Mogli, garzoni e amanti. Amore ed erotismo nella vita e nelle opere degli artisti del Cinquecento 9788856401493

Analizzando la storia di figure come Michelangelo, Raffaello, Benvenuto Cellini o Giovanni Antonio Bazzi “il Sodoma”, em

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Italian Pages 200/201 [201] Year 2011

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Mogli, garzoni e amanti. Amore ed erotismo nella vita e nelle opere degli artisti del Cinquecento
 9788856401493

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STORIE DEL MONDO 7

CARLO ADELIO GALIMBERTI

Mogli, garzoni e amanti Amore ed erotismo nella vita e nelle opere degli artisti del Cinquecento

www.mauropagliai.it

© 2011 EDIZIONI POLISTAMPA Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 737871 (15 linee) [email protected] - www.leonardolibri.com ISBN 978-88-564-0149-3

ad Antonella

SOMMARIO

La leggenda della nascita dell’arte pag. Quando la moglie è troppo bella (Andrea del Sarto) » L’avida scaltrezza di una moglie (Antonio da Sangallo) » Il garzone sorpreso con la modella (Giorgione) » La moglie non è proprio un esempio di virtù (Girolamo da Cotignola) » La vendetta del maestro che sorprende l’allievo con la modella preferita (Benvenuto Cellini) » Il “morbo gallico” » L’omosessualità nel Rinascimento » Nomen omen (Antonio Bazzi detto Il Sodoma) » L’omosessualità di Leonardo da Vinci » Michelangelo era omosessuale? » Un’«eccessiva notte d’amore» (Raffaello) » La donna che Raffaello amò «sino alla morte» » “Amore e Psiche” di Raffaello, ovvero la favola della bella Francesca » «Ma essendo… carestia di belle donne». L’amore segreto di Raffaello » Un trattato d’amore per immagini » Gli allievi di Raffaello non hanno appreso solo il suo stile… in arte (Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio) » Quando l’arte stimola le debolezze della carne (Fra Bartolomeo) » Le polemiche sui nudi di Michelangelo » Daniele da Volterra, detto «il Braghettone» e le «vergogne» del “Giudizio” » Le pruderie suscitate dalle opere d’arte (Aretino, Guglielmo dalla Porta, Correggio) »

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Sommario

Le opere d’arte scampate ai rigori moralistici della Controriforma (Correggio, Giambologna, Ammannati, Passerotti ed altri artisti) pag. 140 Le gustose e malcelate allusioni, gli ambigui suggerimenti e i riferimenti espliciti all’erotismo nelle opere di Raffaello e della sua bottega » 155 Dipingere i tormenti dell’amore (Bronzino) » 160 Chi disegna l’amore finisce in galera (Giulio Romano e Marcantonio Raimondi) » 167 Venere chiude gli occhi (Giorgione e Tiziano) » 172 Venere apre gli occhi (Tiziano) » 176 Il nostro sguardo su Venere… non proprio nei suoi occhi (Tiziano) » 182 Conclusione

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Soprannomi e nomignoli degli artisti Indice delle opere e degli autori citati

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LA LEGGENDA DELLA NASCITA DELL’ARTE

C’era una volta, qualche millennio fa, una bellissima fanciulla che viveva in un piccolo villaggio del Peloponneso. Alcuni dicono che il paesello fosse Sicione, altri Corinto. Non ne siamo certi, ma per l’importanza della storia narrata da Plinio1 ci è indifferente. Il suo è infatti il racconto che narra la leggenda della nascita dell’arte. Dunque: la nostra fanciulla viveva nella casa del padre che si chiamava Butade e che di mestiere faceva il vasaio. Un giorno Butade sorprese la figlia in un pianto dirotto. La causa di tutta quella disperazione era che il ragazzo di cui la fanciulla era perdutamente innamorata, se ne doveva andare lontano e l’avrebbe così lasciata sola chissà per quanto tempo. Il padre la strinse a sé e cominciò a confortarla rivolgendole frasi di consolazione e accarezzandole dolcemente quei capelli nerissimi di cui le fanciulle di Sicione andavano fiere e che le scendevano a trecce sul suo bianchissimo collo. Ma nessun gesto buono del padre, come nessuna delle sue tenerissime parole, riuscivano a confortare la figlia. Butade allora andò a chiamare il ragazzo e concesse che i due giovani riposassero ancora una notte assieme nella sua casa. Il ragazzo si addormentò quieto accanto alla fanciulla, la quale però non riusciva a prendere sonno, tormentata com’era dal pensiero di non rivedere il suo amato chissà per quanto tempo. Seduta sul letto, osservava il viso del giovane, che nel sonno, si sa, prende quei tratti buoni e dolcissimi che inteneriscono ogni lineamento. I riccioli scuri del suo capo disegnavano arabeschi sulla parete della stanza, illuminata dal riflesso lunare che sorgeva dalle scintille del mare di Corinto. La fanciulla seguiva il groviglio tremolante dell’ombra sul muro quand’ecco che il giovane si volta nel sonno e sulla parete si staglia netto il suo splendido profilo. Subito la fanciulla si alza, scende nel laboratorio del

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PLINIO, Naturalis historia, 35, 151.

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Mogli, garzoni e amanti

padre e risale nella stanza dopo aver preso un pennello con cui il padre usava decorare i vasi. Senza fare rumore dipinge sul muro seguendo i contorni dell’ombra del giovane e fissa così la sagoma degli amatissimi tratti del viso e quindi del suo corpo. Il giorno seguente il padre scopre il dipinto nella stanza della figlia e rimane impressionato dai meravigliosi lineamenti che descrivono quella figura. Un po’ per il suo fascino e un po’ credendo di poter così consolare meglio la figlia, ne trae un calco dal quale ottiene una statua che mette a cuocere assieme ai suoi vasi. Dicono che quella statua, per la sua bellezza e per entusiasmo popolare, venisse posta nel Ninfeo di Corinto e là rimase fino a quando il generale romano Lucio Mummio distrusse la città e con essa quella splendida memoria2. In una sola notte erano nate così la pittura e la scultura, e l’energia che ha permesso il prodigio è stata quella del sentimento: ora l’intenso amore d’una fanciulla, ora la malinconia d’un addio, ora l’affetto d’un padre, iscrivendo così l’operare d’arte nei registri del senso e del sentimento, che sono quei luoghi dove abitano le infinite possibilità d’essere d’ogni cosa. Da questa molteplicità di senso sorge la nostra legittima libertà di sentire, condotti per mano dagli itinerari dell’arte, attraverso la persuasiva seduzione che le opere esercitano su chi concede loro il tempo necessario perché dispieghino il fascino del loro racconto. Gli artisti quindi lavorano su quel territorio dove l’intreccio amoroso è sovrano. Ma cosa accade quando le passioni sono le protagoniste della vita privata degli artisti anziché contagiarli solo sulla scena della creazione? E come si comportano gli artisti quando sono loro ad essere vittime o protagonisti dei tormenti d’amore? E qui si osserva come anche la particolarità della loro natura fuori dal comune, quella di personaggi dalla straordinaria capacità creativa, non li distingua dalle comuni passioni dei “mortali”, patendo e godendo anch’essi tutta la gamma dei tormenti e delle delizie dell’amore.

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M. BETTINI, Il ritratto dell’amante, Einaudi, Torino 1992, p. 10.

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QUANDO LA MOGLIE È TROPPO BELLA (Andrea del Sarto)

Ad esempio, di vero e proprio tormento si trattò nella vita di uno tra i più grandi pittori del Rinascimento ormai maturo. È il caso di Andrea del Sarto che si innamora follemente di una splendida fanciulla3, nella quale vedeva tanta bellezza da perderci letteralmente la testa. Il suo nome era Lucrezia di Baccio di Fede. Lucrezia era una donna sposata ad un artigiano che confezionava cappelli, ma l’ostacolo dello stato coniugale della signora accendeva ancora di più la passione d’Andrea, rendendolo cieco (d’altro canto d’amore si trattava) ma, soprattutto, sordo ai consigli e alle esortazioni dei suoi amici e dei suoi parenti. Questi ultimi, inutilmente, gli consigliavano di lasciar perdere: pare infatti che Lucrezia godesse fama di non esser proprio una moglie virtuosa4. Così infatti la descrive il Vasari nella sua opera delle vite degli artisti: «… era in quel tempo, in via di San Gallo, maritata, una bellissima giovane a un berrettajo, la quale teneva seco non meno l’alterezza et la superbia, ancor che fussi nata da povero et vizioso padre, ch’ella fossi piacevolissima et vaga d’essere volentieri intrattenuta et vagheggiata d’altrui…».

Ma un triste destino interviene ad accontentare l’artista: il marito di Lucrezia muore e così Andrea può finalmente sposarla. Ma, a dispetto della sua dolcissima avvenenza, Lucrezia si rivelò moglie dispotica che tiranneggiava il povero Andrea, approfittando della sua

3 G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori (edizione del 1568), in G. MILANESI (a cura di), Le opere di Giorgio Vasari, 1906, Sansoni, Firenze ristampa del 1981, vol. V, pp. 19 e sgg. 4 Nota di G. Milanesi alla prima edizione delle “Vite” (Firenze 1550) di Giorgio Vasari, ivi, p. 19n.

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cieca passione. Il nostro artista, vinto dalla bellezza straordinaria della moglie, l’accontentava in ogni sua richiesta, anche la più capricciosa. Per lei non badava a spese, non avendo altro per la testa che la sua figura, anzi, potremmo dire che non “vedeva” altro che lei, con quel suo collo flessuoso, con quei morbidi capelli che incorniciavano quegli occhi civettuoli, tanto da meritarsi la critica dei contemporanei sul fatto che ogni personaggio femminile raffigurato nelle sue opere avesse sempre le fattezze di Lucrezia. Questa somiglianza divenne quasi inevitabile quando, invecchiando Lucrezia, Andrea impiegava come modella Maria del Berrettaio, figlia di primo letto di Lucrezia e di quel suo sfortunato primo marito che confezionava cappelli. Di Maria, Andrea ne dipinse anche il ritratto, rappresentandola con in mano un libro aperto su quelle pagine in cui sono riportati due sonetti del Petrarca, tra cui quello che inizia con «Ite caldi sospiri al freddo core…»5, quasi un’ulteriore ammissione del tormentato amore di Andrea per la fredda Lucrezia. Riferiscono le cronache del tempo di come Andrea impiegasse comunque diverse modelle per realizzare le sue opere, ma come tutte ne uscissero rappresentate con le fattezze della moglie. Non dobbiamo però stupirci di questo punto debole estetico-amoroso di Andrea. Pare questa essere una debolezza antica negli artisti, come, ad esempio, quando scopriamo che anche in Grecia Polignoto, quando dipinse le Troiane nella Stoa di Pericle, «nel volto di Laodice ritrasse quello di Elpinice», la sua amante6; o come l’etera Frine il cui viso, ma soprattutto il corpo, fu ritratto da Prassitele nella Venere di Cnido7. Un punto debole che sarebbe proseguito nella storia dell’arte con numerosi esempi: così Hugo van der Goes (XV sec.) ritrasse la propria amante nell’Incontro di Davide e Abigail8, oppure il Bronzino (XVI sec.) che riprodusse la sua bella Eva nel Cristo al Limbo9, così come Giovanni Bellini pare ritraesse sempre la propria moglie nelle

5 R. MONTI, Andrea del Sarto. Ritratto della figliastra, in C.L. RAGGIANTI (a cura di), Firenze. Uffizi, Mondadori, Milano 1968, p. 100. 6 M. BETTINI, Il ritratto…, op. cit., p. 91, che a sua volta cita PLUTARCO, Vita Cimonis, 6. 7 PLINIO, Naturalis historia, 34.70. 8 E. KRIS e O. KURZ, La leggenda dell’artista, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 113. 9 Ivi.

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Quando la moglie è troppo bella

sue numerose opere che per soggetto avevano la Madonna col Bambino, tanto da suscitare la gelosia dei colleghi che gli invidiavano il fatto di poter risparmiare denaro non dovendo ricorrere alle modelle. Ed ancora l’Antea, celebre cortigiana romana che qualcuno sospetta esser stata l’amante del Parmigianino che, per questo, la ritrasse in quel celebre dipinto oggi nel museo di Capodimonte a Napoli. Ed infine Raffaello che riprodusse le sembianze della sua amata Fornarina in numerose opere, dalla Velata alla Madonna Sistina, dalla figura della Temperanza nelle stanze vaticane alla Santa Cecilia, e così via. Nell’opinione comune è talmente immaginato questo atteggiamento degli artisti di ritrarre le loro donne tanto da sortire anche fatti leggendari che sarà poi difficile sradicare: così come infatti la tradizione vuole che nella Maya desnuda Goya ritraesse la duchessa d’Alba per la quale, secondo il racconto popolare, pare che l’artista nutrisse una folle passione. Leggenda talmente radicata da costringere il duca d’Alba, nel 1945, a riesumare i resti della sua antenata per tentare, non si sa bene come, di sfatare il sospetto10. Nel nostro caso, quello di Andrea del Sarto che in ogni figura femminile ritraeva le fattezze di Lucrezia, gli storici del tempo, nei loro racconti, sembrano quasi sorridere sotto i baffi di questa debolezza dell’artista, anche se il maggiore di essi, Giorgio Vasari, non può forse ritenersi così attendibile11. Vasari fu infatti allievo di Andrea del Sarto (secondo la tradizione fu Michelangelo a condurre Vasari da Andrea del Sarto, il che dice dell’alta considerazione di cui godeva Andrea nella cerchia dei massimi artefici fiorentini12), ma sembra che i rapporti tra Vasari e la bella Lucrezia, moglie del suo maestro, non fossero proprio dei migliori13. Il motivo per cui la signora, giudicata così R. MAFFEIS, La maja vestida, in J. STAROBINSKI, Goya, Skira, 2003, p. 128. G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. V, p. 28. 12 A proposito della stima di Michelangelo per Andrea del Sarto, «il Bocchi, che scriveva nel 1584, fa dire al Buonarroti una frase che quest’ultimo avrebbe rivolto a Raffaello […] che suona così “E gli ha in Fiorenza un omaccetto, il quale se in grandi affari, come te si avviene, fosse adoperato, ti farebbe sudar la fronte.», in A. ANTOLINI, Andrea del Sarto, Fabbri-Bompiani, Milano 1991, p. 3. 13 Così afferma F. Sricchia Santoro: «… il Vasari fece nella bottega di Andrea qualche spiacevole esperienza della quale conservò un ricordo così vivo da vendicarsene tanti anni dopo con l’oltraggiosa presentazione di Lucrezia ancora vivente; ma a parte l’indubbio astio per questa donna, difficile dire se e quanto il quadro della vita dimessa e schiva del pittore sia stato calcato dal Vasari per 10 11

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Fig. 1 - Andrea del Sarto, 1513-14, Natività della Vergine, Firenze, chiostro della Santissima Annunziata.

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Quando la moglie è troppo bella

generosa con gli uomini, non apprezzasse le qualità del giovane Vasari nessuno ce lo rivela, tanto meno il Vasari. Il culmine dell’accondiscendenza di Andrea nei confronti di Lucrezia fu quando abbandonò il fruttuoso e prestigioso lavoro presso la corte del re di Francia pur di riunirsi a lei14 che era rimasta a Firenze, temendo che la sua lontananza e l’avvenenza della moglie gli potessero procurare qualche… dispiacere coniugale e, nello stesso tempo, acconsentire così all’insistente richiesta di Lucrezia affinché il marito rientrasse a Firenze, forse perché disturbata dalle voci che su di lei circolavano maliziosamente in città. E così il nostro Andrea condusse la sua vita tra i morsi della gelosia che non lo abbandonarono neppure nell’istante estremo della sua esistenza: la sventura colse infatti l’artista nel 1530 quando contrasse la peste. Per timore del contagio Lucrezia non volle entrare nella stanza del marito, sorda alle sue insistenti implorazioni. Ormai in agonia, Andrea non smetteva di chiamarla. Ma lei si guardava bene dall’entrare nella stanza15. Andrea insisteva: «Lucrezia, perché non vieni? Lucrezia, dove sei? Lucrezia, chi c’è di là con te? Lucrezia…». Ma Lucrezia non si fece vedere e si guardò bene dal consolare e rassicurare il marito. E così il grande Andrea del Sarto, protagonista eccelso dell’avanzato Rinascimento italiano, passò a miglior vita avendo come viatico solamente i tormenti della sua gelosia. Trascorrono quarant’anni: siamo nel chiostro della chiesa della Santissima Annunziata a Firenze. Il pittore Jacopo da Empoli per arricchire il proprio libro dei disegni, sta copiando la Natività di Maria (Fig. 1), eseguita nel 1514 proprio da Andrea del Sarto, nella stagione della sua piena maturità artistica, quando la pittura di Andrea rivelava la grande attenzione dell’artista all’opera di Raffaello, Leonardo e Michelangelo. In questa Natività le figure di S. Anna e delle donne che l’accudiscono sono talmente belle da essere assai ricercate dai pittori in caccia di modelli, quale paradigma della bellezza femminile, in maniera da arricchire così il loro “Libro dei disegni”. Bisogna infatti sapere che nel Rinascimento, e anche prima, il “Libro dei disegni” era quella tendenza, in lui sempre latente, a far coincidere il ritratto dell’uomo con quello dell’artista, le cui opere egli vedeva limitate proprio da una certa timidezza e povertà d’invenzione…», ibidem, p. 4. 14 G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. V, pp. 31 e sgg. 15 Ibidem, p. 55.

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strumento preziosissimo nelle botteghe dei pittori. Rappresentava un vero e proprio magazzino di modelli ed ogni bottega ne andava per questo giustamente gelosissima. Per arricchire l’assortimento delle figure da secoli era pratica comune trarre modelli dalle opere di maestri affermati, così come ci testimonia Dante Alighieri quando descrive cosa sia l’abilità del dipingere: «come pintor che con essemplo pinga / disegnerei…»16, vale a dire come si misura la bravura d’un artista proprio quando apprende il proprio mestiere sugli “essempli” dei grandi maestri che lo hanno preceduto. Dunque anche Jacopo non sa sottrarsi al fascino delle figure femminili di Andrea del Sarto e si mette quindi a copiarle per catturare così le fattezze di quelle splendide figure. Ma mentre sta disegnando si accorge che una vecchietta seduta poco più in là, lo osserva insistentemente e con curiosità17: – Cosa osservate, madonna? – Niente di particolare, solo guardo voi che lavorate con così tanto fervore su quelle figure di donna. Ci trovate qualcosa di speciale? – Eh sì, madonna. Proprio di figure “speciali” si tratta. Non vedete con quale naturalezza si muovono quelle due bellissime dame al centro? E poi quella deliziosa servetta, quella che reca il catino, lì sulla destra, guardate che aria civettuola e malandrina ha nello sguardo. Vedete? Si volge proprio verso lo spettatore. Sembra quasi dirmi: “Ti piaccio?” – Voi trovate, maestro? Davvero così seducenti vi appaiono quelle figure? – Oh, sono straordinarie, madonna. Sono bellissime, hanno tutte qualcosa di irresistibile. Chissà dove Maestro Andrea avrà trovato tanta grazia e soavità. Certo le modelle dovevano essere affascinanti. – Ebbene, maestro, sappiate che tutte quelle figure sono sempre io. Quella anziana donna era Lucrezia. Noi non c’eravamo, ma siamo certi che sul viso di Lucrezia, ormai avvizzito, si sia dipinta un’espressione di autocompiacimento e di sottile soddisfazione nel vedere

16 DANTE, Divina Commedia, Purgatorio, XXXII, 67-68. Cfr.: S. SETTIS, Iconografia dell’arte italiana, 1100/1500: una linea, in G. PREVITALI, Storia dell’arte italiana, vol. III, L’esperienza dell’antico, dell’Europa, della religiosità, Einaudi, Torino 1979, p. 252. 17 A. ANTOLINI, Andrea del Sarto, op. cit., p. 4. All’epoca della seconda pubblicazione delle Vite di Vasari, e per qualche anno ancora, Lucrezia, moglie di Andrea del Sarto era ancora vivente.

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Quando la moglie è troppo bella

fermata nel tempo e così perpetuata per sempre l’intensità seduttiva della sua figura, dando così ascolto, ancora una volta, alla propria vanità più che essere grata alla maestria di Andrea che, con la sua opera, l’aveva resa eternamente giovane e bella. Come quella di Andrea, bisogna dire che la gelosia è un sentimento diffuso tra i coniugi ed ha generato tutta una letteratura al proposito, sia comica che tragica. Nel caso degli artisti però, la comicità che può essere generata da questo tormento ha caratteristiche singolari, come d’altronde non potrebbe essere, trattandosi di personaggi davvero fuori dal comune, tanto da far fiorire episodi leggendari. Uno tra i più ricorrenti di questi racconti assai popolari è riferito così: un pittore, che doveva allontanarsi per lavorare distante da casa per parecchio tempo, progetta di garantirsi la fedeltà della moglie con uno stratagemma. Pensa di dipingere sul corpo della moglie una figura, in maniera da poter controllare lo stato della pittura al suo ritorno. Lo scopo dell’impresa fa scegliere al nostro artista un punto strategico sul corpo della donna: dipingerà nello spazio tra l’ombelico ed il monte di Venere. Per addolcire la sua iniziativa e persuadere la moglie che si tratta di un gesto d’amore che le ricordi il marito lontano anziché l’iniziativa di un uomo malfidente, sceglie come soggetto della sua pittura un tenerissimo agnellino, dallo sguardo languido, suadente e dall’espressione quasi sorridente. Così rassicurato, il marito parte tranquillo. Ma la sua lontananza si fa troppo lunga e la moglie soffre a tal punto per la sua assenza che un bel giorno cede alle profferte amorose di un altro pittore. Naturalmente le effusioni tra i due amanti deteriorano l’agnellino che quasi scompare alla vista. Quando giunge la notizia che il marito sta rientrando a casa la moglie si allarma e si precipita trafelata nello studio del suo amante, in un grande stato di agitazione: – Cielo! Sta ritornando mio marito! Immagina cosa succederà quando vedrà che l’agnellino è quasi scomparso. – Niente paura – risponde l’amante – sono o no un bravo pittore? L’agnellino te lo ridipingo io e vedrai che tutto filerà liscio. Detto fatto. Ma la ridipintura era riuscita così bene che l’amante pittore, fedifrago, non seppe resistere all’ammirazione per la propria opera e volle così aggiungere alla burla anche la beffa: trasformò l’animale in un capretto, piazzando sul capo dell’agnellino un bel paio di corna18.

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E. KRIS e O. KURZ, La leggenda…, op. cit., p. 98.

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Mogli, garzoni e amanti

Naturalmente i repertori e le raccolte di storia dell’arte non ci raccontano come reagì il marito alla vista dell’agnellino-capretto, ma la leggenda potrebbe combaciare perfettamente con il nostro Andrea del Sarto quando, lavorando in Francia, era tormentato dalla gelosia per Lucrezia, lasciata sola a Firenze, la quale, come abbiamo visto, era donna fierissima che però non godeva fama di costumi morigerati.

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L’AVIDA SCALTREZZA DI UNA MOGLIE (Antonio da Sangallo)

Il fatto d’incapricciarsi di fanciulle avvenenti e però altere e tiranne pare non fosse fenomeno isolato presso gli artisti: questa stessa sorte toccò ad Antonio da Sangallo, ricercato e valentissimo architetto. Antonio aveva da poco terminato i lavori di fortificazione a Parma e a Piacenza e stava dirigendosi a Roma perché chiamato dal papa, Clemente VII. Per raggiungere a Roma, in quei tempi, occorrevano diversi giorni, ma non avendo premura, Antonio scelse la strada che passava per Firenze così avrebbe avuto la possibilità di poter salutare vecchi amici. Giunto in città, si mise a passeggiare per le strade, come era costume in quel tempo, stante che per la poca densità della popolazione era facile incontrare amici e conoscenti (Firenze, all’inizio del ’500, contava circa 90.000 abitanti). Insomma faceva quel rito popolare dei giorni di festa che molti chiamano “la vasca”. Quand’ecco che, dall’altra parte della strada vede passare una fanciulla di straordinaria bellezza. Alla vista della ragazza Antonio comincia ad attirare l’attenzione degli amici: – L’avete vista anche voi? Avete visto che meraviglia? Dai, ragazzi seguiamola, cerchiamo di sapere chi è. – Antonio, lascia perdere… – Come, lascia perdere. Che volete dire? – Antonio, ascoltaci, lascia perdere… – Ah ma allora voi la conoscete, eh? Voi siete sempre stati qui a Firenze. Ditemi, chi è? – Certo che sappiamo chi è, ma Antonio…, dai, calmati. – Come calmarmi? Ma non avete visto che meraviglia, non vedete che grazia ha nell’incedere del suo passo, che portamento nobile, che fierezza. E poi quel viso luminoso, quei capelli che si ribellano alle forcine sciogliendosi sul suo bianchissimo collo, quasi ne debbano disegnare lo slancio flessuoso. 19

Mogli, garzoni e amanti

– Ma va là: «slancio flessuoso…!», va beh che sei un artista, ma Antonio, ascoltaci: lascia perdere. Ma Antonio più la osserva e più aggiunge commenti e apprezzamenti, e più ne parla più si accende di passione e desiderio19. – Via, Antonio, calmati. Non vedi che avrà sì e no sedici anni? – E con questo? – Ma come «con questo»? Tu ne hai più di quaranta! (Antonio da Sangallo aveva allora oltrepassato la quarantina e per giudicare quest’età come età avanzata, bisogna rapportarla alla breve speranza di vita di quei tempi). – E con questo? Va beh, ho capito: siete gelosi! Chissà quante volte le avete messo gli occhi addosso senza successo. Ma io l’avrò. Sono o non sono Antonio da Sangallo, il grande architetto ricercato da principi e pontefici? E dai, ditemi come si chiama e chi sono i suoi parenti. – E va bene, Antonio. Ma poi non dire che non ti abbiamo avvertito. Si chiama Lisabetta ed è della famiglia dei Deti. – Domani vado subito a chiederla in sposa! Ma i parenti di Lisabetta non ne vogliono sapere. Giudicano Antonio una persona di basso rango (retaggio forse della considerazione della figura degli architetti, che nei secoli precedenti erano assimilati ai muratori e ai carpentieri e comunque mai annoverati fra le Arti Maggiori). Inoltre i familiari di Lisabetta sono a conoscenza di quale nomea circondava Antonio da Sangallo: era conosciuto come un uomo molto trascurato nell’aspetto e, per di più, si diceva fosse disordinatissimo nella conduzione della propria casa. Ma Antonio era caparbio e ostinato e le difficoltà frapposte dalla famiglia di Lisabetta e i contrari consigli degli amici e dei parenti non lo distoglievano dal suo proposito: anzi più era ardua la sfida e più la sua passione e la sua ostinazione aumentavano finché, alla fine, non raggiunse il proprio scopo, riuscendo a fare di Lisabetta la propria sposa. Ma Lisabetta si rivelò moglie altera, superba e spendacciona, tanto che i pur ingenti guadagni di Antonio non bastavano mai a soddisfare i suoi vizi e (forse sempre per la considerazione del tempo sulla figura dell’architetto) il Vasari la giudica come colei che voleva vivere «…non come moglie di architetto, ma a guisa di splendidissima signora,

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G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. V, p. 472n.

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L’avida scaltrezza di una moglie

[e] faceva disordini e spese tali che i guadagni [di Antonio] erano nulla alla pompa di lei»20. Approfittando della cieca passione del marito, Lisabetta lo costringeva anche a trascurare i propri parenti, mentre Lisabetta colmava di attenzioni (concrete) i suoi. Pare infatti che il padre di Antonio per questo morisse di stenti21 ed anche che sua madre venisse addirittura scacciata di casa e quindi morisse in miseria. Alla morte di Antonio Lisabetta, col biasimo dei conoscenti, convolò velocemente ad altre nozze e l’annotazione degli storici su questo dettaglio non esplicita nulla, se non allusivamente, circa il disinvolto comportamento amoroso della bella Lisabetta negli ultimi tempi della vita di Antonio da Sangallo. Ma tutto questo non ci deve in realtà stupire, perché nel Cinquecento uno dei vanti maggiori per le donne era quello di possedere un carattere virile, come ci conferma, d’altronde, il comportamento di tutte le eroine della poesia cavalleresca, dal Boiardo fino all’Ariosto. Un vanto tale che per le donne l’epiteto di «virago», che a noi suonerebbe negativo, era allora inteso in senso di lode quando era attribuito alle signore22. Ma non per questo bisogna pensare che la donna, in quei tempi fosse una protagonista della storia al pari degli uomini. Anzi, tutt’altro, come bene afferma Margaret L. King, l’attenta studiosa della figura femminile nel Rinascimento, un uomo poteva essere: «principe o guerriero, artista o umanista, mercante o ecclesiastico, saggio o avventuriero. La donna assume solo raramente tali ruoli, e, se lo fa, non sono questi i ruoli che la definiscono, ma altri: è madre o figlia o vedova; vergine o prostituta, santa o strega, Maria o Eva o Amazzone. […] Queste identità […] la sommergono completamente ed estinguono qualsiasi altra personalità cui ella aspira»23.

Ivi. Ivi. 22 J. BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento in Italia, Sansoni, Firenze 1966, p. 364. 23 M.L. KING, La donna del Rinascimento, in E. GARIN (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Bari 2000, p. 273. 20 21

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IL GARZONE SORPRESO CON LA MODELLA (Giorgione)

D’altra parte, questa sfortunata condizione sociale della donna, non era l’unica differenza, rispetto al nostro sentire odierno: a proposito della vita coniugale una diversità, rispetto al nostro attuale comune pensare, si trova, ad esempio, anche nel giudizio e nel tipo di reazione a proposito di infedeltà. Il più delle volte si riteneva che il rimedio migliore all’infedeltà fosse il silenzio, perché il segreto avrebbe coperto la colpa e avrebbe garantito addirittura l’inaugurarsi di una stagione di tollerante convivenza tra i coniugi24. Solo quando si stimava davvero insopportabile lo scherno che ne poteva derivare al tradito per effetto della notorietà della sua “condizione”, si agiva per vendetta o rappresaglia, talvolta crudelissima. Ma nel primo caso, quando si preferiva tenere segreto il tutto, poteva accadere che il marito o l’amante tradito si consumasse nel dolore piuttosto che reagire di conseguenza. Può essere stato questo il caso di Giorgione, il grandissimo pittore veneziano, dopo aver sorpreso la propria amante con l’allievo di bottega. Arrivò a soffrirne senza reagire al punto da morire di disperazione. È pur vero che questa tragica conseguenza ci è riferita dal non sempre attendibile Carlo Ridolfi25, che così ci descrive il triste evento: «… ma piacque a Dio levarlo dal mondo d’anni 34 il 1511, infettandosi di peste, per quello che si dice, praticando con una sua amica; benché altrimenti il fatto si racconti, che godendosi Giorgio in piaceri amorosi con tale donna da lui ardentemente amata, la fosse sviata di casa da Pietro Luzzo da Feltre, detto Zarato, suo scolare, e mercè della buona

J. BURCKHARDT, La civiltà del…, op. cit., p. 406. Autore de «Le meraviglie dell’arte, ovvero le vite degli Illustri Pittori Veneti e dello Stato» pubblicato a Venezia nel 1648. 24 25

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Il garzone sorpreso con la modella

educazione ed insegnamenti del cortese maestro, perlocchè datosi in preda alla disperazione (mischiando sempre Amore tra le dolcezze l’amaro) terminò di dolore la vita, non ritrovandosi altro rimedio alla infettazione amorosa che la morte…»26.

Dunque le pene d’amore nel vedersi sottratta la fanciulla dall’allievo lo condussero a morire, come si diceva una volta, di crepacuore. Ma noi sappiamo, invece, che Giorgione fu vittima della peste nel 1510. In ogni modo, a far sospettare che il Ridolfi abbia avuto ragione ecco come il Vasari ci descrive l’allievo di Giorgione: un artefice che non mostrò particolare talento perché maggiormente «tirato dai piaceri e dai diletti che per il copro vi trovava» ed anche «astratto nella vita come era nel cervello»27. Sarà pure una coincidenza, ma se mai fosse vero che nomina sunt omina, ecco allora che se il carattere libertino dell’allievo di Giorgione fosse stata la causa della morte del maestro, forse questo tristissimo destino stava, guarda caso, già scritto nel suo nomignolo: l’allievo si chiamava Lorenzo Luzzo, ma tutti lo chiamavano Morto da Feltre.

26 C. RIDOLFI, Le meraviglie dell’arte, ovvero le vite degli illustri pittori veneti e dello stato, Cartallier, Venezia 1835, vol. I, p. 137. 27 G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. V, p. 204.

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LA MOGLIE NON È PROPRIO UN ESEMPIO DI VIRTÙ (Girolamo da Cotignola)

Pare invece autentico il tragico destino occorso, per i medesimi motivi dell’infedeltà, al pittore romagnolo Girolamo da Cotignola. L’artista, ad un certo punto della sua vita, si trovava a lavorare a Roma, dove però la concorrenza con artisti più celebri era durissima. Per questo se ne andò a Napoli su consiglio e con l’aiuto dell’antiquario Tommaso Cambi che operava in quella città. Qui, benché ottenesse alcune commissioni, anche a Napoli non riuscì a sfondare. Per questo, con i soldi che aveva comunque guadagnato in quella città, pensò bene di ritentare la fortuna a Roma. Là trovò i vecchi amici che, chiacchierando con l’artista, vennero a sapere che Girolamo aveva qualche soldo da parte: – Bravo Girolamo, hai fatto i soldi eh? – Oh, non, molti, ma quanto basta per assicurarmi gli anni che mi rimangono da vivere. Sono ormai in là con l’età, sapete. – Via, Girolamo, quale età! Sei ancora in forze, guarda che bell’aspetto hai. – Dai, non prendetemi in giro. Certo, non sono decrepito, ma non ho più vent’anni. – E allora? Anzi, senti Girolamo, visto che hai qualche soldo da parte, anziché restartene così triste e solo, perché non prendi moglie, così avrai chi ti amministra il patrimonio, ti terrà in ordine la casa e ti farà dolce compagnia la notte. – Eh, fate presto a parlare voi. Come faccio? Sono stato lontano molti anni, non conosco nessuna donna di queste parti. – Non ti preoccupare, Girolamo. Ci pensiamo noi. Ne conosciamo una giovane, bella ma soprattutto generosa. Vedrai. Ti piacerà. Le lusinghe di quegli amici distraggono Girolamo, che non si avvede dei ghigni maliziosi e degli sguardi ammiccanti che si scambiano gli amici. Si lascia volentieri convincere e così Girolamo sposa la ragazza che gli era stata proposta. Ma quella ragazza era una tra le 24

La moglie non è proprio un esempio di virtù

tante prostitute del quartiere. Ricerca non difficile da parte dei maligni amici di Girolamo, stante che a Roma, alla fine del XV secolo, pare ci fossero 6.800 prostitute su una popolazione di circa 30.000 abitanti28. Girolamo ci mette un po’ di tempo ad accorgersi della professione della sua sposa, ma poi scopre la verità ed il dolore è così acuto che ne muore in poche settimane29. Ma non sempre finisce in modo così triste e tragico. Anzi, talvolta la faccenda si fa comica e vede la vittima del tradimento trionfare sul rivale. Prendiamo, ad esempio, il fatto di quell’artista che sorprende la propria moglie in amoroso convegno con l’allievo della sua bottega. È questo uno stereotipo ricorrente nelle farse e nelle commedie che hanno gli artisti per protagonisti. Ma non sempre il maestro di bottega soccombe al tradimento. Infatti, tra i vari episodi leggendari, il più divertente è quello che vede l’artista riuscire a vendicarsi dell’allievo infedele. Il protagonista di questo racconto leggendario è un grande scultore che rientra inaspettato al proprio studio, proprio nel momento in cui la moglie si stava teneramente intrattenendo con un allievo della sua bottega. Dalla finestra dello studio la moglie intravede il marito che sta rientrando: – Oddio! Rivestiti e nasconditi, presto, presto che sta arrivando il tuo maestro, mio marito! – Non faccio in tempo a rivestirmi, e poi dove posso nascondermi? Qui non ci sono letti o armadi, ci sono solo statue. – E allora nasconditi dietro una statua. – Ma come faccio!? Non vedi che pose articolate hanno tutte, mi vedrà senz’altro. – Allora mettiti anche tu vicino alle statue e assumi una posa simile, così mio marito ti scambierà per una sua opera. Il marito entra nello studio, vede la moglie un poco affannata e con la capigliatura arruffata. Gli nasce quindi un sospetto. Poi si volge verso lo studio e abbraccia con uno sguardo tutti i suoi lavori. Nota la figura dell’allievo completamente nudo, che cercava di star rigido in posa per simulare una scultura. E così il maestro, rivolto alla moglie: – Certo che sono un bravo scultore non trovi? 28 J. BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento…, op. cit., p. 366 e P. LARIVAILLE, La vita quotidiana delle cortigiane nell’Italia del Rinascimento, Rizzoli, Milano 1997, p. 48. 29 G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. V, p. 184.

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Mogli, garzoni e amanti

– Sicuramente, caro. Sei straordinario. – Però non sempre raggiungo la perfezione, non ti pare? – Ma no, caro. Le tue figure sono davvero perfette. Sono talmente perfette che sembrano vive… – Trovi? Eppure… vedi quella là in fondo, ad esempio. Quella con quella pietra rosata… Si è vero, sembra carne viva. Eppure non è perfetta. Secondo me ho esagerato nell’evidenziare alcune parti anatomiche, soprattutto al centro. Aspetta che ora prendo lo scalpello e la raspa e rimpicciolisco tutto! Anche questa volta le cronache e i repertori non ci raccontano la fine30. Ma ancora una volta si conferma che quando fiorisce una leggenda significa che gli episodi sono così comuni da ritenersi plausibili nella realtà. Spesso, se non era la moglie, si trattava dell’amante, oppure della modella, ma certamente nell’immaginario popolare, nella bottega dell’artista ne succedevano d’ogni colore. Come quel pittore a cui fu chiesto come mai i suoi figli fossero così brutti, visto che i putti che dipingeva sulle sue tele erano straordinariamente belli. Il pittore rispose che era una questione di… luce. Perché i putti li dipingeva di giorno, mentre i figli li generava di notte31. Pare che un analogo dileggio sia stato usato da Michelangelo quando vide un figlio del pittore Francesco Francia, pittore e orafo bolognese. Quest’ultimo aveva osato ironizzare sulla statua che Michelangelo aveva scolpito a Bologna e che ritraeva il pontefice Giulio II32. Michelangelo non era certo la persona che incassava con distacco le critiche, per cui se la prese parecchio e quando vide il bel fanciullo figlio del Francia, gli disse: «Figliuol mio, tuo padre fa più belle figure vive che dipinte»33.

E. KRIS e O. KURZ, La leggenda…, op. cit., pp. 97-98. Ibidem, pp. 111-112. 32 Si tratta della famosa statua in bronzo di Giulio II, scolpita da Michelangelo nel 1508 e posta sulla basilica di San Petronio a Bologna. Quando i francesi ripresero la città nel 1512, fusero la statua per farne un cannone da utilizzare nella guerra contro il pontefice. Il cannone fu chiamato “La Giulia”. 33 A. CONDIVI, Vita di Michelangelo Buonarroti, (a cura di G. NENCIONI), S.P.E.S., Firenze 1998, p. 65. 30 31

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LA VENDETTA DEL MAESTRO CHE SORPRENDE L’ALLIEVO CON LA MODELLA PREFERITA (Benvenuto Cellini)

Un analogo episodio, quello di sorprendere la propria modella in amoroso convegno con aiutanti di bottega, accadde a Benvenuto Cellini, ma la reazione dell’artista fu di tutt’altro genere, stante il carattere impetuoso e passionale del grande orefice e scultore fiorentino. Ecco cosa successe: Cellini si trovava in Francia dove era stato chiamato dal re Francesco I per la sua altissima fama di orefice di notevole perizia (per il quale forgiò la celeberrima Saliera). Nella sua bottega aveva, oltre ad aiuti e garzoni, anche una modella di nome Caterina34 (Fig. 2), che ospitava assieme alla madre di quest’ultima: alla madre aveva assegnato il compito di tener pulita la bottega. Una sera venne invitato

Fig. 2 - Benvenuto Cellini, 1542, Ninfa di Fontainebleau, Parigi Musée du Louvre.

34 Caterina doveva essere una fanciulla dalle forme sviluppate e procaci, se così possiamo arguire dalla figura della ninfa della fontana di Fontainebleau scolpita da Cellini (oggi al Louvre).

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Mogli, garzoni e amanti

da Mattia del Nazaro35, un italiano servitore del re di Francia, per trascorrere una serata di festa nei suoi giardini. Assieme a Cellini furono invitati anche i suoi aiutanti di bottega. Ma uno dei suoi garzoni, certo Pagolo, fece notare al maestro che se fossero andati tutti alla festa il laboratorio sarebbe rimasto sguarnito, con grave pericolo per tutto l’oro e l’argento che veniva conservato in bottega per i lavori di oreficeria. Pagolo si offrì di restare nel laboratorio per poter custodire tutto quel valore. Cellini approvò e si avviò così rassicurato alla festa. Trascorso un po’ di tempo nel giardino di Mattia del Nazaro, all’artista sorse però un dubbio: come era possibile che Pagolo si offrisse così semplicemente di restare in bottega rinunciando alle distrazioni della festa cui erano stati invitati? Il lavoro in bottega era duro e durava parecchie ore ogni giorno. Come era possibile che Pagolo rinunciasse così facilmente ad un po’ di svago? Il dubbio cominciò a serpeggiare nella mente di Cellini, memore forse dell’infedeltà degli allievi come già occorse per un altro suo garzone quando teneva bottega a Roma36. Apriamo qui solo una breve parentesi su questo garzone romano, che si chiamava Ascanio, ed era allievo di un orefice spagnolo che si chiamava Francesco. Un giorno Ascanio chiese a Cellini di poter entrare nella sua più rinomata bottega disponendo dell’approvazione del suo vecchio maestro. Dal momento che il suo vecchio maestro Francesco non si era opposto, Cellini accolse il nuovo allievo nel suo laboratorio. Ascanio era gracilissimo e messo talmente male d’aspetto che in bottega lo soprannominavano “il vecchietto”. Dopo qualche tempo di prospera attività nella bottega di Cellini (e… di buon cibo) il ragazzo acquistò un bell’aspetto tanto da esser giudicato tra i più avvenenti ragazzi romani. Inorgoglito dalla sua nuova gagliarda figura, fece visita al suo vecchio maestro con malcelata fierezza. Ma il suo vecchio maestro era in quel momento assente e a custodire la bottega era rimasta la moglie Francesca. Vedendo Ascanio, Francesca rimase ammirata e ammaliata dalla sua avvenenza e prese ad accarezzare il giovane. L’espressione usata da Cellini per descrivere questi gesti di Francesca è davvero gustosa: si trattava di «carezze forse più in là che l’uso dell’onestà»37. Sta di fatto che da quel giorno Ascanio 35 B. CELLINI, Vita, libro II, XXIX, p. 471 dell’edizione a cura di E. CAMESASCA, Rizzoli, Milano 1985. 36 Ibidem, libro I, XCIII. 37 Ivi.

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La vendetta del maestro che sorprende l’allievo con la modella preferita

faceva visita al suo vecchio maestro con una frequenza tale che la riconoscenza, per averlo lasciato andare nella bottega di Cellini, rappresentava una motivazione troppo debole. Torniamo però a quella sera della festa nel giardino di Mattia del Nazaro in Francia. Dicevamo del sospetto che prende Cellini circa il rifiuto di Pagolo a partecipare alla festa. Il dubbio lo rode a tal punto che abbandona la festa, inforca il cavallo e si precipita a bottega. Entra di colpo e spaventa la madre della sua modella Caterina, che cerca di avvertire gli amanti urlando: «C’è qui il padrone!». Cellini piomba nella stanza adiacente e sorprende Pagolo che giace con Caterina. Urlando, estrae la spada deciso a sgozzarli entrambe. I due sciagurati, completamente nudi, si inginocchiano, si lamentano e implorano pietà. Cellini è già con la spada alzata pronto a colpire, quando gli sorge il dubbio che se li avesse ammazzati avrebbe passato guai seri e molto probabilmente avrebbe anche perso le prestigiose commesse del re di Francia. Rinfodera la spada e decide così di licenziarli tutti e due, cacciando anche la madre di Caterina, non prima di averla insultata chiamandola «ruffiana» e spingendo tutti e tre fuori dalla bottega a calci e pugni38. Ma i tre non si rassegnano. Si consigliano con un avvocato il quale suggerisce di accusare Cellini di aver avuto rapporti sodomitici con Caterina. Così avrebbero potuto cavarne parecchi quattrini stante che in Francia la sodomia era punita con il rogo39. Cellini viene quindi citato in giudizio. Oltre alla beffa, anche il danno. L’artista è sconfortato. Medita di abbandonare la Francia per evitare guai e già raccoglie in bottega le sue cose più necessarie per predisporre la partenza. Furioso si aggira nel suo studio, mentre i suoi aiutanti lo implorano di soprassedere, stante la grande quantità di lavori ancora da portare a termine. Gli dicono che forse avrebbe scontato solo pochi mesi di prigione e che dopo avrebbe potuto scusarsi col re dell’accaduto e riprendere il lavoro. Cellini ascolta tutti e poi chiede di star solo. E nella sua mente scorrono tutti gli avvenimenti fortunati che gli erano occorsi nella terra di Francia, dal castello che gli fu dato dal re per il suo lavoro al prestigio di lavorare per una delle corti più potenti d’Europa, alla ric-

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Ibidem, libro II, XXIX. Ibidem, libro II, XXX.

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Mogli, garzoni e amanti

chezza delle commissioni e così via. Più ci pensava più la sua rabbia cresceva fino a quando prese la decisione: sarebbe andato in giudizio e lì, avrebbe risolto il problema confidando nelle sue grandi qualità dialettiche. Davanti al giudice Caterina ribadisce la sua accusa di aver subito rapporti «alla maniera italiana»40, cioè sodomitici, con l’artista. Dobbiamo qui precisare, a proposito, quale fosse la reputazione dei costumi italiani nell’opinione delle popolazioni del nord Europa nel Cinquecento avanzato. Erano tempi in cui, oltre le Alpi, l’immagine degli italiani era quella di un popolo con tratti di licenziosità, di condotta ambigua e di tradimenti. Ne è testimonio il dramma elisabettiano che quando narra di imbrogli, gelosie, passioni spesso sanguinarie, li ambienta nelle città di Venezia, Verona, Napoli o Roma. È in questo tempo che comincia a formarsi quel cliché di un popolo di grandi amatori, dagli ambigui costumi e con una propensione alla fraudolenza che accompagnerà la reputazione degli italiani fino ai nostri giorni41. Ma torniamo all’accusa di Caterina di aver subito rapporti «alla maniera italiana» con Cellini. L’artista ribatte che i rapporti con Caterina, in quella “maniera”, li ebbe per il desiderio d’aver figli. Il giudice si stupisce, e chiede a Cellini perché per aver figli abbia avuto rapporti con Caterina «alla maniera italiana», visto che in quel modo figli non ne sarebbero certo nati. L’artista risponde che quella doveva essere la «maniera franzese» per aver figli, perché così Caterina gli avrebbe consigliato, mentre lui non ne sapeva nulla di questo costume straniero. La sortita di Cellini è ovviamente debole e non convince il giudice, sollecitato anche dalle reiterate proteste di Caterina che ribadisce a gran voce la sua accusa. A questo punto Cellini chiede di poter fare una dichiarazione ufficiale: – «Signor Giudice, luogotenente del cristianissimo re di Francia, io vi domando giustizia»42, ribadisco di non conoscere questa ragazza e comunque, per la legge francese, il peccato di sodomia è punito con il rogo, sia per chi lo commette che per chi lo subisce. Quindi se mai 40 Non sappiamo il perché, ma i rapporti sodomitici in Francia, a quel tempo, venivano chiamati al «modo italiano», ivi. 41 F. ZERI, La percezione visiva dell’Italia e degli italiani, Einaudi, Torino 1976, pp. 25-26. 42 B. CELLINI, Vita, op. cit., libro II, XXX.

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La vendetta del maestro che sorprende l’allievo con la modella preferita

l’accusa di Caterina fosse vera, anch’essa deve essere messa sul rogo. Se voi, giudice, non applicherete la norma io mi rivolgerò al re in persona per riferirgli che un suo giudice non rispetta la legge di Francia. Al fuoco, dunque, al fuoco! A questo punto la paura invade il gruppetto di Caterina, sua madre, Pagolo e l’azzeccagarbugli loro consigliere, e, alla fine, pensano sia meglio ritirare l’accusa e andarsene senza soddisfazione piuttosto che rischiare le fiamme. Cellini scampa così il pericolo del giudizio e viene rilasciato. Ma la storia non finisce qui. Passa qualche giorno e a Cellini riferiscono che Pagolo va in giro a denigrarlo e, facendo il gradasso, dice di non aver nessun timore dell’artista nonostante Cellini avesse la fama d’essere un provetto spadaccino. Cellini sente montare la rabbia. Prende la sua spada e si precipita a casa di Pagolo. Entra con violenza e sorprende Pagolo abbracciato a Caterina. Lo trascina sul pavimento e gli punta la spada alla gola deciso ad ucciderlo43. Ma esita temendo le conseguenze, come la prima volta nella sua bottega, dopo quella famosa festa. Gli punge il collo e lo insulta. Poi insulta anche Caterina e sua madre. Continua ad esitare e non sa più come uscire da questa situazione che si stava facendo comica. Alla fine gli viene un’idea: manda a chiamare un notaio ed alcuni testimoni e costringe Pagolo a sposare Caterina sull’istante. Pagolo, impaurito, acconsente. Qualche giorno dopo Cellini riprende Caterina come modella e la costringe a turni di posa massacranti, poi ne abusa sessualmente e infine la riempie di botte. Caterina fugge dalla bottega sbattendo la porta e urlando. A queste scene assisteva Ruberta, la nuova domestica di Cellini, che provvedeva anche a lenire le conseguenze delle botte sul corpo di Caterina. Ruberta disapprova il comportamento dell’artista e gli consiglia di calmarsi, altrimenti avrebbe perso Caterina come modella, e di così belle sarebbe stato difficile trovarne altre. Cellini, la rassicura: «Vedrai che tornerà!». Infatti, dopo qualche giorno, Caterina ritorna e si butta al collo dell’artista coprendolo di baci44. Cellini si rivolge a Ruberta: «Visto, che le piace?», adombrando così tendenze sadomaso di Caterina. «E poi», prosegue Cellini, «così mi prendo una duplice vendetta: prima la faccio soffrire con lunghe pose

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Ibidem, libro II, XXXIII. Ibidem, libro II, XXXV.

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Mogli, garzoni e amanti

completamente nuda, e poi posso dare ufficialmente del cornuto a Pagolo, visto che ora Caterina è sua moglie». Al che Ruberta risponde che non è poi una così gran vendetta dare del cornuto a Pagolo perché quello “gli era il costume di Francia, [dove] non era marito che non ci avessi le sue corna”45. Di questa violenza di Cellini non dobbiamo poi tanto stupirci: a quel tempo la cultura della conduzione di una convivenza, e soprattutto del matrimonio, prevedeva che la donna fosse talmente sottomessa all’autorità del compagno/marito tanto da legittimare la violenza nei confronti delle donne ritenute di carattere “incorreggibile”. Già frate Cherubino da Siena nei suoi Ammonimenti dello amore coniugale, verso la fine del XV secolo, affermava che la moglie che non si fosse fatta persuadere con le buone maniere dovesse essere picchiata sonoramente, purché… con amore e non con rabbia. Anche nell’Inghilterra protestante, in pieno Cinquecento, le cose non andavano meglio, anzi, la violenza sulle donne era legittima purché rispettasse una regola che, se non fosse causa di acuti dolori per le donne, potremmo definire una regola particolarmente comica: si chiamava la «rule of thumb» (la «regola del pollice»), per la quale si poteva lecitamente percuotere le donne purché il bastone utilizzato non avesse un diametro maggiore di un pollice46. Nel nostro caso, alla cultura della legittima e radicale sottomissione della donna alla volontà maschile, si aggiungeva il carattere violento e impulsivo di Cellini il quale ormai, un po’ irritato dall’impertinenza di Ruberta e comunque ormai privo di entusiasmo per Caterina, la caccia di nuovo e questa volta definitivamente. Assume quindi una nuova modella che di nome faceva Giovanna: una fanciulla di soli quindici anni, dal corpo acerbo47 e dal carattere selvatico, di pochissime parole, dal viso imbronciato e lo sguardo sempre accigliato. Tutte caratteristiche che accendono la passione dell’artista che interpreta gli atteggiamenti della fanciulla come una sfida e una provocazione. L’artista non si cura dell’enorme differenza d’età (Cellini a Ivi. M.L. KING, La donna…, op. cit., p. 286. 47 Cellini utilizza Giovanna come modella per le due figure della Vittoria con torcia ai lati della ninfa della fontana di Fontainebleu. Giovanna doveva essere effettivamente molto attraente a giudicare dai calchi in gesso delle due figure conservati oggi al Louvre. 45 46

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La vendetta del maestro che sorprende l’allievo con la modella preferita

quel tempo aveva 44 anni, quasi trenta più di Giovanna) e neppure dello stato virginale della fanciulla. Cede così alle sue pulsioni e approfitta della ragazzina che rimane per questo incinta. Giovanna da alla luce una bambina cui Cellini pone il nome di Costanza48. Era la prima volta che Cellini diveniva padre e, forse impaurito dall’evento, l’artista si comporta malissimo. Consegna alla fanciulla-madre una discreta somma di denaro e la manda a vivere con la figlia da una zia della ragazzina e di loro non se ne sa più nulla. Il comportamento riprovevole di Cellini è oltretutto reso ancora più irritante dalla descrizione di questo avvenimento nella sua autobiografia: l’artista perde più tempo a citare un lungo elenco di nomi altolocati che avrebbero fatto da testimoni al battesimo piuttosto che mostrare tenerezza per la piccola Costanza. La chiusura del racconto di quella giornata è addirittura sgradevole: Cellini si vanta di non aver avuto più rapporti sessuali con Giovanna dopo il battesimo della piccola Costanza49. Insomma Cellini incarna perfettamente quel luogo comune popolare per cui le modelle sono oggetto delle attenzioni degli artisti non solo quale fonte per la loro creatività. Un luogo comune che ha peraltro i suoi fondamenti storici, se, come abbiamo già visto nelle pagine precedenti a proposito di Andrea del Sarto, già in età classica abbiamo notizia dell’etera Frine che posa per l’Afrodite di Prassitele, e quindi a Roma al tempo di Cesare, il pittore Arellio che ritrae le sue amanti così come testimonia Plinio: «Anche Arellio fu famoso a Roma […] dipingeva dee, ma con i tratti delle sue favorite»50. Pratica millenaria, dunque. D’altra parte Cellini in questo era certamente recidivo. Sempre nella sua autobiografia racconta di quando in gioventù si era preso per domestica e modella «una giovane di molta bellissima forma e grazia, […] io me ne servivo per ritrarla [e per mio] diletto carnale»51. Era tale il furore dei loro amplessi che l’artista racconta come, dopo ogni volta, lo cogliesse un sonno profondissimo, tanto che una notte non si accorse

B. CELLINI, Vita, op. cit., libro II, XXXVII. Ivi, n. 50 PLINIO, 35, 119: «Fuit et Arellius Romae celeber paulo antem divum Augustum, ni flagitio insigni corrupisset artem, semper ei lenocinans feminae, cuius amore flagraret, et ob id deas pingens, sed dilectarum imagine. Itaque in pictura eius scorta nuberabuntur». 51 B. CELLINI, Vita, op. cit., libro I, LII. 48 49

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Mogli, garzoni e amanti

neppure del rumore prodotto dall’arrivo dei ladri che avevano scassinato la porta per rubare le gemme e gli ori che erano in bottega. Insomma, il nostro artista era della categoria di quelli che “ogni lasciata è persa”. Unica condizione era che la sua compagna occasionale fosse giovanissima, come quella volta che un suo amico orefice venne a Roma e si recò a casa di Cellini per cenare, portando con sé una prostituta bolognese di nome Faustina che era accompagnata a sua volta da una servetta di circa tredici anni52. Durante la cena Faustina cerca in tutti i modi di sedurre Cellini che rifiuta le sue avances vantandosi di rispettare quella che considerava la donna del suo amico. Un onore certo fuori posto se poi, dopo cena, Cellini approfitta subito della piccola servetta che, con volgare comicità, Cellini definisce «nuova nuova», intendendo con quest’espressione, d’averla scoperta vergine. Il giorno dopo Cellini si sente male, e confida al medico, per questo interpellato, che certamente il suo male non poteva essere dovuto alla sifilide (allora chiamata “morbo gallico”), di cui aveva una paura tremenda, perché, appunto, la fanciulla era vergine53.

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Ibidem, libro I, XXIX. Ivi.

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IL “MORBO GALLICO”

Questa infausta malattia comparve in Italia, appunto, nel XVI secolo, pare portato dalle truppe di Carlo VIII, re di Francia, e per questo chiamata “morbo gallico”. Le cure di quel tempo erano ovviamente di tipo improvvisato ed empirico e, disgraziatamente, quasi tutte praticate con l’applicazione di impiastri a base di mercurio. L’uso di questa sostanza spesso peggiorava la condizione dei pazienti e, talvolta, risultava addirittura letale. Cellini racconta infatti che a Roma capitò una volta un “medico” di nome Jacopo Berengario da Carpi che si vantava di conoscere rimedi miracolosi per questo brutto male, tanto da essere richiesto di esercitare le sue cure in esclusiva alla corte pontificia. Ma il “medico”, rifiutò l’invito affermando di essere un professionista indipendente e quindi di non voler essere al servizio di nessuno. Si faceva pagare lautamente prima delle cure che somministrava a molti pazienti e quasi subito dopo pensava bene di scomparire dalla città perché, racconta sempre il Cellini, sarebbe di certo stato ammazzato dai pazienti sopravvissuti che, dopo le costose cure, stavano «cento volte» peggio di prima54. Questa speculazione da parte di improvvisati medici sulle paure della gente per questo brutto male, sarebbe confermata da un episodio avvenuto in Francia, il paese da cui in Italia si riteneva fosse stato introdotto il male. La storia è questa: un giorno un frate dell’abbazia di Saint-Denis, alla periferia di Parigi, vede un uomo chino sulla tomba di Carlo VIII, re di Francia, in atteggiamento devotissimo. Il religioso si avvicina e fa osservare al “fedele” che quella non era la tomba di un santo, per cui non era il caso di rivolgerle tutte quelle preghiere e con così tanta devozione. L’uomo, che si chiamava Hery, rispose che era un «cerusico» (un “chirurgo”) e che era venuto a pregare sulla tomba del re

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Ibidem, libro I, XXVIII.

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Mogli, garzoni e amanti

per ringraziare il sovrano che, con le sue truppe, aveva introdotto la sifilide, quella “santa” malattia che gli aveva permesso di girare il mondo proponendo i propri rimedi per i quali lui era diventato ricchissimo55. Questo flagello, che colpiva gli esseri umani nella loro più amorosa “pratica”, era al centro delle più svariate ricerche delle intelligenze mediche del tempo, tanto da far fiorire le più improvvisate e curiose terapie. Tra queste vi fu la cosiddetta «cura del legno» che sostituì con successo la pratica di impiastri col mercurio. Si trattava di una pozione ottenuta facendo bollire il legno guaiaco, importato dalle Antille, fino a far evaporare metà dell’acqua in cui era immerso il legno. Il rimedio era stato teorizzato dallo spagnolo Giovanni Consalvo che aveva contratto il male dopo essere stato nelle Indie Occidentali (come allora si chiamavano le Antille). Nonostante la scarsissima efficacia di questo secondo rimedio, si formarono comunque due scuole di pensiero (una “mercuriale” ed una “del legno”), che vide il fiorire addirittura di trattati polemici di una scuola contro l’altra, spesso ammantati di cultura mitologica: in uno di questi testi (1530, «Syphilis sive de morbo gallico», del letterato e medico Fracastoro da Verona) si narrava infatti la triste storia di un giovane pastore dell’Attica che, al tempo della Grecia classica, si vantava di esercitare un fascino irresistibile sulle donne e che, per questa sua qualità di grande seduttore, aveva avuto più amori di quanti ne avessero consumati Giove ed Apollo messi assieme. Queste vanterie sarebbero giunte alle orecchie degli dei sull’Olimpo, ma mentre Giove non se ne curò, Apollo se la prese di brutto, vedendo la sua fama di dio dell’armonia e della bellezza sfrontatamente offuscata da un semplice pastorello. Sentendosi terribilmente offeso, Apollo colpì lo sfortunato giovane con la sifilide, la terribile malattia. Questo orrendo malanno, prese così il nome del pastorello che, infatti, si chiamava Sifilo. Ma la storia non finisce qui: intervenne infatti Minerva, che aveva visto tutto l’avvenimento e si mosse a pietà nel vedere la giovane bellezza del pastorello deturpata da pustole e da ulcere da cui uscivano putridi umori. Apparve quindi in sogno al pastorello consigliandogli di immergersi in acque «mercuriali» per guarire. Malattia e rimedio, grazie a Fracastoro, ebbero così anche il loro colto ascendente mitologico56. 55 A. DEL VITA, Galanteria e lussuria nel Rinascimento, Ed. Rinascimento, Arezzo 1952, p. 83. 56 G. FRACASTORO, Syphilis sive de morbo gallico, Libro III, 1530. Trad. it., V. BENINI, Della sifilide ovvero del morbo gallico, Soc. Tip. Classici italiani, 1813.

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L’OMOSESSUALITÀ NEL RINASCIMENTO

Le attività erotiche di Cellini sono dunque d’ogni genere, come abbiamo visto, e tra queste non mancano i rapporti omosessuali, come quella volta a Firenze quando venne condannato a quattro anni di carcere, poi commutati in arresti domiciliari, perché reo confesso di sodomia. “Per Ganimede”: Cellini definisce così il reato sessuale per il quale fu prima condannato e quindi graziato dopo qualche mese da Cosimo I, granduca di Toscana57. Certo in questa “attività” dobbiamo dire che Cellini si mostrava recidivo: già, infatti, nel 1523 era stato accusato di intrattenere rapporti «proibiti» con il giovane Domenico di ser Giuliano da Ripa58. Ma anche in questo caso il tribunale che lo condannò fu pietoso, infliggendo la pena di dodici misure di farina in luogo dei trenta fiorini d’oro che prevedeva la legge. La lievità della condanna rivela quale effettiva tolleranza vigesse attorno al reato di sodomia, tanto che Cellini si ritrovò a definire la sodomia nientemeno che come «nobile arte». Come quella volta che, davanti al granduca Cosimo I, reagì agli insulti dello scultore, suo rivale, Baccio Bandinelli che di quell’abitudine l’aveva appunto accusato apostrofandolo così: – «Oh sta cheto, soddomitaccio». – «O pazzo», rispose Cellini gridando, «tu esci dei termini; ma Iddio ‘l volessi che io sapessi fare una così nobile arte, perché e’ si leggie ch’e’ l’usò Giove con Ganimede in paradiso…»59. Ed è talmente vero che Cellini non mostra disprezzo per la pratica omosessuale che non calca la mano quando descrive le abitudini di 57 B. CELLINI, Vita, op. cit., p. 619n. dell’edizione a cura di E. CAMESASCA, Rizzoli, Milano 1985. 58 C. PORCU, La vita e l’arte, in J. POPE-HENNESSY, Cellini, p. 46, Rizzoli, Milano 2005. 59 B. CELLINI, Vita, op. cit., libro II, LXXI.

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Giorgio Vasari, l’artista e letterato suo contemporaneo, autore di quella imponente opera storica con le biografie di tutti gli artisti italiani che l’avevano preceduto. Racconta infatti il Cellini che Vasari aveva l’abitudine di dormire con un garzone della bottega di Benvenuto Cellini stesso, tale Manno Sbarri. E non infierisce neppure quando, di Vasari, Cellini vuole parlar male (chiamandolo spregiativamente «Giorgetto»), preferendo farlo passar per… stupido e sozzone. Racconta infatti Cellini che Vasari era affetto da una «lebbrolina secca» (forse scabbia?) che gli procurava un prurito insopportabile. Quando Vasari giaceva con il detto Manno, si sbagliava gamba e grattava quella di Manno Sbarri anziché la propria, fino a quasi scorticarlo, dal momento che, confondendosi gamba, non provava sollievo. Nella disistima verso Vasari, Cellini, anziché disprezzare il fatto che i due uomini dormissero assieme, preferisce precisare che la cosa era insopportabile perché Vasari si grattava con quelle sue unghie sporche che non si tagliava mai60. A questo proposito va subito precisato che nel Rinascimento italiano (così come nell’antichità classica), sebbene il rapporto omosessuale fosse ufficialmente condannato (allora veniva definito «peccato innominabile»61), non rappresentava in realtà una trasgressione culturalmente spregevole. Gli umanisti, gli artisti ed i poeti del Rinascimento, infatti, recuperarono ed assorbirono la cultura classica così profondamente da assumerne anche i valori di tolleranza nella morale privata: a questo proposito basti pensare ai rapporti nell’antica Grecia tra i discepoli ed i loro educatori, dove questi ultimi non nascondevano la loro “ammirazione” per i loro acerbi virgulti. Questo orientamento, nobilitato da una raffinata giustificazione filosofica, trova conferma nell’opera Il Convito (1475) di Marsilio Ficino, dove afferma che una delle proprietà del neoplatonismo consiste nella passione d’amore per la bellezza fisica umana, «che era un modo di accettare e giustificare (al fine di purificarla ed orientarla filosoficamente) l’inclinazione più violenta degli uomini del suo tempo verso la bellezza fisica, in modo particolare quella dei giovanetti»62. Sempre il Ficino dedica il suo Commento al Convivio di Platone a Giovanni Cavalcanti

Ibidem, libro I, LXXXVI. R. e M. WITTKOWER, Nati sotto Saturno, p. 187, Einaudi, Torino 1968. 62 A. CHASTEL, Arte e umanesimo a Firenze, Einaudi, Torino 1964, p. 296. 60 61

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che il Ficino aveva scelto come compagno ed amico e dal quale trasse grande “consolazione”. Nella sua opera il grande filosofo e umanista esalta la qualità dell’«amor socraticus» che, afferma, è proficuo sia per il maestro che può contemplare nel giovane discepolo la bellezza divina, che per il fanciullo che per mezzo del contatto col maestro apprende il distacco dalla mera brutalità erotica e conquista la vera felicità: «Voi mi domandate a che sia utile lo Amore socratico. Io vi rispondo: che è prima utile a sé medesimo a ricomperare quelle ali con le quali alla patria sua rivoli. Oltre a questo è utile alla Patria sua sommamente a conseguitare la onesta e felice vita»63.

I riflessi in arte di questo impianto “intellettuale” si hanno nell’androginia della rappresentazione degli angeli, configurati nella forma di ambigui adolescenti dai riccioli civettuoli e nell’adolescente David di Donatello, talmente incantevole e languido da gareggiare in sensualità con le seducenti forme degli ermafroditi dell’arte classica greca e romana, come possiamo ammirare nell’Ermafrodito oggi conservato alla Galleria Borghese di Roma. Così come la schiera d’uomini nudi che chiude l’orizzonte nel Tondo Doni, di Michelangelo, così ben descritti Charles de Tolnay: «Parecchi adolescenti nudi dai capelli inanellati d’una bellezza elastica e gracile… Uno degli efebi stringe l’altro e un terzo sembra volerlo sottrarre alla stretta…»64. Od ancora ecco come si esprime il Vasari, quando descrive il Bacco di Michelangelo, esclamando in maniera esplicita: «ha voluto tenere una certa mistione di membra meravigliose, e particolarmente avergli dato la sveltezza della gioventù del maschio, e la carnosità e tondezza della femmina»65.

D’altro canto gli accademici dell’umanesimo fiorentino, fedeli all’imitatio Platonis, teorizzavano «l’amore filosofico dei giovanetti» quale caratteristica peculiare dell’intellettualità aristocratica, facendo così in maniera che la nobiltà dell’assunto filosofico vestisse di più

Ibidem, p. 299. Ibidem, p. 301. 65 G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. VII, p. 150. 63 64

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persuasiva accettabilità la diffusa tolleranza verso la pratica omosessuale. Questa impostazione culturale è ben descritta da André Chastel: «l’Eros platonicus, come lo concepivano i nobili spiriti di Careggi [la collina fuori Firenze dove Marsilio Ficino fondò l’Accademia Neoplatonica] favoriva una «sublimazione» necessaria dei costumi; contribuiva anche a precisare le affinità elettive che univano l’arte [del Rinascimento] a quella antica. Giustificando l’attenzione alla bellezza “epicena” e alla bellezza virile, invitava a sollevarne l’immagine su un piano superiore, dove il sentimento poteva esprimersi interamente»66. (I corsivi sono miei).

A conferma di questa indulgenza e permissività basti pensare che nel Rinascimento era talmente tollerata l’omosessualità, spesso praticata addirittura in famiglia, che sovente le famiglie povere avviavano i fanciulli verso la prostituzione attraverso questa pratica, in quanto poteva procurare loro una fonte di reddito straordinaria e, contemporaneamente, evitava il rischio di trovarsi in casa nipotini indesiderati67. Dobbiamo inoltre sapere che a Firenze, un adolescente che volesse frequentare una bottega d’arte, lo faceva certo per imparare il mestiere, ma, abitando nella casa del maestro, veniva spesso impiegato anche per adempiere alle incombenze domestiche, ma frequentemente era utilizzato come modello. Il progetto per le figure da dipingere era infatti preceduto dal disegno delle medesime, per le quali la pratica costante nel Cinquecento era quella di disegnare le figure dapprima svestite e quindi in seguito addobbarle secondo convenienza68. Non ci dobbiamo quindi stupire se la fama di pratiche sodomitiche accompagnasse spesso gli artisti nel Rinascimento. A dimostrazione di questo costume possiamo ricordare l’episodio di quel padre che si rivolse a Michelangelo perché assumesse il proprio figlio o come garzone o come modello, dicendogli: – Se lo vedessi, non che in casa ma lo cacceresti nel letto!69 Michelangelo rifiutò il ragazzo: e qui avremmo una prova del fatto che, forse e probabilmente, Michelangelo non era omosessuale. Ma di questo parleremo più avanti. A. CHASTEL, Arte e umanesimo…, op. cit., pp. 298 e 303. S. ZUFFI e M. BUSSAGLI, Arte e erotismo, Electa, Milano 2001, p. 75. 68 M. WACKERNAGEL, Il mondo degli artisti nel Rinascimento fiorentino, Carocci, Roma 1994, p. 375. 69 A. DEL VITA, Galanteria…, op. cit., p. 192. 66 67

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Si racconta inoltre che l’omosessualità contasse una inusitata espansione nel Rinascimento, se è vero che, per cercare di porvi rimedio, le autorità veneziane all’inizio del XVI secolo emisero un’ordinanza che obbligasse le prostitute a mostrarsi alle finestre esibendo i seni nudi per meglio adescare gli uomini e distoglierli così dall’amore «contro natura»70. Va detto anche che le cortigiane veneziane vestivano spesso abiti maschili, non sappiamo se per meglio adescare gli uomini così “distratti” o per poter entrare nelle chiese cui era loro proibito l’ingresso. Adottavano inoltre la capigliatura “a fungo”, con i capelli raccolti a ciuffo che ricadevano sulla fronte, come usavano i ragazzi di quel tempo a Venezia. In ogni modo il travestimento sessuale era molto diffuso ed apprezzato da veneziani cui non pareva vero di poter così mimetizzare i loro gusti promiscui per uomini, donne e ragazzi71. La tolleranza verso le cortigiane “travestite” è misurata dalla lettura delle sentenze criminali: per un uomo travestito da donna si poteva comminare il rogo (come avvenne per quel disgraziato che il popolo chiamava “Barbara” in Campo dei Fiori a Roma), mentre per una donna travestita da uomo la punizione era blanda72. Pare inoltre che le cortigiane di aspetto androgino godessero di un favore speciale da parte della clientela maschile73 così come l’Aretino esalta la «molto apetitosa» figura di un ermafrodito dal nome di Zufolina: «Ecco il favellar di voi è di donzella, e il proceder vostro di Garzone; tal che chi non vi conosce per quella né per questo, vi giudica or cavaliere ora alfana, idest ninfa e pastore, cioè agente o paziente»74.

70 La notizia è riportata in P. LARIVAILLE, La vita quotidiana delle cortigiane…, op. cit., p. 188, mentre sullo stesso argomento solleva dei dubbi riducendo il fatto ad una diceria popolare C. HENRY in “Civiltà puttanesca” e armi della seduzione nei ritratti delle cortigiane veneziane, in A. LEVY, Sesso nel Rinascimento, Le Lettere, Firenze 2009, p. 113, che cita G. SCARABELLO, Per una storia della prostituzione a Venezia tra il XIII e il XVIII secolo, in «Studi Veneziani», 17 (2004). 71 C. DELL’ORSO, Venezia libertina, Arsenale editrice, Venezia 1999, p. 21. 72 M.G. MAZZUCCO, Jacomo Tintoretto & i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana, Rizzoli, Milano 2009, p. 242. 73 Ivi. 74 P. ARETINO, Lettere, 471, qui dall’edizione a cura di P. PROCACCIOLI, Rizzoli, Milano 1990, vol. II, p. 789.

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Ed infine quando addirittura il patriarca di Venezia, Antonio Contarini, si fece carico nel 1511 delle doglianze delle prostitute veneziane, le quali si lamentavano della diminuzione della loro clientela a causa dell’eccessiva pratica omosessuale esercitata dagli uomini75. Bisogna qui considerare che, in quel tempo, la società abbondava di giovani celibi che per diversi motivi erano privi di pratiche sessuali legittime. I motivi potevano essere diversi, quali i frequenti spostamenti, ad esempio se facevano il soldato, od anche il ritardo del matrimonio per il consolidamento del patrimonio familiare e così via. La prostituzione fu quindi tollerata quasi come calmiere agli appetiti della gioventù del tempo ma anche perché le autorità pensavano che le prostitute avrebbero posto rimedio alla pratica omosessuale che, oltre che offendere Dio, diminuiva la natalità e comprometteva la discendenza76. Tutto questo basta per confermare come l’omosessualità fosse un’abitudine intensamente praticata, tanto da provocare le violente invettive nelle frequenti prediche di San Bernardino, nel XV secolo, come quelle dei popolari frati predicatori Roberto da Lecce, Michele da Milano e Gabriele Barletta, tutte unicamente ed esplicitamente dedicate alla sodomia77. Per non parlare del più famoso frate domenicano Girolamo Savonarola che, nelle sue infuocate prediche, tuonava contro i sodomiti proponendo di bruciarli vivi in pubblico. Una punizione questa che non sarà inconsueta, soprattutto dopo i rigori della Controriforma di qualche decennio successivo: è questo infatti, tra gli altri, il caso occorso al carrettiere Vincenzo Cappellari, impiccato e poi bruciato il 31 agosto del 1592. Un tragico destino che non risparmiava neppure gli ecclesiastici, come capitò al crocifero Cipriano Boscolino, anch’esso impiccato e bruciato78. Ma l’energico frate nelle sue prediche se la prese anche con la “giustificazione filosofica” dell’amore verso i fanciulli, quell’«Eros platonicus» a cui molti intellettuali ricorrevano per nobilitare intellettualmente la “pratica”, pronunciando la sua invettiva dai pulpiti di Firenze: P. LARIVAILLE, La vita quotidiana…, op. cit., p. 189. E.S. COEN, Camilla la Magra, prostituta romana, in O. NICCOLI, Rinascimento al femminile, Laterza, Bari 1991, p. 171. 77 A. DEL VITA, Galanteria e…, op. cit., p. 192. 78 R. ZAPPERI, Eros e Controriforma, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 50n. 75 76

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«E si dice che Socrate che andava contemplando la bellezza delli giovani per contemplare la bellezza spirituale per la corporale. Io non consiglio già che tu facci così […] saria questo uno tentare Dio»79.

A questo proposito il focoso frate condannava persino l’eccessiva lunghezza delle capigliature dei fanciulli, quale possibile tentazione peccaminosa. Proprio per questo, come scrive il celebre storico toscano Francesco Guicciardini, nella sua Storia fiorentina, il Savonarola aveva “arruolato” un esercito di quindicimila adolescenti affinché vigilassero sulla costumatezza dei fiorentini80: «la sodomia era spenta o mortificata assai […] i fanciulli, quasi tutti levati da molte disonestà, e ridutti ad uno vivere santo e costumato; ed essendo per opera sua sotto la cura di fra Domenico ridutti in compagnie, frequentavano le chiese, portavano i capelli corti, perseguitavano con sassi e villanie gli uomini disonesti…»81.

La diffusione delle abitudini omosessuali destava i commenti e le osservazioni anche dei letterati, nei confronti dei quali il popolo («il volgo») usava espressioni di dileggio in quanto sospettava in loro una maggior inclinazione omosessuale rispetto ad altre categorie professionali. Ecco, a questo proposito, come recita la testimonianza di Ludovico Ariosto nella sua Satira VI: «O nostra male aventurosa etade che le virtude che non abbian misti vizii nefandi si ritrovin rade! Senza quel vizio son pochi umanisti che fe’ a Dio forza, non che persüase, di far Gomorra e i suoi vicini tristi: […]

G. SAVONAROLA, Sermone su Ezechiele, XXVIII, 78 b, qui tratto da A. CHASTEL, Arte e umanesimo…, op. cit., p. 406. 80 A. FORCELLINO, Michelangelo. Una vita inquieta, Laterza, Bari 2005, p. 49. 81 F. GUICCIARDINI, Storia fiorentina, in Opere inedite di Francesco Guicciardini, Barbera Bianchi e Comp., Firenze 1859, p. 179 da A. FORCELLINO, Michelangelo…, op. cit., p. 48n. 79

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Ride il volgo, se sente un ch’abbia vena di poesia, e poi dice: «È gran periglio a dormir seco e volgerli la schiena»82.

E se non bastasse ecco la testimonianza di Niccolò Machiavelli che, nella sua corrispondenza con Francesco Vettori83, definisce la sodomia come fatto del tutto naturale, così come Francesco Guicciardini (l’altro grande storico contemporaneo di Machiavelli) quando parla dei gusti sessuali di un componente della sua famiglia (Rinieri Guicciardini): «Furono è costumi sua cattivi, perché e’ fu dedito assai alla lussuria e massime co’ maschi, nel quale vizio fu notato pubblicamente ed èbbene carico grandissimo non solo da giovane ma da vecchio ed insino al tempo che morì»84.

Dunque una “pratica” ufficialmente riprovata ma sostanzialmente tollerata, tanto da non destare particolare scandalo per chi ne subiva l’accusa. Un’insinuazione che non risparmiò neppure il più potente e temuto pontefice del Cinquecento, Giulio II (Giuliano della Rovere), che i suoi contemporanei definivano “il terribile”. Nipote di Sisto IV, il papa che fece erigere la Cappella Sistina, Giulio mostrò presto un’energica tempra da condottiero. Per darne un’idea basti ricordare che quando nel 1494 il papa Alessandro VI, suo predecessore, concesse l’ingresso a Roma all’esercito francese, Giulio II, allora ancora cardinale Giuliano della Rovere, acerrimo nemico di Alessandro VI, entrò in città cavalcando al fianco di Carlo VIII, degli esponenti della famiglia Colonna e delle truppe svizzere e tedesche. La folla accolse l’ingresso dalla porta di Santa Maria del Popolo, accendendo fuochi per le strade e acclamando il corteo al grido di «Francia, Colonna e Vincoli»85. Dove con “Vincoli” si ricordava la Chiesa di San Pietro in Vincoli dove Giuliano era stato fatto cardinale. Ed ancora quando, ormai divenuto pontefice, alla testa del suo esercito, vestito di tutto punto alla maniera militare con tanto di corazza, risalì l’Italia riconqui82 L. ARIOSTO, Satira VI. A messer Pietro Bembo, vv. 22-33, in G. DAVICO BONINO (a cura di), Satire di Ludovico Ariosto, Rizzoli, Milano 1990. 83 A. FORCELLINO, Michelangelo…, op. cit., p. 48. 84 Ibidem, p. 429n. 85 A. FORCELLINO, Raffaello. Una vita felice, Laterza, Bari 2006, p. 132.

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stando i territori della Chiesa. La sua volontà bastava a piegare la resistenza dei potenti locali, accolto trionfalmente dalle popolazioni di quei luoghi, cui, dismessi gli abiti militari e rimessi quelli di pontefice, impartiva la benedizione apostolica. Stupì quindi il mondo per essere il primo papa condottiero della storia. Basti per tutto ricordare l’impressione che ebbe Michelangelo quando, scendendo a Roma alla sua corte, gli sembrò d’essere nel bel mezzo di una roccaforte militare anziché nel cuore della sede della spiritualità cristiana. Così si esprime il grande maestro: «Qua si fa elmi di calici e spade e ’l sangue di Cristo si vend’a giumelle, e croce e spine son lance e rotelle, e pur da Cristo pazïenzia cade. Ma non ci arrivi più ’n queste contrade, che n’andre’ ’l sangue suo ’nsin alle stelle, poscia c’a Roma gli vendon la pelle, e ècci d’ogni ben chiuso le strade»86.

Ma torniamo a quell’insinuazione circa l’omosessualità che sfiorò questo energico pontefice. Quando era ancora cardinale, Giuliano della Rovere, collezionava i ritrovamenti antichi che emergevano in quel tempo dagli scavi archeologici romani e che riuniva nel giardino della “sua” chiesa di San Pietro in Vincoli di cui era stato titolare e nella quale era stato nominato cardinale dallo zio Sisto IV (per celebrare la sua elezione alla porpora aveva fatto coniare una moneta sul retro della quale erano rappresentate le catene di S. Pietro conservate in quella chiesa)87. Tra i reperti dell’antichità venuti alla luce spiccava lo splendido Apollo del Belvedere, un’affascinante figura maschile, copia romana di un bronzo del IV secolo a.C., attribuito allo scultore Leocare e che per la sua fattura richiama le delicatezze e le morbidezze delle sculture di Prassitele. Giulio II ne era letteralmente sedotto al punto da suscitare maldicenze e sospetti sui suoi gusti sessuali che trovavano facile eco nei sonetti satirici che lo riguardavano. Tra questi il più esplicito è quello che si ritrova nei Diarii di Marin Sanuto (o “Sanudo”, storico e cronista veneziano a cavallo tra Quattro

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W. BINNI, Michelangelo scrittore, Einaudi, Torino 1975, p. 43. A. FORCELLINO, Raffaello…, op. cit., p. 172.

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e Cinquecento), che fu affisso a Cesena quando il papa sostò in città durante la spedizione contro Perugia e Bologna, in cui si dileggiava la passione del pontefice per il vino e per il sesso maschile: «[…] Bastiti esser provvisto de Corso, de Tribiam, de Malvasia, e de’ bei modi assai de sodomia; menor biasmo te fia col Squarzia e Curzio nel sacro palazo tenir a bocha il fiasco e in cullo el cazo»88.

C’è da dire che Giulio II si rifece, in ogni modo, una reputazione eterosessuale generando ben tre figlie, tra cui la prediletta Felicia, che il pontefice amò profondamente e che rimase al fianco del padre durante tutto il suo regno89.

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O. NICCOLI, Rinascimento anticlericale, p. 83, Laterza, Bari 2005. A. FORCELLINO, Raffaello…, op. cit., p. 137.

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NOMEN OMEN (Antonio Bazzi detto Il Sodoma)

Ma trattandosi di questo argomento dell’omosessualità bisogna infine riconoscere che, su tutti, trionfa il grande artefice Giovanni Antonio Bazzi, che per le sue evidenti inclinazioni sessuali è passato alla storia con il suo soprannome: infatti fu detto ed oggi ancora nominato il “Sodoma”. Artista di indiscussa fama, tanto da meritarsi il ritratto a fianco di Raffaello nella Scuola d’Atene nella Stanza della Segnatura in Vaticano. E tutto questo nonostante la fama di personaggio a dir poco stravagante, talvolta giudicato al limite della pazzia, così come racconta lo storico e biografo Paolo Giovio: «Il vercellese Sodoma, notissimo nella città di Siena, per una mente estrosa ed incostante, fino all’affettazione della pazzia»90. Di pazzia lo accusò anche Fra Domenico da Lecco, generale dei monaci di Monte Oliveto vicino a Siena. L’abate lo chiamava “il Mattaccio” e lo accusava di aver dipinto in quel convento alcune storie di San Benedetto con superficialità e senza diligenza. Il Sodoma, risentito, chiuse le stanze in cui stava dipingendo impedendo a chiunque di poter vedere cosa dipingesse. Per far dispetto ai monaci, dipinse l’ultima parete con la storia di Fiorenzo, nemico di San Benedetto, per la quale si narra che il prete rivale del santo condusse sotto le mura del convento di San Benedetto un gran numero di meretrici. Sodoma le dipinse che ballavano e cantavano tutte completamente nude: l’ira di Fra Domenico fu tale che costrinse l’artista a coprire il tutto e sostituire quelle immagini oscene con le immagini del viso dei frati più anziani del convento. Ma anche queste non ebbero fortuna: pare che, qualche tempo dopo, a tutte quelle teste venissero cavati gli occhi ed 90 «Sodomas Vercellensis praepostero instabilique iudicio usque ad insaniae affectationem Senarum urbe notissimus…», in P. GIOVIO, Fragmentum trium Dialogorum: Dialogus de viris litteris illustribus, ecc., (1525-27), in P. BAROCCHI (a cura di), Scritti d’arte del Cinquecento, vol. 32, tomo I, pp. 17-18, Ricciardi, Milano 1973.

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altre ancora grattate via91. Il perché di tutto questo nessuno storico ce lo spiega: cosa cercava sotto quelle teste chi si era messo a grattare la pittura…? Benché il Sodoma si fosse sposato all’età di trentatre anni, ed ebbe da quel matrimonio tre figli, la sua fama di omosessuale non ne venne intaccata, così come emerge abbastanza chiaramente anche dalle sue opere nelle quali le figure maschili appaiono dipinte con un ricercato e compiaciuto interesse per l’anatomia, e ritraendo i personaggi che a questo scopo bene si prestavano (ad esempio San Sebastiano) in pose di evidente mollezza e languore. Ma, a riprova della tolleranza culturale nel Rinascimento verso questa inclinazione sessuale (e forse anche verso una sorta di pedofilia nel caso del nostro artista), il Sodoma non sembra crucciarsene, anzi se ne fa un vanto e pare ne andasse fiero. Ecco infatti come lo racconta il Vasari: «Era oltre ciò uomo allegro, licenzioso, e teneva altrui in piacere e spesso con vivere poco onestamente: nel che fare, però che aveva sempre attorno fanciulli e giovani sbarbati, i quali amava fuor di modo, si acquistò il sopranome di Soddoma; del quale non che si prendesse noia o sdegno, se ne gloriava…»92.

Un vanto ed un orgoglio che qualche volta il Sodoma esagerò nell’esibire e per questo un giorno mal gliene incolse. Avvenne, infatti, che il pittore, quando si era recato a Firenze per dipingere la facciata del refettorio di quel convento a Monte Oliveto di cui abbiamo già fatto cenno poc’anzi, aveva pensato di portare con sé uno splendido cavallo berbero, avendo saputo che in quei giorni si teneva il palio di San Barnaba. Così pensò di far gareggiare il proprio cavallo. Doveva essere uno straordinario animale, perché vinse la corsa suscitando l’entusiasmo della folla. Come era costume, al termine della corsa iniziarono a squillare le trombe ed un gruppo di fanciulli iniziò a scandire il nome del proprietario del cavallo vincente, gridandolo al ritmo delle fanfare, esattamente come si fa oggi negli stadi con i calciatori, trascinando nell’urlo tutta la folla. Ma nessuno sapeva il nome del proprietario, per cui un ragazzino chiese a Giovanni Antonio il suo nome. Il Bazzi rispose: «Sodoma, Sodoma!». E qui partì il ritmo e 91 92

G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. VI, pp. 382-3. Ibidem, p. 380.

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Nomen omen

l’urlo «So-do-maa! So-do-maa!». Quella parola scandita, urlata in cantilena, risuonava per tutta la piazza, ma non suonò gradita agli anziani benpensanti seduti in tribuna: «Come è possibile che si inneggi a questo scellerato costume nella nostra piazza, questa è certo una ribalda sfrontatezza dei giovani». E così cominciarono a redarguire i fanciulli che cercarono però di ribellarsi respingendo i rimproveri degli anziani e provocando quindi la reazione della gente. La contesa tra giovani ed anziani, infatti, finì per coinvolgere presto tutta la folla. Chi difendeva i propri figli e chi accusava i ragazzi di improntitudine. Insomma, si fece in questo modo una tal confusione della quale, alla fine, si ritenne responsabile il Sodoma quale provocatore sfacciato del coro dei ragazzi. Nel veder guastata quella che era sempre stata una festa giuliva e felice, la rabbia montò tra la gente. Qualcuno prese una pietra e la lanciò verso il Sodoma e fu questo l’inizio di una furibonda sassaiola contro l’artista che se la diede a gambe levate, seguito dal suo cavallo berbero e, ad aumentare la comicità della scena, l’artista era rincorso anche da quella scimmietta che il Sodoma portava sempre con sé accovacciata sulla sua spalla93. Questo fatto della scimmietta portata sulla spalla dall’artista è un comportamento dovuto alla stravaganza dell’artista che così viene descritta dal Vasari: «Dilettossi, oltre ciò, d’aver per casa di più sorte stravaganti animali; tassi, scoiattoli, bertuccie, gatti mammoni, asini nani, cavalli barbari, galline nane, tortole indiane, ed altri si fatti animali, quanti gliene potevano venire alle mani»94.

Non conosciamo i motivi di questo bizzarro comportamento del Sodoma, ma un immondo sospetto potrebbe sorgere se diamo retta ad alcuni sonetti apparsi a Siena nel 1526 in cui si irride al soprannome dell’artista, alludendo malignamente alla compagnia degli animali come una necessità per soddisfare una perversa inclinazione erotica del maestro95.

Ibidem, p. 389. Ibidem, pp. 380-381 95 M. WACKERNAGEL, Il mondo degli artisti…, op. cit., p. 417. 93 94

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L’OMOSESSUALITÀ DI LEONARDO DA VINCI

Esiti meno infelici e traumatici occorsero a Leonardo da Vinci che, accusato di sodomia da fonti anonime, subì per questo motivo addirittura due processi. Qui va precisato subito che l’omosessualità del grandissimo artista toscano è un fatto desunto da episodi quali, appunto, i due processi subiti, fatti storicamente inoppugnabili, come anche da descrizioni solamente allusive all’omosessualità del grande maestro a causa della sua predilezione per gli allievi Salaì e Francesco Melzi. A sostegno di questa riserva sulla incertezza delle prove dell’omosessualità di Leonardo, vale forse quella sua descrizione sulla condizione dell’artista che, a suo dire, sarà eccellente quanto più la sua vita sarà condotta in solitudine, senza cedere ad inclinazioni affettive di alcuna natura, siano esse d’amore od anche solo d’amicizia: «Acciò che la prosperità del corpo non guasti quella dello inciegno, il pittore ovvero disegniatore debbe essere solitario, e massime quando è intento alle ispeculazione e considerazione, che continuamente apparendo dinanzi algli ochi, che dànno materia alla memoria d’esser bene riservate. E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo, e se sarai accompagniato da un solo compagnio, sarai mezo tuo, e tanto meno quanto sarà maggiore la indiscrezione della sua pratica; e se sarai con più, caderai più in simile inconveniente. […] E se pure vorrai compagnia, pigliala del tuo istudio: questa ti potrà giovare [a]ver conferimento che acade dalle varie speculazione; ogni altra compagnia ti potrebbe essere assai dannosa»96.

Ma a contraddire queste affermazioni di una necessaria di solitudine e quindi di una sorta d’ascetismo per giungere all’eccellenza nella pra96 LEONARDO DA VINCI, Della vita del pittore nel suo studio, dal Codex Urbinas Latinus, 1492, in P. BAROCCHI (a cura di), Scritti d’arte…, op. cit., vol. 32, tomo II, pp. 1295-96.

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L’omosessualità di Leonardo da Vinci

tica dell’arte, ecco che interviene la maliziosa descrizione dei rapporti di Leonardo con il proprio allievo Gian Giacomo Caprotti. Era costui un bellissimo fanciullo di circa dieci anni cui Leonardo diede il soprannome di Salaì. Il nomignolo stesso di Salaì pare derivasse dal Morgante del Pulci, dove il nome è utilizzato quale sinonimo di «Satana»97, quasi una conferma della peccaminosa tentazione che l’aspetto del fanciullo esercitava sul maestro. Così si esprime, infatti, il Vasari: «Prese in Milano Salai Milanese per suo creato, il quale era vaghissimo di grazia e di bellezza, avendo begli capelli ricci e inanellati, de’ quali Lionardo si dilettò molto…»98.

L’accondiscendente debolezza di Leonardo nei confronti di Salaì sta nei fatti documentati dalle annotazioni di Leonardo medesimo circa il comportamento dell’avvenente fanciullo: nelle sue note il grande artista definisce l’allievo come cocciuto, bugiardo, ladro e golosone, ma nonostante questo, lo colma di regali, anch’essi significativi della qualità delle attenzioni di Leonardo, sospettabili d’erotismo, nei confronti del giovanissimo allievo: i doni furono infatti un anello, una collana, calzoni e camicie alla moda e un mantello damascato d’argento99. Nonostante i difetti del fanciullo, lazzarone e bighellone, rimproverato spesso dal maestro per la sua svogliatezza in bottega, oltre che per i furti di materiale della bottega che poi il ragazzo rivendeva, Leonardo lo tenne con sé per circa ventisei anni, colmandolo di attenzioni sostanziose: oltre ai doni diretti al giovane, Leonardo procurò anche la dote per una sorella di Salaì, assunse suo padre come fittavolo nella sua vigna, e menzionò generosamente il ragazzo nel proprio testamento100. Ma uno dei fatti accertati dell’omosessualità di Leonardo furono i due processi per sodomia, subiti in gioventù a Firenze, come avevamo detto poco sopra. Alcuni storici hanno dubitato della veridicità dei fatti essendo i processi scaturiti da denunce anonime e quindi classificati come maldicenze nei confronti del grande maestro. Ma bisogna ricordare che a Firenze esistevano i cosiddetti «tamburi», vere e R. e M. WITTKOWER, Nati…, op. cit., p. 189. G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. IV, pp. 37-38. 99 R. e M. WITTKOWER, ibidem, p. 189. 100 Ivi. 97 98

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proprie scatole rotonde, installate sia in Palazzo Vecchio101 che alle colonne delle principali chiese fiorentine102, dove chiunque poteva infilarci accuse anonime, che venivano prese in serissima considerazione e, se suffragate da ulteriori testimonianze, la giustizia avrebbe fatto il suo corso inesorabile. Dagli atti degli archivi fiorentini ecco cosa si legge in questa denuncia del 9 aprile 1476, presa in esame da «li uffiziali de notte et monasteri», contro un tal Iacopo Saltarelli e che originerà il primo processo per sodomia a Leonardo quando il maestro aveva circa 24 anni: «Notifico a Voi Signori officiali come egli è vera cosa che Iacopo Saltarelli fratello carnale di Giovanni Saltarelli, sta con lui all’orafo in Vaccherecchia, dirimpetto al buco [il tamburo delle denunce]: veste nero d’età d’anni 17, o circa. Il quale Iacopo va dietro a molte misserie et consente compiacere a quelle persone che lo richiegono di simili tristizie. Et a questo modo à avuto a fare di molte cose, cioè servito parecchie dozine di persone delle quali ne so buon date, et al presente dirò d’alchuno: Barholomeo di Pasquino orafo, sta in Vaccherecchia. Lionardo di Ser Piero da Vinci, sta con Andrea de Verrocchio. Baccino farsettaio, sta in Or San Michele in quella via che v’è due botteghe grandi di cimatori, che va alla loggia de’ Cierchi: ha aperto bottega di nuovo di farsettaio. Lionardo Tornabuoni, dicto il teri: veste nero. Questi ànno avuto a soddomitare decto Iacopo: et cosí vi fo fede»103.

A fronte di questa denuncia non furono reperiti testimoni, per cui Leonardo e gli altri furono assolti con una motivazione molto particolare e curiosa che recita così: «absoluti cum conditione ut retamburentur», cioè a condizione che l’accusa non fosse ripetuta nei «tamburi». Cosa che invece puntualmente avvenne due mesi dopo. L’accusa fu quindi reiterata, ma anche questa volta nessuno si fece avanti per testimoniare la veridicità dei fatti. Probabilmente la reticenza era dovuta al timore reverenziale verso le potenti famiglie dei giovani accusati, che non avrebbero avuto difficoltà a difendere i propri figli in giudizio quando non addirittura a promuovere ritorsioni contro gli accusatori: Ibidem, p. 188. D. MERESKOVSKIJ, Leonardo da Vinci, p. 42, Giunti, Firenze 1998. 103 R. e M. WITTKOWER, Nati…, op. cit., p. 188. 101 102

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Lionardo Tornabuoni era infatti probabilmente il figlio di Piero Tornabuoni, primo cugino di Lorenzo il Magnifico, mentre il padre di Leonardo era un influente notaio al servizio della Signoria di Firenze104. Ma ad un rango altolocato doveva appartenere anche Jacopo Saltarelli, il giovane che “compiaceva” Leonardo e gli altri. Infatti nel testo della denuncia anonima si fa notare che Jacopo «veste nero». Il nero era una colore molto difficile da ottenere nella tinteggiatura dei panni e l’elaborata lavorazione ne alzava significativamente il costo. Chi quindi vestiva di nero era considerato come appartenente ad una condizione sociale molto agiata105. Così come ci conferma Benedetto Di Falco, letterato del primo Cinquecento, nel suo Trattato di Amore del 1538: «Avvenne un di agli anni addietro […] nel palazzo del signor Duca di Termine […] venne per illustrar tutto ‘l palazzo, l’illustrissimo segnor marchese di Pescara, segnor di giusta persona e d’una signoril bellezza, con un marzial viso degno d’imperio, con un portamento onestissimo, vestito di nero, come usano vestire gran re e imperatori…»106.

Ma forse, oltre al fatto tecnico di non aver trovato testimoni, bisogna qui invocare ancora quella tolleranza nei costumi sessuali nel Rinascimento, di cui abbiamo fatto cenno, che probabilmente faceva in modo che anche queste accuse fossero generalmente lasciate cadere. Va detto inoltre che il prestigio che Leonardo raccolse presso i fiorentini era tale da perdonargli ogni stravaganza, compresa quella della sua stranezza ed eccentricità del vestire, così personale e assolutamente diverso dal costume comune, come ci testimonia un anonimo cronista del suo tempo: «Era di bella persona, proportionata, gratiata et bello aspetto. Portava uno pitocco rosato corto sino al ginocchio che allora s’usavano i vestiti lunghi: haveva sino al mezzo petto una bella cappellaia et inanellata et ben composta»107.

Se è dunque l’abito a far il monaco… Ibidem, p. 189. A. FORCELLINO, Raffaello…, op. cit., p. 80. 106 A. QUONDAM, Tutti i colori del nero. Moda e cultura del gentiluomo nel Rinascimento, p. 28, Angelo Colla Editore, Costabissara (VI) 2007. 107 A. FORCELLINO, Raffaello…, op. cit., p. 79. 104 105

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Ma se per Leonardo i processi a Firenze e l’accondiscendenza verso l’avvenente Salaì sono quasi prove certe della sua omosessualità, non altrettanto si può affermare per Michelangelo. Nel suo caso, quello di un personaggio tra i massimi del Rinascimento, ci troviamo di fronte ad una tale singolarità di vita, di pensiero e di cultura da far saltare ogni categoria ordinaria di giudizio sui suoi comportamenti e quindi anche sulle sue inclinazioni erotiche. Sebbene tutta la sua opera sia un tripudio carnale, un’erompente presenza della bellezza corporea dell’umanità, noi in realtà, osservando le sue creazioni, subiamo una sensazione di tensione costante tra l’ammirazione per la carne esibita e il prepotente dubbio del primato dello spirito su di essa. Basti pensare ad una delle sue opere più grandiose, il Giudizio della Sistina: è questo un trionfo di corpi a cominciare da quel Cristo apollineo che regge senza sforzo la gran macchina di rutilante carnalità della composizione. Una composizione che è ormai senza più lo spazio razionale della prospettiva rinascimentale, dove solo il roteare delle forme sospese di ciascuna figura definiscono il dramma, rappresentato mediante le grondanti forme dei corpi, delle loro contorsioni, della loro esibita nudità. Il tutto contraddicendo quell’ideale di bellezza umana che nella stessa cappella avevano rappresentato Botticelli, Perugino, Ghirlandaio, Cosimo Rosselli e tutta l’eccellente genia quattrocentesca. Rispetto quindi a quei suoi illustri ed eccellenti predecessori, Michelangelo operò una svolta radicale, così come bene dice Hauser a proposito di quest’opera: «Né questo è l’esperimento di un eccentrico responsabile, ma opera del più illustre artista della cristianità, destinata a ornare il luogo più solenne, la parete principale della cappella privata del pontefice. Qui davvero tramontava un mondo.»108. 108

A. HAUSER, Storia sociale dell’arte, vol. I, p. 401, Einaudi, Torino 1973.

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Ancora quindi una conferma della straordinarietà dell’artista, del trovarci così di fronte ad un unicum nella sua persona che impedisce ogni valutazione ordinaria circa la sua personalità, tanto da non permettere facili conclusioni o giudizi certi, così come capita quando lo straordinario ci si para davanti e ci costringe per lo più ad una turbata ammirazione, facendoci subire quel fascino che confonde la ragione e trasforma ogni domanda od indagine in balbettio e mistero. Ecco allora che gli indizi sulla presunta omosessualità del grande maestro si sublimano in un territorio pervaso da tensioni culturali, filosofiche e teologiche tali da rendere inopportuno ogni affrettato giudizio per lasciar posto a considerazioni di natura squisitamente estetico-filosofica, quasi che l’ammirazione per la bellezza umana anziché produrre seduzione carnale, producesse in realtà una tensione altissima nel conflitto tra il corpo e lo spirito, un conflitto che ha accompagnato Michelangelo per tutta la vita. Ne sono una testimonianza le sue opere mai terminate, i cosiddetti “non finiti”. «Non ha l’ottimo artista alcun concetto c’un marmo solo in sé non circonscriva col suo superchio, e solo a quello arriva la man che ubbidisce all’intelletto»109.

È questo l’inizio del più famoso tra i sonetti del maestro. Michelangelo, che afferma che il corpo che si accinge a scolpire è contenuto nel blocco di marmo, e che si tratta solo di levare la materia superflua, sembra realizzare il paradigma platonico di distruzione della materia per giungere all’idea. Ma anche qui il problema non si risolve: Michelangelo consegna alla storia i «non finiti», gli “infinibili”, in cui il corpo gronda della materia che ancora lo circonda, lasciando aperto il dilemma se sia meglio ammirare la bellezza della forma del corpo umano o venir sedotti dalla pulsione creativa testimoniata da ogni solco di sgorbia e di scalpello lasciato intorno alle membra di marmo. Come mirabilmente ci dice Walter Pater, Michelangelo «ottiene con un incompiutezza, che di certo non è sempre involontaria, e di cui, io credo, nessuno si duole, e lascia che lo spettatore completi lui la forma semi-emergente. E come le sue figure hanno qualcosa della pietra non lavorata, così, quasi per tradurre in atto l’espressione con la 109

M. BUONARROTI, Rime, CLI, a cura di E.N. GIRARDI, Laterza, Bari 1967.

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quale le antiche carte fiorentine designano uno scultore, “maestro di pietra viva”, per lui le rocce stesse sembrano avere vita»110. Di questa impostazione platonica della vita, dell’arte e dell’amore ne è testimonianza l’intenso rapporto che Michelangelo ebbe con Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, intellettuale neoplatonica e poetessa raffinata, molto vicina a Michelangelo. Gli storici hanno frugato ogni angolo di questa relazione sospinti dalle parole del biografo di Michelangelo, Ascanio Condivi (che scrisse, però, la vita del maestro praticamente sotto dettatura dello stesso Michelangelo), per cercare, senza successo, qualcosa di più che una profonda intesa intellettuale con Vittoria Colonna. Certo è che quel passo della biografia del maestro parrebbe prestarsi a “dolci” sospetti. Eccolo: «In particolare amò grandemente la Marchesa di Pescara, del cui divino spirito era innamorato, essendo all’incontro da lei amato svi[s]ceratamente; della quale ancor tiene molte lettere, d’onesto e dolcissimo amore ripiene, e quali di tal petto uscir solevano, avendo egli altresì scritto a lei più sonetti, pieni d’ingegno e dolce desiderio. Ella più volte si mosse da Viterbo e d’altri luoghi, dove fusse andata per diporto e per passar la state, e a Roma se ne venne, non mossa d’altra cagione se non di veder Michelangelo; e egli all’incontro tanto amor le portava, che mi ricorda di sentirlo dire che d’altro non si doleva, se non che, quando l’andò a vedere nel passar di questa vita, non così le basciò la fronte o la faccia, come basciò la mano»111.

Ciononostante è sicuro, alla prova dei fatti, che il rapporto con la Marchesa di Pescara fu soprattutto di qualità squisitamente intellettuale. Bisogna infatti ricordare che benché i primi contatti con Vittoria Colonna risalgano al 1537, la loro frequentazione più stretta non inizia prima del 1542, quando Michelangelo aveva quasi settant’anni e Vittoria poco più di cinquanta112. Vittoria apparteneva ad una tra le più potenti famiglie della nobiltà romana ed aveva rafforzato la sua posizione sociale sposando il marchese di Pescara, schierato con le forze dell’imperatore Carlo V, che, quando venne a Roma, fece personalmente visita alla marchesa, confermando il rango elevatissimo a

W. PATER, Il Rinascimento, a cura di M. PRAZ, Abscondita, Milano 2000, p. 87. A. CONDIVI, Vita di Michelangelo…, op. cit., pp. 60-61. 112 W. PATER, Il Rinascimento…, op. cit., p. 93. 110

111

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cui apparteneva Vittoria. Rimasta vedova, la marchesa si dedicò alla sua passione prediletta, la poesia, riscuotendo l’ammirazione ed il plauso degli intellettuali del suo tempo. Questa sua inclinazione artistica la portò ad ammirare profondamente l’arte di Michelangelo, intessendo con l’artista un rapporto più intenso d’una semplice amicizia, farcito da dialoghi su temi umanistici, sull’arte, sulla letteratura, con uno scambio profondo col maestro attraverso una serie di scritti che furono dati alle stampe. Oltre ai dialoghi intellettuali il rapporto con Michelangelo riguardò anche riflessioni teologiche, sfiorando anche sponde per quel tempo non ortodosse, guardando con una qualche comprensione alle tesi luterane, così come si discutevano nel circolo del cardinal Pole cui si riferiva con simpatia lo stesso Michelangelo. Un rapporto quindi di profondissima cultura, scevro da sospetti erotici, così come ci testimonia chi frequentava assiduamente l’artista che così descrive il contenuto delle sue lettere: «ha rivolto il suo stato a Dio et non scrive d’altra materia»113. Questo rapporto intenso, ma “platonico”, con la marchesa parrebbe rafforzare le tesi dei sostenitori dell’omosessualità del maestro. Certo è che l’ammirazione di Michelangelo per giovani avvenenti è ben documentata, a cominciare da quel Tommaso Cavalieri che Michelangelo incontra quando ha già cinquantotto anni, mentre Tommaso ne ha solo venti. Tommaso è un nobile romano appassionato d’arte e di cui Michelangelo ha fatto il ritratto. Una pratica, questa del ritratto, assolutamente inusuale per Michelangelo, ma, di fronte all’aspetto del giovane Tommaso, pare non abbia saputo resistere, così come riferisce il Vasari definendo il giovane di una bellezza addirittura infinita114. Tommaso viene condotto a casa di Michelangelo da Pier Antonio Cecchini, uno scultore fiorentino amico suo. Ecco cosa scrive il grande maestro a Tommaso, il giorno dopo averlo conosciuto: «[…] Però Vostra Signoria luce del nostro secolo unica al mondo, non può sodisfarsi d’opera d’alcuno altro, non avendo pari né simile a sé. E se puro delle cose mia, che io spero e promecto di fare, alcune ne piacerà, la chiamerò molto più aventurata che buona; e quand’io abbi mai a esser certo di piacere, come è decto, in alcuna cossa Vostra Signoria, il tempo presente, con tucto quello che per me à a venire,

113 114

A. FORCELLINO, Michelangelo…, op. cit., pp. 281 e sgg., e 449n. G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. VII, p. 272.

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donerò a quella, e dorrami molto forte non potere riavere il passato, per quella servire assai più lungamente che solo con l’avenire, che sarà poco, perché son tropo vechio. […]»115.

Ma non basta: dopo aver definito il giovane «luce del nostro secolo unica al mondo», accompagna la lettera con alcuni disegni il cui soggetto è certamente esplicito: uno rappresenta il Ratto di Ganimede, il giovane che il mito greco definisce come il più bello tra i fanciulli viventi116 e che Zeus, innamoratosi perdutamente del ragazzo, trasformandosi in aquila117, rapisce per portarselo in Olimpo ed amarlo. Un aquila quindi, il grande rapace, che allargando le proprie ali per avvolgere il bellissimo fanciullo è metafora esplicita dell’abbraccio del grande maestro nel confronti del giovane Tommaso. Il lettore ricorderà anche come, in quel tempo, con l’espressione “peccato di Ganimede” veniva elegantemente definita la sodomia. A rafforzare il sospetto di allusioni omosessuali arriva anche il secondo disegno con cui Michelangelo accompagna la lettera. Si tratta del Supplizio di Tizio (Fig. 3), il gigante del mito greco punito dagli dei per aver tentato di violare Latona, madre di Apollo: Tizio viene legato nel Tartaro con un’aquila che gli mangia il fegato che ricrescerà ad ogni luna nuova. Le catene dunque, quale metafora di un indissolubile legame d’amore. Ed ancora una volta l’aquila, sempre lo stesso grande rapace che tormenta il corpo di Tizio-Tommaso. Tra l’altro proprio nel fegato e, come si sa, per gli antichi il fegato era la sede del desiderio sessuale. Un desiderio che resisterà alla soddisfazione del rapace, rinnovandosi ogni volta al riapparire dell’oggetto del desiderio. Conclude la serie dei disegni La caduta di Fetonte, il figlio del Sole, che, non ascoltando i saggi consigli del padre, si lanciò in una corsa sfrenata. Ma non sapendo governare i cavalli impetuosi del carro solare fu fulminato da Zeus. Una scoperta allusione alla presunzione di Michelangelo ormai anziano (… perché son tropo vechio…) per aver desiderato di avvicinarsi troppo al sole dello splendente giovane Tommaso118. E per ultimo (pare) un disegno che per soggetto aveva Il baccanale dei fanciulli, dalla scoperta allusività erotica.

115 F. TUENA, La passione dell’error mio. Il carteggio di Michelangelo, p. 5, Fazi, Roma 2002. 116 R. GRAVES, I miti greci, p. 102, Longanesi, Milano 1983. 117 OVIDIO, Le metamorfosi, libro X, 155-162. 118 A. FORCELLINO, Michelangelo…, op. cit., p. 264.

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Fig. 3 - Michelangelo, Tizio tormentato dall’aquila, Londra, Windsor Castle, Royal Library.

Tutti argomenti, temi e soggetti che hanno a che fare con la giovinezza, la passione e la bellezza. Ma ecco come risponde Tommaso alla lettera di Michelangelo: « […] Penso bene, anzi son certo che de la affettione che mi portate la causa sia questa, che, essendo voi virtuosissimo, o per dir meglio essa virtù, sete forzato amar coloro che di essa son seguaci e che l’amano, tra li quali son io – et in questo, secondo le mie forze, non cedo a molti. Vi prometto bene che da me ricevete uguale e forse maggior cambio, ché mai portai amore ad huomo più che ad voi, né mai desiderai amicitia più che la vostra. E ne vedreste lo effetto, se non che la fortuna, in questo solo a me contraria, vuole che ora che mi potrei godere di voi stia poco sano […]»119.

Una risposta che rivela la sorpresa nel leggere le lusinghiere espressioni usate nei suoi confronti dal grande maestro, e che fa trapelare anche una sorta di imbarazzo, accampando un malessere forse diplomatico (la fortuna… contraria… vuole che… stia poco sano), per non assecondare i desideri che ha involontariamente suscitato120. 119 120

F. TUENA, La passione…, op. cit., p. 8. Ibidem, p. 9.

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Ma ecco che Michelangelo reagisce e vira apparentemente le sue considerazioni dalle pulsioni erotiche verso l’amore per l’arte nutrito da Tommaso, oltre che dichiarare di gradire l’ammirazione che il giovane porta alle opere del grande maestro. Dico «vira apparentemente» perché, sebbene Michelangelo apra la sua missiva con una correzione di tono, in realtà farcisce il discorso e, soprattutto, lo chiude con espressioni sibilline che non nascondono completamente l’esibizione di un’ammirazione puramente erotica nei confronti del giovane. Ecco il testo: «Molto inconsideratamente mi missi a scrivere a Vostra Signoria, e fui il primo, prosuntuoso a muovere, come se per risposta d’alcuna di quella, per debito l’avessi a fare; e tanto più ò dipoi conosciuto l’error mio, quante più ò letta e gustata, vostra mercé, la vostra. E non che appena mi parete nato, come in essa di voi mi scrivete, ma stato mille altre volte al mondo, e io non nato, o vero nato morto mi reputerei e direi in disgratia del cielo e della terra, se per la vostra non avessi visto e creduto Vostra Signoria ama accectare volentieri alcune delle opere mie: di che n’ò auto maraviglia grandissima e non manco piacere. E se vero è che quella così senta dentro come di fuora scrive di stimare le opere mia, se avien che alcuna ne facci, come desidero, che a-llei piaccia, la chiamerò molto più avventurata che buona. Non dirò altro. Molte cose alla risposta conveniente restano, per non vi tediare, nella penna, e perché so che Pier Antonio, apportatore di questa, saprà e vorrà suprire a quello che io manco. A dì primo, per me felice, di gennaro. Sarebbe lecito dare il nome delle cose che l’uomo dona, a che le riceve: ma per buon rispecto non si fa in questa.»121.

Questa chiusura nella missiva, che Michelangelo nel suo manoscritto allinea sulla destra forse per evidenziarla maggiormente, parrebbe nascondere il rammarico di Michelangelo per non poter essere esplicito nel dichiarare la propria passione per il giovane, per non urtare la suscettibilità del ragazzo e per non generare equivoci volgari. Il rapporto con Tommaso continuerà per tutta la vita di Michelangelo, ma si mantenne su di un tono che potremmo definire squisita-

121

Ibidem, p. 10.

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mente estetico e platonico, con il grande maestro che non disdegna di usare espressioni da innamorato appassionato nel frequente carteggio con il giovane. Un carteggio che assume i toni che sarebbero più consueti tra due amanti che non uno scambio culturale tra i due personaggi: così come quando Tommaso si lamenta di non ricevere notizie da Michelangelo non avendo da tempo sue lettere, e come subito il grande maestro si affretti a colmare il vuoto rispondendo di non aver assolutamente dimenticato il giovane, esordendo nella risposta con espressioni quali: «Signiore mio caro, se io non avessi creduto avervi in Roma facto certo del grandissimo, anzi smisurato amore che vi porto…»122.

Ma, ripetiamo, null’altro, se non questa corrispondenza, fa pensare ad un rapporto tra i due che non fosse squisitamente estetico e si mantenesse quindi su di un livello di passione assolutamente intellettuale, lasciando quindi un dubbio sulla presunta omosessualità del grande maestro, forse sublimata in un ambito astratto, dove la seduzione parrebbe squisitamente mentale e l’ammirazione puramente estetica. Anche l’episodio di cui abbiamo già parlato, di quando cioè, Michelangelo si rifiutò di incontrare quel giovane che gli era stato proposto come aiuto di bottega e che gli era stato presentato magnificandone la bellezza, sembrerebbe confermare i dubbi che Michelangelo abbia ceduto a pulsioni omosessuali. Anzi, in quell’occasione, proprio per la sfacciata allusione ad una sua possibile inclinazione di questo genere (… se lo vedessi, non che in casa ma lo cacceresti nel letto!), sembra che Michelangelo si risentisse parecchio123. Certo è che gli episodi che potrebbero confermare l’omosessualità di Michelangelo non mancano nella sua lunga vita e, oltre ad una maliziosa interpretazione della corrispondenza con Tommaso Cavalieri, potremmo citare, ad esempio, il fatto di come, quando a Firenze il solo giungere della notizia della presenza del giovane ed avvenente Luigi Pulci in città, riuscisse a distrarre Michelangelo dal suo lavoro alle Tombe Medicee.

122 123

Ibidem, p. 17. A. FORCELLINO, Michelangelo…, op. cit., p. 161.

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Storia singolare e sfortunata questa di Luigi Pulci e della sua famiglia: era nipote dell’omonimo Luigi Pulci, il grande letterato autore del Morgante maggiore e partecipe del cenacolo d’umanisti alla corte di Lorenzo il Magnifico in compagnia dei “platonici” Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e il Landino. Per aver biasimato il Savonarola, l’incendiario frate moralizzatore dei costumi fiorentini, l’umanista venne accusato di eresia ed i suoi scritti considerati sacrileghi. Fu quindi costretto a pubblicare una ritrattazione in terzine, la cosiddetta Confessione. Come se non bastasse, nel 1559, sotto papa Paolo IV, in piena Controriforma, tutta la sua opera fu inserita, nell’Indice dei libri proibiti. Sorte tragica toccò invece a suo figlio (il padre del nostro Luigi) che di nome faceva Iacopo Pulci: fu condannato a morte con sentenza eseguita per decapitazione nel 1531, per aver abusato della propria figlia. Nonostante l’adolescenza del povero Luigi sospettiamo non sia stata serena per il comportamento indegno del padre e per la sua tragica fine, divenne comunque amante delle lettere e pare possedesse una certa abilità poetica, ma soprattutto era di un’avvenenza straordinaria, tanto da turbare il cuore ad uomini e donne124. Questa sua abilità poetica era accompagnata anche dalle sue qualità canore e pare che spesso si intrattenesse con gli amici all’aperto e si mettesse ad intonare i propri stornelli. Alla notizia che Luigi era in città e che stesse cantando in riva all’Arno, Michelangelo non sapeva resistere: interrompeva il lavoro alle tombe per accorrere ad ammirare la bellezza acerba del giovane usignolo125. Luigi Pulci ebbe una fine infelice: si trasferì a Roma, dove per campare si prostituiva, e qui morì per aver contratto la sifilide. Un altro elemento che solitamente si porta per sostenere l’omosessualità di Michelangelo è la sua ammirazione per la bellezza del giovanissimo Cecchino Bracci, nipote del banchiere e letterato Luigi Del Riccio, quest’ultimo grande amico di Michelangelo. Ma anche qui vediamo che i sonetti composti da Michelangelo per la morte del giovane rivelano più la tensione meditativa sulla caducità della bellezza terrena che non l’ammirazione per l’avvenenza maschile e costituiscono soprattutto una riflessione sull’inesorabilità del destino di morte di ogni vivente, intrisi da accenni di natura squisitamente neoplatonica (il corpo come carcere dell’anima):

124 125

Ibidem, p. 216. B. CELLINI, Vita, op. cit., libro I, XXXII.

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«[…] La carne terra, e qui l’ossa mie, prive de’ lor begli occhi e del leggiadro aspetto, fan fede a quel ch’i’ fu’ grazia e diletto in che carcer quaggiú l’anima vive.»126.

Va poi segnalato che i sonetti scritti per il giovane Cecchino non furono composti su iniziativa personale di Michelangelo, quasi il maestro ubbidisse così al dolore per la perdita di un così avvenente giovinetto, ma sono stati in realtà sollecitati dallo zio di Cecchino, il già citato banchiere Del Riccio. Michelangelo, infatti, acconsente a rimare in onore della bellezza del giovane scomparso, ma pare farlo controvoglia, se non fosse che il Del Riccio lo blandiva con cibarie di varia natura che il grande maestro pare non disdegnasse, attribuendo anzi la sorgente poetica delle sue composizioni più alla prelibatezza dei cibi che il banchiere gli recapitava che alla sua virtù poetica. Infatti alle rime Michelangelo aggiunge note di questa natura: «Jo non velo volevo mandare, perché è cosa molto goffa; ma le trote e’ tartufi sforzerebono il cielo»;

ed in calce ad un altro componimento: «Questo dicono le trote e non io; però s’è versi non vi piacciono, non le marinate più senza pepe»;

ed ancora al termine d’un altro: «Per la tortola; pe’ pesci farà Urbino [servitore di Michelangelo – n.d.a.] che se gli à pappati»;

e altri ancora come: «… pe’ finocchi,… per i funghi insalati,… pel pane inficato»,

e così via127.

126 127

W. BINNI, Michelangelo…, op. cit., p. 64. Ibidem, p. 84 n.

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Come si vede più che la bellezza del giovane ed eventuali pulsioni erotiche, ad ispirare Michelangelo erano forse maggiormente il piacere della tavola e le tentazioni della gola (trote… tartufi… tortore… finocchi… funghi… pane coi fichi), così astutamente solleticate dallo zio del giovane Cecchino. A parte quindi quest’ultimo episodio, resta comunque il fatto di come tutte le attenzioni per la bellezza maschile da parte del grande maestro venissero trascese in una sfera squisitamente intellettuale e di natura filosofica. Come bene considera infatti Rudolf Wittkower: «Michelangelo e quelli che gli erano vicini consideravano l’amore platonico come la forma suprema di unione spirituale fra gli uomini, da non confondersi nello stesso mazzo con le reprensibili pratiche dei non iniziati»128. E rafforza questa sua affermazione citando lo storico dell’arte Erwin Panofsky quando dice: «fra tutti i contemporanei Michelangelo fu il solo che adottasse il neoplatonismo non per certi aspetti, ma integralmente»; e che egli «potrebbe dirsi il solo platonico autentico fra gli artisti influenzati dal neoplatonismo»129. Così testimonia anche il Condivi nella sua lunga descrizione della personalità di Michelangelo con la quale termina la biografia del maestro: «Ha eziandio amata la bellezza del corpo, come quello che ottimamente la conosce, e di tal guisa amata, che appo certi uomini carnali, e che non sanno intender amor di bellezza se non lascivo e disonesto, ha porto cagione di pensare male di lui […]. Io più volte ho sentito Michelangelo ragionar e discorrer sopra l’amore, e udito poi da quelli che si trovaron presenti, lui non altrimenti dell’amor parlare, di quel che appresso di Platone scritto si legge»130.

E questo giudizio è confermato dalle rime del maestro, prima fra tutte quelle dedicate a Tommaso Cavalieri in cui Michelangelo manifesta tutto il fascino che la bellezza umana esercita su di lui, ma come questa non sia che il tramite esteriore per giungere alla grazia spirituale ed intellettuale:

R. e M. WITTKOWER, Nati…, op. cit., p. 188. Ivi. 130 A. CONDIVI, Vita di Michelangelo…, op. cit., p. 62. 128 129

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«[…] E se creata a Dio non fusse eguale Altro che ’l bel di fuor, ch’a gli occhi piace, Più non vorria; ma perch’è sí fallace, Trascende nella forma universale.»131.

Concetto che viene rafforzato e ribadito in quella rima in cui dichiara come l’amore sensuale non garantisca alcuna gioia ed anzi come sia degradante per la spiritualità umana: «[…] Che ’l vecchio e dolce errore, Nel qual chi troppo vive L’anim’ancide e nulla al corpo giova.»132.

Ed infine, al termine della sua vita, Michelangelo porta all’estremo il rifiuto dell’appagamento dei sensi affermando che se mai l’arte a questo conducesse allora bisognerebbe rifiutare anche quella. Proprio quell’arte che l’ha reso «idol e monarca» è qui respinta in un momento di scoramento al termine della sua esistenza133: «Giunto è già ’lcorso della vita mia, con tempestoso mar, per fragil barca, al comun porto, ov’a render si varca conto e ragion d’ogni opra trista e pia. Onde l’affettüosa fantasia che l’arte mi fece idol e monarca conosco or ben com’era d’error carca e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia. […] Né pinger né scolpir fie più che quieti l’anima, volta a quell’amor divino c’aperse, a prender noi, ’n croce le braccia»134.

Ma se l’amore sensuale degrada la spiritualità umana, se addirittura l’arte lo dovesse alimentare, ecco allora un’altra prova dell’orientamento neoplatonico di Michelangelo nel sublimare la bellezza umana 131 A. BLUNT, Le teorie artistiche in Italia dal Rinascimento al Manierismo, p. 80, Einaudi, Torino 1966. 132 Ibidem, p. 79. 133 S. FERRARI, Voci dal Rinascimento, Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 120. 134 W. BINNI, Michelangelo…, op. cit., p. 73.

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affidandole solamente il compito di indicare una bellezza trascendente; quel neoplatonismo coltivato alla corte di Lorenzo il Magnifico dove Marsilio Ficino fonde la teologia cristiana con la filosofia di Platone. Una corrente che si alimenta con gli scritti di Pietro Bembo, gli Asolani, che si ispirano al Convito di Marsilio Ficino. La concezione estetica del Bembo, infatti, considera la bellezza femminile quale condensato dell’armonia del creato e l’amore per la donna altro non è che l’inizio di quel percorso che porterà alla visione del divino135, così come d’altronde confermano questi versi di Michelangelo: «[…] I’ son colui che ne’ prim’anni tuoi gli occhi tuo infermi volsi alla beltate che dalla terra al ciel vivo conduce»136.

Ma i dubbi che abbiamo sollevato circa l’omosessualità di Michelangelo potrebbero ottenere maggior conferma anche dalle sue stesse rime d’argomento amoroso, dove l’artista si concede espressioni circa la bellezza femminile che paiono scaturire da un atteggiamento francamente eterosessuale. Come ad esempio in questa descrizione: «[…] la bocca tua mi par una scarsella di fagiuo’ piena, sí come la mia; le ciglia paion tinte alla padella e torte più c’un arco di Soría; le gote ha’ rosse e bianche, quando stacci, come fa cacio fresco e’ rosolacci. Quand’io ti veggo, in su ciascuna poppa mi paion duo cocomer in un sacco, ond’io m’accendo tutto come stoppa, […]»137.

Ed ancora quando scrive al padre per scusarsi d’aver frequentato una prostituta bolognese definendosi «tristo e peccatore»138, anche se

135 P. BEMBO, Asolani, Venezia 1505, ed. ital. a cura di C. DIONISOTTI, Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, in I classici italiani, TEA Tascabili Editori Associati, Milano 1989. 136 W. BINNI, Michelangelo…, op. cit., p. 81n. 137 Ibidem, p. 45. 138 I. STONE e C. SPERONI, Michelangelo Buonarroti. Lettere, p. 80n, Dall’Oglio, Milano 1963.

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le dicerie popolari del suo tempo affermavano che Michelangelo incontrasse le prostitute al solo scopo dello studio del nudo femminile, frequentando le cosiddette «stufe», termine col quale si definivano ufficialmente i luoghi di cura del corpo, ma che erano in realtà veri e propri bordelli139. È così infatti che si spiega perché in molte città d’Italia esistono vie denominate “della stufa” come, ad esempio a Firenze in prossimità della chiesa di San Lorenzo, così come a Siena (“via della stufa secca”), Napoli (“via della stufa di San Giorgio”), Roma, ecc140. La distinzione tra stufe “secche” e stufe “umide” consisteva nel tipo di calore che vi veniva diffuso: nelle “secche” attraverso il fuoco sotto al pavimento, mentre nelle umide veniva diffuso per mezzo del vapore dell’acqua riscaldata. Dietro l’ipocrisia della destinazione di questi ambienti come luoghi di cura, in realtà si nascondeva una fiorente attività di prostituzione, alla quale poco potevano porre argine le moralistiche controffensive dei papi. D’altro canto, come poteva essere credibile la reprimenda pontificia, quando persino il papa (nel nostro caso Clemente VII) disponeva in Castel Sant’Angelo di una «stufetta»141 decorata dalla bottega di Raffaello, «dove gli affreschi alle pareti lasciavano intendere che gli dei dell’Olimpo si erano spogliati delle proprie vesti ed attributi per potersi immergere insieme al papa in una vasca, in cui versava acqua una nuda statua di Venere in bronzo»142? E fu proprio papa Clemente VII a ripristinare una vita gaudente in Vaticano, dopo l’austero, gelido e breve pontificato di Adriano VI, così come testimonia la sua abitudine di recitare il breviario al mattino nei giardini del Belvedere, «ornato di piante di aranci e di grandi statue – che divennero celebri in tutto il mondo – disposte in nicchie, Clemente recitava al mattino il breviario. La sera cenava ascoltando l’orchestra da camera diretta da Gianicomo, piffero di Cesena. Tutto quanto la cultura umanistica aveva prodotto di più incantevole (di più “pagano” avrebbe detto Erasmo da Rotterdam), gravitava con naturalezza intorno a Clemente»143. P. LARIVAILLE, La vita quotidiana delle cortigiane…, op. cit., p. 156. A. DEL VITA, Galanteria e lussuria…, op. cit., p. 78 e sgg. 141 Tutt’ora esistente in discrete condizioni. 142 A. PINELLI (a cura di), Roma nel Rinascimento, Laterza, Bari 2001, p. XXIX. 143 A. CHASTEL, Il sacco di Roma, 1527, Einaudi, Torino 2010, pp. 137-138. 139 140

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Fig. 4 - Parmigianino, 1530, Madonna della rosa, Dresda, Staatliche Kunstammlungen.

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Sempre a papa Clemente VII fu offerta dall’Aretino, noto e salace intellettuale, una delle rappresentazioni della Madonna tra le più scandalose (Fig. 4). Si tratta di una figura femminile che non fa nulla per celare le proprie caratteristiche erotiche, stante che il gesto del braccio destro ed il velo trasparente evidenziano anziché celare la turgidità dei seni. Anche il fanciullo più che il figlio di Dio, pare un piccolo amorino mentre porge distrattamente un fiore alla donna che lo sostiene sulle sue gambe. Uno storico della fine del ’700 ha quindi avanzato l’ipotesi che si fosse trattato non di una figura della Vergine, ma di una Venere e Cupido, trasformata per poter esser offerta al papa144. Il pontefice godeva anche fama di grande esperto d’arte e non esitò ad incoraggiarne l’espressione in ogni forma: conosciuto è il suo favore accordato a Marcantonio Raimondi, celeberrimo incisore, del quale apprezzò moltissimo, tra le altre, la serie di stampe degli Amori degli dei, nelle quali immagini le divinità si congiungono contorcendosi in una maniera da mettere in grande evidenza il gioco erotico145. Non ci deve stupire l’accostamento di questi argomenti alla figura del papa e quindi della corte pontificia, dove ci aspetteremmo di trovare un ambito di specchiata ed austera moralità. Ma in quel tempo la vita alla corte del papa non era molto diversa da una qualsiasi corte d’un qualsivoglia principe del Rinascimento, usi e costumi paganeggianti e peccaminosi compresi, come ci testimonia Benvenuto Cellini quando descrive il diffondersi della sifilide in Roma come un male che avrebbe colpito soprattutto i prelati, maggiormente tra i più facoltosi146. A questo proposito basti citare le memorie di Giovanni Burcardo (Johann Burchard, 1450 ca.-1536 ca.), maestro di cerimonie di papa Alessandro VI, che così racconta un episodio del 1501 durante i festeggiamenti per il matrimonio di Lucrezia Borgia, la figlia del papa: «La sera si fece una cena negli appartamenti del Duca Valentino nel palazzo apostolico; vi vennero cinquanta «meretrici oneste», dette anche «cortigiane», che dopo cena danzarono con i servitori e altri che erano presenti, prima abbigliate, poi nude. Dopo cena furono appoggiati a terra i candelieri della mensa con le candele accese; buttarono a

Ibidem, p. 161. Ibidem, p. 148. 146 B. CELLINI, Vita, op. cit., libro I, XXVIII. 144 145

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terra delle castagne davanti ai candelieri e le prostitute le raccoglievano andando carponi, nude, passando tra un candeliere e l’altro»147.

Un “dopocena” che pare fosse un abitudine di Alessandro VI anche quand’era ancora cardinale (Rodrigo Borgia), testimoniato dall’incipit di una lettera a lui indirizzata dall’allora pontefice Pio II: «Io ho vergogna nel riferire i particolari di quanto si riferisce essere accaduto […] noi lasciamo al tuo giudizio se si convenga alle più alte dignità corteggiare fanciulle».

Cosa fosse accaduto è presto detto: Pio II si era recato alle terme di Petriolo. Alcuni cardinali ed alti prelati del suo seguito, tra cui il cardinal Borgia, preferirono però aspettarlo a Siena, adducendo la scusa che le esalazioni sulfuree delle Terme erano per loro nocive o comunque insopportabili. In seguito fu riferito al papa che a Siena, alla sera, quel gruppo di prelati organizzava cene con fanciulle e donne sposate e, come prosegue la lettera di rimprovero di Pio II, facendo in modo di «escludere i mariti e ogni parente». Cene che, sempre secondo il testo della lettera di rimprovero, non si concludevano certo con… la recita di preghiere148. Successe anche che lo stesso Borgia, divenuto papa Alessandro VI avesse nominato cardinale il nobile Alessandro Farnese, che diverrà poi papa col nome di Paolo III. Tra i meriti che Alessandro Farnese si era guadagnato presso il pontefice c’era anche quello di essere il fratello di Giulia Farnese, una splendida fanciulla che, grazie alle descrizioni che ne fanno i suoi contemporanei, pare fosse un concentrato di bellezza e seduzione. Si favoleggiava del candore della sua pelle e di come la ragazza fosse solita coricarsi tra lenzuola nere per esaltarne la lucentezza. Pare inoltre che il pontefice Alessandro VI la facesse affrescare su una parete del suo appartamento in Vaticano, naturalmente in veste di Madonna, con egli stesso ai suoi piedi in adorazione. Così testimonia infatti Aurelio Recordati, agente del duca di Mantova a Roma, scrivendo al duca Francesco IV Gonzaga, informandolo di aver fatto eseguire una copia dell’affresco che riproduceva una «Madonna che

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E.S. COEN, Camilla la Magra…, op. cit., p. 172. M. VANNUCCI, Girolamo Savonarola, Newton & Compton, Roma 1997, p. 66.

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rappresenta la figura della Signora Giulia Farnese, origine della grandezza di quella casa»149. Giulia, non ancora quindicenne, andò sposa ad Orsino Orsini, rampollo di una delle famiglie più potenti del contado romano. Orsino era un brutto giovane affetto da una ripugnante foruncolosi e orbo di un occhio. È chiaro che il matrimonio fu quindi celebrato per convenienza, solo che la cerimonia si svolse proprio nella dimora del cardinal Rodrigo Borgia. Sarà stata la ributtante figura del marito imposto alla fanciulla, od anche la galeotta scelta del luogo delle nozze, fatto sta che il futuro Alessandro VI fece di Giulia la sua amante. Quando, appunto da papa, nominò cardinale Alessandro Farnese, le malelingue non dimenticarono che Alessandro era il fratello di Giulia, divenuta ormai l’amante del papa, tanto che Alessandro si meritò il soprannome di «cardinal sottoveste»150. Ma torniamo a Michelangelo e registriamo che il maestro, ad una giovane ed avvenente cortigiana, frequentatrice di quelle “stufe”, dedica questa rima nella quale l’erotismo prorompe deciso e schietto, attraverso l’arguta trovata da parte dell’artista nel dichiarare d’invidiare le vesti della fanciulla che hanno la fortuna di premere così da presso le splendide ed rigogliose forme del suo corpo. Eccola: «Quanto si gode, lieta e ben contesta di fior sopra ’l crin d’or d’una, grillanda che l’altro inanzi l’uno all’altro manda, come ch’il primo sia a baciar la testa! Contenta è tutto il giorno quella vesta che serra ’l petto e poi par che si spanda, e quel c’oro filato si domanda le guanci’ e ’l collo di toccar non resta. Ma più lieto quel nastro par che goda, dorato in punta, con si fatte tempre che preme e tocca il petto ch’egli allaccia. E la schietta cintura che s’annoda mi par dir seco: qui vo’ stringer sempre. Or che farebbon dunche le mie braccia!»151

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R. ZAPPERI, La leggenda di papa Paolo III, Bollati Boringhieri, Torino 1998,

p. 79. 150 D. MANETTI e S. ZUFFI (a cura di), I grandi libri della religione. Vite dei papi, vol. 9, p. 250, Mondadori Electa, Milano 2006. 151 W. BINNI, Michelangelo…, op. cit., p. 78n.

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Ma, nonostante queste esplicite affermazioni circa l’attrazione che il corpo femminile eserciterebbe su Michelangelo, ancora una volta il dubbio circa l’orientamento sessuale del maestro non viene risolto, se diamo credito alla notizia per la quale il figlio di suo nipote Leonardo, noto come Michelangelo il Giovane, quando diede alle stampe i sonetti di Michelangelo, pensò bene di volgere le desinenze dal maschile al femminile, per distogliere ogni possibile ed insopportabile sospetto di omosessualità del maestro152. Proprio a Leonardo, suo nipote, Michelangelo scriverà diverse lettere per svariati motivi, da quelli economici a quelli familiari, ma tra queste ce ne sono alcune che riguardano la possibilità che Leonardo prenda moglie. Sono lettere che contengono giudizi sulle donne che, se proprio non confermano l’omosessualità di Michelangelo, quanto meno ne rivelano una sua radicale misoginia: «… solo ài aver l’ochio a la nobiltà [delle donne], a la sanità, e più alla bontà che altro. Circa la bellezza, non sendo tu però el più bel giovane di Firenze, non te n’ài da curar troppo, purché non sia storpiata né schifa. […] Tu ài bisogno d’una che stia teco e che tu gli possa comandare e che non voglia stare in su le pompe e andare ogni di ai conviti e a nozze; perché dove è corte, è facil cosa diventar puctana, e massimo chi è senza parenti. […] se mi trovassi una serva che fussi buona e necta, benché sia dificile, perché son tutte puctane e porche»153.

Non è improbabile che in questo pesante giudizio sulle donne fiorentine ci fosse in Michelangelo una reminiscenza delle infuocate prediche del Savonarola cui aveva assistito da ragazzo. Ecco cosa affermava il veemente frate sui costumi ed abitudini delle donne fiorentine: «… guarda che usanze ha Firenze: come le donne fiorentine hanno maritato le loro fanciulle, le menono a mostra e acconcianle là che paiono ninfe […]. L’imagine de’ vostri dei sono le imagini e similitudini delle figure che voi fate dipingere nelle chiese, e li giovani vanno poi dicendo a questa e quella: – costei è la Maddalena, quell’altro è santo Giovanni – perché voi fate dipingere le figure nelle Chiese alla similitudine di quella donna o di quell’altra […]. Credete voi che la Vergine Maria andassi

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A. FORCELLINO, Michelangelo…, op. cit., p. XX. A. FORCELLINO, Michelangelo…, op. cit., pp. 454-455n.

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vestita a questo modo come voi la dipingete? Io vi dico ch’ella andava vestita come poverella, semplicemente e coperta che a pena gli si vedeva el viso, così santa Elisabetta andava vestita semplicemente. Voi fareste un gran bene a scancellare queste figure che son dipinte così disonestamente. Voi fate parere la Vergine Maria vestita come meretrice»154.

Ed ancora: «… e voi madri, che adornate le vostre figliole con tanta vanità e superfluità… portatele tutte qua a noi per mandarle al fuoco, acciocché quando verrà l’ira di Dio, non trovi queste cose nelle case vostre»155.

E tutto questo nonostante che la rappresentazione del femminile nell’opera del maestro, non riveli alcuna connotazione negativa (o comunque ambigua) nelle figure di donna, in particolare e soprattutto nel loro volto. Basti pensare allo splendore e al fascino del viso della Sibilla Delfica (Fig. 5) della volta della Sistina, viso da adolescente attraente e con quella accorta posa della bocca socchiusa. Od ancora basti pensare all’effetto che fecero due disegni di figure femminili, oggi conservate in casa Buonarroti a Firenze (Fig. 6), su Algernon Charles Swinburne, poeta inglese dell’epoca vittoriana, quando li commentò nei suoi Notes on Designs of the Old Master in Florence: «… i braccialetti e gli anelli sono d’una forma e d’un’esecuzione assai innocenti; ma nel toccar le sue carni si sono impregnati d’un significato letale e maligno. Larghi braccialetti dividono il formoso splendore delle sue braccia; sulla nudità dei suoi sodi e luminosi seni, proprio sotto il collo, passa una fascia metallica: I suoi occhi sono pieni d’una fiera e impassibile libidine d’oro e di sangue; […] La sua gola, piena e fresca, tonda e dura allo sguardo come il suo petto e le sue braccia, è eretta e maestosa […]; la sua bocca è più crudele di quella d’una tigre, più fredda di quella d’un serpente, e bella come quella di nessuna donna. Ella è la più letale Venere incarnata…»156.

G. SAVONAROLA, Sermone su Amos e Zaccaria, qui tratto da A. CHASTEL, Arte e umanesimo…, op. cit., p. 407. 155 G. SAVONAROLA, Sermone su Aggeo, qui tratto da A. CHASTEL, Arte e umanesimo…, op. cit., p. 404. 156 M. PRAZ, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Rizzoli, Milano 1999, p. 213. 154

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Fig. 5 - Michelangelo, Sibilla Delfica, Roma, Vaticano, Cappella Sistina.

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Fig. 6 - Michelangelo (scuola di), Testa muliebre, Firenze, Casa Buonarroti.

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Ma più che proseguire nella ricerca di prove per l’una o l’altra tesi circa le tendenze sessuali di Michelangelo, a noi piace fermarsi alla soglia di questo dubbio che, assieme ad altri imperscrutabili misteri della personalità di questo artefice straordinario, ci racconta ancora una volta della sua inconsueta ed eccezionale figura, che appartiene a quella schiera di “folgorati” che ogni tanto gli dei mandano in terra, e che per questo pare staccarsi allora dalla schiera dei “mortali”, consigliandoci quindi prudenza nello scandagliare le sue passioni, sapendo di trovarci di fronte ad un artista che ebbe uno sguardo sulla natura umana tale da farne argomento quasi teologico, così come l’esplicito grondare carne negli affreschi della Sistina parla in realtà dell’incommensurabile incorporeità di Dio.

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UN’«ECCESSIVA NOTTE D’AMORE» (Raffaello)

È la notte del 6 aprile (venerdì santo) dell’anno 1520. La luce oscillante delle torce rischiara le arcate del Colosseo dove sciama la folla che aveva partecipato alla rappresentazione della passione di Gesù. Alcuni, tra quelli che avevano assistito alla sacra rappresentazione, si dirigono verso la basilica di San Pietro dove, in quelle occasioni, venivano esposte le reliquie più sacre della cristianità: dalla lancia di Longino, il soldato romano ai piedi della croce che aveva trafitto il costato di Gesù, al velo della Veronica col volto di Cristo ed anche un frammento della Vera Croce157. Lungo il tragitto passano davanti al principesco palazzo dove abitava Raffaello e notano un andirivieni costante di emissari di papa Leone X. Si informano e vengono a sapere che dentro al palazzo sta morendo Raffaello. La causa del precipitare del suo stato di salute sarebbe stata un improvvido salasso praticato dai medici che, in questa maniera, credevano di poter curare una febbre altissima che lo tormentava fin dalla notte precedente. Pare che Raffaello abbia taciuto ai medici la vera causa di quella febbre. Il motivo del silenzio sarebbe stato una sorta di pudore che gli sconsigliava di confessare di aver trascorso una “notte d’amore” esagerata. Cosa significhi una notte d’amore “esagerata” lo possiamo solo lasciare all’immaginazione di ciascuno. Non ci aiuta neppure Vasari che così la descrive: «… il quale Raffaello attendendo in tanto a’ suoi amori così di nascosto, continuò fuor di modo i piaceri amorosi; onde avvenne che una volta fra l’altre disordinò più del solito…»158.

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A. FORCELLINO, Raffaello…, op. cit., p. X. G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. IV, p. 381.

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Su questa causa del malessere che condusse a morte il grandissimo artista sono stati espressi dubbi da parte di parecchi studiosi159: pare infatti che Vasari abbia attribuito agli eccessivi “esercizi amorosi” del maestro la causa del fatale malessere di Raffaello, dando però credito ad una diceria popolare. Più che l’autenticità quindi della fonte a noi basta anche questa riportata diceria per accreditare la fama di grande amatore che circondava il maestro, se fu sufficiente questa sua reputazione per alimentare la vox populi anche in punto di morte, ed a cui appunto anche il grande storico Vasari ritenne di dar credito. Una fama che inseguì Raffaello per secoli e che è confermata dai biografi degli artisti che sono succeduti al Vasari, come, ad esempio, Simone Fornari da Reggio che, quasi trent’anni dopo la morte di Raffaello, così ricorda gli ultimi giorni del maestro nel suo Elogio storico di Raffaello Santi, pubblicato nel 1549: «Ultimamente per continovare fuor di modo i suoi amori, se ne morì in età di 37 anni l’istesso di, che nacque»160.

Ed ancora prima, Giano Lascaris (collaboratore della politica culturale di Lorenzo il Magnifico, poi diplomatico presso diverse corti europee, oltre che fondatore del Ginnasio Greco sul Quirinale a Roma) che non esitò a paragonare la morte di Raffaello alle conseguenze della gelosia di Efesto, cui Raffaello avrebbe rubato Afrodite, la dea pagana dell’amore: «Senza Afrodite e Caride, tu non puoi fare simili opere; la mia sposa [Afrodite] e Caride sono fuggite al tuo fianco. Ma io non fabbricherò catene e reti per un semplice uomo… Un fuoco ti distruggerà, caro parente, perché tu muoia e Cipride [Afrodite] e Caride ritornino da me. Così disse; rapida è la vendetta degli dei gelosi; una febbre t’invase e ti strappò l’anima alle membra…»161.

Alla notizia della morte di Raffaello il dolore del papa fu immenso e così fu anche nelle corti italiane e straniere cui rapidamente giunse

R. e M. WITTKOWER, Nati…, op. cit., p. 171. L. MOCHI ONORI, La Fornarina. Analisi di un dipinto, in L. MOCHI ONORI (a cura di), La Fornarina di Raffaello (catalogo della mostra), p. 35, Skira, Milano 2002. 161 A. CHASTEL, Raffaello. Il trionfo di Eros, Neri Pozza, Vicenza 1997, p. 61. 159 160

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Un’«eccessiva notte d’amore»

la notizia. L’emozione fu altissima anche per una serie di eventi che parevano segnare la figura di Raffaello come qualcosa di soprannaturale: basti pensare alla coincidenza della sua nascita e della sua morte entrambe avvenute nel giorno di venerdì santo, così come si attribuirono significati straordinari anche ad eventi apparentemente secondari, come alcune crepe che si apersero nei palazzi vaticani nel giorno della sua morte162, quasi ad alludere ad un parallelo con la morte di Cristo al momento della quale, come dice l’evangelista Marco, si squarciò il velo del tempio163. Ce lo testimonia il conte Pandolfo Pico della Mirandola in una missiva alla duchessa Isabella d’Este a Mantova il 17 aprile 1520, all’indomani della morte di Raffaello, in cui descriveva quella «[…] notte passata che fu quella del Venerdì Santo, lasciando questa corte in grandissima e universale mestitia. Di questa morte li cieli hanno voluto mostrare uno de’ signi che mostrarono su la morte del Christo quando lapides scissi sunt; così il palazzo del papa minaza ruina, et sua Santità per paura è fuggito dalle sue stantie»164.

In seguito nacque persino una leggenda per la quale Raffaello sarebbe morto all’età di 33 anni e non più a 37 per uguagliarlo ancora di più alla figura di Gesù Cristo. In tanti, quindi, piansero la scomparsa del grande artista e pensiamo che tra questi non ci furono solo estimatori potenti, umanisti raffinati e competenti d’arte, ma anche tante belle fanciulle romane. Ce lo testimonia la decorazione del soffitto di una stanza di Villa Lante al Gianicolo, commissionato negli ultimi anni del terzo decennio del Cinquecento a Giulio Romano, allievo di Raffaello. Lassù compaiono diverse figure di fanciulle tratte da dipinti o incisioni riferibili a Raffaello e quella stanza fu da allora chiamata la “stanza degli amori di Raffaello”165 a conferma del fascino irresistibile che il maestro esercitava sulle donne. Pare infatti che Raffaello fosse bellissimo, dai modi e dalle maniere seducenti, insomma una figura che univa in sé oltre all’altissima qua-

A. FORCELLINO, Raffaello…, op. cit., p. XIII. Mc. 15. 38. 164 C. STRINATI, Raffaello, p. 46, Giunti, Firenze 1995. 165 L. MOCHI ONORI, La Fornarina…, op. cit., p. 36. 162 163

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lità artistica, al prestigio della sua posizione, alla grande ricchezza accumulata, anche un carattere e una personalità affascinanti. D’altra parte Raffaello era cresciuto alla corte del ducato d’Urbino, grazie al padre Giovanni Santi, pittore e umanista di corte, crescendo quindi in un ambiente colto e raffinato, forse uno degli ambiti più eleganti e signorili di tutto il Rinascimento, così come ce lo descrive Baldassarre Castiglione che, introducendo il suo testo de Il Cortegiano, così ci descrive quel mondo: «Quando il signor Guid’Ubaldo di Montefeltro, duca d’Urbino, passò di questa vita, io, insieme con alcun’altri cavalieri che l’avevano servito, restai alli servizi del duca Francesco Maria della Rovere, erede e successor di quello nello stato; e, come nell’animo mio era recente l’odor delle virtù del duca Guido e la satisfazione che io quelli anni aveva sentito della amorevole compagnia di così eccellenti persone come allora si ritrovarono nella corte d’Urbino…»166.

Un’educazione quindi raffinata che diede senz’altro i suoi frutti: ecco infatti come esordisce Vasari nell’incipit della vita del maestro: «Quanto largo e benigno si dimostri talora il cielo nell’accumulare in una persona sola l’infinite ricchezze de’ suoi tesori e tutte quelle grazie e più rari doni che in lungo spazio di tempo suol compartire fra molti individui, chiaramente potè vedersi nel non meno eccellente che grazioso Raffel Sanzio da Urbino; il quale fu dalla natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole alcuna volta vedersi in coloro che più degli altri hanno una certa umanità di natura gentile aggiunto un ornamento bellissimo d’una graziata affidabilità, che sempre suol mostrarsi dolce e piacevole con ogni sorte di persone ed in qualunque maniera di cose. Di costui fece dono al mondo la natura… [di modo che] facesse chiaramente risplendere tutte le più rare virtù dell’animo accompagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia ed ottimi costumi […]. Laonde si può dire sicuramente, che coloro che sono possessori di tante rare doti, quanto si videro in Raffaello da Urbino, siano non uomini semplicemente, ma, se così è lecito dire, Dei mortali…»167.

166 B. CASTIGLIONE, Il libro del cortegiano, (Dedicatoria), qui tratto da I classici del pensiero italiano, Biblioteca Treccani, Roma 2006, p. 5. 167 G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. IV, p. 315 e sgg.

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Un’«eccessiva notte d’amore»

Questa divinizzazione di Raffaello, invece che apparirci esagerata, costituisce in realtà la spia di una persona dalla vita straordinariamente felice, come di chi ha potuto appagare ogni suo desiderio e pulsione grazie al proprio straordinario talento, contraddicendo così la retorica romantica dell’artista solitario e tormentato, così come della fonte malinconica della creatività.

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LA DONNA CHE RAFFAELLO AMÒ «SINO ALLA MORTE»

Il fascino di Raffaello esercitato sulle donne è quindi indiscusso e sia la storia che la leggenda che l’accompagna lo confermano. Ma tra le innumerevoli ammiratrici che possiamo immaginare circondassero l’artista, ce ne fu una che appare come la sua prediletta e verso la quale nutrì una passione che spesso lo distraeva dai suoi impegni e che durò tutta la sua breve esistenza, così come testimonia il Vasari quando afferma che l’amò fino alla morte168. Una ragazza che aveva prestato i suoi lineamenti per diverse opere di Raffaello: dalla figura allegorica della Temperanza nella lunetta delle Virtù della Stanza della Segnatura, alla Madonna d’Alba, così come alla Madonna Sistina ed altre figure femminili e di cui si pensa di vederne le sembianze. Cosi come nel famosissimo ritratto della Velata e, soprattutto, della Fornarina: un ritratto d’una ragazza dallo sguardo intenso che proveniva da quegli occhi nerissimi, volti impercettibilmente verso destra, quasi a schermirsi del malcelato compiacimento nell’essere ammirata, con la mano sinistra che falsamente tende a sostenere quel velo che in realtà sottolinea la nuda esibizione dei seni, mentre la destra, abbandonata tra le cosce, sposta radicalmente la rappresentazione del femminile verso una conquistata affermazione delle proprie orgogliose valenze erotiche, sottraendolo a quei ruoli di sposa, madre e madonna cui fino ad allora era confinato. Anche l’ambiente che accoglie la figura della fanciulla è allusivo alla passione amorosa: dietro la sua figura appare, infatti, la pianta delle mele cotogne (Mela cydonia da Kydonia, città dell’isola di Creta), un frutto simbolo dell’amore carnale che i greci consideravano frutto sacro ad Afrodite, la dea dell’amore e della fertilità. Anche Plutarco racconta come Solone, il legislatore ateniese, avesse ordinato con decreto che le spose dovessero mangiare le mele

168

Ibidem., vol. IV, p. 355.

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cotogne durante il pranzo nuziale per garantirsi una notte d’amore sicuramente fertile169. A fianco del braccio destro della Fornarina Raffaello dipinge il mirto che Virgilio aveva consacrato a Venere, così come sempre il mirto cinge il capo ad Afrodite in tutte le descrizioni del Giudizio di Paride. Ed ancora Ovidio racconta che i poeti dell’amore venivano cinti con corone di mirto così come Venere lo utilizzò per coprirsi le nudità quando nacque dalla spuma del mare170. Che il legame tra la ragazza e Raffaello fosse intenso, viene suggerito dall’anello che nel dipinto è al dito anulare della mano sinistra della Fornarina. E la dichiarazione di come il vincolo sentimentale sia strettissimo sta in quel dorato bracciale che Raffaello ha dipinto sull’avambraccio sinistro della ragazza, quasi a notificare un legame inconfessabile. Sopra il bracciale il maestro ha così posto la propria firma «Raphael Urbinas», quasi ad alludere a quello che non si poteva o non si voleva dichiarare: che la Fornarina fosse la sua sposa segreta. Anche l’iconografia del ritratto rimanda alle rappresentazioni di spose, come spesso si faceva mascherandole nell’immagine di Flora, la sposa di Zefiro, simbolo di unione e fecondità. Così come vediamo in Tiziano che nel dipingere la figura mitologica di Flora la rappresenta con il seno nudo e con due dita della mano divaricate come quelle della Fornarina: una «allusione alla forbice che taglia il cinto verginale, o l’allusione del numero due e quindi dell’unione»171. Anche lo stesso bracciale che Raffaello ha dipinto sul braccio della ragazza è un’immagine recuperata dalle rappresentazioni antiche di Afrodite: così nell’Afrodite Cnidia172 nella copia romana del I sec. d.C. Ma anche i gesti della Fornarina nel coprirsi le nudità sono recuperati dalle immagini classiche di Afrodite, come, ad esempio, nell’Afrodite Capitolina173, copia romana del II sec. d.C., ribadendo così ancora più esplicitamente il riferimento alla dea dell’amore. E poi ancora il vistoso copricapo che orna la testa della Fornarina, che è posto per distogliere il sospetto che la fanciulla fosse una cortigiana, stante che l’esibizione della nudità del busto avrebbe potuto farlo sospettare. Così, infatti, A.L. FRANCESCONI, Lo sfondo botanico, in L. MOCHI ONORI, La Fornarina…, op. cit., pp. 80-81. 170 Ibidem, p. 78. 171 L. MOCHI ONORI, La Fornarina…, op. cit., p. 42. 172 Roma, Vaticano, Musei Vaticani. 173 Roma, Museo Capitolino. 169

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Fig. 7 - Raffaello, La Fornarina, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini.

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descrive l’abbigliamento delle donne romane “rispettabili” Cesare Vecellio (il cugino di Tiziano e per molti anni suo fedele collaboratore), nel suo trattato sul vestiario pubblicato verso la fine del Cinquecento, dove «solo le meretrici vengono rappresentate e descritte prive [di copricapo] che, evidentemente assumeva, semmai, una valenza etica, uno spartiacque tra le femmine “oneste” e le altre»174. Per sottolineare il legame amoroso di Raffaello con la fanciulla, tanto da far nascere la diceria che fosse la sua sposa segreta, il maestro dipinge sulla capigliatura della Fornarina un pendente collegato ad una sottile coroncina, «rivestita da sottili foglioline in lamina d’oro (vi si riconoscono il mirto e il lauro, in perfetta sincronia con lo sfondo arboreo)»175. Ecco allora che viene qui ribadita la simbologia rinascimentale delle gemme inserite nei gioielli quali metafore dell’amore e dell’unione176. Insomma, con il ritratto La Fornarina (Fig. 7) Raffaello dimostra il suo strettissimo legame con la ragazza, una fanciulla da “togliere il fiato” se diamo retta all’interpretazione che si è data alla descrizione del dipinto fatta da Girolamo Teti, autore del catalogo delle opere della collezione dei principi Barberini, pubblicato nel 1642, quando lo vede nelle collezioni di quei nobili: «nobilissima tavola nella quale Raffaello dipinse a mezza figura una donna bellissima, animata a un’arte così perfetta nei lineamenti e nei colori che veramente dal dipinto parrebbe poter venir fuori una persona viva, anzi una che a guardarla incautamente ti tolga il respiro»177.

Gli esegeti più raffinati fanno notare l’ambiguità della parola latina «examinare» nel testo nella versione latina di Girolamo Teti e che qui è tradotta con “togliere il respiro” ma che ha anche il significato di “esalare l’anima” od anche “uccidere”, alludendo così alla causa amorosa della morte di Raffaello178. 174 G. BUTAZZI, L’iconografia: l’acconciatura. Riflessioni a proposito di una testa ornata su un corpo non abbigliato, in L. MOCHI ONORI, La Fornarina…, op. cit., p. 89. 175 M.G. DUPRÉ DAL POGGETTO, I gioielli della Fornarina, in L. MOCHI ONORI, La Fornarina…, op. cit., p. 93. 176 Ibidem, p. 90. 177 «Primus occurrit nobis Raphaél, inspiciendamque offert nobis nobilissimam Tabulam, in qua dimidiatum pulcherrimae Faeminae figura depinxit, […] non modo viventem, sed blande examinatem incaute eam intuentes […]». 178 L. MOCHI ONORI, La Fornarina…, op. cit., p. 35.

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Ma ancora, ecco che le fattezze di quella fanciulla vestono, come dicevamo, la figura allegorica della Temperanza nella Stanza della Segnatura in Vaticano. Raffaello la rappresenta mentre regge un giogo che ci piace pensare che possa essere metafora del legame che lo stringe alla ragazza, così come ci testimoniano questi suoi versi tracciati a margine di alcuni disegni riferibili appunto al tempo in cui Raffaello era impegnato negli affreschi della Stanza della Segnatura: «Amor, tu m’envesscasti con doi be’ lumi de doi beli ochi dov’io me strugo e [s]face da bianca neve e da rose vivace da un bel parlar in donessi costumi. Tal che tanto ardo che né mar né fiumi Spegniar potrian quel focho ma non mi spiace poi ch’el mio ardor tanto di ben mi face c’ardendo onior più d’arder me cons[umi]. Quanto fu do[l]ce el giogo e la catena de toi candidi braci al col mio vo[lti] che sciogliendomi io sento mortal pena […]»179.

Una fanciulla quindi per la quale, come si vede, Raffaello «ardeva» fino a «consumarsi», una ragazza, come abbiamo già detto, da togliere il fiato e le cui «candide braccia» rappresentavano un «giogo» e una «catena» capaci di «sciogliere» ogni volontà del maestro, facendogli perdere a tal punto la testa da portarlo a desistere dal proprio lavoro, costringendo persino i suoi potentissimi committenti ad assecondare i suoi capricci, così come testimonia il Vasari: «Fu Raffaello persona molto amorosa ed affezionata alle donne, e di continuo presto ai servigi loro: la qual cosa fu cagione, che continuando i diletti carnali, egli fu dagli amici, forse più che non conveniva, rispettato e compiaciuto. Onde facendogli Agostin Chigi, amico suo caro, dipignere nel palazzo suo la prima loggia, Raffaello non poteva molto attendere a lavorare, per l’amore che portava ad una sua donna: per il che Agostino si disperava di sorte, che per via d’altri e da sè, e di mezzi

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E. CAMESASCA (a cura di), Raffaello. Gli scritti, p. 118, Rizzoli, Milano 1993.

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ancora operò si, che a pena ottenne, che questa sua donna venne a stare con esso in casa continuamente in quella parte, dove Raffaello lavorava; il che fu cagione che il lavoro venisse a fine.»180.

D’altro canto, proprio Agostino Chigi, che qui Vasari nomina, comprendeva benissimo cosa volesse dire ardere di passione per una fanciulla al punto da prescindere da convenzioni, impegni e quant’altro la vita richieda, essendo egli stesso vittima di una medesima sfrenata passione. E questa è una storia che merita d’esser raccontata.

180

G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. IV, p. 366.

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“AMORE E PSICHE” DI RAFFAELLO, OVVERO LA FAVOLA DELLA BELLA FRANCESCA

«Omnia vincit amor et nos cedamus amori», “l’amore vince ogni cosa, anche noi cediamo all’amore”. Questo verso di Virgilio181 si attaglia perfettamente alla vicenda sentimentale di Agostino Chigi, rampollo di una ricca famiglia senese e che a Roma faceva il banchiere del papa, ma non solo. Aveva finanziato anche le campagne di Piero de’ Medici di Firenze e concesso prestiti a Guidobaldo da Montefeltro, nipote di papa Giulio II e duca d’Urbino. Il tutto attraverso due sue compagnie finanziarie che avevano numerose filiali all’estero e alle quali univa un’intensa attività commerciale (tanto che il sultano ottomano Selim I lo chiamava “il grande mercante della cristianità”) grazie anche ai privilegi ottenuti dai pontefici, dal granduca di Toscana e dal re di Napoli, dai quali ottenne l’appalto per i rifornimenti del grano, lo sfruttamento delle miniere di allume e delle saline182. Aveva una perspicacia, una scaltrezza diplomatica ed affaristica tali da consentirgli di poter stare al servizio sia del pontefice Alessandro VI, papa Borgia, che del suo irriducibile nemico Giulio II, papa Della Rovere. A tutto ciò univa un solido governo delle proprie passioni (almeno fino a quando non conobbe Francesca Ordeaschi), anteponendo ad ogni cosa l’interesse economico che, giustamente, considerava il vero presidio del potere e del durevole prestigio. Era giunto a Roma ventenne sull’onda di un favorevolissimo oroscopo che si era fatto fare dagli astrologi che gli preannunciavano ricchezza e felicità a dismisura, tanto da far rappresentare questo fausto incrocio astrale dall’artista suo concittadino, il senese Baldassarre Peruzzi, sulla volta della sua villa in riva al Tevere, quella che oggi si

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VIRGILIO P.M., Bucoliche, X, 69. C. CRESTI e C. RENDINA, Ville e Palazzi di Roma, p. 102, Magnus ed., Udine

1998.

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“Amore e Psiche” di Raffaello, ovvero la favola della bella Francesca

chiama Villa Farnesina, dal nome della famiglia Farnese che subentrò ai suoi eredi nella proprietà dell’edificio. Chiunque fosse entrato avrebbe ammirato nella loggia di Galatea le figure allegoriche che mostravano il quadro astrologico della data del 1° dicembre 1466, giorno della nascita di Agostino Chigi: Giove in Ariete, la Luna in Vergine, Mercurio in Scorpione e il Sole in Sagittario e che si univano «naturalmente a una sensualità prorompente garantita da una Venere in Acquario che compariva completamente nuda su di un carro guidato da esili colombe bianche»183. Insomma Mercurio e Giove (mercatura e opulenza) e Venere (un pragmatico gaudente) perfettamente si confacevano al nostro personaggio dal fortunato destino. Era figlio del mercante senese Mariano Chigi che aveva aperto due banchi a Siena e a Viterbo dove Agostino fece il suo apprendistato. A vent’anni fu inviato a Roma presso il banchiere Ambrogio Spannocchi e quando, pochi anni dopo, Alessandro VI tolse ai Medici la gestione delle finanze vaticane fu proprio Spannocchi a farsi avanti per ottenere l’incarico finanziario dal pontefice. Ma Agostino riuscì a prevalere sul proprio maestro e instaurò un duraturo rapporto finanziario con il papa, divenendo così il suo banchiere: da lì iniziò la sua immensa fortuna. A quel tempo era sposato con Margherita Saracini, una fanciulla senese di ottima famiglia, che però purtroppo morì nel 1508 senza aver generato figli. Vedovo e solo, Agostino si compiaceva della compagnia e delle grazie della celebre cortigiana Imperia, una bellissima, colta e sfortunata ragazza che si suicidò col veleno all’età di trentun anni, lasciando nella costernazione la popolazione maschile di Roma. Imperia era talmente ammirata e ricercata che, al suo funerale, ottenne perfino la benedizione del papa, Giulio II. Con la sua morte si disse che Roma fu privata della «cortigiana più famosa e più adulata dei tempi moderni, quella il cui nome [riusciva] a evocare e a relegare nell’ombra quelli delle più celebri etere dell’antichità»184. Da Imperia Agostino ebbe anche una figlia, Lucrezia; ma se questa frequentazione calmava le pulsioni amorose di Agostino, certamente Imperia non poteva divenire la sua sposa: una prostituta avrebbe ovviamente compromesso l’onore

183 184

A. FORCELLINO, Raffaello…, op. cit., p. 186. P. LARIVAILLE, La vita delle cortigiane…, op. cit., p. 114.

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e il prestigio del banchiere del papa. Per questo motivo iniziò una trattativa di matrimonio per poter sposare Margherita Gonzaga, figlia naturale di Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, una bellissima ragazza di 20 anni che aveva conosciuto durante i festeggiamenti del carnevale del 1510 che Agostino aveva organizzato in onore di Francesco Maria della Rovere, nipote del papa. Fu una festa memorabile che consisteva, tra l’altro, nell’organizzazione di corse nelle piazze di Roma, facendo gareggiare asini, bufali e cavalli berberi. Il tutto terminava con una corsa particolare che si svolgeva, come tutte le feste del carnevale romano, nell’adiacente via del Corso, che allora si chiamava via Lata, facendo gareggiare un schiera particolarissima di personaggi che soddisfacesse l’immaginazione scurrile e le inclinazioni più basse del popolo romano. Si trattava di una competizione quanto mai strampalata e decisamente crudele: una corsa a cui prendevano parte zoppi, sciancati, deformi, nani ed… ebrei, che pagavano così il pegno di non esser cristiani nel cuore della capitale della fede dominante. A differenza degli altri concorrenti, gli ebrei erano inoltre costretti a gareggiare completamente nudi, perché così dovevano essere puniti i «nemici di Cristo». La nudità quindi quale elemento di degradazione e di scherno. Il popolo andava in visibilio alla vista di questi strani competitori e non risparmiava loro battute indecenti mentre li bersagliava con ogni sorta d’oggetti quali uova marce, frutta e verdura, acqua fango e neve. Il tutto sotto gli occhi divertiti e con la soddisfazione crassa dei nobili, dei cardinali e del pontefice. Solo papa Clemente, che detestava il carnevale, cercò di proibire questa pratica con numerosi editti, senza però mai accennare alla bieca usanza dell’obbligo per gli ebrei di gareggiare nudi. La corsa si svolgeva, tra l’altro, in pieno inverno e la pioggia e, talvolta, la neve la rendevano particolarmente penosa185. Col passare del tempo, avviene che, proprio per curare alcuni interessi del pontefice, Agostino si reca a Venezia, dove conosce Francesca Ordeaschi, una giovanissima fanciulla le cui grazie e la cui prorompente femminilità stordiscono Agostino. Certo Francesca non è di sangue blu come Margherita186, ma il suo fascino e la sua bellezza

R. ZAPPERI, Eros e Controriforma…, op. cit., p. 64. Margherita morirà a Mantova nel 1513 nel monastero delle Clarisse del Corpus Domini, dove si era rifugiata senza prendere i voti. 185 186

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“Amore e Psiche” di Raffaello, ovvero la favola della bella Francesca

fanno innamorare a tal punto Agostino che inizia a raffreddare i rapporti con la corte dei Gonzaga e contemporaneamente porta Francesca a Roma. Inizialmente la ospita in un convento per non dare nell’occhio. Ma la frequentazione di Agostino e Francesca è sotto gli occhi di tutti, ma soprattutto a non rimaner segreto è lo spaesamento di Agostino che mostra a chiunque il proprio stato di grazia, quell’assenza nello sguardo che connota gli innamorati, quel fremere che lo percorre ogni volta che pronuncia il nome di Francesca: insomma quel beato stato perso che avvolge chiunque conosca le gioie della passione amorosa, per la quale perdono valore convenzioni ed opportunità, convenienze ed interessi, ed ogni cosa resta priva di valore e di sapore se non è vissuta condividendola con la propria donna. Al diavolo quindi le convenzioni di rispettabilità e le usanze pretese dal rango sociale: Agostino cede all’amore e si appresta a vivere quella che diverrà una favola fatata, dove a trionfare su tradizioni, patti ed obblighi di forma e di etichetta sarà solo l’amore. È primavera: i fiori sugli alberi dei giardini romani lasciano cadere i loro petali sotto la brezza del Ponentino mentre i lucori dei tramonti indorano le superfici dei marmi della nuova Roma, sopra la quale le rondini volano a stormi, felici per la nuova stagione, quella in cui Agostino sposa Francesca. È il trionfo dell’amore, quello sconvolgimento che travolge con tutta la sua forza la volontà del cinquantenne Agostino Chigi, che per una dolcissima, affascinante ed irresistibile ragazzina veneziana senza nobili natali, trascura convenzioni, regole, costumi ed etichetta. Ma non basta: chiama Raffaello e fa affrescare la sua villa con la storia di Amore e Psiche. Appunto Psiche: quella fanciulla del mito greco che attraversò mille peripezie per raggiungere e coronare la propria passione amorosa, finalmente benedetta dagli dei d’Olimpo, così come le mani di Agostino e Francesca furono unite dal pontefice in persona, Leone X, sotto gli occhi emozionati di tutta la nobiltà romana ed internazionale.

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«MA ESSENDO… CARESTIA DI BELLE DONNE». L’AMORE SEGRETO DI RAFFAELLO

Agostino Chigi conosceva quindi i tormenti della passione e dunque sapeva quanto un sentimento insoddisfatto distogliesse dai propri impegni. La stessa cosa vide in Raffaello che aveva appunto ingaggiato per la decorazione della sua villa. Ma ogni volta che controllava l’andamento dei lavori, trovava Raffaello assente e i suoi allievi sfaccendati ad attenderlo. Si informa: – Dov’è il maestro? – Non sappiamo… – Come, non sapete. Suvvia Gianfrancesco, Perino, Giovanni, Polidoro187, ditemi dov’è e perché ogni volta che vengo qui non lo trovo. – Ma veramente… – E via! Ditemi qualcosa. Almeno tu, Giulio, che sei il suo allievo prediletto188, dimmi cosa succede. – Eh, messer Agostino, conoscete il fascino di Raffaello. Non c’è fanciulla in Roma che gli resista. – Non ci posso credere: con tutte le cortigiane che ci sono alla sera a Roma, proprio di giorno deve correr dietro alle sottane? – No, messer Agostino. Non si tratta di cortigiane: il mio maestro ha perso la testa per la figlia d’un fornaio e non riesce a staccarsi da lei. – La figlia d’un fornaio? Ma come, Raffaello, il grande maestro conteso da principi e cardinali si perde dietro la figlia d’un fornaio? – Eh…, messer Agostino, la vedeste. Due occhi neri che bucano il cuore, capelli così scuri che esaltano quello sguardo malioso, uno sguardo che quando lo incroci ti senti sciogliere l’anima, due rosse 187 Gianfrancesco Penni, Pellegrino da Modena, Perin del Vaga, Giovanni da Udine e Polidoro da Caravaggio, allievi di Raffaello. 188 Giulio Romano, l’allievo prediletto di Raffaello stando a quanto afferma Vasari: «…egli fu di maniera amato da Raffaello, che se gli fusse stato figliolo non più l’avrebbe potuto amare…».

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«Ma essendo… carestia di belle donne». L’amore segreto di Raffaello

labbra che quando si aprono e parlano pare di ascoltare musica. E poi movenze malandrine e seducenti, come di chi è consapevole del proprio fascino e sa esibirlo e sottrarlo per accendere sempre di più il desiderio. – Va beh, ma è pur sempre solo la figlia d’un fornaio! Possibile che Raffaello non ambisca a più nobili relazioni? – Ma come, proprio voi, messer Agostino vi sorprendete. Voi che avete celebrato la vittoria dell’amore sulle convenzioni sposando Francesca, dando retta alla passione invece che all’etichetta. Anche Raffaello pare faccia lo stesso. Pensate che la Fornarina dubitava dei sentimenti del maestro perché, appunto, temeva di non essere degna di un personaggio come lui. Ma, come per voi, anche per il maestro l’amore ha vinto, ed ha insistito tanto da sedurre e persuadere la Fornarina a sciogliere i suoi timori e abbandonarsi alla passione. È talmente perso per questa fanciulla che anche noi, ogni tanto, notiamo che si assenta, oppure si apparta. Come ieri, quando è sceso dai ponteggi e si è messo a scarabocchiare sui fogli che usiamo per i cartoni degli affreschi. Noi pensavamo disegnasse, o forse volesse correggere qualche figura. Invece no. Stava scrivendo dei versi, e poi se ne andato. Ascoltate, ora ve li leggo, sono rime in cui racconta proprio come abbia convinto la fanciulla a mettersi con lui, vincendo le sue ritrosie: «E guarda l’ardor mio non abbi a gi[o]cho che esendo io fiamma e tu di giacio ò fede ch’a la mia fiama ardresti a pocho a pocho ma homni anima gentil di basso locho cercha surger gran cose e imperò ò fede che la tua virtù m’esalta a pocho a pocho.»189

Come vedete, vi assomiglia: così Francesca per voi, così la Fornarina per il mio maestro. – Beh, se è così, posso ben capirlo. Dimmi Giulio, dove posso trovare questa fanciulla?

189 E. CAMESASCA (a cura di), Raffaello…, op. cit., p. 126. L’affermazione che Raffaello abbia scritto questi versi durante i lavori della Farnesina è un mio espediente di sceneggiatura letteraria. Si sa infatti che i sonetti che Raffaello compose (e che a tutt’oggi conosciamo) non superano la data del 1509, prima quindi dei lavori alla Farnesina.

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– Eh…, caro messere. Raffaello è avaro di notizie su questa ragazza. Vuole assolutamente tener segreto questo suo amore. C’è chi dice che l’abbia persino sposata di nascosto. È per questo, forse, che resiste alle profferte di Bernardo Dovizi, il cardinale di Bibbiena, che vorrebbe dargli in sposa sua nipote Maria190. – Ma va. Non ci credo. Certo Raffaello è un bel figliolo, ma è pur sempre un pittore. Come può un cardinale proporgli la nipote per moglie. Il Dovizi poi è uomo potentissimo in curia: è stato segretario del cardinal Giovanni de Medici, che oggi è divenuto papa Leone X. – Eppure messere, sentite qui: questa è una lettera che mi ha dato il maestro per mandarla a suo zio ad Urbino. Vedete questo zio gli aveva proposto di sposare una bella ragazza di Urbino. Sentite cosa risponde Raffaello. – Ma come, leggete la corrispondenza di Raffaello? – So che è sconveniente. Ma data la vita amorosa del maestro non ho saputo resistere. – Va beh. Leggete. – Ecco qui, salto tutta la prima parte e arrivo al punto: «Sono uscito da proposito della moglie, ma per ritornare vi rispondo, che voi sapete che Santa Maria in Portico191 me vol dare una sua parente, e con licenza del zio Prete192, e vostra, li promesi di fare quanto sua Reverendissima Signoria voleva, non posso mancar di fede, […] ch’io trovo in Roma una Mamola bella secondo ho inteso di bonissima fama Lei e li loro, che mi vol dare tre mila scudi d’oro in docta, e sono in Casa a Roma che vale più cento ducati quì, che ducento là siatene certo»193.

Come vedete, si tratta anche di una convenienza non solo d’amore, ma anche di quattrini. – Ma no, via. Il perché Raffaello non si vuole sposare lo sanno tutti. Lo sai anche tu che gira la voce che Leone X, il pontefice, voglia fare Raffaello cardinale. Resiste al Dovizi perché spera nella porpora194. G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. IV, p. 381. È il cardinale Bernardo Dovizi, detto il Bibbiena. 192 Fratello del padre di Raffaello, Don Bartolomeo Santi. 193 E. CAMESASCA (a cura di), Raffaello…, op. cit., p. 175. 194 Il fatto è raccontato dal Vasari secondo il quale Raffaello lasciò passare «tre o quattro anni per decidere» se accettare l’offerta del card. Bibbiena. Alla fine diede il suo assenso, ma lasciò ancora passare del tempo prima di celebrare il 190 191

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– Ma via, messere, sapete bene che queste sono chiacchiere195. In ogni modo, sarà pure come voi dite, ma intanto… – Basta così, Giulio. Dimmi dove trovo questa Fornarina. – Di nome fa Margherita e pare sia la figlia di tal Francesco Luti, un senese come voi, che è venuto a Roma e ha aperto un negozio di fornaio al pianterreno di via Santa Dorotea. Ma non sono così sicuro. C’è chi dice che sia in via del Cedro. Provate in entrambi i posti: quando la vedrete non vi potrete sbagliare: credetemi, vi colpirà con la sua bellezza. Detto fatto. Ma Agostino non trova il fornaio: pare infatti che Margherita fosse una cortigiana e “Fornarina” era, talvolta, per le cortigiane romane, un nome “d’arte”, allusivo di altri forni ed altri cibi da “infornare”. Cionondimeno, Agostino la trova e la conduce nella sua villa così che Raffaello possa “coltivare” la propria passione, senza compromettere il lavoro degli affreschi196. Anzi, Margherita compare proprio nel dipinto più spettacolare, il Trionfo di Galatea: una vera esaltazione della bellezza e della sensualità, dove troneggia la splendida nereide che, come dice il suo nome, aveva la pelle candida come il latte. Raffaello è così ossessionato dalla bellezza di Margherita che ne riproduce le fattezze in numerosi suoi dipinti, oltre al suo ritratto diretto. La Fornarina, appare, come abbiamo detto, nella Temperanza della lunetta delle Virtù della Stanza della Segnatura, così come nella Velata, nella Madonna di Foligno, e nella Santa Cecilia, dove qui Raffaello dimostra come possa passare agevolmente dal registro carnale a quello devozionale. Anche se proprio per quest’ultimo dipinto, la Santa Cecilia, segna l’ambiguo confine tra la pulsione erotica e le sublimazioni della fede. Il dipinto fu infatti commissionato da una nobildonna bolognese, Elena dall’Olio, per la chiesa di San Giovanni in Monte. Elena, come la santa Cecilia commissionata a Raffaello, aveva fatto voto di castità pur essendo sposata, e coltivava la propria fede cercando faticosamente di spiritualizzare quelle pulsioni sessuali a cui

matrimonio, perché sperava di ottenere la nomina a cardinale. A liberarlo dall’impegno sopravvenne, purtroppo, la morte della fanciulla. 195 G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. IV, p. 381. 196 Vedi n. 131.

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Fig. 8 - Raffaello, Madonna Sistina, Dresda, Gemäldegalerie.

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«resisteva con fatica estenuante: udiva angeli unirsi a lei in canti di lode a Dio e vedeva il fuoco impossessarsi del proprio corpo riempiendolo di desiderio di accostarsi alla santa comunione. La qual comunione non è altro che un’intima unione e copula, che fa il celestial Sposo con l’innamorata sua per la quale se li dà a godere, renovandola in uno essere tutto spirituale et angelico»197.

Altri studiosi la riconoscono anche nel dolcissimo viso della Madonna della Seggiola, così come nelle soavi fattezze della Madonna Sistina (Fig. 8), dove la madre di Dio appare a piedi nudi e senz’aureola, dando così una più marcata percezione di femminilità terrena piuttosto che celebrare la trascendenza del personaggio. Ne sono una conferma il fascino misterioso registrato nei secoli successivi su chiunque osservasse questo dipinto: quando nel 1745 il dipinto fu trasportato dalla chiesa di San Sisto a Piacenza a Dresda, Augusto III di Sassonia ne fu talmente ammirato da compiere «un gesto inaudito: lasciò il trono perché l’opera potesse essere collocata davanti ad esso»198. Ed ancora, fra tanti, basti citare Dostoevskij che ne fa il suo quadro prediletto e che in modo insistente ed irriverente richiama nel finale dei Demoni; così come Freud che ne parla oscillando il suo giudizio tra estasi estetica e richiamo erotico. «Un quadro come la Madonna Sistina crea una geografia sui generis, disegna una terra del desiderio, […] la riserva di ogni felicità umana. Giacché la felicità – quella che Nietzsche chiamava la “gioia mondana” è possibile solo in quel paesaggio asituale che è l’immagine»199. Dunque Raffaello da quel viso viene letteralmente sedotto e stregato. Ma è il viso di quel suo amore che vuol mantenere assolutamente segreto. Forse per questo risponde in modo enigmatico a Baldessar Castiglione, l’amico letterato di cui aveva dipinto il ritratto, che gli chiedeva ragione di questa insistente somiglianza delle figure femminili nei suoi lavori. Raffaello risponde negando, o meglio nascondendo l’identità della modella:

K. OBERHUBER, Raffaello. L’opera pittorica, Electa, Milano 1999, qui tratto da A. FORCELLINO, Raffaello…, op. cit., p. 251 e 337n. 198 K. OBERHUBER, Raffaello, in Le grandi monografie. Raffaello, a cura di S. ZUFFI, Mondadori Electa, Milano 2006, p. 33. 199 M. COMETA, Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale tra Settecento e Novecento, p. 143, Meltemi ed., Roma 2004. 197

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«Per dipingere una bella, mi bisogneria veder più belle… Ma essendo carestia… di belle donne, io mi servo di certa idea che mi viene nella mente»200.

Ma forse dobbiamo invece pensare che di modelle Raffaello non ne avesse trovata alcuna più bella di Margherita, od anche che il suo viso occupava ormai definitivamente la sua mente.

200

A. BLUNT, Le teorie artistiche…, op. cit., p. 76.

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UN TRATTATO D’AMORE PER IMMAGINI

Raffaello, alfine, viene accontentato da Agostino Chigi che consente che la Fornarina dimori nella sua villa fintanto che il maestro e la sua bottega non avessero terminato di affrescarla. Uno dei temi delle immagini è il racconto mitologico di Amore e Psiche: come abbiamo detto Psiche attraversò mille peripezie per raggiungere e coronare la propria passione amorosa. Con un tema siffatto si stabilisce così un perfetto parallelo tra le esperienze amorose di Agostino Chigi e di Raffaello, rispettivamente con Francesca Ordeaschi e Margherita, la Fornarina. A questo mito si affianca la rappresentazione di Galatea, la divinità marina vittima di Venere, che Raffaello dipinge seminuda ed in preda all’estasi d’amore, mentre sta per essere trafitta dalle frecce dei cupidi. Galatea incarna perfettamente una giovane donna per la quale si perde inevitabilmente la testa, così come capitò a Raffaello e al Chigi per quelle due irresistibili fanciulle, Margherita e Francesca. Per dire della loro bellezza osiamo mettere in bocca ai due amanti le parole di Ovidio, il celebre poeta latino, che così mirabilmente descrivono Galatea: «Galatea, più candida dei petali nivei del ligustro, più florida dei prati, più snella dell’alto ontano, più splendente del cristallo, più scherzosa d’un capretto tenero, più liscia delle conchiglie assiduamente sfregate dal mare, più cara del sole d’inverno e dell’ombra d’estate, più pregiata dei pomi, più vistosa dell’alto platano, più lucida del ghiaccio, più dolce dell’uva matura, più morbida delle piume del cigno e del latte cagliato, se non fuggissi, più bella di un giardino irriguo; […] Possiedo una parte del monte, grotte di pietra viva, dove non si sente il sole nel mezzo dell’estate né il freddo d’inverno; frutti che piegano i rami, uve dorate nei lunghi tralci di vite,

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Mogli, garzoni e amanti

e uve porporine: le une e le altre le serbo a te. Tu stessa con le tue mani coglierai le dolci fragole nate all’ombra dei boschi, le corniole autunnali e le prugne, non solo quelle col succo scuro, ma anche quelle pregiate, che sembrano di cera fresca. Non ti mancheranno, se ti unisci a me, le castagne, né i frutti del corbezzolo, tutti gli alberi ti serviranno…»201.

Amore, Psiche e Galatea: è insomma il trionfo di Eros, un trattato figurato sull’amore. A contorno di queste storie stanno le rappresentazioni del ratto di Ganimede così come la visita di Amore alle tre Grazie. Negli affreschi Venere è sempre presente, ora indicando Psiche ad Eros perché scagli le sue frecce, ora salendo verso Giove sul suo cocchio per predisporre le nozze dei due amanti. Il tutto circondato da una serie di amorini con gli attributi degli dei dell’Olimpo, racchiusi in festoni lussureggianti che, intervallati da elementi di foggia priapesca, erano colmi di frutti e di fiori, quasi a far partecipare anche la natura a questo tripudio d’amore attraverso le sue espressioni più seducenti e più invitanti. Ed infine il trionfo di Galatea, che naviga su di una conchiglia, il medesimo frutto marino in cui veniva rappresentata la nascita di Venere. Una conchiglia curiosamente sospinta da una ruota a pale, che pare tritare assieme alle onde anche le esagitate passioni dei Tritoni avvinti alle Nereidi che la circondano tra i flutti del mare. Una ruota a pale che sembra tratta dai disegni tecnici di Leonardo: ma là serviva al lavoro o alla guerra, qui invece all’amore202. Il tutto con ai

201 «Candidior folio nivei, Galatea, ligustri, / floridior pratis, longa procerior alno / splendidior vitro, tenero lascivior haedo, / levior adsiduo detritis aequore conchis, / solibus hibernis, aestiva gratia umbra, / nobilior pomisplatano conspectior alta, / lucidior glacie, matura dulcior uva, / mollior et cygni plumis et lacte coacto, / et, si non fugias, riguo formosior horto; […] Sunt mihi, pars montis, vivo pendentia saxo / antra, quibus nec sol medio sentitur in aestu / nec sentitur hiems; sunt poma gravantia ramos; / sunt auros similes longis in vitibus uvae, / sunt et purpurae: tibi et has servamus et illas. / Ipsa tuis manibus silvestri nata sub umbra / mollia fraga leges, ipsia autumnalia corna / prunaque, non solum nigro liventia suco, / verum etiam generosa novasque imitantia ceras; / nec tibi castanae me coniuge, nec tibi deerunt / arbutei fetus: omnis tibi serviet arbor.», OVIDIO, Le Metamorfosi, libro XIII, 789-797 e 810-820, nel testo con la traduzione di G. PADUANO, Einaudi, Torino 2000. 202 A. CHASTEL, Raffaello. Il trionfo…, op. cit., p. 48.

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Un trattato d’amore per immagini

lati alcune delle scene d’amore più intense del mito: così il ratto di Europa e quello di Bacco e Arianna. Insomma uno spettacolo illustrato da uno dei massimi artefici del Rinascimento che celebrava il proprio sentimento e quello del suo potente committente, accomunati come furono dalla medesima passione che travolgeva convenzioni e perbenismi dei benpensanti. Un percorso, dunque, lungo le storie del mito antico per celebrare ed esaltare l’eterna vittoria del desiderio e della voluttà. La Voluttà, esattamente come il nome che diedero Eros e Psiche alla figlia che nacque dalla loro unione. Tutto questo mostra Raffaello in sintonia con la cultura umanistica del suo tempo, ed in particolare con quell’orientamento degli umanisti neoplatonici per i quali l’animo umano è incline soprattutto al raggiungimento della felicità: «Venus id est Humanitas», uno “slogan” che racconta della nuova spregiudicatezza nel muoversi nei territori del desiderio e della vita sentimentale. Ecco allora che accanto alla Caritas cristiana come qualità sublime dell’anima, emerge e si impone anche l’Eros quale sua misteriosa pulsione. Un terreno culturale già predisposto fin dalla Commedia di Dante, quando «la mistica cistercense esposta da san Bernardo (Paradiso XXXI) viene a coronare, senza tuttavia guastarla, l’ascesa [di Dante] guidata da Beatrice»203, musa terrena e protagonista degli amorosi sensi del grande poeta. Tutto questo terreno culturale, su cui germogliano le teorie di Poliziano, di Ficino e di Pico della Mirandola, e che trova la sua corrispondenza d’immagine nelle opere degli artisti rinascimentali, a cominciare da Botticelli con la sua Nascita di Venere od anche nella Primavera, dove forse all’iconografia religiosa del paradiso terrestre comincia ad accostarsi il regno degli stimoli amorosi e dei giardini di Afrodite. Questa dea nelle sue rappresentazioni dirette o, per traslato, nelle raffigurazioni di miti in cui la dea è protagonista (Galatea, Amore e Psiche, ecc.), è colei che essendo nata prima degli dei, rappresenta quella forza primigenia che viene prima della Storia ed è ragione e sostentamento della vita sia degli eterni dei che degli uomini mortali, annullando ora qualsiasi artificiosa, intellettualistica distinzione tra materiale ed intellegibile, tra fede e ragione e, in ultima istanza, tra cielo e terra. Così che i dolci turbamenti dell’amore umano altro non

203

A. CHASTEL, Arte e umanesimo…, op. cit., p. 269.

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sono che un’anticipazione dell’amore divino, o forse tra le due categorie comincia ad assottigliarsi la differenza, definendo così questo inedito «Eros platonico» dove la bellezza e la seduzione umana convivono con le sublimazioni dell’amore soprannaturale. Così infatti ci testimonia Baldassarre Castiglione nel suo Cortegiano: «Se adunque le bellezze, che tutto dì con questi nostri tenebrosi occhi veggiamo nei corpi corruttibili che non son però altro che sogni ed ombre tenuissime di bellezza, ci paiono tanto belle e graziose che in noi spesso accendon foco ardentissimo e con tanto diletto che reputiamo niuna felicità potersi agguagliar a quella che talor sentimo per un sol sguardo che ci venga dall’amata vista d’una donna, che felice meraviglia, che beato stupore pensiamo noi che sia quello che occupa le anime che pervengono alla visione della bellezza divina! che dolce fiamma, che incendio suave credere si dee che sia quello che nasce dal fonte della suprema e vera bellezza! che è principio d’ogni altra bellezza che mai non cresce né scema; sempre bella per se medesima, tanto in una parte, quanto nell’altra, simplicissima; a se stessa solamente simile e di niuna altra partecipe; ma talmente bella che tutte le altre cose belle son belle perché da lei partecipan la sua bellezza. Questa è la bellezza indistinta dalla somma bontà, che con la sua luce chiama a sé tutte le cose; e non solamente alle intellettuali dona l’intelletto, alle razionali la ragione, alle sensuali il senso e l’appetito del vivere. […] e però, come il foco materiale affina l’oro, così questo foco santissimo nelle anime distrugge e consuma ciò che v’è di mortale, e vivifica e fa bella quella parte celeste, che in esse prima era dal senso mortificata e sepulta. Questo è il rogo, nel quale scrivono i poeti…»204.

Raffaello dipinge quindi sui muri e le volte della villa di Agostino Chigi una storia che non è solo rappresentazione d’un racconto mitologico ma bensì un vero e proprio trattato dove viene sciolta la distinzione tra amore carnale e amore spirituale, riuscendo nel prodigio di riunire le platoniche Veneri Urania e Pandemia. Così d’altronde era stata la sua breve vita e le sue opere, per le quali Paolo Giovio dirà che «del resto in ogni genere di pittura mai venne meno alle sue opere quella particolare bellezza (venustas) che chiamiamo grazia»205. Ed, a

B. CASTIGLIONE, Il libro…, op. cit., libro IV (LXIX), pp. 355-356. «Caetrum in toto picturae genere nunquam eius operi venustas defuit, quam gratiam interpretantur…», P. GIOVIO, Fragmentum trium Dialogorum…, op. cit., p. 15. 204 205

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Un trattato d’amore per immagini

proposito di “venustas” ecco cosa dice Ludovico Dolce, il grande letterato veneziano, delle opere di Raffaello, alla vista delle quali si hanno suggestioni paragonabili alla vista della persona che si ama: «si trova in loro quella parte che avevano, come dice Plinio, le figure di Apelle: e questa è la venustà, che è quel non so che, che tanto suole aggradire, così ne’ pittori come ne’ poeti, in guisa che empie l’animo altrui d’infinito diletto, non sapendo da qual parte esca quello che a noi tanto piace»206.

Ma ancora più esplicito è Giovanni Paolo Lomazzo, celebre pittore, che nel suo trattato Idea del tempio della Pittura, così si esprime circa le immagini di Raffaello, ripetendo due volte la parola “desiderio”, ribadendo in questo modo la voluttà sprigionata delle immagini: «Raffaello ha rappresentato i moti dell’amor juvente, della speranza, della soavità, della venustà, della gentilezza, del desiderio, dell’ordine, della concupiscenza, della beltà universale, del desiderio, dell’avvertimento, della grandezza, del tutto»207.

Ed ancora il Vasari non esiterà a definire Raffaello un dio mortale sceso in terra, un dio della grazia, dell’armonia, dell’avvenenza, della leggiadria e della bellezza, insomma Eros fatto pittore208.

206 L. DOLCE, Dialogo della pittura intitolato l’Aretino, Venezia 1557, qui tratto da P. BAROCCHI (a cura di), Scritti d’arte…, op. cit., vol. 32, tomo I, p. 829. 207 G.P. LOMAZZO, Idea del tempio della Pittura, libro XII, Milano 1590, qui tratto da A. CHASTEL, Raffaello. Il trionfo…, op. cit., p. 63. 208 A. CHASTEL, Raffaello. Il trionfo…, op. cit., p. 23.

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GLI ALLIEVI DI RAFFAELLO NON HANNO APPRESO SOLO IL SUO STILE… IN ARTE (Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio)

«Dalle fatiche adunque dell’arte e da disordini di Venere e della bocca guastatasi la complessione, gli venne un’asima che, andandolo a poco a poco consumando, finalmente lo fece cadere del tisico: e così una sera, parlando con un suo amico vicino a casa sua, di mal della gocciola, cascò morto, d’età d’anni quarantasette»209.

Così descrive il Vasari la fine di Perin del Vaga, allievo di Raffaello, che deve la sua infausta morte ad una serie di disturbi della salute per cattiva alimentazione (disordini della bocca) e per l’insorgere dell’asma (gli venne un’asima), ma il tutto complicato da abitudini sessuali sregolate (disordini di Venere) che gli avevano procurato anche una fastidiosissima blenorragia ed infine se ne andò per un colpo apoplettico, o meglio un ictus, che allora veniva appunto chiamato “mal della gocciola” perché si riteneva causato da gocce di sangue che invadevano il cervello per la rottura di un qualunque vaso sanguigno. Questa consuetudine ai “disordini di Venere” pensiamo sia stata una delle consolazioni del maestro che così compensava una infanzia davvero tribolata: Perino era figlio di Giovanni Buonaccorsi, un soldato di Carlo VIII, che disperse i propri guadagni nel gioco d’azzardo, mentre la mamma morì di peste quando Perino aveva solo due mesi. Pare venisse allattato con il latte d’una capra. Il padre si trasferì quindi a Bologna dove sposò una donna che aveva avuto il marito e i figli anch’essi morti di peste, e, a giudizio del Vasari, anche il latte di questa donna era appestato! Ciononostante Perino sopravvisse, ma il padre volle ritornare in Francia e così abbandonò il figlio presso alcuni parenti a Firenze. Questi ultimi, che non volevano avere fastidi per casa, pensarono di mettere Perino a bottega da uno speziale, tal

209

G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. V, p. 630.

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Gli allievi di Raffaello non hanno appreso solo il suo stile… in arte

Pinadoro, che aveva un’insegna della sua bottega con, appunto, rappresentata una pigna dorata. Solo più tardi si fece notare per la sua abilità nel disegno e quindi iniziò la sua carriera d’artista presso un modesto pittore di nome Vaga (da cui il nomignolo del nostro artista) che lo condusse a Roma. Nella città eterna riuscì ad entrare nella bottega di Raffaello, e certamente divideva con quella compagnia anche la loro rinomata abitudine di comportarsi quali giovani spensierati e gaudenti. Un aspetto questo che non lo abbandonò per tutta la vita, fino a quell’infausta fine dovuta ad insistite pratiche d’amore cui non sapeva rinunciare. A Roma aveva sposato Caterina, sorella di Gianfrancesco Penni, altro allievo di Raffaello, trasformando così l’amicizia in parentela. Ma quando Perino fu chiamato a Genova per affrescare il palazzo del principe Doria, pensò di andarci da solo lasciando la moglie a Roma. Come si sia comportato, senza la vicinanza della moglie, lo desumiamo da un altro episodio: dopo Genova era stato infatti chiamato a Pisa da Sebastiano della Seta, sovrintendente (allora si diceva “operaio”) del duomo di Pisa, per eseguire alcuni lavori di pittura. Perino pensò bene di riprendersi Caterina, sua moglie, e di farla venire da Roma a Pisa. Ma le relazioni che aveva intrattenuto con fanciulle genovesi gli bruciavano dentro. Era talmente tanta la nostalgia di quei rapporti che abbandonò il lavoro a Pisa (e con esso anche la moglie) per tornarsene a Genova210. Sebastiano della Seta tempesta di domande la moglie per sapere per qual motivo Perino fosse scomparso, ma la moglie rispondeva che non ne conosceva il motivo, perché il marito le aveva detto che aveva solo tanti impegni di lavoro… E così Perino a Genova proseguì le sue relazioni che per lui, come dice Vasari, rappresentavano «la vera beatitudine, la requie del mondo, ed il riposo de’ suoi travagli». Questi allegri comportamenti amorosi pare quindi abbiano contagiato diversi allievi della bottega di Raffaello. Tra questi c’era anche Polidoro da Caravaggio, tra l’altro molto amico di Perin del Vaga. Ora non vogliamo dire che quella compagnia d’artisti (responsabile delle meraviglie degli affreschi nelle Stanze e nelle Logge vaticane) fosse una sorta di combriccola dedita solamente ad inseguire le ragazze romane,

210

Ibidem, p. 618.

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Mogli, garzoni e amanti

ma certo è che la frequentazione delle fanciulle, attratte dal fascino e dalla ricchezza di Raffaello, non doveva essere cosa rara nelle loro serate. Ma dopo la morte di Raffaello e, soprattutto, dopo il sacco di Roma nel 1527, quella compagnia si disperse, diffondendo così per l’Italia la superba e raffinata maniera del loro maestro, chi a Genova (Perin del Vaga) e chi a Mantova (Giulio Romano). Polidoro invece se ne andò prima a Napoli ed infine a Messina. Ma qui gli venne la nostalgia della sua fortunata stagione romana e, per questo, spesso si proponeva di ritornarci. Ma non si decideva mai a partire per causa di una «donna da lui molto amata, che con sue dolci parole e lusinghe lo riteneva» 211 . Questa fanciulla doveva essere straordinariamente attraente se riusciva a trattenere un maestro di quella grandezza, tanto che Giovan Paolo Lomazzo nel suo trattato Idea del tempio della Pittura (1590) lo colloca tra quelli che chiama i «sette governatori» dell’arte, mettendolo accanto a Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Mantegna, Tiziano e Gaudenzio Ferrari. Questa donna, la cui bellezza e le cui moine riuscivano a trattenere Polidoro, non era però sua moglie e questo fatto fu sfruttato da un suo collaboratore, il pittore Tonno Calabrese, che pensava così di sviare i sospetti che lo riguardavano: Tonno era infatti creduto colpevole del furto del denaro del maestro e, purtroppo, anche del suo omicidio. Infatti, nonostante le lusinghe della ragazza, Polidoro aveva alla fine deciso di partire e per questo aveva approntato il denaro per il viaggio a Roma. Tonno, assieme ad altri compari, pensò di rubare i denari di Polidoro e la stessa notte prima della partenza entrò a casa del maestro e, mentre dormiva, lo strozzò e quindi gli inferse anche qualche colpo di pugnale. Poi, lui e i suoi compari, presero il corpo e lo lasciarono davanti all’abitazione della donna amata da Polidoro, in maniera da far pensare che fosse stato ammazzato dai parenti della ragazza. Pensavano così di far nascere i sospetti sui familiari della fanciulla per il motivo che Polidoro, andando a Roma, l’avrebbe così abbandonata, o per dirla alla loro maniera, “disonorata”. Dopo aver diviso il denaro coi complici, Tonno commise però un errore fatale: andò a casa di un conte, amico di Polidoro, cercando di sostenere la sua versione sull’omicidio. Ma il conte, dopo opportune

211

Ibidem, pp. 151-152.

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Gli allievi di Raffaello non hanno appreso solo il suo stile… in arte

indagini, non essendo venuto a sapere chi avrebbe avuto vantaggi dalla morte del maestro, cominciò a sospettare di Tonno stesso. Dopo “opportuni trattamenti” (Tonno fu torturato), il collaboratore di Polidoro confessò. Fu condotto per strada e tormentato con tenaglie roventi ed infine squartato212.

212

Ivi.

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QUANDO L’ARTE STIMOLA LE DEBOLEZZE DELLA CARNE (Fra Bartolomeo)

Potrà sembrare strano ma spesso le immagini dei dipinti, benché destinati alle chiese, suscitavano commenti e reazioni che talvolta nulla avevano a che fare con la devozione e con la preghiera, e, alle volte, accendevano curiosità morbose quando non addirittura comportamenti apertamente licenziosi. Dobbiamo infatti pensare e sapere che nel XVI secolo non esistevano televisione, giornali, riviste, pubblicità, schermi di computer, fotografie e quant’altro del genere “illustrato” che affolla la nostra vita quotidiana. Per cui le uniche immagini in circolazione erano quelle dei dipinti degli artisti. Inoltre i luoghi di riunione popolare erano praticamente solo le chiese: non esistevano cinematografi, stadi, ed anche i pochi teatri erano frequentati solamente dalla nobiltà perché allestiti nei loro palazzi. A parte quindi le piazze, l’unico luogo di assembramento popolare era la chiesa, e proprio in chiesa venivano ammirati i dipinti che rappresentavano l’unica comunicazione “televisiva” di quel tempo. La partecipazione e la comprensione del popolo alle opere d’arte era estesa. Ad esempio in Piazza Signoria a Firenze, sotto le statue lì collocate, il popolo era abituato ad apporvi bigliettini di commento sulla qualità delle sculture esposte, tanto che Benvenuto Cellini nella sua autobiografia si vanta d’aver avuto più elogi per il suo Perseo rispetto ai commenti invece negativi avuti dal suo rivale Baccio Bandinelli, appesi sotto la sua opera Ercole e Caco. E conclude la sua annotazione soddisfatta con uno sprezzante commento: «per forza! Quell’Ercole ha la schiena che pare un sacco di zucche lunghe!»213. Per comprendere come la partecipazione popolare all’arte fosse talmente intensa basti sapere che a Firenze si formarono veri e propri

D. TRENTO, Tecnologie per l’umanesimo, CD-ROM per la mostra sul restauro del Perseo. Cassa di Risparmio di Firenze, Firenze 1997. 213

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Quando l’arte stimola le debolezze della carne

“partiti” che “tifavano” per gli artisti: ad esempio il partito di Leonardo contro il partito di Michelangelo. A quest’ultimo fu riservato l’appellativo di “divino”, roba che oggi capita ai divi del pallone. Fatta questa premessa, veniamo ai fatti che coinvolsero le donne di Firenze nell’accusa di comportamenti licenziosi… in chiesa. Il tutto per effetto di un dipinto del celebre artista Fra Bartolomeo. Questo artista era noto a Firenze col nome di Baccio della Porta, era molto rinomato e godeva di grande credito presso i committenti. Sennonché in quegli anni a Firenze predicava, con accenti incendiari, il frate Gerolamo Savonarola, avverso alla casata dei Medici e radicale moralizzatore dei costumi del suo tempo. Le sue prediche infuocate richiamavano numeroso pubblico e suscitavano passioni politiche e morali molto accese. Mezza Firenze si schierò dalla parte del frate e la loro fazione fu chiamata quella dei «Piagnoni» per il moralismo radicale con cui lamentavano la dissolutezza dei costumi del loro tempo (oggi li chiameremmo “bigotti”). A questa fazione aderirono anche molti artisti, a cominciare dal grande Sandro Botticelli, e ad essa apparteneva anche il nostro Baccio della Porta che si trovò a dover affrontare un grande dilemma per un pittore: Savonarola infatti affermava che le immagini inducevano alla rilassatezza dei costumi e quindi andavano distrutte. Cosa che avvenne realmente: «Avvenne che continovando fra Ieronimo le sue predicazioni, e gridando ogni giorno in pergamo che le pitture lascive e le musiche e i libri amorosi spesso inducono gli animi a cose mal fatte, fu persuaso che non era bene tenere in casa, dove son fanciulle, figure dipinte d’uomini e donne ignude; per il che riscaldati i popoli dal dir suo, il carnovale seguente, che era costume della città far sopra le piazze alcuni capannucci di stipa ed altre legne, e la sera del martedì per antico costume ardere queste con balli amorosi, dove presi per mano un uomo ed una donna giravano cantando intorno certe ballate, fe’ sì fra Ieronimo, che quel giorno si condusse a quel luogo tante pitture e sculture ignude, molte di mano di maestri eccellenti, e parimente libri, liuti, e canzonieri, che fu danno grandissimo, ma in particolare della pittura; dove Baccio portò tutto lo studio de’ disegni che egli aveva fatto degl’ignudi, e lo imitò anche Lorenzo di Credi e molti altri che avevan nome di piagnoni. Laddove non andò molto, per l’affezione che Baccio aveva a Fra Ieronimo, che fece in un quadro el suo ritratto che fu bellissimo…»214. 214

G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. IV, pp. 178-179.

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Mogli, garzoni e amanti

Baccio dunque si era schierato col frate. Quando Savonarola perse il favore del popolo fiorentino, si rinchiuse nel convento di San Marco per difendersi dall’assalto armato dei suoi avversari che lo volevano catturare. Molti dei suoi seguaci lo seguirono nella difesa del convento e fra questi anche il nostro Baccio della Porta. Lo scontro fu violentissimo e molti venivano feriti od uccisi. A Baccio prese così una paura tremenda di venir ucciso ed, essendo di carattere timido e apprensivo, sull’istante fece un voto: se avesse scampato all’assalto e salvato la pelle avrebbe rinunciato alla sua cosa più cara: avrebbe smesso di dipingere, soprattutto quelle figure nude per cui era apprezzatissimo, e avrebbe indossato il saio di frate domenicano. La fazione dei Piagnoni perse. Savonarola venne catturato e bruciato sul rogo in piazza Signoria, ma il nostro Baccio si salvò. Si fece quindi frate col nome di Fra Bartolomeo nel convento di Prato (meglio forse restare lontano da Firenze…) e smise di dipingere per quattro anni215. Fu però in seguito trasferito nel convento di San Marco a Firenze, proprio nel luogo dove aveva pronunciato il suo voto di smettere di dipingere se avesse salvato la pelle. Finché un giorno venne chiamato dal priore del convento: – Oh, caro Fra Bartolomeo, come stai? – Bene, priore. Ma perché m’avete fatto chiamare? – Vedi, caro Bartolomeo, la nostra chiesa è un poco sguarnita. Tu sei un bravo pittore, perché non ci dipingi qualcosa? – Non posso, priore. – Come “non posso”! Tu sei un eccellente artista. E poi potremmo avere le tue splendide pitture per la nostra chiesa senza intaccare le nostre sostanze, con quello che costano gli artisti qui a Firenze. – Grazie, priore. Ma non insistete. Ve l’ho detto, non posso. – Ma come, se proprio ieri mi hanno detto che anche il grande Raffaello è venuto da te perché gli spiegassi i segreti della tua maniera nell’uso dei colori. – Oh, sì. Ma l’ho fatto solo perché Raffaello mi spiegasse la tecnica della prospettiva. – Lo vedi che sei un pittore. Cosa te ne fai della tecnica della prospettiva se non la impieghi in pittura?

215

Ibidem, p. 182.

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Quando l’arte stimola le debolezze della carne

– Lo so, priore. Era una mia curiosità: cosa volete, la pittura m’è rimasta nel sangue, ma, vi ripeto, non posso più dipingere. – Oh insomma! Sono il tuo priore! Ubbidisci! – Per carità, non è che voglio disubbidirvi, me ne guardo bene. Il fatto è che ho espresso il voto di smettere di dipingere se avessi salvato la vita durante la difesa del nostro convento, quando fu catturato il Savonarola. Come vedete sono vivo, e quindi… – Via, Bartolomeo. Tutto qui? – Sì, priore, adesso capite? – Oh via Bartolomeo, è solo un voto. – Eh, ma un voto è un voto e va rispettato. – Ma un voto può essere sciolto. Io ti sciolgo dal tuo voto. Va bene? – Come? Potete sciogliere il mio voto? – Insomma. Oh Bartolomeo! Sono o no il tuo priore? – Voi dite, priore? Dite che posso ricominciare? – Non solo te lo dico, ma te lo ordino. Su, Bartolomeo. Non perdiamo più tempo. Fuori colori e pennelli. Al lavoro! E così Fra Bartolomeo ricomincia a dipingere con l’entusiasmo d’un fanciullo. Ma la ruggine dell’inattività aveva corroso la sua abilità, tanto da recarsi a Roma per studiare le opere di Raffaello e Michelangelo. Tornato a Firenze seppe che sul suo lavoro le dicerie erano quelle che lui, fra Bartolomeo, non era più il Baccio d’una volta, soprattutto non sapeva fare più così bene le figure nude come un tempo. Punto nell’orgoglio e raccogliendo la sfida, per sconfiggere i maldicenti «fece in un quadro un San Sebastiano ignudo, con colorito molto alla carne simile, di dolce aria, e di corrispondente bellezza alla persona parimente finito; dove infinite lodi acquistò appresso agli artefici»216.

Insomma, il dipinto, appeso in chiesa, non solo confermò l’abilità recuperata di Fra Bartolomeo nel dipingere la figura umana nuda, ma si mostrava quale straordinario modello di bellezza maschile, esibita in maniera tanto seducente da far sembrare San Sebastiano un vero e proprio splendido dio pagano.

216

Ibidem, p. 188.

111

Mogli, garzoni e amanti

Passa qualche giorno e i padri confessori del convento di San Marco chiedono udienza al loro priore: – Priore, dobbiamo parlarvi. – Non ho tempo adesso. – Ma, priore, si tratta d’una cosa della massima importanza. – Va bene, ditemi, ma fate presto che ho un convento intero da mandare avanti. – Priore, vedete, le donne fiorentine peccano. – E che novità è mai questa. Certo che le donne fiorentine peccano. E voi di che vi lamentate. Non siete forse voi i confessori? Peccati ascoltate, no? – Sì, ma vedete priore, le donne fiorentine peccano sì, ma anche qui nella nostra chiesa. – Cosa? Qui in chiesa? – Sì, priore, davanti al quadro di San Sebastiano di Fra Bartolomeo! – Cosa? Toglietelo subito! Non sappiamo in cosa consistessero questi peccati delle donne fiorentine. Gli storici del tempo sono a questo proposito, poco precisi. Così si esprime, ad esempio, il Vasari: «Dicesi che stando in chiesa per mostra questa figura, avevano trovato i frati nelle confessioni donne, che nel guardarlo avevano peccato per la leggiadria e lasciva imitazione del vivo datagli dalla virtù di Fra Bartolomeo: per il che levatolo di chiesa, lo misero nel capitolo, dove non dimorò molto tempo, che da Giovan Battista della Palla comprato, fu mandato al re di Francia»217.

Ora, caro lettore, sarai curioso di poter vedere questa figura. Sappi che, purtroppo non ti possiamo accontentare. Come annota il Milanesi commentando il testo del Vasari, questo quadro fu lungamente cercato, ma non se n’è mai trovato traccia. Alcune ipotesi lo danno per acquistato dal padre di tal Beniamino Alaffre di Tolosa durante la rivoluzione francese. Infine si dice che poi sia pervenuto ad un nipote di Alaffre, giudice di pace a Bézenas, sempre in terra francese. Qua-

217

Ivi.

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Quando l’arte stimola le debolezze della carne

lora questo dipinto del signor Alaffre fosse davvero il San Sebastiano di Fra Bartolomeo, possiamo solo darne una descrizione di chi avrebbe visto un disegno tratto da quel dipinto, così come afferma il Milanesi, il commentatore delle opere di Giorgio Vasari. Eccola: «Il Santo è veduto di faccia, e pianta sulla gamba sinistra; ha l’antibraccio del lato medesimo nascosto dietro al dorso, se non che la mano scaturisce un poco dalla parte del fianco opposto. Tiene la destra alzata in alto per ricevere la palma da un Angelo volante, librato sopra di lui. La testa e le braccia di questo messaggero celeste escono fuori della dipinta cornice. Tre frecce sono infitte nel corpo del Santo, dalla parte sinistra: una alla base del collo, una sotto la papilla del petto, una finalmente nella coscia. Ambedue le figure sono nude, ma coperte bensì ove voleva la decenza»218.

218 P. MARCHESE, Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani, Alcide Parenti, Firenze 1845, vol. II, p. 111 e sgg. qui tratto da G. MILANESI (a cura di), Le opere di Giorgio Vasari…, op. cit., vol. IV, p. 188n.

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LE POLEMICHE SUI NUDI DI MICHELANGELO

Benché l’arte fosse soprattutto arte di devozione o comunque i soggetti dei dipinti e delle sculture fossero tratti dalle sacre scritture o dalla vita dei santi, abbiamo visto come fosse possibile che le immagini suscitassero sentimenti e reazioni non proprio di devozione e comunque non sempre conformi allo scopo per cui le immagini sacre venivano ordinate e dipinte. Prima che sull’arte cadesse l’inesorabile scure della Controriforma, registriamo innumerevoli episodi di protesta circa la pudicizia delle figure. Basti pensare all’origine delle contestazioni che furono rivolte ai dipinti sacri che scaturisce dal Concilio di Trento, che trova il suo culmine attraverso la pubblicazione nel 1582 del Discorso intorno alle immagini sacre e profane del cardinale bolognese Gabriele Paleotti. Nel suo testo il cardinale sistematizzava tutto l’assunto del Concilio a questo proposito, accusando gli artisti di non aver alcun senso di devozione nei confronti dei soggetti sacri, per cui: «… ricercandosi nelle immagini, quanto alle sacre, che muovano i cuori de’ riguardanti alla divozione e vero culto di Dio, i pittori, per non essere comunemente meglio disciplinati degli altri nella cognizione di Dio, né essercitati nello spirito e pietade, non possono rappresentare, nelle figure che fanno, quella maniera di divozione ch’essi non hanno né sentono dentro di sé; onde si vede per isperienza che poche imagini oggi si dipingono, che produchino questo effetto…»219.

Il cardinale Paleotti sosteneva che la causa delle tentazioni e quindi dell’incorrere nel peccato stava nell’occhio degli uomini. Per questo, sosteneva, era quasi più tollerabile la presenza nelle città delle pro-

G. PALEOTTI, Discorso intorno alle immagini sacre e profane, Bologna 1582, in P. BAROCCHI (a cura di), Scritti d’arte…, op. cit., vol. 32, tomo I, pp. 901-02. 219

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Le polemiche sui nudi di Michelangelo

stitute che non la vista di immagini impudiche, definite «disoneste». Prese quindi il via una campagna contro le immagini ritenute non ortodosse che raggiunse il suo culmine sotto il pontificato di Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini). Appena eletto papa Clemente intraprese un sistematico itinerario nelle chiese di Roma per controllare di persona la conformità delle immagini ai dettami controriformistici. Angeli, Maddalene, Crocifissi, nulla fu risparmiato dalla foga moralizzatrice del pontefice: nelle chiese di Santa Maria Maggiore, di Santa Maria in Trastevere, di Santa Maria della Conciliazione e di San Marcello fece rivestire statue di martiri, di santi e di crocifissi. In San Pietro fece allungare la capigliatura di una Maddalena per ricoprirle i seni, e fece trasformare una statua antica di Minerva in una santa moderna nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli220. In quel tempo ebbe anche grande diffusione e clamore un trattato del gesuita Antonio Possevino, segretario dell’Ordine, che ribadiva vigorosamente l’intransigente divieto di rappresentare la nudità del corpo umano. Nel 1598 il pittore Durante Alberti ottenne la carica di “Principe dell’Accademia di San Luca”, titolo col quale si indicava la carica di direttore dell’Accademia, l’organizzazione che riuniva gli artisti romani. Appena insediato, Durante Alberti convocò in Accademia un gesuita affinché predicasse contro le immagini lascive, esortando «… à tutti li fratelli Academici ad essere avertiti al dipingere cose honeste e laudabili, e fugire ogni lascivia e dishonestà, e sopra ciò prese soggetto di leggere una lettera in materia d’una Cleopatra, vista già figurata poco honestamente, in reprensione della quale pose molte ragioni, & avertimenti, che furono cosa assai gustosa…»221.

Ma tutto ciò non bastava: il rigore e l’intransigenza giunsero fino a conseguenze estreme, vale a dire fino alla punizione corporale degli artisti renitenti ai dettami della Controriforma, così come capitò a quello sfortunato pittore i cui dipinti furono giudicati osceni e per questo fu torturato, i suoi quadri bruciati ed «il pover homo atterrito se ne fuggì a Napoli struoppiato delle braccia»222.

R. ZAPPERI, Eros e Controriforma…, op. cit., p. 51. R. ALBERTI, Origine et progresso dell’Academia del Dissegno, Pietro Bartoli, Pavia 1604, p. 79. 222 R. ZAPPERI, Eros e Controriforma…, op. cit., p. 56-57. 220 221

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Ed infine, ancora il cardinal Paleotti, emanò nel 1563 il suo decreto su La invocazione e venerazione delle reliquie e sacre immagini. Era un’esortazione, quando non una severa imposizione, perché da parte degli artisti venisse abbandonata la seduzione della bellezza classica greco-romana che aveva contraddistinto la pittura di tutto il Rinascimento e che, come abbiamo visto, avrebbe portato, ad esempio, Fra Bartolomeo, a dipingere più che un San Sebastiano sofferente, un atletico e luminoso Apollo. Ma questa maniera “classica” non risparmiava neppure Gesù e la Madonna, stante le disapprovazioni nel Discorso del Paleotti proprio riferibili a questi due tra i personaggi fondamentali del fulcro della dottrina cattolica: «Come quando si figura il corpo di Nostro Signore in croce morbido e bianco, si come comunemente soglion fare i pittori senza alcun segno di livore o de’ flagelli [od anche quando si rappresenta la Madonna] con faccia colorita, liscia, grana e quasi lasciva»223.

È questa una critica riferibile a tutta la pittura e scultura rinascimentale, ma che sembra stagliarsi perfettamente sull’opera di Michelangelo, a cominciare da quel Crocifisso che il maestro avrebbe scolpito per il priore del convento di Santo Spirito: una delicatissima figura maschile, completamente nuda, senza neppure il convenzionale drappo che di solito ne fasciava i fianchi, in una posa morbida, tenerissima e levigata. O come quel volto virgineo della Pietà in San Pietro che rappresenta una Madonna adolescente che regge il levigatissimo corpo del figlio, in un tripudio di pieghe marmoree dei tessuti della veste di Maria che paiono così contrastare e quindi esaltare la morbidezza delle carni del suo volto e del corpo di Cristo. Era talmente bello e seducente il volto di Maria, che fiorirono leggende sul comportamento di chi si recava nella basilica di San Pietro per vederla. Infatti, pare che una sera Michelangelo sia entrato dove era esposta la sua Pietà, per poterne ascoltare i commenti. Tra questi, notò un pellegrino lombardo che era letteralmente rapito e sedotto dal viso di quella vergine adolescente: era talmente bello che affermava che non era possibile che un uomo avesse prodotto tanta bellezza e meraviglia. Il pellegrino si informò tra i suoi vicini e gli venne

223

T. VERDON, L’arte sacra in Italia, Mondadori, Milano 2001, p. 280.

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riferito che l’autore era un certo «Gobbo da Milano». Michelangelo ci rimase male ma non disse nulla in quel momento. La notte seguente, però, presi scalpelli e martello, si introdusse in chiesa ed incise il proprio nome (MICHEL.A[N]GELVS BONAROTVS FLORENT[INVS] FACIEBAT) sulla fascia che stringe il petto di Maria Vergine, al centro della composizione, perché non nascessero più dubbi sulla sua autografia224. Ma l’elenco delle immagini dall’aspetto e dalla posa ambigua che tanto turbavano il cardinal Paleotti, annovera numerosi altri esempi. Così, ad esempio, il Cristo della chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma, del quale Michelangelo non era proprio soddisfatto, ma che comunque nella sua completa nudità mostrava un’interpretazione «eroica» della figura maschile piuttosto che un «uomo dei dolori». La figura fu infatti coperta nelle sue parti giudicate sconvenienti nel XVII secolo225. Ed ancora il Cristo morto sorretto da quattro angeli (Fig. 9) di Rosso Fiorentino, dipinto per il vescovo Tornabuoni di Arezzo, in cui la figura del Salvatore appare languida, dinoccolata, in un’espressione da esito di piacere erotico più che da uomo che ha subito il martirio più crudele come quello della croce. Come bene rileva lo storico dell’arte André Chastel, «vi è qui una dimostrazione del miracolo eucaristico della presenza reale del Cristo. Ma la presenza qui rivelata ai sensi è descritta con una sensualità che contraddice un valore più essenzialmente cristiano del dogma stesso, e la sensualità si confonde con un estetismo che sembra più importante del significato religioso del quadro»226. E così via con numerosi altri esempi, ben riassunti in quell’accusa del collezionista cinquecentesco, Gabriele de’ Rossi, che sostenne che «gli scultori moderni raffigurano la Vergine con un volto troppo simile a quello di Venere («invehebat contra modernos celatores, qui Beatam Virginem facie nimis venerea sculpunt»)227. Da qui, appunto, tutta una serie di contestazioni attorno alle figure sacre condotte con veementi polemiche, altre volte invece in contesti ed con esiti davvero comici. Il caso più famoso è stato senz’altro quello del Giudizio Universale, di Michelangelo dipinto sulla parete ai piedi della quale sta l’altare della Cappella Sistina in Vaticano. G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. VII, p. 152. A. CHASTEL, Favole, forme, figure, Einaudi, Torino 1988, p. 255. 226 A. CHASTEL, Il sacco di Roma…, op. cit., p. 151, che cita S.J. FREEDBERG, Painting in Italy. 1500-1600, Harmondsworth 1971. 224 225

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Fig. 9 - Rosso Fiorentino, Cristo morto e angeli, Boston, Museum of Fine Arts.

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Il 31 ottobre 1541 venne finalmente liberata la parete dalle impalcature e quindi scoperto l’affresco del Giudizio, dopo cinque anni di duro lavoro del maestro ormai più che sessantenne. Ma anche prima che il grande affresco fosse terminato non mancarono le polemiche sulle immagini, soprattutto per la sovrabbondanza di nudi che letteralmente affollano la composizione. Addirittura ancora prima che Michelangelo realizzasse il Giudizio, c’erano state polemiche feroci sul suo lavoro, compreso quello degli affreschi sulla volta della Cappella Sistina. Il pontefice Adriano VI, che da cardinale (Adriaan Florenszoon Boeyens) era stato inquisitore generale in Spagna, aveva manifestato l’intenzione di distruggere l’opera di Michelangelo avendola giudicata «una stufa d’ignudi»228. Come abbiamo visto in precedenza, utilizzando il paragone delle «stufe», il giudizio del pontefice era quello di equiparare la volta affrescata ad un vero e proprio bordello. E tutto questo misura la considerevole distanza intellettuale tra l’opera di Michelangelo e i giudizi dei suoi mediocri detrattori. Michelangelo che trasfigura la presenza del nudo nelle sue composizioni promuovendola sui registri dell’eroico e dell’antico, dichiarando la propria ammirazione per la bellezza umana in sé, sciolta dalle necessità narrative medievali (Adamo, Eva, ecc.), inaugurando così una interpretazione moderna della presenza del nudo, dove la forma del corpo umano sale a quell’armonia ideale che parla dell’autorevolezza e della responsabilità del recupero dei classici, così come raffigura la personificazione della figura di un umano eroicizzato e, contemporaneamente, rappresenta il tramite esteriore per giungere alla grazia spirituale ed intellettuale229. Ma ancora, più tardi, a Giudizio ormai ultimato, anche il pontefice Paolo IV (Giovanni Pietro Carafa) espresse tutta la sua perplessità su quella massa di corpi nudi che affollavano la parete proprio sopra l’altare. Avrebbe quindi desiderato che Michelangelo vi ponesse rimedio e a questa sua intenzione, quando fu riferita al maestro, l’artista rispose:

C. FRANZONI, «Urbe Roma in pristinam formam renascente». Le antichità di Roma durante il Rinascimento, in A. PINELLI (a cura di), Roma nel Rinascimento, op. cit., pp. 296-297. 228 G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. V, p. 456. 229 N. HIMMELMANN, Nudità ideale, in S. SETTIS, Memorie dell’antico nell’arte italiana, vol. II, I generi e i temi ritrovati, Einaudi, Torino 1985, pp. 208 e sgg. 227

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«Dite al papa che questa è piccola faccenda, e che facilmente si può acconciare; che acconci egli il mondo, che le pitture si acconciano presto»230.

Naturalmente Michelangelo si guardò bene dal modificare le figure del Giudizio. Una polemica, quindi, che preannunciava quella stagione moralizzatrice che si sarebbe accesa dopo il Concilio di Trento, anche se, come ci testimonia un resoconto di monsignor Niccolò (o Nino) Sernini, ambasciatore del Cardinal Gonzaga di Mantova, molti cardinali avrebbero volentieri pagato somme enormi per avere copie delle figure nude che affollavano il Giudizio231. Ma l’indignazione dei detrattori dell’opera, ipocritamente richiamandosi alla tradizione iconografica cristiana, in realtà si scagliavano con un perbenista senso del pudore, contro l’affollamento dei nudi nell’opera. E tutto questo in osservanza della deliberazione tridentina a proposito delle figure nude nelle opere sacre: «Infine sia evitata ogni lascivia in modo che non siano dipinte ne fornite immagini di bellezza procace»232.

Tra coloro che volevano distruggere l’opera di Michelangelo e i più moderati che invece volevano conservarla, si giunse ad un compromesso nel Concilio di Trento nel 1564: un anno dopo, con Michelangelo ormai scomparso, si decise che venissero coperte le parti dei corpi maggiormente ritenute offensive. Come annota Loren Partdridge nel suo saggio sul recente restauro del Giudizio, «due figure furono ridipinte a fresco nel corso di almeno tre “campagne” […] e di una o più nei secoli successivi, mentre i genitali, le natiche e i glutei di quasi quaranta altri personaggi vennero ricoperti da perizomi realizzati a secco. La maggior parte di quelli aggiunti dopo il Cinquecento (circa quindici) sono stati eliminati durante le recenti operazioni di pulitura del dipinto (1990-1994)»233. G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. VII, p. 240. A. FORCELLINO, Michelangelo. Una vita…, op. cit., p. 279. 232 «Omnis denique lascivia vitetur ita ut procaci venustate imagines non pingantur nec ornentur», dai Canoni e decreti del Coincilio di Trento, in A. BLUNT, Le teorie artistiche…, op. cit., p. 128 e n. 233 L. PARTRIDGE, Una interpretazione del Giudizio Universale di Michelangelo, in AA.VV., La Cappella Sistina. Il Giudizio restaurato, De Agostini, Novara 1998, pp. 8-9. 230 231

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DANIELE DA VOLTERRA, DETTO «IL BRAGHETTONE» E LE «VERGOGNE» DEL “GIUDIZIO”

Dunque il Concilio di Trento decise di coprire le «vergogne» del Giudizio e queste “mutilazioni” rispetto all’originale furono fatte eseguire da un allievo di Michelangelo, Daniele Ricciarelli detto “da Volterra”, che si meritò il nomignolo di «braghettone», per le coperture apposte sui fianchi di molte figure del Giudizio di Michelangelo. Questo nomignolo pare che Daniele se lo meritasse anche perché… era recidivo. Secondo alcune fonti, peraltro da alcuni contestate234, pare che Daniele da Volterra si fosse applicato anche a coprire alcuni nudi dipinti da Girolamo da Trevigi nel castello di Trento. Ciononostante Daniele portava una venerazione sconfinata verso Michelangelo che lo stimava al punto da delegargli alcune commissioni, come, ad esempio, la statua equestre di Arrigo, re di Francia. Michelangelo, gli passava spesso suoi disegni con i quali Daniele poi eseguiva le sue opere e l’aveva inoltre raccomandato presso la corte pontificia fino a fargli avere la carica di «superintendente» delle opere in Vaticano, sotto Paolo III. Alla morte di Michelangelo, Daniele fece un busto con il ritratto del suo venerato maestro tratto da una maschera funeraria del grande artista. Per tutti questi motivi si racconta che quando, per ordine di Paolo IV, dovette intervenire sulle figure nude del Giudizio di Michelangelo, si commuovesse profondamente e per questo scoppiasse spesso in un pianto dirotto. Forse anche per questo, Daniele eseguì l’ordine di “copertura delle vergogne” con tale tatto e delicatezza da riuscire a non alterare il complesso della composizione dell’opera straordinaria di Michelangelo. Il prestigio di Michelangelo fu però il vero antidoto alla volontà di distruzione del Giudizio, se anche Clemente VIII, il più intransigente e

Nota di G. MILANESI in margine alla vita di Daniello Ricciarelli in G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. VII, p. 65n. 234

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moralista interprete dei dettami della Controriforma, ascoltò le suppliche dell’Accademia di San Luca che gli furono rivolte in nome della grandezza del sommo artista fiorentino affinché l’affresco non venisse distrutto235. Persino un irremovibile interprete dei moralistici precetti del Concilio tridentino, quale Gilio da Fabriano nel suo dialogo Degli Errori de’ Pittori, ammette che qualora si debbano dipingere figure nude perché la narrazione biblica lo richiede, queste che siano almeno coperte con un perizoma. E conclude comunque che Michelangelo nel Giudizio Universale «ha dimostrato ciò che può e sa far l’arte» anche se merita per questo la critica di aver più «voluto compiacere de l’arte, per mostrare quale e quanta sia, che de la verità del soggetto»236. Questa faccenda di coprire le figure nude di Michelangelo ebbe una storia a dir poco travagliata e durata secoli: dopo le minacce di distruzione dell’opera da parte di Paolo IV, risolte poi con l’intervento di Daniele da Volterra, e anche dopo che Clemente VIII ascoltò le suppliche dell’Accademia di San Luca, perdurarono gli attacchi moraleggianti nei confronti dell’opera di Michelangelo. Si arrivò, senza mezzi termini, a definire l’artista come «inventor di porcherie» e addirittura, per questa faccenda dei nudi, anche ad accusarlo d’eresia luterana: «… si scoperse in S.to Spirito una Pietà, la quale la mandò un fiorentino a detta chiesa, et si diceva che l’origine veniva dallo inventor delle porcherie, salvandogli l’arte ma non devotione, Michelangelo Buonarroto. Che tutti i moderni pittori e scultori per imitare simili capricci luterani, altro oggi per le sante chiese non si dipinge o scarpella altro che figure da sotterrar la fede et la devotione; ma spero che un giorno Iddio manderà e sua santi a buttare per terra simile idolatre come queste»237.

Successivamente anche Pio V (Antonio Michele Ghislieri) continuò l’opera di “copertura” facendo ricoprire altre figure del Giudizio. Proprio questa ripresa dei rivestimenti consigliò il pittore spagnolo El Greco di offrirsi per ridipingere addirittura tutto l’affresco: lui sì senza

235 K. CLARK, Il nudo. Uno studio della forma ideale, Neri Pozza, Vicenza 1995, p. 362. 236 A. BLUNT, Le teorie artistiche…, op. cit., p. 131. 237 G. GAYE, Carteggio inedito d’artisti, tomo II, Molini, Firenze 1840, p. 500.

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vergogna, nell’inverecondo tentativo di oscurare la grandezza di Michelangelo, fino a piegarsi a suggerire che avrebbe dipinto con «honestà e decenza, non inferiore a quella di buona dipictione»238. Ma le operazioni di rivestimento non cessrono: ancora nel 1762 Clemente XIII (Carlo della Torre da Rezzonico) fece aggiungere altri drappeggi e si narra che, anche in tempi a noi vicini, nel 1936, anche Pio XI (papa Ratti) pare volesse proseguire in questa direzione. Durante le prime operazioni di “copertura”, in qualche caso, si giunse, come accennavamo, ad episodi comici. Uno di questi è il rifacimento da parte di Daniele da Volterra delle figure di San Biagio e di Santa Caterina d’Alessandria (Fig. 10), dipinte da Michelangelo nel gruppo dei “Martiri” alla sinistra di Cristo giudice e a destra per chi guarda la parete. Queste due figure non hanno potuto essere ripristinate nella loro forma originale durante le recenti operazioni di restauro in quanto, Daniele da Volterra, per correggerle, scalpellò la parte di muro su cui erano state dipinte da Michelangelo e rifece quindi completamente l’affresco in quel punto. Per cui, durante le recenti operazioni di restauro, non è stato possibile rimuovere le coperture come nei casi in cui queste furono apposte a secco successivamente. Ma perché questo intervento così radicale da parte di Daniele da Volterra? Il motivo consiste nel fatto che, prima dell’intervento di Daniele, Santa Caterina d’Alessandria era stata rappresentata da Michelangelo completamente nuda e chinata in avanti mentre regge la ruota dentata con la quale subì il martirio. Immediatamente dietro a questa nuda santa ricurva stava San Biagio, con le braccia levate che a loro volta impugnano lo strumento di tortura con cui fu martirizzato lui stesso. Ma lo sguardo di San Biagio era rivolto verso il basso in direzione della “schiena” di Santa Caterina, piegata in avanti. Come si può immaginare posa e sguardo erano francamente sconvenienti. Anche Giovan Paolo Lomazzo, pittore e trattatista contemporaneo, racconta come «in giro» si dicesse che le figure del Giudizio, ed in particolare la Santa Caterina, fossero indecenti: «è gabbia overo ciurma de fachini e de istrioni [con baci] da nozze e da bordelli, e con Santa Caterina che induce a lussuria»239. A. BLUNT, Le teorie artistiche…, op. cit., p. 129n. G.P. LOMAZZO, Libro dei sogni, qui tratto da L. BOTTONI, Leonardo e l’androgino, Franco Angeli, Milano 2003, p. 30. 238 239

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Fig. 10 - Michelangelo, Giudizio Universale. (part. con San Biagio e Santa Caterina), Roma, Vaticano, Cappella Sistina.

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Per cui Daniele, scalpellando il muro, rivestì completamente la figura di Santa Caterina e girò la testa di San Biagio, in maniera che il suo sguardo cambiasse direzione e precisamente si volgesse, più convenientemente, verso la figura di Cristo240. Noi conosciamo lo stato precedente di queste figure grazie alla copia ordinata dal Cardinal Farnese nel 1549 a Marcello Venusti (Fig. 11), pittore valtellinese trapiantato a Roma, ed oggi conservata al Museo di Capodimonte a Napoli. Questo lavoro, affidato a Daniele, venne interrotto alla fine del 1565, con conseguente smantellamento Fig. 11 - Marcello Venusti, Copia del Universale (part.), Napoli, dell’impalcatura, perché la Cappella Giudizio Museo di Capodimonte. Sistina doveva essere sgombrata per l’elezione del nuovo pontefice dopo la morte di Pio IV. Non sappiamo se fu per questo o per qualche altro motivo non meglio documentato, ma certo è che molte figure del Giudizio, vennero risparmiate. Tra queste figura l’immagine di Minosse in basso a destra tra i demoni e i dannati condotti dalla barca di Caronte. Proprio la presenza di personaggi non testualmente coincidenti con le sacre scritture, ma bensì riferibili a protagonisti della mitologia greca come anche della letteratura dantesca, suscitò le critiche del Maestro di Cerimonie del Papa, mentre ancora Michelangelo era al lavoro. Costui si chiamava Biagio da Cesena, e di queste presenze giudicate incongruenti se ne lamentò col pontefice il quale, non osando contrastare la genialità di Michelangelo e non volendo affrontare il grande artista notoriamente dal carattere scontroso ed irritabile, rispose che non poteva intervenire in quanto il papa non poteva avere… giurisdizione sull’inferno! Pare che Michelangelo, informato dell’astio nei suoi con-

F. MANCINELLI, Il Giudizio Universale: storia, tecnica e restauro, in AA.VV., La Cappella Sistina. Il Giudizio…, op. cit., p. 172. 240

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fronti del cerimoniere, per vendicarsi desse il volto di Biagio da Cesena alla figura del demonio Minosse. Secondo altri studiosi pare invece che nel volto di Minosse Michelangelo avesse raffigurato Pierluigi Farnese, noto sodomita che, si diceva, avesse causato la morte di un giovane ecclesiastico, praticando in maniera scellerata i suoi appetiti sessuali. Pierluigi Farnese era figlio del papa Paolo III, nato quando il papa era ancora il cardinale Alessandro Farnese, e, secondo alcuni, di Silvia Ruffini, una gentildonna romana che avrebbe dato al futuro pontefice altri tre figli: Paolo, Ranuccio e Costanza. Pierluigi odiava Michelangelo. Ora non è che Michelangelo avesse un carattere particolarmente amabile, ma certo Pierluigi Farnese non meritava certo la cordialità e l’ammirazione di nessuno, visto la fama di personaggio malvagio che lo inseguiva. Ecco come lo descrive lo storico fiorentino Benedetto Varchi: «… sicuro per l’indulgenza del padre [il pontefice Paolo III, n.d.a.] di non dover essere non che gastigato, ripreso, andava per le terre della Chiesa stuprando o per amore o per forza, quanti giovani gli venivano veduti, che gli piacessero…»241.

E quanto al fatto della morte del povero giovane ecclesiastico, che si chiamava Cosimo Gheri, un ragazzo poco più che ventenne, ecco ancora la testimonianza del Varchi: «[Pierluigi Farnese] si partì dalla città di Ancona per andare a Fano, dove era governatore un frate sbandito della Mirandola, il quale è ancor vivo e per la miseria e la meschinità della sua gaglioffa e spilorcia vita si chiamava e si chiama il vescovo della Fame. […] La prima cosa della quale domandò Pierluigi […] con parole oscenissime […] come egli si sollazzasse e désse buon tempo con quelle belle donne di Fano. [Il giorno dopo, visto il rifiuto del vescovo] Pierluigi […] mandò a chiamar prima il governatore e poi il vescovo. Il governatore tosto che vedde arrivato il vescovo, usci di camera. Pierluigi cominciò, palpando e stazzonando il vescovo, a voler fare i più disonesti atti che con femmine far si possano e poiché il vescovo […] si difendeva gagliar-

B. VARCHI, Storia fiorentina, libro XVI, 16, qui tratto dell’edizione a cura di G. MILANESI, Le Monnier, Firenze 1888, pp. 268-69. 241

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Daniele da Volterra, detto «il Braghettone» e le «vergogne» del “Giudizio”

Fig. 12 - Michelangelo, Giudizio Universale, particolare con la figura di Minosse, Roma, Vaticano, Cappella Sistina.

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damente, non pur da lui [Pierluigi], il quale, essendo pieno di mal franzese, non si reggeva a pena in piè, ma da altri suoi satelliti i quali brigavano di tenerlo fermo, lo fece legare […] e a trarsi la sua non men furiosa rabbia che rabbiosa libidine. […] Il vescovo, tra la forza che egli ricevette nel corpo male […] ma molto più per lo sdegno […] fra lo spazio di quaranta giorni […] cattolicamente si morì.»242.

Negli anni seguenti, Pierluigi, avendo ottenuto, grazie al padre pontefice, il ducato di Parma e Piacenza, tentò di sottrarre a Michelangelo la riscossione del pedaggio sul ponte del Po con il quale era stato e veniva ancora finanziato l’affresco del Giudizio Universale. Paolo III, ancora una volta, non volle contrastare Michelangelo che così, alla veneranda età di settantun anni, dimostrava di poter ancora tenere in scacco la corte pontificia grazie al suo talento, al suo prestigio e alla sua fama. Inoltre Michelangelo, per irrobustire la già grande ascendenza che esercitava sul pontefice, pensò bene di minacciare l’interruzione dei lavori nella Cappella Paolina in cui era impegnato, fino a quando la contesa con Pierluigi Farnese non fosse stata risolta a proprio favore243. Pierluigi Farnese si vedeva così sottratta un’entrata cospicua su cui confidava e reagì sdegnato sostenendo l’ingratitudine di Michelangelo verso chi, come lui, aveva sempre nutrito grande affetto nei confronti del grande maestro. Naturalmente tutto questo non era vero: come avrebbe infatti potuto Michelangelo fidarsi di Pierluigi Farnese, uno che aveva fama di criminale e che «neppure il talento accondiscendente di Tiziano [che lo ritrasse] riuscì a mascherare i segni della sifilide e della perversa malignità», come opportunamente annota Antonio Forcellino nella sua monografia su Michelangelo244. Se davvero Minosse ha il volto di Pierluigi, Michelangelo lo ritrasse in una maniera impietosa e crudele: Minosse sta ritto in piedi mentre un immondo serpente gli morde i genitali (Fig. 12).

Ibidem, pp. 269-270. A. FORCELLINO, 1545. Gli ultimi giorni del Rinascimento, Laterza, Bari 2008, p. 141. 244 A. FORCELLINO, Michelangelo. Una vita…, op. cit., p. 384. 242 243

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LE PRUDERIE SUSCITATE DALLE OPERE D’ARTE (Aretino, Guglielmo dalla Porta, Correggio)

Ma la storia delle «vergogne» del Giudizio non restarono solo nell’ambito ecclesiastico e non suscitarono critiche solo di natura moralistica circa la folla di nudi che lo caratterizza. Ci fu un caso che è riferibile al mondo degli intellettuali che ha infatti visto uno dei suoi esponenti più in vista, polemizzare energicamente con Michelangelo: si tratta di Pietro Aretino, celebre poeta e drammaturgo. Una figura di intellettuale spregiudicato, da alcuni molto discusso e da altri assai apprezzato. Un personaggio alternativamente considerato ora cortigiano affettato, ora feroce polemista arrogante e presuntuoso. Basti, per sintetizzare la sua figura, ricordare l’epitaffio che egli stesso dettò per la sua sepoltura: «Qui giace l’Aretin, poeta Tosco che d’ognun disse mal, fuorché di Cristo scusandosi col dir “Non lo conosco!”».

Scrivendo a Michelangelo, Aretino si scaglia contro le nudità del Giudizio nella Cappella Sistina, non risparmiando termini pesanti come quando paragona il grande affresco alla rappresentazione di un vero e proprio postribolo, con figure nude… davanti e di dietro: «si veggano dipinti tanti ignudi che dimostrano disonestamente drittti e riversi», (il testo integrale della lettera dell’Aretino è qui in nota245). 245 «Da Venezia Novembre 1545. Signor mio, Nel vedere lo schizzo intiero di tutto il vostro dì del giudicio, ho fornito di conoscere la illustre grafia di Raffaello ne la grata bellezza de la inventione. Intanto io come battezzato mi vergogno de la licentia sì illecita a lo spirito, che havete preso ne lo esprimere i concetti, u’ si risolve il fine, al quale aspira ogni senso de la veracissima credenza nostra. Adunque quel Michelagnolo stupendo in la fama, quel Michelagnolo notabile in la prudentia, quel Micbelagnolo ammiranno ha voluto mostrare a le genti

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Il tono della lettera è astioso e talvolta crudamente offensivo, come quando Aretino accusa Michelangelo di «stimare più l’arte che la fede» per il qual motivo l’artista avrebbe preferito, anziché ornare con il decoro dovuto i santi e gli angeli, esibire sfacciatamente i loro genitali. non meno impietà di irreligione, che perfettion di pittura? È possibile che voi, che per essere divino non degnate il consortio degli huomini, haviate ciò fatto nel maggior tempio di dio? sopra il primo altare di giesù ? ne la più gran capella del mondo? dove i gran Cardini dela Chiesa, dove i Sacerdoti riverendi, dove il Vicario di Cristo con ceremonie Cattoliche, con ordini sacri e con orationi divine confessano, contemplano et adorano il suo corpo, il suo sangue e la sua carne? Se non fusse cosa nefanda lo introdurre de la similitudine, mi vanterei di bontade nel trattato de la Nanna, preponendo il savio mio avedimento a la indiscreta vostra conscienza, avenga che io in materia lasciva et impudica non pure uso parole avertite e costumate, ma favello con detti irreprensibili e casti: et voi nel suggetto di sì alta historia mostrate gli angeli e i santi, questi senza veruna terrena honestà, e quegli privi d’ogni celeste ornamento. Ecco i gentili ne lo iscolpire non dico Diana vestita, ma nel formare Venere ignuda, le fanno ricoprire con la mano le parti, che non si scoprono: et chi pur è Christiano, per più stimare l’arte che la fede, tiene per reale ispettacolo tanto il decoro non osservato ne i martiri e ne le vergini, quanto il gesto del rapito per i membri genitali, che ancho serrarebbe gli occhi il postribolo per non mirarlo. In un bagno delitioso, non in un choro supremo si conveniva il far vostro. Onde seria men vitio che voi non credeste, che in tal modo credendo iscemare la credenza in altrui. Ma sino a qui la eccellenza di sì temerarie maraviglie non rimane impunita, poiché il miracolo di loro istesse è morte dela vostra laude. Si che risuscitatele il nome col far de fiamme di fuoco le vergogne de i dannati, et quelle de’ beati di raggi di sole, o imitate la modestia Fiorentina, la quale sotto alcune foglie auree sotterra quelle del suo bel colosso; et pure è posto in piazza publica et non in luogo sacrato. Hor cosi ve lo perdoni Iddio, come non ragiono ciò per isdegno, ch’io hebbi circa le cose desiderate; perché il sodisfare al quanto vi obligaste mandarmi, doveva essere procurato da voi con ogni sollecitudine, da che in cotale atto acquetavate la invidia, che vuole che non vi possin disporre se non Gherardi et Tomai. Ma se il thesoro lasciatovi da Giulio, acciò si collocassero le sue reliquie nel vaso de i vostri intagli, non è stato bastante a far che gli osserviate la promessa, che posso però sperare io? Benchè non la ingratitudine, non l’avaritia di voi pittor magno, ma la grafia et il merito del Pastor massimo è di ciò cagione. Avenga che Iddio vuole che la eterna fama di lui viva in semplice fattura di deposito in l’essere di se stesso, et non in altiera machina di sepoltura in verta del vostro stile. In questo mezzo il mancar voi del debito, vi si attribuisce per furto. Ma conciosiachè le vostre anime han più bisogno de lo affetto de la devotione, che de la vivacità del disegno, inspiri Iddio la Santità di Paolo, come inspirò la beatitudine di Gregorio, il quale volse inprima disornar Roma de le superbe statue degli Idoli, che torre bontà loro la riverentia a l’humili imagini de i santi. In ultimo, se vi fusto consigliato nell comporre e l’universo e l’abisso, e ‘l paradiso con la gloria, con l’honore et con lo spavento abbozzatovi da la istrutione, da lo esempio e da la scienza de la lettera, che di mio legge il secolo, ardisco dire che non

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Doppio disprezzo quindi: come se l’arte di Michelangelo non consistesse che nelle terga e nei genitali delle figure dipinte oltre alla sconveniente mancanza del decoro che sarebbe dovuto alle figure sacre. Od ancora quando irride all’appellativo di «divino» che ormai era accostato al nome di Michelangelo: «et che mi pare havervi fatto vedere che se voi siate divino, io non so’ d’acqua…». Aretino sa di non essere proprio un’autorità in fatto di fustigatore di argomenti licenziosi. Per questo cerca di prevenire la polemica risposta che Michelangelo potrebbe opporgli. Aretino è infatti, tra le altre opere, autore del famoso “Dialogo della Nanna”, la cui oscenità era esplicita: basti a dimostrarlo citare il titolo integrale per comprenderne il contenuto: DIALOGO DI MESSER PIETRO ARETINO NEL QUALE LA NANNA IL PRIMO GIORNO INSEGNA A LA PIPPA SUA FIGLIUOLA A ESSER PUTTANA, NEL SECONDO GLI CONTA I TRADIMENTI CHE FANNO GLI UOMINI A LE MESCHINE CHE GLI CREDANO, NEL TERZO E ULTIMO LA NANNA E LA PIPPA SEDENDO NE L’ORTO ASCOLTANO LA COMARE E LA BALIA CHE RAGIONANO DE LA RUFFIANÌA

Per questo, per non sentirsi dire “da che pulpito!”, Aretino sostiene di aver certo trattato argomenti osceni, ma senza mai usare termini pure la natura e ciascuna benigna influenza non si pentirieno del datevi intelletto si chiaro, che hoggi in vertù suprema fanvi simolacro de la maraviglia, ma la Providentia, che vegge il tutto, terrebbe cura di opera cotale, sinché si servasse il proprio ordine in governar gli emisperi. Di Novembre in Vinegia MDLXV. Servitore l’Aretino Hor chio mi sono un poco isfogato la colera contra la crudeltà vostra usa a la mia divotione, et che mi pare havervi fatto vedere che se voi siate divino, io non so’ d’acqua, stracciate questa; che anchio lho fatta in pezzi, e risolvetevi pur, chio son tale che anco e’ Re e gli imperadori respondan a le mie lettere.», in G. GAYE, Carteggio inedito…, op. cit., p. 332 e sgg.

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volgari e comunque tutti più che costumati. In quest’affermazione Aretino mostra tutta la sua ipocrisia: basterebbero infatti i termini scurrili dei suoi Sonetti lussuriosi246 per sbugiardarlo. Proseguendo la lettura del testo della missiva si scopre però il vero motivo dell’avversità di Aretino nei confronti di Michelangelo. È il passo in cui il letterato arriva addirittura a dare del ladro a Michelangelo («il mancar voi del debito, vi si attribuisce per furto»), per il fatto che avesse trattenuto tutto il compenso per la realizzazione della tomba di Giulio II che Michelangelo stentava a terminare. Con quest’accusa in realtà Aretino vorrebbe dimostrare come Michelangelo fosse abituato a non adempiere agli impegni cui doveva far fronte. L’accusa mostra tutto il rancore che nutriva lo scrittore nei confronti dell’artista. Un risentimento che si era originato con il fatto che Michelangelo non aveva adempiuto alla richiesta di mandargli qualche suo disegno autografo che Aretino gli aveva richiesto in omaggio247. A seguito di questa pretesa Michelangelo dapprima prese tempo, poi continuò a rimandare e, alla fine, non si fece più sentire. L’episodio dimostra l’orgogliosa presunzione del letterato che pretendeva gratis un’opera di Michelangelo ritenendo che l’artista non si sarebbe sottratto alla gratificazione di cui l’Aretino, indiscutibilmente, si sentiva meritevole. Nella lettera di pesante critica per le nudità del Giudizio di Michelangelo, l’Aretino mostra tutto il suo risentimento nei confronti del grande maestro anche e perché Michelangelo non aveva seguito i suoi consigli. Infatti, in una precedente missiva, sempre indirizzata a Michelangelo, Aretino si dilungava in suggerimenti per come comporre il Giudizio, in cui non risparmiava indicazioni circa i soggetti, le posizioni, gli ornamenti dei personaggi, fino ad adombrare che, sebbene stimasse Michelangelo, il compito avrebbe potuto non essere alla sua altezza: «Or chi non ispaventerebbe nel porre il pennello nel terribil suggetto?»248. Aretino conclude la lettera affermando che, benché ormai si era ripromesso di non andare più a Roma, sarebbe stato disposto a rompere il suo proposito solo per vedere l’opera del Giudizio compiuta. P. ARETINO, Sonetti lussuriosi, Sonzogno, Milano 1986. «…certo che apprezzarei due segni di carbone in un foglio più che quante coppe e catene mi presentò mai questo principe e quello…», P. ARETINO, Lettere, op. cit., vol. I, pp. 530-531. 248 Ibidem, op. cit., vol. I, p. 244 e sgg. 246 247

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Ora bisogna dire che, in quel tempo, era normale che un’opera d’arte fosse il frutto del concorso di più soggetti: dai desideri del committente ai consigli degli umanisti e dei letterati. Ma qui Aretino dimostra di non accorgersi che Michelangelo incarna ormai la condizione “moderna” dell’artista, che rivendica la sua propria autonomia nella creazione dell’opera d’arte, mal sopportando consigli e direttive anche motivate e colte, esigendo ormai di appartenere anch’esso, e nel suo caso a ragione, alla categoria degli intellettuali. Ad ogni modo, Michelangelo risponde all’Aretino in modo molto garbato, rifiutando i consigli del letterato per il fatto di aver ormai già «compito gran parte dell’historia» e quindi di non poterla modificare, non risparmiandosi però una sottilissima ironia nel finale della sua risposta, quando afferma che sarebbe inutile che Aretino venisse a Roma («il vostro [proposito di] non voler capitare a Roma non rompa») per vedere il suo lavoro249. Non sapremo mai se quel «non rompa» sia riferibile alla rottura del proposito di Aretino di non recarsi a Roma o rimandi ad altre possibili “rotture” per l’eventuale presenza a Roma di Pietro Aretino. La lacerazione dei rapporti tra i due è quindi ormai definitiva, e questo spiega la durezza della lettera del permaloso Aretino che, ipocritamente, si affida al rimprovero per le nudità presenti nel Giudizio pensando forse così di trovar consenso nelle gerarchie ecclesiastiche e di mettere così in cattiva luce Michelangelo presso i suoi potenti committenti.

F. TUENA, La passione…, op. cit., p. 34: «Al divino Aretino. Magnifico messer Pietro Aretino, mio signore e fratello, io, nel ricevere de la vostra lettera, ho havuto allegrezza e dolore insieme. Sommi molto rallegrato per venire da voi, che sete unico di virtù al mondo, et anche mi sono assai doluto, però che, havendo compìto gran parte dell’historia, non posso mettere in opra la vostra imaginatione, la quale è sì fatta, che se il dì del giudicio fusse stato, et voi l’haveste veduto in presentia, le parole vostre non lo figurarebbero meglio. Hor, per rispondere a lo scrivere di me, dicovi, che non solo l’ho caro, ma vi supplico a farlo, da che i re e gli imperadori hanno per somma gratia che la vostra penna gli nomini. In questo mezzo, se io ho cosa alcuna che vi sia a grado, ve la offerisco con tutto il core. E per ultimo, il vostro non voler capitare a Roma non rompa, per conto del vedere la pittura che io faccio, la sua deliberatione, perché sarebbe pur troppo. E mi vi raccomando. Di Roma, il XX di novembre MDXXXVII. Michelagnolo Buonaruoti. 249

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Fig. 13 - Guglielmo della Porta, Tomba di Paolo III, particolare con la figura della Giustizia, Roma, Vaticano, Basilica di San Pietro.

Ma più che i commenti denigratori di Aretino nei confronti dell’opera di Michelangelo, ci penserà il nuovo clima culturale della Controriforma a “purgare” le opere d’arte da possibili immagini maliziose. Da quel momento, oltre al già ricordato intervento di Daniele da Volterra (il «Braghettone») sulle nudità del grande affresco michelangiolesco, altre opere d’arte subiranno interventi censori per allinearsi alle nuove condizioni. È questo, tra i più clamorosi, il caso occorso alla figura della Giustizia nella tomba del pontefice Paolo III nella basilica di San Pietro. La figura scolpita è opera del grande scultore Guglielmo dalla Porta, stimatissimo da Michelangelo che lo coinvolgerà nelle opere di restauro dei palazzi della famiglia Farnese. La sua celebrità e la stima del grande maestro lo portarono in posi134

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zione di grande prestigio in Vaticano, tanto da assumere l’Ufficio del Piombo (l’ufficio di guardasigilli delle bolle e delle lettere apostoliche) ereditandolo da Sebastiano Luciani (detto appunto Sebastiano del Piombo), altro artista per un certo periodo stimato da Michelangelo. Guglielmo aveva realizzato la tomba, considerata il suo capolavoro, costruendo un catafalco sul quale svetta ancor oggi la monumentale figura del papa Alessandro Farnese. Ai piedi del monumento aveva collocato quattro figure femminili quali allegorie della Prudenza, della Giustizia, dell’Abbondanza e della Pace. Quando, nel 1628, la tomba fu trasportata nella nicchia presso l’altare della Vergine in San Pietro, solo due figure rimasero ai piedi del sarcofago: la Prudenza e la Giustizia. Le altre due furono messe nel palazzo Farnese. La scelta forse fu fatta per rendere più evidente l’omaggio a papa Farnese, in quanto Guglielmo dalla Porta aveva ritratto nelle fattezze della Prudenza le sembianze della madre del pontefice mentre in quelle della Giustizia (Fig. 13) aveva ritratto il viso della sorella del papa, Giulia Farnese250. Giulia era bella, straordinariamente bella. Sprigionava un fascino irresistibile che, si racconta, neppure l’età riusciva a scalfire e contemporaneamente, come spesso succede in questi casi, suscitava un invidia radicale che faceva sorgere maldicenze, e denigrazioni sul suo conto. Pare peraltro che Giulia se le meritasse. Il lettore ricorderà infatti come Giulia divenisse l’amante di Alessandro VI, papa Borgia, e che per questo motivo suo fratello, Alessandro Farnese, poi appunto papa Paolo III, fosse dileggiato con l’appellativo di “cardinal sottoveste” e che il popolino aveva tradotto nel volgare appellativo di «cardinal Fregnese»251. La fama dell’avvenenza di Giulia era talmente travolgente che neppure Guglielmo della Porta seppe resistere a tutto quel fascino e la raffigurò completamente nuda nella sua statua che rappresenta la Giustizia ai piedi della tomba del pontefice. Anche Annibal Caro, drammaturgo e poeta che aveva steso il programma iconografico per quella tomba, non appena vide la figura della Giustizia, fu letteralmente travolto dalla sua bellezza e così informò il cardinale Alessandro Farnese: «pare una donna ignuda ch’esca de la neve»252. La posa non lascia dubbi: il corpo è completamente esibito,

G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. VII, p. 226n. R. ZAPPERI, Eros e Controriforma…, op. cit., p. 86. 252 R. ZAPPERI, La leggenda…, op. cit., p. 81. 250 251

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con le gambe impercettibilmente divaricate, con il viso dall’espressione compiaciuta e dallo sguardo che mostra quell’indifferenza simulata di chi sa di essere bellissima. Ora avvenne che in San Pietro capitò un pellegrino spagnolo che, alla vista della statua, non seppe resistere e se ne innamorò perdutamente, comportandosi come se quella figura non fosse di bronzo ma di carne253. Tutto questo non andava bene: l’esplicito erotismo della figura e, forse, i trascorsi della bella Giulia, e la follia del pellegrino spagnolo consigliarono di coprire il suo corpo, soprattutto dopo la visita pastorale nella basilica di San Pietro di Clemente VIII il 3 luglio del 1592, che trovò scandalose le statue. Una pesante veste di bronzo venne quindi collocata sopra alla figura della Giustizia che ancor oggi nasconde le seducenti forme di una delle più belle e celebri fanciulle del Rinascimento. A questo compito, pagato 50 scudi, fu chiamato Teodoro della Porta, figlio di Guglielmo, che aveva ereditato la bottega del padre. Certo doveva davvero essere molto ardita la rappresentazione di quel nudo femminile, così come ci conferma un «avviso» a Firenze il 6 dicembre 1595: «Hanno questi riformatori coperte ad una statua di marmo di donna, unita a quella di Paolo III presso l’altare delli apostoli in San Pietro, di bronzo le zinne, petto e altre parti scoperte delle coscie, che dicevano fossero troppo lussuriose, con molto sdegno del Signor cardinal Farnese, non trovandosi che statue di marmo sì come questa habbiano mai generato libidine in vederle, benché questa mostrasse una coscia scoperta fino all’orlo del vaso naturale»254.

La medesima sorte occorse ad alcuni dipinti di Antonio Allegri detto il Correggio, dal nome del suo paese d’origine. Grandissimo artista parmense, celebre per le caratteristiche della sua pittura che mostrava un uso della luce e un trattamento del chiaroscuro talmente morbido e delicato da suscitare l’ammirazione esplicita di Giulio Romano, allievo di Raffaello, ed influenzare così la successiva stagione barocca. Tra le sue opere figurano due soggetti, gli amori di Zeus e la ninfa Io e la Danae, in cui la sua maestria pittorica esalta in maniera esplicita l’argomento erotico delle due vicende mitologiche. Il mito

253 254

E. KRIS e O. KURZ, La leggenda…, op. cit., p. 70. R. ZAPPERI, Eros e Controriforma…, op. cit., pp. 113-114.

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infatti narra della superba bellezza di Io che suscitò l’attenzione di Zeus, il quale si trasformò in nebbia o nuvola255 e sedusse la ninfa. Correggio rappresenta la scena con la fanciulla, completamente abbandonata, mentre si concede alla passione di Zeus, con un espressione del viso palesemente identica a quella che si assume… in quei frangenti. Nel secondo soggetto, la Danae (Fig. 14), Correggio rappresenta il momento in cui Zeus, sotto forma di pioggia d’oro, feconda la fanciulla, dalla cui unione sarebbe poi nato Perseo, uno tra i più celebri eroi greci256. Solo che, a differenza dell’iconografia consueta per questo soggetto, che ha sempre mostrato una ragazza passiva che veniva sorpresa dalla “pioggia d’oro” (così come nelle celebri versioni di questo medesimo soggetto dipinte da Tiziano), Correggio compone la scena mostrando una fanciulla disponibile e con la presenza di un amorino che pensa bene di agevolare l’avvenimento sollevando il lenzuolo che prima copriva le gambe della giovane donna. Se tutto questo poteva essere accettabile all’inizio del Cinquecento, non così dopo il Concilio di Trento. I due dipinti, dopo svariate peripezie tra diversi proprietari, vennero infine modificati, trasformando completamente il viso delle fanciulle «perché troppo vivamente esprimevano l’eccesso di voluttà»257. In particolare il dipinto Zeus e la ninfa Io ha avuto trascorsi davvero rocamboleschi a causa della sua esplicita sensualità. Nel XVIII secolo, infatti, il dipinto divenne di proprietà di Luigi d’Orléans, figlio del duca Filippo II d’Orléans, il Reggente di Francia. Quest’ultimo aveva fama d’essere un libertino sfrenato: si vantava di leggere opere satiriche nascoste nella Bibbia durante le funzioni religiose cui assisteva. Non disdegnava di organizzare orge alla corte di Versailles in concomitanza di festività religiose, proprio per riaffermare il proprio ateismo per il quale favorì lo sviluppo del giansenismo in Francia, per avversità nei confronti del pontefice romano. Nonostante questa sua fama di libertino, Luigi, quando assunse il potere, diede ordine di distruggere il dipinto e si narra che fu proprio lui stesso a colpire col coltello per primo la tela. Il quadro fu fatto a pezzi, ma i frammenti furono raccolti di nascosto da Charles Antoine Coypel, il direttore dell’Académie royale de peinture et de sculpture. OVIDIO, Le metamorfosi, libro I, 589-600. Ibidem, libro IV, 611. 257 Nota di G. M ILANESI in margine alla vita di Antonio da Correggio in G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. IV, p. 115n. 255 256

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Fig. 14 - Correggio, 1531-32, Danae, Roma, Galleria Borghese.

Così il quadro venne completamente ricostruito, tranne la testa che era andata completamente in pezzi e che fu quindi completamente ridipinta da Pierre Paul Prud’hon, un pittore neoclassico con forti influenze romantiche258. Questa attività di modifica dei dipinti e delle sculture (talvolta di vera e propria completa ricopertura delle parti anatomiche più evidenti) non è solo ascrivibile alle indicazioni promanate dal Concilio di Trento, ma perdurò nei secoli successivi avendo quali vittime i più illustri artisti del Cinquecento. Basti citare, ad esempio, la celeberrima opera del Pontormo Venere e Cupido, eseguita su cartone di Miche-

258

K. CLARK, Il nudo. Uno studio…, op. cit., pp. 284-285.

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langelo, in cui la dea dell’amore è stata completamente ricoperta dalle gambe fino al petto e solo un recente generoso restauro ha restituito alla dea tutta la sua carica di sensualità. Così come, secondo la testimonianza del Milanesi259, accadde anche alla figura di Adamo nell’opera dell’Immacolata Concezione, dipinta da Vasari per la chiesa dei Santi Apostoli a Firenze. Ci pensò l’alluvione di Firenze del 1966 a costringere al restauro dell’opera danneggiata dal disastroso evento. Quasi che la natura pretendesse che al primo uomo, Adamo, fosse restituita la sua integrale virilità. Analogo caso occorse anche alle figure di Adamo ed Eva dipinte da Masaccio nella Chiesa del Carmine a Firenze. Ed, infine, l’attività sistematica di coprire con foglie di fico (… scolpite) tutte le statue virili classiche presenti nei musei vaticani sotto il pontificato di Clemente XIII (1758-1769), un’attività che fu proseguita anche sotto il regno di Pio IX (1846-1878). Pare che la visione di tanta bellezza classica così privata di queste “essenziali” caratteristiche, costringesse un’invaghita turista inglese ad esprimere un desiderio: «verrà pure l’autunno e cadranno dunque le foglie».

259

Nota di G. MILANESI in G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. VII, p. 669n.

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LE OPERE D’ARTE SCAMPATE AI RIGORI MORALISTICI DELLA CONTRORIFORMA (Correggio, Giambologna, Ammannati, Passerotti ed altri artisti)

Bisogna dire che in questa esplicita maniera di rappresentare le delizie dell’amore, il Correggio, di cui abbiamo poc’anzi fatto cenno, era però recidivo. Il celebre maestro fu infatti chiamato ad affrescare le pareti del parlatorio del convento benedettino di San Paolo a Parma, con immagini non proprio consone all’austerità che ci si aspetta di trovare in un monastero. Questo convento era di fatto un’istituzione potentissima. Fondato intorno all’anno Mille, esercitava diritti feudali su diversi possedimenti a cui si univano le donazioni di privati, di principi e di pontefici. Era inoltre sottratto alla giurisdizione del vescovo di Parma e sottoposto solamente a quella del pontefice romano. La sua badessa era nominata in carica a vita, per il qual motivo le più potenti famiglie di Parma ambivano che le loro figlie ne assumessero la funzione, per poterne esercitare tutto il potere. Nel 1507 assunse l’incarico Giovanna dei conti di Piacenza, una donna di grande grazia e bellezza, e di una “virile” energia. Il lettore ricorderà che, all’inizio di questo libro, abbiamo spiegato come con l’epiteto di “virago” si intendeva encomiare il carattere femminile e che come il possesso di un carattere virile fosse uno dei vanti maggiori per le donne del Rinascimento. Giovanna, divenuta badessa, pensò bene di abolire la clausura e di aprire il convento a tutte le persone «virtuose», sia donne che uomini. Bisogna qui precisare che nel Rinascimento il termine “virtù” aveva assunto un’espansione del suo significato tradizionale: ad esempio Machiavelli lo utilizza attribuendogli le caratteristiche della capacità, dell’energia e della risolutezza. I personaggi dell’aristocrazia parmense dotati di simili “virtù” si intrattenevano quindi piacevolmente nei locali del monastero non solo di giorno, ma, secondo quanto si andava mormorando in città, anche di notte. Ad aumentare e a confermare i sospetti circa la qualità di questi convegni, non proprio riunioni di preghiera, stavano infatti i dipinti del Correggio. In quelle sale il maestro rappresentò una serie 140

Le opere d’arte scampate ai rigori moralistici della Controriforma

di figure allegoriche, riferibili al mito greco e quindi pagano, inserite in un intreccio di rampicanti e ghirlande, quasi a simulare un vero e proprio giardino di delizie. Tra le verzure facevano capolino una serie di invitanti amorini e stuzzicanti putti, completamente nudi, dai gesti festosi, scomposti e gaudenti. Questo complesso figurato era sostenuto da una serie di lunette sottostanti in cui venivano rappresentate le immagini allegoriche della Fortuna, della Sapienza, assieme ad Afrodite celeste ed al dio Pan, quindi le Parche, Paride, Apollo e Zeus. Per dare un’idea delle caratteristiche invitanti e seducenti delle immagini prendiamo a prestito le considerazioni di Alberto Arbasino su Correggio: «Correggio troppo grazioso… Correggio lezioso… Correggio sdolcinato… Correggio smanceroso… Correggio manierato… Troppo delizioso e religioso? Parmigiano, culatello, affettato? […] O, piuttosto, gran morbidezza non disgiunta da vera grandiosità? Quella Famosa Luce Del Correggio – erotismo soft di carnagione e pelle come frutta autunnale giovanissima, da guardare e toccare – par diffondere un incanto musicale e un tepore poetico…»260.

Come possiamo immaginare la cosa non poteva essere sopportata per molto. La badessa prima licenzia l’amministratore del convento, il marchese Garimberti, perché pare che fosse il suggeritore e quindi all’origine delle proteste che l’episcopato locale inviava al pontefice circa la condotta e i costumi delle benedettine. In seguito La badessa Giovanna parve riconciliarsi col marchese, il quale, però, una sera a cena in casa di amici, non si sa bene come e perché, ma sta di fatto che venne trovato morto accoltellato. Parma è in tumulto: alla fine interviene il papa, Clemente VII, che destituisce la badessa Giovanna e restituisce le benedettine ad una più rigorosa clausura261. Nonostante quindi i rigori controriformistici, per fortuna nostra e della Storia dell’arte, gli affreschi del Correggio si sono però conservati. Ma gli esempi non finiscono qui: un altro capolavoro che ha superato i rigori moralistici della Controriforma è, infatti, il celebre Nettuno del Giambologna in piazza Maggiore a Bologna. La statua rap-

260 261

A. ARBASINO, Su Correggio, Mondadori Electa, Milano 2008, p. 7. A. DEL VITA, Galanteria…, op. cit., p. 145 e sgg.

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Fig. 15 - Giambologna, Fontana del Nettuno (part.), Bologna, Piazza Maggiore.

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presenta il riscatto del grande scultore fiammingo dopo la sua sconfitta nella gara per aggiudicarsi la commessa dell’identica figura in piazza Signoria a Firenze. Forse anche per questo, Giambologna realizzò un’immagine possente, dalla nudità senza sottintesi e dalla virilità ridondante. La figura del dio del mare troneggia su una vera e propria architettura che fa da basamento alla statua, ai cui angoli l’artista ha posto quattro figure femminili che rappresentassero altrettante sirene. Sia l’immagine virile della divinità del mare che le quattro sirene scandalizzarono i bolognesi (e le bolognesi) benpensanti. Le sirene, ad esempio, (Fig. 15) sono disposte a gambe divaricate a cavallo di altrettanti delfini, con una pudica conchiglia, in posizione… strategica, dall’aspetto così “floreale” da assomigliare troppo all’immagine naturale del pube femminile. Inoltre le fanciulle, per assecondare la destinazione della loro collocazione in una fontana, sono rappresentate mentre si strizzano i seni da cui, ovviamente, sgorgano altrettante fontanelle d’acqua. Ma fu soprattutto l’immagine maschile del dio a suscitare le maggiori reazioni dei perbenisti: l’erompente muscolatura della statua e l’evidenza degli attributi della sua virilità costrinsero le autorità ecclesiastiche ad intervenire. La caparbietà dell’artista però vinse le richieste censorie più radicali degli ecclesiastici che quindi si limitarono a chiedere a Giambologna di modificare almeno l’inclinazione della gamba destra di Nettuno, per tentare così di mitigare l’esuberante virilità del dio262. Certo è che Giambologna si riprese la rivincita sui possibili censori quando realizzò il celebre Ratto della Sabina, (Fig. 16) nella Loggia dei Lanzi a Firenze. A questa sfida l’artista aggiunse anche quella della personale competizione che si riprometteva nei confronti dell’opera scultorea di Michelangelo, accingendosi a scolpire un gruppo con tre figure, due maschili e una femminile, senza neppure porsi il problema del soggetto, così come ci testimonia Raffaello Borghini, uno dei suoi principali biografi: «Giambologna punto dallo sprone della virtù, si dispose dimostrare al mondo, che egli non solo sapea fare le statue di marmo ordinarie, ma etiandio molte insieme, e le più difficili, che far si potessero, e dove tutta

262

B. MARSANO, Bologna, Mondadori-Electa, Milano 2007, p. 33.

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Fig. 16 - Giambologna, Ratto della Sabina, Firenze, Piazza della Signoria, Loggia dei Lanzi.

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l’arte di far figure ignude (dimostrando la manchevole vecchiezza, la robusta gioventù, e la delicatezza femminile) si conoscesse; e così finse, solo per mostrare l’eccellenza dell’arte, e senza proporsi alcuna historia, un giovane fiero, che bellissima fanciulla à debil vecchio rapisse»263.

L’impressione che l’opera fece sui fiorentini fu altissima ed il successo popolare grandissimo, tanto che il duca Cosimo I collocò la statua nella loggia al posto della Giuditta di Donatello. Oltre all’entusiasmo popolare l’immagine suscitò commenti appassionati anche da parte di svariati eruditi che rimasero letteralmente sedotti dallo splendore sensuale delle forme. Pare infine che la bellezza della ragazza rappresentata suscitasse la passione d’un giovane fiorentino che, facendosi sollevare dagli amici, raggiunse il viso della fanciulla di marmo e le impresse un bacio appassionato sulle bianche labbra, augurandosi che gli dei infondessero la vita alla fanciulla, come nella favola mitologica di Pigmalione. Così, infatti, ci testimoniano i versi di Piero di Gherardo Capponi, che il medesimo Borghini ci descrive quale «uomo di bellissimo spirito, di gran virtù e nobilissimi costumi»: «Non questo ratto o quello fabro elesse in marmo rassembrar, ma vaga e bella donna mostrarne e ’n leggiadri atti fella, nuda e lasciva, ond’ogni cor n’ardesse. Videla ardente giovine e le impresse baci alle labbra e fisse il guardo in ella; indi, rivolto all’amorosa stella, nuovo Pigmalion pregando fesse.»264.

Abbiamo quindi visto come i rigori della Controriforma non raggiunsero sempre lo scopo prefisso, cioè quello di comprimere la libera rappresentazione del nudo. Dobbiamo però registrare che, in qualche caso, riuscirono però a produrre una sorta di autocensura, quando

263 R. BORGHINI, Il Riposo, Firenze 1584, qui tratto da D. PEGAZZANO, Giambologna. Ratto della Sabina, in C. PIZZORUSSO (a cura di), Giambologna e la scultura della Maniera, E-ducation, Firenze 2008, p. 288 e sgg. 264 M. SERMARTELLI, Composizioni di diversi autori in lode del ritratto della Sabina scolpito in marmo dall’eccellentissimo M. Giovanni Bologna, posto nella piazza del Serenissimo Gran Duca di Toscana, Firenze 1583, in P. BAROCCHI (a cura di), Scritti d’arte…, op. cit., vol. 32, tomo II, pp. 1223-24.

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non addirittura di pentimento, presso alcuni artisti. Il caso più eclatante è quello di Bartolomeo Ammannati, scultore e architetto fiorentino, autore della celebre fontana del Nettuno, in piazza Signoria a Firenze, eseguita con la collaborazione dello stesso Giambologna. Attorno alla possente figura del dio del mare stanno diverse figure in bronzo, tra cui alcuni fauni marini ed altrettante naiadi in impudiche pose. Ed è proprio pensando a quest’opera che l’Ammannati si “pente” scrivendo il 22 agosto del 1582 all’Accademia fiorentina dei Professori del Disegno, istituita da Cosimo I e nella quale erano confluiti quasi tutti gli artisti fiorentini. Era questo dell’Accademia un consesso che aveva attirato anche uno stuolo di artisti mediocri, che ritenevano così di poter partecipare al novero dei maggiori. Tra questi molti artisti di fama ci entrarono quindi di malavoglia, certo per non scontentare e quindi inimicarsi il potente creatore di quell’Accademia, il duca di Firenze Cosimo I265. Tra questi, ad esempio, figura Benvenuto Cellini, che proprio dell’Ammannati racconta la triste condizione di marito… con le corna. Racconta infatti il Cellini che, essendosi seriamente ammalato dopo una cena esagerata, non poté attendere alla scultura del modello della figura proprio di quel Nettuno che sarebbe dovuto esser messo in piazza Signoria a Firenze in quella fontana di cui abbiamo sopra accennato. Per questa sua indisposizione la commissione gli fu tolta e venne quindi assegnata dalla duchessa Eleonora, moglie di Cosimo I, appunto a Bartolomeo Ammannati. La notizia della perdita della commissione gli fu riferita da un certo signore che Cellini asserisce essere uno dei numerosi amanti di Laura Battiferri, moglie di Bartolomeo. Cellini, con finta e malcelata discrezione, non dice il nome di questo amante, perché, sostiene, non vuole passare per maldicente, altrimenti si sarebbe potuto sospettare che il motivo dell’accusa fosse dovuto alla gelosia per il lavoro perduto. Nell’edizione originale della Vita, l’autobiografia del Cellini in cui viene raccontato l’episodio, pare che il nome di questo amante ci fosse, ma che lo stesso Cellini l’abbia vigorosamente cancellato, forse anche per non incorrere nell’ira di Laura Battiferri. Laura era infatti una nota e stimata poetessa del suo tempo, e nella villa a Maiano, che possedeva col marito Bartolo-

A. DEL VITA, Bizzarrie e vita d’artisti nel Rinascimento, Ed. Rinascimento, Arezzo 1956, p. 125. 265

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meo, accoglieva il meglio delle intelligenze del suo tempo. Tra i personaggi suoi ospiti ci furono il poeta e drammaturgo Annibal Caro, l’ingegnere Luca Martini, il poeta Bernardo Tasso (padre di Torquato), il letterato Baccio Valori, l’umanista e storico Benedetto Varchi, lo scrittore Pier Vettori, il pittore Agnolo Bronzino, che ne fece il celebre ritratto oggi a Palazzo Vecchio a Firenze e, appunto, anche Benvenuto Cellini266. Ma proprio il Bronzino parrebbe smentire il malevolo giudizio di Cellini, se dobbiamo da retta a quel sonetto che il grande pittore manierista le dedicò, descrivendola come colei che suscita grandi desideri, ma parrebbe non essere incline a soddisfarli. Eccolo: Tutta dentro di ferro, e fuor di ghiaccio, con lenta mano, e con già spento foco, e ‘n dura scorza alma rinchiusa, in roco suon chiamo, scaldo, e mansueta faccio; e poter più del Ciel giugnere al laccio il Sol tento, e tant’altro il pensier loco, ch’ogni volo, ogni ardir sarebbe poco, tardo, e senz’ali, e zoppo l’aura caccio; tua colpa, e danno mio, folle desire, che di lei qual di me, falsa credenza, far promettesti, e ’n che ponemmo speme? Or disarmato, e vinto meco, e senza alcun contrasto, converrà servire fuor di mercede, ove scampar si teme267.

Ma torniamo alla missiva dell’Ammannati all’Accademia. Nella lettera, dopo aver esordito con alcune considerazioni generali sull’attività degli artisti, Bartolomeo Ammannati esorta i giovani artisti a non commettere gli errori di cui anch’egli si sente ora colpevole. Il pentimento occupa quasi tre quarti della lettera, e, proprio questa quantità, fa sorgere il legittimo dubbio di un intervenuta vera e propria fobia nei confronti del nudo nell’arte, piuttosto che una sincera contrizione morale dell’artista. Il culmine lo raggiunge quando l’artista arriva a indicare il nudo delle sue statue addirittura come un possibile cor-

266 B. CELLINI, Vita, op. cit., libro II, CV e relativa nota nell’edizione a cura di E. CAMESASCA. 267 E. BACCHESCHI, L’opera completa del Bronzino, Rizzoli, Milano 1999, pp. 9-10.

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ruttore dei costumi della gioventù. Infine conclude la sua lettera con un’esortazione impegnativa, quella di consigliare agli artisti di non ascoltare i committenti quando ordinano statue che rappresentino figure completamente nude, e anzi di rifiutare il lavoro piuttosto che macchiarsi di tanta impudicizia. Ecco il testo nella parte che qui ci riguarda (la citazione è un po’ lunga, ma alcuni passaggi sono talmente significativi – e talvolta esilaranti – che ho ritenuto ne valesse la pena): «Onoratissimi accademici. Essendoci raunati più volte insieme molti della nostra Accademia del Disegno, et avendo avuto fra noi assai utili e buoni ragionamenti […] delle proporzioni, distribuzioni, discrezioni e comodità dell’architettura si ragionasse e discorresse […] Agli scultori poi, quanti buoni consigli e giovevoli documenti si poteva egli porgere? E prima, per dar grazia ad una statua di marmo, quant’arte e giudizio ci voglia […] Il che sapere molto giova a’ giovani […] Quel tanto adunque che io allora con viva voce arei disiderato di dire, sopra un particolare solo, per iscarico della mia coscienza, adesso a tutti quelli il dirò, i quali questa mia lettera si degneranno di leggere; et è questo: che siano avvertiti e si guardino, per l’amor di Dio e per quanto hanno cara la lor salute, di non incorrere e cadere nell’errore e difetto, nel quale io nel mio operare son incorso e caduto, facendo molte mie figure del tutto ignude e scoperte, per aver seguitato in ciò più l’uso, anzi abuso, che la ragione di coloro i quali innanzi a me in tal modo hanno fatto le loro e non hanno considerato che molto maggiore onore è dimost(r)arsi onesto e costumato uomo, che vano e lascivo, ancorché bene et eccellentemente operando. Il quale mio in vero non picciolo errore e difetto non potend’io in altra guisa ammendare e correggere, essendo che è impossibile distornare le mie figure o vero dire a chiunque le vede o vedrà, ch’io mi dolgo d’averle così fatte; lo voglio publicamente scrivere, confessare, e far, giusta mia possa, noto ad ognuno quant’io facessi male e quanto io me ne dolga e me ne penta, et a questo fine eziandio, che gli altri siano avvertiti di non incorrere in cotal dannoso vizio. Perocché, prima che offender la vita politica, e maggiormente Dio benedetto, con dar cattivo essempio ad alcuna persona, si dovrebbe desiderar la morte e del corpo e della fama insieme. Il far dunque statue ignude, Satiri, Fauni e cose simili, scoprendo quelle parti che si deono ricoprire e che vedere non si possono se non con vergogna, e che ragione et arte ricoprir c’insegna, è grandissimo e gravissimo errore. Perciò che, quando mai altro male et altro danno non ne avvenisse, questo certo n’avviene, che altri comprende pure il disonesto animo e l’ingorda voglia di dilettare dell’operante; da che

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nasce poi che tali opere son testimoni contra la vita di chi le ha fatte. Confesso adunque (quanto a me appartiene) di avere in ciò molto offeso la grandissima maestà di Dio, quantunque io non mi movessi già a così fare per offenderla. Ma per questo non mi scuso, poscia che cattivo effetto veggio pur che ne riesce; senzach’io so che l’ignoranza di ciò, l’uso et altre cose non mi scusano in parte alcuna, perciò che l’uomo ha da sapere quello che fa, e che effetto alla fine possa o debba nascere da questo suo fare et operare. Però, fratelli Accademici miei carissimi, siavi grato questo avertimento, ch’ io con tutto l’affetto dell’animo mio vi porgo, di non far mai opera vostra in alcun luogo disonesta o lasciva (parlo figure ignude del tutto), né cosa altra che possa muovere uomo o donna, di che età si voglia, a cattivi pensieri, essendo che purtroppo questa nostra corrotta natura sia pronta per sé stessa al movimento, senza ch’altri l’inviti. Ond’io consiglio tutti, che ve ne guardiate con ogni studio, a fine che non abbiate nella prudente e matura vostra età, sì come ora fo io, a vergognarvi e dolervi d’avere ciò fatto, e maggiormente d’aver offeso Dio, non sapendo certamente niuno se arà tempo di chiederne perdono, né se ci converrà render conto eternamente del mal essempio dato, il quale vive e viverà purtroppo, ad onta e scherno nostro, lungo tempo, et il quale con tanta sollecitudine e con tante vigilie s’è cercato che viva. […] Il Moisè di San Pietro in Vincola di Roma non è egli lodato per la più bella figura ch’abbia fatto Michelagnolo Buonarruoti? e pure è vestita del tutto. Però vano e sempre errante pensiero degli uomini, e massimamente de’ giovani, che per lo più si dilettano di far cose che solo possono allettare il senso, et ad altro non si studia, che impudicamente piacere! Il qual malvagio pensiero, se non si cerca di sverre e di sbarbare da’cuori prima ch’altri s’invecchi, troppo cattivi et amari frutti n’arreca e produce. Et or crediamo noi che quegli antichi e moderni scrittori, i quali con tante e continue fatiche di giorno e di notte si sono studiati in comporre prose, rime e versi altissimi e leggiadrissimi, nondimeno osceni e disonesti, sì c’hanno guasto e corrotto oramai tutto il mondo, se potessero di nuovo ritornare in vita, che volentieri non le stracciassero […] Or, se dichiamo e crediamo questo degli scritti profani, che dire e credere debbiamo delle statue e delle figure, che in una occhiata sola possono muovere ogni animo, ancor che temperato e ben composto, a disordinato e sconcio pensiero, e sono poste ne’ luoghi publichi e da ogni gente e vedute e considerate, il che tanto non avviene de’ libri e degli scritti, i quali da tutti letti esser non possono? Per lo che dire potremo, che non solo ne’ tempii, nelle chiese sacre non si debbano porre tali incitamenti malvagi, dove non si dee se non cose oneste e sante vedere o dipinte o scolpite; ma né anche in luogo alcuno privato et eziandio profano, poscia che in tutti i luoghi

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et in ogni tempo, come di sopra dissi, siamo obligati a dimostrarci, a tutti gli uomini, onesti e casti, amatori e conservatori de’ buon costumi, e non destruttori et odiatori di essi. Né si vadia, di grazia, niuno escusando con dire: «Quel signore, quel principe volle e mi comandò che io così far dovessi, né io poteva o deveva disdirgli»; perché, s’egli sarà eccellente maestro in ciò, saprà benissimo, col giudizio e con l’arte sua, far cosa che insieme porgerà diletto e vaghezza, senza mostrar di fuori qual è di dentro il cuor suo sozzo e carnale. E pur sappiamo che il più degli uomini che ci fa operare non da invenzione alcuna, ma si rimette al nostro giudizio, dicendone: «Qui vorrei un giardino, una fonte, un vivaio, e simili»; e quando pure si trovassero tali, che cose disoneste e laide ci comandassero, non dobbiamo obedirli, e siamo tenuti ad avere più riguardo di non nuocere all’anima nostra, che venir secondando il piacer altrui, e più guardarci dal l’offendere la Divina Maestà con dar cattivo essempio agli uomini contro la sua santissima volontà, che operare in pro’ di qual si voglia persona. Et in questo proposito, a mia confusione, non voglio tacere che mai nessuno padrone e signore, che io servissi, non mi disse ch’io tali figure né in colai modo fatte io far dovesse, ma la cattiva usanza e più la mia vana mente in tale e così fatto errore m’hanno fatto cadere. Ora adunque che alla bontà di Dio è piaciuto aprirmi pur un poco gli occhi dell’intelletto, che fallace piacer d’aggradir troppo alla più gente m’aveva tenuti serrati e chiusi, conosco apertamente d’aver errato grandemente, e ciò è la cagione ch’io mi son così mosso a pregar voi tutti, che ve ne guardiate almen più per tempo di quel che ho saputo far io. […] E se bene io feci il Colosso che è in Padova e ’1 Gigante, col resto della fonte, che è su la Piazza di Firenze, con tanti ignudi, manco onore assai ne ritrassi e, quel ch’è peggio, me ne trovo la coscienza fuor di modo gravata, come dirittamente mi si conviene; onde del continuo acerbissimo dolore e pentimento ne sento all’animo»268.

La lettera si conclude chiamando a sostegno dei propri argomenti il grande Michelangelo che, un giorno, gli avrebbe detto «che i buoni cristiani sempre facevano buone e belle figure» senza per questo rendersi conto che proprio i nudi di Michelangelo nel Giudizio Universale, e non solo, erano all’origine di quelle radicali reazioni tridentine alle nudità nell’arte.

268

P. BAROCCHI (a cura di), Trattati d’arte del Cinquecento, III, Laterza, Bari

1961.

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Rimane il dubbio su come possa spiegarsi questa chiamata di Michelangelo a sostegno della sua moralistica argomentazione quando, immaginiamo, anche l’Ammannati non poteva non sapere della furente polemica sorta intorno ai nudi del Giudizio. Ma allora, se non fosse per la veemenza dei termini e la lunghezza dell’argomento nella lettera agli Accademici, potremmo anche scorgere una certa malcelata ipocrisia da parte dell’Ammannati. Quello era infatti il tempo in cui papa era Gregorio XIII (Ugo Buoncompagni) che, malgrado i suoi settanta anni compiuti, si applicò subito con eccezionale energia e volontà inflessibile per continuare l’opera di radicale rigenerazione della chiesa iniziata da Pio V. Seguendo fedelmente le orme del suo predecessore, Gregorio XIII, si attivò durante il suo pontificato per rinnovare il mondo cattolico con la totale e puntuale attuazione dei canoni del Concilio di Trento. La Riforma cattolica, grazie alle direttive del pontefice si sviluppò con rapidità e organicità in tutta la cristianità ed il movimento censorio nei confronti delle immagini raggiunse il suo culmine. Infatti, proprio nello stesso anno della lettera dell’Ammannati (1582) fu pubblicato quel Discorso intorno alle immagini sacre e profane del cardinal Paleotti, di cui abbiamo già detto quanto quelle pagine fossero contrassegnate dall’ardore moralistico e censorio nei confronti delle nudità delle immagini. Ma fu proprio da quello stesso Gregorio XIII che Bartolomeo Ammannati ottenne la lucrosa commissione nel camposanto di Pisa per la realizzazione d’una tomba per la quale l’Ammannati si vantò del fatto che si trattava di un’opera «in cui non erano statue nude [e l’artista] ne aveva tratto più onore e giovamento di qualunque altra statua»269. Come si dice in Toscana, a pensar male si fa peccato, ma il più delle volte ci si azzecca: forse l’Ammannati scrisse quella lettera proprio perché voleva ingraziarsi quell’intransigente pontefice ed ottenerne così le sue remunerative commissioni. Ma tutto questo non ha interrotto la produzione e il commercio di un genere di rappresentazioni che è stato riunito sotto la categoria dei Lustige Gesellschaft (“divertenti compagnie”) in cui i riferimenti erotici si mescolavano, nella loro forma allusiva, a quelli più esplicitamente rappresentati. Tra tutti citiamo l’opera Macelleria di Bartolomeo Passerotti in cui viene rappresentato un macellaio in atteggiamento scom-

269

A. DEL VITA, Bizzarrie…, op. cit., Ed. Rinascimento, Arezzo 1956, p. 128.

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Fig. 17 - Ippolito Buzzio, La Prudenza, Roma, Chiesa di Santa Maria sopra Minerva, Cappella Aldobrandini.

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posto assieme ad una fatiscente bagascia, mentre alle sue spalle un aiutante di pelle nera protende la propria lingua in direzione di una sua compagna di lavoro. La scena si svolge dietro il bancone del negozio sopra al quale fanno mostra di sé alcuni frutti dipinti in una forma senza sottintesi, come i fichi aperti e spaccati assieme ad altri legumi dalla equivoca conformazione270. I furori della Controriforma non risparmiarono nemmeno riferimenti non figurativi a qualsivoglia cosa ricordasse anche lontanamente le debolezze della carne: è il caso, ad esempio, della rimozione del nome «Martuccia» iscritto tra coloro che avevano lasciato un legato alla chiesa di Santa Maria del Popolo in Roma. Fu Clemente VIII a ordinarne la cancellazione: Martuccia era infatti una nota cortigiana romana e, nonostante la sua devozione, il suo nome non fu ritenuto degno d’essere ospitato in chiesa. Così come il pontefice fece rimuovere la lapide che celebrava le donazioni alla chiesa di Vannozza Catanei, la nota concubina del suo predecessore Alessandro VI (papa Borgia) e madre dei suoi quattro figli. Ma a questo rigore sfuggì, nella medesima chiesa, la rappresentazione della Temperanza, scolpita per la tomba del cardinale Basso della Rovere, incarnata da una splendida fanciulla con la clessidra in mano e con un seno completamente scoperto. Stessa sorte di una “svista” ai rigori della Controriforma occorse alla statua di Ippolito Buzzio che rappresentava la Prudenza, assieme a quelle della Carità, della Religione e della Giustizia nella Cappella Aldobrandini, sempre in Santa Maria del Popolo271. La figura della Prudenza (Fig. 17) è simboleggiata da una magnifica figura femminile mentre sta reggendo uno specchio in cui riflette compiaciuta il suo viso e contemporaneamente poggia il piede sinistro sopra una pila di libri. Ma, chi si trovasse ad osservare la figura, l’ultima cosa che percepirebbe sono le virtù che i simboli vorrebbero richiamare, essendo lo sguardo dell’osservatore rapito dalla flessuosità della giovane donna che, quasi a non lasciar dubbi sulla sua leggiadra bellezza, esibisce scoperto un seno che maliziosamente sbuca dalla tunica che avvolge la sua figura. Come sia stato possibile che proprio sotto il pontificato di Clemente VIII si concedessero queste libertà forse è spiegabile per il fatto che il medesimo

270 271

F. ZERI, La percezione visiva…, op. cit., p. 21. R. ZAPPERI, Eros e Controriforma…, op. cit., pp. 86-87.

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Ippolito Buzzio è l’autore del ritratto scultoreo dello stesso pontefice, che, forse per questo, chiuse un occhio. Per sottrarsi ai rigori degli editti papali avversi alle nudità delle immagini che prevedevano anche, come abbiamo visto, punizioni corporali, gli artisti cercavano spesso la protezione di prelati potenti e influenti i quali disponevano spesso, nei loro palazzi, di luoghi appartati che potessero ospitare le opere non “allineate” ai dettami della Controriforma. È questo il caso di Giuseppe Cesari, l’artista meglio noto come Cavalier d’Arpino, fatto appunto “cavaliere di Cristo” proprio dal pontefice Clemente VIII, il più intransigente e severo moralizzatore delle immagini. Ma, pur godendo del favore del papa, il Cavalier d’Arpino intratteneva lucrosi rapporti con il cardinal Pietro Aldobrandini, nipote del pontefice, che coltivava una morale più tollerante di quella dell’augusto zio. Per il cardinale, il Cavalier d’Arpino dipinse alcune scene mitologiche intrise di una sensualità talmente esplicita che avrebbero fatto inorridire il pontefice. Inoltre il cardinale ordinò all’artista una pala d’altare raffigurante Santa Barbara, per l’omonima cappella nella chiesa di Sant’Angelo in Borgo. L’artista rappresentò la fanciulla martire in una posa leggiadra e dalle movenze flessuose e lasciando che la veste negligentemente scoprisse un seno. Quando l’opera venne posta sull’altare, il cardinale si guardò bene dall’invitare il pontefice all’inaugurazione. L’opera fu in seguito trasferita nella nuova cappella dedicata alla santa in Santa Maria in Traspontina, eretta nel 1594 sempre dal Cardinale Pietro Aldobrandini e dal suo luogotenente Americo Capponi. La nuova cappella fu eretta grazie alle offerte raccolte dai soldati di Castel Sant’Angelo riuniti nella confraternita detta dei bombardieri che aveva, tra i suoi privilegi, quello di liberare ogni anno due condannati, uno il 29 settembre, festa di S. Michele Arcangelo e l’altro il 4 dicembre, festa, appunto, di Santa Barbara. L’immagine seducente della santa resistette ai rigori censori fino al XIX secolo, quando anch’essa fu pudicamente velata e solo un recente restauro l’ha restituita alla sua seducente condizione originale272.

272

Ibidem, pp. 59-60.

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LE GUSTOSE E MALCELATE ALLUSIONI, GLI AMBIGUI SUGGERIMENTI E I RIFERIMENTI ESPLICITI ALL’EROTISMO NELLE OPERE DI

RAFFAELLO E DELLA SUA BOTTEGA

Sono quindi diverse le opere che sfuggirono ai rigori censori della stagione della Controriforma. Alcune per negligenza dei moralisti, altre per circolazione clandestina, altre per l’autorevolezza dei loro proprietari ed infine altre ancora per il prestigio dell’artista che ne era stato il loro autore. È questo il caso del ciclo di Amore e Psiche dipinto da Raffaello e dalla sua bottega nella dimora di Agostino Chigi, che, in seguito e ancor oggi si chiama Villa Farnesina. Come abbiamo già visto in precedenza, la serie di affreschi celebrava il trionfo dell’amore sopra le convenzioni del tempo. Una vittoria dell’amore che indusse Agostino Chigi a sposare Francesca, donna bellissima ma di modesta estrazione sociale, quindi non certo una fanciulla degna del suo rango, ma per la quale Agostino aveva perso la testa fino ad indurlo a buttare all’aria convenzioni e consuetudini del suo tempo, facendo di Francesca la sua sposa. D’altro canto è proprio della cultura di quel tempo la considerazione di quanto l’immagine contenga, evochi e mostri i miracoli dell’amore, cosi come ci testimoniano gli Asolani di Pietro Bembo, scrittore, grammatico e umanista a cavallo fra Quattro e Cinquecento, e come emerge magistralmente nel saggio di Lina Bolzoni Il cuore di cristallo: «Ma oltre che nelle metafore del linguaggio poetico, i “miracoli” d’amore trovano corrispondenza e per così dire piena visibilità in un’altra componente della memoria culturale, e cioè nelle immagini del mito, e nell’iconografia stessa di Amore (il giovane dio, il fanciullo alato, che colpisce con le frecce del suo arco, ecc.). Questa immagine ad esempio diventa una specie di sintesi visualizzata dei “miracoli” d’amore, un immagine di memoria di quello che si è detto e si può dire sull’amore»273.

L. BOLZONI, Il cuore di Cristallo. Ragionamenti d’amore, poesia e ritratto nel Rinascimento, Einaudi, Torino 2010, p. 57. 273

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Mogli, garzoni e amanti

Ed ecco allora che Raffaello stende ad affresco sulle pareti e sul soffitto della loggia una storia che narra certamente del mito di Amore e Psiche, ma che l’artista circonda con le immagini di uno scoperto erotismo, in una festa in cui l’esuberanza della natura e la passione amorosa sembrano fondersi, inseguendo le invitanti forme dei corpi, raffigurati tra i giocosi intrecci di frutta e di fiori dipinti. Quei fiori e quella frutta che paiono proseguire gli odori, gli umori e i profumi del giardino su cui si apre la loggia della villa in riva al Tevere. Sono ghirlande fiorite e festoni di frutta, dipinti dall’allievo di Raffaello, Giovanni da Udine, ricche di ogni forma di verzura, comprese alcune specie nuove per quel tempo, perché importate dall’America. In questa fioritura continua e lussureggiante trovano infatti spazio alcuni tipi di zucchine che vengono inserite con l’intenzione di indicare scoperte allusioni sessuali, che tanto hanno divertito oltre che Agostino Chigi, anche il papa e la sua corte. Affinché il lettore non scambi l’autore di questo testo per un interprete eccessivamente incline a vedere sovrabbondanti allusioni erotiche nei dettagli dei dipinti, affidiamo alle illustri espressioni di Giorgio Vasari la descrizione di queste “zucchine”: «… e sono tante le varie maniere di frutte e biade che in quell’opera si veggiono, che, per non raccontarle a una a una, dirò solo che vi sono tutte quelle che in queste nostre parti ha mai prodotto la natura. Sopra la figura d’un Mercurio che vola ha finto per Priapo una zucca attraversata da vilucchi, che ha per testicoli due petronciani; e vicino al fiore di quella ha finto una ciocca di fichi brugiotti grossi, dentro a uno de’ quali aperto e troppo fatto entra la punta della zucca col fiore: il quale capriccio è espresso con tanta grazia, che più non si può alcuno imaginare»274.

Appunto. Entro questa vera e propria architettura vegetale sono ospitate le figure dei personaggi divini in una luce mediterranea che esalta i corpi nudi, posati in quella volta affinché esibiscano ogni dettaglio della loro seducente bellezza, così come accade per i fianchi e i seni di divine fanciulle e la carnosità esibita dei glutei di uomini e donne. Così

274

G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. VI, p. 558.

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Le gustose e malcelate allusioni, … nelle opere di Raffaello e della sua bottega

come sono esposti i genitali degli dei e la loro festosa passione, come in quel pennacchio in cui è rappresentato Giove che non disdegna di baciare Eros sulla bocca. Od anche Dioniso, coperto solo da un tralcio di vite mentre mesce vino, mentre più in là le tre Grazie, invocate da Eros, siedono su fugaci nuvolette, dai piccoli e brevi sbuffi che anziché nascondere, esaltano le loro invitanti fattezze. Ai nostri occhi contemporanei, ormai ingombri d’ogni tipo di nudità attraverso l’affollamento che ci procura la stampa, il cinema e l’elettronica, forse quelle figure possono oggi suscitare solamente l’ammirazione per la grande fattura artistica di Raffaello e della sua bottega, lasciandoci forse delusi per i suoi risvolti sensuali che fin qui abbiamo richiamati. Ma dobbiamo pensare a quel tempo, in cui, come abbiamo già detto più sopra, non esistevano fotografie, televisioni, giornali, riviste, manifesti, cinema e quant’altro oggi intasa la nostra vista, e le uniche immagini disponibili erano solamente quelle prodotte dagli artisti. Immaginate quindi un mondo, non dico “buio”, ma almeno “grigio”, senza l’accecamento odierno prodotto dall’ossessiva ripetizione di figure. Immaginate d’essere in una sera di cinquecento anni fa, mentre attraversate le vie di Roma, dove le uniche immagini sono gli scabri muri delle case o il candido travertino delle nuove dimore, od anche l’ocra dei maestosi ruderi del vecchio impero. Le uniche immagini che vi si potrebbero proporre sono quelle sacre se, per avventura, foste entrati in una chiesa. Quindi, con gli occhi così “vuoti”, proseguite costeggiando la riva del Tevere, in quella luce accogliente dei tramonti romani, per dirigervi nella confortevole villa di Agostino Chigi. Dopo aver attraversato il giardino, entrate nella loggia dipinta. La luce radente e calda della sera illumina il primo pennacchio che si offre al vostro sguardo: è Venere seduta su una nuvola, con una gamba impudicamente sollevata, mentre sta dando gli ordini ad Eros. È una vera e propria “apparizione”, e l’incanto suggerito dalla bellezza pittorica gareggia con l’attrazione sensuale che la figura suscita, con quel panno e quel gesto del braccio che anziché celare, paiono accendere la seduzione dello splendido corpo della più bella tra tutte le donne. E poi, un po’ più in là, ancora sempre lei, Venere, a colloquio con Cerere e Giunone (Fig. 18), mentre con noncuranza cerca invano di trattenere quel panno che un impertinente venticello solleva intorno al suo corpo tornito. Quindi Giove, che nonostante la bianca capigliatura, esibisce il corpo atletico d’un giovane greco dalla pelle dorata, 157

Mogli, garzoni e amanti

Fig. 18 - Raffaello e bottega, Venere, Cerere e Giunone, Roma, Villa Farnesina.

come quel fulvo colore che il sole del Mediterraneo sapeva generare quando coi suoi raggi colpiva quella terra che ospitava l’Olimpo. A colloquio con Venere, Giove mostra tutta la sua arrendevolezza di fronte allo splendore della dea, questa volta raffigurata come una ragazzina con una chioma dorata raccolta dietro la nuca, così come probabilmente usavano le acerbe adolescenti delle borgate romane. Ed infine Mercurio che, dopo aver mostrato la vigoria delle sue nude membra, 158

Le gustose e malcelate allusioni, … nelle opere di Raffaello e della sua bottega

esibite nello splendore della sua giovinezza, paragonabile a quella dei giovani garzoni di bottega, accompagna Psiche verso il suo felice destino, volando con lei, premendo il suo corpo su quello della giovane ed intrecciando le sue gambe con quelle della fanciulla, quasi prefigurandole e così suggerendole i futuri piaceri dell’amore. Il tutto si conclude negli affreschi della volta, con la festa grande degli dei e con le nozze d’Amore e Psiche, in un tripudio spumeggiante di corpi danzanti, di abbandoni voluttuosi, in quel concerto variopinto e luminoso che celebra così, assieme alla grande maestria di Raffaello e della sua bottega, anche il trionfo di Eros, ma soprattutto della bella storia di Margherita, la Fornarina, e di Francesca Ordeaschi, proprio in quella villa di delizie, amate l’una dal grande maestro e l’altra dal suo innamorato committente. Così l’amore trova in quella pittura la sua più seducente epifania, nella pelle di quei corpi esibiti senza volgarità ma anche senza pudore, accarezzati dalla luce vespertina dei quei tramonti che spesso Roma sa ancora regalare.

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DIPINGERE I TORMENTI DELL’AMORE (Bronzino)

Una delle opere letterarie più celebri del XVI secolo e di cui abbiamo già fatto cenno in precedenza, è rappresentata dagli Asolani del cardinale Pietro Bembo, scrittore, grammatico e umanista a cavallo tra il XV e il XVI secolo. Si tratta di un’opera in cui si svolge un dialogo sull’amore tra tre gentildonne e tre giovani: l’«amante infelice» (Perottino) e l’«amante felice» (Gismondo), fra i quali interviene Lavinello a sostenere teorie d’amore platonico. Il dialogo si svolge ad Asolo (da cui il titolo dell’opera) alla corte di Caterina Cornaro, che fu scelta tra le donne più in vista della Serenissima Repubblica di Venezia per andare in sposa al re di Cipro, guarda caso, proprio l’isola dove il mito greco fa nascere Venere. Dopo essere rimasta vedova ed in seguito a tumultuose vicende politiche nell’isola, Caterina rientra a Venezia, accolta con trionfali cerimonie durante le quali, seduta sul Bucintoro accanto al doge, viene nominata «domina Aceli» (signora di Asolo), pur mantenendo sempre il titolo di regina. Alla sua corte, Caterina richiama i migliori artisti e intellettuali del territorio veneziano, tra i quali gli artisti Giorgione e Lorenzo Lotto ed il cardinale e letterato Pietro Bembo, l’autore, appunto, degli Asolani. I maliziosi aggiungono anche che una grande ispirazione per l’opera venne a Pietro dalla sua amante Maria Savorgnan, un amore segreto durato più d’un anno e “certificato” da un intenso carteggio. Nell’anno seguente, al termine di quell’amore, Bembo accetta l’invito di Ercole Strozzi, letterato alla corte degli estensi, a soggiornare nella sua villa patrizia di Ostellato, vicino a Ferrara. Bembo vi trasporta con una grande barca la sua ricca biblioteca e quella villa diventa un luogo alla moda animato da gare oratorie, da recite di poesie e da letture talvolta con argomenti licenziosi. La compagnia femminile alle “amabili” letture di Pietro si mostrava interessata fingendo un ipocrita rossore, senza però rifiutare la conversazione per160

Dipingere i tormenti dell’amore

ché le donne non fossero giudicate poco “brillanti”. Così come consigliava Baldassare Castiglione nel suo Il Cortegiano: «Non deve adunque questa donna, per volersi far estimar bona e onesta, esser tanto ritrosa e mostrar tanto di aborrire e le compagnie e i ragionamenti ancor un poco lascivi che ritrovandosi se ne levi; perché facilmente si porria pensar ch’ella fingesse d’esser tanto austera per nascondere di sé quello ch’ella dubitasse ch’altri potesse risapere; e i costumi così selvatichi son sempre odiosi»275.

Pare inoltre che Pietro amasse far accompagnare le letture delle sue opere da leggiadre fanciulle che suonavano il liuto. Il pubblico femminile è in visibilio e a questa seduzione non è indifferente Lucrezia Borgia, la bellissima e spregiudicata figlia del pontefice Alessandro VI, da poco sposa di Alfonso d’Este nella vicina Ferrara, dove Pietro si reca spessissimo per incontrarla. Il fascino di Pietro è infatti quello di un giovane di trentadue anni, di una corporatura nobile e maestosa, abile nel maneggio delle armi, colto, galante e dall’affabilità gioiosa che ostenta compiaciuto nelle sue relazioni. Pietro è quindi acceso da una passione travolgente per la duchessa Lucrezia. Così la descrive nei suoi Asolani, facendo traboccare tutta la sua ammirazione ed il suo rapimento per la bella Lucrezia, della quale descrive gli affascinanti lineamenti, fino a concludere che la fanciulla aveva due labbra che farebbero resuscitar i morti: «… la bella treccia più simile ad oro, che ad altro: la quale […] lungo il soave giogo della testa dalle radici ugualmente partendosi, e nel sommo segnandolo con diritta scriminatura, per le deretane parti s’avvolge in più cerchi […] le morbide guance, la loro tenerezza e bianchezza con quella del latte appreso rassomigliando; se non in quanto alle volte contendono con la colorita freschezza delle matutine rose. Né lascia di veder la sopposta bocca di piccolo spazio contenta, con due rubinetti vivi e dolci, aventi forza di raccendere desiderio di baciarli in qualunque più fosse freddo e svogliato»276.

B. CASTIGLIONE, Il libro…, op. cit., libro III (V), p. 210. P. BEMBO, Asolani, qui tratto da G. CHASTENET, Lucrezia Borgia. La perfida innocente, Mondadori, Milano 1995, pp. 241-242. 275 276

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Mogli, garzoni e amanti

Fig. 19 - Bronzino, Allegoria, Londra, National Gallery.

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Dipingere i tormenti dell’amore

Un po’ trovandosi di fronte a tanto eloquente complimento e un po’ per il suo carattere “aperto”, Lucrezia corrisponde la passione di Pietro con altrettanto trasporto277. Un giorno Alfonso acconsentì a che Lucrezia si recasse alla villa di Ostellato, accompagnata da Ercole Strozzi, che essendo zoppo fin dalla nascita e noto per le sue malinconie che esprimeva nei suoi versi struggenti, godeva della fiducia del marito di Lucrezia. Pietro, avvertito dell’arrivo della barca lungo il Po, si precipita al pontile, accolto dal festoso saluto della duchessa. A Pietro appare lo splendore d’una ventiduenne che incarna il prototipo della bellezza rinascimentale, compreso, come annota Bembo stesso ormai vinto dalla passione, quel «piede piccolo, vivace, non magro, ma sempre pronto a saltare…»278. Quando la peste decima la popolazione di Ferrara, Pietro fugge ad Urbino dove si unisce a quella allegra brigata che il Castiglione immortalerà nell’opera Il Cortegiano. Si trasferisce quindi a Roma, al seguito di Giulio de Medici, il futuro pontefice Clemente VII. Qui sta alla corte di papa Leone X e alla morte del pontefice rientra a Padova dove risiedeva Faustina Morosina della Torre, la sua tenerissima amante che gli diede tre figli. Pietro non la sposò mai per non perdere i benefici ecclesiastici che gli permettevano di vivere senza preoccupazioni economiche. Una vita quindi di successo intellettuale, ma costellata da sentimenti e passioni irregolari e tormentate, che paiono trovare una perfetta rappresentazione in uno dei più celebri dipinti attorno alle passioni d’amore di tutto il Rinascimento. Si tratta della famosissima Allegoria (Fig. 19), dipinto conservato Alla National Gallery di Londra, una tra le più conosciute opere di Agnolo di Cosimo di Mariano, detto il Bronzino, protagonista di spicco della tumultuosa stagione del manierismo italiano. Nella sua opera Bronzino sviluppa un’esteriore morale sui pericoli d’amore, che gli offre anche l’occasione per esibire un esplicito e dichiarato erotismo. La presenza di personaggi che raffigurano le pene e i pericoli dell’amore, parrebbe far sospettare che l’artista abbia conosciuto gli Asolani di Pietro Bembo, nel cui testo l’autore fa dire a Perottino, uno dei protagonisti del dialogo amoroso:

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I. CLOULAS, I Borgia, Salerno editrice, Roma 1988, p. 400. C. CHASTENET, Lucrezia Borgia…, op. cit., p. 243.

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«Ma poscia che tu pure a questi ragionamenti mi traesti. a me piace che più stesamente ne cerchiamo. Certissima cosa è adunque, o donne, che di tutte le turbazioni dell’animo niuna è così nojevole, così grave, niuna così forzevole e violenta, niuna che così ci commova e giri come questa fa, che noi Amore chiamiamo: gli scrittori alcuna volta il chiaman fuoco, perciocchè siccome il fuoco le cose nelle quali entra, egli le consuma, così noi consuma e distrugge amore; alcuna volta furore, volendo rassomigliar l’amante a quelli, che stati sono dalle furie sollecitati, siccome d’Oreste e d’Aiace e d’alcuni altri si scrive. E perciocchè per lunga sperienza si sono avveduti niuna essere più certa infelicità e miseria, che amare, di questi due soprannomi, siccome di proprie possessioni, hanno la vita degli amanti privilegiata per modo, che in ogni libro, in ogni foglio sempre misero amante, infelice amante e si legge e si scrive»279.

Una definizione, questa, delle pene e tranelli dell’amore che parrebbe una perfetta descrizione dell’Allegoria del Bronzino. Un dipinto che ostenta l’esibizione dei rapporti d’amore figurandoli attraverso nudità impudicamente esibite e con gesti di un erotismo diretto e senza sottintesi. Al centro è raffigurata Afrodite in una posa sciolta e scoperta che nulla nasconde delle sue attraenti fattezze, mentre sta per baciare Eros facendo scivolare la propria lingua fra le sue labbra. In mano trattiene con noncuranza il pomo d’oro con il quale Paride decretò la sua vittoria tra le dee dell’Olimpo, dichiarandola come la più bella. Eros ricambia il bacio accarezzando i seni di Afrodite, con la mano destra delicatamente posata sul seno sinistro, con due dita divaricate per mostrarne e contemporaneamente stuzzicarne il capezzolo. Il fanciullo, dio dell’amore, sta accoccolato con le ginocchia su un cuscino rosso, in un posa leggermente flessa, quasi ad esibire gli acerbi glutei allo sguardo dello spettatore. L’opera fu ordinata per essere donata al re di Francia Francesco I forse dal granduca toscano Cosimo I, o forse da Bartolomeo Panciatichi, un ricco mercante che da giovane era stato al servizio della corte francese. La destinazione del dipinto doveva essere decisamente privata, stante il fatto che il quadro non viene citato nelle collezioni reali, e questo giustifica forse di come il soggetto fosse giudicato davvero spinto.

P. BEMBO, Asolani, Venezia 1505, in Opere del cardinal Pietro Bembo, Società Tipografica de’ classici italiani, Milano 1808, p. 28. 279

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Dipingere i tormenti dell’amore

Del resto della composizione, che contiene le allegoriche presenze di personaggi moraleggianti, diremo tra poco, non prima però di notare come sia sorprendente che tutta questa sensualità sia l’opera del Bronzino. Nulla, infatti, della vita dell’artista lascerebbe pensare all’autore di tanta sensualità dipinta: come dice bene Antonio Paolucci nella monografia che lo riguarda, Bronzino ha condotto una vita assolutamente tranquilla, «metodica, defilata rispetto ai fasti e agli intrighi di corte […]. È la vita di uno scapolo che vive in famiglia, di cui non si conoscono relazioni amorose palesi […]. Non ci sono episodi clamorosi nella biografia del Bronzino, uomo d’ordine e di chiesa, laborioso, conformista, consuetudinario, membro di innocue e noiose accademie letterarie, in buoni rapporti con i colleghi e con i committenti»280. Eppure, proprio Bronzino realizza quest’opera sensualissima, con al centro i due protagonisti, Venere e Amore, in evidente atteggiamento erotico, accompagnati sul loro fianco sinistro dalla figura d’un puttino divertito (il Gioco) che lancia loro odorosi petali di fiori. Ma dietro al Gioco, in penombra, sta una figura inquietante. Ha il dolcissimo viso di una adolescente che però termina con due zampe provviste di terribili artigli: è l’Inganno che porge nelle sue mani rovesciate (la destra a sinistra e viceversa) un favo di miele, simbolo delle delizie d’amore e nell’altra la coda unghiata e velenosa d’uno scorpione, allegoria dei fatali tormenti che suscita quel potente sentimento. Ma i supplizi amorosi non finiscono qui: sullo sfondo a sinistra appare la Gelosia, una figura disperata e urlante sovrastata dall’allegorico personaggio che rappresenta l’Invidia. Chiude sopra a tutti la saggia e matura figura del Tempo, che stende sulle sciagure d’amore il suo inesorabile velo della vecchiaia e dell’oblio. Pare di leggere le parole di Perottino negli Asolani, quando definisce Amore «crudel maestro» che procura pene peggiori di quelle che soffrono i dannati dell’inferno: «Non posso, o donne, aguagliar le pene, con le quali questo crudel maestro ci affligge, se io, nello stremo fondo degl’inferni penetrando, gli essempi delle ultime miserie de’ dannati dinnanzi a gli occhi non vi paro; et queste medesime sono, come voi vedete, per aventura men gravi»281.

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A. PAOLUCCI, Bronzino, Giunti, Firenze 2002, pp. 11-12. P. BEMBO, Asolani, Venezia 1505, in Opere del cardinal…, op. cit., p. 85.

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Mogli, garzoni e amanti

Vatti a fidare delle lusinghe dell’amore. Ad ogni modo, le figure allegoriche che ammoniscono circa le pene d’amore non riescono ad attenuare la forte carica erotica che si sprigiona da tutta la composizione, e che anticipa quelle morbose composizioni con sfrenate fantasie sessuali di quegli artisti alla corte di Rodolfo II a Praga (Bartholomäus Spranger e Joseph Heintz) a paragone delle quali le colte e delicate allegorie di Bronzino scompaiono per lasciar spazio a gesti e pose che sfiorano la pornografia.

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CHI DISEGNA L’AMORE FINISCE IN GALERA (Giulio Romano e Marcantonio Raimondi)

A proposito di pornografia: all’inizio del XVI secolo si è sopportato nelle immagini dell’arte chi si è spinto oltre la contemplazione della bellezza del corpo umano (quando non lo si è direttamente richiesto da committenti maliziosi), così come si è tollerato chi avesse posto le figure discinte in pose che potessero alludere a gesti meno che costumati. Ma non si è sopportato chi ha illustrato in maniera diretta l’atto d’amore e, peggio, se ne ha diffuso le immagini a stampa. Perché così si finisce dritti in galera. È quello che è capitato a Marcantonio Raimondi, peritissimo incisore che faceva parte della bottega di Raffaello. Potremmo dire che Marcantonio era il “consulente di marketing” della bottega di Raffaello, od anche, se si preferisce, l’addetto “all’ufficio stampa e pubbliche relazioni”. Marcantonio, infatti, incideva e stampava ogni opera del maestro e le sue grafiche che riproducevano le immagini di Raffaello venivano diffuse in tutta Europa, così che la fama del maestro si diffondesse e si affermasse. Ma torniamo al fatto che Marcantonio Raimondi finisce in galera. L’artista aveva inciso alcune rappresentazioni grafiche di Giulio Romano chiamate I Modi, con il qual titolo vengono chiamati una serie di disegni del grande maestro, rilevante protagonista alla corte dei Gonzaga a Mantova, nei quali sono illustrate diverse posizioni dell’atto d’amore (Fig. 20). Un vero e proprio Kamasutra del Rinascimento. Per l’esattezza vengono raffigurate sedici coppie in altrettante posizioni durante l’amplesso. L’abilità grafica di Giulio Romano, il prediletto allievo della bottega di Raffaello, era proverbiale, così come ci rammenta il Vasari che a questo proposito ricorda che: «si può affermare che Giulio esprimesse sempre meglio i suoi concetti ne’ disegni che nell’operare o nelle pitture, vedendosi in quelli più vivacità, fierezza ed affetto: e ciò potette forse avvenire, perché un

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Mogli, garzoni e amanti

Fig. 20 - Marcantonio Raimondi da Giulio Romano, Incisione dalla serie dei Modi, Vienna, Albertina.

disegno lo faceva in un’ora tutto fiero ed acceso nell’opera, dove nelle pitture consumava i mesi e gli anni»282.

Questa straordinaria abilità nel disegno di Giulio Romano, messa al servizio di soggetti tanto licenziosi, quali le sedici posizioni de I Modi, fu da alcuni considerata una macchia scandalosa e aberrante nel catalogo dell’artista, tanto che i disegni subirono una vera e propria damnatio memoriae, per cui vennero trascurati e considerati anomali nel corpus della produzione dell’artista283. Ma come mai Giulio si è dedicato ad una simile impresa? Uno dei motivi potrebbe risiedere nell’amore per l’antichità che l’artista ha assorbito nella bottega di Raffaello. Tra le sue osservazioni dei modelli G. VASARI, Vite…, op. cit., vol. V, p. 528. B. TALVACCHIA, “Figure lascive per trastullo de l’ingegno”, in AA.VV., Giulio Romano, Electa, Milano 2007, p. 277. 282 283

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Chi disegna l’amore finisce in galera

classici potrebbe non essere mancata anche l’osservazione delle monete romane dette Spintriae, che facevano parte della collezioni di antichità dei Gonzaga, alla corte dei quali Giulio lavorò con grandissimo e meritato successo. Queste Spintriae erano le monete che venivano usate nel I secolo d.C. per il pagamento delle prestazioni nei bordelli romani. Queste monete, le cui immagini possiamo immaginare cosa rappresentassero anche riferendoci agli affreschi nei bordelli pompeiani, erano usate in luogo delle monete ufficiali, per non incorrere nel reato di vilipendio dell’immagine dell’imperatore che era appunto ospitata sulla comune moneta corrente284. Giulio si dedica ad una libera interpretazione di queste immagini, disegnando le scene con manifesta chiarezza ed esplicito scopo, mettendo bene al centro della composizione i due protagonisti e trascurando un’eccessiva ambientazione o decoro di contorno che avrebbero potuto distrarre l’osservatore dal nucleo del contenuto, in maniera che l’immagine fosse diretta e senza possibilità di dubbio su cosa fosse rappresentato e neppure lasciare troppo spazio ad eventuali interpretazioni di natura estetica. Insomma, al di là della enorme differenza formale, nulla le distinguerebbe da certa pubblicistica contemporanea, di solito ospitata negli angoli più reconditi delle nostre edicole. Ma quel che accadde di drammatico fu che Giulio acconsentì a che Marcantonio Raimondi incidesse questi suoi disegni e ne moltiplicasse quindi la diffusione. A rincarare lo scandalo ci fu la decisione di accompagnare le immagini incise da Marcantonio con la stampa dei Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino285.

Ivi. Nonostante l’argomento di questo testo che state leggendo sia, forse e talvolta, stuzzicante, rimane l’ambizione dell’autore di conservarsi nei limiti pretesi da un testo di storia. Per questo si è ritenuto che il linguaggio debba meritare un certo costume terminologico. Per questo motivo non si riportano citazioni dei Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino, come di solito si fa, a sostegno di quanto si afferma nel testo, e cioè dello scandalo che provocarono quando accompagnarono le immagini di Giulio Romano incise da Marcantonio Raimondi. I termini usati dal famoso letterato sono di una qualità esplicita e diretta, dove ogni parte anatomica umana protagonista delle rime, viene chiamata ed invocata come si potrebbe ascoltare in una contemporanea curva da stadio. L’autore ha quindi ritenuto di lasciare il sostegno della citazione e la curiosità relativa ad una ricerca privata del lettore, non difficile da esperire, ad esempio, attraverso Internet. 284 285

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Mogli, garzoni e amanti

Come abbiamo detto poc’anzi, il confine della decenza, anche la più tollerante, era stato ormai superato, e per questo Marcantonio venne arrestato. Le immagini dei Modi, vennero nascoste, molte distrutte, altre consumate. Per questo nessun disegno originale è giunto fino a noi e oggi ne possiamo conoscere soggetto e maniera solo attraverso frammenti ed alcune xilografie che poco hanno dei caratteri originali dell’opera. Solo attorno al 1920 si è scoperta un’antica edizione di xilografie dei Modi accompagnate dai sonetti di Aretino, che ci avvicinano parecchio a quello che dovevano essere i disegni di Giulio Romano. Ma andiamo per gradi. La pubblicazione delle stampe di Marcantonio Raimondi, accompagnate dai Sonetti lussuriosi dell’Aretino, hanno un successo immediato e contemporaneamente suscitano grandissimo scandalo presso le coscienze perbeniste. Ma quando raggiungono lo sdegno dei moralisti più intransigenti la reazione è radicale. È questo il caso del vescovo Gian Matteo Giberti, che, senza pensarci troppo, ordina la distruzione della pubblicazione e l’arresto di Marcantonio. Questo vescovo era figlio naturale d’un capitano della marina genovese, che, passato alla corte di Giulio II, portò con sé il figlio a Roma. Il giovane dimostrò presto un’acuta qualità diplomatica e fece quindi carriera fino ad esser nominato titolare della diocesi di Verona. Ma le sue qualità diplomatiche al servizio del pontefice lo trattennero a Roma, per cui a Verona nominò un vicario. Ma perché proprio lui ordina l’arresto di Marcantonio? Bisogna dire che alle apprezzabili qualità di relazioni diplomatiche il vescovo univa anche un marcato sentimento sessuofobico. Nella nomina del suo vicario a Verona, infatti, accompagnò l’incarico con una serie di normative rigidissime circa i comportamenti che avrebbero dovuto tenere gli ecclesiastici. Alcuni di questi precetti risultano perfino divertenti. Il vescovo infatti ordinava che: «… si recitassero ogni dì le ore canoniche; i benefiziati risiedessero; fosser cacciate dalle canoniche le donne sospette; i chierici radesser la barba e portasser cappuccio; vestissero con gravità; i canonici non andassero passeggiando per la cattedrale nelle ore dell’ufficio divino; non giuocassero alla palla entro le canoniche; niuno andasse a colloquii con le monache senza licenza del vescovo […] niun monaco o frate vagasse per la diocesi, se non ne avea licenza dalla sede apostolica…»286.

G.B. SPOTORNO, Storia letteraria della Liguria, Tipografia Ponthenier, Genova 1824, III, p. 115. 286

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Chi disegna l’amore finisce in galera

Tentò anche, invano, di moralizzare la vita dei conventi femminili, che erano d’abitudine frequeantati anche da uomini, spesso chierici, richiamandosi alle severe regole dei monasteri femminili che, circa la presenza di uomini che, anche e qualora fossero sacerdoti, così recitavano: «Al cappellano non sia permesso entrare in monastero senza un compagno, e una volta entrati, stiano in un luogo pubblico perché possano sempre guardarsi l’un l’altro ed essere visti dagli altri»287.

Giberti quindi mette in prigione lo sventurato Marcantonio, ma l’interessamento del cardinale Ippolito de Medici, cugino del pontefice e amico di Giulio Romano, oltre che le pressioni dello scultore toscano Baccio Bandinelli e dello stesso Pietro Aretino, ottennero dal papa Clemente VII (papa Medici) la liberazione dell’incisore. Prima di questo lieto evento fiorirono anche alcune leggende sul mancato arresto di Giulio Romano, che, per sfuggire ai rigori del Giberti, sarebbe fuggito a Mantova. Nulla di tutto ciò. Ma perché Marcantonio si, e Giulio invece non fu arrestato? Le influenti amicizie dell’artista bastavano certo ad evitargli sventure di questo tipo, ed anzi pare che le sue qualità artistiche fossero talmente apprezzate alla corte del pontefice che furono persino riconosciute e lodate anche dallo stesso intransigente Giberti. Infatti, probabilmente, non furono tanto i soggetti in quanto tali a suscitare scandalo, quanto la loro diffusione a stampa, sia delle immagini che dei Sonetti di Pietro Aretino. Per cui fu punito solo il povero Marcantonio, l’autore delle incisioni288.

287 288

I. CREMASCHI, Regole monastiche femminili, Einaudi, Torino 2003, p. 411. B. TALVACCHIA, “Figure lascive…”, op. cit., p. 277.

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VENERE CHIUDE GLI OCCHI (Giorgione e Tiziano)

In un mondo che a quel tempo vedeva i soggetti delle opere d’arte gremiti da madonne e santi, da redentori e deposizioni, da profeti e martiri, da sibille e dei dell’Olimpo, spunta a Venezia un artista che dipinge la figura umana fine a sé stessa. Si tratta di Giorgione, che, se pur dedito anch’egli a diverse opere di argomento sacro, inaugura quella stagione che fa della pura ricerca della bellezza umana in quanto tale lo scopo di molte sue opere, prescindendo da richiami letterari, mitologici o religiosi. Non ci stupisce quindi il suo famosissimo Concerto campestre, dove Giorgione rappresenta due giovanotti che si dilettano di musica in un prato alla presenza di due giovani fanciulle completamente nude. Ed ancora, e forse soprattutto, in quel dipinto denominato Venere dormiente oggi conservato alla Gemäldegalerie di Dresda289 (Fig. 21). Si tratta di una delle rappresentazioni del nudo femminile fine a sé stesso, senza alcuna implicazione filosofica o mitologica, ed il titolo di “Venere” fu forse affidato all’immagine per mitigarne il delicato e sottile erotismo che pervade la figura. Infatti Giorgione ha dipinto la fanciulla con gli occhi chiusi mentre offre alla vista il suo splendido corpo, sollevando il suo braccio destro per scoprire ed esaltare il seno, mentre il sinistro si abbandona languidamente lungo il suo fianco, con la mano che termina semichiusa sull’inguine della giovane ragazza. La fanciulla ci appare adagiata su un morbido cuscino sotto al quale spunta un candido lenzuolo, mentre, dietro alla figura, si staglia un profilo di colline che ospitano un paesino accarezzato dalla luce del tramonto. Cosi ce la descrive Marcan289 Il dipinto fu portato a Dresda dal mercante Le Roy, nel 1697, che lo aveva acquistato per il re Augusto di Sassonia. Durante la seconda guerra mondiale fu messo in un deposito per evitare i possibili danni della guerra. Scoperto dall’Armata Rossa, fu trasferito a Mosca e se ne persero le tracce. Riemerse nel 1955 e, dopo un’esposizione nella capitale sovietica, fu quindi restituito alla città di Dresda.

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Venere chiude gli occhi

Fig. 21 - Giorgione e Tiziano, Venere dormiente, Dresda, Gemäldegalerie.

tonio Michiel, letterato e collezionista veneziano che si dedicò alla catalogazione delle opere presenti nelle collezioni d’arte più rilevanti di Padova, Milano, Pavia, Bergamo, Crema e Venezia: «La tela della Venere nuda, che dorme in uno paese cun Cupidine, fo de mano de Zorzo de Castelfranco, ma lo paese e Cupidine furono finiti da Tiziano»290.

Marcantonio Michiel ha visto l’opera in casa di Gerolamo Marcello, aristocratico veneziano, che l’aveva commissionata a Giorgione per le sue nozze con Morosina Pisani. Lo scopo della commissione era quello di celebrare la sua unione con Morosina. Gerolamo era un uomo colto ed è probabilmente pensabile che ordinasse quel soggetto assecondando la letteratura epitalamica antica, secondo la quale si recitavano e cantavano poesie alla sposa la prima sera di nozze. Invece di canzoni o poesie, Gerolamo pensò bene di presentarsi alla sposa con a capo del letto quella splendida figura di fanciulla nuda. Ma

290

P. BAROCCHI (a cura di), Scritti d’arte…, op. cit., vol. 32, tomo III, p. 2883.

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Mogli, garzoni e amanti

Gerolamo giudicò l’immagine di Giorgione poco sensuale, per cui, essendo morto Giorgione, chiamò Tiziano per modificare l’immagine. Tiziano diede una leggera spruzzatina d’erotismo a quella straordinaria figura nuda attraverso diversi espedienti iconografici. Come annota Antonio Gentili, cominciò col sistemare «ai piedi di Venere il Cupido [e un] uccellino che si dibatte (scomparso, riapparso, di nuovo celato perché rovinatissimo), inventò il paese civettuolo, il lenzuolo bianco stropicciato ed il comodo cuscino vermiglio»291. Infine anche le colline sullo sfondo vengono corrette in maniera che il loro profilo segua quello delle forme della fanciulla, in maniera da ribadirne la seducente bellezza. Adesso che il lenzuolo stropicciato, l’uccellino fremente e il morbido cuscino sono stati aggiunti, la destinazione “nuziale” (epitalamica) è finalmente soddisfatta. Qui non ci sono più equivoci: addio a riferimenti letterari o mitologici, addio a sottili rimandi filosofici neoplatonici quali possibili Veneri uranie o pandemie, qui c’è finalmente e con chiarezza un magnifico nudo di una fanciulla dolcemente stesa e soddisfatta, ed il bianco lenzuolo stropicciato aggiunto sotto al morbido cuscino vermiglio ci dice anche perché. Questa aderenza alla realtà osservata, senza mediazioni letterarie o sofismi intellettuali, è operata da Giorgione in maniera che i suoi dipinti siano, come ci testimonia Vasari, fatti da colui che «li ha lavorati nel tentativo di riprendere il segno delle cose vive». È un segnale decisivo e potente che ispirerà molta della pittura successiva, a cominciare dal protagonista eccelso in territorio veneziano, come fu Tiziano Vecellio. Con acute osservazioni Vittorio Sgarbi, il noto storico dell’arte dei nostri giorni, afferma infatti che: «Il fuoco di Giorgione si diffonde da Venezia in ogni angolo della terraferma padana, in forme diverse ma in modo capillare, come un’emorragia, una ferita che non si rimargina, una emozione del cuore, una condizione romantica, sentimentale, che non si esaurirà neanche in qualche decennio, continuando a effondersi nella pittura di Tiziano di diversi momenti e Maniere, fino alle opere della piena maturità e della vecchiaia, nel quinto, nel sesto, nel settimo decennio del Cinquecento»292.

A. GENTILI, Giorgione, Giunti, Firenze 1999, pp. 40-41. V. SGARBI, Le Maniere padane, in V. SGARBI e M. LUCCO, Natura e Maniera. Le ceneri violette di Giorgione tra Tiziano e Caravaggio, Skira, Milano 2004, p. 20. 291 292

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Venere chiude gli occhi

Questa bella considerazione potrebbe invogliarci a inseguire attente valutazioni squisitamente estetico-artistiche, ma per fedeltà al titolo di questo libro, dobbiamo prendere in considerazione le conseguenze giorgionesche solo in alcune opere di Tiziano. Ci riferiamo innanzitutto alla celeberrima Venere d’Urbino oggi conservata alla Galleria degli Uffizi a Firenze.

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VENERE APRE GLI OCCHI (Tiziano)

La Venere d’Urbino di Tiziano (Fig. 22) ha praticamente la stessa posa della Venere di Dresda di Giorgione, ma la sua caratteristica “sessuale” sta nelle motivazioni del suo proprietario, Guidobaldo della Rovere, figlio di Francesco Maria, duca d’Urbino. Alcuni storici hanno messo in relazione il dipinto con le nozze di Guidobaldo con Giulia da Varano, e quindi riprendendo la destinazione epitalamica di cui abbiamo già fatto cenno. Ma i conti non tornano: Giulia quando va in sposa a Guidobaldo ha solo dieci anni e quindi non è possibile pensare ad un dipinto che sostituisse le poesie e i canti della prima notte di nozze, dal momento che sospettiamo che quella notte non sia stata “consumata” a causa dell’età ancora infantile di Giulia. Inoltre possediamo una lettera di Guidobaldo del marzo 1538 che sollecita il suo incaricato a Venezia, Girolamo Fantini, ad interessarsi per acquistare la «donna ignuda» di Tiziano e di non ritornare a casa senza il dipinto293. Ma Guidobaldo aveva sposato Giulia nel 1534 per cui non è credibile che la destinazione nuziale venisse soddisfatta dopo diversi anni. Guidobaldo della Rovere aveva desiderato quel dipinto in maniera quasi angosciata, mostrando un autentico e determinato desiderio di entrarne in possesso nonostante le difficoltà economiche in cui versava, tanto da richiedere finanziamenti alla madre, Eleonora Gonzaga, che, visto il soggetto, resisteva alle richieste del figlio. Ne è testimonianza la lettera che invia all’ambasciatore a Venezia, Leonardi, di procurarsi il dipinto “ad ogni modo”, che nella missiva è chiamata la donna ignuda, disposto ad indebitarsi od anche a vendere o ad impegnare qualche suo bene pur di possederlo:

O. CALABRESE, Tiziano. La venere d’Urbino, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo 2003, p. 17. 293

176

Venere apre gli occhi

Fig. 22 - Tiziano, Venere d’Urbino, Firenze, Galleria degli Uffizi.

«et perché io desidero ancora molto d’haver l’altro quadro restato in mano di Tiziano, mi farete piacere di parlargli et certificarlo ch’io ad ogni modo il voglio pigliar, et così intertenerlo che nol vendesse ad altro, perché son risoluto col’impegnar qualche cosa del mio, quando non posso altrimenti, di pigliarlo per le parole ch’io gli ne ho dato»294.

Ma allora? Se il dipinto era già stato realizzato, come è possibile che sia stato commissionato per uno scopo nuziale? Allora si fa strada l’ipotesi che l’immagine sia di natura squisitamente erotica, e quindi di una sensualità “didattica” nei confronti della giovane sposa, che, al momento della consegna del dipinto doveva avere ormai circa diciotto anni. È quindi probabile che per la Venere di Tiziano abbia posato una cortigiana veneziana, un’esperta, quindi, nelle arti amatorie. A mitigare la maliziosa sensualità dell’immagine per ricondurla verso un alveo

A. PAOLUCCI, Una bellezza famosa da Urbino a Firenze: la Venere degli Uffizi, in P. DAL POGGETTO (a cura di), I Della Rovere, Electa, Milano 2004, p. 255. 294

177

Mogli, garzoni e amanti

nuziale e non mercenario, ecco un cagnolino ai piedi della fanciulla a simboleggiare la fedeltà nel matrimonio, assieme alla presenza del cassone nuziale sullo sfondo, tipico dono matrimoniale, nel quale stanno rovistando due fantesche per cercare vesti che quella fanciulla, su quel giaciglio, non indosserà mai, oppure a riporre quelle che si è già tolta da poco. Ma questi leggeri segnali di delizie sentimentali virano presto verso invitanti e inequivoci segnali erotici a cominciare da quel serto di rose rosse che la fanciulla tiene con nonchalance nella mano destra, metafora dei promettenti piaceri d’amore. C’è poi la mano sinistra, nella medesima posizione della Venere di Giorgione, abbandonata sopra il monte di Venere, non si sa bene se per nasconderlo o per indicarlo. Ed infine lo sguardo: la fanciulla di Giorgione aveva gli occhi chiusi con un distacco che sapeva di appagamento, questa invece solleva quel tanto che basta le palpebre per proporre uno sguardo d’invito, sottolineato dall’inclinazione del viso che si adagia sulla spalla destra, accarezzato dalla chioma bionda che si scompone sulle spalle. Dietro il giaciglio, dalle rosse coperte e dalle lenzuola disfatte, scende una tenda trattenuta da un nodo che aspetta solo d’esser sciolto per poter separare la stanza dalla presenza delle domestiche e suggerire così un’intimità garantita. Parecchie sono state le elucubrazioni critiche per trovare scopi o significati diversi dall’erompente sensualità dell’immagine, a partire da improbabili percorsi neoplatonici in voga fra gli intellettuali del Rinascimento, fino a scontate allegorie di un nobile amore coniugale. Od ancora di richiami mitologici sostenuti basandosi sulla definizione di “Venere” data dal Vasari, lo storico delle vite degli artisti, che nel 1548 si trovava nel Guardaroba dei duchi di Montefeltro davanti all’opera. Come bene afferma Antonio Paolucci «in realtà il dipinto che Guidobaldo voleva possedere a costo di indebitarsi, è esattamente quello che vediamo e che vuole essere: la rappresentazione di una giovane donna amorosa nella sua carnale e tenera bellezza, un messaggio erotico di straordinaria e ancora oggi coinvolgente suggestione. Giorgio Vasari lo aveva ben capito e per questo volle neutralizzarne la prorompente carica erotica inventando la erudita e tranquillizzante epigrafe di Venere. Che poi la modella che Tiziano ritrasse fosse l’amante del committente (o forse del pittore o magari – perché no? – di tutti e due) è possibile e persino probabile anche se non abbiamo elementi per dire di più»295.

295

Ibidem, pp. 255-256.

178

Venere apre gli occhi

Il dipinto, ora agli Uffizi a Firenze, è di una fattura straordinaria e di una bellezza insuperabile, tanto da rendere difficile scegliere tra la meraviglia per la superba pittura o per la seduzione carnale del soggetto. Il nostro sguardo contemporaneo, contaminato dall’affollamento delle immagini del nostro tempo, ci fa volentieri propendere per l’ammirazione che suscita lo stupefacente lavoro artistico di Tiziano, uno dei giganti della pittura del XVI secolo. Ma non possiamo dimenticare l’effetto che avrà fatto a suo tempo quella tela: immaginiamoci, in una notte di qualche secolo fa, mentre percorriamo i corridoi semibui della residenza principesca di Guidobaldo e di Giulia. Le bifore del palazzo lasciano penetrare a spicchi la luce lunare in maniera da far scintillare gli ori e gli argenti delle decorazioni di quegli ambienti. Saliamo le scale alla tremolante luce di qualche torcia infissa sui muri curvi che ospitano i gradini e finalmente entriamo in camera, dove solo i bracieri scaldano l’ambiente e diffondono una tenue luce rosata. La lampada che teniamo nelle mani avvolge e nasconde alternativamente gli oggetti che si trovano sul nostro cammino. E quando arriviamo vicino alla testa del letto ecco che la fiamma percorre quell’immagine di Venere che ci si mostra come una vera apparizione. Il tremolio della fiamma pare addirittura che sappia far muovere quella splendida figura. Tutti i pur presenti richiami mitologici dell’immagine, così come le allegorie delle virtù coniugali e ogni riferimento colto sono sciolti dalla carezza della fiammella che libera a sprazzi lo spettacolo di quella dorata pelle dipinta, illumina lo sguardo invitante di quel viso inclinato, riuscendo, nella penombra, a fondere tutto con i colori dei corpi e degli sguardi di Giulia e Guidobaldo, i due giovani amanti. Una sensualità nell’opera di Tiziano che vedrà un crescendo nel tempo, tanto da far giudicare castigata la figura della Venere d’Urbino, rispetto ai successivi nudi femminili: quando dipingerà la Danae la voluttà della figura eromperà in tal modo che farà dire a Monsignor Giovanni Della Casa, il religioso letterato fiorentino autore del celebre Galateo, che, a cospetto della Danae, trovava la Venere d’Urbino, castigata come una monaca296. Ma la fortuna del dipinto fu comunque immensa: quando approda a Firenze al seguito di Vittoria della Rovere, la bambina di nove anni che le ragioni politiche destinano in moglie al granduca di Toscana, S. ZUFFI, Tiziano, da Venezia al mondo, in Le grandi monografie. Tiziano, a cura di S. ZUFFI, Mondadori Electa, Milano 2006, p. 32. 296

179

Mogli, garzoni e amanti

Ferdinando de’ Medici, l’opera ha subito un successo straordinario: viene apprezzata da incisori e copisti di tutta Europa, tanto da risultare, alla fine del Settecento, il dipinto maggiormente riprodotto. Giustamente Antonio Paolucci precisa che «prima che a toglierle il primato arrivasse, sull’onda del gusto preraffaellita, l’inquieta e asessuata Venere del Botticelli, l’icona della bellezza italiana (anzi della bellezza senza aggettivi) è stata per tutto il mondo la donna nuda amata da Guidobaldo»297. Dell’erompente sensualità dell’opera ne è testimonianza anche l’episodio avvenuto circa sessant’anni dopo l’esecuzione del dipinto, quando il figlio di Guidobaldo, Francesco Maria II della Rovere, fa eseguire una copia del dipinto per inviarla a Giovan Battista Clarici, ingegnere urbinate, architetto e costruttore di fortificazioni cittadine, che gliene aveva fatta insistente richiesta. Francesco Maria si scusa di essere il proprietario di siffatta immagine e di non essersene liberato solo per l’impegnativo motivo che si tratta di un’opera di Tiziano. Si raccomanda poi che l’amico, a cui invia la copia, non dica a nessuno che l’ha avuta da lui. Questo atteggiamento conferma la forte carica sensuale dell’immagine tanto da mettere in imbarazzo il duca Francesco Maria, il cui carattere veniva a quel tempo classificato come bigotto, ma anche il comune sentire che, come bene annota Grazia Pezzini Bernini, «condannava anche prima del Concilio di Trento le immagini erotiche, e in particolare le nudità come responsabili di suscitare desideri sensuali»298. Tiziano, quando era giovane, aveva declinato l’invito di Pietro Bembo a recarsi a Roma per lavorare alla corte del pontefice299, e forse questo rifiuto ha preservato l’artista da possibili severità di costume nelle sue immagini, come anche dai successivi rigori della Controriforma, liberandolo verso quei soggetti che puntavano dritto ad una espressa carnalità seppur nobilitata dalla cultura del mito greco e dagli eleganti richiami della classicità, come mirabilmente ci riassume Corrado Cagli, tra i più colti artisti italiani del Novecento, in

A. PAOLUCCI, Una bellezza famosa…, op. cit., p. 257. G. PEZZINI BERNINI, I Della Rovere e Tiziano, in P. DAL POGGETTO (a cura di), I Della Rovere…, op. cit., p. 151. 299 Ci andrà solo nel 1545 alla probabile età di 55 anni e ci rimarrà un solo anno. 297 298

180

Venere apre gli occhi

questa sua folgorante sintesi della pittura di Tiziano: «All’oscurantismo incombente reagiva quasi per assurdo con l’impeto erotico e l’impegno amoroso della Ninfa e pastore di Vienna, e, infine, con il sublime Marsia, quasi che alla voce sinistra di Ignazio di Loyola si levasse a rispondere l’antica voce di Omero»300.

C. CAGLI, Lo spazio del tempo, in C. GIBELLINI (a cura di), Tiziano, Rizzoli, Milano 2003, p. 16. 300

181

IL NOSTRO SGUARDO SU VENERE… NON PROPRIO NEI SUOI OCCHI (Tiziano)

La Ninfa e pastore, il Marsia, ma soprattutto anche il Bacco e Arianna, la Festa degli amori, il Baccanale (Gli Andrii), la modifica de Il festino degli dei di Giovanni Bellini, il malizioso Le tre età, la procace Flora, le invitanti raffigurazioni di Danae, l’erotico Venere con organista, per trionfare nel celebre Amor sacro ed Amor profano, rappresentano la punteggiatura sensuale dello straordinario romanzo pittorico di Tiziano. Il Bacco e Arianna e Gli Andrii, erano stati commissionati dal duca di Ferrara Alfonso I perché dovevano decorare il suo studiolo privato (il cosiddetto “camerino d’alabastro”) assieme ai lavori commissionati a Raffaello e a Fra Bartolomeo, che i lettori ricorderanno per il suo sensuale San Sebastiano. La morte di questi due ultimi artisti dirottano la commissione del duca completamente su Tiziano. L’artista integra le due opere con la modifica del Festino degli dei, già dipinto da Giovanni Bellini e con la Festa degli amori. Sono opere in cui Tiziano affronta il tema dell’intreccio tra Musica e Amore, ascoltando le riflessioni intellettuali del suo ambiente, in primis le composizioni letterarie di Pietro Bembo. Quest’ultimo afferma che «il “buono amore” coincide col desiderio della bellezza “divina e immortale” viene associato ai “nobili” strumenti a corda, simboli di musica ordinata, colta e cittadina, a cui si contrappone l’amore carnale vano e caduco, associato al suono disordinato, incolto e campagnolo degli strumenti a fiato e a percussione suonati da contadini, pastori, satiri, nonché dal seguito di Dioniso» (Gibellini)301. Così ci confermano infatti gli espliciti riferimenti nelle opere di Tiziano, come la fanciulla de Le tre età, che si appresta a soffiare nei due clarinetti che sono posi-

301

C. GIBELLINI (a cura di), Tiziano…, op. cit., p. 76.

182

Il nostro sguardo su Venere… non proprio nei suoi occhi

zionati di fronte al ragazzo che sta accogliendo la fanciulla, per cui è difficile non immaginare il compiacimento dei maliziosi lettori dell’opera. O così anche nel Bacco e Arianna, dove lo sgangherato seguito di Bacco, agita, per l’appunto, strumenti a percussione, mentre l’esito erotico della festa di Bacco, diviene esplicito nel Baccanale degli Andrii, in cui i gesti e le allegorie sensuali si sprecano. Così infatti in quest’opera è la figura di quel giovane al centro che, fingendo distrazione, accarezza sulle gambe la fanciulla che alza una coppa di vino, protendendo il gesto sotto la sua veste, mentre a destra una baccante stremata e soddisfatta, riceve sulle sue gambe… l’incontinente risultato di un piccolo putto, cercando così di rendere graziosa e tenera la rappresentazione indiretta della soddisfazione maschile. Una moderazione degli evidenti gesti sensuali che si avvale anche dell’indicazione moraleggiante rappresentata da quel vecchio stremato in cima alla collina, quasi a rappresentare la caducità dei piaceri carnali, che peraltro sono praticati senza freni dai giovani protagonisti dell’opera. Ma i freni culturali, le moderazioni ottenute attraverso metafore morali, così come i richiami alla classicità che aggiungono un tono colto e quindi nobilitante alle immagini sensuali, scompaiono tutti in due opere quali Ninfa e pastore e Venere con organista. Ne La Ninfa e pastore, vediamo la ragazza porgersi mollemente alla vista del pastore, che scorre col suo sguardo la splendida esibizione di quel corpo, dalla schiena in giù, anche se il soggetto così esplicito lascia qui il campo all’ammirazione per la fattura pittorica davvero inedita e rivoluzionaria per il suo tempo, quello anche dell’ultima stagione del maestro, cui guardarono golosamente gli altrettanto rivoluzionari e antiaccademici impressionisti. Tutto diventa invece chiaro e decisamente senza sottintesi nelle numerose versioni di quel soggetto denominato Venere con organista (Fig. 23). Le diverse varianti del soggetto presentano ogni volta una figura femminile completamente nuda, in una posa senza nascondimenti. Ora attorniata da un cagnolino (versione del Prado a Madrid), ora da un amorino che le accarezza i seni (versioni dello Staatliche di Berlino e seconda del Prado a Madrid), mostrando quell’indifferenza compiaciuta di chi conosce l’irresistibile fascino della propria bellezza. Al suo fianco, nelle diverse versioni, troviamo ora un suonatore d’organo, ora un suonatore di liuto che si voltano verso la fanciulla, senza distogliere le mani dallo strumento che li impegna. Libero è invece il loro sguardo, carico di desiderio, che si dirige sul corpo di 183

Mogli, garzoni e amanti

Fig. 23 - Tiziano, Venere con organista, Madrid, Museo del Prado.

Venere, mirando in una direzione che non lascia equivoci. Certo il sentimento amoroso è spesso richiamato da elementi simbolici dello sfondo, come, in una delle due versioni di Madrid, quella coppia di amanti che passeggiano in un lussureggiante giardino rinascimentale. Ai due amanti si aggiungono, sempre sullo sfondo, due cerbiatti impegnati in un gioco amoroso, mentre al centro del giardino zampilla una fontana, ai cui bordi si abbevera un sontuoso pavone mentre al centro degli spruzzi della fontanella si erge un inverecondo satiro. Alcuni critici e storici dell’arte hanno visto nel soggetto della Venere con organista, una sublimazione dell’amore, inseguendo il dibattito neoplatonico del tempo sul primato tra i sensi più nobili quali l’udito e la vista302. Ma l’esibizione impudente del corpo di Venere, il gioco stuzzicante degli amorini, la direzione degli sguardi dei suonatori, hanno consigliato la maggior parte degli esegeti del dipinto a virare radicalmente il giudizio sul soggetto esplicitamente erotico della scena, che ritrae una probabile cortigiana oggetto di un evidente

302

E. PANOFSKY, Tiziano, problemi di iconologia, Marsilio, Venezia 1992, p. 127.

184

Il nostro sguardo su Venere… non proprio nei suoi occhi

voyeurismo. Anche l’ambientazione non lascia dubbi: non siamo più nei pascoli o nei boschi d’Arcadia, ma direttamente nelle alcove di nobili dimore del Rinascimento, come dimostra anche uno dei personaggi ritratto nei panni del suonatore d’organo, nelle cui fattezze si riconoscono i lineamenti di Filippo II di Spagna, committente di una delle versioni del dipinto, anche’egli con la stessa posa e la stessa direzione dello sguardo. Qualcuno suppone che sia stato il medesimo Filippo II il suggeritore del soggetto303. Anche nelle più tarde versioni di Venere con suonatore, come quella del Metropolitan Museum di New York, il significato non è molto diverso da quello delle versioni di Venere con organista: ma qui l’allusione erotica è ancora più spinta. Infatti qui Venere tiene in mano un flauto diritto, e, mentre Eros la incorona con fiori, tiene a portata di mano una viola da gamba e alcuni libri di musica. Sembra annunciare che è pronta a far musica, o l’ha già ha fatta, assieme al suo avvinto suonatore.

303

Ibidem, p. 124.

185

CONCLUSIONE

Da quel muro della stanza sul golfo di Corinto, dove la passione d’una fanciulla aveva fatto nascere l’arte della pittura e della scultura, è iniziata la lunga storia degli artisti che hanno dipinto e scolpito desideri, passioni, pulsioni, amarezze e speranze. In una parola l’amore delle donne e degli uomini, vivendoli loro medesimi in prima persona con altrettanta partecipazione e sentimento. Una storia che qui ha considerato solo il periodo del XVI secolo, ma che è stata preceduta da identici avvenimenti sia prima che dopo quella straordinaria stagione, che forse, e ribadiamo forse, non ha la stessa densità di presenza nei soggetti dell’arte contemporanea, per la quale l’esibizione erotica ha caratteri forse più criptici o forse invece e talvolta troppo espliciti tanto da sfiorare in qualche caso la pornografia. Così che non c’è più la necessità delle maschere letterarie o mitologiche che gli artisti del Rinascimento seppero introdurre per tentare di velare la prorompente sensualità dei loro soggetti. Quello di questa irripetibile stagione rappresenta quindi un mondo che se n’è andato, per quella sorte che fa la Storia nel cammino degli uomini, accompagnato dallo splendore delle opere degli artisti. Quegli stessi artisti che hanno sciolto sui muri, sulle tavole, sulle tele, così come sbalzato nella pietra, un racconto che dice di eventi, uomini, passioni, idee e desideri in quella realistica maniera che disegnava persuasivi corpi, concetti, passioni e desideri. È come se la pittura e la scultura che stava nelle chiese, nelle stanze dei palazzi, così come nelle piazze, avesse voluto dire a tutti la verità sull’amore delle donne e degli uomini, nascondendola, per dirla con Dante, sotto le spoglie di una splendida menzogna.

186

SOPRANNOMI E NOMIGNOLI DEGLI ARTISTI

Nome noto

Date

Vero nome

Perché

ALIENSE

1556-1629

Antonio Vassilachi

ANDREA DEL SARTO

1486-1530

Andrea Domenico Il padre era un sarto. d’Agnolo di Francesco Vannucci

ANDREA DI COSIMO

1477-1548

Andrea di Giovanni di Cosimo da Cosimo Rosselli di Lorenzo Feltrini cui era discepolo. Il Vasari sostiene infatti che, in arte, il vero padre è il proprio maestro.

ANDREA VICENTINO

1542 ca.-1617 Andrea Michieli o Michielli

Dalla città d’origine: Vicenza.

ANTICO (L’)

1460 (?)-1528

Pier Giacomo Alari Bonacolsi

Pseudonimo scelto dall’artista stesso in quanto, nel ’500, non si riteneva disonorevole imitare le opere classiche.

ARGENTA (L’)

1546-1636

Giovanni Battista Aleotti

Dalla città d’origine: Argenta in provincia di Ferrara.

ARISTOTELE 1481-1551 DA SANGALLO

Bastiano da Sangallo

Detto “Aristotele” a causa del suo modo d’esprimersi lento, grave e sentenzioso.

BACHIACCA

Francesco Ubertini (o d’Ubertino) Verdi

Il soprannome dell’artista deriverebbe dalla parola che indica la consuetudine di battere i rami d’un albero per farne cadere a terra e raccoglierne i frutti. Il nome sarebbe quindi una metafora dello stile dell’artista, che coglieva modelli, stili e maniere dagli altri esponenti di spicco del suo tempo.

1494-1557

187

Aliense dal latino alienus, perché non era Veneziano, ma straniero. Era infatti nato in Grecia.

Soprannomi e nomignoli degli artisti

Nome noto

Date

Vero nome

Perché

BANDINELLI BACCIO

1488-1560

Bartolomeo de’ Brandini

BECCAFUMI DOMENICO

1486-1551

Domenico di Giacomo Dal nome del proprietario del di Pace fondo presso il quale il padre faceva il contadino (Lorenzo Beccafumi).

BOLOGNESE AMICO

1474-1552

Amico Aspertini

Dalla città d’origine: Bologna

Bartolomeo Suardi

Per il suo stretto rapporto con Bramante di cui riprese le forme monumentali delle sue pitture.

BRAMANTINO 1465-1530 (il)

L’artista afferma d’essere disceso dai Bandinelli, antica e nobilissima casata di Siena. Ciò è dovuto al fatto di esser costretto a fornire prove di nobiltà per poter ricevere da Carlo V il cavalierato di Sant’Iacopo. Per questo manda l’amico e letterato Antonfrancesco Doni il quale trova (o s’inventa) la storia di tal Francesco Bandinelli (trisavolo cosi di Baccio) che, scacciato dalla patria, se andò a Gajuole, dove risiedevano bisnonno, nonno e il padre, orefice, di Bartolomeo. “Baccio” è dovuto alla consuetudine di ridurre così a Firenze il nome di “Bartolomeo”.

BRESCIANINO 1487 c.-1525 c. Andrea Piccinelli

Dal luogo di nascita (Brescia).

BRONZINO (il) 1503-1572

Agnolo di Cosimo di Mariano

Il significato è tutt’ora misterioso. Taluni ritengono sia stata un’allusione al colore dei capelli dell’artista.

COLA DELL’AMATRICE

1470/75dopo il 1547

Nicola Filotesio

Dalla sua cittadina d’origine in Abruzzo (Amatrice).

DANIELE DA VOLTERRA

1509-1566

Daniele Ricciarelli

Dal paese d’origine, Volterra.

DOSSO DOSSI

1486-1542

Giovanni di Niccolò Luteri

Dal nome del villaggio di Dosso nel Ferrarese presso la pieve di Cento.

188

Soprannomi e nomignoli degli artisti

Nome noto

Date

Vero nome

Perché

FATTORE (il)

1488-1528

Giovan Francesco Penni

Nella bottega di Raffaello aveva anche mansioni di segretario da cui il nome “Fattore”.

FERRARESE LOMBARDI ALFONSO

1497-1537

Alfonso Cittadella

Prese il cognome Lombardi per affetto della madre cui era devotissimo e Ferrarese in omaggio al suo maestro Pietro Ferrarese.

Fra 1472-1517 BARTOLOMEO (BACCIO DELLA PORTA)

Bartolomeo di Paolo di Si fa frate e riprende il suo nome Jacopo del Fattorino di battesimo Bartolomeo, che l’uso toscano trasformava in Baccio. Originario di Savignano di Prato, il padre mulattiere, si sposta continuamente. Quando nasce Bartolomeo la famiglia dimorava fuori dalla Porta di S. Pier Gattolini, da cui il nome Baccio della Porta.

FRANCIA FRANCESCO

Francesco di Marco di Deriva il soprannome dal suo Giacomo Raibolini maestro orefice Duc detto “il Francia” oppure dalla contrazione di “Francesco”.

1450-1517

FRANCIABIGIO 1482-1525

Francesco di Cristofano Bigi

Qualche storico (Baldinucci, Milanesi) sospetta che il cognome fosse Bigi da cui la possibile crasi col nome Francesco che genererebbe Franciabigio.

GAROFOLO BENVENUTO

Benvenuto Tisi

Dal paesello d’origine, Garofolo, (nel Polesine). Spesso firmava i suoi lavori con il disegno di un garofano.

GIAMBOLOGNA 1529-1608

Jean de Boulogne

Scultore fiammingo che operò in Italia (Firenze, Bologna, ecc.) e che trovandosi a confrontarsi con la grande scultura italiana del Rinascimento, si italianizzò il nome “Jean de Boulogne” in «Giambologna».

GIORGIONE

1477-1510

Zorzi o Zorzo da Castelfranco

GIOVANNI DA UDINE

1487-1564

Giovanni Nani o Giovanni Recamador

Si racconta che fosse stato un uomo corpulento (da cui il soprannome), ma particolarmente mite di carattere. “Nani” potrebbe essere la contrazione di “Giovanni. Comunque “da Udine” è per via della città di nascita.

1476/81-1559

189

Soprannomi e nomignoli degli artisti

Nome noto

Date

Vero nome

Perché

GIROLAMO da 1471-1559 COTIGNOLA

Girolamo Marchesi

Dal paese di nascita, Cotignola, in provincia di Ravenna.

GIROLAMO DA 1508-1544 TREVISO

Girolamo Pennacchi

Dal paese di nascita, Treviso.

GIULIO ROMANO

1499-1546

Giulio Pippi

Dal paese di nascita, Roma.

INGEGNO (L’)

1480?-1521?

Andrea Aloysii d’Ascesi Pare che il soprannome “L’Inge(Andrea d’Assisi) gno” non derivasse solo dalla sua maestria pittorica ma anche e soprattutto nella sua grande sagacia e abilità negli affari.

JACONE

1495-1554

Jacopo di Giovanni di Francesco

LORENZO DI CREDI

1459-1537

Lorenzo o Sciarpelloni Anche lui col nome del maestro, o d’Oderigo Barducci Lorenzo di Credi

MORETTO (il)

1498-1554

Alessandro Bonvicini

Probabilmente dal nome di battesimo del padre, Moretto Bonvicini.

MORTO DA FELTRO

1480-1527

Lorenzo Luzzo

Storpiatura “vasariana” del nomignolo “Zaroto” a causa della sua frequentazione con la città dalmata di Zara. Probabile origine della cittadina di Feltre.

NICCOLÒ DE L’ABBATE

1510-1571

Niccolò dell’Abbà

Origine controversa dell’appellativo “dell’Abbate”: chi vuole che sia perchè lavorò col Primaticcio ch’era abate superiore di San Martino, chi perché originario del paese di Abba, villaggio nel territorio di Reggio.

PELLEGRINO da MODENA

1460-1523

Pellegrino degli Aretusi Dal nome della città di nascita. alias de’ Munari

PERIN DEL VAGA

1501-1547

Piero di Giovanni Bonaccorsi

Da un supposto pittore fiorentino di nome Vaga, presso cui si impiegò e che poi l’avrebbe condotto nelle vicinanze di Roma dove teneva bottega.

PERUGINO

1450-1523

Pietro di Cristoforo Vannucci

Nome dalla città (Perugia) presso cui teneva una fiorente bottega.

190

Forse contrazione di Jacopone, accrescitivo di Jacopo, forse per il suo carattere da sbruffone e dal carattere bizzarro.

Soprannomi e nomignoli degli artisti

Nome noto

Date

Vero nome

Perché

PINTORICCHIO 1454?-1513

Bernardino di Betto

Il soprannome deriva dalla sua probabile piccola statura.

PIERO DI COSIMO

Piero di Lorenzo

Cosimo da Cosimo Rosselli di cui era discepolo. Il Vasari sostiene che, in Arte, il vero padre è il proprio maestro.

POLIDORO DA 1499?-1543? CARAVAGGIO

Polidoro Caldara

Dal paese d’origine, Caravaggio, in Lombardia.

PONTORMO

Jacopo Carucci

Dal paese d’origine, Pontorme, nei pressi di Firenze.

1461-1521

1494-1557

RAFFAELLINO 1466-1524 DEL GARBO

Raffaello di Bartolomeo Dal nome della strada dove abio Raffaellino Capponi tava a Firenze.

ROSSO FIORENTINO

1495-1540

Giovan Battista di Jacopo

“…di bellissima presenza… di pelo rosso…” (Vasari).

RUSTICO LORENZO

1521-1572

Lorenzo de’ Brazzi

Allievo del Sodoma - Di brutto aspetto tanto da meritarsi anche il soprannome, oltre che di “Rustico” anche di “Cirloso”.

SANSOVINO JACOPO

1486-1570

Andrea di Domenico Contucci - Jacopo de’ Tatti

Dal suo maestro Andrea dal Monte Sansovino.

SCHIAVONE ANDREA

1510/1515-1563 Andrea de Nicolò da Curzola od anche Andrea Meldolla

A Venezia erano detti “schiavoni” le persone di origine slava, anche se la sua famiglia era di Meldolla, un paese in provincia di Forlì.

SEBASTIANO DEL PIOMBO

1485-1547

Sebastiano Luciani

Così nominato perché gli fu dato l’incarico di custode di guardasigilli delle bolle papali (“piombatore pontificio”).

SODOMA

1477-1549

Giovanbattista o Giovanni Antonio Bazzi o de’ Bazzi

Per la sua dichiarata e ostentata omosessualità.

TINTORETTO

1518-1594

Jacopo Robusti

La famiglia in origine si chiamava Comin. Nella difesa di Padova i fratelli Comin (nonni di Tintoretto) si distinsero per la loro strenua abilità militare. Da cui il soprannome di “Robusti”. Successivamente si trasferirono a Venezia dove aprirono una bottega di tintura dei panni.

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Soprannomi e nomignoli degli artisti

Nome noto

Date

Vero nome

Perché

TRIBOLO

1500-1550

Niccolò de’ Pericoli o Niccolò di Raffaello

Da fanciullo era uno scavezzacollo e dal carattere vivace.

VINCI (il)

1530-1553

Pier Francesco di Bartolomeo

Figlio di Bartolomeo, fratello di Leonardo da Vinci e quindi suo nipote.

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INDICE DELLE OPERE E DEGLI AUTORI CITATI

AA.VV., La Cappella Sistina. Il Giudizio restaurato, De Agostini, Novara 1998. AA.VV., Giulio Romano, Electa, Milano 2007. AA.VV., Opere del cardinal Pietro Bembo, Società Tipografica de’ classici italiani, Milano 1808. ALBERTI R., Origine et progresso dell’Academia del Dissegno, Pietro Bartoli editore, Pavia 1604. ANTAL F., La Pittura Fiorentina, Einaudi, Torino 1960. ANTOLINI A., Andrea del Sarto, Fabbri-Bompiani, Milano 1991. ARBASINO A., Su Correggio, Mondadori Electa, Milano 2008. ARETINO P., Sonetti lussuriosi, Sonzogno, Milano 1986. –, Lettere, edizione a cura di P. PROCACCIOLI, Rizzoli, Milano 1990. ARIOSTO L., Satire, a cura di G. Davico Bonino, Rizzoli, Milano 1990. BACCHESCHI E., L’opera completa del Bronzino, Rizzoli, Milano 1999. BAROCCHI P. (a cura di), Trattati d’arte del Cinquecento, Laterza, Bari 1961. –, Scritti d’arte del Cinquecento, Ricciardi, Milano 1973. BAXANDALL M., Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, Einaudi, Torino 1972. BEMBO P., Asolani, Venezia 1505, in C. DIONISOTTI (a cura di), Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, in I classici italiani, TEA Tascabili Editori Associati, Milano 1989. BETTINI M., Il ritratto dell’amante, Einaudi, Torino 1992. BINNI W., Michelangelo scrittore, Einaudi, Torino 1975. BLUNT A., Le teorie artistiche in Italia, Einaudi, Torino 1966. BOLZONI L., Il cuore di Cristallo. Ragionamenti d’amore, poesia e ritratto nel Rinascimento, Einaudi, Torino 2010. BORGHINI V., Il Riposo, Firenze 1584. BOTTONI L., Leonardo e l’androgino, Franco Angeli, Milano 2003. BUONARROTI M., Rime, a cura di E.N. GIRARDI, Laterza, Bari 1967. BURCKHARDT J., La civiltà del Rinascimento in Italia, Sansoni, Firenze 1966. BUTAZZI G., L’iconografia: l’acconciatura. Riflessioni a proposito di una testa ornata su un corpo non abbigliato, in L. MOCHI ONORI (a cura di), La Fornarina di Raffaello, Skira, Milano 2002. CAGLI C., Lo spazio del tempo, in C. GIBELLINI (a cura di), Tiziano, Rizzoli, Milano 2003.

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Indice delle opere e degli autori citati

CALABRESE O., Tiziano. La Venere d’Urbino, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo 2003. CAMESASCA E. (a cura di), Raffaello. Gli scritti, Rizzoli, Milano 1993. –, Vita di B. Cellini, Rizzoli, Milano 1985. CASTIGLIONE B., Il libro del Cortegiano, nell’edizione de I classici del pensiero italiano, a cura di C. CORDIÉ, Biblioteca Treccani, Roma 2006. CELLINI. B., Vita, (a cura di E. Camesasca), Rizzoli, Milano 1985. CHASTEL A., Favole, forme, figure, Einaudi, Torino 1988. –, Il sacco di Roma, 1527, Einaudi, Torino 2010. –, Raffaello. Il trionfo di Eros, Neri Pozza, Vicenza 1997. –, Arte e Umanesimo a Firenze, Einaudi, Torino 1964. CHASTENET G., Lucrezia Borgia. La perfida innocente, Mondadori, Milano 1995. CIARDI DUPRÉ DAL POGGETTO M.G., I gioielli della Fornarina, in L. MOCHI ONORI (a cura di), La Fornarina di Raffaello, Skira, Milano 2002. CLARK K., Il Nudo. Uno studio della forma ideale, Neri Pozza, Vicenza 1995. CLOULAS I., I Borgia, Salerno editrice, Roma 1988. COHEN E. S., Camilla la Magra, prostituta romana, in O. NICCOLI, Rinascimento al femminile, Laterza, Bari 1991. COMETA M., Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale tra Settecento e Novecento, Meltemi ed., Roma 2004. CONDIVI A., Vita di Michelangelo Buonarroti, S.P.E.S., Firenze 1998. CORDIÉ C. (a cura di), Opere di Baldassarre Castiglione, Giovanni della Casa, Benevenuto Cellini, ne I classici del pensiero italiano, Biblioteca Treccani, Roma 2006. CREMASCHI L., Regole monastiche femminili, Einaudi, Torino 2003. CRESTI C. e RENDINA C., Ville e palazzi di Roma, Magnus ed., Udine 1998. DAL POGGETTO P., I Della Rovere, Electa, Milano 2004. DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia. DAVICO BONINO G. (a cura di), Satire di Ludovico Ariosto, Rizzoli, Milano 1990. DELL’ORSO C., Venezia libertina, Arsenale editrice, Venezia 1999. DEL VITA A., Bizzarrie e vita d’artisti nel Rinascimento, Ed. Rinascimento, Arezzo 1956. –, Galanteria e lussuria nel Rinascimento, Ed. Rinascimento, Arezzo 1952. DIONISOTTI C. (a cura di), Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime, in I classici italiani, TEA Tascabili Editori Associati, Milano 1989. DOLCE L., Dialogo della pittura intitolato l’Aretino, Venezia 1557, qui tratto da P. BAROCCHI (a cura di), Scritti d’arte del Cinquecento, Ricciardi, Milano 1973. ESCH A. e FROMMEL C.L., Arte, committenza ed economia a Roma e nelle corti del Rinascimento, Atti del Convegno Internazionale di Roma 24-27 sett. 1990, Einaudi, Torino 1995. FERRARI S., Voci del Rinascimento. Attraverso gli scritti di artisti e teorici dell’epoca, Bruno Mondadori, Milano 2008. FORCELLINO A., Raffaello. Una vita felice, Laterza, Bari 2006.

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Indice delle opere e degli autori citati

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Indice delle opere e degli autori citati

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Finito di stampare in Firenze presso la tipografia editrice Polistampa Marzo 2011