorse «strutturali» umane e tecniche (risorse specializzate, secondo altri autori)! a disposizione del gruppo. Si tratta come si vede di risorse non materiali: la copertura finanziaria della pubblicazione della rivista è infatti assicurata dall’editore, mentre nel collettivo nessuno, tranne Paolo ed Alberto percepisce denaro per le attività prestate. Risorsa non specializzata ma ugualmente importante, tanto per questo gruppo quanto per l’intero «movimento» è il tempo disponibile. In questo gruppo, due elementi godono di una situazione occupazionale stabile ma non rigida: la libera professione di Ruggero ed il lavoro politico di Beppe offrono infatti una certa flessibilità degli orari e la possibilità di auto-organizzazione del tempo di lavoro. Questo consente loro di disporre sia giornalmente che settimanalmente di una certa quota di tempo da destinare agli impegni non retribuiti, tra i quali, quello nella Cooperativa (infatti questo non è l’unico ambito collettivo al quale essi fanno riferimento come, d’altronde, gli altri), senza contare che le professioni in oggetto, come anche quella di Cesare, non sono avulse dal contesto in cui opera il giornale e permettono quindi il mantenimento 14 Freeman [1979].
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di una certa continuità di interessi tra tempo di lavoro e tempo sociale. La possibilità di rimanere a lungo al di fuori del mercato del lavoro o in una posizione marginale (lavori precari, part-time, ecc.) libera altro tempo per l'impegno sociale. È il caso di Stefano e Teresa, ed anche di Gabriele e Davide, entrambi obiettori di coscienza. Gli obiettori di coscienza rappresentano una quota notevole del movimento ecologista: dirigendo opportunamente le loro domande, molti ottengono di effettuare il servizio civile presso enti od associazioni «di pubblica utilità» tra le quali, appunto, le associazioni naturalistiche tradizionali come il WwF, oppure la Lega Ambiente, oltre a sindacati ed associazioni del mondo cattolico. In questi ambiti essi possono continuare ad occuparsi dei problemi dell’ecologia, fruendo al contempo di una sorta di training professionale. ‘Altre risorse non materiali pervengono al giornale dall’esterno. Una fitta rete di professionisti, tecnici, intellettuali e simpatizzanti prestano la loro collaborazione in modo totalmente gratuito, scrivendo articoli per la rivista; la presenza di questi collaboratori esterni consente al gruppo di accedere a risorse normalmente non a disposizione, come laboratori di analisi, banche dati o canali privilegiati di informazione. Si tratta di un vero e proprio retwork sul quale il gruppo può contare in modo continuativo. Un altro esempio significativo di questa particolare organizzazione del lavoro redazionale è offerto da Radio Popolare, libera emittente democratica, nata in ambienti legati al movimento degli anni Settanta, al sindacato ed ai partiti della nuova sinistra, che costituisce un punto di riferimento non solo per le esperienze ecologiste, ma per l’intera area dei movimenti (altri riferimenti sono contenuti in altri saggi di questo stesso volume). Radio Popolare dispone, oltre ad un gruppo di redattori fissi (dei quali solo alcuni sono pagati) che garantiscono i servizi essenziali, di una vasta schiera di collaboratori (semplici ascoltatori, soci all’estero, giornalisti di altre testate) che assicurano la tempestività nella trasmissione di informazioni provenienti dall’Italia e dall'estero. Il coinvolgimento diretto dell’utenza nella gestione e nel funzionamento dell’organo di informazione consente, tra l’altro, di mantenere aperto il canale di andata e ritorno delle informazioni, assicurando un costante contatto tra l'agenzia emittente, sia essa radiofonica, come nel caso di Radio Popolare o editoriale, come nel caso di Nuova Ecologia, ed il suo pubblico di ascoltatori e lettori. La presenza di feed-back provenienti dall'esterno assicura inoltre la comunicazione col gruppo e intra-gruppi. Vale la pena di osservare infine che un organo come Radio Popo-
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lare costituisce un efficace veicolo di reclutamento per i vari gruppi e/o movimenti operanti nell’area milanese. Forze politiche, sindacali, associazioni, collettivi teatrali e musicali, gruppi di gay, di donne, di giovani ed ecologisti sempre più frequentemente si rivolgono alla radio per diffondere convocazioni, appelli, annunci e cosf via, concorrendo a trasformare quest’organo di informazione in una vera e propria struttura di servizio a disposizione e
supporto delle iniziative e delle mobilitazioni promosse dai vari gruppi. La stessa Cooperativa Ecologia si è ripetutamente rivolta
alla radio per il reclutamento di volontari da destinare all’organizzazione di convegni, seminari, cicli di films. La struttura organizzativa messa a punto in questi casi gode di una particolarità connessa alla sua durata: è un’organizzazione «a tempo» e si scioglie con l’esaurimento della singola iniziativa. Questa struttura a durata limitata (o «biodegradabile», secondo la terminologia eco-
logista) è una delle caratteristiche più interessanti e tipiche dei movimenti ecologisti. Adottandola, il movimento (o il gruppo) si affranca dai rischi di un’eccessiva rigidità strutturale e nel contempo attinge, per le sue iniziative, a forze sempre nuove, allargando in modo sensibile la propria base di adesione. La posizione strategica di alcuni gruppi (come la Cooperativa Ecologia per quest'area e Radio Popolare più in generale) in un punto di passaggio obbligato dei flussi comunicativi da e per il movimento/movimenti, ne determina la centralità e li trasforma in realtà di riferimento anche per quei settori di movimento più periferici ovvero privi di appartenenze superiori (gruppi autonomi ed autogestiti), oltre a costituire una sede di coagulo per le varie esperienze presenti in forma atomizzata sul territorio. In questo caso si può parlare di «agenzie /eadem» o, più semplicemente, di opinion leaders in grado di fornire, se pure in modo indiretto, stimoli e direttive, provvedendo in certa misura al coordinamento dei vari gruppi. 3.4. Generazioni di militanti e «anime» del movimento
La differenziazione interna originata da scarti generazionali sembra meno marcata in questo gruppo (e in generale in tutta l’area considerata) rispetto ai gruppi esaminati in altre aree, in particolare quella delle donne. Ciò nonostante è possibile individuare nel collettivo di redazione de «La Nuova Ecologia» due enerazioni di militanti politici: una, più «anziana», formatasi con e esperienze del movimento studentesco pre e post ’68 ed una più giovane, che ha fatto il suo ingresso nella politica come militante
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nelle organizzazioni della «vecchia» (FGCI) e nuova sinistra (PDUP, Avanguardia Operaia, Lotta Continua) durante la prima metà
degli anni Settanta. Può forse essere utile a questo punto introdurre brevissimi cenni relativi alle storie dei partecipanti ed al loro ingresso nella cooperativa; dal confronto tra questo gruppo, gli altri gruppi e il movimento, emergono infatti singolari analogie nei percorsi e nelle biografie di gran parte degli odierni ecologisti. È già stato detto che almeno fino al 1976 tutti i partecipanti militavano nelle formazioni della sinistra, tradizionali e non. Con la crisi e lo scioglimento delle organizzazioni, alcuni di essi confluiscono a fotmare il primo nucleo di Ecologia (Angelo, Stefano, Beppe e Ruggero). Il successivo dissolvimento del «movimento del ’77», stretto nella morsa tra la soluzione violenta da un lato e quella controculturale puramente espressiva dall’altro, crea un’altra generazione di orfani della politica. Rifiutando tanto la via della istituzionalizzazione quanto quella della privatizzazione della propria esperienza, questi militanti cercano altre soluzioni in grado di valorizzare tale esperienza in una prospettiva collettiva ed antagonista. E infatti nel 1978 che si registra un secondo afflusso di persone nella Cooperativa (Paolo, Davide, Gabriele, Cesare). Tra il
1979 e il 1980 chiudono i battenti alcuni dei quotidiani della nuova sinistra: dalle redazioni milanesi del «Quotidiano dei Lavoratori» e di «Lotta Continua», arrivano altri due redattori ad
aggiungersi al gruppo (S. che vi rimarrà solo un anno ed Alberto). Teresa, che oltre ad aver condiviso con gli altri l’esperienza nelle organizzazioni ha fatto parte fin dal 1975, del movimento delle donne, raggiunge il gruppo nell’81, durante il suo ultimo anno di università. Le esperienze accumulate durante questo percorso comune condizionano sensibilmente — in negativo ed in positivo — l’operato e le relazioni all’interno del gruppo.
Non sempre in grado di sconfiggere la vecchia logica delle contrapposizioni interne, esso è comunque cosciente dell’inefficacia di tale pratica cosîf come della limitatezza di alcune rappresentazioni ideologiche della realtà, che ancora permangono, in forma di residuo, nelle elaborazioni teoriche del gruppo, soprattutto ad opera degli individui più «anziani» e radicali, come Ruggero e Cesare, ancora molto sensibili a richiami dottrinari, un po’ retro, mutuati dall’ideologia, ed anche dalla retorica, marxista-leninista. La presenza di questa matrice a livello di area è confermata dai
contenuti del materiale raccolto nel gruppo costruito: tanto il rappresentante della Cooperativa il Papavero, quanto I. del Comitato Valle Lambro, appartengono alla medesima generazione di mili-
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tanti «delusi» dalla mancata rivoluzione. Fatte salve, bene inteso,
le diverse capacità di risposta individuale messe in moto dalla coscienza della sconfitta e variamente catalogabili nelle categorie del «disincanto pessimista», della «fuga nell’utopia» o della «resistenza» D.
La schermaglia politico-ideologica viene giocata dal gruppo tutta sulla «linea» e sul ruolo che il giornale deve assumere all’interno del «movimento» e nei confronti dell’esterno/pubblico/lettore. È intorno a questo nodo che si determinano alleanze ed opposizioni e prendono consistenza le varie posizioni interne che rispecchiano altrettante «anime» del movimento. La prima di queste anime, rintracciabile in Ruggero,
Cesare e, per certi versi
anche in Stefano, è quella che autodefinisce se stessa ed il gruppo come
avanguardia
intellettuale
e pensa
al giornale come
ad un
organo leader o punta avanzata della cultura ecologista, strumento di analisi e critica «dal di fuori», ovvero al livello più basso di interazione col sistema («Vogliamo essere mosche cocchiere che fanno una serie di proposte che richiamano parametri sociali e politici che normalmente non vengono considerate», «...le menti pensanti che elaborano nuove vie», Ruggero). È una posizione da outsiders che si traduce sul piano dell’azione nell’incapacità/rifiuto di gestire politicamente la traduzione delle idee nella pratica, attraverso forme di cogestione o di semiistituzionalizzazione («...se fossimo vicini a prendere in mano le
leve del potere dovremmo porci questo problema: che cosa vogliamo fare del sistema produttivo italiano. Però, nell’attuale situazione, farci carico di questi problemi è puro autolesionismo
15 Il «disincanto pessimista» è quello di P. (Il Papavero) per il quale la delusione della mancata rivoluzione si è tradotta nell’atteggiamento negativo del «mi impegno, ma tanto non serve a niente» («Il risultato della nostra iniziativa è che abbiamo creato quattro posti di lavoro, ...in sostanza»). La «fuga nell’utopia» è il tallone d’ Achille degli ecologisti. Il rigetto della via politica si manifesta attraverso il ritiro fisico in un microcosmo ecologico. È il caso delle piccole comuni di campagna. In un contesto metropolitano, l’utopia ecologista può essere solo pensata: il rigetto della politica assume in questo caso i toni ideologici della «necessità» di una trasformazione globale e può condurre all’immobilismo. Questa visione sembra più diffusa presso la generazione anziana: più presente in Nuova Ecologia che in cologia 15 ed emersa anche nel gruppo costruito (I. del Comitato Valle Lambro). La «resistenza» è invece quell’atteggiamento che nelle parole delle donne è stato espresso con la volontà «di rimettersi costantemente in discussione» o «di continuare a scavare». Nelle rappresentazioni di Nuova Ecologia è l'atteggiamento di
chi «fa un lavoro sottopagato che però gli piace, lo diverte, è curioso... E una scelta che abbiamo fatto anche questa, di vivere in un altro ambiente, di andare in un baretto la sera piuttosto che in un certo ristorante e cost via...» (Angelo).
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perché ci troveremmo a gestire degli spazi minimi con dei poteri minimi...», Cesare). L'istituzione è percepita più come avversario che come interlocutore; la rappresentanza attraverso la forma partito o la delega ai partiti politici della sinistra delle istanze di movimento è pente una strategia perdente. E la posizione più «movimentista vecchio stile» di chi si dice convinto che solo al di fuori degli apparati di gestione è possibile conservare il proprio potenziale di innovazione e la propria radicalità («Sono convinto che l'ecologia sia una cosa che Pa dei bisogni molto radicali e che sono decisamente eversivi rispetto a questo modello di sviluppo... A questo punto tu devi esserne fuori», Cesare). Tale punto di vista anti-istituzionale sembra essere ancora piuttosto diffuso, specialmente tra i militanti più «anziani» dei gruppi ecologisti contattati nel corso della ricerca; esso è inoltre uno dei tratti che più differenziano quello italiano dagli altri movimenti ecologisti europei. L’azione viene rimandata al mitico istante in cui tutte le «precondizioni» si riveleranno favorevoli al movimento, mentre l’antagonismo viene giocato interamente sul piano culturale. Più che di una scelta strategica, il continuo differimento dell’azione ad un momento di là da venire, sembra essere la copertura ideologica 44 hoc per un vuoto di programma politico autonomamente definito, per l’incapacità, in altri termini, di scontrarsi
sul suo
stesso terreno
con l’avversario,
sia esso il
sistema politico o l’istituzione. Il risultato più ottimistico conseguibile con una battaglia sul piano delle da consiste nella parziale modernizzazione di settori dell’istituzione, ma tale esito risulta implicitamente subordinato al grado di apertura o chiusura del sistema. La non disponibiltà da parte delle istituzioni a raccogliere gli stimoli che provengono lo può infatti invalidare il loro potenziale di innovazione, relegando quei settori di movimento che ne sono portatori, alla marginalità. La seconda, riconducibile alle posizioni di Angelo e, in parte, di Beppe è l’anima pedagogico-politica, che predica la necessità di raccogliere, unificare (e dirigere) le istanze emergenti dal movimento e vede nel giornale uno strumento di collegamento e confronto tra le varie realtà ecologiste, in grado di riunirle intorno al proprio progetto («La nostra idea è di costruire attraverso tanti pezzetti qualche cosa che ancora non sappiamo cos’è...»). L’aspirazione è quella a «dare la linea», a guidare l’azione collettiva anche attraverso l’indicazione concreta delle cose da fare, delle iniziative da promuovere, dei progetti da realizzare. Questa voce «populista» del movimento, pit diffusa tra gli ex militanti delle organizzazioni della sinistra istituzionale, parla da una posizione
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distante dalla realtà vera del movimento, incline ad affermarne in modo ideologico l’esistenza e la forza; e distante anche dalla sua
complessità perché non ancora in grado di abbracciare concettualmente, riconoscendole, le sue espressioni più «diverse», nei confronti delle quali l'atteggiamento assunto è più spesso quello di una benevola tolleranza. La posizione di Angelo e Beppe non rifiuta la via della politica (considerandola, però, meglio adatta per la rappresentanza di istanze su base locale), anche se richiama ed enfatizza la necessità di non perdere la dimensione «globalizzante» (e perciò eversiva) delle istanze ecologiste. Innovazione culturale e pragmatismo sono le bandiere dell’anima «più
giovane» (e più nuova) del movimento ecologista. Nel collet-
tivo di redazione questa è la posizione di Stefano, Davide, Teresa e
Renata (intervenuta solo all’ultima seduta). Attenta ai bisogni del-
l'individuo oltre che alle esigenze della collettività, al dettaglio oltre che all’insieme, è una posizione che risente in senso positivo dell’influenza delle elaborazioni teoriche prodotte dal movimento femminista sul modo di pensare e d’agire «politico» negli ultimi dieci anni. Essere ecologi è per Teresa: «Occuparsi di cose di cui la politica non si era mai occupata, cose che magari facevano parte della mia vita quotidiana, il rapporto con la natura, con l’ambiente, con i
dettagli». E questo non solo a livello teorico, ma nella pratica, attraverso la traduzione nell’immediato e nel quotidiano del diverso e del nuovo che percorre il pensiero ecologista. Sebbene per il momento ristretto all'individuo, esiste comunque un terreno ove è possibile tradurre in azione le idee senza troppo preoccuparsi della loro efficacia nel sociale. E lo spazio del proprio quadro di vita, dei rapporti col pe rio corpo, dei rapporti sociali, nei rapporti con l’ambiente e con e altre specie viventi. Innovazione culturale o pura espressività? Ci sono certamente l’una e l’altra nell’utopia che fa da sfondo a questo approccio. Si tratta in ogni caso di una utopia che ha radici nella pratica, attraverso la sperimentazione in prima persona della efficacia delle proprie idee. Da questa posizione il giornale è pensato con voce profetica che dia parola al sogno, spazio al gioco e luogo all’utopia; che dia dignità, riconoscendone il valore e la diversità, alle varie espres-
sioni, anche individuali di questa cultura. «...veniva proprio negata questa dimensione che magari Renata prima diceva del sogno, no? Ma del sogno non come cosa astratta e irrealizzabile, ma del sogno come qualcosa che non è ancora realtà [...] e che ancora non se ne vedono i contorni però che passa, insomma, attraverso dei bisogni che sono anche di oggi, ecco» (Teresa).
| L’enfasi sulla dimensione individuale non esclude però che si
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possa pensare di arrivare, attraverso l’azione collettiva, alla traduzione di alcune delle domande emergenti nel linguaggio della politica. Partiti ed istituzioni possono essere utilizzati dal movimento, ma solo come strumenti di diffusione della cultura ecologista: «Mi piace pensare che il nostro piccolo ragionamento venga fatto proprio da realtà più grandi, e allora mi pongo il problema che queste realtà siano magari essenzialmente prima le forze politiche, la sinistra, perché so che cosf è il treno con cui arrivo a molta più gente... Però prima di tutto questo io vorrei riuscire a non perdere la mia dimensione individuale, di motivazione rispetto a queste cose». E rintracciabile in posizioni simili a questa il filo rosso che lega la «vecchia guardia» di militanti ecologisti con le leve più nuove e più giovani del movimento. Un punto di vista pragmatico e disincantato che ritroveremo anche nei pronunciamenti dei membri del gruppo Ecologia 15. 3.5. Avversari ed obiettivi
L’individuazione degli avversari disegna una scala gerarchica di responsabilità, in cima alla quale stanno «coloro che hanno in mano le leve delle scelte, che hanno strumenti e cultura dalla loro parte», lo «stato borghese», secondo la terminologia di Ruggero, ovvero «quelli che fanno in modo che le cose vadano così» (Cesare).
L’implicito è il potere, percepito nella sua morfologia diffusa, raramente individualizzabile. É una immagine rarefatta e onnicomprensiva di potere che difficilmente favorisce l’individuazione di battaglie, se pur culturali, mirate su obiettivi concreti raggiungibili in tempi ravvicinati. Avversari intermedi sono i politici e la loro «arte perversa» della mediazione: l'oggetto del contendere sono tanto le forme quanto i contenuti delle politiche degli apparati di gestione della società. Sono le procedure di riduzione delle domande in istanze negoziabili e quindi deradicalizzate, sono le tecniche della mediazione infinitesimale, della «quantificazione» delle risposte alle richieste di qualità della vita. E la frantumazione artificiale di queste domande emergenti attraverso il meccanismo della rappresentanza ad essere messa sotto accusa, il malcostume delle strumentalizzazioni e delle lottizzazioni, del quale è portatore il politico di mestiere. Linguaggi, forme, usi e procedure della politica sono pertanto i primi avversari da combattere in quest'ottica, che espime il punto di vista generalmente condiviso nel gruppo. Posta in gioco intermedia è
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quindi la trasformazione dei protocolli dell’alta e della bassa poli-
tica, ma resta nell’ombra l’indicazione concreta dei mezzi che si
intendono adottare per raggiungere tale fine. Per coprire questo vuoto di proposte, il gruppo si richiama ideologicamente ad un momento futuro in cui la forza delle istanze emergenti dal movimento ecologista sarà preponderante: solo in quel momento sarà possibile aprire un negoziato con «il sistema». L’ovvio limite contenuto in questa argomentazione è che critica e rifiuto del metodo politico non vengono supportate da alcuna indicazione di alternative possibili. Manca, nel gruppo, l'elaborazione di strategie sostitutive efficaci, manca la produzione di contro-modelli in grado di proporsi con dignità pari a quella delle procedure tradizionali, in un progetto articolato e coerente. Il collettivo tende invece a considerare obiettivo ultimo dell’azione ecologista, la trasformazione globale dei modelli culturali dominanti nelle società tardo capitalistiche, raggiungibile solo attraverso il «controllo sui mezzi di produzione della cultura». Occorre precisare che il gruppo ha fatto usò del termine «cultura» tanto in senso antropologico, come sistema di norme e di valori che regolano l’agire sociale, quanto nel senso di sapere e conoscenza. Intorno a questo duplice significato del termine, si sono infatti manifestate nuovamente due tendenze differenti. Una, espressa a livello teorico soprattutto da Teresa, Renata e Beppe, che intende la trasformazione come cambiamento dell’agire nello spazio e nel tempo quotidiano; l’altra, interpretata da Gabriele, Ruggero e Stefano, che vede questa trasformazione passare, in primo luogo, attraverso la trasmissione e la diffusione delle idee ecologiste affidandosi alla forza cogente di un messaggio che dice una verità valida per tutti. Più o meno connotate ideologicamente, queste due posizioni si fondono nella convinzione che il controllo sulla formazione del sapere e sulla circolazione delle idee sia la premessa base per l'affermazione della cultura ecologista e che tale affermazione rappresenti una tappa fondamentale nel cammino verso la trasformazione della società 16. Nella 16 Credo che il contesto metropolitano nel quale opera il gruppo giochi in questa rappresentazione un ruolo importante: una città come Milano ben si presta ad essere utilizzata come simbolo della complessità e della articolazione delle società post industriali, nelle quali il controllo sulla produzione e la circolazione delle informazioni «è più che mai la questione del governo» [Lyotard 1981]. Le sedi di produzione della merce-informazione, le agenzie di socializzazione, i luoghi del sapere scientifico dispongono nella metropoli, più che altrove, di un enorme potere normativo e di controllo sociale.
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sua rappresentazione, il collettivo di Ecologia situa pertanto il campo del proprio intervento al livello pi alto del sistema sociale quando indica nel controllo sulla cultura l’obiettivo ultimo della propria e dell’azione del movimento. Occorre osservare per contro, che la mancanza di una strategia complessiva sulla quale articolare un proprio progetto di lungo periodo limita fortemente le possibilità di intervento di questo gruppo. La presenza e la centralità, al suo interno, di una «corrente» legata a schemi interpretativi della realtà sociale ormai angusti per poterne cogliere l'estrema complessità, induce al sottoutilizzo e alla dispersione di capacità intellettuali e spinte innovative invece presenti, ma minoritarie, nel gruppo. Inoltre, scrivere del e sul movimento non è equivalente all’«esserci dentro»: scriverne comporta, in qualche modo, un processo di astrazione dell’oggetto. L’allentamento del controllo in tale processo può comportare l’allontanamento progressivo del gruppo dal suo referente e utente primo. Non è una questione di riconoscimento o di rappresentatività quella che viene messa in gioco in tal caso: nessuna aggregazione o
movimento presenti sulla scena in questi anni può o vuole riconoscersi nella espressione di un solo gruppo o nelle posizioni di un solo leader. È invece vero che gli attori tendono ad appartenere contemporaneamente ad un certo numero di aggregazioni, nessuna delle quali assorbe interamente il loro tempo sociale disponibile né esaurisce il loro spettro di lealtà. Si tratta piuttosto di un problema di corretta lettura del reale, di conoscenza del proprio ambiente «di movimento» che metta il gruppo in grado di utilizzare la propria capacità progettuale fondandola sulla conoscenza dei fatti piuttosto che su un dover essere, sulla realtà piuttosto che sull’ideologia. La scelta è tra una funzione retrò di «mosche cocchiere» e una funzione di gruppo-risorsa, capace di offrire all'area occasioni di aggregazione, di comunicazione, di azione specifica e finalizzata. Un gruppo come il collettivo di redazione di «Ecologia» è probabilmente destinato a trovare con fatica il proprio ruolo all’interno di un movimento il quale, oltre che di elaborazioni teoriche si nutre di pragmatismo e concretezza. 4. Un approccio «dal basso»: il gruppo di lavoro Ecologia 15
Ecologia 15 (gruppo di lavoro della zona 15 sui problemi dell'ecologia e dell'ambiente) è una aggregazione di quartiere che opera nella zona meridionale della città. Di recente forma-
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zione (1981) il gruppo è composto‘in gran parte da coetanei (25/27 anni). Si riunisce nei locali di un centro sociale della Provincia: alcuni tra i membri sono operatori culturali alle dipendenze dell’ente locale, questi ed altri provengono da un collettivo di un centro sociale molto attivo nella zona negli anni tra il 1975 e il 1977 (Stadera). Come è detto in altri saggi, sono stati alcuni dei
membri del collettivo Stadera a negoziare con la Provincia l’apertura, nel 1978, del centro sociale presso il complesso scolastico onnicomprensivo di P.le Abbiategrasso, luogo in cui si riunisce anche il gruppo Ecologia 15. Le dimensioni del gruppo variano periodicamente in relazione alle attività nelle quali è impegnato: si passa da momenti di grossa partecipazione (anche dell’utenza del centro, fino a 30-40 persone) nei periodi di impegno su obiettivi concreti, a momenti di contrazione delle presenze (8-10 persone) nei periodi di stasi o di
rallentamento dell’attività. Il gruppo di persone che ha accettato di partecipare alle ricerche era composto da Enzo, tecnico in una impresa che produce impianti di depurazione delle acque e riciclaggio dei rifiuti; Piero, tecnico del suono; Andrea impiegato; Lucio, trasportatore; Gianfranco, fotografo; Marina vive di lavori precari, e Marco, laureato e ricercatore all’università.
Le appartenenze politiche dei membri di Ecologia 15 sono meno omogenee di quelle del gruppo precedente. Enzo, Andrea e Gianfranco condividono le prime esperienze di impegno sociale nel circolo Fcci di zona; Lucio ha militato prima in Lotta Continua e poi (o contemporaneamente) nei circoli giovanili (Stadera); Piero è militante di Democrazia Proletaria; Marina ha «bazzicato» come lei stessa afferma, nel Wwr e nella Lega per l’abolizione della caccia; Marco, infine, ha una lunga carriera di militante politico alle spalle ed è legato da tempo al gruppo del Manifesto. Pur trattandosi di un gruppo di ex militanti di organizzazioni della sinistra, che in anni passati si sono affrontati da posizioni sovente contrapposte, non sembra che questa disomogeneità rappresenti un ostacolo per l’azione del gruppo. Esso trova il suo equilibrio «naturale» interno e la coesione nel comune impegno su obiettivi concreti e ravvicinati nel tempo; rapporti di reciproca fiducia intercorrono tra i membri. Collettivo «di zona», a contatto con i
problemi concreti dell'ambiente in cui vive, Ecologia 15 esiste in funzione delle cose che fa. Nel materiale raccolto nel corso delle sedute, la vita del gruppo è scandita dall’enumerazione delle sue iniziative, dai prodotti del suo lavoro ed anche i luoghi evocati — sempre esterni, sul campo; tanto nella memoria del gruppo quanto durante il
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gioco di simulazione !? — sono legati a momenti di produzione. In essa il collettivo trova il principale fattore di coesione; ciò che lo tiene unito è la tensione verso un obiettivo concreto e realizzabile nel breve periodo. La vocazione al pragmatismo che anima il gruppo nasce dalla reazione ad una condizione percepita di disagio ed è motivata dal desiderio di modificare nell'immediato le proprie condizioni di vita. Per molti il disagio è direttamente connesso col vivere a Milano, in una zona che, senza fruire dei van-
taggi offerti dalla metropoli, ne sopporta i costi più elevati (quartieri-dormitorio, edilizia «selvaggia», inquinanti, mancanza di spazi verdi).
vicinanza
con
industrie
Alla base dell'impegno di questo gruppo sta quindi una sensibilità che nasce dall’esperienza quotidiana di una condizione in qualche modo condivisa dai suoi membri. La coscienza della comune condizione non è però fattore di primaria importanza nel determinare la scelta di impegnarsi sul terreno dell’ecologia: è ancora una volta l'appartenenza ad un gruppo primario l'elemento determinante della partecipazione; partecipazione che si intende sempre e comunque
frazionata tra un certo numero
di gruppi
sociali. Amici di quartiere, compagni di militanza ed entrambi utenti di un centro culturale nella zona, Enzo ed Andrea sono stati i
«fondatori» del primo gruppo ecologico della zona 15 (oggi Ecologia 15); Lucio e Piero arrivano all’ecologia attraverso un percorso più politico che esistenziale, mentre Marina ha «migrato» da una formazione sociale all’altra all’interno della stessa area. Gianfranco, infine, è nel collettivo «prima di tutto perché ci siamo
sempre conosciuti, per attività politiche che svolgevamo insieme». Ciononostante il loro essere ecologisti non è solo una forma di adesione a delle idee o un modo di fare politica, quanto piuttosto una pratica condotta, nella misura del possibile, quotidianamente ed in prima persona. 17 Scenari di quartiere, fuoco sui problemi specifici della zona 15 di Milano, le fotografie e le immagini suggerite dal gruppo sono spezzoni di realtà che lo vedono mobilitato su obiettivi concreti: «Quando mangiavamo le pizzette fredde sul marciapiede di Viale Tibaldi, mentre misuravamo il rumore, e la polvere di piombo sui marciapiedi...» (Piero). «Mettiamoci le foto di qualche bella discarica e noi che fac-
ciamo il censimento con le biciclette, mettiamoci Piero, con quell’affare... quel mostro per le rilevazioni acustiche» (Marco). I prodotti più significativi per il gruppo sono stati la compilazione di una mappa di rischio della zona 15 ed un filmato-calemzbour che illustra le fasi del lavoro di rilevazione compiuto dal gruppo in quella occasione. Marco e Enzo sono inoltre responsabili di un corso introduttivo ai problemi dell’inquinamento ambientale tenuto presso un liceo di zona nell’ambito delle attività del monte-ore.
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Un altro fattore che determina la vocazione al pragmatismo in questo gruppo ha origine nelle precedenti esperienze di aggregazione dei suoi membri e nasce precisamente dalla reazione all’atmosfera di inconcludenza che negli anni di militanza nelle organizzazioni circondava le loro iniziative. «E una scelta che nasce da una esperienza storica che un pò tutti noi abbiamo fatto, cioè di aver fatto una grande quantità di riunioni, di cosiddette menate e di non essere riusciti a venirne fuori in avanti neppure quando si era d’accordo» (Marco). L’accordo oggi, il collettivo Ecologia 15 lo trova sulle cose da fare, il senso della sua esistenza nelle piccole ma concrete imprese che riesce a portare a termine. «Ecologia 15 non ha un senso ma un ruolo» (Piero). La dimensione globale e complessiva delle problematiche ecologiche, pur essendo molto presente al gruppo, non inibisce le sue iniziative né le priva di significato a causa della loro inevitabile parzialità. L’obiettivo ultimo del suo impegno, rappresentato dalla trasformazione complessiva della società, non.viene evocato dal gruppo come un alibi per l’inazione ma come il traguardo di un percorso che anche il lavoro di Ecologia 15 contribuisce a coprire. Il collettivo mantiene nei confronti dei risultati delle proprie azioni un atteggiamento disincantato e realista che dimostra come questi attori non siano più disposti ad affidare ad una rivoluzione di là da venire, le sorti dei loro destini («Io credo che sia giusto ed
efficace agire senza avere l'angoscia del risultato», Marco). É quasi un procedimento «per tentativi ed errori» quello che governa tanto le azioni del gruppo quanto l’esperienza dei singoli. Non vi è alcun programma articolato diinterventi, né alcuna elaborazione teorica alle spalle del suo impegno: il gruppo opera sotto la bandiera dell’empirismo. Questo suo tratto caratteristico è anche il grande limite del gruppo, continuamente esposto al rischio che l’insuccesso o la mancanza di obiettivi immediati pregiudichino la sua unità ed il suo impegno !8. Ed è anche l’aspetto che maggiormente lo differenzia dal gruppo esaminato precedentemente. La trasformazione della società non passa necessariamente attraverso gli apparati della politica e della cultura: il collettivo di Ecologia 15 lavora nella convinzione che essa possa cominciare anche «dal basso». 4 18 Dal materiale raccolto durante la seduta dedicata alla memoria, risulta tuttavia che Ecologia 15 ha già attraversato e superato, nel corso della sua esistenza, due periodi di «riflusso»: l’uno in coincidenza con il furto subito del video-tape, l’altro con il forte rallentamento dell’attività seguito alla ultimazione della mappa di rischio.
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4.1. Struttura e funzionamento interno La struttura del gruppo è di tipo orizzontale, non vi è divisione gerarchica di funzioni e i processi decisionali sono aperti al contributo di tutti i membri ed anche di persone esterne al gruppo. La divisione dei compiti è tecnica ed avviene sulla base delle singole capacità, disponibilità o interessi: competenza, in primo luogo, attitudini e, al caso, preferenze sono i criteri che la governano. Elasticità nelle dimensioni ed adattabilità della struttura in funzione dell’obiettivo sono, come già visto, caratteristiche di questo gruppo, che se da un lato contribuiscono a rendere più efficaci le sue strategie d’azione dall’altro lo espongono al rischio della dispersione in mancanza di obiettivi immediati !9. Le risorse di potere sono ripartite tra più di un membro: Piero sembra a volte voler contendere ad Enzo la leadership tecnica del gruppo, mentre il ruolo di «mediatore» politico dei contrasti interni è affidato a Marco. Essendo arrivato al gruppo in quanto obiettore di coscienza in servizio presso l’ente locale ma «distaccato» dalla Provincia al centro sociale, Marco ha avuto in passato un ruolo istituzionale piuttosto preciso. «Assimilatosi» al gruppo, vi è successivamente rimasto ricoprendo il ruolo di coordinatore e «supervisore» del lavoro, assumendosi anche il controllo della «devianza» interna. Enzo è invece più spesso il leader tecnico: a lui spettano le decisioni operative. n tempi recenti è andato ad aggiungersi al gruppo un altro operatore culturale della Provincia (Germano), il quale sembra
aver assunto il compito della organizzazione esterna e la responsabilità delle relazioni tra Ecologia 15 e le altre aggregazioni «di quartiere» dell’area milanese. Questa differenziazione delle sfere di competenza dei leaders è un’altra conferma della già registrata tendenza al superamento della centralizzazione delle decisioni in favore di una spartizione funzionale delle risorse di potere all’interno dei gruppi e della strutturazione «a tre» del sistema di /eadership. 19 La conferma dell’esistenza di tale debolezza nel funzionamento del gruppo è stata rilevata anche nel corso della seduta di simulazione, durante il gioco dell’isola deserta. In questa occasione, il gruppo si era diviso tra chi voleva «tornare, perché qui non c’è niente da fare per Ecologia 15» e chi voleva rimanere sull’isola. Per far fronte alla minaccia della dispersione Enzo, che manifesta nei confronti del gruppo un atteggiamento quasi paterno ed è quindi il più attento alla sua unità, lo ha indotto ad un cambiamento di scenario, suggerendo una serie di obiettivi di breve periodo, inventati ad doc per Ecologia 15, in modo da motivare il gruppo a rimanere sull’isola e a mantenersi unito lavorando.
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4.2. Risorse
Rispetto al collettivo di redazione di «Nuova Ecologia», questo gruppo sembra essere meno ricco di risorse intellettuali, ma meglio dotato di risorse tecniche immediatamente utilizzabili per interventi di natura pratica (analisi delle acque, rilevamenti dello stato di inquinamento ambientale, ecc.). Ogni membro mette a risorse a cui accede attraverso il posto di disposizione del gruppo lavoro o attraverso l’appartenenza ad altre formazioni sociali (inputs rappresentati da dati, informazioni, uso di tecniche specifiche, ecc.), tanto che la scelta delle «cose da fare» avviene, nel gruppo, in base al tipo di risorse tecniche a disposizione di volta in volta. Ecologia 15 dispone di alcune risorse materiali rappresentate da piccoli finanziamenti da parte dell’ente locale; dall'uso e dalla disponibilità di confortevoli spazi per l'aggregazione, dall’accesso all’uso di un centro stampa e di un impianto di videoregistrazione. In più, il gruppo ha saputo fruire della sua stessa collocazione — all’interno di un centro sociale polivalente, del quale fruiscono numerosi altri gruppi sociali cittadini, a sua volta collocato in un complesso scolastico intorno al quale si muovono quotidianamente più di 5000 giovani — come di una risorsa utilizzabile sia in termini di pubblicità, sia in termini di reclutamento. 4.3. Reclutamento ed organizzazione esterna
Dal punto di vista delle modalità di reclutamento, Ecologia 15 è un gruppo inclusivo: ne fanno parte tanto persone residenti nella zona, che utenti del centro sociale, che studenti del vicino liceo scientifico, «ingaggiati» su criteri pratici. («Ecologia 15 è uno dei pochi gruppi in cui non ci si scanna per questioni di bandiera», Piero). Marina è arrivata al gruppo rispondendo ad un annuncio diffuso attraverso Radio Popolare; Piero è stato reclutato in virti delle sue conoscenze tecniche, mentre la base di militanti che RIDERE la riproduzione del gruppo è reclutata nell’ambito del‘attività del monte-ore 2° attraverso la quale Ecologia 15 si assi20 Il «monte-ore» fa parte delle iniziative di integrazione scolastica, previste dalla legge 517 del 1977, per la scuola secondaria superiore. La legge stabilisce un tetto di 160 ore annuali destinabili ad attività didattiche alternative a quelle previste dal programma ministeriale. Il gruppo Ecologia 15 è responsabile per una quota
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cura la collaborazione di un certo numero di studenti i quali vengono, successivamente «incorporati» nel gruppo.
L'organizzazione esterna, curata tanto da Marco quanto da Germano è piuttosto efficiente: il gruppo mantiene frequenti contatti con le altre aggregazioni Rana della città, agevolato in questo dall'avere a disposizione uno spazio fisico confortevole in cui riunirsi (locali attrezzati, saloni ed un teatro-auditorium). Ecologia 15 è un gruppo bene integrato nel suo ambiente: i coordinamenti dei gruppi ecologisti milanesi spesso si svolgono presso il centro sociale, come pure si è svolto presso l’auditorium il primo convegno dei Verdi in Italia (febbraio 1983), organizzato in colla-
borazione con la Nuova Ecologia e la Lega per l'Ambiente delARCI. Grazie alla sua posizione piuttosto centrale, questo gruppo sembra avere le carte in regola per diventare uno dei punti di riferimento per le aggregazioni di quartiere venutesi ad aggiungere, in tempi recenti, a quelle già esistenti nell’area. 4.4. Strategie d’azione: il prato e la conceria? Il lavoro del gruppo si svolge in prevalenza nella zona 15 di Milano: dal materiale di ricerca non risulta che esso abbia promosso in passato iniziative a livello cittadino. L’aver concentrato il proprio impegno in un’area territoriale delimitata ha permesso, per contro, al gruppo di acquisire una profonda conoscenza delle condizioni socio-ambientali della zona, fondando in questo modo le proprie strategie di intervento su di una visione complessiva dei problemi da affrontare a livello locale. «Pensare globalmente, agire localmente», lo slogan al quale è stato intitolato il III Congresso della Lega Ambiente?! sembra essere il manifesto sottoscritto da Ecologia 15. Pur non perdendo
(20 ore) del monte-ore di un liceo scientifico di zona. Il corso, che è frequentato da una media di 60/70 studenti l’anno, prevede tre stadi di approfondimento delle tematiche ambientali: lezioni introduttive, ricerca didattica sul campo, redazione di un rapporto finale sull’attività svolta, da presentare in assemblea pubblica. 21 Urbino, marzo ’83. Dalle tesi precongressuali: «E proprio nella capacità che vogliamo avere di pensare globalmente per comprendere e spiegare l'insieme delle contraddizioni e degli indizi che segnalano la necessità di una transizione verso nuovi modelli sociali, e però di continuare ad agire localmente per far leva su ogni singolo contrasto, che può costituire un elemento di novità, che fondiamo l’originalità del nostro modo di agire e di pensare».
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mai di vista la dimensione globale degli obiettivi da perseguire, il gruppo concentra la sua azione su obiettivi di tipo puntuale e sui singoli problemi. L’azione capillare è un elemento essenziale delle sue strategie di intervento, che possono essere le pi diverse, essendo misurate sull’obiettivo. È quindi indispensabile per il gruppo assicurare una certa elasticità alle proprie modalità di intervento: subordinare all’obiettivo la scelta delle proprie strategie, può richiedere di doverle modificare di volta in volta. Dai dati raccolti a livello più generale (area milanese, Italia), la duttilità delle strategie sembra essere un requisito fondamentale dell’azione del movimento e la condizione della sua efficacia. Questo modo d’agire quasi sperimentale garantisce l’adattabi-
lità dell’azione ai singoli contesti specifici ed al mutare delle contingenze. Sul piano pratico esso richiede una certa rapidità nella riconversione della lotta: la capacità, in altri termini, di modificare strumenti e di riallocare risorse in tempi brevi, al passo coll’avvicendamento dei fronti di lotta e degli obiettivi raggiunti. Oltre al rischio, già citato a proposito del gruppo Ecologia 15, che il fallimento o la mancanza di obiettivi possano pregiudicare impegno ed unità, una strategia di questo tipo può determinare
una certa disorganicità di interventi e rendere inoltre più difficile la sedimentazione di un patrimonio di procedure comune a tutto il movimento e trasmissibile da gruppo a gruppo. Nonostante lo scambio di esperienze ed informazioni stia alla base delle relazioni che intercorrono tra i gruppi all’interno del «movimento», la possibilità di utilizzare una medesima prassi di intervento è fortemente ridotta proprio a causa della peculiarità intrinseca dei singoli interventi. Se da un lato questo frazionamento della lotta ne riduce necessariamente la forza di impatto, dall’altro, però, l’intervento puntuale e locale consente di raggiungere più rapidamente gli obiettivi e di controllare direttamente gli effetti dell’azione. Risulta evidente a questo punto, come nell’impostazione teorico-pratica delle lotte ambientaliste la scelta dei mezzi da utilizzare (sovente direttamente subordinata
alle risorse a disposizione) occupi un posto di primo piano. «Io credo che in generale, per qualsiasi azione si faccia, pensare al risultato e non pensare al mezzo che si sta usando, la rende meno efficace» (Marco).
Naturalmente si tratta ancora una volta di un orientamento generale dell’azione e non di una «regola»: nei gruppi contattati durante la ricerca, questa posizione si trova sovente mescolata ad altre. Nel collettivo di Ecologia 15, ad esempio, è soprattutto Marco che la esprime, mediando tra l’impostazione «pedagogico-
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sociale» dell'impegno ecologista, di Andrea ed Enzo e quella decisamente più «politica» di Piero e Lucio. I primi, infatti, insistono sul valore «esemplare» e maieutico dell’azione ecologista, privilegiando un intervento più soft di tipo divulgativo-educativo. «Noi vogliamo arrivare a determinati risultati. Come? Partendo da quel pezzetto di prato, ma cercando di ampliare il discorso: cioè pulendo il prato ma poi dicendo a chi sta intorno: noi stiamo pulendo il prato per questo, questo e quest'altro. Iniziando dal piccolo cerchiamo di coinvolgere quelli che ci stanno intorno per poi arrivare sempre pit in alto. [...] Iniziamo col pulire il prato perché è più a portata di mano» (Andrea). I secondi, invece, sembrano orientati verso un’impostazione
più conflittuale dell’azione, che al di là della protesta, sappia far leva sulle contraddizioni «esistenziali» del vivere in città. «Mi va anche bene, se non ci sono cestini per i rifiuti nel marciapiede, buttare la carta per terra, ad esempio. È giusto, perlomeno non si fa altro che evidenziare uno stato dicose che già esiste...» (Piero). «Io mi sentirei abbastanza imbarazzato a dover andare a dire — anche se magari lo farò — a uno che tira un sacchetto di plastica nei giardinetti, che sta combinando un disastro, senza andargli a dire che disastro stanno combinando mantenendo dei ritmi di vita come quelli di una città come Milano... [...] Perché scegliamo di pulire il prato e non scegliamo di mettere duecento cartelli davanti alla conceria che scarica nel fosso, dicendo: ci piantiamo qui davanti finché non scarichi pi, per dire? [...] Per me scegliere o il prato o la conceria non è la stessa cosa...» (Lucio). L’analisi del materiale raccolto fa pensare che la sintesi vincente sia stata finora quella di Marco; una visione che subordina l'efficacia dell’azione alla capacità di adattare portata e modalità del proprio intervento, in primo luogo alle «condizioni oggettive» nelle quali opera il gruppo e secondariamente al tipo di obiettivo che esso si è scelto («Immagino che se scegliamo questo piuttosto che l’altro — prato e conceria — lo scegliamo perché è più efficace per portare avanti il nostro discorso, poi non lo so, vedremo in concreto, se ci troveremo a scegliere...», Marco). Non è quindi
tra il «prato» o la «conceria», per usare le espressioni del gruppo, che si gioca la scelta di mezzi e strumenti per l’azione, quanto invece sulla efficacia che può avere un’azione condotta sul prato o un'azione condotta sulla conceria e, soprattutto, su quale particolare contingenza può assicurare il massimo di efficacia all’uno ed all’altra. Emerge chiaramente anche in questo caso l’indirizzo risolutamente pragmatico del gruppo: la via verso il cambiamento non passa tanto attraverso lo scontro tra teorie (ed ideologie),
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quanto attraverso la pratica di un’ecologia, magari «artigianale», ma radicata nella realtà. Se l'impegno ecologista investe la trasformazione dei modelli culturali e delle regole della società, allora gli strumenti utilizzabili devono necessariamente appartenere anche all’universo della comunicazione. Entrambi i gruppi naturali (ed anche i partecipanti al gruppo costruito) hanno centrato insistentemente il discorso sul controllo dei mezzi di produzione della cultura, dimostrando di saper riconoscere qual è il terreno del loro avversario e quali sono gli strumenti che esso utilizza. Nel caso di Ecologia 15, sensibilizzazione e divulgazione sono tra i primi obiettivi che il gruppo si prefigge, e che persegue attraverso la produzione di mostre fotografiche e filmati in VTR e attraverso lo spazio del monte-ore nella scuola. La pubblicazione del lavoro svolto e dei suoi risultati ha luogo nel corso di convegni e raduni, attraverso comunicazioni radiofoniche ed in occasione di una festa di «fine anno scolastico» organizzata dal centro culturale, la quale ospita tradizionalmente una mostra fotografica ed altre iniziative di Ecologia 15. Gli strumenti utilizzati sono dunque di tipo essenzialmente comunicativo (parole, immagini e occasioni di socialità). 4.5. I rapporti con le istituzioni e gli avversari del gruppo
Gli interventi di Ecologia 15 non abbracciano soltanto quel campo d’azione che ho definito dell’ecologia sociale ma si rivolgono anche all’interlocutore politico del gruppo: in questo caso, le strutture del decentramento urbano (consiglio di zona) e l’ente
locale (Provincia e Comune). Ecologia 15 ha un rappresentante (Piero) presso il Consiglio di zona ed è in stretto contatto con l’assessorato alla Cultura della Provincia anche se tende a mantenere da esso una certa autonomia, definendo «strumentale» il proprio rapporto con l’ente locale. Il rapporto con il Comune è di tipo interlocutorio; lo scambio è avvenuto in occasione del lavoro di censimento delle discariche abusive in zona 15 compiuto dal gruppo per la compilazione della «mappa di rischio» e che si è tradotto in un intervento, sebbene parziale, da parte del Comune. Il rifiuto del dialogo tra gruppi ecologisti ed istituzioni è da molti considerato limitante, partendo dall’osservazione che, nelle attuali contingenze, il movimento in quanto tale non può avere accesso alla decisione. Il gruppo è consapevole inoltre di avere a che fare con un organismo poco permeabile («le istituzioni sanno
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resistere molto bene alle spinte di mutamento... dall’altra parte mi sembra che abbiano una forza ridicola nella capacità di cooptare» Marco): ne propone quindi un uso strumentale e «spregiudicato». L'atteggiamento di disincanto nei confronti delle proprie effettive possibilità procede quindi parallelamente al processo di ridimensionamento dell'immagine di una Istituzione che tutto può e divora. Disincanto e smitizzazione da un lato e scetticismo nei confronti della praticabilità dei canali tradizionali di rappresentanza politica dall’altro, si riflettono sui contenuti del negoziato tra «movimento» e istituzione. La domanda — se di domanda si tratta — non investe pit il
problema della rappresentanza politica, ma quello dell'esercizio e del controllo di attività tradizionalmente di competenza dell’istituzione. E questo giunge fino a proporre la realizzazione di progetti proposti dal movimento e finanziati dall’istituzione 22. Si delinea in questo modo una sorta di ruolo di supplenza del movimento (o dei gruppi) che si manifesta attraverso l'offerta di servizi. E questo, come si vede, il punto di maggiore distanza tra le forme di mobilitazione dei gruppi negli anni Settanta e quelle attuali. Sempre più frequentemente, nelle aree di movimento esaminate, gli attori si mobilitano su progetti autogestiti ma finanziati dal mercato (attraverso il dispositivo della sponsorizzazione) o dall’istituzione. Tale scelta sembra in parte fondarsi sul superamento di una ideologia «separatista» che collocava il movimento rigidamente al di fuori delle strutture istituzionali: ciò che è in discussione oggi, non è pit se «stare dentro» o «stare fuori» ma piuttosto come servirsi delle strutture del mercato e dell’istituzione per portare a compimento progetti di intervento autogestiti, non rinunciando, cioè, alla propria autonomia.
Una scelta di questo tipo offre indubbi vantaggi alle due parti: agli attori, la possibilità di collocarsi professionalmente sul mercato del lavoro, soprattutto nel campo dei servizi, dando un risvolto concreto al proprio impegno sociale; all'istituzione la possibilità di delegare al «movimento» parte degli interventi che le competono ed eventualmente di integrarne il potenziale di minaccia. All’interno dell’area esaminata, questo connotato di produzionelofferta di servizio è dominante: tanto i gruppi più strutturati
22 «A parte il fatto che noi viviamo in un paese che finanzia i partiti... è molto più innocuo ed indolore finanziare un movimento ecologista che lavora su delle cose concrete, piuttosto che finanziare un partito che, in teoria, dovrebbe essere mosso da ideali» (Marco).
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(Cooperative e gruppi professionali) quanto quelli «di base» come Ecologia 15 offrono e scambiano prodotti e servizi con enti locali, scuole, sindacato, aziende e cost via. Il delicato confine tra capacità conflittuale e ruolo di agenzia di innovazione nel campo dei servizi, rende ambivalente e mutevole la situazione dei gruppi ed il significato della loro azione: in bilico tra antagonismo, innovazione culturale e ruolo di supplenza. In questo quadro, l’individuazione degli avversari (e degli interlocutori) avviene in base alla percezione di vicinanza o lontananza, ma la natura conflittuale del rapporto non è un assunto a priori; al contrario, essa si determina in relazione agli atteggiamenti ed alle risposte dell'avversario. «Non è cosf matematico che questo movimento debba dire: no, io voglio rimanere sempre movimento e tu devi essere comunque il mio interlocutore/controparte...» (Lucio). Muovendosi su obiettivi contingenti, è naturale che il gruppo non individui un unico «nemico» ma abbia avversari diversi a seconda delle contingenze. Nel periodo in cui si è svolta la ricerca, esso individuava il proprio «nemico» contingente nell’assessore alla Sanità del Comune 23. ) Quello politico-amministrativo è, per un gruppo «di zona» come Ecologia 15, l'avversario più vicino e più concreto. Tuttavia esso non è che l’espressione visibile e quantificabile di un antagonismo più diffuso ed immanente nella cultura dell’intera società («...ed è anche dentro di noi», Marina). Le regole di «questa società», il suo modello di sviluppo, la sua cultura antiecologica sono i teatri nei quali si avvicendano gli avversari di questo gruppo, sempre diversi e mutevoli e mai dati una volta per tutte. AI livello in cui si situa l’azione del gruppo, di volta in volta gli avversari possono diventare interlocutori e gli interlocutori, avversari. Questa doppia dialettica vale anche rovesciando il punto di osservazione, considerando, cioè il rapporto dal punto di vista della «controparte». Nella misura in cui l’istituzione raccoglie o respinge gli input che le arrivano dal gruppo, trova in esso un potenziale collaboratore 0, viceversa, un antagonista. Il gruppo, dal canto suo, non sembra temere i rischi della integrazione, visto che ritiene una soluzione ottimale, nella fase attuale,
un rapporto di collaborazione tra movimento ed istituzioni. Se la sua azione si riducesse a questo, il suo ruolo non potrebbe che
23 La rimozione, avvenuta nel 1981, dell’ Assessore all'ecologia al Comune di Milano e l'accorpamento dell’ Assessorato a quello della Sanità, ha privato infatti il neonato Ecologia 15 del suo principale interlocutore.
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configurarsi come ruolo di supplenza istituzionale, mentre l’esito della sua azione andrebbe nel senso della modernizzazione. 5. Conclusioni
Quanto detto fin qui ci consente di cogliere più chiaramente le analogie e le differenze che i due gruppi, in qualche modo rappresentativi dell’area, presentano dalpunto di vista del funzionamento interno, delle appartenenze dei membri e dei modelli d’azione. A livello di area i due gruppi considerati hanno consentito di individuare la presenza di diverse «matrici» che orientano l’azione e di almeno due orientamenti principali che, a loro volta, sono espressi grossomodo da due generazioni di militanti. Due strade, necessariamente complementari, verso la trasformazione. Un approccio «dall’alto», incarnato nelle idee nella nuova élite intellettual-politica, alla quale i sedimenti negativi dell'esperienza nel movimento degli anni Settanta (letture ideologiche della realtà, separatismo e settarismo) spesso non consentono di stare al passo col mutare dei termini del conflitto, dei fronti di lotta e delle modalità d’azione, che la dislocazione e la pervasività del potere impongono in una società complessa. Una generazione ancora a metà strada tra vecchio e nuovo che tenta in questi anni
di uscire dal ghetto dorato ma marginalizzante, delle avanguardie intellettuali del movimento, offrendo alla politica ed al mercato esperienza e professionalità e chiedendo ad essi riconoscimento.
Va detto, tuttavia, che una delle condizioni di tale riconoscimento risiede nella capacità di offrire, insieme alle proprie idee e alla propria produzione intellettuale anche gli strumenti per rendere tali idee traducibili nella pratica; di offrire, in altri termini, non soltanto un punto di vista alternativo, ma anche le soluzioni che rendano l’alternativa praticabile nei fatti. Questa componente dell’azione ecologista, al di là della proposta di una cultura antagonista, non riesce ancora a farsi portatrice di un progetto politico che sappia indicare strumenti e modelli di trasformazione compatibili con il contesto storico, economico e sociale nel quale essa si muove. In mancanza di questo, nell’attesa di poter entrare nella stanza dei bottoni, questa generazione di intellettuali e di «politici» si deve contentare di infilare la propria conoscenza «nuova e altra» tra le pieghe del sapere e rea ufficiali, rimanendo costantemente in bilico tra non riconoscimento ed integrazione, mentre gli effetti della sua azione, a livello di sistema, non vanno
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al di là della innovazione culturale o della modernizzazione istituzionale. Dall'altra parte abbiamo visto in Ecologia 15 un gruppo disposto a correre i rischi dell’integrazione pur di portare a compimento i propri progetti. Un approccio «dal basso», pragmatico e disincantato, del quale è portatrice la generazione più giovane. Forte della coscienza che non si darà molto presto l’opportunità che movimento e cultura ecologisti possano accedere alla 00m at the top, essa agisce al suo livello specifico, su obiettivi puntuali, concreti ed unificanti. Per questa «anima» del movimento, istituzione e mercato non sono trappole alle quali bisogna sfuggire ma strumenti da usare spregiudicatamente nella misura in cui possono concorrere a raggiungere i fini dell’ecologia. Pi avvezzi a giocare con le stesse armi dei loro avversari questi attori possono avere, all’interno dell’istituzione, un ruolo modernizzatore, mentre la loro azione si traduce, verso l’esterno, in interventi di supplenza istituzionale o di imprenditorialità «alternativa». A livello di movimento, la sintesi tra queste due componenti non sembra né facile né senza incognite (ed il recente convegno di Milano «I verdi in Italia» ha messo bene in luce questa schizofrenia): essa rappresenta ad un tempo la sintesi necessaria ed il dilemma dell’azione ecologista (pensare globalmente agire localmente). In Italia, i tratti fortemente culturali dell’adesione alle idee ecologiste spostano decisamente l’ago della bilancia verso il primo dei due termini del dilemma; per altri versi, il carattere marcatamente politico delle mobilitazioni ecologiste (e penso al movimento antinucleare) ha fino ad ora, forse
più ostacolato che favo-
rito quel coagulo di esperienze «di base» dal quale può nascere un movimento sociale (penso, ad esempio alle Burgerinitiativen tedesche o agli Alternativi berlinesi). Fermo restando quanto detto in apertura di questo saggio, e cioè che l’attore collettivo «movimento ecologista» ha pit volte, in Italia, attraversato fasi di visibilità ma non si è mai manifestato in quanto tale (come invece è accaduto in Francia, Germania e,
recentemente, Belgio), si possono fare alcune osservazioni sulla struttura dell’area ir fase d latenza.
L’area delle aggregazioni spontanee di base a bassa formalizzazione, dei gruppi professionali, di nuova alimentazione, ecc. (cfr. figura 9, secondo quadrante) si presenta come un insieme di cellule molto autonome l’una rispetto all’altra, in rapporto diretto con alcuni organismi di coordinamento i quali, a loro volta, hanno un bassissimo potere normativo sulle singole cellule. I gruppi con-
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siderati rappresentano altrettanti segmenti del movimento. La divisione in segmenti, più che nascere da un calcolo di razionalità operativa interna o presentarsi come un escazzotage in grado di
aggirare la repressione, è originata da una sorta di resistenza (manifestata tanto dai gruppi dell’area considerata, quanto dagli altri settori dell’ecologismo nazionale (cfr. figura 9 quadranti 1 e 3) a trovare dei punti di forza comuni sui quali impostare un’azione collettiva. Questo limite, in parte connesso alla natura stessa dell’azione ecologista, che investe una pluralità di piani, si presenta come un reale ostacolo alla comunicazione ed alla integrazione dei vari segmenti, che pure sono contigui e interrelati attraverso le molteplici appartenenze degli attori. Si hanno cosî, in luogo di un attore collettivo capace di esprimere istanze articolate su obiettivi crescenti, una serie di micro-aggregazioni (sul piano empirico) ed una serie di orientamenti (sul piano analitico) che giocano la loro conflittualità in modo scollegato e che faticano a trovare la via di una sintesi tra teoria e prassi, a volte sbilanciate sull’una, a volte sull’altra. Inoltre, certamente non estranea a questa difficoltà di comunicazione, la permanenza di settori (a livello di movimento), gruppi (a livello di area) ed attori (a livello di gruppo) ancora fortemente ideologizzati e settarii, che certo non favoriscono la formazione di un tessuto connettivo tra i vari segmenti e le varie esperienze. L’assenza di una /eadership accentrata ed unificante a livello di area e di movimento, conferma l’esistenza di una opzione — da parte di questo come di altri movimenti contemporanei — per una forma di coordinamento pit soft, rappresentata da agenzie od opinion leaders che, senza prendere decisioni vincolanti per tutto il movimento, sono in grado di fornire indicazioni ed orientamenti all’azione (si veda il caso di Radio Popolare e, più nello specifico, di Nuova Ecologia e della Lega per l’Ambiente). Tale opzione sembra inoltre resa necessaria dall'esistenza di un ridotto scarto tra le risorse dei gruppi «centrali» e dei gruppi «periferici». In una prospettiva micro, l’equiparabilità delle risorse individuali esistente tra i membri dei due gruppi considerati, ha condotto a forme di /eadership triumvira. Dal punto di vista delle risorse, tanto in termini di disponibilità quanto in termini di accesso, l’area considerata è risultata piuttosto ricca. Ricca in particolar modo di quelle risorse intangibili ma specializzate rappresentate da militanti «professionali», e da tecnici, specialisti, professionisti, ecc. che si riconoscono nelle idee del movimento e vi collaborano, spesso gratuitamente. Abbiamo visto che — sebbene favorita rispetto ad altri gruppi
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dell’area metropolitana — una aggregazione di zona come Ecologia 15 è in grado, inoltre, di ottenere spazi e strumentazioni tecniche oltre, come già detto, a piccoli finanziamenti (finora erogati dall’ente locale, ma recentemente il gruppo sembra volersi rivolgere anche al mercato per recepire i fondi per le sue attività, attraverso la sponsorizzazione di alcune sue iniziative).
È probabile che sia questa relativa abbondanza di risorse a determinare in parte il carattere di agenzia assunto sempre pit diffusamente dai gruppi contattati nel corso della ricerca. E la capacità (nuova, rispetto alle aggregazioni degli anni Settanta) che questi gruppi hanno di reperire ed amministrare risorse, che rende possibile l’offerta di servizi e di nuova professionalità a mercato ed istituzioni: da questo punto di vista, la ricerca ha sicuramente toccato due gruppi ugualmente significativi a livello di area, entrambi ricchi di risorse, entrambi favoriti nelle opportunità di accesso all’uno ed alle altre. AI di là di questo, va però osservato che, nonostante l’abbondanza di risorse materiali e immateriali (strumenti e cultura/conoscenza), il movimento ecologista nel suo insieme non ha ancora espresso in un progetto di intervento comune ed articolato, le sue soluzioni ai problemi che dichiara di voler affrontare 24. Se l’esito ultimo dell’impatto della cultura ecologista sulle società a capitalismo avanzato è rappresentato dalla trasformazione dei modelli di produzione sociale, economica e culturale, in una prospettiva riformista — quale sembra essere quella degli ecologisti italiani — l’innovazione culturale e la modernizzazione istituzionale sono da considerare come dei passaggi intermedi obbligati, tenendo conto soprattutto del fatto che la «transizione» ecologista si gioca necessariamente su di una scala temporale fatta di decine, se non di centinaia d’anni.
gi Un progetto quale, ad esempio quello elaborato in collaborazione tra Les Amis de la Terre e il Mouvement d’écologie politique e condensato nel documento Le pouvoir de vivre, numero speciale del mensile «Ecologie», marzo 1981.
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MARIO DIANI
L’AREA DELLA «NUOVA COSCIENZA» TRA RICERCA INDIVIDUALE ED IMPEGNO CIVILE
1. Introduzione
Nel corso degli anni Settanta si sviluppa a Milano ed in Italia, avendo come principali riferimenti la controcultura americana e le tradizioni orientali, l’area della «nuova coscienza». Si tratta di una realtà molto composita, di cui si possono individuare due «componenti principali. La prima tende a coincidere con l’insieme delle pratiche di meditazione e di ricerca interiore finalizzate all’acquisizione di una crescente consapevolezza del proprio essere, e si connota quindi fortemente in senso spirituale e religioso. La seconda consiste invece nelle esperienze che puntano a ricostruire un rapporto equilibrato tra l’uomo e la natura, nonché tra il corpo e la mente. Forme alternative di alimentazione e di medicina, vari tipi di tecniche di espressione corporea rivestono in tale prospettiva una particolare importanza. Questa seconda componente si caratterizza prevalentemente in senso «ecologista». In questo saggio mi occuperò, pur continuando ad usare l’espressione «area della nuova coscienza», soltanto dei gruppi e delle esperienze che al suo interno fanno riferimento più o meno diretto: alla tradizione orientale. Le ragioni di questa delimitazione del campo di osservazione sono diverse. La prima è di natura squisitamente empirica, risponde cioè all'esigenza di individuare un’unità di analisi relativamente limitata all’interno di un campo altrimenti vastissimo. Inoltre, è indubbio che l’incontro con l'Oriente abbia favorito la diffusione di queste tematiche, nel mondo occidentale e nel nostro paese. Infine, le esperienze orientaliste esprimono nella loro eterogeneità entrambe le componenti cui accennavo sopra. Nel loro complesso i fenomeni di ispirazione orientale si inseriscono nella più generale tendenza ad una rivalutazione della componente sacrale dell’esistenza che ha caratterizzato negli anni Settanta le società post-industriali. I processi di «secolarizzazione» non hanno infatti implicato la riduzione a categoria residuale del sacro, inteso come «totalmente altro», nonché come
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fonte di significati ultimi per l’esperienza comune, ordinaria !. La crisi delle strutture ecclesiali, della religione come fatto istituzionale ha piuttosto favorito il moltiplicarsi delle possibili forme dell’esperienza spirituale e religiosa. La notevole diffusione conosciuta in anni recenti da sette fondamentaliste, nuove denomina-
zioni, culti «orientali» testimonia la permanente rilevanza della dimensione mistica ed esoterica all’interno del fatto religioso [Acquaviva 1973]. Al tempo stesso è emersa anche una concezione rigorosamente individuale, «privata», della pratica religiosa, legata a temi specifici delle società avanzate [Luckmann 1969, 1973; Bellah 1973a, 1973b]. Il ruolo centrale attribuito all’autorealizzazione, all’ascesa sociale, alla felicità sessuale lascia ad
esempio intravvedere nuove forme di culto di cui sessuologi, terapeuti, psicanalisti si propongono come sacerdoti. D'altra parte, lo stesso appello dei movimenti ecologisti alla difesa dell’ecosistema assume spesso connotati religiosi. Esso individua infatti nelle leggi naturali una sorta di principio ultimo cui occorre uniformarsi, pena la distruzione di ogni forma di vita?. L’espressione «ritorno al sacro» racchiude quindi fenomeni estremamente diversi, irriducibili ad un semplice rilancio della religione ecclesiale. Tale diversità è riscontrabile anche nel nostro paese. Un'analisi dell’area della «nuova coscienza» non può pertanto prescinderne. Il punto di partenza è necessariamente costituito dai vari tentativi di rivitalizzazione della pratica religiosa tradizionale che nel corso degli anni Settanta hanno attraversato l’area cattolica. Distinguerò a questo proposito tra fenomeni di misticismo (ad esempio i gruppi neo-pentecostali), di integrismo a base comunitaria RA e Liberazione), e di dissenso basato su una lettura «politica» del Vangelo (le comunità di base ed il movimento Cristiani per il socialismo). Il movimento neo-pentecostale si rifà alla comunità ecclesiale primordiale, nella quale il carisma si irradiava direttamente sui suoi membri in occasione dei momenti di culto per il tramite della preghiera collettiva. Si tenta quindi di rivitalizzare questa pratica attraverso forme che lasciano spazio a momenti di misticismo molto intensi. Il fenomeno è attualmente incoraggiato ed in larga misura guidato dalla gerarchia ecclesiastica. 1 Sulle teorie della secolarizzazione, e sulle molteplici versioni del concetto di «sacro», cfr. Acquaviva [1975], Acquaviva e Guizzardi [1973], Guizzardi [1979]. 2 Cfr. per un esempio estremo di questo atteggiamento un caso di «misticismo ecologista» in Francia descritto da Hervieu e Léger [1980].
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L'importanza di Comunione e Liberazione e dei gruppi ad essa vicini rende difficile una definizione sintetica di questa esperienza. L’espressione «integrismo a base comunitaria» indica da un lato, l’attenzione rivolta da questa organizzazione a temi come
la dimensione comunitaria e la qualità delle relazioni interpersonali; dall’altro, la prospettiva rigidamente integralista, volta cioè ad affermare il primato assoluto dell’esperienza spirituale e religiosa, in cui si è neutralizzata la critica, pure molto aspra, rivolta
al movimento ai valori dominanti. L’accento posto sulla necessità dell’impegno sociale ha anzi fatto si che questo integrismo si traducesse in un sostanziale collateralismo nei confronti della DC. Il ruolo più visibile dei «cattolici del dissenso» è stato invece proprio Hall di rompere l’identificazione tra il partito ed il mondo cattolico. Tuttavia, la loro presenza non è riducibile a questo aspetto, pure importante. Se infatti il movimento dei Cps è nato e si è sviluppato intorno a questo obiettivo, ormai in larga parte raggiunto (da cui la crisi degli ultimi anni), le comunità di base hanno compiuto e continuano a compiere un’opera di rinno-
vamento della pratica religiosa che si colloca sovente ai margini, ma non necessariamente al di fuori della struttura ecclesiale. Esternamente all’area cattolica, ma rivolta in larga misura ad una fascia di praticanti legata alla religione tradizionale, si colloca poi l’azione di sette fondamentaliste e millenariste di lunga tradizione storica come i Mormoni, gli Avventisti o i Testimoni di Geova. Negli anni Settanta hanno avuto una relativa diffusione anche in Italia, soprattutto tra i giovani, sette religiose di origine statunitense come la Chiesa della Riunificazione del reverendo Sun Yang Moon, o i Bambini di Dio guidati da Mosé David. Esse si rivolgono in genere a personalità deboli e facilmente manipolabili, cui offrono una prospettiva di vita totalizzante e completamente subordinata alla volontà del /eader?. Bisogna infine ricordare la crescita anche nel nostro paese di un interesse per il corpo, per l'espressività, per l’autorealizzazione individuale nelle sue varie accezioni. Nella sua versione pit esasperata ciò ha condotto a forme di «culto» cui ho già avuto modo
3 Sui neo-pentecostali cfr. Catucci [1978a e 1978b]. Per una ricostruzione dei travagli interni al mondo cattolico a partire dagli anni Sessanta si veda Cuminetti [1983]. Altre indicazioni sui fenomeni citati stanno nel secondo paragrafo della bibliografia ragionata.
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di accennare 4. Pi in generale si è comunque avuta una forte espansione di vari tipi di attività legate allo sviluppo delle potenzialità individuali (gruppi di terapia, corsi di arti varie, medicina ed alimentazione alternativa). Le esperienze orientaliste non sono assimilabili ad alcuno dei casi appena citati. Esse appaiono tuttavia rappresentative della globalità dei fenomeni in questione, in quanto ne esprimono l’eterogeneità e la polivalenza. All’interno dell’area della «nuova coscienza» convivono infatti misticismo ed integrismo comunitario, pratiche terapeutiche ed esperienze settarie, spinte verso la liberazione dalla repressione e fenomeni di rigido moralismo, casi di fuga dalla società e testimonianze di impegno civile. Il «movimento» orientalista si propone quindi come esemplificazione significativa di fenomeni molto più vasti, nonostante il suo impatto relativamente ridotto. 2. L'incontro con l'Oriente
La diffusione delle esperienze religiose di ispirazione orientale inizia negli Usa alla fine degli anni Sessanta, sulla scia del rz0vement. Durante il decennio 1960-1970 i movimenti di contestazione hanno espresso un’opposizione essenzialmente sul terreno culturale, negando i principali sistemi etici a fondamento della società americana: la religione biblica tradizionale e l’utilitarismo individualistico [Tipton 1979]. Si punta invece alla piena realizzazione dell’individuo, senza lasciarsi condizionare da obiettivi specifici. In molti casi la ricerca di maggiore conoscenza interiore viene perseguita attraverso l’uso di allucinogeni. Non si ritiene possibile, almeno in linea generale, una trasformazione della società, e si cerca invece nelle esperienze comunitarie l’occasione per praticare stili di vita e rapporti interpersonali diversi [Lockwood Carden 1976]. Contemporaneamente si sviluppa, soprattutto in California, il fenomeno dei gruppi e delle comunità terapeutiche, che si collocano all’interno del più vasto Human Potential Movement. Esso presenta alcune analogie con il movimento delle comunità alternative, cui lo accomuna l’accento sull’autorea-
4 Per un’analisi dell’attuale «culto del corpo» e delle sue ambiguità, cfr. Melucci [1982]. Su quella che è stata definita «cultura del narcisismo», si veda Lasch [1981].
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lizzazione e sulla responsabilità individuale [Marx ed Ellison 197315,
Alla fine degli anni Sessanta l’ideologia radical entra in crisi, favorendo l’emergere di una forte componente spirituale e religiosa, che si ispira ad un cristianesimo vago e primordiale (i cosiddetti Jesus Freaks) o alle tradizioni orientali. In questo ultimo caso, la differenza rispetto alle altre comunità sta innanzitutto nel sacrificio della spontaneità e della estrema libertà individuale in favore di pratiche di studio e di meditazione molto rigorose e sistematiche, spesso sottoposte a rigide regole morali [Lockwood Carden 1976]. Risulta spesso evidente anche qui una funzione terapeutica, soprattutto nei confronti delle persone dedite all’uso di sostanze stupefacenti 6. Anche in Italia l’incontro con l'Oriente avviene per il tramite dei movimenti di contestazione. Le modalità sono tuttavia diverse. Le esaminerò qui con riferimento prevalente alla situazione milanese. L'importanza di quest’ultima e la scarsa disponibilità di dati significativi a livello nazionale mi hanno infatti suggerito di privilegiare la dimensione «locale». Sino agli anni Sessanta il rapporto con le culture e le religioni dell’area orientale è in genere Dr a cerchie ristrette di studiosi e/o di cultori delle discipline esoteriche, con un approccio essenzialmente intellettuale [Bergonzi 1980]. La situazione cambia nel periodo successivo, con l’esplodere della contestazione giovanile. Pur essendo il movimento del ’68 largamente egemonizzato dalla componente politicizzata ed operaista, si forma tuttavia un’area poco visibile ma importante che privilegia la pratica «controculturale» rispetto all’impegno politico. L’accento sulla ricerca interiore, sul «viaggio» nella sua accezione sia geografica che psichica, l'aspirazione ad un rapporto di amore con gli altri esseri viventi ed il rifiuto dei meccanismi su cui si fonda la società occidentale spingono un numero crescente di giovani sulla strada dell’India. È attraverso chi decide di ritornare che l’induismo ed il
5 Per un’analisi critica delle esperienze finalizzate allo sviluppo delle potenzialità individuali, cfr. Manders [1978], Schur [1976], Lasch [1981]. La letteratura sulla «controcultura», le comuni, la ricerca psichedelica è dal canto suo molto
ampia. Anche in questo caso rinvio pertanto alla bibliografia ragionata (quarto paragafo).
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È stato anzi osservato [Richardson 1979] come la recitazione prolungata di una formula rituale possa sortire, con costi assai minori, effetti simili a quelli di un «viaggio» ottenuto con l’uso di droghe. Sull’azione dei nuovi gruppi religiosi in questo campo si veda ad esempio Robbins ed Anthony [1972].
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buddismo cominciano ad influenzare la nostra cultura. All’inizio degli anni Settanta nascono infatti a Milano i primi centri di meditazione ?. La crisi dei gruppi extraparlamentari intorno al 1975-1976 favorisce l’avvicinamento di molte persone alla ricerca interiore e ad esperienze che sino a quel momento la militanza politica aveva portato a trascurare. Il fenomeno comincia ad avere una certa rilevanza anche sul piano organizzativo. Gli Hare Krishna operano ufficialmente a Milano dal 1974 (attualmente il centro dell’attività è a Gallarate). Nel 1975 i buddisti fondano l’Istituto Lama
Tzong Khapa, di ispirazione tibetana. Due anni più tardi anche i sannyasin di Rajneesh aprono un centro in città. L'impatto complessivo dell’area è comunque ancora molto ridotto, e soprattutto
limitato ad una fascia culturale e generazionale abbastanza definita. Prevale spesso un atteggiamento di rifiuto della società e del mondo, di cui si negano i valori ed a cui si contrappongono modelli di vita comunitaria. ; Sempre intorno alla metà degli anni Settanta si sviluppano però ai margini di quest'area anche esperienze che rispondono a bisogni non specifici del mondo giovanile, e spesso anzi ad esso estranei. Il messaggio del maestro indiano Sathya Sai Baba si diffonde ad esempio tra persone accomunate casomai da una fede religiosa di tipo tradizionale, molto lontane per età, ma soprattutto per cultura dai movimenti di contestazione. D'altra parte, la Meditazione Trascendentale insegnata dal centro MerU (Maha-
rishi European Research University) si caratterizza sempre più come una tecnica finalizzata ad un migliore inserimento nel mondo, obiettivo certo non definibile come «controculturale» o «alternativo» 8. Attualmente la situazione si presenta molto diversa rispetto a dieci anni fa. Sono innanzitutto cresciute le dimensioni dell’area. In tutta Italia si può ipotizzare che siano qualche decina di migliaia le persone coinvolte in un’esperienza spirituale [Bergonzi 1980]. A Milano, i sanzyasin di Rajneesh sono ormai circa un migliaio, cost come gli aderenti alle varie scuole buddiste. I devoti di Sai Baba ammontano a parecchie centinaia. È in aumento anche il numero delle persone che senza aderire ad alcun
? Sul viaggio in India cfr. Verni e Cerquetti [1976] e Verni [1977]. Per una mappa delle esperienze spirituali presenti a Milano nella prima metà degli anni Settanta si veda Ricci, Marras e Radice [1975]. 8 Cfr. Maciotti [1980] e Bird [1979].
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insegnamento specifico risultano influenzate dalla proposta culturale dell’area. I soci del centro Vivek (gestito dai sannyasin) che
usufruiscono dei servizi offerti con una certa regolarità sono circa cinquemila. In altri casi l'impatto è meno rilevante, ma nel complesso esso si rivela comunque abbastanza alto. La tendenza è per il momento verso un'ulteriore espansione. Atteggiamenti di rifiuto sono stati quasi del tutto abbandonati in favore di una piena partecipazione al mondo, fondata sulla valorizzazione del potenziale individuale 19. Soltanto i devoti di Krishna insistono in modo esplicito sulla necessità di sottrarsi al mondo materiale. Le proposte orientaliste interessano attualmente un pubblico differenziato per età, cultura e provenienza sociale (anche se la componente proletaria è molto scarsa); diverse sono anche le motivazioni che inducono ad avvicinarsi al messaggio orientalista. Nel complesso l’area tende ad uscire dalla sfera della controcultura marginale, o dei cultori di esoterismo e filosofie orientali, per rivolgersi invece alla società nel suo insieme. La natura del messaggio, imperniato sulla trasformazione individuale, l’informalità e la non esclusività delle appartenenze ostacolano il formarsi di strutture di tipo settario. Se assumiamo con Wallis [1977] che una setta sia caratterizzata da un’appartenenza di tipo esclusivo, una struttura totalitaria, un’autorappresentazione dei suoi membri come depositari della verità, una forte ostilità nei confronti della società, allora soltanto gli Hare Krishna sembrano classificabili a rigore come una setta. Questo saggio non prende in esame le espe-
rienze della «nuova coscienza» da un punto di vista globale. Si propone invece di valutare l’eventualità che esse siano portatrici di una carica conflittuale, nonché la presenza di dimensioni di movimento, in una realtà che si contraddistingue per la eterogeneità dei contenuti espressi. Ho quindi finalizzato l’analisi a questo obiettivo. D'altra parte, l'informazione generale sull’argomento è molto bassa. Mi è parso quindi opportuno dare al mio saggio un taglio almeno parzialmente descrittivo. L’esame dell’esperienza del centro buddista Ghe Pel Ling, i cui membri hanno 9 Nella sola primavera del 1983 hanno iniziato la loro attività a Milano i discepoli del maestro indiano Babaji e del lama tibetano Sogyal Rinpoce, il Centro Siddha Yoga ispirato all'insegnamento di Swami Muktananda ed il Centro culturale orientale Daruma Dojo. 10 La trasformazione verificatasi sembra interpretabile, utilizzando le concettualizzazioni di Wallis [1979b], come il passaggio da un modello di religiosità world-rejecting ad uno world-affirming..
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partecipato alla ricerca come «gruppo naturale», ha permesso di individuare una serie di nodi che si sono poi rivelati centrali anche per l’analisi dell’area nel suo complesso. La struttura del saggio riflette questo rapporto, presentando dapprima i dati relativi al gruppo naturale e successivamente quelli riferiti all'area. 3. Il Centro Ghe Pel Ling: un gruppo «metropolitano»
Le ragioni della scelta del Centro Ghe Pel Ling per il percorso sperimentale della ricerca sono molte e di diversa natura. In primo luogo, il centro è una struttura in larga misura non istituzionale, pur essendo inserita in una precisa tradizione religiosa come quella del buddismo tibetano. La gestione delle attivià è prevalentemente volontaria, e finalizzata all’obiettivo di fornire una testimonianza oltre che un servizio in senso stretto. Inoltre, e conseguentemente, l’attività del centro è molto differenziata ed investe, oltre che la pratica spirituale, la proposta culturale, l’impegno civile e la prestazione di servizi. Il centro si connota quindi per una solidarietà tra i suoi membri che non si basa esclusivamente sulla comune esperienza religiosa, ma si definisce anche a partire dalla condivisione di un progetto di intervento verso l’esterno. Infine, il centro si presenta come una struttura non settaria e non esclusiva, poco sensibile al fascino della componente pi esotizzante della spiritualità orientale. Queste caratteristiche lo collocano in una posizione centrale rispetto alle dimensioni che definiscono l’area della «nuova coscienza». Il centro ha iniziato ad operare a Milano nel settembre del 1978. Il nome Ghe Pel Ling significa «luogo dove l’energia pura si propaga», ed esprime in un certo senso l’obiettivo principale dei suoi animatori. Il centro intende infatti essere un punto di incontro e di scambio per tutti coloro che desiderano conoscere e/o praticare la filosofia e la psicologia buddista. In realtà, la presenza organizzata del buddismo tibetano a Milano ha preceduto di qualche anno la fondazione del Centro Ghe Pel Ling. Abbiamo già visto infatti come risalga al 1975 la fondazione dell’Istituto Lama Tzong Khapa, che successivamente si è trasferito nella campagna pisana, a Pomaia, ed ha assunto la forma di una comunità stanziale di monaci e laici. Non tutte le persone che avevano partecipato alle attività dell’istituto hanno potuto o voluto condividere questa scelta. La fondazione del Centro Ghe Pel Ling è quindi legata alla loro volontà di garantire la pratica del buddismo a Milano. Attualmente il centro è del tutto
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autonomo dagli altri centri di dbarzz4 in Italia, pur mantenendo con essi contatti. La sua azione si caratterizza per il fatto di privilegiare le esigenze di chi pratica il buddismo in una situazione metropolitana, vale a dire con tutti i vincoli connessi ad un modo di vita urbano, non ultima la scarsa disponibilità di tempo. Le proposte del centro sono indirizzate sia a chi già conosce il buddismo sia ad un pubblico più esterno. La partecipazione non richiede particolari requisiti, fatta eccezione per alcuni insegnamenti e riti destinati a chi ha già raggiunto determinati livelli di pratica. Le attività principali sono quelle che attengono direttamente alla pratica spirituale: corsi tenuti dai lama, collocati in genere nel fine settimana; sedute di meditazione; studio dei testi classici del buddismo. Il centro si impegna poi con regolarità nell’analisi dei rapporti tra la cultura occidentale e quella orientale e buddista, soprattutto sul terreno della psicologia !!. Vengono organizzati periodicamente incontri, seminari, dibattiti cui partecipano studiosi di formazione ed orientamento differenti. Un altro campo di intervento riguarda le attività più specificamente di servizio (vendita di libri e di oggetti di artigianato tibetano, pratica dell’batha-yoga). Pur essendo queste ultime assai limitate, è bene notare che nel complesso il centro agisce con una logica organizzativa che lo assimila ad una struttura di servizio più che ad un’esperienza portatrice di un progetto globale alternativo. Da questo punto di vista la sua presenza si colloca all’interno del ben più vasto fenomeno di attività di gruppo (terapeutiche, espressive, finalizzate all’apprendimento di arti o tecniche) sviluppatesi negli ultimi anni Settanta nell’area milanese. L’attività del Ghe Pel Ling rivela infine attenzione per l’impegno civile nella società. E stato organizzato nel gennaio del 1983 un «festival del dharma e della pace» a cui hanno portato la loro testimonianza, accanto agli insegnamenti dei lama, persone attive da vari punti di vista su questo terreno (obiettori di coscienza, esponenti del Wwr).
Il lavoro organizzativo è su base volontaria, con l’eccezione di due persone che lavorano a tempo pieno per il centro e da questo vengono retribuite (o meglio spesate, data l'esiguità dei lorò comensi). La loro funzione principale consiste nel coordinare il or del comitato organizzativo, che riunisce i responsabili dei vari settori di attività.
11 Per una prima introduzione a questo tema cfr. Bergonzi [1980], alla cui bibliografia rinvio per ulteriori indicazioni. Citerò in questa sede soltanto una recente edizione delle opere junghiane sull'argomento [Jung 1983].
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Attualmente (primavera 1983) il centro sta conoscendo un periodo di discreta espansione. I suoi aderenti ammontano ormai
a circa 400 !2, mentre i corsi e le altre iniziative vedono una fre-
quenza crescente. Inoltre il centro ha finalmente raggiunto l’obiettivo di poter ospitare un lama residente a Milano. Ciò permette di incrementare e qualificare ulteriormente la proposta. Alla ricerca hanno partecipato nove persone. Di esse cinque sono direttamente impegnate nella gestione organizzativa, mentre le altre seguono con regolarità le varie iniziative. E inoltre emersa l’importanza di altre quattro persone che non hanno potuto essere presenti alle sedute !3.
12 Il dato si riferisce alla globalità delle persone che seguono in varie forme, anche occasionalmente, le iniziative del centro. Da esse va distinto chi si impegna con regolarità per la gestione delle attività (una quindicina di persone), nonché la fascia dei frequentatori regolari del centro che forniscono saltuariamente anche un contributo organizzativo (alcune decine). = 13 Presento qui brevemente i nostri «collaboratori»: Anna, casalinga. E arrivata al buddismo in una fase di forte crisi personale, senza avere avuto in precedenza particolari esperienze religiose o interessi per l’oriente. È stata tra le prime persone a frequentare i corsi dell’Istituto Lama Tzong Khapa. Attualmente si occupa, all’interno del comitato organizzativo, della corrispondenza. Vittorio, impiegato. Ha militato nella sinistra extraparlamentare, poi, dopo la sua crisi, ha partecipato anche lui ai primi corsi a Milano, nel 1976. E responsabile della contabilità del centro. Federico, impiegato. Proviene anche lui dalla nuova sinistra. Si è avvicinato al dharma grazie all'amicizia con un altro membro del gruppo (Paolo). Carlo, studente universitario. Ex-militante dei gruppi M-L, ha seguito con crescente distacco le varie fasi della sinistra «rivoluzionaria». Si occupa della vendita delle pubblicazioni e di vari oggetti di artigianato, per finanziare le attività del centro. Alla base della sua esperienza spirituale sta l’esigenza di trovare una risposta a bisogni esistenziali profondi. Ha incontrato il buddismo partecipando ad un corso a Pomaia su invito del fratello. Mario, scrittore e studioso di religioni e culture orientali. Nonostante una militanza in Potere Operaio nei primi anni Settanta, ha sempre nutrito forti interessi per la componente «controculturale» della contestazione giovanile. Ha compiuto varie esperienze nel campo della spiritualità orientale. Da alcuni anni pratica gli insegnamenti buddisti. Al centro si occupa dell’organizzazione delle serate «culturali» che si svolgono con frequenza mensile. Simona, studentessa universitaria. Ha fatto anche lei un po’ di militanza politica nella sinistra. Se ne è distaccata per una marcata insofferenza nei confronti dello spirito di gruppo che la animava. È arrivata quasi per caso al Ghe Pel Ling nel 1981, «dietro consiglio di un devoto». Cinzia, impiegata. E responsabile della gestione della sede del centro. Ha partecipato spinta da un generico interesse ad uno dei corsi. Grazie a questo incontro ha trovato la via per dare sbocco a necessità spirituali che in precedenza aveva sempre negato. Sergio, studente. È arrivato al buddismo attraverso varie esperienze nell’ambito mentale, che hanno la loro origine nel periodo di tempo trascorso lavorando in una libreria specializzata nel ramo. Segue con regolarità le iniziative del centro. Antonia, impiegata. Ha conosciuto il buddismo partecipando ad una conferenza di un lama. Segue spesso i corsi organizzati dal centro, che costituiscono per lei un’interessante esperienza di lavoro sulla mente. Vi sono poi altre persone che per motivi vari non hanno potuto
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Le biografie e le caratteristiche individuali meritano alcune considerazioni di insieme. Si tratta nella generalità dei casi di soggetti appartenenti alla classe media, in possesso di un livello culturale medio-alto. L’età oscilla tra i venticinque ed i quaranta anni, con la sola eccezione di Marina che si avvicina ai sessanta. Essa corrisponde più o meno a quella della generazione che ha vissuto in modo più intenso il periodo della contestazione politica, o pattecipandovi direttamente o risultandone comunque influenzata. Almeno la metà delle tredici persone elencate ha avuto infatti passate esperienze politiche. Il rapporto è invece decisamente pit basso se si considera il complesso dell’utenza attuale. Una precedente militanza sembra quindi avere fornito una maggiore predisposizione all'impegno diretto in attività di tipo gestionale, oltre che un bagaglio di esperienze «tecniche» ed organizzative specifiche. Da questo punto di vista il legame tra l’esperienza spirituale del centro e la fase della «contestazione» mi pare evidente. Bisogna poi considerare che l’insufficienza delle ideologie di stampo marxista-leninista ha indubbiamente favorito la ricerca di nuove categorie interpretative della realtà. Tuttavia, la crisi della politica non costituisce l’unica spiegazione per l’adesione ad una pratica spirituale e per l'assunzione di impegni organizzativi ad essa collegati. Le storie individuali mostrano invece percorsi diversificati tra loro, che evidenziano l’eterogeneità delle motivazioni e dei bisogni a fondamento della scelta. Alcuni membri del gruppo sono arrivati al buddismo in periodi di forte crisi personale (Anna, Carlo). In altri casi sembra
prevalere un più generale interesse per la ricerca interiore e per la dimensione spirituale dell’esistenza (Federico, Sergio, Mario). Se per alcuni il buddismo rappresenta l’ultima tappa di una esperienza che dura ormai da molti anni (Mario), per la maggioranza l’incontro con il dharza assume piuttosto le caratteristiche di una
partecipare alle sedute, ma occupano però un posto importante nella gestione delle attività. Paolo, monaco buddista. Dopo alcune esperienze nei movimenti di contestazione tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, si è recato più volte in India. Ordinato monaco da alcuni anni, alterna a lunghi soggiorni in India una attività a tempo pieno per il centro. Giorgio, lavora anche lui per il centro, occupandosi in particolare dell’organizzazione dei corsi. Ha offerto la sua abitazione come sede del Ghe Pel Ling. A/berto, docente universitario. Oltre a ricoprire l’incarico di presidente offre anche una collaborazione organizzativa diretta, pur nei limiti della sua scarsa disponibilità di tempo. In un periodo successivo alla nostra ricerca si è inserita nel comitato organizzativo anche Marina, responsabile del corso di yoga. Occupa un posto importante nel centro, dal momento che ospita nella sua abitazione il lama residente.
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rivelazione improvvisa ed inattesa. Esso si verifica infatti in forme per lo pit casuali, in genere grazie agli stimoli forniti da persone amiche che già praticano !4. Bisogna infine sottolineare la non univocità del rapporto tra fine della militanza politica e scelta religiosa. Nella maggior parte dei casi il distacco dalla politica non sembra essere stato vissuto in termini traumatici. L'esperienza politica ha segnato una fase della propria vita che si considera ormai conclusa, ma che tuttavia non si rinnega né si valuta in termini particolarmente negativi. Esiste d’altra parte una tendenza, impersonificata soprattutto da Mario, a negare globalmente il proprio passato. L'analisi degli errori commessi si traduce qui nel rifiuto generalizzato di ciò che presenta legami ed elementi di continuità con quella dimensione. 4. L'esperienza spirituale: la pratica, il maestro
In un centro spirituale come il Ghe Pel Ling l’esperienza fondamentale è ovviamente la ricerca interiore. Sulla sua base si realizza l’incontro 1 tra i membri del gruppo e si definisce un primo livello di solidarietà. La pratica è essenzialmente individuale, e finalizzata all'acquisizione di una crescente consapevolezza del proprio essere, della propria dimensione spirituale, liberandosi dalle false rappresentazioni che l’io riproduce in continuazione. Il percorso spirituale è lento e graduale. Le sue fasi sono scandite da diversi riti d’iniziazione, ma nel complesso il peso della dimensione rituale all’interno del centro non è forte. Se alcuni membri del gruppo appaiono sensibili al marcato ritualismo presente nella tradizione tibetana, l'orientamento prevalente sembra piuttosto verso una concezione «laica» della pratica, che ne privilegia soprattutto la componente di ricerca individuale sulla mente. L’impressione è confermata dal tentativo operato dal centro di proporre una versione della pratica religiosa buddista svincolata dai caratteri più strettamente connessi con il contesto culturale d’origine. Sono pertanto ridotti al minimo tutti quegli elementi,
14 E da notare che il reclutamento passa in buona misura attraverso legami di amicizia e conoscenza personale anche nei casi di gruppi religiosi dediti, diversamente dal Ghe Pel Ling, a vere e proprie strategie di proselitismo. Cfr. Stark e Bainbridge [1980] e Greil [1977]. 15 Alberoni utilizza questo termine trattando il problema del riconoscimento in una situazione di stato nascente [1981, 175-182]. Tutta l’analisi alberoniana può del resto applicarsi ad un’esperienza come quella del centro Ghe Pel Ling.
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dagli abiti di foggia orientale ai progetti di vita comunitaria, che potrebbero far apparire la comunità (in senso ecclesiale) buddista come un’organismo separato dal contesto sociale. La prospettiva imperniata sull’individuo non implica però in modo automatico una «fuga» dalla realtà sociale o atteggiamenti individualistici. La particolare tradizione in cui il gruppo si riconosce, quella del buddismo mabayana, sottolinea del resto l’imortanza di assumere un atteggiamento di «compassione» nei conronti dell’esterno !9. La pratica spirituale non incoraggia quindi, almeno in linea teorica, una fuga dal mondo, ma invita piuttosto a starci dentro in modo diverso, senza esserne schiavi. Essa costituisce inoltre la precondizione per operare, partendo dalla propria esperienza concreta, un’autentica trasformazione sociale. L’attenzione per i problemi sociali non implica comunque la proposta di soluzioni particolari al riguardo. Nemmeno viene richiesto il rispetto di codici morali specifici, fatta salva naturalmente l’adesione ad alcuni principi estremamente generali, riassumibili nell’invito a rispettare ogni forma di vita, sia essa umana, animale o vegetale. I membri del gruppo sottolineano poi, conformemente all’insegnamento buddista, l’importanza di non sottrarsi alle proprie responsabilità personali, e di non utilizzare il gruppo come sostegno. Tuttavia, l’esperienza viene vissuta anche come compensazione di carenze individuali. Si tratta in ogni caso di una dimen-
sione poco presente. La figura del maestro è fondamentale, nella religione buddista come in tutte le altre esperienze di ispirazione orientale. Il maestro rappresenta agli occhi di chi pratica il tramite per avviare la
propria trasformazione interiore. Al di là dell’insegnamento, la sua stessa presenza fisica trasmette l’energia necessaria al supera-
mento della propria dimensione ordinaria, ed al contatto con lo straordinario. Nel caso del buddismo tibetano, l'autorità del lama deriva dall’essere depositario di una tradizione spirituale millenaria. Suo compito specifico è la conservazione e la trasmissione di questo patrimonio. Il rapporto con il maestro è caricato di una forte componente affettiva. Inoltre, la sua posizione dominante nella gerarchia interna è pienamente riconosciuta e non viene sot-
16 Nel buddismo il termine compassione non indica tanto l’atteggiamento caritatevole di chi dona agli altri, ma piuttosto l’apertura nei loro confronti, la capacità di entrare in rapporto con essi accettandoli per come sono, senza guardarli attraverso griglie precostituite. Cfr. Trungpa [1976].
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toposta a discussioni di sorta. L'atteggiamento nei suoi confronti è di devozione e venerazione. Il ruolo del lama appare pienamente interpretabile alla luce della categoria weberiana di carisma !”. pra sottolineare che la presenza di una guida carismatica non sembra implicare, almeno in questo caso, un rapporto complessivo di dominio con i seguaci. L’autorità del lama è assoluta, ma si esercita soltanto sul piano spirituale. Per quanto riguarda invece la gestione delle attività del centro, e la definizione della sua strategia di intervento, essa è affidata ai membri del gruppo. Da questo punto di vista il centro Ghe Pel Ling è atipico rispetto non solo ad altre tradizioni spirituali, ma anche a molti centri di dharzza in Occidente, che ten-
dono ad assumere il maestro come /eader anche su un piano non spirituale. Le ragioni di questa specificità possono essere ricercate a diversi livelli, ma le caratteristiche del gruppo di Milano mi sembrano particolarmente importanti. Va segnalato in primo luogo che i suoi membri sono seguaci di diversi maestri, e non necessariamente del lama residente. Ciò ostacola indubbiamente rischi di «dittatura spirituale» [Bergonzi 1980, 205]. La ragione principale sta tuttavia nella natura «contrattualista» del gruppo. Affronterò questo tema nel paragrafo successivo. Per il momento mi limito ad osservare che l’adesione al centro non implica una scelta di vita globale, né riguarda soggetti psicologicamente fragili che ricercano in esso la protezione di un’istituzione totale. Al contrario, le condizioni ed i termini dell'impegno nel gruppo non sono dati per scontati ma sottoposti ad una continua negoziazione. Anche il campo su cui il lama esercita la sua autorità non sfugge a questa regola. Si tratta quindi di un’autorità indubbiamente assoluta, ma il cui esercizio è sottoposto a limiti non dilatabili a piacere, ad accordi non scritti ma non per questo meno vincolanti. In altre parole, il ruolo del lama è legittimato solo ed esclusivamente in quanto egli fornisce un «servizio» (l’in-
segnamento) atto a rispondere ad esigenze profonde di chi pratica, e soprattutto di natura non esclusiva (non fornisce cioè norme specifiche di comportamento). La presenza di qualità carismatiche non sembra dunque in questo caso aprire la strada a forme di dominio assoluto sui discepoli.
17 Cfr. il recente contributo di Cavalli [1981]. Per un approccio pit vicino al nostro tema specifico, si veda Barnes [1978], oltre al già citato lavoro di Alberoni [1981, 199-207 in specie].
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5. La solidarietà collettiva, l’organizzazione, il «contratto»
Alla base della solidarietà tra imembri del gruppo sta innanzitutto il fatto di vivere la medesima ricerca interiore. I percorsi sono individuali, ma presentano delle fasi che tutti hanno conosciuto, e che favoriscono quindi il sorgere di una specifica solidarietà !8. La presenza di particolari affinità sul piano spirituale non è soltanto il risultato di una pratica comune, ma è al tempo stesso la precondizione affinché l’insegnamento possa avere luogo. Mario sottolinea con forza questo punto nel momento in cui osserva che «la funzione energetico-positiva del fatto che c’è un’aggregazione di individui non è solo un fatto logistico... un lama non va a parlare in un teatro perché ha bisogno di una sargha, cioè di una comunità di persone, di individui che si riconoscono in un certo tipo di esperienza». L’identificazione con la comunità spirituale non implica auto-
maticamente il pieno riconoscersi in una serie di rituali o in un corpo dottrinale !?. La presenza di specifiche cerimonie, ed in particolare di alcuni riti iniziatici costituisce senz'altro una fonte di solidarietà tra i membri del gruppo. È comune il riferimento alla cerimonia del «prendere rifugio», che costituisce la sanzione ufficiale della propria adesione alla comunità buddista. Nel complesso però la presenza di pratiche rituali non sembra svolgere un ruolo di integrazione particolarmente rilevante. Questo dipende da almeno due motivi: innanzitutto, a causa della prospettiva di «occidentalizzazione» della pratica prevalente nel gruppo; inoltre, per la presenza al suo interno di persone che, pur riconoscendo l’importanza dei rituali, li vivono in modo conflittuale e senza arrivare ad identificarsi pienamente con essi (soprattutto Anna). 18 L'importanza della pratica appare evidente al momento di scegliere le fotografie rappresentative del gruppo. Molte tra esse rinviano infatti direttamente all'insegnamento ed al rituale (ad esempio l’altare, il trono, la foto del centro inteso come il luogo in cui si pratica). Analogamente, tra i termini scelti per definire il gruppo ricorrono più volte riferimenti all'insegnamento (Simona, Carlo), all'energia che esso trasmette (Vittorio, Cinzia), all’apertura verso se stessi e verso
gli altri che esso induce (Mario, Sergio). 19 Per quanto riguarda gli aspetti rituali, nel contesto di questo lavoro il riferimento ad essi può assumere almeno tre significati diversi. In primo luogo, possiamo riferirci al rituale come all’insieme delle cerimonie formalizzate proprie della tradizione tibetana. Una dimensione rituale può poi essere individuata al livello dell’interazione tra i membri del gruppo. Infine, la ritualità può attenere alla qualità delle relazioni che si intrattengono con se stessi e con il mondo, in una prospettiva di sacralizzazione dell’esistenza di cui il buddismo, ed in particolare lo zen, costituisce una delle massime espressioni [cfr. Kakuzo 1978]. Mi riferirò qui soltanto alla prima accezione.
i
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La dottrina buddista costituisce un fattore di integrazione importante soltanto nel senso del comune riferimento ai principi fondamentali dell’insegnamento. Non è invece molto presente l’uso specifico dell’appello all’ortodossia come fonte di autolegittimazione del proprio agire, e. come base su cui fondare l’unità del gruppo. Ciò dipende in primo luogo dallo stesso messaggio buddista, che non prevede norme e modelli di comportamento specifici, e non favorisce quindi il sorgere di uno stile di vita buddista formalmente definibile. È legato inoltre alle caratteristiche specifiche del centro, in cui la pluralità dei maestri ha accentuato la differenziazione dei percorsi individuali. Il continuo riferimento alla ortodossia è però un tema specifico di Mario. La sua presenza nel gruppo è anzi fortemente caratterizzata da questa funzione di costante integrazione su basi dottrinali. In molti suoi interventi è evidente la preoccupazione di individuare nella dottrina gli elementi rispetto a cui collocarsi, in quanto individuo ed in quanto membro del gruppo. La presenza di una collettività di persone costituisce un importante punto di appoggio per chi pratica. Essa fornisce infatti continue occasioni di confronto, sia nelle fasi positive che in quelle negative della propria ricerca. Strettamente connessa a questo aspetto è la nascita di un rapporto anche affettivo tra i membri 29, Per altro verso, la presenza di una solidarietà su base affettiva (su cui insistono del resto soltanto Mario e Cinzia) non
comporta alcun interesse a condividere ambiti di vita più consistenti, in una prospettiva di tipo comunitario. Le individualità riemergono ancora una volta con prepotenza a riaffermarne l’impraticabilità. Da questo punto di vista la simulazione dell’isola è sintomatica. L’eventualità di organizzare la vita del gruppo in modo da garantirne la permanenza sull’isola come comunità autonoma non viene infatti presa in considerazione. Non solo, ma il gioco non viene di fatto neanche iniziato, a testimonianza dell’indifferenza per una situazione che vedesse nella comune pratica spirituale la base per un’esperienza di vita globale.
20 Anna osserva infatti come il gruppo sia un «deposito di qualcosa cui uno può attingere sia nel momento in cui sta bene, sia nel momento di crisi, di mancanza di fiducia in se stessi, di scoramento: una riserva». Inoltre nel gruppo si sta bene, e si sente anche una forte simpatia nei confronti dei suoi componenti (Mario). L’amici-
zia si unisce alla gratitudine nelle
persone che, come Cinzia, hanno visto la loro scelta buddista rifiutata dagli ambienti che frequentavano in precedenza, ed hanno per questo conosciuto momenti di difficoltà e di relativo isolamento, con la sola eccezione costituita appunto dai frequentatori del centro.
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Gli elementi considerati sin qui ci mostrano l’esistenza di una solidarietà specifica tra gli appartenenti al gruppo. Essa non è puramente strumentale, ma non autorizza ancora a parlare di un’identità collettiva definita a partire dalla propria esperienza specifica di gruppo metropolitano. Alcuni altri elementi ci permettono invece di formulare un’ipotesi in questo senso. Esiste innanzitutto un patrimonio storico condiviso. Il gruppo
è in grado di cogliere con precisione le varie fasi dell’esperienza. Soprattutto, è in grado di individuare il senso del suo evolversi nel tempo, il progressivo distacco dai temi propri della controcultura giovanile, e dal filone esotizzante della spiritualità orientale. Il gruppo dimostra inoltre un grado abbastanza alto di identificazione con la propria attività. Sentimenti di soddisfazione e di orgoglio per i successi ottenuti dalle iniziative proposte sono molto diffusi. Il tema dell’efficienza e del buon funzionamento del gruppo è poi ripreso in varie occasioni dai suoi componenti. L’elemento più importante è tuttavia un altro. Il gruppo è infatti nel suo complesso portatore di un progetto, o di un messaggio che non coincide puramente con quello buddista in senso lato. Il generico progetto di tipo «etico» [Alberoni 1981, 304-325] si definisce infatti in modo pi articolato sulla base della specifica esperienza vissuta dal centro
(il «buddismo
metropolitano»).
I
principi fondamentali che lo orientano sono la tensione verso l’impegno civile ed il rifiuto di rinchiudersi su sé stessi, sulla fruizione individuale degli insegnamenti. Il nucleo fondamentale del messaggio rivolto all’esterno consiste nel comunicare agli altri la possibilità di modificare concretamente la propria vita grazie all'incontro con il dbarzza. Il centro è la struttura grazie alla quale questa esigenza di «socializzazione dell’esperienza» può essere soddisfatta. Esso viene quindi presentato, e di fatto in larga misura funziona, come un servizio offerto alla collettività, assai più che come un organismo rivolto alla diffusione della dottrina buddista, vale a dire ad una politica di proselitismo. Il progetto comune non è il risultato di un processo di elaborazione teorica di tipo ideologico, ma costituisce piuttosto il livello massimo di convergenza realizzabile tra le varie concezioni dell’azione del gruppo presenti al suo interno. Anche se non si può parlare di poli contrapposti, è indubbio che gli accenti al riguardo siano eterogenei. Si può individuare in primo luogo una definizione del progetto in termini etici e culturali. Se ne fanno portatori, con accenti diversi, Mario e Vittorio. Il primo insiste sulla necessità di
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gettare un ponte tra la cultura occidentale ed il pensiero orientale, aprendo quest’ultimo ad esperienze come la psicologia e la terapia. Vittorio sottolinea invece l'esigenza di arrivare a costituire una vera e propria scuola buddista a Milano, con una forte attenzione per i problemi logistici ed organizzativi che sono connessi all'attuazione di questo progetto. Da un altro punto di vista (Cinzia în primis) l'impegno verso l’esterno discende in primo luogo da valutazioni di tipo morale, vale a dire dalla consapevolezza di dover fare qualcosa di utile anche per gli altri, uscendo da una prospettiva di fruizione puramente individuale dell’insegnamento. La convinzione circa la necessità di un impegno verso l'esterno non implica comunque in nessun caso il raggiungimento di un equilibrio tra la visione del gruppo come strumento per soddisfare le proprie esigenze individuali ed invece come canale per la trasmissione del proprio eventuale messaggio. Anna impersonifica nel modo più chiaro questa tensione irrisolta. Il suo impegno civile discende infatti dal coniugare coerenza ètica e lucido riconoscimento dell’opportunità di un’azione in questo senso, ma non è mai totalmente accettato a livello emotivo. Nonostante le differenze cui ho appena accennato, il gruppo ritrova la sua compattezza intorno alla concezione di buddismo praticata in questi anni. Ciò è risultato evidente al momento dell’ingresso di Marina nel comitato organizzativo. Marina ha infatti messo in discussione alcuni dei principi fondamentali di questa concezione, giudicando negativamente iniziative come il «festival del dharma e della pace», e proponendo il rilancio dei corsi residenziali, scarsamente accessibili, per la maggiore lunghezza e per il fatto di svolgersi fuori Milano, a chi abbia una limitata disponibilità di tempo. Su questo punto è emersa una forte solidarietà degli altri membri nel difendere la validità della propria elabora-
zione. In conclusione va sottolineato che il gruppo fornisce una immagine di sé che ne privilegia in modo eccessivo la natura strumentale, rivolta cioè al soddisfacimento dei bisogni individuali. Vi è una certa difficoltà a riconoscere esplicitamente l’esistenza di altre forme di solidarietà. Ciò dipende anche dalla natura prettamente individuale dell'esperienza buddista. Mi sembra però che la causa principale sia da ricercarsi nella forte diffidenza (almeno in parte di tipo «ideologico») che la maggioranza dei membri del gruppo manifesta per tutto ciò che possa privilegiare la dimen-
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sione collettiva rispetto a quella individuale 21. Ciò conduce tuttavia a sottovalutare il fatto che la solidarietà non si fonda esclusivamente sull’esigenza di garantire le condizioni per la fruizione dell'insegnamento, ma investe anche il progetto specifico di cui il gruppo è portatore. Il gruppo presenta un tipo di organizzazione interna che definirei «contrattualista». Abbiamo visto come l’appartenenza non sia esclusiva, e non implichi alcuna esperienza di natura comunitaria. L'interazione si verifica invece sulla base di due obiettivi precisi: rendere possibile la pratica spirituale, e portare avanti il progetto di intervento verso l'esterno. In entrambi i casi, a motivazioni di tipo affettivo si antepongono precise esigenze di efficienza nell'azione. Quest'ultima i tener conto di molteplici
vincoli ed esigenze funzionali. In primo luogo occorre far fronte ai problemi posti dalla scarsa disponibilità di tempo di molti membri del comitato organizzativo, che permette loro solo un impegno parziale. Risultano pertanto necessari una divisione del lavoro ben definita, ed al tempo stesso il massimo coordinamento dell’attività dei singoli. Questo è garantito da Paolo e da Giorgio, vale a dire dalle persone che lavorano a tempo pieno per il centro. Essi collaborano inoltre con quei membri del comitato che occasionalmente non riescono a fronteggiare impegni eccessivamente gravosi. E inoltre loro compito la stesura del programma trimestrale del centro, che ne definisce le varie attività, e che viene poi sottoposto a discussione ed approvazione collegiale. La tensione in larga misura irrisolta tra dimensione individuale della pratica ed impegno civile conduce poi spesso a privilegiare la prima componente a scapito della seconda. La disponibilità al lavoro collettivo può cioè sempre essere rimessa in discussione, nei fatti prima ancora che in maniera esplicita. Appare dunque essenziale garantire la solidarietà e un minimo di identificazione con il gruppo, nonché la spinta individuale verso l'impegno organizzativo. A questo proposito il ruolo di Paolo è molto importante. Egli svolge infatti una funzione di integrazione e sostegno del gruppo agendo a diversi livelli: sul piano affettivo, grazie all’a21 Simona fornisce la versione più coerente e lineare di questa posizione. Nei suoi interventi ricorre costante la polemica contro chi possiede un forte spirito di gruppo ed al gruppo si rivolge per trovare conferma della correttezza della sua scelta. La sua critica investe direttamente anche esperienze che pure appartengono all’area della spiritualità orientale, come gli Hare Krishna o i sannyasin di Rajneesh.
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micizia che lo lega agli altri componenti (da cui è definito di volta in volta «papà», «amico», «vice-guru») e grazie alla stima che essi nutrono per la coerenza della sua scelta monacale; sul piano della proposta e dell'innovazione, trasmettendo al gruppo gli stimoli ricavati dai suoi frequenti viaggi in India e dal continuo contatto con i lama. Egli dispone inoltre di buone capacità di mediazione e sintesi tra le diverse posizioni espresse dal gruppo, capacità che utilizza sia all’atto della stesura del programma sia in occasione delle riunioni del comitato. Su questo terreno appare rilevante anche l’azione di Alberto, cui gli impegni di lavoro impediscono di fornire un contributo più rilevante, limitando il suo ruolo a quello di «consigliere influente» e mediatore delle eventuali tensioni interne. Mario si propone invece, come del resto abbiamo già visto, come garante della solidarietà del gruppo sulla base della dottrina. La produzione dell'immagine del gruppo verso l’esterno è oggetto di molta attenzione. Essa viene definita tenendo conto di una triplice esigenza: evidenziare la componente spirituale dell’attività del centro; sottolineare la distanza da esperienze di controcultura marginale e/o pseudoesotizzanti; evidenziare al tempo stesso l'apertura verso la tradizione culturale occidentale. Non è a questo proposito casuale che nelle iniziative pubbliche il centro sia rappresentato quasi esclusivamente da Paolo, Alberto e Mario. Il primo ne incarna soprattutto la dimensione religiosa, o comunque spirituale. Alberto, scienziato di prestigio internazionale, e Mario, studioso di storia delle religioni ne esprimono invece prevalentemente la componente culturale, testimoniando al tempo stesso del suo pieno inserimento nella realtà sociale più complessiva. Le funzioni qui accennate appaiono essenziali al mantenimento della struttura. Esse non possono essere assolte indifferentemente da tutti i membri del gruppo, che non sembrano forniti equamente di risorse pertinenti al riguardo. Paolo e Alberto spiccano infatti in varia misura per competenza, prestigio personale e (il solo Paolo) per disponibilità all'impegno. Da ciò discende un’indubbia asimmetria in termini di capacità decisionale e di rappresentatività. Tuttavia, il conflitto intorno alla divisione dei ruoli sembra essere molto basso. Ciò dipende in ultima analisi proprio dalla natura «contrattualista» del gruppo, che lo porta a ridurre al massimo le occasioni di tensione che potrebbero ostacolare il raggiungimento degli obiettivi prefissati. L’analisi dei processi decisionali ci conferma questa impressione. Sia le simulazioni che l’osservazione diretta mostrano
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infatti come il gruppo tenda a limitare il pit possibile l'assunzione di decisioni suscettibili di condurre ad un’esplicita divisione tra i membri. Il meccanismo prevalente è piuttosto quello della delega del potere decisionale ai vari responsabili di settore, nel rispetto el programma e dei principi cui il centro ispira la sua azione. Qualora ciò non sia possibile, la decisione ultima viene presa nel quadro asimmetrico delle relazioni che abbiamo appena preso in esame. Ciò non dà luogo a particolari contestazioni nei confronti di chi «decide per». L'importanza della pratica spirituale è infatti tale, e gli ambienti di vita esterni al centro cosf ampi, da rendere del tutto irrilevante ed accettabile una distribuzione ineguale della capacità decisionale. Spesso poi l'indifferenza per le asimmetrie interne si affianca ad un vero e proprio rifiuto di assumere gli oneri connessi ai ruoli di /eadership. Si tratta del resto di un orientamento assai diffuso nei gruppi fondati sul volontariato 22. 6. Icontenuti «conflittuali» dell’azione
L’esperienza del Ghe Pel Ling è portatrice di contenuti conflittuali? La risposta può essere positiva, ma tali contenuti vanno ricercati esclusivamente al livello simbolico. Il conflitto riguarda infatti soltanto il controllo sui processi di definizione dell’identità, intesa come capacità di rappresentare simbolicamente l’azione al di là dei suoi contenuti specifici [Melucci 1982]. Se è possibile parlare di una «sfida» lanciata da chi si accosta ad una pratica spirituale, essa si colloca proprio su questo terreno. L’incontro con il dharzza buddista ha tra le sue determinanti anche un atteggiamento di critica più o meno marcata nei confronti dell’attuale sistema sociale. Questa critica non investe tut-
tavia l’assetto specifico dei rapporti sociali, non riguarda cioè la distribuzione delle risorse, o del potere politico, o in generale qualsiasi tema suscettibile di negoziazione. Essa tende invece ad indirizzarsi contro le modalità di produzione dei significati simbolici dell’azione, dei valori, dei tura «laica» occidentale viene una rappresentazione distorta modo esclusivo la dimensione
modelli di comportamento. La culinfatti criticata per avere fornito della realtà. Essa ha privilegiato in materiale dell'esperienza umana,
negando invece ogni rilevanza a quella spirituale. Al tempo stesso viene rifiutata la massificazione e l'adesione a modelli di compor22 Cfr. a questo proposito Pearce [1980].
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tamento eterodeterminati, in un quadro di società rigidamente programmata anche nei minimi spazi di quotidianità. La critica del gruppo investe anche i progetti di trasformazione globale dell’ordine sociale. Nemmeno questi ultimi mettono infatti in discussione i meccanismi ultimi che ispirano l’agire umano, i quali operano a livello individuale, nella mente di ognuno di noi. Basandosi sull’idea di un mutamento a livello globale, gestito da attori collettivi, le ideologie favoriscono la fuga dalle responsabilità personali, nell’illusione che gli effetti positivi del mutamento si trasferiscano automaticamente al livello del singolo. La tendenza a ricondurre all’interno di schemi precostituiti tutti gli aspetti dell'esperienza umana costituisce secondo il punto di vista buddista un grosso ostacolo allo sviluppo di una reale conoscenza di se stessi e del mondo esterno. L’alternativa proposta può essere sintetizzata nell’espressione, mutuata da Laing [1978], «politica dell’esperienza». I suoi principi ispiratori sono i seguenti: cambiare partendo da se stessi; capire partendo da se stessi; cambiare la propria esperienza concreta, in termini minimi ma reali. Non si può aspirare ad una trasformazione della società e criticarne l’attuale funzionamento senza riconoscere la propria parte di responsabilità nello stato di cose presente, scaricandola invece ir toto su generici apparati istituzionali o meccanismi strutturali del sistema. La prima condizione è quindi cambiare a livello individuale. D'altro canto, perché ciò avvenga è necessaria una maggiore conoscenza di se stessi; a questo proposito occorre liberare la mente dalle incrostazioni e dagli schemi ideologici ed aprirsi totalmente verso la propria dimensione interiore. Da ciò discende automaticamente una maggiore apertura verso l’esterno. Solo a queste condizioni sarà possibile modificare concretamente la propria vita. E bene sottolineare che il potenziale «antagonista» della «politica dell’esperienza» si colloca totalmente al livello delle rappresentazioni simboliche. Il messaggio del gruppo consiste nel testimoniare la possibilità, e proporre un metodo per il cambiamento, assai più che nell’ipotizzarne i contenuti specifici. Si presenta cioè come una forma vuota. Questo aspetto risulta particolarmente evidente dato che l’attenzione riservata dal gruppo a determinati stili di vita «alternativi» (alimentazione, medicina, etc.) è piuttosto bassa. Il cambiamento attiene invece principalmente ai codici di rappresentazione della realtà. Assai più che ipotizzare una modificazione dei rapporti sociali, la tendenza è piuttosto a negarne i meccanismi formali di costituzione, le precondizioni «categoriali». Ciò non significa negare l’azione e l’impegno nel
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sociale. Si rifiutano caso mai i significati che a tali concetti sono stati tradizionalmente attribuiti in Occidente, e con cui non ci si identifica (ad esempio una concezione «militante» dell’impegno civile).
La trasformazione passa attraverso un ciclo che può essere definito del tipo «morte/rinascita» 23. Abbiamo visto come il bisogno di trasformare la propria vita richieda una radicale messa in discussione del proprio approccio alla realtà, esterna ed interiore. Risulta in altre parole necessario «morire a se stessi», sottrarsi alle logiche dominanti di rappresentazione del sociale, creare uno spazio vuoto su cui poter poi avviare un processo di ricostruzione che parte dall’interno. Lo scopo della pratica non è infatti di aggiungere qualcosa, ma caso mai di togliere, di creare degli spazi su cui lavorare (Simona). Da qui deriva la diffusa preoccupazione, nel gioco della TV particolarmente evidente, di non inviare un messaggio di contenuti. Si bada invece a comunicare il senso dell’esperienza, la possibilità di cambiare interiormente tramite essa. Il momento della rinascita si esplicita sotto la forma di una ricomposizione con il mondo, da cui la pratica interiore non aiuta a fuggire. Anzi, essa costituisce secondo gli attori il prerequisito per stare nel mondo in modo più consapevole. Nel suo complesso l’esperienza spirituale appare quindi finalizzata all’apprendimento di nuovi codici interpretativi della realtà. Si tratta di un apprendimento, che riguarda solo in parte l’acquisizione di categorie di razionalità, nel senso attribuito a questo termine dalla nostra tradizione culturale 24. I nuovi livelli di consapevolezza raggiunti attengono piuttosto al funzionamento globale della «mente», all’attivazione di funzioni di percezione ed intuizione tradizionalmente inutilizzate. Ne consegue una ristrutturazione simbolica del reale radicalmente diversa e per molti versi antitetica alle rappresentazioni dominanti. La presenza di un forte antagonismo sul piano simbolico non implica però automaticamente l’esistenza di un conflitto sociale.
Nello specifico caso, il passaggio non si verifica. In primo luogo, gli attori vengono definiti in termini puramente formali. Imembri del gruppo sono tali solo in quanto condividono la medesima espe-
23 Si veda su questo punto il saggio di J. Sassoon nel presente volume. 24 Utilizzo qui il termine «razionale», essendo conscio della improponibilità di una contrapposizione rigida tra «razionale» ed «irrazionale». Su questo tema cfr. Acquaviva [1975], Guizzardi [1973], Ferrarotti [1978] e, per un riferimento più ampio, Gargani [1979].
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rienza. Avversari sono tutti coloro che assumono comportamenti
qualitativamente antitetici alla particolare sensibilità in cui il gruppo si riconosce. Essi vengono via via individuati nelle persone «che hanno una struttura mentale e si battono per una concezione sociale autoritaria... che hanno una visione totalizzante della vita» (Mario); «che tendono sempre a porre la responsabilità sugli altri» (Anna); «che hanno il gruppo... per cui hanno il discorso, la risposta, la linea» (Simona). Manca invece ogni riferimento agli apparati che detengono il controllo sulla produzione dell'identità e del senso. Piri in generale, risulta limitata la capacità di analisi della politica, del potere e dei suoi meccanismi. Analogamente, non vi sono accenni a poste del conflitto che siano definibili in termini sociali, ed intorno a cui si possa creare una domanda politica specifica. La nozione stessa di conflitto è in realtà assente da questo universo simbolico. Il fatto che l’«antagonismo» del gruppo si connoti in termini puramente culturali, senza alcun radicamento al livello dell’organizzazione sociale o del sistema politico 2, non è privo di conseguenze per i possibili esiti e significati dell'esperienza. In primo luogo, l’aspirazione all’unità ed alla ricomposizione dell’esistenza intorno ad un principio unificatore può avere come esito la negazione della differenza tra i vari ambiti di vita. Al tempo stesso, un accento esasperato sulla non azione, sul sottrarsi al rapporto sociale può condurre alla negazione tout court della società come sistema autonomo e specifico, e favorire la ricerca di un ipotetico stato di natura pre-sociale [Melucci 1982]. Orientamenti di questo tipo tendono a frantumare il potenziale antagonista dell’esperienza, ed a spingere verso soluzioni di individualismo, e di integrismo comunitario. Nel primo caso, la priorità attribuita alla trasformazione individuale implica risposte oscillanti tra la sostanziale accettazione dei rapporti sociali dominanti e la testimonianza isolata. Nel caso invece dell’integrismo comunitario, il gruppo, ma soprattutto la proposta con cui esso si identifica, tende a diventare l’unico parametro di riferimento. In entrambi i casi, il mancato riconoscimento della natura sociale dell’esperienza favorisce la manipolazione e/o la commercializzazione del messaggio. Naturalmente, è anche possibile che la ricerca interiore non comporti la negazione dell'autonomia di funzionamento dei rapporti sociali. L’azione di testimonianza e di proposta a livello di gruppo ® Mi riferisco a questi concetti nel senso loro attribuito da Melucci [1974,
1982].
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può allora tradursi in un’azione sul terreno della modernizzazione culturale, pur perdendo la sua natura conflittuale. D'altro canto, la pratica spirituale può stare alla base di nuove forme di impegno civile da parte del singolo. Valuteremo ora queste ipotesi. 7. L'esperienza religiosa tra integrismo e laicizzazione
Gli sviluppi dell'esperienza religiosa sembrano dipendere in ultima analisi dai livelli di integrismo e, per converso, di laicizzazione espressi da chi pratica. Definisco qui integrista la posizione per cui tutte le esperienze di vita, comprese quelle nel sociale, vanno ricondotte alla dimensione spirituale e sono prive di ogni specificità ed autonomia. Gli orientamenti dei vari membri del Centro Ghe Pel Ling esprimono una costante tensione tra tendenze laiche ed integriste. Il percorso sperimentale della ricerca ha infatti messo in evidenza la diversità delle concezioni che convivono all’interno del centro, ed ha favorito lo sviluppo di una riflessione su temi in precedenza trascurati; è cosi venuta meno l’immagine omogenea del gruppo inizialmente proposta.
Le differenze emerse sono riscontrabili rispetto ad una pluralità di questioni. Mi soffermerò in primo luogo sull’analisi della società e sul suo rapporto con l’insegnamento spirituale. In linea generale vi è convergenza sulla priorità dell’azione individuale rispetto alle dinamiche dei processi collettivi. Gli accenti sono tuttavia diversi. In una prospettiva integrista si tende infatti a dedurre direttamente da determinati atteggiamenti mentali la causa di specifici problemi sociali e politici. Carlo ipotizza ad esempio un nesso di questo genere analizzando le cause di un possibile conflitto atomico. Dall'altro punto di vista, si osserva come anche l’ambiente sociale esterno contribuisca a creare molti tra i problemi individuali (Vittorio).
Anche l’individuazione degli eventuali «avversari» o «alleati» può rispondere a logiche differenti. Alleati naturali possono essere tutti coloro che praticano un’esperienza spirituale, differenziandosi da chi abbia una visione laica, o peggio ancora marxista della vita (Mario). Oppure, avversari possono essere anche coloro che, pur praticando una ricerca interiore, operano secondo logiche che non si condividono, dimostrando ad esempio un troppo forte spirito di gruppo (Simona). Diverse sono poi le interpretazioni del rapporto esistente tra adesione al messaggio spirituale e forme della trasformazione indi-
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viduale. Da un punto di vista integrista il nesso è abbastanza automatico, in quanto l'adesione al messaggio comporta la scomparsa di atteggiamenti
con esso incoerenti.
Da un’altra prospettiva
invece la relazione non è cost lineare. Nel caso del nostro gruppo questa differenziazione emerge con chiarezza al momento in cui si discute della permanenza dell’ideologia in persone che seguono l'insegnamento buddista. La risposta di Anna e Vittorio è positiva: sottolineano infatti l’inevitabilità del ricorso e schemi ideologici, per quanto magari di portata limitata, nel corso dell’esperienza quotidiana. Mario è invece di opinione opposta, ma con
alcuni argomenti di natura prettamente ideologica: «... anche perché, se uno segue l’insegnamento del dharzza, poi non può avere un’ideologia...». Un ultimo elemento di differenza riguarda il tipo di relazione ipotizzato tra esperienza spirituale individuale ed azione di proposta e testimonianza nella società. Nella visione integrista si tratta di due momenti perfettamente coerenti. Il rifiuto di una visione limitata e settoriale dell’esperienza religiosa spinge infatti a riportarne nel sociale una concezione globale, totalizzante (Mario). Da un altro punto di vista si sottolinea invece la differenza di piani tra il messaggio spirituale ed il metodo di conoscenza da un lato, e la forma culturale e sociale che essa assume dall’altro. La trasposizione della propria esperienza interiore in una realtà sociale molto differenziata pone dei problemi reali, ed in larga misura ancora irrisolti (Anna).
Le indicazioni sinora emerse ci permettono di definire una polarità «integrismo/laicità» rispetto a cui i membri del gruppo si collocano diversamente. Mario impersonifica nel modo più coerente il polo integrista. Non solo afferma il primato dell’esperienza spirituale sugli altri ambiti di vita, ma sostiene l’esigenza di improntare ad essa il funzionamento del sistema sociale. La religione si sclerotizza infatti, riducendosi a vuoto rituale, nel momento in cui si lascia ghettizzare ed accetta il progetto, proprio della cultura laica, di scindere il discorso individuale, spirituale, religioso dal sociale. Al polo opposto si collocano Anna e Vittorio. Essi sottolineano la duplicità dei piani rispetto a cui si colloca l’azione del gruppo e, più in generale, la complessità insita nel rapporto tra religione e società. Si riconosce, o meglio non si nega, pur nella priorità della dimensione spirituale ed individuale, l’esistenza di sistemi di relazioni sociali che funzionano in base a logiche proprie. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, l’esperienza individuale nel gruppo esprime l’intrecciarsi di orientamenti integristi e laici.
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I casi di Cinzia, Simona e Carlo sono a questo proposito indicativi. La prima ha una posizione che non è definibile integrista in senso ideologico. Tuttavia, analizza il suo rapporto con la componente sociale dell’attività del centro attraverso categorie che rinviano esclusivamente alla propria esperienza individuale. Le difficoltà nel conciliare ricerca individuale ed impegno nel gruppo vengono ad esempio attribuite al permanere di atteggiamenti di tipo egoistico. In questo senso non c’è riconoscimento della specificità dei meccanismi sociali. Simona e Carlo si differenziano da Cinzia, risultando più vicini al polo laico, in quanto si concentrano maggiormente sul rapporto tra la politica e l’esperienza religiosa, tra l’individuo ed il gruppo. La componente integrista semra nel loro caso, come del resto anche in quello di Cinzia, dipendere in primo luogo dall’intensità dell’esperienza vissuta individualmente, e dal conseguente concentrarsi sulla dimensione interiore.
E possibile, sulla base della polarità «integrismo/laicità», ricavare delle indicazioni in merito alla molteplicità di forme e di eventuali esiti dell'esperienza spirituale? Occorre a questo proposito introdurre un’altra polarità, definita dal «carattere individuale/collettivo dell’esperienza nel gruppo». Considero «individuali» quelle esperienze in cui la solidarietà si fonda prevalentemente sul fatto di condividere la pratica religiosa. La natura «collettiva» dell’esperienza è invece indicata dalla presenza di forme di solidarietà legate ad un progetto comune. A questo livello dell’analisi è irrilevante che esso si caratterizzi nel senso dell’intervento verso l'esterno, come nel caso del Ghe Pel Ling, o come scelta comunitaria.
Dall’incrocio dei due assi emergono quattro esiti teoricamente possibili: a) Integrismo individualista. L’antagonismo simbolico viene neutralizzato da un’esasperata individualizzazione dell’esperienza, di cui la dimensione spirituale e individuale costituisce l’unico livello significativo. E rispetto ad essa che va definita globalmente l’esistenza compresa la sua dimensione sociale. Norme di comportamento e stili di vita vengono mutuati in misura più o
meno larga dal messaggio cui si aderisce. 6) Integrismo comunitario. L'esperienza spirituale è anche qui il riferimento principale. Il gruppo è al tempo stesso la dimostrazione concreta della particolarità del messaggio, ed il principale modello per la costruzione della propria identità. L’azione del gruppo nella società è possibile, ma solo come traduzione diretta del messaggio religioso.
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c) Impegno civile individuale. La pratica spirituale fornisce un riferimento cui ispirare il proprio agire nella società, ma da essa non discendono precise indicazioni di comportamento. L’accento sulla responsabilità individuale favorisce forme di impegno sociale, o comunque un’attenzione specifica per questa dimensione. Eventuali contenuti conflittuali tendono a trovare espressione in una sfera esperienziale altra da quella religiosa. d) Impegno civile collettivo. L'adesione al messaggio spirituale costituisce lo stimolo per un intervento diretto de gruppo nella società. Esso prende in generale la forma di una proposta culturale, ma sono possibili anche azioni di testimonianza civile e politica, in forma puntuale e su questioni che investano i principi stessi rispetto a cui il gruppo si definisce. L’esperienza del Centro Ghe Pel Ling si situa a cavallo tra questi possibili esiti (vedi figura 11). Nel suo complesso, il gruppo sembra portato di una concezione laica dell’esperienza. Tuttavia, al suo interno si possono riconoscere tutti gli orientamenti indicati. C’è una prima differenza tra chi, pure all’interno di una visione laica, accentua il carattere individuale dell’adesione, ovvero presenta una
maggiore attenzione per la dimensione collettiva (Anna e Simona nel primo caso, Vittorio ed in parte Carlo nell’altro). Esistono d’altro canto posizioni che come abbiamo visto presentano toni integristi. Nel caso di Mario essi si uniscono ad un forte interesse per la dimensione di gruppo; in Cinzia prevale invece la componente individuale dell’esperienza. Non si può parlare comunque di orientamenti apertamente contraddittori, quanto piuttosto di una diversità di accenti. Anche le posizioni più integriste appaiono infatti nel complesso assai moderate, soprattutto in confronto ad altre espresse nell’area. Individuale Simona
Cinzia
i Integrismo
Anna —»> Laicità
Carlo Mario
Collettivo
Fic. 11.
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Vittorio
8. L'area della «nuova coscienza»: strutture di servizio, centri di
meditazione, gruppi devozionali
L’adesione alle proposte, spirituali e/o culturali, dell’area ha tra le sue determinanti principali una ricerca di senso e di identità, più che una spinta religiosa in senso stretto. I percorsi individuali presentano infatti caratteristiche diverse. È utile distinguere a questo proposito tra chi si avvicina a queste esperienze
spinto da motivazioni individuali molto specifiche, dalla crisi della pratica religiosa tradizionale e da quella della militanza politica. Quest'ultima determinante è legata più delle altre ad una specifica fase storica, coincidente con la crisi della sinistra italiana, extraparlamentare e non, nella seconda metà degli anni Settanta. Da questo punto di vista, la partecipazione ad una ricerca spiri-
tuale ha offerto a molti ex-militanti l'opportunità di accedere ad un campo di esperienze in precedenza negate da una pratica politica di stampo operaista. Il successo incontrato dall’insegnamento di Bhagwan Rajneesh o dal culto di Krishna tra molti ex-appartenenti alla nuova sinistra può essere spiegato almeno in parte cosf. Bisogna peraltro notare che in uh casi l'adesione si una pratica spirituale ha rappresentato il passaggio da un integrismo politico-ideologico ad un integrismo religioso, in una prospettiva di sostanziale ancorché negata continuità con il passato 26. D'altro canto, la spiritualità orientale ha offerto una risposta alla caduta di intensità della pratica religiosa tradizionale in Occidente. Il ricorso a tecniche meditative ed a varie forme di ritualità collettiva con forti connotati mistici permette infatti (0 comunque
dà l’illusione) di stabilire un rapporto con la divinità assai più intenso e diretto. In misura diversa questi due tipi di spiegazione evidenziano la componente di crisi (della militanza, della religione tradizionale) che starebbe alla base della «conversione» alla spiritualità orientale. Si tratta però di un’interpretazione limitativa, anche se corretta. La crisi della militanza e della pratica religiosa si sono infatti ormai consumate, e la ricerca spirituale costituisce piuttosto una risposta a bisogni individuali estremamente differenziati:
26 Da questo punto di vista il processo presenta delle analogie con quello che alla fine degli anni Sessanta ha condotto molti militanti cattolici di Gioventù Studentesca nelle file dei gruppi marxisti-leninisti più ortodossi. Cfr. ad esempio Bianchi e Turchini [1975].
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si tratta per esempio di superare specifiche difficoltà personali grazie ad interventi di tipo terapeutico, o di sviluppare un percorso interiore relativamente indipendente da problemi contingenti. DÒ In particolare, le domande che si orientano verso la tradizione orientale non si connotano in senso strettamente spirituale. Esse investono invece dei modelli culturali, non riducibili alla dimensione religiosa, benché questa sia presente con un peso variabile. Si possono dunque individuare tre tipi di ricerca. a) Molte persone si avvicinano al messaggio orientale in primo luogo per migliorare la qualità della propria vita attraverso l’acquisizione di una tecnica (di concentrazione,
di rilassamento,
ecc.), la pratica di stili di vita alternativi, ad esempio nel campo dell’alimentazione, oppure il ricorso a metodi di tipo psicoterapeutico. Si aderisce in questo caso ad una proposta essenzialmente culturale, connotabile in senso religioso soltanto nel senso di Luckmann (cfr. paragrafo 1). L'adesione alla prospettiva filosofica in cui determinate pratiche si situano è variabile e può essere subordinata all’interesse per i vantaggi immediati che ne derivano. Il ricorso a metodi come la Meditazione Trascendentale o le psicoterapie è anzi finalizzato a migliorare la propria posizione nel mondo da un punto di vista di «individual achievement». b) Esiste poi un interesse più esplicito e diretto per la dimensione spirituale. In questo caso si mira soprattutto all’approfondimento della conoscenza interiore, a raggiungere uno stato di piena consapevolezza ed accettazione del proprio essere. Vi è una maggiore disponibilità ad avviare un’esperienza globale, a ridiscutere i principi su cui si fonda la propria esistenza. c) L'interesse per le esperienze orientaliste può infine basarsi sulla ricerca di un messaggio di salvezza, in grado di fornire una via di uscita da situazioni che non si è più in grado di comprendere né tantomeno di orientare. L'adesione ad un messaggio spirituale sembra qui dipendere da un bisogno di verità assolute assai più che dall’esigenza di sviluppare la conoscenza interiore. Prevale cioè il tentativo di ridurre i margini di incertezza della pro(ER azione all’interno di una società ad alta complessità le cui ogiche di funzionamento appaiono sempre più incontrollabili. Naturalmente, nei singoli individui le varie motivazioni si sovrappongono. Si può tuttavia ipotizzare che le domande espresse dall’area di membership potenziale trovino risposte diverse anche sul piano organizzativo. Parlerò rispettivamente di
strutture di servizio, centri di meditazione e gruppi devozionali. Essi si differenziano, oltre che per il tipo di «bisogni interiori» che
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intendono soddisfare, almeno per altri tre aspetti: la qualità del rapporto con il sacro; il ruolo del maestro spirituale: il modello etico-religioso cui si aderisce ?7. Tra le esperienze che si connotano in primo luogo come strut ture di servizio rientrano per esempio nell’area milanese il centro MerU; il Centro di Filosofia Acquariana del maestro indiano Baba Bedi; diversi centri yoga; il Centro Età dell’ Acquario; l’Ashram del Naviglio; alcuni ristoranti vegetariani e librerie specializzate sui temi orientali 28. Si tratta di realtà molto diverse, accomunate però dal fatto di svolgere un’attività non puramente commerciale, anche se in alcuni casi questa dimensione prevale. Sono infatti gestite da persone direttamente interessate al messaggio orientalista, che in tal modo unificano attività professionale ed azione di proposta culturale. Si tratta poi di iniziative a conduzione individuale o quasi, che configurano con i loro frequentatori abituali un rapporto di semplice utenza. L’unica eccezione rilevante sembra costituita dal Centro Età dell’ Acquario. Esso è gestito da un collettivo composto da una dozzina di persone per le quali l’attività nel centro non costituisce la fonte primaria di reddito. Il centro si avvale inoltre della collaborazione di alcuni utenti fissi, oltre che di quella di un dipendente regolarmente stipendiato. Il Centro MERU si differenzia invece dalle altre esperienze per il fatto di essere inserito in un’organizzazione internazionale che persegue la diffusione della tecnica di meditazione elaborata da Maharishi Mahesh Yogi nella forma di un organismo professionale assai più che di un movimento religioso 29. La proposta di questi centri è molto articolata: pratiche corporee (yoga, ginnastica, danza, ecc.); tecniche di meditazione; tera-
pie individuali e di gruppo; attività inerenti alla comunicazione ed all'interazione tra le persone; forme di conoscenza «non logica», come l’astrologia; modelli di alimentazione e medicina alternativa (macrobiotica, erboristeria, ecc.); attività culturali e spirituali (conferenze, dibattiti, incontri con maestri). In queste esperienze,
21 Bird [1979] opera una distinzione analoga tra gruppi di devoti, discepoli ed «apprendisti» (apprenticeship groups). 28 Vincoli di spazio mi impediscono di fornire informazioni dettagliate sui gruppi ed esperienze che via via citerò. Per alcuni di essi il lavoro di Bergonzi [1980] costituirà un utile riferimento iniziale. Per ulteriori e comunque limitate indicazioni rinvio ancora una volta alla bibliografia ragionata (paragrafo quinto).
29 Johnston [1980] ne propone una lettura come marketed social movement, attento cioè alla dimensione professionale dell’intervento ed orientato al mercato.
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l'aspirazione al sacro è intesa nel. senso dell’entrare in rapporto con la componente dell’individuo definita dal non razionale, dalle sensazioni, dalle emozioni. Nel caso della Meditazione Trascendentale si pone l’accento sull’esigenza di risvegliare il campo di energia che sta in ognuno di noi. Chi pratica un’esperienza in questo settore non è tenuto al rispetto di alcuna norma particolare. Esistono tuttavia due principi condivisi, ancorché impliciti e non coercitivi: è importante sviluppare le proprie qualità individuali; è inoltre necessario sottrarsi ai modelli culturali che ci impediscono di vivere in modo armonico ed equilibrato. In questo contesto il problema della leadership non si pone, dal momento che il rapporto tra i gestori di queste attività e chi vi partecipa tende a configurarsi come la relazione tra un professionista e chi usufruisce delle sue prestazioni. Non si può parlare in generale di maestri spirituali, con l'eccezione di Baba Bedi e Maharishi Mahesh Yogi. Per quanto riguarda quest’ultimo, tuttavia, se la sua figura è oggetto di grande devozione da parte degli insegnanti che operano professionalmente nella struttura della Meru, lo è assai meno da parte dell’utenza?°. Non mi sembra quindi corretto parlare di un vero e proprio leader carismatico. Tra i centri di meditazione rientrano invece le varie esperienze buddiste (accanto al Centro Ghe Pel Ling, i centri Dojo Zen e Zen Soto, e la comunità Dzogcen dei discepoli del lama tibetano Namkai Norbu), nonché il Centro Sri Aurobindo. Quest'ultimo offre alle persone che praticano il particolare yoga insegnato da Sri Aurobindo un luogo ove consultare le opere del maestro ed eventualmente praticare. La pratica è comunque assolutamente individuale. L'attività degli altri gruppi è imperniata sulla meditazione, l'insegnamento dei maestri e varie forme di ritualità collettiva. Oltre al Ghe Pel Ling, soltanto il Centro Dojo Zen opera anche su un altro terreno, proponendo corsi di arti marziali. Entrare in relazione con il «Sacro» significa in questo caso assumere il pieno controllo sulla propria vita, essere pienamente presenti a se stessi. La gestione dell’attività si basa, nel caso dei centri zen, sull'opera dei maestri spirituali, con la collaborazione pi o meno rilevante dei discepoli. Negli altri casi prevale invece la cooperazione di chi pratica. A parte il Ghe Pel Ling, l’attività è comunque molto ridotta. Anche i discepoli di Namkai Norbu si limitano infatti ad organizzare incontri periodici con il maestro, e non sono interessati ad attività più regolari e strutturate (tra l’al30 Cfr. su questo punto Maciotti [1980] e Bird [1979].
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tro non possiedono, né intendono aprire una sede, e si incontrano presso un ristorante vegetariano).
La pratica non implica nemmeno in questo caso il rispetto di regole morali, fatti salvi alcuni principi etici molto generali, e l’impegno a ricercare l'equilibrio interiore attraverso la pratica di una disciplina precisa. Il ruolo del maestro è quello dell’«amico spirituale» [Trungpa 1976], cioè di uno specchio, di un punto di
riferimento per il discepolo. La sua autorità deriva come già abbiamo visto dall’essere depositario di una tradizione consolidata. I gruppi devozionali includono innanzitutto l’Associazione internazionale per la coscienza di Krishna (Iskcon), i cui membri
sono più conosciuti come Hare Krishna, ed i devoti di Sathya Sai Baba. L'attività di questi ultimi è legata soprattutto all’organizzazione dei momenti di pratica. E tuttavia nei progetti del gruppo, che intende aprire ufficialmente un centro a Milano nel corso del 1983; di estendere la sua iniziativa sul terreno socio-assistenziale. Per quanto concerne invece gli Hare Krishna, il nucleo centrale del movimento nell’area milanese è costituito dalla comunità che ha sede a Gallarate. Ad essa fanno riferimento anche i devoti che continuano a vivere autonomamente. Attualmente (primavera 1983) il gruppo progetta di aprire a Milano un altro tempio, con annesso ristorante vegetariano. Oltre alle pratiche devozionali che hanno luogo al tempio, gli Hare Krishna svolgono qui come dovunque un’intensa attività di propagazione del messaggio, in forme che vanno dal canto nelle strade del maba-mantra Hare Krishna Hare Rama, alla diffusione «militante» dei testi sacri del movimento, di opuscoli e dischi prodotti dai devoti, all’organizzazione di festival durante l’estate. Nei due casi considerati l’esperienza ha alla base l'aspirazione a ricostituire un rapporto diretto con una divinità trascendentale. L’adesione implica il rispetto di una serie di norme molto precise, che nel caso degli Hare Krishna arrivano ad investire ogni aspetto dell’esistenza, dall’alimentazione al rapporto uomo/donna all’educazione dei bambini all’organizzazione del tempo nella giornata. La gestione delle attività è affidata anche qui al lavoro volontario dei devoti, sotto la direzione di alcuni responsabili che, almeno per quanto riguarda gli Hare Krishna, vengono nominati direttamente dal maestro spirituale. Quest'ultimo è il messaggero scelto da Dio per trasmettere il suo annuncio di salvezza agli uomini, quando non è un avatara, vale a dire una reincarnazione di Dio stesso. Il suo ruolo è di tipo carismatico, nella misura in cui
risulta fornito di qualità e poteri straordinari e si presenta come
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«uomo della crisi» 31. Viene considerato una guida sicura, in grado di indicare con precisione la via verso la salvezza, piuttosto che un consigliere spirituale. Rientra tra i gruppi devozionali anche la Missione della Luce Divina del guru Maharaj Ji. L'esperienza si configura infatti come l’adesione al messaggio di cui il guru è portatore. Egli è appunto considerato un avatara, depositario della verità ultima, e la pratica tende ad assumere le caratteristiche di un vero e proprio culto della sua figura, piuttosto che quelle di una disciplina spirituale. I sannyasin di Bhagwan Rajneesh, più noti come «arancioni», non sono riconducibili con precisione a nessuno dei tipi appena individuati. Il Vivek Rajneesh Meditation Center si presenta infatti come una comunità di vita che gestisce in modo professionale una struttura di servizio, offrendo al tempo stesso l’opportunità di avviare una ricerca interiore, in primo luogo attraverso la pratica delle meditazioni ideate da Bhagwan. L’originalità di questo maestro sta nell’avere inserito sulla tradizione orientale, con un’operazione di tipo sinctetistico, varie tecniche terapeutiche di derivazione occidentale (gestaltiche, reichiane, di encounter), fornendo a queste ultime una prospettiva spirituale e filosofica più ampia. L'insegnamento di Rajneesh si distingue dalle altre principali esperienze spirituali anche per la critica radicale nei confronti della struttura sociale indiana, e più in generale per la rottura con qualsiasi forma di esotismo. La sua proposta si caratterizza invece per la vastità dei riferimenti culturali, oltre che per l’assenza di ogni norma morale che vada al di là dell’invito all'amore ed alla gioia di vivere. Questo eclettismo ha suscitato e continua a suscitare polemiche sulla presunta ambiguità e superficialità del messaggio, nonché sul carattere di «multinazionale del sacro» che caratterizzerebbe le iniziative dei sannyasin 32.
9. La solidarietà, il mondo, il maestro
La pratica spirituale è in larga misura un’esperienza individuale. Essa non è tuttavia riducibile a questa dimensione, tanto più se comporta l’adesione ad un gruppo.
31 Cfr. Cavalli [1981].
?2 Per il dibattito sviluppatosi in varie sedi sull'argomento cfr. Bergonzi [1980] e Sarjano [1979]. Si veda anche Stampa Alternativa [1975].
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La natura individuale dell’esperienza si modifica man mano che si passa da una solidarietà fondata sulla pratica ad una solidarietà fondata su un progetto condiviso. Nel primo caso, gli individui sono accomunati da un universo simbolico ed esperienziale che attiene esclusivamente alla pratica interiore. Questo tipo di solidarietà prevale tra gli utenti delle strutture di servizio, nonché nei gruppi spirituali che prevedono un’interazione tra i membri limitata ai rituali collettivi ed alle attività organizzative minime connesse. La solidarietà fondata su un progetto condiviso implica invece livelli specifici di interazione, autonomi dalla sfera strettamente spirituale. Essi possono riguardare, come nel caso del centro Ghe Pel Ling, un’attività di proposta culturale e di testimonianza civile; oppure un progetto comunitario, come nel caso degli Hare Krishna; oppure ancora entrambe le dimensioni, come avviene per la comunità sarzzyasin di Vivek, e per il gruppo che gestisce il Centro Età dell’Acquario?. E importante sottolineare come il progetto comunitario assuma, sia da parte degli Hare Krishna che degli «arancioni», una forte valenza utopica. I primi considerano la propria comunità l’unica alternativa ad una vita nel mondo materiale fondata sull’illusione. Gli «arancioni» si presentano invece come portatori della «cultura del villaggio globale», in cui trova realizzazione il nuovo stile di vita ispirato all'insegnamento di Bhagwan. Nessuno dei due casi si distacca in misura rilevante dalle ipotesi cui si è ispirata ad esempio la tradizione delle comunità utopico-religiose ottocentesche, vale a dire «vivere secondo la legge di Dio» (nello specifico, vivere nella devozione a Krishna, o nell’adesione al messaggio di Bhagwan) 34. Le esperienze appena presentate non ipotizzano nella generalità dei casi un rifiuto del mondo. Ho già notato in precedenza (paragrafo 2) come nell’area della «nuova coscienza» sembrino attualmente prevalere atteggiamenti che potremmo definire world affirming [Wallis 1979b]. Si punta cioè a valorizzare il potenziale umano individuale, onde poter godere pienamente della propria partecipazione al mondo, senza esserne tuttavia schiavi («stare nel mondo, senza essere del mondo»). C’è nel complesso un forte
33 Per quanto concerne il Centro Età dell’ Acquario, il progetto comunitario è in realtà ancora in fase di realizzazione. 34 Cfr. oltre alla letteratura sulle comuni di cui al quarto paragrafo della bibliografia, Schiff [1973]. Per un approccio sociologico alla dimensione utopica dell’azione sociale, Nesti [1979].
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accento sull’impegno, sull’attività, sia nei confronti della propria ricerca interiore che della società civile. Sembrano invece poco presenti esperienze finalizzate alla trascendenza pura, intesa come negazione della società 5. L’unica eccezione rilevante è costituita dagli Hare Krishna. Il loro progetto consiste infatti nella trasposizione in Occidente di modelli di vita direttamente ispirati all’antica civiltà vedica, in una prospettiva di piena sottrazione al mondo materiale ed alle sue E di negazione totale del tempo e della storia. L’esperienza degli Hare Krishna rientra perfettamente nel modello di religiosità world rejecting proposto sempre da Wallis [1979b]. Esso si fonda sul rifiuto, in una prospettiva messianica, dell’ordine sociale e dei suoi valori, che negano la legge di Dio; sulla pratica di stili di vita comunitaria; su una struttura interna spesso fortemente autoritaria 5.
Nel complesso comunque l’esperienza dei gruppi della «nuova coscienza» appare coerente con un modello di società «secolarizzata» di tipo occidentale. Questa indicazione è confermata dalla crescente occidentalizzazione delle varie proposte. Il fenomeno è molto evidente nel già citato caso di Bhagwan Rajneesh; anche nel caso del buddismo tibetano, rigorosamente fedele alle sue origini, si sottolinea tuttavia l'esigenza di arrivare alla definizione di un «buddismo italiano» che tenga conto della specificità storica e culturale del nostro paese. Queste esperienze, al di là dell’universo simbolico di origine orientale che utilizzano, fanno riferimento a tensioni ed a bisogni propri delle società post-industriali. Appare anzi del tutto condivisibile il giudizio di chi vede nell’orientalismo contemporaneo un fenomeno specifico delle società avanzate occidentali [Cox 1978; Jervis 1981]. L’analisi deve pertanto distinguere i contenuti proposti e la funzione da essi assolta. Una lettura della «nuova coscienza» in termini di «fuga dal mondo» appare dunque improponibile. Altrettanto si può dire per quelle interpretazioni del rapporto tra maestro spirituale e discepoli che ne evidenziano la componente di manipolazione. Si tratta
3 La presenza massiccia di atteggiamenti di fuga dal mondo, di passività nei confronti della società, ipotizzata da autori come Lasch [1981] e Schur [1976], non è confermata dalle (poche) indagini empiriche sinora condotte tra gli aderenti ai «nuovi culti» negli Usa. Cfr. a questo proposito Anthony, Robbins e Schwartz [1983], e soprattutto Whutnow [1976, 1978]. 36 Una concettualizzazione analoga a quella di Wallis è proposta da Robertson [1978, capitolo quarto]. Egli adatta le categorie weberiane, distinguendo tra misticismo ascetico intramondano ed ascetismo mistico ultramondano.
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di una prospettiva di analisi da sempre al centro del dibattito sui nuovi culti di derivazione orientale, soprattutto negli UsA [Brainwashing 1980; Anthony, Robbins e Schwartz 1983]. Tra gli autori italiani, Lanternari [1977] ha visto nelle sette religiose di recente
diffusione nel mondo giovanile in primo luogo il risultato dell’influenza esercitata da individui di particolare fascino su personalità deboli e facilmente manipolabili. Questa interpretazione mi pare condivisibile se riferita ai gruppi presi ad esempio da Lanternari (Bambini di Dio e Chiesa della Riunificazione del reverendo Moon), ma inapplicabile all’area della «nuova coscienza» nel suo insieme. In primo luogo, non tutte le esperienze considerate in questo saggio fanno riferimento all’insegnamento di qualche particolare maestro spirituale. La maggior parte di quelle che ho classificato come strutture di servizio ne sono infatti indipendenti. Il peso di leaders spirituali di tipo carismatico risulta forte in casi come quello della MERU: si tratta però di un carisma ormai in gran parte routinizzato, che legittima l’operare della struttura ma ha perso
ogni legame con l'annuncio di una trasformazione globale di cui il maestro dotato di straordinarie qualità sarebbe il portatore. Per quanto riguarda invece i gruppi più caratterizzati in senso spirituale, in essi carisma d’ufficio e carisma individuale sono presenti in misura diversa. Nel caso del centro Ghe Pel Ling il carisma è legato in primo luogo alla tradizione buddista che i lama rappresentano, piuttosto a alle qualità personali dei maestri. Il rapporto tra il singolo discepolo ed il lama si fonda però in qualche misura sul riconoscimento personale, ed implica forme di reverenza e devozione certo non interpretabili in termini di routinizzazione del carisma. Altri gruppi presentano invece in modo pit netto i caratteri di movimenti spirituali a guida carismatica (Hare Krishna, «arancioni»). In tutti i casi la modalità dominante nel rapporto con il maestro è quella della «resa». Ci si arrende a lui accettando con totale disponibilità il suo insegnamento, aprendosi all’opera di trasformazione che egli intende compiere su di noi. Una relazione di questo tipo comporta tuttavia dei rischi di «asservimento morale» [Alberoni 1981]. La resa al maestro può infatti favorire la perdita di ogni capacità di analisi individuale, ed il passaggio appunto ad una sorta di asservimento, in cui la funzione salvifica attribuita al capo legittima l’instaurazione di un rapporto di dominio. In realtà non mi pare che la situazione attuale dell’area della «nuova coscienza» sia interpretabile in questi termini. Si tratta però di un’evoluzione che non può essere esclusa a priori in espe-
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rienze in cui le alte ricompense individuali risultanti dalla pratica portano a trascurare l’analisi delle relazioni sociali, e soprattutto delle asimmetrie di potere che si vengono delineando all’interno dei vari gruppi. Le probabilità sono maggiori quando l’adesione non si fonda su un «contratto» come nel caso del Centro Ghe Pel Ling, ma comporta una scelta di vita in buona misura esclusiva. Esse non concernono inoltre il solo potere del maestro, ma anche e forse principalmente l'emergere ed il consolidarsi di aristocrazie carismatiche in grado di operare una routinizzazione del carisma ed orientare a fini strumentali l’azione del gruppo. Resta la difficoltà di distinguere tra quanto è semplicemente amore verso il maestro, e quanto può invece essere considerato vero e proprio culto della sua persona. Inoltre, il rapporto con il leader carismatico non è mai riducibile a semplice «resa». Anche nei casi in cui la componente carismatica è più evidente, il campo di azione del Jeader è delimitato dalle opzioni dei suoi seguaci e dai bisogni da essi espressi. I casi di Bhagwan Rajneesh e Sathya Sai Baba mi sembrano significativi. Per molti aspetti gli insegnamenti di questi maestri appaiono antitetici. Mentre Bhagwan pone l’accento sulla libertà sessuale e propone una visione dissacratoria delle religioni ufficiali, Sai Baba richiede ai suoi seguaci una condotta moralmente «irreprensibile», rispettosa della tradizione. Non è quindi casuale che il messaggio del primo si sia diffuso soprattutto tra ex-militanti della nuova sinistra, mentre il secondo ha interessato persone deluse dalla pratica religiosa tradizionale, ma pur sempre ad essa legate. 10. L’antagonismo simbolico, la «vita alternativa», l’integrismo
Il potenziale conflittuale delle esperienze neo-religiose si esprime essenzialmente sul piano simbolico. Il dato, emerso trattando del Centro Ghe Pel Ling, viene confermato a livello di area. Le realtà prese in esame non presentano comunque caratteristiche
del tutto omogenee. In alcuni casi non si manifesta alcun antagonismo, nemmeno sul piano puramente simbolico. L’adesione al messaggio di Sai Baba rappresenta come si è detto un’occasione per rivitalizzare e confermare una pratica religiosa tradizionale: La maggior parte dei devoti a Milano sono cristiani, e continuano a praticare anche dopo l’incontro con il maestro. La sua natura divina fornisce infatti l'evidenza della possibile esistenza di Cristo nel passato.
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L'esperienza non implica l’assunzione di modelli culturali alternativi. Si richiede piuttosto, come abbiamo visto, il rispetto di una morale tradizionale, nella prospettiva di ricostruire le condizioni della convivenza sul modello dei tempi passati. Nel complesso sembra esserci scarsa omogeneità con il resto dell’area della «nuova coscienza». Tra i gruppi portatori di un progetto comunitario, la pratica degli Hare Krishna è la più rigida. La dottrina regola con appositi precetti ogni momento della giornata, inserendo anche le operazioni della quotidianità in rigidi canoni rituali. Ciò è particolarmente vero per chi vive nella comunità, ma anche chi rimane all’esterno deve osservare norme molto precise. Il gruppo insiste molto sull'esperienza comunitaria come modello realizzato di vita alternativa, in contrapposizione alla società esterna fondata sull’illusione. Dal canto loro, gli «arancioni» operano al tempo stesso come comunità di vita e come struttura di servizio. Il messaggio di Raj-
neesh sottintende uno stile di vita fondato sull’assoluta libertà individuale e la mancanza di costrizioni nella ricerca, sulla spinta a liberarsi di ogni tipo di repressione comprese quelle di natura sessuale, sulle esperienze emotive, intuitive, non razionali. L'attività della struttura di servizio è invece rivolta alla diffusione delle pratiche di autorealizzazione. La pratica di stili di vita alternativi segnala almeno una presa di distanza dall’ordine sociale. Tuttavia, la proposta di scelte diverse da quelle socialmente prevalenti si colloca in una prospettiva cui la categoria di conflitto è profondamente estranea. Non potendosi quindi tradurre in azione su questo terreno, la spinta alla «vita alternativa» può favorire la tendenza già individuata verso soluzioni di integrismo, comunitario o individualista. Nel primo caso, il gruppo assume un proprio stile specifico cui tutti i membri tendono a conformarsi, nonostante la dichiarata autonomia della ricerca individuale. Nel secondo caso, i benefici immediati deri-
vanti dalla pratica individuale portano a valorizzare le tecniche a scapito della ricerca interiore. Ne risulta accentuata la dimensione dell’utenza, e l'adesione al messaggio viene sostituita da una logica di scambio commerciale che in quanto tale è maggiormente esposta ai rischi di neutralizzazione e di integrazione nel mercato. In entrambi i casi i codici di rappresentazione simbolica si traducono in pratiche rituali, vengono cioè «fissati» in comportamenti sociali specifici. Dai codici formali, dai processi di apprendimento, dalla ricerca interiore l’accento si sposta sull’assunzione di
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modelli di comportamento del tutto compatibili con l’ordine sociale. La griglia di analisi utilizzata per valutare i significati dell’esperienza del centro Ghe Pel Ling (cfr. figura 11) può essere applicata convenientemente anche alle altre componenti dell’area. L’orientamento integrista della pratica spirituale appare in generale maggiore di quanto non avvenga nel nostro «gruppo naturale» e porta a sottovalutare l’autonomia delle relazioni sociali. Esiste inoltre nell’area un pregiudizio diffuso che identifica le scienze naturali, verso cui si manifesta in genere grande rispetto, con la scienza tout court, mentre si nega la possibilità di utilizzare categorie scientifiche anche per l’analisi del comportamento umano. Gli accenti sono comunque diversi, e permettono di distinguere tra chi riconosce un minimo di specificità al funzionamento del sistema sociale, e chi ritiene invece che l’esperienza nel sociale sia inglobata da quella religiosa. Il principale esempio e la versione più esasperata dei fenomeni di integrismo comunitario sono offerti dagli Hare Krishna. Il rifiuto della dimensione materiale dell’esistenza li porta a negare in toto la società e la storia, liquidate come fenomeni illusori. La comunità si presenta come un’isola dove si pratica uno stile di vita totalmente diverso, nella piena devozione a Krishna. Pur essendo formalmente aperta (i devoti ricevono volentieri gli eventuali visitatori), la comunità è di fatto chiusa ad ogni stimolo proveniente dall'esterno. La verità è unicamente in Krishna e nei testi sacri del gruppo, il cui messaggio non può essere sottoposto ad alcuna interpretazione personale ma va seguito alla lettera. La ricerca della verità assoluta porta quindi a negare gli stessi fondamenti individuali della pratica spirituale. Si muore a se stessi, liberandosi dalla propria personalità cresciuta nell’illusione. Ma la rinaIndividuale
À
Integrismo
—_ se Laicità
Collettivo
Fic. 12.
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scita si colloca ad un livello totalmente «trascendente», e comporta quindi una fuga dal mondo e dalla società. L’integrismo individualista sembra prevalere sia nelle strutture di servizio, sia nei gruppi devozionali e centri di meditazione in cui predomina una solidarietà fondata sulla pratica individuale condivisa (Centri Zen, Guru Maharaj Ji, Comunità Dzogcen di Namkai Norbu, Centro Sri Aurobindo). La potenza attribuita alla trasfor-
mazione interiore rende poco rilevanti i vincoli sociali rispetto alla libertà delle scelte individuali. D'altra parte, l’utenza delle strutture di servizio ritiene spesso che attraverso determinate pratiche sia possibile trasformare la qualità complessiva della propria esistenza. L’adesione ad un gruppo spirituale non esclude però necessariamente forme di sensibilità e di impegno civile; alcuni maestri (ad esempio Namkai Norbu) sottolineano anzi l’importanza di una partecipazione alla vita sociale. D’altro canto, molte tra le persone che aderiscono alle attività culturali dell’area esprimono in modo esplicito il rifiuto degli stili di vita dominanti, e non soltanto una generica insoddisfazione personale. Queste esperienze si collocano dunue, almeno in parte, anche sul versante dell'impegno civile individuale (cfr. figura 13). Individuale
Gruppi spirituali Utenza >
Integrismo
Laicità
Collettivo
Ei
La dimensione dell’imzpegno civile collettivo è decisamente minoritaria. Una solidarietà fondata sul progetto condiviso è spesso infatti correlata a livelli di integrismo piuttosto elevati. Accanto al caso del Ghe Pel Ling, che evidenzia l’importanza della testimonianza civile, una parziale eccezione può essere costituita dalla proposta culturale del Centro Età dell’ Acquario, o del Centro Vivek.
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L’esperienza degli «arancioni» non è però riducibile a questa sola dimensione. La fascia che ha una pratica prevalentemente individuale (i sanzyasin che frequentano il centro e gli utenti del centro stesso) presenta una gamma di orientamenti molto ampia, che va dal ripiegamento individualistico ad un impegno specifico nel sociale, fondato sulla consapevolezza acquisita attraverso la pratica interiore. Molti sanzyasin hanno del resto partecipato alle recenti manifestazioni del movimento per la pace. Il gruppo che gestisce il centro agisce invece su basi più marcatamente integraliste. Ciò risulta evidente nel funzionamento interno della comunità. Si assume infatti in primo luogo che la ricerca spirituale e l'adesione al messaggio di Bhagwan garantiscano la scomparsa di relazioni interpersonali fondate sui principi che si tenta di sradicare. La dimensione specifica della comunità in quanto rete di rapporti sociali con i suoi ruoli, le sue relazioni di potere, i suoi conflitti non viene anzi presa in considerazione. Si assume inoltre che la natura del messaggio escluda di per sé ogni rischio di identificazione con la dottrina o con il gruppo. All’attività culturale verso l'esterno non corrisponde nessuna analisi pertinente dei rapporti sociali e politici, ricondotti in genere a categorie etiche. Il concetto stesso di rapporto sociale viene anzi negato, in quanto frutto di un approccio limitato, «sociologico», alla realtà. La ricerca interiore dovrebbe condurre al suo superamento, perché l'individuo pienamente consapevole si sottrae ai vincoli che la società pretende di imporgli (cfr. figura 14).
Individuale
Integrismo
Laicità
«arancioni»
Collettivo
Fic. 14.
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11. Conclusioni
E possibile parlare di un «movimento della nuova coscienza»? In realtà, l’area esprime una molteplicità di domande di segno non univoco. In alcuni casi esse si traducono in pratiche di tipo terapeutico, in altri prevale invece l'aspirazione alla conoscenza interiore, in altri ancora la ricerca di stili di vita «alternativi». Queste
dimensioni tagliano trasversalmente tutte le esperienze prese in esame, sia pure con accenti diversi. Esiste tuttavia una componente comune all’area nella sua globalità. Essa va ricercata nel tentativo di inserire interventi terapeutici, pratiche meditative, modelli culturali «alternativi» in una prospettiva di accrescimento della consapevolezza individuale e di ricomposizione dell’esistenza sulla base del rinnovato equilibrio tra corpo e mente. Di qui non discende in ogni caso un progetto condiviso dalla globalità dell’area. L'impressione è invece che ciascun gruppo o iniziativa proceda in modo non soltanto indipendente, ma anche senza contatti rilevanti con le altre esperienze. Da questo punto di vista il nostro «gruppo costruito», cui hanno partecipato esponenti degli Hare Krishna, «arancioni», Centro Ghe Pel Ling e Centro Età dell’ Acquario è stato significativo. Il dialogo si è infatti sviluppato ad un livello essenzialmente teologico. Ha investito cioè alcuni dei temi da sempre al centro del dibattito religioso: il problema della verità, il rapporto con la divinità, quello tra la scienza e la religione. Sono emersi rapporti di conoscenza personale tra i membri più «centrali» dei diversi gruppi, ma non è stata accennata la possibilità di un’azione coordinata in qualche settore, al di là della generica identificazione con un’area di sensibilità comune (gli Hare Krishna non hanno adottato nemmeno una posizione di questo tipo, rivendicando a se stessi il monopolio sulla ricerca spirituale). AI di là del macroscopico settarismo degli Hare Krishna, atteggiamenti di tipo settario hanno ancora una certa diffusione, soprattutto nei gruppi devozionali e nei centri di meditazione. Nonostante le dichiarazioni che sottolineano la pluralità delle possibili vie all’illuminazione, emergono infatti scarsa conoscenza e poca disponibilità al confronto con i percorsi spirituali diversi dal proprio. La circolazione di informazioni è più alta tra gli utenti delle strutture di servizio, il che è del resto ovvio vista la maggiore fluidità dell’appartenenza, che nei gruppi spirituali è invece relativamente e Nel complesso l’area appare come un insieme di esperienze che, pur muovendosi in larga misura nella medesima direzione,
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non dispongono di canali particolari di coordinamento e di scambio. Quest'ultimo avviene in genere, come conferma anche il «gruppo costruito», a livello individuale, spesso utilizzando la rete
di comunicazione costituita da alcune strutture di servizio (ad esempio i ristoranti vegetariani), oppure in occasione di iniziative culturali di interesse non specifico. La natura conflittuale di queste esperienze è variabile. In
alcuni casi emerge una forte carica contestativa nei confronti dell’ordine sociale. Essa si esprime sul terreno delle rappresentazioni simboliche e su quello della pratica di stili di vita diversi, ma non origina mai un conflitto agito sul terreno sociale. Anzi, la forte presenza di orientamenti integristi favorisce la progressiva neutralizzazione dell’antagonismo simbolico. Il riferimento a codici «altri» da quelli dominanti tende infatti a tradursi quasi unicamente nell’assunzione di modelli di comportamento separati, ma interamente compatibili con l’ordine sociale. L’assenza di un conflitto specifico non ci autorizza però a leggere queste esperienze esclusivamente in termini di fuga nel privato, o peggio ancora di manipolazione: in particolare l’azione delle strutture di servizio e dei centri di meditazione meno integgristi favorisce la diffusione di modelli poco presenti nella tradizione occidentale, svolgendo quindi una funzione di innovazione culturale; d’altro canto, la ricerca spirituale, qualora non sia vissuta in modo integrista, può risultare una precondizione per nuove forme di impegno nel sociale, più attente al raggiungimento di un equilibrio tra dimensione «interiore» e «pubblica» dell’esperienza di vita.
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MARCO
GRAZIOLI
- GIOVANNI
LODI
LA MOBILITAZIONE COLLETTIVA NEGLI ANNI OTTANTA: TRA CONDIZIONE E CONVINZIONE
1. Verso l’identificazione dei fattori di facilitazione
Il tema della mobilitazione è stato spesso confuso tra le pieghe della teoria generale dei movimenti o reso illeggibile dalla assunzione del fenomeno come un dato. Solo dalla metà degli anni Settanta mediante l’analisi dei movimenti in termini di resource management, la mobilitazione occupa un posto autonomo nel panorama teorico.
L’obiettivo di queste pagine è quello di far uscire dalle quinte della teoria il «soggetto» mobilitazione, di metterlo in luce sia attraverso apporti ormai classici e al tempo stesso usciti, ma solo in modo apparente, dalla scena del dibattito sociologico, sia grazie a contributi più recenti e attuali. Se infatti la teoria del collective behavior e l'approccio psicosociologico hanno visto progressivamente declinare la loro importanza, sostituiti dal montante resource mobilization approach, essi continuano tuttavia ad influenzare direttamente (di rado) o indirettamente (pit spesso) molte
delle analisi e delle ricerche contemporanee. Quello che tuttavia più importa qui è sottolineare non tanto l’attualità o l’obsolescenza dei diversi filoni teorici, quanto il concentrarsi prevalente di ognuno di essi su uno degli aspetti dell’azione collettiva: la teoria psicosociologica ha mostrato particolare attenzione agli atteggiamenti di massa, la tradizione del collective behavior e la teorie della società di massa hanno enfatizzato il ruolo dei meccanismi dis-integrativi a livello strutturale, mentre l’approccio in termini di resource mobilization si è concentrato sulla produzione e lo scambio di risorse tra gruppi sociali e sulla disponibilità di risorse per l’individuo, ma ha forse attribuito un’importanza eccessiva agli aspetti organizzativi dell’azione collettiva. La difficoltà stessa di definire la mobilitazione come variabile analitica testimonia la diversità degli approcci e delle «messe a
Marco Grazioli ha curato la stesura del paragrafo 1; Giovanni Lodi quella dei paragrafi 2, 3 e 4; le conclusioni sono state stese in comune.
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fuoco» e soprattutto l’impossibilità di individuare cause «generali» che conducano gli individui ad agire collettivamente. Meno complesso, e a nostro avviso più utile all’identificazione degli elementi in gioco in una situazione empirica, appare il tentativo di individuare fattori di facilitazione al processo di mobilitazione collettiva. In questa prospettiva si snoda il nostro percorso. Come è noto il tentativo di Smelser [1968] è quello di fondere la tradizione del collective behavior con l'approccio struttural-funzionalista, per poter procedere verso una definizione analitica di comportamento collettivo, che si allontani da una tradizione sociologica che vedeva nell’azione collettiva una forma di comportamento deviante di natura patologica !. Il comportamento collettivo è per Smelser «mobilitazione» sulla base di una credenza generalizzata che modifica una tensione strutturale ricostituendo la componente dell’azione sociale in cui la tensione si è manifestata. Il comportamento collettivo è dunque una risposta ad una tensione in una delle quattro componenti dell’azione sociale, ordinate geràrchicamente ( a) valori: i fini generali dell’azione sociale;
b) norme: le regole che guidano il perseguimento di tali fini; c) organizzazione sociale: la mobilitazione delle motivazioni individuali; d) facilitazioni: mezzi e risorse disponibili per il conseguimento degli obiettivi). La tensione è un indebolimento, un disturbo o una frattura nelle relazioni tra le componenti dell’azione e conduce ad un funzionamento non adeguato di tali componenti, che vengono ridefinite dall’azione collettiva. Se la tensione si manifesta in una componente dell’azione che non è in grado attraverso le sue procedure consuete di limitarla o di risolverla, viene investito del problema un livello pit alto: la componente dell’azione di livello più elevato subisce una ristrutturazione. Chi percepisce la tensione può individuare nell'ambiente un elemento con un potere straordinario per limitare o risolvere la situazione di frustrazione o di indeterminatezza: è il caso del panico (ristrutturazione a livello delle facilitazioni); può identifi-
care una persona o un gruppo come responsabili di una condizione non
desiderata
(ristrutturazione
a livello
dell’organizzazione
sociale); può creare nuove norme per il controllo
di comporta-
menti non approvati (ristrutturazione a livello normativo); può
adottare nuovi valori allo scopo di ridefinire l’ordine sociale: è il 1 Per un'analisi di alcuni stereotipi riguardo il crowd behavior si veda: Couch [1968].
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caso dei movimenti rivoluzionari (ristrutturazione a livello dei valori). E la credenza generalizzata che consente lo spostamento dell’azione verso livelli più alti di quello direttamente «disturbato», favorendo quindi, nell’ipotesi di Smelser, la soluzione della situazione di tensione. Tale soluzione dipende da un legame, generato da un «corto-circuito» di natura «magica», tra la componente sottoposta a tensione e i livelli più generali dell’azione. La credenza generalizzata di natura magica ha effetti di omogeneizzazione sui partecipanti all’azione collettiva, facilita la loro mobilitazione in tutte le forme di comportamento collettivo ed è caratterizzata proprio dall'effetto di corto-circuito tra i diversi livelli d’azione. Per Smelser la credenza generalizzata è un mito che produce mobilitazione
[Walsh 1978] e che accomuna
tutti i comporta-
menti collettivi consentendone la lettura in termini analitici. Tensione strutturale e sviluppo di una credenza generalizzata sono condizioni necessarie per il formarsi di un evento collettivo, all’interno di una sequenza che comprende propensione strutturale, eventi precipitanti, mobilitazione vera e propria ed attivazione efficace o meno dei meccanismi di controllo sociale. E dunque la credenza generalizzata ad orientare l'andamento della mobilitazione, rappresentando collettivamente la situazione di tensione che gli individui sperimentano, ma fornendo anche gli elementi per una discriminazione tra le varie forme di comportamento. La tensione strutturale invece rappresenta la variabile indipendente nel processo di formazione di una mobilitazione collettiva, le cui caratteristiche dipenderanno dall’intervento degli altri quattro elementi. Qualsiasi tipo di tensione strutturale può determinare i più diversi comportamenti collettivi, ma ogni comportamento collettivo avrà alla sua origine una tensione struttu-
rale. Numerose sono state le obiezioni 2alle tesi di Smelser, soprattutto all’uso dei concetti di tensione strutturale e credenza generalizzata, pari almeno all’eco che tale teoria ha avuto negli anni Sessanta. Useem [1975] sostiene per esempio che, sebbene il con-
cetto di tensione sia ben definito, non esistono elementi chiari pet identificare una tensione strutturale in un sistema reale, infatti l’eventuale identificazione di una tensione è sempre successiva alla reazione che genera. L'unico elemento per scoprire la tensione strutturale è dunque l’apparizione di un comportamento 2 Per una discussione sulle ipotesi di Smelser si veda: Alberoni [1968b]. Ul
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collettivo: l’argomentazione di Smelser diventa cosf tautologica. Ricerche empiriche hanno inoltre mostrato come sia la credenza generalizzata [Quarantelli e Hundley 1969; Stallings 1973; Marx
1970] che la tensione strutturale [Marx 1970] non siano condizioni necessarie per il verificarsi di un comportamento collettivo3; mentre l'inadeguatezza del concetto di tensione come motore per la mobilitazione è mostrata dalla sua scarsa efficacia nei confronti del trend verso la professionalizzazione dei movimenti americani dei primi anni Settanta [McCarthy e Zald 1973], vale a dire verso l’azione collettiva come offerta potenziale di opportunità per i partecipanti.
i
Nella proposta di Smelser rimangono in evidenza sia l'enfasi sui meccanismi che «disturbano» o inducono alla mancata integrazione individui e gruppi (disgregazione sociale), rendendoli cosf disponibili per la mobilitazione, sia l’accento sulle crisi economiche e strutturali come elementi che facilitano l’attivazione di tali meccanismi. Proprio quest’ultimo elemento introduce il problema più che mai attuale [Freeman 1983] del ruolo facilitante o meno di una situazione di «crisi», diventata una costante nei sistemi sociali
contemporanei. Variabili psicologiche sono invece al centro dell’attenzione di un altro filone di ricerca, anch'esso legato a ipotesi di breakdown, secondo l’espressione di Tilly [1975], la cui sistematizzazione teorica è offerta dal lavoro di Ted Robert Gurr [1970]. Le teorie psicosociologiche si sono occupate principal-
mente di violenza collettiva fornendo essenzialmente due tipi di analisi [Useem 1975]: una che sottolinea il ruolo della personalità (e in particolare di quella autoritaria) come variabile interveniente
nel rapporto tra condizioni sociali e sviluppo dei movimenti 4; l’altra che indica nel disequilibrio sperimentato nella relazione tra aspettative e gratificazioni la condizione necessaria perché si produca una frustrazione collettiva che rende disponibili all’azione violenta. } Questo secondo approccio è legato ai problemi della mobilitazione ed individua nell’insoddisfazione la causa profonda che induce i singoli ad agire collettivamente in modo violento; la possibilità di mobilitazione varia con l'ampiezza e l’intensità dell’in3 Per una rassegna delle teorie e delle ricerche americane riguardo i movimenti sociali negli anni Sessanta si veda: Marx-Wood [1975].
4 Alcuni esempi di queste analisi sono: Feuer [1969], Lipset [1963], Lipset e Raab [1973].
5 Alcuni esempi di questo approscio sono: Davies [1962], Davies [1969], Gurr [1968], Caplan e aige 11968), upsha [1969].
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soddisfazione socialmente percepita tra i membri di una comunità. L’attenzione ai diversi tipi di divario tra aspettative e gratificazioni all’origine dell’insoddisfazione ha consentito che le proposte teoriche si articolassero su piani diversi e almeno cinque sono i modelli riconoscibili che spiegano l’azione collettiva in base ad un tipo diverso di divario tra aspettative e ricompense: ascesa-caduta, aspettative crescenti, deprivazione relativa, mobilità discendente, incongruenza di status [Geschwender 1968]. Il modello della deprivazione relativa proposto da Geschwender suggerisce che il livello desiderato di ricompense sia quello ricavato dall’osservazione-confronto con un gruppo di riferimento e che il divario sia causato dallo sperimentare un livello reale delle ricompense inferiore a quello desiderato e a quello del gruppo di riferimento. Per altri autori la deprivazione relativa è piuttosto il risultato della percezione di un divario, generato o da una rapida inversione di tendenza dopo un periodo prolungato di aspettative crescenti e crescenti gratificazioni (ipotesi ascesa-caduta) [Davies 1969], o dal non poter soddisfare con i mezzi a disposizione nuove e maggiori aspettative (ipotesi aspettative crescenti) [Gurr 1973]. Senza voler dirimere tra i diversi usi e le diverse definizioni del concetto di deprivazione relativa $, che hanno condotto spesso ad un basso grado di comparabilità delle analisi, useremo il termine di deprivazione relativa nell’accezione più ampia di percezione di un divario tra aspettative e gratificazioni: questa accezione risponde all’assunto che all'aumento del divario sperimentato corrisponda un aumento della deprivazione relativa e del grado di
insoddisfazione. Secondo le teorie psicosociologiche dunque il cambiamento che è all’origine della deprivazione relativa riguarda ciò che gli attori si aspettano in un periodo determinato della loro esistenza e ciò che in tale periodo ottengono o pensano di poter ottenere. Tuttavia il motivo per cui mutino i bisogni e il loro grado di soddisfazione è trascurato o indagato in modo superficiale ed implica una classificazione gerarchica piuttosto elementare di valori (benessere, potere, proprietà personale, rispetto, status) [Gurr 1973] o di bisogni (fisiologici, socio-affettivi, di stima, di autorealizzazione) [Davies 1970]. Inoltre l’affermazione che la deprivazione relativa è una condizione necessaria o, al limite, un forte
6 Esempi di come sia stata definita in modo diverso la deprivazione relativa
sono: Abeles [1974], Vanneman-Pettigrew [1972], Geschwender [1973].
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elemento di facilitazione per la mobilitazione è disconfermata da un numero cospicuo di ricerche [Snyder e Tilly 1972; Hibbs 1973; Portes 1971; Bowen e altri 1968; Crawford e Naditch 1970; Muller 1972; McPhail 1971; Spilerman 1970], che dimostrano come mobilitazioni collettive siano possibili senza deprivazione relativa o come d’altra parte non si determinino mobilitazioni dove si riscontrano condizioni di deprivazione. Ma le obie-
zioni a nostro avviso pit consistenti alle teorie psicosociologiche ” riguardano la scarsa attenzione riservata nell'analisi alle cause strutturali all'origine della deprivazione [Wilson e Orum 1976]. Ciò se da un lato ha consentito di indirizzare l’analisi verso gli individui sottoposti a tensione, verso i partecipanti all’azione collettiva, dall’altro ha però sottolineato soprattutto il nesso tra frustrazione e aggressione a cui tutte queste teorie si riducono [Melucci 1976, 1982], contribuendo ad alimentare una mai sopita tradizione sociologica che vede nella marginalità e nella non integrazione le basi per la partecipazione ad un’azione collettiva e nel comportamento collettivo una condotta irrazionale.. Inoltre il nesso considerato necessario tra la mobilitazione violenta o conflittuale e il divario sperimentato tra aspettative e gratificazioni non sembra fondato in quanto, anche solo a livello di osservazione, si nota che le risposte possibili a tale stimolo sono eterogenee: ristrutturazione dei mezzi e dei fini dell’azione, ripieamento dell’attore su di sé, mobilitazione individualistica, mobiitazione di risorse simboliche, mobilitazione contro un «nemico» fuori dal campo di riferimento e conseguente produzione di miti o di ideologia [Melucci 1982]. Tuttavia, l’attenzione all’individuo e ai suoi atteggiamenti apre una prospettiva, che rimanda alle dimensioni delle motivazioni profonde e del vissuto collettivo come processi che inducono a mobilitarsi. Nonostante che, come si è visto, la teoria del collective behavior e quelle psicosociologiche si muovano su piani differenti, una linea di contatto è stabilita dal modello stress-strair 8, che suggerisce come la tensione struttuale sia percepita dagli individui sotto la forma di uno stress emotivo. Quando la tensione strutturale aumenta fino al punto che lo stress emotivo a cui sono sottoposti gli individui supera la soglia (presumibilmente condivisa e relativamente costante) di tollerabilità, si verifica una risposta collettiva, che riduce il grado di malessere emotivo tentando di rimuo-
? Per una confutazione delle teorie psicosociologiche si veda: Orum [1974]. 8 Per una discussione del modello stress-strain si veda Marx e Holzner [1977].
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vere la tensione che lo genera o introducendo meccanismi di difesa psicologici, che consentono agli individui di affrontarlo con più efficacia. Il modello si basa su due assunti: 4) si mobilita pi facilmente
chi è stato sottoposto ad una maggiore tensione strutturale e quindi ha subìto un maggiore stress emotivo; 2) i membri di una medesima categoria sociale hanno una soglia di tollerabilità della tensione relativamente omogenea. Il primo presupposto rinvia nuovamente ad un'origine «patologica» del comportamento collettivo, mentre il secondo evita di stabilire, come già le teorie psicosociologiche, dove la soglia di tollerabilità riguardava il divario tra aspettative e gratificazioni, quali siano le condizioni per identificare tale soglia. Se tra la rivisitazione del collective behavior da parte di Smelser e le teorie psicosociologiche è possibile, come si è visto, stabilire un legame, l’identificazione del conflitto come causa che spinge gli individui a mobilitarsi, come variabile indipendente nel percorso che conduce all’azione collettiva, ha aperto invece una diversa prospettiva. Secondo Dahrendorf [1963] il conflitto è una dimensione «endemica» e costante in tutte le organizzazioni e le istituzioni, da quando il sistema di autorità è ua un elemento universale dell’organizzazione sociale, e oppone gruppi che occupano posizioni d’autorità a gruppi subordinati, sulla base di interessi divergenti, che nascono dalle posizioni differenti che i gruppi occupano. Nelle società contemporanee il conflitto si svolge all’interno delle organizzazioni regolate normativamente e prevede il tentativo, da parte di chi ricopre posizioni d’autorità, di mantenere la struttura normativa che consente al suo gruppo di conservare una posizione di privilegio, mentre i gruppi ATA nati hanno interesse al cambiamento dell’assetto normativo esistente. La complessità sociale, il moltiplicarsi ed il differenziarsi delle organizzazioni moltiplica i conflitti, ma rende possibile secondo Dahrendorf una minore correlazione tra la posizione di potere di un gruppo in un determinato contesto e le molteplici sue altre posizioni in contesti differenti, riducendo cosî l’intensità di tali conflitti e rendendone pit facile la regolazione. Da questa proposta teorica è possibile isolare due contributi per il nostro tentativo di individuare fattori di facilitazione al processo di mobilitazione: 4) non è una tensione o l’insoddisfazione o la mancata integrazione l’origine del comportamento collettivo; ma piuttosto un conflitto in termini di autorità all’interno di una struttura organizzativa su cui si innestano meccanismi di facilitazione contingente (ad esempio apertura del mercato politico, accesso a
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risorse organizzative e/o a canali di comunicazione); 5) crisi economiche e strutturali non aumentano come tali la probabilità che un’azione collettiva si verifichi, ma il loro peso in termini di facilitazione va considerato di volta in volta. Un'analisi sempre in termini organizzativi è al centro della teoria della società di massa [Kornhauser 1959]. La tesi fondamentale è che la partecipazione e il coinvolgimento in gruppi secondari (partiti e gruppi d’interesse) siano correlati positivamente con h legittimazione dell’ordine sociale esistente, mentre l'assenza di tali appartenenze rende gli individui disponibili alla manipolazione e alla mobilitazione da parte di avanguardie estremiste. Nella società di massa i legami comunitari e l’intreccio di relazioni tra i gruppi tendono ad allentarsi, mentre si consolidano le grandi organizzazioni centralizzate e burocratizzate; ciò conduce all’isolamento delle relazioni personali e al conseguente aumento della possibilità che si sviluppino movimenti antidemocratici o estremisti. In questi movimenti i primi a mobilitarsi, i più numerosi e i più attivi saranno gli individui pit sradicati, alienati o marginali, con poca o nessuna esperienza di partecipazione in gruppi secondari e senza vincoli comunitari. Kornhauser e Dahrendorf condividono l’idea che le origini del comportamento collettivo vadano ricercate nell’organizzazione sociale, ma per ciò che riguarda il ruolo giocato dall’organizzazione in tale processo formulano ipotesi opposte: per Dahrendorf è l’esistenza diun conflitto all’interno di un’organizzazione come sistema di autorità che dà il la alla mobilitazione, mentre per Kornhauser è l’assenza di legami organizzativi che rende gli individui disponibili per un’azione collettiva. La tesi di Kornhauser, tutta interna alla prospettiva di breakdown, secondo la quale quanto maggiore è la disgregazione delle appartenenze tanto più alta sarà la disponibilità alla mobilitazione, si è prestata in modo palese ad un uso strumentale in termini politici, ma ha offerto il destro a critiche e confutazioni che derivano per la maggior parte, come per alcuni aspetti delle teorie psicosociologiche, da ricerche empiriche. Le critiche si articolano attorno a cinque punti: 7) l’effetto facilitante in termini di mobili-
tazione dell’appartenenza a gruppi intermedi non è ammesso dalla teoria della società di massa, ma Pinard [1968] dimostra che l’es-
sere membri di organizzazioni di tipo conformista in periodi di profonda crisi può diventare un elemento di facilitazione per la partecipazione ad un'azione collettiva, mentre Von Eschen, Kirk e lo stesso Pinard [1971] verificano anche in periodi non di crisi, per ciò che riguarda il movimento per i diritti civili a Baltimora
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nel ’61, che l'appartenenza a gruppi giovanili sia studenteschi che extrascolastici, ma di matrice democratica, facilita il successivo coinvolgimento nel movimento; i) l'isolamento sociale spesso non
è un indicatore significativo della possibilità di partecipare ad un'azione collettiva [Tilly 1964; Morrison e Steeves 1967; Parkin 1968; Nelson 1970; Mc Phail 1971; Feagin e Hanh 1973]; i) Marx [1969], Freeman [1973] e Oberschall [1973] sottolineano
anzi come i primi a mobilitarsi tra i neri, nel movimento femminista e in quello di destra legato a McCarthy, siano gli individui meglio integrati, già legati spesso ad una rete di relazioni personali frutto di precedenti esperienze organizzative; iv) l’assenza di gruppi secondari o di organizzazioni intermedie non è una condizione necessaria perché si sviluppi un’azione di protesta in quanto mobilitazioni collettive si verificano sia in società pluraliste che in società altamente segmentate [Gusfield 1962], dove una fitta rete
di gruppi intermedi si accoppia all’alto grado di partecipazione; v) la riduzione della mobilitazione a marginalità sociale trascura a nostro parere il ruolo che il sistema politico, più o meno aperto e più o meno dotato di canali di trasmissione e di trattamento della domanda, può svolgere nei processi di formazione dell’azione collettiva. Le ipotesi di breakdown, come abbiamo visto, sottolineano la discontinuità e i meccanismi dis-integrativi come motori, sia a livello ‘individuale che collettivo, della mobilitazione, mentre la
messa in discussione di tali ipotesi si àncora a tre proposte: 4) la partecipazione ad una rete di relazioni formata da gruppi secondari facilita una mobilitazione rapida e duratura [Oberschall 1973]; 5) coloro che si mobilitano sono reclutati tra chi era precedentemente attivo e ben integrato nella collettività, mentre gli individui atomizzati o sradicati difficilmente si mobilitano, almeno fino a quando il movimento non diventa consistente [Oberschall 1973]; c) l’aumento delle risorse in termini di reddito
(sviluppo o stabilità economica) o di tempo disponibile rende probabile l’impiego di una parte di tali risorse per l’azione collettiva [McCarthy e Zald 1977]. Tali proposte aprono la strada ad un approccio alla mobilitazione che considera centrali lo strutturarsi dinuovi interessi e di nuove solidarietà ed il formarsi di altrettanto nuove identità collettive, e che verifica opportunità e vincoli per l’azione collettiva presenti nel sistema sociale. In questo contesto lo spostamento dell’attenzione sul rapporto tra azione collettiva e sistema politico è dovuto ai lavori di Tilly [1969, 1970, 1975]. Egli opera una distinzione tra i gruppi
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che hanno accesso al mercato politico e i gruppi che ne sono esclusi, e sostiene che fenomeni di mobilitazione si verificano ogni volta che uno di questi attori collettivi si trova in situazione di entrata o di uscita dal sistema politico. In tali periodi di mobilitazione i gruppi non agiscono soltanto nel tentativo di avere accesso o di resistere all’espulsione dal sistema politico, ma competono anche tra loro per il controllo di risorse eventualmente spendibili su tale mercato. Gli elementi strutturali che alterano il rapporto distributivo delle risorse per la mobilitazione tra i gruppi in competizione sono fatti risalire ad un mutamento, assunto come dato [Melucci 1976], che è all’origine della contrapposizione di interessi tra i gruppi e quindi della loro competizione. Ma l’assunto più rilevante, ribadito da Tilly anche nelle ultime proposte [1978], (nonostante queste implichino un’analisi del passaggio all’azione che mostra attenzione ai legami organizzativi, sia preesistenti che operanti, e alle opportunità contingenti) è quello che assume l’esistenza di interessi condivisi ad entrare o a rimanere nel sistema politico come principale motore dell’azione collettiva. L’esistenza tuttavia di interessi ad ottenere un bene collettivo non implica necessariamente, come sostiene Olson [1968], che ci si mobiliti a tale scopo: l’individuo infatti, che fa parte del «grande numero» che caratterizza le organizzazioni nella società di massa, può fruire del bene collettivo senza assumersi i costi dell’azione per ottenerlo proprio perché il «grande numero» rende ininfluente la scelta del singolo di partecipare o meno a tale azione. Usufruisce quindi in modo analogo del bene collettivo sia chi si mobilita sia chi non assume tale costo (free-rider). Il nodo centrale della tesi di Olson, che vuol dimostrare come i meccanismi decisionali che operano sul mercato economico e nel sistema politico siano corrispondenti, è la difficile riconducibilità degli interessi individuali a quelli collettivi: l’esistenza in un gruppo di un interesse condiviso porta con sé la possibilità per i suoi membri di scaricare sul resto del gruppo, non mobilitandosi, i costi dell’ottenimento del risultato; ciò consente all’individuo di ridurre il rapporto tra costi e benefici realizzando l’interesse personale. Senza l'intervento di incentivi selettivi di natura materiale e non, e/o di sanzioni, non si supera la tendenziale inazione, gene-
rata dalla lontananza individuo-bene, tipica delle grandi organizzazioni; nel piccolo gruppo tale inazione non si verifica perché il singolo ottiene una parte considerevole e visibile del bene collettivo semplicemente grazie al fatto che ci sono pochi altri membri nel gruppo con cui dividerlo.
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L’azione collettiva è quindi per Olson la somma dei comportamenti individuali, frutto questi ultimi del personale calcolo del rapporto costi-benefici. Le critiche che sono state rivolte a tale approccio, quando non ne hanno mostrato la possibile irrilevanza [McCarthy e Zald 1973], si sono concentrate soprattutto sul ruolo attribuito agli incentivi selettivi e sulla scarsa attenzione al gruppo, piccolo o granche che sia, come attore che persegue la propria utilità secondo una propria logica interna. É stato sottolineato come l'enfasi sugli incentivi selettivi possa ridurre l’importanza o addirittura considerare irrilevanti le motivazioni strumentali che inducono gli individui a mobilitarsi [Fireman e Gamson 1979], oppure come tali incentivi non siano predominanti anche in gruppi di cospicue dimensioni [Tillock e Morrison 1979] o non siano decisivi in tali gruppi per motivare alla partecipazione [Kanter 1968],
mentre anche la nostra ricerca ha dimostrato come a volte l’adesione a piccoli gruppi richieda degli incentivi selettivi di natura solidaristica; inoltre Bonacich, Shure, Kahan e Meeker [1976] hanno mostrato come la partecipazione individuale per l’ottenimento di un bene collettivo non si riduca necessariamente all’aumentare dell’ampiezza del gruppo. Infine si è messa in evidenza la non riducibilità della logica di gruppo a semplice somma delle logiche individuali [Pizzorno 1977]: la prima è il frutto della combi-
nazione di diversi elementi (organizzazione, leadership, appartenenza, partecipazione, ecc.), che modificano la possibile scelta individuale effettuata sulla base del semplice calcolo costi-benefici [Lodi 1980-1981]. L’insieme di queste osservazioni testimonia che il lavoro di Olson lascia in sospeso il problema della motivazione all’azione collettiva. Tuttavia Olson non lascia dubbi sul fatto che gli interessi condivisi non possono essere considerati necessari e/o sufficienti a spiegare l’adesione all’azione collettiva; il problema peraltro di come tali interessi si formino e si consolidino rimane aperto. L’argomento che, senza incentivi selettivi o sanzioni, l’interesse collettivo non giustifica il sorgere di un’azione atta a soddisfarlo, è ripreso da Pizzorno [1977, 1980, 1983], il quale afferma che è l'appartenenza a reti di relazioni che rende calcolabili per l'individuo gli effetti dell’azione. Pizzorno come Olson ritiene che ogni attore sociale agisca per massimizzare la propria utilità, tuttavia le ricompense, che costituiscono la forma concreta di tale utilità, e le risorse dell’attore sono spendibili soltanto su mercati nei quali il loro valore venga riconosciuto. L’attore deve dunque assicurarsi, nel momento stesso in cui calcola il rapporto costi-be-
2A
nefici, che esistano le condizioni per garantire validità alla sua scelta, cioè deve essere certo che esistano mercati su cui spendere le proprie risorse e le ricompense ottenute con l’azione. La certezza deve riguardare dunque il riconoscimento del valore delle risorse dell’attore e la riconoscibilità futura di tale valore e di quello delle ricompense perché queste e quelle possano essere spese: è l’identità collettiva, l'appartenenza a sistemi di relazioni, che rende possibile la riduzione dell’incertezza in un calcolo costi-benefici che preveda gli effetti dell’azione. Quando la prevedibilità diventa difficile o quando le risorse non vengono riconosciute, e quindi si fanno inspendibili, si verificano mobilitazioni collettive che hanno lo scopo o di resistere e ripristinare il riconoscimento o di cercare nuovi mercati in cui il riconoscimento di una, in questo caso mutata, identità collettiva sia possibile. Ciò rende di nuovo possibile per gli individui calcolare gli effetti della propria azione: in questo caso la mobilitazione si rivela elemento di formazione e di rifondazione dell’identità collettiva. Pizzorno dunque risolve quello che Tilly aveva assunto come dato: non è la semplice entrata o uscita dal sistema politico a generare mobilitazione, ma è la perdita di spazi di riconoscimento per le proprie risorse o il tentativo di crearsi un nuovo mercato per chi non lo possiede (costituendo una nuova identità collettiva) che
induce gli individui a mobilitarsi; inoltre contribuisce a superare la proposta di Olson di una razionalità di gruppo come somma delle razionalità individuali, pur mantenendo al centro dell’osservazione l’individuo razionalmente
calcolante.
L’attore inserito
nel gruppo rifonda, secondo Pizzorno, la propria razionalità di individuo in una diversa razionalità, più ampia e complessa, che risponde ai canoni dell’identità collettiva e che modifica i criteri personali del calcolo costi-benefici, consentendo inoltre di prevedere gli effetti dell’azione nel lungo periodo. La necessità della continuità di un’identità collettiva è confermata dall’analisi di Oberschall [1973] che, partendo dalla critica che abbiamo già illustrato della teoria della società di massa, ipotizza che le esperienze organizzative e le identità precedenti l’azione facilitino il coinvolgimento, cost come la disponibilità di risorse spendibili (tempo, denaro, competenze, esperienza, ecc.) elevi la propensione ad aderire all’azione collettiva (correlazione tra mobilitazione e fasi di sviluppo economico). La mobilitazione è dunque per Oberschall una pratica che coinvolge le componenti sociali non toccate da processi di disgregazione e, proprio per questa ragione, in grado di gestire in modo
278
congruente agli obiettivi le risorse organizzative di cui sono in possesso. La rete di legami relazionali ed organizzativi tessuta dalle appartenenze precedenti, l’identità collettiva, sostituisce l’idea di Olson dell’individuo singolo alle prese col tentativo di massimizzare i benefici personali. Ma se per Pizzorno è l’opportunità di ottenere benefici per il futuro che determina le modalità di comportamento nel presente, per Oberschall è il riconoscimento nel passato che consente l’utilizzo di appartenenze ed esperienze organizzative precedenti per la mobilitazione attuale [Lodi 19801981].
Il «chi» si mobilita dunque cambia: per Pizzorno sono i portatori di interessi esclusi a mobilitarsi per ottenere il riconoscimento della propria identità, mentre per Oberschall sono coloro che risultano legati ad appartenenze tradizionali o ad associazioni secondarie, basate su interessi specifici, ad avere le risorse necessarie per la mobilitazione. In ogni caso la partecipazione all’azione collettiva è facilitata dalla presenza di reti precedenti di appartenenza, che consentono l’utilizzo di canali di comunicazione abi-
tuali ed il riconoscimento degli interessi comuni: le diverse identità collettive preesistenti alla mobilitazione vengono rifuse dalla mobilitazione stessa nella creazione di una nuova identità collettiva [Alberoni 1968]. La seconda ipotesi di Oberschall suggerisce che la segmentazione sociale, vale a dire la distanza e la scarsa mobilità tra i gruppi presenti nelle società, facilita la mobilitazione. La mobilitazione dunque avviene pi facilmente in strutture sociali in cui l’esistenza di forti separazioni consente una più agevole identificazione dell’avversario e una più rapida focalizzazione del conflitto. Ma, al di là del fatto che tali separazioni possono anche soffocare la portata dell’azione collettiva, appare difficile che le due ipotesi di Oberschall si possano contemporaneamente verificare, se non in casi particolari, in cui alla presenza di conflitti palesi si affianchi il permanere di appartenenze primarie o tradizionali, come nel caso dei movimenti a base etnica [Melucci e Diani 1983]. Nelle società avanzate infatti, caratterizzate dalla complessità crescente e dal moltiplicarsi dei canali e/o delle opportunità di mobilità individuale o di gruppo, la visibilità dell'avversario tende ad azzerarsi, mentre operano in modo massiccio i meccanismi di occultamento delle contraddizioni e dei potenziali conflitti [Lodi
1980-1981].
iti
4
La difficile identificazione di un avversario, il frantumarsi del conflitto, la creazione di canali di mobilità individuale, che assor-
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bono parte della spinta all’azione [Hirschman 1982], e i meccanismi di esclusione dal sistema politico e dal mercato del lavoro riducono i margini di facilitazione e le risorse spendibili dai potenziali attori per la mobilitazione. Tuttavia non va dimenticato che situazioni strutturali ed organizzative che implichino una certa «chiusura» facilitano la coesione tra gli individui che le sperimentano [Useem 1975]. Questo elemento può rivelarsi essen-
ziale per lo sviluppo di una solidarietà innovativa come risorsa fondamentale per agire collettivamente: un esempio è fornito dal ruolo di crogiolo che le strutture scolastiche hanno giocato nell’amalgamare le appartenenze giovanili. Un ulteriore contributo di Oberschall è l’affermazione che gli stessi fattori che operano per una rapida mobilitazione possono essere, in mutate contingenze, elementi che conducono al dissolversi dell’azione collettiva: le appartenenze precedenti o le precedenti esperienze organizzative ad esempio, che, come si è visto, facilitano il processo mobilitativo, possono diventare fattori disgreganti. Soprattutto quando il loro numero è consistente, esse pongono infatti ad un movimento, che deve ottenere una soglia minima di unità per la sua azione, continui problemi di integrazione. I fattori che facilitano o che possono ostacolare l’azione collettiva sono in senso proprio oggetto dell’approccio alla mobilitazione in termini di resource management o di resource mobilization. Tale approccio considera l’azione collettiva come consumo, produzione, scambio di risorse tra gruppi organizzati (comprese le agenzie del controllo sociale), ma anche come lotta per benefici collettivi considerati come risorsa scarsa. Mobilitazione, organizzazione, formazione della leadership sono elementi dell'agire collettivo che vengono analizzati in termini di gestione delle risotse, sulla base dei rapporti stabilitisi tra gli attori; essi compiono un calcolo razionale del rapporto tra costi e benefici, e scelgono una modalità d’azione basata sulla valuta-
zione di una gamma di possibilità e dei loro effetti. L'analisi della mobilitazione in questo filone di ricerca consente di superare definitivamente la concezione dell’azione collettiva come condotta irrazionale, sottolineando invece, nell’assunzione della proposta di Olson, la centralità dei meccanismi razionali di presa delle decisioni, di calcolo e previsione degli effetti dell’azione.
? Per un dibattito sul modello exit-voice di Hirschman si veda: chman [1974], Tajfel [1975], Maters [1976], Gallino e Zamagni [1983].
280
Hirs-
. L’enfasi sulle risorse disponibili per l’azione collettiva (esperienze precedenti, disponibilità finanziarie, capacità organizzative, coesione, tempo a disposizione dei partecipanti, numero potenziale dei soggetti mobilitabili) non nega necessariamente la possibile esistenza di una tensione strutturale o di insoddisfazione o malcontento. Sottolinea invece le condizioni strutturali che facilitano l’espressione di tale insoddisfazione !9, ponendo contemporaneamente attenzione all’erogazione degli incentivi alla partecipazione, ai meccanismi di riduzione dei costi di tale partecipazione e agli eventuali benefici in termini di professionalità o carriera, che possono fornire la motivazione a partecipare ad un movimento.
Per ciò che riguarda la mobilitazione le ipotesi della resource mobilization si articolano attorno a sei punti!!: 7) all'aumento delle risorse circolanti nella società corrisponde un aumento delle risorse spendibili nell’azione collettiva; 7) esperienze organizzative, controllo sui mezzi di comunicazione, esistenza di canali di trasmissione per la domanda politica e scarsa pressione degli agenti del controllo sociale sono elementi che possono diminuire i costi individuali e di gruppo della mobilitazione; 177) nell’ambito di un’area di movimento, pit alto è il numero di risorse disponibili maggiori saranno le possibilità di costituzione di diversi gruppi, anche in competizione tra loro per aggiudicarsi tali risorse; iv) il coinvolgimento nella mobilitazione di individui reclutati singolarmente e senza precedenti esperienze organizzative implica il loro scarso apporto in termini di risorse; v) la adesione ad un’azione collettiva o ad un movimento è più facile che si ottenga attraverso le relazioni interpersonali (amicizia, parentela, ecc.) dei membri del movimento (le ipotesi della teoria del socia! network verranno trattate in seguito), ma tali relazioni in una fase
più avanzata della mobilitazione possono condurre ad intensi conflitti interpersonali, cost come le relazioni tra chi aderisce sulla base di una «convinzione», ed è quindi disponibile a differire nel tempo il momento dell’ottenimento del risultato, e chi ottiene i benefici dell’azione nell'immediato [Marx e Useem 1971]; vò) chi aderisce sulla base di una «convinzione» può inoltre far parte di
10 Per una discussione sui rapporti tra collective behavior e resource mobilization si veda: Turner [1981].
11 Per queste e altre ipotesi che riguardano principalmente la dimensione orga-
nizzativa dell’azione collettiva si veda: McCarthy-Zald
Berger [1978], Zald-McCarthy (a cura di) [1979].
281
[1973, 1977], Zald e
più gruppi proprio perché solitamente controlla pi risorse degli altri partecipanti e i suoi interessi e i suoi obiettivi o sono poco
calcolabili (non materiali) o ne può essere differita la soddisfazione: ci si aspetta dunque che il loro coinvolgimento nel gruppo sia meno forte, che siano disponibili al passaggio da un gruppo all’altro e al ritiro dell’adesione quando il bilancio tra costi e benefici risulti passivo. Per ciò che riguarda l'erogazione di incentivi alla partecipazione Bailis [1974] e Gamson [1975] hanno sottolineato l’impor-
tanza soprattutto di quelli materiali, che considera decisivi per l'ottenimento di un gruppi ampi e strutturati e quindi per azione !2. Il peso invece degli incentivi
Gamson in particolare forte coinvolgimento in il successo della loro selettivi di natura non
materiale, vale a dire solidaristici o affettivi, viene messo in evi-
denza da McCarthy e Zald [1977] soprattutto per ciò che riguarda i piccoli gruppi, che si mobilitano occasionalmente, su obiettivi specifici e che sono caratterizzati dalla durata relativamente breve dell’aggregazione !. Tornando ai temi inerenti le diverse modalità di adesione, Gamson opera una distinzione tra gruppi che perseguono obiettivi il cui raggiungimento consente una divisione dei benefici tra i membri e gruppi che mirano all'ottenimento di benefici anche o soltanto per i non partecipanti. Wilson [1973] e McCarthy e Zald [1977] sottolineano il rilievo che tale distinzione e quella relativa alle diverse modalità di adesione possono avere sia nella strutturazione dei legami tra i membri del gruppo, che nello sviluppo delle relazioni del gruppo con l’esterno: l’enfasi infatti su obiettivi «universalistici» o «non universalistici» [Gamson 1975] può implicare diverse modalità di adesione e/o un differente uso delle risorse (scelta del tipo di azione), generando di volta in volta gruppi esclusivi od inclusivi. Va osservato, per ciò che riguarda il tentativo di spiegare la partecipazione differenziale degli individui al processo di mobilitazione, che i teorici della resource mobilization hanno sviluppato
12 Per una discussione ed un approfondimento delle proposte di Gamson si veda: Steedly e Foley [1979], Goldstone [1980]. 13 Questo tipo di mobilitazione è tipico degli studenti o comunque di coloro che rapidamente sono in grado di adattare il tempo di cui dispongono ai bisogni del gruppo [McCarthy e Zald 1973]. L'incidenza e l’importanza di precedenti esperienze organizzative è ancor più importante in questi gruppi, ma conduce con maggior difficoltà a legami interpersonali che si protraggono, come partecipazione al movimento, al di là del raggiungimento dell’obiettivo.
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poco l’analisi dei processi di reclutamento e delle tecniche più o
meno efficaci a tale scopo [Zald e McCarthy 1979]. Tuttavia in
questa direzione si muove la prospettiva del socia/ network, che si basa sulla premessa che gli individui siano collocati in una rete di relazioni sociali in contesti formali e informali. Tale prospettiva suggerisce che la spiegazione dell’azione collettiva risieda in questa rete di relazioni e che dunque vada analizzato come esse influenzino il coinvolgimento iniziale nella mobilitazione e la successiva partecipazione al movimento [Wilson e Orum 1976]. La ragione per la quale alcuni individui e non altri si mobili-
tano può essere spiegata in larga misura, secondo Snow, Zurcher ed Ekland-Olson [1980], in base alla differente disponibilità strutturale, vale a dire sulla base delle risorse controllate nel
periodo immediatamente precedente la mobilitazione, delle relazioni interpersonali con alcuni membri del movimento o dal basso costo, in termini di rischi o di sanzioni in altre appartenenze, della partecipazione. L’esistenza di una rete di relazioni interpersonali tra i potenziali soggetti reclutabili e chi fa parte del movimento è l'elemento di maggior peso in questo quadro, ma, anche unito agli altri, non diventa condizione sufficiente per l'adesione all’azione collettiva. Indagare infatti quali siano i processi che conducono gli individui a mobilitarsi non può non rimandare alla dimensione delle motivazioni profonde !4 e all'analisi del vissuto collettivo, ma a questo proposito ci sembra qui sufficiente ricordare che in situazioni strutturali analoghe si creano le condizioni per l'emergere di una struttura motivazionale comune a diversi individui e le premesse per la loro coesione [Useem 1975]. Incontrarsi tra individui
differenti e riconoscere gli stessi vissuti come comuni sprigiona una solidarietà, carica di connotazioni affettive [Alberoni 1968, 1977], che facilita la creazione di gruppi e la partecipazione all’azione collettiva. L’enfasi sui momenti dell’«incontro» e del «riconoscimento» nelle fasi di «chi siamo» del nostro lavoro con i gruppi testimonia il ruolo centrale che questi momenti giocano nel processo di adesione ad un movimento. Ciò tuttavia non sminuisce, anzi completa, l'approccio in termini di socia! network e non smentisce l'affermazione che la possibilità di mobilitarsi sia anche funzione della disponibilità di tempo [McCarthy e Zald 1973; Darley e Batson 1973]. 14 Per un esempio di teoria della motivazione si veda: Weigert [1975], mentre per una discussione di problemi motivazionali legati all’azione collettiva si veda: Zygmunt [1972].
283
Ricordando che gli stessi elementi che facilitano la mobilitazione possono essere la causa della fine dello stesso processo, Gallino [1979] individua diversi fattori di facilitazione e di ostacolo
all’adesione ad un gruppo, alcuni dei quali ci sembrano particolarmente efficaci per i gruppi osservati, i cui membri hanno mostrato di essere soggetti di appartenenze plurime. Per ciò che riguarda gli elementi di facilitazione Gallino suggerisce che: 4) quanto pit gli individui si differenziano occupando molteplici posizioni e giocando ruoli diversi, tanto più diversificati e multipli risultano gli interessi e quindi più forte la spinta ad unirsi per esprimerli; 4) col moltiplicarsi dei ruoli giocati dall’individuo aumenta la consapevolezza della propria particolarità e con essa il desiderio-bisogno di un incontro con altri individui, che condividano e riconoscano dei vissuti comuni; c) si registra un aumento della libertà di ingresso e di uscita dai gruppi, cioè diminuisce il costo da pagare per essere ammesso o per abbandonare un gruppo, ciò conduce ad una tendenza verso un coinvolgimento di breve periodo; d) la gestione del tempo disponibile diventa più equilibrata e, anche quando il tempo di lavoro non si riduce, si libera una parte della risorsa tempo per altre attività e quindi anche per quella collettiva; e) aumenta cosf il tempo medio investito in più contesti, ma diminuisce quello massimo dedicato ad una sola appartenenza. Questi stessi fattori che spingono verso l’adesione a più gruppi implicano dei processi che possono condurre all’esaurirsi di un’esperienza di gruppo, infatti la pluralità delle appartenenze prevede una sorta di continua entrata e uscita, di «pendolarismo»,
dell’individuo da un’appartenenza all’altra. Inoltre non è detto che i bisogni espressi in ognuno di questi contesti siano coerenti tra loro: l'eventuale incoerenza, accoppiata all’impossibilità di stabilire un ordine di preferenza stabile degli interessi, porterebbe l'individuo a dover sostenere dei conflitti in qualcuno dei suoi ambiti. Ancora, il dover dividere il tempo disponibile tra diverse appartenenze ne aumenta il «costo marginale», rendendo instabile o intollerabile l'adesione ad un gruppo che richieda un impegno di tempo che vada oltre una soglia considerata equa dall’individuo. A volte tuttavia il prevalere della circolazione di incentivi selettivi di natura solidaristica nel gruppo allevia la tensione per ciò che riguarda l’uso del tempo: l'esempio di un uso del tempo apparentemente irrazionale, ma funzionale al tentativo di far prevalere 15 Per ciò che riguarda studenti e professionisti cfr.: McCarthy e Zald [1973].
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«lo stare bene insieme», nel gruppo di giovani osservato, va in questa direzione. Infine il sovrapporsi delle appartenenze aumenta la complessità per ciò che riguarda l’identificazione degli interessi e il calcolo individuale del rapporto globale tra rischi e ricompense, contribuendo a ridurre la stabilità, l’intensità e la durata dell’adesione ad un’azione collettiva. Questo percorso attraverso le diverse ipotesi riguardo l’azione collettiva sollecita una scelta e consente una sintesi delle costanti incontrate, nella prospettiva dell’osservazione empirica delle quattro aree di movimento. La riflessione teorica sulla mobilitazione negli anni Sessanta e Settanta ha rotto il muro delle certezze aprendo, anche se in maniera non sempre consapevole, un campo di interrogativi, che ci sembra si strutturi attorno a diversi poli problematici. î) Il ruolo che crisi o sviluppo giocano volta volta come fattori facilitanti o come ostacoli al processo di mobilitazione: se le fasi di sviluppo aumentano le risorse socialmente disponibili, quelle di crisi aumentano le tensioni in circolo nel sistema. ti) L'esistenza di canali di trasmissione della domanda politica, la scarsa pressione degli agenti del controllo sociale e l’accesso ai mezzi di comunicazione abbassano, sia per gli individui che per i gruppi, il prezzo della mobilitazione. Tuttavia ci si chiede se l’apertura del sistema politico sia condizione necessaria perché si verifichi un’azione collettiva. iti) Precedenti esperienze organizzative possono facilitare l’adesione e rendere l’individuo in grado di gestire in modo razionale le proprie risorse in vista del risultato. I soggetti che per primi si mobilitano non sono dunque gli sradicati, ma coloro che non sono colpiti da processi di disgregazione. Al tempo stesso tuttavia forti legami all’interno di un’organizzazione o di un gruppo possono ostacolare l'adesione ad un’azione collettiva che si sviluppi all’esterno di tale appartenenza. iv) Situazioni strutturali che consentono un alto grado di visi-
bilità dell’avversario e quindi la sua facile identificazione agevolano il processo di mobilitazione. Rimane aperto il problema di quali meccanismi diventino operanti in circostanze in cui tale visibilità diventa precaria. v) Nell'ipotesi che l'adesione all’azione collettiva sia facilitata
dalla disponibilità di tempo o dalla sua gestione più equilibrata, rimane da spiegare per quale ragione la parte di tempo liberata venga spesa nella mobilitazione collettiva e non per esempio in attività di tempo libero.
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vi) La differenziazione sociale implica il moltiplicarsi dei ruoli e degli interessi dell'individuo. Ciò può indurlo ad unirsi ad altri individui per esprimerli 0, inducendo un sentimento di irripetibilità della propria esperienza, spingerlo verso l’individualismo o, ancora, i unirsi ad altri per ottenere riconoscimento. vii) L'adesione degli individui alla mobilitazione sembra facilitata dall’esistenza di una rete di legami tra i potenziali soggetti reclutabili e imembri già mobilitati. Il peso e la misura tuttavia di tali legami vanno verificati a seconda dei gruppi sociali coinvolti nel percorso di aggregazione. viti) Se appare consistente l’ipotesi che la tendenza alla diminuzione del costo di entrata e di uscita dai gruppi faciliti il coinvolgimento, rimane da spiegare, sia per l’entrata che per l’uscita, cosa determini l'abbassamento del costo. Inoltre rimane aperto il
problema se tale tendenza svolge un ruolo facilitante nei confronti di un coinvolgimento in termini di instabilità, reversibilità, breve durata. Queste indicazioni e questi interrogativi guidano la nostra analisi empirica. Essa, a sua volta, potrà fornire degli elementi per riformulare i problemi che ci siamo posti fin qui. 2. La dimensione storica della mobilitazione collettiva
L’adozione di una prospettiva storica ha lo scopo di verificare la continuità e le fratture fra le forme storiche del conflitto sociale e quelle emergenti. In tale direzione ci sembra opportuno fornire una prima lettura delle mobilitazioni che, nella «forma movimento», si sono succedute a partire dagli anni Sessanta. Riferendoci anzitutto all’esperienza italiana, è possibile individuare un andamento a tre fasi: î) la prima coincide con le mobilitazioni triennio 1967-1969;
studentesche del
iî) la seconda comprende la mobilitazione femminista degli anni Settanta, il «movimento del ’77», le prime mobilitazioni antinucleari e su tematiche ambientali; iti) la terza, che sembra avviarsi, riguarda il «movimento per la
pace» degli anni Ottanta e un ciclo di mobilitazioni i cui attori sono ancora studenti, donne, ecologisti che però si aggregano in modo diverso rispetto ai due decenni precedenti. Questa periodizzazione permette di estrapolare tre modelli di azione: a) il primo emerge dalle mobilitazioni culminate nel ’68. Presuppone il rifiuto delle regole consolidate del sistema politico
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nella prospettiva di un uso «rivoluzionario» della politica. Comporta la definizione strategica di obiettivi di lungo periodo, la distinzione tra azione di massa e azione delle avanguardie, il prevalere dell’azione verso l’esterno. Anche se costituiscono una rottura radicale con l’apatia degli anni Cinquanta e con la professionalizzazione dell'agire politico propria delle democrazie parlamentari, questi tratti mostrano gli elementi di continuità con le forme storiche dell’azione collettiva; b) il secondo deriva dal ciclo conflittuale degli anni Settanta. Si fonda su una drastica riformulazione del concetto di politica: i fini vengono a coincidere con l’esperienza immediata del soggetto, i mezzi dipendono dalla sperimentazione di percorsi microsociali separati e «alternativi» rispetto al sistema istituzionale; le differenze tra azione interna e azione esterna si azzerano; i con-
flitti si spostano dal terreno politico a quello «culturale». Andamento ciclico di visibilità e di latenza, veloce ricambio degli obiettivi, verifica immediata degli effetti dell’azione sono gli esiti di tali strategie; c) il terzo è connesso alla fase attuale. Gli anni Ottanta delineano un contesto in cui i fini, se tornano a essere generali a fronte della settorialità-specificità del decennio precedente, non sono più definiti da criteri politico-ideologici. Sono fini che aggregano in base a scelte di natura etica, possiedono un forte potere evocativo, non dipendono dalla condizione sociale dell’attore ma dalle opzioni «culturali» che egli compie come individuo. La pace, la difesa dell'ambiente, la qualità della vita sono vissuti come obiettivi a termine, da praticare nel presente. Le mobilitazioni procedono per «campagne» [Melucci 1982, 226-229]; lo spontaneismo e la revocabilità dell’adesione si combinano con l’uso di strumenti organizzativi 24 hoc e come tali destinati a dissolversi con il finire della mobilitazione. L’individuazione di una sequenza cronologica e dei modelli sottostanti a queste tre fasi non presuppone né una tendenza evolutiva né l’automatismo dei passaggi. Piuttosto si assiste alla coesistenza di paradigmi diversi che in varie combinazioni convivono in un intreccio continuo tra vecchio e nuovo. In prospettiva la ri-
flessione sui movimenti dovrà interrogarsi sulle condizioni che favoriscono il riprodursi dell’uno o dell’altro ma va sottolineato fin d’ora che gli attori della mobilitazione sono consapevoli della difficoltà a definire e a definirsi in una prospettiva progressiva: no-future è uno slogan molto diffuso. La circolarità senza sbocco
del tardo-capitalismo, definita dalla compresenza di passato e di
presente, di centro e di periferia, di mutamento e di conserva-
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zione, si riflette in questo modo sui movimenti che lo percorrono !°. Con queste premesse, è possibile — a partire dall'esperienza italiana — individuare una precisa frattura fra le mobilitazioni degli anni Sessanta e quelle degli Ottanta: una definizione perentoria degli avversari, delle poste in gioco, del campo dell’azione per le une; una sorta di evaporazione dell’antagonismo, una indefinitezza degli obiettivi, una perdita di consistenza dell’avversario per le altre. Ciò corrisponde all’assunzione di schemi ideologici diversi: nel primo caso c’è un ritorno al marxismo-leninismo pit ortodosso, mentre nel secondo nulla si oppone al dispiegarsi degli effetti della complessità sociale in termini di frantumazione degli interessi e di moltiplicazione degli avversari. Viste in tale prospettiva, le innovazioni apportate dai movimenti degli anni Sessanta — e che hanno fatto giustamente parlare di «politica ridefinita» [Donolo 1968] — convivono con attese anacronistiche di mutamento totale e con rappresentazioni di avversari inequivocabili. La mobilitazione femminista e il movimento del ’77 intervengono radicalmente su tali certezze. Separatismo e affermazione della differenza sostituiscono i progetti di egemonia sociale; pratica dell’autocoscienza e valorizzazione del piccolo gruppo ridefiniscono le modalità di aggregazione. Forma e contenuto dell’in-
16 Con modalità diverse, tempi sfasati, frequenti sovrapposizioni, questi tre modelli sono riproposti dal complesso delle esperienze internazionali: se Berkeley ha anticipato il movimento studentesco, Woodstock ha anticipato Parco Lambro e il movimento del ’77; lo stereotipo delle bande spettacolari inglesi si ritrova ovungue il movimento delle donne è da sempre alla ricerca di una continuità non solo i tempo, ma anche di spazio; la lotta alnucleare deve confrontarsi in ogni paese con una logica trans-nazionale delle politiche energetiche. Inoltre le mobilitazioni per la pace degli anni Ottanta hanno mostrato un andamento generalizzabile sia nelle forme che nei contenuti: ovunque hanno visto il confluire di attori che si sono mobilitati per la prima volta (le nuove generazioni di studenti ad esempio) sia di attori che hanno utilizzato la pace per riconfermare una presenza Sondlitralie (ecologi, «alternativi», donne ad esempio). Mancano ricerche comparative organiche, diamo di seguito alcuni riferimenti bibliografici per ogni situazione nazionale. Per gli Usa: Keniston [1972]; Yankelovich [1974]; Altbach e Laufer (a cura di) [1972]; Oberschall [1978]; Segall e Pickett [1979]; Freeman [1983]. Per l’Inghilterra: Hall e Jefferson [1976]; Willis [1978]; Hebdige [1979]; Piccone Stella [1982]. Per la Francia: Touraine e altri [1978]; Castels e altri [1978]; Touraine e altri [1980]; Della Porta [1981]. Per la Germania occidentale e il Nord Europa: Bruckner [1982]; Tarozzi [1982]; Collotti [1982]; Rampini [1981]; Colosio, Crespi
e Vitali [1982]; Barbi [1982]. Per il movimento per la pace: Rampini [1982]; Bacelli e Della Croce [1982]; Isernia [1983]; Hegedus [1983]. Per un confronto a livello internazionale che sottolinea la diversità tra i diversi contesti nazionali: Beccalli [1981].
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tervento politico extra-istituzionale cambiano di conseguenza, delineando strategie di azione che gli sviluppi successivi (nello specifico dal 1981 in poi) chiariscono e rendono esplicite. In questa ricostruzione, le mobilitazioni degli anni Settanta vengono a porsi come cerniera tra il tentativo di ridefinire il politico a partire dalla politica, effettuato nel corso degli anni Sessanta, e il ten-
tativo di convivere con il politico nonostante la politica, tipico di questi ultimi tre anni. Questo ruolo di cerniera è particolarmente evidente nel continuo alternarsi di visibilità e di latenza. Già le prime mobilitazioni femministe, quelle giovanili del ’77 e quelle del nascente movimento antinucleare, mostrano la scelta di agire al doppio livello del visibile e del sommerso, scelta che verrà confermata e ulteriormente accentuata agli inizi degli anni Ottanta. Tutte queste esperienze da un lato si fondano su una miriade di microaggreazioni che agiscono separatamente, dall’altro cominciano a utiizzare i momenti di massa in modo puntuale [Melucci 1982, 166
ss.]}. Analizzando la «campagna per l’aborto» degli anni 1974-1975 si osserva come il movimento femminista gestisce i ponti interventi agendo su diversi piani contemporaneamente: a ivello sotterraneo si attiva un complesso di microstrutture che autogestiscono la pratica abortiva organizzandola all’estero o praticandola direttamente; a livello istituzionale realizzando un rapporto organico con le componenti femminili dei partiti intenzionate a sostenere la legge; a livello di mobilitazione esterna concertando le manifestazioni in relazione all'andamento dell’iter legislativo [Ergas 1980]. Ritroviamo la stessa pluralità dei piani di intervento nella logica con cui ha operato il movimento giovanile nella seconda metà degli anni Settanta. Anche in questo caso ci si trova di fronte anzitutto a un insieme frammentato di «collettivi» che agiscono in vario modo nelle pieghe dello spazio metropolitano: riferendosi all’Università come nel caso di Roma e Bologna oppure a strutture quali Centri Sociali o Circoli Giovanili come nel caso di Milano e Torino. Questi segmenti si riaggregano su obiettivi unificanti di varia natura: dalle «campagne di autoriduzione» (degli affitti, degli spettacoli, dei servizi pubblici, ecc.) al nuovo ciclo di manifestazioni di massa che si apre a Milano con «assalto alla Scala» del Dicembre 1976, si sviluppa lungo tutto il 1977 come mobilitazione studentesca prima e giovanile poi, e si conclude in coincidenza con il rapimento Moro agli inizi del 1978. Lo stesso andamento è delineato dal movimento antinucleare-ecologista di quegli anni. Prima l’esperienza di Seveso, poi quella di Caorso e di Montalto di Castro, mostrano come la disseminazione
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del movimento in nuclei periferici e il loro riferimento ideologico-operativo al territorio convivono con la dimensione coordinata e di massa assunta nelle occasioni menzionate. A questo punto si pone la domanda se queste modalità di azione siano necessariamente percorsi di crisi oppure se non costi-
tuiscano sintomi di un processo di trasformazione in atto. L’assenza di visibilità è di per sé indizio di estinzione-sconfitta di un movimento o al contrario mostra come i movimenti contempo-
ranei siano destinati ad accentuare la discontinuità del loro andamento? Questa loro ciclicità va assunta solo come propensione alla fragilità e al rapido esaurimento o segnala l’emergere di nuove modalità di azione collettiva? Questa seconda ipotesi — più vicina alle ipotesi generali della ricerca — è rafforzata dal fatto che i cambiamenti intervenuti nelle società occidentali a seguito delle «crisi» economica e di consenso cumulatesi alla fine degli anni Sessanta, mutano radicalmente lo spazio sociale in cui questi movimenti si trovano ad agire. «Politicizzazione del sociale» e «socializzazione della politica» [Donolo e Fichera 1981] definiscono i termini di tali trasformazioni e ne segnalano la natura profonda e molecolare. La riproduzione cessa definitivamente di essere una sfera residuale rispetto alla produzione e assume un’autonomia propria in grado di determinare identità e conflitti collettivi. I gruppi sociali coinvolti in questi processi diventano attori di mobilitazioni mutevoli e diffuse che mettono in crisi i nuovi assetti istituzionali e delineano una situazione di endemica conflittualità. A fronte di mutamenti tanto radicali, che hanno come esito
l'articolazione del tessuto sociale oltre che di quello produttivo e istituzionale,
ci sembra insufficiente
assumere
come
unico
modello di mobilitazione quello definito dall’esperienza storica dell’industrialismo e dei conflitti che lo hanno accompagnato. Descrivendo le forme «moderne» di violenza collettiva, che nel suo schema si contrappongono a quelle «primitive» e a quelle «reazionarie», Tilly [1976] individua gli elementi fondanti di questo modello nell’affermazione dello Stato-Nazione e nello sviluppo di associazioni specializzate quali i partiti politici e i sindacati. Il passaggio da una organizzazione sociale a base comunitaria a una di tipo associativo trasforma le modalità con cui le classi subalterne praticano l’azione collettiva. Alla rete di rapporti e comunicazioni personalizzati e immediati che strutturano la mobilitazione nella fase pre-industriale, si sostituisce un complesso di istituzioni volte al conseguimento di obiettivi specifici e sempre più sofisticate dal punto di vista organizzativo. Questo
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passaggio è per altro funzionale alle trasformazioni intervenute nella natura degli attori che si mobilitano e dei loro obiettivi. Gli avversari non sono più lo Stato in formazione che si confronta con frammenti periferici di società globale, ma due classi che si contrappongono sulla base di progetti sociali opposti. In parallelo gli obiettivi perdono il carattere difensivo di tutela di diritti già goduti per assumere un carattere offensivo di affermazione di diritti non ancora riconosciuti. In questo modo le dimensioni di massa assunte dal conflitto sociale vengono adattate alla espressione di domande politiche ancora negate nella loro legittimità: la mobilitazione collettiva diviene una risorsa primaria per le classi e i gruppi sociali privi di cittadinanza, da coordinare all’azione svolta dai loro rappresentanti a livello istituzionale. La cesura prodotta dal processo di industrializzazione determina quindi il passaggio da un uso spontaneo e occasionale della mobilitazione (coerente allo strutturarsi dei suoi attori su solidarietà primarie, decentrate sul territorio, di tipo comunitario) a un suo uso razionalizzato e programmato
(coerente alle solidarietà
realizzate nel processo produttivo, concentrate nelle aree urbane, di massa). Questo modello di mobilitazione è quindi correlato alla conformazione democratico-parlamentare delle società occidentali. Come tale continua a essere ampiamente egemone. Tuttavia l’analisi di Tilly chiarisce il suo carattere storicamente determinato. Nel momento in cui va emergendo l’insufficienza di questi meccanismi politici a governare le trasformazioni post-industriali, si determinano le condizioni per la ricerca di modelli più rispondenti ai bisogni di «nuovi» attori sociali. 3. Un nuovo spazio di mobilitazione collettiva? Nell'ipotesi di una costante interdipendenza tra le strategie degli attori sociali e la conformazione del «campo dell’azione» [Zald 1970; Touraine 1973; Crozier e Friedberg 1978], si tratta
ora di stabilire i possibili collegamenti tra le forme emergenti di azione collettiva e il funzionamento delle società complesse. Oltre a nuove strategie a livello sistemico [Luhmann 1979], l'aumento di complessità sociale determina infatti specifiche modalità di azione da parte degli attori più direttamente coinvolti nei processi del cambiamento. Questo insorgere di conflitti che sfuggono alle categorie tradizionali si accompagna al manifestarsi dei sintomi di un nuovo spazio sociale che si va consolidando all’incrocio dei
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meccanismi fondamentali che regolano le società occidentali. Ancora senza nome, questo spazio d’azione travalica gli ambiti definiti dalla divisione del lavoro, dalle norme del sistema politico, dai valori che conformano i ruoli sociali, anche se in ognuno
trova le occasioni «strutturali» per manifestarsi. Nonostante i suoi confini rimangano indefiniti, le analisi contemporanee cominciano a delineare i caratteri di questo spazio in costituzione. Touraine [1975] indica un nuovo terreno sociale
definito dalla compenetrazione tra «vita pubblica» e «vita privata». I rapporti protetti dalla tradizione si trovano di conseguenza collocati al centro del conflitto sociale. Da parte delle componenti più esposte agli effetti della manipolazione tecnocratica, si determina in risposta una opposizione di tipo «globale» in quanto fondata su comunità socio-territoriali e non più sui ruoli mediati dal processo produttivo. Cosf è per l’attuale condizione studentesca: «Gli studenti giocano un ruolo importante solo perché l'aumento del loro numero e il prolungamento della durata degli studi hanno creato delle collettività studentesche che occupano uno spazio proprio; gli studenti oppongono la resistenza della loro cultura e delle loro preoccupazioni personali allo spazio delle grandi organizzazioni che viene loro imposto in maniera sempre più diretta» [Touraine 1975, 159]. Un altro supporto all’ipotesi del costituirsi di un nuovo spazio sociale viene dalle analisi dei mutamenti intervenuti nei processi di rappresentanza nel secondo dopoguerra. Secondo Pizzorno, per bilanciare (e controllare) la marginalità dei settori «arretrati» prodotta dal modello di sviluppo adottato dalle società occidentali, è stato necessario l’intervento assistenziale dello Stato. Da qui l’attivazione di un nuovo canale di rappresentanza («canale assistenziale alla rappresentanza») che presenta proprie regole di funzionamento e si affianca a quelli tradizionali fondati sui partiti politici e i gruppi d’interesse. La vulnerabilità dei sistemi pluralisti alle «nuove entrate» e la contestuale politicizzazione di queste aree di marginalità, sollecitano i gruppi esclusi ad agire collettivamente per penetrare nei canali ufficiali della rappresentanza. Ciò spiega l'emergere di continue mobilitazioni a base generazionale, biologica, culturale [Pizzorno 1983]. Altre analisi segnalano la crescente importanza dei processi di
costituzione dell’identità nelle società avanzate [Melucci 1977, 1982]. I «nuovi movimenti» costituiscono una delle risposte possibili alla crescente tensione tra definizioni interne e definizioni esterne dell'identità in quanto: «... offrono agli individui la possibilità collettiva di affermarsi come attori e di trovare un equilibrio
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tra auto-riconoscimento ed etero-riconoscimento. Luogo dell’azione e luogo della solidarietà essi permettono, nello spazio e nel tempo dell’agire collettivo, di dar nome e coerenza ai diversi poli dell’identità» [Melucci 1982,72]. Se questi riferimenti rafforzano l’ipotesi di uno spazio sociale emergente, consentono anche di delineare i tratti essenziali delle mobilitazioni che lo traversano: a) globalità b) collocazione dentro-fuori il sistema di rappresentanza c) continuità tra identità individuale e identità collettiva. Questi caratteri rimandano alle forme pre-industriali del conflitto sociale. Ciò tuttavia non autorizza a leggere questi fenomeni in una prospettiva regressiva come ha fatto ad esempio Habermas di recente [1980, 1981]. Il recupero degli elementi «pre-moderni» dell’aggregazione costituisce invece la strategia che questi attori scelgono per operare in sistemi che hanno annullato discriminanti
certe tra mutamento e conservazione, tra sviluppo e stagnazione. a) Affermare la globalità significa — nell’ideologia di questi
movimenti — agire come soggettività integrali e non sulla base dei ruoli definiti dal processo produttivo e/o dalle norme istituzionali. La globalità oggi affermata non è però quella dei fini come negli anni Sessanta: il disincanto ha annullato aspettative finalistiche a favore di azioni immediate e a termine. Persi i caratteri assoluti, è
focalizzata sul presente, funziona da fattore aggregante a termine, è sempre rinnovabile. Convive inoltre con quel sistema di appartenenze plurime che questi attori realizzano passando da un’«associazione» a un’altra e che costituisce la forma di adattamento dell’azione collettiva alla complessità sociale [Gallino 1979]. Infine consente di abbinare le possibilità di autorealizzazione offerte da sistemi sempre più ‘articolati a momenti autoprogettati di integrazione dell’esperienza. I rischi della differenziazione e della complessità in termini di anomia e di perdita di identità sono attenuati dalla pratica di azioni collettive che permettono di riconoscerne immediatamente gli effetti interni ed esterni. Se la differenziazione del sociale determina il bisogno di scelte di ricomposizione e la sua complessità spinge alla ricerca di momenti di semplificazione, il gruppo-comunità restituisce una unità evidente e condivisa che coinvolge tutte le dimensioni dell’individuo. Questa rimane tuttavia una tra le molteplici appartenenze che egli realizza nel suo quotidiano a causa di quegli «effetti dissociativi dei processi associativi» che connotano l’esperienza sociale contemporanea. b) Dentro-fuori il sistema di rappresentanza perché se è vero che esistono canali appositi per rappresentare la «marginalità» è sempre
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più problematico oggi distinguere tra centralità e esclusione. Le mobilitazioni di questi decenni hanno coinvolto molte componenti marginali che in qualche modo hanno ottenuto cittadinanza e riconoscimento degli interessi. Inoltre la diffusione delle politiche assistenziali e le varie forme di partecipazione, anche se irregolare, al mercato del lavoro hanno modificato forme e contenuti dei processi di emarginazione, attenuandone la percezione soggettiva e le
potenzialità conflittuali [Paci 1982, 221-252]. Questi
processi di natura strutturale contribuiscono a indirizzare le mobilitazioni degli anni Ottanta verso obiettivi che danno per acquisita una qualche forma di partecipazione al mercato politico. Insorgono pi facilmente per affermare un complesso di diritti non tutelati (e non tutelabili) dal sistema dei partiti e dei gruppi di interesse. A differenza degli anni Settanta, la mobilitazione non comporta una collocazione esterna al sistema politico ma il riconoscimento dei suoi limiti e il suo uso strumentale per quelle domande (o quei pezzi di domande) che la partecipazione allo scambio politico può soddisfare. In parallelo, continua la ricerca di canali di rappresentanza funzionali alle domande che quelli disponibili non possono accogliere. In questo senso si può parlare di ubiquità e di discrezionalità di questi movimenti; essi lavorano per costruire canali di rappresentanza più congeniali alla natura dei loro attori senza rinunciare all'utilizzo di quelli ufficiali: in questo si collocano dentro-fuori il sistema politico; decidono volta volta se e come ogni singola domanda “i «trattata» a livello di rappresentanza: in questo modo si riservano ampia discrezionalità di scelta e di funzionamento !. La sperimentazione di «nuove forme di azione collettiva» non esclude quindi (ma convive con) l’uso, per obiettivi 44 hoc, di un sistema di rappresentanza che da parte sua funziona in modo sempre più selettivo. Emerge quindi una distanza più che un’estraneità dal sistema politico, motivata dall’interesse concreto ad
17 Questa tendenza è particolarmente evidente nel recente dibattito apertosi nel movimento ecologista sull'opportunità di presentare «liste verdi» in Italia. Si prospettano due possibilità: presentazione di liste proprie (le liste verdi appunto); presentazione di candidati propri, dove c’è la capacità di autogestire la candidatura, in liste di partiti tradizionali. Va sottolineato che, a livello del movimento nel suo complesso, le due scelte sono compatibili e consentono di fruire del vecchio e del nuovo modo di far politica. Le due strategie sono accomunate inoltre dalla ricerca comune di forme di rappresentanza per le quali il candidato potrà esprimersi solo a nome personale e operare solo per la realizzazione dell’obiettivo specifico per cui è stato designato.
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assicurarsi quelle facilitazioni istituzionali cui movimenti cosf disarticolati ed eterogenei non possono rinunciare. Questo confronto distanziato serve a garantirsi quelle risorse di autonomia che consentono la praticabilità di mobilitazioni discontinue e relativamente strutturate !8.
c) Anche la coincidenza tra identità individuale e identità collettiva vede una articolazione dei piani d’intervento. Il richiamo a ideologie in senso forte negli anni Sessanta, il riferimento ad appartenenze specifiche (lo «specifico femminile», lo «specifico giovanile» ecc.) nei Settanta avevano favorito un’identificazione totalizzante dell’individuo con l’identità collettiva emergente. Si è già constatato che i processi di marginalizzazione sono andati perdendo visibilità e continuità. L’accento sull’alterità e sul separatismo perde dunque il suo supporto strutturale: l’esasperazione della differenza come scelta strategica regge finché corrisponde a una diversità e a una emarginazione reali di chi la pratica. Inoltre gli attori collettivi devono oggi tener conto delle appartenenze plurime, mutevoli, sovrapposte che articolano la base di un movimento. Sommandosi, questi due processi fanno emergere, accanto alla differenza fondamentale che oppone il movimento all’esterno, le differenze che lo attraversano. Lo scontro permanente e non negoziabile col sistema è sostituito dalla ricerca di un confronto allargato anche se a distanza. Le mobilitazioni degli anni Ottanta si centrano di conseguenza su obiettivi universalistici e a termine, si fondano su appartenenze eterogenee, prevedono forme di organizzazione transitorie. L’alternarsi di visibilità e di latenza consente di misurarsi con l’esterno e fruire contemporaneamente delle risorse di solidarietà immediata nel piccolo gruppo e nella partecipazione diretta. E questo il modo per tenere insieme identità definite più culturalmente che strutturalmente, per far coincidere identità individuali e identità collettive sempre più articolate, per confrontarsi con la differenza che dall’esterno è penetrata nell’area della solidarietà. Questa conformazione non dipende da una maggiore tolleranza dei movimenti attuali rispetto ai precedenti ma dalla sua funzionalità per l’espressione dei conflitti «post-industriali» in 18 Il movimento per la pace conferma tale strategia: il supporto di base è stato delegato e assunto da organizzazioni preesistenti (partiti politici, sindacati, ARCI, associazioni cattoliche). Potendo contare su queste strutture, il movimento si è potuto coagulare combinando le proprie capacità di diffusione con un apparato organizzativo più o meno interno — secondo le occasioni — che ne ha garantito la rapida mobilitazione nelle varie scadenze che il movimento si è dato.
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società che ridefiniscono in continuazione appartenenze, identità, interessi. La differenza continua a riguardare l'esterno e a rappresentare una risorsa primaria per la solidarietà, ma permette anche di riconoscere avversari nelle sfere più ravvicinate dell’esperienza individuale e collettiva. Questi attori comprendono il potenziale di arricchimento connesso alle diversità interne. Cercano di integrarle senza smettere di confrontarsi con i vincoli strategico-organizzativi che l’azione collettiva in società di massa comporta. Il condividere lo stesso fine non significa per loro ricercare l’uguaglianza a tutti i livelli: non solo per il «paradosso del grande numero» [Olson 1968], ma anche per la rinuncia ad essere uguali «per essenza». Verificando di condividere interessi a termine, questi attori riconoscono opportuno (oltre che inevitabile) l'emergere
delle differenze interne come sottintende lo slogan «un movimento di singoli». L’insieme di questi elementi definisce alcuni dei caratteri peculiari delle forme di mobilitazione emergenti: obiettivi definiti culturalmente; adesione spontanea, intensa, individuale; aggregazione a termine; organizzazione transitoria; partecipazione espressiva; eterogeneità delle componenti; continuità tra visibilità e latenza; scontro-confronto col sistema politico.
Il riferimento ai dati empirici consente ora di verificare come queste tendenze intervengano sul «per che cosa», sul «chi» e sul «come» della mobilitazione nella realtà delle aree di movimento
indagate dalla ricerca.
4. Forme di mobilitazione nelle aree di movimento
a) Relativamente al «per che cosa» questi attori si mobilitano, le quattro aree pongono un primo problema. Infatti sono messe a confronto due diverse situazioni: da un lato l’area delle donne e quella dei giovani che si basano su una specifica condizione definita da caratteri di tipo primario (sesso e età); dall’altro quella degli ecologisti e della nuova coscienza che fanno riferimento a un orientamento condiviso di tipo culturale, esito di una scelta attiva. Cosa emerge da tale confronto? In estrema sintesi si può affermare che le mobilitazioni analizzate avvengano sempre meno a partire da una condizione e sempre più a partire da una convinzione. Questa ipotesi non è sostenuta solo dal fatto che le mobilitazioni pit consistenti si svolgono oggi su temi ecologico-pacifisti, ma anche dal fatto che all’interno delle aree di movimento più segnate da fattori ascrittivi si nota uno slittamento in senso culturale.
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Nello specifico si osserva anzitutto che le mobilitazioni a base giovanile si sono spostate su obiettivi di carattere intergenerazionale. A cominciare dalla partecipazione studentesca al «movimento per la pace» del 1981, esse esprimono l’uscita dagli schemi ideologici che hanno caratterizzato il movimento giovanile nel corso degli anni Settanta. L’equazione giovane = emarginato ha portato a scelte ghettizzanti e a quel «rifiuto della politica» che ha determinato l’isolamento del movimento. Dopo gli esiti negativi di tali strategie, sta ora emergendo una presenza diversa dei giovani nel sociale. La «cultura del disincanto» ha significato non solo la presa di distanza dalle utopie globali degli anni Sessanta, ma anche da quelle meno strutturate ma ugualmente totalizzanti del decennio successivo. Il rifiuto di rappresentazioni ideologiche che in breve sono diventate stereotipi, induce i «giovani» a mobilitarsi oggi su temi di carattere generale e aspecifico come appunto la pace o, più di recente, la lotta alla delinquenza organizzata. La scelta di obiettivi che pongono in secondo piano la qualifica generazionale si accompagna a un’attenzione costante ai rischi della cooptazione. Il rientro dei giovani nel sistema politico non significa infatti l'accettazione tout-court delle sue regole. Al contrario, le mobilitazioni del triennio 1981-1983 mostrano una strategia che possiamo definire di presenza condizionata: nel momento in cui vengono privilegiati obiettivi universalistici, vengono posti limiti precisi a tale scelta. Da un lato il fine della mobilitazione non è più la riaffermazione di uno specifico definito dall’appartenenza generazionale, dall’altro l’accettazione di obiettivi generali si coniuga al rifiuto di qualsiasi egemonia sia interna che esterna. Se negli anni Sessanta e Settanta il movimento giovanile aveva rivendicato l’assoluta discrezionalità dei tempi, dei contenuti e delle modalità dell’azione, i giovani che si mobilitano oggi sono disponibili a confrontarsi con scadenze e temi proposti dall'esterno. Ciò che rifiutano è l’uso strumentale della loro partecipazione. Questo rischio (non facile da evitare) è attenuato anzi-
tutto dalla natura etico-culturale dell'adesione che consente l'estrema disinvoltura con cui questi attori ridefiniscono i loro interessi; inoltre da quella «reversibilità delle scelte» che caratterizza i loro comportamenti [Ricolfi e Sciolla 1981; Sciolla 1982] e
che riduce al minimo il condizionamento esterno; infine da quel sistema di appartenenze plurime che mantiene una distanza critica tra l’attore e il fine dell’azione sufficiente a impedire scelte ideologiche irrevocabili.
29%
Anche se per il movimento delle donne non è ovviamente possibile parlare di spostamento su obiettivi di carattere intersessuale, per analogia con gli obiettivi intergenerazionali indicati nel caso dei giovani, rimane il fatto che le più recenti mobilitazioni a base femminile evidenziano l'abbandono di tematiche prettamente sessiste. Anzitutto, e in termini più generali, da tempo il movimento delle donne ha sviluppato una sensibilità particolare al tema della differenza. Ciò ha significato la scelta di confrontarsi collettivamente non solo con la «società maschile», ma anche con i conflitti e le contraddizioni che traversano l’universo femminile. Da qui il superamento del femminismo storico e delle ipotesi separatiste che hanno caratterizzato gli anni Settanta.
Tale ridefinizione degli orientamenti ideologici si è di recente
concretizzata
nella continuità creatasi tra alcune componenti
significative del movimento delle donne e il movimento per la pace degli anni Ottanta. La mobilitazione dell’8 marzo 1982, egemonizzata dai gruppi più chiaramente connotati in senso politico-ideologico, si è svolta all'insegna dello slogan «facciamo scoppiare la pace»; in alcune situazioni locali come in Veneto, si sono costituiti e mobilitati gruppi pacifisti formati da sole donne; Comiso ha riproposto le stesse modalità e le stesse protagoniste (cioè donne) della precedente «azione diretta» di Greenham Common attuata appunto da gruppi di pacifiste inglesi. La pace appare dunque un nuovo campo di azione anche se probabilmente di natura congiunturale. Si tratta chiaramente di una posta in gioco che va oltre lo «specifico femminile» nonostante le donne possano a buon titolo rivendicarla in opposizione alla storia maschile. D'altra parte i dati della ricerca mettono in evidenza come anche il dibattito su alcune delle questioni che tradizionalmente conformano l’azione e la riflessione in quest'area rimandi a temi più generali, comuni alle altre aree di movimento. «Nuova professionalità», rapporto con le istituzioni, uso della rappresentanza sono problemi dibattuti dalle donne, ma anche all’interno delle aggregazioni giovanili e dei gruppi ecologisti. I temi in grado di suscitare azioni collettive visibili da parte delle donne sono quindi da un lato legati a obiettivi universalistici che però, come la pace, consentono di riproporre una presa di posizione specifica; dall’altro sono connessi alla condizione femminile. La mobilitazione tende a concentrarsi su scadenze generali (8 marzo
movimento
ad es.) in cui confluiscono obiettivi tradizionali del
(occupazione femminile, servizi sociali, parità ses-
suale, ecc.) e questioni emergenti (come l’emendamento Casini
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alla legge contro la violenza sessuale o le scelte di politica sociale attuate dal governo). Parallelamente all’azione di massa continua l’attività più sotterranea fondata sul piccolo gruppo e centrata su obiettivi sempre più differenziati ed eterogenei: gruppi di scrittura, gruppi professionali, gruppi di se/f-he/p, gruppi legati a iniziative territoriali, ecc.
Due sono quindi le tendenze che differenziano la fase attuale dalle precedenti: î) negli anni Settanta il movimento delle donne è stato volta volta proiettato verso l’esterno o rivolto al proprio interno; gli anni Ottanta vedono la continuità immediata dei due momenti e il sovrapporsi di appartenenze diverse ma concomitanti (ad esempio: le donne che si mobilitano per la pace e/o per l’ambiente possono far parte contemporaneamente di gruppi di donne estranei a tali problematiche); ii) negli anni Settanta il tema dell’auto-coscienza tiene insieme l'universo formalmente disarticolato dei «collettivi femministi»; negli Ottanta il movimento si diversifica anche sulla base dei contenuti senza tuttavia disgregarsi. Ogni gruppo procede per scelte autonome e ritrova una dimensione di massa o in occasioni prestabilite (l’8 marzo) oppure in risposta a un'iniziativa clamorosa, e quindi unificante, del-
l'avversario (ad esempio il corteo del 5 febbraio 1983 contro l'emendamento Casini). Le altre due aree analizzate (ecologi e neo-religiosi) sembrano
confermare il progressivo spostamento dei movimenti contemporanei verso obiettivi sempre meno definiti dal riferimento a una condizione sociale senza per questo assumere i caratteri della marginalità controculturale. Prescindendo dai contenuti propri dell’azione, le mobilita-
zioni dell’area ecologico-ambientalista mostrano in particolare il tentativo di sperimentare forme di rappresentanza politica che tengano conto dei mutamenti intervenuti nelle società complesse. Come si è visto, le forme tradizionali si basano su una precisa divisione funzionale tra rappresentanti e rappresentati: i primi operano a livello istituzionale e controllano le azioni di massa che devono sostenere le varie fasi dello scambio politico; i secondi utilizzano le risorse di pressione collettiva di cui dispongono in base al confronto tra i costi del mobilitarsi e i vantaggi materiali e psicologici che ne derivano [Olson 1968; Pizzorno 1977]. La diversa prospettiva temporale in cui operano i due gruppi (fini di lungo periodo i primi, fini di breve periodo i secondi) permette ai rappresentati di mobilitarsi al di fuori e contro le indicazioni dei rap-
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presentanti se si sentono danneggiati dalle loro scelte. I vertici devono allora riprendere contatto con gli interessi a breve termine espressi dalla base e ristabilire il collegamento tra centro e periferia. Ma lo spazio sociale in cui agiscono gli attori qui analizzati presenta una scarsa strutturazione dei ruoli che riduce la distanza tra azione al vertice e azione alla base. Ciò motiva la ricerca di forme di azione collettiva caratterizzate da una minore specializzazione dei ruoli e da una pit ampia intercambiabilità delle funzioni. In questa direzione si può osservare una progressiva trasfor-
mazione delle modalità con cui si sono mobilitati i gruppi ecologisti. Nel corso degli anni Settanta la mobilitazione risulta prevalentemente fondata sull’azione esterna di tipo pubblico-spettacolare e su un progetto di lungo periodo per il cambiamento complessivo e simultaneo del modello di sviluppo; di qui il frequente sovrapporsi all’azione della «Nuova Sinistra». L’inizio degli anni Ottanta vede il consolidamento di una strategia d’azione propria, rafforzato dall'esperienza nord-europea delle «liste verdi» che nel frattempo ha perso i tratti di un fenomeno congiunturale. Anche in quest'area di movimento sono le mobilitazioni per la pace a sancire una frattura con le fasi precedenti. La tendenziale confluenza che negli anni Ottanta avviene tra ecologismo e pacifismo mostra la continuità tra i due fenomeni. Essa riguarda non solo i contenuti ma anche il modo di mobilitarsi. Entrambi i movimenti agiscono al doppio livello della visibilità e della latenza: si fondano su micro-aggregazioni di tipo segmentato, reticolare, policefalo [Gerlach e Hine 1970; Gerlach 1976]; procedono per «campagne» che si rinnovano continuamente e si coagulano su
obiettivi puntuali, facilmente generalizzabili, ad alto contenuto simbolico. L’altra faccia di queste forme di mobilitazione è l’estrema eterogeneità dei partecipanti. Essendo l’identificazione con la posta in gioco una scelta circoscritta di natura culturale, l’adesione avviene più in funzione dell’obiettivo che in relazione a un progetto globale da condividere integralmente. Ciò assicura rapidità dell’aggregazione e diffusione del movimento ma prefigura contemporaneamente i rischi di un rapido esaurimento dell’azione esterna. Tale conformazione determina il carattere «anonimo» delle manifestazioni di massa: cortei, assemblee, meeting sono caratterizzati dall’assenza (o comunque dalla collocazione chiara-
mente delimitata) di sigle o altri riferimenti simbolici che alludono a precisi schieramenti politici. Questa scarsa connotazione ideologica favorisce la penetrazione del movimento in strati
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sociali anche molto eterogenei e la confluenza di appartenenze differenziate per età, sesso, provenienza sociale e ideologica. La capacità del movimento a darsi un’identità collettiva sufficientemente strutturata in grado di garantire l’integrazione anche nelle fasi di latenza contrasta quindi con la diffusione del movimento e l’adesione immediata degli attori. Lo strutturarsi di una rete sommersa di micro-aggregazioni puntuali ha la funzione di opporsi alla disgregazione totale del movimento. Funziona da referente per l'aggregazione nelle fasi di latenza, si attiva come catalizzatore della mobilitazione nelle fasi della visibilità. Quest'area dunque se presenta più di altre una spiccata propensione a sperimentare il nuovo, denuncia anche le contraddizioni insite nelle forme
emergenti di azione collettiva. Il procedere in base a una convinzione ha significato per il movimento ecologista portare ad esaurimento le forme di mobilitazione che come quelle praticate dai movimenti negli anni Sessanta e in parte anche nei Settanta appaiono formalmente innovative, ma condizionate dal modo tradizionale dell’agire politico. Anche quest'area mostra tuttavia come la pratica di modalità sperimentali a tutti i livelli sia oggi particolarmente difficile e contraddittoria. D'altra parte i gruppi ecologisti più di altri si muovono in riferimento ad obiettivi esterni: la natura degli avversari e delle poste in gioco limita la tendenza al ripiegamento interno e colloca la loro azione sul terreno direttamente politico. La compresenza di questi elementi (il prevalere della opzione culturale, l’intrinseco contenuto politico dell’azione) rende paradigmatica la conformazione di quest'area e assegna un significato esemplare agli esiti, in positivo e in negativo, della sua azione. L’area dei neo-religiosi offre un'immagine ingrandita delle conseguenze che derivano — sui processi di mobilitazione — dal finalizzare una quota consistente delle risorse collettive ai bisogni del gruppo e dell'individuo al suo interno. Se ci si riferisce al modello storico, la dimensione della mobilitazione sembra qui vicina alla soglia zero. La natura dell’area, che si può considerare di movimento solo in parte, accentua le difficoltà a far rientrare i comportamenti rilevati nelle categorie analitiche consolidate. Tuttavia essa mette in evidenza alcuni elementi comuni all’intero universo osservato: la valorizzazione del percorso individuale che va oltre la semplice riproposizione dell’individualismo della tradizione occidentale, la pratica nel presente dei segni del cambiamento, la dimensione ilhicdle dell’esperienza che al limite può coincidere con quella soggettiva. Le esigenze di visibilità attribuite alla natura stessa della mobilitazione collettiva sono
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ridimensionate. La fragilità dei movimenti contemporanei risulterebbe cosi aggravata dall’interesse relativo dei loro attori a presentarsi come realtà coese e immediatamente percepibili. I risultati della ricerca indicano invece che questa scelta è coerente e funzionale alla natura della aggregazione e degli interessi in gioco. Il loro carattere «culturale» focalizza le aspettative di identità non solo sugli esiti esterni, ma anche sulle modifiche interne all’individuo e al gruppo. Il mobilitarsi in funzione dell’esterno perde una parte i suo potenziale simbolico: se a livello di immagini gli avversari esterni convivono con gli «avversari dentro di noi», il valore liturgico delle uscite in pubblico non è maggiore di quello dei cerimoniali interni. I gruppi neo-religiosi portano al limite tali tendenze. Costantemente al confine tra solidarietà e individualità, tra testimonianza e azione collettiva, tra ripiegamento e apertura funzionano da termine di confronto per le altre aree: ciò che tra i giovani, le donne, gli ecologisti è latente e destinato spesso alla rimozione, tra i neo-religiosi è esplicitato, esibito, praticato. Il paradosso è evidente: sono i più interni quando rappresentano il non-detto delle altre situazioni, sono ai margini per la lontananza dalla dimensione «movimento». Se per le altre aree l’integrazione di strumentalità e espressione è ancora problematica, per questi gruppi la soluzione consiste nel perseguire un’efficacia non misurabile coi parametri convenzionali. La visibilità di tutti questi movimenti (sia rispetto a quelli storici che a quelli degli anni Sessanta e Settanta) è dunque inversamente proporzionale all'importanza assunta dall’attività interna di sperimentazione e di verifica circa le attitudini individuali e collettive verso il cambiamento. Ciò non significa rinuncia all’azione visibile ma piuttosto il suo adattamente ai bisogni interni dell’aggregazione. La continuità funzionale di visibilità e latenza ne è l’esito coerente, sostenuto dal fatto che la natura dei fini interrompe o comunque modifica il rapporto organico tra rappresentanti e rappresentati a favore di una autogestione dal basso degli effetti dell’azione.
b) L’agire a partire da una convinzione comporta l’allentarsi di quelle solidarietà immediata consentita dallo sperimentare quotiianamente la stessa condizione. E dunque necessario chiedersi come questo fatto incida sul «chi» si mobilita. Infatti da un lato i fenomeni collettivi qui analizzati si presentano come frammentati e disarticolati (e quindi particolarmente soggetti ai rischi della dispersione); dall’altro i dati della ricerca mostrano il continuo riemergere della mobilitazione anche se con un andamento mutevole e connotato dalla intercambiabilità degli attori.
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Il rischio della discontinuità e della disintegrazione tende a essere contenuto dal duplice livello a cui agiscono questi movimenti: la partecipazione diretta alle attività del gruppo di riferimento, per fruire delle risorse di identità consentite dalle sue imensioni sempre ridotte; la pratica di massa della mobilitazione esterna. Entrambi sono funzionali a obiettivi generali ma a termine, quindi facilmente condivisibili ma poco coesivi. Sul versante delle precondizioni che facilitano l’azione collettiva, tutte le analisi segnalano il ruolo primario che, nei processi di mobilitazione, svolgono le appartenenze e le esperienze aggregative precedenti. In proposito la ricerca presenta due situazioni
distinte: da un lato le nuove generazioni di studenti, dall’altro il complesso delle micro-aggregazioni formate da soggetti che hanno già fatto esperienze di militanza. Nel primo caso la permanenza a scuola svolge un ruolo primario di natura strutturale in quanto favorisce un'immediata percezione dell’identità collettiva anche nel momento in cui (come oggi) le poste in gioco si focalizzano su temi generali e aspecifici. Per la maggior parte di questi attori si tratta della prima occasione per conseguire un’identità collettiva mobilitandosi. L’assenza di esperienze precedenti rende importante le appartenenze generazionali: fasce d’età anche poco distanti (ad esempio i 14-15 anni rispetto ai 16-18) sonoin grado di incidere notevolmente sul quadro di riferimento. É quindi ricorrente il fatto che la funzione dirigente e organizzativa (con le caratteristiche proprie descritte nella monografia dedicata all’area giovani) sia di solito egemonizzata da soggetti che abbinano una qualche forma di militanza in corso o precedente (Fcci, Nuova
Sinistra, collettivi sul territorio, ecc.) e l'appartenenza alle classi d’età relativamente più elevate (16-18 anni). Nel secondo caso
invece sono le appartenenze collettive preesistenti a fornire le risorse di identità per la nuova aggregazione. Ognuna delle aree indagate mostra che nella maggior parte dei casi il mobilitarsi di oggi si colloca in una vicenda a un tempo individuale e collettiva, scandita da tempi e fasi che sono l’esito congiunto di scelte soggettive e di strategie sistemiche. Il fatto che molte delle biografie analizzate rimandino a una precedente esperienza di militanza politica (cui il soggetto in si modo sempre si richiama ) conferma anzitutto che l’aggregazione non avviene in modo casuale; inoltre che questi attori non hanno rinunciato al ruolo di «avanguardia» pur modificandone forma e contenuto. Questa scelta è rafforzata da un altro dato comune a tutte le situazioni: l'elevato grado di istruzione. L'incremento della scolarità ai livelli superiori non presenta quindi solo i rischi di una «qualificazione “sociale”
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della forza lavoro» funzionale agli interessi delle classi dominanti, come affermato ad esempio da Offe [1977, 180-188], ma consente anche il rafforzamento di nuove élites intellettuali che intendono auto-progettare
la fruizione
delle conoscenze
acquisite. Per
quanto riguarda il «chi» si mobilita, l’area delle aggregazioni giovanili risulta quindi connotata da due diverse modalità di presa di contatto con i processi di mobilitazione: î) per le componenti che possono contare su appartenenze conseguite in precedenti esperienze, la possibilità di riconvertirle a nuove occasioni di mobilitazione;
ti) per le nuove leve prive di esperienze, la possibilità di conseguire un’indentità collettiva mobilitandosi a partire dalla «condizione» di studente. La riproduzione del movimento è quindi assicurata dalla riconversione di precedenti identità e dal realizzarsi di nuove entrate fruendo delle facilitazioni fornite dalla scuola. Anche nell’area-donne una parte consistente delle protagoniste delle mobilitazioni attuali appartengono alle é/tes intellettuali emerse dai conflitti sociali degli anni Sessanta e Settanta. Potendo meglio controllare le risorse di formazione e di conoscenza oggi disponibili, queste donne sperimentano pit da vicino i vincoli tradizionali che tuttora limitano il pieno dispiegarsi delle nuove possibilità di auto-realizzazione. In questi casi il riferimento ad una condizione sociale assume un valore simbolico fondante, rafforzato dal permanere di fattori di discriminazione anche se ridefiniti rispetto al passato. Nonostante le modifiche
istituzionali e i cambiamenti nel costume conseguenti alle lotte degli anni Settanta, la condizione femminile è ancora penalizzata: essa rimane sostanzialmente scissa tra la prestazione delle attività di riproduzione e le opportunità, spesso solo potenziali, che la donna trova a disposizione in diversi ambiti del sociale e nel lavoro professionale. Questa latente contraddizione costituisce il referente «strutturale» su cui si radicano le scelte di mobilitazione. Anche in questo caso l’appartenenza per età svolge un ruolo importante. Per gli strati che si sono già mobilitati nel corso degli anni Sessanta e Settanta, il riferimento a tali esperienze appare una risorsa primaria per l’azione attuale. I gruppi analizzati dalla ricerca presentano in prevalenza questo tipo di composizione e in essi il richiamo al femminismo degli anni Settanta è un dato ricorrente. Meno elementi d’analisi esistono invece per le nuove generazioni di donne in quanto nell’universo indagato questa componente è assente. Al di là dell'ambito diretto della ricerca, va
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segnalata una scarsa partecipazione di giovani donne alla manifestazione del 5 febbraio 1983 in sostegno della legge contro la violenza sessuale che ha costituito per il movimento delle donne l’occasione per tornare a mobilitarsi in massa. Peraltro, sia 8 marzo successivo sia le mobilitazioni di massa che si sono succedute in questo periodo (ad esempio quella per la pace e quella contro la | delinquenza organizzata) hanno visto una partecipazione attiva delle giovani generazioni di donne. Questa apparente ambiguità può essere spiegata sia come effetto del post-femminismo, sia come scelta di utilizzare le risorse di partecipazione in momenti e ambiti diversi da quelli esclusivamente femminili. Nel primo senso si può ritenere che esiste oggi una minore urgenza rispetto
al passato di denunciare una subalternità complessiva mentre si afferma un’attenzione più puntuale alle singole discriminazioni che oppongono l’uomo alla donna. Nel secondo senso si può ipotizzare una tendenza comune alle altre aree (soprattutto «giovani» e ecologisti) verso la diversificazione dei momenti di impegno collettivo per il bisogno di maggiore articolazione dell’esperienza individuale e per l’esigenza di decidere l'adesione in base alla consonanza soggettiva con i fini dell’azione. L’area ecologista e le due situazioni analizzate al suo interno chiariscono efficacemente le modalità alternative ma integrate con cui questo movimento usa le risorse di mobilitazione. Da una parte i componenti il gruppo di Nuova Ecologia possono finalizzare le risorse di identità e di competenza conseguite nelle loro passate esperienze di militanza nella sinistra extraparlamentare ai bisogni di coordinamento e di organizzazione di un movimento che, come quello italiano in particolare, è continuamente esposto al rischio dell’eccessiva eterogeneità e disarticolazione. Una verifica positiva di questo ruolo si è avuta con un impegno a livello nazionale come l’organizzazione del convegno «I Verdi in Italia» (Milano, 26-27 febbraio 1983). Il successo di questa scelta con-
ferma la capacità-possibilità di capitalizzare le risorse provenienti da fasi precedenti e di dare con ciò coerenza a un percorso individuale oltre che collettivo. D'altra parte l’esperienza del gruppo Ecologia 15 rivela i caratteri peculiari delle nuove generazioni di ecologisti e prefigura in modo esemplare le modalità innovative utilizzabili per una pratica di impegno collettivo dentro-fuori il sistema istituzionale. Rispetto al caso precedente, le storie individuali rivelano modelli meno tradizionali di accesso alla militanza e delineano una nuova casistica. L’obiezione di coscienza, l’infor-
mazione via radio, la qualifica professionale di «tecnico» sono i canali attraverso cui questi attori si sono aggregati. Tale peculia-
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rità si ritrova anche nel modo in cui il gruppo progetta e pratica il proprio intervento e assicura la propria riproduzione. L’informazione capillare tramite l’uso dei media più accessibili, collegato alla proposta di quelli più sperimentali come il video-tape; il ritorno alla scuola come luogo deputato di sensibilizzazione e reclutamento; la proiezione verso l’esterno unita ad una attenzione reale verso il funzionamento e i rapporti interni sono alcune delle modalità che meglio evidenziano la sua strategia di azione. Queste scelte rendono il gruppo poco reattivo, sia a livello di immagini che di pratica, a forme di mobilitazione con dimensioni di massa. Seppur efficaci, esse vengono accettate solo come espediente occasionale o come strumento temporaneo, mentre si ribadisce il bisogno di continuità e di cumulazione dell’esperienza, da realizzare a partire dalla dimensione interna. In questa polarità tra Nuova Ecologia e Ecologia 15, e dunque attraverso una scelta precisa (anche se non programmata e non interamente consapevole) di divisione dei compiti, quest'area esplicita e concretizza la tendenza dei movimenti degli anni Ottanta a muoversi funzionalmente al doppio livello della visibilità e della latenza. Come risulta dagli avvenimenti dell’ultimo anno, l’area ecologico-ambientalista sembra la più idonea a coagulare le aspettative diffuse di mutamento e a tradurle in effetti politici. E significativo che proprio in quest'area la ricerca abbia individuato in forma più esplicita un modello coerente per l’uso delle risorse di mobilitazione extraistituzionale in società di massa altamente differenziate. La diversificazione degli interventi sulla base delle predisposizioni individuali e di gruppo consente la motivazione degli attori necessaria oggi per la pratica del cambiamento; l’alternarsi di visibilità e di latenza consente la continuità
dell’azione tenendo insieme l’attività sommersa del piccolo gruppo e le mobilitazioni di massa su obiettivi universalistici e a termine. Infine anche l’area dei neo-religiosi vede la presenza significativa di militanti riconvertiti della sinistra extra-parlamentare. Rispetto alle altre aree, la ristrutturazione del campo è qui particolarmente drastica e radicale. Il percorso attuale di questi attori si basa su una ricerca del senso ispirata a forme di conoscenza e di esperienza estranee alla tradizione occidentale; tuttavia il bisogno sottostante di semplificazione e di ricomposizione del reale è generalizzabile a tutte le aree. Inoltre, come si è già constatato, quest'area sembra adattarsi meno di altre a un concetto di mobilitazione collettiva come attività di massa focalizzata sull’esterno. Ciononostante
essa restituisce in modo
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macroscopico e certa-
mente esasperato l’essenza di bisogni e di modelli d’azione che strutturano anche le altre aree. La ricerca di globalità nell’esperienza, l'utilizzo di forme «arcaiche» di autorealizzazione, la rifor-
mulazione delle categorie di uguaglianza e di differenza, di individuale e di collettivo, sono tutti tasselli di un progetto di mutamento «culturale» che riguarda l’insieme delle aggregazioni analizzate. Prende corpo allora l’ipotesi di una continuità sotterranea che lega non solo i segmenti di ogni area tra loro ma anche segmenti di aree diverse. La conferma pit rilevante è costituita dal movimento per la pace degli anni Ottanta che si fonda appunto sulla riaggregazione di nuclei appartenenti a diverse componenti sociali e politico-ideologiche. Nell'ambito della ricerca, uno dei casi più emblematici di questi nessi sotterranei ma reali, e che peraltro si trasformano facilmente in fattori di differenza nella pratica, è il modo con cui il gruppo Ghe-Pel-Ling esprime il concetto di mutamento. Nel lessico dei suoi aderenti è ricorrente la formula «fare il vuoto» consona alla tradizione buddista; nei gruppi ecologisti è ricorrente quella della «crescita zero». Non si tratta solo di una analogia formale; entrambe alludono alla stessa modalità d’intervento: togliendo si aggiunge qualcosa. Secondo la prima formulazione si può contenere il sovraccarico emotivo insito nella condizione contemporanea riducendo l’area di esperienza «esterna» e «facendo largo» agli elementi profondi che l’individuo già possiede. La seconda indica come il degrado a livello planetario dei rapporti uomo-natura, uomo-società, sviluppo-sottosviluppo può essere superato producendo e consumando in modo diverso piuttosto che producendo e consumando di più. Entrambe rimandano implicitamente a forme di azione improntate a quella «nuova razionalità» che valorizza i modi qualitativi del cambiamento a scapito di quelli quantitativi e che dà importanza alla capacità formale di produrre modelli culturali più che ai contenuti. Tornando all’assunto iniziale di una stretta correlazione tra le forme di controllo sociale proprie delle società complesse e le azioni di resistenza e opposizione che alcune sue componenti attuano, questa scelta del togliere invece che dell’aggiungere risulta la modalità con cui alcuni gruppi (non a caso altamente culturalizzati) rispondono ai processi del controllo diffuso. La crescente differenziazione sociale favorisce il condizionamento: scegliere l’«assenza» significa affermare il diritto di decidere in modo autonomo se e come passare da un piano del sociale a un altro senza rinunciare alla propria unità interna. c) Questa mutata prospettiva, che l’analisi empirica autorizza
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ad estendere a tutte le aree, non rimane senza conseguenze sul «come» gli attori analizzati si mobilitano. Per quanto riguarda l’area dei neo-religiosi in particolare, è scontato che nel suo complesso riveli una scarsa disponibilità al confronto di massa su obiettivi esterni. Tuttavia due recenti episodi mostrano anche per quest'area la scelta di far coesistere funzionalmente visibilità e latenza, più chiaramente espressa dalle altre. Nel gennaio 1983 si sono avuti a Milano il «Festival del Dharma» indetto dal Centro Ghe-Pel-Ling e ispirato ai temi della pace, e una giornata di mobilitazione degli «Arancioni» a sostegno della concessione del permesso di soggiorno negli Usa al loro /eader Bahgwan Rajneesh. Entrambi si sono svolti con modalità certamente pi vicine alle forme politiche di azione collettiva che a quelle peculiari dei gruppi religiosi: corteo con striscioni, slogans ritmati e petizione al Consolato Americano nel secondo caso; assemblea-dibattito,
spettacolo teatrale e filmati nel primo. Obiettivi come la rivendicazione di un diritto negato o l'affermazione di un fine «politico» come la pace, hanno indotto questi attori ad adottare modelli di azione estranei alla cultura cui si ispirano ma congruenti ai contenuti della mobilitazione. Ciò conferma l’ipotesi che la natura dei
fini determina la scelta del come mobilitarsi anche in un’area strutturata secondo cerimoniali altamente simbolici e consolidati dalla tradizione. D'altra parte si può affermare che la tendenza all’azione sommersa sia peculiare solo dei gruppi neo-religiosi? Si è più volte ribadito che l’universo indagato mostra nel suo complesso uno slittamento verso forme di mobilitazione pit ibride, comunque molto più centrate sul piccolo gruppo e sull’azione interna. Si è anche ipotizzato che ciò avvenga in risposta alla crescente compenetrazione indotta dalle società di massa di categorie quali pubblico e privato, personale e politico, individuale e collettivo in precedenza rigidamente separate. Questa tendenza che ogni tipo di aggregazione riprende ed esprime con modalità proprie, consente diprospettare una correlazione diretta e generaliz-
zabile. Nel momento in cui gli obiettivi del movimento comportano il confronto diretto e esplicito con l'esterno, esso è in grado di mobilitarsi in forme pubbliche e di massa secondo le modalità consolidate del conflitto sociale. Nelle fasi in cui viene meno il bisogno strategico dell’uscita spettacolare, il movimento si decanta in micro-aggregazioni autonome che rivolgono una quota
consistente delle loro risorse ai bisogni del gruppo e dell’individuo al suo interno. L’elevata interdipendenza che È società complesse realizzano tra le diverse sfere del loro funzionamento trova cost
riscontro nella continuità tra visibile e latente, tra esterno e
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interno, tra individuo e gruppo che questi movimenti praticano nelle strategie di mobilitazione. 5. Conclusioni
Il passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta segnala non solo la radicalità dei mutamenti intervenuti nelle società di massa, ma
anche la rapidità con cui le forme e i contenuti dell’azione collettiva si sono adattati al nuovo scenario sociale. Il quadro generale è quello di una società altamente differenziata in cui il mutamento diventa sempre più rapido, articolato, multiplo e discontinuo. L’identificazione di un avversario ultimo è più precaria se non fittizia, perché la complessità del sistema rende il potere pi diffuso e lo impegna nella medicalizzazione del sociale; perché i meccanismi di esclusione dal sistema politico e dal mercato del lavoro sono più operanti, ma si accompagnano al diffondersi dell’intervento assistenziale e all'apertura di canali di mobilità individuale, confondendo il quadro delle appartenenze e inducendo sovrapposizione tra marginalità e centralità. Questo contesto ci spinge oltre la soglia degli interrogativi cui era giunta la riflessione teorica negli anni Settanta. E comunque a partire da quegli interrogativi che possiamo delineare alcune ipotesi sulla mobilitazione come dimensione dell’azione collettiva negli anni Ottanta. î) I dati della ricerca mostrano che in una situazione in cui la «crisi» è diventata una costante non sono i gruppi marginali a
mobilitarsi. Pi in generale: non è possibile oggi una scelta a priori tra crisi e sviluppo come fattore primario di facilitazione; solo l’analisi di una situazione contingente può indicare il loro ruolo. L’osservazione empirica evidenzia che in una fase di stagnazione a mobilitarsi nella «forma movimento» sono stati i gruppi centrali per certi aspetti (livelli di istruzione, collocazione territoriale, esposizione ai messaggi culturali), ma marginali per altri (collocazione sul mercato del lavoro, accesso al sistema politico, riconoscimento sociale). D'altra parte i sistemi sociali contemporanei mostrano come crisi e sviluppo vadano insieme articolando i criteri di definizione delle condizioni sociali. Ciò significa che: a) Nello stesso individuo si combinano pit condizioni sociali
ognuna delle quali può funzionare da fattore di facilitazione per la mobilitazione. b) Il fattore decisivo per le mobilitazioni di cui ci siamo occupati è la vicinanza ai processi del cambiamento che appaiono sem-
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pre meno dipendenti da situazioni di crisi o di sviluppo economico. c) La complessità di tali processi rende il controllo di risorse adeguate in termini di «centralità culturale» condizione necessaria per la mobilitazione. d) Gli attori della mobilitazione sono variabili in quanto variano le combinazioni possibili tra centralità e marginalità, mutamento e conservazione, sviluppo e crisi.
ii) Nell’alternativa tra apertura e chiusura del sistema politico come elemento di facilitazione per la mobilitazione, l’esperienza e le analisi di questi anni confermano che l’esistenza di canali di trasmissione: della domanda politica, la scarsa pressione esercitata dagli agenti del controllo sociale e l’accesso ai mezzi di comunicazione con i costi di un’azione collettiva visibile. Oggi tuttavia l'aumento costante della selettività di sistemi politici che devono controllare situazioni di crisi crescenti del consenso spinge verso la loro chiusura. Questo tipo di blocco non comporta necessariamente l’assenza di azione collettiva in quanto il sistema poli-
tico è solo uno dei terreni praticabili. Gli attori di movimento che si sono mobilitati nei primi anni Ottanta non hanno come unico obiettivo l’accesso al mercato politico, ma: a) affermano la loro distanza dal sistema politico in quanto rivendicano interessi che questo livello non è in grado di accogliere; b) ricercano tuttavia un confronto col sistema politico che garantisca quegli spazi di autonomia e quelle facilitazioni istituzionali idonee alla struttura sempre più eterogenea del movimento e alle sue modalità discontinue di azione;
c) cercano di alleggerire i costi crescenti dell’organizzazione delegando l’approntamento delle strutture di base ad organismi istituzionali più o meno interni al movimento. iii) E confermato che l’esistenza di reti di relazioni o di espe-
rienze organizzative precedenti la mobilitazione faciliti l'adesione. Rispetto a fasi precedenti tali esperienze si articolano, sovrappongono e accelerano, rendendo la loro correlazione con l’azione collettiva meno automatica e mai univoca. D'altra parte se è confermato che non sono gli «sradicati» a mobilitarsi, coloro che non hanno esperienze precedenti (le nuove generazioni di studenti per esempio) possono contare o su facilitazioni organizzative messe a
disposizione dalla struttura di area o sulla condivisione del medesimo ambito strutturale (scuola) o su entrambi. Tuttavia la sola coesione o solidarietà, esito della medesima collocazione strutturale, non è pit oggi condizione necessaria, come non è stata in passato sufficiente, per queste forme di mobilitazione.
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iv) In una situazione in cui la visibilità dell’avversario diventa sempre più precaria, i gruppi osservati superano il rischio del ripiegamento su di sé individuando nella solidarietà praticata nel piccolo gruppo la risposta ad un potere che si occulta, ma che raggiunge l’individuo fino nella sua dimensione intima. Il gruppo come «comunità globale» frena la mobilitazione individualistica come risposta a situazioni di insoddisfazione-deprivazione. Inoltre tale dimensione e tale natura del gruppo consentono di opporre alla differenziazione del sociale scelte autoprogettate di ricomposizione del «senso», e alla sua complessità momenti di semplificazione dell'esperienza. Queste solidarietà non sono tuttavia «per sempre»: costituiscono solo una delle possibili appartenenze dell’individuo, non devono limitare l’evolvere della sua esperienza, riducono la distanza tra interesse individuale e interesse collettivo. v) Se è vero che la tendenza attuale è verso l’aumento del tempo a disposizione dell’individuo o verso la sua gestione più equilibrata, rimane il problema di giustificare per quale ragione il tempo eventualmente liberatosi venga impiegato nell’azione collettiva. Le trasformazioni nella militanza che, come ha mostrato
la ricerca, tendono a tenere insieme la dimensione dell’impegno e quella del piacere personale interrompono la separazione tra /eisure time e tempo dell’impegno. Questa continuità, oltre a ridimensionare la portata del quesito da cui si è partiti, sostiene l’ipotesi che l'aumento del tempo disponibile focilii il suo impiego anche nell’azione collettiva: presupponendo una stretta coincidenza tra autorealizzazione e partecipazione, questa militanza consente la valorizzazione delle risorse espressive e la loro utilizzabilità in termini di azione collettiva. vi) Il moltiplicarsi dei ruoli e degli interessi nello stesso individuo lo colloca all’interno di una dicotomia che presenta da un lato un sentimento di unicità e di irripetibilità dell’esperienza soggettiva, e dall’altro il bisogno di solidarietà attraverso l'affermazione di interessi comuni. A sua volta il polo dell’unicità presenta due dimensioni: il narcisismo individuale, il narcisismo di gruppo. L’individuo oscilla tra questi poli e in base al proprio percorso biografico si colloca in fasi diverse della propria esperienza verso le due dimensioni del narcisismo o verso il polo della solidarietà. L’osservazione delle aree di movimento suggerisce il replicarsi a livello collettivo di tale oscillazione. Le «bande spettacolari» ad
esempio occupano il polo del narcisismo di gruppo, combinando la
diversità individuale con l’affermazione di una diversità come gruppo; al polo opposto si avvicinano quelle esperienze giovanili,
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residuo degli anni Settanta, che tentano di procrastinare, con l'annullamento ideologico delle differenze individuali, una solidarietà che consenta una ricomposizione delle appartenenze. L’andamento
nella realtà tuttavia non è esclusivamente polare, ma
presenta sempre il combinarsi delle polarità in riferimento alle diverse contingenze e al livello individuale, di gruppo o di area. vii) Trascurati nella tradizione europea di approccio all’azione collettiva, i meccanismi micro-relazionali che conducono ad aderire a un movimento giocano invece un ruolo non secondario. La rete di rapporti di parentela, le relazioni amicali e del «conoscersi» dei membri del movimento rende chi ne fa parte potenziali soggetti di mobilitazione. Tuttavia nelle fasi successive all’adesione
questo tipo di relazioni precedenti può attivare conflitti, che si sovrappongono a quelli di carattere organizzativo, ideologico o di leadership. Ovviamente non soltanto relazioni di questa natura conducono all’abbassamento dei costi dell’adesione. L’inserimento nel tessuto di area, formato da circuiti solidaristici, da occasioni e da punti di incontro, da «frizioni» tra gruppi diversi e diverse appartenenze costituisce fattore complementare di facilitazione. viti) La tendenza alla diminuzione del «costo» di entrata e di uscita dai gruppi, oltre che dalla trasformazione della militanza
nella direzione indicata al punto v, è determinata anche: a) per ciò che riguarda l’entrata, dalla maggiore «puntualità» dei requisiti di appartenenza richiesti; b) per ciò che riguarda l’uscita, dalla facile sostituibilità delle risorse del singolo (per il gruppo) e dall'aumento delle opportunità di aggregazione che gli vengono offerte (per l'individuo). Il condividere interessi a termine implica mettere in gioco esclusivamente un «pezzo» dell’esperienza individuale e soltanto quello. Scegliere un gruppo non significa appartenere «per essenza», ma aderire solo nel presente anche se in modo intenso. Il dissolversi del gruppo perde i tratti del «fallimento» e l’uscita individuale quelli del «tradimento». Finitezza degli obiettivi ed «eccedenza» delle risorse collettive rendono la scomparsa di un gruppo poco incidente sulla consistenza del movimento. Allo stesso modo la facile sostituibilità delle risorse apportate dal singolo, dovuta ad una scarsa divisione del lavoro, rende l’uscita del-
l'individuo poco incidente sull'evoluzione e l’efficacia di un gruppo. D’altra parte lasciare un gruppo è meno drammatico per ‘individuo, in quanto lo spettro delle possibili aggregazioni che gli x offrono aumenta con l’aumento della differenziazione sociale.
IO
La reticolarità dei legami, la rapida circolazione delle informazioni, lo scambio delle esperienze e degli individui tra i gruppi costituisce la struttura delle quattro aree. Caratterizzata dallo stretto legame tra visibilità e latenza essa facilita la mobilitazione di massa su obiettivi puntuali e si oppone alla dispersione nelle fasi di assenza di mobilitazione visibile. La struttura fondata su questi legami di natura funzionale e interpersonale assicura la coesione del movimento. A livello funzionale essi sostituiscono il ruolo aggregante svolto in passato da organizzazioni formalizzate (la Nuova Sinistra nei primi anni Settanta); a livello motivazionale sostituiscono il ruolo integrante svolto dall’ideologia in senso forte. L’assunzione e l’utilizzo di momenti di massa per «campagne», che mobilitano attori variabili, legati solamente in occasione di tali mobilitazioni, costituisce la fase della visibilità. La miriade di micro-aggregazioni autonome e sommerse costituisce la struttura di latenza. Combinandosi danno luogo ad adesioni spontanee di attori eterogenei su obiettivi definiti culturalmente. Queste forme di azione collettiva non dipendono dal riferimento ad un’unica condizione, definita sulla base di criteri strutturali, né d’altra parte si definiscono solamente a partire da opzioni culturali. Il ruolo della condizione si ridimensiona a fattore di facilitazione; il mobilitarsi su una convinzione presuppone peraltro l’utilizzo di tale fattore. Il rapporto tra condizione e convinzione varia nelle diverse aree. L'area delle donne si colloca verso il polo della condizione, quella ecologista verso il polo della convinzione. Anche dove il ruolo della condizione tuttavia è ancora significativo (area donne e giovani) si verifica che, a partire da angolazioni specifiche, gli attori convergano su obiettivi universalistici, su una convinzione trasversale rispetto alle aree. Solo a partire da una convinzione è possibile tenere insieme aspetti differenti di differenti condizioni.
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MARIO
DIANI
- PAOLO
R. DONATI
L’OSCURO OGGETTO DEL DESIDERIO: LEADERSHIP E POTERE NELLE AREE DI MOVIMENTO
1. Movimenti senza leaders?
Divenuti meno appariscenti e meno «rumorosi», passati alla
latenza dopo essere stati costretti sulla difensiva, impegnati nella rivalutazione delle risorse affettive e solidaristiche, ma anche
nella pratica di nuovi modelli di azione nel sociale, i movimenti attuali sembrano essere dei movimenti «acefali» prima ancora che «policefali». Chi oggi volesse individuare leaders forniti del prestigio e dell’autorità che personaggi come Capanna, Sofri o Rostagno hanno avuto in passato all’interno del movimento studentesco, non potrebbe far altro che arrendersi di fronte al vuoto ed alla più assoluta mancanza di indizi che l’azione collettiva propone. La seconda metà degli anni Settanta ha visto infatti la progressiva decadenza e scomparsa della figura del leader in grado di garantire l’unità del movimento e definirne la strategia. L’unica eccezione, del resto affatto particolare, sembra costituita da vari gruppi dell’area della «nuova coscienza» che si radunano attorno ad un maestro spirituale fornito di doti carismatiche unanimemente riconosciute. Le mobilitazioni collettive tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta lasciano spazio, ed in buona misura esigono l’emergere di una leadership in grado di rappresentare un punto di riferimento per la globalità del movimento. Sue caratteristiche dominanti sono la personalizzazione, la centralizzazione e la (relativa) continuità temporale. Il controllo sulla produzione ideologica e la capacità di rappresentare le varie componenti del movimento ne costituiscono invece le fonti principali di legittimazione. L’impegno dei militanti avviene in questa fase su obiettivi strategici di lungo periodo. Si punta alla trasformazione della società attraverso la conquista del potere politico ed il rovescia-
Mario Diani ha curato la stesura dei paragrafi 1, 4 e 5; Paolo Donati quella dei paragrafi 2 e 3.
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mento dei rapporti di classe. Gli attori del conflitto si definiscono a partire da questa posta, al tempo stesso generica e connotata fortemente in senso utopico. La mobilitazione richiede elevati investimenti personali, ma presenta d’altro canto una calcolabilità molto bassa. Emerge quindi prepotente l’esigenza di fornire un senso globale all’azione, onde garantire la continuità e lo sviluppo del movimento. Occorre cioè rendere coerenti rispetto al fine ultimo le lotte via via condotte. Soprattutto occorre giustificare le arretratezze e le difficoltà incontrate nel contingente, fornendo una prospettiva che lasci intravvedere il loro superamento. In sintesi, la presenza dell’utopia come fattore rilevante nell’azione rende determinante la posizione e la legittimazione dell’obiettivo-valore finale. Diventa centrale la capacità di elaborazione ideologica, intesa in primo luogo come capacità di definire la strategia del movimento in modo da farla apparire come un percorso verso l’utopia accettabile in termini di costi e benefici. Trattandosi di obiettivi scarsamente calcolabili, l’equilibrio in questione riguarda la percezione assai più che la realtà misurabile. Compito prioritario del leader diventa dunque quello di agire sul sistema simbolico e sulle informazioni circolanti nel movimento. Egli si definisce pertanto a partire dal controllo sull’ideologia come risorsa fondamentale per l’azione. La natura strategica della mobilitazione comporta inoltre che essa conosca i suoi momenti più significativi intorno a temi di rilevanza generale, considerati a torto o a ragione centrali rispetto al quadro di conflitto di classe in cui si ritiene di operare. Nel movimento studentesco dei primi anni Settanta le maggiori energie sono destinate alle scadenze di lotta nazionali, in cui Pasca rivoluzionaria si propone come soggetto unitario che aspira a giocare un
ruolo politico di primo piano. Si aprono quindi gli spazi per l'emergere di personaggi in grado di fornire un'immagine pubblica del movimento, nonché di rappresentarlo nell’ambito ristretto della trattativa con le istituzioni, o nel rapporto con le organizzazioni della sinistra storica. D'altra parte, il fatto che le lotte riguardino obiettivi di ampia portata, in una prospettiva storica di lungo periodo, rende necessario il massimo coordinamento possibile tra le varie componenti impegnate nell’azione. Lo sviluppo della capacità di mobilitazione richiede la presenza di strutture formalizzate, in grado di utilizzare al meglio le risorse organizzative e di militanza disponibili. Si afferma pertanto la centralità delle organizzazioni politiche (Avanguardia Operaia, Lotta Continua, ecc.) a diffusione nazionale, che esercitano la loro
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influenza direttamente o attraverso loro emanazioni come i Comitati Unitari di Base o i Collettivi Politici Studenteschi. Al loro interno risulta poi particolarmente importante il ruolo dei vari /e4ders, che come abbiamo visto devono la loro legittimazione in primo luogo alla pertinenza delle risorse ideologiche di cui dispongono. Essi si propongono come guida del movimento nella sua globalità. Si tratta pertanto di una guida al tempo stesso centralizzata e personalizzata. L'elemento di relativa continuità che segnalavamo in precedenza viene garantito dalle organizzazioni di tipo partitico. Se passiamo da un’analisi condotta a livello macro a considerare le cellule di base del movimento, i meccanismi fondamentali di attribuzione della /eadership non sembrano differire in misura sostanziale. All’interno di ogni gruppo emergono ruoli di particolare rilevanza, l’accesso ai quali si legittima a partire dalla posizione occupata all’interno dell’apparato. Il «carisma» si diffonde pertanto dai vertici dell’organizzazione ai suoi rappresentanti periferici. Merita infine di sottolineare che, sia al livello del movimento
che a quello del singolo gruppo, una posizione di leader comporta una marcata ancorché negata asimmetria di potere rispetto agli altri militanti. Essa si traduce in termini di status, di capacità decisionale, di accesso a risorse simboliche e materiali scarsa-
mente disponibili. Il modello di cui abbiamo tratteggiato le linee essenziali si ispira in larga misura alla concezione leninista del partito rivoluzionario. La critica avviata dal movimento giovanile e da quello femminista a partire dal 1975/1976 contro il «vecchio modo di far politica» investe frontalmente questo concetto. L’esperienza dei circoli giovanili e dei centri sociali esprime infatti una pratica di militanza che rompe con la tradizione leninista. Nello stesso senso, ma con toni anche pit radicali, si muove il movimento delle
donne. Oggi poi, un’area in ebollizione ed in costante crescita rivendica il nome di «arcipelago verde», con l’intenzione esplicita di una proposta alternativa rispetto al passato ed a tutte quelle forme di lotta che hanno legittimato l’uso di determinati mezzi indipendentemente dal fine, ma anche con una sfida palese verso quegli scettici che, all'ombra di una memoria michelsiana, hanno
teorizzato la tirannia dei mezzi sul fine. È proprio a partire dal rapporto mezzi-fini che sembra trarre origine l’attuale crisi della funzione di leadership. I movimenti post-'77 abbandonano i progetti di trasformazione sociale nel lungo periodo. L’aggregazione a base utopico-rivoluzionaria lascia
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il posto ad esperienze collettive di natura solidaristico-affettiva, ed alla pratica quotidiana dell'obiettivo connotata da una forte richiesta di controllo dal basso. Le mobilitazioni su scala nazionale non rappresentano pi il momento centrale intorno a cui si
definisce il movimento, inteso come soggetto unitario. Prevale invece l’esperienza nei piccoli gruppi, nelle realtà di base. L’impegno collettivo delle varie aree si verifica, quando si verifica, su temi facilmente individuabili e largamente condivisi, ed assume la natura dell’intervento puntuale, estraneo ad ogni ambizione strategica. Si afferma uno scambio individuo/organizzazione di tipo immediato ed altamente controllabile, mentre si stempera la funzione dell’ideologia come collegamento simbolico tra mezzi e fini, come strumento di ricomposizione dei due termini. D'altro canto, la fine della mobilitazione di lungo periodo è parallela al superamento dell’assunto sull’indifferenza dei mezzi rispetto ai fini. L’attenzione riservata alla qualità dei mezzi, e la tendenza ad assumere quest’ultima come vero e proprio obiettivo favoriscono il venir meno delle giustificazioni in precedenza addotte al permanere di strutture organizzative rigide e formalizzate. Se infatti esse potevano apparire funzionali agli obiettivi rivoluzionari, costituiscono invece un ostacolo nel momento in cui la «pratica del cambiamento nel presente» impone una crescente attenzione per la qualità delle relazioni interne ai vari gruppi (i «mezzi»). Il rifiuto delle strutture formali investe ovviamente in primo luogo la dimensione gerarchica delle vecchie aggregazioni politico-ideologiche. Vengono dunque meno le caratteristiche della mobilitazione che legittimavano la presenza di forme di leadership centralizzata, personale e relativamente stabile. L’emergere di una concezione del mutamento sociale che passa attraverso vie «non politiche», la critica sferzante rivolta alle forme del potere e della leadership tolgono spazio all’azione dei vecchi rappresentanti. Questi tendono a i la loro azione sul terreno politico-istituzionale, operando magari in contatto con le aree di movimento, ma collocandosi tuttavia al di fuori di esse. Al momento attuale, un’analisi del concetto di leadership nei movimenti sociali va collocata soprattutto al livello micro. I processi appena delineati hanno infatti accentuato la molteplicità delle esperienze che si riconoscono in una stessa area di mobilitazione, ed evidenziato la difficoltà di individuare una guida da tutti riconosciuta ed accettata come tale. Ciò non ha tuttavia comportato, nonostante le rappresentazioni degli attori, la scomparsa di asimmetrie nelle relazioni interne al singolo gruppo,
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cosf come in quelle tra i vari gruppi di militanti. Piuttosto, queste trasformazioni sembrano lanciare una sfida a quelle interpretazioni che, affrontando lo studio delle caratteristiche della /eadership, ne hanno sempre privilegiato la natura personale. 2. La teoria: uno sguardo critico
Sostenere che esiste oggi un problema di interpretazione dei fenomeni di leadership nei movimenti e nelle aree di conflitto, significa in qualche modo prospettare delle ipotesi circa la logica e l’utilizzabilità dei modelli teorici rispetto alle caratteristiche empiriche degli oggetti d’analisi. Proprio per questa ragione inizieremo con un’esame dei prin-
cipali quadri interpretativi riguardanti la leadership, dal punto di vista di una sociologia dei movimenti come da quello, più ampio, attinente alla psicologia sociale ed alle dinamiche di gruppo. Il filone teorico che risale all’analisi del carisma e delle qualità straordinarie del capo ha rappresentato per lungo tempo il principale riferimento per l’analisi dei movimenti sociali e della loro struttura interna. Dalla «psicologia della folla» di Tarde e Le Bon, che ha influenzato anche l’opera di Michels, alla teoria della società di massa, alla teoria weberiana, l’enfasi sul capo, oggetto delle pulsioni di orde di individui, appagatore dei loro bisogni di identificazione, personaggio sostitutivo della figura paterna, ha dato continuità ad una tradizione teorica giunta fino agli studi sul collective bebavior. Questi ultimi a loro DE hanno sottolineato la funzione unificatrice del /leader!, descritto come «colui che [...]
viene riconosciuto come capace di dare una soluzione al dilemma etico dei singoli e del gruppo» [Alberoni 1981, 196]. Sono stati i contributi di psicologia sociale sui fenomeni di influenza e di leadership nei gruppi che hanno permesso agli studi sulla leadership nei movimenti sociali di svincolarsi e di prendere progressivamente le distanze dagli approcci citati in precedenza. I primi di questi studi, pur essendo ancora di derivazione weberiana, hanno comunque messo in luce l’improponibilità dell’equazione leader = capo carismatico. Essi hanno distinto tra vari tipi di leaders, definiti a partire dalle qualità di cui disporrebbero. Non è
1 Hoffer [1951] sottolinea a questo proposito la funzione «sacerdotale» del capo; Smelser [1968] ne evidenzia dal canto suo la funzione di agitatore e creatore di credenze. S
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mai stato raggiunto un accordo tuttavia su quali siano i tratti caratteristici essenziali perché si possa parlare di leadership?.Una seconda corrente, indicata come «situazionista», ha escluso la validità dell’analisi in termini di tratti caratteristici. Le qualità potenziali di un leader sono infatti limitate dall'ambiente da cui proviene e dalle specifiche attività del gruppo di cui fa parte. Le sue caratteristiche devono pertanto rispondere alle esigenze poste dalla particolare situazione e non possono essere individuate una volta per tutte. La leadership viene quindi analizzata come prodotto delle relazioni interpersonali, anche se il leader viene sempre considerato come singola persona e l’accento viene posto sulle dinamiche di gruppo, tralasciando invece le caratteristiche strutturali del contesto in cui il gruppo si situa. È da questo nucleo che si sono sviluppate le teorie relazionali della leadership, ossia le teorie che considerano quest’ultima come un rapporto. Tra esse, gli studi più rappresentativi e che sembrano avere avuto maggiore influenza sono quelli di Hollander [1964] e Fiedler [1967], che sembrano muoversi verso l’individuazione di alcune capacità richieste al leader nell’ambito della sua relazione con il gruppo. Fiedler definisce la leadership come «una relazione interpersonale in cui il potere e l’influenza sono distribuiti in modo irregolare, cosf che una persona può dirigere e controllare le azioni e i comportamenti delle altre più di quanto esse dirigano e controllino i suoi» [1967, 11]?. Secondo Hollander, i due attributi principali del leader sono la competenza in qualche mansione centrale per gli obiettivi del gruppo, e l’essere percepito dai membri come fortemente identificato con esso. Ma veniamo all’analisi dei movimenti. Il contributo più completo e lo sforzo maggiore di approfondimento teorico per un’analisi della leadership nell’azione collettiva e conflittuale è a tutt'oggi quello di Downton [1973]. Downton riprende esplicitamente le teorie di Fiedler e Hollander (soprattutto la prima) proponendone un'elaborazione originale. La leadership è vista qui come la struttura di coordinamento di un sistema e quindi di un movimento, avente il compito di accrescerne le capacità, mentre leader di un gruppo è qualsiasi individuo che inizi con successo un’azione per gruppo. Dato che secondo tale definizione tutti possono assumere un ruolo di leadership, il leader centrale viene identificato nei termini del volume di azioni ed iniziative prese con successo.
? Per una discussione critica di queste teorie cfr. Gouldner [1965]. 3 Una definizione simile è data da Gouldner [1965, Introduzione].
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Downton afferma che una teoria della Jeadership deve sempre tener conto dello scambio tra leader e militanti, dev'essere cioè una teoria «transazionale». Questa impostazione permette di
includere nell’analisi sia la situazione che la dimensione individuale. Gli assunti di base sono che «gli individui agiscono per raggiungere obiettivi personali. In secondo luogo, si assume che essi cerchino di raggiungere tali obiettivi in modo da minimizzare, tenendo conto delle loro capacità, l’uso di input di risorse scarse per unità di 04put» [Downton 1973, 84]. Il terzo assunto è che vengano proseguite soltanto le attività «paganti», mentre le altre siano abbandonate. Il quarto concerne il fatto che i debiti dello scambio debbano essere prima o poi pagati, mentre i termini dello scambio non sono mai deltutto chiari. Proprio questa ambiguità tuttavia tende a far prolungare lo scambio nel tempo e ad estenderlo quantitativamente e qualitativamente. Una sfumata concezione di «giustizia» stabilisce che le ricompense siano proporzionali allo sforzo ed agli investimenti. Lo scambio è esolare da norme che entro certi limiti stabiliscono il valore dei beni scambiati, la struttura della contrattazione e le rispettive obbligazioni. Per conseguenza, le aspettative degli individui saranno influenzate dalle norme e dalla percezione di come altri soggetti agiscono nelle medesime situazioni. É qui importante la rete di comunicazione, dato che uno scambio soddisfacente è diretta-
mente legato alla possibilità di conoscere i rispettivi bisogni e richieste. La relazione è allora basata sulla volontà e capacità del leader di contraccambiare in modo soddisfacente i seguaci. In caso contrario la relazione si interrompe. Afferma Downton: «Qui è postulato che i seguaci cercheranno di scegliere come leaders le persone che essi ritengono pi abili nel garantire la scelta delle alternative preferite» [1973, 95]; «... il leader che fallisce nel procurare ai seguaci le ricompense attese tende ad essere rimpiazzato con chi invece ci riesce» [1973, 97]. Naturalmente, riferendosi ai
movimenti occorre tener conto dei diversi livelli di adesione individuale: un militante può non avere alcun rapporto con il leader centrale e ciò nonostante essere guidato, nel gruppo a cui aderisce, da un leader secondario il quale a sua volta sarà in contatto, in posizione di subordinazione, con altri /eaders più «centrali». Si costituiscono in tal modo delle «catene di transazioni». Nella sua definizione del rapporto come transazionale, la teoria di Downton è un punto di arrivo di notevole importanza con-
diviso anche da altri studiosi dei movimenti sociali e dell’azione
collettiva come Oberschall [1973] e J. Q. Wilson [1973]. Essa è inoltre confermata indirettamente da recenti studi psicosociali i
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quali mostrano come le possibilità di azione del leader di un gruppo non siano affatto illimitate né dipendenti unicamente dalle sue qualità individuali 4. Tuttavia, Downton insiste sull'importanza dell'autorità personale nei movimenti sociali. Per questa ragione egli privilegia l’analisi della base personale della leadership e propone di sostituire al concetto weberiano di carisma il concetto di autorità personale tripartita su tre basi: transazionale, carismatica e ispirazionale, delle quali la prima resta la più importante. È dubbio tuttavia che il modello di Downton, che sottolinea
la base personale del rapporto ed identifica il leader supremo a partire dal volume di iniziative prese con successo, sia pienamente utilizzabile nell’analisi delle attuali forme di azione collettiva. Esso sembra infatti evocare ed adattarsi bene ad una visione dei movimenti come struttura piramidale di relazioni asimmetriche (catena di transazioni), al cui vertice è possibile individuare un capo assoluto. Come utilizzare allora questa teoria, facendo salvo l'approccio transazionale che ne costiuisce un punto irrinuncia-
bile? Come interpretare soprattutto il fatto che l’azione collettiva appare oggi priva di leaders? In realtà queste caratteristiche non riguardano soltanto le aree di conflitto da noi prese in esame. In una vasta ricerca sul movimento pentecostale e sul Black Power negli Stati Uniti, Gerlach e Hine [1970] hanno messo in evidenza la natura «policefala» e decentralizzata di questi movimenti. I casi da loro studiati presentavano infatti al loro interno diversi gruppi con leaders in competizione tra loro, i quali detenevano il comando solo per brevi periodi, o in situazioni particolari, e solo per singole parti del movimento. Nessuno di essi era invece in grado di dirigere, controllare e prendere decisioni valide per la globalità del movimento in questione.
Gli studi che hanno enfatizzato la dimensione personale della leadership sono stati criticati da più parti. In un recente studio è stato osservato che l’attenzione è spesso centrata su tale dimensione perché «... i leaders dei movimenti sociali tendono ad essere persone brillanti, ed intrinsecamente interessanti per gli studiosi e gli osservatori del movimento. Tuttavia, è doveroso notare che alcune volte i membri di un movimento percepiscono questa
4 Walker [1976] sostiene ad esempio che i leaders scelti dall’interno del gruppo garantiscono un'efficienza maggiore di quelli scelti dall’esterno. Cfr. anche Hamachek [1978].
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attenzione come un’interpretazione distorta delle strutture del movimento stesso. Il Worzen's Liberation Movement è uno di questi casi. Fondamentalmente il Wim si rappresenta come anti-gerarchico e privo di /eaders» [Eichler 1977, 100]. L’analisi rivela invece l’esistenza di movimenti la cui struttura è abbastanza complessa da non permettere ad alcuno di controllarla globalmente, e tantomeno da permettere l'emergere di una leadership centrale unificata. Si affaccia allora l'ipotesi che i movimenti di oggi abbiano assunto una struttura complessa nella quale una varietà di risorse e fattori entrano in gioco, controllati da un numero relativamente ampio di persone e/o gruppi. La relazione di potere non deve allora tenere conto solo dellequalità personali e dello scambio /eader/seguace su questo terreno. Deve invece considerare anche i fattori strutturali presenti nel campo, il cui controllo consente a determinati individui margini di azione diversi (più o meno elevati) da quelli consentiti loro dalle sole capacità personali. Il fatto che la teoria di Downton derivi da studi svolti in funzione di un’applicazione ai tears aziendali può spiegare perché egli dedichi cosi scarsa attenzione al contesto, tanto da far pensare che esso venga considerato praticamente trasparente. In realtà l’importanza dei fattori contestuali è stata segnalata, più o meno direttamente, da varie ricerche sulla leadership nei movimenti [Nelson 1971; Jenkins 1977; Lee e Ackerman 1980]. Esse evidenziano la
quantità di fattori che concorrono ad influenzare la guida dell’azione collettiva. Un altro teorico della leadership [Paige 1977] individua poi cinque dimensioni chiave di cui occorre tener conto nello studio della leadership: personalità, ruolo, organizzazione, compiti e contesto ambientale. Possiamo pertanto affermare che lo studio della leadership dell’azione collettiva coincide con l’analisi della sua «struttura di coordinamento». Sempre tenendo conto dell’approccio transazionale, questa non verrà necessariamente a configurarsi come una
piramide, ma potrà assumere forme variamente articolate, eventualmente collocabili lungo il continuum che va dal centralizzato al completamente decentralizzato $. Diventerà allora fondamen5 L’insistenza sui fattori attinenti alla persona è cosf marcata nelle analisi sulla leadership da spingere due studiosi dei fenomeni di potere nelle organizzazioni ad affermare che lo studio della leadership riguarda l’analisi delle capacità personali, al di là dell’influenza della struttura di relazioni nella quale gli individui sono inseriti [Bacharach e Lawler 1980]. È s 6 Della medesima opinione è Panebianco [1982, capitolo terzo] che propone di parlare, anziché di leadership, di «coalizione dominante».
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tale un’analisi del modo specifico in cui il coordinamento dei movimenti si articola e svolge le sue funzioni. Abbiamo in tal modo introdotto la questione delle diverse componenti che l’azione della leadership deve tenere insieme. Downton parla a questo proposito di funzioni e di ruoli. Due sarebbero in particolare i ruoli della Zeadership: strumentale ed espressivo. Per quanto concerne il primo, Downton riprende la ripartizione proposta da Barnard [1938] ed enumera tre funzioni: la determinazione degli obiettivi e dei valori che ad essi si rifanno; la funzione di comunicazione che riguarda sia il motivare che l’informare; la mobilitazione delle risorse e degli individui. La /eadership espressiva ha invece due funzioni: supporto dell’ego ed ispirazione. Per quanto concerne numero e tipo delle funzioni che caratterizzano la Zeadership le proposte di classificazione avanzate sono peraltro relativamente disomogenee. Melucci [1977] individua ad esempio le seguenti funzioni: definizione degli obiettivi e dei valori di riferimento; raccolta delle risorse per l’azione; mantenimento della struttura e della coesione del movimento; mobilita-
zione della base verso gli obiettivi ed articolazione con le componenti dell'ambiente esterno; mantenimento e rafforzamento dell'identità collettiva. J. Wilson [1973] elenca invece cinque problemi: adattamento e raccolta delle risorse; raggiungimento degli obiettivi; scelta delle tattiche; integrazione del movimento; man-
tenimento della dedizione alla causa da parte dei membri e simpa-
tizzanti. Da punto di vista analitico non sembra dunque esservi completa chiarezza; è tuttavia importante mettere in luce che un movimento in quanto attore collettivo ha delle necessità o esi-
genze (funzioni, problemi) indipendenti dal comportamento degli individui che ne fanno parte. Ciò non impedisce peraltro di pensare che movimenti o attori collettivi diversi possano avere strutture di leadership che operano attribuendo differente importanza alle varie componenti dell’azione. I criteri di efficacia ed efficienza possono quindi variare, vuoi perché l’efficacia è definibile in ciascun contesto in modo differente, vuoi perché attori diversi possono quantomeno adattarsi a soglie di efficacia più o meno elevate a seconda dei casi 7. Un'ipotesi di questo tipo può in primo ? Si veda ad esempio uno studio di Ford, Nemiroff e Pasmore [1977], in cui si conclude che l’efficacia del gruppo nell’azione è influenzata dal tipo di rapporto stabilitosi all’interno, il quale è alla base di diverse «tradizioni» caratterizzate da differenti norme.
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luogo spiegare perché le diverse teorie non hanno mai trovato un accordo su quale fosse il tipo più efficace di leadership. In secondo luogo essa permette di tener conto delle conseguenze impreviste che l’azione del leader può provocare *, proprio perché le funzioni non vengono considerate un vincolo «naturale» da soddisfarsi sempre e comunque, pena la scomparsa dell’attore collettivo. Risulta infine possibile andare alla ricerca dei fattori che possono spiegare queste variazioni e queste differenze. Nella cerchia dei militanti che possiamo definire «permanenti» si concentrano ovviamente le strutture della leadership. Dovremo quindi analizzare in particolare i gruppi, le associazioni e organizzazioni che interagiscono nelle varie aree. I militanti di questi nuclei infatti formano già una sorta di élite dei movimenti. Considereremo pertanto due livelli di analisi: ad un primo livello prenderemo in esame i singoli nuclei di militanza. Al secondo cercheremo invece di mettere a fuoco la struttura di coordinamento di tutta l’area o movimento, ricercandola nella interazione tra i militanti permanenti dei vari nuclei. L'attenzione sarà qui rivolta all’interdipendenza dell’insieme, alle caratteristiche delle relazioni di potere tra i diversi nuclei, alle funzioni svolte da ciascuno di essi nella struttura globale?. 3. La leadership nei nuclei Secondo J. Wilson [1973], un movimento sociale si caratte-
rizza tra l’altro per il fatto di presentare una gerarchia riconosciuta e ben definita. Abbiamo già detto come in realtà ciò che oggi appare agli sguardi del ricercatore sia palesemente diverso. L’assenza di gerarchie formali e di capi riconosciuti non sembra poi abbia nulla a che vedere con la fase di «latenza» attualmente attraversata dai movimenti. Essa caratterizza infatti anche le mobilitazioni condotte dal movimento per la pace, dagli ecologisti 0, già da molto tempo, dal movimento delle donne. La trasformazione verificatasi su questo terreno non è stata la conseguenza di scelte strategiche a livello centrale, ma piuttosto il risultato di una pratica diffusa nei nuclei delle varie aree. Con il
8 Cfr. ad esempio Johnson [1979], Lee e Ackerman [1980], Jenkins [1977]. 9 Questa seconda parte dell’analisi non pare applicabile all’area della «nuova coscienza», per la quale non si può parlare di un movimento unificato, e nemmeno di un’interdipendenza tra i vari gruppi.
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termine «nuclei» intendiamo qui riferirci a quelle forme associative che costituiscono punti stabili di aggregazione e di interazione, all’interno di una visione delle aree di mobilitazione come strutture «reticolari» [Gerlach e Hine 1970]. I nuclei del movimento post ’68 erano costituiti dalle strutture organizzative dei gruppi politici 19; attualmente la presenza di questi ultimi è molto ridotta, mentre la loro azione, nonostante alcuni punti di contatto, non è assolutamente riducibile a quella delle aree di nostro interesse. I gruppi, le organizzazioni o associazioni che ci tro-
viamo di fronte sono invece completamente informali; la loro distribuzione sul territorio è del tutto casuale e non risponde ad un preciso disegno di costituzione di una rete organizzativa. Essi si sono certo costituiti in gran parte ad opera di ex militanti, mà è proprio questa presenza che appare come acerrima rivale dell’organizzazione di stampo leninista e, attraverso questa, dell’organizzazione in generale. Si può quindi individuare un rapporto al tempo stesso di continuità e rottura tra le organizzazioni degli anni Sessanta-Settanta e l’azione collettiva degli anni Ottanta. Il rifiuto di riconoscere e proclamare dei /eaders, ed il passaggio dalle organizzazioni formali ai gruppi informali è un processo che va di pari passo con il tentativo di rifondare l’identità collettiva e di sostituire ad uno scambio di lungo periodo scarsamente controllabile uno scambio di natura immediata e con caratteristiche di alta controllabilità. Lo scambio immediato richiede in sostanza che la partecipazione sia vista come un beneficio in se stessa; l'accento viene posto sul protagonismo e sulla pratica quotidiana degli obiettivi. Questi fattori accentuano ulteriormente il rifiuto della delega, della rappresentanza e dei /eaders che la ridefinizione dell’identità e il tentativo di controllo dal basso portano comunque con sé. Questi gruppi presentano quindi una struttura in larga misura egualitaria, anche quando vanno oltre il gruppo a carattere solidaristico-affettivo o espressivo, o il semplice gruppo di «amicizia militante».
Tutto ciò comporta però dei problemi affatto particolari, peculiari di questa fase dell’azione collettiva; non è infatti possi-
10 Senza essere delle organizzazioni formali nel senso solitamente attribuito al termine, queste organizzazioni possedevano comunque
una struttura esplicita, facilmente visibile. L'appartenenza ad esse era altresi definita senza ambiguità, vale a dire in termini formali.
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bile supporre che le asimmetrie nei rapporti interni a questi gruppi siano venute meno.
Possiamo cercare di rappresentare analiticamente questo mutamento utilizzando la distinzione proposta da Crozier [1969] tra potere dell’esperto e potere Seiurcliica funzionale. Il primo tipo di potere è fondato sul controllo dell’incertezza che si crea
nella situazione
(ovviamente
in ogni contesto
diverse
saranno le fonti dell'incertezza, e per conseguenza molteplici le persone che potranno utilizzare questa capacità). Tale forma di potere è un dato ineliminabile di ogni situazione di interazione tra attori. Il secondo tipo di potere è invece fondato sulla statuizione di regole formali che attribuiscono ad alcune persone la possibilità di esercitare un controllo su altre ed eventualmente di limitare la loro opportunità di utilizzazione della prima forma di potere. ; Nelle aree di movimento si è assistito a partire dal 1976/1977 ad una discussione lacerante sulle forme di potere che ha avuto come risultato l'eliminazione delle forme gerarchico-funzionali, ossia la delegittimazione di qualsiasi forma di potere fondato su regole formali e di qualsiasi forma gerarchica. Questo processo è stato contemporaneo al declino delle organizzazioni di movimento di forma più o meno partitica, strutturate cioè in buona misura su basi formali. I movimenti hanno attraversato ed attraversano tuttora una fase di critica ai mezzi dell’azione che ha coinvolto la loro struttura, portandoli ad una consapevolezza della presenza inevitabile del potere e tuttavia, in seguito a ciò, ad una ristrutturazione delle forme e dei mezzi per il conflitto. Questo tema ha investito in questi anni, pi in generale, anche il senso comune delle società avanzate. Gli attori dei movimenti hanno quindi mutuato dall’esterno, contribuendo allo stesso tempo a fondarla e specificarla, la consapevolezza che il potere esiste ma contemporaneamente non esistono (perlomeno, non esistono ancora) forme di relazione sociale in grado di eliminarlo. Naturalmente, la dimensione ideologica è sempre presente nella rappresentazione che gli attori hanno dei loro rapporti. Tuttavia tale rappresentazione sembra avere abbandonato la prospettiva egualitarista che dall’abbattimento delle forme più visibili del potere fa discendere l’eliminazione di qualsiasi potere e punta al raggiungimento su basi volontaristiche di una mitica trasparenza nei rapporti. In questa fase sembra piuttosto emergere l’esigenza della «visibilità» del potere; i modi in cui si struttura l’interazione rimangono un problema
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rilevante, spesso anzi il primo problema all'attenzione degli attori!!.
Va notato che questo orientamento autoanalitico tende ad impedire qualsiasi forma associativa, qualora divenga sistematico ed investa tutti gli ambiti di relazione. La presenza di un’organizzazione implica infatti necessariamente una qualche forma di potere legittimato, la cui assenza innesca tendenze auto-distruttive. In alcuni gruppi si sfiora spesso questo limite !2; in altri tuttavia si può constatare una sorta di accordo che, pur riconoscendo nel potere un problema, riconosce anche l’incapacità degli attori ad eliminarlo, almeno per ora, ed impone quindi la scelta «realistica» di vivere e di agire accettando il potere come un male necessario. Questa rappresentazione è presente in misura diversa in
tutte le forme associative che si riconoscono nelle varie aree di movimento.
i
Una tale visione ha ridotto la capacità di agire verso l’esterno: ha infatti reso più deboli gli attori per i quali nessun obiettivo sembra più sufficiente a giustificare l’esercizio del potere. Peraltro, la critica alle forme del potere e la riduzione della capacità di azione verso l’esterno sono stati due processi paralleli. La riflessione sugli aspetti delle asimmetrie e dell’interazione è tuttora parte di un processo di riconoscimento dell’importanza della forma e delle modalità dell’azione. Nella sua versione più radicale ciò ha comportato il rifiuto di agire verso l’esterno, motivato dalla convinzione che una trasformazione sociale passa in primo luogo attraverso una trasformazione individuale, interiore !5. Il conflitto attuale si connota essenzialmente in termini «culturali»,
mentre perde rilevanza la componente di intervento politico. Vengono quindi meno i vincoli posti all’azione del movimento dalle «scadenze» esterne, dalla congiuntura sociale e politica. In tale contesto, il concentrare energie sull’analisi delle differenze e l’accettazione della discussione interna sono un prezzo, in termini di capacità d’azione verso l’esterno, che gli attori hanno deciso di 11 Si veda ad esempio questa affermazione raccolta nel Collettivo Donne Ticinese: «Secondo me, i meccanismi di potere sono stati le cose che maggiormente hanno frenato, perché noi non siamo in grado di vederli; cioè, noi li vediamo quando hanno già agito; perché quelli più semplici, normali, li smascheriamo subito, ma invece ci sono altri meccanismi che nascono pit da noi...». | 12 È appunto questo il caso del Collettivo Donne Ticinese. 13 Convinzione che troviamo radicata, oltre che nel Collettivo Donne Ticinese o nel centro Ghe Pel Ling, anche in un gruppo che per certi versi ne costituisce l'opposto: Ecologia 15.
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pagare. La consapevolezza e la rappresentazione di questo hardicap hanno valorizzato la scelta di rinunciare ad obiettivi di trasformazione sociale di lungo periodo. Si sono invece privilegiate forme di azione più controllabili e forme di partecipazione che non fossero soltanto un costo da pagare in vista di un futuro lontano, ma che comportassero anche una gratificazione più immediata, non importa se di tipo affettivo o materiale/professionale. Questo processo, fondamentale per comprendere l’azione collettiva odierna, si è svolto prima di tutto all’interno dei nuclei del movimento. Ha implicato dapprima una rifondazione di questi ed in seguito una ridefinizione dell’identità del movimento. Le e vittime di questa sfida sono state le forme di potere formaizzate e codificate, soprattutto in quanto forme più evidenti, palesi, dell’asimmetria. Esse hanno avuto il ruolo di capro espiatorio assieme a coloro che le occupavano !4, aprendo la strada al rifiuto simmetrico di diritti e doveri codificati una volta per tutte in vista di un obiettivo lontano. Questi ultimi appaiono infatti contraddittori con la necessità di vivere quotidianamente il proprio antagonismo !, necessità che comprende anche e prima di tutto i rapporti con gli altri membri del movimento. Gli aspetti formali di una struttura ne rappresentano la dimensione pit evidente e più esplicita; il potere gerarchico e la formalizzazione
delle relazioni sono perciò pit facilmente individuabili ed attaccabili. La riflessione ha però cercato di andare più a fondo, investendo molti altri aspetti delle relazioni di potere. Scontata l’impossibilità di una trasparenza dei rapporti, essa ha cercato di imporre una diffusione del controllo e della decisionalità, mettendo l’accento sull’equità dello scambio pi che sulla eguaglianza delle persone !6. Le relazioni di potere in questi nuclei sono cosf venute a dipendere dal controllo sulle risorse e sulle zone di incer14 Il capro espiatorio è sempre legato alla gerarchia formale in quanto implica di poter comparare esplicitamente gli obiettivi affidati, imezzi utilizzati ed i risultati raggiunti. Cfr. Bonazzi [1980]. Cfr. inoltre la nota 11 che chiarisce il problema dell’evidenza e dell’occultamento. 15 Si pensi all’affermazione, presente in tutti i movimenti analizzati, del rifiuto dellamilitanza come dovere di esecuzione di ordini calati dall’alto: «Occuparmi di ecologia significa pensare con la mia testa» afferma un membro di Ecologia 15 interrogato sulla differenza tra la partecipazione di oggi e la militanza degli anni Settanta. 16 Appaiono ad esempio del tutto superati meccanismi di rotazione dei compiti e dei fa su basi e con fini egualitaristi come quelli descritti da Rothschild-Whitt [1976a, 1976b, 1979] e Mansbridge [1973].
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tezza create nel contesto dell’interazione tra gli individui. Ciò le ha rese meno verticistiche, in primo luogo perché il controllo su queste zone di incertezza è difficilmente accentrabile, ed in secondo luogo perché è diventata legittima la messa in discussione del rapporto di potere. Seppure accettato come un male necessario ed inevitabile, il potere può continuamente venir messo in causa, attaccato, smascherato, o comunque sottoposto al confronto con possibili alternative. Anche e soprattutto a questo livello si ssa infatti la sfida che questi movimenti portano nei confronti della società. L’accento sull’eguaglianza di chances! rende allora legittima la critica, la continua contestazione di chi detiene più potere, di chi sembra voler accentrare il controllo e le decisioni. Paradossalmente, lo stesso ruolo di critica e di smascheramento tende a divenire un ruolo di leadership. In tal modo si presta ad essere messo a sua volta sotto accusa, in una sorta di processo di diffusione della sfida che può evolversi solo in direzione di un modello di equilibrio generale, combinatorio e non verticistico. Un altra causa di asimmetria è costituita dalla maggiore disponibilità all'impegno, sia come tempo impiegato nel lavoro interno, sia come qualità della partecipazione. Ciò garantisce sovente una posizione di preminenza in situazioni organizzative generalmente di piccole dimensioni (dalle dieci alle trenta persone), con un grado di complessità interna assai ridotto. Al tempo stesso viene però criticato l’impegno elevato, in quanto sintomo di accentramento (cfr. ad esempio il caso di Nuova Ecologia). Esso sembra essere legittimato solamente per competenza, in seguito cioè alle riconosciute capacità della persona rispetto agli obiettivi del gruppo in questione, e per conformità, cioè quando la legittimazione discende dal comportarsi secondo le norme e le aspettative del gruppo !8. Nei gruppi professionalizzati la legittimazione tende ad essere del primo tipo, mentre nei gruppi solidaristico-affettivi essa tende ad essere del secondo. In questo modo possiamo disporre i gruppi su di un continuum che ha ad un estremo la legittimazione per competenza, ed all’altro quella per conformità. Ciò può spiegare anche la discussione sul carattere conformista o innovativo della
17 Ancora una volta, in un certo senso, i gruppi rispecchiano un processo di più vasta portata sociale, vale a dire l’attuale riflessione sulla società come risultato di un contratto. Cfr. ad esempio Veca [1982]. 18 La tipologia della legittimazione è proposta da French e Raven [1959].
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leadership ?. Possiamo infatti ipotizzare che un potere di competenza apra degli spazi all’innovazione nelle norme del gruppo. In assenza di questo la capacità di innovare si riduce, ed il leader è costretto alla conformità. Proprio per questa ragione, nei gruppi a carattere solidaristico-affettivo, centrati su se stessi, il olo di leader tende ad essere appiattito completamente, vuoi per il rifiuto di qualsiasi asimmetria visibile, vuoi per la sua tendenza a sovrapporsi e ad identificarsi con un ruolo di terapeuta (esperto) del gruppo. In entrambi i casi c’è il rischio di innescare dinamiche interne scarsamente controllabili. Non sembra quindi casuale che proprio gruppi come il Collettivo Donne Ticinese e la Commissione Cultura del C.S. Leoncavallo siano stati maggiormente toccati dall'impatto con la ricerca, che ha favorito l’esplicitarsi di asimmetrie e differenze in precedenza più o meno abilmente occultate. Il sistema di rapporti qui descritto è perfettamente analizzabile alla luce della teoria transazionale di Downton. L’interesse dei nostri casi sta però nel fatto che, in un momento di rivalutazione dello scambio di breve periodo, il leader sembra essere colui che accetta di impegnarsi nello scambio di più lungo periodo. In altre parole, è leader chi è disposto ad investire a lungo termine, scommettendo sulla capacità d’azione del gruppo e sui suoi risultati futuri. In un contesto in cui l’attenzione dei membri è fortemente centrata sull’equità dello scambio, l’asimmetria ha cosf un nuovo fondamento; essa sembra nascondersi nelle pieghe della relativa minore calcolabilità di un investimento a lungo termine. I membri si dividono allora tra coloro che sono disposti a compiere uesto investimento e coloro che invece vi si sottraggono. Ciò evienzia i rischi insiti nella posizione di leader (del resto come vedremo pur sempre relativa) e spiega come mai essa non sia ambìta ed invidiata come sembrerebbe lecito aspettarsi 2°. L’ambiguità di questa figura è sovente rilevabile, ad esempio nel Collettivo Donne Ticinese o in Nuova Ecologia. Ad un tempo amato
19 Il dibattito sul fatto che il leader sia un innovatore piuttosto che invece semplicemente il miglior interprete delle norme del gruppo risale ad una ventina di anni fa. Sfortunatamente, gli autori che si sono occupati di questo problema [Hollander 1964; Moscovici 1981; Ridgeway 1981] lo hanno fatto con studi di laboratorio. Questi autori hanno comunque unanimamente confermato che la competenza funge da elemento sostitutivo rispetto alla conformità e permette quindi l’innovazione. Cfr. in particolare Moscovici [1981]. 20 Ciò è coerente con quanto indicato da Pearce [1980] in uno studio sul rifiuto dei ruoli di /eadership da parte dei membri delle organizzazioni volontarie.
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ed odiato, il leader (o i leaders) riesce ad assolvere la funzione di
indirizzare il gruppo verso determinati obiettivi, peraltro spesso limitati nel tempo e nello spazio (si pensi ad Ecologia 15). Ciò avviene però al prezzo di un duro lavoto, sopportando forti tensioni ed indebolendo ulteriormente la propria posizione. Ci troviamo pertanto ancora una volta di fronte ad un modello di equilibrio complessivo piuttosto che ad una struttura verticistica. L'unico elemento che con evidenza caratterizza il ruolo di colui che abbiamo chiamato /eader sembra essere una superiore disponibilità all'impegno. Da essa non discende tuttavia alcun riconoscimento esplicito al riguardo, se non in negativo, attraverso l’accusa di essere accentratore o di «fare il leader». In nessun caso egli è comunque in grado di controllare completamente l’azione del gruppo. La tendenza di queste forme organizzative ad assumere modalità di funzionamento «sistemiche» trova la sua conferma più forte nel prevalere delle funzioni di mantenimento su quelle didecisione e di scelta degli obiettivi e allocazione delle risorse. La crisi e la scomparsa del modello verticistico, la discussione sul potere e sulle sue modalità di esercizio colpiscono direttamente la funzione di decisione. La decisione «è il fulcro dell’azione della leadership» [Melucci 1977, 141]; ma nei nuclei dei «nuovi» movimenti essa sembra finalizzata a garantire la sopravvivenza della forma associativa piuttosto che lo sviluppo di un intervento efficace verso l'esterno. Quest'ultimo d’altra parte sembra aver perso importanza a causa di mutamenti più generali verificatisi nel sociale, non ultimo proprio la diffusione e dispersione del potere e delle sue forme appariscenti, concentrate e fisiche che mutano verso forme oi culturali e capillari. La decisione, sovraccaricata da necessità alle quali è estranea, è quindi costretta ad assumere forme nuove, a inventare percorsi più complessi che sembrano porre gli aspiranti leaders di fronte a strane barriere. In primo luogo essa non è pit concentrata in un solo leader, ma tende ad essere redistribuita tra i militanti che per motivi diversi giocano ruoli rilevanti all’interno dei gruppi. Tra essi si instaurano meccanismi di reciproco controllo che ostacolano l’emergere di autentici leaders. L'esempio più eloquente di quanto affermiamo è senz'altro costituito dalla struttura di «triumvirato» emersa all’interno della Commissione Cultura del Centro Sociale Leoncavallo, che blocca l'aspirazione di Paolo ad affermarsi come /eader di tipo ideologico. In altri casi si adotta un meccanismo di rinvio ad oltranza della decisione, sino a quando essa non deve essere presa sotto la spinta di necessità particolarmente urgenti. La scelta
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finale, comunque compiuta dai leaders, appare allora meno una espressione esplicita di asimmetria, e si presenta invece come la risposta ad esigenze organizzative irrinunciabili. Avendo la partecipazione aumentato la possibilità di controllo sullo scambio fino a Sucptare praticamente un beneficio in sé, la presenza esplicita di un /eader diventa disfunzionale. È invece perfettamente funzionale un modello articolato di equilibrio che tende all’automantenimento, in cui il ruolo del /eader centrale
scompare. Ed è tale l’importanza di questa funzione di mantenimento della struttura organizzativa, che diventa possibile distinguere tra le sue varie forme a partire dai differenti meccanismi di riduzione delle tensioni utilizzati, che non sono comunque in nessun caso governabili da un singolo leader. Secondo Pagés [1975], la formalizzazione è il risultato del tentativo di ridurre le tensioni che nascono dalla relazione di gruppo separando la persona dal ruolo. L'interesse delle strategie di riduzione delle tensioni adottate dai nostri gruppi sta in primo luogo nel loro fondarsi comunque, e nonostante le ovvie differenze, sulla separazione della persona dal ruolo, ma senza ricorrere d’altro canto alla costituzione di una organizzazione formale. Senza la pretesa di costruire una tipologia analitica, ma solo a fini di descrizione di alcuni casi incontrati, possiamo individuare almeno tre tipi di soluzioni. a) La forma più comune sembra essere quella che potremmo definire 4 doppio livello di solidarietà, di cui un buon esempio è rappresentato dal comitato di redazione di Nuova Ecologia. In questo caso si crea tra i membri una relazione duplice: una relazione amicale abbastanza profonda ed una relazione organizzativa
funzionale. La funzione della doppia relazione è quella di attutire le tensioni dovute alle necessità organizzative per mezzo della relazione amicale, tramite la separazione dei due piani. Per conseuenza, i membri che sperimentano delle tensioni reciproche nel Lo lavoro verso l’esterno possono poi tornare solidali passando alla relazione amicale. È chiaro però che il meccanismo funziona soltanto se i due piani sono mantenuti separati, e contemporaneamente a condizione che il passaggio dall’uno all’altro sia continuo. Questo modello sembra utilizzabile soltanto quando il rapporto di amicizia precede quello funzionale; ciononostante esso appare essere il più comune data la relativa frequenza con cui la ricostruzione organizzativa delle aree di movimento ha dato origine a gruppi di «amicizia militante». b) Il secondo tipo è quello che potremmo chiamare gruppo di autoriflessione. Il meccanismo di separazione ruolo-persona è si-
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mile al primo ma anziché essere reale è basato sulla rappresentazione dei comportamenti ostili o generatori di tensione come comportamenti di ruolo, che in tal modo possono essere percepiti come «altro da sé» e non coinvolgono direttamente le relazioni interpersonali. Questo meccanismo serve ad alleggerire le tensioni in gruppi molto attenti alle dinamiche interne come il Collettivo Donne Ticinese, ma presenta d’altro canto un funzionamento assai delicato per il fatto di non mantenere sufficientemente separati i due piani. c) Un terzo tipo è infine rappresentato da quei gruppi che potremmo chiamare 4 base contrattuale (Ecologia 15, Centro Ghe
Pel Ling). Il problema delle tensioni è risolto attraverso l’elasticità, Hr a dire attraverso la massima libertà di entrata/uscita dal gruppo. Abbiamo definito questo modello come contrattuale perché qui viene esasperato l'aspetto immediato, di breve termine dello scambio. Esso permette di non coinvolgere la persona e le sue scelte nella loro globalità, investendo solo una parte dell’esperienza di vita, che è sempre possibile modificare o annullare nel caso l'adesione non dia esiti soddisfacenti 21. Bisogna d’altra parte ricordare che nel caso specifico di Ecologia 15 il gruppo si fonda anche su risorse materiali ed organizzative provenienti dall’esterno, in particolare dalla istituzione (l’amministrazione provin-
ciale). Ciò gli conferisce una stabilità indipendente dall’eventuale rotazione degli individui che vi operano, diversamente da quanto si verifica in altri gruppi. E pur vero che il controllo sull’uso di queste risorse è nelle mani di coloro che da più tempo ed in misura maggiore si impegnano nelle attività; anche gli altri possono però adeguare automaticamente il livello di partecipazione al livello di gratificazione ricevuta. Questa soluzione appare la pit vicina alle linee di tendenza globali dei movimenti nella fase attuale: scambio di breve periodo, partecipazione come beneficio in sé, fine delle ideologie e delle strategie di lungo periodo. È difficile dire come nascano e si sviluppino tali meccanismi che possiamo ben definire sistemici. Certamente essi non sono il risultato di un progetto perseguito lucidamente dagli attori. Piuttosto essi sembrano il risultato di una evoluzione in larga misura indipendente dal controllo degli individui coinvolti. In ogni caso
21 Nel caso del centro Ghe Pel Ling il carattere non globale dell'adesione al gruppo va riferito agli specifici e limitati ambiti di vita e di relazione in cui i suoi membri si trovano coinvolti. La ricerca interiore individuale pervade invece ogni momento dell’esperienza quotidiana.
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l’importanza di meccanismi di questo tipo sembra confermata dalla crisi di gruppi come la Commissione Cultura del Centro Sociale Leoncavallo, che essendone priva ha fondato la sua coesione esclusivamente su una proiezione delle tensioni verso un avversario esterno.
L’esistenza di questi meccanismi conferma la tendenza dei
nuclei di militanti a trasformarsi in sistemi caratterizzati da una forma combinatoria-complessa, pit che verticistica, del potere. È indubbiamente grazie ai meccanismi di riduzione delle tensioni che alcuni individui possono indirizzare l’azione coordinandola verso obiettivi esterni (comunque limitati e di breve periodo). È
altrettanto vero però che questi meccanismi non sono funzionali principalmente ad un aumento della capacità decisionale, o allo sviluppo di un’azione verso l’esterno, quanto piuttosto al mantenimento della coesione ed alla riproduzione delle forme organizzative. Quest'ultima sembra essere la funzione principale e prioritaria perseguita nei nuclei dei movimenti; funzione la quale, inoltre, non è affatto controllata da una struttura di leadership né tantomeno da un singolo leader, ma appare invece esplicarsi attraverso un modello di equilibrio che sfugge al controllo dei singoli parteci-
panti.
4. La leadership di area
Le trasformazioni cui abbiamo accennato in apertura del saggio investono in misura particolare le caratteristiche della /eadership a livello di movimento globale. Il passaggio a forme di mobilitazione di breve periodo limitate a temi specifici anche se a volte di grandissima importanza come il disarmo, l’uso del nucleare o la violenza contro le donne, mina le basi su cui si fondava il modello di leadership centralizzata. Vengono infatti meno la natura strategica dei conflitti, e quindi l’esigenza di elaborazione ideologica ad essa connessa. Al tempo stesso perde rilevanza la presenza di strutture in grado di coordinare e guidare in modo continuativo le mobilitazioni. I movimenti non tendono più a proporsi come soggetti unitari e monolitici, capaci di condurre un’azione politica e di classe su scala globale. Assai più che sull’omogeneità interna e sugli elementi che accomunano le varie esperienze, si pone invece l’accento sulla differenza tra di esse, sulla molteplicità dei contenuti espressi. L’obiettivo-valore non è pit definito una volta per tutte sulla base di priorità dedotte dall’ideologia e dalla dottrina ma si modifica invece in continuazione a partire dai
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mutevoli bisogni emergenti tra i militanti. Esso attiene inoltre in misura crescente alla qualità delle relazioni interne dei gruppi, piuttosto che all’intervento sull’esterno. Se i termini dello scambio sono sottoposti a continua contrattazione nei gruppi di base, a maggior ragione ciò si verifica a livello di area. Alle dichiarazione di appartenenza e di identificazione con il movimento si accompagna infatti il rifiuto di impegnarsi in strutture formalizzate che ne garantiscano la coerenza e la continuità dell’azione. I processi di delegittimazione e rottura delle gerarchie e dei modelli di relazione formalizzati si esplicita a questo livello con conseguenze analoghe e forse pit evidenti di quelle individuate a livello di piccolo gruppo. I movimenti odierni si presentano dunque come reti di relazioni, di flussi comunicativi, di circolazione simbolica tra realtà assai eterogenee. Essi passano con estrema naturalezza da forme di latenza a momenti di mobilitazione visibile e puntuale, e viceversa. In tale contesto risulta inapplicabile una griglia di analisi che pretenda di individuare la guida centrale del.movimento, fornita di un potere legittimo di rappresentanza e di decisione. Un riesame del concetto di leadership deve invece partire dalla presenza di esigenze funzionali che appaiono essenziali al mantenimento della struttura di relazione cui accennavamo sopra, e che d’altra parte richiedono per essere assolte risorse specifiche e distribuite in misura non uniforme. Allo stato attuale, vale a dire in una situazione in cui prevalgono forme di latenza e di «invisibilità» della mobilitazione, occorre in primo luogo garantire la permanenza di un minimo di identità collettiva tra le esperienze che si riconoscono nella medesima area. D'altro canto, è necessario mettere a disposizione, in
occasione delle mobilitazioni condotte dall’area nel suo insieme, le risorse organizzative e di militanza atte a garantire una qualche efficacia all’azione. Ciò deve però avvenire mantenendo al tempo
stesso l'equità dello scambio tra i vari gruppi coinvolti. Non devono cioè emergere forme di asimmetria palese e tantomeno formalizzata, pena la rottura dell’equilibrio faticosamente e provvisoriamente raggiunto.
Nel movimento sociale «politicizzato» il senso di appartenenza si definiva a partire dal riferimento alla comune ideologia rivoluzionaria, e si rafforzava attraverso la partecipazione alle mobilitazioni ed alle attività delle strutture formali di aggregazione (partiti, circoli, collettivi studenteschi, ecc.). Anche i centri sociali hanno svolto una funzione analoga, anche se in forme già molto diverse. Nel momento in cui tale ruolo aggregante viene
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meno almeno parzialmente, diventa essenziale la circolazione delle informazioni all’interno delle aree. In particolare, i movimenti tendono a ricostruire una pur limitata unità intorno a speci-
fici temi di dibattito. La proposta può arrivare da riviste come «La nuova ecologia», da strutture come la Libreria delle donne, da emittenti come Radio Popolare. Il documento «Più donne che uomini» della Libreria delle donne (gennaio ’83) ha ad esempio rivitalizzato la discussione ed il confronto all’interno di un’area che per lungo tempo aveva privilegiato il silenzio e la ricerca sotterranea. L’invito al dibattito rappresenta poi un riferimento ed una fonte di riconoscimento non solo per le esperienze che mantengono comunque una dimensione collettiva, ma anche e forse soprattutto per la crescente massa dei cosiddetti «cani sciolti». Ci riferiamo qui all’insieme delle persone che pur essendo ora estranee a forme di impegno continuativo intendono mantenere un legame con la loro pratica passata e manifestano una qualche disponibilità all’azione su un terreno specifico e limitato. E bene sottolineare che le proposte avanzate sono accomunate dalla natura non operativa: viene infatti privilegiata la dimensione dell’analisi intellettuale, la prospettiva teorica di ampio raggio, senza dedurne tuttavia (e sta qui la differenza rispetto ai dibattiti ideologici precedenti) direttive concrete di mobilitazione. Un altro punto di incontro per le aree è rappresentato dalle strutture che operano sul terreno culturale, di cui il Centro Culturale di P.le Abbiategrasso ha costituito un importante esempio. C'è stato qui il tentativo di inserire le attività di servizio (corsi sportivi e di arti varie, feste, rassegne musicali, ecc.) in una strate-
gia più ampia, finalizzata al superamento della dicotomia utenti/ operatori attraverso l’autogestione della produzione culturale. Il ruolo delle organizzazioni politiche risulta più importante nei momenti di mobilitazione. Esse dispongono infatti delle risorse strumentali necessarie alla gestione del conflitto: esperienze di militanza, strutture organizzative, una diffusione relati-
vamente capillare. Anche le emittenti radiofoniche giocano una parte di primo piano su questo terreno: se infatti le proposte di mobilitazione arrivano da gruppi ed organismi di varia natura, il loro successo dipende in misura non indifferente dallo spazio ad esse assegnato dagli organi di informazione «alternativa», gli unici in grado di raggiungere l’area potenzialmente mobilitabile. Da un punto di vista formale la «guida» delle mobilitazioni viene in genere affidata a comitati appositamente costituiti, che svolgono un’azione di coordinamento a livello nazionale e/o
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locale: i comitati popolari per il controllo sulle scelte energetiche hanno ad esempio costituito un punto di riferimento per la mobilitazione antinucleare; a Milano, la lotta degli studenti per la pace ha utilizzato come strumento organizzativo il Comitato Studenti Indipendenti 22. In questi comitati il peso dei partiti e dei loro organismi collaterali (Arci-Lega Ambiente, Upi, associazioni antinucleari di ispirazione Radicale, organizzazioni giovanili) è variabile, alto soprattutto nelle strutture di coordinamento a livello nazionale >. Vedremo comunque come in questo caso si debba parlare di una leadership puramente funzionale. La tendenza a garantire l’equità dello scambio si esplicita innanzitutto nella trasformazione radicale dei concetti di decisione e rappresentanza.
In linea di principio, le scelte riguardanti la gestione delle varie mobilitazioni vengono prese dai corrispondenti comitati coordinatori, sul piano nazionale come su quello locale. Bisogna tuttavia osservare che la decisione non ha alcun carattere vincolante nei confronti dell’area e delle sue singole componenti, e si configura piuttosto come una proposta proveniente da strutture
cui non è riconosciuta alcuna autorità formale. Tantomeno esse sono legittimate ad assumere la guida dei movimenti in una prospettiva strategica. Da questo punto di vista è significativo il caso del Comitato 24 ottobre. L’aspirazione a superare una concezione puramente strumentale del suo ruolo nelle mobilitazioni per la pace si è di fatto rivelata impraticabile. Si è invece verificato un progressivo impoverimento della sua azione, culminato nel suo scioglimento di fatto, cosa che non ha peraltro impedito lo sviluppo di nuove iniziative di lotta sul terreno del disarmo. Alla riduzione della funzione decisionale corrisponde quella della rappresentanza. Nessun gruppo tende a proporsi come rappresentante ufficiale del movimento, ruolo che peraltro non gli verrebbe riconosciuto. Anche da parte delle organizzazioni politiche si accetta l’ipotesi di un rapporto di reciprocità con le varie
22 Abbiamo
tratto alcune informazioni
su quest’ultima struttura da G.
Benazzi e C. Rovelli, Il comitato studenti indipendenti, relazione presentata al semi-
nario su «I giovani nel movimento per la pace», Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano, primavera 1983. 23 Il riferimento è soprattutto alla lotta per la pace ed il disarmo, oltre che alle già citate mobilitazioni contro l’installazione delle centrali nucleari. Il Comitato 24 ottobre e, successivamente ed in forma pit strutturata, il Coordinamento Nazionale dei Comitati per la Pace hanno garantito i contatti tra le varie realtà impegnate su questo terreno.
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componenti impegnate nelle mobilitazioni. Nel movimento giovanile, gruppi come la Feci o DP mettono a disposizione le risorse umane ed organizzative necessarie, assicurandosi cosf una presenza attiva nell’area. D’altro canto, evitano di far apparire centrale il loro ruolo, anche laddove è stato molto importante, come nel caso delle iniziative contro la delinquenza organizzata. Eventuali residui di una concezione dell’intervento politico legata al modello della «minoranza attiva», presenti soprattutto nei gruppi più vicini alla tradizione della militanza sessantottesca, hanno l’unico effetto di limitare i margini di azione praticabili. Per quanto riguarda poi i radicali, essi esercitano una certa influenza ad esempio sul movimento ecologista. Anche in questo caso essa tuttavia un ruolo complessivo di leadership, esercitannon da dosi soprattutto sulle realtà più vicine al partito. L'obiettivo di fornire alla mobilitazione una prospettiva di tipo «strategico» ispira casomai l’azione di organismi connotati in senso istituzionale e professionale, come ad esempio la Lega Ambiente all’interno del movimento ecologista. Si tratta però anche in questo caso di un obiettivo che si traduce sul terreno della proposta intellettuale e del coordinamento organizzativo, e non ipotizza la conquista di un’egemonia politica in senso stretto sull’area. Peraltro, la natura professionale prima che politica di queste strutture favorisce indubbiamente la legittimazione di questa aspirazione. Dal quadro sia pure sintetico che abbiamo tracciato emergono alcune caratteristiche del modello attuale di leadership di area che ne evidenziano la diversità rispetto alle mobilitazioni dei primi anni Settanta. In primo luogo essa non presenta alcuna continuità nel tempo. Il ruolo di guida della mobilitazione tende a ruotare, attribuendosi di volta in volta a gruppi ed organismi particolarmente attivi sul terreno oggetto dell’iniziativa dell’area. Si tratta inoltre di una leadership, se cosi possiamo definirla, di natura prettamente funzionale. Diventa cioè rilevante e maggiormente visibile il ruolo di quei gruppi di base, ma anche di quelle organizzazioni politiche che mettono a disposizione le risorse necessarie per l’azione. Da ciò non discende tuttavia l’attribuzione di una maggiore capacità strategica e decisionale. Gli stessi comitati composti da una pluralità di forze, e per conseguenza almeno apparentemente rappresentativi del movimento, raramente vanno al di là di una funzione di coordinamento e di proposta non vincolante rispetto ad iniziative specifiche. Si può anzi ipotizzare che un’eventuale leadership
di area non si definisca più per la capacità di decidere e/o parlare
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in nome del movimento, nonché di individuarne la prospettiva di lungo periodo, bensi per la capacità propositiva. Tale capacità riguarda anche temi singoli di mobilitazione, ma attiene soprattutto alla sfera culturale, all’individuazione cioè di nodi centrali di dibattito intorno ai quali il movimento possa sia pure temporaneamente ricostruire la propria unità. Un'altra dimensione rilevante è costituita dalla tendenza verso un’accentuata «spersonalizzazione» e professionalizzazione della leadership. Non è casuale che gli organismi cui abbiamo in precedenza attribuito un’importante funzione di iniziativa culturale presentino in misura più o meno ampia una componente professionale (Lega Ambiente, Radio Popolare, Libreria delle Donne, Centro Culturale di P.le Abbiategrasso). Soggetti estremamente critici nei confronti del ruolo del «capo» e dell’esistenza di rap-
porti gerarchici formalizzati possono essere infatti più disponibili nei confronti di un’azione politica-culturale condotta da organismi cui la natura professionale sembra attribuire una maggiore distanza dall’identificazione personale e maggiore indipendenza di giudizio. In alcuni casi sono proprio i vecchi leaders a riconvertirsi in operatori. In questo caso, l’immagine neutra della struttura in cui operano fornisce nuova legittimazione al loro ruolo, che in ultima analisi permane sia pure in forme assai differenti dal passato 24.
Il ruolo di proposta politico-culturale si fonda sulla capacità di controllare la produzione intellettuale e la circolazione delle informazioni, i canali attraverso cui avviene lo scambio all’interno delle varie aree. Pertanto, gli organismi «professionalizzati» sono individuabili come /eaders, per quanto sui generis, esclusivamente nella misura in cui non si limitano ad operare come agenzie produttrici di un servizio. Perché si possa parlare di Jeadership occorre invece che le singole iniziative si inseriscano all’interno di un progetto di più ampia portata. Ad esempio, le proposte quanto mai disparate del Centro Abbiategrasso hanno comunque sempre acquisito coerenza complessiva nel quadro di quelli che il centro definiva «progetti trainanti». Un altro caso eclatante è quello di Radio Popolare. Essa rappresenta un importante canale tramite cui l’appello alla mobilitazione, o anche la proposta culturale lan-
24 Il Centro di P.le Abbiategrasso costituisce un caso limite da questo punto di vista. Ex-leaders dei circoli giovanili non si sono infatti semplicemente «riconvertiti» al suo interno, ma hanno anche ottenuto un riconoscimento formale del loro ruolo attraverso l’assunzione da parte dell’amministrazione provinciale.
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ciati da gruppi di base acquisiscono risonanza a livello di area e vedono moltiplicarsi le loro possibilità di successo. Tuttavia, la concessione degli spazi non avviene in modo indiscriminato, vale a dire appunto con una logica da «agenzia». Al contrario, essa è legata alla coerenza delle varie proposte con la prospettiva politica della redazione. L’espressione «prospettiva politica» si riferisce qui ai criteri di politica dell’informazione, ed anche di politica tout court, che ispirano l’azione della redazione. Risulta invece assente il tentativo di definire una strategia complessiva che implichi la conquista della guida del movimento. Il permanere di una concezione della leadership in termini ideologico-gerarchici sembra invece costituire una serio ostacolo alla conquista di una qualche influenza a livello di area. Il caso della Commissione Lotte Sociali del Centro Sociale Leoncavallo è indicativo da questo punto di vista 2. A rigore, l’azione della commissione è finalizzata alla conquista della leadership nel Centro Sociale, e non nell’area. Tuttavia, il centro presenta un’articolazione interna molto varia (Commissione Cultura, collettivo donne, gruppi di teatro, musica ed arte varia, tipografia, ecc.) che permette di utilizzarlo come modello rappresentativo di un’area di movimento. La concezione operaista della Commissione Lotte
Sociali si scontra con quella della Commissione Cultura, più attenta alla molteplicità dei temi espressi dall’area giovanile (ma non solo da essa) negli ultimi anni. La Commissione Cultura si
rifiuta tuttavia di proporsi esplicitamente come contro-/eader, ruolo cui sarebbe legittimata dal vasto consenso di cui godono le sue iniziative. «Lotte Sociali» acquisisce pertanto il pieno con-
trollo sulla gestione degli spazi nel centro. Ciò non si traduce però nella capacità di guidare nuovamente il centro verso un’azione fortemente politicizzata. Al contrario, il potere di cui essa è venuta a disporre si definisce quasi esclusivamente come «potere di blocco». Essa è in grado di ostacolare lo svolgimento di attività ritenute incoerenti con la propria prospettiva ideologica, ma non di avanzare proposte condivisibili dalla maggioranza dei frequentatori. Si avvia per conseguenza un processo di disgregazione «dell’area» (del centro), intesa come
progressiva sottrazione delle
varie componenti a qualsiasi ipotesi di progetto comune. Un'ultima annotazione a conclusione di questo paragrafo concerne l’area della «nuova coscienza», l’unica a non presentare alcun modello di leadership centralizzata. Le esperienze che fanno 25 Cfr. il saggio di G. Lodi e M. Grazioli sul movimento giovanile.
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riferimento a quest'area esprimono infatti la versione più estrema | della tendenza che è stata definita alla «pratica in prima persona | dei segni del cambiamento» 26. La priorità assoluta attribuita al ‘ livello micro dell’azione sociale ostacola lo sviluppo di reti di interazione tra le varie realtà. Esse operano ognuna sulla base dell’insegnamento di un maestro spirituale, che in molti casi (Bhagwan Rajneesh, Sathya Sai Baba, Guru Maharaj-ji ed altri) si propone come leader carismatico di un «movimento» su scala internazionale. Il problema della leadership sull'area tende dunque a non | porsi in quanto tale; oppure assume la forma, espressa con molta ‘ chiarezza da gruppi come gli Hare Krishna, di una volontà di monopolio sulla ricerca spirituale, attraverso la proposta della propria ut come unica portatrice di verità. 5. Conclusioni
Gli elementi emersi nel corso della ricerca, e parzialmente ripresi nei paragrafi precedenti ci mostrano come le odierne aree di movimento rispondano in larga misura alle già citate descrizioni di Gerlach ed Hine [1970]. Essi appaiono quindi scarsa-
mente congruenti con le teorie che ata centrare l’analisi dei movimenti sociali sulla figura del leader. Da un lato infatti il ruolo formale di leadership interno ad una struttura organizzativa è stato almeno parzialmente delegittimato. D'altro canto, risulta difficile individuare una volta per tutte una serie di funzioni essenziali alla costituzione ed alla mobilitazione del movimento, e tali da essere concentrate in un unico soggetto, sia questo un individuo o una organizzazione. Sembra insomma discutibile l’affermazione di Oberschall secondo cui «i leaders sono in definitiva gli artefici dell’organizzazione, ideologia e mobilitazione del movimento» [1973, 146]. Non sembra cioè che siano i leaders a definire e successivamente ad assumersi queste funzioni. Esse si articolano
piuttosto a partire dai meccanismi globali di funzionamento del sistema, prescindendo almeno in parte dall’azione di singoli militanti. Il problema della leadership va quindi analizzato con riferimento alla struttura di relazioni che caratterizza complessivamente un’organizzazione. Essa si configura infatti come un rap-
porto di potere complesso, le cui sfaccettature possono essere
26 Si veda a questo proposito il saggio di G. Lodi e M. Grazioli sulla mobilitazione.
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colte solo parzialmente utilizzando un approccio in termini di qualità personali o di dinamiche di gruppo. In particolare noi abbiamo adottato qui una visione della /eadership in quanto rapporto asimmetrico tra due o più soggetti, fondato sulla distribuzione ineguale di risorse «pertinenti» allo specifico contesto relazionale. Qualsiasi ambito organizzativo presenta infatti una serie di funzioni rilevanti, che richiedono per essere assolte la disponibilità di risorse adeguate, in termini di qualità organizzative, capacità di elaborazione simbolica, disponibilità di mezzi per l’azione. Queste ultime non sono tuttavia distribuite in modo uniforme tra i soggetti partecipanti alla relazione, che per conseguenza si caratterizza in modo più o meno accentuato come asimmetria [Zald 1970]. E bene sottolineare che le funzioni «rilevanti» non discendono automaticamente da un modello di relazione «naturale», come sembra suggerire l’analisi di Downton. In realtà, in questa ed in altre interpretazioni [J. Wilson 1973; Oberschall 1973], l’accento
sul carattere necessitato di determinate funzioni intende evidenziare vincoli posti dal sistema alla capacità di azione individuale. Ciò è indubbiamente corretto, anche se ovvio: la presenza di un contesto organizzativo definito da una serie di norme e di ruoli, anche se poco formalizzati, comporta comunque livelli più o meno alti di eterodeterminazione del comportamento del singolo. Meno corretto ci sembra invece dedurre da questi vincoli la presenza di
funzioni «universali» e «naturali» che debbano necessariamente essere soddisfatte, pena l’estinzione del rapporto sociale. Ogni specifico contesto relazionale definisce invece la propria articolazione interna ed i propri meccanismi di funzionamento, e per conseguenza anche la rilevanza delle varie funzioni. Stabilisce cioè una sorta di ordine di priorità. Le esperienze da noi prese in esame (gruppi di base ed aree di movimento) si caratterizzano per il fatto di subordinare general-
mente l’intervento politico al raggiungimento di una «capacità formale di sfida». Con questa espressione intendiamo sottolineare l’importanza assunta in questi nuclei dalla qualità delle relazioni interne (i «mezzi») rispetto agli obiettivi di trasformazione sociale (i «fini»). La dimensione pubblica della azione tende anzi a coinci-
dere con la proposta verso l’esterno dei modelli (culturali) elaborati e vissuti al proprio interno. La coesione, la solidarietà collettiva, sono una sorta di precondizione per la pratica antagonista. Ciò non significa tuttavia che la funzione di mantenimento della solidarietà sia come tale prioritaria. I casi riportati nel terzo para-
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grafo mostrano invece come essa di fatto si articoli in una serie di funzioni specifiche fornite di diverso peso a seconda del contesto. Dalla distribuzione ineguale delle risorse ad esse pertinenti discendono
comunque
posizioni di asimmetria,
ancorché
non
definibili in termini formali, e variabili nel tempo. Nei gruppi a connotazione prevalentemente solidaristico-affettiva il potere dei leaders consiste ad esempio nel controllo sulle opportunità di accesso al gruppo, oppure nell’esprimere un modo di essere e di vivere l’esperienza cui i membri più deboli tendono a conformarsi. Su un piano più generale, il controllo su risorse organizzative importanti fornisce se non altro, soprattutto nei piccoli gruppi, un potere che abbiamo definito «di blocco». Si tratta di una situazione frequente nei centri sociali in crisi. In essi il fatto di gestirne l’organizzazione permette(va) ai militanti più legati alla tradizione di ostacolare un uso del centro non coerente con la loro prospettiva ideologica (si veda ad esempio il già analizzato caso del Centro Sociale Leoncavallo). Nei modelli classici della leadership essa viene definita soprattutto da un’attribuzione ineguale delle funzioni di decisione e rappresentanza. Tali funzioni sono presenti anche all’interno dei «nuovi movimenti». Le caratteristiche attuali della mobilitazione e la sistematica contestazione condotta nei loro confronti ne hanno però limitato in varia misura la portata, e modificato profondamente le modalità di esercizio. Negli attuali nuclei di movimento, l’esigenza di garantire la sopravvivenza dell’organizzazione attraverso funzioni produttrici di asimmetria si affianca all’impossibilità di esplicitare, formalizzandola, tale asimmetria, pena ancora una volta la rottura della solidarietà e della relazione. Riprenderemo ora a conclusione del nostro saggio le strategie tentate per risolvere questo dilemma. Si tratta di soluzioni non necessariamente coerenti, che ricorrono con tempi e modi differenti nelle varie aree di mobilitazione analizzate. Esse implicano comunque trasformazione nel processo decisionale. a) Una prima strategia consiste nel ridurre al minimo ed al tempo stesso nell’occultare le funzioni di decisione e rappresentanza. La capacità decisionale di un soggetto individuale o collet-
tivo non è più riconosciuta formalmente come tale. Soprattutto, non risulta più vincolante. Abbiamo già visto come le strutture professionalizzate giochino a livello di aree un ruolo molto importante. Esse sono in grado di orientare la mobilitazione, ma non di deciderne in senso stretto le modalità, dal momento che appaiono sprovviste di ogni capacità di sanzionare i comportamenti non
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conformi. Analoghe considerazioni valgono per le istanze di coor-
dinamento delle mobilitazioni (comitati, assemblee nazionali). I
documenti e le mozioni da esse prodotti rappresentano infatti soltanto una proposta rivolta al movimento. La natura non ideologica e l’informalità organizzativa di quest’ultimo hanno infatti largamente neutralizzato le armi in precedenza utilizzate per garantire il rispetto delle decisioni del centro (l’espulsione, la scomunica dottrinale).
b) Un altro meccanismo consiste nel limitare le occasioni di decisione, rinviandone al tempo stesso size die l'assunzione esplicita. Il comitato di redazione di «Nuova Ecologia» utilizza spesso uesta «tecnica» a fini di riduzione delle tensioni. La decisione che se presa in modo palese potrebbe innescare pericolose dinamiche conflittuali interne viene dapprima posticipata il più possibile e quindi assunta sotto la pressione dei vincoli organizzativi e/o congiunturali. Si verifica in questo caso una modalità di /eadership che potremmo definire «occulta», in quanto la decisione finisce per essere di competenza esclusiva di chi per interesse o per via della divisione dei compiti ha seguito il problema in questione. Essa assume in questo caso una parvenza di ineluttabilità che la rende accettabile, ed in qualche misura legittima, nonostante non sia stata sottoposta ad alcun controllo collettivo. c) Il potere decisionale tende infine ad essere redistribuito il
più possibile tra i militanti di un gruppo o di un’area. La moltiplicazione e l’eterogeneità delle funzioni rilevanti per il mantenimento e l’efficacia dell’organizzazione ostacola l’accentramento delle risorse ad esse pertinenti, favorendo invece l’affermarsi di una leadership a rotazione. Il caso della Commissione Cultura del Centro Sociale Leoncavallo è ancora una volta emblematico. Paolo ne interpreta la realtà su base ideologica, Aldo ne esprime la componente espressiva ed Antonio quella solidaristico-organizzativa. La presenza di una /eadership diffusa comporta inoltre sovente l’instaurarsi di meccanismi di controllo reciproco tra i vari leaders. Essi impediscono l’emergere di ruoli di particolare preminenza. È bene sottolineare che il concetto di leadership a rotazione o diffusa non si riferisce soltanto a situazioni in cui diverse funzioni vengono svolte contemporaneamente da soggetti diversi, modalità questa prevalente nei piccoli gruppi. A livello di area «diffusione della /eadership» indica il fatto che posizioni di preminenza vengono di volta in volta assunte anche dagli organismi promotori delle mobilitazioni su cui il movimento si impegna globalmente. A questo livello risulta comunque più importante il ruolo di coordinamento/diffusione delle informazioni proprio
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delle strutture professionalizzate, che abbiamo già avuto modo di sottolineare. d) Considerazioni non dissimili valgono per la questione della rappresentanza.
L'esistenza stessa di questa funzione viene in
larga misura negata. Di fatto, i rappresentanti formalmente delegati dai singoli gruppi nei vari comitati dispongono di poteri alquanto limitati, e la loro azione non va al di là del semplice coordinamento organizzativo (ricordiamo a questo proposito il caso del Comitato sudenti indipendenti per la pace). Esiste d’altro canto una versione «informale» della rappresentanza, che porta determinati individui o strutture organizzative a costituire un riferimento, essenzialmente simbolico, ma in grado comunque di esprimere l’immagine del movimento o del singolo gruppo nei confronti dell’esterno. Si realizza in tal modo una sorta di controllo sui flussi di informazione da parte dei nuclei con maggiori risorse, e che pertanto vengono assunti come punto di riferimento da chi voglia porsi in relazione con il movimento (è il caso di Radio Popolare, della Lega Ambiente, di Nuova Ecologia, della Libreria delle Donne).
e) I meccanismi appena segnalati non costituiscono l’unica modalità di gestione Hi. tensioni legate al permanere di relazioni asimmetriche, di rapporti di potere tra i militanti ??. É infatti molto diffuso anche il ricorso alla spersonalizzazione del leader (o formalizzazione, cfr. Pagés [1975]). Nei gruppi di base ciò significa agire nei suoi confronti distinguendo nettamente tra il ruolo e le persone che lo ricoprono. Mentre il primo viene fatto oggetto di sistematica contestazione, con le seconde permangono rapporti di amicizia. Ciò permette il proseguimento della relazione, ed il mantenimento della struttura organizzativa. Simili meccanismi sono particolarmente visibili nelle esperienze in cui la dimensione affettiva ha un certo peso. Nel Collettivo Donne Ticinese esso viene spesso utilizzato nei confronti di Rita e del suo ruolo di «maestra cattiva». Nella redazione di «Nuova Ecologia» esso impedisce che la leadership da certi punti di vista «assolutista» di Angelo provochi un conflitto interno devastante 28. A livello di 27 Pix che di rapporti di potere in senso stretto occorrerebbe forse parlare di «influenza» [Gallino 1978, 378-381], stante appunto la natura non vincolante dell’attuale capacità «decisionale». Preferiamo utilizzare il termine «potere» per sottolineare il permanere di forme di asimmetria nelle relazioni interne. Si pone peraltro a questo riguardo un problema teorico di grande rilevanza, rispetto al quale non possiamo intervenire in questa sede. 28 Rita definisce appunto in questo modo la sua funzione di controllo su basi ideologiche della pratica del gruppo. Per quanto riguarda Angelo, egli tende ad
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area, la spersonalizzazione passa in primo luogo attraverso il riconoscimento di un ruolo di primo piano alle strutture professionalizzate. La loro funzione di /eadership viene legittimata in quanto non è associabile ad individui o organizzazioni politiche specifiche e si caratterizza non per la presa di decisione, ma per l’attività di proposta, in termini di servizi come di stimoli al dibattito. Il rapporto con il potere e l’asimmetria rimane in larga misura irrisolto nei movimenti attuali. Ci sembra tuttavia possibile individuare una trasformazione in atto su questo terreno. I movimenti post 68 negavano su basi ideologiche la presenza di una effettiva disuguaglianza tra i militanti, adottando però contemporaneamente strutture organizzative che ne formalizzavano la presenza. La tendenza attuale sembra invece verso la negazione di una legittimazione formale all’asimmetria, accompagnata dal riconoscimento della sua relativa inevitabilità. Il potere rappresenta agli occhi di molti militanti attuali una dimensione con cui è necessario confrontarsi, tentando di esplicitarne al massimo i meccanismi ed aumentarne quindi la controllabilità. Non è invece possibile eliminarlo con una semplice dichiarazione d'intenti. Da juesto punto di vista i gruppi a fondamento «contrattualista» preigurano una strada su cui la mobilitazione collettiva sembra destinata a muoversi.
importanti della esempio a; concentrare nella sua È persona il controllo su momenti tro vita del giornale, come la correzione della bozze o la stesura dell editoriale.
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PAOLO
R. DONATI
- MARIA
MORMINO
IL POTERE DELLA DEFINIZIONE: LE FORME ORGANIZZATIVE DELL’ANTAGONISMO METROPOLITANO
1. L'intreccio tra la proposta e la sua creazione
La trasformazione dei contenuti dell’azione collettiva e dei conflitti si è accompagnata alla trasformazione delle condizioni in cui gli attori sociali si muovono. L’ipotesi di una coincidenza o di un legame diretto fra crisi del sistema e movimenti — ipotesi peraltro privilegiata da un certo filone teorico! — non sembra in grado di rendere conto della complessità degli attori e della loro azione. Le differenze presenti nei fenomeni osservati inducono piuttosto a pensare ad una spiegazione diversa, che consideri centrale il momento della creazione delle proposte come fatto autonomo. La centralità del problema della creazione emerge se si pensa all'attore collettivo come fenomeno non naturale e contingente, che sperimenta quindi delle tensioni al suo interno, tali da renderne problematica l’esistenza. Esso allora non appare come semplice e necessaria conseguenza di tensioni strutturali, di condizioni disfunzionali o di deprivazione relativa. Come hanno evidenziato gli studi più recenti sui movimenti, ogni formazione sociale presenta costantemente una quantità sufficiente di scontento perché un’azione conflittuale possa trovare supporto, a condizione che disponga delle risorse organizzative necessarie e che vi sia una adeguata «ridefinizione della situazione». In altre
Paolo Donati ha curato la stesura dei paragrafi 1, 2, 3, 4 e 8; Maria Mormino quella dei paragrafi 5, 6 e 7. 1 Il riferimento è ovviamente ai teorici del co/lective behavior quali ad esempio Lang e Lang [1961], Smelser [1968] e a quelli della società di massa quali Kornhauser [1959], rappresentanti di filoni che sembrano ormai aver esaurito il loro potenziale, ma che trovano tuttavia echi anche in opere recenti. 2 Questa formulazione del problema è dovuta a McCarthy e Zald [1977, 1215]; ma più in generale è legata all’impostazione dei teorici del resource mobili zation approach, quali Oberschall [1973], Gamson [1968, 1975], Tilly [1978].
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parole, il conflitto e quindi i movimenti sociali sono fenomeni che hanno le loro radici nella quotidianità della vita sociale e nelle reti associative, comunitarie e organizzative a partire dalle quali si formano le identità collettive 3; a partire dalle quali, cioè, viene negoziata e nasce la «proposta»
dell’azione collettiva. In tal modo,
l'esplosione di un conflitto in un dato sistema sociale o in una sua parte è solo una delle alternative che gli individui, i gruppi o le organizzazioni ivi presenti possono scegliere nella strutturazione e
negoziazione dei loro rapporti‘. La creazione della proposta, quindi, è non solo una «funzione» dell’attore collettivo, ma in senso proprio lo costituisce. In altre arole, il riferimento a un insieme di «condizioni» non spiega a collettiva perché quest’ultima contribuisce a definire fe proprie condizioni attraverso la proposta (o il progetto) che la caratterizza).
Il modo in cui l’attore collettivo è strutturato costituisce il luogo ove vanno cercate le radici della proposta; essa si sviluppa nell’interazione e attraverso le difficili mediazioni tra componenti diverse del movimento; essa si forma nei ristretti spazi concessi dall’alternativa tra capacità d'azione esterna e capacità d’aggregazione interna. Una analisi di questo tipo è, per causa dello stesso essere «collettivo» dell’attore movimento, un'analisi organizzativa. Misurarsi con la possibilità di forzare i modelli di analisi delle organizzazioni, da quelli classici a quelli più moderni, per applicarli all’analisi di qualcosa che a prima vista sembra stare piuttosto al polo del
3 Sempre a partire dal resource mobilization approach, numerose ricerche hanno evidenziato questo importante aspetto; tra le principali, quelle di Gerlach e Hine [1970], Curtis e Zurcher [1973, 1974], Wilson e Orum [1976], Tilly [1976, 1978], Snow, Zurcher e Ekland-Olson [1980], Useem [1980], E. Reynaud [1982]. 4 Tale è la formulazione del problema da parte di Gamson [1975] e di S.]J. Ball-Rokeach [1980]. Allo stesso modo il passaggio dall’azione non-violenta a quella violenta dipende dai fattori relativi alla specifica strutturazione del campo filtrati attraverso le decisioni degli attori coinvolti e quindi attraverso le loro strategie. ? Il saggio di Galland e Louis [1981] mostra per esempio che la mancata mobilitazione di un movimento dei disoccupati in Francia è de proprio alla difficoltà di questi soggetti nel definire una condizione (quella di disoccupato) in modo adeguato; la resistenza dei disoccupati a considerarsi tali piuttosto che «lavoratori senza lavoro» emerge come causa determinante della mancanza d’azione. Lee e Ackerman [1980] sostengono che entrare a far parte di un gruppo dipende da un’interpretazione delle tensioni e dei problemi esperiti; tale ricostruzione dell’esperienza dipende dalle risorse (organizzative e individuali) disponibili in quel momento e disposte in modo tale da dare alla ricostruzione un senso.
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disorganizzato, destrutturato e informale, è la scommessa del nostro tentativo.
Prendiamo dunque le mosse da una teoria dell’azione. E tuttavia produrre una analisi organizzativa significa tener conto di una struttura e dei vincoli che essa pone all’azione. Proprio per questo condurremo la nostra riflessione a partire da quelle che solitamente vengono considerate come dimensioni funzionali di una organizzazione: gli obiettivi, i rapporti con l’ambiente, la divisione dei ruoli, Reed delle risorse, la distribuzione degli incentivi e infine l’ideologia, facendo riferimento ai modelli di sociologia dell’organizzazione che si sono occupati di questi problemi 6. L’analisi di questi aspetti ci aiuterà a sezionare il corpo organizzativo delle aree di movimento; ma non rinunceremo a metterli in relazione, per cogliere, al di là dell'anatomia, le dimensioni dinamiche e il ruolo «creativo» dei processi organizzativi. In una certa misura, quindi, la scelta di questi aspetti funzionali è solamente un pretesto”. I modelli di analisi organizzativa verranno notevolmente forzati verso un approccio che si avvicina a quello della political economy proposto da Zald [1970]8; pur riferendoci ad una teoria dell’azione, terremo contemporaneamente conto degli aspetti funzionali, e quindi strutturali, del contesto organizzativo relativo ai fenomeni osservati. Proporre un’analisi organizzativa di queste forme antagoniste significa dunque cercare il filo che lega i comportamenti in una interdipendenza sistemica, capire attorno a che cosa il comportamento degli attori coinvolti in un movimento si struttura (se ciò effettivamente avviene) in modo coerente. A sua volta un tale
sguardo forza i modelli organizzativi verso la comprensione di comportamenti che hanno una logica ben diversa da quella propria di un’organizzazione formale?. 6 Si pensi ai modelli di analisi della contingenza strutturale come quelli di Woodward [1965] o Burns e Stalker [1974]; ai modelli in termini di incentivi come
quelli di Barnard [1938] e di J. Q. Wilson [1973], in termini di compliance come quello di Etzioni [1967]; ai modelli in termini di rapporto fini-mezzi come quelli di Blau e Scott [1972], di Parsons [1964], e di Michels [1966].
7 Non intendiamo infatti dare un quadro analitico completo dei problemi che
caratterizzano un’organizzazione. Esistono ad esempio formulazioni di variabili
anche molto diverse [cfr. ad esempio Pugh e altri 1968] ma ciò non esclude che queste variabili vengano prese in considerazione anche nel presente saggio. 8 Ma dobbiamo anche riconoscere il nostro debito in primo luogo verso M. Crozier e E. Friedberg [1978], e in secondo luogo verso l’approccio interazionista di D. Silverman [1974]. 2 In tal senso è ovvio che non possiamo considerare gli aspetti informali come un residuo, come è stato fatto da studiosi dell’organizzazione come Barnard
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2. Obiettivi
Un movimento sociale offre di solito buoni motivi per una analisi in termini di obiettivi. L'espressione «movimento per» è comunemente usata per caratterizzare a prima vista questi fenomeni, non solo nel senso comune. E ciò non a torto; ma una rispo-
sta esauriente a chi chiede cosa vogliano gli attori di un conflitto implica un discorso assai più complesso. Anzitutto va segnalata la difficoltà di una analisi che parta dagli obiettivi dichiarati od ufficiali dei fenomeni che consideriamo. In primo luogo perché, come già hanno evidenziato diversi studi di sociologia dell’organizzazione e le ricerche sui movimenti sociali e sui partiti che si sono centrate in particolare su questo problema !, non sono gli obiettivi ufficiali che possono mostrare la complessità delle componenti che in un movimento confluiscono. In secondo luogo perché sarebbe estremamente difficile andare alla ricerca di obiettivi ufficiali in forme di azione collettiva come quelle odierne che sembrano voler fare sterminio proprio di una simile volontà programmatica. Attraverso questa ricerca, invece, è stato possibile evidenziare le diverse «anime politiche» dei movimenti, mettendo in luce l’articolarsi delle diverse posizioni e quindi anche i diversi obiettivi presenti. Il compito di un’indagine sugli obiettivi è dunque la ricostruzione del modo in cui si ricompone questa ricchezza di sfumature e di aspetti. Uno dei caratteri peculiari di queste forme di azione collettiva è certamente il venir meno della volontà di identificare interessi collettivi ed obiettivi di lungo periodo; questa mancanza denuncia un’incapacità di agire in tale dica che è evidente soprattutto nell’area giovanile. La sconfitta delle ideologie totalizzanti ha smascherato la loro inefficacia ed ha rivelato l’incapacità di costruire un assetto normativo che non fosse solo un costrittivo insieme di obblighi ma anche una prefigurazione dei benefici ottenibili passo per passo nel corso dell’impegno politico. Questa ere-
[1938], Blau e Scott [1972], Etzioni [1967]; ma dobbiamo piuttosto adottare una
visione differente: cfr. Crozier e Friedberg [1978], Silverman [1974]. 10 Per gli studi organizzativi cfr. ad esempio tutto il filone «decisionista»: da Simon [1967] a March e Simon [1966], a Cyert e March [1970], a March e Olsen [1976]; e inoltre Etzioni [1967], Perrow [1977], Silverman [1974], Crozier e Friedberg [1978]. Per l’analisi dei movimenti nello stesso senso: Messinger [1955], Cherki [1976], Levitas [1977], Wallis e Bland [1979]. Sui partiti in direzione simile cfr. Panebianco [1979].
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dità ha pesantemente inciso sulla possibilità di elaborare progetti globali di lungo periodo; a questo ha contribuito anche la frantumazione delle risposte dell’avversario, con il conseguente segmentarsi dei campi di conflitto e delle poste in gioco. L’accento si sposta dunque sul mantenimento delle aree di movimento da parte dei partecipanti, e l’identificazione avviene intorno ad un progetto etico che funge solo da sfondo orientativo diventando quasi un simulacro. Il legame tra questi due aspetti si realizza attraverso un’enfatizzazione della pratica quotidiana degli obiettivi; grazie al fatto che il progetto etico è stabilito in forma «non operativa» e sfumata, questa pratica permette di tenere assieme una gran varietà di obiettivi e di comportamenti concreti, anche se minimali e di breve o brevissimo termine !!.
Potrebbe sembrare questo un caso classico di spostamento degli obiettivi in senso «conservatore»; tuttavia non è di grande interesse discutere se i fini dei movimenti odierni siano più o meno radicali che negli anni Settanta !2. Piri interessante per noi è invece vedere il modo in cui l’azione collettiva si è trasformata,
mantenendo comunque una connotazione conflittuale nei confronti della società. Numerosi studi mostrano che gli obiettivi perseguiti dai membri e dai partecipanti di un movimento mutano a seconda dell’andamento del rapporto che questi ultimi hanno con l’avversario e quindi a seconda delle opportunità che si presentano nell’azione [Lauer 1976; K. L. Wilson e A. M. Orum 1976; Tilly 1978; Brei-
nes 1980]. Ma gli obiettivi di un movimento mutano, oltre che nella sua interazione con l’ambiente, anche nella interazione reciproca dei partecipanti al suo interno [Levitas 1977].
In questa prospettiva è quindi fuori luogo un discorso moralistico che prenda di mira l’opportunismo dei leaders o dei partecipanti ai movimenti. Si può invece dire che in tutte le aree emerge una profonda delusione per le lotte degli anni Settanta che ne mette in causa obiettivi e mezzi. Questa delusione ha condotto a tre esiti distinti: 4) allontanamento dall’azione collettiva, verso esperienze individuali atomizzate; 4) fuga nell’azione violenta e nel terrorismo; c) ricerca di forme vivibili di azione collettiva. E
su quest’ultimo esito che si concentra l’interesse della ricerca.
11 L’uso di questi meccanismi al fine di rendere possibile il perseguimento di obiettivi anche scarsamente conciliabili in sé, è stato messo in luce da Cyert e March [1970]. 12 Tra l’altro l’inevitabilità della distorsione dei fini in senso conservatore quale legge sociologica è stata ampiamente smentita dagli studi sui movimenti; cfr. Beach [1977], Jenkins [1977], Wood [1975], Zald e Ash [1966].
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Nelle forme di azione considerate, la ridefinizione non ha
certo risparmiato gli obiettivi, ma non si è trattato di una ridefinizione operata dai leaders in senso michelsiano. Al pari delle altre forme di azione organizzata 5, un movimento è caratterizzato da «una pluralità di fini... e di aspettative che scandiscono cooperazione, alleanze e conflitti» [Panebianco 1979, 524]. Nelle aree analizzate, la ridefinizione ha coinvolto le diverse componenti
dando luogo ad una contrattazione tra i partecipanti, i gruppi e le organizzazioni, che ha investito anche diobiettivi. La crisi delle ideologie, in questo senso, è anche crisi del consenso interno sui fini e sul loro rapporto coi mezzi. Tale processo, tutto interno alle aree di movimento, ha portato ad una enfatizzazione delle individualità, delle differenze,
della soddisfazione dei bisogni immediati e di breve periodo. Due sembrano essere le forme che gli obiettivi dell’azione collettiva assumono per contrastare lo sfaldarsi delle forme. associative all’interno delle aree. a) La prima è rappresentata dalla coincidenza tra obiettivi collettivi e bisogni solidaristico-affettivi. Da una visione che sottolineava l’importanza dell’organizzazione quale strumento per il raggiungimento di obiettivi estetni di trasformazione sociale, si passa ad una visione dell’organizzazione come luogo per la soddisfazione di bisogni, struttura espressiva fondata e centrata interamente su se stessa. Viene privilegiata qui l’immediatezza dello «star bene assieme» e le forme associative trovano proprio su questa base il nuovo consenso. Il consenso però non implica una proiezione verso il futuro, ma solo accettazione eventuale del presente: se ci si «sta bene» il gruppo vive, contrariamente esso si scioglie. Ciò non implica una trasparenza dei rapporti priva di ideologia; anzi l’ideologia investe proprio la definizione dello «star bene». La struttura associativa non si formalizza ed è caratterizzata dall’assenza di regole esplicite: la pretesa è quella di una verifica immediata (non-mediata) della qualità dei rapporti, a partire da «bisogni naturali» che in tal modo si oppongono direttamente alla società vista come costruzione costrittiva. E evidente qui l’aspetto ideologico: se è vero che la società attiva nuovi biso-
gni senza darvi risposta, questa consapevolezza dovrebbe portare
13 È quasi superfluo rammentare che la sociologia dell’organizzazione ha da tempo abbandonato l’ipotesi di obiettivi comuni a priori, anche se è doveroso sottolineare che la medesima strada ha faticato ad imporsi nella sociologia dei movimenti.
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alla identificazione di un’area di conflitto definita in termini sociali. L'identità collettiva si fonda invece ancora su una definizione «non sociale», ereditata dalla crisi delle lotte precedenti: alla società come estraneo e nemico si oppone la pretesa naturalità del bisogno immediato. Di qui anche la spinta ad un rapporto interno privo di connotazioni formali. b) La seconda forma è caratterizzata da un progetto di lungo periodo definito in termini generali come ricerca della «qualità della vita». Questo obiettivo da un lato assume i contorni assai sfumati del progetto etico, dall’altro viene assoggettato ad una
verifica costante da parte dei partecipanti: la coscienza della sfasatura tra obiettivi e mezzi, propria del modello leninista che aveva informato le lotte precedenti, rivaluta l’attenzione alla costruzione quotidiana del progetto. L'obiettivo viene cosî praticato quotidianamente, sia nell’azione verso l’esterno che si spezzetta in una serie di micro-progetti (o micro-proposte), come nel caso di Ecologia 15 e di altri gruppi ecologisti; sia nella struttura interna delle forme associative, che prefigurano, e perciò anche verificano la capacità dei partecipanti di progettare e costruire, per oggi e per domani, delle forme di relazione soddisfacenti dal punto di vista «qualitativo». Queste forme diventano cosf anche una sfida simbolica nei confronti delle strutture sociali esistenti, come nel caso, per qualche aspetto, del movimento delle donne o dei gruppi neo-religiosi. Naturalmente tutto ciò non è esente da rappresentazioni ideologiche; ma la differenza dal tipo precedente sta, oltre che nella presenza di un progetto di lungo periodo, seppure sfumato, anche in una identità del tutto nuova rispetto a quella delle lotte precedenti. Le due soluzioni descritte rappresentano due strade che si sono aperte a seguito della delusione per le lotte degli anni Settanta. Ma oltre ad essere derivate da una serie di opportunità che gli attori hanno scoperto nelle mutate condizioni dell’interazione tra movimento e ambiente, esse racchiudono una complessa mediazione tra le varie componenti interne, ciascuna portatrice di fini diversi. Le due soluzioni si presentano come parte di una ricostruzione negoziata, implicitamente o esplicitamente, in base alle risorse di cui gli attori dispongono. In questa negoziazione gli obiettivi hanno certo una parte molto importante; tuttavia essi sono solo uno degli aspetti di quella ricostruzione del consenso interno che coinvolge tutte le altre componenti dell’azione per dare vita all’i-
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dentità collettiva caratteristica di ciascun movimento !4. La prima soluzione è quella delle situazioni più povere di risorse, presenti nelle aree considerate. I partecipanti non hanno
risorse sufficienti per far fronte all’avversario e nessuno è in grado di costruire e di dar vita ad un progetto attendibile. Coloro che un tempo erano /eaders del movimento non possono che ritagliarsi uno spazio nei confronti dell'ambiente sociale, da gestire in modo separato. A loro volta i partecipanti che non si sono mai collocati in posizione di leadership trovano nella relazione di tipo solidaristico-affettivo l'investimento pit direttamente «pagante». Queste forme associative sono perciò ripiegate su se stesse. Ma la rinuncia
ad un progetto esterno definito in termini sociali, per riaffermare invece la conflittualità «naturale» dei bisogni non è vissuta senza tensioni e frustrazioni: è quanto avviene nella Commissione Cultura del Centro Sociale Leoncavallo, esempio tipico di questo orientamento, a cui si avvicinano anche gruppi come il Collettivo Donne Ticinese. Il secondo caso è quello delle zone del movimento che sono più ricche di risorse: le zone in cui si afferma la professionalizzazione alternativa, dove si produce e si tratta informazione, dove sorgono le radio e le riviste del movimento, dove sono presenti situazioni semi-inglobate nell’istituzione a seguito delle lotte precedenti (come è il caso del Centro Sociale di Piazzale Abbiate-
grasso, del Centro Sociale Lampugnano o del Centro Culturale Neruda). In questi casi gli individui che controllano pit risorse, siano essi «professionalizzati» o ex quadri in posizione semi-istituzionale, tentano la riaggregazione pur dovendo anch’essi misurarsi con il rifiuto delle ideologie totalizzanti e degli obiettivi di lungo periodo. Ma, avendo delle risorse a disposizione, essi sono in grado di offrire ai partecipanti benefici diversi da quelli puramente solidaristici e affettivi, e in cambio possono esercitare le loro professioni alternative. Guette forme associative spendono una gran quantità di risorse per il mantenimento dell’identità che permette agli individui professionalizzati di avere un mercato «alternativo» a disposizione. Questa sembra anzi la condizione basilare che assicura una
certa integrazione ad ogni singola area: il fatto di costituire un mercato per «nuove» professionalità. L’obiettivo generale, o il progetto etico, è sfumato e lascia spazio ad una serie di obiettivi a 14 Questa interpretazione «costruttivista» dell’azione collettiva si allinea a
quelle di Zald [1970], Pizzorno [1977, 1978], Crozier e Friedberg [1978].
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breve termine, diversi e localizzati in senso spaziale. Essi sono tenuti assieme da una certa conflittualità degli orientamenti generali, che alimenta la fruizione dei servizi «alternativi» offerti dalle aree (cioè dai «professionisti» al loro interno). Le zone povere da questo punto di vista sono molto meno integrate poiché ogni singolo gruppo è pit centrato su se stesso e poiché manca un orientamento cosf generale verso l’insieme. Le zone povere si collocano infatti ai margini di ciascuna area agendo spesso in modo scoordinato. Nelle zone ricche, invece, la ricontrattazione
dell'identità collettiva sembra produrre una serie di norme che orientano i comportamenti e le aspettative reciproche degli attori, conferendo alle aree un carattere per cosî dire sistemico. Da questo punto di vista l’area giovanile, nella quale si riscontra la maggiore densità di forme associative «povere», quali sono quasi tutti gli ex Circoli Giovanili e Centri Sociali, appare anche l’area più disgregata. Con la progettualità delle zone «ricche» coesistono, infine, anche quelle forme di mobilitazione intense e brevi come quelle per la pace o delle donne contro la legge sulla violenza sessuale. Esse sembrano legate più a situazioni contingenti che a specifiche forme di identità. Il tema della pace, che ha coinvolto settori di tutte le aree considerate, è intrecciato con iniziative dei sindacati, dei partiti e delle organizzazioni cattoliche. La genericità della parola d’ordine non è riuscita finora a dare una strutturazione all’esperienza favorendone anzi il rapido dissolversi. Discorso analogo vale per il caso delle donne: sebbene si tratti di un obiettivo interno all’area,
esso è stato favorito da una /eadership politica di tipo tradizionale. Non esaurisce dunque la ricchezza di contenuti e di pratiche presenti nell’area, ma si caratterizza come una occasione di mobilitazione ad essi parallela, ossia come progetto a breve termine.
3. Aree di movimento e ambiente
Si tratta qui di pensare allo scambio di risorse con l’ambiente: l’input ovvero il tipo di risorse raccolte e le modalità con cui questa funzione si svolge, e l'output, ovvero il prodotto immesso nell’ambiente. Rifiutando una ipotesi di causalità deterministica dall’ambiente all’organizzazione, si tratta di riconoscere che, come ha sugerito Zald [1970], i mutamenti esterni vengono filtrati attraverso
lepolitiche e le strutture organizzative. La chiusura del sistema politico italiano nel corso degli anni Set-
39%
tanta !5 ha significato per i movimenti un blocco nell’interscambio con l’ambiente. Gli effetti sull’azione collettiva risultano da un complesso percorso attraverso le opportunità che il sistema ha lasciato aperte agli attori del conflitto. La definizione e l’utilizzazione di queste opportunità ha comportato un processo di continuo aggiustamento [Lauer 1976] che oggi si è lasciato alle spalle sia la lotta armata sia il rifiuto della politica 5. Un primo aspetto di questo processo è costituito dal mutamento intervenuto nella leadership attraverso il passaggio dai «professionisti della politica» ad individui centrali più o meno «professionalizzati» nella diffusione e nel trattamento di informazioni.
Un’ipotesi di determinismo ambientale tenderebbe qui ad una descrizione degli eventi in termini di riflusso, annullando cosf la complessità del fenomeno. Invece, fatto salvo che l’elaborazione di quadri di riferimento è segnata dalla continuità col passato in senso fisico attraverso la presenza di vecchi militanti e in senso esperienziale attraverso le risorse personali a disposizione di questi, sembra possibile individuare due differenti percorsi. a) In un primo caso i vecchi /eaders politici sono stati sostituiti da persone provenienti dai settori «culturali» del movimento e inglobati in strutture di diffusione e di servizio. Uno degli esempi più probanti è costituito dal ruolo svolto nell’area milanese da Radio Popolare, dal Centro Sociale di Piazzale Abbiategrasso o dalla Libreria delle Donne. Ciò ha comportato l’esclusione dei precedenti leaders intermedi dalle posizioni di potere e l’istituzionalizzazione in luoghi esterni al movimento degli antichi /eaders centrali (da Mario Capanna a Marco Boato). Sono emerse con-
temporaneamente le persone che potevano disporre degli 404#5 o risorse necessarie, in quanto avevano già investito personalmente
in campi che si sono poi rivelati centrali. Questo è soprattutto il caso del movimento giovanile e del movimento delle donne per i quali la caduta della partecipazione ha aperto lo spazio alla costituzione di una sorta di «economia interna» al movimento, o quantomeno ad un tipo di partecipazione che offrisse una qualche remunerazione immediata. D'altro canto lo stesso crollo di partecipazione e il venir meno di organizzazioni formali come LC, DP, AO, AutOp, ecc., ha attribuito una posizione determinante a quei luoghi che potevano assicurare il collegamento e la diffusione
15 Cfr. Melucci [1982], Pasquino [1980], Donolo [1978], Ergas [1979]. 16 Cfr. A. Melucci [1982, 117-125].
i
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di direttive e di informazioni. Leaders del movimento sono cost diventate le persone che, stando in queste posizioni, controllano la diffusione culturale. Essi forniscono quella definizione della situazione che permette anche ai settori che gestiscono l'economia interna del movimento di mantenersi senza da un lato venire inglobati nel mercato o, dall’altro, perire per mancanza di utenti. Per esempio nel movimento delle donne le posizioni di leadership sono ora occupate da quelle donne che nei periodi precedenti avevano avuto una doppia appartenenza in gruppi di autocoscienza e in gruppi con un'attività culturale rivolta all’esterno !”; punti centrali del movimento sono divenuti i luoghi come la Libreria delle Donne. Da queste posizioni di leadership sono invece state escluse quelle donne che avevano avuto una doppia appartenenza caratterizzata dalla partecipazione a gruppi politici, oppure le donne appartenenti unicamente a gruppi di autocoscienza. L) Nel secondo tipo di percorso, invece, i vecchi /eaders, soprattutto quelli intermedi, sono riusciti a riciclarsi per tempo puntando altrove le loro risorse in modo da sfruttare le precedenti esperienze politiche in settori in cui ciò era reso possibile dall’aprirsi di nuovi spazi di aggregazione. L’area dei neo-religiosi rientra in buona parte in questo modello. Si pensi agli ex-quadri del movimento passati dall’esperienza rivoluzionaria a quella spiritualista negli Hare Krishna, negli «Arancioni» o nei Buddisti Tibetani. A cavallo delle due situazioni sembra invece situarsi l’area degli ecologisti, nella quale le persone centrali sono sia degli ex leaders politici, sia dei nuovi «tecnici» dell’ecologia, sia persone provenienti dai settori della «cultura». Si può individuare, come affermato, l’origine di questi processi nel blocco del flusso di risorse provenienti via sistema politico (ad esempio riforme). In questo modo sono stati annullati i benefici ottenibili attraverso la partecipazione politica. In seguito alla delusione per questa sconfitta della «politica», il mantenimento delle aree di identità collettiva viene a dipendere dalla possibilità di aprire un flusso di benefici fondato su uno scambio pit controllabile e quindi più ravvicinato nel tempo e nello spazio. D’altro canto, le organizzazioni politiche di tipo classico, marxista-leninista, esauriscono le loro capacità di offrire degli incentivi
17 Le donne che occupano posizioni centrali nel movimento fanno generalmente parte di un gruppo di autocoscienza e di un altro gruppo che lavora più verso l’esterno; di qui l’espressione «doppia appartenenza».
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in cambio della partecipazione; ad esse subentrano una serie di agenzie che offrono dei beni non provenienti per via politica ma consumabili nell'immediato anche se connotati da una forte carica simbolica (come le riviste ecologiche, la musica rock, il cibo macrobiotico, i corsi di meditazione, la medicina alternativa, i locali per sole donne o quelli del Ticinese). In cambio di questi benefici, tali agenzie si procurano un
flusso di risorse per lo più finanziarie, indispensabili alla loro sopravvivenza. In funzione del loro mantenimento, e quindi del mantenimento di una serie di professionalità che vi si sono create e vi fanno riferimento, queste agenzie assicurano, o cercano di
assicurare, la sopravvivenza di un’identità collettiva di area. Questo percorso può essere descritto come passaggio dalla partecipazione all'utenza. Esso avviene in concomitanza con l’affermarsi della «professionalizzazione-imprenditorialità» di movimento da parte di alcuni individui più dotati di risorse; e col passaggio dell'opposizione e del conflitto da un piano prettamente politico ad uno più propriamente «culturale». La necessità per queste agenzie e/o fasce professionalizzate di legittimarsi come nuova guida culturale (in senso stretto) dei movimenti, se da un lato ha ridotto la capacità di incidenza e di azione politica delle aree, dall’altro ha facilitato l'elaborazione di una identità collettiva capace di mantenere lo scambio all’interno di un «mercato» separato, riducendo cosf i rischi di una totale integrazione nel mercato esterno e quindi di una probabile estinzione.
Tutte le aree presentano questa trasformazione della partecipazione in utenza. Naturalmente il rischio di venire integrati nel mercato permane, allo stesso modo che un movimento politico rischia di venire integrato nelle forme istituzionali della rappresentanza politica. Questo rischio non esclude, anzi rende necessaria, una mediazione con le istituzioni, siano esse politiche o culturali. Il parallelo tra politica e mercato è tuttavia fuorviante in questo caso, in quanto connotare l’«utenza» in termini solo economici non rende ragione della complessità di significati che essa contiene. Ciò che circola sono infatti beni di informazione, servizi e
solidarietà fortemente marcati in senso identificazionale e culturale, e non quindi beni puramente economici. A questa differenza nella qualità del bene scambiato corrisponde una differenza altrettanto rilevante nelle modalità di utilizzo. Non siamo infatti in presenza di una utenza individuale e atomizzata come lo è quella del libero mercato, ma di una utenza che, attraverso la diffusione culturale di identità, si struttura collettivamente e si riproduce in
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senso fisico attraverso l’utilizzo stesso del bene. Si pensi ad esempio alle pubblicazioni come «Nuova Ecologia», «Orsa minore» utilizzate non solo da individui ma anche collettivamente come input per l’azione e per la produzione dei gruppi all’interno delle aree. Anche i beni consumati individualmente come il cibo macrobiotico o la musica rock o punk vengono scambiati insieme a una quantità di simboli e di oggetti che rinforzano culturalmente il bisogno iniziale e l’identità che ne sta alla base. La presenza di una utenza che si collega ad un'identità collettiva può essere messa in evidenza anche analizzando le modalità di reclutamento o di adesione alle forme associative presenti nelle aree. Anche il reclutamento è una forma di input di risorse, e forse la principale nel caso dei movimenti sociali. Le forme di adesione si fondano, piuttosto che su scelte atomizzate, su preesistenti rapporti di tipo organizzativo, amicale o parentale. In altre parole chi aderisce lo fa solo se ha già un rapporto in qualche altro ambito con una persona che partecipa a queste forme di azione collettiva. Ciò vale anzitutto nel caso degli individui che vengono reclutati e partecipano all’attività dei nuclei (ossia dei gruppi e delle organizzazioni presenti nell’area); qui si tratta anche di una forma di selezione nel reclutamento da parte di queste stesse forme associative, Ma questo vale anche per quella che abbiamo chiamato utenza. É raro infatti che i beni o servizi offerti dall’area vengano acquistati e utilizzati da individui isolati di propria spontanea iniziativa; è invece normale che il singolo, pur essendo a conoscenza dell’esistenza del bene o servizio, non lo utilizzi fino a che non vi sia stato avvicinato o spinto da qualcuno con cui ha già una relazione (connotata ovviamente in senso positivo).
Questi dati quindi non fanno che confermare i risultati di numerose ed importanti ricerche sui movimenti sociali (quali uelle di Gerlach e Hine [1970], Oberschall [1973], Wilson e rum
[1976], Leahy e Mazur
[1978], Useem
[1980],
Snow,
Zurcher ed Ekland-Olson [1980]) e sulla partecipazione politica (quali quelle di Rogers e Bultena [1975] e Rogers, Bultena e Barb [1975]): il reclutamento, l'adesione e la partecipazione avvengono a partire dai retworks di relazioni sociali in cui gli individui sono immersi quotidianamente. Il reclutamento dipende cosî da fattori socio-spaziali e dalla presenza di relazioni sociali significative quali sono appunto quelle associative, parentali o amicali [Gerlach e Hine 1970; Wilson e Orum 1976; Snow, Zurcher ed EklandOlson 1980] e non dagli ideali o dai valori dell’individuo reclutato
[Rochford 1982].
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Questo significa che l’adesione e la partecipazione ad un movimento non sono legate direttamente ad una particolare condizione sociale che crea frustrazioni o scontento, ma richiedono
invece un dizione
passaggio
propriamente organizzativo che leghi la con-
all’azione. Go
passaggio organizzativo non è solo
necessario nel senso che gli individui che prendono parte all’azione collettiva devono disporre di un collegamento fra loro; ma anche nel senso — ed è questo il punto fondamentale da sottolineare — che l’azione collettiva implica che gli individui che vi prendono parte abbiano una specifica base per calcolare i costi e i benefici derivanti dalla propria azione. In altre parole, un movimento sociale ha una razionalità specifica [Pizzorno 1977, 1978; Lodi 1980-81; McCarthy e Zald 1977] che implica un’identità
collettiva propria. La presenza di una relazione sociale significativa con una persona già dentro al movimento permette allora all’attore individuale di avere un punto di accesso a questa identità collettiva ed alla sua negoziazione. Tramite questa relazione significativa egli acquisisce una conoscenza del campo-movimento, in base alla quale può decidere se dare o meno il suo assenso (se legittimare o meno) e quindi se partecipare o meno al tipo di relazioni nelle quali dovrebbe inserirsi. Senza una tale via d’accesso, d’altra parte, una simile conoscenza non sarebbe ottenibile senza pagare costi elevati !8, Nell’utenza delle aree non si tratta quindi di un semplice acquisto di beni o servizi, ma contemporaneamente dell’adesione ad una identità collettiva che funge da fondamento dello scambio; essa richiede una legittimazione per la quale non è sufficiente un contatto più o meno casuale dall’esterno. Queste osservazioni rinviano allora al modo in cui le diverse componenti presenti nelle aree ne hanno negoziato le strutture e l’organizzazione e hanno costituito le specifiche identità collettive da cui dipendono la mobilitazione e l’azione. Coloro che si trasformano da partecipanti in utenti, fruendo dei beni e servizi prodotti nell’area, ricontrattano la loro adesione: essi attuano una strategia di confronto interno che privilegia la soddisfazione immediata o a breve termine dei bisogni, mettendo contemporaneamente sotto accusa le ideologie totalizzanti che legittimavano uno scambio di lungo periodo.
18 L'importanza di un accesso personalizzato alla conoscenza del campo in cui si sta per, 0 si dovrebbe, entrare è stata sottolineata da uno studio di Hyman, Grif-
fiths e Ungar [1977] anche per quanto concerne i servizi pubblici di assistenza.
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Lo scambio interno alle aree trova cosf supporto nelle risorse che i gruppi professionalizzanti raccolgono dall’ambiente oltre che nel flusso finanziario che proviene dagli «utenti». La differenza con le forme di azione collettiva degli anni Sessanta e Settanta è costituita dal tipo di interscambio con l’ambiente che diventa molto pit differenziato invece che unicamente centrato sul sistema politico. Ciò è sicuramente anche il riflesso della direzione in cui le società avanzate si muovono. La capacità di utilizzare fonti e risorse molto differenziate si
coniuga in tal modo con la variabile ricchezza-povertà introdotta in precedenza. Le zone ricche sono quelle che hanno una alta capacità di differenziare, sia nella qualità che nella provenienza, i tipi di input quali le professionalità, gli ski//s, ed anche le risorse materiali. In questo caso la contrattazione o ridefinizione della situazione è sbilanciata a favore degli individui pit professionalizzanti i quali divengono dei «rappresentanti» dei bisogni degli utenti. Prevale uno scambio diretto ed a breve termine e il «progetto etico» funziona come uno sfondo che permette di mantenere la separazione dal mercato attraverso una specifica forma di identificazione. Le forme associative povere appaiono per contro quelle che non sono in grado di attuare questa differenziazione. Il caso tipico è quello del Centro Sociale Leoncavallo dove si rifiuta o si è incapaci di sviluppare delle professionalità o dei servizi di tipo innovativo. In questi casi le élites sono ancora legate al loro trascorso
ruolo politico, ma la ridefinizione della situazione è sbilanciata a favore dei semplici partecipanti: questi riducono il gruppo ad una pura funzione solidaristico-affettiva lasciando ai leaders solo l’illusione ideologica di una funzione politica che si rispecchia, non senza tensioni, nell’attaccamento a modelli e forme di identificazione ormai obsolete. Se l’illusione è vivibile e lo scambio affettivo è soddisfacente queste forme associative sopravvivono; se
invece ciò non accade esse si sciolgono e i loro membri finiscono
tra gli utenti delle zone ricche — ma nemmeno troppo convinti, a dimostrazione del fatto che si tratta di un passaggio che coinvolge
identità diverse. La differenziazione appena descritta comporta il rischio dell’integrazione nella struttura «normale» del mercato, ma questo rischio non appare in definitiva più minaccioso di quello dell’integrazione politica attorno alla quale si è concentrata in passato la diatriba tra lotte all’interno o all’esterno del sistema. Piuttosto le forme di azione collettiva di oggi sembrano muoversi verso un disincantamento che le rende capaci di utilizzare spazi e risorse di
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tipo ed origine molto diversa (al limite ogni tipo di risorsa, anche se in questa direzione si va poi incontro, come vedremo, al rischio
di «esplosione» dell’area in parti tra loro slegate). La loro diversità dal sistema si afferma allora come diversità nella forma di utilizzazione delle risorse e nella forma dei rapporti, cioè come sfida culturale e simbolica. Questo medesimo processo si riflette anche sull’output prodotto dalle aree di movimento. Si possono individuare due diversi tipi di immissioni dal movimento all'ambiente: a) il bene fornito all’utenza. Si tratta quasi sempre di informazioni e di simboli, cioè di beni ad alto contenuto evocativo, che assicurano la continuità e il mantenimento dell’area conflittuale attraverso l'immissione di cultura. Si instaura qui un processo cumulativo di tipo circolare: la fruizione crea cioè un bisogno di conferma culturale che a sua volta rinforza la scelta di fruizione da parte degli «utenti»;
b) mobilitazione conflittuale, la quale appare però molto diversa da quella degli anni Sessanta e Settanta. Essa è legata infatti a obiettivi generali che difficilmente sono in grado di strutturare un’identità stabile. È questo il caso delle mobilitazioni per la pace o contro la pena di morte in occasione della raccolta di firme dell’Msi nel 1981. A volte queste mobilitazioni sono guidate da leadership politiche come è avvenuto nel caso delle donne contro la legge sulla violenza sessuale o in alcune manifestazioni antinucleari; ciò nonostante questa leadership non è mai in grado di dare una durata molto ampia al fenomeno che si esaurisce in un breve arco di tempo. Mentre il primo dei due output indicati è costante, il secondo è occasionale. La loro combinazione, da un lato è una caratteristica legata alla crescente differenziazione e complessità dell’avversario, che disarticola i conflitti e non rende facile la costituzione di una identità collettiva 19; dall’altro sembra confermare quanto detto più sopra sulla capacità degli attori conflittuali contemporanei di differenziare la propria azione e di renderla pi complessa in risposta al mutare dei campi di intervento sistemico. Le aree sembrano allora muoversi verso una capacità formale di mobilitarsi, non strettamente dipendente dagli obiettivi: una capacità di autodefinizione in grado di contenere gli elementi antagonisti anche in assenza di un progetto coerente e totalizzante di lungo periodo. Le mobilitazioni come quella per la pace o 19 Cfr. Gallino [1979] e Sciolla [1983].
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contro la pena di morte sono solo un segno della sfida che le aree | di movimento propongono in certi momenti, aggregandosi even| tualmente a iniziative altrui ma rifiutandosi ad un impegno che | porti delle richieste al sistema e le persegua per un lungo periodo: ciò che collega i diversi eventi è il filo sottile della sfida o la proposta di modelli culturali antagonisti. Di qui l’importanza dei centri di produzione simbolica, di diffusione e trattamento dell’informa-
zione nell’azione collettiva odierna. Essi producono e diffondono la cultura che collega (e separa nello stesso tempo) condizione e azione; è in questa capacità di produrre nuovi codici che si radica quella razionalità dell’azione collettiva che Pizzorno [1977, 1978] ha chiamato «identità collettiva». 4. Allocazione delle risorse
Nel processo di traduzione operativa dei fini si determinano i programmi di azione a breve e medio termine ed avviene l’allocazione delle risorse. Viene meno allora il consenso apparente raggiunto sulle formulazioni generali e si verificano conflitti per il controllo di risorse scarse e per la determinazione delle priorità da seguire. Emerge quindi nella allocazione delle risorse l’aspetto più propriamente «politico» della organizzazione dei movimenti [Zald 1970; McCarthy e Zald 1977].
L’allocazione delle risorse è una complessa funzione dipendente da regole tradizionali, contrattazioni tra gruppi, meccanismi di soluzione dei conflitti e percezione delle élites circa le possibilità di crescita o le necessità di mutamento [Zald 1970]. Essa dipende però anche da fattori esterni, e tra questi dalla risposta dell’avversario [McCarthy e Zald 1977]. Nel caso italiano i fattori esterni hanno contribuito alla sconfitta dell’azione politica del decennio scorso favorendo l’uso di nuove risorse di professionalità e lo spostamento in direzione «culturale». Lasciando da parte le zone che abbiamo definito «povere», nelle quali l'allocazione delle risorse è completamente rivolta verso l’interno, nelle zone ricche, come già si è detto, il
mutamento ha conferito una posizione di preminenza alle persone
dotate di particolari capacità McCarthy e Zald [1973] e
professionali. Lewis [1976] hanno descritto il pro-
cesso di professionalizzazione che ha coinvolto i movimenti americani negli anni Sessanta ed in particolare la controcultura giovanile. L'aumento delle risorse disponibili accentua la tendenza dei leaders a divenire dei professionisti nel trattamento e nella
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gestione di queste risorse, accrescendo la concorrenza tra i vari gruppi e organizzazioni. Questo percorso tuttavia è simile solo in apparenza. La differenza fondamentale sta nel fatto che negli UsA la professionalizzazione si verifica in una fase di grande slancio dei movimenti, in una fase ad essi favorevole in cui aumentano sia
i partecipanti e simpatizzanti, sia il flusso di risorse, soprattutto finanziarie, da essi ottenibile. Nei casi da noi analizzati, al contrario, le nuove professionalità alternative nascono in un momento in cui il calo di partecipazione e di risorse materiali costringe numerosi gruppi e organizzazioni alla resa. Se dunque negli Usa la professionalizzazione viene considerata come un effetto negativo di istituzionalizzazione, in particolare nel movimento giovanile, nelle aree analizzate in questa ricerca sono il volontarismo e l’ideologia della sofferenza, legati ad una prospettiva di lungo periodo, ad essere rifiutati, e il processo che abbiamo definito come «ricontrattazione dell’identità collettiva» finisce per legittimare la remunerazione materiale di coloro che si impegnano attivamente 20. | L’evoluzione dei due casi diverge quindi profondamente proprio nello sviluppo «politico» interno. Se nel caso americano il risultato finale tende verso l’integrazione o la cooptazione dei movimenti 21, nel caso che consideriamo la leadership professionalizzata sembra avere ben presente che la possibilità di esercitare queste professioni dipende strettamente dal mantenimento di una base che ne sia utente e fruitrice. Questo diviene allora l’imperativo determinante: per quante risorse i leaders possano avere a disposizione, essi non possono perseguire unicamente interessi di massimizzazione dei loro vantaggi particolari, pur conservando una certa libertà d’azione nella possibilità di orientare le aree. Solo per alcuni settori come ad esempio i locali alternativi del Ticinese, o per le persone per le quali il movimento ha rappresentato unicamente un canale di mobilità ascendente, si è verificata questa corsa alla massimizzazione. Ciò è stato reso possibile dalla grande quantità di risorse disponibili in quei determinati casi, ma ha avuto come conseguenza, grazie anche alla concorrenza tra le varie organizzazioni interessate, l'avvicinarsi progressivo del bene 20 Semmai sono ancora le situazioni povere, coerenti con una concezione residuale, a considerare negativamente le ricompense materiali per l’azione; cfr. ad es. il Collettivo Donne Ticinese o la Commissione Cultura del Centro Sociale Leoncavallo. . 21 Anche se non mancano casi di radicalizzazione; cfr. a questo proposito Jenkins [1977].
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fornito, nella forma e nella qualità, a quelli distribuiti sul mercato, perdendo man mano ogni connotazione di movimento 22. Ma la gran parte dei «professionisti alternativi» non ha interesse ad entrare in competizione col mercato dal momento che quest’ultimo non permette uno sviluppo delle loro capacità professionali nelle forme in cui essi le esercitano all’interno delle aree di movimento (come succede per esempio nel caso dei «tecnici» dell’ecologia che lavorano in Ecologia 15). Diventa quindi fondamentale l'affermazione di una identità collettiva che separi le aree dei movimenti dal mercato e dalla società più ampia. Il mantenimento di questa identità consente di evitare una fruizione atomizzata e quindi una competizione aperta a qualsiasi altra organizzazione e ad ogni altro tipo di prodotti. In tal modo il flusso di risorse diviene più sicuro in quanto non è sottoposto alle influenze del mercato e della concorrenza, ma appunto inglobato in-un’area riservata [McCarthy e Zald 1977].
Il mantenimento della separatezza si realizza, come si è già visto, attraverso la costituzione e il funzionamento di forme organizzative e associative che sono la prefigurazione degli obiettivi perseguiti, oltre che il richiamo visibile all’esistenza di problemi che attraversano le società avanzate. Di qui il carattere profetico di queste forme di azione collettiva, e di qui il loro carattere di sfida. Pi forte è l’accento sulla sfida e sulla prefigurazione, minore è il rischio che le forme associative e organizzative vengano integrate o cooptate, dato che il mantenimento di tale carattere simbolico diventa condizione della loro sopravvivenza. Tutto questo significa che nelle aree una grande quantità di risorse viene allocata verso la creazione e il mantenimento di una specifica identità piuttosto che verso obiettivi esterni. Si è passati in sostanza da un investimento volto a mantenere la partecipazione politica ad una allocazione delle risorse orientata al mantenimento dell’utenza e quindi delle professionalità alternative. Se si osserva la distribuzione dei beni o servizi prodotti dai vari gruppi e organizzazioni, si può constatare che la scelta del tipo di bene da trattare è poco importante dal punto di vista dell’area nel suo complesso. Ciò permette una relativa libertà che è funzionale alle esigenze di differenziazione, poiché ogni forma associativa può investire le sue risorse nella direzione che ritiene
22 L’esempio dei locali del Ticinese e di una certa fascia di gruppi musicali, è quello che maggiormente si avvicina al caso americano. p
.
.
Ca
.
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più opportuna. Tutti i gruppi devono però garantirsi un «guada-
gno» sufficiente, sia in termini materiali che in termini di qualità del lavoro, che allo stesso tempo non metta in pericolo la sopravvivenza della identità collettiva e quindi dell’area come insieme. Da questo particolare vincolo origina allora una sorta di «interdipendenza sistemica» che mitiga la possibile competizione tra i nuclei. Il risultato è una sorta di contrattazione dalla quale dipende la possibilità d’azione di ciascun nucleo, ma alla quale è al tempo stesso legata la sua sopravvivenza. Il vincolo è cosf un vincolo di sistema e l’allocazione principale andrà verso la definizione e il mantenimento dell’identità collettiva, ossia verso il sistema nella sua globalità. Quanto pit le possibilità d’azione di un individuo o di un gruppo dipendono dall’utilizzo di risorse del sistema, tanto più le sue priorità andranno nella direzione degli interessi del siste-
ma stesso. Ma alcune organizzazioni, in questa contrattazione, si trovano
in posizione avvantaggiata; sono quelle che allocano più direttamente le risorse in direzione della formazione e del mantenimento dell’identità, via cultura. Infatti i diversi nuclei dell’area fanno riferimento, pet formulare e veicolare l'identità collettiva, a quelle organizzazioni o gruppi che si occupano piii direttamente della produzione, trattamento e diffusione delle informazioni (le radio e le riviste di movimento, certi suoi centri culturali come quello di Piazzale Abbiategrasso o la Libreria delle Donne, oppure le organizzazioni più grosse come la Lega Ambiente o l’UDi): i primi ne diventano utenti comperando le riviste, facendo trasmettere informazioni e pubblicità, intervenendo a dibattiti, interviste e via dicendo. Ciò ovviamente lascia in mano ai secondi un certo controllo che si esercita indirettamente nella diffusione selettiva di informazioni e nella mediazione delle richieste che provengono dai vari nuclei professionalizzati. In questo scambio i nuclei stessi partecipano a loro volta alla contrattazione e alla formazione della «cultura» del movimento; e
contribuiscono alla gestione concreta della sua azione esercitando un controllo reciproco, coordinando ed evitando di sovrapporre le iniziative, limitando la concorrenza, utilizzando le informazioni che ciascuno di essi diffonde attraverso questi media interni.
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5. Ruoli e divisione del lavoro
Gli aspetti appena discussi ci conducono all’analisi di una altra dimensione che riguarda direttamente l’operazionalizzazione dell’azione organizzata: la specializzazione funzionale e la divisione dei ruoli. Nelle singole forme associative (nuclei) raramente si può trovare una divisione dei compiti attuata in base a regole formali. Ciò avviene solamente in alcuni dei gruppi neo-religiosi e nelle organizzazioni maggiori delle altre aree come la Lega Ambiente o Radio Popolare. In tutti gli altri casi la divisione del lavoro è attuata in modo informale soprattutto sulla base delle competenze che ciascun membro dimostra di avere nelle attività da svolgere. È chiaro d’altro canto che il campo delle attività sarà deciso dai membri proprio in base a queste capacità dei singoli. L’espediente della rotazione delle mansioni viene invece attuato solo per i compiti più fastidiosi e strettamente necessari al funzionamento organizzativo. Esso sembra decisamente appartenere ad un bagaglio e ad una concezione ormai superati, come la ricerca di un egualitarismo ferreo tra i partecipanti, che troviamo infatti descritto da studiosi come Rothschild-Whitt [1976a, 1976b, 1979] e Mansbridge [1973] nel caso del movimento femminista o del movimento controculturale giovanile negli Usa. Negli anni che vanno dal 1977 ad oggi, invece, si è potuto assistere ad una profonda discussione su questi temi che ha coinvolto le aree ed ha messo in crisi l'ideologia egualitarista; infatti essa permane solo in alcune forme associative povere, come il Centro Sociale Leoncavallo, nelle quali l'assunzione di ruoli differenziati avviene solo a livello di dinamiche di gruppo ed è funzionale al controllo delle tensioni ed alla relazione di tipo affettivo. In questi gruppi poveri, l'identità è ancora un residuo del passato, mentre le forme di azione collettiva più nuove hanno rivalutato le differenze giungendo in un certo senso ad una diffusa coscienza della inevitabilità dei rapporti di potere, unita però ad un tentativo di tenere questo potere costantemente sotto controllo e di renderlo sempre visibile. In altre parole, si è consci che il potere c'è ma che non si può comunque farne a meno, anche se si possono costruire forme di relazione in cui il potere assuma contorni e aspetti differenti (maggiore visibilità e maggiore controllo). Ciò sembra dar luogo ad un particolare rapporto tra efficacia e relazioni interne. Queste ultime determinano una diversa definizione dell’efficacia, che rende secondari i rapporti con l’esterno. Ciò è riscontrabile in modo particolare nel rapporto tra produ-
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zione e tempo: il tempo esterno perde rilevanza a favore dei tempi «interni», propri del gruppo, rispetto ai quali l’azione viene misurata?).
Nei gruppi più ricchi di risorse e la cui azione diventa maggiormente articolata, le differenze di potere tra imembri saranno maggiori; ma è anche vero che la divisione dei ruoli dipende generalmente dalla decisione dei singoli di applicare le loro competenze e quindi di impegnarsi o meno in una certa attività. Il controllo su certe risorse viene dunque pagato con un maggiore impegno; questo a sua volta, venuta meno l’ideologia del volontarismo e del militante martire, è legittimamente ricompensato con un maggior potere o con maggiori vantaggi materiali. Si accettano dunque le differenze tra gli individui: il fatto che l’impegno sia visto come pratica quotidiana dell’obiettivo e non come lavoro a lungo termine-offre anche una giustificazione, in parte ideologica, al controllo differenziato sulle risorse: la professionalità viene vista spesso come capacità «tecnica», neutra, non come fonte di potere sugli altri ma come mezzo di realizzazione di un interesse collettivo. Ad un livello più ampio, data la conformazione delle aree, si trova anche una divisione del lavoro e dei ruoli tra le diverse forme associative. In tal senso si potrebbe anche parlare, secondo la proposta di McCarthy e Zald [1977], di Social Movement Indu-
stry, come l’insieme delle diverse organizzazioni e gruppi presenti nell’area. La differenziazione delle risorse utilizzate e dei prodotti che le varie forme associative immettono nelle aree permette infatti di parlare di divisione del lavoro. Questa specializzazione, più che rispondere ad un piano prestabilito, è attuata in base alle capacità di ciascun nucleo; tuttavia essa è sempre regolata e strutturata attraverso la produzione di identità che lega i nuclei in ciascuna
area. Oltre ad una specializzazione orizzontale tra le attività dei diversi nuclei, possiamo parlare, nelle aree, di una divisione verticale dei ruoli. Le forme associative più ricche di risorse o quelle che gestiscono risorse centrali come l’informazione hanno infatti, 23 Ciò è particolarmente visibile nei gruppi di donne, da quelli di autocoscienza a quelli di taglio e cucito, alle redazioni delle riviste. Ma è evidente anche in alcuni gruppi giovanili nei quali il continuo mancato rispetto degli orari delle riunioni (libertà di decidere quando arrivare e quando andarsene) da parte dei membri, denuncia un funzionamento del tutto avulso da scadenze esterne e invece piuttosto funzionale al gruppo in se stesso.
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come si è detto, una maggiore capacità di intervenire nella creazione e contrattazione dell’identità collettiva. Questi nuclei svol-
gono il ruolo di creazione delle proposte in base alle quali l’identità collettiva di ogni area viene negoziata; queste proposte attra-
verso le radio, le riviste ed altri canali, raggiungono gli altri nuclei che a loro voltale diffondono e rinviano i risultati della discussione. Questo processo fa sf che il secondo tipo di nuclei fornisca un flusso di risorse ai primi (tra le quali la capacità di controllo e aggregazione). Le organizzazioni di diffusione e trattamento di informazione diventano cosî i rappresentanti dei membri e degli utenti delle aree, mentre le persone facenti parte degli altri nuclei assumono una sorta di rappresentanza intermedia. La verticalizzazione di questa struttura di rappresentanza è variabile e grosso modo raggiunge un massimo per l’area degli ecologisti ed un minimo per l’area delle donne che si presenta maggiormente
«piatta».
Gli individui che si trovano in questa posizione, e che sono quasi sempre «nuovi professionisti», equivalgono nella loro funzione di rappresentanti, ai professionisti della politica; entrambi devono infatti soddisfare le richieste dei partecipanti-utenti prendendo certe decisioni sull’uso delle risorse. Questi poli però non prendono vere e proprie decisioni — dato che la decisione non è più legittima perché spetta a ciascuno per sé — ma emettono indicazioni e opinioni, assicurando omogeneità e veicolando messaggi unificanti. Questa struttura si adatta alla perfezione a quella diffusione della decisionalità e valorizzazione delle differenze che, seppure velate da ideologia, l’azione collettiva ha perseguito in questi ultimi anni. Essa si adatta bene anche ad un’azione collettiva che non ricerca pit obiettivi di lungo periodo ma ha bisogno semmai di indicazioni e stimoli per iniziative più limitate, e di coordinamento tra esse. La differenza sta allora nel fatto che i rappresentanti politici sono mantenuti per la realizzazione di fini di lungo periodo, mentre i professionisti odierni sono mantenuti in base alla loro capacità di soddisfare le richieste più immediate che si sono andate diffondendo negli ultimi anni. Per i primi occorre il formarsi di una identità collettiva che permetta ai rappresentati di dare loro fiducia nel lungo periodo [Pizzorno 1977, 1978]; i secondi devono essere in grado di mantenere in esistenza quella identità collettiva, o «cultura», che crea i bisogni che essi possono soddisfare. A questo fine essi devono investire una grande quantità di risorse, poiché viene meno la sfasatura temporale tra breve e lungo periodo su cui giocare. Fra le due identità non esiste differenza
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analitica, poiché anche i rappresentanti «politici» concorrono alla definizione di quegli obiettivi di lungo periodo che proprio il loro operato dovrebbe permettere di raggiungere. La differenza sta dunque nella diversa possibilità di giocare sullo scarto temporale tra domande e risposte. I nuovi rappresentanti devono funzionare nel presente come i loro rappresentati. Ciò rende più instabile e provvisorio il loro ruolo. 6. Distribuzione e scambio di incentivi
Si può osservare il processo di mutamento
e ricostruzione
degli aspetti organizzativi dell’azione collettiva anche dal punto di vista degli incentivi offerti ai membri e ai partecipanti, ossia analizzando il modo in cui il loro impegno si motiva e si mantiene. Negli anni che vanno dal 1977 ad oggi si è assistito ad una crisi delle motivazioni generate dagli incentivi di valore 24 col conseguente venir meno della militanza volontaria come sacrificio positivo e con l’offuscamento dell’obiettivo finale (a lungo termine) come valore assoluto e strutturante. Se di nuovo si considera la variabile ricchezza-povertà delle forme associative, si può notare che nelle zone povere c’è un netto aumento di importanza, una rivalutazione degli incentivi di solidarietà psicologico-affettivi. Nelle zone ricche, viceversa, gli incentivi di valore divengono ratica quotidiana dell’obiettivo e la partecipazione diviene beneFicioin se stessa. Viene meno la definizione di una promessa per il futuro; i gruppi ecologici si mobilitano per la «qualità della vita» vista come beneficio e risposta materiale ad un bisogno personale da vivere nel presente e non solo come valore in sé. Il valore non è più l’obiettivo finale, ma la partecipazione che comporta già la pratica di questo obiettivo; in tal modo le sue dimensioni sono fuse insieme e la partecipazione non è pit solo un costo ma una possibilità diretta di avere un beneficio. Questo significa che ogni individuo è molto pit libero di decidere quando e se partecipare, dato che mancare all'appuntamento viene visto tendenzialmente come una perdita per chi manca più che per il movimento. Se, come ha affermato Harrison [1977], i movimenti passano
spesso da un coinvolgimento strumentale degli individui ad uno ._ 24 La classificazione degli incentivi ha avuto due formulazioni originali molto simili: da un lato quella di ]. Q. Wilson [1973] che li divide in materiali, solidaristici e di valore; dall’altra quella di Etzioni [1967] che individua tre tipi di compliance: utilitaristica, coercitiva e normativa.
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espressivo, l’azione collettiva odierna sembra rivolta a scoprire delle modalità per tenere assieme entrambi gli aspetti superando cosî questa dicotomia. Ciò è connesso anche al venir meno dei nuclei formali rappresentati da cellule o sezioni delle organizzazioni di tipo leninista e al passaggio a forme associative largamente informali. Questa deformalizzazione è certamente in relazione con la critica al «dovere» e alla militanza fatta di obblighi e di coscienza, ma segna anche un tentativo di fondare il controllo dell’azione sulla partecipazione diretta e di mantenere questa partecipazione aperta rispetto alla costrizione delle regole formali. Le forme associative divengono più ristrette nel numero dei membri e tendono a strutturarsi a partire da appartenenze di tipo primario come l’età o il sesso, oppure il luogo fisico del gruppo e quindi il territorio. Simili appartenenze definiscono in un certo senso la conflittualità intrinseca di queste forme di solidarietà 2° che non si vogliono più quali mezzi per un obiettivo ma come obiettivo in sé. L’informalità lascia più spazio alla scelta di partecipare o meno e di quando entrare o uscire da un gruppo; di qui il rischio di frammentazione e la mancanza di continuità, testimoniati dalla miriade di piccoli gruppi che compongono le aree e dalla brevità dei fenomeni di mobilitazione di questi ultimi anni. Ma in realtà informalità non significa fine della regolazione, e qui l’ideologia, nonostante tutto, gioca ancora il suo ruolo nei rapporti di potere sia tra gli individui che tra le diverse forme associative. Spesso infatti l'appartenenza primaria diviene un modo per chiudere il gruppo all’ingresso di altri membri e per creare nuovi vincoli, soprattutto laddove gli incentivi sono prevalentemente solidaristici [J.Q. Wilson 1973]. Ma se la formalizzazione segna una volontà di continuità nel tempo %, l’informalità e l'accento sulla pratica quotidiana permettono di attuare strategie di differenziazione offrendo incentivi ad un’ampia gamma di individui e gruppi che entrano in contatto coi reticoli delle aree. Essi ne divengono parte quando accettano la ridefinizione della situazione operata dal movimento; l’azione collettiva odierna può coagulare cosî al suo interno un insieme molto vasto di situazioni. 25 Si pensi ai gruppi di donne per i quali la casa (simbolo del sé e della sua alterità e conflittualità intrinseca rispetto al sistema) diviene il luogo delle riunioni collettive. 26 Di nuovo ritorna il venir meno dell’importanza del tempo come vincolo posto dall’esterno, soprattutto nell’area delle donne. Diventa vincolante un tempo tutto interno, negoziato in funzione dell’azione della singola forma associativa e dei suoi componenti, che non ha relazioni con scadenze o coincidenze esterne.
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La possibilità di dare unità e continuità a questo insieme dipende allora dalla capacità di produrre un'identità «culturale» che, come si è detto, accentui l’importanza dell’antagonismo come forza; e che però gestisca i contenuti non attraverso l’imposizione ma attraverso lo scambio interno nel quale i «nuovi professionisti» hanno un ruolo prevalente dalla parte dell’offerta. La conflittualità delle proposte sta nel loro carattere di «sfide» che concernono i codici formali, ma nello stesso tempo il contenuto viene delimitato e controllato attraverso i beni che i più professionalizzati (le «agenzie») passano agli utenti (anche se i primi devono sempre far fronte ad una negoziazione con le altre parti e ad esigenze di differenziazione che vanno in senso opposto a quello del controllo): in questo si esprime il rapporto di potere esistente tra le diverse componenti. Gli incentivi di valore diventano formali e potenzialmente aperti su una gamma infinita di possibilità, mentre gli incentivi materiali che danno contenuto a queste «forme» sono sotto il controllo privilegiato delle agenzie. Non si, tratta di un semplice mutamento nel tipo di incentivi ma di una trasformazione che coinvolge i termini dello scambio in base ai quali si considerano o meno adeguati certi incentivi. Ciò costituisce uno dei riferimenti normativi fondamentali di una forma organizzativa. Nello scambio di incentivi, non si tratta perciò di confrontare delle quantità in valore assoluto, come ha indirettamente sostenuto Olson [1965]; il confronto avviene infatti all’interno dei termini di riferimento propri di ciascun contesto d’azione. Hir-
sch [1981] ha criticato Olson sostenendo che ogni sistema sociale possiede una propria forma di razionalità in base alla quale si orientano le azioni dei membri, e lo stesso hanno fatto Pizzorno [1977, 1978] e Lodi [1980-81] per il caso dei movimenti sociali. In altri termini, ogni contesto organizzato, o comunque «sociale», ha una sua razionalità [Crozier e Friedberg 1978] in base alla quale ad ogni bene viene attribuito un particolare valore che varia da contesto a contesto. Quando parliamo di ricontrattazione o di rinegoziazione, intendiamo allora precisamente riferirci alla ridefinizione dei termini di razionalità e di scambio che si verifica nel passaggio da un contesto all’altro. Nel nostro caso questa ridefinizione è avvenuta in seguito alla delusione per le esperienze precedenti che hanno comportato promesse di scambio non mantenute e frustrazioni delle aspettative. Il mutamento non è avvenuto però unicamente in seguito alla volontà comune di ristabilire l'equità degli scambi. Nella ridefinizione hanno giocato un ruolo fondamentale le risorse e le opportu-
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nità di cui ogni componente poteva disporre. Chi aveva più risorse ha potuto puntare sulla professionalizzazione del proprio impegno passando cosî ad incentivi che potremmo definire «materiali-orientati» (nel senso che mantengono una connotazione conflittuale sullo sfondo). Gli individui poveri di risorse si
sono orientati verso incentivi materiali e/o solidaristici diventando utenti. A partire di qui si è ricostruita un’identità che rendesse congruenti queste due forme di comportamento; essa è stata negoziata in base agli specifici rapporti di potere tra le componenti. Dunque gli attori aderiscono ed agiscono dentro un sistema organizzato in base alle opportunità e alla conoscenza del campo di cui possono disporre. Essi non sono guidati dalla ricerca di una generica parità dello scambio (il quale resta sempre, almeno in parte, ambiguo nei suoi termini) ma piuttosto dalle opportunità individuabili ??. Ciò è indirettamente confermato dalle modalità di adesione alle varie forme associative nelle aree. I singoli infatti non aderiscono mai individualmente ma, come si è detto, quasi sempre attraverso canali di relazione (amicale, parentale, organizzativa),
con chi già fa parte delle aree. Questa forma di adesione assicura infatti un accesso alla conoscenza del campo in cui si va ad investire e permette di intervenire nella contrattazione e definizione dell’azione collettiva in posizione migliore rispetto ad un individuo isolato. D'altro canto queste stesse modalità costituiscono anche dei meccanismi tramite i quali gli individui possono venir tenuti sotto controllo più facilmente (come hanno messo in evi-
denza Kanter [1968, 1972] e Wilson e Orum [1976]: attraverso l’offerta di opportunità gli attori vengono vincolati ad un corso d’azione dagli investimenti fatti. Un altro modello è quello delle «amicizie militanti» che sono piuttosto comuni nelle aree analizzate e sembrano avere la funzione di permettere un investimento simultaneo in due campi (amicizia e impegno), limitando in tal modo le possibili perdite. Per questo motivo, il gruppo a base amicale è molto diffuso, tanto più nelle zone povere. Esso presenta il limite di richiedere un controllo decisamente maggiore sull’individuo e sui suoi scambi anche all’esterno del gruppo (come ad esempio avviene nel Collet-
271 Un modello di questo tipo è confermato da diversi studi: quello di Downton [1973]; quello di Flynn e Webb [1975] sulla partecipazione femminile nelle associazioni volontarie; quello di McMahon e Camilleri [1975] sulla partecipazione ai processi decisionali e di Depolo e Sarchielli [1980] sui militanti sindacali.
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tivo Donne Ticinese e in altri gruppi simili di donne) e di presentare barriere più forti verso chi non ha coi membri questo legame di amicizia (come avviene nella Commissione Cultura del Centro Sociale Leoncavallo). Per concludere si può constatare infine che difficilmente gli attori investono in profondità al momento dell’adesione. Piuttosto si assisterà (come ad esempio avviene in Nuova Ecologia ed in Ecologia 15) ad un investimento crescente (sempre che vengano individuate opportunità valevoli) con l’approfondirsi della conoscenza che l'individuo ha del campo in cui va ad operare; tale investimento aumenterà progressivamente il suo legame col ruppo o coll’organizzazione rendendone man mano pit difficile
Î ontanamento.
Attraverso un percorso di questo tipo gli «utenti» possono trasformarsi in «professionalizzati»; ma, da questo punto di vista, se questi ultimi hanno fatto un investimento a più lungo termine,
uno dei risultati del processo di trasformazione delle forme di azione collettiva è stato quello di permettere agli utenti di non investire in profondità, ma di utilizzare uno scambio di breve eriodo, maggiormente controllabile. Ciò aumenta i rischi di rammentazione e di discontinuità dell’azione collettiva ma viene compensato da meccanismi che creano un investimento «culturale» e simbolico più profondo e vincolante, rilevabile in particolare nell’area degli ecologisti e in quella delle donne. 7. Ideologia Non ci occuperemo qui dell’ideologia nel senso di visione del mondo a carattere sistematico, fondata su un insieme di principi ideali e di credenze; parleremo invece dell’ideologia nella sua funzione organizzativa, cioè quale fonte di valori e norme vincolanti e quale strumento di legittimazione e consenso interni (anche se è chiaro che la crisi dei referenti universali colpisce anche la funzione puramente organizzativa delle rappresentazioni). Possiamo distinguere due aspetti analitici dell’ideologia: 4) l'aspetto che defineremo prescrittivo, che ha una funzione normativa fondata su certi valori, in base ai quali vengono stabiliti gli obiettivi ultimi, i criteri per lo scambio tra individui, tra individui e organizzazione, tra organizzazione e ambiente; 5) l'aspetto che si potrebbe definire interpretativo-legittimatorio che comprende le rappresentazioni che gli attori danno della propria azione in rapporto ai valori che ee la parte prescrittiva. Questi due
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aspetti sono inestricabilmente fusi, perché qualsiasi affermazione ideologica contiene in sé una prescrizione e contemporaneamente
una ricerca di legittimazione rispetto a valori più generali 28; la distinzione quindi è puramente analitica. La fine delle ideologie intese in senso forte ha messo profondamente in crisi l'aspetto che abbiamo chiamato prescrittivo («il nemico è chi toglie gli spazi») aprendo varchi cospicui alla tematizzazione delle differenze, al riconoscimento dell’individualità e del diritto ad appropriarsi delle decisioni. La ricerca di un controllo diretto sullo scambio che rende superflua la normatività dei valori generali significa però anche che tutto ciò che va oltre lo scambio immediato, oltre la controllabilità fisica e visiva tende a sfuggire nei meandri dei rapporti organizzativi e non gioca certo a favore della trasparenza cui si aspira: come si è visto i professionalizzati e le agenzie detengono una maggiore capacità di controllo sullo scambio, anche se ci troviamo di fronte ad una struttura in cui sono le necessità «sistemiche», l’interdipendenza reciproca a sostituire la produzione esplicita degli aspetti prescrittivi dell’idelogia. ) Certo non è più possibile controllare la direzione di un percorso che unifichi tutti questi scambi a breve termine. Ma d’altra parte questa direzione potrebbe anche aver perso la sua importanza, di fronte ad un sistema sociale che si presenta esso stesso multiforme e multidirezionale. Si lascia allora spazio all’invenzione e alla creazione delle proposte più diverse purché siano segno di una conflittualità rispetto al sociale. Il gioco al massacro simbolico che queste forme di azione collettiva realizzano nei confronti dell’esterno si rispecchia anche all’interno: i dissidi fra gruppi possono essere cosi assorbiti e riproposti all’esterno come sfida. C'è qui come un salto di livello nel modo di tenere insieme corsi d’azione separati; esso rispecchia un fenomeno più generale delle società avanzate e consiste nella capacità di assorbire l’incertezza fondando l’unità proprio su un orientamento formale antisistema. Ma se ciò restituisce coerenza all’identità ad un livello superiore [Sciolla 1983], non restituisce altrettanta continuità all’azione. E non significa certo la scomparsa dei rapporti di potere.
28 Il medesimo criterio è stato espresso da Panebianco: «ideologia e statuto organizzativo non rappresentano soltanto strumenti di auto-legittimazione di una élite [...], ma svolgono anche l’importante funzione di circoscriverne i margini di manovra» [1979, 582].
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Nelle singole forme associative il dilemma tra autonomia dell'individuo e azione collettiva viene affrontato secondo due modelli che si compongono variamente a seconda della situazione. Un primo modello è il rapporto a fondamento amicale. Esso azzera ideologicamente la struttura e causa la massima dipendenza dalle componenti affettive; prescrizione e legittimazione diventano tutte interne e non separabili dal rapporto affettivo che dà cosf l’illusione della trasparenza. L’altro modello dà la precedenza ad una realizzazione per progetti nella quale l’attività dei singoli viene vista come pratica quotidiana dell’obiettivo ed è lasciata libera quanto a quantità e qualità dell’impegno. L’accento viene messo sull’equità dello scambio che avviene nella partecipazione; si riconosce (implicitamente o esplicitamente) che chi offre l'impegno maggiore può disporre di un maggior controllo sull'andamento organizzativo e che una certa quantità di asimmetria e di divisione del lavoro sono l’inevitabile costo dell’interazione nella quale si scontano anche differenti capacità professionali e individuali. Il primo tipo di soluzione tende a sostituire l'ideologia generale col valore dell'amicizia. Esso è più frequentemente associato alla coincidenza tra obiettivi collettivi e bisogni solidaristico-affettivi (Collettivo Donne Ticinese, Centro Sociale Leoncavallo). Il secondo tipo sembra invece soggetto ad una certa discontinuità: essa dipende dalla possibilità lasciata a ciascuno di determinare individualmente la propria partecipazione che è anche una forma di differenziazione. In entrambi i casi la forma associativa è di
dimensioni ridotte, ma si può affermare che il primo modello sembra caratteristico delle situazioni povere, mentre il secondo è più tipico delle zone ricche di risorse dove il peso dei professionisti rappresentati è maggiore.
8. I labirinti dell’identità: la cultura e le norme
Un movimento sociale può essere definito come oggetto analitico ben preciso, ma empiricamente contiene componenti molto diverse [Melucci 1982]. L’interesse di una analisi organizzativa sta proprio nel comprendere l’articolazione complessa e le relazioni concrete dalle quali i fenomeni di mobilitazione e di conflitto prendono l’avvio e tramite le quali possono mantenersi nel tempo.
Gli individui, come affermano le teorie della social network analysis, sono normalmente inseriti in reti di relazioni formali o informali; un’analisi organizzativa di queste reti è dunque il punto
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di partenza per la comprensione delle forme dell’azione collettiva [Wilson e Orum 1976]. Tutte e quattro le aree prese in considerazione possono essere descritte in termini di yetwork più o meno densi, o come «campi di interazione a densità organizzativa variabile» [Oberschall 1978, 267], che hanno come punti nodali, ovvero come luoghi quasi-permanenti di aggregazione, organizzazioni, gruppi o associazioni più o meno grandi, punti di trasmissione di informazioni, luoghi semi-istituzionali come il Centro Sociale di Piazzale Abbiategrasso. Queste strutture di area sono del tutto simili a quelle rilevate in alcuni movimenti negli Stati Uniti da Gerlach e Hine [1970], e descritte come «reticolari» e
«segmentate». Tra i loro punti nodali, o nuclei, corrono legami di vario tipo: amicali, parentali, organizzativi, mantenuti attraverso
contatti personali o attraverso canali di comunicazione organizzativi, tra i quali i più rilevanti sono certamente le radio di movimento. i Conseguentemente, due sono i livelli a cui va condotta l’analisi organizzativa: ad un primo livello si può analizzare la struttura di ciascuna forma associativa presente nell’area; si ha cosî un’analisi dei punti nodali, o nuclei, del reticolo. Ad un secondo livello si potrà poi analizzare la strutturazione d’insieme dell’area e quindi l’azione interdipendente dei diversi nuclei 29. Nel corso degli anni Settanta si è assistito alla graduale perdita di importanza e quindi alla scomparsa di organizzazioni come LC, AO, AutOp, col passaggio a strutture decisamente più informali. I luoghi di aggregazione che erano allora costituiti dalle cellule o sezioni di quelle organizzazioni, sono oggi forme associative autonome basate su appartenenze territoriali e amicali per la gran parte. Ciò rende più complessa la ricerca del fondamento organizzativo della strutturazione di queste aree. Oltre che essere inseriti in una struttura di zetwork che li collega, infatti, è necessario che i comportamenti possiedano una certa regolarità legata alla loro interdipendenza reciproca. Altrimenti essi non sono pit riconducibili ad un insieme organizzativo unico (o sistema), che per l’appunto li struttura, cioè li vincola a certe norme o a certe costrizioni «oggettive» causate dall’interdipendenza. Come si è visto in
29 Ciò che qui viene definito come nucleo corrisponde a ciò che McCarthy e Zald [1977] chiamano Social Movement Organization, l'insieme delle quali forma una Social Movement Industry, mentre l’area, che comprende anche militanti occasionali e non permanenti corrisponde alla definizione di Socia! Movement; l’insieme delle aree, infine, è definito Social Movement Sector.
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precedenza, questa strutturazione è negoziata in base alle risorse di cui i partecipanti dispongono (e quindi anche in base alle regole vigenti) e a sua volta dà origine a norme che regolano i comportamenti all’interno dell’area e delle forme associative. Quando si parla di organizzazione, si parla solitamente di organizzazioni complesse caratterizzate da regole formali e definite. Numerosi studi però [Sayles 1958; Dalton 1972; Silverman 1974; Coombs 1973; Crozier e Friedberg 1978] hanno messo in luce il fatto che nessuna organizzazione ni suo funzionamento risponde perfettamente alle sue regole formali; non è quindi la maggiore o minore formalizzazione delle regole che ci permette di dire se siamo o meno in presenza di un insieme che può essere considerato organizzativo. Le medesime ricerche hanno evidenziato che le regole informali possono venire analizzate al pari di quelle formali e che su di esse si può fondare un’analisi organizzativa che considera la componente formale solo un aspetto particolare e determinato dell’interazione [Silverman 1974; Crozier e Friedberg 1978]?°. L’aspetto centrale per l’analisi è allora costi-
tuito dalla formazione, dal significato e dalla funzione di questo insieme di norme che regola l’interazione degli individui in un campo determinato, sia esso una organizzazione formale o un movimento.
Sono queste norme che, permettendo di prevedere il comportamento dei partners, consentono agli individui partecipanti di calcolare i costi e i benefici della loro azione; queste norme sono alla base dello scambio degli incentivi e l’identità collettiva ne è, in un certo senso, la sublimazione. È questo nucleo normativo che permette il passaggio dalla condizione all’azione. Tale passaggio appartiene propriamente alla dimensione organizzativa: l’organizzazione è il luogo in cui viene contrattata fra le diverse componenti del movimento quella ridefinizione della situazione che permette la mobilitazione e l’azione collettiva [McCarthy e Zald 1977; Tilly 1978]. L’organizzazione è, di conseguenza, il luogo della mediazione e dell’incontro, della ricomposizione tra identità individuale e identità collettiva e tra dimensione interna (rapporti reciproci tra le componenti dell’area) e
30 M. Pagés sostiene la medesima ipotesi affermando che la formalizzazione interviene come reazione all’angoscia provocata dalla paura della separazione, per cui le regole formali vengono istituite quando già il gruppo ha un funzionamento ed una strutturazione propria, per un bisogno di sicurezza che esse possono soddisfare col requisito di essere esplicite.
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dimensione esterna (rapporto con l’avversario, con la posta in gioco, con l’ambiente). Il carattere normativo si ritrova nella costruzione del quadro di riferimento comune e nella delimitazione del campo di autodefinizione. Ma questo percorso attraverso l’identità deve anche essere sufficientemente preciso da permettere un funzionamento interdipendente: Se infatti le norme lasciassero troppa libertà di comportamento, i costi e benefici non sarebbero più calcolabili o lo sarebbero con un margine di incertezza (e quindi di rischio)
troppo elevato. L’identità collettiva potrebbe allora cominciare a sfilacciarsi, a non essere pit tale, e con essa l’insieme del movimento smetterebbe di agire in modo integrato. La precisione con cui questo insieme di norme regola i comportamenti dei membri e partecipanti del movimento potrà variare, ma, al diminuire della strutturazione, il coordinamento dell’attore collettivo comincerà a diminuire progressivamente e, al di sotto di un certo livello, si avranno comportamenti con un margine di libertà sempre più ampio finché non sarà più possibile una mobilitazione e non si potranno impedire azioni contraddittorie, disfunzioni, rotture. Il passaggio all’informalità delle forme odierne di organizzazione dell’azione collettiva ha aperto un processo di rifondazione dell’identità collettiva che si è strutturato attraverso le solidarietà amicali, attorno ai luoghi fisici dove la definizione dei bisogni assumeva connotati di immediatezza, oppure nei gruppi e nelle organizzazioni che aprivano la strada dellanuova professionalità alternativa. Queste forme associative hanno certamente utilizzato la stratificazione culturale lasciata dalle lotte precedenti come punto di partenza. Ma questa eredità è stata progressivamente messa in disuso perché come insieme di norme si è rivelata inadeguata ai nuovi bisogni; il suo posto è stato preso a poco a poco da una nuova identità collettiva che coincide col nuovo assetto di relazioni che le diverse componenti sono andate negoziando sul campo. Concretizzandosi in modo informale, questo assetto ha dato vita a qualcosa di definibile come micro-cultura. Essa, come ha affermato E. Reynaud [1982], è un’elaborazione collettiva che nasce nella situazione concreta e nell’esperienza specifica di un certo insieme di persone o gruppi che interagiscono in un contesto organizzato; ne rispecchia quindi i vincoli tecnici, organizzativi e sociali e irapporti di potere 3!. 31 Cfr. tra l’altro il lavoro di Kergoat [1973] che conferma pienamente tale orientamento. Questa «micro-cultura» subisce dei mutamenti laddove dimostra
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A partire dalla ricostruzione delle forme associative è dunque avvenuta quella dell’identità collettiva delle aree di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti. È infatti il livello di area quello che unifica il movimento. La ricostruzione è avvenuta a partire dai nuclei professionalizzati ed in particolare da quelle organizzazioni che hanno svolto la funzione di trasmissione di informazioni, che hanno cosî avuto, sfruttando la loro posizione di potere, un ruolo fondamentale nella ricostruzione e ridefinizione dell'identità, raccogliendo, facendo circolare e a loro volta influenzando i contributi delle diverse componenti. La posizione di potere di queste agenzie è stata solo in parte insidiata da organizzazioni che, pur fungendo da punti di appoggio del movimento, sono in qualche modo esterni alle aree e sono pit legati ad agenti istituzionali come partiti e amministrazioni pubbliche. Il potere di queste componenti (quali sono l'Arci, la Fcci, l’UDI, e parzialmente il Centro Sociale di Piazzale Abbiategrasso) è limitato dal fatto che esse continuano a perseguire uno scambio di tipo politico che trova ormai meno seguito di quello proposto dai nuclei professionalizzati ?2. . Cosî la strutturazione ha preso forma a partire dai centri professionalizzati i quali hanno la necessità di creare e mantenere un'identità, ossia un insieme di norme, che permetta di utilizzare le nuove professionalità. Ciò vincola profondamente il loro comportamento assieme a quello dell’area: essi non possono fare a meno di un’identità contano dell’area e devono quindi cercare di mantenere la massima libertà d’azione (che significa possibilità
di differenziazione delle risorse e delle strategie) senza provocare lo sfaldamento dell’insieme (ad esempio cominciando a farsi concorrenza reciprocamente), oppure senza fallire essi stessi dopo aver perduto la connotazione di centri alternativi. La strutturazione più forte è presente nell’area degli ecologisti. Questa è anche l’area in cui si ha la densità pit alta di zone ricche. Essa va costruendo una propria cultura attorno al problema della «qualità della vita». Anche l’area delle donne mostra una strutturazione piuttosto forte, frutto di un percorso autonomo
disfunzioni e sopravvive finché permette il funzionamento concreto dell’insieme, venendo meno il quale essa si dissolve in seguito al cessare dei comportamenti tramite i quali si riproduce. ?2 Questo discorso non vale per i neo-religiosi, per i quali non sembra presente una strutturazione unificante a livello dell’area (anche se una certa quantità di orientamenti comuni è presente), soprattutto perché i partecipanti non sono molto interessati ad un’ipotesi che li accomuni.
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che fino dai primi anni Settanta ha dato esplicitamente spazio alla ricerca di identità verso l'interno e verso l'esterno. Ecologisti e donne sembrano in grado di raggiungere livelli d’azione pit elevati su problemi che accomunano tutta l’area. L’area giovanile appare invece la pit disgregata dato l’alto numero di zone povere chiuse su se stesse e legate all’identità precedente. In esse il messaggio dei centri professionalizzati fatica infatti ad arrivare. Le forme associative mutano dunque verso l’informalità e verso gruppi a fondamento primario. Non si tratta però di un regresso a forme ascrittive di appartenenza, poiché i gruppi presenti nelle aree mostrano ben chiaro un elemento di «artificialità» nelle definizioni di sesso, di età o anche di territorio 33. E infatti, se come afferma Allardt [1979], nel caso dei vincoli tradizionali non c’è autocoscienza e manca l’«elemento soggettivo» dell’identificazione, nel caso dei gruppi di cui ci occupiamo una delle principali attività è proprio quelle della riflessione su se stessi, per cui la loro strutturazione è ben diversa da quelle realmente tradizionali o primarie. La critica dell’organizzazione formalizzata e della pura strumentalità ha spinto queste forme associative verso il tentativo di tenere insieme sia la relazione primaria nella sua connotazione di puro piacere-scambio immediato, che ne rappresenta l’aspetto informale, sia la relazione strumentale e costruita che ne rappresenta l’aspetto formale. Di qui la peculiarità di queste forme di azione collettiva. Esse agiscono con progetti a breve termine la cui coerenza non è nei contenuti ma nel favorire una capacità autoriflessiva che assicuri
loro la «qualità della partecipazione diretta» e che ne definisca la diversità rispetto al sociale. Si mette quindi in rilievo la forma diversa della relazione. La proposta, in altri termini, è quella di un pluralismo culturale fondato sulla possibilità di una partecipazione qualitativa e rispettosa delle differenze individuali e dei bisogni. Questo «pluralismo qualitativo» è la cultura che fa da base all’identità e unifica le incongruenze che forme e progetti presen-
33 Si pensi infatti alla condizione giovanile, non più definita esclusivamente in termini di età; o alla differenza tra «donnità» e «donnità» che emerge nel Collettivo Donne Ticinese nei confronti di altre donne; o ancora ai gruppi territoriali composti da persone di zone diverse che però sono membri effettivi del gruppo e si interessano ai problemi di quella zona specifica.
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tano in se stessi: essa definisce anche una linea che segna una continuità tra i vari corsi d’azione concreti [Sciolla 1983]. La sfida al sistema avviene cosî attraverso la proposta delle proprie forme d’azione che diventano contenuto dell’azione collettiva mediante la continua riflessione su se stesse. In un certo senso il tentativo di una riflessione continua su di sé sostituisce il mito della trasparenza, ma qui l’organizzazione oppone la resistenza intrinseca all’azione sociale. I nuovi professionisti rappresentano l’«anima politica» di queste sfide, ma contemporaneamente devono fare fronte ad esigenze strumentali sia verso l’interno che verso l'esterno se vogliono mantenere vivo il carattere antagonista di queste forme d’azione evitando soluzioni settarie o la pura marginalità. La profezia contiene dunque la sfida nella proposta di tenere insieme strumentalità e qualità. Indipendentemente dal suo esito essa vive le lacerazioni e la fatica ma anche, allo stesso tempo, gli spazi e le possibilità aperti dal suo carattere di diversità e di straordinarietà.
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JOSEPH
SASSOON
IDEOLOGIA, AZIONE SIMBOLICA E RITUALITÀ: NUOVI PERCORSI DEI MOVIMENTI
Allo stesso modo che negli altri ambiti del sociale, nei movimenti contemporanei le grandi ideologie sopravvivono soltanto come residui. Ovunque le loro verità, le loro grandi speranze si sono trasformate quasi per sortilegio in cascami polverosi, non più in grado di giustificare pressoché nulla, e dunque neppure se stessi. Cosi anche nei gruppi studiati in questa ricerca. Le ideologie totalizzanti appartengono allo stesso ordine di categorie come lotta di classe o rivoluzione: referenti perduti che non possono essere evocati senza imbarazzo e senza che qualcuno ne prenda immediatamente le distanze. Ma se è svanito il fascino per lungo tempo irresistibile dell’ideologia «proletaria», e quello di ogni altra narrazione mitica consumata al suo posto, non per questo i movimenti hanno acquistato
maggiori capacità di sfuggire l’autoinganno. L’uso legittimante dell’immaginario conserva troppi vantaggi. E da ciò l’ideologia rinasce continuamente come pensiero falsato, autogiustificativo, nelle elaborazioni più effimere ma non meno ingannevoli che i gruppi, analogamente a prima, producono per le loro ragioni strumentali. L’essenziale,
tuttavia,
è che le forme
della rivolta sono
mutate. Le illusioni di un confronto vittorioso con il sistema sul piano dell’azione storica, dialettica, sul piano del potere reale, si sono dissolte. Non perché la lotta contro il potere nelle sue determinazioni materiali sia oggi meno aperta di prima, ma perché ci si è accorti che la violenza reale del sistema non è nulla a paragone della sua violenza simbolica. Rivelazione sconcertante — il potere non è là dove lo si pensava — che obbliga a rivedere non soltanto il proprio armamentario culturale, ma anche ogni prassi o strategia di conflitto. Donde un mutamento di rotta radicale, leggibile molto prima nei comportamenti che nelle enunciazioni teoriche, per il quale, a loro volta, i movimenti tendono a collocarsi sempre più in uno spazio, in un campo d’azione, che è quello della sfida simbolica. Di tale spostamento del terreno di confronto, la scandalosa indifferenza dei movimenti rispetto al politico non è che un sintomo.
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Dalla logica del potere e del contro-potere, che implicava il conflitto a colpi di ideologie e di obiettivi, linee politiche, calcolo razionale delle opportunità, il confronto si trasferisce sul piano simbolico, dove le tattiche e i programmi politici perdono di significato, dove i costi e i benefici dell’azione non sono più misurabili, dove la logica è quella della sfida. Situarsi a questo livello vuol dire anzitutto lottare per la reintegrazione dell’universo simbolico, quasi totalmente disarticolato dal modello della funzionalità operativa dominante nelle società «complesse». Ma vuol dire anche passare in seconda linea le domande, le rivendicazioni. Sempre meno, ora, si tratta di battersi per strappare all’avversario ciò che esso non intende concedere. Dove i movimenti si misurano è piuttosto nel tentativo di offrire: non tanto dei «contenuti» o dei «messaggi» (troverebbero ben poca gente disposta a credervi) quanto forme diverse di relazione simbolica, modi diversi di percezione e produzione del sociale. È questo che assegna un ruolo cruciale alla ritualità. I movimenti sfidano il sistema tracciando solchi distîntivi, cerchi magici disegnati con rituali inafferrabili, che separano, allontanano dalla società regolamentata e dai suoi codici. In tal modo, mentre sostituiscono le ideologie come garanti della coesione dei gruppi, i rituali svolgono un’altra funzione primaria: quella di aprire degli spazi, sgombrare il campo non solo dai messaggi normativi del sociale ma dagli stessi sistemi cognitivi che li fondano. Per fare largo, invece, ad altre strutture formali, altri zzedia, attraverso cui
ricostituire simbolicamente il mondo. Tutto ciò avviene, naturalmente, su un terreno disseminato di insidie. 1. L’ideologia come residuo Se le ideologie totalizzanti si imbattono in manifestazioni di crescente incredulità, ciò dipende meno dallo sviluppo di un atteggiamento «critico» di fronte al crollo dei vecchi miti (potrebbero sempre nascerne di nuovi) che dalle trasformazioni nei modi
di produzione e riproduzione del sapere. Come ha notato Lyotard, i grandi récits che in passato garantivano la fondatezza di un sapere in grado di fornire i criteri per distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto (l'emancipazione dei cittadini, la realizzazione dello spirito, la società senza classi), legittimavano anche le ideologie e le azioni. Ma ciò che è proprio dell’uomo nella condi-
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zione post-moderna è di non credervi più, di aver perso la sua fiducia nelle grandi narrazioni. Oggi il sapere ha mutato il suo statuto. Esso può circolare nei nuovi linguaggi e canali tecnologici solo se è traducibile in quantità d’informazione, destinate ad essere scambiate e consumate come un tipo particolare di merce [Lyotard 1981]. Ciò pone al sapere contemporaneo nuovi problemi di riconoscimento. Ma soprattutto annienta le basi su cui si fonda ogni ideologia come sistema ipostatizzato di valori. Questo è vero anche per i movimenti, ed emerge con chiarezza nei gruppi. Fuga dall’ideologia ogni volta che se ne parla esplicitamente (per definirla come ciò che vincola a concezioni rigide, costrittive). Ma analoga reazione — fuga entropica, in tutte le direzioni — quando gli ideologi superstiti tentano la riproposizione più o meno velata di insiemi precostituiti di credenze. Niente a che vedere, beninteso, con una nuova capacità di elaborare rappresentazioni o immagini «veritiere». Al contrario, la perdita di referenti implica la moltiplicazione delle immagini,
nonché la loro indifferenziazione relativa: è a questo livello che l'ideologia non fa pit presa. In ciò i movimenti non fanno che riflettere la liquidazione del senso (e del «reale») a favore di una circolazione indiscriminata di segni, che è propria dei sistemi sociali moderni. Nei quali se il sapere, meglio, i suoi frammenti, le particelle molecolari in cui risulta disperso, fluttuano, si scambiano come qualsiasi altro oggetto o segno, nessuna rappresentazione e nessun immaginario (tanto meno quelli costituiti in sistemi) possono aspirare ad essere uno specchio autentico, veri-
dico del sociale. Anche le ideologie, pertanto, sono costrette a fluttuare, ed è la cosa peggiore che possa loro succedere. In questa loro deriva, è significativo che esse non trovino altro ancoramento se non la rappresentazione, eroica, mitica, di conflitti passati (è il caso dei
documenti ideologici prodotti in questi anni dal terrorismo). Pure nei nostri gruppi, d'altronde, il riaffiorare di toni ideologici produce immancabilmente un effetto rétro. Si può vedere più da vicino perché tutto ciò accade. Vi sono almeno tre ordini di ragioni. a) Un sistema di idee costituisce un’ideologia se è fondato su dei valori e se € rivolto (per sostenerlo o combatterlo) al potere
[Béteille 1978]. Ma, nel sociale, i «valori» sono sempre più irreperibili. O meglio sono soggetti ad una circolazione accelerata, ad un processo continuo di innovazione-declino-reviva/ che ha come effetto la loro neutralizzazione: tutti i valori sono attuali e virtualmente intercambiabili in quanto ridotti a segni, svuotati della loro
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storia, della loro profondità e del loro senso (non è solo l’ottica della moda, dei pubblicitari o dei punk: anche i partiti «pigliatutto» vi convergono, nei loro maqguillages postmoderni riaggiornati senza sosta; e la tendenza è molto più generale). Nei movimenti ciò si manifesta in vari modi: con pi«messa in discussione» dei valori condivisi fino alla stagione precedente (atteggiamento ancora rétro) o senz'altro con una loro circolazione pit libera, più indifferente. Donde la compresenza, nei gruppi, di valori un tempo incompatibili come impegno/disimpegno, militanza/partecipazione ludica, uguaglianza/diversità, solidarietà/narcisismo, creatività/affermazione
professionale,
ecc., polarità instabili,
ridefinite volta per volta, su cui qualunque costruzione ideologica non può che traballare !. Quanto al «potere», la questione è analoga: trovarlo. Disseminato negli infiniti gangli dei sistemi complessi, partecipato democraticamente dalle masse, riverberato in ille immagini nel sistema di specchi dei mass-media o semplicemente svanito per rarefazione, il potere — principio di opposizione ma anche di identificazione per ogni ideologia di movimento — si è dileguato dal sociale come un ladro dalla scena del delitto. E se pure sopravvive, ha perso la sua unità metafisica per acquisire un’ubiquità proteiforme che all’ideologia può difficilmente offrire un terreno. Anche per questo, nei gruppi, essa vacilla («l’avversario sono le abitudini mentali», «il nemico è dentro di noi», ecc.).
b) Un’ideologia è un quadro di riferimento che orienta un’azione volta ad incidere sulla realtà. Ciò presuppone una distinzione tra azione e ideologia, ovvero tra realtà e immaginario. Ma è proprio questa distinzione ad essere oggi posta in dubbio, o senz’altro negata. Per Baudrillard, l’ideologia è propriamente scomparsa dall’orizzonte del sociale poiché la differenza sovrana — all’origine d’ogni metafisica — tra reale e immaginario è dissolta dall’avvento dei simulacri e dell’ordine della simulazione. Nel quale i
1 Non è un caso che questa ricerca segnali, nei movimenti, la ricomparsa di
motivazioni all’affermazione professionale, alla sicurezza economica, alla rivalutazione del mercato, perfino al successo, che si era appena fatto a tempo a superare con la «rivoluzione silenziosa» grazie alla quale (come rilevato da Hinglehart [1977], Ricolfi e Sciolla [1981]) tali valori «acquisitivi» erano stati sostituiti dagli
emergenti valori «espressivi». Oggi ad emergere, nella noia e nello scetticismo dilaganti rispetto alle varie liberazioni espressive, sono già dei valori che se hanno poco a che fare con quelli del materialismo borghese presentano indubbiamente molti tratti di tipo «neo-acquisitivo» (è facile mettere in conto, fin d’ora, il prossimo rimbalzo a valori «neo-espressivi», ecc.).
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referenti scompaiono, i segni si svincolano dall’esigenza «arcaica» di designare qualcosa, e si scambiano ormai tra di loro in un gioco strutturale, combinatorio, secondo una relatività e una indeterminazione totale [Baudrillard 1979, 1980]. Analogamente per Perniola, la derealizzazione del sociale e la sua resurrezione nell’universo dei simulacri si determinano con il passaggio da una condizione che distingue la realtà dall’apparenza ad una condizione in cui tale distinzione è soppressa. Le immagini contemporanee, i simulacri, copie prive di originale, sono al di là dell’opposizione verità-falsità che sta al fondamento dell’ideologia, dei valori e fini assoluti [Perniola
1980]. Ciò che si coglie nei movimenti,
in
effetti, va nella stessa direzione di questi processi d’ordine generale. I movimenti, prima posti di fronte all’imperativo di conciliare termini antitetici come teoria e prassi, ideologia e azione, oggi esprimono una tendenza irresistibile a fondere questi due piani, e le loro esperienze acquistano sempre di più un carattere di ide-azione. Mutamento profondo, che non permette pit di conce-
pire il senso d’uno dei termini, preso isolatamente. «Intanto non so cosa voglia dire, azione» (Simona del Ghe-Pel-Ling). L’ideolo-
gia non è più la guida per un’azione di trasformazione del reale anche perché non è più chiaro in che modo questo si trasforma (natura enigmatica dell’azione reale del Centro Donne Ticinese, o di molti altri gruppi femministi, giovanili, neo-religiosi). c) Un’ideologia presuppone un elemento di minaccia ed uno di attrazione [Gellner 1978]. Ma la capacità di sanzione — morale, politica, sociale — che le ideologie traevano dalla loro adesione ai valori si è perduta con essi. In nome di cosa oggi un’ideologia può minacciare? Chi si sente ancora colpevole di trasgressione ideologica? Nei gruppi, di questo elemento non c’è più che una vaga eco. Allo stesso modo, la forza di attrazione, di eccitazione libidinale
che rendeva l’ideologia un fattore cruciale nei processi di mobilitazione si è stemperata di fronte al moltiplicarsi, nel sociale, delle istanze di sollecitudine (spettacolo, moda, pubblicità, assistenza
terapeutica, e tutta la gamma avvolgente dei servizi): più coo/ ma dotate di maggiore (sex-) appeal. Certo nei gruppi la passione ideologica è languente. In effetti, il carattere residuale delle grandi ideologie appare scopertamente nel disagio e nelle prese di distanza che, all’interno dei gruppi, fanno seguito ad ogni riproposizione di principi ed accenti che le richiamino. Se non fosse cosî, del resto, sarebbe davvero curioso: vorrebbe dire che i movimenti sono uno dei pochi settori della società in cui l’ideologia, ovunque afflitta dai sintomi della sua senescenza, mantiene qualche vigore. Mentre i
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movimenti attuali possono essere qualificati come «nuovi» proprio per la loro capacità di stare al passo, diversamente dai movimenti storici, con le trasformazioni che attraversano l’immaginario e l’esistenza sociale delle masse (meglio, che attraversano quel-
l'entità misteriosa che delle masse ha preso il posto condensandone l’esistenza e l'immaginario in una sintesi artificiale, l’«opinione pubblica»). Difficile anzi negare, rispetto a queste trasformazioni, le capacità anticipatrici che i movimenti dimostrano in alcune circostanze. Un esempio notevole: lo scardinamento a sorpresa delle ideologie progressiste attuato dal movimento delle donne nei primi anni Settanta. Ma non è il caso di forzare. Sostenere che nel processo di decomposizione delle ideologie i movimenti siano all'avanguardia sarebbe (oltreché rétro) senz’altro eccessivo. Non soltanto perché
anche buona parte del movimento femminista, per restare all’esempio, ha vissuto la sua brava fase mitica (l'ideologia del femmi-
nismo è forse l’ultima delle grandi narrazioni). Ma soprattutto perché, nelle società informatizzate — massmediatiche, ciberneti-
che, computerizzate, ecc. — il potere non ha più alcun bisogno di grandi principi e grandi fini, e dell’ideologia si è liberato probabilmente prima di chiunque altro. Ovviamente senza dichiararlo; giacché poche cose possono tornare a suo vantaggio come il rinvio del momento in cui gli oppositori, invischiati in sottili questioni
sui possibili pro e contro della crisi dei valori, si accorgeranno della totale amoralità, aprogettualità e indeterminazione che lo nutrono. 2. Ideologie e legittimazione
Se le grandi ideologie hanno perduto la loro capacità di offrire un sistema di rappresentazioni e valori duraturo, garante della verità, della storia e della progettualità sociale, ciò non vuol dire che nei movimenti abbiano cessato di riprodursi, ad un livello inferiore, ideologie intese a legittimare varie funzioni strumentali, come le forme gerarchiche, l’organizzazione dei rapporti sociali o la produzione di «senso». Certo anche queste vacillano. Nessuna rappresentazione, svincolata da referenti assoluti, può legittimare oltre un dato limite; ed infatti, nei nuovi movimenti, nulla contraddistingue di pit le ideologie insorgenti della loro variabilità. Accelerazione prodigiosa del consumo di ideali, rappresentazioni, modelli culturali, che ormai ha ben poco da invidiare a quella del consumo di
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oggetti o di segni. Tutto circola alla stessa velocità impressionante, stimolata e scandita dai ritmi della moda (mode politiche, mode culturali, mode artistiche, mode musicali, mode d’abbiglia-
mento: la distinzione è sempre più difficile e, forse, sempre meno necessaria). Cosî, se c'è qualcosa che appare ad una distanza siderale dalle attuali ideologie «di movimento», e dalle loro capacità di legittimazione, è la classica figura del militante disposto a passare vent'anni in prigione in ossequio alla sua incrollabile adesione a un’«idea 2». Il tempo incalza, e la fluttuazione ciclica dei valori anche. Malgrado tutto ciò, il bisogno di autoinganno — il vecchio bisogno di «credere» in qualcosa, e soprattutto in ciò che si fa — riemerge continuamente, spingendo i movimenti ad elaborare forme ideologiche sia pur transitorie, che assolvano in qualche modo alla funzione di legittimazione. Lo si può vedere ai diversi livelli. ( AI livello dei rapporti gerarchici, l'ideologia tenta di legittimare il fenomeno della destrutturazione della leadership, diffuso in pressoché tutti i movimenti (vedi il saggio sul tema in questo stesso volume), come una scelta ideale, democraticista. Quando in realtà: 4) l'assenza di leaders riconosciuti non impedisce affatto competizioni sotterranee per il comando, sulle quali diventa anzi più difficile esercitare un controllo; 4) non è affatto detto che l’in-
debolimento della rigidità delle strutture gerarchiche apparenti dipenda pi dalle buone intenzioni dei militanti che da tendenze d’ordine generale, estese a molti altri ambiti del sociale (ciò che si verifica nei gruppi può essere in larga misura un riflesso della stessa logica di variabilità, commutabilità, neutralizzazione che nelle attuali strategie del potere ha sostituito ovunque quella della repressività centralizzata). D'altronde è significativo, che, nello stesso tempo, di fronte all'emergere dei valori di riuscita e affermazione professionale, che tornano ad interessare moltissimo, si stia già facendo strada un’altra ideologia: sempre democratica, certo, ma più attenta all’efficienza, e quindi nuovamente pronta a legittimare la suddivisione dei compiti, delle responsabilità ed NE (si è abbastanza maturi per questo) delle funzioni gerarchiche. AI livello dell’organizzazione dei rapporti sociali, l'ideologia opera in modo analogo, come fattore legittimante delle relazioni 2 Gli unici militanti contemporanei capaci di prospettarsi un destino simile sono quelli del partito armato. Ma ciò contribuisce non poco alla loro immagine ingiallita, passé, ed alla loro sostanziale estraneità rispetto ai movimenti sociali.
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tra i membri dei gruppi e di quelle verso l'esterno. Con sforzi di adeguamento continui per aggiornarsi alle condotte sociali via via prevalenti, che non di rado obbligano a giustificare — acrobaticamente — rapporti, comportamenti, aspirazioni fino a ieri screditati o inammissibili. Cost nel Centro Leoncavallo dove, nell’arco di un’esperienza nemmeno troppo lunga, l'impegno cede il passo al disimpegno. Il primato della politica e della storia soccombe al primato della banalità quotidiana e dei vissuti senza storia (in precedenza ambientazione privilegiata d’ogni ignobile ideologia piccolo-borghese). Entrambe le concezioni sono quindi scavalcate da una terza che, negando le prime due, afferma il valore di rapporti sociali pragmatici, disincantati, disponibili al compromesso, ed anche neo-acquisitivi. Nuova ideologia di legittimazione, ideologia «postmoderna», assai vicina a quel che oggi sta accadendo in buona parte del movimento giovanile (ma anche pi in generale nel sociale). Nelle altre aree, fatte le differenze, si possono osservare mutazioni dello stesso ordine. ì Da una concezione all’altra, se i gruppi finiscono per spendere energie nello sforzo considerevole di creare e distruggere ideologie fugaci, ciò si deve soprattutto all’assillo, duro a morire, di salvare ogni volta il principio supremo di una scelta legittimata o legittima. Il che conduce al terzo livello, che è quello del «senso». Nulla infatti impone con maggior forza ai movimenti la necessità di un’ideologia legittimante della tensione a produrre un senso, a produrlo ad ogni costo, anche se la propria pratica sociale non si imbatte che in un ordine aleatorio di significanti intercambiabili, privi di ancoramento, insensati. Quest’ansia
di legittimazione
è però,
ora,
anch’essa
in
declino. Ormai lontani dalle grandi narrazioni, solo in parte sostenuti da elaborazioni ideologiche più effimere, imovimenti cominciano ad avvertire le possibilità d’azione offerte dal ron senso. Ciò che li induce ad orientarsi, sempre pit, sul terrreno simbolico.
3 Nel movimento delle donne, ad esempio, l’accavallarsi confuso delle istanze — separatismo, autocoscienza, affermazione dell'uguaglianza (tra donne), impegno nelle grandi battaglie politiche, ripiegamento, ricerca di percorsi individuali, affermazione della differenza (sempre tra donne), nuovo interesse per il sociale, ecc. — è stato accompagnato dall’intrecciarsi, non meno confuso, di svariate elaborazioni ideologiche di sostegno. Una discontinuità più marcata si rinviene nel movimento ecologico, in cui i progetti utopico-comunitari di vita in campagna si sono poi capovolti nelle ideologie metropolitane d’una ecologia ritagliata a misura di ognuno, differenziale, «personalizzata»; o nel movimento neo-religioso, dove all’enfasi ideologica sul mito ascetico e pauperistico dell'India ha fatto seguito, in alcuni casi, la riscoperta delle opportunità offerte dal consumismo spiritual-terapeutico occidentale.
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3. Dimensione simbolica e nuove forme di rivolta
Il crollo dei referenti assoluti, e la vita breve delle ideologie malsicure che li rimpiazzano, non consentono pit di battersi contro il potere con le stessi armi di prima. Nessuna lotta rivoluzionaria, storica, dialettica saprebbe pi di quali ideali nutrirsi in attesa di una improbabile vittoria finale, nella quale pochi riescono ancora a credere. Ma non è il caso di affliggersi troppo; poiché là dove l'ideologia della ribellione mantiene le sue radici pi ostinate — in certe frange «irriducibili» della classe operaia o nel terrorismo — si è nel pieno della regressione sociale, in un ordine di eventi ed azioni che ha sempre meno a che fare con i nuovi modi di dominazione, con le nuove poste in gioco. Nei movimenti, la rivolta segue ora altri percorsi. Da tempo, diciamo soprattutto a partire dall’avvento del femminismo
(ma
per certi aspetti anche dal 68), lo scontro con il potere sul piano reale ha iniziato a cedere. il passo ad un confronto assai più violento, decisivo, irrimandabile: quello che si svolge sul piano sirzbolico. Anche in passato, beninteso, in ogni tipo di conflitto questa dimensione è sempre stata presente‘, ma oggi assume un rilievo cruciale. Lo si potrebbe analizzare riferendosi alle trasformazioni del potere nelle società «complesse». Spostamento radicale da una violenza materiale, grezza, esercitata in quelli che si potevano ancora chiamare i «luoghi» del potere — la fabbrica, lo stato, le istituzioni repressive —, ad una violenza più astratta, morbida, esercitata ovunque, in ogni sfera, ogni interstizio della vita collettiva e individuale. Violenza delle tecnologie comunicative, dei media, degli apparati di riproduzione culturale, dei codici dominanti di manipolazione del sociale (informatici, cibernetici). Violenza «bianca», senza spargimento di sangue, violenza simbolica. Ma lo si può vedere ormai anche analizzando le condotte antagonistiche. Stesso spostamento, stessa ridislocazione delle energie conflittuali: dagli scontri nelle piazze, le azioni «di massa», le «grandi lotte popolari» all’autocoscienza femminista, i gruppi giovanili, le mode musicali, le radio, le cooperative ecologiche, i gruppi neo-religiosi. Salto straordinario, in virtii del quale il tempo forte cessa di essere quello della politica, degli spazi tangibili di potere strappati all’avversario, per diventare — ben oltre il ritorno al privato, che di tale processo è stato solo un momento —
4 Per limitarsi ai conflitti politici dell’epoca moderna, vedi gli studi di Edelman [1967], Cobb e Elder [1973], Kowalewsky [1980].
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quello dell’invenzione di muove forme di relazione simbolica, nuove modalità di percezione e produzione del sociale. In tal modo, malgrado le apparenze, lo scontro si radicalizza. Ciò che i movimenti mettono anzitutto in questione, infatti, non è più la legittimità dell’ordine capitalista o la sua capacità di diffondere giustizia, libertà, soddisfazione dei bisogni; la rivolta mira ora alle fondamenta, poiché riguarda non tanto le pretese del potere su quello che detiene o controlla quanto, prima ancora di ciò, la sua pretesa — più estrema e asservitrice — di imporre i codici di relazione col mondo (con il sociale, la natura, il proprio corpo).
L’importanza di questa posta in gioco può difficilmente essere sopravvalutata. Specie se si ammette, con Bourdieu, che le operazioni di nomzinazione contribuiscono in maniera essenziale alla costruzione delle cose sociali: «Trattandosi del mondo sociale, la teoria neokantiana che conferisce al linguaggio e, più in generale, alle rappresentazioni, un’efficacia propriamente simbolica di costruzione della realtà, è perfettamente fondata: strutturando la percezione che gli agenti sociali hanno del mondo sociale, la nominazione contribuisce a fare la struttura di questo mondo e tanto più profondamente quanto più è largamente riconosciuta, cioè autorizzata. Non vi è agente sociale che non aspiri, nella misura dei suoi mezzi, a questo potere di nominare e di fare il mondo nominandolo» [Bourdieu 1982, 99]. Ciò è ancora pit rilevante in una società, come l’attuale, in cui la distanza tra il reale e la sua rappresentazione si è colmata, al punto che l’uno non sussiste più senza l’altra. Società simulacrale, la cui cultura massmediatica ha già integrato questa stessa proposizione: come si può dedurre da quel film sulle grandi reti di informazione in cui Sean Connery, appesa a un chiodo la pistola di James Bond (ferraglia ormai obsoleta), gira il mondo armato di una più micidiale macchina da presa, e nel quale si dà ormai per acquisito che «un evento non ha realmente luogo se non viene ripreso in TV». E su questo livello del potere che i movimenti contemporanei, coscientemente o no, tentano di esprimere la loro autonomia e la loro portata conflittuale. La prima necessità è quella di riappropriarsi della possibilità di nominare, attraverso l’elaborazione di codici, linguaggi, miranti a «riprendere» la realtà, nel duplice senso di costituirla simbolicamente e di riprendersela, sfuggendo alle forme predominanti di nominazione-rappresentazione. Ciò è stato chiaro, fin dall’inizio, nel caso del movimento delle donne. Che, accanto alle battaglie emancipazioniste, ha sempre
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condotto una lotta più fondamentale contro la rappresentazione dell’esistente — della società, del sesso, dei rapporti umani — offerta dal modello maschile dominante, negandone la pretesa di unicità. Rottura del gioco, e delle sue regole, 4/ di qua della politica, 4/ di qua della cultura, che investe i presupposti stessi della concezione, codificazione, costituzione simbolica d’ogni politica e cultura. Rottura delle norme di percezione e produzione del sociale, dalla quale tentano di venire alla luce differenti modi di porsi di fronte alle cose, modi diversi di immaginarle, guaggi, nuove scritture: «Il linguaggio veicola un potere E uno degli strumenti di dominazione [...]. Il linguaggio ria — linguaggio rimosso — esprime soltanto una realtà
nuovi linindubbio. della teosperimen-
tata dagli oppressori. Parla solo per il loro mondo, dal loro punto di vista. Un movimento rivoluzionario, in definitiva, deve spez-
zare la presa del gruppo dominante sulla teoria, deve strutturare le sue proprie connessioni. Il linguaggio è parte del potere politico e ideologico dei normatori [...]. Noi non possiamo prendere pos-
sesso delle parole esistenti. Dobbiamo cambiare i significati delle parole prima di assumerle» [Sheila Rowbotham, citata in Elshtain 1982]. Nella situazione italiana, questi tentativi si sono svi-
luppati in molte direzioni. Ad esempio nelle pubblicazioni della Libreria delle Donne sulla scrittura femminile; o nella più ampia ricerca di forme espressive, a livello della scrittura e dell’immagine fotografica, condotta sulla rivista «Grattacielo» (sottotitolo: Occhi di donna sul mondo) 3. Ma la stessa cosa si ritrova nel Centro Donne Ticinese, la cui carica di antagonismo si esprime spesso
lungo questa dimensione, ogni volta che si richiama la «necessità di scoprire un linguaggio, una cultura, un modo di analisi proprio della realtà [...] specifico delle donne» (Lorenza). In forme diverse, comunque, la contrapposizione dei propri codici ai codici dominanti è presente in tutte le aree. Nel movimento giovanile, da tempo il codice comunicativo principale ha cessato di essere quello privilegiato nella sfera politica — la parola, e soprattutto la parola dotata di senso — per costruirsi come impasto di musica, suoni, idiomi, segnali di riconoscimento. Territorio selvaggio, reticolo di segni «liberato dal bianco», aperto all’invenzione. Universo di segni, irriproducibili per chi non vi appartiene, attraverso il quale il sociale viene destrutturato (deco-
5 Vedi in particolare, della Libreria delle Donne, il Catalogo n. 2. Romanzi. Le madri di tutti noi, Milano, marzo 1982; e, della rivista «Grattacielo», la «prima riunione di appunti» nel n. 3-4, anno I, agosto-settembre 1981.
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dificato) nella sua logica apparente, e ricostruito in una percezione nuova. Cosf anche nel movimento ecologico, specialmente nella sua area sommersa, non ufficiale, in cui l'ecologia non è soltanto oggetto di pensiero o di progettazione sociale ma pratica vissuta (comuni agricole, centri di Ao naturale, gruppi di intervento
sull'ambiente,
ecc.).
Recupero
di gesti, relazioni,
immagini, ridefinizione della natura stessa nei suoi ritmi, spazi, odori, colori, al di là di ciò che la trascrizione nei sistemi di codificazione egemoni nelle società contemporanee ne aveva lasciato. Questa è forse la ragione principale per cui i gruppi del Leoncavallo e di Nuova Ecologia appaiono, nelle rispettive aree, delle entità irrisolte, dei gruppi di mediazione tra un passato politico di cui raccolgono la pesante eredità — per esempio nel primato accordato alla parola e alle percezioni del pensiero intellettuale — ed un presente dei movimenti che riescono solo ad intuire. Prima ancora che nelle concezioni della pratica sociale e politica, infatti, il divario rispetto al nuovo risiede nei differenti codici di costruzione simbolica del reale. Quanto ai gruppi neo-religiosi, specie quelli di ispirazione orientale, il mutamento dei codici è altrettanto sostanziale. Che comporti l’adozione di un frasario, un lessico estranei alla cultura occidentale, in certi casi il cambiamento del proprio nome, è l'aspetto più manifesto ma non il più determinante. Ciò che si tenta di modificare, nelle pratiche meditative, negli atteggiamenti quotidiani, è anzitutto la relazione simbolica col mondo, il quale non è quello che appare, quello che i criteri di codificazione pi diffusi portano a percepire. Di qui l'impossibilità di condividere il linguaggio politico, ed ogni altro linguaggio del «sociale»: svuotamento dei termini, anche di quelli che sembrerebbero pi neutri e avalutativi (realtà, azione, ecc.). Destrutturazione
del «senso»,
che apre la via ad altre modalità di esperienza, al di là del pensiero razionale. Ma ancora non si tratta (almeno non immediatamente) del problema del sacro. È piuttosto un problema che attiene alle forme — ai codici — di conoscenza. Ciò emerge chiaramente nel Ghe-Pel-Ling, ed anche in altri gruppi come quello dei sannyasin di Bhagwan Rajneesh. In entrambi, messe a parte le differenze, si riscontra la stessa tendenza a sovvertire i criteri comuni di codificazione, la rete obbligata di segni attraverso cui il sociale vorrebbe imporre una «realtà» che è soltanto la sua. Se la realtà viene paisacralizzata, ciò consegue a questa preliminare, profonda rideinizione simbolica. In ogni area la sovversione a livello dei codici assume caratteri propri, ma essa ha ovunque un analogo valore di contrapposi-
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zione, di sfida. Di qui muovono tutte le forme di rivolta di tipo nuovo, orientate a combattere il potere sul suo stesso terreno. 4. Sfide simboliche
«La sfida è d’una efficacia micidiale. Tutte le società diverse dalla nostra lo sanno, o lo sapevano. La nostra lo sta riscoprendo. Le vie d’una politica alternativa sono quelle dell’efficacia simbolica» [Baudrillard 1979, 54].
Il rifiuto dei codici dominanti è la prima sfida. E già da questo si può cogliere un aspetto cruciale, che vale per la sfida simbolica ad ogni livello: diversamente che nei rapporti di forza, in cui predomina chi dispone di maggiori risorse, qui il rapporto si gioca sulla differenza. Difatti, è sufficiente che qualcuno riveli che «il re è nudo» perché il potere manifesti l’arbitrio del suo dominio. Ed è sufficiente che pochi si liberino dai codici prevalenti e strutturino il reale attraverso codici diversi perché il monopolio del potere sulla realtà sia incrinato, e tutte le sue risorse (materiali, organiz-
zative) non gli basteranno per impedirlo. Ma vi sono altri livelli in cui la sfida dei movimenti attuali si dispiega più pienamente. Essi sono: 4) la reintegrazione simbolica; b) la non-negoziabilità dell’azione; c) il passaggio dalla dimensione della domanda a quella dell’offerta. Nello scenario neutralizzato dei segni, nel vortice convulso di comunicazioni contraddittorie, eppure tutte ammissibili, non sono venuti meno soltanto i valori e le ideologie ma anche l’integrazione dell’universo simbolico. Recentemente Loredana Sciolla, riprendendo Schutz [1979] e Berger, Berger e Kellner [1973], ha analizzato bene il fenomeno della differenziazione simbolica, in relazione al tema dell’identità. Nelle società moderne, il processo di crescita della complessità sociale si traduce in una disarticolazione dell’universo simbolico, che pone ad ogni attore problemi di definizione del proprio profilo sociale. Con la frantumazione delle identità, e la disgregazione di ogni principio simbolico unitario, individui e gruppi sono proiettati in uno stato angosciante di incertezza. L’emergere di movimenti che tentano di riorganizzare la propria identità è tra le conseguenze di questi processi. Ciò che all’autrice interessa, peraltro, è la possibilità che la complessità sociale esterna stimoli, nei soggetti sociali, risposte attive capaci di tradurla in livelli di maggiore articolazione e differenziazione interna. In ogni caso i movimenti moderni si caratterizzano pet «la pretesa di autodefinire i propri confini», rivendicare quello
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che in passato era un dato ovvio, facendo della diversità un valore [Sciolla 1983]. Si può dissentire sull’idea di valore (la diversità è anzitutto una sfida). Ma che i movimenti contemporanei resistazo alla destrutturazione dell’universo simbolico è quanto risulta anche da questa ricerca. Anzi, la reintegrazione simbolica è precisamente uno dei terreni principali sui quali i movimenti si misurano col otere. o Ciò può essere inteso in un senso ancora più ampio. Nelle società complesse la riduzione a segno d’ogni valore, la fluttuazione indeterminata di tutti i segni e di tutti i referenti, implicano anche il disancoramento di una dimensione profonda: quella dell’irrazionalità e dell’«ombra». Deriva dell’irrazionale, sempre più slegato da una ragione che si nutre di se stessa e dei suoi risultati operazionali. Radicale svuotamento, deprivazione della vita simbolica degli individui cui la crescente patologia collettiva fa da contrappeso necessario, nello smarrimento dellefunzioni simboliche che garantivano l’espressione sociale della distruttività, l'emergere dell’ambivalenza del desiderio e la sua integrazione nel sociale. In un mondo che non è pit in grado di riconoscerla, la dimensione rimossa si manifesta come angoscia (depressività generalizzata), violenza distruttiva (terrorismo) o auto-distrutti-
vità (suicidi, droga). Ma anche come aspirazione inappagata alla follia, alla fantasia, alla creatività. Nei movimenti, la reintegrazione simbolica si configura come tentativo di ricomporre questa frattura. L’adozione di codici alternativi è il primo passo in tale direzione. Se è possibile rifare il mondo sperimentando modi diversi di nominarlo, percepirlo, immaginarlo, torna forse ad essere possibile — lontano dagli imperativi dettati dalla funzionalità operazionale — la ricomposizione delle varie parti di sé. In ogni caso i movimenti la perseguono sotto molti aspetti (sempre al prezzo di una colpevole «improduttività» dal punto di vista del sociale; non a caso, è il significato stesso della sua «produzione» che viene messo in discussione e negato).
Che poi i movimenti ci riescano, che questo tentativo conduca a qualcosa di pit di un'illusione, è un altro discorso. Ma può darsi che non sia neppure molto importante. È difficile dire quale spazio abbia, nelle società attuali, questa aspirazione ad un’integrità perduta, questa insensata nostalgia di totalità. Ma il fatto stesso che qualcuno la ricerchi, che rammenti la possibilità di un incontro con la propria distruttività e la propria follia, rappresenta già una sfida violenta ad un potere che vive della loro rimozione.
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Nei gruppi, questo livello dell’azione assume connotati diversi. All’interno del Collettivo Donne Ticinese prende la forma del recupero «della propria schizofrenia», del riso, di tutto ciò che attinge ad un «femminile» da sempre isolato nelle zone d’ombra del sociale. Il gruppo è il luogo in cui tale recupero è favorito, valorizzato, protetto. Ciò del resto è quanto avviene, in termini molto simili, in gran parte del movimento delle donne. Al di là dell’azione essenzialmente emancipazionista, è l’intero movimento che ha fatto della condizione relegata delle donne l’asse portante delle sue battaglie, ma capovolgendone i termini: se resta fermo che le donne mirano alla conquista di ogni parità finora rifiutata, nell’isolamento femminile rispetto alle istanze esterne (lavoro, produzione, politica) si riscoprono i segni di una tenace resistenza delle donne al sociale che ha tutte le caratteristiche d’una sfida. Resistenza alle ragioni funzionali, resistenza all’investimento strumentale, resistenza al rinvio del soddisfacimento di bisogni immediati (relazionali, affettivi) per il perseguimento di mete astratte future. Tale condizione è quella che analizza Ulrike Prokop [1978], mettendone in evidenza tutti i rischi, le ambiità, ma anche le immense potenzialità, e in ogni caso la proonda valenza simbolica. Che lo scacco nella vita sociale Hail di un’estraneità e di una resistenza è sottolineato anche nel recente documento di «Sottosopra», che pure ha riaperto il dibattito nel movimento sulla frustrazione e l’ambivalenza delle donne rispetto alle loro mediocri prestazioni nei «commerci sociali»£. Nelle altre aree la strategia di recupero è rivolta, analogamente, a «riprendere» parti di esistenza simbolica dissolte dal modello operativo. Recupero della fantasia, della creatività artistica, del gioco, dell’ozio, tra i giovani: in tutte le forme di azione che vanno dal movimento del ’77 alle sperimentazioni teatrali, le ricerche sull’espressione corporea, i gruppi musicali, i concerti, le feste, ecc. Recupero della natura e, pit in generale, della relazione simbolica tra l’uomo e l’ambiente, tra gli ecologi: tanto nei gruppi urbani che lottano per modificare gli stili di vita, quanto in quelli extra-urbani che intervengono a difesa del patrimonio naturale. Recupero della spiritualità, delle funzioni mentali sommerse, del rapporto corpo-mente, tra i neo-religiosi: sia nelle meditazioni dei gruppi di buddismo tibetano o zer che nelle pratiche di gruppo e nelle danze dei sannyasin?. 6 Cfr. Pit donne che uomini, in «Sottosopra», fascicolo speciale, gennaio 1983. 7 In un discorso di Bhagwan Rajneesh la conquista d’una nuova integrità simbolica è indicata come uno degli aspetti centrali del suo insegnamento: «Il vecchio
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Che questi tentativi abbiano in molti casi un esito piuttosto relativo non toglie nulla alla loro carica di provocazione; come si può vedere dai continui test, sondaggi, inchieste con cui i 245smedia si sforzano di tenere sotto controllo una nebulosa AL più distante e irriducibile al senso (politico, sociale, operazionale). Né il nuovo corso che alcuni movimenti hanno imboccato — in particolare quello giovanile e quello femminista —, la nuova attenzione a forme più concrete e organizzate d’azione (quale risulta da questa stessa ricerca), attenua necessariamente la ten-
sione alla reintegrazione dell’universo simbolico. La quale non ha nulla a che vedere con il carattere più o meno spontaneo dell’azione, ma si determina a partire dalle modalità di codificazione, percezione e strutturazione del reale. Si può ipotizzare semmai che alcuni fenomeni, principalmente nel movimento giovanile, rompendo decisamente con tutto ciò, vadano esattamente nella direzione opposta: vale a dire quella di una disintegrazione simbolica ad oltranza, di una negazione radicale d’ogni principio di identità. I gruppi ai margini del movimento, quelli più labili e meno «identificabili», legati a mode musicali fuggenti, le bande, i gruppi riconoscibili solo per instabili segni esteriori, non inseguono alcuna ricomposizione, al contrario portano all’estremo la disarticolazione, il gioco di specchi, esasperano a dismisura l’intercambiabilità dei segni prendendo il sistema in contropiede, sfidandolo a precederli e vincendolo. Anche questa è una modalità di sfida simbolica, e non è detto che non sia la più conseguente. La tendenza dei movimenti a sfidare il potere è indicata anche da uno dei loro connotati essenziali: la non negoziabilità dell’azione. La marcata indifferenza nei confronti del politico non è
concetto dell’uomo si fondava sulla dicotomia questo o quello: materialista o spiritualista, morale o immorale, peccatore o santo. Era fondato sulla divisione, sulla
dissociazione. Ha prodotto una umanità schizofrenica. L'intero passato dell’umanità è stato all’insegna della follia, della malattia, dell’insalubrità [...]. L'uomo nuovo non sarà del tipo questo o quello, bensi sia questo che quello: l’uomo nuovo sarà mondano e divino, di questa terra e dell’altro mondo. L’uomo nuovo accetterà la sua totalità e la vivrà senza alcuna divisione interiore, non sarà dissociato. Il suo Dio non sarà in opposizione al demonio, la sua moralità non si opporrà all’immoralità; egli non conoscerà alcuna opposizione. Egli trascenderà il dualismo, non sarà schizofrenico. Con l’uomo nuovo sorgerà un mondo nuovo, perché l’uomo nuovo avrà una percezione qualitativamente diversa e vivrà una vita totalmente diversa che ancora non è stata mai vissuta [...]. È questo che insegno» (discorso del 1 gennaio 1979, Poona).
8 E l’ipotesi di Baudrillard [1979] su «l’insurrezione mediante i segni».
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rivelatrice di una incapacità di formulare domande che passino attraverso i filtri del sistema, quanto di uno spostamento del terreno di confronto. Non si tratta più di lottare nell’intento di definire i termini di uno scambio accettabile per entrambe le parti (come in ogni operazione, strategia politica). Le finalità, ma anche i caratteri dell’azione cessano di essere oggetti di negoziato, si definiscono da sé. Divengono refrattari al politico, che eludono sfuggendo alle sue regole. Autonomizzazione dalle norme portata al punto che non merita nemmeno contestarle. Esse sono semplicemente ignorate e l’azione si svolge altrove: non sul piano dell’effi-
cacia reale, ma su quello dell’efficacia simbolica. La radicalità della sfida è proporzionale a questa presa di distanza. Ed il suo carattere simbolico è dovuto proprio a ciò che si sottrae al negoziato. Non perché i movimenti respingano qualunque compromesso con il potere — anzi, le loro inclinazioni recenti vanno in direzione di un pragmatismo spregiudicato nei rapporti con ogni istituzione politica o sociale — ma nel senso che designa propriamente il simbolico come ciò che non può essere interamente definito, determinato, circoscritto. I movimenti attuali non negoziano i loro fini perché questi non sono obiettivi concreti, storici, ma forme di relazione simbolica — la donnità, la creatività, la natura, la spiritualità —, come tali non riducibili né al politico, né al sociale, né a nessun’altra delimitazione funzionale. Certo, l’azione dei gruppi non si mantiene sempre a questo
livello. La tentazione di lasciarsi ricadere nella vecchia logica politica — ad esempio assumendo la «natura» come un valore o un’ideologia — non è svanita; mentre emerge quella di farsi risucchiare dalla logica attuale del sistema, ad esempio con la riduzione della SSR ad un segno tra i segni, scambiabile con qualsiasi prodotto culturale sofisticato della società quaternaria. Dalla parte del potere, d’altronde, non c’è nulla che resti inten-
tato pur di ricondurre le sfide lanciate dai movimenti sul piano simbolico (sfide assolute, folli, prive di senso della misura) al livello
realistico del negoziato politico. Infatti, una volta che l’azione dei movimenti può essere circoscritta ad un insieme di problemi, questioni, rivendicazioni trattabili sul piano politico (anche solo teoricamente), tutto rientra in un orizzonte che il sistema può assai più
facilmente controllare. I movimenti perdono la loro violenza simbolica e devono trattare con il potere su un piano in cui lo squilibrio delle risorse reali li svantaggia strutturalmente. Purché i nuovi movimenti rinuncino alla non negoziabilità,
dunque, la disponibilità è massima. Le istituzioni sono pronte ad accogliere le istanze delle donne, dei giovani, degli ecologi, dei
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neo-religiosi d’ogni colore. Un esempio milanese: l’apertura degli spazi del Centro Sociale Abbiategrasso, con il passaggio di alcuni «militanti» del movimento giovanile al ruolo di «operatori». Nuove figure sociali, rispetto alla precedente chiusura istituzionale quasi rivoluzionarie, ma non a caso in crisi sul loro ruolo dall'istante in cui l’adeguamento ai canoni operazionali dell’istituzione ha imposto di privilegiare il livello della mediazione. Se i movimenti riescono a sfuggire alle trappole tese dai negoziatori pronti a tutto, è anche perché la loro azione ha cessato di essere eminentemente rivendicativa. In ogni relazione, c’è un modo ultimativo per affossare le manovre di chi, avendo il potere in mano, se ne serve in modo da controllare mercanteggiando tutti quelli che lottano per averne una fetta: non chiedere pi nulla. I movimenti non arrivano a tanto, ma certamente chiedono
assai meno di prima. Non solo, ma per molti aspetti. le loro condotte sono volte prima di tutto ad offrire. Altra rottura delle regole del’ gioco, altra sfida, il cui impatto può essere avvertito facilmente se si fa caso a tutte le grida di allarme, i servizi giornalistici, le ricerche attraverso cui si cerca di rendere conto di questo fenomeno inesplicabile: che delle nuove generazioni won si sa nemmeno più cosa vogliano. E questo è solo l’inizio poiché ciò che in realtà accade, e che risulta incomprensibile nella logica politica, va oltre, giustificandosi perfettamente nella logica simbolica. Infatti, vi è qui una questione cruciale: sul piano simbolico il dominio si afferma quando viene preclusa la possibilità della reversione del dono nel contro-dono [Mauss
1965, Baudrillard
1979]. Il potere unilaterale di donare, di generare ed offrire modelli e forme rappresentative — estensione del principio di nominazione — è ciò che riproduce continuamente il predominio degli apparati sugli individui e l’inerzia, l’apatia delle masse. A tale asimmetria, ed al rapporto di dominazione che essa fonda, i movimenti tentano di sottrarsi nella logica dell’obbligazione simbolica: vale a dire, rispondendo ai modelli imposti dagli apparati con l'offerta di modelli alternativi cui il sistema a sua volta now possa replicare (non negoziabili). Ciò fa sf che i movimenti tendano a perdere le loro connotazioni rivendicative per sviluppare ogni loro potenzialità di invenzione del presente [Melucci 1982]. L’azione, in precedenza orientata soprattutto verso la mobilitazione attorno a domande su cui verificare l'apertura del sistema socio-politico, si volge ora alla produzione autonoma e gratuita (non finalizzata al calcolo costi/benefici bensi allo spreco, al dispendio in pura perdita) di modelli e forme di relazione. L’essenziale è ribattere colpo su colpo alla profusione di doni — i doni
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dei media, delle istanze di sollecitudine, dello stato assistenziale,
ed anche (non ultimo) il dono del grande spettacolo del politico —, con cui il sistema sommerge, pervade sempre più ogni ambito di esistenza individuale e sociale. In questo rapporto, certamente, i movimenti sono anche pi
che minoritari; e la loro azione non raggiungerà mai neppure lontanamente /’amzpiezza delle forze che contrastano. Ma qui torna la considerazione che il livello simbolico non è quello in cui valgono i rapporti di forza. Lo si può capire ponendo mente all’efficacia ed al valore simbolico da sempre attribuito all’«esempio» (l’esempio di uno contro mille, del saggio, dell’eremita o dell’eroe in ogni contesto e in ogni mito). Ciò che conta è soprattutto la differenza.
E sulla differenza, precisamente, si gioca gran parte dell’azione, o della «produzione» dei movimenti attuali. Sarebbe fuorviante; peraltro, ritenere che nei movimenti nominare, produrre, offrire significhi senz'altro diffondere messaggi. Nei gruppi l’idea di usare il canale televisivo per proporre/ imporre messaggi, benché alternativi, è discussa per quello che è: un’idea che, come tale, appartiene ad un’altra epoca, ad una visione superata dell’azione
(«meglio fare Portobello»).
Non a
caso; giacché inviare dei messaggi presupporrebbe dei valori su cui fondarli. E difatti, ogni volta che questa tentazione riemerge, vi è un tuffo all’indietro verso concezioni e accenti di tipo ideologico. Che poi ogni gruppo si riconosca in un messaggio (o rz4ggior-
mente nel proprio messaggio che in quello di qualcun'altro) è anche vero, ma non è la cosa pit rilevante. Anzitutto perché i messaggi tendono a variare. E in secondo luogo perché l’offerta dei movimenti, ancora, non ha il carattere d’una nuova verità, di contenuti nuovi da affermare, ma piuttosto quello d’una sfida, la quale può essere lanciata anche sul terreno del ripiegamento, del silenzio o del vuoto. Tutto questo nei gruppi può essere colto in relazione a numerosi aspetti. Alla base di gran parte dell’«agire» delle donne del Ticinese sta il tentativo di «scoprire una cultura specifica», «trovare strumenti di analisi diversi», costruire, produrre, inventare forme diverse di relazione simbolica (di cui il riso non è che un segno). Nulla di tutto ciò ha la natura di una rivendi-
cazione, difficilmente vi si può riconoscere un messaggio, ma ovunque è avvertibile la dimensione dell’offerta e quella sottostante della sfida. Lo stesso si può dire della funzione di «menti pensanti... che elaborano nuove vie», di «elementi propositivi culturalmente», sul piano dell’informazione o dei modelli di vita, che gli ecologi indicano come loro compito principale. Tanto pi que-
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sto vale nel Ghe-Pel-Ling, dove il vuoto (inteso come «fare largo a varie cose... senza appunto dover agire») e l’arresto («fermati e pensa... e allora puoi rapportarti all’esterno senza subire») preludono ad un modo profondamente diverso di percepire e rappresentare se stessi, gli altri, la società, e offrono forme di relazione che sfidano qualunque modello precostituito, qualunque rappresentazione imposta?. Poche cose del resto inquietano di pit il potere, e i suoi 23 rati di controllo, di questo rifiuto al «dialogo», rifiuto a chiedere, rifiuto a dichiarare chiaro e tondo cosa c’è che non va: per ogni rivendicazione formulata, si può vedere, il sistema si farà in quat-
tro per soddisfarla. I problemi sorgono quando di richieste non ve ne sono, ed anzi i movimenti presentano un’offerta senza costi — un dono — di modelli alternativi, di cui il sistema non può farsi carico perché incoerenti con tutte le sue regole di funzionamento. Quale sollievo, quindi, allorché un movimento decide che le proprie finalità sono prima di tutto obiettivi realistici, concreti. E quanto è successo nel maggio 1983 in Francia. In apparenza, l’inversione storica rispetto al maggio di quidici anni prima concerne l'identità dei soggetti: gli studenti contestatori non sono pi «di sinistra» ma «di destra», il governo non è più quello autoritario gaullista ma quello della gauche mitterandiana. In realtà il mutamento profondo è sul piano dell'immaginario (o dell’immaginazione): che nel 1968 gli slogan studenteschi volevano al potere, e per quella grande messinscena ludica le richieste di riforma universitaria non furono che un pretesto; mentre oggi tutto viene ricondotto al livello effettuale della trattativa, del negoziato, dei vantaggi tangibili. Movimento arcaico, presessantottesco, che il nuovo potere di sinistra avrà certamente modo di soddisfare. Di rivendicazioni ragionevoli, infatti, ogni potere potrà sempre almeno «discutere». Sono quelle irragionevoli, o l’assenza di ogni rivendicazione che non si sanno controllare. Non sorprende in ogni caso che, al di là dello scandalo dei giovani in rivolta contro lo stato delle sinistre, questo movimento «realista» abbia avuto
? Nel caso del Ghe-Pel-Ling questa discontinuità rispetto ai modi comuni di percezione e riproduzione del reale ha a che fare con elementi assolutamente tradizionali dell’insegnamento buddista, cui l’esperienza del gruppo non aggiunge nulla di nuovo. Ciò che ha carattere di novità è però il fatto che temi classici del buddismo tibetano — e più in generale, nel resto del movimento, delle tradizioni religiose e filosofiche orientali — siano assunti, vissuti, riproposti in un contesto contemporaneo e in un’area sociale che resta contraddistinta dalla volontà di opporsi alle rappresentazioni del mondo dettate dal codice operativo dominante.
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una forza d’urto di tanto inferiore al movimento «immaginativo» che l’ha preceduto. Non si deve pensare tuttavia che nella situazione italiana, e tra i gruppi studiati in questa ricerca, la dimensione rivendicativa si sia eclissata. Al contrario, essa attraversa tutte le aree. In alcune situazioni, anzi, è forse predominante. Come nel gruppo di Ecologia 15 o, più in generale, nell’area dell’ecologia politica che si è radunata nei convegni del marzo 1983 a Milano e dell’aprile 1983 a Roma, sul tema cruciale della nascita di un partito dei «Verdi» in Italia 10, Niente di strano. Soprattutto oggi i movimenti sociali sono entità magmatiche, fluide, sospese tra realtà passate e destini incerti. Quello che è sicuro è che il piano della logica rivendicativa non è quello su cui i movimenti si confrontano a livello simbolico con il sistema: giacché nessuna sfida simbolica è possibile fintanto che l’accento dell’azione cade su domande rivolte al potere. Questo però non significa che ogni rivendicazione o approccio al mercato (economico o politico) rappresenti una rinuncia all’azione simbolica. Nei movimenti attuali, difatti, i rapporti con le istituzioni, deideologizzati, si connotano per un pragmatismo strumentale, volto ad aprire spazi materiali per l’azione senza tut tavia che essa si esaurisca a questo livello. In molte situazioni, la contrattazione di spazi materiali non mira ad altro che a basi minime di organizzazione, all’interno di processi in cui, comunque, si consuma l'abbandono della logica «dialettica» del politico per la logica simbolica della sfida. Il movimento giovanile in molte sue nuove aggregazioni, il movimento punk milanese in modo particolare, danno di ciò le prove più chiare. La perdita dei referenti, la deriva dei valori, ed il passaggio dalle regole sperimentate del politico alla violenza nuda e senza
10 Anche in queste occasioni, peraltro, non ha mancato di emergere la corrente opposta. Vedi l’intervento al convegno di Milano di Michele Boato, direttore della rivista «Smog e dintorni» (Venezia), secondo il quale nell'arcipelago verde italiano «in particolare ci sono atteggiamenti molto diversi nei rapporti con la “politica”, con gli organi di gestione dello stato e degli enti locali, con i partiti e le assemblee elettive. Da una parte una impostazione “contrattualistica”, tendente a confrontarsi in primo luogo con i partiti e i detentori del potere per convincerli delle buone ragioni dell’ecologia, e per chiedere a loro di intervenire, dall’altra una tendenza “qutogestionaria” che — anche sulla base di ripetute esperienze frustranti — pensa sempre meno a rivendicare qualcosa dalla controparte, e si impegna invece nel realizzare direttamente il proprio programma [...). E questa seconda tendenza la più fertile di iniziative, la pit incisiva nella trasformazione della società e nella diffusione di una cultura ecologica» [corsivi dell’ Autore] [foglio ciclostilato].
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appello della sfida, si accompagnano peraltro nei movimenti al recupero di un altro livello d'azione, che opera sia come fattore di sostegno delle esperienze simboliche dei gruppi che come elemento di ulteriore differenziazione rispetto all’esterno: la ritualità. 5.I
rituali
L’attenzione per la ritualità viene particolarmente sviluppata là dove è ritenuta più certa l’efficacia dell’azione simbolica [Douglas 1979]. Le formazioni sociali moderne, in apparenza, tendono er molti aspetti a deritualizzarsi. Gli apparati di potere, e tutto il Lo. «discorso» di razionalità, operatività, concretezza, dichiarano
un antiritualismo senza remore, segno dei tempi e delle vittorie del pensiero positivo contro la superstizione. Questo discorso è però ingannevole. Allo stesso modo in cui ogni regime repressivo nega la materialità della propria repressione, cosî il potere attuale nega il carattere simbolico della sua violenza, ed il ritualismo massificato che lo sostiene. Ma quanto questo incida, quanto la vita sociale e la stessa vita politica siano permeate d’un ritualismo di massa orchestrato, riprodotto allucinatoriamente, ridotto ad un insieme di abitudini compulsive, tutto ciò è ormai molto difficile da nascondere. Vi sono dunque buone ragioni perché i movimenti sociali, lottando per riappropriarsi dei codici di elaborazione della realtà, sfidando l’imperialismo dei segni sul terreno della funzione simbolica, riscoprano l’importanza di un conflitto a livello della ritualità: ovvero la necessità di riorganizzare il campo dell’azione simbolica attraverso forme rituali alternative, per affermare la propria estraneità alle logiche dominanti del sociale. Analogamente alle ideologie — di cui prendono il posto come garanti della coesione e regolatori dei requisiti di appartenenza al gruppo — le nuove forme di ritualità nei movimenti sono però sradicate da qualunque tradizione, e si differenziano anch'esse dalle forme che le hanno precedute per una intrinseca variabilità. Lo si può vedere in particolare nelle «mode» giovanili, la cui caratterizzazione rituale è tanto marcata quanto inafferrabile. Nel momento in cui i sociologi arrivano a studiare una nuova moda, o il sistema perviene ad integrarla facendola diventare Moda (vedi le indossatrici punk di Yves Saint Laurent, passate anche sulle copertine delle riviste femminili italiane), il fenomeno è già in declino o sul punto di dissolversi, i rituali sono già altri. Non più
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lotta continua, ma invenzione continua. Rilancio permanente della sfida simbolica attraverso un’ideazione sfrenata, che elabora modelli rituali fortemente discriminanti soprattutto allo scopo di lasciarli cadere come involucri vuoti non appena il sistema tenta di appropriarsene. Una minore, ma simile variabilità delle forme rituali si ritrova‘ nel movimento delle donne, ed anche nelle aree ecologia e nuova coscienza, specialmente nelle loro parti «sommerse» (mode alimentari, pratiche attinenti al corpo, ecc.) !!. Che questo avvenga, che i movimenti consumino i loro rituali a velocità accelerata fa si che questi siano privati di uno dei tratti da cui il rito è abitualmente caratterizzato, vale a dire la continuità [Cazeneuve 1974]. Ma altri fattori caratterizzanti ven-
gono in compenso accentuati: la dimensione irrazionale (magica) e la valenza distintiva.
La variabilità dei rituali nei movimenti contemporanei non impedisce infatti che essi assolvano alla loro funzione di fondare e garantire il processo di identificazione. I modi in cui ciò si verifica possono essere analizzati riferendosi alla classica nozione di riti di passaggio [Van Gennep 1909] ed alle osservazioni di Turner sulle analogie tra gli aspetti essenziali di tali riti — in particolare nella fase detta di lizzinalità — e quelli che hanno contraddistinto il movimento bippy o la rock-generation. I momenti in cui si articolano i riti di passaggio nelle società primitive (separazione, liminalità, riaggregazione) implicano la morte simbolica degli iniziati nella loro posizione o stato prerituale; il passaggio entro un campo simbolico che si colloca al di là dello spazio e del tempo della struttura sociale, caratterizzato da uno statuto di uguaglianza (corzzzunitas) e dall’intensificazione delle esperienze di incontro con spiriti e forze occulte; la riaggregazione sociale in una condizione di stato differente [Turner 1975, 1976]. Non è difficile mostrare che nei movimenti sociali, come nei
nostri gruppi, le esperienze rituali che danno luogo ai processi di reintegrazione simbolica tendono a configurarsi con caratteri molto simili. La fase di separazione prende la forma, tra i giovani,
11 La cosa si pone un po’ diversamente per i gruppi neo-religiosi, ed in particolare per quelli di ispirazione buddista che si rifanno a rituali invarianti molto antichi. Ma in questo caso la variabilità è data dalle vicende individuali dei militanti, che non di rado arrivano ad esperienze di tipo religioso dopo aver vissuto esperienze (e rituali) di tipo politico, o d’altra natura; oppure entrano in contatto con l'universo buddista solo transitoriamente, per poi collocarsi in altri spazi del movimento. Sulla disinvoltura spesso eccessiva di molti occidentali nell’approccio ai riti delle tradizioni orientali, vedi Cox [1974, 1978].
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di un distacco dai modelli simbolici del mondo «adulto», dalle forme di relazione normalmente condivise, dai segni esteriori di
riconoscimento che designano l’appartenenza al sistema sociale e l’accettazione implicita delle sue norme. Tra le donne questa fase si traduce nel rifiuto dei ruoli tradizionali nella famiglia, nella coppia, nel sociale (nel Collettivo Donne Ticinese ciò si delinea a partire dalla scelta, densa di significati simbolici, di «mettersi in discussione»). Gli ecologi, a loro volta, si separano dalle norme
sociali prevalenti con varie modalità di presa di distanza, tra cui ad esempio il rifiuto d’una alimentazione non «naturale» o vegetariana. Tra i neo-religiosi la fase di separazione è ancora più accentuata, potendo implicare forme di conversione, il cambiamento del proprio nome, in certi casi una morte simbolica vera e propria («distruzione dell’ego») !?. La condizione di liminalità è invece quella che nei vari gruppi
consente di realizzare, in uno stato protetto dalla ritualità, l’incontro con «la mostruosità che è in noi», la distruttività, «la pro-
pria schizofrenia», «lo spezzettamento», allo stesso modo che con la fantasia, l'immaginazione o il riso. Tale fase costituisce il momento culminante e ritualmente più ricco dell’«agire» dei gruppi, segnando nello stesso tempo la massima distanza dalle regole e dalle procedure del sistema sociale esterno. Colpiscono le analogie con la condizione liminale nei riti di passaggio primitivi. La quale spesso contiene «ciò che Eliade chiama “un tempo di meraviglie”. Figure mascherate che rappresentano dei, antenati o poteri ctonici possono apparire ai novizi o neofiti in forme grottesche, mostruose o piacevoli» [Turner 1975]. Forti simboli visivi, tattili, auditivi evocano i grandi assiomi culturali, le nozioni cosmologiche, i misteri attraverso cui si definisce la «conoscenza profonda» di una comunità. Ma oltre a ciò: a) Quello che viene riprodotto e trasmesso nella liminalità dei riti primitivi non sono insegnamenti espliciti, contenuti verbali, ma soprattutto codici sensoriali e forme di relazione simbolica. La stessa cosa, si è visto, sta al centro dell’azione dei gruppi contemporanei. b) La condizione liminale tra i primitivi è vissuta «in un luogo che non è un luogo, e un tempo che non è un tempo», e viene con12 Distruggere l’ego è uno degli intenti dichiarati dei sanzyasiz, che si dedicano a ciò con un impegno fin troppo convinto. Ma è anche, sebbene in forme assai diverse e più consapevoli, una fase del percorso spirituale buddista, con la quale si misurano ad esempio i membri del Ghe-Pel-Ling.
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trapposta antiteticamente alla vita sociale ordinaria, della quale nega e abolisce ogni strutturazione. Caratteri estremamente simili sono presenti nei movimenti odierni, che quasi sempre ricostituiscono simbolicamente il reale a partire da una ridefinizione del tempo e dello spazio, e comunque rifiutano le categorizzazioni implicite nelle strutture sociali esistenti. c) Nei riti primitivi la negazione dei sistemi strutturati lascia spazio alla liberazione da un lato dell’inte/letto, nelle forme del mito e della speculazione protofilosofica; dall’altro dell'energia corporea, nei molti gesti e travestimenti riferiti simbolicamente agli animali o alla vegetazione. Nei movimenti contemporanei vi è un’analoga tensione al recupero di attività mentali represse (ad esempio nei molti tentativi di esplorare gli «stati alterati di coscienza») e delle energie del corpo che nel sociale sono snaturate o soffocate (a livello della sessualità, della sensorialità, dell’equilibrio psicofisico, della relazione tra il corpo e l’ambiente). La terza fase, quella di riaggregazione, punto di arrivo del processo di reintegrazione simbolica (nei gruppi, «ricomposizione di sé», «integrazione nella natura», «illuminazione», ecc.), ricolloca i soggetti nel contesto sociale ma in uno statuto diverso, che presenta i caratteri dell’iniziazione. Ciò va inteso in due sensi. Nel mondo primitivo l’iniziazione è una condizione di rinascita simbolica: dopo la morte rituale, dopo il passaggio liminale, l'individuo inizia una nuova vita come essere diverso, in una posizione profondamente mutata rispetto a chi attende ancora di «morire». Ma l’iniziazione che i riti di passaggio consentono è altresi uno statuto che differenzia radicalmente dall’universo sociale esterno. L'effetto essenziale del rituale, anzi, può essere quello «di separare coloro che l’hanno subìto non da sa che non l’hanno ancora subìto, ma da coloro che non lo subiranno in alcun modo e di istituire cosi una differenza durevole tra quelli che il rito concerne e quelli che esso non concerne» [Bourdieu 1982].
Nei gruppi attuali questo significa che la funzione della ritualità, oltreché riguardare il livello dell’esperienza (l’incontro con l’irrazionale, o l’attraversamento di «un tempo di meraviglie»), è una funzione propriamente distintiva, che qualifica l’azione di un gruppo autonomizzandolo rispetto agli altri attori sociali. L’ingresso nel rituale, anche senza che sia raggiunto il punto di arrivo della ricomposizione simbolica, è in sé discriminante, separa e distingue con una linea magica chi aderisce ai gruppi anche se la condizione di «giovane alternativo», «donna liberata», «uomo ecologico» o «essere illuminato» è tutt'altro che una meta acquisita.
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A differenza che nei riti di passaggio primitivi, peraltro, nei movimenti sociali il processo separazione-trasformazione-rinascita non è attraversato una volta sola (la società non conferisce a questo
un significato di consacrazione definitiva, valida una volta per tutte), ma tende piuttosto ad essere ripercorso in modo ricorrente, o variando i rituali. Oppure si determina un prolungamento ad oltranza della fase di liminalità, analogo a quello che Turner aveva constatato per il movimento hippy. Ma una tale modalità di sfida — la scelta di una condizione permanente di marginalità, refrattaria ad ogni strutturazione, rivolta all’esplosione immaginativa — appartiene per lo più al passato. Oggi l’instabilità e la variabilità dei rituali consentono di contrapporsi meglio alla circolazione incessante, vorticosa dei segni, ed alle sue capacità di recupero di tutto ciò che si fissa in un modello «alternativo» (provare ad immaginare quale impatto di provocazione avrebbe un gruppo di femministe in zoccoli e gonne a fiori oggi, dopo il consumo smodato fattone da riviste e 77ass-media. Nullo, Ciò che giustifica pienamente il disagio che le stesse femministe provano per quelle tra di loro che insistono a riproporre un rituale ormai cosî palesemente svuotato, invecchiato, out of date). Se un rituale si cristallizza in una forma data, il rischio è anche quello che si trasformi in comportamento stereotipato: distante dai comportamenti più diffusi non più per scelta, né per sfida, ma per assuefazione, stanchezza, adattamento alla ghettizzazione. Ciò è quanto accade, ad esempio, nel gruppo del Leoncavallo, dove il mantenimento protratto dei riti dell’emarginazione — improvvisazione adogni costo, rifiuto d’ogni regola, ricerca del piacere immediato — diviene un limite vincolante, un cerchio stregato dal quale il gruppo non riesce ad uscire se non attraverso la propria dissoluzione. Questo rischio è però insito nella natura stessa della ritualità e della sua contraddizione interna. La quale consiste nel fatto che ogni rituale dalla propria continuità trae nello stesso tempo forza (consolidamento) e debolezza (svuotamento a prassi formale, stereotipata). Ogni gruppo corre il rischio a modo suo, e vive a modo suo la contraddizione. L’instabilità dei rituali nei movimenti, oltreché come un adeguamento alla logica aleatoria del sociale, va vista come un espediente per far fronte a questi nodi. 6. Tamburi metropolitani
Il rilievo assunto dalla ritualità nei movimenti consente di capire meglio la caduta d'importanza di ogni loro «messaggio». Finché il
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potere si regge su una pretesa verità, i messaggi che la sconfessano hanno delle potenzialità di rivolta. Ma quando, come attualmente, il potere funziona ad un altro livello — perché non ha più verità da difendere — nessun messaggio è pit in grado di metterlo in discussione. Nella circolazione indiscriminata dei segni, i messaggi sono tutti compatibili, anzi, quanto più sono «critici» tanto più circolano velocemente e contribuiscono ad alimentare l’energiacomplessiva del sistema. Di qui il trasferimento delle potenziaità di conflitto, che dai messaggi, i contenuti, passano alleforme, alle modalità di relazione simbolica, ai rituali; 0, se si vuole, ai
media.
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Anche nei movimenti, difatti, si potrebbe dire con McLuhan che «il medium è il messaggio». Che il mezzo di comunicazione non è il supporto del contenuto che viene comunicato, ma al contrario, è il contenuto a servire da supporto al mezzo. Ed è qui, a livello dei codici, delle forme, dei rituali, dei yzedia che i movi-
menti prendono soprattutto distanza dalle norme dominanti del sociale. Il caso in cui forse ciò risulta più evidente è quello del movimento delle donne. Nel quale poche cose hanno rappresentato una sfida violenta al potere come le forme che esso si è dato, forme arcane, pressoché non visibili, irriducibili ad ogni forma nota nella pur grande casistica operativa del sistema. Per anni, ad esempio, le pratiche di autocoscienza sono state avvolte in un enigma inquietante, che dall’esterno gli «operatori» non riuscivano neppur lontanamente a decifrare. Quel che più conta, ressuna istituzione è mai riuscita ad integrarle. Diversamente che per i messaggi, infatti, su questo piano il recupero del sistema è impossibile. L’autocoscienza è esistita nel movimento e solo in esso, il
contatto con le istituzioni l’ha sempre dissolta. Anche recentemente, il recupero istituzionale del passato del movimento tentato nella mostra organizzata dal Comune di Milano sul tema «Esistere come donna» (primavera 1983) ha rivelato, nel manifesto che la propaganda, questa difficoltà insormontabile: il manifesto riporta l’immagine di una giovane donna che parla al megafono. Immagine politica, per una femminista politica, che parla il linguaggio che ifsistema può capire (vale a dire i/ suo, quello delle rivendicazioni, del confronto dialettico, ecc.). Di come le donne abbiano cercato di esistere in tutti questi anni, tentando di sfuggire alle
norme prevalenti di codificazione e strutturazione simbolica del reale — per esempio nei gruppi chiusi di autocoscienza, gruppi implosivi, che all’esterno non avevano niente da dire —, di questa che per molto tempo è stata la forza più caratterizzante e più pro-
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fonda del movimento, il manifesto non coglie invece nessuna traccia. Ma se il medium che l’autocoscienza ha rappresentato è oggi superato, le forme nuove che il movimento femminista ha assunto non sono meno elusive, reticenti ad ogni definizione: come si può dedurre dal fatto che, in questa ricerca, nessun gruppo come il Collettivo Donne Ticinese abbia sfuggito gli sforzi dei ricercatori volti a definire le modalità concrete della sua «azione». Peraltro, l’utilizzo strategico dei mzedia può essere constatato in tutte le aree. In quella giovanile, la sostituzione massiccia del medium musicale a quello offerto dalla parola, il gioco sempre pi assurdo e complesso sui segni del corpo, dell’abbigliamento sono gli aspetti più evidenti di questa estraniazione dal sociale, che angoscia tanto le menti razionali dell’ordine costituito quanto quelle sinceramente riformatrici o progressiste. Effetto puramente mediatico, al di là di qualunque contenuto: i messaggi, se anche sussistono, funzionano essenzialmente da supporto al mezzo, come del resto accade nel sociale ad ogni livello. Solo che questi media il sistema non li aveva previsti. Soprattutto, gli è difficile integrarli, perché nascono fuori dal suo controllo ed implicano una partecipazione in profondità irriproducibile nell’ordine degli apparati. L’esempio più chiaro è quello delle radio libere. Già della radio come medium in generale, McLuhan aveva rilevato le capacità di coinvolgimento intimo, le sue profondità subliminali «cariche degli echi risonanti di corni tribali e di antichi tamburi». La radio ritribalizza l’uomo dell’era elettrica. In relazione alla sua diffusione, in Occidente i gruppi giovanili hanno iniziato a manifestare caratteristiche tribali fin dagli anni Cinquanta [McLuhan 1967]. Ma le risonanze e le capacità di coinvolgimento delle radio libere vanno ben oltre. In Italia, le radio hanno svolto e svolgono fino in fondo un ruolo di tam-tam metropolitani, colle-
gando i gruppi, le bande, orientando le trib giovanili sui loro territori, ia
verso locali, rappresentazioni, raduni, con-
certi, creando una rete di sentieri invisibili che si sovrappone a quella ufficiale, «reale» della città. Ciò è risaputo; ma quel che si deve cogliere è che l’aspetto cruciale del fenomeno, la sua caratterizzazione antagonista e la sua imprendibilità da parte del sistema non stanno nei «discorsi» che le radio fanno, bensî nel medium: che in questo caso nor è la radio in quanto tale ma la radio «libera», vale a dire strutturata in una rete di relazioni, presenze, forme di partecipazione e di scambio che non è assolutamente pensabile, con modalità analoghe, per nessuna emittente istituzionalizzata
(ogni maldestro tentativo di imitazione dei dialoghi propri delle
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radio appartenenti all’universo giovanile, difatti, non ne ha riprodotto che la forma caricaturale).
La stessa connotazione di medium alternativo che si può individuare nei tamburi rituali delle radio libere, appartiene anche alle altre forme di ritualità dei movimenti. I modi di incontro delle donne, il rock, le pratiche di alimentazione naturale, le danze o le meditazioni di ispirazione orientale, sono tutti media in varia misura sovversivi: nel senso che sovvertono i modi abituali di contatto con il mondo, e ne rendono possibile la riscostituzione simbolica. Attraverso di essi, la percezione del mondo (percezione
mentale,
sensoriale,
emozionale)
tende a modificarsi,
sfugge alla codificazione percettiva imposta ovunque dai media di massa. Qui sta forse l'aspetto fondamentale del recupero della dimensione tribale. Nei movimenti sociali, i gruppi (essi stessi dei media) assolvono alla funzione di consentire agli individui di ridefinire le relazioni simboliche tra di loro, rispetto alla società, rispetto alla natura, ricreando reti di rapporti che si contrappongono radicalmente alla «massa» ed alla sua atomizzazione. Nel mondo primitivo, l’ordine simbolico e ciò che assegna all’uomo il suo posto nel cosmo, e quindi anche nella società dei suoi simili,
definendo una rete di relazioni ricca di echi profondi. Nelle società contemporanee, le masse (o l’«opinione pubblica») non conservano di questa profondità che una nostalgia rimossa. Gli sforzi dei movimenti per resuscitarla, per riconquistare una integrazione simbolica perduta, rappresentano probabilmente il cuore della loro azione (che in questi tentativi —
dall’esito ancora
quanto mai incerto — i gruppi tendano ad assumere caratteri di nuova tribalità, la dice lunga sul contenuto «evolutivo» delle istituzioni moderne e dei loro modelli operazionali). 7. Insidie
Quanto detto fin qui non esclude in alcun modo che l’azione dei movimenti possa risolversi in uno scacco. Le insidie cui essi vanno incontro sono infatti di vario ordine: a) Il livello d’azione costituito dalla sfida simbolica non è il solo presente nei movimenti. Spesso chi vi aderisce, al di là degli ultimi residui di «impegno politico», è piuttosto alla ricerca d’una soluzione a bisogni esistenziali — bisogni di amicizia, relazione, impiego del tempo libero, acculturazione, o anche bisogni di dipendenza e d’autorità — che i movimenti possono soddisfare
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alla stessa stregua di altre istituzioni del sociale. Da questo punto di vista, difatti, stabilire le differenze tra un buon inserimento in un «gruppo» ed un buon inserimento socio-professionale non è tanto facile: in molti casi l'alternativa tra le due opportunità è largamente teorica (si fa parte di un movimento fio 4 che non si trova
un lavoro, ci si sposa, ecc.). Non soltanto, ma tra queste capacità di risposta dei movimenti a bisogni sociali diffusi e gli obiettivi di funzionalità sociale che ispirano le strutture istituzionali di servizi, vi è un’indubbia convergenza, di cui il ruolo burocratico degli «operatori» adibiti alla gioventii, ai problemi dell’emarginazione, al territorio, è una delle forme di materializzazione. In questo modo, i movimenti assolvono probabilmente a molti scopi ma in funzione suppletiva rispetto alle deficienze istituzionali e l’accento della loro azione finisce per cadere pit sull’adeguamento all’esistente che sull’invenzione di un mondo diverso. Per non dire che anche un certo grado di diversità (mantenuto entro limiti
ragionevoli) può non essere affatto sgradito al sistema, che da questo può trarre nuove energie e stimoli, unitamente alla testimonianza della propria liberalità. Il problema, in altri termini, è
quello degli orizzonti dei movimenti e, della loro natura più o meno conflittuale rispetto al potere. È innegabile che, tra le potenzialità dei movimenti, vi sia anche quella di servire come luoghi di decantazione e assorbimento delle tensioni sociali, o come ambiti di sperimentazione delle strategie di rinnovamento per il sistema nel suo complesso. b) Ma si può fare un’altra ipotesi. La sfida simbolica può essere liquidata in altro modo (o liquidarsi da sé), semplicemente se non vi è nessuno a raccoglierla. Ogni sfida presuppone due termini, due contendenti. Nel caso di quella lanciata dai movimenti, non è inimmaginabile che il loro avversario — il «potere» — non si presenti all'appuntamento. Non tanto per latitanza, ma perché è forse il potere, oggi, a mancare soprattutto di una identità, di un volto. Nella sua logica operazionale, esso si annida ovunque e in nessun luogo, e la disarticolazione strutturale delle società «complesse» ne è il riparo pit efficace ed il migliore degli alibi. I movimenti, pertanto, possono sfidare chi vogliono, inventare i rituali che vogliono: ciò non avrà conseguenze se non per loro, che attraverso queste modalità di azione fonderanno la loro identità (una delle tante che nel sistema coabitano, si confrontano e si neutralizzano). L'assenza di «centro» del sistema, la sua funzionalità
operativa per comparti modulari, per segmenti a geometria variabile, può sottrarre ai movimenti perfino la loro marginalità, che non è definibile se non in opposizione ad un nucleo centrale di
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riferimento. Cosf, non sarebbero soltanto le ideologie o i segni a fluttuare, ma anche i movimenti — assieme con ogni altro «attore sociale» — in una circolazione aleatoria, in assenza di gravità, nella quale l’impossibilità della sfida sanziona l’impossibilità del conflitto. c) Anche supponendo che il potere abbia una soggettività identificabile, ci si può chiedere se l'affermazione di una identità separata, alternativa, sia davvero il modo migliore per combatterlo. Il fatto che, dal lato suo, il potere non rivendichi più la propria dovrebbe indurre in sospetto. Potrebbe significare che ogni conflitto a questo livello è perduto in partenza, poiché per il potere non è vitale contrapporre la propria identità a quelle che si sforzano di autonomizzarsi da èsso, ma lo è il gioco di specchi attraverso il quale i valori, i segni, le ideologie ed anche le identità si riflettono a vicenda, e tutto precipita in una indeterminazione totale. In tal caso, i tentativi di rivolta che cercano la loro autonomia nella profondità non sarebbero in grado di incidere sulla forma attuale del potere oltre un dato limite. La tensione verso la reintegrazione simbolica, verso il recupero dell’«ombra» o di una dimensione tribale che ha a che fare con le risonanze pi profonde degli uomini, rappresenterebbe un primo livello di sfida, una presa di distanza importante ma alla fine inadeguata. Se è vero che il potere afferma il suo dominio in un gioco di superfici, inseuire una rivolta nelle oscure profondità del sociale non è ciò che fometterà in discussione secondo le regole deil’obbligazione simbolica. In questa ipotesi, che è quella di Baudrillard, la risposta più coerente, la sfida più radicale si devono porre allo stesso livello superficiale dei significanti, dei segni vuoti. Per ritorcere l’indeterminazione contro il sistema, ed anzi «capovolgere l’indeterminazione in sterminazione», in una reversione del codice dominante che lo vinca secondo la sua stessa logica, superandolo nell’irreferenziale [Baudrillard 1979]. Anziché recuperare i termini
nella loro profondità, essi andrebbero s-terminati (nel senso letterale della parola): svuotati di senso ed usati nella loro superficie risplendente, portando all'estremo la distruzione del principio di significazione il cui monopolio costituisce oggi il cardine fondamentale del sistema. Tutto ciò al prezzo, beninteso, della scom-
parsa dei movimenti stessi in quanto attori sociali, dotati di un immagine, una continuità, una storia.
Questi rischi — e le loro ambiguità — sono forse tutti compresenti. Come tuttavia lo sono, nei movimenti, le spinte ad oltrepassarli, definendo via via il terreno della propria azione conflittuale in rapporto ai mutamenti delle poste in gioco del potere.
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ALBERTO
MELUCCI
MOVIMENTI IN UN MONDO DI SEGNI
1. Fine dei movimenti? 1.1. Dopo gli anni Settanta: un bilancio teorico
Sul tema dei movimenti sociali il tempo sembra maturo per un bilancio teorico. Gli anni Settanta hanno reso possibile un superamento delle eredità del dualismo. Questo decennio rappresenta nella riflessione sui movimenti una importante cerniera e non è un caso che i problemi che attraversano oggi il dibattito si riferiscano ai lavori e alle ricerche effettuati negli anni Settanta. Quali sono i problemi che il decennio trascorso ha contribuito a superare? Una prima alternativa è quella formulata da Tilly [Tilly e altri 1975; si veda anche Useem 1980] in termini di breakdowny/solidarity: da una parte gli approcci che vedevano i movimenti come effetti della crisi, o della disgregazione di un sistema sociale; dall’altra quelli che analizzavano i movimenti come espressione di interessi condivisi e radicati in una condizione strutturale (condizione di classe, in primo luogo). Gli anni Settanta hanno in qualche modo regolato i conti con le teorie del collective behavior e con la teoria della società di massa, che possono essere assunti come esempi del polo breakdown !. L'azione collettiva è qui vista come prodotto della disgregazione e mobilita preferibilmente le fasce più sradicate della popolazione. Il problema che questi approcci lasciavano aperto era la loro incapacità di dar ragione delle dimensioni conflittuali presenti nei movimenti, riducendo l’azione collettiva a una reazione ai processi di decomposizione e a marginalità. Sull’altro versante, quello della solidarietà, erano più scarse le ricerche sui movimenti sociali in senso stretto (l’unico che abbia
1 Per una critica della teoria della società di massa: Oberschall [1973], Halebsky [1977]. Sul collective behavior rinvio a Melucci [1976, 1982]. In una prospettiva vicina a quella di Smelser si muove Alberoni [1981] per quanto riguarda la definizione dei movimenti. Il contributo originale riguarda invece la teoria dello stato nascente.
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applicato sistematicamente questo modello nella ricerca empirica è Tilly), ma esisteva un patrimonio di riflessione storica e politica, che ha le sue radici nella tradizione marxista e che continua a considerare i movimenti come effetto delle contraddizioni di un sistema: a partire di qui si formano infatti interessi comuni da cui scaturiscono forme di azione collettiva. Ma il passaggio da una condizione di classe ad una azione di classe rimane irrisolto, perché non ci sono gli strumenti per analizzare i processi attraverso cui un attore collettivo si forma e si mantiene. Un'altra alternativa, che ricopre solo parzialmente la precedente, può essere formulata in termini di struttura/motivazione [Webb 1983]: i movimenti sono un prodotto della logica del sistema o delle credenze-motivazioni degli attori? Anche qui c’è da un lato una eredità di analisi sui movimenti condotte interamente a partire dal ciclo economico o dalla posizione di un gruppo sociale nel mercato del lavoro, oppure dall’altra, di analisi tutte centrate sulle rappresentazioni o sulle ideologie degli attori. Rispetto a queste eredità, gli anni Settanta hanno visto emergere contributi teorici che permettevano di fare qualche passo al di là dell’alternativa breakdown/solidarity o struttura/credenze. Semplificando con una metafora geografica, potrei dire che c’è un filone europeo e un approccio statunitense. Da una parte ci sono teorie che intendono fondare a livello strutturale, cioè nell’analisi del sistema, la dimensione conflittuale dei movimenti: mi riferisco in particolare a Touraine [1975, 1981c], ma anche a molti aspetti della riflessione di Habermas nell’ultimo decennio [Habermas 1979]. In continuità con la tradizione europea lo sforzo è quello di reperire nei mutamenti del capitalismo post-industriale le ragioni strutturali per il formarsi di attori e forme d’azione che non rientrano nella tradizione di lotte del movimento operaio. Sul versante statunitense maturano invece teorie e ricerche che tentano di spiegare come l’attore collettivo si costituisce, come permane o muta nel tempo, come si mette in relazione con un ambiente esterno da cui trae e con cui scambia risorse. Sto parlando evidentemente delle teorie e delle ricerche in termini di resource mobilization, a cui questo volume si è più volte riferito. L'occasione di un bilancio teorico mi permette di situare esplicitamente il punto d’arrivo attuale della mia riflessione all’incrocio di questi approcci. Questa ricerca ha rappresentato il tentativo di dar corpo, non già a una mediazione, ma ad uno spazio teorico che emerge dal bilancio critico degli anni Settanta. La prima eredità che la ricerca ha ricavato dalla discussione di questo decennio è una sorta di «paradigma scettico» sui movimenti, che non li
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prende solo per quello che appaiono, o solo per quello che dicono di sé, ma va alla ricerca del sistema di relazioni interne ed esterne
che li costituiscono. Se gli anni Settanta hanno reso possibile un superamento degli approcci più tradizionali, essi lasciano però aperti due problemi da cui questa ricerca ha preso le mosse. Da una parte le teorie strutturali che riflettono sul sistema, non rispondono alla domanda di come, nella concretezza della azione collettiva, un attore produce, negozia, mantiene l’assetto che gli permette di esistere e di agire. Potrei dire semplificando che queste teorie dicono perché si forma l’azione collettiva, ma non dicono nulla sul cozze: si-arrestano sull’ipotesi di un attore potenziale, senza poter dare ragione dell’azione collettiva concreta. Per altro verso, gli approcci che si rifanno in qualche modo al modello della resource mobilization assumono il conflitto e la protesta come un dato e non si interrogano sui suoi significati e sui suoi orientamenti. Potrei dire che spiegano il corze, ma non il perché. Di per sé questi due tipi di spiegazione non sono contraddittori e possono coesistere, perché spiegano parti diverse dei fenomeni a cui si riferiscono. Ogni teoria è legittima se delimita il campo di spiegazione a cui si applica. Le difficoltà nascono quando si fa intervenire, implicitamente o esplicitamente, una pretesa di globalità e si intendono spiegare, come spesso accade, i movimenti come tali. Attraverso la discussione di questi limiti la ricerca ha dunque affermato in primo luogo le necessità di uscire dalla logica degli attori per considerare il sistema di relazioni. E maturata contemporaneamente la consapevolezza che non è pit
possibile analizzare l’azione collettiva tutta all’interno di contraddizioni strutturali, date per presupposte. L’azione è stata considerata come ur insieme di orientamenti, di risorse e di vincoli che si giocano in sistemi di relazioni. E questa mi pare la seconda eredità che la ricerca ha cercato di mettere a frutto in maniera creativa, concentrandosi sul come dei movimenti, senza rinunciare a inter-
rogarsi sul perché. 1.2. Sovraccarico politico
Anche nella sociologia americana si afferma un approccio sistemico e l’analisi muove verso una considerazione dei movimenti come parte di un sistema di relazioni, enfatizzando le opportunità e i vincoli del sistema sociale piuttosto che gli aspetti «soggettivi» e ideologici (per esempio negli ultimi sviluppi della teoria della resource mobilization [Garner e Zald [1981]). Cosî
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nell’analisi di Tarrow [1982, 1983] l’azione di protesta è vista come parte di un sistema di relazioni che include le risposte del sistema politico e le interazioni tra le élites e i gruppi di protesta. Il concetto di political opportunity structure, come campo che struttura la protesta, è per esempio un contributo importante per l’analisi dell’azione collettiva come un sistema e non soltanto come un’intenzione o una credenza. Kriesberg [1982, 1983] parla di un multiple interaction paradigm che va emergendo negli studi sui movimenti. Questi contributi, che sono parte di un’area intellettuale più larga, rappresentano una importante innovazione, se si compa-
rano con i tradizionali studi americani in questo campo, dove i movimenti sociali sono stati troppo spesso ridotti alle loro credenze o a fenomeni di aggregato. Inoltre questi orientamenti favoriscono uno sviluppo della ricerca che può arricchire la conoscenza puntuale dei fenomeni di azione collettiva. Per esempio Tarrow ipotizza un legame tra cicli di protesta e cicli di riforma. Questo legame orienta a considerare la protesta come una funzione stabile delle società complesse e supera definitivamente una visione della protesta come manifestazione di patologia sociale. Inoltre l’analisi di questo legame può offrire una base empirica sistematica al punto di vista tradizionale, di origine marxista, che lega conflitti sociali e mutamento 2. Tuttavia le analisi che ho citato si concentrano esclusivamente sul sistema politico, ignorando la «società civile»: tendono cioè a ridurre il contenuto conflittuale dell’azione collettiva alla protesta politica e dunque a considerarla come parte del sistema politico. Osservo che il confronto col sistema politico e con lo stato è sempre una parte, più o meno importante dell’azione collettiva, ma è solo una parte. Nell’azione collettiva i partecipanti non hanno soltanto quello che si potrebbe chiamare un comportamento economico, che calcola costi e benefici. Essi cercano anche solidarietà e identità, che non sono sempre calcolabili e sono incomparabili con altri risultati dell’azione che possono essere misurati. Ciò è particolarmente vero per i movimenti contemporanei che si concentrano su bisogni di autorealizzazione, agendo nel quotidiano e investendo la logica del sistema sul terreno dei codici
2 Altri contributi si muovono in questa direzione, legando l’analisi dei movimenti alle risposte del sistema, in termini di controllo sociale: J. Wilson [1977]; di politiche integratrici: Ergas [1981]; o di repressione: Kritzen [1977], Bromley e
Shupe [1983].
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simbolici. Il fuoco sul sistema politico coglie esclusivamente la dimensione di scambio. L’interesse che il resource mobilization approach suscita nel mondo anglosassone trova un equivalente nell’interesse pei le teorie dello scambio politico nel nostro paese. Il trionfo dell'ottica dello scambio, dopo che i valori, gli ideali, gli interessi di classe hanno governato l’analisi dei fenomeni collettivi per tanto tempo, è un buon indicatore del mutamento di clima culturale. Il problema del controllo dell’incertezza, proprio delle società complesse, si riflette nella teoria e rende centrale la dimensione politica. C'è qui un accento importante, ma nello stesso tempo eccessivo sui connotati politici dell’azione, proprio mentre i movimenti contemporanei spostano la loro presenza su terreni non politici. Il rapporto tra movimenti e sistemi politici è un passaggio inevita-
bile nelle società complesse; ma non si deve dimenticare il limite di pe campo di osservazione rispetto al ruolo che i movimenti svolgono per il sistema nel suo insieme. Da questo punto di vista,
analisi come quelle di Habermas o di Touraine richiamano l’importanza del radicamento sistemico dei conflitti, l’irriducibilità dei movimenti a fenomeni politici, la necessità di cercare nella logica del modo di produzione i processi profondi che alimentano la formazione e l'orientamento dei movimenti. E evidente che si può parlare di movimenti in sensi molto diversi. Ma allora è il concetto stesso di movimento che è in questione e sarà forse opportuno ripartire da qui. 1.3. Che cos'è un movimento
Di che cosa stiamo parlando? Come ha ricordato Tarrow [1983], il campo dei movimenti sociali è uno dei più elusivi dal punto di vista concettuale. C’è una larga varietà di definizioni ed è difficile compararle tra loro. I diversi autori tentano di isolare alcuni aspetti empirici dei fenomeni collettivi e di farne la base per una definizione; ma poiché ogni autore sceglie elementi differenti, le definizioni non sono comparabili. Il problema nasce 3 Per una discussione concettuale molto articolata del paradigma dello scambio politico e per una analisi dei contributi italiani in materia: Ceri [1980-1981]. Sul ruolo dei partiti nello scambio: Rusconi [1980-1981], Offe [1981]. Un esempio di
analisi dei movimenti centrata principalmente sul sistema politico è quella di Goio [1981]. Per una analisi del sistema politico italiano nella stessa prospettiva Rusconi e Scamuzzi [1981].
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dal fatto che si tratta di generalizzazioni empiriche e non di concetti analitici. Tarrow per parte sua ha cercato di evitare queste difficoltà introducendo una distinzione tra movimenti (forme di mass opinion), organizzazioni di protesta (forme di organizzazione sociale) e eventi di protesta (forme di azione). Questa distinzione permette di differenziare aspetti che di solito vengono confusi e non è semplicemente descrittiva. Ma non è ancora sufficiente. Un movimento, in senso stretto viene definito come un fenomeno di mass opinion, in cui dei gruppi sociali che si considerano trattati ingiustamente si mobilitano confrontandosi con una autorità. Come Tarrow ammette, un movimento cosî definito raramente agisce come tale nel suo insieme e la sua esistenza deve essere inferita attraverso le attività dell’organizzazione che pretende di rappresentarlo. Ma allora come si può sapere, seguendo questa definizione, che esiste un movimento al di là delle organizzazioni e degli eventi di protesta? Il movimento in se stesso sembra essere una entità metafisica dietro la scena, che è occupata dalle organizzazioni e dagli eventi di protesta. Il concetto stesso di protesta ha una base analitica molto debole. Come si può definire la protesta? Come ogni forma di malcontento di un gruppo che ha delle rivendicazioni? Come una reazione che rompe le regole consolidate? O come un confronto con le autorità? O tutte queste cose? C'è qui la stessa difficoltà a distinguere tra generalizzazione empirica e definizione analitica. Cosa permette infatti di differenziare fenomeni empirici come un ubriaco che grida per strada contro il governo, uno sciopero guidato dai sindacati o una forte mobilitazione contro la politica nucleare? E evidente che questi comportamenti, che si potrebbero considerare empiricamente come protesta, hanno significati molto diversi. La definizione della protesta come comportamento disruptive mostra chiaramente l'impossibilità di restare alla generalizzazione empirica. Infatti l'individuazione di un comportamento come dirompente implica che si definisca un sistema di riferimento, un qualche limite o confine che subisce una rottura. Nei fatti, quando nella letteratura si parla di protesta, ci si riferisce implicitamente alla protesta politica. Il sistema di riferimento implicito è dunque sempre il sistema politico. Siamo cosi rinviati a quella riduzione dell’azione collettiva alle sue dimensioni politiche, che ho già segnalato. Non si esce da queste difficoltà senza un mutamento nel quadro concettuale e senza muovere da una definizione empirica verso una definizione analitica. Ciò che chiamiamo empirica-
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mente un movimento non è un personaggio che agisce sulla scena storica, ma un sistema di relazioni tra elementi che hanno orienta-
menti e significati diversi. Ho già richiamato all’inizio di questo volume una definizione interamente basata su dimensioni analitiche: usando il conflitto e la rottura dei limiti di compatibilità del sistema, come le due dimensioni di base, ho distinto in passato tra diversi tipi di azione collettiva [Melucci 1982].
Definisco analiticamente il conflitto come quella relazione di due (o più) attori sociali che lottano per il controllo di risorse a cui entrambi assegnano valore 4. I Jimziti di compatibilità del sistema sono quella gamma di variazioni che un sistema può sopportare senza cambiare la sua struttura. La rottura dei limiti di un sistema è un’azione che spinge il sistema stesso a di là della gamma tollerata di variazioni. i Nella definizione dei movimenti sociali basata su conflitto e rottura, il concetto di conflitto, per necessità di semplificazione, inglobava anche quello di solidarietà [Melucci 1982, 23]. Ma mi sembra ora necessario distinguere la solidarietà dal conflitto, perché queste due dimensioni non sono sempre e necessariamente coincidenti nell'azione collettiva. Un movimento è allora analiticamente definito come una forza di azione collettiva basata su una solidarietà, che esprime un conflitto, attraverso la rottura dei limiti di compatibilità del sistema di riferimento dell’azione.
Queste dimensioni permettono anche di distinguere analiticamente altre forme di azione caratterizzate dalla presenza o dall’assenza rispettivamente del conflitto, della rottura o della solidarietà. Ne derivano alcune indicazioni sul campo di azione che confina analiticamente con quello dei movimenti sociali: empiricamente questi contenuti AM si trovano spesso mescolati nelle condotte degli attori storici che abitualmente chiamiamo movimenti (delle donne, dei giovani, ecc.). La figura 15 mostra la strutturazione di questo campo. Dai movimenti sociali (a) si distinguono altri tipi di condotte. L'azione conflittuale (b) in cui il conflitto si mantiene entro i confini del
sistema e si presenta dunque come competizione di interessi; è qui che si situano le condotte di modernizzazione e di innovazione culturale. La devianza (b) in cui prevale la dimensione della rottura
senza solidarietà, né conflitto. Le condotte di aggregato (g) che si presentano come convergenza di comportamenti atomizzati, coa-
4 Per una analisi del concetto di conflitto e delle teorie relative: Brickman [1974], Rivière [1977], Oberschall [1978], Bonoma e Milburn [1977], Rex [1981].
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gulati da una situazione di crisi: sono queste le condotte più studiate nelle analisi sul collective behavior (comportamenti di folla, panico, ecc.). La solidarietà volontaria (c) in cui una aggregazione solidaristica non conflittuale dà luogo a forme di azione collettiva
che si muovono all’interno dei limiti del sistema. Ai movimenti sono poi spesso associate condotte di tipo conflittuale, latenti e atomizzate, che non arrivano ad esprimersi in forme di solidarietà e che confinano con la devianza; l’azione collettiva esiste quasi in negativo e si può parlare di antagonismo atomizzato (e). Sul versante dell’innovazione si trovano analoghe condotte che manifestano una sorta di micro-sperimentazione delle possibilità di cambiamento all’interno del sistema: le indicherò come innovazione atomizzata (f). Infine ci sono condotte che rompono i limiti del sistema senza che vi sia un conflitto sulla sua logica e sui suoi orientamenti; ciò accade spesso quando nuove élites o settori dei gruppi dirigenti lottano per il potere contro altri; questi gruppi possono convergere con l’azione dei movimenti in determinate congiunture: parlo qui di contro-élites (d). All’interno di queste categorie, che malgrado gli esempi esplicativi vanno intese come strumenti per analizzare delle condotte, è possibile poi introdurre distinzioni in relazione al sistema di riferimento dell’azione. Diverso è infatti se l’azione si situa in un contesto organizzativo, assume come riferimento un sistema politico o investe la logica del modo di produzione. Non voglio addentrarmi qui in un esercizio di scomposizione che rischierebbe di essere puramente classificatorio. Mi basta ricordare, per quanto riguarda i movimenti, che essi mutano il loro significato a seconda del campo a cui si riferisce l’azione (movimenti rivendicativi, politici, antagonisti) e che un movimento antagonista vive ditficil mente senza un radicamento politico o organizzativo [Melucci 1982, 28-33]. Ciò che chiamiamo abitualmente movimenti sociali, o anche
eventi di protesta, contiene spesso diversi di questi significati analitici. E necessario dunque distinguerli perché da essi dipende la lettura degli esiti dell’azione. La devianza può essere trattata, le rivendicazioni regolate possono essere negoziate, ma i comportamenti antagonisti non possono essere interamente integrati. Le
lotte possono ottenere cambiamenti nelle politiche, ma molto spesso il conflitto riappare in altre aree del sociale. Distinguendo diversi significati dell’azione collettiva si possono evitare due trappole ideologiche ricorrenti. Da una parte gli attori tendono ad enfatizzare i significati «alti» della loro azione e pretendono di avere un'unità che spesso non esiste o è attribuita loro dai /eaders.
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solidarietà
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Dall’altra, i gruppi dominanti tendono a metter in evidenza i significati «bassi» dell’azione e a ridurla a patologia sociale o a comportamento di aggregato.
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Come ho già segnalato nel saggio introduttivo di questo volume, resta irrisolto un problema terminologico, l’uso del termine stesso movimento, che continua, anche in questa ricerca ad essere usato per indicare un livello analitico e una unità di osser-
vazione empirica. La stessa necessità che la ricerca ha avuto di introdurre la nozione di area di movimento mostra quanto il termine sia logorato. Qui mi basta di segnalare il problema (la necessità di distinguere categorie analitiche e unità empiriche) e di indicare, come ho fatto, alcune direzioni di soluzione per quanto riguarda almeno la definizione analitica. In questo momento non
dispongo di concetti soddisfacenti in grado di sostituire quello di movimento. Resta il fatto che l’esaurirsi del termine (di questo, come di molti altri che appartengono allo stesso universo semantico), va di pari passo con la scomparsa dei movimenti-personaggi a cui ci aveva abituato la storia del capitalismo industriale. Muta la realtà e mutano, assai più faticosamente, i modi per rappresentarla. 1.4. Dal sistema agli attori e ritorno
A conclusione di questo bilancio emerge che di fronte a fenomeni di azione collettiva è possibile porsi due diverse domande: a) Come un attore collettivo può controllare le sue risorse per mantenere e sviluppare la propria azione, e come interagisce col sistema, particolarmente col sistema politico? b) Quali sono le origini, i significati e gli orientamenti di un attore collettivo empirico, che chiamiamo movimento? La prima questione può essere posta solo formulando delle assunzioni sulla seconda. Non si può infatti rispondere alla prima senza avere implicitamente qualche ipotesi sul sistema considerato. D'altra parte è difficile rispondere alla seconda domanda, senza considerare come il movimento si struttura, costruisce e mantiene la sua identità. La resource mobilization theory assume un movimento come un attore empirico dato: considera che esista sempre in un sistema una certa quota di malcontento e non si chiede a quali elementi del sistema l’azione fa riferimento (se non in termini esclusivamente congiunturali). La prospettiva «europea», radicata nel marxismo, assume invece che un movimento sia il risultato di fattori strutturali, storici, congiunturali. La resource mobilization theory può favorire la comprensione di come questi fattori si legano per produrre l’azione, ma non può spiegare quali ne sono i significati e gli effetti. Opera necessariamente una ridu-
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zione politica e nel migliore dei casi si occupa degli effetti istituzionali dei movimenti (è quanto sta avvenendo per esempio negli studi sul movimento delle donne). . C'è nella resource mobilization theory un assunto ingenuo di tipo empirista sul sistema, che non distingue tra sincronico e diacronico, tra struttura e mutamento.
Il sistema coincide con la
fenomenologia delle sue variazioni. La strada che propongo è invece quella di uscire da questa semplificazione distinguendo l’analisi sincronica da quella storico-empirica, l’analisi del sistema come modo di produzione.da quella di una società concreta. Il campo dei conflitti va definito a partire dalla analisi del sistema nel suo insieme, dalle risorse e dagli orientamenti culturali che lo caratterizzano, dal modo in cui produce e investe le sue risorse
fondamentali. Qui è possibile individuare ciò che è in gioco nei conflitti e per che cosa gli attori si battono. Attori diversi di diversi conflitti agiscono comunque su un terreno «sincronico» offerto dal sistema. Le caratteristiche storiche e congiunturali di una società concreta possono invece dar ragione dei fattori di attivazione dei conflitti e della mobilitazione di attori concreti. Mentre la prima domanda è «quali conflitti?», qui l’interrogativo diventa «quali attori e quali forme di mobilitazione?». E necessario allora prendere in conto i fattori specifici e particolarmente il funzionamento del sistema politico. Inoltre occorre considerare che sul conflitto che si attiva si innestano e si cristallizzano altre forme di azione,
come quelle che ho segnalato in precedenza: devianza, rivendicazioni, condotte di aggregato, emergenza di nuove élites, convergono nei concreti eventi di protesta e nelle forme empiriche di mobilitazione collettiva. L’uscita dal dualismo significa la possibilità di ridefinire un nesso tra sistema e attori che cerchi nel sistema la logica dei conflitti, ma sappia ritrovarla nel:modo in cui gli attori strutturano il loro campo d’azione. Ciò comporta un superamento di categorie e di linguaggi che mantengono il segno indelebile delle loro origini dualiste (soggettivo/oggettivo, struttura/motivazioni) e che questa ricerca non ha potuto evitare di utilizzare. Ma l’aver segnalato il problema comincia ad indicare una via d’uscita. La definizione del campo dei conflitti precede l'individuazione degli attori. Gli elementi della condizione sociale di un gruppo e una specifica congiuntura possono spiegare perché e come un attore si mobilita in quel campo. Il sistema di opportunità e di vincoli, offerti in particolare dal sistema politico, costituisce un livello di analisi decisivo per la comprensione dell’azione di attori concreti. Tuttavia
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l’azione collettiva non si esaurisce e non si riduce al sistema politico e allo scambio. Da questo modo di procedere derivano una serie di questioni generali, che questa ricerca ha contribuito a formulare pi chiaramente:
a) quali sono gli scarti nella logica sistemica? Quali processi sincronici del sistema sono alla base dei conflitti? Quali risorse
essenziali sono in gioco? 5 b) Quali sono le aree del sistema sociale in cui tendono a localizzarsi i conflitti sistemici? c) Quali sono i gruppi sociali più esposti, per le loro condizioni, a divenire attori di conflitti? d) Quali sono gli indicatori che possono identificare gli attori empirici di conflitti sistemici? Per l’analisi specifica dei movimenti altre questioni si aprono: e) come valutare il successo dei movimenti, problema questo che ricorre nelle ricerche americane? Il successo o la sconfitta si possono misurare solo sul terreno dello scambio politico, perché se si considera il campo dei conflitti cosî come ho cercato di definirlo, i movimenti sono sempre più senza esito. La loro azione a livello di sistema opera nella ridefinizione di logiche non misurabili (vedi paragrafo seguente). Dunque l’esito principale, l’unico di cui si può parlare (in qualche modo riducendo e tradendo sempre il significato profondo dell’azione) è la ridefinizione della political opportunity structure: terreno privilegiato di osservazione pet gli scienziati politici, ma che l’analisi sociologica non deve mai confondere con la totalità del campo sociale. Î) I movimenti sono dei canali di ricambio delle élites, soprattutto in sistemi che non vanno più verso il futuro, ma si mantengono nel mutamento. Come tenere conto di questo intreccio sempre più inestricabile tra innovazione sistemica, modernizzazione e antagonismo? Il terreno simbolico sembra, come vedremo, l’unico su cui è possibile operare una distinzione dei significati dell’azione e riconoscere la forza dell’antagonismo al di là dei contenuti: l'appello vuoto a conflitti che toccano la formazione stessa del senso va cercato al di là degli effetti di modernizzazione istituzionale che l’azione produce.
5 Concetti come quelli di contraddizione o di crisi sono sempre più inadeguati per designare gli scarti che si producono nella logica sistemica. Per una discussione in tal senso: Morin [1976], Addario [1981], Castelfranchi [1981].
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2. Società di informazioni
Dove si colloca l’azione dei movimenti contemporanei? Qual è il loro campo d’azione? Le società complesse producono attraverso un’integrazione crescente di strutture economiche, di apparati di gestione politica e di agenzie culturali. I beni «materiali» sono prodotti attraverso la mediazione di sistemi informativi e di universi simbolici controllati da grandi organizzazioni. Essi incorporano informazioni e diventano segni circolanti su mercati che hanno ormai le dimensioni del mondo®. I conflitti trasmigrano dal sistema economico-industriale verso terreni culturali: riguardano l’identità personale, il tempo e lo spazio di vita, la motivazione e i codici dellagire quotidiano. I conflitti mettono a nudo la logica che si sta affermando nei sistemi altamente differenziati. Questi distribuiscono risorse crescenti per fare degli individui centri autonomi d’azione, ma d’altra parte chiedono sempre più integrazione. Devono estendere il controllo per sopravvivere, investendo la motivazione profonda dell’azione e intervenendo sui processi di costruzione del senso. I conflitti degli anni Ottanta rivelano questa logica e implicano una profonda ridefinizione dei movimenti e delle loro forme di azione. 2.1. Sistemi artificiali
Delle risorse che alimentano ogni sistema vivente (materia, energia, informazione) le società hanno percorso l’intero ciclo: società che si sono strutturate su risorse materiali, società che
hanno fatto dell’energia la chiave del loro sviluppo (il vapore e l'energia elettrica come motori dell’industrializzazione), e oggi sistemi che all’informazione affidano la loro sopravvivenza, il controllo dell'ambiente, l’espansione verso lo spazio e il delicato equilibrio che le preserva dalla minaccia ultima, la guerra totale. La «rivoluzione micro-elettronica» ha permesso di concentrare quantità enormi di circuiti in spazi impensabili fino a venticinque anni fa, mutando non solo le ei
dei computer, ma accre-
scendo vertiginosamente la velocità di trattamento delle informazioni e estendendo in maniera enorme la quantità di dati che possono essere immagazzinati. Parallelamente, le trasformazioni 6 Sul significato simbolico del consumo: Leonini [1982].
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nelle tecnologie della comunicazione fanno sf che le informazioni possono essere raccolte, rese accessibili e comunicabili in tempi brevissimi e senza limiti di spazio”. a) Quali sono i caratteri di una società dell’informazione? Le
trasformazioni che ho ricordato accentuano anzitutto il carattere riflessivo, artificiale, costruito della vita sociale. Gran parte delle esperienze di vita nelle società complesse sono esperienze «di grado”», avvengono cioè in contesti prodotti dall’azione sociale, rappresentati e rinviati dai sedia, interiorizzati e agiti in una sorta di spirale che cresce su se stessa e che rende la «realtà» un ricordo o un sogno. Gran parte delle attività banali della vita quotidiana sono già segnate e dipendono dall’impatto delle trasformazioni nel campo Lll'infclmazice Nuove tecnologie incorporano una quantità crescente di informazioni e contribuiscono» a loro volta alla espansione massiccia delle informazioni prodotte. Anche qui un movimento a spirale sembra moltiplicare la riflessività dell’azione sociale. b) Un altro aspetto è la mondializzazione del sistema. La circolazione di informazioni unifica potenzialmente il sistema mondiale e apre nuovi problemi nei rapporti tra gli stati nazionali rispetto al controllo, circolazione e scambio di informazioni. Nello stesso tempo mondializza i problemi e i terreni su cui nascono i conflitti. La localizzazione territoriale di un problema diventa un aspetto secondario rispetto al suo impatto simbolico sul sistema mondiale. c) In un sistema che nelle sue aree più avanzate occupa il 50 per cento della popolazione in attività che hanno a che fare con la produzione, il trattamento, la circolazione di informazioni, questa
risorsa fondamentale non può non strutturare la vita sociale. L’informazione è una risorsa di natura simbolica, cioè riflessiva. Non è una cosa, ma un bene che per essere prodotto e scambiato suppone una capacità di simbolizzazione e di decodificazione. È dunque una risorsa che diventa tale per la società nel suo insieme solo quando altri bisogni sono stati soddisfatti e quando la capacità di produzione simbolica si è resa sufficientemente autonoma dai vincoli della riproduzione. Coloro che parlano di «società post-materiale» colgono almeno un aspetto delle trasformazioni in corso: cioè che i sistemi che si fondano sempre più su risorse informative
? Sulla rivoluzione
microelettronica
rinvio
a Friedrichs
[1982],
Forester
[1982]. Sui nuovi media, Dizard [1983], Bell [1981], Tremblay [1981], Bretz e Schmidbauer [1983].
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suppongono l'acquisizione di una base materiale e la capacità di costruire universi simbolici dotati di autonomia (che diventano a
loro volta condizioni per la riproduzione o per l’allargamento della base materiale stessa). d) L’informazione non esiste per la società indipendentemente dalla capacità umana di percepirla. La possibilità di utilizzare una risorsa riflessiva come questa dipende dalle strutture biologiche e motivazionali dell'umano, come emittente e recettore di informazioni. L'investimento massiccio che le società più avanzate stanno facendo nella ricerca biologica, nelle ricerche sul cervello e sui meccanismi motivazionali e relazionali del comportamento, mostra che il ruolo dell’informazione come risorsa decisiva comporta una estensione dell'intervento umano sulla «natura interna», una crescita della capacità di autoriflessione, che giunge fino alla «produzione della riproduzione», fino all'intervento sulla struttura biologica profonda della specie 8. 2.2. Spazio e tempo
Un sistema che fa dell’informazione la sua risorsa principale ridimensiona lo spazio e il tempo. L’informazione ha delle caratteristiche su.
può essere compressa nello spazio in una
misura che fino a pochi anni fa era inimmaginabile e che può ancora trasformarsi. Inoltre può essere trasportata alla velocità della luce e può sostituire molte altre risorse (i processi di automazione sostituiscono nella fabbricazione la forza lavoro umana soprattutto nelle lavorazioni difficili o pericolose). Si tratta di una risorsa a circolazione rapida che per questo si espone anche a una rapida obsolescenza e a un elevato tasso di ricambio. La percezione dello spazio fisico e del tempo si modificano in modo visibile in un mondo costruito, come quello di cui stiamo parlando. Lo spazio perde i suoi connotati fisici: può essere potenzialmente esteso senza limiti e nello stesso tempo enormemente contratto. Una biblioteca può entrare in una memoria delle dimensioni di un libro, mentre lo spazio simbolico con cui il singolo è in contatto si allarga virtualmente al mondo intero, e già allo spazio extra-terrestre. 8 Sull’ingegneria genetica: Cherfas [1982]. L'interesse suscitato dalla sociobiologia e il dibattito che si è aperto nell'ultimo decennio testimonia l’importanza assegnata alla ricerca sul radicamento biologico del comportamento sociale. Per una sintesi: Maranini [1980], Manghi [1982], Acquaviva [1983].
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L'informazione è idealmente una risorsa che può espandersi senza limiti. I limiti principali sono costituiti da una parte dalla struttura bio-psichica umana, dall’altra dal tempo necessario a produrre e elaborare informazioni. Questo tempo si è contratto in modo cosî drastico negli ultimi due decenni da creare già un divario molto netto con altre esperienze umane del tempo. Per esempio il divario tra questa contrazione del tempo automatico e il tempo necessario per analizzare le informazioni è ancora molto elevato (ma già in questa direzione cresce la possibilità di applicare le nuove tecnologie a modelli di intelligenza artificiale). Ma soprattutto cresce il divario con altri tempi dell’esperienza, quelli interni, quelli degli effetti, quelli necessari a produrre una qualche integrazione dei percorsi individuali?. 2.3. Informazione, conoscenza, saggezza
È
Se l’informazione è caratterizzata dalla velocità di circolazione e dalla rapida obsolescenza, diventa fondamentale controllare i codici che permettono di organizzare e decodificare informazioni mutevoli. La conoscenza è sempre meno un sapere di contenuti e diventa capacità di codificare e decodificare messaggi. L’informazione è lineare, cumulativa, costituisce la base quantitativa del processo conoscitivo. La conoscenza struttura, stabilisce relazioni, nessi, gerarchie. Cresce paurosamente lo spazio vuoto
tra questi due livelli dell'esperienza e quella che nella tradizione si è chiamata la saggezza. La saggezza ha a che fare con la percezione del senso e con la capacità di integrarlo nell'esistenza individuale. La saggezza è la capacità di mantenere un nucleo integro dell’esperienza nei rapporti con sé, con l’altro, col mondo. Man mano che l’informazione diventa la risorsa fondamentale per i sistemi complessi, questi tre livelli tendono a separarsi. Il controllo sulla produzione, accumulazione, circolazione di informazioni dipende dal controllo dei codici. Questo controllo non è distribuito in maniera uguale, dunque l’accesso alla conoscenza diventa il terreno per nuovi poteri, nuove discriminazioni, nuovi
? Sull’esperienza contemporanea del tempo, soprattutto per quanto riguarda i giovani: Cavalli [1981], Ricolfi e Sciolla [1980, 1981]. Sul tempo della vita quotidiana: Maffesoli e Durand [1979], Caccamo De Luca [1982]. Anche i problemi della vecchiaia si legano alla contrazione del tempo e danno luogo a nuovi conflitti: si veda Latour [1977].
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conflitti. Contemporaneamente il senso dell’esperienza individuale, cioè la possibilità di integrare la quantità crescente di informazioni di cui ciascuno è emittente e recettore all’interno di qualche principio di unità interiore, diventa sempre pit incerto. Di qui una spaccatura quasi insanabile tra il regno della conoscenza strumentale, legata alla manipolazione efficace di codici simbolici che selezionano, ordinano, finalizzano informazioni, e la ricerca
della saggezza, cioè di una integrazione del senso nell’esperienza personale. Di qui la ricerca di identità; la ricerca di un incontro con se stessi che va verso le basi profonde dell’agire individuale: il corpo, le emozioni, le dimensioni dell’esperienza non riducibili alla razionalità strumentale !9. Di qui anche la riscoperta di una alterità insanabile (l’altro, l’Altro, il sacro), di uno spazio di silenzio che si sottrae al flusso incessante di comunicazioni codificate, che cerca
nella chiusura e nel vuoto di ricomporre i frammenti dispersi di un’esperienza umana che non riesce a dimenticare di essere sospesa tra nascita e morte. 2.4. Patti e potere
L’informazione è una risorsa difficile da controllare. Prima di tutto perché tende a diffondersi attraverso molti canali, diversi tra loro. Il linguaggio o la comunicazione interpersonale, gli oggetti che incorporano informazioni, oppure un corpus più elaborato di tipo simbolico. Inoltre, a differenza di altri beni fisici, l'informazione può essere divisa senza perdere le proprie qualità. Può essere moltiplicata e divisa tra vari attori, senza che il suo contenuto specifico ne soffra. Se il potere nelle società complesse si basa sempre pi sul controllo privilegiato di informazioni, è potenzialmente un potere molto fragile, perché la semplice acquisizione di informazioni mette i partrers sullo stesso piano. Il potere perciò non può che spostarsi sul controllo dei codici. Sono i codici, le regole formali, gli organizzatori del sapere, i 10 Questa tendenza è stata letta in termini di narcisismo. Oltre a Lasch [1981] si veda Special Symposium on Narcissism [1980]. Per una discussione in Italia: Jervis [1981], Zanotti [1980]. Sulla rivalutazione della dimensione privata: Margulis
[1977], Foddy e Finighan [1980]. L’altra faccia di questi processi è l'aumento della solitudine [Cargan e Melko 1982] e il bisogno di ristabilire relazioni primarie nel contesto immediato di esperienza come il vicinato [Rosembloom 1981], i gruppi di self-help e di mutuo aiuto, i servizi volontari [Katz 1981, Pancoast 1983, Gray
1980-81, Johnson 1982].
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nuovi fondamenti del potere. La saggezza è lontana, e un sapere operazionale si costruisce e si incrementa sui codici, che aree e gruppi privilegiati del sistema controllano. Le informazioni non sono più risorse circolanti e potenzialmente cumulative, ma segni vuoti di cui si è perduta, o meglio si nasconde, la chiave !!. Contemporaneamente però la potenziale estensione senza limiti dell’informazione accresce anche i margini di incertezza per l’intero sistema. L’incertezza riguarda in primo luogo la possibilità di stabilire i nessi tra le informazioni, cioè di passare alla conoscenza; poi l’incertezza riguarda il senso dell’agire individuale. Di qui la crescente necessità per i sistemi complessi di produrre decisioni per ridurre l’incertezza. Una società di informazione è perciò una società decisionale e una società contrattuale. Decisionale perché ridurre l’incertezza significa assumere il rischio della decisione. Contrattuale perché per decidere bisogna accordarsi su qualche regola del gioco !?. ì Non esiste altra possibilità di ridurre l’incertezza se non attraverso le decisioni e stabilendo un accordo sui confini e le procedure delle decisioni stesse. Ma dato che il livello di incertezza si rinnova e si espande continuamente, la decisionalità e la contrattualità diventano condizioni permanenti per i sistemi complessi. In altre parole le società contemporanee devono ristabilire continuamente i patti che le tengono insieme e che guidano la loro azione. Questa considerazione vale per il sistema nel suo insieme, ma
vale anche nell’esperienza degli individui e dei gruppi. L'identità che viene prodotta individualmente e socialmente si misura infatti continuamente con l’incertezza dovuta al flusso permanente di informazioni, alla multicollocazione degli individui, alla varietà degli ambiti spaziali e temporali di riferimento. Deve essere quindi ristabilita, rinegoziata ogni volta !. La ricerca di !1 Per una riflessione teorica sulla simbolizzazione e sul concetto di segno, Eco
[1981]. Sul concetto di codice, Eco [1978]. Per una analisi dei codici di razionalità dominanti, nella comunicazione televisiva, Rositi [1982b].
12 Sul problema dell'incertezza: Luhmann [1983]. Per una rassegna delle teorie decisionistiche, con particolare riguardo ai sistemi politici: Balducci [1979]. Occorre segnalare qui anche quel filone di studi che si occupa delle conseguenze collettive dei comportamenti individuali. Si tratta infatti di un buon esempio dei problemi di incertezza, tipici delle società complesse. Cfr. Schelling [1978], Collins [1981], Hirschman [1983]. Per gli aspetti contrattuali delle società contempox ranee il dibattito è stato aperto da Rawls [1982]. Per una discussione Zama-
gni [1981].
13 Sul problema dell’identità come dimensione costitutiva dell’agire individuale: Levi-Strauss [1980], Codal [1981], Giovannini [1979].
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identità diventa cosf un rimedio contro l’opacità del sistema,
contro l’incertezza che incombe continuamente sull’azione. Produrre identità significa rafforzare i flussi di informazioni provenienti dal sistema, renderli pit stabili e coerenti, contribuire in
definitiva alla stabilizzazione o alla modernizzazione del sistema stesso. Ma non solo questo. Significa anche ritrovare nel profondo della separatezza la capacità di rifiutare i codici dominanti e di rivelarne l’arbitrio 14. In sistemi di questa natura si può ancora parlare di una logica dominante? Certo le metafore spaziali che hanno caratterizzato la cultura industriale (base/sovrastruttura, centralità/marginalità) sono sempre più inadeguate per descrivere il funzionamento delle società complesse a-centrate, e ormai anche a-cefale. La dislocazione dei luoghi del potere e dei conflitti rende via via pi difficile individuare processi e attori «centrali». Ma ciò significa che occorre rinunciare ad individuare ogni logica dominante? Che nella complessità tutto diventa uguale a tutto, in una circolarità intercambiabile che le teorie dello scambio consacrano? Credo che una logica di dominanza non sia in contraddizione col paradigma sistemico. I sistemi contemporanei hanno una logica dominante che ho cercato di descrivere in queste pagine. Ma la localizzazione di questa logica sistemica è dislocata continuamente. Le regioni del sistema che volta a volta ne assicurano il mantenimento possono variare, cost come variano i luoghi del conflitto. Ma non tutte le forme di malcontento si equivalgono. Ci sono conflitti che toccano il sistema nei suoi gangli vitali e lo costringono, su un terreno determinato, a prendere volto. 3. Contro/sensi 3.1. Aree di identità
È possibile a questo punto tornare alla ricerca e a ciò che essa può dirci sui movimenti contemporanei. L’arco temporale della ricerca fa dei dati raccolti una sorta di spaccato della realtà dei movimenti: le analisi sulle aree si presentano come prospezioni geologiche di una vicenda storica che ha una sequenza, delle fasi e cosf via. Ciò impone la necessità di distinguere tra caratteristi-
14 Su questa ambivalenza dell’identità: Touraine [1979], Rositi [1983], Crespi [1983], AA. VV. [1983].
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che strutturali delle aree e sequenze storiche. Ma nello stesso tempo mette in evidenza un fenomeno nuovo. I tipi cronologici che la ricerca ha descritto (tre fasce di militanti nell’area giovani,
diversi tipi di femminismo nell’area donne, una ecologia politica e una ecologia del quotidiano) sono anche modelli contemporanei di azione all’interno del movimento. Si passa cioè dalla sequenza alla coesistenza. Spezzoni di esperienza, di storia passata, di memoria,
coesistono diventando parti funzionali dell’unico sistema d’azione del movimento. Non si tratta solo di residui su cui si sedimentano nuove concrezioni, ma di modelli stabili che si integrano a vicenda. I movimenti sono in questo uno specchio del sistema nel suo insieme. Nel grande scenario dei rzedia tutto diventa contemporaneo: le ultime tracce di una archeologia delle società si integrano con le anticipazioni più clamorose del loro futuro. Gli indiani dell’Amazzonia cacciati dalle ruspe contribuiscono allo spettacolo quanto le riprese dallo spazio. i Per tornare alle aree, il concetto di area di movimento intro-
dotto dalla ricerca come un’ipotesi empirica si è rivelato una chiave essenziale per descrivere la struttura dei movimenti contemporanei. Anzitutto questo concetto indica che nelle società complesse si differenzia uno specifico settore, che fa dell’azione collettiva una componente stabile del funzionamento sistemico. I movimenti assumono una certa autonomia creando all’interno del sistema uno spazio specifico per la loro azione. I sistemi complessi estendono la loro differenziazione anche in questa direzione e l’azione collettiva non istituzionale si separa da altre forme d’azione con cui in passato era confusa (in particolare l’azione
politica). Nella fase industriale i conflitti sociali sono inglobati all’interno delle lotte per la cittadinanza. Quando questi due livelli si separano i movimenti perdono il carattere di personaggi, legati al confronto con uno stato a cui si chiedeva cittadinanza; assumono invece la configurazione di aree in cui si forma, si negozia, si ricompone l’identità collettiva. Le aree di movimento sono: a) un campo in cui si struttura, attraverso la negoziazione di diverse componenti, una identità collettiva, in cui cioè orientamenti e vincoli dell’azione vengono definiti e ridefiniti dentro reticoli di solidarietà; 4) un terreno di ricomposizione, che assi-
cura una certa continuità e stabilità all’identità, in sistemi sociali in cui essa è continuamente esposta a segmentazione o destrutturazione. Gli individui e i gruppi trovano nell’area un riferimento per ricomporre identità divise tra molte appartenenze, tra ruoli e tempi diversi dell’esperienza sociale. Nel caso dei giovani questa
ricerca ha mostrato una versione prevalentemente difensiva di
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questa funzione di ricomposizione, mentre nel caso delle donne essa assume un orientamento attivo e creativo. Le aree considerate mostrano comunque una strutturazione significativa su entrambi i versanti, salvo nel caso della «nuova coscienza» dove
l’esistenza di un’area è assai dubbia e dove emergono solo orientamenti convergenti da parte di alcuni gruppi. 3.2. Antagonismo
Esiste un contenuto conflittuale di natura antagonista nei movimenti contemporanei? La risposta va cercata a un duplice livello. Negli orientamenti dell’azione emersi in ogni area, che sono la base su cui viene negoziata l'identità collettiva. Nel funzionamento concreto di questa struttura di identità, cioè nelle
dimensioni specifiche che la ricerca ha indagato. Gli orientamenti dell’azione sono insieme generali e specifici. Essi sono infatti il punto di congiunzione tra un attore particolare e il campo di opportunità-vincoli a cui l’azione si riferisce. Una particolare condizione sociale (essere giovane o essere donna, o piuttosto il vivere una certa condizione giovanile, una certa condizione femminile) facilita l'ingresso in un conflitto. In altri casi si tratta di fattori che non corrispondono a una condizione stabile, ma che delimitano tuttavia uno spazio sociale (la collocazione territoriale, la storia politica). Il conflitto è agito a partire da queste condizioni particolari, ma nello stesso tempo mette in gioco problemi che riguardano la logica complessiva del sistema. a) Nel caso dei giovani l’esaurirsi di una tradizione politica e i
residui di una cultura della marginalità non impediscono l’emergere del dato centrale: la gioventi è una condizione simbolica nelle società contemporanee. I «vecchi giovani» del Leoncavallo rappresentano in maniera emblematica questo passaggio dalla condizione biologica alla definizione culturale. La gioventii come condizione simbolica mette in campo la possibilità-diritto alla ridefinizione, alla variabilità, alla reversibilità delle scelte. Un problema che non è solo dei giovani, ma della società nel suo insieme. Per sistemi che fanno del mutamento la condizione della loro esistenza, la prevedibilità è un requisito essenziale. Cost il sistema promette e induce mutamento, ma esige nello stesso tempo di renderlo misurabile. I giovani, a partire dalla condizione di sospensione sociale, dal limbo simbolico che la società assegna loro, oppongono a questa logica l’appello a una variabilità che si
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manifesta come assenza di progetto, come esperienza del presente, come diritto ad appartenere per scelta e non per collocazione !9.
5) Per le donne la memoria profonda della subordinazione e il radicamento in un corpo «altro» da quello della cultura dominante, fanno delle lotte per l'emancipazione una parte importante, e quantitativamente forse la più significativa, dell’azione del movimento. Tuttavia ciò su cui si struttura l’azione collettiva delle donne non è solo l’uguaglianza dei diritti, ma il diritto alla differenza. La lotta contro la discriminazione e per la partecipazione delle donne al mercato economico e politico è intrecciata, ma distinta, con la lotta per la differenza. Essere riconosciuti come diversi è forse uno dei fondamentali diritti che vanno emergendo nei sistemi post-materiali. Essere riconosciute come donne significa, affermare un occhio diverso sulla realtà, un’esperienza vissuta in un corpo diverso, un modo specifico di mettersi in relazione con l’altro e col mondo. In società che sviluppano forti pressioni verso la conformità, l’appello alla differenza ha un significato dirompente sulla logica dominante. Parlando della differenza il movimento non parla solo alle donne ma all’intera società. Nello stesso tempo attraverso l’azione del movimento la cultura femminista entra nel mercato politico e culturale e contribuisce a innovarlo. Il successo sul mercato trasforma il movimento in gruppo di pressione, segmenta l’area, burocratizza alcuni gruppi, ne penna altri. La professionalizzazione del movimento non annulla tuttavia il suo nucleo antagonista, ma lo rende più difficile da reperire. Esso si sposta verso la forza della comunicazione. La forma autoriflessiva del piccolo gruppo esprime già in sé l’intenzione di non separare il fare dal senso, l’azione dalla consapevolezza del suo significato e dal carico emozionale che l’accompagna. Ma di che cosa si occupa questa comunicazione privilegiata? Del potere e della differenza. Il confronto col potere lea ha insegnato alle donne a riconoscere come la differenza diventa potere !6. La
15 Rinvio all’abbondante letteratura nella bibliografia ragionata. Tra i lavori più pertinenti al tema qui affrontato Cavalli [1980], Ricolfi e Sciolla [1980], Rositi [1978], Beccalli [1977], Moscati e Annunziata [1978], Altieri, Caselli, Faccioli e Tarozzi [1983]. 16 Nelle società primitive senza potere, il mondo maschile affida alla guerra il compito di impedire che la differenza crei potere. Nell’indicare questa funzione della guerra, Clastres mostra anche che per la stessa ragione il mondo dei maschiguerrieri è fatto per la morte [Clastres 1977a, 1977b].
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comunicazione femminile contiene una domanda e una sfida: se sia possibile una differenza senza potere, una comunicazione che salvi la differenza. Radicandosi nella forma femminile del comunicare, che le
donne sanno diversa da quella maschile ma che scoprono ormai diversa anche al suo interno, le donne interrogano la società
intera sulle radici del comunicare, le rilanciano la domanda di come si possa ricomporre la diversità, se sia possibile un’unità nella separatezza, in definitiva se sia dato all’umano di comunicare con l’altro senza sopraffazione. In che senso questo messaggio ha contenuto antagonista? Perché il sistema, che moltiplica le comunicazioni e vive di esse, conosce solo due modi di comunicare: l’identificazione, cioè l'integrazione nei codici dominanti, la fusione subalterna con un potere che nega la diversità; oppure la separatezza, la differenza come esclusione da ogni comunicazione. Altri aspetti della comunicazione femminile rivelano questo orientamento antagonista. L’esigenza di non perdere il particolare, il valore assegnato ai dettagli dell'esperienza, la memoria del quotidiano, dei piccoli gesti e dei tempi senza storia, aspetti che troppo banalmente sono stati letti come narcisismo femminile, hanno in realtà un significato profondamente eversivo. Si oppongono alla standardizzazione dell’esperienza e al livellamento del tempo, che una società di informazioni esige per applicare in maniera generalizzata le sue procedure. Non sono però le donne come tali a mobilitarsi. La ricerca mostra che attori del movimento diventano le donne che sperimentano lo scarto tra le promesse di inclusione e i costi sociali dell’esistere come donna; le donne che sperimentano una eccedenza di risorse costretta dentro i vincoli angusti della condizione femminile. Sono le donne con una scolarizzazione superiore a mobilitarsi, quelle esposte alle contraddizioni del Welfare, di cui sono spesso agenti e interlocutrici. La risposta di queste donne è una sovrapproduzione culturale, uno spreco simbolico che contiene una profonda ambivalenza. Da una parte infatti questo è un modo attraverso cui il sistema controlla l’incertezza, una sorta di enclave a cui viene affidata la
sperimentazione erratica dell’innovazione. Il sistema ne assorbirà
i risultati, quando una specie di selezione naturale avrà decantato l'essenziale. Ma questo spreco simbolico è contemporaneamente l’espressione di una differenza irriducibile, di ciò che «non ha valore» perché è troppo minuto o parziale per entrare nei circuiti standardizzati del mercato culturale di massa. Lo spreco simbolico della produzione femminile rinvia al sistema il valore dell’inutile,
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il diritto assoluto del particolare ad esistere, il significato irriducibile di tempi interiori che nessuna Storia può registrare, ma che fanno dell’esperienza individuale il nucleo ultimo del senso. Il movimento delle donne è cosf in bilico tra un ruolo di modernizzazione che non può evitare, ma che lo trasforma in gruppo di pressione, e un appello simbolico che va oltre la condizione femminile. Sul versante della modernizzazione esso contribuisce a diffondere i contenuti politici e culturali del femminismo, ormai professionalizzati; piccoli gruppi fondamentalisti residuali sopravvivono all’istituzionalizzazione, mentre gruppi intellettuali coltivano la memoria del movimento. Sul versante del suo appello simbolico il movimento delle donne pare destinato a negarsi come attore particolare, svolgendo la funzione di aprire per tutti lo spazio per la differenza e contraddicendò con questo la sua separatezza. La lacerazione essere sé/essere per l’altro sembra cosf riprodursi come dramma e come simbolo del femminile, anche nell’azione collettiva delle donne. c) Nell’area ecologica la pluralità degli elementi che vi convergono è apparsa in tutta la sua evidenza. La presenza di nuove élites in formazione è qui più forte che in altre aree. La mancanza di una condizione comune mette al centro delle aggregazioni ecologiste una solidarietà fondata interamente su dimensioni simboliche. Anche qui il nucleo antagonista è difficile da reperire perché gli aspetti di pressione istituzionale e la presenza di nuove élites sono prevalenti nella strutturazione dell’area. Certo questa è l’area che più direttamente si confronta sul terreno dell’azione esterna con politiche e decisioni pubbliche. Ha in uesto una funzione fondamentale di pressione, in senso forte, che non investe solo la politica delle cose, ma i criteri dell’innovazione, la priorità, la valutazione delle alternative. Ma nella strutturazione dell’area esiste anche una dimensione strettamente culturale. In un mondo artificiale, prodotto attraverso il moltiplicarsi della capacità riflessiva di tipo strumentale, restano tuttavia zone d’ombra. Ciò che sfugge all’artificio, al fare della società su se stessa, parla di altro, di possibilità perdute o di sogni possibili. La «natura» a cui si fa appello simbolizza questo confine, ricorda alle società operazionali i limiti della loro onnipotenza. Nella pratica ecologica dei gruppi di base la natura di cui si parla è vissuta, agita, sperimentata, attraverso un rovesciamento
dei codici operazionali della «produzione distruttiva». Questa azione minuta e quasi invisibile ricorda tuttavia alla società che il potere che le permette di prodursi è anche quello che può distruggerla; che il rispetto per l’ombra, per il limite, per i
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ritmi segreti del cosmo dentro e fuori di noi, è l’altra faccia, inseparabile, della spinta dell’uomo verso la scoperta e la creazione. d) In questo appello all'ombra, al non detto e al non dicibile si situa forse il significato più profondo della nuova ricerca spirituale. Dove essa non è rinnovamento dell’efficacia delle chiese,
dove non è una articolazione specializzata del mercato delle emozioni, l’esperienza spirituale vive nelle società di informazioni come appello alla saggezza, come richiamo a quell’incontro con sé che non è mai interamente esprimibile nei codici operazionali. Reintegrare l’esperienza umana, ricomporre l’alterità e il limite, dentro una qualche unità, è forse l’orientamento pit significativo che emerge da quest'area. i Se essere emittenti e recettori di informazioni secondo procedure codificate e criteri di efficienza diventa la regola nelle società di informazione, la chiusura, il silenzio, il ritrarsi verso il vuoto dove le parole sono solo quelle che ciascuno dice a se stesso, sono orientamenti che hanno una forza straordinaria di rovesciamento simbolico. Per quanto riguarda dunque gli orientamenti dell’azione che strutturano le aree emerge certamente un nucleo antagonista. Se il potere nelle società di informazione si esercita nel controllo sui codici, sugli organizzatori del flusso informativo, l’antagonismo sta nella capacità di resistenza, ma ancor più nella capacità di rovesciare i codici dominanti. Nominare diversamente lo spazio e il tempo, far posto alla saggezza al di là della conoscenza, esercitare una riflessività affettiva e non strumentale, sono nella pratica dei movimenti altrettanti modi per organizzare e per leggere diversamente il flusso delle informazioni, per nominare in altro modo il mondo (cfr. Sassoon, in questo volume).
3.3. I codici della pratica
L’altro livello di analisi riguarda i modi in cui l’antagonismo si esprime nella strutturazione dell’attore collettivo, cioè nel suo modo di organizzare la propria solidarietà. Le dimensioni che la ricerca ha analizzato mostrano che l’azione dei movimenti è, già nel suo strutturarsi, una pratica del cambiamento,
una sfida
rivolta al sistema. a) La struttura della mobilitazione, a termine, reversibile, fondata sulla fruizione diretta del bene partecipazione, tesa a rispondere a bisogni individuali che non distinguono pit tempo d’impegno e tempo libero, questa struttura, annuncia al sistema, al di là
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dei contenuti concreti della mobilitazione, altri codici che riguardano la definizione del tempo e il posto dell'individuo nel collettivo. Al tempo prevedibile si oppone un tempo reversibile, scandito sui ritmi individuali, sulla molteplicità delle appartenenze, sull’esigenza di sperimentare direttamente il cambiamento. La partecipazione come impegno e non come dovere, l’implicazione settoriale e a termine, la circolazione degli individui in diverse esperienze, sono altrettanti indicatori di questo rovesciamento dei codici !7. b) Ma gli aspetti che rendono pit visibile il ruolo di testimonianza e di sfida verso il sistema sono la struttura organizzativa e le relazioni di potere. Le aree funzionano come spazi aperti in cui si fanno contratti continuamente negoziabili. L'organizzazione deve assicurare questa negoziazione, deve cioè permettere che l’azione collettiva sia il risultato di un processo contrattuale e riflessivo) L'attenzione costante, nei gruppi analizzati, alla qualità delle relazioni interne, implica un riconoscimento dei rapporti di potere, cioè un riconoscimento delle differenze e dei rischi che ad esse sono connessi. Il tentativo di tenere sotto controllo questa dimensione attraverso un’intensificazione dell’attività autoriflessiva contiene a sua volta un rischio permanente di avvitamento dei gruppi su se stessi. Ma nello stesso tempo evidenzia il carattere contrattuale e riflessivo della relazione. Non si è ciò che si è, ma ciò che si sceglie di essere. Questa implicita contrattualità fonda anche la relazione tra i nuclei professionalizzati e il resto dell’area. Se i primi contribuiscono a strutturare l’identità collettiva e ad alimentarla, sanno
anche che è solo fornendo un certo tipo di beni simbolici e rispettando il modello di relazioni che ho ing che potranno mantenere il loro ruolo. La struttura organizzativa delle aree e le relazioni di potere hanno un significato di opposizione verso i codici dominanti. Dicono infatti che rendere visibile il potere significa non già
17 Ciò non significa che vengano meno gli aspetti «economici» della mobilitazione, le dimensioni del calcolo e dello scambio [si vedano per esempio Boschen 1975, Ceri 1979, Zurcher e altri 1980, Freeman 1983, Jenkins 1983]. Ma la forma della mobilitazione acquista significato simbolico: l’antagonismo si situa al di qua dei contenuti, nella strutturazione dei codici. Questi caratteri della mobilitazione inducono a discutere l’alternativa exit-voice proposta da Hirschman [1982]: i compensi affettivi e individuali riducono notevolmente l’interesse di perseguire vantaggi particolaristici, attraverso la scelta di exit. Per una discussione di Hirschman, Gallino [1983].
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annullarlo, ma sottoporlo al contratto. Ricordano inoltre che i patti con un potere invisibile sono sempre falsi. Rifiutano cioè una logica dello scambio in cui non viene resa esplicita l’asimmetria che lo caratterizza. In sistemi che occultano e neutralizzano i luoghi del potere, il valore di questa sfida è molto profondo !8. Il nucleo antagonista che ho cercato di mettere in evidenza sta insieme ad altri significati. I saggi di questo volume hanno mostrato in maniera puntuale il funzionamento dei livelli specifici, senza annullarli in una interpretazione globale. Ciò che ho proposto qui come lettura d’insieme dei risultati della ricerca è una applicazione del criterio di metodo enunciato all’inizio del volume. La ricerca di significati antagonisti dell’azione avviene dopo che altri criteri di spiegazione sono stati utilizzati e spiega ciò che nei comportamenti sfugge a questi criteri. In particolare un carattere osservato sfugge ad ogni spiegazione in termini di scambio: il carattere sempre più formale e autoriflessivo dell’azione dei gruppi, che sembra rendersi autonoma dai contenuti che può assumere via via. Una interrogazione sulla forza dell’azione, sul suo carattere di codice, apre la strada ad una lettura dei suoi significati antagonisti. Nello stesso tempo il nucleo antagonista che attiene ai codici formali non vive separato dai contenuti concreti che l’azione assume. Pi l’azione coincide coi suoi contenuti, più il gruppo coincide con ciò che fa e non col come lo fa, pi la sfida perde di forza e il gruppo si istituzionalizza. La ricerca spirituale diventa una chiesa, la cultura giovanile una moda che il mercato integra e rapidamente consuma, i temi del femminismo un rinnovamento del costume e della morale. L’istituzionalizzazione sposta il terreno dei conflitti ad altre issues e ad altri attori. Si può ipotizzare che un alto grado di variabilità dell’azione del gruppo favorisca una autonomia delle forme dai contenuti dell’azione, e una maggiore capacità di utilizzare la portata antagonista dei codici. L’antagonismo dei movimenti ha carattere eminentemente comunicativo !9. Essi offrono al resto della società altri codici sim18 Una discussione sul potere esula dall'economia di questo saggio. Per una riflessione recente sulle dimensioni relazionali del potere Rus [1980], Castelfranchi [1978], Ceri [1981].
19 Questo è sempre stato vero per le azioni di protesta e anche per la violenza. La differenza riguarda l’ampiezza del ricorso al simbolo (è ormai difficile distinguere tra espressivo e strumentale), e il grado di simbolizzazione (qui la comunicazione riguarda i codici). Il terrorismo, particolarmente quello contemporaneo, rappresenta la forma estrema di comunicazione violenta, ancora dentro il modello tradizionale a basso contenuto simbolico e ad alto contenuto «reale». Sulla violenza
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bolici che rovesciano la logica di quelli dominanti. Si possono individuare tre modelli di azione comunicativa: a) la profezia: l'annuncio qui è che il possibile è già reale nell’esperienza diretta di coloro che inviano il messaggio; la lotta per il cambiamento è già incarnata nella vita e nelle forme di strutturazione del gruppo. La profezia testimonia in maniera esemplare la contraddizione che ho segnalato poco sopra. Il profeta infatti parla sempre a nome di un altro, ma non sempre può evitare di presentare se stesso come modello del messaggio che annuncia 2°. Cosf i movimenti mentre si battono per rovesciare i codici, diffondono culture e stili di vita che entrano nel circuito del mercato o dell’istituzione;
b) la seconda modalità è il paradosso: qui l’arbitrio del codice dominante appare attraverso la sua esasperazione o il suo capovolgimento; c) la terza forma è la rappresentazione: qui il rinvio consiste in
una riproduzione simbolica che separa i codici dai contenuti che abitualmente li occultano; essa si può combinare con le forme precedenti (i gruppi ricorrono largamente a forme di rappresentazione, come il teatro, il video, ecc.).
Nei tre casi, comunque, i movimenti funzionano verso il resto della società come dei media [Marx e Holzner 1977; Sassoon, in questo volume] di tipo particolare, la cui funzione principale è quella di portare alla luce ciò che un sistema non dice di se stesso, la quota di silenzio, di violenza, di arbitrio che sempre caratterizza i codici dominanti. L'azione dei movimenti dunque come simbolo e come comunicazione. Scompare qui la vecchia distinzione tra significato strumentale e significato espressivo dell’a-
zione, perché nell’esperienza delle aree i risultati dell’azione e la sperimentazione individuale di nuovi codici tendono a coincidere. E inoltre perché l’azione, prima e oltre che a risultati calcolabili,
tende a modificare le regole del comunicare. 3.4. Silenzio e azione
Dalla ricerca emerge un modello di funzionamento delle aree a due poli. La situazione normale è una rete di piccoli gruppi sommersi nella vita quotidiana, che richiedono una implicazione pernei suoi aspetti di comunicazione Graham e Gurr [1979], Schmid e De Graaf [1982]. Sul terrorismo Della Porta e Pasquino [1983], Galleni [1981], Caselli e Della Porta [1983].
20 Sul profetismo e sui profeti si veda Vidal [1977].
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sonale nello sperimentare e nel praticare modelli culturali. Questi reticoli emergono solo su specifici problemi (per esempio mobilitazioni per la pace). La rete sommersa, sebbene sia composta da piccoli gruppi separati, è un circuito di scambi. Individui e informazioni circolano lungo il reticolo e alcune agenzie (i nuclei professionalizzati) assicurano una certa unità dell’area. La rete som-
mersa: 4) permette una appartenenza multipla; 4) è part-tizze sia rispetto al corso di vita, sia rispetto al tempo che assorbe; c) l’implicazione personale e la solidarietà affettiva sono una condizione per la partecipazione. Il modello a due poli mette.in evidenza che latenza e visibilità hanno diverse funzioni e sono legate reciprocamente. a) La latenza permette di sperimentare direttamente nuovi modelli culturali, favorisce il cambiamento attraverso la costru-
zione di significati e la produzione di codici. Questa produzione culturale si oppone spesso alle pressioni sociali dominanti. La latenza è una sorta di laboratorio sommerso dell’antagonismo e dell’innovazione. 5) Quando i piccoli gruppi emergono lo fanno per confrontarsi con un'autorità politica su terreni specifici. La mobilitazione ha una funzione simbolica su diversi piani: da una parte annuncia l'opposizione alla logica che guida il decision-making rispetto ad una specifica politica pubblica; nello stesso tempo la mobilitazione opera come una media, indica cioè al resto della società il legame tra il problema specifico e la logica dominante nel sistema; infine annuncia che sono possibili dei modelli culturali alternativi, che già l’azione collettiva pratica e dimostra. La mobilitazione unifica sia le spinte di innovazione culturale, sia le spinte antagoniste, sia eventualmente le altre componenti che convergono nell’area di movimento. Questi due poli sono reciprocamente connessi. La latenza rende possibile l’azione visibile, perché la alimenta con risorse di solidarietà e producendo il quadro culturale su cui avviene la mobilitazione.
Questa a sua volta rafforza i reticoli sommersi,
provvede energie per rinnovare la solidarietà, crea nuovi gruppi, recluta nuovi militanti attratti dall'azione pubblica che rifluiscono poi nel reticolo sommerso. La mobilitazione favorisce anche l’istituzionalizzazione di certe frange del movimento e di nuove
élites formatesi nell’area. Il mantenimento e l’efficacia di questo modello appaiono legati ad alcune condizioni: î) una elevata variabilità dell'ambiente che impedisce ai gruppi del reticolo sommerso di avvitarsi su se stessi;
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îî) una elevata elasticità del sistema politico, che non ostacola le delicate fasi del passaggio dall’uno all’altro polo; iti) l’esistenza di agenzie di area e di organizzazioni-ombrello, o di organizzazioni temporanee, in grado di assicurare le comunicazioni interne (soprattutto le prime, nella fase di latenza) ed esterne (soprattutto le seconde, nella fase di mobilitazione). Que-
ste forme di leadership sono compatibili con una strutturazione policefala dei gruppi e non ostacolano la strutturazione tipica delle aree 2!. Il modello a due poli sembra indicare nelle fasi di mobilitazione il momento del contatto diretto coi sistemi politici. Nelle fasi di latenza i nuclei professionalizzati mantengono contatti, prevalentemente strumentali, con qualche settore delle istituzioni politiche. Se l’obiettivo della mobilitazione è prevalentemente simbolico, qual è l'interesse dei movimenti a entrare in una logica di scambio, che è sempre una logica di rappresentanza? Il motivo principale sembra risiedere nell’esigenza per gli attori collettivi di salvaguardare spazi di autonomia dal sistema, in cui praticare già oggi il cambiamento. In questo laboratorio, come si è visto, si preparano i modelli formali, che le mobilitazioni riempiono di contenuti su specifici obiettivi. Dunque il rapporto coi sistemi politici, in qualche forma di scambio, rappresenta una condizione per salvaguardare o estendere questa autonomia. Un rapporto di questo genere può avvenire solo all’interno di un patto, 1 non è il fondamento dello scambio, ma solo una condizione per il suo proseguimento. Dunque un patto a termine e di portata variabile. Questa logica comincia a delinearsi nell’azione svolta dalle organizzazioni-ombrello e dalla agenzie nel corso della mobilitazione. Il patto, cioè lo scambio circoscritto e reversibile con le istituzioni, rende contemporaneamente visibile il potere. Un potere di solito neutralizzato dietro procedure, esce allo scoperto e prende responsabilità, cioè esercita autorità, in un patto. Diventa cosf possibile per i movimenti misurare la distanza che li separa dal potere, ma anche accettare, disincantati, il confronto.
21 Sul ruolo delle minoranze attive si veda Moscovici [1979]; sulla struttura policefala, Gerlach e Hine [1970].
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BIBLIOGRAFIA
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BIBLIOGRAFIA
La bibliografia ragionata che precede la lista dei riferimenti ha il duplice scopo di fornire al lettore alcuni orientamenti e di completare il quadro degli strumenti bibliografici utilizzati per la ricerca. Le singole voci della bibliografia ragionata sono state predisposte dagli autori dei saggi. L’editing dell’intera bibliografia è di Paolo R. Donati e Mario Diani. I volumi compaiono nella edizione in cui sono stati consultati, con l'indicazione della eventuale traduzione italiana, o viceversa, dell’edizione originale.
1. Imovimenti nelle società contemporanee
La definizione del campo in cui si situano i movimenti è problematica. L'analisi delle trasformazioni delle società contemporanee può essere ricondotta alla categoria della complessità: per una definizione del paradigma della complessità si veda Zolo [1983], Rusconi [1979]. Tra le analisi che vanno in questa direzione Luhmann [1983], Gallino [1979]. Per un quadro d’insieme
dei problemi e degli autori Pasquino [1983]. Un’altra direzione dell’analisi contemporanea parla di società post-industriale: per una rassegna e una discussione delle posizioni che vanno in questo senso si veda Gustaffson [1979], Kumar [1978], Kivisto [1980-81]. Vi sono poi analisi che sottolineano i problemi connessi al governo della complessità, soprattutto dopo che l’estensione dei sistemi di Welfare ha reso labili i confini tra stato e società civile: si vedano in questo senso Ardigò [1980], Gallino [1981], Dahrendorf [1981], Offe [1982].
Vi sono poi altri studi che mettono in evidenza i mutamenti culturali: l’emergere di valori post-materiali [Inglehart 1977], le difficoltà a mantenere i confini tradizionali dell'identità [Berger 1977; Bensman e Lillienfeld 1979], lo stemperarsi dei confini tra
pubblico e privato e il ripiegamento narcisistico della cultura [Sennet 1976; Lasch 1981]. Molti sono gli studi che segnalano l’importanza della dimensione simbolica per ristabilire il senso
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dell’azione individuale e collettiva: tra gli altri si vedano Robertson [1978], Crespi [1982], Sciolla [1983], Klapp [1978]. In questo
contesto si segnala anche l’importanza crescente di bisogni di tipo qualitativo [Ravaioli 1982]. I movimenti contemporanei fanno dunque riferimento a questo mutato contesto. Lasciando da parte gli studi generali sui movimenti o su singoli aspetti, che vengono esaminati nelle sezioni successive, si possono segnalare, qui gli studi che evidenziano il carattere specifico dei movimenti contemporanei e lo connettono alle trasformazioni del sistema. Vanno in questa direzione gli studi di Touraine [1975, 1981, 1982c]; per ipotesi più circoscritte si veda Ergas [1982], Balbus [1982], Marx e Holzner [1977].
Per l’analisi dei movimenti emergenti nei diversi contesti nazionali, oltre ai numerosi riferimenti contenuti nelle sezioni che seguono, si vedano Alberoni [1979], Manconi [1983], Della Porta [1981], Gundelach: [1982], Les Revolutions minuscules [1981].
2. Giovani e movimenti giovanili
Alcune analisi di carattere generale sul concetto di gioventù e sul rapporto tra giovani generazioni e società adulta sono: Alberoni [1977], Ariès [1968, 1979], Eisenstadt [1956], Erikson [1974], Gillis [1981], Goodman [1971], Lapassade [1971], Mannheim [1974], Mead [1964], Palmonari [1979].
A partire dagli anni Sessanta le contraddizioni proprie della condizione giovanile nella società di massa sono state assunte da larghi strati di giovani come referente per azioni collettive di tipo conflittuale. Cosf i problemi legati allascolarizzazione di massa sono stati a lungo oggetto di conflitto e hanno dato vita a una vastissima letteratura. Come faremo anche in seguito, le indicazioni .si orientano verso i contributi più recenti; per l’Italia: Alquati e altri [1978], Barbagli [1978], Benevolo [1979], CENSIS [1983], Cesareo [1979], Dei e Rossi [1978], De Masi [1978], Ferrarotti [1977], Statera [1977]. Perla Francia: Boudon[1979], Bour-
dieu [1978]. Per l'Inghilterra: Corrigan [1979], Willis [1977]. Per un'analisi comparata dei sistemi scolastici europei: Draghiccio [1980], Ziglio [1977]. Per gli stessi problemi negli Stati Uniti: Bowles e Gintis [1976], Chiaretti e Vay [1977], Martinelli [1978].
Il difficile inserimento della forza lavoro giovanile nel mercato del lavoro è un fenomeno altrettanto dibattuto: Bolasco e altri [1983], Botta [1981], Cafarelli [1978], Cacace [1983], Capecchi
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[1980, 1981, 1983], De Lillo [1981], Frey [1982], Ocse [1979], Olivelli [1981], Paci [1982], Semeraro [1982], Vazzoler e Leon [1981], Venni e Sansò [1981]; una bibliografia ragionata esaustiva
di tutti gliaspetti del problema in De Masi [1983]. Per la situazione del mercato del lavoro giovanile negli Stati Uniti: Osterman [1980]; per l'Inghilterra: Piccone Stella [1982]; per una compara7a 1 livello internazionale: Hartmann [1982], Ventrella e altri 1981].
Sul problema dei rapporti generazionali all’interno delle strutture familiari: Baglioni e altri [1973], Balbo [1977], Bartoli e altri
[1981], Bettin [1982], Ricolfi e Sciolla' [1980], Willis [1983], Vivere insieme [1977].
ruolo delle avanguardie giovanili nei processi della cultura
di massa è analizzato da: Belz [1975], Borgna [1983], Carrera [1980], Eco [1964, 1977], Hall e Jefferson [1976], Heath [1977], Hebdige [1979], Nuttal [1969], Roszak [1971], Willis [1978].
Rositi
[1971,
1978,
1981],
Le contraddizioni di cui i giovani sono portatori si sono risolte anche in fenomeni di comportamento deviante: Arnao [1979], Balloni e Guidicini [1981], Barbano [1982], Barbero Avanzini [1981], Boffi e altri [1981], Cancrini [1980], De Angelis [1981], De Leo [1978], Di Cristofaro Longo [1981], Ferrarotti [1977-80],
Rusconi e Blumir [1979], Statera [1980]. Tuttavia gli esiti più rilevanti della presenza giovanile nelle società complesse hanno riguardato l’agire politico e i processi del cambiamento sociale. Per gli Stati Uniti esistono diversi tentativi di riconsiderazione critica dei movimenti giovanili (e non) degli anni Sessanta e Settanta: Foss e Larkin [1976], Freeman [1983],
Kriesberg [1978], Martinelli [1978], Rothman e Lichter [1978], Bengston e Laufer [1974], Youth Protest in the 60°s [1980]. Per la Francia: Della Porta [1981] Feenberg [1978]. Per la Germania Occidentale e il Nord Europa: Barbi [1982], Bruckner [1982], Collotti e Castelli [1982], Colosio e altri [1982], Lichter [1979], Rampini [1981], Tarozzi [1982]. Per l’Italia: Manconi [1983], Melucci [1977, 1982]. Per un confronto a livello internazionale:
Beccalli [1981]. Per i rapporti tra azione collettiva e modernizzazione politico-istituzionale: Tarrow [1982, 1983a, 1983b, 1983c]. Le fasi di mobilitazione giovanile che hanno caratterizzato il «caso italiano» sono come è noto il movimento del ’68, il movimento del ’77, la partecipazione studentesca al movimento per la pace degli anni Ottanta. Per testimonianze sul ’68: Dal ’68 ad oggi [1979], Boato [1979], Bobbio [1979], Corvisieri [1976], Curcio e Rostagno [1980], Degli Incerti [1977], Fonti Bellati e altri [1980],
451
Libertini [1979], Mariotti [1975], Perini [1979], Protti [1979],
Sinibaldi e Sarno [1977], Sofri [1976], Veltroni [1981], Viale [1978], Ricci [1978], Rostagno [1979], Rostagno e Castellacci [1978]. Per un confronto a livello europeo: Statera [1973],
Teodori [1976]. Sul movimento del ’77 e sul post-’77: Altieri e altri [1983], Beccalli [1977], Berardi [1978], Bernocchi e altri
[1979], Castellano [1980], Collettivo di «Primo Maggio» [1978], Degli Esposti [1978], Dell'Acqua [1982], Lerner e altri [1978], Mercuri [1980], Moscati [1977], Sorlini [1978]. Per una ricostru-
zione storica dei due movimenti: Monicelli [1978]. Sul movimento per la pace degli anni Ottanta: Baccelli e Della Croce [1982], Hegedus [1983], Isernia [1983], Rampini [1982].
Molte analisi e ricerche sono state dedicate ai mutamenti pi recenti intervenuti negli atteggiamenti e nei comportamenti dei giovani ai diversi livelli del sociale: Alberoni [1976], AA.VV. [1979], Bassi e Pilati [1978], Bianchi e altri [1982], Cavalli [1981], D’Ascenzi [1981], De Castris [1978], De Masi e Signorelli [1978], Donolo [1977], Faccioli e altri [1979], Istituto Gramsci [1978], Inchiesta [1981], Oppo [1980], Giovani lontano. Da dove? [1982, 1983], Ricolfi e Sciolla [1980, 1981], Sciolla [1982], Tullio-Altan [1974], Tullio-Altan e Marradi [1976]. Alcune indagini
particolarmente
significative
a
livello
internazionale
sono:
Blackham e Silberman [1974], Duvignaud e altri [1975], Inglehart
[1977], Unesco [1981], Yankelovich [1973, 1974].
3. Condizione femminile e movimento delle donne
1. La produzione internazionale di studi sul movimento delle donne è ormai vastissima. Segnaliamo qui, tra i lavori con un taglio comparativo, Banks [1980 e 1981]; Beccalli [1981]; Caplan e Bujra [1978]; R.J. Evans [1978]; Michel [1981]; Bouchier [1983].
Tra i contributi riferiti particolarmente alle esperienze anglosassoni, si vedano Bardwick [1980]; Bouchier [1979]; Cassel [1977]; A. N. Constain e W. D. Constain [1983]; Deckard [1979]; S. Evans [1979]; Freeman [1975]; Glennon [1979]; Leeson e Gray [1978]; Lockwood Carden [1974, 1978]; Rowbotham,
Segal e Wainwright [1979]; MeGlen e O°Connor [1980]. Maggiormente incentrati sulla situazione europea sono invece Della Porta [1982]; Frauen [1977]; Garcia Guadilla [1981]; Kick-
bush e Troyan [1981]. 2. Sui processi di formazione dell’identità collettiva femmi-
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nile, si vedano i seguenti studi: Balbo [1978, 1981]; Balbo e Bianchi [1982]; Beck-Gernsheim [1976]; Bianchi [1981a]; Bimbi [1981]; Chiaretti [1981a, 1981b]; Chiaretti e Piazza [1982]; I/
lavoro delle donne e lo stato capitalistico [1980]; Prokop [1978]; Rossanda [1981]; Saraceno [1980-81, 1981, 1983a, 1983b]; Sheehy [1974]; I vuoto e il pieno dell'identità femminile [1982]. 3. Sul rapporto tra movimento delle donne, istituzioni e sistema politico, cfr. Flynn e Webb [1975]; Gelb [1982]; Hansen, Franz e Netemeyere-Mays [1976]; Lovendusky e Mills [1981]; Randall [1982]; Rendel [1981]; Stacey e Price [1981]; Maria Weber [1981]. 4. Della produzione sul movimento delle donne in Italia si vedano Adler-Hellman [1983]; Bianchi [1981b]; Boccia [1980]; Boccia e Pitch [1980]; Ergas [1980, 1981, 1982a, 1982b]; Fra-
botta [1978]; Freire [1979]; Grasso e Calabrò [1983]; Minetti
[1981]; Nappi e Regalia [1978]; Perrotta e Perucci [1983]. 5. Sul rapporto tra movimento delle donne e movimento operaio, cfr. ad esempio Bocchio e Torchi [1979]; Pieroni-Bortolotti [1978]; Valentini e Lilli [1979].
4. Movimenti ecologici
Per un approfondimento dei contenuti e delle idee espresse dalla cultura ecologista, si veda Commoner [1972, 1973] che
affronta tra l’altro il rapporto tra ecologia e sapere scientifico;
Conti [1977, 1983], in particolare sui nodi della crisi ambientale; Commoner [1978], Jungk [1978], Fazio [1978] e Butera [1979] sui rapporti tra energia, ambiente e sistema politico-economico. Sullo stesso argomento si veda anche Commoner e Bettini [1976]. Infine Schumacher [1977], per una prospettiva di transizione «ecologica» al socialismo. Una riflessione sulle ascendenze ideologiche, ma soprattutto utopiche, del pensiero ecologista si trava in Journès [1979] e in Cotgrove [1976]. Sul carattere materialista dei valori e dei fini
espressi dall’ecologismo ambientalista, si veda invece Cotgrove e Duff [1980, 1981]. Sulla percezione a livello sociale delle istanze ambientaliste si veda anche Hashby [1978]. Un modello per lo studio degli aspetti ecologici e sociali della «qualità della vita» ed un’altra matrice per la misurazione dei valori compaiono in Milbrath [1981].
Per la storia e per l’analisi del movimento antinucleare fran-
cese, un testo fondamentale è Touraine, Hegedus, Dubet e Wie-
453
viorka [1980]. Sullo stesso argomento si vedano inoltre Garraud [1979] e Touraine e altri [1979]. Sulle componenti organiche del movimento ecologista francese, si veda in particolare Vadrot [1978]. Due ricerche sul movimento ecologista in Alsazia compaiono in Beauchard e Klinger [1978], e Genevaux, Gesegnet e Salvan [1978]. In Vaillancourt [1981] viene proposta una analisi
del movimento ecologista del Quebec nelle sue matrici d’origine. Le strategie elettorali del movimento ecologista francese sono commentate in Bridgford [1978] e in Touraine [1981]. Sull’espe-
rienza tedesca delle Burgerinitiativen, si veda Tarozzi [1982]; nel merito del loro funzionamento interno e della capacità di pressione a livello politico-amministrativo, si veda Schenk [1981] e Bruckner [1982]. (Una attenzione particolare ai movimenti ecologisti viene dedicata, in Germania, dalla riviste: Das Argumzent e Leviathan). Numerose informazioni sul movimento degli Alternativi berlinesi si trovano (insieme a dati su movimenti urbani di
altri paesi europei) in Colosio, Crespi e Vitali [1982] e Rampini [1981].
L’interessante fenomeno delle organizzazioni di mutuo soccorso (réseau d’entraide) create dai movimenti ecologisti ed alternativi francesi e tedeschi, è analizzato in Eme e Laplume [1981] e Huber [1981]. Ancora sulle lotte ecologiste nel contesto urbanometropolitano, per quanto riguarda le esperienze francesi, si veda Cherki [1979].
Una rassegna delle strategie in uso presso gli ambientalisti in Gran Bretagna compare in Kimber e Richardson [1974], mentre informazioni sulla composizione e l’azione del movimento ecologista/antinucleare nei Paesi Bassi, sono contenute in Abma [1980]. Le origini e gli effetti a livello politico e sociale del movimento ambientalista americano vengono discussi in Downs [1972]; Gale [1972]; Schnaiberg [1973]; Bartell-George [1974] e Albrecht [1976], mentre sulla composizione del movimento antinucleare negli Stati Uniti, si vedano Leahy-Mazur [1978] e Dwyer [1983]. In Dwyer [1983] e Barkan [1979] vengono esaminate inoltre, in una prospettiva storica, le modificazioni della composizione, della struttura e delle strategie del movimento antinucleare americano. Nel merito delle strategie di questo movimento si veda anche Vogel [1980], mentre sui rapporti tra movimento e sindacato negli Usa, si veda Smith [1980]. Sempre sui movimenti ecologisti negli Stati Uniti si vedano inoltre Melkin e Pollack [1977], Skills [1975], Walsh [1981]. Un'analisi puntuale delle caratteristiche del movimento per la pace si trova in Hegedus [1983]. Sullo stesso argomento si veda
454
inoltre Mellon [1982], Isernia [1983], Armamenti, spese militari e movimenti per la pace [1983]. 5. Movimenti neo-religiosi e «nuova coscienza»
1. La letteratura sulle possibili interpretazioni dell’esperienza
religiosa nelle società post-industriali è ovviamente sterminata. A titolo puramente indicativo, e limitatamente alla sola bibliografia in lingua italiana, segnaliamo Acquaviva [1975]; Acquaviva e Guizzardi [1973]; Guizzardi [1979a, 1979b]; Ferrarotti [1978]; Bellah [1975]; Luckmann [1969].
2. Con particolare riferimento al nostro paese, si vedano sulle varie forme di religiosità popolare i saggi di De Lutiis e Macioti in Ferrarotti, De Lutiis, Macioti e Catucci [1978], nonché Guiz-
zardi, Castiglione, Prandi, Pace e Morossi [1981]. Sul movimento neo-pentecostale, Catucci [1978a, 1978b] e Castiglione [1974]. Sui fenomeni di rinnovamento e/o contestazione all’interno della chiesa cattolica, cfr. Berzano [1977]; Cuminetti [1983]; Garelli [1977]; Milanesi [1976]; Tomasi [1981]. Su Comunione e Liberazione, si vedano Bianchi e Turchini [1975], De Matteis [1976] e Montini [1978]. Sul rapporto tra misticism
ed ascetismo, Pace [1983]. 3. Sui movimenti millenaristi legati più o meno direttamente ai culti ed alle religioni del terzo mondo, cfr. Worsley [1977], Lanternari [1974] e Cashmore [1979]. Per un’informazione gene-
rale sulle sette fondamentaliste e millenariste diffuse nel mondo occidentale si vedano innanzittto Woodrow [1977] e Sandri [1978]. Di particolare interesse sono poi i lavori dedicati da Beckford ai Testimoni di Geova [1975, 1975b, 1978]. Sulla Chiesa della Riunificazione del reverendo Moon, cfr. Horowitz [1979]. Sui Bambini di Dio, Davis e Richardson [1976]; Leming e Smith [1974]. Su Scientology, Wallis [1977].
4.I fenomeni comunitari alla base di tante esperienze orientaliste si sono sviluppati in primo luogo negli Stati Uniti. Cfr. per quanto concerne la dimensione utopica ed alternativa delle comuni, Gardner [1978]; Hall [1978]; Rigby [1974]; Prieur [1976]; Lockwood Carden [1976]. Sulle comunità terapeutiche si vedano invece Marx e Ellison [1975], Marx e Holzner [1975],
Marx e Seldin [1973a, 1973b], Manders [1978]. Sulla «controcultura» occidentale, le pratiche di ricerca interiore legate all’uso di sostanze stupefacenti, il rapporto con la spiritualità orientale cfr. Bergonzi [1980], Kinsey [1977], Verni [1977], Roszak [1976],
455
Watts [1980a, 1980b] e Wells [1977]. Sui nuovi culti in Usa e la «svolta ad oriente» si vedano Cox [1978], Ellwood [1979, 1983],
Anthony e Robbins [1981]. L’esperienza dei «nuovi culti» è stata interpretata spesso, negli Stati Uniti come altrove, in termini di manipolazione e «lavaggio del cervello». Si vedano a questo proposito il fascicolo dedicato al tema dalla rivista «Society» [Braznwashing 1980], Beckford [1979], Baffoy [1978], Mac Collam [1979], Lanternari [1977]. Per un'analisi critica dei gruppi di human potential, di «crescita», ecc. si vedano Schur [1976] e Lasch [1981]. Queste interpretazioni sono a loro volta contestate da Anthony, Robbins e Schwartz [1983], e da Whutnow [1976, 1978].
5. Sull’incontro tra la società italiana, in specie il mondo giovanile, e l’Oriente, cfr. Bergonzi [1980], Vernive Cerquetti
[1976], Verni [1977]. Il lavoro di Bergonzi fornisce anche utili informazioni sui vari gruppi ed insegnamenti spirituali. Si vedano poi, sugli Hare Krishna, Bartolomei e Fiore [1981]; sui sannyasin di Rajneesh, Sarjano [1979], Hummel e Hardin [1983]; sulla Meditazione Trascendentale, Macioti [1980].
Il principale riferimento per la conoscenza delle opere dei diversi maestri è rappresentato dalle collane della casa editrice Astrolabio-Ubaldini. Cfr. inoltre, sulla dottrina di B. Rajneesh, alcune sue opere [1975, 1983]; sul buddismo tibetano, Trungpa [1976] e Verni [1981]; sul buddismo zer, Sekida [1976], Kakuzo
[1978], Senzaki e Reps [1973], Herrigel [1975]. 6. Tra le varie interpretazioni dei fenomeni orientalisti e, più in generale, della diffusione dei gruppi religiosi nelle società avanzate, segnaliamo Bird [1979]; Campbell [1978]; Seguy [1978]; Richardson [1979]; Robbins, Anthony e Curtis [1975]; Robbins e Anthony [1978]; Robertson [1979]; Tipton [1979]; Johnston [1980]; Wallis [1979a, 1979b]. Vidal [1975, 1979] esamina il pro-
fetismo ed il millenarismo in una prospettiva storica, cosf come Allan [1974]. Anche l’analisi di Alberoni [1981] fornisce utili indicazioni sui movimenti a base religiosa e carismatica. Sul problema specifico della /eadership carismatica si vedano Barnes [1978], Cavalli [1981] e Johnson [1979]. Per quanto concerne infine le modalità della «conversione» ai nuovi culti, cfr. Greil [1977]; Pilarzyk [1978]; Stark e Bainbridge [1980], Strauss [1979], Wimberley [1978].
456
6. Mobilitazione
Data la scarsa attenzione che ha ricevuto la variabile mobilitazione come oggetto di analisi a sé stante, non esistono opere sistematiche che orientino il lettore. In questo caso ci troviamo a dover riproporre una letteratura che solo in parte si è occupata del fenomeno mobilitazione. Seguendo i filoni teorici individuati nella prima parte del saggio, l’itinerario che proponiamo fa riferimento ad un numero consistente di autori. All’interno del tentativo di sistematizzazione teorica del comportamento collettivo, operato da Smelser [1963], i temi che risultano più legati alla mobilitazione sono quelli inerenti il ruolo della tensione strutturale e gli effetti della credenza generalizzata. Un legame possibile tra collective behavior e teorie psicosociologiche è offerto invece dal modello «stress-straîz», oggetto del saggio di Marx e Holzner [1977]. Nell'ambito delle teorie psicosociologiche l’analisi del ruolo della personalità nei processi di mobilitazione è offerta da Feuer [1969], Lipset [1963] e Lipset e Raab [1973], mentre Davies [1962, 1969] e Gurr [1968, 1970] sottolineano la funzione del
disequilibrio sperimentato dall’individuo o dal gruppo tra aspettative e gratificazione. Una tipologia delle diverse forme che assume tale disequilibrio si trova nel lavoro di Geschwender [1968]. Come le cause strutturali alla origine della deprivazione relativa siano state sottostimate da questo filone teorico è evidenziato da Wilson e Orum [1976], mentre la riducibilità dei diversi tipi di divario tra aspettative e gratificazioni al nesso frustrazione-aggressione è segnalato da Melucci [1976, 1982]. Il conflitto di autorità come condizione necessaria per il formarsi di un’azione collettiva costituisce la proposta di Dahrendorf [1979], il cui merito non è soltanto quello di adottare un approccio in termini di organizzazione, ma anche di sottolineare l’effetto facilitante che volta volta crisi e sviluppo possono avere. Il lavoro fondamentale all’interno della teoria della società di massa è quello di Kornhauser [1959], che individua nei soggetti sradicati o marginali gli attori privilegiati della mobilitazione. Le critiche più appropriate a questa ipotesi ci paiono quelle di Marx [1969], Freeman [1973] ed Oberschall [1973]. Per il rapporto tra sistema politico ed azione collettiva vanno segnalati i lavori di Tilly [1969, 1970, 1975, 1978] e di Pizzorno [1977, 1980, 1981, 1983].
L’approccio in termini di razionalità individuale rispetto all’adesione all’azione collettiva è proposto da Olson [1983]. Critiche
457
puntuali di questa proposta ci paiono quelle di Kanter [1968], di Fireman e Gamson [1979] e di Tilloch e Morrison [1979]. Il ruolo delle precedenti esperienze organizzative è messo in evidenza da Oberschall [1973]. La creazione di canali di mobilità
individuale come ostacolo alla mobilitazione è richiamata dal
lavoro di Hirschman [1970].
Il resource mobilization approach è il filone teorico che si sta consolidando all’interno del dibattitto sociologico attuale: l’attenzione è rivolta allo scambio di risorse tra i gruppi e l’ambiente e tra i gruppi organizzati fra di loro. Fondamentale è la lettura di McCarthy e Zald [1977]; inoltre: McCarthy e Zald [1973, 1979];
per gli aspetti organizzativi: Zald e Berger [1978]; un esempio di analisi delle strategie dei movimenti, orientata in questo senso, è quella di Gamson [1975]. 7. La leadership nei movimenti Una buona, anche se non recente, introduzione ai diversi aspetti del tema /eadership è costituita dall’antologia curata da Gouldner [1965]. Tra i contributi originali che affrontano il pro-
blema nei suoi caratteri generali, il più rilevante è ancora quello di Fiedler [1967], mentre Klapp [1964] e Loye [1977] hanno affron-
tato temi di più ampio respiro concernenti le élites sociali. Contributi rilevanti per lo studio dei fenomeni di leadership e influenza nei piccoli gruppi sono stati forniti da Hollander [1964] e da Moscovici [1981], e su questi aspetti si sono centrati anche Hamachek [1978], Rabbie e Bekkers [1978], Ridgeway [1981], N. W. Turner [1977], mentre sui connessi fenomeni di potere si
possono vedere Baldwin
[1978], Bacharach
e Lawler [1976],
French e Raven [1959], e sul potere nei contesti organizzativi Bacharach e Lawler [1981], Crozier e Friedberg [1978], Hickson,
Hinings, Lee, Schneck e Pennings [1971]. Per quanto concerne i movimenti sociali, i contributi di carattere teorico non sono molto numerosi. Il più completo è senz'altro quello di Downton [1973], mentre sono da segnalare quelli di Eichler [1977] e Roche e Sachs [1969]. Dal canto loro Cox [1965],
Gerlach e Hine [1970], Johnson [1979] e Nelson [1971] hanno prodotto analisi di singoli casi di movimenti, mentre sui gruppi giovanili si può vedere Kahane [1975] e l’oramai classico W. F. Whyte [1937] sulle garg urbane. Connesso al tema dei movimenti è il problema del carisma, affrontato, oltre che dal citato volume di Downton, da Camic
458
[1980], Johnson [1979], Worsley [1977] e Cavalli [1981] il quale presenta un’interessante interpretazione della teoria weberiana. Sulla leadership politica è da tener presente il rilevante contributo teorico di Paige [1977], mentre Barber [1965], Katovich e Weiland e Couch [1981], Pearce [1980], Peck [1963], Wood
[1975] hanno affrontato vari aspetti del rapporto tra leaders e seguaci, unitamente ad uno studio di Bonazzi [1980] sul fenomeno del capro espiatorio. Infine, sui problemi relativi alle decisioni nei gruppi e negli attori collettivi si possono vedere gli studi di Coleman [1966] e Ford, Nemiroff e Pasmore [1977].
8. Gli aspetti organizzativi dei movimenti Per un approccio generale ai problemi dell’organizzazione si ci fare riferimento ai lavori di Argyris [1970], Bacharach e Lawer [1981], Crozier e Friedberg [1978], Cyert e March [1970], Etzioni [1967], Knorr [1979], March e Olsen [1976], March e Simon [1966], Perrow [1977], Salaman e Thompson [1980], Silverman [1974].
I riferimenti teorici generali per quanto riguarda l’organizzazione dei movimenti provengono soprattutto dalla sociologia americana: Aveni [1978], Curtis e Zurcher [1973, 1974], Gamson
[1975], Gerlach e Hine [1970], McCarthy e Zald [1973, 1977], Rothschild-Whitt [1979], Wilson e Orum [1976], Zald [1970], Zald e Ash [1966], Zurcher e Curtis [1973]. Altri studi, anche
europei, hanno analizzato gli aspetti organizzativi di singoli movimenti: Bobbio [1979], Cherki [1976], Freeman [1975], Lee e Ackerman [1980], Lewis [1976], Messinger [1955], Oberschall [1978]; un’analisi storica delle forme di azione collettiva è stata invece proposta da Tilly [1976], mentre sugli aspetti orga-
nizzativi dei partiti si può vedere Panebianco [1982] e sull’organizzazione dei sindacati l’antologia curata da Gasparini [1981]. Per un’analisi delle strutture dei gruppi informali, Pagés [1975] ha analizzato il livello delle dinamiche di gruppo; Dalton [1972] e Sayles [1958] hanno analizzato il comportamento dei gruppi informali nelle imprese, mentre due studi in termini di social network, su contesti organizzativi simili a quelli dei movimenti, sono quelli di Coombs [1973] e Zachary [1977]. I diversi aspetti connessi all’identità collettiva e alla sua formazione sono stati analizzati da Allardt [1979], Galland e Louis [1981], Kergoat [1973], Oberschall [1973], Pizzorno [1977,
1978], Reynaud [1982].
459
Il problema della partecipazione è stato variamente affrontato a partire dal contributo di Olson [1965] al quale hanno fatto riferimento sia i citati studi di Pizzorno che l’analisi di Tillock e Morrison [1979]. Sul problema degli incentivi nelle organizzazioni politiche è centrale il contributo di J. Q. Wilson [1973] ed altri studi sono stati condotti da Flynn e Webb [1975], Kanter [1968, 1972], Oliver [1980], Harrison [1977] dal punto di vista del coin-
volgimento individuale. Altre analisi da punti di vista diversi sono state chielli [1980], McMahon e Camilleri Per quanto riguarda il rapporto
sul tema della partecipazione condotte da Depolo e Sar[1975], Useem [1980]. tra movimenti e ambiente,
Lauer [1972, 1976a], Barkan [1979], R. H. Turner [1970] hanno
analizzato il problema delle strategie e delle tattiche, mentre Tilly [1978] ha messo in luce l’aspetto dell’azione collettiva in rapporto alle opportunità. Gamson [1975] e Goldstone [1980] hanno affrontato il problema dell’efficacia delle fofme organizzative, mentre l’aspetto del reclutamento è al centro delle analisi di Hyman, Griffiths e Ungar [1977], Leahy e Mazur [1978], Rochford [1982], Snow, Zurcher e Ekland-Olson [1980], Thorne
[1975]. Sull’ideologia dal punto di vista organizzativo, si veda infine Panebianco [1979] e Pellicani [1979] per quanto concerne i partiti, e Lauer [1976b] e Zygmunt [1972] per i movimenti. 9. Ideologia, azione simbolica e ritualità
Della vastissima letteratura sociologica sui temi dell’ideologia, dell’azione simbolica e della ritualità, qui ha senso segnalare soltanto le opere di carattere generale utilizzate per la stesura del saggio in materia nel presente volume; cui si aggiungono quelle specificamente concernenti i movimenti sociali. Tra le prime, vanno indicate in primo luogo alcune analisi recenti, che aggiornano il dibattito sull’ideologia alle trasformazioni in corso nelle società contemporanee: vedi Manning [1980], Schmid [1981], Gellner [1978], Rossi-Landi [1982], Godelier [1978], Béteille [1978]. Il tema dell’azione simbolica è invece affrontato, sotto aspetti diversi, da Sperber [1981], Baudrillard [1979, 1980], Perniola [1980], Bourdieu [1982], Edelman [1967], Cobb e Elder [1973], Kowalewsky [1980]; nonché, in rapporto al problema dell’identità, da Sciolla [1983], riprendendo Schutz [1979] e Berger, Berger e Kellner [1973]. Delle analisi su azione simbolica e ritualità, oltre al classico lavoro di Van Gennep
460
[1908], vedi in particolare Cazeneuve [1974], Douglas [1979],
Turner [1975, 1976]. Per quanto riguarda la dimensione dei media, sono fondamentali le opere di McLuhan [soprattutto 1967]; ma è di grande interesse anche il più recente dibattito sulle nuove forme di comunicazione, ad esempio in Rositi [1982], Bell [1981], Luhmann [1981], Komatsuzaki [1981].
Tra i lavori specificamente rivolti aspetti nei movimenti sociali, vedi, per Svi Shapiro [1979], Inglehart [1977], Mangano [1982], Faeti [1981], Altan
ad analizzare questi vari l’area giovanile, anzitutto: Ricolfi e Sciolla [1981], e Marradi [1976]. Per il
movimento femminista: Elshtain [1982], Griffin [1982], Prokop [1978], Rowbotham [1973]. Per il movimento neo-religioso: D'Agostino [1977], Acquaviva [1979], Bergonzi [1980], Bartolo-
mei e Fiore [1981], Cox [1974, 1978]. E per il movimento ecologico: Touraine e altri [1980], Gorz-Bosquet [1978], Lalonde, Moscovici e Dumont [1978], Racine [1982]. 10. Orientamenti recenti della ricerca qualitativa
Anzitutto va segnalato l’interesse per la comparazione dei metodi qualitativi e quantitativi e per la ricerca di nuove vie di ricerca nelle scienze sociali: si veda in tal senso Bulmer [1981], Morgan [1983], Zeller e Carmines [1980], Mehan [1982].
In generale sugli orientamenti qualitativi e sui metodi di ricerca si veda Bogdan e Taylor [1975], Schwartz e Jacobs [1980] e per l’accento messo sulla dimensione «creativa» di questo tipo di ricerca Morris [1977]. E inoltre, Eriksson [1978], Van Maanen [1982]. Molti approcci sperimentali esplorano nuove strade per risolvere nuovi problemi: dalla «sociologia clinica» che applica metodi clinici all'osservazione e al trattamento di gruppi [Glassner e Freedman 1979], alla bebavioral sociology che applica le premesse del behaviorismo all’analisi e all'intervento sui gruppi (con intenti di tecnologia sociale, ma talvolta con interessanti soluzioni sperimentali): si vedano a questo proposito Burgess e Bushell [1969], Kunkel [1975], Hamblin e Kunkel [1977], Michaels e Green 1978]. ; Il rinnovato interesse per la dimensione individuale, intima, delle condotte, oltre che dai contributi essenziali di Goffman e dell’etnometodologia (vedi oltre), è testimoniato dalla rinnovata
funzione che la ricerca biografica assume in sociologia. Tra i numerosi studi si veda Chevalier [1979], Williame [1978], Caval-
461
laro [1981]. Per una discussione esauriente Ferrarotti [1981], Ber-
taux [1981]. Nella direzione di rivalutare gli aspetti emozionali del comportamento individuale, vanno approcci come la «sociologia esistenziale» [Douglas e Johnson 1977] e la «sociologia delle emozioni» [Kemper 1978, Shotts 1979]. Per una critica, Bogart [197
Il contributo di Goffman al rinnovamento degli orientamenti qualitativi è ancora difficile da misurare, ma non c’è dubbio che molti sviluppi in questo campo sono legati al suo nome [1967, 1969, 1971, 1974]; si veda tra gli altri Sudnow [1972], Psathas [1973], Douglas [1970]. In una direzione autonoma, ma con molti punti di contatto vanno gli sviluppi dell’etnometodologia: dagli studi iniziali [Garfinkel 1967, Garfinkel e Sachs 1970, Cicourel 1964, 1974] un campo di ricerche e di dibattito si è aperto e continua ad arricchirsi. Per alcuni esempi del dibattito Pfohl [1975], Mehan e’ Wood [1975], Cicourel [1981]. Una rassegna e una discussione del contributo etnometodologico si trova in Zimmermann [1979], O’Keefe [1979], Giglioli e Dal Lago [1983]. Un filone di studi in espansione è quello dei metodi di intervento sul campo, legati in particolare alla realizzazione delle politiche sociali e alla loro valutazione. Si veda per esempio Seidman [1983], Fairweather e Tornatzky [1977], Riecken e Boruch [1978], Quinn Patton [1980, 1981].
Nel campo dell’intervento istituzionale va ricordata l’analisi istituzionale e la socioanalisi:
si veda Hess [1975,
1981], La
recherche-action dans l’institution educative [1977]. Nella stessa linea si veda Analyse sociale et intervention [1977], Ninane [1978], Lerbet [1980]. In direzione analoga si muovono i metodi di ricerca-azione: Moser [1977], Kremer e Klem [1978]. Per una discus-
sione di questi metodi: Oquist [1978], Exner [1981]. Un metodo particolare di intervento sul campo è quello utilizzato da Morin [1979].
Possiamo ora considerare specifici aspetti e tecniche legate alla ricerca qualitativa. Per l’intervista in profondità si veda Banaka [1981], Gilbert [1980]. Per quanto riguarda l’analisi dei
ruoli e i giochi di ruolo: Yardley [1982], Bonacich e Light [1978], Ancelin-Schutzenberger [1975], Stein Greenblat e Gaskill Baily [1978]. Un capitolo su cui esiste una letteratura sterminata è
quello dell’osservazione partecipante. Per un’introduzione generale ai metodi di lavoro sul campo cfr. Burgess [1983]. Tra i contributi recenti che sono risultati utili per questa ricerca si veda Anguera-Argilaga [1979], Handel [1979], Starr [1979], Whyte [1979], Hilbert [1980], Snow [1980]. Per una discussione dei pro-
462
cedimenti di osservazione in contesto naturale Gallino [1980-81]. Infine per l’analisi dei comportamenti non verbali si veda Ricci Bitti e Cortesi [1977], Druckman, Rozelle, Baxter [1982]. Un capitolo a parte nell’ambito degli orientamenti qualitativi occupano infine le tecniche e i giochi di simulazione. Per una riflessione teorica sulla simulazione e sul gioco in sociologia: Dal Lago
[1978],
Coleman
[1969],
Greenblat
[1971],
Ham-
burger [1979], Inbar e Stoll [1972]. Una rassegna della letteratura sul tema si trova in Greenblat [1972]. Problemi legati alla costruzione e alla valutazione dei giochi sono discussi in Megarry [1977] e Dukes e Waller [1976]. Specifiche applicazioni, presentazioni e analisi di giochi si trovano in Gamson [1971], Geiger [1975], Laver [1979], Stadsklev [1975], Muir [1979], Stein Greenblat e Duke [1982].
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NOTIZIE SUGLI AUTORI
Cinzia BARONE collabora al LAMs Laboratorio di ricerca sui movi-
menti sociali e l’azione collettiva nel Dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano. MARINA BIANCHI è ricercatrice nell'Università di Trento e fa parte del gruppo interuniversitario GrIFF. Ha pubblicato I servizi Sociali (1980).
Maro Diani svolge ricerche al Lams. È coautore con A. Melucci di Nazioni senza stato (1983). PaoLo R. Donati collabora al LAMs nel Dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano.
Marco GraziIOLI si occupa di formazione in una grande azienda e collabora alle ricerche del LAMS. GiovannI Lopi è ricercatore nel Dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano. Maria MormIno insegna sociologia nella Scuola Regionale di Servizio Sociale di Milano ed è collaboratrice del LAMs. JosePH SAssoon è ricercatore nel Dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano.
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7
Finito di stampare nel mese di gennaio 1984 dalle Grafiche Galeati di Imola
STUDI E RICERCHE . Sabino S. Acquaviva, Automazione e nuova classe . Edward C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata . Lidia De Rita, I contadini e la televisione vv hs N
. Francesco Alberoni - Guido Baglioni, L'integrazione dell’immigrato nella società industriale
. Guido Baglioni, I/ conflitto industriale e l’azione del sindacato . Gordon J. Di Renzo, Personalità e potere politico
Franco Demarchi, Sociologia di una regione alpina . Agopik e Franca Manoukian, La Chiesa dei giornali 0SU N . Carlo Doglio, Da/ paesaggio al territorio. Esercizi di pianificazione territoriale
10. Sandro Spreafico, Un’industria, una città. Cinquant'anni alle officine «Reggiane»
EL. Umberto Romagnoli, Contrattazione e partecipazione. Studio di relazioni industriali in una azienda italiana 12: Gavino Musio, La cultura solitaria. Tradizione e acculturazione nella Sardegna arcaica 43, Stefano Passigli, Erzigrazione e comportamento politico 14. Marzio Barbagli - Marcello Dei, Le vestali della classe media. Ricerca sociologica sugli insegnanti 13; Tiziano Treu, Sindacato e rappresentanze aziendali 16. Anna Laura Fadiga Zanatta, I/ sistema scolastico italiano LI, Alessandro Bruschi, La teoria dei modelli nelle scienze sociali 18. Maria Luisa De Cristofaro, La giusta retribuzione DO. Gennaro Guadagno - Domenico De Masi, La negazione urbana. Trasformazioni sociali e comportamento deviato a Napoli 20. Romano Prodi, La diffusione delle innovazioni nell'industria italiana DA Carlo Doglio - Leonardo Urbani, La fionda sicula 22: Marco W. Battacchi, Meridionali e settentrionali nella struttura del pregiudizio etnico in Italia
23: Bruno Veneziani, La mediazione dei pubblici poteri nei con{litti collettivi di lavoro
24. Maria Luisa Paronetto Valier, Problemi dell’educazione in Africa 253 F. Carugati, G. Casadio, P. Lenzi, A. Palmonari, P. Ricci Bitti, G% orfani dell’assistenza
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diritto ; M. Livolsi, A. Schizzerotto, S. Porro, G. Chiari, La mac30. china del vuoto. Il processo di socializzazione nella scuola elementare 23 Marina Mizzau, Prospettive della comunicazione interpersonale Id: Gaetano Veneto, Contrattazione e prassi nei rapporti di lavoro 33; Soluzione e impiego di modelli econometrici, a cura di Giuseppe Parenti
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dk Paolo Bosi - Filippo Cavazzuti, Gli strumenti fiscali dell’economia italiana
29. Annamaria Gentili, Elites e regimi politici in Africa Occidentale
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64. M. Fidanza, M. Gamba, A. Martinelli, T. Treu, La mediazione della Regione nei conflitti di lavoro: l’esperienza lombarda 65. Giovanni
Zanetti,
Le
motivazioni
all’investimento
nella
grande impresa 66. Continuità e mutamento elettorale in Italia, a cura di Gianfranco Pasquino e Arturo Parisi 67. Lucio Sicca, L'industria alimentare in Italia 68. Graziella Marzi - Paolo Varri, Variazioni di produttività nell’economia italiana: 1959-1967
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Tg: Giuseppe Mosconi, I/ pensiero discorsivo 78. Occupazione e capacità produttive: confronti internazionali, a cura di Pietro Alessandrini 1. Lavoro regolare e lavoro nero, saggi di M. Ioly, M. G. Montanari, G. Canullo 2. Struttura della forza lavoro e sviluppo economico, saggi di L. Robotti e G. Galeazzi 3. Conflittualità e aspetti normativi del lavoro, saggi di M. Benetti, M. Regini e M. A. Romeo 4. Costo del lavoro e occupazione, saggi di R. Schiattarella e G. Canullo
5. Retribuzioni, produttività e prezzi, saggi di R. Mazzoni, G. Fuà, G. Vaciago, M. Crivellini e P, Ercolani 6. Specializzazione e competitività internazionale dell’Italia, saggi di G. Conti, F. Falcone, C. Antonelli e G. Garofalo
re) Corrado de Francesco - Paolo Trivellato, La laurea e il posto 80. Valeriano Balloni, Origini, sviluppo e maturità dell'industria degli elettrodomestici 81. Cristiano Antonelli - Bruno Lamborghini, Impresa pubblica e tecnologie avanzate; il caso della Stet nell’elettronica
82. Carlo Trevisan, Per una politica locale dei servizi sociali. La lunga marcia di avvicinamento all’unità locale 83. Brano a brano. L’antologia d'italiano nella scuola media inferiore, a cura di Carlo Ossola
84. La struttura del sistema creditizio italiano, a cura di Guido Carli 85. Alberto Massera, Partecipazioni statali e servizi di interesse pubblico 86. Giuseppe Di Palma, Sopravvivere senza governare 87. Per una educazione linguistica razionale, a cura di Domenico Parisi
88. Lauro Colombini, Le Regioni non spendono? 89. Francesco Onida, Industria italiana e commercio internazionale
90. Graziella Pent Fornengo, L'industria italiana dell’abbiglianento
91. Valeria Mazzarelli, Le convenzioni urbanistiche
sz: Investimenti e disoccupazione nel Mezzogiorno,
a cura di
Augusto Graziani e Enrico Pugliese 495 Il movimento degli scioperi nel XX secolo, a cura di Gian Primo Cella
94. Le regioni del Mezzogiorno, a cura di Vera Cao-Pinna 95. Franco Gallo, L'autonomia tributaria degli Enti locali 96. Capitale industriale e capitale finanziario: il caso italiano, a cura di Fausto Vicarelli ia Alberto Niccoli, Razionarzento del credito e allocazione delle risorse
98. Sidney Tarrow, Tra centro e periferia. Il ruolo degli amministratori locali în Italia e in Francia 99; A. Palmonari, F. Carugati, P. Ricci Bitti, G. Sarchielli, Identità imperfette 100. Ada Becchi Collidà, Politiche del lavoro e garanzia del reddito in Italia 101 R. Taranto, M. Franchini, V. Maglia, L'industria italiana della macchina utensile 102. Maurizio
Cotta, Classe politica e parlamento in Italia
1946-1976 103. Daniela Del Boca - Margherita Turvani, Famiglia e mercato
del lavoro 104. Pier Paolo Giglioli, Baroni e burocrati 105. Emilio Reyneri, La catena migratoria 106. M. Livolsi, R. Porro, A. Schizzerotto, Per una nuova scuola dell’obbligo 107. Massimo Livi Bacci, Donna, fecondità e figli. Due secoli di storia demografica italiana 108. L'imprenditore assistito, a cura di Raimondo Catanzaro 109. Rainer Masera, Studi sull’unificazione monetaria e lo SME 110. Franco Bruni - Angelo Porta, I/ sisterza creditizio: efficienza e controlli 111. Paolo Palazzi - Paolo Piacentini, Domanda di lavoro e produttività nell'industria italiana 112. Marco Cammelli, L’amzministrazione per collegi. Organizzazione amministrativa e interessi pubblici
143, Vincenzo Pontolillo, I/ sistema di credito speciale în Italia 114. Domenico Borghesi, Contratto collettivo e processo 115. Emidio De Felice, I cognomi italiani 116. Pino Arlacchi, Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale 117. Dario Salerni, I/ sistema di relazioni industriali in Italia 138. I partiti comunisti dell'Europa mediterranea, a cura di Heinz Timmermann £19. DavidJ. Kertzer, Famziglia contadina e urbanizzazione. Studio di una comunità alla periferia di Bologna 120. Serafina Cernuschi Salkoff, La città senza tempo. Studio socio-antropologico di Comacchio e le sue valli I2I: Stefano Bartolini, Riforma istituzionale e sistema politico. La Francia gollista 422: Ettore Gallo, Sciopero e repressione penale 123. Per la riforma della finanza locale, a cara di Emilio Gerelli 124. Enzo Roppo, I/ giudice nel conflitto coniugale 125: La legge bancaria. Note e documenti sulla sua storia segreta, a cura di Mario Porzio
126. M. Gattullo, A. Genovese, M.L. Giovannini, G. Grandi, E. Lodini, Dal sessantotto alla scuola. Giovani insegnanti tra conservazione e rinnovamento
12%: Fulco Lanchester, Sisterzi elettorali e forma di governo 128. Pietro Alessandrini - Giuliano Conti, Commercio estero e allargamento della CEE
125: Leonardo Morlino, Dalla democrazia all’autoritarismo 130. Umberto Bertelè - Francesco Brioschi, L'economia agro-alimentare italiana 181. Lucia Lumbelli, Educazione come discorso. Quando dire è fare educazione 132. Pierluigi Ciocca, Interesse e profitto. Saggi sul sistema creditizio
135ì Le «150 ore» nella Regione Emilia-Romagna. Storia e prospettive. Ricerca promossa dall’IRPA in collaborazione con la Federazione Regionale CGIL, CISL, UIL e coordinata da Vittorio Capecchi 1. V. Capecchi, G. Ghiotto, E. Guerra, L. Mascellani, M. Miegge, G. Morelli, E. Morgagni, Famziglia operata, mutamenti culturali, 150 ore
2. 3.
E. T. Saronne, Viaggio nell'italiano popolare P. Nobili, Motivazioni all’apprendimento delle lingue
4.
straniere G. Candela,
5.
E. Guerra, M. Palazzi, E. Schiavina,+ cage storico-sociale e programmazione didattica. Analisi ed esperienze nei corsi delle 150 ore Giovanna Cantoni De Sabbata, L'insegnamento della
‘matematica e delle scienze 6.
F. Fantoni, M. Merelli, M. Morini, P. Nava, A. Remaggi, G. Rossetti, M. G. Ruggerini, Donne a scuola. Bisogno di conoscenza e ricerca di identità
134. Joan Edelman Spero, I/ crollo della Franklin National Bank 135. Psicologi. Ricerca socio-psicologica su un processo di professionalizzazione, a cura di Augusto Palmonari 136. CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali), Bologna. Stili di vita e istituzioni in una società consolidata 3
Vittorio Denti, Un progetto per la giustizia civile
138. L’Europa sindacale agli inizi degli anni ’80, a cura di Guido Baglioni e Ettore Santi 139. Luigi Ambrosoli, La scuola în Italia dal dopoguerra a oggi 140. Insegnare stanca. Esercizi e proposte per l'insegnamento dell’italiano, a cura di Pier Marco Bertinetto e Carlo Ossola 141. Enzo Grilli, Materie prime ed economia mondiale 142. Giuseppe A. Micheli, I nuovi Catari. Analisi di un'esperienza psichiatrica avanzata
143. Pier Giorgio Ponticelli, Professione e impiego nel servizio sanitario nazionale 144. Willem Doise - Gabriel Mugny, La costruzione sociale dell'intelligenza 145. Occupati e bioccupati. Il doppio lavoro nell’area torinese, a cura di Luciano Gallino
146. Mauro Marconi, La politica monetaria del fascismo 147. Benjamin J. Cohen - Fabio Basagni, Le banche e la bilancia dei pagamenti 148. Maria Luisa Bianco - Adriana Luciano, La sindrome di Archimede. Tecnici e imprenditori nel settore elettronico 149. Francesco Cesarini, Alle origini del credito industriale. L’IMI negli anni Trenta 150. Domenico Fisichella, Elezioni e democrazia. Un'analisi comparata JO
Mauro Calise - Renato Mannheimer,
Governanti in Italia.
Un trentennio repubblicano 1946-1976 152. Unità sanitarie e istituzioni, a cura di Fabio Merusi 153. Le società complesse, a cura di Gianfranco Pasquino 154. I gruppi di società. Ricerche per uno studio critico, a cura di Antonio Pavone La Rosa 155: V.P. Babini, M. Cotti, F. Minuz, A. Tagliavini, Tra sapere e potere. La psichiatria italiana nella seconda metà dell’Ottocento 156. Filippo Cavazzutti - Silvia Giannini, La riforma malata. Un servizio sanitario da reinventare
(TE Segmentazione del mercato del lavoro e doppia occupazione, a cura di Odo Barsotti e Luciano Potestà
158. Industrializzazione senza fratture, a cura di Giorgio Fuà e Carlo Zacchia 159, L’Europa sindacale nel 1981, a cura di Guido Baglioni e Ettore Santi 160. F. Tonucci, S. Caravita, E. Detti, Valutare per conoscere. Cinque anni di ricerca in una scuola elementare
161. V. Capecchi, M. Depol, R. Fasol, S. Fusai, G. Mazzotti, G. Sarchelli, A. Spallacci, Prima e dopo il diploma: percorsi maschili e femminili. Una ricerca del Comune di Bologna, a cura di Vittorio Capecchi 162. Giuseppe Bonazzi, Colpa e potere. Sull’uso politico del Capro Espiatorio i 163. Marco Siniscalco, «Depenalizzazione» e garanzia
164. Roberto Moscati, Università: fine o trasformazione del mito? 165. La programmazione dei flussi finanziari, a cura di Giacomo Vaciago 166. Giangiacomo Nardozzi, Tre sistemi creditizi. Banche ed economia in Francia, Germania e Italia
167. Economia in trasformazione e doppio lavoro, a cura di Gerardo Ragone i 168. Giuliano Muzzioli, Barche e agricoltura. Il credito all’agricol-
tura italiana dal 1861 al 1940 169. Sergio De Angeli, Le banche e il credito a medio termine. Un esame della recente esperienza italiana
170. Lo sviluppo del welfare state in Europa e in America, a cura di
Peter Flora e Arnold J. Heidenheimer
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L71: L’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale, a cura di Suzanne Berger
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Dei movimenti si è persa traccia, eppure molti ne parlano. Per commemorarli, per biasimarli, per auspicarli. La ricerca che questo libro presenta li ha interrogati nelle pieghe della metropoli, nella rete nascosta dei gruppi dove le spinte profonde del cambiamento operano senza clamore ma in modo irreversibile. Frutto di quattro anni di lavoro condotto con un metodo originale, questa indagine propone la prima analisi sistematica sulla formazione dei movimenti degli anni 80 nel nostro paese. Un. percorso di autoriflessione realizzato attraverso il video con gruppi di giovani, di donne, di ecologi e nell’area della «nuova coscienza» ha permesso di vedere in azione i processi che producono e mantengono nel tempo un’identità collettiva. Mobilitazione, leadership, organizzazione, ideologia sono le dimensioni dei movimenti esplorate nelle diverse aree. Ne discende un bilancio degli orientamenti teorici e degli strumenti di analisi nel campo dell’azione collettiva. Sui movimenti contemporanei questo libro apre una prospettiva inusuale. Essi esistono anche nel silenzio e ciò che portano è vitale per le società dei segni. Senza la creazione paziente dei movimenti, senza la loro sfida sui codici, i sistemi contemporanei cesserebbero di interrogarsi sul senso per chiudersi nell’ordine asettico delle procedure. Indice del volume: Prefazione, di Alberto Melucci. - 1. Alla ricerca dell’azione, di Alberto Melucci. - Il. Giovani sul territorio urbano: l'integrazione minimale, di Giovanni Lodi e Marco Grazioli. - III. Militanti di se stesse. Il movimento delle donne a Milano, di Marina Bianchi e Maria Mormino. - IV. Ecologia: quali conflitti per quali attori, di Cinzia Barone. - V. L’area della «nuova coscienza» tra ricerca individuale ed impegno civile, di Mario Diani. - VI. La mobilitazione collettiva negli anni Ottanta: tra condizione e convinzione, di Marco Grazioli e Giovanni Lodi. - VII. L’oscuro oggetto del desiderio: leadership e potere nelle aree di movimento, di Mario Diani e Paolo R. Donati. - VIII. Il potere della definizione: le forme organizzative dell’antagonismo
metropolitano, di Paolo R. Donati e Maria Mormino. - IX. Ideologia, azione simbolica e ritualità: nuovi percorsi dei movimenti, di Joseph Sassoon. - X. Movimenti in un mondo di segni, di Alberto Melucci. - Bibliografia. Alberto Melucci è docente di Sociologia politica nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Milano. Nel 1982 ha pubblicato con Il Mulino «L'invenzione del presente».
Prezzo L. 30.000 (i.i.)
ISBN 88-15-00353-3
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