Unione Europea e sistema neo-ordoliberale 9788833396347


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Table of contents :
Prologo V
1. La costruzione europea e la dottrina neo-ordoliberale 1
2. L’architettura istituzionale della UE e i suoi pilastri neo-ordoliberali 22
3. Il problema della legittimità della UE: deficit o default democratico 49
4. Prospettive per una “democratizzazione” della UE 65
5. La “sinistra” e la UE 92
6. La cornice cronologica dei fatti principali e i provvedimenti post-crisi 105
7. La crisi dell’Eurozona e le sue implicazioni economiche e distributive 136
8. Letture apologetiche o critiche del funzionamento dell’Eurozona 140
9. Gli organismi di pianificazione privati, la costruzione della UE e la
gestione della crisi 147
10. Crisi e nuovi regimi della UE: una “gabbia di ferro” neo-ordoliberale? 161
11. L’evoluzione odierna della UE e lo svuotamento della democrazia politica 166
12. Il liberalismo “autoritario” 179
13. La fondazione dell’ordine concorrenziale neo-ordoliberale 188
14. La democrazia plebiscitaria dei mercati 203
15. L’ideologia neo-ordoliberale della UE e il mercato del lavoro 210
16. Il principio di sussidiarietà 216
17. Unione Europea: governo “pastorale” e “disciplinare” 240
18. La “costituzionalizzazione” del pareggio di bilancio 250
19. Hayek e la costruzione federalista 285
20. L’“autosufficienza nazionale” di Keynes 309
21. Concludendo 321
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Unione Europea e sistema neo-ordoliberale
 9788833396347

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Luciano Fanti

UNIONE EUROPEA E SISTEMA NEO-ORDOLIBERALE

Fanti, Luciano Unione Europea e sistema neo-ordoliberale / Luciano Fanti. - Pisa : Pisa university press, 2022. 330.122094 (23.) 1. Economia - Europa - Teorie 2. Neoliberismo - Europa CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa

© Copyright 2022 Pisa University Press Polo editoriale- Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura Università di Pisa Piazza Torricelli 4 - 56126 Pisa P. IVA 00286820501 · Codice Fiscale 80003670504 Tel.+39 050 2212056 · Fax +39 050 2212945 E-mail [email protected] · PEC [email protected] www.pisauniversitypress.it

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INDICE

Prologo

V

1. La costruzione europea e la dottrina neo-ordoliberale

1

2. L’architettura istituzionale della UE e i suoi pilastri neo-ordoliberali

22

3. Il problema della legittimità della UE: deficit o default democratico

49

4. Prospettive per una “democratizzazione” della UE

65

5. La “sinistra” e la UE

92

6. La cornice cronologica dei fatti principali e i provvedimenti post-crisi

105

7. La crisi dell’Eurozona e le sue implicazioni economiche e distributive

136

8. Letture apologetiche o critiche del funzionamento dell’Eurozona

140

9. Gli organismi di pianificazione privati, la costruzione della UE e la gestione della crisi

147

10. Crisi e nuovi regimi della UE: una “gabbia di ferro” neo-ordoliberale? 161 11. L’evoluzione odierna della UE e lo svuotamento della democrazia politica 166 12. Il liberalismo “autoritario”

179

13. La fondazione dell’ordine concorrenziale neo-ordoliberale

188

14. La democrazia plebiscitaria dei mercati

203

15. L’ideologia neo-ordoliberale della UE e il mercato del lavoro

210

16. Il principio di sussidiarietà

216

17. Unione Europea: governo “pastorale” e “disciplinare”

240

18. La “costituzionalizzazione” del pareggio di bilancio

250

19. Hayek e la costruzione federalista

285

20. L’“autosufficienza nazionale” di Keynes

309

21. Concludendo

321

Bibliografia

327

PROLOGO

È ormai luogo comune dire che molti, in Italia e in Europa, sono gli euroscettici. Peraltro, questo scetticismo è rimasto una pura espressione intellettuale, non avendo certamente avuto alcun sostanziale effetto su quell’originale unicum dell’invenzione di un progetto di architettura istituzionale ‒ spoliticizzata e spoliticizzante, economicista ed economicizzante, a-democratica e de-democratizzante ‒ che è stata l’Unione Europea. Se e quanto quello scetticismo abbia giustificazioni teoriche ed esistenziali, è oggetto di dibattito e qualcuno forse può trarre un parziale contributo dalla lettura di questo saggio per darsi una ancor più parziale risposta. Certo, dipende dalla prospettiva a cui si guarda l’Europa e i suoi effetti, e certamente quella di un finanziere non è quella di un lavoratore dipendente, come quella di un cittadino greco non è quella di un berlinese. Auspichiamo di essere riusciti solo ad interpretare, piuttosto che a pretendere di convincere, ma siamo consci, memori della lezione di Weber, che non esiste nessuna oggettività nelle analisi. E che il metodo del calculemus poco si addice a comprendere le crisi che sono ‒ come da un secolo molti hanno visto nel destino dell’Europa ‒ prima di tutto crisi spirituali delle civiltà. L’idea di una Europa unita è antica, ed è innegabile che possa ispirare gli idealisti ad operare per una sua applicazione geopolitica. Ma ciò che, nel contempo, sembra essere altrettanto innegabile è che la salvezza del capitalismo sia stato l’obiettivo di un pensiero organizzato ‒ quello che qui definiamo come neo-ordoliberale ‒ e delle élite capitaliste che hanno trovato nella costruzione europea, a dispetto degli idealisti che pure l’hanno sostenuta, gli assetti istituzionali migliori. Il presente studio cerca di tracciare le influenze del neo-ordoliberalismo nella costruzione

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Unione Europea e sistema neo-ordoliberale

dell’attuale1 Unione Europea, e di delineare alcuni elementi chiarificatori del dilemma fra europeismo ed euroscetticismo. Come prologo a questo studio, non trovo nulla di meglio che andare alla più antica origine dell’Europa, laddove nacque prima della storia, nel mito. La simbologia del mito di Europa implica diverse chiavi di lettura, ma non credo che possa esistere una “scienza del mito” né un’ermeneutica che possa anche lontanamente accedervi: con le parole di Jesi (1973, 105), la “scienza del mito” è una «scienza del girare in cerchio, sempre alla medesima distanza, intorno a un centro non accessibile: il mito». Ma ricorrere come epigrafi alle narrazioni del mito di Europa da parte di sapienti antichi e moderni ‒ Luciano di Samosata, Ovidio, Leopardi, Kerenyi, Calasso ‒ non significa solo mettere un certo numero di citazioni all’inizio di un libro, bensì contrapporre la libertà di un “linguaggio” altro da quello del calcolo razionale al rozzo realismo oggi di moda, per il quale la realtà è ineluttabile e bisogna accettarla senza critica (un corollario implicito del sistema neo-ordoliberale imperante, per cui ad esso non c’è alternativa: There is no alternative, slogan tipico di un conservatore come la Thatcher o di un socialdemocratico come Schröder, a significare, appunto, la mancanza di alternative al sistema neo-ordoliberale o all’Unione Europea). Perché i miti, sebbene sembrino parlarci di ciò che fu dell’immaginazione (al pari della storia, che sembra narrare il ciò che fu della realtà, il passato) sono invece, come dice Tagliapietra (2016, 44), «i luoghi dove maturano, come grano dorato, i preziosi raccolti della possibilità e dove crescono, quindi, gli autentici germi vitali del futuro». Sai dell’amore: odi ora il resto. Europa era discesa sul lido a scherzare con le compagne: e Giove fattosi torello scherzava con esse, e pareva bellissimo: aveva una bianchezza grande, le corna ben ricurve, pareva assai mansueto, ruzzava anch’egli sul lido, e soavemente mugliava; onde ad

1 Si avverte che questo studio è stato realizzato prima che la pandemia iniziata nel 2020 cominciasse a manifestare i suoi effetti non solo sull’economia ma anche sugli assetti politici, effetti che potranno anche essere, come taluno ritiene, epocali, ma di cui certamente non si poteva tenere conto al momento della chiusura di questo libro.

Prologo

VII

Europa venne ardire di salirgli sul dorso. E come fu salita, rattissimo Giove corse al mare, e portandola nuotava: ed ella tutta smarrita attenevasi con la mano sinistra ad un corno per non cadere, e con l’altra si stringeva il peplo che ventilava (Luciano di Samosata – Dialoghi Marini – Zefiro e Noto). [Zeus] assume l’aspetto di toro […] Nulla di minaccioso ha l’aspetto, né lo sguardo incute paura; l’espressione è foriera di pace […] La figlia di Agenore [Europa] […] esita nel toccarlo […] osò […] assettarsi sulla schiena del toro […] quand’ecco il dio […] reca la sua preda attraverso i flutti dell’alto mare. Ella […] a un corno si afferra con la mano destra e l’altra preme sul dorso; rabbrividendo, le vesti si gonfiano allo spirare della brezza (Ovidio – Metamorfosi – II, 846-875). Si disse Europa allor: qua, qua venite/Care compagne mie, poniamoci insieme/Tutte a sedere sul dorso a questo toro;/Vedete com’è buono; ei senza rischio/ […] Turnossi Europa allora: e volta indietro/ Con paurosa voce barcollando,/ chiamava le compagne, e verso loro/ Tendea le braccia: esse correan, ma invano,/Che ratto il toro, scorsa già la sponda,/ il suo cammin seguendo, entrò nel mare […] (Leopardi, Idilli di Mosco, Europa (1815), 1923, 164-165). I narratori non erano d’accordo se Europa era la figlia o la sorella di quel re Fenice che aveva dato il nome alla Fenicia. La madre si chiamava Telefassa, la “lungisplendente”, o Argiope, “dal volto bianco”. Il volto della madre e quello della figlia erano dunque come il volto della luna […] A volte invece essa aveva in mano un cerchio, forse la sua collana che, si diceva, fosse il regalo di nozze di Zeus […] Si parlava però anche di altri doni fatti da Zeus alla sua sposa; cioè di una lancia che colpiva qualunque cosa e di esseri favolosi che dovevano custodire Europa. Uno di questi era un cane di bronzo […] L’altro essere prodigioso era Talo, un gigante di bronzo che faceva il giro intorno all’isola tre volte al giorno o tre volte all’anno. Egli scagliava pietre contro gli stranieri […] Dopo il ratto di Europa, il padre mandò i figli alla ricerca della figlia rapita […] Così cominciarono le peregrinazioni di Cadmo. Egli era il solo e l’unico cui stesse a cuore seriamente la ricerca della sorella […] [Giunse] nell’isola di Samotracia, dove si parlava la stessa lingua della Tracia. Secondo alcuni fu qui che egli rinunciò alla ricerca di Europa, secondo altri qui trovò un’altra Europa. Non è detto come si debba interpretare ciò (Kerényi 1989, 101, 263).

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Unione Europea e sistema neo-ordoliberale

Ma com’era cominciato tutto? Se si vuole storia, è storia della discordia. E la discordia nasce dal ratto di una fanciulla […] Europa e Asia da allora si battono, e a colpo segue colpo. Così i Cretesi, “cinghiali dell’Ida”, rapirono all’Asia la fanciulla Europa. Tornarono in patria su una nave a forma di toro. E offrirono Europa in sposa al loro re Asterio. Quello stesso nome celeste sarebbe stato anche uno dei nomi di un nipote di Europa: quel giovane dalla testa di toro che viveva al centro del labirinto, in attesa delle vittime. Più spesso lo chiamarono Minotauro […] Da questi eventi è nata la storia: il ratto di Elena e la guerra di Troia, come anche, prima ancora, la spedizione della nave Argo e il ratto di Medea sono anelli della stessa catena. Un richiamo oscillava fra l’Asia e l’Europa: a ogni oscillazione una donna, e con lei una schiera di predatori, passava da una riva all’altra. Ma Erodoto osservò che […] i Greci non si comportarono da saggi: “Per una donna di Sparta radunarono una grande spedizione e poi, giunti in Asia, abbattevano la potenza di Priamo”. Da allora non è cessata la guerra fra Asia e Europa (Calasso 1988, 15-21).

UNIONE EUROPEA E SISTEMA NEO-ORDOLIBERALE

1. La costruzione europea e la dottrina neo-ordoliberale Un osservatore che guardasse l’Europa, dopo settant’anni dall’inizio dei progetti unionisti, potrebbe porsi la domanda se essa sia solo una “espressione geografica” o, invece, una nuova entità politica. Piuttosto che cercare una risposta diretta a questa domanda, cerchiamo di comprendere, attraverso la ricostruzione delle principali scelte giuridiche ed economiche e delle idee, non solo europee, connesse con tali scelte, i “perché” di “questo” processo di integrazione europea. La prima caratteristica del progetto di costruzione dell’Unione Europea (UE) è lo spostamento della sede decisionale della politica, soprattutto economica, dall’ambito proprio degli Stati nazionali a democrazia liberale ad un ambito sovra-nazionale, del tutto artificiale e spiccatamente, secondo alcuni, non-democratico, o secondo altri, a-democratico o tecnocratico. Come annota Streeck (2015,365), in tale progetto appare l’obiettivo basilare del «trasferimento delle decisioni politico-economiche dal livello nazionale a un nuovo livello internazionale appositamente costruito, nelle mani di organizzazioni internazionali». Questo ambito artificiale, questo contesto istituzionale «è stato progettato consapevolmente per non essere adatto alla democratizzazione». Per meglio comprendere se e in quale misura il neoliberalismo, e soprattutto la sua declinazione europea-germanica, l’ordoliberalismo, abbia fornito la base teorica, ideologica ed anche, come discusso ampiamente in Conti e Fanti (2020), organizzativa-militante (ma quest’ultimo tema richiederebbe una più approfondita analisi degli aspetti “riservati” della formazione delle decisioni politiche delle élites) per la costruzione e la gestione dell’Europa, faremo riferimento a tre dimensioni analitiche, le

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Unione Europea e sistema neo-ordoliberale

prime due attinenti all’ambito politico-economico e la terza a quello giuridico-politico: 1) l’architettura del quadro istituzionale della UE e il modo di funzionamento delle sue istituzioni-chiave; 2) le modalità tecniche e operative di tipo strutturale per l’introduzione delle principali iniziative politico-economiche della UE (p.e., le cosiddette riforme); 3) il “contenuto” delle medesime. Rispetto ai primi due punti, sono proprio le procedure, le pratiche, le tecniche usate prima nel processo decisionale e poi nella messa in opera delle decisioni prese, ovvero le modalità di governance e la tecnica di governo della UE, che ne possono rivelare la distanza da un governo liberale democratico. Sul terzo punto, sarebbero infinite le analisi degli effetti economici e sociali degli interventi della UE, ma ci limiteremo a considerazioni riassuntive soprattutto rispetto agli aspetti delle relazioni fra capitale e lavoro. Come è largamente riconosciuto, il neoliberalismo permea ormai in modo dominante i sistemi di governo di gran parte del mondo. Una accurata ricostruzione storica della nascita e dello sviluppo del neoliberalismo nelle sue diverse anime è presentata in Pleckert (2008), Mirowski e Plehwe (2009), Dardot e Laval (2019), e discussa anche in Conti e Fanti (2020, parte III). La Scuola ordoliberale di Friburgo e la Scuola del liberalismo austriaco rappresentano due momenti determinanti della rivisitazione novecentesca del liberalismo classico che spesso viene unificata sotto il nome di “neoliberalismo”. Entrambe le scuole hanno partecipato all’operazione di rilancio egemonico dell’ideologia del libero mercato, promossa dall’Internazionale del neoliberalismo novecentesco, che ha trovato espressione nei Colloque Walter Lippmann del 1938, nelle riunioni della Mont Pelerin Society e nell’attività di ricerca scientifica condotta presso i quattro principali centri del neoliberalismo contemporaneo: Londra (London School of Economics di Cannan e Robbins), Vienna (Scuola del liberalismo austriaco di von Mises

La costruzione europea e la dottrina neo-ordoliberale

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e von Hayek), Chicago (la Scuola di Chicago di Knight, Simons e Friedman) e Friburgo (la Freiburger Schule di Eucken e Böhm)1. Come ampiamente descritto, fra gli altri, dagli storici e filosofi sopra riportati, Hayek fondò la Mont Pelérin Society nel 1947, nove anni dopo il Colloquio Lippmann, con l’obiettivo di proseguirne l’opera attraverso un think tank che riunisse tutti gli intellettuali neo ed ordoliberali del mondo, mirante alla diffusione del credo neo-ordoliberale, per operare cambiamenti radicali nel lungo periodo, nell’accademia, nei media e nel business; il think tank operava attraverso i) opere di élite combinate con divulgazioni popolari e analisi teoriche con semplificazioni pragmatiche, ii) forniture di libri di testo e creazioni di diversi istituti e organismi internazionali, come l’Institute of Economic Affairs (IEA) e il Forum economico mondiale che si svolge ogni anno a Davos in Svizzera; iii) l’inserimento di membri e simpatizzanti in ruoli chiave della politica e dell’economia; iv) la massima valorizzazione degli almeno otto premi Nobel ottenuti da suoi membri (tra i quali Friedman e Hayek). Come sottolinea Vanberg (2015), la tradizione teorica ordoliberale sviluppata negli anni Trenta si è successivamente congiunta alla comparsa di teorie e metodologie di stampo tipicamente americano, che, pur condividendo l’impianto basico del pensiero ordoliberale, lo hanno riorientato nei termini della “scelta razionale” (rational choice), quale paradigma pass-partout dell’imperialismo della scienza economica mainstream, con lo sviluppo dei modelli più formalizzati della Constitutional Economics e della Public Choice Theory di Buchanan e della New Political Economy

1 «Se volessimo suddividere per fasi la storia del liberalismo economico, il 1938 è sicuramente un anno che sembra fare da spartiacque tra prima e dopo. Perché è in quell’anno che si svolge a Parigi il Convegno (o Colloquio) Lippmann, dal nome dell’americano Walter Lippmann, liberale e autore del celebre L’opinione pubblica e di La giusta società. Convegno che voleva gettare le basi per la nascita del neoliberalismo (o per la rifondazione del liberalismo), facendo incontrare – pur nelle loro differenze e conflitti – il modello neoliberista austro-statunitense (da von Hayek a von Mises a Friedman e la Scuola di Chicago) e quello ordoliberale prima tedesco (da Röpke a von Rüstow, da Erhard a Eucken e altri) e poi europeo (da Einaudi a Monti e Draghi, ai Trattati Ue)» (deMichelis 2018, 1).

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sviluppata da altri americani (Coase, North, Williamson e altri) (vedi paragrafo 18). Secondo Conti e Fanti (2020, XII), «il neoliberalismo […] è un conservatorismo radicalmente statofobico, costruttore del mercato come feticcio assoluto, nel quale però sono più che tollerate le grandi imprese […]. L’ordoliberalismo è la versione teutonica di un capitalismo che ha bisogno di essere amministrato e regolato […] per imporre e incoraggiare la concorrenza, che, lasciata a se stessa, si infiacchirebbe: l’iniziativa privata ha bisogno della frusta di dispositivi che spingano alla concorrenza e lo Stato viene messo in condizione di disporre solo di tali strumenti amministrativi» mentre le decisioni nell’economia devono «spettare solo ai privati, considerati calcolatori ottimali del proprio profitto, anche se ignoranti, perché aiutati dal mercato, quale ordine spontaneo generatore dell’informazione migliore». Conti e Fanti, pur mostrando che le due scuole hanno “anime” diverse sul piano dottrinale, sottolineano che esse mantengono tuttavia una sostanziale unità sui principi primi e sulle prassi politiche, sulle politiche economiche e sulla propaganda, per cui ritengono fondato accomunare i due indirizzi nel neologismo di “neo-ordoliberalismo”, che, quindi, sarà qui il termine sempre utilizzato. Infatti, Mirowski e Plehwe (2009) sottolineano che, pur nelle diversità, l’ideologia ordoliberista e quella neo-austriaca possono essere entrambe unificate in quello che essi hanno definito un unico “pensiero collettivo neoliberista”. Li unisce, oltre alla organizzazione militante, l’avversione al socialismo, il primato della libertà individuale e della libera concorrenza intesi come pressoché sinonimi, lo scopo primario di costruire un “ordine di concorrenza” costituzionalmente protetto fondato sul meccanismo dei prezzi come “principio ordinatore” del mercato. Dal punto di vista degli eventi storici, la vicinanza fra Hayek e gli ordoliberali, già a partire dalla fine degli anni ’20, si manifesta in termini di rapporti personali con comuni prospettive ideologiche di fondo, intrattenuti da esponenti ordoliberali, come Eucken e Röpke, con Hayek, per finire con l’attribuzione nel 1962 della cattedra friburghese di Wirtschaftspolitik, originariamente occupata da Eucken, ad Hayek, quale paradigmatica illustrazio-

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ne, sul piano accademico, dell’unificazione delle due scuole di pensiero. Nello specifico, tedeschi e austriaci (in particolare Hayek) condividevano tre obiettivi: i) opporsi allo storicismo dominante in Germania e al connesso fatalismo e relativismo in campo metodologico, ii) concepire il mercato come creatore di “ordine”, iii) assegnare, pur con riflessioni differenziate, un ruolo primario alle regole giuridiche e alle condizioni politico-istituzionali relative a un ordinamento economico di libero mercato. Comunque, secondo alcuni, la differenza fra ordoliberali tedeschi e neoliberali austro-americani rimane sostanziale, o comunque meritevole di separata investigazione2, in quanto «a ben vedere, la rappresentazione monolitica del cosiddetto neoliberalismo, così come e stata accolta nel dibattito pubblico e per lungo tempo anche dalla cultura accademica, è sostanzialmente priva di fondamento» (Mele 2014, 101). Dove gli esponenti dell’ordoliberalismo tedesco della Scuola di Friburgo e i liberali della Scuola austriaca differiscono è soprattutto nelle linee di ragionamento con cui tendono a riformare il tradizionale liberalismo economico dal lato del diritto, mostrando due approcci al problema dell’ordine giuridico del mercato con due sottostanti diverse concezioni giusfilosofiche. Cartina di tornasole di tale differenza è il diverso giudizio espresso dagli ordoliberali e dai liberali austriaci sulla tradizione dello storicismo giuridico di von Savigny e sull’opera di Adam Smith, che può essere efficacemente sintetizzato in questi termini: Mentre l’idea savignyana dello “sviluppo organico” del diritto e l’ipotesi della “mano invisibile” di Smith sono accolte in particolare da Hayek nel suo tentativo di fondare una teoria evoluzionistica del diritto e dell’ordine del mercato volta a operare il superamento del volontarismo e del costruttivismo caratteristici della tradizione giusfilosofica moderna, gli ordoliberali rifiutano il “fatalismo” della metodologia giuridica di Savigny e si oppongono all’idea naturalistico-teologica smithiana delle “armonie prestabilite”, proponendo una riforma del liberalismo economico incen-

2 Sulla differenza tra neoliberalismo anglosassone e ordoliberalismo tedesco da un punto di vista che tende a distinguere nettamente le due scuole di pensiero si rimanda a Young (2018).

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Unione Europea e sistema neo-ordoliberale

trata su un concetto politico-normativo di “costituzione economica” e sul costante intervento dello Stato a limitazione o eliminazione delle concentrazioni di potere economico privato (Mele 2014, 99).

Secondo Hayek, Savigny e Smith sono i pensatori nel campo del diritto e dell’economia politica che possono rappresentare una opposizione al razionalismo costruttivistico di matrice cartesiana applicato in campo giuridico e in campo economico. Al contrario, secondo gli ordoliberali, il razionalismo post-cartesiano come la filosofia della storia e la teoria del diritto e dello Stato di Kant sono da riprendere, per combattere sia gli esiti relativistici e nichilistici prodotti dallo storicismo, sia la diffusione crescente dell’irrazionalismo e del pensiero mitologico, ripresa che implica una concezione particolare dell’ordinamento giuridico del mercato in termini progettuali e deontologici: l’ordine giuridico del mercato deve essere stabilito da una decisione politica – quindi un razionale e intenzionale interventismo statale – di carattere costituzionale, anche perché si ritiene che la concorrenza di mercato sia un fenomeno non naturale ma solo artificiale3. Anche il concetto di sovranità è, per questi pensatori neo-ordoliberali, revocato in dubbio, ma tale revoca è specificamente e riduttivamente riferita solo alla sovranità popolare e democratica, che, secondo loro erroneamente, sarebbe stata ritenuta sia come effettiva volontà collettiva, sia come moralmente superiore, proprio perché collettiva, alle volontà individuali, sia, infine, sempre – e superficialmente, come se lo fosse per definizione – la più favorevole al benessere comune; è così infatti che Hayek (2010, 409) articola le sue accuse alla democrazia: «illusione sem-

3 Infatti, secondo Mele (2014, 122-123) «Non è un caso la circostanza che Eucken introduca il proprio progetto di riforma del metodo delle scienze economiche […] facendo esplicito riferimento all’esempio della riforma del sapere filosofico intrapresa da Cartesio all’inizio dell’epoca moderna […]. Per alcuni aspetti le riflessioni degli ordoliberali sul declino della cultura e della politica europea sembrano più affini a quelle elaborate da Husserl […] e Cassirer […] che a quella proposta da Hayek e dagli austriaci in generale […] per gli ordoliberali […] l’ordine della concorrenza, inteso come ordinamento che realizza la più vasta dispersione del potere economico privato, non è il frutto di un “lasciar essere” ma di una decisione politica di fondo e di una pratica di governo costante».

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plicistica che il “popolo” effettivamente agisse insieme […] azione collettiva […] moralmente preferibile alle azioni separate degli individui […] curiosa teoria secondo cui il processo decisionale democratico è sempre diretto al bene comune». Al contrario, i concetti di bene comune, di superiore moralità del collettivo e di volontà generale sono, secondo Hayek, del tutto assenti nella democrazia moderna, dove invece il neo-ordoliberale osserva piuttosto partiti organizzati che agiscono nei parlamenti nazionali in reciproca contrapposizione col fine di perseguire interessi particolari contrastanti, e che per ottenere il necessario consenso elettorale distribuiscono privilegi e rendite nella società: La legislazione è lo strumento mediante il quale si verifica la spartizione di privilegi e risorse pubbliche definita in base al grado di forza che le parti interessate sono in grado di esercitare sui rappresentanti politici. Il legislativo perde la sua funzione originaria di riconoscere mediante la positivizzazione le norme sulle quali si raccoglie il consenso sociale e diventa il luogo di produzione di comandi particolari determinati dalla volontà delle maggioranze (Mele 2014, 116).

Ne consegue che in questa visione di marciume del parlamentarismo, l’idea hayekiana del diritto, inteso come ordine spontaneo di norme generali e astratte capaci di rendere possibile il coordinamento organico dell’agire degli individui, non può che trovare la sua tomba, e allora non sorprende che la critica del parlamentarismo prodotta da Carl Schmitt, peraltro con una ben diversa e persino opposta idea del diritto, trovi condivisione in Hayek: Questa debolezza del governo di una democrazia onnipotente fu chiaramente vista dallo straordinario studioso tedesco di politica Carl Schmitt, che negli anni Venti comprese il carattere della nascente forma di governo probabilmente meglio di quanto non abbia fatto la maggioranza delle altre persone, e che poi regolarmente scelse quella che mi sembra essere moralmente e intellettualmente la parte sbagliata (Von Hayek 2010, 512).

Capire quale sia il nesso fra libertà e democrazia nel neo-ordoliberalismo è cruciale. Esso può essere sintetizzato nel modo seguente. La libertà, che per i neo-ordoliberali è essenzialmen-

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Unione Europea e sistema neo-ordoliberale

te solo proprietà privata e mercati senza interferenze, ovvero il capitalismo privato, è in, generale, alternativa alla democrazia, o, come minimo, la democrazia non è necessaria alla libertà: si può avere libertà senza democrazia. Lo Stato “liberale” nel senso sopra detto non può essere organizzato come un potere democratico (perché in tal caso, senza opportuni scudi che lo impermeabilizzano dalla “volontà generale”, verrebbe inesorabilmente divorato dalle masse coi loro interessi anti-capitalistici ovvero, secondo i neo-ordoliberali, “liberticidi”). Poiché coloro che posseggono solo la loro forza lavoro sono la maggioranza sociale, per difendere la “libertà” neo-ordoliberale è cruciale ridurre la loro influenza, ovvero la democrazia, nei processi decisionali, specialmente in quelli relativi alla moneta4, al credito, al bilancio pubblico. Come avverte Röpke (1998, 223), bisogna impedire che lo Stato sia «gestito come un centralino da un governo direttamente dipendente da una maggioranza parlamentare o, peggio ancora, da qualche gruppo non parlamentare che si atteggia a rappresentante dell’opinione pubblica». Quindi, l’obiettivo centrale del neo-ordoliberalismo è quello di come riuscire ad “imbracare” la democrazia vincolandola al rispetto di un superiore fondamento che “sacralizza” e legittima lo Stato, quello della libertà economica (proprietà privata e liberi mercati). Infatti, così si spiegano i tentativi costanti di limitare i poteri legislativi democratici nella pratica (quali le tendenze alla supervisione giudiziaria della legislazione parlamentare, il divorzio fra Banca centrale e Tesoro e, infine, la costituzionalizzazione del vincolo di bilancio pubbli-

4 Un esempio di buona impermeabilizzazione della moneta dal pericolo della “democrazia” è stato il sistema del gold standard che offriva un sistema monetario il più possibile de-nazionalizzato, de-politicizzato e quindi de-democratizzato, in cui gli “aggiustamenti” economici necessari all’equilibrio dell’economia capitalista si scaricavano nei mercati del lavoro nazionali sottoposti alla reciproca pressione concorrenziale sulla base del prezzo del mercato mondiale, ovvero in termini di riduzione dei poteri contrattuali dei lavoratori dei vari Stati nazionali (vedi Conti e Fanti 2020). Non a caso, quando sotto il New Deal di Roosevelt il gold standard fu abbandonato, rendendo quindi la politica monetaria soggetta a pressioni democratiche, un leader del partito democratico e potente banchiere del tempo, Baruch, parlò indignato di conquista dello Stato da parte della folla (mob, che nell’accezione americana significa anche mafia).

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co) e nella dottrina (come la “economia politica costituzionale” di Buchanan, vedi paragrafo 18)5. Questo obiettivo è quanto viene perseguito con la costruzione dell’Europa. Inoltre, va anche annotato che l’ordoliberalismo ha un occhio specifico rivolto alla dimensione sociale ed esistenziale, in quanto, affinché il capitalismo vinca la sua lotta di classe, è necessario de-proletarizzare l’individuo, perché il proletario è per sua natura nemico dell’”ordine sociale”. Tale ordine deve essere basato sulla comunità gerarchicamente suddivisa e, però, intercomunicante, la quale consente una “vitalità” esistenziale dell’individuo (necessaria anche alla voglia di “imprenditorialità” che è ritenuta altrettanto cruciale per la salvezza del capitalismo). Al contrario, il proletario, prigioniero della urbanizzazione sfrenata necessitata dallo sviluppo industriale, sarebbe infelice, apatico, nichilista e riottoso. Si collega a questa dimensione esistenziale il fatto che nell’ordoliberalismo sia centrale il tema della sussidiarietà sia nel rapporto tra pubblici poteri e mercato, sia nell’organizzazione dell’apparato burocratico. Gli autori ordoliberali erano ben consapevoli del fatto che tra lo Stato e ogni singolo individuo c’è sempre una comunità, una serie di corpi intermedi all’interno dei quali ogni singolo individuo entra in relazione con altri, dando vita ad un complesso sistema relazionale. In questo senso, solo la sussidiarietà applicata anche al diritto permette allo stesso di articolare la società, cogliendone la complessità (Angelini et al. 2010, 11).

5 «Questi tentativi includevano la concessione alle corti costituzionali di poteri straordinari di giudizio sulla legittimità del diritto parlamentare, subordinando il processo legislativo parlamentare al controllo giurisdizionale, alla supervisione e al potere giudiziario di dichiarare invalido il diritto basato sulla regola maggioritaria. C’è stata anche, ad esempio, un’intensa discussione sulle regole dell’unanimità per la produzione legislativa (Buchanan e Tullock 1962; […] Buchanan e Wagner 1977) e più recentemente c’è stata l’introduzione di tetti al debito come vincolo costituzionale del potere parlamentare. Dall’inizio degli anni ’80, sono abbondati i tentativi istituzionali di rimuovere la supervisione democratica su elementi significativi del processo decisionale politico per affidare poteri decisionali a istituzioni tecnocratiche extra-democratiche basate su regole come, ad esempio, le banche centrali che sono state dotate di una maggiore indipendenza» (Bonefeld 2017, 756).

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È, quindi, un ulteriore segnale della “ordoliberalità” della creazione dell’Europa il fatto che la sussidiarietà entrerà esplicitamente nella “costituzione” europea (vedi paragrafo 16). Secondo Felice (2010), fra gli ordoliberali è Röpke l’autore che ha maggiormente sviluppato la nozione di economia sociale di mercato, convergendo con la filosofia sociale evoluzionistica di Hayek, e che è anche il più tradotto in Italia, dove furono Einaudi e Sturzo ad accoglierne il pensiero e, insieme, la prospettiva dell’economia sociale di mercato, promuovendole sia in sede accademica che nel dibattito pubblico6. Peraltro, Antiseri (2005), in particolare, coniuga strettamente l’ordoliberalismo tedesco col pensiero sociale cattolico espresso, per esempio, da Rosmini e Sturzo in Italia, dal cardinale Hoffner, allievo di Eucken, e dal padre gesuita von Nell-Breuning (il principale estensore dell’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno del 1931, dove il cruciale principio ordoliberale della sussidiarietà è già formulato) in Germania. Tuttavia, come tesi complementare a questa, va ricordato che, come Krarup (2019) ha recentemente sostenuto, è soprattutto il teologo luterano Dietrich Bohnoeffer (1995 [1922]) l’ispiratore dei primi pensatori ordoliberali (p.e., gli economisti Eucken e Lampe, il giurista Böhm e lo storico von Dietze), i quali svilupparono nel cosiddetto Memorandum Bohnoeffer del 1943 (il quale prende appunto il nome dal teologo che ne aveva espressamente richiesto la stesura come vademecum per la ricostruzione dopo la fine della guerra, da utilizzare anche per le trattative armistiziali che aveva in corso con altre chiese dei paesi alleati) uno specifico approccio evangelico luterano alla teoria economica e politica (si veda anche Fanti 2021, 63-66). Seguendo la descrizione di Grzonka (2018), sappiamo che il gruppo che inizia a incontrarsi mensilmente sotto la guida di von Dietze, Eucken e Lampe, che

6 «In particolare, Einaudi e Röpke furono amici e strinsero un sodalizio intellettuale che andò dalla seconda metà degli anni Trenta alla prima metà degli anni Quaranta. In pratica, un sodalizio iniziato quando l’economista italiano diede vita e diresse la “Rivista di storia economica” e intensificato durante il periodo dell’esilio in Svizzera, durante il quale Einaudi scriverà Lezioni di politica sociale e Röpke dirigerà l’Institut des Hautes Etudes Internationales di Ginevra» (Felice 2010, 50).

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insegnavano all’Università di Friburgo, si autodefinisce, autoironicamente, il “Consiglio di Friburgo”7, e che il testo principale è stato scritto da Ritter e quello pertinente all’ordine economico e sociale è il lavoro congiunto degli economisti von Dietze, Eucken e Lampe, e un’altra appendice, sul sistema giudiziario, è stata scritta dagli avvocati Böhm ed Wolf. Tre elementi sono a fondamento del Memorandum: 1) una fondazione decisamente cristiana, con la quale i principi cristiani sono usati come strumento per guidare l’azione pratica socio-economica, come si rileva dal titolo del paragrafo di apertura della seconda sezione, intitolato “Caratteristiche principali di un ordine politico comunitario secondo la comprensione cristiana”; 2) l’individuo posto al centro di qualsiasi ordine sociale o economico; 3) l’enfasi sui legami sociali che uniscono gli esseri umani, poiché la dignità degli esseri umani è garantita solo nell’ambito di una vera comunità, e, quindi, l’ordine economico deve rispettare le persone all’interno delle loro reti sociali, ma può farlo solo se tale ordine è il prodotto di un progetto consapevole. All’inizio di luglio del 1944 Erhard, anche lui stesso economista, aveva scritto un suo memorandum di 268 pagine (inviato in copia a un membro del “Consiglio di Friburgo”), il quale concludeva, in linea con il pensiero dei Friburghesi: «Mai più lo Stato sarà restituito al ruolo di guardiano notturno, perché anche l’economia più liberale – e specialmente tale economia – richiederà un organismo che stabilisca la legge e controlli l’adesione ad essa». Dopo la guerra Erhard fu primo ministro degli affari economici e nel 1948 sei membri del Consiglio originario di Friburgo furono chiamati a far parte del comitato consultivo del suo ministero: Eucken, Lampe, von Beckerath (che ha presieduto questo consiglio dal 1950 al 1954), Böhm, Preiser e Wessels, oltre allo studente di Eucken, Miksch. Da qui deriva l’introduzione dell’“economia sociale di mercato” in Germania e, quindi, nell’Unione Europea. In occasione dell’80° compleanno di Böhm, Erhard ha dichiarato: «Confesso liberamente che senza Walter Eucken, Franz Boehm, Wilhelm Röpke, Alexander Rüs-

7 Altri membri includevano il professore di storia e studioso della Riforma Ritter, il professore di diritto Marschall von Biberstein, il professore di fisica Mie, i pastori di Friburgo Hof, Horch e Dürr, insieme alle loro mogli.

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tow, Friedrich von Hayek, Alfred Müller-Armack e molti altri che hanno pensato e combattuto [al nostro fianco], il mio contributo a questo lavoro difficilmente sarebbe stato possibile». Quindi, è l’ordoliberalismo – magari con l’etichetta di “economia sociale di mercato”8 che era stata assunta per comodità in Germania – che ispira l’evoluzione architettonica dell’edificio europeo. Come affermano Dardot e Laval (2019), l’ordoliberalismo è stato il fondamento dottrinale essenziale dell’attuale costruzione europea fin dal suo inizio, e la filiazione dall’ordoliberalismo dello spirito che ha presieduto alla realizzazione del Mercato comune, e poi dell’Unione Europea, non solo è fuori dubbio, ma è esplicitamente rivendicata da suoi illustri esponenti. Tra i personaggi assai autorevoli delle istituzioni europee che riconoscono la fedeltà dell’Unione Europea al progetto e ai principi ordoliberali, annoveriamo (Conti e Fanti 2020, 574) il presidente della Bundesbank Jens Weidmann che l’11 febbraio 2013, alla conferenza di Friburgo, conferma che «tutto il quadro di Maastricht riflette i principi centrali dell’ordoliberismo e dell’economia sociale di mercato», Mario Draghi, che alla conferenza di Gerusalemme del 18 giugno 2013 non lascia spazio alla dissimulazione affermando che «la costituzione monetaria della BCE è fermamente ancorata nei principi dell’ordoliberismo», e il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, che nel 2015, dichiara di sentirsi vicino all’ordoliberalismo tedesco. Ma particolarmente significative per il riconoscimento della filiazione della UE dall’ordoliberalismo sono le esternazioni del Commissario europeo per il mercato interno e la fiscalità, Fritz Bolkenstein9, in una conferenza ospitata dall’istituto Eucken di Friburgo il 10 luglio 2000.

8 Sembra generalmente accettato che sia stato l’economista ordoliberale tedesco Müller-Armack (che fu anche segretario di Stato per i problemi europei, partecipando come tale alla stesura del Trattato di Roma del 1957 nel castello della Val-Duchesse vicino a Bruxelles) ad aver proposto nel 1946 tale formula definitoria, intitolando Economia sociale di mercato il secondo capitolo della sua opera Wirtschaftslenkung und Marktwirtschaft (Economia pianificata ed economia di mercato), ma, secondo alcuni, la frase gli era stata suggerita da Erhard almeno già nel 1945. 9 Bolkenstein è un uomo politico olandese, più noto come autore della direttiva dell’Unione Europea 2006/123/CE «Servizi», elaborata durante il suo

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Inizialmente Bolkenstein evidenzia il ruolo degli ordoliberali (in particola di Eucken) nella politica economica e monetaria della Repubblica federale tedesca: Il programma di liberalizzazione di Ludwig Erhard, usato per creare la “soziale Marktwirtschaft” o “economia di mercato sociale”, è nato in gran parte dal lavoro di un gruppo di economisti collegati all’Università di Friburgo, la cui scuola divenne nota come “Ordo-Liberali” dopo il famoso giornale “Ordo” in cui pubblicarono i loro articoli. Il più importante di questi era Walter Eucken […] Nella Germania del dopoguerra, che si stava risvegliando dall’incubo della dittatura, uno dei primi requisiti era che il nuovo ordine socio-economico dovesse essere basato sull’individuo libero piuttosto che sul sistema. Un altro requisito importante era che questo nuovo ordine dovesse offrire la sicurezza e la stabilità individuali nonché la libertà, dal momento che il trauma di Weimar era non meno il risultato dell’instabilità economica e monetaria di quel regime. A Bonn non poteva essere permesso di trasformarsi in un altro Weimar. Il modello ordoliberale di Eucken soddisfaceva entrambi questi requisiti […] Il risultato più importante delle idee di Eucken è innegabilmente la politica monetaria che la Bundesbank applica da quasi cinquant’anni […]. Il successo di questa politica essenzialmente ordoliberale può essere visto dal fatto che […] il marco tedesco era visto non solo come un simbolo di libertà ma anche come modello di affidabilità monetaria (Bolkenstein 2000, 2-3).

In riferimento a una proposta di Garton Ash nel saggio “The Case for Liberal Order”, in cui delinea la sua visione di un’Europa senza un’egemonia chiara, ma con al centro l’istituzione di un sistema di diritto privato europeo e l’integrazione della Convenzione europea per la protezione dei diritti umani nel trattato sull’Unione Europea (con ciò giustificando persino l’intervento degli Stati membri negli affari interni di un altro Stato), Bolkenstein chiarisce che l’impostazione ordoliberale dell’Europa prevede invece una chiara egemonia della Commissione e delle libertà economiche più che dei diritti umani:

mandato alla Commissione europea di Prodi tra il 1999 e il 2004, concernenti l’eliminazione degli ostacoli alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi, che tanti problemi ha creato in Italia nel rapporto fra il Governo e i bagnini degli stabilimenti balneari.

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È necessario un certo grado di coordinamento centrale, che sembra adattarsi meglio a una visione ordoliberale del futuro dell’Europa. Nella forma della Commissione europea, l’Unione ha un organo che è in una posizione eccellente per occuparsi del coordinamento delle politiche e della condivisione degli interessi […]. L’idea di Eucken di libertà nella sicurezza dovrebbe sicuramente essere al centro di una visione dell’Europa del futuro. Nella pratica europea, l’ideale della libertà è incarnato nelle Quattro libertà del mercato interno: libertà di circolazione di persone, merci, servizi e capitali (Bolkenstein 2000, 4).

Il progetto che nasce al vertice di Lisbona in quell’anno rappresenta una ulteriore ed ambiziosa tappa della “ordoliberalizzazione” dell’Europa: molto resta da fare perché tali libertà divengano certezze. La Commissione europea e il Consiglio sono consapevoli di questa sfida e l’hanno affrontata adottando un programma ambizioso di deregolamentazione e flessibilizzazione, riassunto nel documento finale del vertice di Lisbona di marzo scorso. L’avviamento delle misure proposte a Lisbona rappresenterà un progresso notevole nella realizzazione di un’Europa conforme alle idee “ordoliberali” (Bolkenstein 2000,4).

Inoltre anche il progetto della Unione economica e monetaria (UEM) è attribuito chiaramente al pensiero ordoliberale: Una sfida particolare è l’UEM. Questo ambizioso progetto non mira solo ad aumentare la libertà dei cittadini; è anche uno dei più importanti strumenti politici per stabilizzare la vasta economia di libero mercato che l’Europa costituisce e, come tale, è un prodotto tipico del pensiero ordoliberale (Bolkenstein 2000, 4).

Quindi, Bolkestein (2000, 5-7) scendeva anche nei dettagli del programma di riforme per realizzare integralmente l’Europa «ordoliberale», sottolineando quattro punti puntualmente destinati a impregnare la Costituzione europea e nel 2007 il Trattato di Lisbona, nonché tutti i provvedimenti successivi alla crisi del 2008: i) flessibilità di salari e prezzi tramite la riforma dei mercati del lavoro, ii) riforma del sistema pensionistico, iii) promozione dello spirito d’impresa perché, sebbene il capitale di rischio non manchi, tuttavia “gli europei sembrano dimostrare uno spirito di impresa insufficiente”; iv) lotta contro le dottrine, quali il relativi-

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smo morale ed epistemologico del nichilismo, e gli insegnanti che instillano scetticismo verso i valori liberali. Come sottolineato da Dardot e Laval (2019), Bolkenstein ha avuto il grande merito di ricordare che la costruzione dell’Europa era un ben definito programma che era inscritto nell’indirizzo dell’ordoliberalismo tedesco (facendo così chiarezza nella intenzionale confusione riguardante il senso dell’espressione tipicamente ordoliberale di «economia sociale di mercato», spacciata da molti per un sinonimo di una «Europa sociale» antitetica alla globalizzazione «ultraliberista» degli anglosassoni). Un chiarimento sulla definizione dell’ordoliberalismo come “economia sociale di mercato” – e sulla corrispondente confusione interpretativa riferita specialmente all’aggettivo qualificativo “sociale” – viene da Felice (2010, 47), che rileva il connubio tra “sociale” e “principio di sussidiarietà”, specialmente orizzontale, e che, per questo, sottolinea la vicinanza fra ordoliberalismo e cattolicesimo liberale10. L’ordoliberalismo etichettato come “economia sociale di mercato” ha trovato un recente esplicito riconoscimento di diritto positivo nel Trattato di Lisbona: l’art. 3 (ex articolo 2 del TUE), comma 3 del testo consolidato del Trattato sull’Unione Europea e del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) (G.U. C115, 9 maggio 2008) prevede che «l’Unione […] si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva». Una Unione Europea edificata – col minimo di politicità e il massimo di tecnocrazia manageriale cooptata da élites multinazionali – sulla base dei principi di una economia di mercato

10 «[...] i critici hanno spesso confuso l’espressione “economia sociale di mercato” con “economia di mercato sociale”. L’economia sociale di mercato scommette sulla capacità dei processi di libero mercato di perseguire finalità di interesse sociale, non contrapponendo affatto, di conseguenza, i concetti di “sociale” e di “mercato” e infine non identifica “sociale” constatale”; il “sociale” riguarda in primo luogo l’ambito della società civile, articolata secondo il principio di sussidiarietà orizzontale, oltre che verticale […]. Il riferimento al principio di sussidiarietà avvicina le posizioni ordoliberali ai teorici del cattolicesimo liberale» (Felice 2010, 47).

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concorrenziale imposti a livello costituzionale sembra essere la manifestazione perfetta del modello ordoliberale. Va inoltre ricordato che l’ordoliberalismo può anche essere interpretato nel senso della governamentalità di Foucault11 (come fa per esempio il sociologo De Michelis), intesa qui per definire i modi con cui i comportamenti e le vite degli uomini sono guidati dal potere e in questo senso l’ordoliberalismo è anche una biopolitica, ma nell’attuale sviluppo del biopotere12 esso non appare più un soggetto verticale ben definito e riconosciuto, ma «un sistema/apparato di potere, come la globalizzazione, i mercati o la rete». All’interno della sua visione biopolitica Foucault (2005) rilegge l’ordoliberalismo come arte di governo, dove primeggia la scelta di far fungere l’economia di mercato di per sé «non tanto da principio di limitazione dello Stato, bensì da principio di regolazione interna dello Stato, in tutta l’estensione della sua esistenza e della sua azione […] Detto altrimenti: uno Stato sotto la sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello Stato» (Foucault, 2005, 108), e dove viene posto come centro dinamico di questa economia di mercato non più lo scambio (quale caratteristica naturale degli umani, come dicono Smith e il liberalismo classico), ma la concorrenza. Inoltre, per gli ordoliberali, la concorrenza non è affatto naturale, ma può esiste-

11 Come è sintetizzato in Fanti (2021, 9), la governamentalità è una nuova razionalità di governo che può essere definita da Foucault, nei vari sviluppi della sua analisi genealogica, secondo una triplice accezione, la prima delle quali «si addice particolarmente alla modernità, ed è individuata, a sua volta, da una tripletta composta da un oggetto d’intervento (la popolazione come specie), una tecnologia di intervento (i dispositivi di sicurezza) e, infine, una scienza o sapere (la scienza economica) che giustifica in modo neutrale (vale a dire, a-politicamente e a-valutativamente) l’intervento e, nel contempo, contribuisce anche alla creazione dell’oggetto e della tecnologia di intervento medesime». 12 De Michelis (2016, 2-3) sottolinea l’aspetto relazionale e strategico del biopotere attuale «perché il potere non ha solamente la funzione negativa del reprimere ciò che viene ritenuto non-normale/non-conforme dal potere, ma soprattutto ha la funzione positiva e creativa del produrre certi comportamenti e certe azioni». De Michelis esprime anche una pessimistica conclusione per il destino europeo, in quanto «la biopolitica ordoliberale [è] diventata tanatopolitica e quindi nichilismo che sta distruggendo quell’Europa che pure voleva costruire secondo il proprio ordine e la propria pianificazione».

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re solo se artificialmente creata, nutrita e difesa dallo Stato, che la deve porre come sua norma fondamentale, come Grundnorm della sua costituzione, ed è questo il caso evidente dei Trattati e della produzione giuridica fondamentale e derivata della UE. Lo Stato ordoliberale non è più un arbitro tra capitale e lavoro, come implicito nelle politiche keynesiane, ma piuttosto «diventa arbitro-giocatore, produttore di integrazione di ciascuno nel meccanismo di mercato e di concorrenza (partendo appunto dal pregiudizio per cui lo Stato è intrinsecamente difettoso mentre il mercato non lo è o può essere corretto)» e la biopolitica ordoliberale diventa una politica della società, secondo Foucault, ma per una società da costruire appunto sul modello d’impresa. Per cui si arriva all’altro paradosso (che paradosso anch’esso non è) per cui se il liberalismo si opponeva al socialismo [perché dava] uno scopo al mercato e una finalità sociale allo Stato attraverso il piano e la programmazione e l’adozione di specifiche politiche […], in realtà anche l’azione dello Stato secondo la visione ordoliberale non è che un modo per dare uno scopo, una finalità all’azione di governo e dello Stato. Solo che finalità dello Stato ordoliberale è quella di modellizzare tutti e ciascuno su impresa, concorrenza e mercato (De Michelis 2016, 6).

L’ordoliberalismo prescrive agli individui non tanto di fare impresa quanto, soprattutto, essere impresa, ovvero modella la società e gli individui sul principio della concorrenza: In altre parole, si tratta di generalizzare, diffondendole e moltiplicandole quanto possibile, le forme “impresa” […] di fare del mercato, della concorrenza, e dunque dell’impresa, quella che si potrebbe chiamare la potenza che dà forma alla società (Foucault 2005, 131).

L’obiettivo del progetto ordoliberale mira, da un lato, a generalizzare la forma “impresa” all’interno del corpo o del tessuto sociale; ma, dall’altro, vuole anche dire riprendere il tessuto sociale e fare in modo che possa scomporsi, suddividersi, frazionarsi, non secondo la grana degli individui, bensì secondo quella dell’impresa (Foucault 2005, 196).

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Ma questo significa che l’azione dello Stato deve realizzare la “ordoliberalizzazione” della vita individuale stessa, ovvero attivare una biopolitica ordoliberale, in cui l’individuo faccia di sé stesso e della sua vita, ad esempio, nel «suo rapporto con la proprietà privata, con la famiglia, con la sua conduzione, con i sistemi assicurativi e con la pensione […] una sorta di impresa permanente e multipla». (Foucault, 2005, 196). Inoltre la biopolitica ordoliberale deve far sì che l’individuo non sia più alienato rispetto al suo ambiente di lavoro e al tempo della sua vita, alla sua casa, alla sua famiglia, al suo ambiente naturale. Si tratta di ricostituire attorno all’individuo dei punti di ancoraggio concreti […]; come una Vitalpolitik che avrà la funzione di compensare quanto c’è di freddo, di impassibile, di calcolatore, di razionale, di meccanico nel gioco della concorrenza propriamente economica (Foucault 2005, 197).

Ecco quindi dispiegate, come necessario corollario delle precedenti priorità, tutte le politiche in tema di istruzione, formazione, cultura, manipolazione dell’opinione pubblica tramite spettacolo e pubblicità, che devono puntare tutte a convincere ogni individuo ad attivarsi in modo permanente e totalizzante, come se fosse una mission o una vocazione (beruf), per manutenzionare e valorizzare il proprio capitale umano ovvero la propria vita-impresa. Ma Foucault specula anche in relazione all’ordoliberalismo come cura per salvare il capitalismo condannato dalla spietata analisi marxiana. La caduta tendenziale del saggio di profitto preconizzata da Marx – e combattuta con l’imperialismo secondo la Luxemburg – viene frenata (e, quindi, il capitalismo salvato), secondo Schumpeter, dall’innovazione in senso lato; ma gli ordoliberali vanno oltre Schumpeter per andare al cuore del movente e del significato dell’innovazione, che non è altro che il livello del capitale umano: Se l’innovazione si verifica, vale a dire se si trovano cose nuove, se si scoprono nuove forme di produttività, se si fanno invenzioni tecnologiche, tutto questo non rappresenta altro che il reddito di un certo capitale, il capitale umano, vale a dire l’insieme degli investimenti che sono stati fatti in relazione all’uomo in quanto tale (Foucault 2005, 192).

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Insomma, in questo senso, la trasformazione della vita umana in vita-impresa o vita-capitale sarebbe la ricetta per sostenere il saggio del profitto. Tuttavia, non bisogna riferirsi all’ordoliberalismo come a una vecchia idea del secolo breve che sta fermentando pure nel nuovo secolo, non bisogna pensare ai suoi fondatori tedeschi come polverosi economisti e sociologi alle prese con il ferro e il fuoco delle guerre mondiali e delle rivoluzioni vere, con i principi religiosi ancora presenti seppure in gran parte secolarizzati; insomma, una idea nata in tempi lontani che, tuttavia, stranamente, affascinerebbe ancora i tecnocrati di Bruxelles e i cancellieri tedeschi. Piuttosto, l’ordoliberalismo sarebbe invece una proteiforme ideologia in grado di rappresentare – ancorché di influenzare o persino produrre – meglio di ogni altra, neoliberalismo americano compreso, la società globale dei media, delle reti, dei social e del virtuale. Perché la società 2.0 sarebbe, per quanto riguarda la vita, sia degli individui che della massa, come sostiene De Michelis, una costruzione ordoliberale, ed esprimerebbe l’ordoliberalismo per vari aspetti, in primis nel suo aspetto pedagogico; ma lo sarebbe anche ontologicamente e lo sarebbe ancor di più nel suo aspetto governamentale in senso foucaltiano. E oggi, l’ordoliberalismo – già egemone forse più del neoliberismo nella forma economica e tecnica assunta dalla società globale – dilaga e diventa egemone anche in rete e questa volta è ordoliberalismo 2.0 diventato il nuovo tutto, il nuovo ordine normativo tecnico ed economico che deve integrarsi negli altri ordini. Perché se l’ordoliberalismo è ciò che è stato sopra descritto, la rete allora è ordoliberale (più che neoliberista) per essenza, per pedagogia e per governamentalità della vita individuale e collettiva e lo è più ancora del vecchio ordoliberalismo fisico (De Michelis 2016, 8).

Ordoliberalismo è la trasformazione dell’individuo, e in specie del proletario, in una impresa individuale a capitale umano, impegnata a tempo pieno (e non più solo nel tempo di lavoro venduto contrattualmente) in una concorrenza spietata, anche quando è travestita da autonomia via Internet, come nel modello “uberizzato” che è, invece, sempre subordinazione ad un capitalismo di piattaforma:

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Perché ordoliberalismo 2.0 è gran parte della sharing economy (più spesso una mera economia della sopravvivenza che nuova new economy); è il modello Airbnb e Uber e soprattutto l’uberizzazione crescente del lavoro; è l’illusione dell’auto-imprenditorialità via rete (che comunque presuppone e obbliga ad una subordinazione all’apparato e al capitalismo di piattaforma); è la forma impresa che pervade l’economia in rete trasformando ciascuno in microcapitalista in ogni atto che compie e in imprenditore e ad esserlo a 360 gradi, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno; è nel principio della concorrenza-competizione che pervade l’economia in rete (anche quando si traveste da sharing) (De Michelis 2016, 8).

L’ordoliberalismo appare anche quando sia mascherato nella versione fintamente “solidaristica” della rete, dei social e della condivisione, dell’utilità sociale (ad esempio, per aiutare gli anziani e per portare nelle case la medicina), della riscoperta della creatività artigianale; l’ordoliberalismo è anche nella creazione di una (falsa) socialità in rete, anche se compensativa della freddezza della tecnica e degli effetti del mercato e che passa attraverso le retoriche della condivisione (in realtà noi condividiamo mentre loro, i signori della Silicon Valley fanno profitti – grazie al nostro condividere – con il Big Data e gli analytics, utili sì a monitorare ad esempio gli anziani da casa loro, e saremmo così in una vera economia solidale e sociale, ma che sono soprattutto una risorsa inesauribile per il business […]); e quelle del crowdfunding, del co-working, della peer production, del crowdsourcing, delle social street e delle piccole comunità in rete e delle smart cities. Per un futuro fatto di tante piccole fabbriche personali e un movimento incessante di artigiani digitali che finalmente sostituirà la pessima produzione di massa (De Michelis 2016, 8-9).

E se nell’ordoliberalismo novecentesco l’arbitro era lo Stato, e, come sosteneva Erhard, rimaneva fuori dal campo di gioco, «in rete arbitro è oggi lo stesso mercato […] e lo Stato semmai è divenuto ancor più giocatore della squadra del mercato e dell’innovazione tecnica, squadra che gioca contro nessuno perché l’avversario (come l’arbitro) ha abbandonato il campo da tempo» (De Michelis 2016, 8-9). Ma cosa ancor più rilevante, nell’attuale “società 2.0” si realizza una nuova convergenza anche dottrinale fra ordoliberalismo e neo-liberalismo, specie nella sua versione anarco-capitalista americana, in cui convivono imprenditori individuali (in realtà quei

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lavoratori che un tempo erano ritenuti – e, soprattutto, si ritenevano – proletari) e grandi oligopolisti, in cui si ricompongono la libera concorrenza anti-monopolistica perorata dagli ordoliberali tedeschi e i monopolisti che comunque “mimano” la libera concorrenza come supposto dagli economisti di Chicago: L’ordoliberalismo convola così a nozze con il neoliberismo austro-americano e con l’anarco-capitalismo della Silicon Valley; l’anti-monopolista ordoliberale si allea con gli oligopolisti neoliberisti e con il capitalismo delle piattaforme; la concorrenza vale solo per il nuovo proletariato digitale sempre più uberizzato (e sempre più individualizzato, quindi impossibilitato a costruire una propria coscienza di classe o di cittadinanza o di uscita dalla minorità) ma non per gli oligarchi del silicio e per gli imprenditori della quarta rivoluzione industriale. Tutti liberali – meglio: capitalisti – che agiscono su fronti diversi ma, appunto, convergenti tra loro nel costruire un ordine tecnico e capitalista apparentemente libertario e liberamente condiviso, in realtà potentemente biopolitico e religioso, integrante e omologante (ciascuno liberamente servile), economico e normativo-normante, destrutturante (la società e la democrazia) per strutturare meglio l’apparato. Per cui siamo tutti imprenditori, tutti capitalisti, tutti tecno-entusiasti, tutti connessi, tutti al lavoro nella grande fabbrica digitale globalizzata del tecno-capitalismo (anche se in forma individualizzata) (De Michelis 2016, 9).

Le tracce degli elementi principali dell’ordoliberalismo – sopra brevemente analizzati – possono essere riscontrate sia nella struttura istituzionale e organizzativa dell’Europa, sia nei suoi fondamenti “costituzionali”, sia, infine, nei suoi provvedimenti “regolatori” nel corso del tempo (elementi che ovviamente interagiscono fra loro). Ma anche il metodo che informa l’azione europea (dalla produzione normativa alla gestione organizzativa), come gli effetti finali della sua azione, sono importanti oggetti di analisi per rilevare gli aspetti neo-ordoliberali. Inizieremo con l’analisi della struttura istituzionale dell’Unione Europea nel prossimo paragrafo.

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2. L’architettura istituzionale della UE e i suoi pilastri neo-ordoliberali Ci sono quattro istituzioni politiche che gestiscono l’Unione Europea13: Commissione, Consiglio Europeo, Corte europea di Giustizia, Banca Centrale Europea. Inoltre c’è anche il Parlamento europeo, ma con una posizione più defilata o, per meglio dire, più da “passamaneria”. Analizziamole tutte brevemente, con spirito critico, attraverso una lente che faccia emergere, al di là dell’apologia mediatica che le avvolge, anche le loro deficienze democratiche e le loro ascendenze neo-ordoliberali. Il Consiglio europeo è composto dai capi dei governi nazionali. Più precisamente, il Consiglio Europeo comprende con la stessa dicitura il Consiglio europeo e il Consiglio dell’Unione Europea. Il primo è composto dai soli capi di Stato o di governo, che si riunisce 4 volte all’anno, prende decisioni in genere per “consenso” (cioè senza votazione), ha un ruolo, oltreché nell’eleggere il proprio presidente (una carica, rinnovabile per una volta, per due anni e mezzo), nelle nomine per gli incarichi più importanti dell’Ue: designa i commissari (e propone al Parlamento il presidente della Commissione), nomina l’alto rappresentante per gli affari esteri e la sicurezza, i vertici della Banca Centrale Europea, e inoltre indica priorità e linee generali dell’UE (ma non legifera). Invece il Consiglio dell’Unione Europea è composta dai ministri dei governi UE e si riunisce in formazioni flessibili (in tutto 10 possibili formazioni) con membri variabili (nominati di volta in volta dai governi UE) per tematiche: ad esempio se si riunisce nella formazione “affari esteri” saranno presenti i ministri degli esteri; se si riunisce come “Ecofin” (consiglio economia e

13 Tuttavia, secondo Streeck, sarebbe più sensato dire che esse principalmente non solo gestiscono, ma anche «mantengono e proteggono il mercato liberal-capitalista politicamente depoliticizzato dell’Europa, unito da una moneta comune […] esse corrispondono al modello di “Stato autoritario” di Schmitt nello scopo di proteggere l’economia capitalista dallo spettro del “pluralismo democratico”» (Streeck 2015, 367). Tuttavia, potremmo osservare che il modello di “Stato autoritario” di Schmitt, sopra richiamato, in realtà aveva l’ambizione di proteggere la “sovranità” politica dello Stato anche dalla invasione del capitalismo cosmopolita, depoliticizzato e tecnocratico.

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finanza) i ministri economici e finanziari (da notare che c’è anche l’Eurogruppo, che riunisce i ministri delle finanze dei 19 paesi componenti l’area dell’euro, ma non è una formazione del consiglio dell’UE, quindi non ha alcun potere, anche se appare strettamente collegato all’Ecofin, poiché si riunisce alla vigilia di ogni Ecofin e esprime le opinioni dei soli paesi dell’area euro). Da notare come si tratti di un sistema flessibile: i) ogni formazione può decidere su qualsiasi materia; ii) a prescindere dalla formazione convocata, la decisione è sempre considerata come se fosse presa dal Consiglio dell’UE nel suo complesso; iii) i paesi decidono in autonomia chi partecipa alle formazioni, purché si tratti di un membro (ministro o sottosegretario) del governo in carica. È interessante osservare come avviene l’approvazione di una legge europea. Premettendo che solo la Commissione Europea – che analizzeremo più avanti – ha il potere di assumere l’iniziativa legislativa, l’analisi delle procedure di approvazione di una legge proposta dalla Commissione, è utile sia per comprendere meglio il rapporto fra le due istituzioni in tema di funzione legislativa, sia per capire le procedure di formazione del consenso tipiche della governance. Infatti, quando la Commissione fa una proposta legislativa, il testo di quest’ultima non arriva subito sul tavolo dei ministri del Consiglio dell’UE per esame, discussione e voto, come ci si aspetterebbe. Invece, prima di arrivare all’approvazione (che come vedremo potrà avvenire anche senza esame e discussione del Consiglio dell’UE) la procedura si articola generalmente in 3 fasi successive:1) un esame tecnico, svolto da un gruppo di funzionari esperti per materia, provenienti da tutti gli Stati membri; sebbene questa fase abbia soprattutto l’obiettivo di analizzare “tecnicamente” la questione, in essa può già essere raggiunto un accordo tra paesi, da sottoporre all’approvazione dei ministri; 2) dopo l’esame tecnico, il testo arriva al “Coreper”, il comitato dei rappresentanti permanenti. Si tratta di ambasciatori dei 28 paesi, che hanno lo scopo di preparare la discussione in Consiglio e se possibile cercare una mediazione diplomatica. Se nel gruppo dei funzionari non è stato trovato un accordo, il Coreper può negoziarne uno oppure richiedere un nuovo esame tecnico. Altrimenti sottopone la questione al Consiglio dei ministri; 3) la formazione competente del Consiglio dell’UE esamina il testo

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alla luce del lavoro preparatorio, sia tecnico che diplomatico. Se nelle sedi precedenti è già stato trovato un accordo, e nessun paese si oppone, può approvare il testo senza esame e discussione, altrimenti il dibattito procede anche in questa sede. Ricapitolando, a supporto del Consiglio vi sono i consigli composti dai vari ministri nazionali per tipo di ministero, per esempio, finanza, interni e affari esteri, e, fra questi, spicca il cosiddetto Ecofin (Euro-gruppo dei ministri delle finanze degli Stati membri dell’Unione monetaria europea). Il Consiglio è sia l’organo legislativo (ma solo nel senso che è chiamato ad approvare le leggi presentate dalla Commissione, come vedremo sotto) che esecutivo dell’UE. Questa combinazione di poteri, che quantomeno viola la regola della separazione dei medesimi, è, secondo molti, «di per sé una caratteristica distintiva di un regime di autoritarismo» (Streeck 2015, 367). La struttura e le procedure di questo livello decisionale hanno la caratteristica – tipica della cosiddetta diplomazia “multi-livello” – di tendere a rendere “irreversibile” una decisione presa, in quanto per la rappresentanza democratica nazionale (p.e., il Parlamento nazionale) è quasi impossibile invalidare tale decisione. Questa quasi-impossibilità dipende principalmente da due fattori. Il primo sta nel fatto che i rappresentanti delle differenti nazioni, per natura, non possono che mostrare sensibilità differenti rispetto al medesimo problema, e ciò rende difficile la formazione di un’alleanza che condivida allo stesso modo le modalità di contestazione della decisione sovra-nazionale (anche perché l’assunzione da parte di uno o più Stati della responsabilità di riaprire una questione complessa li espone a rischi di esiti sia incerti che asimmetrici). Questa era cosa ben nota ad Hayek che, infatti, lo spinge a perorare già prima della seconda guerra mondiale la superiorità della federazione tra Stati (vedi paragrafo 19), e, diciamo, è anche strumento di potere ben noto che appartiene alla tipologia del “divide et impera”. Il secondo fattore è che i governi nazionali sono incentivati a cercare di ottenere la ratifica della decisione sovra-nazionale da parte dei propri parlamenti, soprattutto per due ragioni: la prima perché l’ottenimento della ratifica costituisce comunque un riconoscimento del potere del governo, e la seconda perché è relativamente facile ottenerla grazie alla implicita minaccia che una

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mancata ratifica comprometterebbe la posizione del governo nazionale rispetto agli altri governi e indebolirebbe così la posizione del paese nei futuri negoziati. Ancora una volta l’azione del Consiglio può corrispondere con successo alle motivazioni che sono al fondamento della costruzione europea, ovvero costruire uno scudo per il capitalismo, attraverso il raggiungimento di due obiettivi, quali il depotenziamento delle “pericolose” democrazie nazionali (i cui strumenti tradizionali sono i parlamenti liberamente eletti) e soprattutto l’eliminazione della lotta di classe più o meno presente nei singoli Stati membri. Rispetto al primo obiettivo, esso viene ottenuto facilmente, essendo il Consiglio un comitato di capi esecutivi che “comitateggiano”, per lo più informalmente e in segreto; come osserva Streeck (2015, 367), il Consiglio «serve anche a tenere a bada le istituzioni democratiche nazionali, in particolare i parlamenti nazionali, in quanto opera attraverso negoziati, tipicamente in segreto, tra i governi degli Stati sovrani». Per il secondo obiettivo, il ruolo primario del Consiglio consente, per così dire, una internazionalizzazione dei conflitti di classe nazionali, che permette, da un lato, di diluirli in un contesto spaziale più ampio e in un quadro di molteplicità di questioni che ne riducono la singola importanza, e, dall’altro, di trasformarli in problemi di politica internazionale, affidati alla prassi diplomatica, spingendo anche le diverse classi nazionali ad unirsi in nome dell’interesse nazionale da difendere nel contesto internazionale; in tal modo, per esempio, una forte lotta sindacale interna ad un paese viene trasformata in una questione diplomatica di pace internazionale, la quale rappresenta il nuovo altare su cui sacrificare la giustizia sociale così aborrita dai neo-ordolberali, come osserva ancora Streeck (2015, 367): Un’altra conseguenza del primato del Consiglio nella “governance” economica europea è che ridefinisce i conflitti di classe come conflitti internazionali, trasformando le questioni distributive tra classi in questioni internazionali. Ciò non solo incoraggia coalizioni inter-classiste a livello nazionale, ma mitiga anche i conflitti economici in quanto li incorpora in pacchetti di questioni più grandi, li consegna ai diplomatici e soprattutto li intreccia con questioni di pace internazionale. La diplomazia prende

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quindi il posto della lotta di classe e la cooperazione internazionale ha la precedenza sulla giustizia sociale.

Naturalmente la struttura dell’Unione deve anche fare attenzione ad impedire che i conflitti di classe, così depotenziati e repressi nelle singole nazioni, possano però «tornare sotto forma di ostilità internazionali» (Streeck 2015, 367). Inoltre, vale in generale la logica che più un regime multinazionale è diversificato in termini di strutture nazionali e di interessi economici di ciascun Stato membro, meno è probabile che il suo organo di governo sarà in grado di adottare misure discrezionali per correggere quelle che sono chiamate le “decisioni dei mercati”. La Commissione Europea (composta da 28 commissari designati dal Consiglio e approvati dal Parlamento Europeo14) è il governo, il potere esecutivo e parzialmente anche legislativo del sistema istituzionale europeo. Prepara il bilancio che sarà sottoposto all’approvazione di Consiglio e Parlamento. Sulla base di quel bilancio, gestisce le politiche di competenza dell’UE e assegna i finanziamenti europei. Rappresenta l’UE nelle relazioni con i paesi terzi, soprattutto nella politica commerciale e negli aiuti umanitari. Su mandato del Consiglio, negozia gli accordi internazionali per conto dell’Unione. Per assicurare la convergenza delle politiche economiche degli Stati invia raccomandazioni e valutazioni sullo scostamento dai parametri europei (come vedremo meglio nel paragrafo 6). Ma la Commissione non ha solo compiti esecutivi. Essa ha anche il monopolio dell’iniziativa legislativa (che invece in una democrazia rappresentativa è, come noto, prerogativa fondante del Parlamento). Infatti, è l’unica istituzione europea che può proporre nuovi regolamenti e direttive, che poi passeranno dal

14 Rileviamo che l’approvazione parlamentare dei commissari designati dal Consiglio appare dai dati storici come una mera formalità, tranne che nel caso di Rocco Buttiglione che nel 2004 fu “bocciato”, unico (o quasi, c’è stato anche un altro caso) fra le centinaia di commissari designati nella storia europea e mai contestati dal Parlamento.

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vaglio di Parlamento e Consiglio. Insieme a questi ultimi, stabilisce le priorità di spesa dell’UE. Appare evidente come la Commissione tende a porsi come il ramo esecutivo di un super-Stato europeo sovranazionale. Tuttavia, come abbiamo già notato in precedenza, più che trattarsi di una “competizione” fra la Commissione e il Consiglio, i due organismi agiscono invece come due poli di un’agenzia regolativa, la prima da “esperta” valuta il rischio e fornisce le misure e le soluzioni, e la seconda da “politico” lo gestisce operando scelte, insomma opererebbero come il “gatto” e la “volpe” per ingannare i popoli-pinocchi che credono di essere i titolari delle scelte secondo la democrazia liberale. Una valutazione politica “critica” del comportamento della Commissione – quale quella di Streeck (2015) – rileva come essa possa fare uso, pur essendo limitata dal Consiglio attraverso le modalità sopra dette, dei propri poteri amministrativi per blindare il mercato unico, cercando di ridurre le potestà degli Stati nazionali anche e soprattutto nei settori di loro competenza, come, ad esempio, il diritto del lavoro specie laddove garantisca ai lavoratori una capacità politica collettiva. Fondamentalmente, l’interesse istituzionale della Commissione a salvaguardare ed estendere i suoi poteri e le sue funzioni è meglio servito dedicando la sua agenzia alla liberazione delle economie nazionali dalla distorsione politica del mercato nazionale, per quanto democratica tale distorsione possa essere, promuovendo così l’integrazione dell’economia europea nella forma della costruzione politica e della tutela di un mercato comune ripulito dalla democrazia nazionale e non ostacolato dalla democrazia pluralista sovranazionale (Streeck 2015, 368).

In particolare, dopo la crisi del 2008 e le misure (vedi paragrafo 6) del cosiddetto Six-Pack, la Commissione è stata investita di competenze e poteri tanto ampi quanto indefiniti e quindi potenzialmente discrezionali ed arbitrari15. Per esempio, la nuova “Procedura per gli squilibri eccessivi”, facente parte dei regola-

15 Comunque, è stato anche rilevato che «gli eventi dalla crisi del 2008, tuttavia, hanno confermato e in effetti cementato il predominio del Consiglio, arrestando la Commissione nel suo ruolo di agenzia burocratica incaricata di attua-

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menti “Six-Pack” adottati alla fine del 2011, prevede una autorità praticamente illimitata per la Commissione rispetto ai suoi poteri di indagine sulle economie degli Stati membri, che mirano, attraverso una batteria di indicatori statistici, a scoprire gli squilibri e, nel caso che questi siano ritenuti “eccessivi”, a richiederne agli Stati la immediata correzione – anche con l’applicazione di dure sanzioni, indipendentemente da quanto previsto dai Trattati sulla divisione delle competenze fra UE e Stati nazionali (vedi il paragrafo 16). Infatti, la legislazione del Six-Pack ha definito solo le procedure attraverso le quali la Commissione può agire, senza però definire le dettagliate modalità e regole sotto le quali la Commissione avrebbe dovuto esercitare le sue funzioni. In generale, il diritto europeo trova la propria legittimità nei Trattati adottati dagli Stati membri democratici o nella legislazione europea adottata secondo il “metodo comunitario”16 definito dai Trattati. Quindi, poiché gli atti di governo emanati in applicazione del diritto europeo dovrebbero essere ritenuti legittimi in base al principio di “legalità”, secondo questo punto di vista la UE non avrebbe mai violato i principi dello “Stato di diritto”. Ma l’autorità attribuita, dopo la crisi, alla Commissione non sarebbe compatibile, come sostiene Scharpf (2015), con uno “Stato di diritto”. Infatti, dopo la crisi, la Commissione viene investita di poteri tali per cui, anche invocando in senso molto lato una legittimazione proveniente da una catena di deleghe, rimangono prevalenti i dubbi di costituzionalità e di legittimità democratica: In base alle normali norme costituzionali, tuttavia, tali regolamenti non possono legittimare l’esercizio da parte della Commissione di tale autorità […]. In totale deroga a qualsiasi pretesa di legittimità vincolata alle regole, pertanto, ciò che la procedura per gli squilibri eccessivi ha stabilito è […] un regime del tutto discrezionale il cui campo di applicazione dell’autorità delegata supera di gran lunga i limiti della delega generalmente ammissibile nelle democrazie costituzionali […] è normativamen-

re le decisioni del Consiglio e sorvegliare i paesi membri in aderenza ai trattati» (Streeck 2015, 368). 16 Il “metodo comunitario” è un processo decisionale della UE che, secondo il Trattato di Lisbona, si sviluppa attraverso l’interazione fra le istituzioni qui considerate e va a sostituire il “metodo intergovernativo”, segnalando in tal senso il passaggio della UE da organismo internazionale a organismo sovra-nazionale.

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te inaccettabile […] la mancanza di legittimità democratica dell’esercizio dell’autorità discrezionale della Commissione (Scharpf 2015, 392-393).

La logica ordoliberale, come sappiamo, consiste nel conferire il potere di stabilire le “regole del gioco” a un organo “tecnico” situato al di sopra dei governi ed è, quindi, bene rappresentata dal ruolo svolto dalla Commissione nell’architettura istituzionale della UE. Per la Commissione, la regola di comportamento è l’imposizione del diritto della concorrenza, al di là di ogni considerazione sociale. Questo è perfettamente in linea con la dottrina neo-ordoliberale. Il suo campo di intervento è quello della politica “industriale”, ma, paradossalmente, il suo compito è proprio quello di non attuare alcun intervento politico che non sia quello di controllo amministrativo e legale della conformità al quadro generale delle regole, delle quali l’imperativo della concorrenza è la principale. I poteri della Commissione sono sia di tipo strettamente amministrativo (indagini, fascicoli, etc.) sia di tipo legale (giudizio e applicazione di sanzioni). Quindi, la Commissione opera prevalentemente nei seguenti campi con le seguenti modalità: i) nei “servizi di interesse economico generale” – per esempio energia, poste, trasporti, telecomunicazioni – dove, in linea con la privatizzazione dei servizi pubblici e l’ideale del “consumatore-sovrano” che deve sempre essere in grado di scegliere dove servirsi, viene imposta la regola della concorrenza; ii) nel controllo – tramite il rilascio di autorizzazione e deroghe – sugli aiuti di Stato e le sovvenzioni di capitale pubblico (interpretabili in alcuni casi come sussidi), mostrando ampi poteri discrezionali nell’interpretazione del carattere legittimo o illegittimo dell’aiuto; iii) nel monitoraggio e sanzionamento delle imprese – tramite la direzione generale “Concorrenza” della Commissione – in relazione ad accordi, abusi di posizione dominante e concentrazioni. In questo ambito può adottare misure di divieto, ad esempio, di una fusione ritenuta incompatibile col principio della concorrenza. Quindi, complessivamente, la Commissione, di fatto – attraverso questo potere di supervisione, controllo e sanzionamento – “disegna”, come fosse la mano invisibile della concorrenza, le strutture dei mercati e dell’economia.

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Naturalmente il potere legale di applicazione dei propri principi non è esente da aspetti discutibili, che vanno al di là della legittimazione di tale potere, e che riguardano problemi connessi con la validità dell’analisi di mercato: per esempio, come viene definita la posizione dominante di una impresa? Secondo quali criteri può dirsi che sia di per sé un ostacolo alla concorrenza? Qual è la scala di analisi appropriata: un paese, l’Europa, il mondo? Ci sia consentita una digressione su questo aspetto. La caratteristica della politica della concorrenza messa in pratica attraverso la Corte europea di giustizia si basa sul concetto di “abuso di posizione dominante”. In particolare il concetto è trattato nell’art. 102 del TFUE, il quale stabilisce che l’abuso può consistere, in particolare: a) nell’imporre, direttamente o indirettamente, prezzi di acquisto o di vendita o altre condizioni commerciali sleali; (b) limitare la produzione, i mercati o lo sviluppo tecnico a danno dei consumatori; (c) applicare condizioni dissimili ad operazioni equivalenti con altre parti commerciali, ponendole in tal modo in uno svantaggio concorrenziale; (d) subordinare la conclusione dei contratti all’accettazione da parte delle altre parti di obblighi supplementari che non hanno alcun collegamento con tali contratti. Anche secondo vari studiosi di economia, il diritto europeo della concorrenza, e, in particolare le norme sulla posizione dominante, deriva dal pensiero ordoliberale17. Ad esempio, Gerber (1998, 264), afferma che: Anche la struttura delle due principali disposizioni in materia di concorrenza del Trattato di Roma (articoli 85 e 86) seguiva da vicino il pensiero ordoliberale e somigliava poco a qualsiasi altra normativa europea in materia di concorrenza dell’epoca. Mentre il divieto di accordi di cartello aveva analoghi nel diritto antitrust statunitense, il concetto di proibire l’abuso di una posizione dominante sul mercato era un nuovo importante sviluppo che era particolarmente strettamente associato al pensiero ordoliberale e al diritto della concorrenza tedesco e molto diverso dal discorso del diritto statunitense.

17 Va peraltro ricordato anche, con Akman (2009), che la tesi delle origini ordoliberali del diritto comunitario della concorrenza non pare corroborata da prove evidenti nell’analisi dei lavori preliminari e nelle bozze del Trattato di Roma.

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L’economista industriale Vickers (2005, F246) nella sua autorevole analisi sull’Economic Journal dei principi che informano il diritto europeo della concorrenza osserva che alcune delle radici intellettuali di questi principi possono essere ricondotte alla scuola ordoliberale di diritto ed economia con sede a Friburgo negli anni ’20 e ‘30. Per gli ordo-liberali, il diritto della concorrenza era fondamentale per la costituzione economica della società come vincolo all’esercizio del potere sia privato che statale nella sfera economica.

Secondo l’interpretazione corrente, per gli ordoliberali le imprese dotate di potere economico devono agire “come se” – as if – fossero soggette alla concorrenza, cioè come se non avessero tale potere economico. Ma quel che caratterizza l’idea della concorrenza ordoliberale incorporata nella giurisprudenza europea non è tanto il potere di mercato di una impresa (coi suoi danni per il consumatore e il benessere sociale), quanto certi comportamenti verso le imprese rivali che non sarebbero loro disponibili se non avessero potere di mercato. Come bene riporta Gerber (1998, 252-253), l’origine di questa concezione sta già nel diritto tedesco degli anni ’20 e consiste nella distinzione tra “concorrenza delle prestazioni” (Leistungswettbewerb) e “l’impedimento della concorrenza” (Behinderungswettbewerb). I primi includevano comportamenti che rendevano i prodotti di un’impresa più attraenti per i consumatori, tipicamente migliorandone le caratteristiche o abbassandone i prezzi, mentre i secondi si riferivano a comportamenti volti a ostacolare le prestazioni di una impresa rivale18.

18 Anche Vickers (2005, F246–F247) riporta la medesima analisi: «Laddove il potere di mercato non poteva essere eliminato, lo standard prevalente del diritto della concorrenza era che le imprese dominanti avrebbero dovuto agire come se fossero vincolate dalla concorrenza. Ciò consentirebbe alla “concorrenza delle prestazioni” (Leistungswettbewerb) di offrire offerte migliori al cliente. Ma non consentirebbe di “impedire la concorrenza” (Behinderungswettbewerb), cioè ostacolare la capacità dei rivali di offrire offerte migliori ai clienti. In un mercato concorrenziale c’è naturalmente concorrenza sulle prestazioni ma non c’è spazio per la concorrenza sugli ostacoli». Tale distinzione è oggi centrale tanto nel diritto tedesco, che, nella sostanza, anche in quello europeo (sebbene la Corte di giustizia europea non faccia esplicito riferimento alla distinzione fra concorrenza di prestazione e concorrenza di impedimento).

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Nelle intenzioni degli ordoliberali, la politica della concorrenza avrebbe significato soprattutto eliminare la “concorrenza di impedimento” per lasciare spazio solo alla “concorrenza per le prestazioni”. Vatiero (2015, 293) conferma la specificità ordoliberale del diritto europeo della concorrenza, osservando la differenza fra il concetto europeo di abuso di posizione dominante e quello statunitense di potere di mercato, che si basa sulle nozioni di “monopolizzazione e tentativo di monopolio” (Sherman Act, § 2), differenza che si estrinseca in un differente giudizio sulla liceità delle pratiche competitive: mentre nella pratica statunitense si giudica la pratica in sé indipendentemente dalla posizione che l’impresa occupa nel mercato, in Europa, al contrario, alcune modalità di condotta che sono legali quando perseguite da imprese non dominanti non sono più legali quando impiegate da imprese dominanti […]. In particolare, la Corte di giustizia afferma che la posizione dominante ha una sorta di responsabilità speciale; vale a dire che l’impresa dominante deve astenersi da comportamenti “abusivi”, anche se questi comportamenti possono essere consentiti per i suoi concorrenti.

Tuttavia la “focalizzazione” ordoliberale sull’”abuso” di potere economico più che sul potere economico medesimo, che mirerebbe, secondo tale linea di pensiero, non solo a mantenere la concorrenza nel mercato, ma anche a salvaguardare le libertà dei cittadini, può rivelarsi inutile proprio a quest’ultimo scopo, perché come rileva ancora Vatiero (2015, 305) il potere nel mercato, e non solo l’abuso di quel potere, potrebbe portare a una restrizione delle libertà. È perché la posizione di potere di mercato è una posizione asimmetrica […] e, quindi, le scelte di un’impresa dominante, anche se conformi alla concorrenza delle prestazioni, potrebbero produrre guadagni e conseguenze diverse/asimmetriche tra imprese dominanti e non dominanti nel mercato […]. In tal caso, la stessa concorrenza e non solo l’abuso di una posizione dominante sul mercato potrebbe ridurre il numero di concorrenti su un mercato e, come sottoprodotto, ledere le libertà.

La Corte di giustizia europea (CGE) è un tribunale che “di fatto” opera come una Corte costituzionale, essendo l’ultima istanza

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della legge sul territorio della UE. Su cosa si basa la potenza della Corte? Sulla applicazione della legge sulla concorrenza, quindi direttamente ispirata alla scuola ordoliberale tedesca. Infatti, la Corte, definendo i mercati competitivi come quelli in cui è perfetta la libera circolazione di beni, servizi, capitali e lavoro nell’Unione, ha utilizzato la sua autorità per istituire mercati competitivi laddove si presentasse un’opportunità per farlo. Naturalmente la “crociata” pro-mercato della CGE è iniziata da lungo tempo, e condotta con un disegno tatticamente abile che si è dispiegato sempre più chiaramente nel tempo19. La mossa cruciale è consistita nello stabilire preliminarmente il principio di “supremazia ed effetto diretto” del diritto europeo (rispetto al diritto nazionale),

19 L’azione della CGE si è quindi rivolta alla instaurazione dei principi neo-ordoliberali per via “giuridica” in tutti i campi possibili. Dell’utilizzo plateale della CGE allo scopo di eliminare i diritti dei lavoratori sul mercato del lavoro parleremo nel paragrafo 15. Qui evidenziamo brevemente, seguendo Guazzarotti (2016, 186-187), un utilizzo della CGE più indiretto, questa volta teso ad eliminare il legame fra cittadinanza nazionale e diritti sociali di welfare attraverso l’imposizione giurisprudenziale di tali diritti per cittadini di altri paesi. Innanzitutto osserviamo, che la potestà di delineare in concreto la fisionomia della cittadinanza europea è stato appaltata alla giurisprudenza della Corte di giustizia e questa si è concentrata su una nozione di cittadinanza funzionale ai soli cittadini europei “mobili”, transnazionali, imponendo l’obbligo agli Stati nazionali, per esempio, di estendere benefici a favore di cittadini comunitari non nazionali (come prestazioni sanitarie, borse di studio per studenti poveri o l’ammissione ai corsi di medicina di studenti che nel proprio Paese non sono riusciti a superare i test d`ingresso): ciò ha avuto l’effetto finale di danneggiare i cittadini stanziali e soprattutto di erodere i cardini della cittadinanza nazionale, ovvero i legami di fedeltà che legano il cittadino allo Stato in cambio di un welfare “nazionalista” e tendenzialmente discriminatorio verso i non cittadini. In questo modo si rendono i cittadini nazionali meno propensi a difendere uno Stato sociale poiché vedono che i suoi benefici sono accaparrati prevalentemente da soggetti “estranei”. È, peraltro, un effetto già ben presente negli Stati Uniti, dove ogni estensione delle prestazioni assistenziali viene vista come un beneficio a favore degli afroamericani. Inoltre un secondo effetto di questa azione della CGE, oltre a quello di de-fidelizzare i cittadini verso il proprio Stato, è quello di spingere le scelte degli Stati medesimi in direzioni neo-ordoliberali: «la Corte di giustizia indebolisce il controllo statale sull’equilibrio tra contributi individuali e prestazioni socio-assistenziali; la pressione sui confini della generosità statale così indotta assieme con la competizione fiscale stimola gli Stati a convergere verso un livello minimale di welfare […] la Corte sembra così partecipare al moto di “privatizzazione” e “individualizzazione” dei meccanismi di garanzia dai rischi sociali collettivi» (Guazzarotti 2016, 188).

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nel quale sono compresi ovviamente i suoi stessi pronunciamenti. Quali erano il significato e l’effetto di tale mossa? Possiamo concordare sostanzialmente con Scharpf che l’instaurazione del principio di “supremazia ed effetto diretto” del diritto europeo, detto in soldoni, significava che tutta la legge europea e la sua interpretazione giudiziaria avrebbero avuto la priorità costituzionale rispetto alle leggi e alle costituzioni degli Stati membri. In altre parole, le obiezioni politiche all’armonizzazione legislativa potevano essere aggirate – e lo sono state – dalla capacità della Corte di vietare i regolamenti e le prassi nazionali che, nella sua interpretazione, stavano ostacolando la concorrenza senza distorsioni e la libera circolazione di merci, servizi, lavoro e capitali (vale a dire, l’“integrazione negativa”) (Scharpf 2015, 386).

Come preliminare osservazione, ricordiamo che il processo di creazione dell’unità europea è avvenuto e può avvenire sostanzialmente attraverso due tipologie: i) un processo di integrazione “positiva”, ovvero attraverso una progressiva armonizzazione delle legislazioni dei vari paesi su tutte le materie; questo ovviamente comporta il consenso delle volontà politiche e la creazione di leggi comuni; ii) un processo di integrazione “negativa”, ovvero tramite il potere giudiziario che con la sua giurisprudenza uniforma le leggi, imponendo quelle europee nei singoli paesi ed eliminando le leggi nazionali non ritenute compatibili coi principi europei (Trattati, etc.). Mentre il primo metodo sembrava inizialmente favorito dai governi, uno specifico avvenimento segna il passaggio al secondo metodo. Il passaggio critico con cui si instaura la potenza della Corte e si diffonde inesorabilmente la liberalizzazione delle economie anche a dispetto della volontà dei singoli governi democratici, si ha nel 1963 e nel 1964, quando la Corte postula “la supremazia e l’effetto diretto” del diritto europeo sui diritti dei singoli Stati, che, per esempio, Scharpf definisce come un vero e proprio “colpo di Stato” a dispetto dei governi stessi, e di conseguenza, introduce l’integrazione negativa, “l’integrazione attraverso la legge”. Dal punto di vista dell’operatività del rafforzato potere della CGE, tutto sta in una trasformazione dell’interpretazione “legale” del Trattato: è stato sufficiente spostare semanticamente l’oggetto

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del divieto inserito nel Trattato. Infatti, la Corte aveva inizialmente interpretato come un divieto di discriminazione in base alla nazionalità quello che nel Trattato era codificato come un impegno a favore di un regime di libero scambio, quindi con riferimento a casi transnazionali. Invece la Corte ha trasformato la sua competenza dal controllo sulle discriminazioni fra differenti Stati al controllo sulla presenza di “impedimenti” alla concorrenza anche all’interno dei singoli Stati, e, dalla fine degli anni ’70, questa traslazione “interpretativa” dalla “non discriminazione” al “non impedimento”, anche in casi privi di aspetti transnazionali, è divenuta il “benchmark” per i giudizi della Corte: qualsiasi impedimento – trattasi sia di legge, regolamento, istituzione, pratica di costume – anche all’interno del singolo paese di una delle quattro “libertà economiche” (merci, servizi, capitali, lavoratori) del Trattato, che sia stato considerato come “barriera non tariffaria”, è stato eliminato dalle sentenze della Corte, le quali, come dice Scharpf (2015), sono divenute scolpite nella pietra costituzionale, creando un “effetto di trascinamento”, che ha quindi permesso ulteriori passi sempre e soltanto nella direzione di un’ulteriore liberalizzazione. L’“integrazione attraverso la legge” è divenuta così un modo per aggirare la legislazione politica – ogni qualvolta non fosse stato possibile raggiungere un accordo politico nel Consiglio – attraverso le sentenze della Corte. L’accortezza tattica con cui la CGE ha perseguito il suo programma è anche il risultato di una profonda fede dottrinaria nell’ordoliberalismo. Questa fede si era nutrita non solo dei capisaldi dell’ordoliberalismo tedesco, ma anche dello spirito neo-liberista che si era diffuso nei circoli accademici anglosassoni e nelle fila degli economisti dell’istituzione europea (e naturalmente nei circoli politici, come Reagan e Thatcher testimoniano in quanto esecutori paradigmatici della dottrina): La dottrina acquisì importanza pratica nelle crisi economiche degli anni ’70, che negli Stati Uniti e nel Regno Unito avevano rianimato il sostegno accademico e politico alle credenze neo-liberiste nell’efficienza della concorrenza senza ostacoli nei mercati liberalizzati. Gli economisti della Commissione europea tendevano a condividere queste convinzioni (Scharpf 2015, 386).

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Il perché sia stata privilegiata l’“integrazione negativa” come metodo per allargare la costruzione europea è già chiaro da quanto detto finora. Ma va ancora sottolineato il motivo per cui quel metodo era assolutamente efficace nel mettere in pratica il programma ordoliberale: perché con quel metodo la realizzazione di tale programma diveniva incontrastabile. Infatti, per contrastare la realizzazione, sarebbe stata necessaria la formazione di una volontà politica unitaria in grado di creare norme europee uniformi (cioè integrazione “positiva”) – in sostituzione delle normative nazionali che la Corte aveva respinto – ristabilendone in tal modo il contenuto originario, cosa quanto mai improbabile. Al contrario, un metodo politico invece che giudiziario sarebbe risultato inefficace, in quanto, per sostituire la via intrapresa dalla Corte nella sua così efficace crociata liberalizzatrice con l’altra via della integrazione “positiva” e poi proseguire col metodo politico tale crociata, sarebbe occorsa una volontà politica unanimemente di ispirazione neo-ordoliberale, che invece era quantomeno difficile da raggiungere, anche se probabilmente assai meno di quella che sarebbe stato necessario, all’opposto, per contrastare gli effetti dell’integrazione “negativa”. In ogni caso, l’integrazione “positiva”, per la stessa natura del suo processo decisionale, non poteva avere l’efficacia ottenibile attraverso le decisioni liberalizzatrici espresse caso per caso, ma di potenza coattiva per tutti gli Stati europei, dalla Corte. In questa costellazione storica, l’integrazione attraverso la legge ha assunto un ruolo cruciale nel promuovere la trasformazione neo-ordoliberale degli Stati membri del mercato comune. Per quanto detto sopra, la CGE potrebbe quindi essere accusata di un certo “autoritarismo”, soprattutto tenendo conto a quale contro-bilanciamento di potere20 essa sia stata esposta: praticamente nessuno, se si tiene conto che il Consiglio (la cui com-

20 Ricordiamo che nella democrazia liberale il naturale bilanciamento al potere giudiziario è rappresentato dal potere legislativo ovvero dal parlamento democraticamente eletto, che attraverso i suoi poteri potrebbe revocare gli effetti provocati da sentenze giudiziarie, che, come quelle della CGE, divengono “pietra costituzionale” anche nella legislazione nazionale, e che in assenza di un Parlamento realmente controbilanciante sono allora sintomo di un potere “autoritario”.

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posizione è ovviamente elitistica), che è l’unico organo legislatore di fronte alla CGE, richiede in genere l’unanimità per legiferare a correzione di una decisione della Corte. La “mission” che la Corte si è data è in sintonia con quella del Consiglio e della Commissione: la UE è la struttura sovra-nazionale che, secondo le idee prefiguranti di Hayek e gli auspici di ingegneria giuridica degli ordoliberali, si applica alla massima estensione delle quattro libertà mercatistiche, combattendo qualsiasi tentativo di contenere o distorcere i mercati, a livello nazionale e internazionale. Infatti, gli effetti sui singoli Stati nazionali dell’estensione dell’”integrazione negativa” per via giudiziaria sono stati pesanti: i) lo Stato ha quasi perduto il controllo sulla sua economia e suoi suoi confini; ii) lo Stato ha visto notevolmente ridursi lo spazio delle sue possibilità di azione – lo spazio degli interventi legalmente ammissibili soprattutto in materia economica; iii) gli Stati sono sempre più sottoposti alla pressione della concorrenza normativa e fiscale (come si vedrà nel paragrafo successivo). In conclusione, tirando le somme dell’evoluzione storica nel comportamento istituzionale manifestato dalla CGE, potremmo concordare con Streeck che essa comanda potenti strumenti per intervenire nelle politiche economiche nazionali e imporre loro ciò che è essenzialmente una costituzione economica liberale e in effetti neoliberista, protetta dalla politica democratica in parte dal design e in parte per default, in ogni caso esattamente come previsto sia dalla dottrina ordoliberale tedesca che dal “liberalismo autoritario” di Schmitt (Streeck 2015, 369).

La Banca centrale europea (BCE) è stata istituita in base al trattato sull’Unione Europea e allo “statuto del sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea (SEBC)”, il 1º giugno 1998, come unica banca centrale incaricata dell’attuazione della politica monetaria (nonché della vigilanza sugli enti creditizi) per i diciannove paesi dell’Unione Europea che hanno aderito all’euro (UEM). L’obiettivo prioritario del SEBC (e quindi della BCE), secondo quanto stabilito dallo statuto stesso e dal TFUE, è “unico”: la

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stabilità dei prezzi21. Da notare che invece la Federal Reserve ha un duplice obiettivo: stabilità dei prezzi e piena occupazione. Gli altri obiettivi (definiti dall’articolo 3 del Trattato UE, fra i quali promuovere la pace, la crescita economica basata su un’“economia sociale di mercato”, il progresso scientifico e tecnologico, la lotta all’esclusione sociale e alle discriminazioni) possono essere perseguiti solo se non compromettono l’obiettivo di stabilità dei prezzi. L’organizzazione della BCE è basata su quella della Bundesbank tedesca, prevede che gli organi direttivi siano costituiti (articolo 109A del Trattato) da un Comitato Esecutivo, a cui capo siede il presidente della BCE (il governatore), e comprende il presidente e il vicepresidente della BCE e quattro altri membri, tutti scelti tra personalità aventi autorità ed esperienza professionale riconosciute in materia monetaria o bancaria, nominati dal Consiglio europeo che delibera a maggioranza qualificata su raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea sentito il parere del Parlamento europeo e del Consiglio direttivo della BCE, e dal Consiglio direttivo costituito dai membri del comitato esecutivo e dai rappresentanti delle altre banche appartenenti all’eurosistema. Il processo decisionale è centralizzato a livello degli organi direttivi della BCE sopra detti. La BCE gode di un’assoluta indipendenza nell’esercizio dei suoi poteri: i modi di utilizzo dei suoi poteri e di raggiungimento degli obiettivi prefissati sono state, infatti, direttamente delegate alla BCE stessa. Una prima osservazione riguarda la sovranità della BCE: essa è probabilmente la banca centrale più indipendente del mondo e la sua politica monetaria la più depoliticizzata22, in quanto le altre banche centrali sono incorporate in uno Stato con giurisdizione co-estensiva e devono affrontare un governo e un pubblico allo stesso livello territoriale e politico, mentre la moneta e il mercato comune che la BCE gestisce sono apolidi (come

21 Nello specifico l’obiettivo è assicurare che il tasso di inflazione di medio periodo sia inferiore ma prossimo al 2%. 22 «Ciò rende la BCE la banca centrale più indipendente del mondo e il suo regime monetario il più depoliticizzato» (Streeck 2015, 369).

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è, essenzialmente, anche il sistema legale governato dalla Corte di giustizia europea). L’unione monetaria ha creato una moneta che è un mezzo di scambio e una riserva di valore, ma che non deve avere effetti “reali” (come invece avrebbe nell’impostazione di Keynes). Questo è già evidente nell’esclusione fra i suoi obiettivi del perseguimento della piena occupazione23. Da dove deriva la sua legittimità la BCE? Ovviamente non da una base fondante democratica, ma dalla sua presunta competenza tecnica. Competenza tecnica come mezzo, sì, ma per quali fini? L’unico fine è quello di mantenere la stabilità dei prezzi ovvero per garantire il funzionamento e la indipendenza (da ogni tipo di politica pubblica) dell’economia di libero mercato. Quest’ultimo ruolo appare evidente nel fatto che la BCE ha avuto un ruolo guida negli accordi istituzionali nazionali e negli insediamenti politici per “riformarli”, a partire dalla sostituzione del governo italiano legittimato dalle elezioni con un governo tecnico (come si vede nel paragrafo 6). I governi insediati sulla base del programma politico redatto dalla BCE implementano quelle riforme consone con il nuovo regime monetario neoliberale, che certificano l’impossibilità per i governi nazionali di esercitare la sovranità nel campo sociale ed economico, sterilizzando la potenzialità democratica di veicolare a livello nazionale idee negoziate politicamente e istituzionalizzate: per esempio, idee di giustizia sociale correttive del mercato. A partire dalla crisi del 2008, la BCE – venendo meno al suo mandato ristretto alla stabilizzazione del prefissato tasso di inflazione e al mantenimento funzionale dei sistemi bancari e di pagamento, per i quali soltanto era quindi legittimata – ha esercitato il potere di disciplinare gli Stati e le società sovrane al loro interno secondo le regole di un regime neoliberista del mercato monetario. Infatti, la BCE attualmente agisce strategicamente non solo sul mercato monetario ma soprattutto nella ristrutturazione (le famose riforme strutturali) delle società e delle economie degli

23 In questo senso, piuttosto icasticamente, Streeck si esprime così: «La moneta europea, come concepito nei trattati che l’hanno creata, è moneta “austriaca”, ordoliberale e neoliberista» (Streeck 2015, 369).

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Stati nazionali in senso neo-ordoliberale, usando in particolare la sua potenza finanziaria di sovrano assoluto – il potere di ultima istanza in Europa – per “disegnare” un sistema di premi e punizioni per gli Stati nazionali volto all’obiettivo più generale di instaurare nuovi regimi politico-economici in essi (per alcuni aspetti tecnici del funzionamento di questo disegno vedi i paragrafi 6 e 18). Per esempio, riguardo al lato delle punizioni, la BCE può a sua discrezione trattenere liquidità dai sistemi bancari degli Stati che rifiutano di seguire le “raccomandazioni” ufficiali riguardo alle loro finanze pubbliche, alle dimensioni e alla composizione dei loro settori pubblici e persino alla struttura dei loro sistemi di fissazione dei salari […] gli Stati e i governi che non si “riformano” in linea con la rettitudine capitalista, e quindi non riescono a guadagnare la fiducia dell’alta finanza internazionale, possono essere puniti in un’ampia varietà di modi (Streeck 2015, 370).

Invece, riguardo ai premi per gli Stati virtuosi ed obbedienti, che attuano le “raccomandate” riforme strutturali istituzionali, la BCE (in violazione o elusione dei Trattati) può provvedere a stampare moneta per sostenere i loro sistemi bancari e il loro debito pubblico, facendola passare come ortodossa politica monetaria. La BCE è mandataria del mantenimento di un tasso di inflazione desiderabile per l’economia combinata dei suoi Stati membri e della stabilità dei loro sistemi finanziari e di pagamento. Ma le economie politiche nazionali che fanno parte dell’UEM sono, storicamente, strutturalmente diversificate e governate da diverse istituzioni democratiche che rispondono a differenti orientamenti della volontà popolare. Perciò esse tendono a rispondere in modo diverso al regime monetario e alla politica monetaria della BCE. Da ciò sono nate le gioie (per la BCE) e i dolori (per le economie, e soprattutto per i lavoratori, come vedremo meglio) che hanno caratterizzato la storia economica e politica europea nell’ultimo ventennio a partire dalla istituzione dell’euro. In effetti, che l’Unione monetaria europea non corrispondesse in modo ottimale agli standard ritenuti necessari per il suo successo, a causa delle troppo accentuate disparità economiche interne, era cosa nota. La crisi sarebbe quindi stata inevitabile oltreché prevedibile (vedi oltre i paragrafi 7 e 8). Ma l’idea che sotto la

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pressione competitiva, inesorabilmente “pompata” dal ponte di comando della UE e accentuata dalla crisi post-2008, le differenze fra le economie sarebbero sparite, aveva in realtà un suo senso: infatti, eliminata la pressione democratica e le inevitabili resistenze dei lavoratori ove essi fossero stati organizzati, si sarebbero anche eliminate le “anomalie” dei mercati del lavoro dei paesi ancora sindacalizzati. La crisi avrebbe quindi svolto bene il compito, posto che l’autoritarismo della UE e della BCE avesse funzionato a dovere. E in effetti pare aver funzionato meglio di quanto il “liberalismo autoritario” (vedi paragrafo 12), secondo Streeck (2015), avesse potuto prevedere: In effetti, difficilmente esiste un’istituzione che corrisponda più all’ideale del liberalismo autoritario della BCE. L’UEM, con il suo “mercato unico” e l’arredamento istituzionale minimalista, sembra evidentemente una realizzazione ideale dello “Stato autoritario” di Schmitt circa ottant’anni dopo il suo concepimento (Streeck 2015, 369).

Il ragionamento di Streeck si basa sulla possibilità della BCE, come sovrano, di “sospendere” la legge, ovvero i Trattati, e dichiarare lo stato d’eccezione; dichiarazione che, almeno aneddoticamente, può essere fatta coincidere con l’ormai famosa frase usata dal presidente della BCE in un incontro con gli investitori finanziari a Londra, il 26 luglio 2012, quando gli è stato chiesto cosa avrebbe fatto la BCE per mantenere in vita l’euro ed egli rispose che avrebbe fatto «tutto ciò che serve» per preservarlo, aggiungendo poi: «E credetemi, sarà abbastanza»24. Di fronte a una tale frase e a quanto avrebbe fatto la BCE in seguito, Streeck vede un’applicazione inattesa della definizione di “sovranità” coniata da Schmitt, una “sovranità” che, a differenza di quello che avrebbe pensato il grande giurista tedesco teso a mantenere il diritto pubblico europeo post-vestfaliano, ha avuto lo scopo di rifondare gli Stati con una “costituzione economica” neo-ordoliberale:

24 Discorso di Mario Draghi, Presidente della Banca centrale europea alla Conferenza globale sugli investimenti, a Londra, 26 luglio 2012, disponibile all’indirizzo http:// www.ecb.europa.eu/press/key/date/2012/html/ sp120726.en.html.

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A chi non verrebbe in mente la definizione di Carl Schmitt dello stato di emergenza, l’“Ausnahmezustand”, essendo “Die Stunde der Exekutive”, l’ora dell’esecutivo quando “Not kennt kein Gebot”, quando il sovrano ha diritto e si dimostra tale per essere in grado di sospendere la legge e utilizzare qualsiasi mezzo disponibile, legale o extralegale, per garantire la sopravvivenza della comunità? Da diversi anni ormai, la BCE agisce abitualmente in modo extra legem per colmare il vuoto politico creato al centro dell’UEM dai suoi fondatori, con l’intenzione di integrare Euroland nell’economia di mercato capitalista a-politica del neoliberismo (Streeck 2015, 369-370).

In effetti, la forma giuridica della BCE è tale – p.e., la sua asimmetria giurisdizionale rispetto ai paesi della UEM e l’assenza di una controparte politica ai vari livelli dell’Unione, dai singoli Stati membri alla UE – per cui essa dispone dei poteri per dichiarare uno “stato di eccezione” e quindi gestirlo nel modo della dittatura commissaria25 anche attraverso un proprio diritto autocratico (per esempio le regole stabilite per i paesi europei in difficoltà finanziaria che ben difficilmente possono considerarsi correttamente derivate dai Trattati e dalle norme della UE): Data l’asimmetria giurisdizionale tra la BCE e i paesi membri dell’UEM, nonché l’assenza di una controparte politica altrettanto efficace a livello dell’UEM come nel complesso, la BCE è il dittatore ideale – l’unico agente in grado di prendere provvedimenti decisivi – quando si tratta di gestione delle crisi, ad esempio nel caso di inadempienza di uno Stato membro. Lo stesso vale per far convergere i paesi membri sul modello del capitalismo finanziario neoliberista, in adattamento ai requisiti di un regime monetario comune, uguale per tutti, in regola con i “mercati finanziari” (Streeck 2015, 370).

La BCE costituisce probabilmente uno dei più importanti – in senso qualitativo e quantitativo – esperimenti di creazione “artificiale” di un potere esecutivo autocratico, del tutto estraneo e

25 Quello di dittatura commissaria è un concetto discusso in particolare da Schmitt (1975), che, come già previsto in Rousseau e prima ancora nel diritto romano, si riferisce alla sospensione delle leggi vigenti tramite l’istituto dello stato d’eccezione, ma in base però a un diritto previsto dall’ordinamento costituzionale vigente.

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impermeabile alla democrazia liberale, posto a formazione, tutela e buon funzionamento dell’ordine di mercato capitalista26: Insieme al Consiglio, alla Commissione e alla Corte di giustizia europea, ma se necessario anche senza di essi, la BCE si è trasformata nel governo di fatto della più grande economia della terra, un governo interamente protetto dalla “democrazia pluralista” che agisce e può solo agire come custode e garante di un’economia di mercato liberale (Streeck 2015, 370).

In questo senso, usando ancora la cornice metodologico-giuridica fornita da Schmitt e da Heller (altro giurista tedesco degli anni ’30, coniatore del termine “liberalismo autoritario”, come vedremo nel par. 11) e riletta dai pensatori ordoliberali come Eucken e Böhm, si giustifica l’icastica conclusione di Streeck: «Lo “Stato autoritario” come creatore e protettore del “liberalismo autoritario” è arrivato» (Streeck 2015, 370). Naturalmente si può anche interpretare favorevolmente l’autocrazia e lo stato d’eccezione che caratterizzano la BCE, considerandola come un ente sempre benevolmente impegnato a stabilizzare, dare respiro, riformare, ingerire per il bene altrui, la cui forma operativa –ab-soluta ed extra-legem – dipende in fin dei conti dallo stile della sua guida presidenziale. Per esempio, Bellomo (2017), nel sottolineare lo stile rimarchevolmente estensivo del ruolo e dei poteri della BCE nel periodo di Mario Draghi27, commenta l’interventismo post-crisi della BCE di Draghi come

26 Naturalmente, per altri, la BCE non solo è democratica, ma avrebbe persino il compito metafisico-esistenziale di illuminare con la ragione le passioni istintive, ed è da considerare una idea «malsana che la BCE non abbia una sua legittimazione democratica. Ha un mandato politico. La scelta del presidente e del Board è dei governi dell’Unione monetaria eletti democraticamente. Nel mandato c’è l’indipendenza, scolpita nei Trattati. Le autorità indipendenti separano scelte tecniche da convenienze politiche. Proteggono, o dovrebbero proteggere, la ragione contro l’istinto» (de Bortoli e Rossi 2020, 55-56). 27 Draghi viene anche definito come ormai un keynesiano dedito alle riforme strutturali (!) che avrebbe sperabilmente potuto assurgere a un ruolo europeo decisivo: «Bisogna vedere se […] John Maynard Keynes oltre ai suoi baffi, con una barba posticcia, nel tentativo magari di non farsi notare troppo dal popolo tedesco, possa essere direttamente richiamato da Bruxelles, con o senza una modifica dei Trattati» (Bellomo 2017, 10).

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una sorta di politica monetaria d’emergenza o non convenzionale, che, attraverso il ricorso ad una interpretazione estensiva dei Trattati, cerca di incidere non solo sulla politica monetaria ma, in via mediata, anche sull’intera costituzione economica, e quindi anche sulla costituzione finanziaria e del mercato per cercare, nei limiti del possibile, di produrre effetti di stabilizzazione macroeconomica dagli effetti delle crisi e quindi di dare un po’ di respiro ai governi nazionali affinché possano attuare riforme strutturali interne che consentano loro di tornare ad avere le condizioni minime di partecipazione attiva sul mercato europeo e mondiale;

un interventismo che può estendersi, sebbene in teoria vietato dai Trattati, all’adozione di una politica monetaria definita di tipo marcatamente keynesiano con azioni d’ingerenza volte ad una palese incidenza più o meno diretta sulle politiche economico-finanziarie degli Stati membri, all’interno dell’area Euro, sempre finalizzata a compensare shock asimmetrici, che si dovessero generare a qualsiasi titolo, tra le diverse economie reali dei Paesi membri (Bellomo 2017, 7-8).

L’ultima (anche di importanza) delle quattro istituzioni portanti della UE è il Parlamento europeo, una istituzione elettiva che porta il medesimo nome – ma non avendone neppure alla lontana il ruolo – del Parlamento nella tradizione liberale democratica; esso probabilmente serve soprattutto a verniciare di un colorito democratico l’impalcatura direttiva della UE. Quale è il linguaggio con cui viene veicolata l’“autorità” dell’euro e della UE? Va innanzitutto notato come il richiamo esplicito ad una autorità superiore oggidì sarebbe scarsamente comprensibile, a causa della vincente e pervasiva narrazione della libertà di scelta dell’individuo, ovviamente come consumatore: se l’individuo viene convinto di essere l’imprenditore di sé stesso e che tutto ciò che lo riguarda dipenda solo dalla sua responsabile competitività, sarebbe poi assai arduo convincerlo a sottoporsi ad una auctoritas, la quale, oltretutto, dovrebbe richiamarsi non agli sviliti valori trascendenti ma alla “verità” e alla “bontà” utilitaristiche dell’equilibrio economico generale di concorrenza perfetta. Come ben intendeva Schmitt, mentre è possibile che il “politico” riesca ad essere efficace richiedendo l’obbedienza (e persino la vita) per la patria-nazione, ben difficilmente riuscirebbe ad otte-

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nere l’obbedienza e la disponibilità a morire in nome della verità del “teorema di Arrow-Debreu”28. L’autorità della UE dovrà allora richiamarsi sia all’autorità della competenza e della scienza economica, che è ovviamente in mano a una élite di sapienti (e questo le masse dovranno ben capirlo, visto la complessità del mondo tecnologico moderno, che è, per i neo-ordoliberali, del tutto incomprensibile per i singoli individui, come, peraltro, anche per qualsiasi soggetto collettivo, Stato compreso, tranne che per il dio “inverato” nella “mano invisibile” del mercato e nella “frusta” della concorrenza!), sia alla ineluttabilità dello sviluppo (ovviamente progressivo) della storia che conduce senza alternativa alla “globalizzazione” (e le masse possono facilmente percepirne la ineluttabile portata, basta che vedano come sia alla portata di chiunque fra loro farsi facilmente un week-end di vacanza in un altro continente!). Insomma, l’autorità deve parlare il linguaggio della tecnologia e della progressione della storia, magari con la tecnica del “politainment”. Tuttavia, qualcuno potrebbe domandarsi se il concetto di autorità non debba andare ancora insieme con quello di libertà politica, ovvero con la procedura democratica più o meno rappresentativa – come veicolato da decenni di narrazione liberale classica. Allora anche la UE deve offrire il simbolo democratico per eccellenza, la votazione a suffragio universale di un organo rappresentativo che si chiami parlamento. Si prevedono pertanto delle “elezioni” simultanee in tutti i paesi europei per eleggere dei rappresentati ad un Parlamento “europeo”. E che compiti statutari ha nella UE questo campione della libertà democratica? Nulla che riguardi un Parlamento come storicamente e giuridicamente inteso. Quindi che potere ha questo

28 Nel 1954 K.J. Arrow e G. Debreu fornirono una dimostrazione rigorosa – cosa che valse loro il Nobel – dell’esistenza e della configurazione di equilibrio di una economia generale concorrenziale. Questa dimostrazione poteva essere la risposta affermativa a se e come può funzionare un’economia di mercato, in cui gli individui siano gli unici attori del tutto indipendenti fra loro, formalizzando con successo nel linguaggio matematico la “mano invisibile” di cui parlava Smith nel 1776, quando affermava, senza dimostrazione formale a quel tempo impensabile, che «l’individuo che si propone unicamente il proprio profitto è come se fosse guidato da una “mano invisibile” a promuovere un fine che non faceva parte delle proprie intenzioni».

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Parlamento, ovvero i cittadini elettori, ovvero la democrazia? Sostanzialmente, nessuno, poiché quel “Parlamento” chiaramente non ha un potere “esecutivo” da controllare; manca del diritto di iniziativa legislativa; e non può cambiare la costituzione dell’“Europa”, se non altro perché non esiste una cosa del genere poiché le regole del gioco europeo sono state scritte dai capi di Stato e di governo sotto forma di trattati internazionali incredibilmente complessi e anche per gli specialisti del tutto illeggibili (Streeck 2015, 366).

Cosa sia, in estrema e polemica sintesi, il processo verso “più Europa” – sintagma che ha rappresentato un mantra intonato da tutti i politici e gli opinion-makers e che, se non ha ottenuto sempre gli sperati consensi di massa, non ha neppure generato una netta opposizione (almeno fino agli shock della Brexit e delle elezioni politiche italiane del 2018) – lo si può riassumere nell’immagine di un enorme tempio dedicato al mercato globale, costruito sopra precedenti luoghi di altri culti (gli Stati-nazione), abbattendoli e poi prelevandone alcune reliquie (sia, come nel caso di elezioni e parlamenti, da esporre in vetrine “ad usum delphini”, sia, talvolta, come nel caso di esercito e polizia, da utilizzare come strumenti della forza – di cui non dispongono i “sacerdoti templari” – per imporre decisioni da loro prese quando, purtroppo, non siano condivise da alcuni gruppi di cittadini): Oggi l’europeizzazione è sostanzialmente identica a uno svuotamento sistematico di democrazie nazionali di contenuto politico-economico, tagliando i resti di una democrazia “sociale” potenzialmente redistributiva, ospitata negli Stati-nazione, da un’economia che è cresciuta a lungo oltre i confini nazionali in un “mercato unico”, costruito e contrattato politicamente (Streeck 2015, 366).

Il seguente chiasmo di Streeck sottolinea in modo efficace la immodificabile alterità fra democrazia e governance29: Dove ci sono ancora istituzioni democratiche in Europa, non c’è governance economica […]. E dove c’è governance economica, la democrazia è altrove (Streeck 2015, 366).

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Sul tema della governance rimandiamo a Fanti (2021, parte II).

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Il compito del Parlamento europeo è quello di ratificare l’approvazione delle leggi proposte dalla Commissione e già approvate dal Consiglio. Ma ai parlamentari dell’Ue manca una prerogativa fondamentale che invece attiene a quelli nazionali: il potere di proporre nuove norme. Un recente contentino con lo scopo di democratizzare la Ue, ha attribuito al Parlamento nuove funzioni. Elegge il presidente della Commissione europea proposto dal Consiglio e per entrare in carica la Commissione deve avere l’approvazione del Parlamento. Inoltre vota sull’allargamento a nuovi Stati membri e sugli accordi internazionali (ad esempio i trattati commerciali). Per avere un tocco di cosmesi democratica nella UE, dal 2014 i partiti presentano alle elezioni europee i candidati per la carica di Presidente della Commissione, quasi che le elezioni europee fossero elezioni presidenziali, ovvero una forma di democrazia davvero quasi diretta: peccato che, al di là di qualche patetico endorsement del Parlamento medesimo 30, la cosmesi si riveli piuttosto “pataccara”, o detto in termini più tecnici, un ennesimo esempio di “democrazia di facciata”: Piuttosto che chiedere un voto a favore o contro “Europa” o l’Euro, i leader dei due blocchi centristi, centrodestra e centrosinistra, che non erano mai stati in grado di mostrare nemmeno la minima differenza nei loro interessi e persuasioni politiche, hanno deciso di personalizzare le elezioni e presentarsi come Spitzenkandidaten in competizione per la presidenza della Commissione europea, che ovviamente non è scelta dal “Parlamento” ma dai governi degli Stati membri, un esercizio di “Fassadendemokratie” (democrazia di facciata, nella definizione data da Habermas) se mai ce ne fosse stato uno (Streeck 2015, 366).

30 Per esempio, nel febbraio del 2018 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione in cui si dichiara non disponibile ad approvare un candidato alla Presidenza della Commissione che non sia stato presentato dai gruppi dei partiti prima del voto. Perciò anche nelle elezioni del 2019 i maggiori partiti hanno presentato dei candidati presidente (ad esempio, per il Ppe Manfred Weber, per i socialisti Frans Timmermans). Ovviamente, nessuno dei due è poi stato scelto come presidente della Commissione!

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Anche secondo Majone (2014) numerose sono le debolezze del ruolo del Parlamento europeo. Intanto, è un Parlamento solo di nome, mancandogli le prerogative per definirsi tale: Il Parlamento Europeo si differenzia dalle legislature delle democrazie parlamentari […] perché manca del loro potere di tassare, spendere e avviare la legislazione (Majone 2014, 1217).

Secondo, se già chiamarsi Parlamento pare poco sensato, anche definirsi “europeo” è un abuso di aggettivo, se non altro per l’inesistenza di un popolo europeo storicamente determinato: Più fondamentalmente, non rappresenta un popolo europeo (inesistente) nello stesso senso in cui un parlamento nazionale rappresenta una dimostrazione storicamente definita, e quindi non può rappresentare, anche in teoria, un interesse europeo generalmente riconosciuto che è qualcosa di più della somma dei vari interessi nazionali (Majone 2014, 1217).

Quindi la sua rilevanza diventa davvero striminzita; il Parlamento europeo non è, quindi, una istituzione portante ma una istanza di ordine inferiore: le elezioni europee sono “elezioni di secondo ordine”: utili forse per valutare la popolarità del governo nazionale in carica, ma in gran parte irrilevante come un’arena in cui le questioni europee dovrebbero essere discusse e risolte (Majone 2014, 1217).

Infine il suo significato appare irrilevante, mancando la funzione per il quale poteva trovarne uno, ovvero quello di fondare la legittimità democratica dell’architettura istituzionale della UE: il problema della legittimità dell’UE non era stato risolto dalle elezioni dirette del Parlamento europeo [...] perché il Parlamento europeo non gode di una legittimità democratica sufficiente per poter, a sua volta, legittimare altre istituzioni europee, come la Commissione (Majone, 2014, 1217).

Quindi, il tema della legittimità democratica di tutto il funzionamento della UE ovvero l’indagine su come e quanto la UE manifesti un deficit democratico – che per alcuni è proprio una totale assenza di democrazia – diventa centrale per la riflessione politica e giuridica.

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3. Il problema della legittimità della UE: deficit o default democratico Una valutazione dell’attività della UE in un’ottica di analisi dei costi e dei benefici secondo un principio di ottimizzazione “economica” conduce ad una semplice conclusione: la UE può espandere la produzione di norme, procedure, pratiche varie – che peraltro vedremo soffrono già di mancata legittimazione democratica e quindi con tale espansione si espande anche la “sofferenza” democratica – a dismisura perché non sostiene i costi di tale produzione. Infatti essi sono, per così dire, “esternalizzati”, in quanto sostenuti dagli Stati membri. Ed è ben noto dalla teoria economica del “fallimento dei mercati” che se le imprese non “internalizzano” i costi che fanno sostenere ad altri (alla comunità, per esempio, come nel caso dell’inquinamento ambientale), allora “producono” troppo e danneggiano troppo. È questo il caso anche dell’azione di produzione normativa della UE: sono possibili la costante espansione delle politiche di regolamentazione a livello europeo e la corrispondente crescita del deficit democratico perché i costi dei regolamenti non sono sostenuti dai regolatori sovranazionali, ma […] dagli Stati membri. Dato che le merci gratuite tendono ad essere utilizzate in modo inefficiente, non sorprende che il volume, i dettagli e la complessità delle normative europee siano spesso sproporzionati rispetto ai benefici […]. D’altra parte, i casi di veri e propri fallimenti normativi vengono raramente pubblicizzati (Majone 2014, 1217).

Ovviamente, la UE, mentre dichiara che è la sovranità del consumatore – che decide in modo ottimale secondo i suoi gusti – a “regnare” e a “ordinare” l’Europa – e quindi ad eliminare in tal modo eccessi e distorsioni che riducono il benessere sociale restaurando l’efficienza – non altrettanto potrebbe dire di sé stessa, in quanto svincolata da ogni giudizio e azione riequilibratrice di chicchessia, consumatori o cittadini che siano, al contrario di quel che accade invece ai legislatori degli Stati democratici: Tuttavia, le preferenze dei cittadini possono limitare le azioni dei legislatori […]. Se i legislatori sono costretti ad assumere posizioni pubbliche su programmi specifici, gli elettori possono ritenere i loro legislatori responsabili delle posizioni che assumono e degli effetti che producono. Un divario troppo ampio tra gli obiettivi dichiarati e i risultati effettiva-

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mente ottenuti invita alla punizione alle elezioni […]. Sfortunatamente, non esistono controlli democratici di questo tipo a livello dell’UE, dove politiche inefficaci possono persistere, non scrutinate e incontrastate, per decenni. E l’inefficacia politica non ha solo implicazioni pratiche, ma ha anche implicazioni normative (Majone 2014, 1218).

Quindi il “fallimento” della UE nella sua “eccessiva” attività “produttiva” di normazione produce un “inquinamento” per la comunità e i singoli cittadini, sottoposti ad un “governo” dettagliato in decine di migliaia di norme e a una trasformazione antropologica in animali da competizione che è tanto asfissiante quanto le emissioni di CO2. Quindi, se un “eccesso” di produzione di norme e procedure da parte della UE, grazie alla sua posizione da “free rider” sopra vista, rende di per sé già sospetto il fatto che esse siano tutte legittime da un punto di vista democratico, il passaggio ad una analisi più dettagliata del funzionamento della UE fa sì che il sospetto diventi, secondo la maggior parte degli osservatori, una certezza: quella che esiste un deficit democratico della UE. Le opinioni in merito variano solo sul fatto che esso sia congenito e irrimediabile, anche perché frutto di un preciso disegno proprio a ciò mirante, oppure che derivi da malfunzionamenti, magari anche intenzionali, ma che sia però correggibile tramite una nuova ingegneria istituzionale e nuove volontà politiche popolari e statali. Mair (2013), dopo aver analizzato le relazioni fra i due canali, quello della rappresentanza nel parlamento nazionale e quello della rappresentanza nel parlamento europeo, attraverso i quali i cittadini possono far sentire la loro influenza al livello della UE, tenuto anche conto delle sovrapposizioni (over-laps) fra i due canali, conclude impietosamente che le scelte in entrambi i canali diventano sempre più irrilevanti […] e le preferenze dei cittadini non costituiscono praticamente alcun vincolo formale o mandato per i responsabili politici interessati. Le decisioni possono essere prese dalle élite politiche a mani più o meno libere. Ciò che vediamo, quindi, è l’assenza di un’effettiva rappresentanza nel sistema politico dell’Unione Europea, in quanto [...] i cittadini mancano del massimo controllo […]. Nonostante l’apparente disponibilità di canali di accesso, le possibilità di input significativi e quindi di effettiva responsabilità elettorale sono eccezionalmente limitate. È in questo senso che

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l’Europa sembra essere stata costruita come una sfera protetta, al sicuro dalle esigenze degli elettori e dei loro rappresentanti (Mair 2013, 101).

Una ambiguità e una contraddizione sono anche al cuore della visione “economicista” della democrazia, introdotta da Schumpeter. Infatti, se il nuovo principio di “verità” (nel senso indicato da Foucault, per il quale si rimanda a Fanti 2021, parte I) è il “mercato”, allora anche la democrazia deve ridefinirsi secondo questa verità ed essere essa stessa un “mercato”. Infatti per Schumpeter la democrazia è: libera concorrenza per un libero voto […] quell’accordo istituzionale per arrivare a decisioni politiche in cui gli individui acquisiscono il potere di decidere mediante una lotta competitiva per il voto popolare (Schumpeter 1947, 271, 269).

Ma se da un lato questa definizione spazza via ogni retaggio etico, giuridico, politico, filosofico, divenuto inutile di fronte alla “verità” del mercato, e consegna la democrazia all’armamentario ideologico della teoria economica neoclassica, dall’altro però ribadisce la centralità del meccanismo elettorale; tuttavia questo viene però ad assomigliare al “banditore” che raccoglie le preferenze dei compratori e venditori, ovvero dei cittadini, e alla fine stabilisce il prezzo di equilibrio sul mercato dei voti ovvero il risultato delle urne. Quindi il meccanismo elettorale rimane il cuore anche del concetto della “democrazia come mercato” di Schumpeter e, quindi, anche la base – ma questo lo diciamo noi, perché tale concetto sarebbe del tutto inutile, e forse impensabile, per l’economista – della legittimità. In teoria, quindi, nella definizione schumpeteriana della democrazia nulla vieta, in linea di principio, che il mercato dei voti premi individui che non riconoscano gli altri “mercati” come fonti intoccabili di verità e pensino, quindi, a intervenire e ritoccare i risultati di quei mercati (per esempio, nei suoi aspetti distributivi). Per questo il meccanismo della democrazia rappresentativa su base elettorale e quindi anche il principio maggioritario diventano improvvisamente pericolosi per il (neo) liberale che desidera proteggere gli interessi capitalistici e considera il compromesso keynesiano – fra democrazia rappresentativa e capitalismo – da superare, perché

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già troppo limitativo di quegli interessi e comunque pericolosamente prono a ulteriori limitazioni. Quindi, dopo il 1989, in realtà, al contrario di quanto affermato dal peana mediatico per cui avrebbe vinto la democrazia rimasta come unica alternativa valida a livello mondiale, è invece la democrazia nella sua accezione tradizionale ad aver perso. Emergono infatti analisi politologiche che evidenziano come anche nel concetto tradizionale della libertà dei moderni, della libertà repubblicana uscita dalle rivoluzioni francese e americana, la democrazia non sia poi così importante. Come icasticamente afferma Zakaria «ciò di cui abbiamo bisogno in politica oggi non è più democrazia ma meno» (Zakaria 2003, 248), oppure, come, più sfumatamente, fa notare Pettit «mentre la democrazia è certamente riconosciuta come un’importante salvaguardia contro il dominio governativo, non viene mai presentata come il fulcro della politica repubblicana» (Pettit 1998,303). Emerge quindi, sulla scia delle perorazioni “hayekiane” e delle agende neo-ordoliberali, la necessità di costruire un livello politico elitario, un sistema, una sfera di potere, che protegga la “democrazia”, intesa come sistema capitalistico nel suo ordine concorrenziale, dalle decisioni “democratiche” dei cittadini. La governance politica, derivata da quella aziendale, sembra ben sostituire il tradizionale goverment liberale al fine di raggiungere lo scopo di “sterilizzare” il potere dalle richieste redistributive e da quelle che sono considerate dai neo-ordoliberali le invasioni predatorie dei politici democraticamente eletti: Facendo eco al tradizionale approccio Madisoniano o costituzionale alla democrazia, vari teorici e commentatori influenti hanno iniziato a declassare l’importanza o la centralità del voto popolare, ponendo invece l’accento sulla necessità del pluralismo istituzionale e di un processo decisionale più ragionato o persino esperto […]. In altre parole, sebbene le elezioni e altri modi di democrazia popolare rimangano importanti per le definizioni di democrazia del XXI secolo, non sono più privilegiati come garanti della legittimità. Anzi, semmai, ora sembra che le strutture del potere e del processo decisionale a volte debbano essere protette dalle persone e da un eccessivo “input”; cioè, sembra necessario creare, secondo le parole di Everson [2000, N.d.A.], “una sfera che è protetta […] da obiettivi redistributivi dirompenti” e che “serve allo scopo della democrazia salvaguardando gli obiettivi democraticamente stabiliti dalla

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politica dalle inclinazioni predatorie di un’élite politica transitoria” (Mair 2013, 97).

Ma perché allora, se il deficit democratico diventa sempre più palese, insistere a costruire una UE senza democrazia? Secondo Mair si possono fornire sostanzialmente tre tipi di risposte per spiegare l’apparente puzzle. Primo, perché l’Europa non è un demos31, perché non ha una sfera pubblica significativa, perché ha un approccio in sostanza soltanto regolativo e di policy, etc.; insomma perché è un sistema politico speciale che quindi non può essere giudicato con il metro con cui si giudicano i normali sistemi politici. Può essere illustrativo di questo tipo di giustificazione quello che afferma il politologo Weale: la concezione della democrazia associata allo Stato nazionale, sebbene tollerabile se vista nel modo di una bilancia dei valori in competizione, era basata su una particolare concezione della democrazia espressa in termini di formazione di volontà popolare maggioritaria attraverso la competizione dei partiti. Poiché questa versione della democrazia non può essere un modello per una democrazia europea (dato che non ci sono le condizioni per la sua realizzazione), dobbiamo riformulare la nozione stessa di legittimità democratica in termini ricavabili da altri filoni della teoria democratica (Weale 1997, 668).

Altrettanto illustrativo della quasi tautologicità di questo tipo di giustificazione è il commento quasi sarcastico che ne dà Mair: Weale avrebbe potuto anche suggerire, con maggiore franchezza, che se l’Europa non si adatta all’interpretazione standard della democrazia, allora dovremmo cambiare l’interpretazione. Invece di adattare l’Europa per renderla più democratica, dovremmo adattare il concetto di democrazia per renderla più europea (Mair 2013, 114).

31 Secondo il ragionamento di chi sostiene questa risposta, se la UE è priva di demos, allora – verrebbe da dire quasi per definizione – non può che essere necessariamente anche priva di democrazia: «Non vi è alcuna possibilità di una possibile democrazia nell’UE, perché non esiste un popolo europeo, nessun “demos”. Nessun “demos”, nessuna democrazia – abbastanza semplice» (Neunreither 2000, 148).

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Il secondo tipo di risposta vede i politici sul banco degli accusati: detto in soldoni, i leader politici nazionali – che agiscono più sulla base dell’interesse personale che del bene della comunità che dovrebbero rappresentare – sarebbero riluttanti a istituire istituzioni democratiche a livello europeo per non incoraggiare l’emergere di concorrenti istituzionali, e quindi, al massimo, potrebbero accettare solo elezioni-farsa in Europa (come di fatto accade). Il terzo tipo di risposta (che Mair ritiene il più serio e anche il più plausibile) argomenta che l’UE continua a svilupparsi senza mai prevedere forme tradizionali di legittimità democratica perché queste forme tradizionali di legittimità democratica non funzionano più. Anzi l’UE – e le varie istanze private non legittimate democraticamente che con essa sono implicate in varie forme “comitatologiche”32 nella governance europea – sarebbe in realtà una soluzione per fronteggiare l’inefficienza della democrazia basata sulla volontà popolare. In breve, l’UE non è convenzionalmente democratica e non potrà mai esserlo, per la semplice ragione che è stata costruita per fornire un’alternativa alla democrazia convenzionale: Semmai, l’eliminazione della democrazia popolare e delle forme convenzionali di legittimazione è l’opzione preferita e l’UE diventa la forma politica preferita proprio perché può eludere questi principi. Non è un caso che l’Europa sia stata costruita come alternativa alla democrazia convenzionale (Mair 2013, 117).

Se quindi la UE è stata intenzionalmente costruita per non essere democratica, allora ci si potrebbe ancora domandare il perché di ciò. In questo caso, naturalmente ci sono anche risposte che sono apologetiche rispetto alla costruzione non-democratica o a-democratica, le quali sostanzialmente tendono a giustificarla perché essa consentirebbe i) di trovare soluzioni ritenute necessarie da chi governa ma inaccettabili da molti dei governati negli

32 Il termine è un nostro neologismo che cerca di cogliere il fenomeno della diffusa ed invasiva pratica di governance tendente ad istituire “comitati” e “tavoli” per qualsiasi motivo.

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Stati membri che, in caso di democrazia, potrebbero respingerle attraverso le elezioni, ii) di usufruire di esperti tecnici che altrimenti in una democrazia non potrebbero far valere le loro soluzioni scientifiche33. Ma allora se queste sono due motivazioni cruciali e plausibili per fare una UE non democratica, allora sorgono per conseguenza logica due ulteriori domande: i) perché i cittadini elettori, pur ammesso che le loro opinioni non debbano contare niente, dovrebbero essere contrari alle decisioni politiche della UE?; 2) ammettendo pure che l’efficienza e l’efficacia siano maggiori nel caso che le decisioni vengano prese a livelli UE, questa supposta superiorità servirebbe ad attuare che cosa, per quali finalità sarebbe impiegata? Per i sostenitori della UE la risposta sarebbe facile: perché se i cittadini fossero lasciati a decidere ai vari livelli nazionali, essi perseguirebbero propri interessi particolari o di gruppo che non terrebbero in debito conto il bene comune, ed è proprio per attuare il bene comune che è importante avere la massima efficienza possibile. Ma allora chi definisce il bene comune? Perché mai cosa sia il bene comune dovrebbe saperlo e gestirlo una élite oligarchica auto-legittimantesi? Evidentemente il bene comune è quello che tale élite ritenga che sia. Ed è allora possibile conoscere quale bene comune intende attuare così paternalisticamente l’élite dell’istituzione europea? Sebbene di tale élite si perdano le sue identità ultime, nelle innumerevoli scatole cinesi che stanno dietro alla sua formazione (come si fa a diventare direttore della BCE? Bisogna superare un concorso pubblico, una selezione privata, un’asta, una riffa, una lotteria, una nomination di giurati, una iniziazione misterica o che altro?)34, non è difficile congetturare

33 Come sostiene Majone, che peraltro successivamente si è spostato su posizione acutamente critiche rispetto agli sviluppi del sistema politico della UE (come si può leggere più avanti nel testo principale), la governance della UE fa ricorso a competenze che i politici non avrebbero: «Agenzie specializzate, con esperti neutrali, possono attuare politiche con un livello di efficienza ed efficacia che i politici non possono avere» (Majone 1996, 4). 34 Quello delle modalità di selezione trasparente e legittimata delle élite tecnocratiche è un serio problema connesso al deficit democratico della UE: «In un mondo in cui la democrazia è il valore politico supremo, queste élite tecnocratiche

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che essa sia rappresentativa dell’establishment economico-finanziario. Quindi, la logica conclusione è che il bene comune non sia altro che il bene del capitalismo. E questo è in effetti quanti ritengono quei pensatori e politici, che come Hayek, Robbins, gli ordoliberali, i federalisti europei etc. (vedi paragrafo 19), stanno dietro al disegno della costruzione dell’Europa. Ma se la UE appare senza dubbio una costruzione “de-politicizzata” governata da una élite tecnocratica auto-referenziale che sovraintende a Stati “politici” democratici, dobbiamo anche considerare un possibile effetto di “feedback” dalla UE agli Stati nazionali in tema di ruolo della “politica”. Quindi, deve essere tenuto in conto anche l’effetto che indirettamente la UE esercita sulla “depoliticizzazione” all’interno degli Stati membri, sia riducendo ruolo, portata, credibilità dei partiti che depauperando e delegittimando le loro modalità di concorrenza democratica. A questo riguardo, Mair individua quattro tipi di effetti tutti convergenti alla riduzione della competizione politica tra partiti a livello statale. Il primo consiste nella limitazione dello spazio politico disponibile per i partiti concorrenti: poiché le politiche della UE sono deliberatamente armonizzate e il consenso da parte degli Stati è sostanzialmente forzato, o, se anche qualche Stato si opponesse al consenso, ciò di solito avverrebbe con l’accordo tra governo e opposizione, senza politicizzare l’oggetto del dissenso, lo spazio politico rimane limitato. Il secondo effetto consiste nella sottrazione ai governi dei possibili principali strumenti politici, essendo il processo decisionale delegato al livello europeo, ove ad esso si dedicano prosperanti istituti, comitati, agenzie, BCE, insomma una pletora di istituzioni non democratiche dalle quali partiti e politica sono deliberatamente esclusi. Inoltre la proibizione di tutte quelle tradizionali pratiche politiche (p.e., sussidi, politiche industriali, politiche del lavoro, politiche migratorie, etc.), in quanto incompatibili con il libero

non possono essere completamente autosufficienti; necessitano di altre autorità che possano selezionarle. Il fatto che questo non possa ancora essere appannaggio di élite di livello europeo selezionate democraticamente genera un impressionante squilibrio tra élite nazionali indebolite ma democraticamente responsabili ed élite europee rafforzate ma democraticamente irresponsabili» (Cotta 2012, 191).

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mercato, ha ulteriormente limitato il repertorio a disposizione della politica e, inoltre, mancando quindi la varietà di strumenti politici, ha ridotto la possibilità di ipotizzare interventi politici realmente differenti (cioè con strumenti differenti) fra partiti in competizione, impoverendo così la politica nazionale35. Come terzo effetto, la diffusa percezione e accettazione fra i cittadini degli Stati membri di dipendere in modo sempre più stringente da organismi europei autocratici e irresponsabili, rende spontanea la domanda: perché allora partecipare e dare importanza a elezioni e a partiti politici, che per quanto legittimati democraticamente, poi, in realtà contano quanto il due di picche?36 Infine, in quarto luogo, c’è un effetto ingenerato, paradossalmente, proprio dall’unico organo europeo che dipende dal processo elettorale, cioè il Parlamento europeo. Nella misura in cui viene percepito dai cittadini che l’elezione europea è una perdita di tempo, può accadere un effetto contagio che ricade sulla politica nazionale: se il Parlamento europeo è considerato negativamente perché inutile e costoso, allora perché non pensare la stessa cosa anche del Parlamento nazionale? Se capisco che è inutile andare a votare per le elezioni europee, perché non dovrebbe essere lo stesso anche per le elezioni nazionali? Quindi, la creazione e lo sviluppo della UE ha l’effetto, intenzionale o meno, di de-politicizzare gran parte del processo decisionale a livello nazionale.

35 Infatti queste limitazioni poste dalla esistenza della UE sia allo spazio politico che al repertorio di “policies” dei partiti (metaforicamente, ciò potrebbe essere paragonato alla sottrazione del territorio e delle armi a un sovrano) «servono a ridurre sostanzialmente la posta in gioco tra i partiti politici e ad attenuare le potenziali differenze introdotte dai governi successivi […] per quanto riguarda le politiche o i programmi concorrenti, il valore delle elezioni è in costante calo. Grazie all’Unione europea, anche se non solo per questo motivo, la concorrenza politica è diventata sempre più depoliticizzata» (Mair 2013, 106). 36 Detto con parole più “tecniche”, «se le cosiddette istituzioni non maggioritarie prendono decisioni importanti e se queste sono accettate e accettabili, allora devono essere sollevate domande sulla centralità, la pertinenza e la pura necessità di quelle istituzioni che dipendono ancora dalle elezioni. In breve: la politica viene svalutata nella misura in cui le decisioni chiave vengono prese da organismi non politici» (Mair 2013, 107).

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Allora si può sostenere che l’esito complessivo dei quattro effetti dell’integrazione europea in termini di promozione della depoliticizzazione e del disimpegno civico anche a livello nazionale non sia soltanto il familiare deficit democratico a livello europeo, ma anche una serie di deficit democratici all’interno degli stessi Stati membri. Poiché il processo decisionale democratico si rivela marginale al funzionamento della politica europea a livello sovranazionale, tende anche a perdere il suo valore nel funzionamento delle varie politiche a livello nazionale. È in questo senso che, attraverso l’UE, i cittadini europei imparano a convivere senza un’efficace democrazia partecipativa. Imparano anche a convivere con una crescente assenza di politica […]. Il conflitto politico in questo senso viene annullato in Europa, dall’Europa (Mair 2013, 108).

Mair conclude che se non si può definire la UE antidemocratica, però la si può definire come non-democratica, e in particolare individua un forte deficit democratico nella costitutiva mancanza di un’opposizione nell’istituzione europea, mancanza che, come la scienza politica ci insegna, può condurre alla fine soltanto o ad una effettiva sottomissione dei cittadini con l’eliminazione di ogni opposizione (esito dei regimi autoritari) oppure a una reazione di opposizione di principio verso l’intera istituzione (antieuropeismo a prescindere). Una sintesi della visione del deficit democratico nella UE, condivisa da molti altri, è rappresentata dall’articolo nel 2014 di Dieter Grimm, noto giudice della Corte costituzionale federale tedesca dal 1987 al 1999, articolo uscito circa vent’anni dopo la sentenza di Maastricht della Corte, e che ha generato un dibattito col filosofo Habermas (sulla cui posizione vedi paragrafo 4). Grimm lamenta una separazione crescente tra i processi decisionali delle autorità dell’UE e l’espressione della volontà politica dei cittadini delle singole nazioni europee, di cui almeno tre sarebbero le cause principali: 1) il contenuto dei trattati internazionali ha implicitamente ottenuto, nel corso dei decenni, statuto costituzionale, e poiché questo contenuto esprimeva uno specifico modello di politiche – diciamo quelle coerenti col progetto neo-ordoliberale – questo modello particolare è stato elevato al livello di diritto costituzio-

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nale e quindi immunizzato contro il consueto processo di cambiamento politico; 2) poiché è stato scelto dalle élite europee, come tipo di processo di integrazione delle diverse società nazionali, l’integrazione “negativa” – che si realizza attraverso l’imposizione delle libertà di mercato – a scapito dell’integrazione “positiva” – che si realizza politicamente attraverso la formazione della volontà dei cittadini stessi (vedi paragrafo 4) – la diretta perseguibilità delle libertà economiche fondamentali poste come diritti soggettivi ha permesso di usare le sentenze della Corte di giustizia europea per sottrarre la possibilità ai governi democratici di decidere sulla maggior parte delle politiche economiche (alternative a quella delle élite della UE), e, quindi, di diffondere le politiche economiche neo-ordoliberali. Per esempio, nota Grimm, attraverso le direttive e il monitoraggio della Commissione e il controllo giudiziario della CGE, la semplice norma del divieto di aiuti distorsivi dello Stato alle imprese private viene esteso al pubblico, ledendo le motivazioni democratiche sottostanti alla fornitura pubblica di beni e servizi considerati essenziali e veicolando una “forzosa” privatizzazione che beneficia i capitalisti a danno della cittadinanza;37 3) la decisione politica a livello europeo è indipendente dall’influenza democratica espressa (pressoché soltanto) dalle sfere pubbliche nazionali;38 in particolare le decisioni della Commissione e della Corte di giustizia europea non sono sufficientemente legittimate; 4) per quanto riguarda le decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio dei ministri, viene rilevato che le elezioni nazionali da sole non possono autorizzare rappresentanti di diversi governi a partecipare alle decisioni su altre nazioni nel loro insieme. Quando il corpo dei cittadini, che eleggono i rappresentanti e legittimano le loro decisioni, non coincide con la gamma dei cittadini che sono interessati da queste decisioni, la

37 «Il divieto di aiuti di Stato distorsivi sarebbe esteso dalle imprese private alle istituzioni pubbliche che forniscono servizi essenziali e promuoverebbe la privatizzazione, indipendentemente dai motivi della fornitura pubblica di servizi» (Grimm 2014). 38 «I parlamenti non [sarebbero] più necessari per la produzione del mercato comune […] La Commissione e la Corte di giustizia europea potrebbero assumersi questo compito da sole […]» (Grimm 2014).

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patologia dell’eteronomia diventa inevitabile, e questa incentiva ulteriormente i governi ad esprimere a Bruxelles politiche differenti da quelle che emergerebbero dalla formazione della volontà dei loro elettori nazionali; 5) la lontananza del Parlamento europeo dai cittadini nazionali di cui dovrebbe rappresentare gli interessi, lontananza che però non potrebbe essere colmata dando al Parlamento un ruolo primario nel processo decisionale della UE. Infatti, comunque il Parlamento è scollegato dai cittadini, a causa, per esempio, della mancanza di una legge elettorale europea con partiti politici europei, liste di candidati paneuropee e campagne elettorali europee diverse per temi e personalità da quelle nazionali39, e, di conseguenza, estendere i poteri del Parlamento europeo causerebbe addirittura un peggioramento del deficit democratico, come afferma Grimm: «il bilancio della democrazia comporterebbe un indebolimento dell’UE dopo la piena parlamentarizzazione rispetto a prima». Lo stato della legittimità democratica della UE è stato osservato nella sua intera evoluzione storica da Majone, per cui il suo giudizio evolutosi nel tempo è particolarmente significativo. Infatti Majone (1996) rilevava che non esisteva davvero un problema di legittimità democratica nella vecchia Comunità Europea oppure nella UE. Il motivo di quel giudizio era che l’UE presentava poteri di tipo statale solo in aree limitate della regolamentazione economica e sociale, aree che anche in tutte le democrazie contemporanee sono ricoperte come strumenti di governo da istituzioni non maggioritarie40; la dottrina ritiene in tali casi che i problemi di legittimità di queste istituzioni siano relativamente minori nella misura in cui i) la loro indipendenza è limitata, ii) i loro compiti sono definiti in modo restrittivo. Poiché, in Europa, la discrezionalità degli organismi di regolamentazione nazionali

39 Per esempio, la mancanza di differenziazione tra i vertici dei partiti a livello europeo e nazionale fa emergere talvolta un conflitto nella elezione (a partecipazione paritaria del Consiglio e del Parlamento) del presidente della Commissione europea. 40 Cioè istituzioni investite di importanti funzioni pubbliche, come agenzie regolative di settori economici o in ambiti sociali, che però non sono direttamente responsabili nei confronti degli elettori o dei loro rappresentanti eletti.

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era, in generale, ancora più limitata (per esempio più che negli Usa), Majone poteva concludere che per quanto riguardava la Comunità europea, la legittimità indiretta fornita dal carattere democratico degli Stati membri era sufficiente a legittimare la delega di tali limitate competenze a livello sovranazionale, sebbene avvertisse che «dubbi sulla legittimità delle istituzioni non maggioritarie […] aumentano in proporzione diretta al ruolo crescente di queste istituzioni» (Majone, 1996, p. 287). Successivamente, Majone (2005) rilevava che i criteri sopra esposti per legittimare le istituzioni europei diventavano meno rispettati, specie per quanto riguardava il principale regolatore europeo, la Commissione, che si attribuiva vari compiti ulteriori oltre a quello di regolamentazione rigorosamente limitata, per i quali risultava sia ampliata la portata della sua scelta discrezionale, sia complicata la valutazione della efficacia delle sue prestazioni. Quindi a causa di ciò, diveniva dubbia l’esistenza di una sufficiente legittimità41. Pertanto, a causa dell’estensione del potere della Commissione a fronte della sua irresponsabilità politica, Majone, infine, concludeva che «almeno dagli anni ’90 il problema del deficit democratico non poteva più essere ignorato o minimizzato» (Majone 2014, 1217). Ma è soprattutto con la gestione della crisi e le corrispondenti modifiche della UE del 2012 che il problema del deficit democratico diventa rilevante. Si tratta, come detto in particolare nel paragrafo 6, del Trattato su stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria (il “Trattato di stabilità”, firmato come trattato internazionale da tutti gli Stati membri dell’UE, tranne Regno Unito e Repubblica Ceca), insieme a un pacchetto di regolamenti, pubblicato nel 2011, concernente varie misure quali i) l’applicazione della sorveglianza di bilancio nella zona euro; ii) misure esecutive volte a correggere squilibri macroeconomici

41 Majone assolveva invece dal sospetto di illegittimità democratica la BCE a ragione di due criteri, la “competenza istituzionale distintiva”, ovvero lo svolgimento di una funzione che nessun’altra istituzione potrebbe svolgere in modo efficace, e la facilità nella valutazione delle prestazioni, dato che semplici valutazioni statistiche sull’inflazione erano sufficienti a misurarne l’efficacia rispetto all’unico obiettivo della stabiltà dei prezzi.

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eccessivi; iii) rafforzamento della sorveglianza e coordinamento delle politiche economiche; e iv) la prevenzione e correzione degli squilibri macroeconomici. Una prima misura da considerare – quella per cui ogni Stato deve fissare un obiettivo di bilancio a medio termine (MTBO), rispettando rigidamente il pareggio di bilancio (che viene addirittura fatto inserire come norma costituzionale), che abbia obiettivi realistici e un piano per realizzarli e che deve essere sottoposto a valutazione da parte del Consiglio, il quale, a sua volta, può non essere soddisfatto e quindi “invitare” un governo ad aggiustare il suo programma – appare già stravolgere la normale democrazia liberale statale, in quanto «è il piano di aggiustamento che porta gli Stati in un regime dove la loro pianificazione di bilancio è co-governata dalle istituzioni dell’UE» (Chalmers, 2012, 679). La seconda misura da considerare – dato che il Trattato di stabilità prevede il requisito di un disavanzo di bilancio previsto o effettivo inferiore al 3% e un debito pubblico complessivo inferiore al 60% del PIL – è la richiesta di istituire, per ogni membro avente un deficit in eccesso, un “partenariato economico e di bilancio” – approvato dal Consiglio e dalla Commissione – che avvia riforme strutturali per garantire una correzione duratura di tale deficit, misura che appare, partendo dalla necessità di ridurre un problema di debito, intervenire nelle prerogative della sovranità democratica degli Stati, che finiscono per essere interamente governati dal “partenariato”: Così il co-governo non è semplicemente […] sulla riduzione del debito ma su ampie riforme che limiteranno la necessità di prestiti da parte dello Stato, sia perché la spesa statale sarà minore (vale a dire, uno Stato sociale più piccolo) sia perché le entrate fiscali più elevate. Il co-governo riguarderà quindi la struttura e la logica dei sistemi fiscali e assistenziali di uno Stato (Chalmers, 2012,680).

Infine, una terza misura consiste nel dovere da parte di ciascun Stato di correggere gli squilibri macroeconomici, che, se individuati dalla Commissione, richiedono un piano d’azione correttivo, con politiche dettagliate, disposizioni per la sorveglianza e un calendario, anche in questo caso in un regime di co-governo

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tra governi nazionali e istituzioni europee – in particolare la Commissione ed Ecofin. Caratteristiche particolari di questo co-governo sono, fra le altre, che i) il legislatore nazionale ha solo un mese per adottare la legge di bilancio previo parere della Commissione, ii) la Commissione e non il parlamento nazionale è la prima istituzione in cui il budget proposto di un paese in difficoltà finanziarie viene esaminato, iii) in Ecofin vi sono i ministri finanziari sia dei paesi debitori che di quelli creditori, i quali ultimi sono incentivati a disciplinare rigorosamente il paese in squilibrio, in modo da ridurre al minimo il rischio di dover offrire più risorse finanziarie a sostegno dei paesi in difficoltà finanziarie. Tutto questo porta a dubitare della legittimità della UE di appropriarsi della sovranità di un paese, in quanto in effetti con queste misure viene istituita una zona di influenza dominata dalla Commissione e da ECOFIN, con conflitti politici si svolgono all’interno di questi, ma l’atrofia della democrazia a livello locale conduce a un svuotamento dei processi nazionali interni in modo che questi diventino poco più che contenitori amministrativi (Chalmers, 2012, 693).

Un ulteriore esempio di esercizi abusivi del potere da parte di istituzioni UE, nel quadro dei già ampi poteri di controllo e sanzione, ce lo racconta Majone (2014). Nel 2011, il piano del bilancio irlandese è stato inviato in Germania per l’approvazione ancor prima che fosse visto dal parlamento irlandese42. Poiché la Corte costituzionale tedesca richiede che il Bundestag sia a conoscenza di impegni e rischi finanziari della Germania, la commissione finanza del parlamento tedesco ha discusso il bilancio irlandese prima degli irlandesi e a insaputa dei medesimi, il che è piuttosto paradossale. Ma un altro paradosso è che «per soddisfare propri obblighi costituzionali, il parlamento tedesco ha dovuto violare

42 «Secondo osservatori ben informati, le 40 pagine del documento che illustra in dettaglio i piani di bilancio dell’Irlanda per il 2012 e il 2013 e l’accompagnatoria lettera di intenti del Ministro delle finanze [irlandese] Michael Noonan sono stati inviati a ECOFIN dalla “troika” (Commissione, BCE e Fondo monetario internazionale)» (Majone 2014, 1221).

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un diritto fondamentale di un parlamento egualmente sovrano di un altro Stato membro» (Majone 2014, 1221). Tenendo quindi conto delle misure drastiche introdotte per la gestione della crisi, che, come abbiamo già arguito, non sono misure temporanee di emergenza ma interventi strutturali nel quadro dell’applicazione del progetto neo-ordoliberale, anche Majone osserva che la UE rivela chiaramente una volontà di sacrificare la legittimità democratica per salvare l’unione monetaria e quindi prende atto della gravità del problema, che ormai non è più definibile qualitativamente come un deficit ma come un vero e proprio disastro: A quel punto il deficit democratico dell’UE si trasformerebbe in un default democratico […]. Mentre la crisi si intensifica, tutte le soluzioni ad hoc proposte tendono ad aggravare il deficit democratico dell’UE. Non sono solo i cittadini ad essere esclusi dal dibattito sul futuro della zona euro; la maggior parte dei governi nazionali è costretta ad accettare le soluzioni proposte da alcuni leader in rappresentanza dei principali azionisti della BCE. Pertanto, il rischio di un completo fallimento normativo – un default piuttosto che un semplice deficit di democrazia a livello europeo – è ormai abbastanza concreta (Majone 2014, 1221-1222).

Come osserva Streeck (2015), la letteratura sul deficit democratico” europeo è infinita, e gli autori che contribuiscono sono divisi tra coloro che sentono di dover offrire rimedi istituzionali e quelli che non lo fanno perché ritengono che l’assenza di democrazia in “Europa” sia funzionalmente necessaria a raggiungere alcuni precisi obiettivi: o a rendere possibile l’unità europea o a promuovere il capitalismo neoliberista, oppure entrambi (di cui l’uno come perseguimento dell’altro). Ci pare però di dover aggiungere a questi anche coloro (fra cui forse lo stesso Streeck) che ritengono tale deficit irrimediabile per un motivo basilare: perché esso deve essere necessariamente costitutivo dello stesso disegno politico della fondazione europea. Questa fondazione è un parto riconosciuto del pensiero neo-ordoliberale, per il quale, come Hayek aveva dimostrato chiaramente già nel 1939 (vedi paragrafo 19), la riduzione della democrazia è un risultato ineliminabile e comunque intenzionale della costruzione federale.

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Peraltro in molti pensano che anche riformare la UE per farne una “unione politica” democratica – nel senso di elezioni popolari degli organi dirigenti oggi invece decisi solo dalle élite capitalistiche e manageriali – sarebbe solo uno specchietto per le allodole che in realtà oscurerebbe il mantenimento dell’attuale istituzione neo-ordoliberale coi suoi poteri autoritari e autocratici, come Streeck delucida: un progetto democratico per l’Europa, degno di questo nome, dovrebbe essere differente dai progetti per un’“unione politica” quali sono quelli perseguiti da strateghi autoritari e neoliberisti come Wolfgang Schäuble, a cui importa agevolare l’obiettivo di stampo neoliberista della centrale hayekiana di “governare con la forza”. Che i presidenti della Commissione o del Consiglio siano eletti o meno “dal popolo” non ha niente a che fare con la democrazia, poiché essi non contano nulla rispetto al presidente della Bce e della Corte di giustizia europea – per non parlare del presidente della Goldman Sachs (Streeck 2014, 205).

In conclusione anche una breve analisi dell’architettura istituzionale dell’UE per comprendere meglio come e da chi vengono prese le decisioni che riguardano i cittadini degli Stati-nazione, conduce facilmente a conclusioni pessimiste rispetto al presente e al futuro della democrazia. La relazione fra lo sviluppo della UE in senso neo-ordoliberale e lo stato della democrazia è il tema del prossimo paragrafo.

4. Prospettive per una “democratizzazione” della UE Se, da un lato, il riconoscimento che l’azione della UE attraverso le sue istituzioni soffre di un deficit democratico ed impone una invadenza dei poteri economici è molto diffuso anche fra i convinti europeisti (in buona fede), tuttavia, dall’altro lato, si riconosce spesso che le prospettive di cambiamento da alcuni ipotizzate per ovviare ai problemi individuati potrebbero non funzionare, o persino peggiorare tali problemi. Innanzitutto, ricordiamo che a seguito di una nota sentenza della Corte tedesca del 1994 che rigettava un ricorso sulla incostituzionalità della ratifica del trattato di Maastricht, si aprì un dibattito fra coloro (il giurista Grimm) che ritenevano che i Trat-

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tati europei avessero già valore di costituzione formale e coloro (Habermas) che, al contrario, sostenevano la necessità che l’Europa si dotasse di una Costituzione in senso proprio. Quest’ultima fu progettata e approvata a Roma nel 2004, ma, col disappunto dei vertici europei, fu ratificata solo da 18 paesi (tra cui l’Italia) su 27, e dove si svolsero referendum popolari, come in Francia e in Olanda nel 2005, fu bocciata alle urne. La via della Costituzione europea non aveva, quindi, trovato il suo popolo costituente e fu lasciata cadere43. Consideriamo tre diffuse proposte, formulate come risposta ai problemi sopra indicati, che, però, in realtà presentano alcuni insormontabili difetti. Una prima proposta suggerirebbe di estendere i poteri e le competenze della UE in campo economico, cioè l’estensione dei poteri della UE anche alle politiche economiche e fiscali che sono ancora – almeno in parte – prerogativa degli Stati nazionali, così aumentando il vincolo esterno per i medesimi. Detto in altri termini, poiché sovranità monetaria e sovranità di bilancio e fiscale appaiono attualmente separate e siccome l’esperienza recente (e anche la elementare teoria macroeconomica) ci suggeriscono che non possano rimanere separate, allora taluni propongono una semplice soluzione: togliere agli Stati anche la sovranità sulle politiche di bilancio e fiscali e trasferirla al livello 43 Tuttavia, secondo Becchi (2015, 163) «il progetto viene pertanto abbandonato, ma solo formalmente, nella sostanza si cerca di far rientrare dalla finestra ciò che i popoli europei avevano fatto uscire dalla porta trasformando la Costituzione in un nuovo Trattato, il Trattato di Lisbona entrato in vigore nel 2009. Ma è del tutto evidente che si tratta di un Trattato imposto ai popoli». Merita, inoltre, ricordare la suggestiva intuizione filosofica di Agamben (2007, 282), secondo cui «se a Grimm e ai teorici del nesso popolo-costituzione si poteva obiettare che essi rimandavano ancora a presupposti comuni (la lingua, l’opinione pubblica), a Habermas e ai teorici del popolo-comunicazione […] che essi finivano per consegnare il potere politico nelle mani degli esperti e dei media […] lo Stato olistico fondato sulla presenza immediata del popolo acclamante e lo Stato neutralizzato risolto nelle forme comunicative senza soggetto […] non sono che le due facce dello stesso dispositivo glorioso nelle sue due forme: la gloria immediata e soggettiva del popolo acclamante e la gloria mediatica e oggettiva della comunicazione sociale. Come dovrebbe oggi essere evidente, popolo-nazione e popolo-comunicazione, pur nella diversità dei comportamenti e delle figure, sono i due volti della doxa».

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della UE, rafforzando i poteri di gestione di entrambe le politiche. Un po’ come dire che se due persone ricevono una pensione di 100 e 200 sesterzi rispettivamente, allora per evidenti ragioni di eguaglianza- ragioni peraltro ben propagandate dal pagante delle pensioni – si debbono fissare entrambe le pensioni a 100 (e i non troppo intelligenti sostenitori del valore dell’eguaglianza approverebbero subito, non passandogli per la mente né che l’eguaglianza poteva essere stabilita anche portando entrambe le pensioni a 200 né che se sono state portate invece a 100 probabilmente il vero motivo non era stato quello nobile della valorizzazione dell’eguaglianza ma quello vile del risparmio ottenuto grazie al venir meno ad un impegno di pagamento). Quindi, la proposta appare quantomeno illogica, poiché consoliderebbe e rafforzerebbe lo stato di cose esistenti, offrendo al progetto neo-ordoliberale una ulteriore soluzione per ottenere il totale controllo attraverso la completa de-politicizzazione degli spazi economici e la privatizzazione degli spazi pubblici. In altre parole, la proposta di togliere agli Stati anche la sovranità fiscale sarebbe il vero completamento dell’Unione economica e monetaria secondo il progetto dell’ortodossia neoliberale prefigurato da Hayek nel 1939. Una seconda proposta suggerisce di estendere la “democrazia” all’interno delle istituzioni UE, così da poter prendere decisioni politiche democratiche a livello europeo che possono arginare l’invasività del potere economico e dei mercati. In questo caso, l’idea centrale è che, come nel caso precedente, gli Stati nazionali dovrebbero ancora cedere la loro sovranità alla UE, ma non tanto rispetto alle competenze economiche rimaste ancora in loro possesso, quanto, piuttosto, allo scopo specifico di sviluppare un sistema politico sovranazionale effettivamente “democratico”: per esempio, estendendo il controllo democratico sul funzionamento delle istituzioni europee attraverso l’elezione diretta del Presidente della Commissione o del Consiglio Europeo o affiancando al Parlamento europeo un’assemblea composta da membri provenienti dai parlamenti nazionali e dal parlamento europeo o comunque “democratizzando” tutte le istituzioni di governo dell’ordine economico internazionale.

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Apparentemente questa invocazione di una maggiore interferenza esterna negli affari interni degli Stati sovrani potrebbe non finire per ridurre lo spazio democratico, come inevitabilmente accade nella costruzione federale per le democrazie nazionali, se si trasferissero tutti i tradizionali poteri liberali democratici, legislativo compreso, all’istanza sovranazionale, comprendendo così un potere come quello legislativo attribuito a un’assemblea di eletti con suffragio diretto. Tuttavia questo progetto di democrazia europea, presuppone l’esistenza di un “popolo” europeo; ma l’assenza di un demos sovranazionale, fatto incontestabile, è un evidente impedimento allo sviluppo della democrazia sovra-nazionale. L’assenza di un demos europeo peraltro è anche la condizione postulata in via di principio dai costruttori dell’Europa neo-ordoliberale, in quanto l’unica identità che conta, per l’Europa costruita su una costituzione economica e retta da una governance di tipo aziendale, è quello del comune homo oeconomicus, sradicato da una qualsiasi comunità, etnia, religione, nazione, essendo noto che «il grande equivoco del neoliberalismo è che pretende di fare a meno delle identità collettive o di fare dell’individualismo competitivo l’unica identità collettiva possibile» (Preterossi 2017, 113). La caratteristica dell’euro, unica nel panorama storico, di essere una moneta senza Stato si rispecchia in alcune peculiarità della medesima che sono fonte di riflessione filosofica. Se la moneta ha rappresentato fin dall’inizio la controparte “fisica” e storicamente determinata del denaro – concetto invece astratto e atemporale – concretizzatasi in coniazioni con effigi e pesi, indicanti una specifica realtà storica e materiale, l’euro, al contrario, rispecchia l’idea astratta dell’invenzione dell’Europa anche nella forma del suo circolante. Come nota Tagliapietra (2012), l’euro non manifesta «una misura di peso o un personaggio storicamente determinato, ma un’idea astratta e in fin dei conti vuota, quella dell’Europa come entità geopolitica a venire», ed egli ne rintraccia l’evidenza in ciò che vediamo stampato nei biglietti, stilizzazioni astratte di icone architettoniche non appartenenti a nessun “luogo” reale, al contrario dei biglietti tradizionali nazionali che raffigurano la tal chiesa o la tal piazza o la tale statua in rappresentanza simbolica

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di uno Stato, di una comunità, di un demos, di una storia; al contrario, le immagini dell’euro sono appartenenti a un’idea che, nella sua perfetta astrazione “utopica”, è confermata dalla scelta estetica di raffigurare nei sette tagli delle banconote dell’euro particolari degli stili architettonici europei, ma nessun monumento concreto, nessun “luogo” che abbia avuto la ventura di esser mai stato abitato. Si tratta, quindi, non di dettagli di opere architettoniche reali, ma di citazioni decontestualizzate (Tagliapietra, 2012, 17).

Non si tratta solo di una scelta artistica che risente della post-modernità dell’epoca in cui l’euro viene inventato, ma di una più o meno intenzionale rappresentazione del progetto di trasformazione della tradizionale civiltà europea, da far piombare nell’oblio, in una nuova realtà tecnologica e cosmopolita: L’euro è la prima moneta postmoderna? Se la modernità è stata l’epoca della dissoluzione della tradizione della cultura occidentale […] l’euro ci fa intravedere, nella forma generalissima della moneta, quella netta frattura con il passato, quell’esaurimento della sua capacità di determinarci, quella precisa leggerezza, carica di oblio e di rimozione, che è propria della razionalità tecnica e che concorre a trasformare l’antico fardello della tradizione e delle funzioni simboliche che la compongono nel segno, appena abbozzato, di un puro motivo ornamentale. La moneta, volto sensibile del denaro, assume qui il tratto di un’autentica profezia, gravida di conseguenze (Tagliapietra 2012, 17).

Forse nell’idea di questa Europa, data in pasto all’opinione pubblica fin dalla sua creazione come necessaria invenzione per terminare la guerra e instaurare la pace perpetua dei dolci e liberi commerci di ogni cosa – e in realtà solo “super-Stato burocratico-amministrativo” –, non a caso si è dimenticato che la sua storia non è stata solo la guerra ma anche lo sprizzare di ineguagliabili creazioni culturali, dimenticanza di cui è un esempio il fatto che tale cultura sia «stata confinata nella residua materialità metallica degli spiccioli, che ancora conservano, come opache medaglie alla memoria, l’austriaca testa di Mozart o l’italico homo vitruvianus». Allora, non è forse l’euro il simbolo sia del tradimento che del tramonto, peraltro da gran tempo evocato, della civiltà europea, nonostante che lo stesso euro sia invocato dai suoi fautori come la salvezza di un’Europa altrimenti senza futuro se non di guerre e

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impoverimenti? Nel nostro tempo dell’euro despota instabile delle economie nazionali, siamo forse «sotto la tirannia di una moneta che rispecchia, nei suoi meccanici dispositivi, il fantasma del “gelido mostro” di un super-Stato burocratico-amministrativo», e l’euro è rispetto alla civiltà europea «il suo più radicale e definitivo tradimento? Le luci del tramonto, metafora con cui da più di un secolo giocano gli intellettuali europei […] sono proprio tanto fioche da non consentire di distinguere il massimo pericolo da ciò in cui riporre la speranza di salvezza?» (Tagliapietra 2012, 17-18). La nozione di “popolo”, così storicamente radicata, da Hobbes a Rousseau, in quella entità omogenea che esprime la decisione democratica su ogni aspetto della vita pubblica, economica compresa, è del tutto estranea al progetto neo-ordoliberale. In particolare la decisione politica democratica in ambito economico può interferire con le risultanze del mercato, con quelle guide, naturali o provvidenziali, che sono i prezzi e con la distribuzione della ricchezza da essi “sovranamente” decisa. È proprio in opposizione alla nozione di “popolo” e di democrazia – coi suoi pericoli ben mostrati dalla Rivoluzione francese – che, in fondo, viene concepita la costruzione europea: come un vincolo esterno alla sovranità popolare. Tale costruzione manifesta lo scopo, da un lato, di proteggere il funzionamento del mercato libero spoliticizzando gli spazi pubblici e sterilizzando il conflitto sociale, e, dall’altro lato, attraverso opportune miscele di rigide normazioni – ammantate però di una parvenza di consensualità da soft-law – di eliminare l’identità collettiva e nazionale, sostituendola con altre identità plurime generate dall’esaltazione di nuovi diritti, generati da immaginifici pubblicitari come correlati della libertà di consumare. In tale modo si creano nuovi soggetti precari, insomma si modella l’uomo “economico” (di cui una rappresentazione che va per la maggiore è l’uomo-impresa) adatto al nuovo mercato sovra-nazionale. Questa genesi e questi effetti probabilmente sfuggono a quanti, liberali o di sinistra, ritengono centrale valorizzare i nuovi soggetti che sono portatori di nuovi diritti, ignari della lezione del marketing che non crea prodotti per i consumatori ma crea consumatori per i prodotti. Comunque tentativi di “inventarsi” un surrogato del demos assente, attraverso riforme dell’architettura istituzionale corrente della UE, sono stati compiuti da parte di europeisti convinti e

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autorevoli. Fra questi merita riportare la proposta di Habermas (2015) – formulata in risposta all’articolo di Grimm (2014) sul deficit democratico della UE (vedi par. 3) – che, in soldoni, suggerisce una doppia identità degli individui, da considerarsi come cittadini sia dei rispettivi Stati che dell’Unione. Entrando un po’ più in dettaglio, Habermas si pone il problema di fare della UE una federazione sovranazionale costruita in modo tale che le relazioni eterarchiche tra gli Stati membri e la federazione rimangano intatte e che porti a una forma di democrazia che è, al tempo stesso, sovranazionale e situata al di sopra del livello organizzativo di uno Stato. L’idea per basare tale forma politica è pensare la UE come costituita da un “doppio” sovrano: i cittadini europei e i popoli europei (gli Stati). Ciò richiede di riformare i trattati europei esistenti, integrando più strettamente l’Europa senza più l’attuale deficit di legittimazione: per esempio il Parlamento europeo dovrebbe ottenere il diritto di prendere iniziative legislative e la cosiddetta “procedura legislativa ordinaria”, che richiede l’approvazione di entrambe le camere, dovrebbe essere estesa a tutti i campi di decisioni politiche. Inoltre, il Consiglio europeo – quindi l’assemblea dei capi di governo che fino ad oggi godono di uno status semi-costituzionale – dovrebbe essere incorporato nel Consiglio dei ministri. Infine, la Commissione dovrebbe assumere le funzioni di un governo responsabile equamente rispetto sia al Consiglio che al Parlamento. Habermas propone un esperimento mentale per costruire questa nuova Europa come se la sua costituzione fosse stata creata da un doppio sovrano, ovvero l’autorità costituente fosse composta da tutta la cittadinanza europea, da un lato, e dai diversi popoli degli Stati-nazione partecipanti, dall’altro. Non è facile immaginare come funzionerebbe questa assemblea costituente, e come si formerebbero gli equilibri, ma al di là della filosofia politica interna all’esperimento mentale di Habermas, in pratica sembra che rimarrebbero le stesse istanze istituzionali attuali ma con alcuni cambiamenti nelle procedure decisionali: durante il processo di definizione della costituzione […] le relazioni eterarchiche tra cittadini europei e popoli europei strutturerebbero il

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processo di fondazione stesso. La concorrenza sugli interessi tra i due soggetti fondatori della Costituzione si rifletterebbe quindi a livello della politica costituita nelle procedure – ad esempio l’elezione del presidente della Commissione – che richiedono accordi tra organi legislativi con pari diritti (il Parlamento europeo e il Consiglio) (Habermas 2015, 554).

Quello che cambia nel progetto di Habermas rispetto alla nozione classica di sovranità popolare sta nel fatto che il livello superiore è certamente un “sovrano” dimezzato e, quindi, se è superiore non lo è però di tanto: La novità di questo scenario è che il sovrano di “livello superiore” non può più decidere in modo veramente sovrano. Perché il porre sullo stesso livello i “cittadini europei” e i “popoli europei” indica che il sovrano deve essersi già impegnato fin dall’inizio a riconoscere i risultati storici di un livello di giustizia incarnato negli Stati-nazione (Habermas 2015, 554).

Perché la sovranità del livello superiore al momento in cui si costituisce dovrebbe accettare il dimezzamento della sua autorità? Perché riconosce le conquiste costituzionali rivoluzionarie del passato, e questo avviene in quanto i cittadini dei paesi membri nell’assemblea costituente hanno imposto che la futura unione mantenesse il contenuto democratico dei loro Stati nazionali; insomma un escamotage fittizio per far sì che la nuova Unione mantenga la medesima forma democratica dei singoli Stati costituzionali membri: La sovranità di “livello superiore” o “condivisa” significa che l’autorità costitutiva, nel fondare una politica sovranazionale, sacrifica parte della sua sovranità per conservare le conquiste costituzionali rivoluzionarie del passato. Nel loro ruolo di membri dei rispettivi Stati-nazione, i cittadini (o i loro rappresentanti), come vorremmo presumere, hanno insistito sul fatto che la sostanza costituzionale democratica dei “loro” Stati dovrebbe continuare a esistere intatta nella futura Unione (Habermas 2015, 554).

Secondo Habermas, questa costruzione “costituente” paritaria fra doppi sovrani riesce a trovare un equilibrio – eguaglianza dei cittadini ed eguaglianza degli Stati – in cui entrambe le sovranità sono rispettate e soddisfatte:

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Con questa trasformazione dell’Unione in una politica sovranazionale che soddisfi gli standard democratici, i principi dell’uguaglianza degli Stati e dell’uguaglianza dei cittadini verrebbero accordati alla pari considerazione. La volontà democratica dei due soggetti che inquadrano la costituzione si rifletterebbe sia nella partecipazione simmetrica delle due “camere” al processo legislativo sia nello status simmetrico del Parlamento e del Consiglio rispetto al ramo esecutivo (Habermas 2015, 554).

Appare chiaro che la complessa costruzione di Habermas non genera né una federazione né una unione, ma un modello a sovranità condivisa fra cittadini e fra popoli europei; tuttavia, ad avviso di Habermas questo dualismo giustifica la democrazia maggioritaria a livello europeo al fine di spezzare la strangolamento dei veti intergovernativi ai sensi delle attuali regole del Metodo comunitario (Scharpf 2015, 400).

Il ragionamento di Habermas per fondare la “doppia sovranità” si basa sul fatto che non si tratta di una fondazione statale di tipo costituzionale, come ce ne sono state in quantità negli ultimi due secoli dopo le rivoluzioni americana e francese e che hanno pedissequamente seguito quelle ben profonde orme, ma qualcosa di diverso da quel modello “potere costituente – potere costituito” che produce lo Stato costituzionale, perché in questo caso si tratta di fondare un terzo livello sovra-statuale: molti altri Stati costituzionali sono stati fondati fino ai giorni nostri [...] come repliche dei due atti fondatori originali a Filadelfia e Parigi. Come è ora evidente, la creazione di una democrazia sovranazionale, al contrario, non può essere compresa sullo stesso modello di un processo a “due stadi” in base al quale una costituzione dei poteri statali è alla base delle procedure politiche all’interno della politica costituita (Habermas 2015, 556-557).

Invece si tratta di applicare un modello a “tre stadi”, dove il primo stadio è rappresentato dagli Stati-nazioni già costituzionalmente creati, che di fatto, proprio perché se ne vuol riconoscere quella validità storica e democratica che è il risultato delle vere rivoluzioni costituzionali, diventano un potere costituente per quell’Europa a “doppia sovranità”:

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Un modello più adatto qui è invece quello a tre stadi in cui è già presupposta l’esistenza di Stati-nazione costituiti democraticamente. Con i cittadini che vogliono difendere l’esito storico delle precedenti rivoluzioni costituzionali, entra in gioco un argomento che ora si autorizza a servire come un’altra autorità costituente (Habermas 2015, 557).

Questo modello a tre stadi non rispetta ovviamente il caso classico del processo costituente rivoluzionario, in cui il potere si autolegittima costituendosi sovrano, in quanto il sovrano classico è già costituito, cioè è il popolo di ciascuno degli Stati membri, che deve decidere di “dividere” la propria sovranità o meglio il proprio potere costituente per costruire un altro livello superiore di sovranità, quella europea: A differenza del caso del sovrano popolare rivoluzionario, questo non è ovviamente un caso di auto-potere (self-empowerment) in senso stretto. L’auto-potere dei cittadini nazionali per impegnarsi, ancora una volta, per così dire, nella costruzione della costituzione a un livello superiore dipende dal consenso di un sovrano popolare classico, che ora appare sulla scena sotto le sembianze della totalità dei cittadini europei e deve essere disposto a dividere la sua autorità costituente. Con la precedente costituzione di un più alto livello di sovranità stesso – quindi, con l’accordo tra i due soggetti designati per la costruzione della costituzione – il quadro classico di un livello costituente e un livello costituito è integrato da un’ulteriore dimensione che ancora una volta è alla base del processo effettivo di costruzione della costituzione (Habermas 2015, 557).

Sebbene non in senso stretto, la proposta di Habermas è però vicina a quelle proposte che surrogano la mancanza di un demos con l’unione dei vari popoli, i demoi, per costruire una Europa che sia “demoi-cratica”. Si tratta ovviamente di una diversa accezione di democrazia rispetto a quella tradizionale della quale la odierna UE è accusata di mancare più o meno totalmente. Le proposte “demoi-cratiche” continuano di fatto a difendere il metodo attuale della legislazione europea – il cosiddetto Metodo Comunitario – e negano invece sia che la legittimità politica presupponga l’esistenza di un demos europeo unitario, sia, ancor più, che la UE non abbia legittimità democratica solo perché le istituzioni europee non assomigliano alle democrazie maggioritarie a livello nazionale. Insomma i “demoi-cratici” starebbero a metà fra i democratici tradizionali che accusano la UE di “deficit democratico” e gli

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europeisti estremisti per i quali la UE è un valore supremo e “più Europa” è il mantra ossessivo: A livello normativo, un numero crescente di contributi alla teoria di una demoi-crazia europea è arrivata a sfidare il pregiudizio unitario della teoria democratica standard e le credenze politiche “messianiche” che trattano l’integrazione europea come un valore lessicograficamente superiore a tutte le altre preoccupazioni (Scharpf 2015, 399).

La filosofia politica di questi contributi è semplice: i) la governance dell’UE è già legittimata dai molteplici demoi delle sue politiche costituenti, in cui cittadini sono rappresentati sia individualmente che come “Stati-popoli” a livello dell’Unione; ii) quel che necessita è che questi demoi prendano coscienza della loro crescente interdipendenza, del fatto che stanno partecipando ad una politica comune, della necessità di questa politica comune per evitare esternalità negative e perché la cooperazione rispetto a fini condivisi è più efficace; iii) poiché le politiche UE sono legittimate dalla presenza dei demoi, allora esse devono essere attente a rispettare l’integrità della molteplicità dei demoi per non minare le basi della legittimità di tali politiche. Ma a quali riforme dell’architettura della UE le proposte “demoi-cratiche” tendono? Nessuna, perché nonostante varie imperfezioni, pertanto, la legislazione europea secondo il metodo comunitario è vista come un ravvicinamento dell’ideale normativo (Scharpf 2015, 400).

La critica dell’europeista Scharpf ai “demoi-cratici” verte proprio sul fatto che per loro va bene lo stato attuale dell’Unione, e non vedono tutti i vincoli esterni alla sovranità dei molteplici demoi introdotti dalla integrazione “negativa”, dalla dittatura commissaria della BCE, dalla inefficacia del metodo a veti multipli intergovernativi e via dicendo: La demoi-crazia è attraente come concetto normativo. Ciò che è problematico, tuttavia, è l’interpretazione implicitamente affermativa dell’attuale stato dell’Unione. Concentrandosi sulla legislazione europea, gli autori tendono a minimizzare i vincoli imposti ai demoi plurali attraverso l’integrazione negativa e i regimi sovranazionali dell’euro, nonché i

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vincoli imposti a un’azione politica efficace a livello europeo attraverso il sistema a veto multiplo del metodo comunitario (Scharpf 2015, 400).

Se la teoria “demoi-cratica” fosse normativamente interessante, allora per darle attuazione pratica sarebbe però necessario intervenire, modificando per esempio gli attuali poteri decisionali e il ruolo ricoperto dal potere esecutivo dei singoli Stati-popoli44. Al fine di realizzare nella pratica le aspirazioni normative della teoria “demoi-cratica”, Scharpf (2015) formula, a sua volta, una articolata proposta basata su sei regole nella prospettiva di rivedere l’alba dopo il “crash”, che qui ovviamente non è possibile esaminare per ragioni di spazio. Infine, una terza proposta ‒ oltre a quelle di Habermas e dei “demoi-cratici” ‒ suggerisce che un sistema di diritti fondamentali (anche di nuovi soggetti, magari gli animali, e non solo e non tanto quei diritti sociali vetusti rivendicati dagli operai), che acquisterebbero efficacia dal metodo apparentemente “consensualista” della governance, collocati a livello “europeo”, potrebbe anche, secondo i proponenti, essere capace di raggiungere fini emancipatori più di quanto fosse possibile a livello statuale o comunque di contrastare gli effetti negativi dei processi di globalizzazione laddove essi impongono un dominio totalizzante da parte delle esigenze dei mercati a scapito di altre esigenze politiche, sociali e umane. In realtà, ritenere possibile un efficace sistema di diritti a livello sovra-nazionale non-statuale appare una illusione, essendo facilmente dimostrabile la necessità del monopolio coercitivo da parte dello Stato per poterli rendere efficaci, come sostiene Somma (2019, 53): Occorre cioè riconoscere che i diritti fondamentali sono destinati a restare sulla carta, se ci si limita ad ancorarli a «uno spazio non politico o a bassa intensità politica»: se l’implementazione di quei diritti non viene

44 «la teoria della demoi-crazia richiederebbe una sostanziale inversione dei poteri di governo a livello degli Stati membri dell’UE […]. Ciò che manca, in altre parole, sono le discussioni sui modi e i mezzi attraverso i quali le aspirazioni normative della teoria potrebbero essere realizzate nella pratica» (Scharpf 2015, 400).

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assistita da un articolato apparato anche coercitivo capace di assicurare alle disposizioni in cui sono disciplinati attributi ulteriori rispetto alla mera validità […]. E che allo stato dell’arte i «diritti senza sovrano» sono «eteri», o in alternativa efficaci solo nella misura in cui la loro implementazione viene in ultima analisi assicurata da entità direttamente o indirettamente riconducibili al perimetro della statualità.

La dimostrazione della illusorietà di questa proposta l’ha peraltro fornita notoriamente la riflessione della Arendt (1996). Sebbene con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 l’uomo diventava la fonte del diritto, tutelandosi dalla discrezionalità della sovranità dello Stato, tuttavia l’ambiguità costitutiva presente già nel titolo di quella dichiarazione lo esponeva a un pericolo mortale. Infatti, come osserva Agamben (1996, 14), quel titolo contiene una endiade «in cui il primo termine è, in verità, già contenuto nel secondo», per cui all’interpretazione disambiguante che l’uomo è cittadino, segue che, fintantoché vive dentro lo Stato esso è al riparo della legge per la quale egli è tale, ma fa anche sì che, in caso di espulsione dallo Stato (o di sparizione del medesimo) con la conseguente sospensione (o eliminazione) della legge, venga ridotto a mero essere umano, pura “vita”, senza protezione né diritti, quindi alla mercè del mondo, ridotto a uomo “sacro” “votato alla morte”. È per questo che la Arendt potrà affermare, con tragica lucidità in riferimento al destino degli apolidi (e degli ebrei ridotti tali) che «privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto, schiuma della terra» (Arendt 1996, 372). Fra i critici non solo dell’ampliamento del ruolo dell’UE e dei limiti posti allo Stato-nazione, da essi ritenuto come la sola entità capace di decisione democratica (come nel caso dello welfare state), ma anche fra i proponenti di significativi cambiamenti della attuale situazione istituzionale europea, si trova, in preminente posizione, Streeck. Le sue proposte di riforma meritano quindi di essere considerate qui. Intanto il primo obiettivo che le riforme dovrebbero porsi è il recupero della sovranità monetaria per ogni Stato nazionale, che, al di là degli importanti e positivi effetti economici, avrebbe prima di tutto quello di far riacquistare la sovranità democratica e la possibilità di scegliere democraticamente per quali fini usare il mezzo monetario:

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In ogni caso, l’obiettivo sarebbe quello di trovare qualcosa di più libero di una moneta unica per tutti, in modo che le politiche democratiche e le opzioni di sviluppo possano essere preservate sulla base della sovranità nazionale (Streeck 2014, 188).

Prima di entrare nel dettaglio delle proposte, osserviamo che Streeck si richiama esplicitamente, come riferimento per un nuovo sistema monetario per l’Europa, al sistema monetario di Bretton Woods «creato sotto l’influenza di John Maynard Keynes, con i suoi tassi di cambio fissi ma regolabili» (Streeck 2014, 187). Quali erano gli evidenti vantaggi di Bretton Woods? Ve ne erano intanto di ordine politico interno: Ai suoi tempi serviva a integrare paesi come la Francia e l’Italia, con i loro forti sindacati e partiti comunisti, nel sistema di libero scambio occidentale, senza costringerli a “riforme” che avrebbero messo in pericolo la loro coesione sociale e la pace interna (Streeck 2014, 187).

Inoltre, ve ne erano anche di ordine politico internazionale: La sua peculiare saggezza era che si asteneva dall’imporre la convergenza sull’ordine interno degli Stati membri e si asteneva dal forzare i paesi più deboli ad accettare di essere governati dai paesi più forti; almeno formalmente, rispettava la sovranità e la politica interna dei suoi Stati membri (Streeck 2014, 187).

Ma ve ne erano soprattutto di ordine economico, miranti a difendere la possibilità di positive politiche salariali e sociali, senza però danneggiare il sistema delle imprese: I paesi che hanno perso competitività a causa di concessioni salariali o di una generosa politica sociale potevano compensare di tanto in tanto svalutando a spese di paesi più competitivi. Allo stesso tempo, come detto prima, le svalutazioni non potevano avvenire troppo spesso, dal momento che ciò avrebbe danneggiato gli interessi e la necessità di prevedibilità di paesi, industrie e imprese esportatori (Streeck 2014, 187).

Essendo Streeck sociologo e politologo ma non economista in senso stretto, egli rimanda a questi ultimi la palla di immaginare come dovrebbe essere nei dettagli questo nuovo sistema di cambi, ricordando loro solo di non dimenticare l’esperienza passata,

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come quella del serpente monetario (SME), e di chiarire anche quali sarebbero i costi di uscita dall’euro, supponendo comunque che, per quanto alti possono essere, potrebbero comunque essere sempre minori di quelli da sostenere per rimanere nell’euro, come per esempio l’esperienza greca suggerisce: L’esatta forma di un sistema di tassi di cambio fissi ma regolabili per sostituire l’Unione monetaria europea è una domanda degna degli sforzi dei migliori economisti. Avrebbero una serie di esperimenti passati come modelli, come il “serpente valutario” europeo degli anni ’70 e ’80 […]. Dovrebbe anche essere chiarito quanto sarebbe costoso per un paese ritirarsi dall’euro come moneta unica; vi sono molte prove del fatto che i costi a breve e lungo termine di un’operazione per salvare l’euro – probabilmente destinati a fallire comunque in casi come la Grecia o la Spagna – potrebbero rivelarsi piuttosto elevati (Streeck 2014, 187-188).

Sempre agli economisti è demandato il compito di decidere come e quanto sottoporre a controllo il movimento dei capitali per evitare attacchi speculativi sulle nuove valute nazionali, anche se Streeck ricorda come l’argomentazione che solo una valuta grande come l’euro possa difendersi dalla speculazione può essere contraddetta dalle esperienze di valute minori, come quella danese o svedese, che non sono state attaccate dal Soros di turno: Gli esperti dovrebbero anche cercare i modi in cui le valute nazionali ripristinate potrebbero essere protette da attacchi speculativi – probabilmente includendo […] un ritorno ai controlli di capitale […]. Tuttavia, negli ultimi anni non ci sono stati attacchi alla corona danese o svedese, alla sterlina britannica o ad altre valute nazionali europee. Ciò contraddice l’argomentazione secondo cui solo una “grande” valuta come l’euro può essere al sicuro da un crollo causato da speculatori come George Soros (Streeck 2014, 187).

E l’euro che fine farebbe nei propositi di Streeck? Potrebbe continuare persino ad esistere, almeno come nome, sotto forma, riferendosi ancora a Keynes, di una valuta artificiale di ancoraggio delle altre valute, come avrebbe dovuto essere il Bancor: L’euro non dovrebbe necessariamente essere abolito; potrebbe rimanere come una valuta di ancoraggio non nazionale accanto alle valute nazionali, un po’ come la valuta artificiale chiamata Bancor proposta da Key-

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nes, che gli Stati Uniti alla fine si rifiutarono di accettare perché volevano che il dollaro avesse quel ruolo di ancoraggio (Streeck 2014, 188).

Almeno tre sarebbero, per Streeck, gli effetti positivi della Bretton Woods europea: i) dare un esempio che la globalizzazione, di cui la costruzione dell’euro era stato un prodotto, non è irrevocabile ma può essere decisamente limitata; ii) dimostrare che nello stato attuale del mondo, la sovranità statale è necessaria per la presenza di democrazia; iii) fare una riforma che sarebbe “strategica” nel senso di dare una risposta ad una crisi di sistema cambiando il sistema: Un’uscita dalla moneta unica europea significherebbe l’avvio di una politica di delimitazione della cosiddetta globalizzazione. Chiunque rifiuta una sorta di “globalizzazione” che sottopone il mondo a una legge uniforme del mercato, e quindi lo costringe alla convergenza, non può voler rimanere con un euro che fa lo stesso con l’Europa. L’euro era ed è una creatura dell’euforia della globalizzazione degli anni ’90, per la quale la capacità politica statale di agire non era solo obsoleta ma superflua. Nel contesto della svolta neoliberista che oggi si sta avvicinando al completamento, la richiesta di un Bretton Woods europeo è ciò che sarebbe stato visto negli anni ’70 come un programma di riforma che cambia sistema: una risposta strategica a una crisi sistemica, che punta al di là della crisi che si impegna a risolvere mostrando che, nel mondo come è, non si può avere democrazia senza sovranità statale (Streeck 2014, 188).

Infine, che significato, prima di tutto politico, avrebbe la proposta di smantellare l’Unione monetaria e sostituirla con un nuovo sistema di valute nazionali? L’appello a smantellare l’UEM, vista come un progetto di modernizzazione tecnocratica socialmente sconsiderata che espropria politicamente e divide economicamente i popoli nazionali che compongono il popolo europeo effettivamente esistente, appare come una risposta democraticamente plausibile alla crisi di legittimazione di una politica neoliberista di consolidamento e razionalizzazione che si presenta come senza alternativa (Streeck 2014, 188).

Comunque la proposta di un Bretton Woods europeo non potrebbe da sola bastare per vincere contro il progetto neo-liberale che ha già stravolto gli Stati e i cittadini, ma necessiterebbe pure di una complementare mobilitazione di “piazza” di questi ultimi,

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cosa scarsamente prevedibile, almeno a breve termine. Per questo la Bretton Woods europea «in quanto tale, tuttavia, può servire solo a guadagnare tempo per la costruzione di nuove capacità di azione politica, nella lotta contro il progetto neoliberale antidemocratico» (Streeck 2014, 189). Streeck non ha dubbi sul fatto che, nonostante il contesto sempre più globalizzato possa porre problemi ad un organismo territoriale quale lo Stato nazionale, quest’ultimo però non debba essere superato se si vuole rimanere nella prospettiva della democrazia e anzi del suo incremento: Il punto di partenza nella difesa di una prospettiva di sviluppo democratico deve essere che, per quanto problematica possa essere l’organizzazione nazionale delle società moderne, non ci può essere la questione del superamento dello Stato-nazione attraverso l’espansione del mercato capitalista (Streeck 2014, 189).

Tuttavia il compito di ri-nazionalizzare comunque non è euforizzante, bensì pieno di sobrietà; si tratta principalmente di un compito di riparazione dei danni e di rafforzamento del nocciolo duro ancora presente nello Stato democratico, quindi un compito più che altro difensivo: Piuttosto, l’obiettivo deve essere quello di riparare per ora ciò che è rimasto dello Stato-nazione democratico, in misura tale da consentirne l’utilizzo per rallentare l’avanzata dell’accaparratore di terre (land-grabbing) capitalista (Streeck 2014, 189).

Streeck è spietatamente scettico su ogni possibilità di costruire una democrazia a livello europeo, e ritiene che il crederlo invece possibile finisca per lasciare ancora di più il campo libero a coloro che, coi loro attrezzi da scienziati esperti della società capitalista, hanno già generato la crisi globale del 2008: Nelle condizioni odierne, una strategia che pone le sue speranze nella democrazia postnazionale, seguendo la scia funzionalista del progresso capitalista, lascia il gioco semplicemente nelle mani degli ingegneri sociali dell’autoregolamentazione del mercato nel capitalismo globale; la crisi del 2008 ha offerto un assaggio del caos che questo può causare (Streeck 2014, 189).

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In fondo, siamo di fronte ad un bivio, dopo i cambiamenti indotti dalla crisi: o prosegue inarrestabile il completamento del progetto neo-liberale attraverso il completamento dell’unione monetaria o lo si riesce ad arrestare ri-valorizzando le uniche istituzioni in grado di difendere la democrazia, ovvero quelle statali. Nel primo caso Il completamento dell’unione monetaria segnerebbe la fine della democrazia nazionale in Europa – e quindi dell’unica istituzione che può ancora essere utilizzata per difendersi dallo “Stato di consolidamento” […]. Oggi, nell’Europa occidentale, il pericolo maggiore non è il nazionalismo – per lo meno il nazionalismo tedesco – ma il liberalismo del mercato Hayekiano (Streeck 2014, 189).

Nel secondo caso, data l’impossibilità di una democrazia a dimensione europea, la difesa e il rilancio della dimensione statale, per esempio anche a livello di sovranità monetaria, come si realizzerebbe con lo smantellamento dell’unione monetaria ed una nuova Bretton Woods europea, resta l’unica soluzione possibile; purtroppo sarebbe comunque una soluzione di “second-best” e probabilmente solo un argine temporaneo al progetto neo-liberale: Se, per il prevedibile futuro, le differenze storicamente sviluppate tra le nazioni europee sono troppo grandi per essere integrate in una democrazia comune, allora le istituzioni che rappresentano tali differenze potrebbero, come seconda soluzione, essere utilizzate come ostacolo nella discesa precipitosa in uno Stato di mercato unico, purgato dalla democrazia. E fintanto che il meglio non è una soluzione, il secondo-meglio (second best) è il migliore (Streeck 2014, 189).

D’altronde, una certa logica ci dice che se l’Europa è troppo eterogenea per essere un’area valutaria comune sostenibile, lo sarebbe anche se dovesse avere una unica costituzione democratica45. Secondo Streeck, l’idea che un’espansione dell’attuale UE

45 «Non ci sarebbe motivo di aspettarsi che il particolarismo regionale e nazionale, o i conflitti di identità e di interesse da esso causati, scompaiano se la società di Eurolandia, troppo eterogenea per una moneta unica, dovesse improvvisamente acquisire un’unica costituzione democratica» (Streeck 2014, 181).

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– che è “mercatistica” e non “politica” – giunga fino a formare un super-Stato politicamente unito, con un suo esercito e una sua politica di potenza per agire in un quadro di potenze tripolare, è impensabile e irrealistica, persino per il più fanatico europeista: Che uno Stato di mercato europeo alla fine si trasformi in uno Stato di potere (il “Machtstaat” di Max Weber), dispieghi un esercito europeo per difendere lo stile di vita europeo e faccia affari in concorrenza globale con gli Stati Uniti e la Cina, è comunque così lontano dalla realtà che neanche le menti più orientate verso l’Europa si riducono a fantasie di questo tipo (Streeck 2014, 40).

La ri-democratizzazione dell’Europa prenderebbe molto tempo, come peraltro ne ha preso il progetto di “neo-ordoliberalizzazione” della medesima. Quindi, per Streeck, se i progetti di ri-democratizzazione non riuscirebbero a re-instaurare la democrazia, tuttavia servirebbero però almeno come argine, diga, strada tagliafuoco di fronte al dilagare su un piano inclinato degli “accaparratori di terre” neo-liberali. D’altra parte si può obiettare, come fa Scheuerman, che gli errori di Streeck nel formulare le sue proposte di ri-nazionalizzare per ri-democratizzare l’Europa sarebbero duplici: i) egli starebbe proponendo rimedi locali rispetto a problemi globalizzati, per i quali occorrerebbero invece rimedi a livello globale; ii) l’assenza di una vera dimostrazione che lo Stato nazionale potrebbe convincentemente portare avanti i propositi avanzati da Streeck medesimo: Streeck non sospetta mai che la globalizzazione del capitalismo richieda meccanismi regolatori e di applicazione non meno globali nella loro portata e carattere. Né dimostra in modo convincente che lo Stato nazionale può costantemente sostenere tali meccanismi, nonostante le sue idee su un nuovo Bretton Woods europeo (Scheuerman 2015, 311).

Peraltro va notato che, mentre l’Europa dei mercati considera tutti i cittadini, di qualsiasi nazione e storia, come consumatori razionali, egoisti ed indipendenti, in realtà vi sono molteplici differenze storicamente radicate tra e all’interno dei popoli d’Europa, che un eventuale progetto di democrazia per l’Europa dovrebbe sempre tenere in conto, pena il fallimento del progetto

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stesso nel caso si perseguisse una anti-storica omogeneizzazione istituzionale. Queste differenze appaiono a Streeck come un problema pressoché non superabile. Anche se può baluginare per un momento la fantasiosa immagine di una sala di Pallacorda che riunisca i rappresentanti dei popoli d’Europa in un’assemblea costituente, magari a direzione giacobina, non può trattarsi che di una impolitica fantasia oggettivamente senza speranza di realizzazione, per le ineliminabili differenze presenti non solo fra diverse nazioni ma persino all’interno di Stati-nazione come la Spagna (e comunque bisognerebbe avere un Ercole dalla propria parte46, cosa che peraltro sembrerebbero aver avuto i neo-liberali nel vincente perseguimento del loro vasto progetto): Nel mondo reale, una costituzione unitaria-giacobina per uno Stato democratico europeo è inimmaginabile. Nessuna democrazia europea può svilupparsi senza […] ampi diritti di autonomia locale […]. Un’assemblea costituente europea […] dovrebbe trovare il modo di comporre gli interessi molto diversi di paesi come la Bulgaria e i Paesi Bassi, nonché di affrontare i problemi irrisolti degli Stati-nazione ancora incompleti – Stati come la Spagna o l’Italia la cui diversità interna di identità e interessi dovrebbero essere risistemata in qualsiasi concepibile costituzione europea. Costituzionalizzare l’Europa sarebbe davvero un lavoro di Ercole, che richiede un ottimismo creativo non inferiore a quello dei tecnocrati del mercato neoliberista (Streeck 2014, 179).

Tuttavia Scheuerman rileva che, vista l’abilità con cui il capitale, globalizzandosi fin dagli anni ’70, è riuscito a liberarsi via via dei pur stringenti controlli normativi posti su di esso dai governi democratici del dopoguerra al livello nazionale (come peraltro

46 Ma i difensori della democrazia sovra-nazionale o post-nazionale, come Scheuerman, pensano che essa sia possibile anche se lontana, e quindi non vada considerata sarcasticamente una fatica di Ercole: «A dire il vero, qualsiasi movimento verso una versione più democratica e costituzionale della maggiore statualità europea sarebbe “un lavoro di Ercole”, e certamente non qualcosa di realizzabile nel prossimo futuro. Il semplice fatto che alcuni auspicabili obiettivi politici possano al momento sembrare nella migliore delle ipotesi lontanamente realizzabili non li rende, a dispetto delle osservazioni sprezzanti di Streeck, necessariamente irresponsabili o utopici nel senso negativo del termine» (Scheuerman 2015, 312).

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proprio Streeck ha brillantemente mostrato), le proposte di Streeck potrebbero al massimo rivitalizzare la partecipazione democratica solo a breve termine. L’affermazione di Streeck, secondo cui qualsiasi proposta che guardi a una struttura post-nazionale in cui rinverdire la democrazia non si riduce che a un assist per gli specialisti giuridici neo-liberali sempre capaci di ingegnerizzare in difesa dell’ordine capitalistico di mercato, è per Scheuerman viziata in due punti basilari. Primo, essa assume in modo ideologico sia che qualsiasi discorso sulla democrazia post-nazionale serva “necessariamente” gli apologeti del neo-liberalismo, sia che il cosmopolitismo sia il correlato necessario del capitalismo: è una versione idiosincratica di “Ideologiekritik”, secondo la quale il discorso della democrazia postnazionale in qualche modo serve necessariamente il neoliberismo e i suoi apologeti […]. Il cosmopolitismo e il capitalismo del libero mercato, a quanto pare, sono legati l’uno all’altro fianco a fianco (Scheuerman 2015, 312).

Secondo, la tesi che una costituzione unitaria-giacobina per uno Stato europeo democratico sia impossibile – perché di fatto non esisterebbe un popolo europeo omogeneo, un demos – è – oltrechè “passatista” di per sé, in quanto l’ispirazione giacobina non sarebbe mai seriamente proponibile da un europeista moderno – antiquata, in quanto si riferisce a un modello rousseauiano che coniuga la democrazia con la necessità di unitarietà, generalità, omogeneità del popolo, come se invece essa non potesse esistere anche in contesti di popolazione eterogenea in tanti ambiti: come se qualsiasi serio analista contemporaneo stesse attualmente appoggiando un simile modello per l’UE […] si rifà alla vecchia visione repubblicana del diciottesimo secolo secondo cui un autogoverno significativo non può essere raggiunto in contesti politici e sociali ampi e diversificati (Scheuerman 2015, 312).

Nel complesso, Streeck, indicando il fatto scontato della grande diversità dell’Europa (nonostante le perplessità su tale fatto riassunte da Scheuerman), mostra di dubitare radicalmente che

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la democrazia e il costituzionalismo possano essere salvati se si procedesse ad una ulteriore estensione politica dell’Europa. Un importante contributo ai temi dell’apertura economica nei loro effetti sulla democrazia è stato fornito da Rodrik (2011) con la sua “tesi del trilemma”: essa afferma l’impossibilità di perseguire contemporaneamente i) la globalizzazione economica, ii) la politica democratica e iii) la auto-determinazione nazionale; evidenzia così un trilemma in cui solo due obiettivi possono essere accoppiati: a) globalizzazione economica e politica democratica oppure b) democrazia e autonomia nazionale, mentre non potrebbero mai essere compatibili la globalizzazione in campo economico con l’esistenza degli Stati nazionali. Rodrik inoltre registra quella che definisce come una “profonda” globalizzazione economica, vale a dire la tendenza del diritto commerciale internazionale – e ovviamente della legge UE sull’integrazione del mercato – a non volersi fermare al divieto di pratiche discriminatorie, ma di volere andare oltre per intromettersi nei regolamenti nazionali dei membri del WTO e degli Stati membri dell’UE, accentuando così sempre di più la drammaticità del “trilemma”. Rodrik, quindi, ritiene che l’iperglobalizzazione comporti il restringimento dello spazio per la politica interna e la protezione dei tecnocrati dalle esigenze dei gruppi popolari, e considera normativamente preferibile privilegiare l’autonomia nazionale e sottoporre alla legittimità democratica ogni decisione sul libero scambio e l’accesso ai mercati esteri. Non solo, ma tutte le promesse sui vantaggi della liberalizzazione degli scambi e della governance globale sono anche empiricamente false. Inoltre, pensare che la globalizzazione possa diventare facilmente democratica è un pia illusione nella misura in cui l’agenda di iperglobalizzazione si scontra con la democrazia; e questo scontro avviene per la semplice ragione che l’obiettivo di tale agenda non è quello di migliorare il funzionamento della democrazia, ma di soddisfare interessi commerciali e finanziari che cercano l’accesso al mercato a basso costo, infischiandosene così di qualsiasi altro obiettivo sociale e politico. La posizione di Rodrik è bene argomentata e costituisce una posizione scomoda per europeisti, globalisti, cosmopolitisti di de-

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stra o di sinistra che siano. Crouch, che è uno di questi, riconosce la pericolosità del “trilemma” che rafforzerebbe i pro-Brexit e potrebbe indurre addirittura a riproporre una nuova Bretton Woods: Data la priorità che molti osservatori attribuiscono giustamente alla democrazia, l’argomentazione di Rodrik sembra portare alla conclusione che la democrazia può essere preservata solo limitando le ambizioni politiche allo Stato-nazione e cercando di servircene per sfuggire in qualche modo alla globalizzazione. Nel Regno Unito le sue tesi sono diventate un punto di riferimento chiave per gli oppositori di sinistra pro-Brexit, che guardano con nostalgia al modello post-bellico di Bretton Woods di globalizzazione limitata senza libertà di movimento per i capitali (Crouch 2019, 89).

Allora, Crouch affronta gli argomenti di Rodrik. Prima ne ricapitola efficacemente il contenuto: La tesi più nota di Rodrik in The Globalization Paradox è l’elaborazione del suo trilemma, per cui a oggi possiamo scegliere tra democrazia, sovranità nazionale e iper-globalizzazione. Per Rodrik è possibile la coesistenza soltanto di due di questi elementi, non di tutti e tre. L’“iper-globalizzazione” sottende chiaramente l’ideale neoliberista di una globalizzazione del tutto non regolamentata. Una democrazia separata dallo Stato-nazione – l’unica forma di democrazia capace di fare i conti con l’economia globale – implica la democrazia globale, che è impossibile da raggiungere. Uno Stato-nazione non democratico è compatibile con l’iper-globalizzazione, perché comporta una “sovranità” nazionale che accetta di essere governata dal mercato e dal potere delle grandi imprese (Crouch 2019, 88).

Successivamente, Crouch cerca una soluzione positiva al “trilemma” di Rodrik: Esiste una soluzione alternativa al trilemma di Rodrik. La globalizzazione non deve per forza essere «iper». Può essere moderata attraverso la regolamentazione delle agenzie internazionali […]. Gli Stati nazionali possono decidere […] di unire la loro sovranità al fine di estenderne la portata […]. Il trilemma diventa allora gestibile» (Crouch 2019, 89).

La soluzione offerta da Crouch, se capiamo bene, consisterebbe primariamente nel fare ridurre il livello di globalizzazione proprio da quelle agenzie internazionali che l’hanno costruita,

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disegnata e difesa (il che pare quantomeno improbabile se non risibile) e secondariamente nel fare rinunciare gli Stati alla propria sovranità per consegnarla a un organismo sovranazionale, una unione o una federazione, tipo una UE politica, che, come sappiamo fin dalle lucide proposte di Hayek, è in realtà il sogno di ogni cosmopolista capitalista. Oltre a fornire un tentativo di risolvere il trilemma di Rodrik – in un modo secondo noi non proprio riuscito – ancora Crouch (2019) rappresenta un esempio interessante delle perorazioni per un cosmopolitismo generalizzato, che vorrebbe essere anche nel vero interesse dei lavoratori e di chi fa parte di quella massa assolutamente maggioritaria che con la globalizzazione si è notoriamente impoverita. Per Crouch, che peraltro riconosce come lo standard di vita dei lavoratori sia peggiorato con la globalizzazione, tutto sarebbe presto rimediato se il governo mondiale venisse affidato a quegli organismi internazionali di persone “benevolenti” che però, purtroppo, finora hanno avuto ed hanno solo tre difettucci: 1) si sono fidati troppo degli economisti neoclassici i quali – forse perché troppo presi dai loro modelli teorici – non li avevano avvertiti che il programma neo-liberista avrebbe prodotto shock inaccettabili per i lavoratori, e che comunque adesso se ne sarebbero finalmente accorti e si starebbero rivedendo, ovviamente per merito proprio e certamente non per merito delle pressioni democratiche verso il loro operato47; 2) sono purtroppo degli ingenui, come talvolta capita a chi, come loro, non ha nessun secondo fine politico; 3) purtroppo non hanno alcuna legittimazione democratica, al contrario di quella che invece, secondo lui avrebbe la UE, ma questa mancanza di legittimazione l’avrebbero proprio perché hanno una percezione internazionale dei problemi e una neutralità rispetto ai fini, due

47 Infatti Crouch rileva che «anche senza tale pressione democratica, alcune organizzazioni internazionali, in particolare l’OCSE, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale – i principali protagonisti della globalizzazione – stanno già cominciando a vedere gli errori delle precedenti ipotesi formulate dagli economisti neoclassici sulla capacità dei mercati del lavoro di adeguarsi alla sfida della globalizzazione senza produrre shock inaccettabili per gli standard di vita dei lavoratori» (Crouch, 2019, 84).

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necessarie caratteristiche la cui presenza non sarebbe compatibile con quella della democrazia48. E poi annotiamo anche che Crouch fornisce una prova di alto sillogismo nel tentativo di dimostrare che secondo lui la UE non abbia molto a che fare con il neo-liberismo: cioè, se la Gran Bretagna, che è notoriamente il paese più neo-liberista d’Europa, è uscita dalla UE, allora la UE non può certo essere neo-liberista!49 Ma merita di essere segnalata anche un’altra interpretazione di Crouch rispetto a quale sarebbe, secondo lui, il vero deficit democratico presente in Europa; seppure si possa ammettere che un fervente europeista continui a pensare che la UE sia esente da tale deficit nonostante i ben noti avvenimenti di Italia e Grecia, tuttavia si rimane a dir poco sorpresi nel vedere che proprio quegli avvenimenti siano presi a modello per accusare di mancanza di democrazia non la UE ma, addirittura, proprio l’Italia e la Grecia, i cui “parlamenti” democratici sarebbero stati inefficienti e vigliacchi: I principali deficit democratici non erano quelli dell’Eurozona ma della politica nazionale in particolare di Grecia e Italia, che non hanno saputo tenere a bada l’irresponsabilità dei loro governi. Anche in presenza di limitazioni così severe i parlamenti dei paesi interessati avrebbero potuto respingere il piano di austerità, mantenere i loro leader e tornare alla dracma e alla lira. Visti gli alti livelli del debito e le debolezze delle loro

48 «Queste organizzazioni sono in grado di percepire certi problemi perché hanno una prospettiva internazionale e nessun secondo fine politico, al di là di una certa ingenuità sulla capacità della teoria economica di fornire una risposta a tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere sul comportamento umano. Ma proprio perché occupano una posizione simile, mancano di legittimazione democratica in un mondo in cui, a esclusione dell’UE, non esistono istituzioni democratiche al di sopra dello Stato-nazione» (Crouch, 2019, 84). 49 «Se […] il processo decisionale dell’UE è solidale solo verso i cosiddetti regimi economici «liberisti», perché proprio il campione dell’economia politica neoliberista in Europa – il Regno Unito – ha ritenuto l’allontanamento dell’UE dal neoliberismo così intollerabile da doverne uscire? L’elenco delle politiche dell’UE che offendono i principali sostenitori della Brexit è anche un elenco di politiche che confutano la tesi secondo cui l’Unione Europea è un’istituzione puramente neoliberista» (Crouch 2019, 75).

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economie, hanno scelto di non farlo per il timore di mettere a repentaglio quelle valute sui mercati internazionali (Crouch 2019, 77).

Infine, fra le varie posizioni dei fautori dell’europeismo, ci piace ancora riferirsi alle proposte di Crouch, il quale, volendo fornire – all’interno di una sua posizione contro la Brexit – degli esempi a sostegno dell’ipotesi che l’identità nazionale è un limite e che l’uomo contemporaneo è identitariamente multiplo50 (e quindi, per natura, “globale”) offre un simpatico esempio “calcistico” di quante differenti maglie un medesimo tifoso possa indossare a seconda dei giorni e dei contesti; se l’esempio sia convincente o meno lo decideranno i lettori: Riferendosi in particolare ai giovani con la bandiera dell’Unione Europea dipinta sul viso, [Boris Johnson, fautore della Brexit] ha scritto: «Guardo tanti giovani con le 12 stelle disegnate sui loro volti e sono turbato dal pensiero che le persone stiano cominciando a vivere sinceramente delle lealtà scisse». Perché le diverse forme di lealtà devono essere viste come «scisse» piuttosto che «multiple»? Perché il bisogno illiberale di un monopolio di Stato sull’identità? In realtà molti cittadini sono in grado di far fronte con facilità a più identificazioni. Ad esempio, i tifosi di calcio inglesi saranno contenti di vedere l’ala belga che gioca per la loro squadra della Premier League dribblare il difensore inglese della squadra avversaria. Ma se la stessa azione, con gli stessi giocatori, si ripete la settimana successiva in una gara tra Inghilterra e Belgio, ne saranno disperati. Non

50 Ovviamente l’insistenza dei sostenitori del cosmopolitismo sulla normalità delle identità multiple e cangianti del soggetto non è del tutto scevra dall’essere limitrofa alle necessità profonde del capitalismo neo-ordoliberale. Come criticamente sostiene Pennetta «la società liquida, o il neo-capitalismo, non possono incontrare al loro interno dei nuclei stabili […] Per superare questa impasse […] la famiglia […] ha subito un processo di svuotamento del suo significato originario. L’intercambiabilità dei ruoli tra la donna e l’uomo […] la provvisorietà della nozione di “amore” su cui si basa il rapporto […] hanno messo in crisi l’oikos […] a questi si aggiunge la promozione forsennata dei legami omosessuali […] liquefare l’identità maschile e quella femminile diventa quindi una tappa irrinunciabile di questo meta-percorso […] La liquefazione della propria identità biologica, e la creazione ingegneristica di una società unisex sono gli assunti fondamentali per poter accettare un’origine e una vita da allevamento. Nella società liquida, l’esistenza si appiattisce sui ritmi di produzione dell’allevamento intensivo: prestazione, produttività, impossibilità di avanzare richieste […] spazi ridotti e standardizzati del comportamento» (Pennetta 2016, 139-140).

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c’è nulla di contraddittorio in tutto questo, semplicemente i tifosi inglesi sanno quando adottare una delle loro identità e quando un’altra (Crouch 2019, 91-92).

Da cantore “socialdemocratico” della globalizzazione, Crouch avversa la dimensione nazionale perché, dice, se si rimanesse in quella dimensione allora si lascerebbe il governo (o non-governo) mondiale in balia del liberismo, tralasciando di dire che, se esso ne è già in balia (come lo stesso Crouch ammette), l’abdicazione e la disgregazione degli Stati nazionali a favore di quel governo non farebbero altro che rafforzare in modo decisivo quella balia. Inoltre per difendere la necessità di tali disgregazioni, Crouch deve dimostrare che le identità nazionali sono facilmente sostituibili da identità multiple che dovrebbero prendere le forme di bambole “matrioska” (dobbiamo ammettere che la citazione che ne facciamo qui è più che altro dettata dal voler inserire un pizzico di comicità involontaria nel dibattito): Io qui sostengo invece che sinistra e destra conservano senza dubbio il loro significato; che la sinistra socialdemocratica può offrire un suo contributo distintivo a questo conflitto; che è necessario porsi dalla parte della globalizzazione contro i nuovi nazionalismi […] le identità multiple che sono oggi a nostra disposizione dovrebbero diventare una serie di cerchi concentrici che si arricchiscono l’un l’altro con radici ferme in una sussidiarietà cooperativa, o una specie di matrioska russa con una successione di bambole di dimensioni differenti contenute in modo confortevole l’una dentro l’altra (Crouch 2019, 8).

Piuttosto che seguire ancora gli argomenti invero un po’ cabarettistici tipici di molti fautori globalisti politicamente auto-dichiaratisi di sinistra (vedi paragrafo successivo), riportiamo l’attenzione sul realismo, magari un po’ pessimista, delle dinamiche internazionali, che dipendono anche da “potenze” non del tutto controllabili dagli stregoni neo-ordoliberali che disegnano l’Europa. Una osservazione in particolare merita attenzione: la sovranità nazionale si è dissolta in Europa, ma non nel resto del mondo. Quindi l’Europa dei liquidi, intangibili ed intoccabili, da un lato, diritti dei mercati, e, dall’altro lato, diritti soggettivi (che in realtà pretendono di universalizzare come tali quelle che sono soltanto ultra-soggettive pulsioni desideranti, e che, comunque,

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non sono mai commisurati a dei doveri) sarà ridotta sia a vivere un aumento entropico del disordine – le libertà non fondano un ordine – sia a rivestire sul piano mondiale il ruolo drammatico di un vaso di coccio fra vasi di ferro. Infatti, come conclude Carrino (2016, 143), «se invece l’Europa in quanto civiltà continuerà ad identificarsi con il mercato prima e con i diritti poi, il suo suicidio è assicurato».

5. La “sinistra” e la UE Quali basi ideologiche – che peraltro, in generale, sappiamo che sono le uniche a poter consentire un certo consenso a una dittatura, seppure commissaria – sostengono la struttura e l’ordinamento della UE? Se, come da molti rilevato, nel neo-ordoliberalismo contemporaneo vi sono richiami più o meno evidenti alle radici religiose con le loro teologie politiche e soprattutto alla teologia del capitalismo nel senso di Benjamin, una piuttosto paradossale base ideologica è fornita anche dalla sinistra (ancor più paradossalmente anche da quella radicale anticapitalista) tramite la sua visione internazionalista. Paradossale, perché la UE è uno dei tentativi più geniali in senso politico-giuridico, e sicuramente dei più riusciti, di garantire lo sviluppo del capitalismo, il mantenimento di un saggio di profitto sufficientemente elevato, e la valorizzazione del capitale tramite il controllo del lavoro (che, ricordiamo, è marxianamente la “conditio sine qua non” per l’esistenza del profitto e il cui ruolo è primario rispetto a quello, assai più enfatizzato, dell’innovazione e del progresso tecnologico). Infatti, come rileva Streeck, Ideologicamente, lo svuotamento politico-economico dello Stato-nazione – cioè delle istituzioni nazionali democratiche a favore di quelle sovranazionali tecnocratiche – si avvale di alcune connotazioni normative positive dell’internazionalismo, in particolare di sinistra, per ricoprire il ruolo che nello Stato-nazione autoritario di Schmitt era riempito, presumibilmente, da appelli alla disciplina patriottica. L’uso dell’internazionalismo di sinistra per il disempowerment è un metodo particolarmente “ironico” per de-democratizzare un’economia politica capitalista, specialmente se proveniente dalla sinistra stessa. Viene fornito con una denuncia morale dei confini e del protezionismo in nome di un frainteso cosmopolitismo,

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identificando la “globalizzazione” con la liberazione, non solo del capitale, ma della vita in generale (Streeck 2015, 365).

Ma se appare ironicamente paradossale il sostegno della sinistra, una ironia ancora maggiore viene dal fatto che oggi il richiamo apparentabile alla vecchia “disciplina patriottica” – che è definito, curiosamente come se fosse un insulto, “sovranismo” (con un forse inconsapevole riferimento al tema “schmittiano” per eccellenza), oppure “populismo”, dagli apologeti europeisti – è una (se non l’unica) forma di contestazione alla “dittatura commissaria” della UE, e comprende, nella sua accezione negativa, persino i difensori dei diritti sociali sanciti dalle Costituzioni, come sottolinea Preterossi (2017, 118): La stessa questione della democrazia (ce la possiamo ancora permettere?) in Europa si è fatta particolarmente spinosa, anche perché investe un architrave dell’autolegittimazione dell’Occidente: sta di fatto che la sovranità popolare oggi è vista con sempre maggiore sospetto dalle élite liberal-globaliste; ed è impressionante come documenti del Fondo monetario internazionale (FMI) e della Banca Mondiale qualifichino ormai come “populiste” tutte le posizioni che rivendicano politiche per il lavoro e diritti sociali (quindi l’applicazione delle Costituzioni del secondo dopoguerra).

Se l’economia mainstream è ovviamente il supporto “scientifico” alle politiche della UE, tuttavia anche l’economia politica “critica” degli ultimi anni non solo non ha prefigurato valide alternative politiche ed economiche, ma ha invece esplorato proposte per una espansione della UE in senso federale (in ciò aderendo al sogno di Hayek e dei neo-ordoliberali). Per questi economisti “critici” il problema non è che c’è troppa Europa, ma ce n’è troppo poca, anche se vagheggiata come un Europa che dovrebbe un giorno diventare democratica51:

51 L’idea che fare oggi più Europa sia la premessa per avere domani un ambito più globale in cui estendere la democrazia sembra un’esca efficace con cui le élite europee prendono all’amo molti che si dichiarano di “sinistra”, come ironizza Streeck (2015, 365): «Per dissipare le preoccupazioni su una possibile egemonia dei mercati globali sulla partecipazione democratica, e con essa dell’ambito economico su quello sociale, i sogni di una futura – globale o, come minimo, conti-

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Il gruppo Euro-Memorandum (ad esempio EuroMemo 2012), in cui sono figure di spicco molti dei più importanti economisti politici critici europei, sta costantemente sostenendo misure federaliste: la mutualizzazione del debito (ad esempio, Eurobond); Politica industriale a livello dell’UE; pagamenti per trasferimenti fiscali e un budget UE più ampio; Controlli di capitale e Norme di coordinamento salariale in tutta l’UE; una politica fiscale espansiva comune; e politiche estere che richiedono un’agenzia collettiva europea come nuovi approcci agli Association Agreements e all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) (Ryner 2015, 288289).

Sebbene talune proiezioni macroeconomiche suggeriscono che proposte di questo genere porterebbero a uno sviluppo più alto, diffuso ed eco-sostenibile (Eatwell et al. 2014), esso presenta almeno un paio di difetti, il primo dei quali è strettamente interno al modello economico che potrebbe non aver contemplato effetti finali opposti a quelli prospettati nel progetto: infatti, le implicazioni radicali di ciò che è necessario per realizzarlo sono spesso sottovalutate. Che una maggiore quota salariale genererebbe una maggiore crescita della produttività dell’output attraverso gli effetti di Kaldor-Verdoorn è certamente plausibile; tuttavia, è probabile che ciò comporti un aumento dell’intensità di capitale, portando esattamente alla crescita senza lavoro e alle conseguenti pressioni fiscali sui sistemi di previdenza sociale che hanno motivato in primo luogo la moderazione salariale competitiva-corporativa (Storm and Nastepaad 2013: 104) (Ryner 2015, 288-289).

Il secondo difetto è ancora più radicale: si tratta di proposte che appartengono, almeno tenuto conto dello stato corrente della storia europea, a un taccuino dei sogni di un prigioniero senza nemmeno una lima. Tuttavia se la sinistra, per esempio quella italiana, da decenni fino ad oggi sostiene la UE non sarà probabilmente perché le è sfuggito per dabbenaggine il legame evidente fra la costruzione europea e il progetto neo-ordoliberale, in quanto di esso ne era

nentale – democrazia sono offerti come esche per gli idealisti di sinistra: promesse di un futuro migliore in cui la democrazia internazionale avrà riguadagnato il controllo sul capitale internazionale, e se non domani, sarà dopodomani».

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emersa contezza già fin dall’immediato dopoguerra, ma piuttosto sarà perché ne è una sostenitrice. È, infatti, interessante notare come, al contrario di quanto accaduto per la ratifica italiana del Trattato nel 1992, caratterizzata, come vedremo più avanti, da una stupefacente adesione a-critica di tutte le parti politiche, comunisti compresi, molti decenni prima, nell’occasione della ratifica dello Statuto al Consiglio d’Europa del 1949 già invece era chiaro nella sinistra italiana come i tentativi di porre limiti alla sovranità dello Stato in nome dell’internazionalismo, del cosmopolitsmo e della pace nascondessero in realtà la volontà di utilizzarli per neutralizzare il conflitto, spoliticizzare l’ordine economico e tenere a freno le possibilità democratiche di emancipazione dei lavoratori. Ancora Somma (2019) fornisce una utile ricostruzione critica del dibattito parlamentare sulla ratifica, in cui evidenzia che il dibattito parlamentare fu acceso anche perché negli stessi giorni si discuteva pure l’adesione al Patto Atlantico, e, considerando ancora che sempre nei medesimi giorni veniva fatta nascere l’Organizzazione per la cooperazione economica europea (Ocse), appariva chiaro come vi fosse stato un disegno politico volto alla creazione di organismi sovra-nazionali in funzione anti-socialista, disegno politico peraltro esplicitamente rivendicato dal Ministro degli esteri repubblicano Sforza, che era stato fra i fautori della nascita degli organismi sovranazionali. Sebbene il Consiglio d’Europa non fosse un organo sovranazionale con poteri costituenti e quindi sostitutivo delle sovranità nazionali come avrebbero voluto i “federalisti”, ma solo un organo composto da membri nominati dai parlamenti nazionali degli Stati aderenti (anche se la scelta di tali membri richiedeva la maggioranza assoluta e quindi la potenziale esclusione delle opposizioni), con un esecutivo di carattere intergovernativo e un organo deliberante con poteri meramente consultivi, il disegno precisato da Sforza, prevedeva una futura trasformazione del Consiglio d’Europa in un organismo comprendente «un organo di governo supernazionale» e «un vero e proprio parlamento europeo» con competenze comprendenti persino la creazione di una «moneta europea». I motivi sottostanti a questo disegno apparivano evidenti, per esempio, al socialista Basso, che vi leggeva, più che il proposito sbandierato di promuovere la pace e i diritti umani,

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l’obiettivo economico della libera circolazione delle merci; inoltre, nel passaggio della borghesia dal nazionalismo al cosmopolitismo, egli coglieva la risposta all’acquisita consapevolezza delle classi lavoratrici di poter sottrarre lo Stato nazionale al controllo della borghesia. Insomma la borghesia brigava per internazionalizzare col fine implicito di ridurre la sovranità nazionale che invece le classi lavoratrici vedevano come il contesto in cui poter acquisire maggiori poteri e tendere all’emancipazione. La borghesia nasce con una coscienza nazionale all’origine e si pone come classe nazionale; lotta per superare le divisioni che erano retaggio della vecchia organizzazione feudale, lotta per abbattere le dominazioni straniere che erano retaggio delle vecchie contese dinastiche, e soprattutto lotta perché il capitalismo si assicuri le condizioni di un libero sviluppo sulla base di un sufficiente mercato […]. La situazione di questo dopoguerra è caratterizzata dal fatto che riesce impossibile alle borghesie, alle classi dominanti, indebolite dell’Europa occidentale, di conciliare la legge del profitto capitalistico con la necessità di garantire un sufficiente tenore di vita alle classi popolari, riesce impossibile difendere ancora i propri privilegi contro la pressione di classi che hanno acquistato la coscienza dei propri diritti e che non potendoli soddisfare nel quadro delle antiquate strutture minacciano di farle saltare […]. Ed ecco che noi assistiamo a questo punto al passaggio improvviso di quelle borghesie occidentali dal vecchio esasperato nazionalismo ad un’ondata di cosmopolitismo (Basso 1949).

Basso evidenziava, inoltre, come non solo si dovesse ben distinguere tra i concetti di internazionalismo e cosmopolitismo, ma anche si dovesse mostrare come essi fossero incompatibili tra loro, proprio come lo erano gli interessi dei lavoratori e dei capitalisti: Così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale (Basso 1949).

Quindi già nel 1949, come dimostrano le parole di Basso, era presente una chiara percezione che il disegno sottostante alle retoriche invocazioni a istituire istanze sovra-nazionali non fosse

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la kantiana “pace perpetua” ma la blindatura del capitalismo dai rischi della democrazia degli Stati nazionali: La distinzione tra cosmopolitismo e internazionalismo era appena tracciata, tuttavia in termini sufficientemente netti da vanificare il tentativo di presentare il cosmopolitismo come unico baluardo contro il ripetersi delle tragedie appena sperimentate con il conflitto mondiale. Si poteva cioè smascherare la retorica secondo cui la sovranità nazionale era fonte di nazionalismo e persino di “odio razziale”, e il contrasto della sovranità nazionale una condizione irrinunciabile per mantenere la pace tra i popoli europei: per avviare finalmente tra essi “un periodo di fratellanza, di comprensione, di collaborazione” e rendere in tal modo evidente la “sostanziale unità del genere umano” (Somma 2019, 25-26).

Lo smascheramento di questa retorica compiuto sessant’anni fa è, invece, paradossalmente, andato sempre più perdendosi proprio quando il disegno smascherato si faceva più palese e acquistava potenza. Pare quasi incredibile che la medesima retorica contro la sovranità nazionale sia ancora oggi usata in modi persino più pesanti senza che nessuno risollevi criticamente quelle ormai antiche intuizioni o che, almeno, faccia sommessamente capire ai pubblicitari dell’europeismo e del cosmopolitismo che, seppure sia impotente persino a esprimere critiche, tuttavia la sua attività cognitiva non è per ora azzerata, ovvero che, per dirla con Totò, “accà nisciuno è fesso”. Diventa allora persino sorprendente quanto si verifica oltre quarant’anni dopo in occasione dell’adesione italiana al Trattato di Maastricht. È ancora Somma (2019) che ci racconta delle avvertenze sulle conseguenze per l’Italia del Trattato, che Guido Carli esternò ricordando quando, come Ministro del Tesoro, fu rappresentante dell’Italia nei negoziati per la definizione dei contenuti del Trattato che condussero alla fine all’odierna Unione economica e monetaria, ovvero con l’Atto unico europeo del 1986. Carli manifestò stupore per la diffusa incapacità di riconoscere le implicazioni dell’Unione economica e monetaria, che pure erano ben chiare fin dall’inizio come egli ebbe a ri-delucidare. Innanzitutto, stupore per il silenzio o la mancata comprensione che il Trattato implicava una sottaciuta modifica costituzionale, di quella Costituzione a parole acclamata come intoccabile:

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È stupefacente constatare l’indifferenza con la quale in Italia è stata accolta la ratifica del Trattato di Maastricht, rispetto al clamore e al fervore interpretativo che si è potuto registrare in Francia, nel Regno Unito, in Germania, in Danimarca, nella stessa Spagna. La cosa è tanto più difficile da comprendere se si considera che per l’Italia, più che per tutti gli altri Paesi membri della Comunità, il trattato rappresenta un mutamento sostanziale, profondo, direi di carattere costituzionale (Carli 1996, 432).

Ma soprattutto Carli è stupito del fatto che, da un lato, sia palese che l’Unione Europea abbia l’obiettivo di eliminare tutto quello che per il quale la “sinistra” aveva operato con successo, e, dall’altro lato, quest’ultima plauda; per questo egli elenca con estrema precisione economica e politica quali siano gli obiettivi della UE, magari fossero sfuggiti coperti dal frastuono propagandistico europeista: L’Unione Europea implica la concezione dello Stato minimo, l’abbandono della programmazione economica, la ridefinizione delle modalità di ricomposizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva per gli enti locali, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile (con la sconfessione del principio del recupero automatico dell’inflazione reale passata e l’aggancio della dinamica retributiva all’inflazione programmata), la drastica riduzione delle aree di privilegio, la mobilità dei fattori produttivi, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e nell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche da parte dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe (Carli 1996, 432).

Non era difficile leggere in queste parole che il Trattato avrebbe portato alla completa eliminazione del welfare state keynesiano e, per quanto riguarda l’Italia, del compromesso politico e costituzionale risultato di grandi lotte democratiche e sindacali. Ma, come acutamente osserva Somma, all’epoca si evitò di stigmatizzare questo aspetto, se non altro perché le forze politiche critiche con il cosmopolitismo borghese avevano rimpiazzato l’internazionalismo crollato assieme al Muro di Berlino con l’europeismo incarnato dalla moneta unica (Somma 2019, 42).

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Inoltre, lo stesso Somma poi prosegue (non senza una punta di perfidia) a fornire un esempio della scarsa lungimiranza politica della dirigenza del Partito comunista di allora nel caldeggiare la ratifica: con la precisazione, fornita da Claudio Petruccioli nel corso del dibattito parlamentare per la ratifica del Trattato, che prima si dicevano cose diverse solo perché la Guerra fredda impediva di riconoscere apertamente come “l’idea di Europa” fosse “implicita non solo nelle origini internazionaliste, ma anche nella coscienza dell’antifascismo e della Resistenza” (Somma, 2019, 42).

Peraltro, anche approfondite analisi empiriche dell’atteggiamento della sinistra e della destra in Italia rispetto al tema dell’europeismo, rivelano come, a dispetto della chiarezza con cui la UE sviluppa un progetto neo-ordoliberale già visibile a partire dai suoi esordi e poi del tutto esplicito dagli anni ’80, i comunisti italiani non solo guardano fin quasi dall’inizio di buon occhio al principio del libero mercato, ma dopo la caduta del muro di Berlino fanno dell’europeismo il loro cavallo di battaglia identitario, mentre è, paradossalmente, il centro destra emerso dalle ceneri della Dc (partito europeista) a frenare rispetto al tema europeista: la vicenda tutta italiana del Pci si aggancia a questo punto con un più generale ri-orientamento della sinistra europea nei confronti dell’Europa, che la porta a superare in fatto di europeismo i partiti del centro destra… È singolare che sul fronte del centro e della destra le cose siano andate rispetto all’Europa in maniera quasi speculare che per la sinistra (Cotta 2005, 375).

Come mai, per esempio, nell’elettorato del centrodestra Italiano si sarebbe diffuso un certo antieuropeismo e sovranismo? La causa starebbe nelle quantomeno inusuali modalità della caduta di Silvio Berlusconi nell’autunno del 2011 e l’avvento del governo tecnico di Mario Monti, in seguito all’intervento ancor più inusuale della BCE52 (vedi paragrafo 6). Ma è anche evidente che

52 Sebbene dovrebbe essere considerata, secondo gli autori, una velenosa falsità, rimane vero che «nell’elettorato italiano di centro-destra si è depositato negli anni il veleno della propaganda che venne fatta dopo la caduta di Silvio

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l’élite successiva alla caduta del muro di Berlino, in buona parte fornita dalla sinistra democratica in Italia (come in Europa, vedi Prodi sia presidente del Consiglio italiano che della Commissione europea), appare anche agli europeisti addirittura troppo elitista e anti-popolare, tanto da avere favorito nelle masse tendenze anti-europeiste. Infatti, anche da parte dei sostenitori europeisti contemporanei emerge una certa critica all’europeismo elitario della classe dirigente italiana, paradossalmente quella più di sinistra e laica (da Prodi a Ciampi a Padoa-Schioppa53), vescovilmente predicatoria e di impronta “vilmente” economicista, in fondo causa, con questo suo atteggiamento che si allontana dai “cuori” delle masse, della ribellione sovranista di queste ultime: Un atteggiamento culturale, quasi un tic inconsapevole, assai diffuso nell’élite è nella classe dirigente europeista italiana. Riassumibile in questo adagio: l’Europa ci costringerà a fare, in economia come in politica, ciò che da soli non vorremmo ne saremmo mai in grado di fare […] l’espressione di un sovranismo europeo che però sottende la constatazione dell’infantilismo, dell’immaturità, della fragilità antropologica di uno dei paesi fondatori, cioè l’Italia […] questo retropensiero degli europeisti italiani non abbia inavvertitamente alimentato il sovranismo di casa nostra […]. Un sinodo vescovile di europeisti italiani, molti di estrazione azionista e repubblicana, hanno per anni raccontato al “popolo”, dall’alto dei loro pulpiti, che lo stare con l’Europa avrebbe corretto o compensato gli altrimenti Incorreggibili vizi italici […]. I predicatori avrebbero quindi aggiunto: l’Europa ci (vi) impone quel “vincolo esterno” senza cui noi (voi) non sapremmo come uscire dal nostro marasma permanente […] dopo 70 anni di queste prediche il “popolo” si è alla fine stufato e ribellato, consegnando il suo appoggio a forze politiche che, brutalmente o confusamente, additano l’Europa come fonte di oppressione maligna

Berlusconi nell’autunno del 2011 e l’avvento del governo tecnico di Mario Monti. La retorica del golpe dell’establishment europeo, della dittatura dello spread. Nulla di più falso, strumentale. Certo, la deriva dell’esecutivo del Cavaliere era vista con preoccupazione dalle varie cancellerie» (de Bortoli e Rossi 2020, 55). 53 «Tommaso Padoa-Schioppa un giorno mi raccontò la sua gioia nel condividere con esponenti politici e tecnici di altri paesi la comune passione per l’arte e la musica […] l’Europa della cultura, della musica e dell’arte c’era già. Mancava quella politica. Suggestivo. Ma anche esclusivo, distante, elitario […] abbiamo più che mai bisogno di persone come Tommaso Padoa-Schioppa, intelligenti, colte, perspicaci. Forse inadatte a colloquiare con la gente semplice [corsivo mio]» (de Bortoli e Rossi 2020, 58,64).

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e anti-italiana […] l’europeismo economicista, a lungo propugnato, in Italia, dai Ciampi, dai Prodi, dai Padoa-Schioppa, sta scivolando indietro nelle opinioni pubbliche (de Bortoli e Rossi 2020, 53, 60, 62).

L’Europa del funzionalismo economicista, della integrazione per la modalità “negativa” e per la via economica e finanziaria, avrebbe le proprie colpe nella diffusione del “sovranismo”, poiché trasformò un sogno costruito per riscaldare i cuori in una tela di norme per ingrossare i portafogli […] migliaia di norme, e decine di migliaia di pagine di testi giuridici comprensibili solo al centro funzionariale che gli andava via via producendo, destinate agli addetti ai lavori, non certo agli elettori. Alla fine, lo stanco ripetere le prediche europeiste di un tempo, condito forse con l’esibito senso di superiorità di predicatori nel frattempo invecchiati, è venuto a noia (per usare un eufemismo) alle predette masse popolari, le quali hanno riscoperto un sano (a loro dire) e frizzante nazionalismo (de Bortoli e Rossi 2020, 63).

Ovviamente questa argomentazione dimentica che la scelta di dar vita ad una Europa comune per economia e finanza (e non per politica e popoli, quella, come pensava Monnet, sarebbe venuta dopo) non era un optional fra i tanti più “idealistici” ed “etici”, ma rispondeva in realtà al vero obiettivo della costruzione della UE, quello di de-politicizzare e de-sovranizzare gli Stati per eliminare il conflitto più fastidioso per il capitale, che non è ovviamente quello militare (anzi), ma quello di classe. Riteniamo inoltre utile osservare che una base ideologica al progetto neo-ordoliberale europeo, sempre fornita dalla “sinistra”, è costituita dalle rivendicazioni “emancipatorie” di svariate identità, generi, gruppi e stili di vita – autodefiniti ed egoriferiti ‒ ad acquisire status anche giuridico. Questo è, peraltro, perfettamente connaturato col progetto neo-ordoliberale, abile, come ha rilevato Fanti (2021), a mascherare, paradossalmente, il pesante dominio sulle vite tramite l’assoggettamento psichico con narrazioni apologetiche ed impositive delle differenze identitarie e delle loro pulsioni rivendicative e antigerarchiche (quasi imitando le istanze libertarie del post-sessantotto). Lo storico della Columbia University, Lilla, rileva, nel suo recente lavoro apparso in Italia nel 2018, che negli ultimi decen-

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ni l’identità è diventata un campo di scontro politico cruciale: diritti delle donne, della comunità gay e di qualunque altra minoranza sono in cima ai programmi di tutti i partiti che si dicono di sinistra54. È in particolare nella sinistra liberale americana che è nata una visione politica che ha fatto dell’io e delle sue volatili definizioni un simbolo sacro, una politica definibile come «politica identitaria» (identity politics), ovvero un fenomeno egoriferito e antipolitico55. Come lo stile di vita implicato dalla religione protestante riformata è all’origine dei valori e delle pratiche del capitalismo moderno, secondo Weber, così ancora la medesima origine sembra informare i valori e le pratiche dell’uomo contemporaneo atomizzato nel “grande fratello” del capitalismo turbo-finanziario, che diffonde il suo stato “liquido” anche nel mondo sociale e personale: L’isteria collettiva sull’identità è un’espressione della cultura evangelica americana. Ciclicamente ci troviamo di fronte a quelli che gli storici chiamano “grandi risvegli”, periodi di fervore religioso in cui le schiere di nuovi convertiti si trasformano in una massa di invasati monomaniaci. […] oggi, [è] la coscienza identitaria […]. I miscredenti «si svegliano», confessano i loro peccati e si chiedono perdono. Non è un caso che oggi gli attivisti afro-americani chiedano all’America bianca di svegliarsi, e non ci deve sorprendere il fatto che chi non è “risvegliato” a sufficienza diventi un capro espiatorio o un intoccabile (Lilla 2018, Prefazione).

54 «Per inseguire quella molteplicità incomprensibile [le varie identità personali] la sinistra si è disgregata, diventando una litigiosa famiglia di movimenti sociali senza una visione comune del futuro […] l’unico punto su cui i liberal sono riusciti a trovare un accordo è stata l’identità […] ogni cosa ha preso a ruotare attorno ai […] discriminati per ragioni etniche o di genere» (Lilla 2018, Prefazione). 55 «mentre […] l’uomo americano diventava sempre più concentrato sulle piccolezze del proprio self, la parola identità è stata impiegata per indicare il nostro io interiore, un’entità irripetibile che reclamava protezione. È stata la fortuna popolare della psicanalisi a diffondere l’idea che ogni persona è lo scrigno di un’identità individuale che deve essere coltivata e difesa, ma verso gli anni Ottanta questa concezione ha fatto un balzo in avanti: si è affermata allora l’idea che l’identità personale doveva essere rappresentata ed espressa attraverso l’azione politica. Il modo più efficace per mettere in pratica questo scellerato proposito era concentrare le energie su temi specifici che ruotavano attorno al centro di gravità dell’autodefinizione» (Lilla 2018, Prefazione).

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Sebbene centrato sul lato americano, Lilla pare in grado di cogliere l’estensione della «politica identitaria» anche all’Europa, in cui la centralità dei diritti identitari è ben visibile nell’Unione Europea. Infatti, Lilla ne sta vedendo anche un rapido trasferimento in Europa («la concezione di cui parlo sta rapidamente attraversando l’Atlantico e intacca il vocabolario politico europeo»56), che era un tempo protetta dalla presenza diffusa della prospettiva marxista e dall’assenza sia di una forte ideologia individualista che di una immigrazione di massa, ma che, adesso, cadute quelle protezioni, l’espansione dell’immigrazione clandestina offre ai democratici una nuova categoria di ultimi per cui combattere, ora che la classe operaia li ha abbandonati per affidarsi alla protezione dei movimenti populisti. Dall’altra, i giovani ripiegati sul proprio io che vogliono comodamente impegnarsi con il mondo senza uscire dalla camera da letto possono impratichirsi con la politica identitaria nello spazio virtuale della rete, dove premere un tasto è considerato un atto rivoluzionario.

Anche per Lilla, la rivalutazione dello Stato-nazione57 e un ri-orientamento sul paradigma della cittadinanza (anziché sull’antipolitico diritto di qualsivoglia ego, diritti peraltro in linea con le necessità capitaliste della unica libertà importante, quella del consumatore), che significa assumere un atteggiamento critico verso la burocrazia dell’Unione Europea e combattere aperta-

56 «In Francia c’è una discussione accesa sul multiculturalismo e sul futuro della tradizione repubblicana; in Inghilterra la politica dell’identità sta iniziando a trovare spazio nella corrente del Partito laburista di Jeremy Corbyn, che ha conquistato la leadership mentre il partito perdeva contatto con la sua origine marxista. Il tema del gender sta diventando sempre più importante, specialmente nei paesi protestanti del nord Europa. Siamo alla confluenza di dinamiche sociali e politiche perfette per alimentare la nascita di una versione europea della identity politics di sinistra» (Lilla 2018, Prefazione). 57 «Parlo dello Stato-nazione come locus dell’azione e della legittimazione democratica. La vecchia sinistra considerava l’autonomia nazionale come condizione necessaria dell’autodeterminazione democratica, dalla lotta per l’indipendenza della Grecia nell’Ottocento ai conflitti per la liberazione dei popoli dal giogo coloniale nel Novecento. La sinistra di oggi si ostina invece a trarre le conclusioni sbagliate dalle guerre mondiali, cioè che lo Stato-nazione è per sua natura intollerante e violento, e perciò va superato» (Lilla 2018, Prefazione).

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mente l’immigrazione illegale, sarebbero necessari compiti della “sinistra”, per la quale la politica identitaria non può certo essere un sostituto del marxismo, in quanto essa non offre una visione comprensiva della società, dell’economia e della cultura, non sviluppa alcun interesse per la politica estera. Chiusa com’è nella prigione della soggettività, non è in grado di offrire una chiave interpretativa per spiegare il mondo. Specialmente in Europa, la politica identitaria non è che un segnaposto provvisorio, una forma antipolitica (Lilla 2018, Prefazione).

E sicuramente la storia americana mostra possibili similitudini con quella recente dell’Europa. Infatti Lilla sottolinea come sia solo un vecchio luogo comune quello secondo il quale l’America nasce come progetto multiculturale in grado di trascendere e ricomprendere tutte le identità particolari; anzi, al contrario, rispetto alle questioni dell’appartenenza nazionale e della doppia lealtà si sono scontrate – fino ad oggi – due concezioni opposte, l’una, che fu rappresentata da Theodore Roosevelt e che mirava a forgiare una nuova identità nazionale, l’altra, che fu rappresentata dal filosofo Horace Kallen e che sosteneva il pluralismo dei gruppi e degli stili di vita, e che, quindi, l’America è in realtà apparsa unita solo di fronte ad avversità quali la Grande Depressione o la Seconda guerra mondiale. In verità sembra che l’America – e quindi non solo l’Europa – non possegga, per usare un termine cruciale nel dibattito sulla Unione Europea, un proprio demos e quando, secondo Lilla, già a partire dagli anni Sessanta è diventato chiaro a chiunque che l’omogeneizzazione culturale non sarebbe mai avvenuta, allora sarebbe diventato evidente il pericolo della visione multiculturalista, pericolo quindi che potrebbe riguardare, mutatis mutandis, anche l’Europa: Così il multiculturalismo si è trasformato in un progetto ideologico teso a delegittimare le istanze della cittadinanza americana universale e dell’esperienza comune. Oggi questa tendenza è diventata una seria minaccia al nostro unum (Lilla 2018, Prefazione).

Insomma, in conclusione, la sinistra appare il cavallo di Troia, in Europa come in Italia, per il successo del disegno politico neo-ordoliberale.

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6. La cornice cronologica dei fatti principali e i provvedimenti post-crisi In termini cronologici, il periodo di interesse qui viene inaugurato dalla grande crisi finanziaria del 2008/2009, con la successiva depressione, e si concentra sul quinquennio 2010-2015, durante il quale si sono manifestati alcuni dei casi più complessi di crisi economica e politica all’interno dell’Eurozona, e in cui la UE si è trovata ad agire in modo determinato per la gestione della crisi. Argomenteremo qui che tale gestione ha presentato un duplice aspetto: da un lato, interventi per così dire caratterizzati dall’urgenza e dalla necessità di tamponamenti e di temporanea soluzioni alle crisi più esplosive, dall’altro lato, la UE ha utilizzato la contingenza politico-economica per implementare un ulteriore fase del progetto intenzionalmente volto alla costruzione di un’Europa neo-ordoliberale. Infatti, attraverso le misure di gestione della crisi nel periodo 2010-2015 – varate in risposta al progressivo deterioramento delle condizioni economiche della zona Euro – si introduce una innovazione sostanziale dei sistemi di governance economico-politica dell’UE. Senza addentrarsi nello specifico della disciplina comunitaria, riportiamo in termini sommari il contenuto e la cronologia di alcuni principali provvedimenti della UE prima della crisi. Iniziamo ricordando che il Patto di Stabilità e di Crescita (PSC) fu originariamente formulato dal Consiglio europeo di Amsterdam il 16 e 17 giugno 1997, a cui aderirono i paesi della Eurozona – prima Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Spagna e poi anche Cipro, Estonia, Malta, Slovacchia e Slovenia – e, successivamente, anche paesi che non avevano aderito all’Euro, quali Bulgaria, Danimarca, Lettonia, Lituania, Polonia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia ed Ungheria. Il Patto era composto da due regolamenti del Consiglio del 7 luglio 1997, previsti dall’art. 99 del Trattato, il n.1466/97 – il cui obiettivo era la sorveglianza sulle politiche economiche degli Stati membri – ed il n.1467/97, che si proponeva la rapida implementazione delle modalità di attuazione della procedura prevista dall’articolo 104 per i disavanzi eccessivi, mentre successivamen-

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te con i Regolamenti n.1055/2005 e 1056/2005 avveniva una prima revisione del Patto, allo scopo di permettere lo scorporo di alcune spese di investimento dal calcolo del disavanzo consentito. Quale era l’impegno degli Stati aderenti al PSC? Quello di perseguire l’obiettivo di medio termine di un saldo del conto economico delle pubbliche amministrazioni prossimo al pareggio o in avanzo. Infatti, in termini operativi, il Patto prevede, un rafforzamento delle politiche di vigilanza sui deficit e i debiti pubblici e predispone una particolare procedura d’infrazione, la Procedura per Deficit Eccessivo (PDE), che ne costituisce il principale strumento sanzionatorio. In particolare, sottolineiamo alcune importanti novità della governance europea introdotte dal PSC: i) si introduce, modificando il più tradizionale monitoraggio delle politiche fiscali, la prevenzione degli squilibri di finanza pubblica, imponendo a tutti i paesi membri la formulazione concordata di ex ante obiettivi di bilancio di medio termine, per il cui raggiungimento è richiesto il contenimento della crescita della spesa pubblica al di sotto della crescita di medio termine del PIL; ii) si introduce, in aggiunta alla soglia del deficit, quella dello stock di debito pubblico, che dovrà convergere più o meno rapidamente in tutti i paesi membri verso il valore del 60 per cento del PIL; iii) si stabilisce da gennaio 2014 l’obbligo per i venticinque Stati firmatari del PSC di inserire nel diritto nazionale – ma non in modo autonomo, bensì previa valutazione dell’Eurogruppo, della Commissione e del Consiglio europeo, che hanno il potere di inviare inviti ed raccomandazioni per modificare nel senso da essi voluto i programmi nazionali da legiferare in parlamento – gli obiettivi di bilancio a medio termine e il limite dello 0,5% del PIL per i disavanzi strutturali (che può salire all’1% se il rapporto debito/PIL è nettamente inferiore al 60%); iv) si impone agli Stati membri di prevedere nel diritto nazionale i modi e i tempi per porre, in futuro, immediato rimedio ad una violazione di bilancio: nel caso di superamento del limite del disavanzo strutturale (o di deviazione dal percorso

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di avvicinamento a esso) il diritto nazionale deve prevedere che automaticamente scatti la tagliola di una correzione58. Con il PSC la UE punta ad istituire il rigore di bilancio all’interno della UEM, rafforzando le precedenti disposizioni sulla disciplina fiscale nell’Unione monetaria previste agli articoli 99 e 104 del Trattato. Non a caso, il PSC entra in vigore con l’adozione dell’euro, il 1° gennaio 1999. Veniamo adesso ai provvedimenti della UE dopo la crisi del 2008. La sintetica cronologia delle misure varate, che modificano pesantemente le precedenti regole di condotta degli organismi economici dell’Unione, è la seguente. Un successivo intervento, ancora riguardante il tema del PSC, ovvero il rafforzamento della supervisione monetaria e fiscale della UE rispetto agli Stati nazionali, avvenne con la dichiarazione congiunta dei Capi di Stato e di Governo in data 11 marzo 2011 – il cosiddetto Patto Euro plus – col quale le già esistenti regole europee di bilancio dovevano anche essere recepite negli ordinamenti interni degli Stati membri: in particolare, si richiedeva che il livello giuridico interno avesse «natura vincolante e sostenibile sufficientemente forte (ad esempio costituzionale o normativa quadro)». In altre parole si sottraevano alla possibilità della dialettica democratica nazionale il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 e il PSC del 1997, con i loro – felicemente o infelicemente noti – parametri del 3% di rapporto tra disavanzo e PIL e del 60% del rapporto tra debito e PIL, allo scopo di evitare disavanzi eccessivi (attuale art.126 TFUE di Lisbona). Quindi, nella parte finale dell’anno 2011, si interveniva di nuovo con un obiettivo preciso: rendere ancora più stringenti i precedenti vincoli del PSC. Questo accadeva con il cosiddetto Six Pack, approvato in via definitiva dal Consiglio dell’UE l’8 58 Notiamo che se l’apparato sanzionatorio è più rigoroso, più vasto, di più celere applicazione, semi-automatico sia ex-ante sia ex-post, tuttavia il PSC appare introdurre anche elementi di maggior flessibilità nel corso di una crisi grazie al focus sulla posizione di bilancio sottostante a medio termine. Un esempio di flessibilità è la concessione di un maggior tempo per correggere, nel caso di una imprevista riduzione della crescita, il disavanzo di bilancio superiore al 3% del PIL, come è accaduto ad esempio per Spagna, Portogallo e Grecia nel 2012 e per Francia, Paesi Bassi, Polonia e Slovenia nel 2013.

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novembre 2011 e costituito da cinque regolamenti (1173/2011, 1174/2011, 1175/2011, 1176/2011 e 1177/2011) entrati in vigore il 13 dicembre 2011, e da una direttiva (2011/85/UE), tutti miranti a rafforzare la sorveglianza e la vigilanza economico-finanziaria delle politiche nazionali di bilancio. Ulteriormente, e sempre in senso restrittivo, il Six Pack veniva integrato nel 2013 dal cosiddetto Two Pack, costituito a sua volta da due regolamenti. Vogliamo comunque osservare che prima di arrivare all’obbligo, più o meno cogente, per gli Stati membri della “costituzionalizzazione” del pareggio di bilancio, già nel Trattato di Maastricht si poteva intravedere l’obiettivo del conseguimento del pareggio nei bilanci nazionali degli Stati membri, se non altro come conseguenza implicita sia della dichiarazione della definitiva scelta di campo cui l’Europa tutta doveva aderire, che veniva fatta nell’art. 102 del Titolo VI ‒ quello dedicato alla Politica economica e monetaria ‒ proclamando l’adesione dell’Unione a un’economia aperta di mercato e a un regime di libera concorrenza, sia del conferimento del potere d’indirizzo e di coordinamento in materia di bilanci nazionali al Consiglio e alla Commissione. Quindi già in Maastricht il potere esecutivo e amministrativo rispetto al coordinamento di politica economica e di bilancio è chiaramente detenuto dal Consiglio e dalla Commissione59, senza alcun ruolo significativo del Parlamento europeo. Possiamo quindi dire che il percorso segnato a Maastricht giunge al suo compimento, per quanto riguarda l’ambito fiscale, il 2 marzo 2012, a Bruxelles, quando tutti i paesi dell’Eurozona, tranne Regno Unito e Repubblica Ceca, aderiscono al Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione Europea, noto come Fiscal compact. La sua ratifica da parte dell’Italia avviene con la legge 23 luglio 2012, n.114. Il Trattato obbliga in modo stringente l’autonomia degli Stati membri in campo fiscale introducendo: 1)

59 Infatti, quando nel Titolo VI del Trattato si scrive di un’attività di collaborazione tra gli Stati, in realtà si conferiscono i poteri relativi ai bilanci nazionali al Consiglio e alla Commissione, dove, in particolare, quest’ultima ha la potestà di esercitare anche un’attività di vigilanza sul rispetto di tutti e cinque i parametri previsti da Maastricht in materia di stabilità economica e contabile, inclusi quelli del controllo dei disavanzi e dei deficit pubblici (art. 103 comma 3).

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il limite al deficit strutturale, nel corso di un ciclo, pari allo 0,5 % del PIL60; 2) l’obbligo di ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL in una percentuale annualmente commisurata in un ventesimo della differenza tra il suo livello effettivo e la soglia del 60%, già prevista da Maastricht. Quale è la caratteristica distintiva del Fiscal compact, che per gli altri aspetti conferma quanto già previsto dal PSC e dal Six Pack? Quella di prescrivere agli Stati contraenti di inserire obbligatoriamente il pareggio di bilancio nell’ordinamento nazionale, e di farlo «preferibilmente a livello costituzionale». Ricordiamo inoltre l’istituzione del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (FESF) nel maggio 2010, per l’erogazione di prestiti condizionati ai membri dell’area euro in difficoltà, che viene sostituito nel luglio 2012 dal Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) detto anche Fondo Salva Stati – con relativa modifica del Trattato Europeo di Lisbona e con una capacità di prestiti per 500 miliardi di euro –, meccanismo inteso a fornire sostegno alla risoluzione delle crisi per i paesi dell’Eurozona usando alcuni strumenti di assistenza finanziaria sotto una pletora di condizioni, rivelatesi, per esempio nel caso della crisi della Grecia, imposizioni quasi “dittatoriali”, o, infine, l’avvio nel 2012 del programma di quantitative easing da parte della BCE. In particolare, l’introduzione del Fiscal compact (entrato in vigore all’inizio del 2013), può essere considerato come un vero nuovo pilastro della costruzione economica dell’UE secondo l’approccio neo-ordoliberale.

60 Nello specifico, l’art. 3 del Fiscal compact prevede che i bilanci degli Stati firmatari debbano essere «in pareggio o in avanzo», il che è vero se «se il saldo strutturale annuo della pubblica amministrazione è pari all’obiettivo di medio termine specifico per il paese, quale definito dal Patto di stabilità e crescita rivisto, con il limite inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del prodotto interno lordo», sebbene deviazioni significative da tale obiettivo sono consentite – ovviamente purché «temporanee» e «non compromettano la sostenibilità del bilancio di medio termine» – solo in presenza di circostanze eccezionali (quali «eventi inconsueti incontrollabili ovvero periodi di grave recessione economica ai sensi del Patto di stabilità e crescita»).

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Insieme ad esso, cruciale si rivela anche la connessa successiva “costituzionalizzazione” del pareggio di bilancio (di cui tratteremo nel paragrafo 18). Quindi, con i vari provvedimenti culminati nel Fiscal compact, si mirava ad estendere la governance europea, al di là della sorveglianza monetaria già realizzata molti anni prima e di quella fiscale – in primis la sorveglianza sia sul debito che sul disavanzo di bilancio – in corso di rafforzamento (infatti, dei sei provvedimenti approvati sopra detti, tre si focalizzano sui bilanci pubblici61 e uno stabilisce gli standard da seguire nella redazione dei conti pubblici nazionali), anche a un vasto ambito non ancora “invaso”: quello di tutte le politiche economiche (per esempio rispetto al mercato del lavoro), principalmente attraverso i due provvedimenti che prevedono la costituzione di un nuovo meccanismo di allerta e un sistema di sanzioni nel caso si verifichino squilibri economici. Ancora una volta si ricorre alla lezione della crisi e all’emergenza per sostenere che neppure le ormai raggiunte discipline monetarie e fiscali siano sufficienti a garantire la stabilità economica e finanziaria dell’area euro in generale, specie se vi sono paesi in cui le democrazie mantengono le competenze in tema di mercato di lavoro (retribuzioni, sindacati, ecc.) e diritti sociali (scuola, sanità, pensioni) e, quindi, queste democrazie supportano politiche “devianti” dall’ordine neo-ordoliberale62.

61 Obiettivo cruciale dei provvedimenti è che le regole di bilancio pubblico fissate dal Patto siano tradotte in leggi di rango superiore a livello nazionale, possibilmente costituzionali. 62 Al contrario, vi è chi, anche fra i giuristi, vede le leggi dell’economia neo-ordoliberale come la rappresentazione di un ordine naturale di inesorabile applicazione e che la Costituzione economico-finanziaria neo-ordoliberale alla base della UE – con i relativi obblighi della UE agli Stati nazionali – non sia altro che la giusta, necessaria e irreversibile risposta ai processi “naturali” della globalizzazione, con la correlata eliminazione degli “errori ed orrori” delle Costituzioni nazionali uscite dalla seconda guerra mondiale e definite keynesiane: «un fenomeno singolare, anche questo poco studiato, è che le questioni attuali di finanza e moneta derivano non tanto da tentativi coscienti e premeditati di determinati poteri di occupare lo spazio della sovranità economica degli Stati nazionali quanto da sistemi di eventi in larga misura oggettivi e incontrollabili. In altri termini i processi di dislocazione transnazionale della sovranità monetaria e finanziaria sono risposte più o meno obbligate alle crisi monetarie, finanziarie e fiscali degli

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Viene adesso da domandarsi quali siano i fondamenti di teoria economica dietro al Fiscal compact, e se questi fondamenti siano robusti o meno. Ricapitolando, il Fiscal compact stabilisce tre obblighi fondamentali: 1) la regola del pareggio di bilancio dovrà essere introdotta negli ordinamenti giuridici nazionali degli Stati membri a livello costituzionale o equivalente; 2) il disavanzo strutturale del governo non deve superare lo 0,5% del PIL nominale; 3) i paesi con un debito superiore al livello di riferimento del 60% dovrebbero ridurlo al ritmo del 5% della differenza all’anno. Non intendiamo qui discutere la fondatezza teorica di quei precisi termini numerici, sui quali ci soffermeremo più avanti in questo paragrafo, ma quella degli argomenti generali per giustificare quegli obblighi. Seguendo Fitoussi e Saraceno (2013), i fautori del Fiscal compact portano tre argomenti a favore. Il principale è un argomento di esternalità: se un governo incorre in un deficit di bilancio non può che finanziarlo con il debito, la qual cosa in un’unione monetaria tenderebbe a far aumentare il comune tasso di interesse, con un possibile danno agli altri paesi. Ma è davvero così? Guardiamo alle origini di un deficit di bilancio: se l’origine è i) la risposta ad una situazione recessiva, quel deficit andrebbe a sostenere la domanda e quindi le importazioni; ii) ingiustificata, allora, il deficit creerebbe solo una pressione inflazionistica che ridurrebbe la competitività rispetto all’estero, quindi aumenterebbero le importazioni. Allora, qualsivoglia ne sia l’origine, un deficit in un

Stati, esplose dai processi di globalizzazione dell’economia. Il dominio della Costituzione monetaria e finanziaria europea sulle Costituzioni nazionali, pertanto, non è un aspetto della globalizzazione, ma è la risposta auto-immunologica a questa. Ed è una risposta irreversibile, alla quale le stesse funzioni di welfare e di governo “politico” dell’economia sono condizionate. La Costituzione monetaria e finanziaria europea […] detta ora le regole per le Costituzioni degli Stati membri; tuttavia le stesse regole, derivando direttamente dal sistema economico, esistevano prima che l’Unione le formulasse: quantificazione e allocazione della spesa pubblica, equilibrio monetario, patto di stabilità, criteri di convergenza hanno il fondamento comune in un processo cieco e quantitativo, di una terrificante semplicità, che subordina le scelte degli Stati e degli stessi poteri ultrastatali al verificarsi di equazioni parametriche, espresse in funzione del prodotto interno lordo, cioè della ricchezza della nazione. L’abbandono degli errori (e orrori) delle Costituzioni keynesiane è obbligato» (Di Plinio 2005, 989).

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paese farebbe aumentare la sua domanda per i beni degli altri paesi e i loro deficit si ridurrebbero grazie all’aumento delle entrate fiscali. Inoltre, se assumiamo che il mercato finanziario sia in grado di valutare correttamente la sostenibilità dei deficit di bilancio dei diversi paesi, l’aumento del deficit causerà in quel paese un aumento del premio per il rischio pagato mentre lo ridurrà per gli altri paesi, i quali in questo modo beneficeranno del comportamento “sbagliato” di quel paese. Un secondo argomento fornito dai fautori del Fiscal compact è che se il deficit è eccessivo, potrebbe portare all’insolvenza e allora per fronteggiarla dovrebbe intervenire la BCE, la quale si troverebbe però a violare il suo statuto e a perdere credibilità rispetto al corretto perseguimento del suo obiettivo primario di lotta all’inflazione. Tuttavia, va notato che nel caso in cui l’accumulo del debito pubblico abbia avuto origine nella crisi economico-finanziaria del settore privato (come nel recente caso di Spagna o Irlanda), porre limiti al debito pubblico, di per sé, non ridurrebbe il rischio del ricorso alla BCE. Un terzo argomento portato dai sostenitori del Fiscal compact proviene da quella letteratura paradossalmente chiamata neo-keynesiana nonostante sia nata proprio per smentire Keynes – di cui sono iniziatori Giavazzi e Pagano (1990) –, la quale sostiene che riduzioni del deficit di bilancio non solo non riducono “keynesianamente” la domanda e il reddito, ma se la riduzione del deficit di bilancio è credibile e significativa, può innescare (attraverso una riduzione delle imposte attese nel futuro) una revisione al rialzo del reddito permanente e quindi della spesa privata. Tuttavia è stato dimostrato (Perotti 2013) che in molti casi l’effetto espansivo successivo ad una riduzione del deficit pubblico era stato innescato da un aumento delle esportazioni piuttosto che dal meccanismo della domanda interna supposto dai modelli neo-keynesiani secondo Giavazzi e Pagano. Come raccontato in Conti e Fanti (2020, 422-423), questi risultati “scientifici” neo-keynesiani (in realtà anti-keynesiani) sono la pezza d’appoggio dell’expertise, utili alla UE per veicolare il progetto neo-ordoliberale. Ma questi risultati talvolta si rivelano poco “scientifici”, anzi totalmente falsi: come noto, Reinhart e Rogoff (2010) mostravano, nel loro “autorevole” articolo sull’Ame-

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rican Economic Review, col loro modello neo-keynesiano, l’effetto negativo di un elevato rapporto tra debito pubblico e PIL sulla crescita economica, ma Herndon, Ash e Pollin (2013) mostravano invece che i loro risultati erano inficiati da banali errori e che il risultato corretto avrebbe mostrato che il debito non aveva effetti significativi sulla crescita, facendo concludere al premio Nobel Krugman (2013) che «quello che ci insegna il caso dello studio Reinhart-Rogoff è fino a che punto l’austerity è stata spacciata servendosi di falsi pretesti. Per tre anni, l’adozione di politiche di austerity è stata presentata non come una scelta ma come una necessità». Può addirittura stupire che le ricette economiche del neo-ordoliberalismo in salsa italiana siano state persino fatte benedire, assai post-mortem, dalle parole del segretario del Partito Comunista, Enrico Berlinguer, come accaduto nel caso del bel libro di Alesina, Favero e Giavazzi nel quale gli autori dimostrano con abbondanza di casi che ridurre le spese è molto più favorevole alla crescita del PIL […] quel libro reca in epigrafe una celebre frase di Enrico Berlinguer, che è passato alla storia anche come profeta dell’austerità. La frase fu pronunciata nel 1977 e dice fra l’altro, che austerità significa efficienza e giustizia (de Bortoli e Rossi 2020, 63).

Allacciandosi agli autori del libro che citano Berlinguer per perorare la causa dell’austerità, merita ricordare l’influenza decisiva che avrebbero avuto economisti italiani, di solito ritenuti “periferici”, nel supporto alle politiche della UE. Il pensiero italiano neo-ordoliberale risalente a Einaudi (all’epoca poco noto all’estero) avrebbe “figliato”, decadi dopo, gli economisti della Bocconi (Alesina è stato definito come il suo “pieno erede”63), i Bocconi’s

63 Ricordando che Alesina indica, tra le riforme strutturali più urgenti, quella relativa ai sistemi pensionistici, Santagostino (2010), per illustrarne la sua “filiazione” da Einaudi, ci informa che Einaudi, durante la sua presidenza della Repubblica italiana, proponeva di estendere l’età pensionabile da 65 a 70 anni per i dipendenti pubblici e, curiosamente, utilizzando i poteri detenuti dalla Presidenza in quegli anni, attuò questa riforma tra i dipendenti del Quirinale. Inoltre, ricordando che «Alesina lancia un appello ai cittadini europei, proponendo sei priorità: liberalizzazioni per i mercati dei prodotti e dei servizi; liberalizzazione del mercato del lavoro; immigrazione; università e ricerca; sistemi giudiziari; e fi-

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Boys – stabilitisi in siti transnazionali di potere epistemico e politico, nel mondo accademico, nel policy-making, nei think tank e nel settore finanziario globale, per cui molti membri della “rete Bocconi” avrebbero avuto accesso alla cosiddetta “porta girevole” tra il mondo accademico e la sfera delle politiche economiche – che avrebbero promulgato la anti-keynesiana politica di “austerità espansionistica” dei modelli neo-keynesiani (e le idee neo-ordoliberali più in generale) a livello mondiale ma soprattutto europeo (Oddny 2016). Oddny ricorda che, solo per limitarsi alla UE – e solo per citarne alcuni – Alesina era un habitué della BCE, della Commissione Europea e del Consiglio Europeo, Ardagna e Perotti consulenti per la BCE e il primo anche per la Direzione generale dell’Economia e degli Affari finanziari (DG ECFIN), Grilli – prima di diventare ministro delle finanze del governo Monti – è stato prima vicepresidente e poi presidente del Comitato economico e finanziario dell’UE (CEF) (influente organismo istituito dal Trattato di Maastricht “per tenere sotto controllo la situazione economica e finanziaria del Stati membri e della Comunità e riferire regolarmente al Consiglio e alla Commissione in materia”), Tabellini ha lavorato come consigliere economico del primo ministro italiano Romano Prodi, e, durante la crisi del debito sovrano, Giavazzi è stato consigliere economico di Monti (un altro della Bocconi) durante la sua revisione della spesa pubblica. Quindi idee economiche italiane ‒ originariamente formulate nella prima metà del XX secolo (Einaudi) – sarebbero state importanti nel plasmare le risposte politiche della UE alla Grande Recessione del 2008, attraverso la visione economica dei Bocconi’s Boys che, in linea con il progetto neo-ordoliberale, vedono la UE come mezzo per limitare la sovranità economica degli Stati europei e ridurre la spesa pubblica. Di passaggio, annotiamo che, come conseguenza del “dominio” anche “scientifico”, oltreché mediatico e “partitico”, dei sostenitori delle politiche europee in Italia, ogni pensiero

nanza pubblica» può concludere di avere «buone ragioni per credere che Einaudi e i liberali del suo tempo sarebbero stati d’accordo con queste riforme» (Santagostino 2010, 382).

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critico sul tema è stato represso, come onestamente riconosciuto anche da convinti europeisti64. Quindi, per concludere, tutti gli argomenti avanzati dai fautori del Fiscal compact potrebbero anche essere ribaltati. Come nasce e come funziona uno dei più recenti strumenti regolativi adottati dall’Unione Europea col quale si manifesta in modo lampante la natura ordoliberista della sottostante logica? Si tratta del Regolamento (UE) n. 1176/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici, introdotto col cosiddetto Six Pack – un insieme di cinque regolamenti comunitari (regolamento n. 1177/2011 dell’8 novembre 2011, n. 1173/2011, n. 1174/2011, n. 1175/2011 e n. 1176/2011 del 16 novembre 2011) e una direttiva (n. 2011/85/ UE dell’8 novembre 2011), destinati a modificare e rafforzare il PSC del 1997. In sintesi, si ha l’introduzione di un sistema di sorveglianza degli Stati (basato sui dati macroeconomici di ciascun paese), poi, se ritenuto necessario, di rieducazione e di punizione: se la Commissione europea ritiene che ci siano degli squilibri65 avvia una procedura che impone allo Stato di adottare le misure di politica economica da essa indicate e quindi se del caso infligge le sanzioni. Questo meccanismo è definito come procedura per gli squilibri macroeconomici (Macroeconomic Imbalance Procedure-Mip)66. Come funziona la procedura Mip? Preliminarmente, forniamo una descrizione degli elementi caratteristici della

64 «nel dibattito sulle scelte europee ho assistito, negli anni, a qualche conato, forse inavvertito, di “razzismo intellettuale”. Chi era contro la moneta unica, l’integrazione Europea, veniva spinto ai margini del dibattito. Le sue opinioni venivano considerate culturalmente indegne. E nemmeno discusse. Non bisognava avere dubbi sul fatto, per esempio, che l’adesione alla moneta unica avesse aperto all’Italia “verdi vallate di progresso e benessere”. Il pensiero unico e soprattutto l’arroganza intellettuale hanno così spinto le opzioni diverse (che sono legittime anche se sbagliate) al di fuori dell’“arco costituzionale europeo”, delegittimandole moralmente» (de Bortoli e Rossi 2020, 57-58). 65 Per esempio, a riguardo dei limiti – imposti ai vari Stati membri- di un debito pubblico non superiore al 60% del Pil e di un deficit pubblico non superiore al 3% del Pil. 66 Il meccanismo approfondisce ed estende quanto già previsto nella già esistente «procedura per i disavanzi eccessivi» (Pde) regolata dall’articolo 126 del TFUE.

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procedura (Lops, 2014a; Bruzzo, 2017; Guerrieri, 2017). Nel Mip si prevede una valutazione basata su “una tabella” (scoreboard) composta da “un insieme d’indicatori macroeconomici e macrofinanziari” (ben 11 indicatori principali, per i quali sono state definite anche delle soglie indicative di allerta, e 28 ausiliari), pubblicati dalla Commissione europea ogni anno, a novembre, contenente i valori degli indicatori aggiornati all’anno precedente per ciascuno dei 28 Paesi dell’UE (18 appartenenti all’area Euro e 10 non appartenenti). I numeri dello scoreboard vengono usati per la relazione sul meccanismo di allerta nell’ambito del Semestre europeo (che è un ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio dei Paesi aderenti all’UE che prende il nome di “semestre” solo perché si effettua nei primi sei mesi di ogni anno, iniziato a gennaio 2011 attuando una precedente decisione del Consiglio della UE del settembre 2010), per individuare gli Stati membri da sottoporre poi ad analisi più particolareggiate e complete, fino alla promozione o alla bocciatura. Gli indicatori del Mip che servono al sistema di allerta preventivo includono un vasto insieme d’indicatori, tra cui due indicatori di squilibrio esterno, tre indicatori di competitività e sei indicatori di squilibrio interno, che possono essere così classificati come di seguito67. Gli indicatori di squilibrio esterno sono: (1) i saldi di bilancia corrente (current account) in percentuale del PIL, calcolati come medie mobili triennali (allerta per squilibrio se i deficit correnti superano il valore soglia del 4%e gli avanzi correnti quello del 6%)68;

67 Bruzzo (2017, 16) rileva che il set di indicatori considerato dalle istituzioni europee nel Mip non è però esaustivo per individuare le possibili cause di squilibrio macroeconomico, come si può vedere dall’assenza del “tasso di interesse sul debito pubblico” che condiziona la sostenibilità del servizio del debito, sostenibilità che può essere valutata «attraverso lo spread, cioè il differenziale di rendimento rispetto ai Bund decennali della Germania degli omologhi titoli di Stato nazionali oppure mediante il tasso di interesse implicito (nominale o reale), ovvero il rapporto tra gli interessi corrisposti in un anno e lo stock di debito pubblico risultante alla fine dell’anno precedente». 68 Questo parametro è stato particolarmente dibattuto, in quanto il surplus delle partite correnti della Germania era oltre il 7% del PIL (nella media a tre anni), e quindi superava il parametro previsto dal Mip (tanto che la Commissione eu-

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(2) gli investimenti netti internazionali (net international investment position) (allerta per squilibrio se superiori al 35% espressi in termini di PIL). Gli indicatori di competitività sono: (3) le variazioni triennali dei tassi di cambio reali effettivi (REER), sulla base di deflatori IAPC/CPI, relativi a 41 altri Paesi industriali (allerta per squilibrio se si supera la banda di oscillazione pari al 5% in più o in meno per i paesi dell’area euro e all’11% in più o in meno per i restanti paesi UE); (4) le variazioni quinquennali percentuali delle quote di mercato all’export (allerta per squilibrio se superiori alla soglia di –6%); (5) le variazioni triennali percentuali dei costi unitari nominali del lavoro (ULC), (allerta per squilibrio se superiori alla soglia di +9% per i paesi dell’area euro e +11% per il resto dell’UE). Gli indicatori di squilibri interni sono: (6) l’ammontare del debito privato (consolidato) in percentuale del PIL (allerta per squilibrio se superiore alla soglia del 60%); (7) il flusso di credito al settore privato in percentuale del PIL, con soglia del 15%; (8) la variazione annuale dell’indice dei prezzi delle abitazioni relativo al deflatore dei consumi Eurostat, (allerta per squilibrio se superiore alla soglia del 6%); (9) l’ammontare totale del debito pubblico in percentuale del PIL (allerta per squilibrio se superiore alla soglia del 60%); (10) la media mobile triennale della disoccupazione (allerta per squilibrio se superiore alla soglia del 10%); (11) la variazione annuale percentuale delle passività finanziarie totali (allerta per squilibrio se superiore alla soglia del 16.5%). Nel mettere sotto controllo lo squilibrio interno (bilancio pubblico e mercato del lavoro) come fonte di crisi, il Mip dimostra la dottrina economica neoliberale che lo permea. Infatti possiamo considerare due differenti, e persino opposte visioni teoriche

ropea aveva dovuto invitare la Germania ad aumentare la domanda interna per riequilibrare il suo surplus).

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rispetto alle cause della formazione di squilibri e crisi (Bruzzo, 2017). La dottrina economica mainstream può essere sintetizzata da un Rapporto dello European Economy Advisory Group, pubblicato nel 2012, secondo cui un incremento del disavanzo e del debito pubblico (magari a causa di pensioni, scuola e sanità pubbliche) di un Paese – che agisce negativamente su entrambe le componenti principali della sua bilancia dei pagamenti (cioè il conto delle partite correnti e quello dei movimenti finanziari) – unitamente a un costo del lavoro troppo alto – a causa di un mercato del lavoro sindacalizzato e con diritti collettivi riconosciuti che mina la competitività dei prodotti interni – aumentano il livello delle importazioni e indeboliscono la credibilità dei titoli pubblici. Quindi il nesso causale per l’occorrenza della crisi va dall’accoppiata “bilancio pubblico disinvolto – mercato del lavoro sindacalizzato” in direzione della creazione dei “debiti gemelli (deficit e debito pubblico, deficit della bilancia dei pagamenti)”. La visione economica non ortodossa (De Grauwe 2011; Cesaratto 2012) invece imputa l’innesco (e non la risultante) della crisi al disequilibrio esterno, a partire dalla constatazione che sin dalla nascita dell’area dell’Euro le partite commerciali erano in forte e persistente squilibrio fra i vari Stati membri, classificabili all’incirca in tre gruppi: i Paesi “periferici” dai disavanzi costantemente peggiorati dall’epoca dell’adozione dell’Euro, altri Paesi (comprendente anche l’Italia) che partendo da avanzi contenuti sono finiti in disavanzi, ed infine Paesi, tra cui la Germania, che hanno invece progressivamente incrementato i propri surplus. Sarebbe allora a partire dai profondi squilibri reali degli scambi commerciali (e dei corrispondenti movimenti di capitale) che si sarebbe innescata la crisi finanziaria in Europa, e dunque gli squilibri interni nei conti pubblici sarebbero il risultato (e non la causa) della crisi69. La prima novità del regolamento Mip è l’istituzione di un meccanismo permanente di allerta, che mette sotto monitoraggio

69 Va da sé che, indipendentemente dalle direzioni causali della crisi, i debiti gemelli possono interagire in maniera tendenzialmente destabilizzante dell’economia (De Grauwe e Yuemei 2012).

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continuo gli Stati membri. Si sottopongono così gli Stati ad una valutazione permanente dei comportamenti, al fine di individuarne con certezza e rapidità le “deviazioni” dal dogma. Il “guardiano” è la Commissione, che raccoglie i dati relativi a una lista di indicatori economici per ogni Paese membro e ne monitora l’evoluzione pubblicando un rapporto annuale. A questo stadio quindi il monitoraggio e la valutazione sono su basi automatiche. La Commissione, quindi, – in caso che abbia rilevato uno squilibrio economico – ha la competenza di proporre delle “raccomandazioni politiche” per rettificarlo, che il Consiglio invia al paese inquisito e, se questi viene giudicato inosservante, verrà sanzionato finanziariamente. In ogni caso, si rileva una ulteriore centralizzazione del potere nelle mani della Commissione, per la quale si prevede, nel punto 6 del preambolo del Reg. 1176/2011, «un ruolo più attivo nella procedura di sorveglianza rafforzata, per quanto concerne le valutazioni specifiche per ciascuno Stato membro, il monitoraggio, le missioni in loco, le raccomandazioni e gli avvertimenti». Nel preambolo generale del regolamento possiamo leggere principi ispiratori, obiettivi e strumenti. I principi direttivi enunciati sono i consueti dell’ordoliberalismo tedesco: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane e sostenibili. Inoltre si ricorda che si ritiene centrale nell’Unione costruire e ben tutelare il dinamismo del mercato interno, in linea con la visione del mercato come processo dinamico evolutivo tipica del neoliberalismo70. Appare quindi sottolineato che con tale nuovo regolamento si ha l’obiettivo di rafforzare la struttura di governance europea, facendo tesoro dell’esperienza precedente71, in linea con la tecnica di introdurre progressivi “slittamenti” autoritari una volta che si

70 Al punto 3 del preambolo si legge «Il conseguimento e il mantenimento di un mercato interno dinamico dovrebbero essere considerati elementi del funzionamento adeguato e corretto dell’unione economica e monetaria». 71 Al punto 2 del preambolo si legge che «è necessario trarre insegnamenti dall’esperienza acquisita nel corso dei primi dieci anni di funzionamento dell’unione economica e monetaria e, in particolare, c’è bisogno di una governance economica rafforzata nell’Unione».

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è fatto esperienza sia su quali punti della precedente governance si sia registrata una minore efficacia, sia su dove non vi sia stata resistenza democratica. Il linguaggio usato è inoltre estremamente rivelatore dell’obiettivo di “governamentalità” in senso foucaultiano – ricordiamo il noto sintagma “sorvegliare e punire” – che si vuole raggiungere con questa procedura. Individuiamo l’uso sorprendentemente frequente delle parole prevenzione, correzione72, vigilanza, sorveglianza – multilaterale e rafforzata –, allerta, esame approfondito, ispezione73, e così via. Sembra di vedere una immagine cinematografica di un campo di detenzione con i riflettori, le sentinelle strategicamente dislocate per una sorveglianza multilaterale, le sirene di allarme, le stanze degli interrogatori approfonditi, le stanze di rieducazione e quelle di punizione. Il “panopticon” di Bentham sembra qui trovare una applicazione, al di là delle consuete fabbriche, scuole, prigioni, ospedali etc., nelle normative europee per “correggere” le democrazie nazionali “devianti” dall’ordine neo-ordoliberale. Ma su cosa esercitare questo surplus di sorveglianza a più livelli e con più strumenti? Qui – nel punto 7 del preambolo del Reg. 1176/2011 – troviamo esplicitata la dilatazione della “invasione” di competenze da parte della UE (ovvero di sottrazione di sovranità alle democrazie nazionali): «In particolare, la sorveglianza delle politiche economiche degli Stati membri dovrebbe essere estesa al di là della sorveglianza di bilancio […]. Tale estensione della sorveglianza delle politiche economiche dovrebbe svolgersi in parallelo con il rafforzamento della sorveglianza di bilancio». Quindi, si richiede che, da un lato, la sorveglianza di bilancio sia rafforzata (vedi paragrafo 18), ma dall’altro lato si

72 Al punto 4 del preambolo si legge «per prevenire e correggere i disavanzi pubblici eccessivi [...] per prevenire e correggere gli squilibri macroeconomici». 73 È estremamente istruttivo notare come, per esempio, in tre righe di 39 parole (nel punto 19 del preambolo) i termini di procedura, missione, prevenzione, vigilanza, sorveglianza (persino rafforzata e multilaterale), correzione, identificanti una precisa costellazione di significati, ricorrano quasi ossessivamente: «Una procedura intesa a monitorare e a correggere gli squilibri macroeconomici negativi, composta di elementi preventivi e correttivi, richiederà strumenti di sorveglianza rafforzata, basati su quelli utilizzati nella procedura di sorveglianza multilaterale. Essa può prevedere missioni di sorveglianza rafforzate».

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vada oltre alla sorveglianza del bilancio per arrivare a sorvegliare tutte le politiche economiche: non resta più spazio per autonome politiche nazionali di alcun tipo. Qui troviamo anche l’enunciazione esplicita del principio di sussidiarietà secondo la UE: questo quadro di controllo e misurazione della situazione di ciascun Stato lo facciamo noi perché lo facciamo meglio74. Vi si può notare l’inversione del suo significato rispetto al medesimo principio perorato dalla dottrina sociale cattolica e che, per questo tramite, era entrato a far parte dell’ideologia neo-ordoliberale: secondo tale dottrina, si dovrebbe occupare di un problema chi è più prossimo e più interno al medesimo (delega decentralizzante), mentre per la UE se ne deve occupare chi lo sa fare meglio (delega secondo benchmarking e best practice, tipica della governance aziendale, per cui si rimanda a Fanti 2021, parte II), anche se questo implica centralizzazione e sottrazione di competenze. Nella relazione annuale sono segnalati gli Stati membri che, secondo la discrezione della Commissione, debbano da essa essere sottoposti a un “esame approfondito” – che richiede anche congiuntamente missioni di sorveglianza e ispezioni da compiere in loco – e che, di conseguenza, possono presentare squilibri o anche soltanto correre il rischio di presentarli (art. 5, comma 1, Reg. UE 16/11/2011, n.1176). Quindi, si appalesa come la Commissione possa, in un procedimento accusatorio con ampi poteri inquisitivi, non solo individuare il “deviante” ma anche “criminalizzare” chi, a sua discrezione, in futuro potrebbe “deviare”. La potenza faustiana del Commissario UE in veste di Valutatore, opportunamente dotato della conoscenza della scienza economica, consente di sapere in modo incontrovertibilmente scientifico e nel

74 Al punto 27 del preambolo si legge «Poiché l’obiettivo del presente regolamento, vale a dire l’istituzione di un quadro efficace per l’individuazione degli squilibri macroeconomici e la prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici eccessivi non può essere realizzato in misura sufficiente dagli Stati membri a causa delle forti interazioni commerciali e finanziarie esistenti tra di loro, nonché dell’impatto delle politiche economiche nazionali sull’Unione e sull’intera zona euro, e può pertanto essere realizzato meglio a livello di Unione, quest’ultima può adottare misure in base al principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del trattato sull’Unione europea» (Reg. UE 16/11/2011, n.1176).

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tempo di un batter di ciglia se uno Stato dà segni di “infedeltà” ai comandamenti, come l’art. 4, comma 2 recita, si badi bene senza alcun senso dell’ironia: Il quadro di valutazione comprende un numero ristretto di indicatori macroeconomici e macrofinanziari per gli Stati membri; tali indicatori sono pertinenti, pratici, semplici, misurabili e disponibili. Esso consente una rapida individuazione degli squilibri macroeconomici che emergono a breve termine e derivanti da tendenze strutturali e a lungo termine (corsivo nostro).

C’è da domandarsi se gli emuli “locali” dei valutatori europei nelle rispettive aree di intervento (mercati, istruzione, sanità, pensioni etc.), per esempio nell’area universitaria quelli dell’Anvur, possono disporre per il loro compito di altrettanta “scienza” condensata in numeretti! Naturalmente qualcuno potrebbe domandarsi che cosa tendono a rilevare in modo così incredibilmente efficiente tali indicatori: se in effetti la fenomenologia da rilevare è accuratamente dettagliata nei termini di grandezze macroeconomiche e macrofinanziarie (p.e., partite correnti, tassi di cambio reale, quote di export, produttività, rapporto debito pubblico/ privato, prezzi delle abitazioni, etc.), non manca però la dimensione ontologica della rilevazione. Infatti l’entità di cui si occupano è quella al cuore della filosofia economica ordoliberale ed è esplicitamente rivelata all’art. 4, comma 4: «La scelta di indicatori e soglie tende a promuovere la competitività nell’Unione». Ecco il desiderio che muove l’ordoliberale: rendere concorrenziali, uomini e Stati. Non si debba tuttavia pensare che i “sorvegliati” non siano informati dell’avvio di un esame approfondito (una specie di comunicazione che, per usare una metafora, sta a metà fra l’avviso che “quest’area è sorvegliata per motivi di sicurezza” imposto dalla legge sulla privacy e il noto “avviso di garanzia” imposto dalla procedura penale) né che non possano essere ascoltati in fase di istruttoria (la famosa frase di tanti film “legali”, “cosa ha da dire l’imputato a sua discolpa?”) né in fase di sentenza emessa (in quest’ultimo caso solo se i Commissari lo concedono). Da notare che col Mip gli Stati membri, anche se non sono soggetti a un salvataggio, vengono sottoposti alla nuova “sorveglianza rafforzata” se la Commissione decide che uno Stato membro «si

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trovi o rischi di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la sua stabilità finanziaria» (Art. 2(1) Reg 472/2013). Una volta sottoposto a sorveglianza persino per un rischio futuro, lo Stato membro diventa – in termini metaforici – un internato di un “panotpicon” benthamiano o, da un punto di vista foucaultiano, una “bestia da confessione” per la condotta pastorale; per vederlo basta elencare sommariamente gli obblighi “confessionali” a cui lo Stato membro è sottoposto dai regolamenti del Mip, obblighi non solo nei confronti della Commissione, ma anche di altri “pastori” della medesima congregazione europea, quali la BCE, le Autorità europee di vigilanza (AEV), il Comitato europeo per il rischio sistemico (CERS)): a) comunica alla BCE […] e, se del caso, alle AEV competenti […] alla frequenza richiesta, informazioni disaggregate sull’evoluzione del proprio sistema finanziario, che comprendono l’analisi dei risultati di ogni prova da stress o analisi di sensibilità […]; b) effettua, sotto la vigilanza della BCE, […] o, se del caso, sotto la vigilanza delle AEV competenti, le prove da stress o le analisi di sensibilità […] per valutare la resilienza del settore finanziario a diversi shock macroeconomici e finanziari, secondo le modalità specificate dalla Commissione e dalla BCE in cooperazione con le AEV competenti e il CERS; c) deve presentare valutazioni periodiche della propria capacità di vigilanza del settore finanziario nell’ambito di una valutazione inter pares specifica effettuata dalla BCE […] o, se del caso, dalle AEV competenti; d) comunica alla Commissione qualsiasi informazione necessaria per monitorare gli squilibri macroeconomici a norma del regolamento (UE) n. 1176/2011 (Art 3(comma 3, a, b, c, d) Reg 472/2013).

Infine, è tale la pletora di adempimenti che si arriva persino alla confusione mentale del regolatore UE, il quale prevede che alla fine la BCE rediga una valutazione e la trasmetta a se stessa: Sulla base dell’analisi dei risultati delle prove da stress e delle analisi di sensibilità […] e tenuto conto delle conclusioni della valutazione dei pertinenti indicatori del quadro di valutazione degli squilibri macroeconomici […] la BCE […] e le competenti AEV predispongono, in collaborazione con il CERS, una valutazione delle potenziali vulnerabilità del sistema finanziario e la trasmettono alla Commissione con la frequenza indicata da quest’ultima, e alla BCE (Art. 3 (ultimo comma) Reg 472/2013).

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Nel caso invece che uno Stato membro sia interessato a una procedura di disavanzo di bilancio eccessivo, viene investito da una altra pletora di monitoraggi da subire e di relazioni da presentare, con un giudizio finale sulla qualità dei dati forniti: Lo Stato membro procede a una valutazione complessiva dell’esecuzione del bilancio nel corso dell’esercizio per le amministrazioni pubbliche e i relativi sottosettori. La valutazione contempla anche i rischi finanziari associati alle passività potenziali […] che possono avere effetti rilevanti sui bilanci pubblici […]. I risultati di tale valutazione sono inseriti nella relazione sul seguito effettivo dato per correggere il disavanzo eccessivo […]. Lo Stato membro presenta periodicamente una relazione alla Commissione e al comitato economico e finanziario circa le amministrazioni pubbliche e i relativi sottosettori, l’esecuzione del bilancio nel corso dell’esercizio, l’impatto sul bilancio delle misure discrezionali adottate sul fronte delle spese e delle entrate, gli obiettivi della spesa e delle entrate pubbliche, nonché le misure adottate e la natura di quelle previste per conseguire gli obiettivi. La relazione è resa pubblica […]. Se lo Stato membro interessato è destinatario di una raccomandazione del Consiglio […] la relazione […] è trasmessa per la prima volta sei mesi dopo […]. Se lo Stato membro interessato è il destinatario di una decisione di intimazione del Consiglio […] la relazione […] contiene anche informazioni sul seguito dato alle intimazioni specifiche del Consiglio. Essa è trasmessa per la prima volta tre mesi dopo […] effettua, in coordinamento con i più importanti istituti nazionali di controllo, un controllo complessivo e indipendente dei conti pubblici di tutti i sottosettori delle amministrazioni pubbliche, inteso a valutare l’affidabilità, la completezza e l’esattezza di tali conti pubblici ai fini della procedura per i disavanzi eccessivi e presenta una relazione sui risultati di tale controllo […] fornisce le informazioni supplementari disponibili ai fini del monitoraggio dei progressi realizzati nella correzione del disavanzo eccessivo. La Commissione (Eurostat) valuta la qualità dei dati statistici riferiti dallo Stato membro interessato (Art 10 (comma 2, 3, 4, 5, 6) Reg 473/2013).

Vale anche la pena notare che, secondo Somek (2015, 344-345), lo Stato di diritto viene leso anche dal fatto che tutti questi regolamenti comprendono una serie piuttosto confusa di procedure che, sebbene apparentemente dovrebbero “complementarsi” l’una con l’altra, in realtà si nidificano e si sovrappongono l’una sull’altra. Nota, inoltre, che il punto 13 del preambolo del Reg. 472/2013 precisa che tutti gli obblighi condizionali che la UE e gli organi sovra-nazionali suoi alleati impongono come, per esem-

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pio, quelli che appariranno nel Memorandum d’Intesa e che sono prescritti in tale regolamento «dovrebbero includere anche il sostegno finanziario concesso a titolo precauzionale e i crediti per la ricapitalizzazione di istituzioni finanziarie». Insomma guai a farsi concedere crediti anche per ragioni del tutto diverse e meno gravi – genericamente precauzionali o per ricapitalizzare qualche banca nazionale – da quelle della crisi, perché allora si finisce comunque per soggiacere a obblighi esautoranti la sovranità nazionale in campo politico-economico. Apparentemente, l’effetto finale della ‒ secondo Somek ‒ «brutta ed eccessiva regolamentazione dei processi politici nazionali» sarà che solo coloro che godono di “informazioni” o di “cariche” privilegiate” sapranno come ricavare le proprie routine procedurali districandole da una rete di complessità sempre crescente. Un’altra caratteristica decisamente “autoritaria” rispetto alle consuete procedure democratiche sta nel fatto che le decisioni della UE in tema di messa in stato di accusa come di successiva condanna sono tanto semi-automatiche nell’avvio quanto complicate, al limite dell’impossibilità, nel poterle bloccare o invertire. Se uno o più di questi indicatori si trova al di sotto o al di sopra di una determinata soglia ritenuta accettabile, la Commissione, insieme al Consiglio, può dare avvio alla procedura per gli squilibri macroeconomici. Una volta che questa procedura decisionale semi-automatica sia stata avviata, risulta difficile da bloccare (Greblo 2019, 133).

Questo apparato sanzionatorio appare ai più, per modalità, rigore e inarrestabilità, quantomeno una forzatura del quadro democratico nazionale da parte di un “sovrano” non propriamente democratico: Si tratta di un punto decisivo: un organismo dalla incerta legittimità democratica può imporre pesanti forzature alle decisioni assunte dai governi democraticamente eletti, dietro minaccia di sanzioni – a meno che in Consiglio non si formi una improbabile maggioranza in grado di bloccarle. La Commissione formula le «raccomandazioni» affidandosi alla

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consulenza e al quadro di valutazione economica forniti dai suoi esperti (Greblo 2019, 133).

Ma colpisce anche il fatto che il contenuto sia delle raccomandazioni che delle sanzioni appare tanto ampio quanto discrezionale: Inoltre, queste «raccomandazioni» possono riguardare pressoché qualunque cosa, dalle prevedibili richieste di riduzione del deficit alla liberalizzazione del mercato o persino alla modifica delle politiche pensionistiche o sanitarie (Greblo 2019, 133).

Infine, si può porre in dubbio la conformità delle medesime al diritto europeo, in quanto non è chiaro se le sfere in cui le medesime entrano appartengono alle competenze riconosciute dai trattati alle istituzioni europee: «dal momento che questi ambiti di policy forzano i confini della giurisdizione che i trattati riconoscono alle istituzioni europee, non è così scontato che il Mip sia conforme al diritto dell’Unione Europea» (Greblo 2019, 133). Quali riflessioni possiamo fare sulla proliferazione degli indicatori economici e, più in generale, dei numeri all’interno del diritto europeo (e, quindi, anche nazionale)? La prima è che evidentemente il linguaggio numerico (tipico del calcolo economico) è divenuto una modalità della governance dell’Unione Europea. Dani (2017) analizza questo fenomeno individuando un brusco cambiamento lessicale del diritto europeo; se nel 1992 con Maastricht sembrava prefigurarsi un crescente ricorso al lessico costituzionale nel diritto dell’Unione – sebbene vada ricordato che è proprio con l’indicazione dei parametri di finanza pubblica nel Trattato di Maastricht che il linguaggio dei numeri appare nel diritto europeo – dopo la crisi del 2008 appare «un brusco cambio di registro che potrebbe preludere ad un processo inverso di riflusso costituzionale, di cui il ricorso al linguaggio dei numeri costituisce la manifestazione più immediatamente tangibile» (Dani, 2017, 101). Infatti, vi è una ragione basilare per opporre la lingua del diritto costituzionale a quella dei numeri, come già Schmitt (1984, 52-57) nel 1928 chiariva: la disciplina costituzionale del potere politico, ovvero la democrazia, esige indeterminatezza e flessibilità compromissoria, cose che evidentemente non è nella

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natura dei numeri. Il numero invece rappresenta il “mezzo” ideale – rivestito di neutralità scientifica – per codificare in modo prescrittivo i “fini” che l’élite sovra-nazionale ha già prefissato, quei fini che sono inneggiati dal pensiero neo-ordoliberale. È in un simile contesto che i numeri finiscono per svolgere un ruolo strutturalmente diverso rispetto a quanto riscontrato nelle democrazie costituzionali. Se gli obiettivi delle politiche sovranazionali sono già fissati e se al legislatore dell’Unione non spetta che definire le modalità tecniche per il loro perseguimento, ai numeri non si chiede di razionalizzare la dialettica democratica tra governo e opposizione. I numeri sono invece utilizzati per articolare ed accentuare la prescrittività delle decisioni di sistema codificate nei trattati, rivestendole al contempo di una patina di neutralità. Quale è il ruolo dei numeri nella nuova governance economica europea? Principalmente, quello di de-politicizzare ancora di più il governo, ammantandolo di forme manageriali e di imparziali logiche tecniche, eliminando così i processi democratici. Secondo Dani (2017, 110-111), norme come quelle che disciplinano nel dettaglio l’andamento dell’obiettivo di medio termine, il tasso di riduzione del debito pubblico o gli indicatori di equilibrio macroeconomico, assegnano ai numeri […] lo scopo di imbrigliare in una logica manageriale le politiche di bilancio nazionali […]. Così facendo scelte che già erano state isolate dalla possibilità di una contestazione democratica all’interno del perimetro istituzionale dell’Unione sono sottoposte ad una ulteriore ipostatizzazione tecnocratica in sede nazionale. I numeri divengono perciò una componente cruciale di una strategia di trasformazione dello Stato sociale.

Sulla pretesa oggettività “scientifica” delle leggi della UE vale la pena riportare un racconto (Lops 2014b) su come fosse stata determinata una delle “soglie” critiche del Fiscal compact (il famoso insuperabile limite del 3% del disavanzo di bilancio); questo racconto sarebbe davvero solo una divertente barzelletta se non riguardasse in modo devastante le economie e le vite dei cittadini degli Stati europei, in quanto tale limite non ha, a dir poco, alcun fondamento razionale. A maggior ragione, il racconto assume un tono quasi “macabro” visto che viene diffuso poco dopo che l’Italia era stata “costretta” – a causa delle stime che indicavano uno

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sforamento di uno o due decimi (3,1-3,2%) della soglia critica – ad aumentare l’Iva dal 21 al 22%, in uno scenario di drammatica crisi con consumi calanti: La soglia del 3% sul deficit/PIL è stata elaborata negli anni ’80 da un sconosciuto funzionario del governo di François Mitterand: Guy Abeille, ai tempi non ancora trentenne. La storia è andata così. Dopo la vittoria alle elezioni del 1981 in Francia i socialisti guidati da Mitterand per mantenere le costose promesse elettorali avevano portato il deficit da 50 a 95 miliardi di franchi. Per “darsi una regolata” Mitterrand incaricò Pierre Bilger, a quel tempo vice direttore del dipartimento del Bilancio al ministero delle Finanze di implementare una regola per evitare spese pubbliche all’impazzata. Bilger contattò due giovani esperti che avevano una formazione economica e matematica all’Ensae: Roland de Villepin, un cugino del futuro primo ministro Dominique de Villepin e Guy Abeille. Sarà quest’ultimo ad elaborare il paletto del 3% sul PIL, nato però, per sua stessa ammissione, senza alcuna base scientifica: “Prendemmo in considerazione i 100 miliardi del deficit pubblico di allora. Corrispondevano al 2,6 % del PIL. Ci siamo detti: un 1% di deficit sarebbe troppo difficile e irraggiungibile. Il 2% metterebbe il governo sotto troppa pressione. Siamo così arrivati al 3%. Nasceva dalle circostanze, senza un’analisi teorica”. “Aujourd’hui en France Le Parisien” rivela un altro virgolettato di Abeille: “Abbiamo stabilito la cifra del 3 per cento in meno di un’ora. È nata su un tavolo, senza alcuna riflessione teorica. Mitterrand aveva bisogno di una regola facile da opporre ai ministri che si presentavano nel suo ufficio a chiedere denaro […]. Avevamo bisogno di qualcosa di semplice. Tre per cento? È un buon numero, un numero storico che fa pensare alla trinità”. Sperimentato in Francia questo paletto resse nel corso degli anni ’80, ad eccezione del 1986, anno in cui il governo ebbe un deficit maggiore. A dicembre 1991 quella regola entrò fu promossa da “francese” ad “europea” ed entrò a pieno titolo nei parametri di Maastricht […]. Il “padre della regola” che è diventato l’incubo di mezza Europa oggi ha 62 anni, e assiste agli sviluppi con un certo divertimento: “Non l’avremmo mai immaginato”.

Il racconto prosegue per documentare come avviene il passaggio da una “goliardata” francese ad una regola sacra del diritto europeo, tramite il ragionamento da “massaia” col quale Trichet convince Waigel, suscitando una certa perplessità “scientifica” del pur complice Tietmayer: Secondo quanto documenta la Frankfurte Allgemeine Zeitung l’allora Ministro delle Finanze tedesco Theo Waigel ha svelato come Trichet convin-

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se la Germania a dare l’ok al paletto del 3%: «Il livello di indebitamento europeo all’inizio degli anni ’90 era pari a circa il 60% del PIL. La crescita nominale era circa il 5%, e l’inflazione al 2%. In questa situazione i debiti potevano crescere al massimo di un 3 % all’anno, per non superare la soglia del 60%». Ma perché proprio il 3%, e non il 2,5 % o il 3,5 % o il 4%? «Economicamente è difficile da giustificare», disse una volta l’ex presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer, mentre osservava da vicino la nascita del criterio.

E questo metodo che sfiora il comico pare essere una invariante dei fini giuristi ed economisti della UE, come rivela Le Parisien sottolineando che l’ironia della storia è che i tecnocrati di Bruxelles si sono ispirati a questo famoso 3 per cento anche per creare un’altra regola iscritta nel nuovo trattato di bilancio europeo e altrettanto falsamente cartesiana, quella che obbliga a limitare il deficit strutturale degli Stati allo 0,5 per cento. Perché non l’1 o il 2 per cento? Nessuno lo sa (Lops 2014b).

Questi cambiamenti nel diritto dell’UE, dopo la crisi, sembrano aggravare la situazione precedente, minando soprattutto il processo democratico in sede nazionale. Seguendo Chalmers (2012), possiamo spiegare nel seguente modo articolato gli effetti negativi delle procedure Ue, introdotte nel 201275,rispetto al funzionamento della democrazia rappresentativa: a) Ogni anno, gli Stati membri devono presentare i loro piani di bilancio alla Commissione e all’Eurogruppo contemporaneamente a renderli pubblici, e certamente non oltre il 15 ottobre. b) Le leggi di bilancio devono essere sincronizzate in tutta l’area dell’euro in modo da essere adottate entro il 31 dicembre. c) I bilanci presentati entro il 15 ottobre devono essere valutati dalla Commissione entro il 30 novembre e i suoi pareri saranno quindi discussi dall’Eurogruppo. È facile osservare che in questa procedura la Commissione soppianta il ruolo

75 Le caratteristiche delle regole (introdotte attraverso il cosiddetto Six Pack, le leggi Two Pack e il Fiscal compact) fondate sul Semestre Europeo, il calendario di coordinamento delle politiche economiche dell’UE, sono descritte dalla UE nel proprio sito https://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-14-2180_en.htm.

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del Parlamento, in quanto essa è il primo luogo di rendicontazione per la proposta di bilancio. Peraltro ciò è in linea con una logica di tipo “regolatorio”, vale a dire valutare le prestazioni dello Stato membro alla luce degli impegni assunti nel suo programma di stabilità, senza tenere in conto alcuno i processi politici interni allo Stato nazionale che hanno portato a quella proposta. d) Inoltre, i lavori di valutazione della Commissione sono al chiuso, in quanto non vi è alcuna disposizione per la Commissione di ascoltare le opinioni di altri interessati e le disposizioni per il coordinamento tra di essa e il parlamento nazionale è del tutto debole. e) È necessario presentare il proprio parere sul bilancio successivamente al Parlamento solo se il Parlamento lo richiede. Questo sfavorisce il Parlamento nazionale nei confronti del proprio esecutivo, poiché quest’ultimo può vantare un consenso con la Commissione; di conseguenza, il bilancio è presentato al Parlamento sia come un fatto compiuto sia come una decisione dell’esecutivo che goda del sostegno di tutta l’Unione Europea, per cui vengono quantomeno indebolite le ragioni per mettere in discussione il bilancio stesso. f) Inoltre il Parlamento nazionale è indebolito anche dai vincoli temporali proposti: infatti ha solo il mese di dicembre per adottare qualsiasi legge di bilancio dopo il parere della Commissione. Questo tempo è persino inferiore a quello avuto dalla Commissione: c’è davvero poco tempo per riflettere, come le procedure democratiche richiederebbero. La conseguenza per il Parlamento è un drammatico prendere o lasciare. Quindi, la soppressione indiretta del ruolo del Parlamento introduce nel lungo periodo effetti quantomeno corrosivi per la democrazia rappresentativa, poiché gli attori interessati si rendono conto che tramite esso non è più possibile contestare la ridistribuzione in quanto il Parlamento ha sempre più solo un ruolo ratificatorio. Inoltre, riveste un certo interesse anche la descrizione delle procedure e degli esiti delle medesime nei casi di “peccato”, che sono individuati e disciplinati nelle nuove norme del 2012.

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Per le due tipologie di “peccato”, cioè lo “squilibrio eccessivo di disavanzo” e le “deviazioni osservate significative”, se Ecofin rileva, dopo la scadenza del termine, che lo Stato ha fallito nel prendere le misure raccomandate, allora viene presa una decisione che stabilisce la “non conformità”. Questa decisione viene presa sulla base di una raccomandazione della Commissione attraverso la QMV (la maggioranza di voto qualificata) “inversa”, che prevede il 55% degli Stati membri e il 65% della popolazione. L’aggettivo “inversa” significa che non riguarda una approvazione di una sanzione, ma un’abrogazione della medesima. È evidente che la maggioranza qualificata inversa rende estremamente difficile sindacare le “raccomandazioni” emesse dalla Commissione, che di fatto diventa da organo esecutivo amministrativo anche organo giudicante e legislativo, quindi un’autorità senza legittimazione e senza contrappesi, una forma quindi di “dittatura commissaria” del tipo di quella esercitata dalla BCE nell’ambito degli aspetti finanziari e dei salvataggi condizionali. Dopo la sentenza di “non conformità”, nel caso della procedura per gli “squilibri eccessivi di disavanzo”, scatterà automaticamente la sanzione di un deposito fruttifero dello 0,1% del PIL. Nel caso della procedura di “deviazione osservata significativa”, invece, viene presa un’ulteriore decisione entro 20 giorni, ancora una volta sulla base di una raccomandazione della Commissione e per maggioranza qualificata inversa. Nell’ambito di tale procedura viene riscosso un deposito infruttifero dello 0,1% del PIL. La procedura per i “disavanzi eccessivi” è analoga alle altre procedure. Ecofin giunge alla decisione che uno Stato non ha intrapreso azioni efficaci di propria iniziativa, senza la necessità di una raccomandazione della Commissione. La Commissione raccomanda quindi entro 20 giorni un’ammenda dello 0,2% del PIL, che si considera adottata a meno che Ecofin non voti contro di essa con la QMV inversa entro10 giorni. Le sanzioni ricorrenti saranno applicate agli Stati non conformi. Gli Stati sanzionati in base alla procedura di “deviazione osservata significativa” o laddove la Commissione abbia individuato “inosservanza particolarmente grave dei loro obblighi di bilancio”, sono soggetti a una sanzione di un deposito infruttifero dello 0,2% del PIL sulla semplice constatazione di un disavanzo

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eccessivo da parte del Consiglio. Gli Stati che continuano a gestire un disavanzo eccessivo possono essere soggetti a ulteriori ammende nell’ambito della procedura per i disavanzi eccessivi fino ad un massimale dello 0,5% del PIL nel caso venga rilevata una frode statistica. Inoltre le sanzioni possono comprendere anche una sospensione dei fondi strutturali e di investimento europei. Ai sensi della procedura per gli squilibri eccessivi, gli Stati soggetti a due decisioni successive di non conformità ai termini di un piano d’azione correttivo o di due omissioni nella fornitura di un piano d’azione correttivo devono convertire il loro deposito in un’ammenda. Come osserva Chalmers, la metodologia implicata in queste procedure UE è quella tipica delle “agenzie regolative”, ovvero tipica della governance di origine aziendale (vedi Fanti 2021, parte II). Si evidenzia in questo tipo di governance una relazione di “complicità” fra le varie istanze impegnate nel processo decisionale (Commissione, Ecofin, Consiglio), del tipo “il gatto e la volpe”, oppure del tipo “uno para il sacco e l’altro butta dentro”. I processi sono quindi, in ogni modo, analoghi ai processi regolatori in cui le agenzie esercitano un’autorità […] focalizzata sugli attori del mercato. C’è un’attenzione intensa al cambiamento del comportamento identificato attraverso l’interazione frequente e il classico modello normativo di “piramide della conformità” di risposte crescenti (discussioni, avvertenze, periodo di autoregolamentazione, sanzioni reversibili, sanzioni maggiori) […]. Lo stile normativo del processo decisionale è inizialmente presente nella stessa divisione del lavoro tra valutazione del rischio e gestione del rischio che si riscontra in altri settori dell’attività dell’UE con il primo visto come un processo di esperti e il secondo un processo politico e di valutazione. La Commissione valuterà le prestazioni nazionali e il Consiglio adotterà decisioni formali sulla base delle sue valutazioni (Chalmers 2012, 689-690).

Due, fra i fatti più noti, drammatici ed emblematici, di questo periodo meritano di essere segnalati: i) la lettera della Bce al Primo ministro italiano nel 2011 e la formazione successiva del governo tecnico; ii) la gestione del caso della Grecia tra il 2011 e il 2015. Una lettera riservata, a firma di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet, viene inviata il 5 agosto 2011 dalla BCE al Primo Mi-

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nistro del Governo italiano, Berlusconi. Nella lettera si richiede che l’Italia proceda ad una serie di riforme, in aderenza ad una «complessiva» e «radicale» strategia, che includono, ad esempio, la contrattazione collettiva e la disciplina del licenziamento dei lavoratori, le pensioni, la liberalizzazione dei servizi pubblici e la riforma dell’amministrazione pubblica, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio e così via, nonché le modalità con cui ottemperare. Luciani (2014, 64) rileva che la vicenda sollecita non pochi interrogativi per alcuni motivi: 1) la forma, in quanto «la lettera ha toni ultimativi, nei confronti di uno Stato pur sempre sovrano, che poco si addicono ad una Banca centrale [e] «non è stata divulgata ed è rimasta nei cassetti dei mittenti e del destinatario sino a che un quotidiano non l’ha divulgata [Corriere della Sera del 29 settembre 2011], con la conseguenza che nemmeno le nostre Assemblee rappresentative, pur sollecitate ad agire, ne sapevano alcunché»; 2) i contenuti, indicando «minutamente i settori nei quali si dovrebbe tagliare la spesa, ma impone anche di farlo per decreto legge, impingendo nella sovranità del Parlamento, tenuto a convertirlo “by end September 2011”». Nonostante si tratti di un evidente esempio di soft law – esprimente, secondo i tipici modi della governance, informalità (una lettera) e potere di fatto che esula dalle facoltà proprie del soggetto autore dell’atto – quindi debole e dubbia per quanto riguarda procedura e legittimazione, risulta negli effetti, sebbene giuridicamente non vincolante, incredibilmente coattiva, come «una rete a maglie di acciaio» (Algostino 2016, 256): infatti, Berlusconi presentò la proposta di emendamento costituzionale per l’introduzione del pareggio di bilancio l’11 settembre (vedi anche paragrafo 18), appena un mese dopo la lettera, e nel giro di pochi mesi, oltre a tale introduzione, vengono modificati nel senso indicato dalla lettera lo Statuto dei lavoratori, il sistema pensionistico e così via76.

76 Come noto, il 16 novembre nuovo presidente del Consiglio divenne Mario Monti, chiamato dal presidente della Repubblica Napolitano proprio allo scopo di attuare i provvedimenti raccomandati dalla Bce con il sostegno di un’amplissima maggioranza parlamentare. Undiemi (2014) ricorda che Berlusconi si difese sostenendo che la crescita dello spread dipendeva dalla vendita massiccia di

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Alla Grecia, invece, venne impedito di celebrare un referendum sulle misure di risanamento imposte dalla cosiddetta troika (Commissione Europea, BCE e FMI) nell’ottobre 2011 e in seguito imposto, nel luglio 2015, di ignorare l’esito di una consultazione popolare che aveva decretato il rifiuto dei cittadini greci di acconsentire al nuovo programma di ristrutturazione del debito ellenico predisposto, ancora una volta, dai tecnici della troika. Le modalità di attuazione delle misure della troika possono apparire “dittatoriali”: gli accordi di prestito e il Memorandum hanno imposto aumenti fiscali e tagli salariali e pensionistici prima che ne fosse interessato il Parlamento […]. La legge di attuazione dell’accordo è stata adottata a maggioranza semplice, nonostante le disposizioni costituzionali che richiedono una maggioranza di tre quinti. […]. Il complesso protocollo che impone le misure di austerità è stato approvato secondo le procedure di “ghigliottina” con un dibattito minimo. Questa legge dà carta bianca al ministro per emanare decreti esecutivi che possono coprire tutti gli aspetti della politica economica e sociale, abrogare le leggi preesistenti e firmare ulteriori accordi vincolanti che regalano parti della sovranità nazionale senza l’approvazione del Parlamento (Douzinas 2013, 46).

Secondo Zagrebelsky, nel caso greco la UE ha imposto il proprio potere per conto di un potere ancora più grande, quello della finanza mondiale: di fronte alla Grecia non c’era l’Europa, ma la finanza, con le sue istituzioni formali e informali che si fa beffe di formalità e competenze codificate […]. Anche i soggetti europei hanno operato come mandatari nell’interesse di una sovranità diversa e sovrastante: la sovranità della finanza internazionale. La troika che ora ritorna in Grecia come commissaria ad acta, non è organo dell’Europa, è organo informale e de facto degli interessi finanziari che si intrecciano tra Stati europei, Banca centrale e Fondo monetario (Zagrebelsky 2015, 40-41-41).

titoli pubblici italiani da parte della Deutsche Bank per far cadere il suo governo, e riporta che l’economista Sinn, presidente di Ifo Institute for Economic Research, avrebbe raccontato che, nell’autunno del 2011, Berlusconi aveva avviato le trattative per fare uscire l’Italia dall’euro.

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Questi casi emblematici hanno dimostrato come l’Unione, quale principale istituzione politica sovra-nazionale (in alcuni casi unitamente ad altri organismi sovra-nazionali quale il FMI) sia stato l’attore dominante, e gli Stati giuridicamente sovrani spesso dei succubi. La UE, nelle sue direttrici politico-intellettuali e negli esiti politico-economici che ha generato, ha portato intenzionalmente avanti un programma persino ri-fondativo della struttura costituzionale e istituzionale dei paesi membri, applicando la strumentazione concettuale offerta dalle dottrine economiche neo-ordoliberali (cioè la congiunzione, con possibili declinazioni di mutevoli accenti sulla medesima struttura musicale, di ordoliberalismo tedesco e neoliberalismo di matrice anglosassone) che peraltro erano già stati la base dottrinale per il processo di integrazione europea come si era evoluto nel corso degli ultimi decenni. Queste recenti tendenze giuridiche e politiche all’interno dell’UE possono essere anche riassunte con il termine di “emergenza per e dell’Europa”. Le misure di emergenza vengono giustificate come tentativi coraggiosi e difficili di salvare qualcosa che è in grave pericolo: sia l’euro o l’UE stessa oppure l’economia nazionale di uno o più singoli Stati membri. La retorica dei poteri dominanti ha infatti utilizzato lo spauracchio amplificato dell’esistenza di una serie di minacce eccezionali, al fine di giustificare come urgenti, necessarie e giuste, le misure prese in contrasto con le procedure e le norme stabilite nei Trattati contro gli effetti della crisi economica globale iniziata nel 2008. Infatti, tali misure, spesso, hanno uno status giuridico discutibile e sicuramente hanno costituito un colpo grave per le sorti democratiche nazionali. L’immagine di un grave “stato di emergenza economica” è usata per generare cambiamenti istituzionali – non coerenti con la democrazia e lo Stato di diritto – che, sebbene l’urgenza sia temporanea, poi divengono permanenti. Questi cambiamenti imposti dall’élite europea (complice talvolta anche l’élite nazionale, ai suoi massimi livelli, come fu nel caso italiano del 2011-2012) permettono di fondare o, quanto meno, di introdurre elementi di un nuovo ordine europeo neo-ordoliberale:

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l’Unione sta vivendo una sorta di stato di emergenza in cui la legge sta perdendo la sua integrità. I punti di riferimento troppo esigui di cui all’articolo 122, paragrafo 2, del TFUE devono giustificare incalcolabili pagamenti di solidarietà; la Banca centrale europea non sta rispettando i suoi statuti; i parlamenti sono convocati per prendere decisioni rapide che non possono essere discusse in modo significativo; alla Grecia e ad altri membri dell’Unione viene detto che la loro sovranità è ora “limitata”; i cambiamenti di governo avvengono in circostanze eccezionali (Joerges 2012, 12).

7. La crisi dell’Eurozona e le sue implicazioni economiche e distributive L’esperienza dello SME, nei primi anni ’90, aveva avvertito delle difficoltà create dalla divergenza degli Stati membri fra quelli a valuta forte e quelli a valuta debole. Sebbene anche l’analisi economica delle “aree valutarie ottimali” avesse a sua volta avvertito della mancanza di condizioni ottimali nell’area europea77, la Commissione e i suoi economisti tirarono dritto. Lo fecero sia per rispettare il programma neo-liberale che, come sappiamo, vedeva nella sottrazione della sovranità monetaria agli Stati la pre-condizione per la libertà economica, sia perché il principio della concorrenza da imporre sempre di più in tutte le economie avrebbe costituito, secondo la loro ideologia, la panacea per equiparare, in più o meno breve tempo, le medesime. Insipienza o perfida intenzionalità che fosse, l’unione monetaria condusse inesorabilmente alla crisi dell’euro. Il racconto della dinamica verso la crisi è ormai standard e lo riassumiamo per convenienza espositiva78: la convivenza fra tassi di inflazione nazionali divergenti e la convergenza dei tassi di interesse nominali ai tassi uniformi della Banca centrale europea (BCE) ha diviso in due l’Europa. In Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda, paesi a relativamente alta inflazione, i tassi di interesse reali sono diventati negativi, mentre

77 Vedi per esempio Eichengreen (1990) e Feldstein (1997). 78 Fra le tante descrizioni della dinamica economica dell’Europa fino alla crisi e alla sua successiva gestione, vedi, p.e., Scharpf (2011, 2013, 2015).

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la domanda interna, l’occupazione e il costo del lavoro per unità nominale sono aumentati, in Germania, paese a bassa inflazione, i tassi di interesse reali sono aumentati, la domanda interna è diminuita, la disoccupazione è aumentata e i salari reali sono diminuiti. I conti commerciali con l’estero sono quindi diventati drasticamente divergenti, in disavanzo quelli di Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda, in avanzo quello tedesco. Essendo medesima la moneta – ovvero impossibile svalutazione dei cambi nazionali e nel contempo nessun rischio di cambio – la drammatica divergenza nei conti dei capitali è stata convenientemente colmata dal capitale privato proveniente dai paesi in surplus che si è diretto nei paesi in deficit. Quindi uno squilibrio enorme nei conti con l’estero fra paesi all’interno dell’Eurozona. La crisi del 2008, proveniente dagli Usa, ha provocato una stretta creditizia che ha aumentato le difficoltà dei paesi in deficit, ha causato un aumento dell’indebitamento pubblico (p.e. per il salvataggio delle banche) e dal 2009 è aumentato il premio per il rischio sui debiti sovrani più elevati, innescando quella che, attraverso il possibile avvitamento della crisi nella spirale “default del debito sovrano di alcuni paesi – uscita dei medesimi dall’euro – svalutazione competitiva dei cambi” di questi ultimi e così via, avrebbe probabilmente, a parte gli altri danni socio-economici qui non considerati (comunque si pensi al fatto che la crisi si sarebbe riversata sui paesi creditori, Germania in testa, con lo scompenso del sistema bancario e la disoccupazione conseguente alla rivalutazione), determinato la fine della moneta unica. Ma la moneta unica era il risultato principale e la base irrinunciabile del progetto di Europa neo-ordoliberale. Quindi, al fine di salvare l’euro si è convenuto di ignorare le norme del Trattato di Maastricht (che non prevedevano né l’aiuto fra Stati né quello della UE ai medesimi, il cosiddetto bail-in) e di creare fondi di salvataggio garantiti dagli impegni fiscali degli Stati in eccedenza, puntando esclusivamente ad intervenire sugli elevati debiti pubblici e disavanzi delle partite correnti dei paesi che avevano, appunto per questi due motivi, perso la “fiducia dei mercati”. Di che tipo di intervento si è trattato? La BCE ha espanso l’offerta di moneta, ha operato sul mercato dei titoli di Stato, ha erogato i crediti di salvataggio con “condizionalità”: condizioni

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che specificavano l’austerità fiscale e la svalutazione interna attraverso la riduzione dei salari nei paesi debitori. Dal punto di vista istituzionale, l’accordo su queste condizionalità non era definito sulla base della legislazione europea secondo il “Metodo comunitario” o attraverso il voto orientato al consenso in seno al Consiglio, ma attraverso una contrattazione estremamente asimmetrica tra i governi dei creditori e dei debitori che, per molti osservatori, assomigliava alle condizioni di una resa incondizionata per i perdenti di una guerra. Il risultato finale della gestione della crisi è stato il mantenimento della moneta unica, la costituzionalizzazione attraverso il pareggio del bilancio del non intervento dello Stato nazionale e il commissariamento di fatto dei parlamenti degli Stati sovrani. Insomma una totale modifica dell’architettura della UE, in senso incontrovertibilmente neo-ordoliberale. Ma come sappiamo, nei paesi debitori l’austerità fiscale e la svalutazione interna hanno ridotto la domanda interna (il che per fortuna ha ridotto le importazioni e quindi i disavanzi delle partite correnti) a tal punto che il declino dell’attività economica e l’aumento dei tassi di disoccupazione non solo hanno causato una profonda crisi economica e sociale, ma hanno ulteriormente aumentato l’indebitamento pubblico, mantenendo il problema del debito pubblico ai livelli pre-crisi. Tuttavia la gestione della crisi (condotta sempre sotto la paventata minaccia di una sua ripetizione) ha consentito la creazione di un nuovo regime istituzionale nell’Eurozona a partire dalla fine del 2011. Senza approfondire qui la sostanza del nuovo regime e le generali implicazioni economiche (peraltro perché questioni piuttosto note e discusse anche in altri paragrafi), ci soffermiamo piuttosto sulle implicazioni distributive che sembrano estremamente nette. Iniziamo la relativa argomentazione partendo da una relazione logica stringente: se gli Stati membri dell’Unione monetaria sono strutturalmente eterogenei, l’Unione monetaria (in assenza di uno Stato federale in cui vi sarebbe anche l’unione fiscale) genererà squilibri esterni che non possono essere più corretti attraverso un adeguamento dei tassi di cambio nominali o delle politiche monetarie anticicliche. Rimangono allora a disposizione degli Stati, per ovviare agli squilibri esterni, le politiche fiscali. Ma sic-

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come i disavanzi pubblici alimenterebbero le nuove crisi del debito pubblico, il “provvidenziale” regime di austerità fiscale e di bilancio in pareggio imposto dalla UE previene ogni possibile uso anticiclico della politica fiscale nazionale. Quindi, se gli squilibri esterni sono endogeni al sistema di moneta unica in presenza di economie eterogenee e lo strumento fiscale è stato “sterilizzato” dalla UE, cosa rimane da fare ai governi nazionali per scongiurarli? Anche in questo caso le risposte dipendono dalla eterogeneità delle economie. Se il paese è in crescita, per prevenire lo squilibrio esterno bisogna “raffreddare” l’economia tagliando la domanda interna attraverso restrizioni creditizie, aumenti delle tasse, tagli alla spesa e soprattutto impedendo l’aumento del costo nominale unitario del lavoro affinché si ottenga un aumento dei tassi di cambio reali. Al contrario, se il paese è in recessione, poiché il sostegno alla domanda interna attraverso riduzioni delle imposte e aumenti delle spese pubbliche (quindi aumento del disavanzo) è esclusa (anzi il nuovo regime della UE potrebbe richiedere ulteriori aumenti di imposta e riduzioni di spesa per evitare di violare le regole sul deficit), allora per prevenire lo squilibrio con l’estero non resta che la riduzione dei salari (e di altri costi di produzione) – insieme a politiche dal lato della produzione per aumentare la produttività – per favorire un aumento delle esportazioni79. Quale conclusione trarre sugli effetti economici del nuovo regime dell’eurozona? Esso non lascia ai governi, in qualsiasi stato congiunturale in cui si trovi la propria economia, che una sola scelta: ridurre il settore pubblico ed abbassare i salari. Questa è l’unica ricetta sia nella fase di crescita, ove serve per frenare l’aumento dei deficit esterni, sia nella fase di recessione, ove serve per stimolare le esportazioni. In entrambe le situazioni congiunturali, e quindi sempre, questo regime implica necessariamente un circolo vizioso di svalutazione interna competitiva nella zona euro, in cui il contenimento dei salari in alcune parti minerebbe la competitività

79 Comunque, anche in questo caso vi sarebbe lo spiacevole effetto di trasferire lo squilibrio ad altri paesi, come successo fra il 2001 e il 2005, quando la Germania adottò questa politica aumentando a dismisura export e surplus commerciale inducendo squilibri negli altri paesi.

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in altre parti, richiedendo nuove serie di riduzioni fiscali, riforme dal lato dell’offerta e concessioni salariali, e così via (Scharpf 2015, 391).

Quale è allora il risultato di questo modello macro-economico istituzionalizzato dal nuovo regime della UE? Si tratta di un duplice risultato. Il primo è prevalentemente concentrato nell’ambito redistributivo, il cui segno e la cui direzione sono inequivocabilmente netti a favore del capitale e a detrimento del lavoro: «l’equilibrio distributivo tra capitale, lavoro e Stato […] vincolato esternamente dalla mobilità internazionale dei capitali dopo gli anni ’70, verrà sistematicamente spostato ulteriormente a favore dei redditi da capitale dal nuovo regime dell’euro» (Scharpf 2015, 391). Il secondo risultato sarà una necessaria tendenza ad un crescente ridimensionamento dello Stato, in termini politici ed in termini economici: «il salvataggio dell’euro continuerà a richiedere politiche nazionali che abbiano l’effetto di ridurre il ruolo dello Stato» (Scharpf 2015, 391). Potremmo, in conclusione, notare che entrambi i risultati avrebbero potuto soddisfare le più rosee aspettative di Hayek e degli ordoliberali.

8. Letture apologetiche o critiche del funzionamento dell’Eurozona A parte quindi la descrizione sintetica dell’evoluzione dell’economia europea dopo la nascita dell’euro, merita prendere in considerazione i tentativi di interpretazione di tale evoluzione, secondo differenti apparati teorici, alcuni dei quali come vedremo sono stati relativamente inadatti a prevederla. Le letture delle modalità di funzionamento e delle prospettive delle economie della Eurozona sono state molteplici. Iniziando da quelle sostanzialmente favorevoli all’Unione monetaria, che hanno però mancato di comprendere il potenziale delle crisi poi esplose, indichiamo come paradigmatico il lavoro di Blanchard e Giavazzi (2002). Essi sostengono che i grandi disavanzi delle partite correnti in Portogallo e in Grecia, due membri piccoli e relativamente poveri dell’Unione Europea, sono esattamente ciò

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che il modello di crescita neoclassica prevede che debba accadere quando tali economie integrano i loro mercati finanziari e dei beni con il resto del mondo, e, quindi, i due autori ritengono – cosa che si rivelerà assai fallace – che questi grandi disavanzi non siano motivo di preoccupazione. Secondo i due autori, infatti, fra i pregi della UEM c’è che, nella misura in cui entrambi i paesi appartengono a tale unione, non esiste una clausola di salvaguardia: anche il rischio di svalutazione è inesistente. Ciò significa meno motivi per cui i mercati finanziari devono preoccuparsi. In effetti, il fatto che né il debito del Portogallo né quello della Grecia comportino (nel periodo analizzato dal paper) spread sostanziali rispetto a quelli di altri paesi europei può essere preso come un segno di fiducia del mercato nella capacità di questi paesi di onorare i loro obblighi internazionali. Gli autori presentano prove che sostengono ampiamente la teoria: la dispersione dei deficit delle partite correnti nei paesi europei è aumentata negli ultimi cinque anni. I paesi europei più poveri tendono a presentare disavanzi maggiori, e più ora che in passato, cosicché, finalmente, l’elevata correlazione tra risparmio nazionale e investimenti privati – il puzzle di Feldstein-Horioka80 – è in gran parte scomparsa per

80 Il puzzle di Feldstein-Horioka (1980) parte dal postulato della teoria economica per cui gli investitori razionali, se liberi di investire in qualsiasi parte del mondo, lo farebbero in paesi che offrono il rendimento più elevato per unità di investimento, ma ciò farebbe salire il prezzo dell’investimento fino a quando il rendimento tra i diversi paesi non diventerebbe simile. Il meccanismo è semplice: i flussi di capitale si trasferiscono dai luoghi dove i prodotti marginali del capitale sono inferiori a quelli dove sono più alti, fino a quando l’aumento degli investimenti non rende equivalente il loro rendimento con quello ottenibile altrove, ovvero i flussi di capitale si muovono fra paesi fino al pareggio del prodotto marginale del capitale tra i medesimi. Questo significa che, per esempio, i mutuatari in un paese non avrebbero bisogno dei fondi dei risparmiatori del medesimo paese se potessero prendere in prestito dai mercati internazionali a tassi mondiali, oppure che i risparmiatori non mostrerebbero alcuna preferenza per gli investimenti nel proprio paese, ma presterebbero a investitori stranieri se ciò fosse più remunerativo. Quindi, in presenza di perfetta mobilità dei capitali, ovvero in assenza di regolamentazione nei mercati finanziari internazionali, la teoria economica neoclassica predice che i risparmi di ciascun paese si dirigono verso i paesi con le opportunità di investimento più produttive e, quindi, i tassi di risparmio e i tassi di investimento nazionali non dovrebbero essere correlati fra loro. Feldstein e Horioka hanno testato statisticamente se fosse vera tale predizione teorica,

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questo gruppo di paesi. Gli autori forniscono prove dettagliate per il Portogallo e la Grecia che sottolineano l’importanza dell’integrazione finanziaria che funziona attraverso un calo dei tassi di interesse reali (Portogallo) o attraverso un allentamento delle restrizioni creditizie alle imprese (Grecia). Inoltre Blanchard e Giavazzi concludono normativamente che i recenti sviluppi delle partite correnti sono, in primo luogo, ottimali. Insomma, Blanchard e Giavazzi concludono che il modello di crescita neoclassica è in grado di prevedere bene e soprattutto prevede che anche in questo caso tutto vada bene. Ma evidentemente qualcosa nel modello neoclassico o nelle loro valutazioni non è andato altrettanto bene81.

ovvero che l’aumento dei tassi di risparmio non è correlato con un aumento degli investimenti all’interno di un paese, concludendo che invece nei paesi Ocse i tassi di risparmio interni e i tassi di investimento interni sono altamente correlati: questa conclusione rappresenta un vero puzzle per la teoria economica internazionale neoclassica. Naturalmente le ipotesi di perfetta mobilità del capitale e di perfetta razionalità dell’investitore fatte da Feldstein e Horioka non tengono conto di alcuni fattori. Rispetto alla prima ipotesi, non si tiene in conto che sono differenti da paese a paese elementi come il trattamento fiscale degli investimenti esteri, i costi di negoziazione, le commissioni di custodia, il rischio dei tassi di cambio, l’indesiderabilità per le autorità monetarie di gravi discrepanze tra risparmio e investimento. Rispetto alla seconda ipotesi, essa può a sua volta essere messa in dubbio se si considera che alcuni investitori possono essere “nazionalisti” e – sotto gli incoraggiamenti di taluni governi – ritenere più patriottico investire a livello nazionale. 81 Tuttavia nella discussione del lavoro di Blanchard – Giavazzi, qualche caveat all’ottimismo dei due autori venne posto. Gouranchas (2002) arguisce che i flussi di capitale potrebbero, prima o poi, anche non affluire più oppure persino uscire e, in tal caso, anche con una struttura di scadenza distribuita in modo relativamente uniforme, i mercati potrebbero rifiutare di finanziare ulteriori aumenti del debito, il che potrebbe significare uno stop improvviso dell’ordine del 5-7 percento del PIL, che sicuramente aumenterebbe lo spettro del default. Gouranchas quindi fa notare che la moneta comune immunizza dalle fughe di capitali in termini di svalutazione, ma non immunizza, contro situazioni di illiquidità, dal default degli stati. Anche Sims (2002), nella medesima sede, sostiene che, sebbene l’unione monetaria europea stia effettivamente allentando i vincoli delle partite correnti sui singoli paesi membri, non bisogna dimenticare il fatto che l’apertura dei mercati dei capitali nei paesi poveri ha spesso portato inizialmente a grandi afflussi e successivamente a problemi finanziari, poiché gli afflussi spostano i bilanci, alterano la natura delle istituzioni e alla fine creano problemi sistemici. Inoltre, Sims osserva che i paralleli, suggeriti da Blanchard e Giavazzi, tra l’unione

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Se Blanchard-Giavazzi hanno previsto un gran bel tempo per il futuro dell’unione monetaria europea, altri autori appartenenti al filone della cosiddetta macroeconomia della “sintesi neoclassica” (ad esempio, Fagan e Gaspar 2008), applicando il tradizionale modello a breve termine – che ipotizza “aggiustamenti lenti” verso l’equilibrio a causa della “vischiosità” dei prezzi e alla imperfezione delle informazioni – e concentrandosi sui capitali affluiti nella periferia europea quando l’unione monetaria ha eliminato i rischi di cambio anche per tale periferia, hanno suggerito che la conseguente riduzione del risparmio interno, l’ampliamento dell’indebitamento e i disavanzi delle partite correnti avrebbero dovuto essere contrastati con una politica fiscale ancora più rigorosa e precauzionale rispetto a quanto richiesto dal Patto di stabilità e crescita. Quindi, in questa analisi, si può ravvisare una qualche allerta sulle possibili nuvole in arrivo nell’Eurozona, anche se l’analisi è semplificata dal fatto di considerare indebitamento e deficit solo come problemi di aggiustamento causati solo temporaneamente nel periodo di transizione verso l’unione monetaria. Manca, quindi, in queste analisi di economisti più o meno ortodossi, secondo il sociologo Crouch (2009), la considerazione che l’espansione del debito non sia stata un’anomalia, ma una parte integrante e necessaria del tipo di capitalismo che l’unione monetaria aveva promosso. Una interpretazione dello sviluppo capitalistico recente fino alla creazione dell’Eurozona e alla sua crisi, può invece basarsi sulle dinamiche della relazione di potere tra capitale e lavoro. Al cuore di questa interpretazione rimane, intramontabile, la teoria delle crisi formulata da Marx. Da un lato si tende a produrre sempre di più a parità di tempo o con meno dispendio di forza lavoro impiegata. Ma l’aumento della produttività crea un esubero di lavoratori, quindi sul mercato del lavoro si forma infatti un esercito industriale di riserva di lavoratori che, anche inintenzionalmente, si pone in concorrenza con la forza lavoro occupata. Aumenta con ciò la forza contrattuale del datore di lavoro, che tende ad abbassare i salari. Quindi si verificano sia monetaria europea e l’integrazione finanziaria nella storia degli Stati Uniti non dovrebbero essere motivo di compiacenza, visto che allora alcuni stati americani fallirono con il loro debito estero sovrano.

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una produzione crescente che salari decrescenti. La conseguenza più immediata è che si manifestino crisi da sovrapproduzione (e/o da sottoconsumo): la domanda di beni da parte della classe lavoratrice diminuisce e le merci rimangono invendute, per cui il capitalista vede diminuire i propri margini di profitto o addirittura non ricostituisce il capitale anticipato (fallimento). Quindi, ne consegue che il capitalismo tenderebbe ad accumularsi in modo eccessivo, perché da un lato i capitalisti per aumentare o sostenere il profitto devono incessantemente espandere il mercato, ma dall’altro lato per aumentare o sostenere il profitto devono contenere o ridurre i salari, la qualcosa causa una minore domanda che non può esaurire la produzione. Ecco quindi la tendenza alla crisi. Questa analisi dell’accumulazione rimane centrale anche in teorie macroeconomiche che non sono né strettamente ortodosse né strettamente marxiane, quali le cosiddette “teoria della regolazione”82 e “teoria post-keynesiana”. Entrambe concordano sul fatto che, per comprendere la dinamica del capitalismo, bisogna tenere conto delle relazioni di potere tra capitale e lavoro e della inclinazione al sottoconsumo. Un tipico modello di

82 Il contributo della teoria della regolamentazione si basa sull’idea che il mercato non sia un luogo “naturale”, nel quale si incontrano individui liberi e indipendenti che attraverso la contrattazione definiscono il sistema dei prezzi. Essi pensano invece che il mercato – in questo con una posizione vicina a quella di Polanyi che considera lavoro, moneta e natura merci fittizie, la cui produzione sfugge alle leggi della domanda e dell’offerta – sia una struttura fondata su istituzioni storicamente determinate. Questo vale soprattutto per quelle che sono considerate solo fittiziamente come merci – cioè lavoro, moneta, terra e ambiente – e quindi non soggette in modo banale alla legge della domanda e dell’offerta. È quindi la natura particolare del lavoro non assimilabile ad una pura merce che spiega come nei sistemi capitalistici il conflitto distributivo, che sta alla base della determinazione del salario, sia regolato con strumenti giuridici, organizzativi e istituzionali. Quindi le istituzioni – che non sono il mercato “imparziale” e oggettivo postulato dalla teoria neoclassica – svolgono un ruolo cruciale nel disegnare i tratti fondamentali, per esempio, della forma della concorrenza, del regime monetario, del sistema delle relazioni sindacali. Per la teoria della regolazione, ogni processo di accumulazione è univocamente connesso a una particolare forma del capitalismo – nel quale ha un ruolo primario l’innovazione tecnologica e istituzionale (modalità di regolamentazione) per contrastare almeno temporaneamente le tendenze alla crisi – e per tale ragione è destinato ad assumere caratteristiche diverse nel tempo e a tramontare in modo diverso.

Letture apologetiche o critiche del funzionamento dell’Eurozona

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accumulazione capitalistica che tiene conto nelle sue dipendenze dalle relazioni di potere tra capitale e lavoro e del problema della insufficienza della domanda è quello di Bhaduri-Marglin (1990), con caratteristiche sia post-keynesiane che di teoria della regolazione. Basandosi su tale modello, Stockammer (2008) e Stockhammer et al. (2009) hanno descritto il meccanismo che ha portato alla crisi dell’Eurozona83, che può essere così articolato: i) In Europa, come in USA, i tassi di risparmio delle famiglie sono diminuiti perché la “cartolarizzazione” ha reso i prestiti facilmente accessibili; ii) tuttavia, al contrario degli Usa, la propensione al consumo europeo non è aumentata a causa dei salari e delle pensioni in discesa; iii) poiché il modello di sviluppo europeo è guidato dai salari (wage-led) e non dai profitti (profit-led), allora la moderazione salariale ha contratto la produzione e non ha stimolato l’occupazione; iv) inoltre la presenza della moneta unica ha spinto ciascun Stato singolarmente a contenere la crescita per proteggere la bilancia dei pagamenti, col risultato complessivo di un contenimento della domanda aggregata; v) oltre alla riduzione dei consumi per le cause sopradette, si è anche avuta una riduzione dell’altra componente della domanda aggregata, gli investimenti nonostante l’aumento della redditività84; vi) la liberalizzazione dei mercati finanziari e l’eliminazione dei rischi di cambio da parte dell’UEM hanno facilitato uno sviluppo differen-

83 Per esempio, Ryner ritiene particolarmente centrate queste analisi: «Se qualcuno ha identificato la crisi dell’area euro nel momento della sua realizzazione, è […] Stockhammer (2008) […]. Per quanto riguarda gli effetti diseguali dell’“austerità competitiva” europea, Stockhammer et al. (2009) sono stati pionieri nell’individuare i pericoli degli enormi squilibri interni […]. Stockhammer ha ritenuto la situazione insostenibile. L’unico problema che lo aveva lasciato perplesso è che questa configurazione non aveva mostrato l’instabilità che ci si sarebbe aspettata (Stockhammer 2008, 197–8). Il periodo di ritardo tra la stesura di quelle righe e la loro pubblicazione “risolverà” la sua perplessità, poiché [la pubblicazione] ha coinciso con lo scoppio della crisi finanziaria» (Ryner 2015, 280-281). 84 «Ciò è coerente con quanto accaduto negli Usa, cioè l’aspettativa che una maggiore mobilità del capitale finanziario aumenti il rendimento richiesto sul capitale attraverso rapporti di rendimento delle attività più elevati associati al “valore per gli azionisti” (shareholder value), ha spinto a cambiare la strategia di gestione da “conservare e reinvestire” a “ridimensionare e ridistribuire”» (Ryner 2015, 280).

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ziato all’interno della UE: nell’Europa nord-occidentale la crescita è stata basata sulle esportazioni (export-led growth) in dipendenza del ruolo di locomotiva degli Usa e di un contenimento dei costi di lavoro, e il capitale generato in eccedenza è stato investito in attività sottovalutate nell’Europa meridionale e orientale, come in abitazioni e mutui, piuttosto che in imprese produttive, in cerca di opportunità di leva finanziaria; nell’Europa meridionale la minore temporanea crescita è stata guidata dal credito a basso costo (finance-led growth), che ha costituito la leva dell’espansione della domanda nonostante l’abbassamento della quota dei salari; vii) sia le differenze strutturali interne, sia le differenze nei regimi di accumulazione, hanno portato a squilibri interni manifestati in una massiccia divergenza dei costi unitari relativi del lavoro, e, essendo l’inflazione tedesca vicina allo zero, l’unica via di aggiustamento dei conti disponibile per i paesi con disavanzi nei conti con l’estero rimaneva (salvo un miracolo sotto forma di forte crescita della produttività) solo la politica deflazionistica, che però sarebbero stata tendenzialmente destabilizzante. Di conseguenza «i saldi dei pagamenti interni venivano a dipendere quindi da flussi altamente volatili sul conto capitale» (Ryner 2015, 281). Anche la teoria della regolazione propone una interpretazione basata sul potenziale di crisi dell’eccessiva accumulazione di capitale così come essa è andata manifestandosi a partire dal secondo dopoguerra. Se dagli anni ’50 agli anni ’70 il cosiddetto modello Fordista ha permesso l’aumento, da un lato, della produzione di massa e, dall’altro lato, del consumo di massa sostenuto dalla crescita dei salari, entrambi a loro volta permessi dalla crescita della produttività, con l’agenda neoliberale a partire dagli anni ’80 la quota salariale sul valore aggiunto è diminuita drasticamente a causa della flessibilizzazione del lavoro e dello sganciamento dei salari dalla produttività. Come rispondere alla tendenza ad una eccessiva accumulazione? Una risposta è stata l’estensione del debito garantito da valori patrimoniali. Secondo uno dei principali teorici della regolazione, (Boyer 2012) la crisi sarebbe spiegabile in termini di investimenti sempre più rischiosi nel perseguimento di una allocazione redditizia della massa in espansione di capitale accumulato da parte dei mercati finanziari.

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Quindi, in questa interpretazione, la crisi dell’Eurozona è intesa come una manifestazione tipicamente europea della crisi di un regime di accumulazione guidato dalla finanza.

9. Gli organismi di pianificazione privati, la costruzione della UE e la gestione della crisi I modelli neoclassici come della sintesi neoclassica, ovviamente, non comprendono le relazioni istituzionali e politiche fra capitale e lavoro. Invece, i modelli appartenenti sia alla teoria della regolazione che a quella post-keynesiana tengono conto della centralità del conflitto fra capitale e lavoro. Ma ovviamente anche questi modelli sono silenti sul ruolo giocato dalle organizzazioni di classe – in particolare qui ci riferiamo a quelle della classe capitalista europea e internazionale – nel disegno delle istituzioni europee e nel profilo teorico ispiratore delle modalità di intervento politico ed economico della UE. Proprio della centralità di questo ruolo trattano i contributi di van Apeldoorn (2002, 2014), che incorpora nell’approccio della teoria della regolamentazione l’analisi del ruolo di leadership giocato dall’agenzia di classe transnazionale nel passaggio da un regime di accumulazione a un altro. Per van Apeldoorn l’affermazione del progetto neo-liberista e lo svilupparsi all’interno di questo del regime di accumulazione guidato dalla finanza, non è spiegabile solo dalle dinamiche economiche che emergono dai vari modelli teorici di accumulazione capitalistica, ma invece essi sono soprattutto il risultato intenzionale di una attività delle unità dell’élite capitalista a livello europeo, che attraverso i suoi “organismi di pianificazione privata” forgia le strategie di accumulazione neoliberista, sviluppa il dibattito tra le diverse “fazioni” di capitalisti e ne trova le sintesi teoriche ed operative, e, infine, indica le direzioni cruciali per la costruzione dell’Unione Europea. Rispetto alle tradizionali interpretazioni marxiste che in genere riconducono gli avvenimenti e la crisi dell’Eurozona all’egemonia tedesca (e alla sua ideologia ordoliberista applicata con rigore anche nelle relazioni con gli altri Stati), van Apeldoorn ricorda che ciò che è accaduto con la gestione della crisi da parte

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della UE non è dipeso dalle posizioni tedesche o dalle rivalità inter-statali tipiche del contesto imperialista, bensì è stato «il risultato di lotte tra forze sociali transnazionali e modellato dall’agenzia di una classe capitalista transnazionale» (van Apeldoorn 2014, 197). Siccome l’analisi di van Apeldoorn è particolarmente documentata ed originale, ne riassumiamo alcuni punti interessanti. Detto in termini marxiani, le classi sono date dalla esistenza stessa del capitalismo poiché, basandosi esso sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, troviamo sempre una classe (una minoranza) che possiede e controlla i mezzi di produzione, cioè la classe capitalista, e una classe di persone che possiede solo la propria forza lavoro, venduta necessariamente ai capitalisti come merce nel mercato del lavoro “libero”, cioè la classe operaia. Tuttavia, non è necessario essere marxisti – nel senso di accettare la teoria del valore-lavoro di Marx e il concetto di sfruttamento da cui deriva – per osservare come la relazione capitale-lavoro sia caratterizzata dalla completa asimmetria nel potere di mercato (risultante da relazioni di proprietà) tra lavoratore e capitalista e per questo presenti una forma di dominio strutturale, nonché per osservare una potenziale opposizione di interessi nella misura in cui salari e profitti si trovano strutturalmente in una relazione inversa. L’assunzione dell’esistenza di una classe di capitalisti così definita rimane valida anche nel moderno capitalismo dopo che Berle and Means già nel 1932 avevano rilevato – studiando il caso americano – che la proprietà era stata separata dal controllo con l’ascesa della società per azioni possedute da una massa di piccoli azionisti relativamente ininfluenti sulle scelte aziendali, dando luogo alla formazione di una nuova classe di manager professionisti liberi di perseguire strategie diverse da quella della massimizzazione del profitto e volte, invece, al soddisfacimento della propria utilità o anche di altri interessi meno egoistici. Tuttavia, anche riconoscendo la validità della teoria del capitalismo manageriale, si può sostenere che esistano diversi argomenti teorici ed empirici per concludere che a) la classe capitalista è rimasta viva e vegeta anche sotto le moderne forme di organizzazione industriale, b) che i manager sono sempre stati in gran parte membri di

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quella classe, anche se in misura storicamente variabile85, c) che il capitalismo europeo, a differenza di quello americano, è rimasto sostanzialmente legato al controllo di grandi azionisti 86, sebbene i modi della governance aziendale americana – come la centralità dell’obiettivo del “valore per l’azionista” (shareholder value) dato dal prezzo delle azioni o i programmi di stock-option per legare i manager alle performances aziendali – sembrano aver fatto breccia anche in Europa. Innanzitutto, l’organizzazione di classe dei capitalisti industriali europei si definisce come la “Tavola Rotonda Europea” (ERT). L’ERT nasce nei primi anni ’80 su iniziativa del Ceo della Volvo e del suo interlocutore “politico” Davignon, Commissario Europeo all’Industria e membro della Commissione Trilaterale, coinvolge solo una élite ristretta di membri (al massimo 50) che rappresentano le più importanti imprese europee (per l’Italia ci sono Agnelli e De Benedetti, a cui si aggiungerà in seguito anche Tronchetti Provera). Questa associazione può essere considerata come l’avanguardia organizzata della classe capitalista transnazionale europea, un ruolo costruito nel tempo attraverso un processo di socializzazione dell’élite di confronto e mediazione fra le prospettive ideologiche e operative, potenzialmente differenti, dei suoi membri. Anzi si potrebbe dire che è stato in parte attraverso questo processo, e quindi attraverso l’evoluzione dell’ERT e la sua articolazione di un orientamento ideologico e strategico collettivo, che il processo di formazione di classe transnazionale ha ulteriormente preso forma (van Apeldoorn 2002, 104).

Quindi l’agenzia dell’ERT, non rientra – come erroneamente potrebbe ritenersi nel caso di un’associazione di industriali – né

85 Definendo un capitalista come colui che trae la maggior parte del suo reddito dal possesso di capitale, è allora facile definire come tali anche la maggior parte degli alti manager d’Europa. 86 Alcune rilevazioni rivelano che quasi l’80% delle società dell’Europa continentale tra le 100 maggiori società europee ancora soggette al controllo diretto dei proprietari (vedi Van Apeldoorn 2001).

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nella logica del lobbismo pluralista né in quella dell’intermediazione di interessi corporativi, ma appartiene ad un’altra logica: quella della costruzione strategica di medio-lungo periodo rispetto ai destini dell’Europa. È proprio la caratteristica di essere una élite nel senso di raccogliere solo poche decine di membri al top della borghesia europea – cioè di essere più un club di capitalisti che formano un think tank e nel contempo di essere “personalmente” stretti interlocutori dei massimi vertici degli Sati europei e della Commissione UE che una assemblea di portatori di interessi corporativi – che individua l’ERT come centro strategico87 (al di là quindi delle attività di lobbying o di rappresentanza di interessi specifici): i membri stessi – che controllano le più grandi società europee – sono in prima persona l’ERT, senza mediazioni di una burocrazia di rappresentanza, rivestendo così un potere superiore a qualsiasi gruppo di interesse. Naturalmente l’ERT non è il solo centro strategico88 della classe dei capitalisti europei, in quanto i suoi membri sono ben integrati nelle odierne reti delle élite capitaliste globali, al centro delle quali compare il World Economic Forum (WEF), fondato nel 1971, che si riunisce annualmente a Davos e che è stato definito da Van der Pijl (1998) «l’organismo di pianificazione transnazionale più completo oggi operativo» (Van der Pijl 1998, 132). Esso è composto dalle “1000 principali imprese globali”, sebbene a Davos si trovino anche leader politici e leader del mondo accademico, giornalistico e della società civile globale. Un altro organismo di pianificazione internazionale è la Commissione Trilaterale, un forum di pianificazione privato composto dai capi delle imprese transnazionali di Europa, Giappone e

87 «Questi interessi commerciali generali sono anche formulati da una prospettiva relativamente a lungo termine e lungimirante orientata alla formazione dell’ordine socioeconomico europeo» (Van Apeldoorn 2002, 104). 88 Queste strategie poi si “traslano” nelle decisioni che vengono invece attribuite ad altri processi politici e ad altre istituzioni (come quelle della democrazia liberale) che semplicemente offrono la loro copertura di diritto.

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Nordamerica e da politici, giornalisti e persino leader sindacali (vedi anche Fanti 2021)89. Dopo aver esaminato la struttura, osserviamo l’attività di agenzia dell’ERT, che può essere suddivisa in tre elementi. Il primo, relativamente poco importante, riguarda la saltuaria attività di lobbying su questioni o progetti specifici, per i quali i membri ritengono che un po’ di lobbismo possa essere necessario: per esempio l’ERT fa introdurre con successo nell’agenda politica della UE importanti progetti, in genere relativi al network infrastrutturale europeo (p.e. il progetto del collegamento fra Danimarca e Svezia). Il secondo elemento, è l’impostazione dell’agenda, ovvero l’ERT agisce come “agenda-setter”: formulazioni di idee all’interno di una “visione” generale che i politici debbono raccogliere e rendere operative; è in questo senso che può essere vista l’agenda degli sviluppi della UE relativi al programma neo-liberale delle quattro libertà di circolazione. Il terzo elemento è quello più strategico di lungo periodo, in quanto sviluppa il discorso ideologico, che naturalmente è correlato al momento della impostazione dell’agenda tanto quanto la teoria è collegata alla prassi. Un esempio di produzione del discorso ideologico90, per quanto riguarda l’ERT, è il discorso sulla concorrenza, la quale viene posta – in linea col pensiero ordoliberale – come principio irrinunciabile91. È interessante la ricostruzione che van Apeldoorn fa del dibattito ideologico interno all’ERT nel corso degli anni che vanno dall’inizio della costruzione della UE fino ad oggi. All’interno della classe capitalista transnazionale dell’Europa e, quindi, dell’ERT, vi è stato un passaggio

89 La formazione delle strategia di medio-lungo periodo attraverso l’azione “militante” delle organizzazioni a livello sovranazionale, più o meno “riservare”, delle élite sarebbe un tema importante ancora quasi tutto da studiare. Probabilmente i libri di storia sarebbero da riscrivere. 90 Nota che un discorso può cambiare quando ad un elemento del medesimo si cambia il significato e l’importanza inserendolo in un certo contesto di interesse. 91 Per esempio, è in nome del principio che la concorrenza non deve essere ostacolata che l’ERT ha condotto con successo una battaglia contro l’introduzione di una carbon-tax per ridurre l’emissione di CO2, che era stata ventilata dalla Commissione UE.

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graduale da un discorso più neo-mercantilista ad uno più neoliberale, sebbene alcuni elementi della visione del primo, spiccatamente industrialista, rientrano anche nel discorso neoliberale divenuto poi sempre più egemonico. Attraverso quest’ultimo discorso, che secondo van Apeldoorn articola un nuovo concetto globale di controllo ed è denotato con il termine “neo-liberalismo incorporato” (embedded neo-liberalism), può essere interpretato l’emergente progetto egemonico della classe capitalista europea che si invera nell’attuale ordine socio-economico europeo. Dove stava il succo della differenza fra il discorso neo-mercantilista e quello neo-liberale? Sebbene l’orientamento neo-mercantilista condividesse almeno in parte idee neoliberiste sulla necessità di flessibilità del mercato del lavoro, riforma dello Stato sociale, ecc., non condivideva la spinta neo-liberale per il laissez-faire globale. Come raccontato da Pearce e Sutton (1986), l’orientamento neo-mercantilista e quello neo-liberale condividevano l’obiettivo di eliminare le barriere commerciali all’interno dell’Europa (e in più la strategia neo-mercantilista aggiungeva una politica industriale europea incentrata su “settori strategici”), ma erano in disaccordo sul fatto di eliminare anche quelle fra l’Europa e il resto del mondo. In termini dei singoli Stati, si era trattato anche di una divisione nelle concezioni per il rilancio dell’integrazione europea, fra posizioni francesi (ad orientamento neo-mercantilista) e britanniche (ad orientamento neo-liberale). A questa vittoria dell’impostazione neo-liberale concorrono anche due fattori esterni: i) la globalizzazione, che coinvolgendo anche le imprese europee continentali i cui boss sono nell’ERT, spinge, quindi, a guardare con favore a un mercato mondiale libero, e ii) i cambiamenti tecnologici di quegli anni (Internet etc.), che aiutano la globalizzazione. Dove invece l’ERT è diventato sempre più attivo con posizioni condivise fra neo-mercantilisti e neo-liberali è quello delle politiche del mercato del lavoro e delle politiche sociali. Le questioni relative al mercato del lavoro e all’occupazione sono un’area cruciale per comprendere come i capitalisti della Tavola Rotonda si posizionano nei confronti del lavoro e dei suoi interessi. Nelle proposte relative a queste politiche si ravvisano chiaramente sia la strategia per mantenere l’egemonia di classe capitalista di

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fronte alla potenziale opposizione del lavoro che la nascita di un discorso piuttosto esplicitamente neoliberale. Già nel 1990 un rapporto ERT sul mercato del lavoro mostra come il discorso ideologico dell’élite capitalista europea sia in perfetta sintonia con il pensiero neo-ordoliberalista;92 in esso, come vedremo, vi sono precisi passaggi sui difetti del mercato del lavoro, quali la mancata responsabilità individuale della disoccupazione, le eccessive ed errate aspirazioni dei lavoratori, l’etica del lavoro degradata, tutte cose da correggere con politiche che vanno dalla scuola, alla TV, alla pubblicità (insomma appare il progetto neo-ordoliberale per trasformare anche antropologicamente il soggetto da proletario – cosciente del suo antagonismo oggettivo al capitalismo – ad imprenditore di se stesso – integrato nel capitalismo). Il rapporto elenca i mali che affliggono il mercato del lavoro, dividendoli in due tipologie, i mali “istituzionali” e “strutturali”, da un lato, e i mali “individuali”, dall’altro. Il problema della disoccupazione europea è, rispetto alla prima tipologia, dovuto a “rigidità istituzionali” tra cui “protezione sociale” e “salari rigidi verso l’alto e verso il basso” che insieme impediscono alla forza lavoro di adattarsi rapidamente alle esigenze di “sviluppo tecnico accelerato”, mentre rispetto alla seconda tipologia la disoccupazione va imputata anche agli “atteggiamenti e al comportamento dei lavoratori subordinati e dei disoccupati”, al “grado di effettiva disponibilità al lavoro”, alle “aspirazioni salariali eccessive”, ad “aspettative non realistiche riguardo alla qualità del lavoro”. Come combattere i mali “individuali”? La ricetta è schiettamente ordoliberale: un “programma d’azione” per aumentare “la consapevolezza, ove necessario, della responsabilità individuale della

92 Viene rilevato che, in questo rapporto, «le idee di ERT erano già plasmate da un discorso neoliberale molto più forte. Qui va notato che questo rapporto è stato scritto da un gruppo di lavoro guidato dal successivo presidente ERT e dal principale rappresentante della frazione “globalista”, CEO di Nestlé, Maucher. Possiamo supporre che sia stata in particolare la frazione globalista dell’ERT […] che in quel momento ha adottato la prospettiva neoliberale più esplicita in questo settore. Pertanto, questo rapporto anticipa il consolidamento della svolta neoliberale dell’ERT [avvenuta esplicitamente] alcuni anni dopo» (Van Apeldoorn 2002, 144).

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disoccupazione” contrastando “l’attuale degrado dell’etica del lavoro” per lo sviluppo di motivazioni e atteggiamenti positivi rispetto al lavoro “attraverso l’istruzione a scuola, in TV e la pubblicità” (ERT 1990, 41). La diagnosi e il ricettario che informano il discorso ideologico dell’élite capitalista europea riflettono chiaramente l’ideologia di ciò che Bob Jessop ha indicato come lo “Stato di lavoro” (workfare) Schumpeteriano in cui il diritto sociale al welfare in caso di disoccupazione è sostituito dal dovere sociale di lavorare alle condizioni e al prezzo fissato dal mercato (Jessop 1992). Il passaggio allo “Stato di lavoro” implica lo svuotamento dello Stato sociale in quanto la sicurezza sociale fornita da quest’ultimo crea un problema di “rischio morale” (Van Apeldoorn 2002, 145).

Dopo aver delineato brevemente l’evoluzione del discorso ideologico (la teoria), si deve accennare alla “operatività” dell’ERT (la prassi). Quale è stato il ruolo dell’élite capitalistica europea nella gestione della crisi dell’Eurozona e nei drastici mutamenti istituzionali e operativi occorsi nella UE? Secondo van Apeldoorn si è trattato di un ruolo decisivo, che dovrebbe essere considerato preminente anche rispetto a quello del governo tedesco, considerato diffusamente come il dominus di tali avvenimenti. L’Unione monetaria europea è il risultato dell’agenda posta da tale élite e i leader dei governi, Germania compresa, non hanno fatto altro che seguire le “raccomandazioni” espresse da tale élite, che, peraltro, sono ben leggibili anche nei report pubblici dell’ERT93. Quanto alle risposte alla crisi (imposizione del “Fiscal compact” etc.), è stato già argomentato come la crisi è stata vista

93 «Ma nonostante il peso geopolitico e geoeconomico della Germania nell’attuale UE, sarebbe un errore vedere la gestione della crisi dell’euro e gli apparenti sforzi per salvare la moneta unica esclusivamente in termini nazionali e intergovernativi, e, soprattutto, in termini di strategia tedesca. Con ciò si perderebbe l’importante dimensione transnazionale, vale a dire non si riuscirebbe a capire come non solo l’UEM, e il più ampio progetto neoliberale in cui è incorporata, sia stato il risultato di lotte tra forze sociali transnazionali e plasmato dall’agenzia di una classe capitalista transnazionale, ma come nel rispondere alla crisi i leader governativi, compreso il cancelliere Merkel, stanno perseguendo politiche espresse nello stesso stampo neoliberista, e come tali stanno seguendo da vicino le raccomandazioni che i rappresentanti della classe capitalista europea hanno a lungo sostenuto e sostengono ancora oggi» (van Apeldoorn 2014, 196-197).

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dall’élite capitalista e da quella politica come un’occasione per allargare la “gabbia di ferro” neo-ordoliberale attraverso l’imposizione accelerata delle cosiddette riforme strutturali. La classe capitalista europea, guidata dall’ERT, ha perseguito chiaramente questa logica, chiedendo il ripristino della “credibilità dell’area dell’euro”, il rafforzamento dell’unione monetaria, il “ritorno alla sostenibilità fiscale”, l’attuazione delle “riforme strutturali”. Il rapporto dell’ERT (2011) elenca tra le “raccomandazioni politiche” quelle di garantire un “rapido ritorno a finanze pubbliche sostenibili”, di “proteggere il patto di stabilità e crescita”, di “incoraggiare avanzi di bilancio pubblico per un periodo di tempo prolungato […] che dovrebbe essere finanziato tagliando la spesa pubblica per politiche non sostenibili” (il riferimento, ripreso anche in altri rapporti precedenti e successivi, è alle pensioni pubbliche e alla sicurezza sociale). Insomma l’ERT nel 2011 detta l’agenda di quelle iniziative della UE che poi saranno sancite nel 2012 col Fiscal compact e con gli aiuti fortemente “condizionati” ai paesi in crisi94. Infine è interessante vedere, come al di là delle raccomandazioni nei tempi della crisi, l’ERT svolga un ruolo lungimirante di agenda-setter anche nei tempi normali. Per esempio, non appena nominati i vertici UE in seguito al rinnovo del Parlamento per il quinquennio 2014-2019, l’ERT (2014) si premura di far uscire le linee-guida ad uso dei vertici per il futuro quinquennio. Viene qui dettata l’agenda delle modifiche istituzionali della UE rispetto ad alcune modalità di governance. In primis, come un dettato impartito agli scolaretti, la ERT detta le raccomandazioni ai vertici della UE; senza entrare nei dettagli tecnico-organizzativi delle dettature, però merita dare un’idea del modo di porre l’agenda da parte

94 «In effetti, sia ERT che Business Europe non solo hanno espresso il loro sostegno alla condizionalità legata ai cosiddetti pacchetti di salvataggio per paesi come Irlanda, Grecia e Portogallo, ma sono stati anche convinti sostenitori dell’istituzionalizzazione di questo tipo di disciplina per l’intera Eurozona, incluso il cosiddetto Patto Euro Plus e il Patto fiscale intergovernativo progettati per rendere l’attuale regime di austerità permanente e giuridicamente vincolante» (van Apeldoorn 2014, 196-197).

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dell’ERT, evidenziando sette “raccomandazioni” paradigmatiche fra tutte quelle elencate nel dettato dell’ERT: i) Il Consiglio europeo dovrebbe fornire orientamenti strategici e stabilire le priorità per l’attuazione di misure per ripristinare la competitività industriale, la crescita e l’occupazione nell’UE. Dovrebbe valutare i progressi ogni anno, sulla base delle relazioni della Commissione europea e del Consiglio Competitività. ii) Il Consiglio per la Competitività dovrebbe passare dal coordinamento delle politiche industriali degli Stati membri all’attuazione di iniziative e normative politiche comuni dell’UE a sostegno della crescita industriale nell’UE. Il Consiglio per la Competitività dovrebbe avere il diritto di porre il veto a nuove iniziative dell’UE che potrebbero diluire la competitività dell’industria europea. iii) Istituire una struttura indipendente di valutazione d’impatto al di fuori della Commissione europea anziché disporre di unità responsabili della valutazione d’impatto della legislazione proposta all’interno della Direzione generale interessata. iv) Il controllo della competitività dovrebbe diventare parte integrante delle valutazioni d’impatto ex-ante di tutta la legislazione UE recentemente proposta. v) Pubblicare valutazioni di impatto durante la fase di consultazione. vi) La Commissione europea dovrebbe coordinare e allineare tutte le politiche dell’UE, compresa la politica di concorrenza, per garantire che abbiano un impatto positivo sulla competitività industriale. Il presidente della Commissione dovrebbe assumere la supervisione personale e la guida di questo programma ed essere consigliato da un “gruppo di coordinamento per la competitività industriale”, presieduto dal Commissario per le imprese e la competitività industriale. vii) Il raggruppamento di Commissari sotto la guida di vicepresidenti potrebbe essere utilizzato per coordinare e promuovere i progressi in una serie di settori prioritari chiave. Le energie politiche della Commissione dovrebbero inoltre con-

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centrarsi su settori prioritari per la crescita e la competitività, tra cui il mercato unico e il commercio. Quindi, viene formulata una chiara indicazione di principio neo-ordoliberale: il processo decisionale della UE deve basarsi in primis sulle evidenze che vengono dai mercati, e, in secundis, dalle evidenze che provengono dalla scienza, oltreché ribadire con opportune raccomandazione l’introduzione di gruppi di “valutatori indipendenti”, di ulteriori commissioni, di ulteriori controlli e la stesura di rapporti e valutazioni d’impatto (vedi i sette punti sopra), che sappiamo essere tipiche pratiche di governance neo-ordoliberale95. Quindi, l’ERT pone prioritariamente in agenda un nuovo sforzo di liberalizzazione del mercato unico, specie nei settori dell’energia, telecomunicazioni, difesa, servizi, farmaceutica ed economia digitale96. Ancora, dopo aver bacchettato i sistemi educativi dei paesi europei97, vengono messe in agenda riforme del sistema educativo, imperniate sulla messa al centro delle skills tecnico-scientifiche e del connubio scuola-impresa98.

95 «Rafforzare un approccio basato sull’evidenza al processo decisionale dell’UE […] Anche il processo decisionale europeo deve fare un maggiore uso delle prove scientifiche nella gestione del rischio e nelle pratiche normative dell’UE» (ERT 2014, 2). 96 «Il completamento del mercato unico può comportare enormi vantaggi economici. Un mercato unico digitale più profondo e più completo può aumentare il PIL dell’UE con 260 miliardi di euro all’anno, mentre i mercati energetici integrati possono ottenere incrementi di efficienza di 50 miliardi di euro l’anno” (ERT 2014, 3). 97 «Gli alti tassi di disoccupazione giovanile in quasi tutti gli Stati membri e il numero di posti vacanti, principalmente in ambito scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico (STEM), evidenziano un crescente divario di competenze e un fallimento dei sistemi di istruzione nel preparare i giovani con le giuste competenze per essere occupabile” (ERT 2014, 5). 98 “Gli Stati membri dovrebbero istituire piattaforme STEM nazionali per facilitare le interazioni tra impresa e istruzione a livello regionale e promuovere le migliori pratiche (best practices). • Obiettivi nazionali per aumentare la percentuale di studenti che studiano. Dovrebbero essere istituite le STEM e l’educazione all’imprenditorialità dovrebbe essere integrata nei curricoli nazionali in tutta l’UE.

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Ma soprattutto avvertono della necessità di praticare uno dei pilastri del progetto neo-ordoliberale: la trasformazione del lavoratore in una impresa, farlo responsabile di tutte le disgrazie lavorative che gli capiteranno se non sarà un oculato imprenditore di se stesso e uno scientifico investitore su sé stesso, in un contesto di totale flessibilizzazione e precarizzazione che essi stessi ben prefigurano (al poveretto toccherà infatti cambiare lavoro, settore, carriera, ci manca solo che si aggiunga famiglia, continente e sesso per delineare un soggetto totalmente sradicato con identità plurime e liquide): I cittadini dell’UE devono anche assumere un atteggiamento più imprenditoriale verso la loro scelta dello studio iniziale, per le loro carriere e per proseguire istruzione e formazione […]. Il futuro mercato del lavoro e le evoluzioni tecnologiche richiederanno alle persone di cambiare lavoro, cambiare settore e persino cambiare carriera (ERT 2014, 5).

La sicurezza del lavoro (scrivono proprio sicurezza, e lo fanno nelle righe appena successive a quelle in cui avevano pronunciato la condanna all’incertezza e alla precarietà per tutta la vita, senza il minimo senso dell’ironia!) dovrà essere promossa dalla UE non proteggendo i posti di lavoro (cattiva pratica della classe operaia sindacalizzata e forse pure dei benevolenti re dell’ancien-regime) ma attivando un apprendimento permanente per essere pronti a transitare dove il mercato comanda: Per promuovere la sicurezza del lavoro per le persone anziché proteggere posti di lavoro specifici, si deve iniziare con una forte istruzione e formazione di base e adeguati sfondi di apprendimento permanente (life-long learning). Gli Stati membri e i datori di lavoro dovrebbero promuovere l’apprendimento permanente, che è la migliore protezione dell’occupazione per gli individui, in quanto consente loro di prepararsi alle transizioni di lavoro e carriera” (ERT 2014, 5).

Gli Stati membri dovrebbero continuare a sostenere la rapida modernizzazione della formazione professionale basata sul lavoro, riunendo gli insegnanti con le imprese e l’industria. • Gli Stati membri dovrebbero attuare programmi mirati per aumentare immediatamente il numero di lavoratori della conoscenza delle TLC e riempire i posti di lavoro disponibili» (ERT 2014, 3).

Gli organismi di pianificazione privati, la costruzione della UE

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Non dobbiamo comunque pensare che solo gli organismi di pianificazione privati, come i suddetti (ERT, WEF, Trilaterale, etc.), facciano sapere le loro opinioni con le modalità evidenti di “agenda-setter” Per esempio, come ci ricorda Zagrebelsky (2015), una delle maggiori, se non la maggiore, istituzioni bancarie mondiali, la banca d’affari J.P. Morgan, in un “report” redatto dai suoi analisti (28 maggio 2013), informa su come la grande finanza globalizzata consideri le costituzioni democratiche del secondo dopoguerra fastidiosi ostacoli di ispirazione socialista frapposti al rapporto fra finanza e organismi di governo. In primis, J.P. Morgan ci fa sapere che, sebbene si stia parlando di previsioni economiche, i problemi, per quanto riguarda alcuni paesi democratici, sono in realtà essenzialmente politici e ovviamente indica anche un’agenda per superarli: All’inizio della crisi, si presumeva generalmente che i problemi legati all’eredità nazionale fossero di natura economica. Tuttavia, con l’evolversi della crisi, è diventato evidente che ci sono profondi problemi politici nella periferia, che, a nostro avviso, devono cambiare se l’UEM funzionerà correttamente a lungo termine (J.P. Morgan 2013, 12).

Quindi, il report racconta le origini di queste anomalie del sistema politico – sostanzialmente l’origine democratica – che limitano le possibilità di riforme economiche e fiscali, e fa sapere le sue opinioni in proposito: I sistemi politici della periferia meridionale dell’Europa sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e costituzionali del Sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle Regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori […] licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia) (J.P. Morgan 2013, 13).

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Per quanto riguarda l’Italia, JP Morgan riconosce che il governo tecnico di Monti ha fatto qualcosa nella direzione giusta, ma che c’è ancora molto da fare: Nel corso del 2012, il governo Monti ha introdotto riforme del mercato dei prodotti di ampia portata riguardanti l’energia, i trasporti e i servizi professionali. L’obiettivo delle riforme era ridurre le tariffe e aumentare la flessibilità. Ha inoltre introdotto riforme del mercato del lavoro per ridurre i costi di licenziamento, promuovere gli apprendistati, decentralizzare gli insediamenti salariali e liberalizzare i servizi di collocamento (J.P. Morgan 2013, 11).

Questa analisi suggerisce che le riforme del 2012 rappresentano progressi, ma che resta ancora molto da fare per riuscire a superare gli esami condotti falla finanza globale. Infatti, soprattutto per l’Italia, migliorare le prestazioni strutturali dell’economia non significa solo riformare le leggi. Si tratta anche di cambiare la burocrazia e il sistema giudiziario. Quindi, si fanno gli auspici affinché i futuri governi seguano il percorso, ritenuto appena iniziato, di riforme politiche che permetteranno in un futuro a J.P. Morgan di dare una pagella sufficiente: Il test chiave per il prossimo anno sarà in Italia, dove il nuovo governo avrà chiaramente l’opportunità di avviare significative riforme politiche. Ma, in termini di idea di un viaggio, il processo di riforma politica è appena iniziato (J.P. Morgan 2013, 13).

La posizione che emerge dal report può alla fine essere così efficacemente sintetizzata: In sintesi: governo centralizzato e forte, lavoratori senza tutele costituzionali, limitazioni al diritto al dissenso (la protesta come “licenza”) – questo è ciò che occorre per soddisfare i desideri degli analisti della banca d’affari (Zagrebelsky 2015, 57-58).

Crisi e nuovi regimi della UE: una “gabbia di ferro” neo-ordoliberale?

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10. Crisi e nuovi regimi della UE: una “gabbia di ferro” neoordoliberale? Di fronte alle osservazioni critiche sui danni della crisi e sul ruolo negativo della sua gestione nell’ambito europeo, una domanda si affaccia naturalmente: come mai non solo l’Unione economica e monetaria persiste bellamente nonostante la crisi, ma addirittura perché la gestione della medesima pare abbia esteso e reso più profondamente radicato il capitalismo finanziario (che, al contrario, avrebbe dovuto essersi fortemente screditato proprio in conseguenza della crisi medesima)? Ryner (2015) fornisce una rassegna critica delle spiegazioni alla crisi dell’Euro e alla gestione della medesima che le istituzioni UE hanno portato avanti, gestione in cui si è manifestata una chiara impronta ordoliberale. Ryner sottolinea che l’ipotesi di una Europa costruita secondo i progetti del capitalismo transnazionale attraverso le sue strutture e le sue attività di agenzia (attività di lobbying, di imposizione dell’agenda ai politici, di discorso ideologico, vedi il paragrafo precedente) – supponendo così che gli Stati e le relazioni inter-statali siano solo ricevitori passivi dell’egemonia della classe capitalistica transnazionale – è, in realtà, una ipotesi solo parziale. Infatti, vi è anche da tenere in conto l’ipotesi che l’evoluzione della UE, in particolare l’introduzione della moneta unica e delle sue successive crisi, sia spiegabile come una risposta, centrata sulla Germania, alla espansione della finanza mondiale guidata dal potere del dollaro – sebbene una risposta non di sfida all’egemonia americana ma solo di “aggiustamento” – iniziata con l’accordo franco-tedesco sullo Sme nel 1978. A conferma di questa spiegazione basata sulle scelte autonome degli Stati e sulle relazioni politiche e diplomatiche fra i medesimi (piuttosto che sulla guida di una classe capitalistica transnazionale), Ryner ricorda come esempio che le reazioni di due Stati – Italia e Gran Bretagna – al termine dell’accordo dello Sme, furono opposte, la prima aderendo all’euro e la seconda chiamandosene fuori. Tuttavia, ciascuna delle due spiegazioni “critiche” rispetto all’evoluzione dell’UE e dell’euro – cioè, la teoria che la riduce all’egemonia di una classe capitalista transnazionale oppure, al

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contrario, all’egemonia tedesca – sarebbe, secondo Ryner, eccessivamente semplificatoria. Allora, egli offre una spiegazione che integra le medesime, collegando una spiegazione del tipo interstatale, secondo cui la leadership tedesca della EU ha funzionato come una risposta europea, comune ma variegata, all’egemonia predatoria che gli americani dopo Bretton Woods hanno esercitato sul capitalismo transnazionale guidato dalla finanza, con l’altra, centrata sui progetti portati avanti dalle élite del capitalismo transnazionale. Secondo Ryner, però, la configurazione dell’Europa che emergerebbe dalla sua integrazione delle due spiegazioni è ben lungi dall’essere ottimale, ma purtroppo essa non è facilmente modificabile, poiché l’ideologia e la pratica di governo ordoliberale, applicate all’Unione Europea e all’euro, avrebbero disegnato una “weberiana” gabbia di ferro: Invocando la traduzione di Parsons al termine “Stahlhartes Gehäuse” di Weber per indicare una situazione profondamente turbata dalla quale è impossibile sfuggire, nonostante la disincantata consapevolezza che la Città Celeste non sarà mai raggiunta (Baehr 2001), suggerisco che il paradosso di un’unione monetaria che dura nonostante le sue contraddizioni, i costi sociali e i conflitti possono essere visti come una gabbia di ferro ordoliberale (Ryner 2015, 276).

Una spiegazione critica alternativa è proposta da Ryner (2015), che, pur condividendo le altre analisi formali dell’accumulazione di capitale e gli avvertimenti sul potenziale catastrofico di aggiustamenti unilaterali da parte dei paesi deficitari, focalizza però l’attenzione sui centri di potere e sugli interessi che stanno dietro alla gestione della crisi dell’Eurozona. Infatti, per Ryner l’obiettivo della gestione della crisi da parte delle autorità dell’UE non sarebbe certo quello di eliminare gli squilibri dei disavanzi, ma piuttosto quello di accelerare una nuova fase di riforma del mercato, esplicitamente dichiarata come una “rivoluzione silenziosa” orientata al mercato dal Presidente della Commissione Barroso nel 2011. Per Radice (2014) la gestione delle crisi mirava soprattutto a tutelare gli interessi del settore finanziario e perseguiva l’obiettivo di una continuazione dell’accumulazione guidata dalla finanza. Anche in questo caso, come in altri più tragicamente noti come quello del Cile del 1973, si prende l’occasione da uno

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shock, magari intenzionalmente provocato, per far passare, senza consenso democratico, una serie di misure sia liberalizzatrici che disciplinari. Quindi, la gestione ordinaria della crisi in Europa sarebbe un altro esempio della “dottrina dello shock” (Klein 2007), cioè la crisi come un’occasione per l’élite dirigente per andare oltre i confini del possibile99. Se lo shock è la crisi dell’Eurozona, per Ryner la gestione di tale crisi ha avuto – attraverso le disposizioni strutturali del Fiscal compact e degli altri pacchetti di misure – come priorità politica principale la privatizzazione e la messa a disposizione di beni pubblici per la leva finanziaria. Sotto questa ipotesi, alcune semplici cifre potrebbero far concludere che, sebbene il perseguimento di tale obiettivo politico non esenti da possibili tensioni politiche e possa generare ulteriori crisi da bolla speculativa, le modalità di gestione della crisi potrebbero risultare durature nel tempo. Infatti, Ryner riporta le seguenti stime e tendenze in atto: i) secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ci sono ancora 2 trilioni di dollari

99 Klein (2007) studia, per il periodo che va dagli anni Sessanta fino al 2007, la relazione esistente fra le applicazioni delle teorie liberiste (i.e. Friedman e la Scuola di Chicago) in diversi stati e l’apparizione preliminare di uno shock. L’autrice sostiene che l’applicazione delle politiche liberiste (i.e., privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica e liberalizzazioni dei mercati, soprattutto del mercato del lavoro) sia avvenuta sempre senza legittimazione democratica quando vi sia stato precedentemente uno shock casuale esterno oppure intenzionalmente causato ad hoc per questo fine (per esempio, l’instaurazione del regime di Pinochet in Cile nel 1973, il crollo del muro di Berlino e l’instabilità economica in Polonia e Russia all’inizio degli anni ’80, l’inflazione inarrestabile in Bolivia, la guerra delle Falkland tra Argentina e Regno Unito, etc.). Stiglitz, nella sua recensione al libro, considera molto più semplicistica la posizione di Friedman e dei suoi seguaci di quanto lo sia quella della Klein nel denunciare una casistica enorme per la relazione fra politiche friedmaniane e shock più o meno intenzionali: «Klein non è un’accademica e non può essere valutata come tale. Ci sono molti punti nel suo libro in cui semplifica troppo. Ma anche Friedman e gli altri terapisti dello shock erano colpevoli di una semplificazione eccessiva, basando la loro fiducia nella perfezione delle economie di mercato su modelli che presupponevano un’informazione perfetta, una concorrenza perfetta, mercati del rischio perfetti. In effetti, la ragione contro queste politiche è persino più forte di quella che presenta la Klein. Non sono mai basate su solide basi empiriche e teoriche e, quando molte di queste politiche si sono trovate in difficoltà, gli economisti accademici avevano la spiegazione dei limiti dei mercati, ad esempio ogni volta che l’informazione è imperfetta, vale a dire sempre» (Stiglitz 2007).

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di imprese statali che potrebbero essere privatizzate; ii) secondo le stime del FMI, le attività pubbliche non finanziarie nel settore immobiliare e dei terreni, comprese le risorse del sottosuolo, hanno un valore pari a tre quarti del PIL delle economie sviluppate. Le proprietà residenziali statali greche sono attualmente stimate a 3,3 miliardi di euro, ma potrebbero raggiungere i 20 miliardi di euro in 10 anni; iii) gli Stati membri creditori e i consulenti del MES stanno prendendo in considerazione i meccanismi attraverso i quali tali beni pubblici potrebbero essere immessi sul mercato da Stati debitori riluttanti, come società di partecipazione situate in altri Stati membri e impegni di flussi finanziari futuri provenienti da attività statali (ad esempio affitti o vendita di biglietti) come garanzia contro nuove obbligazioni. In assenza di una crescita ad alta produttività, l’accumulazione guidata dalla finanza è andata alla ricerca di nuovi sbocchi nella mercificazione dello spazio ma anche nella vita socioeconomica, guidata dalla privatizzazione di beni precedentemente pubblici o comuni (Harvey 2003, 2006). Insomma, la risposta alla peraltro inevitabile crisi dell’euro sarebbe stata quella di una autoritaria gestione della crisi per supportare l’accumulazione privata di capitale tramite l’acquisizione di un precedente “capitale” pubblico o sociale100.

100 Sebbene solo aneddotica e contingente ad una polemica politica, – riguardante l’ipotesi che Draghi, allora governatore di Banca d’Italia, diventasse Presidente del Consiglio dei Ministri – il giudizio espresso dall’ex Presidente della Repubblica Italiana Cossiga sul comportamento del futuro capo della BCE (in una telefonata in diretta al programma Rai Uno Mattina) sembra consistente con una interpretazione della crisi finanziaria europea come allargamento dell’accumulazione privata di capitale sotto forma di smobilitazione di “capitale” pubblico: «Non si può nominare Presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman Sachs, grande banca d’affari americana […]. È il liquidatore, dopo la famosa crociera sul “Britannia”, dell’industria pubblica, della svendita dell’industria pubblica italiana quand’era direttore generale del Tesoro e immaginati che cosa farebbe da Presidente del Consiglio dei Ministri: svenderebbe quel che rimane: Finmeccanica, l’Enel, l’Eni» (Cossiga 2008). A questo proposito, il Fatto Quotidiano del 22 gennaio 2020 (p. 15) riporta il discorso, definito leggendario, tenuto il 2 giugno del 1992 dall’allora direttore del Tesoro, in cui – dopo essersi congratulato con gli Invisibili Britannici, che lo ospitavano sullo yacht “Britannia”, per la presentazione della cessione del patrimonio pubblico ai privati (a cui si riferiva Cossiga) – lucidamente sottolinea la grande decisione politica che

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L’analisi di Ryner conduce a conclusioni pessimistiche per chi non condivida il progetto neo-liberale. La complicata interconnessione fra le due dimensioni, quella strategica dell’élite capitalistica europea che detta l’agenda e quella del sistema inter-statale ancora inevitabilmente forte con le sue dinamiche endogene di potenze, non consente di vedere vie d’uscita alternative. Da un lato, i costi di opporsi al dominio tedesco sono realisticamente pesanti. Dall’altro lato, la possibilità di costruire una opposizione strategica rispetto ai progetti dell’élite capitalistica europea è impraticabile, perché i soggetti che sarebbero primari per questo compito, come i sindacati, sono stati messi alle corde, e i movimenti di contestazione che appaiono qua e là (Indignados, Gilet jaunes) non possiedono nemmeno la cenere delle consumate ideologie della classe antagonista a quella del capitale, anzi possono finire per rafforzare il progetto neo-liberale in futuro101. Due con-

“scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico”, dove ci sembra riecheggiare quell’opzione del “politico” per l’“economico” come costituzione dell’ordine che è al fondamento del pensiero ordoliberale: «un’ampia privatizzazione è una grande decisione politica che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini fra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un’ampia deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante». Peraltro l’importanza delle privatizzazioni come mezzo di risposta alla “crisi” è ribadita ancora dallo stesso Draghi, in occasione delle Considerazioni Finali della Relazione annuale di Banca d’Italia del 2011 di cui è governatore, a pochi mesi dall’esplosione della “crisi” dello spread che condusse alla famosa lettera d’intenti della BCE, firmata ancora dallo stesso Draghi divenutone nel frattempo il capo, con la quale si raccomandava imperativamente all’Italia una ricetta di rimedi in cui comparivano quelli già ricordati nelle Considerazioni finali: «La strada del risanamento è percorribile. Ho ricordato spesso negli ultimi mesi l’esperienza italiana all’inizio degli anni Novanta, quando il nostro paese si trovò ad affrontare una gravissima crisi di fiducia nella sostenibilità del suo debito pubblico. In quel periodo dovevamo collocare sul mercato ogni anno titoli per un ammontare pari, in termini reali, a dieci volte il fabbisogno di finanziamento annuo della Grecia oggi, a due volte come incidenza sul PIL. L’Italia seppe uscire dalla crisi senza bisogno di aiuti esterni, grazie a un ambizioso piano di consolidamento fiscale, a riforme strutturali importanti e all’attuazione di un programma di privatizzazioni per circa il 10 per cento del PIL» (Banca d’Italia, 2011). 101 «le attuali forme di governo [sono] entrambe profondamente radicate nel capitalismo transnazionale e nel sistema statale […] ciò significa che non è

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siderazioni finali del contributo di Ryner sono comunque condivisibili: che «questo è il punto con le gabbie di ferro. Non ci si può sfuggire facilmente», e che se proprio volessimo sfuggirle «non si deve concordare con Adorno (2004 [1948]) che la fuga può essere trovata solo in esperienze estetiche altamente esoteriche indotte dalle scale tonali schoenberghiane”» (Ryner 2015, 289).

11. L’evoluzione odierna della UE e lo svuotamento della democrazia politica L’adozione di quelle misure che formalmente sono dei trattati internazionali ha di fatto modificato il diritto europeo, ponendo alcuni rilevanti quesiti: i) l’Unione o gli Stati membri avevano il potere di adottare le misure che hanno adottato?102; ii) il “deficit democratico”, che per molti era già esistente103, è risultato aggra-

facile per nessuno Stato membro uscire da un sistema regionale dominato dalla Germania perché i costi per farlo sono reali […]. Gli argomenti che ignorano questo sottovalutano gravemente il grado in cui gli stati ancora integrano, e allo stesso tempo dividono, la società di massa, compresi i sindacati, che dovrebbero essere i benvenuti nella formazione di un’agenzia politica che potrebbe spingere gli sviluppi in una direzione alternativa. E mentre l’emarginazione significa certamente che le capacità integrative sono diminuite, i movimenti di opposizione che derivano dall’emarginazione generano spesso risultati paradossali. In effetti, movimenti come gli Indignados rappresentano la stessa scomposizione della vecchia sinistra socialista […]. Ciò potrebbe effettivamente aumentare lo spazio politico per la riforma neoliberista nel prossimo futuro» (Ryner 2015, 289). 102 Un esempio estremamente dubbio di ciò è l’introduzione del voto a maggioranza qualificata inversa quando si tratta di imporre sanzioni nel contesto della sorveglianza multilaterale. 103 Questo è, per esempio, il caso di Habermas (2015), nella sua nota risposta a Grimm, giudice della Corte della sentenza di Maastricht, in cui ha sostenuto che il deficit democratico era già «di giorno in giorno in espansione perché le dinamiche economiche e sociali anche all’interno del quadro istituzionale esistente perpetuano l’erosione dei poteri nazionali attraverso il diritto europeo», e che quindi la Corte pretendesse invano di difendere barricate che erano state violate da tempo, anzi il suo tipo di euroscetticismo finiva per “sbiancare” le profonde carenze democratiche dell’Unione introdotte proprio dal Trattato di Maastricht e dalla sua filiazione, l’Unione economica e monetaria. Insomma, Habermas cavalca il diffuso argomento che è la globalizzazione – e non la UE – a ridurre gli spazi politici degli Stati nazionali.

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vato da queste misure adottate?; iii) se e in quale misurale nuove istituzioni e strategie di gestione delle crisi nel loro funzionamento hanno violato l’equilibrio istituzionale tra l’Unione e gli Stati membri?; iv) inoltre, specularmente, gli Stati membri hanno il potere di assegnare, nell’ambito dei compiti del Fiscal compact, alcuni di questi alle istituzioni dell’Unione senza il consenso dell’Unione?; v) è avvenuta una espropriazione di potere a danno dei paesi membri? Le risposte convergono tutte nell’indicare che sia la revisione del Patto di stabilità e crescita, da un lato, sia il funzionamento di vari accordi di “salvataggio”, dall’altro, abbiano espropriato effettivamente parte dei poteri degli Stati membri, operando così indirettamente una significativa ripartizione dei poteri. Entrambe le riforme hanno inciso in particolare laddove l’Unione non ha giurisdizione, e in entrambe i parlamenti nazionali appaiono, come sempre, i grandi assenti104. Si può riassumere l’effetto complessivo notando che ora è finalmente corretto affermare che, a causa dell’impatto dell’Unione sulla pianificazione del bilancio, agli Stati membri non è rimasto alcun “nucleo di sovranità” (Somek 2015, 342).

Il rifinanziamento del debito sovrano attraverso il MES è sotto la “condizionalità” di riforme – i cui termini sono espressi nei “Memorandum d’intesa” – che sono coerenti con lo “spirito” del cosiddetto Washington consensus, incentrandosi specialmente sulla privatizzazione dei servizi pubblici e sulle “rigidità” del diritto del lavoro o della formazione dei salari105. Si definisce Washington consensus, termine coniato da John Williamson (1990), un corpus 104 «Sebbene i parlamenti debbano essere informati e discutere la pianificazione del bilancio in una o nell’altra commissione, è probabile che qualsiasi vera opposizione venga “sgridata” dal governo, che, se vuole evitare l’imposizione di sanzioni severe, deve soddisfare le richieste dalla Commissione» (Somek 2015, 343). 105 Una motivazione di logica strettamente macro-economica per spiegare l’attenzione dominante alle riforme del mercato del lavoro è che, «poiché nel corso degli anni la Commissione ha posto maggiormente l’accento sul ripristino dell’equilibrio esterno attraverso la svalutazione interna (piuttosto che sulla riduzione del debito), i rapporti di lavoro e l’occupazione attraverso salari più bassi, o

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sia operativo che dottrinario, la cui nascita “pubblica” si fa risalire alla conferenza organizzata nel 1989 dall’Institute for International Economics di Washington (uno dei numerosi centri di ricerca creati, negli Stati Uniti come in altri paesi, dai centri di potere economici e finanziari insieme con le forze politiche più conservatrici, per veicolare operazioni in direzioni più o meno neo-ordoliberali). Le tesi principali del Washington consensus sono elencate da Roncaglia (2019): disciplina fiscale (contenimento dei disavanzi pubblici), ristrutturazione e riduzione della spesa pubblica, riforma fiscale per ampliare la base dei contribuenti tramite un sistema di aliquote non “troppo” progressive (ma senza dire nulla sulla elusione fiscale resa possibile dalla concorrenza tra regimi fiscali di paesi diversi), liberalizzazione dei tassi d’interesse e più in generale dei mercati finanziari nazionali e internazionali, tassi di cambio di equilibrio (cioè corrispondenti all’equilibrio di bilancia dei pagamenti), liberalizzazione del commercio estero (riduzione o abolizione dei dazi doganali, abolizione dei contingentamenti delle importazioni), piena apertura agli investimenti diretti dall’estero, privatizzazioni, deregolamentazione, difesa dei diritti di proprietà.

Queste tesi, pubblicizzate come unte dal crisma della scienza economica, si trasformano in azioni politiche sovranazionali cogenti: Quest’insieme di politiche vengono considerate regole generali desunte dalla migliore dottrina economica e vengono imposte ai governi dei paesi in difficoltà, come condizioni per la concessione di prestiti da parte del Fondo monetario o della Banca mondiale (e, dopo la crisi del debito sovrano dell’area dell’euro, da parte della cosiddetta troika: Commissione europea, Banca centrale europea, FMI), senza particolare riguardo alle condizioni specifiche di ciascuno di essi (Roncaglia 2019).

Ancora Roncaglia riassume brevemente il contenuto teorico e politico-economico del Washington consensus: si tratta di politiche che si appoggiano sulla tradizionale teoria marginalista, secondo la quale la mano invisibile del mercato assicura la ten-

minori costi dell’occupazione, sono diventati il centro delle preoccupazioni» (Somek 2015, 344).

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denza automatica verso il pieno utilizzo delle risorse, di modo che gli interventi di politica economica vanno orientati verso le “politiche dal lato dell’offerta”, in particolare le cosiddette riforme strutturali dirette a rendere più efficiente il funzionamento del mercato e a incentivare risparmi e sforzo lavorativo.

Secondo Fitoussi e Saraceno (2013), il Washington Consensus è il breviario che guida il processo decisionale e la governance economica a livello globale e regionale, di cui sono protagonisti, quali creature sostenute e plasmate dai paesi più ricchi, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, col loro modello economico basato essenzialmente su tre principi: «primo, un ruolo ridotto della politica di stabilizzazione (la politica macroeconomica dovrebbe limitarsi a combattere l’inflazione e tenere sotto controllo le finanze pubbliche); in secondo luogo, un ruolo maggiore per i meccanismi di mercato (privatizzazione, deregolamentazione e altre riforme strutturali); e, terzo, la piena integrazione nell’economia globale (che significa libero commercio e liberi flussi finanziari)». E mentre a livello mondiale quel modello ha subito smentite empiriche e acceso qualche sfida, l’Europa ha, al contrario, progressivamente ma saldamente incorporato le prescrizioni del Consensus nella struttura fondamentale dell’UE (istituita dal Trattato di Maastricht del 1992 e completata dai Trattati di Amsterdam del 1997, Lisbona del 2009 e dal Fiscal compact del 2012). L’assetto istituzionale europeo vieta di fatto la politica economica discrezionale, limitando la politica monetaria all’inflation targeting e la politica fiscale alla stabilizzazione automatica (Fitoussi e Saraceno 2013, 483).

Tuttavia Fitoussi e Saraceno, ampliano il contenuto definitorio del Washington Consensus, distinguendo le differenze economiche fra USA ed Europa, e, sulla base di queste, propongono che la visione dominante sia definita “Berlino-Washington Consensus”, in quanto incorpora queste differenze. Infatti, a partire dal periodo dell’inflazione degli anni ’80, viene osservato che in quel periodo gli Usa hanno sia una crescita maggiore che una inflazione e una disoccupazione minori dell’Europa, e che negli anni ’90, che sono anni di lotta all’inflazione, gli Usa riducono l’inflazione preservando la crescita e riducendo la disoccupazione, mentre

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l’Europa riduce l’inflazione a spese di una riduzione della crescita e un aumento della disoccupazione. Inoltre, quando negli anni 2000 l’inflazione viene vinta, appare un’ulteriore divergenza: mentre i grandi paesi europei (in particolare la Germania) hanno mantenuto la loro attenzione focalizzata sull’equilibrio con l’estero, gli USA hanno aumentato per più di due decenni il deficit con l’estero, facendo così sorgere un quesito: esistono due alternativi scenari economici, ovvero deficit con l’estero/alta crescita/ bassa inflazione versus surplus (o equilibrio) con l’estero/bassa crescita/bassa inflazione? Per rispondere, bisogna osservare la gestione della crisi dell’eurozona nel 2009-2012 (in cui Berlino ha un ruolo rilevante) e i due autori concludono che in Europa 1) è considerata primaria la sostenibilità delle finanze pubbliche (vedi il Fiscal compact); 2) la domanda interna non è considerata (soprattutto dalla Germania) come un motore di crescita; 3) non è considerata possibile la crescita se non si fanno le cosiddette riforme strutturali106, il che porta a concludere – dato l’assetto istituzionale europeo che, vietando in generale ogni intervento del governo per rimuovere gli ostacoli che impediscono il regolare funzionamento dei mercati, di fatto vieta la politica economica discrezionale, limita la politica monetaria all’inflation targeting e la politica fiscale alla stabilizzazione automatica – con una paradossale previsione: «se questa “visione di Berlino” dovesse evolversi in un “consenso di Berlino” e diventare dominante in Europa, avremmo il paradosso del secondo blocco economico più grande del mondo che fa affidamento solo sulla domanda estera per garantire la prosperità ai suoi cittadini» (Fitoussi e Saraceno 2013, 482).

106 Fitoussi e Saraceno insistono sul fatto che l’ideologia del Consensus ha portato la UE a darsi solo due obiettivi – quali una bassa inflazione e un positivo saldo con l’estero – che sono intermedi, posponendo, invece, quelli che dovrebbero essere “finali”, ovvero crescita e occupazione, a dopo che siano state realizzate le riforme strutturali, e sottolineano che non si tratta soltanto di aver dato – nella funzione obiettivo del policy maker – un peso maggiore alla riduzione dell’inflazione rispetto alla crescita, ma che, in realtà, fra i due obiettivi c’è un ordinamento lessicografico: la crescita diventerebbe un obiettivo solo una volta che l’obiettivo dell’inflazione sia stato raggiunto.

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Questo mostra anche come l’UE – in linea con lo spirito neo-ordoliberale mondiale – abbia puntato non solo alla questione dell’emergenza, ma approfittando di essa abbia agito per la costruzione di un nuovo modello sociale. Gli accordi prevedono che per i paesi che ricevono l’aiuto finanziario vi siano costi politici e di legittimità estremamente elevati. Il “Memorandum d’intesa”, che di solito viene aggiornato ogni tre mesi e in cui sono dettagliate le numerose e costose condizioni che devono essere soddisfatto da questi paesi, va a incidere in modo profondo nella legislazione nazionale. Secondo Scharpf (2011, 19), «una volta che uno Stato membro dell’UEM ha richiesto la protezione dei fondi del salvataggio europeo, il suo governo opererà sotto una forma di “amministrazione controllata”». L’operazione condotta sulla Grecia è stata talmente drastica e profonda che sembra essere un grande esperimento di ingegneria statale e sociale, una rifondazione da zero107. Appare simile, ma in salsa europea, all’esperimento condotto in Cile, con la rifondazione di uno Stato politicamente dittatoriale con una economia “libera”, oppure risalendo ancor più indietro, con l’esperimento di rifondazione della Germania a partire dall’anno zero che per essa fu il 1945. Possiamo così osservare il malcelato afflato di razionalismo costruttivistico che permea il disegno europeista, però congiunto, in termini complessi da decifrare, con l’apparentemente opposta ideologica negazione di ogni progettualità politica e costruttiva, tendente a ridurre il governo alla semplice amministrazione della realtà, alla sola gestione dell’ordine evolutivo dei mercati. C’è qui – nell’esperimento dettagliato nel “Memorandum d’intesa” mascherato dal riferimento al liberalismo e alla scienza economica – un sapore di “anno zero” e “novo ordo”, per usare una terminologia cara a ogni rivoluzione (americana, francese, comunista o fascista che sia). Una caratteristica significativa quanto inquietante della perdita di ogni “sovranità” da parte di uno Stato membro la si ri-

107 «Nel caso della Grecia, il pacchetto di condizioni sembra ammontare addirittura a un programma per reinventare lo Stato greco» (Somek 2015, 334).

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scontra nelle forme di controllo stretto e diretto del governo dello Stato sotto “condizionalità” da parte dei Commissari. Un paese che ha richiesto il “rifinanziamento condizionato” secondo il meccanismo del MES può in un certo senso diventare un paese “occupato” (e metaforicamente i Commissari, con le loro truppe di furieri e scritturali al seguito, possono acquartierarsi nella capitale dello Stato preso nel meccanismo): La Commissione (di concerto con la BCE e forse anche il FMI) ha il compito di monitorare i progressi compiuti dallo Stato membro e di esaminare (con lo Stato membro) se il programma di aggiustamento debba essere “aggiornato”. Nel caso in cui uno Stato abbia “capacità amministrativa insufficiente” o altri problemi significativi nell’attuazione del programma, deve chiedere “assistenza tecnica alla Commissione, che può costituire, a tal fine, gruppi di esperti composti da membri di altri Stati membri e altre istituzioni dell’Unione o di pertinenti istituzioni internazionali. Tale gruppo di rafforzamento delle capacità può effettivamente risiedere nello Stato membro interessato (Somek 2015, 344).

L’insistenza della BCE e della Commissione perché tali fondi siano richiesti è ovviamente interessata: sembrano dire suadentemente, come le streghe in una fiaba, “prendi questa mela”, è necessaria per guarire, lo dice il dottore, ma una volta presa ci si accorgerebbe che si tratta di una “mela avvelenata”: le streghe si installerebbero in casa a comandare. Questo spiega la riluttanza di paesi come la Spagna e l’Italia a richiedere tali fondi. Il termine “amministrazione controllata” fa ricordare il diritto fallimentare societario, ma in questo caso il controllo plurimo in “loco” sull’adempimento alle condizioni specificate nel “protocollo d’intesa” ha fatto pensare a tristi metafore di guerra: In realtà, “amministrazione controllata” potrebbe essere un termine troppo mite per quelle che sono le condizioni imposte ai mutuatari. Max Keizer, presentatore di una televisione britannica ed ex broker di Wall Street, ha parlato invece di un “regime di occupazione” imposto dalla troika (citato in Scharpf 2011, 20), e se sono corretti alcuni rapporti recenti, il riferimento alle conseguenze della sconfitta militare non è affatto inappropriato (Majone 2014, 1221).

Con un po’ di fantasia ed effettuando le opportune sostituzioni, potremmo paragonare il gruppo di controllori installato nel-

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la capitale del paese sotto “rifinanziamento condizionato”, con i suoi corpi politici (commissari), burocratici (funzionari vari), sacerdotali (economisti) e con le più svariate lingue e provenienze multi-nazionali (europei della UE, americani del FMI, etc.), ad una specie di A.M.G. (Allied Military Government), il governo militare alleato (anch’esso sotto l’egida sovra-nazionale dell’ONU) in territorio occupato108, le cui principali finalità erano quelle di garantire la sicurezza delle forze di occupazione (i.e. oggi agenti vicari delle Banche) e delle loro vie di comunicazione (i.e. oggi Borse), tenere conto dei bisogni della popolazione, ma subordinare ogni provvedimento anche di riforma politica alle esigenze militari alleate (i.e. ancora i vicari delle Banche) e utilizzare le risorse economiche dei territori occupati, assecondando i disegni delle forze militari alleate (i.e. ancora i vicari delle Banche). A dimostrazione della palese esclusione ed irrilevanza della democrazia nazionale, c’è persino lo sbeffeggio umiliante della concessione da parte di “rappresentanti della Commissione” di poter essere invitati dai parlamenti delle nazioni sotto “processo” per fare due chiacchiere, come si evince dall’Art. 9, comma 11 del Reg. 472/2013: «Il parlamento dello Stato membro interessato può invitare rappresentanti della Commissione a partecipare a uno scambio di opinioni sui progressi realizzati nell’attuazione del suo programma di aggiustamento macroeconomico». Peraltro, quanto a dimostrazione di irrilevanza, non va meglio ai parlamentari europei, se, come si legge nell’Art. 9, comma 10 del Reg. 472/2013, essi hanno la facoltà di «offrire la possibilità allo Stato membro interessato e alla Commissione di partecipare a uno scambio di opinioni sui progressi realizzati nell’attuazione del programma di aggiustamento macroeconomico»; qui sembra che si dica tanto ai parlamentari europei, perché non si annoino troppo nel clima belga, come allo Stato sotto “processo”, perché non si senta troppo isolato, di fare due chiacchiere assieme sull’andamento degli esami scolastici, quando ovviamente i professori giudicanti sono ben altri e ben altrove.

108 L’AMG era un organo costituito dalle Nazioni Unite nei paesi da esse occupati nel corso della Seconda Guerra Mondiale: Italia, Africa settentrionale francese, Francia, Grecia, Germania, Austria, Giappone.

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Un altro sbeffeggio alla democrazia lo si ha nel trattamento dei diritti sociali e sindacali. Infatti, formalmente i diritti collettivi e le parti sociali sembrano essere tenuti in considerazione, quando si ricorda i) sia nel Fiscal compact che deve essere rispettato l’art. 152 TFEU, inerente alla importanza del riconoscimento dei “partners sociali” e dei sistemi salariali nazionali, ii) sia nell’art. 1, comma 2, del Reg. 473/2013 che richiama il rispetto dell’art. 28 della Carta di diritti fondamentali dell’Unione Europea, inerente al «diritto di negoziare, concludere o applicare accordi collettivi ovvero di intraprendere azioni collettive in conformità del diritto e della prassi nazionali». Tuttavia, questo (detto all’inglese) lip service viene poi svelato nel suo autentico contenuto di “mela avvelenata” quando si osservi l’Art. 8 del Reg. 472/2013 in cui si prescrive che «nella preparazione dei suoi progetti dei programmi di aggiustamento macroeconomico, uno Stato membro consulta le parti sociali e le organizzazioni della società civile interessate al fine di contribuire alla creazione di un consenso in merito ai relativi contenuti». Questo non significa altro che allo Stato membro è lasciato l’ingrato compito di andare dai rappresentanti dei lavoratori, comunicare loro la necessità di “aggiustamenti” pesanti, placarli e se possibili renderli “consenzienti” e obbedienti. Somek individua anche una particolare fonte di autoritarismo congenito alla UE nelle sue modalità di attuazione del percorso di integrazione, come sarebbero già apparse chiare nelle intenzioni dei padri fondatori. Per fare questo egli si riferisce alla visione dell’autoritarismo nel pensiero del filosofo politico austriaco Eric Voegelin. Esso, nel suo libro del 1936, The Authoritarian State, sostiene che la legittimità di un governo o di un governante deriva dal ruolo “creativo”, “autoriale”, nel generare una istituzione importante (come lo Stato), dal ruolo nella realizzazione di una “idea” guida di una istituzione, ruolo in cui essi agiscono come incaricati di una missione fondatrice. Cosa conferisce loro questa “autorità”? L’essere riusciti a porsi con successo come rappresentanti dell’idea guida di un’istituzione e in quanto aver operato attivamente e creativamente per la realizzazione di questa idea. Cosa legittima questa “autorità”? Il compito creativo stesso svolto con successo. Dove si deposita questa “autorità”? Nell’istitu-

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zione creata, non appena essa trova il consenso consuetudinario (Consentement coutumier) da parte di coloro che vi sono soggetti. Nel successivo libro, The New Science of Politics, Voegelin insiste nel definire come sovrano “autoritario” quel “rappresentante” “esistenziale” che “articola”109 le “società politiche in forma per l’azione”110, cioè le unità di potere che crescono e si distinguono nella storia111, articolazione che significa la formazione degli esseri umani in una società per l’azione112, e che senza quel “rappresentante” non potrebbero venire in esistenza 113.

109 «Tali società con la loro organizzazione interna per l’azione, tuttavia, non esistono come dispositivi cosmici dall’eternità, ma crescono nella storia; questo processo in cui gli esseri umani si formano in una società per l’azione sarà chiamato l’articolazione di una società» (Voegelin 1987, 49). 110 Come esempio storico di “società politica in forma per l’azione” Voegelin sceglie l’allora “nemico” sovietico: «Sebbene ci possa essere un disaccordo radicale sulla questione se il governo sovietico rappresenti il popolo, non vi può essere alcun dubbio che il governo sovietico rappresenti la società sovietica come una società politica in forma per l’azione nella storia. Gli atti legislativi e amministrativi del governo sovietico sono efficaci a livello nazionale, nel senso che i comandi governativi trovano obbedienza al popolo, tenendo conto del margine di fallimento politicamente irrilevante; e l’Unione Sovietica è una potenza sulla scena storica perché il governo sovietico può effettivamente far funzionare un’enorme macchina militare alimentata dalle risorse umane e materiali della società sovietica» (Voegelin 1987, 49). 111 «sotto il titolo di società politiche in forma per l’azione, vengono alla luce le unità di potere chiaramente distinguibili nella storia» (Voegelin 1987, 49). 112 «Le società politiche, per essere in grado di agire, devono avere una struttura interna che permetta ad alcuni dei suoi membri — il governatore, il governo, il principe, il sovrano, il magistrato, ecc., secondo la terminologia variabile nelle diverse epoche – di trovare l’obbedienza abituale per i loro atti di comando; e questi atti devono servire le necessità esistenziali di una società, come la difesa del regno e l’amministrazione della giustizia, se sarà consentita una classificazione medievale degli scopi» (Voegelin 1987, 49). 113 Per la precisione Voegelin riprende esplicitamente la teoria della rappresentazione di Maurice Hauriou, nel suo Précis de droit constitutionnel del 1923, sviluppata nel contesto storico delle difficoltà della Terza Repubblica francese e ripresa con dovizia da Carl Schmitt – che lo riteneva un suo maestro – nel noto lavoro del 1934 sui tre tipi di pensiero legale (Schmitt, 2004), e la sintetizza così: «la lezione dell’analisi di Hauriou può essere concentrata nella tesi: per essere rappresentativo, non basta che un governo sia rappresentativo in senso costituzionale (il nostro tipo elementare di istituzioni rappresentative); deve anche essere rappresentativo nel senso esistenziale della realizzazione dell’idea di istituzione. E l’avvertimento implicito può essere esplicitato nella tesi: se un governo non è

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Qui si intende il “rappresentante” in un in un duplice senso: quello di far nascere la società in virtù dell’imputazione dei suoi atti a qualcosa che non ci sarebbe stato se fosse mancata questa imputazione, e quello di riuscire a far valere i suoi atti, agli occhi di una moltitudine, come atti della società114. E questo rappresentante lo si definisce “esistenziale” perché si occupa delle necessità dell’esistenza. Ma, come precisa Somek, rispetto all’autorità di questo “rappresentante”, «non si tratta di procedure legali formali (“rappresentanza elementare”), ma di generare effettivamente obbedienza e coesione nei confronti di un’idea». Somek annota anche la somiglianza fra la modalità autoritaria di “articolare la società” di Voegelin e l’ipotesi “neofunzionale”. Quest’ultima predice che si possa creare l’integrazione politica tramite quella dei singoli pezzi settoriali con una tempistica step by step, modalità di integrazione politica definita da Haas (1958, 16) come il «processo mediante il quale gli attori politici in diversi contesti nazionali distinti sono persuasi a trasferire le loro lealtà, aspettative e attività politiche in un nuovo centro, le cui istituzioni possiedono o richiedono giurisdizione su Stati nazionali preesistenti». Voegelin dà una definizione di questo rappresentante differenziandolo nettamente da un agente, esemplificando il primo con un governo e il secondo con un rappresentante alle Nazioni Unite:

altro che rappresentativo in senso costituzionale, un governante rappresentativo in senso esistenziale prima o poi ce la farà a mettervi fine; e molto probabilmente il nuovo sovrano esistenziale non sarà troppo rappresentativo in senso costituzionale» (Voegelin 1987, 55). 114 «Come risultato dell’articolazione politica troviamo gli esseri umani, i governanti, che possono agire per la società, uomini i cui atti non sono imputati alle proprie persone ma alla società nel suo insieme, con la conseguenza che, ad esempio, la pronuncia di una regola generale che regoli un ambito della vita umana non sarà intesa come esercizio di filosofia morale, ma sarà vissuta dai membri della società come la dichiarazione di una regola con forza obbligatoria per sé stessi. Quando i suoi atti sono effettivamente imputati in questo modo, una persona è il rappresentante di una società» (Voegelin 1987, 49).

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Se il significato di rappresentazione in questo contesto deve essere basato sull’imputazione effettiva, sarà necessario, tuttavia, distinguere la rappresentazione dagli altri tipi di imputazione; sarà necessario chiarire la differenza tra un agente e un rappresentante. Per agente, quindi, si intende una persona che è autorizzata dal suo principale a svolgere un determinato affare dietro istruzioni, mentre per rappresentante si intende una persona che ha il potere di agire per una società in virtù della sua posizione nella struttura della comunità, senza istruzioni specifiche per uno specifico affare, e i cui atti non saranno effettivamente ripudiati dai membri della società. Un delegato alle Nazioni Unite, ad esempio, è un agente del suo governo che agisce su istruzione, mentre il governo che lo ha delegato è il rappresentante della rispettiva società politica (Voegelin 1987, 50).

Ma Voegelin non si limita all’autorità di questa “rappresentanza esistenziale”, ma individua anche l’autorità che deriva dalla rappresentanza “trascendentale”, vale a dire il caso in cui il rappresentante esistenziale mostra la credenza che la società stessa sia «rappresentante di qualcosa al di là di se stessa, di una realtà trascendente», sia rappresentante di una “verità”. Ad esempio, nell’evoluzione del potere imperiale romano Voegelin rintraccia la competizione fra tre tipi di verità per il monopolio della rappresentazione esistenziale nell’impero romano: i problemi della rappresentazione non vengono esauriti dall’articolazione interna di una società in esistenza storica. La società nel suo insieme ha dimostrato di rappresentare una verità trascendente; e, quindi, il concetto di rappresentazione in senso esistenziale deve essere integrato da un concetto di rappresentazione trascendentale […] verità sull’uomo in rivalità con la verità rappresentata dalla società […]. Il campo dei tipi competitivi di verità è storicamente ampliato dalla comparsa del cristianesimo […]. Terminologicamente, sarà necessario distinguere tre tipi di verità. Il primo di questi tipi è la verità rappresentata dai primi imperi; sarà designato come “verità cosmologica”. Il secondo tipo di verità appare nella cultura politica di Atene e specificamente nella tragedia; si chiamerà “verità antropologica” – fermo restando che il termine copre l’intera gamma di problemi legati alla psiche come sensorio della trascendenza. Il terzo tipo di verità che appare con il cristianesimo sarà chiamato “verità soteriologica” (Voegelin 1987, 76).

Colui che si dichiara rappresentante della società agendo come creatore dell’istituzione di governo (Stato o altro) è prece-

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dente ad ogni assetto costituzionale e il suo potere costituente viene esercitato «in nome non di un soggetto, ma di un’idea». Potremmo sintetizzare la fondazione dell’autoritarismo in Voegelin nel concetto di “autorialità” (la quale, in fondo, ci pare una chiara reminiscenza dell’autorità di Dio, “l’autore” per definizione). Dove allora Somek va a identificare il volto autoritario dell’UE? Esso non apparirebbe tanto nell’estensione dei poteri successiva alla crisi finanziaria – fatto coerente con il liberalismo autoritario – quanto, piuttosto, nella strategia di base di costruzione del progetto europeo fin dai padri fondatori, «nell’ethos generale dell’integrazione, in particolare, nella sua spesso riconosciuta assenza di una direzione finale» (Somek 2015, 358). Insomma, la teoria dell’autorità di Voegelin e il similare processo politico “neofunzionalista”, come definito da Haas, supporterebbero efficacemente l’ipotesi di un volto autoritario insito nelle modalità “creative” dell’Europa fin dai suoi inizi. Infatti, nella tesi di Voegelin, un sovrano autoritario è incaricato di creare istituzioni e operare fino a ottenere il necessario consentement coutumier alle medesime. Ciò non assomiglia forse alla scelta di fondare l’Europa da parte di élite politiche ed economiche attraverso il loro stesso insediamento nel nuovo potere? Lo spirito autoritario dell’integrazione europea appare proprio, secondo Somek, nel progetto dei fondatori di fare una Europa “di nascosto” attraverso un processo che si rivela esso stesso l’obiettivo: è la via e non la meta che interessa. È Majone (2009) ad evidenziare quale sia il metodo di integrazione europea, già palesato nelle intenzioni di Jean Monnet: si chiama o “criptofederalismo” o “integrazione di nascosto”, non è un progetto di federalismo e non ha un corrispondente obiettivo finale, ma è solo un processo che potremmo definire “per se stesso” e di “molto bastone e poca carota” per metaforizzare la strategia attribuita a Jean Monnet dei “passi minori e grandi effetti”; e come rileva Majone (2009, 73), c’è meno interesse per ciò che dovrebbe essere l’Europa e più «fascino per il processo di

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costruzione delle istituzioni»115. Non a caso, inizialmente, «l’Europa doveva essere fatta senza gli “europei”, anzi, era stata istituita con l’obiettivo di creare gli “europei”» (Somek 2015, 358-359). Non sarà quindi sfuggita al lettore la similitudine fra le caratteristiche dell’autoritarismo dell’“autorialità” di Voegelin e quelle degli “autori” della “creazione” europeista (rilevate da Majone). Diviene allora interessante – alla luce della già sottolineata invadenza mediatica del mantra “più Europa” – sottolineare il cuore della originale analisi dell’autoritarismo europeo compiuta da Somek secondo le categorie di Voegelin: si può dire che la scelta ripetuta per “più Europa”, indipendentemente da dove possa sorgere, rivela una fede autoritaria nel fatto che si stia, se solo rimaniamo abbastanza fedeli, andando nella giusta direzione […]. Il fatto compiuto, la creazione di “più Europa” ad hoc, a piccoli passi, è coerente con la fedele dedizione a una causa di cui nessuno comprende la giustificazione ultima. L’Europa resa come “più Europa” è un progetto autoritario che usa il liberalismo come mezzo (Somek 2015, 359).

12. Il liberalismo “autoritario” Molti commentatori hanno recentemente usato le riflessioni che, nei primi anni Trenta, giuristi come Heller e Schmitt fornirono stimolati dalle contingenze storiche della Germania di allora – da differenti punti di vista ma da una comune coscienza della gravità della crisi – come una lente che aiutasse ad interpretare gli sviluppi dell’UE nelle attuali contingenze storiche. In particolare, il concetto sviluppato da Heller del “liberalismo autoritario”, secondo Somek (2015), ricorda stranamente la situazione attuale. Il concetto di Heller verteva sul riconoscimento di alcune caratteristiche che quel programma, progettato per

115 «Le forze e gli attori che guidano il processo di integrazione non lavorano apertamente verso una costituzione federale – un obiettivo che il neofunzionalismo aveva ancora in mente […]. Questa strategia manca, tuttavia, di un orientamento finale. Il movimento verso “più Europa” prende il posto dell’obiettivo. Diventa tutto» (Somek 2015, 359).

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ricostruire la Germania dal collasso economico e politico esarcebato dalla crisi del ’29, mostrava: la necessità di uno “Stato forte” per far fronte alle richieste invasive del mondo del lavoro, ridare spazio e vigore all’imprenditorialità indebolita dalla crisi e, facendosi centralmente guidare dalle competenze, salvare lo Stato dai capricci della “politica”, accusata di essere ignara della scienza e della tecnica. Nell’indicare il regime attuale della UE come “liberalismo autoritario” viene inoltre fatto spesso riferimento alle teorie schmittiane sullo Stato “totale”, lo Stato “forte” qualitativamente in opposizione allo Stato “debole” confuso con i poteri forti della società civile, soprattutto quelli economici. Tuttavia nella formulazione di Schmitt si ritrovava la purezza dello Stato sovrano come concepito da un fine gius-pubblicista116, non uno Stato “liberale autoritario” nel senso della eliminazione della democrazia e della sovranità popolare (ma non delle libertà individuali) attraverso la loro sostituzione con la procedura di governance e la sovranità dei mercati (ovvero dei capitalisti industriali e finanziari), un organismo sovra-nazionale che assomiglia in verità di più alla definizione che dava Marx dello Stato come “il comitato d’affari della borghesia”. Qui sta la differenza sostanziale fra le istituzioni di governo dell’Europa attuale e lo Stato “forte” schmittiano: che, attualmente, i mutamenti politici e istituzionali – lo stato di eccezione che diviene pressoché permanente con la scusa dell’emergenza prossima ventura – sono progettati consapevolmente per soddisfare i mercati finanziari, banchieri e creditori e punire coloro che invece, come dipendenti pubblici, pensionati, disoccupati, malati, e altri, dipendono direttamente dallo Stato sociale. Come rileva per esempio Scheuerman l’“Europa dell’emergenza” potrebbe aver assunto alcuni tratti di quella che la teoria di Weimar di destra celebrava come “Stato forte”. Tuttavia, quello Stato forte […] rimane notevolmente deferente quando si trat-

116 «Quella creazione meravigliosa dello spirito razionale europeo (secondo una espressione di Carl Schmitt) nella quale si sarebbero dovute risolvere tutte le contraddizioni della vita sociale – lo Stato» (Zagrebelsky 2015, 38).

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ta delle prerogative del capitale e in particolare del settore finanziario (Scheuerman 2015, 309).

Secondo Somek (2015) e anche, con alcuni caveat critici, Scheuerman (2015), Wilkinson (2015) e altri, il saggio di Heller del 1933, Liberalismo autoritario, può aiutare a dare un senso alla crisi europea, attraverso il concetto da lui coniato di “Liberalismo autoritario”, nonostante la evidente difficoltà di applicare l’analisi di Heller della crisi di Weimar all’ambiente contemporaneo. L’attualità di Heller deriva anche dal fatto che la Corte costituzionale tedesca, nella controversa decisione su Maastricht del 1994, ha citato le sue idee sull’omogeneità sociale per sostenere la propria tesi dell’assenza di un demos europeo. Come rileva Wilkinson (2015, 316-317), nella sua decisione, la Corte costituzionale tedesca ha rilevato l’assenza di una sfera pubblica europea, e ha sostenuto, di conseguenza, che al popolo di ogni Stato deve essere lasciato spazio sufficiente per dare «espressione giuridica a ciò che [lo] lega insieme (per maggiore o minore omogeneità) spiritualmente, socialmente e politicamente», aderendo così più o meno esplicitamente alla tesi che in assenza di un demos europeo il processo di integrazione deve essere funzionalmente e normativamente limitato117. Come sintetizzato da Somek, il “liberalismo autoritario” secondo il saggio di Heller, consiste in alcuni semplici fenomeni che possono essere brevemente riassunti: 1) è l’autorità invece della maggioranza a rivestire il principio fondamentale; 2) non prevede identificazione libidica con il leader o redenzioni para-religiose guidate da un qualche Führer; 3) si propone come una questione di intuizione razionale della necessità economica; 4) pretende di essere basato sulla conoscenza, o detto negli attuali termini neo-ordoliberali, rappresenta l’estensione dell’economia basata

117 Tra le repliche degli “europeisti” alla decisione, si distingue Weiler (1995), che ritiene che i giudici tedeschi si sarebbero dovuti vergognare di usare un “socialista, antifascista, ebreo, critico di Schmitt”, come Heller, quale fonte principale per una nozione di “omogeneità”; peraltro, si può annotare che quelle caratteristiche biografiche e culturali non dovrebbero implicare necessariamente una preferenza per la disomogeneità spirituale, sociale e politica.

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sulla “scienza economica” alla sfera della politica (come nel caso della costituzionalizzazione del vincolo di bilancio pubblico, vedi paragrafo 18); 5) propugna la necessità, senza alternativa alcuna, della de-politicizzazione dell’economia; 6) pone il mercato e la produttività (Heller cita von Papen dicendo che il lavoro è la felicità di un popolo) a modello definitivo di miglioramento sociale; 7) prevede il ritiro dello Stato liberale dalla produzione e distribuzione economica, contempla l’austerità fiscale e i tagli ai programmi sociali, ma senza, tuttavia, ridurre i sussidi alle grandi banche e alle grandi industrie, supportando così, indirettamente, la disuguaglianza. Quindi, possiamo dire, sviluppando sillogismi e inferenze, che il liberalismo autoritario pretende l’estensione dell’economia “basata sulla conoscenza” alla sfera della politica, prendendo il mercato a modello di miglioramento sociale, accetta e garantisce la disuguaglianza e afferma che, in conclusione, non vi è alternativa alla depoliticizzazione dell’economia e ai tagli dei programmi sociali. Un certo brivido lo mette la previsione di Heller sulla fattibilità e sostenibilità del liberalismo autoritario, quando afferma che “il popolo tedesco non tollererebbe a lungo questo Stato neoliberista in forme democratiche”, intendendo che quello Stato può essere sostenuto solo contro la volontà del popolo: infatti, solo pochi mesi dopo, Hitler saliva al potere cancellando la sottile vernice del liberalismo dall’acciaio dell’autoritarismo. Come afferma Merlino (2021), Heller riteneva che tanto il normativismo quanto il decisionismo discendessero da una concezione – derivata da Hegel – dello Stato come potenza, e che, quindi, il diritto non fosse né nella piena disponibilità del legislatore democraticamente legittimato (come nel normativismo di Kelsen) né del sovrano che decide dello stato di eccezione (come nel decisionismo di Schmitt). Scheuerman (2015) suggerisce, sulla scia del sociologo Schluchter, che Heller intendesse «rendere comprensibile la struttura del diritto, della morale e del potere, senza né strappare uno di questi tre arti dagli altri, né identificare l’uno con gli altri», ritenendo che invece sia Kelsen che Schmitt (e altri) lo avessero fatto, e, appunto, il suo fosse un navigare tra la Scilla dell’antinormativismo di Schmitt e la Cariddi del legalismo (forse ingenuo) di Kelsen. In particolare, Heller evidenziava

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l’errore delle simpatie, tra i giuristi cosiddetti di “sinistra”, per il neokantismo di Kelsen, per la sua “teoria pura del diritto” strettamente separata sia dall’etica che dallo studio empirico o sociologico dello Stato, mirante a disconnettere artificialmente la legge dalla moralità e dal potere118. Insomma, Heller stava a “sinistra”, ma riconosceva la relazione che il diritto ha con la morale e il potere. In quali punti la situazione attuale può ricordare il “liberalismo autoritario” visto da Heller nella Germania del suo tempo? Somek trova una strana similitudine in tre punti:(1) nell’introduzione di uno “Stato forte”, contro le richieste del mondo del lavoro, (2) nella promessa di risolvere la crisi economica in modo da ripristinare l’imprenditorialità, e (3) nella presunzione di una “competenza” in grado di salvare l’esercizio del potere pubblico dai capricci della “politica”119. L’elemento autoritario appare non certo dalla violenza dittatoriale, ma piuttosto dalla presentazione delle proprie azioni come necessarie e perfettamente razionali, quindi indiscutibili. In particolare, Somek va a rintracciare la perdita di legittimità democratica proprio nella caratteristica – sottolineata anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale federale tedesca – che tutte le azioni dell’Unione si basano sulla delega di poteri sovrani degli Stati membri; quindi la deriva autoritaria va rintracciata

118 Peraltro, Sheuerman, in chiave attuale, mentre, da un lato, ricorda come i giuristi e politologi che, in linea con l’ideologia neo-liberale, hanno in odio persino i concetti di Stato e sovranità e quindi anche Heller, dall’altro lato avverte che il probabile risultato di coloro che invece attualmente cercano in Schmitt un antidoto alla convinzione che il liberalismo contemporaneo sia eccessivamente legalistico, politicamente ingenuo e irrealistico, sarà quello di passare dalle teorie liberali o “normativiste” unilaterali ad altrettanto unilaterali visioni antiliberali e antigiuridiche; e con ciò rischiano di dimenticare proprio l’osservazione di Heller, fatta nel pieno della tragica esperienza di Weimar, che quell’antidoto, se somministrato nel momento e nel luogo sbagliati come accadde in quella crisi della democrazia tedesca, può persino aiutare a uccidere il paziente. 119 Potremmo suggerire che la nozione – pensata dai fisiocratici – di «dispotismo legale» – ovvero una forma di autoritarismo «fondato naturalmente e necessariamente sull’evidenza delle leggi di un ordine essenziale» (Le Mercier de la Rivière 2001, 164) – sia, mutatis mutandis, l’imprinting iniziale del liberalismo autoritario come dell’ordoliberalismo.

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in una patologia del rapporto di delega, il quale non è solo un rapporto giuridico, ma è un più generale rapporto di fiducia. In verità, tale patologia – in cui si capovolge il rapporto di potere tra delegante e delegato – è sempre intrinseca alla relazione stessa, il che fa dire a Somek, con una originale interpretazione, che «il governo autoritario emerge, dialetticamente, dalla fiducia». Allo scopo di sviluppare tale interpretazione, preliminarmente Somek mostra come, ad uno sguardo triviale o “panglossiano”, la “catena della delega” possa sempre essere allungata, aggiungendo anelli istituzionali a piacere, assumendo che la legittimità democratica – teoricamente fornita dall’atto di delega all’esercizio dell’autorità – sia sempre preservata. Allora, se uno sposa la visione “panglossiana”, l’Unione è percepita attraverso la lente del costituzionalismo multilivello. Ogni mossa delle istituzioni dell’Unione si considera sostenuta da deleghe. Il popolo delega il potere a un’organizzazione internazionale in virtù della propria costituzione. Gli accordi internazionali, come i trattati dell’Unione, conferiscono all’organizzazione il potere di adottare atti legislativi, che a loro volta sono alla base normativa degli atti di esecuzione. Questo processo è democratico in tutto perché la legittimità democratica viene trasferita da un livello all’altro […]. I parlamenti nazionali delegano poteri al legislatore europeo; il legislatore europeo delega poteri alla Commissione europea. Quindi, la Commissione può utilizzare il proprio giudizio per regolamentare perché il legislatore europeo ha rinunciato al proprio. Questa resa è, a sua volta, facilitata dalla resa da parte dei legislatori nazionali (Somek 2015, 349-350).

Per quale ragione si dovrebbe delegare, ovvero tanto concedere ad altri il potere di usare per il nostro interesse il loro giudizio al posto del nostro, quanto rinunciare al diritto di intervenire sul modo in cui il delegato esercita il potere? Somek arguisce che si dovrebbe farlo ogniqualvolta c’è motivo di credere – e i motivi possono essere tanti, quali la mancanza di tempo, di interesse, di conoscenza, di competenza specifica, di inabilità al problem-solving, insomma una qualche incapacità da parte del delegante che la delega dovrebbe correggere – «che il delegato sappia meglio di noi cosa abbiamo motivo di fare», che obbedire migliora il nostro bene, il che mostra chiaramente anche il rapporto di fiducia implicito nella delega. A quel punto il comportamento razionale è

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diventato quello di obbedire piuttosto che giudicare in proprio il da farsi, e quindi la delega appare del tutto razionalmente giustificata. Ma allora la posizione del delegante può essere in grado di esercitare sempre più “autoritariamente” il potere delegato: chi esercita l’autorità delegata su alcune persone è nella posizione di comandare l’obbedienza facendo notare che obbedire è nel loro interesse […]. Se la delega è giustificata, l’obbedienza è un bene per l’obbediente. Si astengono dal fare domande stupide. Questo è quello che dovrebbero fare (Somek 2015, 350).

Quando avviene il passaggio dalla delega all’autoritarismo? Quando il delegante, che ha delegato a causa della consapevolezza di una sua qualche incapacità, non appare più in grado di riconoscere le circostanze meritevoli di delega per cui ci vorrebbe un ulteriore delegato per questo riconoscimento, e così via; Somek sceglie l’ubriaco per esemplificare questo passaggio: «Come è noto, le persone ubriache non solo sono gravemente compromesse nelle loro capacità di guida, ma anche incapaci di riconoscere la loro menomazione» (Somek 2015, 354). L’“ubriachezza” dei deleganti spiega perché i poteri esecutivi tendono facilmente ad espandersi. Somek si domanda se i cambiamenti istituzionali emergenti possano essere interpretati come legittime deleghe di autorità da parte di organi eletti democraticamente, secondo le linee comuni in molti sistemi politici. In effetti, in via di principio, la delega potrebbe essere resa compatibile con la legittimità democratica, come la storia del moderno governo parlamentare – se interpretata come una lunga lotta per assicurarsi che la delega sia coerente con la responsabilità popolare – potrebbe testimoniare; insomma, si dovrebbe ritenere che la delega preservi la legittimità, indipendentemente dalla lunghezza della catena di deleghe. In pratica però vi sono prove che la delega democratica si trasforma in una delega autoritaria (e un caso di ciò sarebbe proprio il “liberalismo autoritario” della UE). Secondo Scheuerman (2015, 310), la logica di base della delega autoritaria è semplice: «il delegato viene consacrato con il diritto di delegare per conto del delegante, che non ha possibilità significative di revocare l’autorità delegata». In che modo Somek può “catturare” il passaggio dalla delega de-

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mocratica a quella autoritaria? Quando si verificano uno o più di questi tre casi: 1) quando ulteriori proroghe dell’autorità delegata sono date per scontate e i delegati agiscono partendo dal presupposto che i deleganti avrebbero certamente concesso il potere in questione se soltanto avessero saputo in anticipo quali circostanze avrebbero dovuto affrontare i delegati; 2) quando il controllo democratico rispetto alla ragionevolezza di una certa delega è invece semplicemente presunto come irrazionale, e quando l’imparzialità e la razionalità dell’azione del potere esecutivo sono semplicemente assunte; 3) quando anche il solo domandarsi se sia opportuno delegare o meno viene considerato come un ostacolo frapposto – magari per miopia o ignoranza del delegante – a “qualcosa di più grande” (ad esempio a un “mito” propagandato come la prosperità economica, la stabilità o il messaggio generico di “più Europa”), ostacolo che deve essere rimosso dal “leader autoritario”. Scheuerman (2015, 310) concorda col timore di Somek che tutte e tre le condizioni stiano per essere rapidamente soddisfatte «nell’attuale Europa, dove i cittadini nazionali hanno solo poche possibilità di esprimere le loro preoccupazioni politiche in casi eccezionali, e comunque “solo per sentirsi dire dalle élite politiche che sono stati troppo stupidi”». Tuttavia Scheuerman ritiene anche, in opposizione a Somek, che non sia giustificato impiegare il termine – troppo emotivamente forte – “autoritario”, e che ci sia qualcosa di stridente nel confrontare implicitamente Schäuble e Merkel con von Papen, in quanto il “liberalismo autoritario” potrebbe rappresentare certamente una possibile e preoccupante tendenza della storia, ma, comunque, non l’intera storia. Per questo egli propone che, anziché opporsi all’attuale UE per il suo “liberalismo autoritario”, sarebbe meglio utopisticamente creare un sistema post-nazionale del tipo definito “stateness” 120 (o “accordo di cittadinanza”) in cui si mantengano però le regole (democratiche) dello Stato nazionale:

120 La stateness può essere definita come «“accordo di cittadinanza” in uno Stato con “efficacia amministrativa” che detiene il “monopolio della violenza”». Ciascuno dei tre attributi è definito in modo relativamente simile dalla maggior parte degli studiosi, cosicché, seguendo Fukuyama (2004), possiamo definire i) il

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Perché non perseguire strumenti di regolamentazione di tipo statale più ampi oltre lo Stato nazionale, in un’Unione democratica? Che dire di ciò che io altrove ho descritto come stateness postnazionale? (Scheuerman 2015, 311-312).

Difendendo la possibilità di far nascere in prospettiva una democrazia post-nazionale anziché nazionale (prospettiva che Streeck non vede possibile), e pur riconoscendo che nell’idea di democrazia post-nazionale taluni banalizzano la democrazia e reificano il capitalismo di mercato, Scheuerman sembra però ascoltare le sirene di chi, in sintonia con quelle ben note organizzazioni sovra-nazionali che sono alfiere del cosmopolitismo come sinonimo di capitalismo globale, auspica una estensione del sovra-nazionalismo ma con una sua maggiore democratizzazione: Non dovremmo interpretare le chiamate ad “aprire” l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) o il FMI, ad esempio, come richieste potenzialmente di vasta portata per una sorta di nascente democrazia “oltre lo Stato nazionale”? (Scheuerman 2015, 312).

Infatti, per Scheuerman (2015, 312), data la forza della finanza globale, «sia una maggiore democrazia che una maggiore stateness possono rappresentare la migliore risposta al liberalismo autoritario emergente in Europa».

monopolio della violenza come l’autorità fattiva per usare la forza fisica per rendere le persone conformi; ii) l’efficacia amministrativa come la capacità degli stati di pianificare ed eseguire politiche; iii) l’accordo di cittadinanza, seguendo invece Linz e Stepan (1996), come l’assenza di profonde differenze sui confini territoriali dello Stato e su chi ha il diritto di cittadinanza in quello Stato. Ovviamente i tre attributi possono essere combinati in svariati modi per ottenere altrettanto svariati livelli di stateness. Sheuerman (2105) afferma di aver usato questo termine nel dibattito sulle future prospettive europee come un modo per offrire un’alternativa un po’ più flessibile, ma concettualmente coerente, sia all’idea troppo sdolcinata di governance, sia all’idea troppo tradizionalista (p.e., Hobbesiana e/o Weberiana) dello Stato.

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13. La fondazione dell’ordine concorrenziale neo-ordoliberale Fra vecchio liberalismo e neo-ordoliberalismo la principale differenza è presto detta: la quasi sinonimia del liberalismo tradizionale fra “laissez-faire” e “laissez-passer” viene disaccoppiata dagli ordoliberali, cioè lo Stato deve certamente “laissez-passer” (ovvero libera circolazione di merci, capitali, lavoratori, etc.) ma non deve “laissez-faire”121, ovvero non deve astenersi dall’intervenire dove il suo intervento è veramente necessario: esso deve intervenire per garantire con la sua “forza” il funzionamento adeguato della macchina capitalistica, proteggendola dalle pressioni distorsive che le rivendicazioni di giustizia sociale possono esercitare sul mercato. La “mano invisibile” da sola non funziona, il principio della concorrenza (da “costituzionalizzare” per fondarvi sopra il nuovo “ordine” della società) deve essere quindi fortificato tramite una gabbia di ferro costruita e manutenzionata dallo Stato. Mercato e concorrenza non significano libertà politica, e, tanto meno, democrazia liberale. Il governo deve essere sempre attivo e vigile per rimuovere tutte quelle forme di inefficienza e disfunzionalità che riducono la crescita economica che è identificata di per sé con l’utile collettivo, il cui massimo è ottenibile soltanto lasciando alle sole forze di mercato il compito di provvedere alla distribuzione dei beni economici prodotti da una società mercantile governata dalla logica della concorrenza. Quindi uno Stato “forte” anziché debole, e una economia di mercato che deve essere in ogni momento sia imposta che protetta dallo Stato. Lo Stato deve astenersi da ogni intervento nella società della libera economia, ma deve anche ristabilire le condizioni della «libera» concorrenza ogni qual volta risulti necessario porre un freno agli attori che abusano delle regole di mercato a vantaggio di gruppi privati organizzati.

121 Come espressamente dice Eucken (2004, 253) «il principio del laissez-faire non rappresenta l’ordinamento concorrenziale, giacché quest’ultimo non è frutto di un’armonia spontanea. Altri principi sono necessari». In perfetta sintonia con l’ordoliberale Eucken, anche il neo-liberale Hayek (1944, 84) ritiene che il “laissez-faire” è «una descrizione altamente ambigua e fuorviante dei principi su cui si basa una politica liberale».

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Insomma, lo Stato non deve essere il semplice minimale “guardiano di notte” (che agisce solo per tutelare libertà e proprietà) della tradizione liberale, ma deve essere il «guardiano dell’ordine competitivo» (Eucken 1960, 325). Va inoltre sottolineato che il fine ultimo della perorazione di questo Stato “forte” dovrebbe essere letto come una risposta alle analisi della crisi del capitalismo e delle sue difficoltà a sopravvivere che Weber e Sombart, fra altri, avevano fornito. Il fine ultimo degli ordoliberali è la difesa del capitalismo, attraverso l’eliminazione degli ostacoli individuati, e lo scongiurarsi del pessimismo di Weber e Sombart sulla “salute” del capitalismo. La ricetta partorita dal pensiero ordoliberale è, quindi, finalizzata a un rinnovato sviluppo del capitalismo in una nuova forma: Se lo Stato […] riconosce quali grandi pericoli sono sorti a causa del suo coinvolgimento nell’economia e se riesce a trovare la forza per liberarsi dall’influenza delle masse e, ancora una volta, per distanziarsi in un modo o nell’altro dal processo economico […] allora sarà stato chiarito il modo […] per un ulteriore potente sviluppo del capitalismo in una nuova forma (Eucken 1932, 318).

Per fare ciò lo Stato deve essere fortemente “politico” ovvero disporre di una volontà politica protetta dalle pressioni sociali in modo da poter procedere a scelte sostantive suscettibili di incidere anche negativamente, se necessario, sugli interessi di determinati gruppi organizzati (Greblo 2019, 127).

Ma lo Stato deve anche essere all’uopo sufficientemente forte, quindi organizzato con una efficiente macchina amministrativa perché deve poter disporre delle risorse organizzative e finanziarie per implementare i necessari meccanismi di riequilibrio quando la logica della concorrenza venga alterata (Greblo 2019, 127).

Quindi la visione ordoliberale dello Stato è quella di una struttura monolitica, immunizzata dalle pressioni selettive esercitate dai diversi gruppi sociali e “forte” abbastanza da costringere tutti gli altri attori ad adeguarsi alle sue decisioni (Greblo 2019, 127).

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In fondo, il termine stesso ordoliberalismo ha il significato di un ordine economico concorrenziale imposto dallo Stato. Le argomentazioni ordoliberali e quelle neoliberali di Hayek si fondono nel superare quello che apparentemente sembra un insolubile dilemma: porre lo Stato a tutela dell’ordine competitivo – e quindi renderlo forte per costruire e mantenere tale ordine – e, al contempo, considerare quello stesso Stato come fonte di pericolo per il mercato competitivo. Il dilemma è invece superabile, perché essi maturano l’idea che l’ordine politico così com’è non deve essere considerato come un destino esternamente dato, dal quale la libertà economica deve tutelarsi al massimo con la costituzione economica, ma deve essere considerato come qualcosa che può essere e deve essere riformato. Essi si rendono conto che è soprattutto, se non soltanto, nel contesto politico – attraverso un quadro normativo cogente – che si può indurre le persone, altrimenti egoiste e desiderose di potere economico, a comportarsi proprio nel modo desiderato (la concorrenza di tutti contro tutti stabilita come principio costituzionale); un modo che, ovviamente, gli ordoliberali ritengono faccia perseguire alle persone – anche contro la loro percezione – il proprio stesso interesse e con ciò l’interesse comune di tutti. Va qui ricordato che gli ordoliberali pensano che il mercato, lasciato libero di autoregolarsi, tenderebbe a favorire il potere di alcuni a danno di altri, potere usato poi anche per spingere lo Stato a proprio favore. Questa visione del mercato – luogo non di libera cooperazione e di pacifico incontro fra diversi (come è nella lunga tradizione che va dalle idee volterriane a quelle liberali contemporanee, secondo cui il libero mercato “addolcisce” e pacifica i popoli), ma di belluina disputa – è chiaramente espressa da Eucken (1944, 237), a cui sembra che «ancora manchi in molti economisti lo sguardo e la comprensione di quanto il fatto economico sia riempito di brutale lotta per il potere». Nell’idea di una decisione politica che incardina il libero mercato nell’ordinamento giuridico – ovvero in quella che è definita «costituzione economica» dello Stato – convergono convintamente sia gli ordoliberali che Hayek. Già nel manifesto di presentazione dell’ordoliberalismo – il cosiddetto Ordo Manifesto del 1936

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– gli estensori chiariscono quale sia il principio fondamentale dell’ordoliberalismo. Esso consiste nel vedere le singole questioni economiche come parti costitutive di un tutto più grande. Il trattamento di tutte le questioni pratiche di natura politico-legale e politico-economica deve essere improntato all’idea della costituzione economica […]. La costituzione economica deve essere intesa come una decisione politica generale su come strutturare la vita economica della nazione (Böhm, Eucken e Grossman-Doerth 1989).

Parimenti Hayek, sottolineando che si trattava solo di una “falsa alternativa” quella che, come secondo la tradizione del “laissez-faire”, contrapponeva l’intervento al non intervento dello Stato in economia, affermava che il funzionamento della concorrenza non richiede solo un’adeguata organizzazione di determinate istituzioni come moneta, mercati e canali di informazione […], ma dipende soprattutto dall’esistenza di un sistema giuridico adeguato [che deve] essere progettato in modo intelligente e adattato continuamente (Hayek 2006, 39-40).

Un’altra importante sintonia si registra fra ordoliberali e Hayek, da un lato, e la più recente “scuola” della Public Choice di Buchanan, dall’altro lato, a dimostrazione di un comune sentire neo-ordoliberale su entrambe le sponde atlantiche (vedi per maggiori dettagli il paragrafo 18): e l’oggetto di questa comunanza d’idee è proprio l’enfasi sul livello costituzionale politico che incorpori la costituzione economica liberale. Anche Buchanan insiste sul fatto che il liberalismo non debba limitarsi a rivendicare, come principio normativo, la libertà di scelta individuale e di contratto volontario al livello delle transazioni di mercato, ma debba passare da questo livello sub-costituzionale anche al livello della scelta costituzionale e del contratto costituzionale. Sviluppando il ragionamento ordoliberale Buchanan osserva, infatti, che: l’economia [di mercato] non può funzionare nel vuoto, deve essere incorporata e deve essere compresa in una struttura di “leggi e istituzioni”. Gli economisti moderni hanno gravemente trascurato i requisiti costituzionali – istituzionali o di inquadramento di un sistema economico (Buchanan 1977, 5).

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Mentre da un lato le attività statali devono necessariamente essere limitate, tuttavia il “politico” inteso come capacità efficace di decisione sovrana una volta per tutte (o tutte le volte che serve), mirante a restaurare l’ordine contro la possibilità sempre presente del disordine, è invocato dagli ordoliberali: naturalmente la decisione sovrana che lo Stato deve prendere è in favore della recezione nell’ordinamento giuridico-statuale delle regole del mercato. Decidendo quindi sovranamente di mettere al centro il mercato, di fatto lo Stato avrebbe limitato anche la propria sfera d’azione, ma si sarebbe trattato di una autolimitazione che ne avrebbe in realtà ribadito la sovranità, cioè l’autolimitazione come fondamento dell’autoaffermazione122. Vale a dire, un “politico” che sia sovrano di decidere per l’“economico”. Questo Stato, diversamente da quello non-economico, non comanda verticalmente, ma governa, direbbe Foucault, “pastoralmente”, assolvendo, premiando o sanzionando, guidando e dando direzioni, responsabilizzando e controllando, e così via, cioè «non attraverso il potere e il dominio, bensì attraverso l’autorità e la guida [Führertum]» (Rüstow 1963, 249). Riecheggia qui, nelle parole del sociologo ordoliberale Rüstow, il concetto coniato da Carl Schmitt nel fatidico 1933, in cui, discutendo il ruolo del presidente del Reich con poteri estesi come quello di un capo di Stato “costituzionale” che “regna ma non governa”, viene definito un nuovo modo di governare, il Führung, e una nuova figura politica, il Führer, in cui si esplica la funzione di “guida” più che di comando, la cui origine è per similitudine individuata nelle modalità di potere della Chiesa cattolica123. In questo senso può leggersi, l’altrimenti criptico paradosso che il medesimo ordoliberale enuncia: «il nostro destino non è

122 «A questo Stato non è richiesto di intervenire direttamente nelle congiunture economiche o nella politica sociale, ma di essere la rappresentazione visibile di un politico in grado di decidere per l’economico, perché questa decisione è la sola veramente rilevante per stabilire la forma economica e quindi politica della società» (Ricciardi 2017, 29). 123 Agamben (2007, 90) evidenzia questo concetto schmittiano, riportandone le parole: «Guidare [führen] non è comandare […] La Chiesa cattolica romana per il suo potere di dominio sopra i credenti ha trasformato e completato l’immagine del pastore e del gregge in un’idea teologico-dogmatica» (Schmitt 2005, 41).

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l’economia, bensì lo Stato e lo Stato è anche il destino dell’economia» (Rüstow 1963, 258). Ma vi è anche un secondo punto in cui vecchio liberalismo e ordoliberalismo si differenziano: la concezione del mercato. Per i primi il mercato è un luogo i) naturale, e ii) vantaggioso per tutti. Per i secondi è un luogo i) artificiale e non sempre autosufficiente, e ii) conflittuale con necessariamente vincitori e vinti124. Infatti, mentre per il vecchio liberalismo il punto di riferimento è Smith, che riteneva che lo scambio di mercato avvenisse perché fosse “naturale” la propensione umana alle relazioni di scambio e baratto, per gli ordoliberali i mercati devono essere costruiti artificialmente, e la concorrenza deve essere continuativamente imposta, pena l’inesistenza o l’inefficienza di entrambe le cose, in quanto tali deficienze sono intrinseche alle relazioni economiche inter-individuali lasciate a se stesse125. Quanto ai vantaggi della partecipazione al mercato, se per Smith e i liberali tradizionali essi erano certamente assicurati per tutti, con gli ordoliberali si passa invece da una visione prevalentemente armoniosa delle interazioni di mercato a una concezione che ne accentua, piuttosto, gli aspetti conflittuali […] la concorrenza come intesa da Eucken prevede la necessità di produrre sistematicamente vincitori e vinti. Se le transazioni di mercato non prevedessero la possibilità che alcuni vengano sconfitti, sotto forma di fallimenti o licenziamenti, ciò starebbe a indicare che la concorrenza, semplicemente, non funziona come dovrebbe (Greblo 2019, 126).

Inoltre la concezione dell’antropologia economica alla base della visione del mondo è differente per gli ordoliberali, che sono eredi più del “prussianesimo” che dell’evoluzionismo di Hume e Darwin (di cui, invece, sono eredi i neo-liberali) o del costrutto

124 «i mercati […] non sono fenomeni che emergono “naturalmente”, né, tanto meno, sono istituzioni autosufficienti […] I mercati sono fenomeni artificiali che tendono a minare la propria stessa logica se abbandonati a sé stessi e lasciati privi di ogni regolamentazione» (Greblo 2019, 125-126). 125 «Gli ordoliberali sottolineano invece la necessità di creare mercati concorrenziali poiché è solo la concorrenza a renderli realmente funzionanti» (Greblo 2019, 125).

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razionalistico-astratto dell’homo oeconomicus della teoria economica neo-classica: A differenza dei neoliberali, gli ordoliberali non ritengono però che la società sia composta da individui immaginati come altrettante monadi impegnate a calcolare la massimizzazione dell’interesse e dell’utilità. In linea con la tradizione organicistica tedesca, pensano invece che sia costituita di corpi – i corpi sociali, i corpi economici, i corpi storici. La macchina economica non funziona secondo la logica della contrattazione permanente fra individui, ma come un equilibrio dinamico di corpi che si realizza in un quadro di pluralismo, anche se economico piuttosto che politico (Greblo 2019, 124).

Inoltre, gli ordoliberali ritengono che l’essere umano, inteso come partecipante allo scambio di mercato, sia naturalmente portato a lottare per ottenere un vantaggio sugli altri partecipanti; si tratta di un carattere antropologico universale che ovviamente non potrebbe che portare alla lunga ad una distorsione della libera concorrenza e generare strutture asimmetriche di potere economico. Tradotto in termini di teoria economica neo-liberale, questo tratto antropologico consisterebbe in fondo nell’assunzione di un comportamento di tipo rent-seeking (cioè mirante all’ottenimento di una rendita), come postulato per gli attori economici dalla Public Choice Theory. Questo tratto antropologico-economico è ben richiamato da Eucken quando parla di una «persistente volontà universale di raggiungere una situazione di Monopolio» (Eucken 1960, 284). Tuttavia non è solo l’aspetto antropologico-economico ma anche quello antropologico più propriamente detto – almeno nella misura in cui il soggetto umano di riferimento non è l’individuo ma la massa degli individui – a differenziare il pensiero ordoliberale da quello liberale tradizionale. Gli ordoliberali temono le masse per due ragioni fondamentali, che forse, secondo loro, sono anche strettamente intrecciate: le masse 1) hanno scarse capacità cognitive, non sono, quindi, razionali, e 2) inoltre (o a causa di ciò) amano il mito. Ritorna il tema del mito come il nemico da esorcizzare per ogni liberale, da Habermas a papa Ratzinger – come emerge dal loro dibattito nel 2004 (Habermas e Benedetto XVI, 2005) – perché nel mito si tendono a far confluire le aspira-

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zioni sociali, i temi utopici millenari, salvifici, palingenetici, perché, soprattutto, al mito è del tutto estraneo ogni calcolo che è invece alla base della ragione del capitalismo. Ma qui si dimentica forse Canetti quando ricorda che la massa non è solo un insieme di persone ma è anche un mito, e che massa è anche il denaro, e allora il denaro è quel mito, quella massa, il cui accrescimento fine a stesso (l’accumulazione di capitale) è l’oggetto del calcolo razionale: un mezzo razionale per un fine mitico. Il sospetto sulla irrazionalità delle masse, sulla loro incapacità cognitiva e morale, in contrapposizione alla razionalità dell’individuo è un tema a cui hanno contribuito, da differenti punti di vista, pensatori come Stuart Mill, Ortega e Canetti, con i quali gli ordoliberali condividono sensibilità e pessimismo rispetto al ruolo delle masse: «le masse […] amano il mito, non la ragione» (Eucken 1960, 19).Ma, se le masse sono moralmente e intellettualmente deficienti, ed eccitate dai miti, allora come sarebbe mai possibile accettare il loro punto di vista, specie quando si eserciti nelle forme del potere democratico? Agli ordoliberali pare scontato che, date queste premesse, non si possa di certo farsi guidare dal giudizio delle masse, specie per quanto riguarda l’economia: In quanto “masse” esse sono populisticamente indottrinabili, soprattutto da parte di demagoghi disponibili a proporre ricette economiche vaghe e controproducenti, che possono essere usate a difesa di privilegi corporativi o di interessi di parte (Greblo 2019, 128).

Gli ordoliberali hanno diffidenza verso le masse. Alla potenziale rivolta delle masse “cognitivamente” deficitarie, si devono opporre élite capaci di guida lungimirante che devono esercitare il comando sulla società. La massa deve essere contrastata dalla leadership individuale […] un numero sufficiente di tali aristocratici dello spirito pubblico […]. Abbiamo bisogno di uomini d’affari, agricoltori e banchieri che vedono le grandi questioni di politica economica senza pregiudizi per i loro interessi economici immediati e di breve periodo (Röpke 1998, 131).

L’élites che devono comandare non dovrebbero essere composte da gretti affaristi, che sarebbero peraltro inaccettabili alle masse, ma da veri e propri “santi” secolarizzati (qui risuonano

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inequivocabili i riferimenti ai “santi” che erano guide delle comunità calviniste): [I] santi secolarizzati […] costituiscono il vero potere controbilanciante […] leadership, responsabilità e difesa esemplare delle norme e dei valori guida della società […] una vera “nobilitas naturalis” […] la cui autorità […] è prontamente accettata da tutti gli uomini, un’élite che deriva il suo titolo esclusivamente dalla prestazione suprema e da un esempio morale senza pari (Röpke 1998, 130).

Come chiarisce Bonefeld l’idea ordoliberale secondo cui la rivolta delle masse deve essere contrastata dalla rivolta dell’élite non contraddice i principi liberali. Combatte per loro (Bonefeld 2017, 758).

Peraltro, dire che l’ordoliberalismo sia una versione contemporanea di una più generale rivolta dell’élites contro le masse è in linea con le osservazioni di D’Eramo (2020) sul pensiero di Aristotele, che nella Politica già individuava quel tipo di rivolta affermando: Coloro che vogliono l’eguaglianza si ribellano se pensano di avere di meno, pur essendo uguali a quelli che hanno di più, mentre quelli che vogliono diseguaglianza e superiorità si rivoltano se suppongono che, pur essendo diseguali, non hanno di più, ma lo stesso o di meno degli altri […]: in effetti quelli che sono inferiori si ribellano per essere eguali, quelli che sono eguali per essere più grandi […]. Nelle oligarchie a rivoltarsi sono i più, ritenendo di essere trattati ingiustamente perché, pur essendo eguali, non hanno, come s’è già detto, gli stessi diritti degli altri, mentre nelle democrazie sono i notabili a rivoltarsi perché hanno gli stessi diritti degli altri pur non essendo eguali (Aristotele 1966, libro V, 1302a e 1303b).

Il pensiero di Aristotele è efficacemente chiosato da D’Eramo (2020, Prologo), in questo in accordo con la filosofa Wendy Brown (2015): i dominati si ribellano perché non sono abbastanza eguali, i dominanti si rivoltano perché sono troppo eguali […] a spingere troppo in là verso la democrazia, i dominanti reagiscono rivoltandosi contro i dominati […] negli ultimi cinquant’anni è stata portata a termine una gigantesca

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rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei padroni contro i sudditi, dei dominanti contro i dominati.

Lo storico delle idee Lasch (2001), scrivendo che «ci fu un tempo in cui si supponeva che ciò che minacciasse l’ordine sociale e le tradizioni di civiltà della cultura occidentale fosse la ribellione delle masse. Oggi, invece, sembra che la minaccia principale provenga non dalle masse, ma da coloro che sono ai vertici della gerarchia» coglie negli anni Novanta il fenomeno della rivolta di una élite contro la democrazia. Egli individua una nuova élite, peraltro più culturale che economica, sempre più cosmopolita e mobile (perché la necessità di spostarsi è necessariamente connessa col fare carriera), formata «non soltanto dai manager delle grandi aziende, ma da tutte quelle professioni che producono e manipolano l’informazione – la linfa vitale del mercato globale». Insomma, a determinare le sorti delle società contemporanee sta una élite liberale e sovra-nazionale di tecnocrati, manager, uomini dei media dedita al consumo e alla computerizzazione per il controllo della realtà e ideologicamente “meritocratica”, sempre «en route verso una conferenza ad alto livello, l’inaugurazione di una nuova attività esclusiva, un festival cinematografico internazionale», con «una visione essenzialmente turistica del mondo», che considerano la popolazione che apprezza una residenza stabile – per esempio la middle class – «tecnologicamente arretrata, politicamente reazionaria, repressiva nella morale sessuale, retriva nei gusti culturali». La loro opposizione alla democrazia è congenita: la “mentalità turistica” come la “meritocrazia” sono opposte alla democrazia che, secondo Lasch, è basata sulla comunità e su valori quali la civiltà, la cultura e la dignità, come ritenevano i socialisti delle origini e i populisti. Dall’altra parte, stanno i fenomeni del declino dell’industria, della riduzione della classe media e dell’aumento dei poveri, dell’aumento del crimine, della droga e del degrado delle città, ridotte a luoghi di consumo e a “centri commerciali”, del lavaggio del cervello compiuto dalla pubblicità e dai media di mero intrattenimento, che hanno privato le masse di ogni stimolo verso una emancipazione. D’altronde, merita osservare che nella diffidenza, se non opposizione, degli ordoliberali alla democrazia, è evidente come vi sia una conce-

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zione elitaria non solo della società ma anche della cultura e dello spirito. Il richiamo a questa élite, che deve difendere la civiltà contro le masse e la democrazia causa di degenerazione culturale, si coglie nelle parole di Röpke riportate nel paragrafo successivo (p. 203). In altri termini, anche l’ordoliberalismo può essere visto, da questo punto di vista, come una rivolta delle élite contro la degenerante democrazia, e la costruzione dell’UE può, quindi, essere interpretata come un progetto anticipatore della rivolta delle élite. Quindi, data l’importanza delle convinzioni sulla natura e sul comportamento costitutivo dell’uomo, vi sono alcune caratteristiche antropologiche alla base dell’ordoliberalismo, che meritano di essere ricordate. La pietra miliare di queste consiste nella convinzione che gli uomini, pur nella molteplicità dell’esperienza storica, si presentano nel loro agire come una invariante storica: in ogni epoca e in ogni situazione agiscono sempre “economicamente”. In questo senso l’azione umana orientata invariabilmente al principio economico è quella indiscutibile costante che sta dentro alla molteplicità storica. Più chiaramente, in qualsiasi società della storia universale l’uomo, comunque sia definito, è caratterizzato dal suo agire “sub specie economica”: L’“homo sapiens” agisce sempre secondo il principio economico e anche se – con Bergson e altri filosofi vitalisti – si ritiene giusto chiamarlo “homo faber” – egli non è “homo faber” se non segue il principio economico (Eucken 1944,154).

Il principio economico non è una delle possibili modalità dell’azione umana nel contesto sociale, ma è l’unico legittimo e necessario modo di azione dell’uomo nella società: per l’uomo l’agire “economico” è obbligatorio (anche in questo caso, per gli ordoliberali non ci sono alternative). Questa è la natura immodificabile della costituzione umana: «la natura umana nel suo complesso rimane sempre e ovunque la stessa […] tutti gli sforzi per modificarla sono utopisticamente destinati al fallimento» (Rüstow 1950, 14). È questa costanza della natura umana, il cui unico principio di azione in società è, come abbiamo visto, quello economico, che permette la formazione della civiltà:

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Infatti, senza questa costanza della natura umana non ci sarebbe alcuna unità della cultura e della storia umane, nessuna possibilità di comprensione, né tanto meno ci sarebbe una coordinata fondamentale di ciò che è antropologicamente nella sua essenza normale e sano (Rüstow 1950, 14).

Quindi, il principio di azione economica è 1) l’unica caratteristica invariante dell’uomo, 2) indicatore di normalità e sanità, 3) civilizzatore, 4) il perno dell’ordine, 5) immutabile, a dispetto di quel che credono rivoluzionari ed utopisti. Va sottolineato, però, che il corretto principio economico non è tanto il calcolo ottimizzante, l’ottenimento del maggior prodotto al minimo costo, ma il “mezzo” di per sé, l’agire concorrenziale in quanto tale. Proprio perché questa caratteristica dell’uomo è costitutiva e globale, senza eccezioni, il suo comportamento si ripete sempre dall’inizio dei tempi e costituisce la caratteristica che rende la storia “universale” nel tempo e nello spazio. Parimenti, questa universalità e regolarità non possono che essere la base privilegiata, secondo gli ordoliberali, per poter pensare un’idea di un ordine sistematico. Come argomenta Ricciardi, è su questa assunzione di una – piuttosto drastica – visione dell’uomo che il progetto neo-ordoliberale poggia i suoi fondamenti: Il principio di economia è presente in ogni costituzione individuale e non è propria solo del “mercante, o addirittura del mercante della modernità europeo-americana”. Il bersaglio polemico, per quanto taciuto, è ancora una volta Werner Sombart e serve a ribadire il carattere universale di questa costituzione umana che proprio per questo può essere il fondamento di un pensiero dell’ordine […] il programma neoliberale trova nella sua antropologia e nel suo principio di economia la possibilità di unificare nel tempo tutti i comportamenti. Questa convinzione antropologica è il fondamento epistemologico di tutto il progetto neoliberale (Ricciardi 2017, 21).

Ancora dalla assunzione antropologica deriva poi una visione della storia universale, ritenuta in essenza del tutto statica a dispetto delle apparenze dei cambiamenti, in quanto la storia semplicemente consiste in una costante ripetizione del principio dell’azione economica:

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Questa antropologia fondamentale produce la sua storia universale attraversata dal molteplice, ma sostanzialmente statica, nel senso che al suo interno non ci sono entusiasmi rivoluzionari e nemmeno innovazioni radicali, ma solo la ripetizione in forme diverse dello stesso agire (Ricciardi 2017, 22).

Infine affrontiamo un altro aspetto del pensiero ordoliberale, domandandoci quale sia il fine ultimo – al di là ovviamente di quello di salvare e rilanciare il capitalismo in una nuova forma – dell’introduzione della costituzione economica nell’ordinamento di uno Stato “forte”, che, quindi, esiste per diffondere pervasivamente quei principi economici. Lo scopo di questo Stato “forte” è trasformare una personalità “proletaria” in una personalità “proprietaria”. In presenza di uomini “proletarizzati” – e aggiungeremmo anche organizzati – con la coscienza di tale primaria identità, lo Stato “debole” diventa loro preda e soccombe ai loro interessi. Essi, con la loro domanda di welfare, lo trasformano, come non a caso lamentava il rapporto della Commissione Trilaterale del 1977 (vedi Fanti 2021, par. 5.8), in una compagnia assicurativa a responsabilità illimitata di cui si servono per assicurare i propri interessi sociali dalla culla alla tomba contro ogni rischio possibile. Lo Stato non governa più gli uomini “proletari”, ma sono loro che governano per mezzo dello Stato. La polemica ordoliberale nei confronti dello Stato sociale (welfare state) è intensa. Per esempio, l’uomo nello Stato sociale è diventato «un animale domestico obbediente nelle stalle giganti dello Stato, in cui viene radunato e più o meno ben nutrito» (Röpke, 1998, 155), e se a nessuno «dovrebbe essere permesso di morire di fame […] non ne consegue, che l’obiettivo che tutti siano saziati, lo debba garantire lo Stato» (Röpke 2002, 245). Per gli ordoliberali il vero benessere delle masse non è quello che fornisce il welfare state ma quello che invece esse possono fare da se stesse per se stesse, ovvero «con le proprie risorse e sotto la propria responsabilità» (Röpke 1957, 22). Per esempio, la seguente affermazione di Röpke rappresenta al meglio la “filosofia” ordoliberale alla quale si ispirano la UE e le élite transnazionali capitalistiche (analizzate nel paragrafo 8):

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la sicurezza economica si deve avere solo ad un prezzo di costante vigilanza, adattabilità e preparazione di ogni individuo a vivere coraggiosamente e sopportare le insicurezze della vita (Röpke 2002, 198).

Gli ordoliberali puntano a trasformare, almeno piscologicamente con i mezzi ri-educativi, l’uomo “proletario” in “proprietario” e ad inculcargli – come il cittadino liberale di Locke, dove proprietà e valori etici combinano armoniosamente l’individualismo e l’ordine sociale – quei valori borghesi del proprietario inglese settecentesco: autodisciplina, senso di giustizia, onestà, equità, cavalleria, moderazione, spirito pubblico, rispetto della dignità umana, fermezza norme etiche: tutte queste sono cose che le persone devono possedere prima di andare sul mercato e competere tra loro (Röpke 1998, 125).

Una volta che il proletario sarà convinto di essere un vero e nobile cittadino borghese sarà risolto il problema rappresentato da quel prodotto oggettivo del capitalismo che è il proletariato. Una vera politica sociale ordoliberale deve consistere proprio in questa opera di trasformazione psicologica, al contrario di quella dello Stato sociale, che, operando con lo scopo di rispondere alle richieste di “giustizia” sociale, «mediante fissazione dei salari, riduzione della giornata lavorativa, assicurazione sociale e protezione del lavoro […] offre solo palliativi, anziché una soluzione al difficile problema del proletariato» (Röpke 1942, 3). Il proletario soffre, per la natura stessa del mondo industriale, di un forte disagio “esistenziale”, quale una «notevole perdita di soddisfazione vitale causata dall’influenza devitalizzante di queste condizioni di lavoro e di vita imposte dall’esistenza e dall’ambiente industriale urbano» (Röpke 1942, 240). Gli ordoliberali riconoscono, peraltro, che questo disagio origina dal ruolo subalterno che il proletario vive nel mondo capitalistico industriale. Infatti, le masse, in tale mondo, sono caratterizzate da dipendenza economica e sociale, una vita priva di radici e affollata, in cui gli uomini sono estranei alla natura e sopraffatti dalla tristezza del lavoro (Röpke 2009, 14).

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Peraltro questo disagio “esistenziale” sembra incurabile, o, almeno, lo diventa se si crede che le medicine per curarlo siano la giustizia sociale e il welfare state: infatti se la «vera causa di malcontento della classe operaia [è] la devitalizzazione della loro esistenza [allora] né salari più alti né cinema migliori possono curare» (Röpke 1942, 3). Anzi quelle medicine sbagliate sono la causa delle crisi economiche, che non sarebbero altro che la manifestazione di un mondo che è stato proletarizzato e in gran parte privato delle sue forze regolatrici e dell’atmosfera psicologica appropriata di sicurezza, continuità, fiducia e giudizi equilibrati (Röpke 1942, 4).

Peraltro ci pare di intravedere in questo titanico sforzo di eliminare l’uomo “proletario” e sostituirlo col vero e nobile uomo “proprietario” in un contesto di pura competitività economica e sociale – col che soltanto potremmo allora parlare, secondo gli ordoliberali, di ottenimento della più grande libertà – le tracce della filosofia politica di Locke: la libertà è la proprietà e il sistema politico liberale è quello dei proprietari civilizzati. Va inoltre notato che la de-proletarizzazione degli uomini non è però vista dagli ordoliberali in termini di cambiamenti dei rapporti di produzione o, comunque, in termini di cambiamenti interni al meccanismo economico. Piuttosto essa è vista in termini “esistenziali”, da imporre attraverso la legge e l’educazione, e si basa sul rendere il proletario “vitalmente soddisfatto”, senza “paura della libertà”, spontaneamente convinto di essere “proprietario non della propria forza-lavoro ma dell’impresa di sé stesso”. Come conclude Bonefeld (2012, 645), la soluzione alla condizione proletaria sussiste nello sforzo costantemente rinnovato di eliminare il proletariato mediante una politica sociale “conforme al mercato” che, invece di imprigionare i lavoratori nello Stato sociale, facilita la loro libertà e responsabilità in modo tale da renderli simili a un imprenditore legittimo. Il lavoratore deve quindi diventare un imprenditore della forza lavoro, dotato di solidi valori sociali ed etici e radici nella tradizione, nella famiglia e nella comunità.

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14. La democrazia plebiscitaria dei mercati Qual è il rapporto che i neo-ordoliberali hanno con la tradizionale democrazia liberale? Il minimo comun denominatore delle loro varie posizione è facilmente calcolabile, anche se non come un unico valore puntuale ma come una distribuzione di idee comunque molto concentrata: si va dall’idea che la democrazia non conta niente all’idea che la democrazia è quasi sempre dannosa, sempre in riferimento al loro concetto di libertà politica ed economica. Possiamo dire che – se viste in relazione alla necessità di “imbracare” la democrazia per proteggere in primis la proprietà privata e in secundis il meccanismo dei prezzi dei mercati concorrenziali come unico strumento di libertà ed efficienza, ovvero eliminare il proletariato e il welfare state – le distinzioni fra neoliberalismo, ordoliberalismo e liberalismo autoritario sono evanescenti e al massimo possono essere rintracciate nelle differenti enfasi e nei lavori accademici. Tuttavia, si può dire, con Foucault (2005), che l’ordoliberalismo è la prima formazione del neoliberalismo, in quanto già nei primissimi anni Trenta fornisce la prima coerente risposta “pro-capitalista” alla sfida di classe del proletariato, rispondendo alla domanda su che cosa deve essere fatto per vincere la sfida ed inviduando una risposta tutta politica e non economica, vale a dire lo Stato forte e indipendente dalla società come strumento necessario. Può forse essere significativo che non solo Schmitt, ma anche i padri fondatori dell’ordoliberalismo quali Eucken, Röpke e Rüstow furono sostenitori politici di von Papen126. Per Röpke lo Stato democratico non è altro che un «gioco di società corrotto di una democrazia degenerata nel pluralismo» (Röpke 2009, 102), e la tirannia è radicata nella democrazia senza restrizioni e non sufficientemente bilanciata dal liberalismo […] ha sempre governato con le masse […] contro l’élite che porta avanti la civiltà (Röpke 1942, 248).

126 Franz von Papen, nobile tedesco, ufficiale e politico, cancelliere nel 1932 (il cosiddetto “gabinetto dei baroni”), perorò presso il presidente von Hindenburg la nomina di Adolf Hitler a cancelliere nel 1933, e ne fu poi vicecancelliere dal 1933 al 1934.

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Ancora secondo Röpke, il vero carattere della dittatura è proprio la democrazia, che può facilmente trasformarsi in una dittatura, ma che è sempre comunque incapace di dare forma e ordine permanente sia allo Stato che alla economia: Quando una democrazia nel momento del bisogno pone un dittatore alla sua testa, non sta affatto arrendendosi in alcun modo: piuttosto sta obbedendo al consiglio della necessità e al precetto della storia. A parte tutto il resto, nel caso della dittatura democratica, si tratta di trasmettere un mandato che viene ripristinato dopo che è trascorso il periodo di emergenza statale, ma non una forma normale e permanente della direzione dello Stato e della vita economica (Röpke 1942, 256).

Come noto, per Hayek, le libertà fondamentali possono essere conculcate temporaneamente proprio in nome di una astratta e futura libertà: i principi fondamentali di una società libera […] potrebbero dover essere temporaneamente sacrificati […] [per preservare] la libertà a lungo termine (Hayek 1960, 217).

Più recentemente, passando dall’astratto al concreto, Hayek, negli anni ’70, in riferimento alla dittatura di Pinochet, scrive che127 potrebbero persino esistere oggi dittatori ben intenzionati portati al potere da un vero crollo della democrazia e sinceramente ansiosi di ripristinarla se solo sapessero come proteggerla dalle forze che hanno distrutto […] una dittatura può imporre limiti a sé stessa, e una dittatura che impone tali limiti può essere più liberale nelle sue politiche rispetto a un’assemblea democratica che non conosce tali limiti (Hayek, citato in Cristi, 1998, 168, nota 16).

Altrettanto esplicitamente von Mises aveva considerato i fascismi come salvatori della civiltà europea:

127 Bonefeld osserva che «Hayek identificò la dittatura di Pinochet come uno Stato forte, che risolve l’eccesso di democrazia, traccia un confine tra società e Stato e rende lo Stato governabile come fosse un “pianificatore per la concorrenza” (Hayek 1944, 31)» (Bonefeld 2017, 755).

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Non si può negare che il fascismo e movimenti simili che mirano all’istituzione di dittature sono pieni delle migliori intenzioni e che il loro intervento ha, per il momento, salvato la civiltà europea (Von Mises 1985, 51).

Peraltro, cosa Hayek pensi della democrazia ce lo dicono molto esplicitamente le sue parole, quando afferma che se democrazia diviene sinonimo di governo della maggioranza dotato di potere illimitato, io non sono democratico, e considero tale governo pernicioso, e non credo che possa funzionare nel lungo periodo (Hayek 2000, 414),

oppure lo si capisce dalla sua proposta di sostituire il termine democrazia con “demarchia”, perché l’uso del termine kratos gli appare una sottolineatura della forza bruta piuttosto che del governare secondo regole128. L’ordinamento politico democratico, ovvero lo Stato di diritto, non hanno alcun valore in sé, ma sono valutabili solo nella misura in cui non possono essere usati per mettere in discussione il mondo capitalista. Se il diritto può divenire lo strumento grazie al quale si può modificare la realtà dei rapporti di classe, allora bisogna cambiare l’ordinamento giuridico e trasformarlo in uno scudo insuperabile della esistente società di libero mercato. Basta qui ricordare l’avversione di Hayek per la giustizia sociale che, secondo lui, «è probabilmente al giorno d’oggi la minaccia più grande nei confronti della maggior parte degli altri valori di una civiltà libera» (Hayek 1973, 66-67). L’individuo è liberato da ogni subordinazione e da ogni potere economico agente su di lui quando la cornice del diritto è il libero mercato competitivo, e allora in questo senso il potere definito da quella cornice costituzionale è un potere democratico129. 128 «Demarchia dovrebbe invece riaffermare la centralità del riferimento all’archein, ovvero all’origine, al fondamento, come appare non a caso in monarchia e in oligarchia, cioè nei poteri che si fondano sulla tradizione» (Ricciardi 2017, 25). 129 A quale libertà, oltre a quella di consumare (peraltro anch’essa, in realtà, del tutto coartata dai poteri del marketing in senso lato), l’individuo è reso partecipe dalla democrazia dei mercati non ci è dato capire. Una risposta condivisibile è che «questa razionalizzazione del potere economico permette di considerarlo come il paradigma di un potere democratico che dovrebbe liberare l’individuo

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La legittimazione di una forma democratica, per gli ordoliberali, è data dalla costituzionalizzazione delle regole del mercato, quindi per essi la democrazia non dipende né dal formalismo delle sue procedure né dalla partecipazione intenzionale dei suoi cittadini. Come brillantemente esemplifica Böhm, è dai verdetti dei liberi mercati, dalla bontà del banditore che fa emergere il vettore dei prezzi di equilibrio, come risultato di una miriade di opinioni e di scambi volontari, che si ha una legittimazione democratica: quella dei mercati non è altro che una democrazia plebiscitaria spinta all’estremo, che agisce ogni giorno e a ogni ora, tecnicamente perfezionata nel modo più raffinato (Böhm 1950, 51).

Gli ordo-liberali hanno anche una chiara predilezione per un nuovo ordine mondiale, in cui la democrazia sarà ridefinita in un modo che la renda pressoché irriconoscibile per la tradizione. Per esempio, riflettendo sulla futura forma degli Stati post-coloniali, Rüstow suggerisce a questi ultimi di trovare una forma Stato possibile, che associ i vantaggi della dittatura, oppure diciamo i vantaggi di una chiara direzione centrale responsabile, con l’assicurazione di uno stock minimo di democrazia (Rüstow 1963, 165).

D’altronde, nel futuro ordine mondiale la democrazia parlamentare sarà solo «una faccenda propria di quei tempi piacevoli e piccolo-borghesi nei quali essa si basava solo sulla politica interna» (Rüstow 1963, 189). Possiamo in ogni caso osservare che il programma neoliberale, quando non giustifichi forme autoritarie, assume comunque forme di decisione democratica di tipo non procedurale e, soprattutto, avulse dalla legittimazione popolare. Un’altra caratteristica fondamentale che distingue il pensiero neo-ordoliberale da quello liberale tradizionale (che a sua volta viene distinto dal pensiero conservatore à la Burke, che pure fonda sul rispetto delle tradizioni la legittimità del potere e del dirit-

dalla subordinazione personale, consegnandolo a una solitaria ma universale impotenza» (Ricciardi 2017, 25).

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to) è l’accento posto sulla tradizione e sul rintracciamento nella storia universale di una continuità politica e normativa, diremo strutturale, che si evolve solo per la presenza della dinamica economica. In assenza di tale dinamica, la storia dell’uomo sarebbe una statica riproduzione continua di una data struttura istituzionale e giuridica orientata dal principio di azione economica quale invariante antropologica. La dinamica economica, a dispetto del nome che evoca continui movimenti nel tempo, è – seppure caratterizzata da una continua innovazione – di per sé non-rivoluzionaria e anzi produttrice di ordine (ovviamente ancor meglio una volta che l’ordinamento politico-giuridico sia fondato sul principio economico competitivo). Ma in assenza di questo quadro politico-costituzionale – che è appunto un obiettivo del progetto – il pensiero neo-ordoliberale, ben sapendo la costitutiva instabilità e debolezza dell’economia di mercato, priva delle proprietà di un ordine naturale e di un’armonia prestabilita, si aggancia, con un evidente vicinanza al pensiero conservatore, al ruolo ineliminabile della tradizione. Il riferimento non è al concetto di società – riconosciuto il quale, si aprirebbe il vaso di Pandora di ogni disgregazione – ma a quello di “comunità”. Quindi il riferimento è a tradizione e comunità, che poi significano una collocazione gerarchica dell’uomo nel cosmo e nella società, senza la quale l’ordine – anche quello economico – si trasforma in anarchia e caos. Qui si manifesta un lato del pensiero neo-ordoliberale, che nel momento in cui afferma di cercare di ridurre ogni potere limitativo della libertà umana – e di averne trovato la ricetta nella universalizzazione del principio della concorrenza e dello Stato “forte”, ma definito e fondato su quel principio economico – rivela invece un sottofondo “illiberale” e conservatore. Allora, date queste considerazioni, il soggetto umano che fa da sfondo al pensiero neo-ordoliberale, le cui convinzioni antropologiche abbiamo precedentemente delineato, non può essere quell’individuo isolato, auto-referente, astratto e massimizzatore di utilità e profitto, slegato da ogni concretezza storica e umana, postulato dal liberalismo e che va sotto il nome di homo oeconomicus. Anzi quest’ultimo, proprio per la sua libertà che è necessaria alle scelte razionali di consumo, diviene, per il neo-ordoliberale, del tutto associabile al proletario che rivendica la sua emancipazione dalla

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subordinazione sociale, in quanto entrambi dissipatori dell’ordine, come nota Ricciardi: questo ancoraggio alla tradizione impedisce di considerare l’homo oeconomicus come il soggetto fondamentale del programma neoliberale, perché come il proletario egli è una figura che tende a dissipare l’ordine. Entrambi, infatti, si considerano svincolati da qualsiasi legame gerarchico. L’homo oeconomicus è l’esito fallimentare del laissez faire e delle sue illusioni (Ricciardi 2017, 27).

Per Röpke, che pare ispirarsi al modello familiare, è necessario sottostare ai vincoli che quel modello implica, vincoli che sono un dato ineliminabile della storia e della biologia, per cui non appena «l’intelletto si emancipa da tali limitazioni e si rende signore di sé stesso e autonomo, accade una disgrazia» (Röpke 1946, 61). Quindi anche la piramide gerarchica è una legge generale della società, una legge sociologica secondo la quale la comunità umana è essenzialmente determinata dalla subordinazione a un comune superiore punto di riferimento, di modo che il rapporto orizzontale ne presupponga uno verticale (Röpke 1947, 101).

La difesa delle norme e dei valori guida della società, pericolosamente disgregata dal proletariato e dallo welfare state, è a carico di una élite spirituale, che assume il compito con esaltazione e gode di un diritto incoercibile al suo svolgimento, come deve essergli ossequiosamente riconosciuto e, in misura del successo ottenuto in tale compito, deve essere depositaria del potere. Emerge così una specie di club di “santi” o defensor fidei, dedita alla difesa delle norme e dei valori guida della società, in primis la concorrenza e l’imprenditorialità, difesa che deve essere il dovere esaltato e il diritto incontrastato di una minoranza che si forma e viene riconosciuta volontariamente e rispettosamente come l’apice di una piramide sociale strutturata gerarchicamente in base alla performance (Röpke 1998, 130).

Quindi, in conclusione, emerge all’interno dell’ordoliberalismo anche una forte vena elitistica, tradizionalista e corporativa, che peraltro ricava dal pensiero sociale cristiano sia uno dei suoi obiettivi-chiave, cioè la de-proletarizzazione e l’eliminazio-

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ne della coscienza di classe, che uno degli strumenti per il suo raggiungimento, cioè l’ancoraggio alla dimensione comunitaria, familiare, contadina, etc. Volendo sottolineare questa vena tradizionalista, particolarmente evidente nella riproposizione di una piramide sociale di tipo gerarchico130, che non è appannaggio solo di qualche pensatore ordoliberale come Röpke ma lo è anche del neoliberale Hayek131 – perché in fondo entrambi, in modo non troppo dissimile da Burke, vorrebbero riportare la lancetta al Settecento, a prima che la grande Rivoluzione sconvolgesse l’eterno quasi-ripetersi della storia – allora si potrebbe dubitare dell’intento neo-ordoliberale di difendere dalla minaccia proletaria il progresso (perlomeno quello economico, visto il peana rispetto alla crescita e alla produttività), e convenire che questa sociologia dei rapporti di potere mostra come non si possa attribuire al neoliberalismo un’intenzione modernizzatrice che l’economia di piano e l’egualitarismo avrebbero altrimenti impedito (Ricciardi 2017, 28).

Infine, annotiamo che se da un lato la UE è senza dubbio una costruzione ordoliberale, dall’altro lato essa appare perfettamente in armonia con la presenza di grandi imprese multi-nazionali e di oligopoli dominanti in quasi tutti i settori, rendendo nei fatti piuttosto anacronistica quella ispirazione ordoliberale tradizionalista – in apparenza recuperatrice dei valori della piccola comunità – di cui Röpke è un esempio. Non si può quindi che prendere atto che almeno la parte sociologica e moralistica della dottrina ordoliberale appaia smentita dai fatti: Sembra abbastanza ovvio che, nella fase della concentrazione della globalizzazione del capitale, il criterio ordoliberale di una “economia umana” composta da piccole e medie imprese è un mito ampiamente defunto (Dardot e Laval 2019, 232).

130 «All’individuo neoliberale è richiesto di svolgere la sua libera attività economica rimanendo sottomesso ai vincoli gerarchici che consentono la riproduzione ordinata della società» (Ricciardi 2017, 27). 131 «Ciò che infatti accomuna l’ordoliberalismo tedesco con il neoliberalismo della scuola austriaca è l’affermazione della tradizione come indispensabile orizzonte normativo dell’ordine societario» (Ricciardi 2017, 28).

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15. L’ideologia neo-ordoliberale della UE e il mercato del lavoro Se la BCE e la politica monetaria “dittatoriale”, unita con la espropriazione degli strumenti di policy a disposizione degli Stati democratici, rivelano l’ordine neo-ordoliberale sotto l’aspetto macroeconomico, sotto l’aspetto microeconomico tale ordine assume la modalità di imporre, da un lato, libertà di competizione assoluta per l’impresa intesa come diritto primario “costituzionale”, e, dall’altro lato, peraltro collegato al primo secondo le tendenziose interpretazioni della CGE (come vedremo più avanti), l’eliminazione di ogni diritto sociale e collettivo dei lavoratori sul mercato del lavoro. Da questo ultimo punto di vista è utile esplorare come la giurisprudenza “europea” ha agito da “eliminatore” di un caposaldo del diritto degli Stati nazionali, cioè i diritti del lavoro; diritti che sono collegati in qualche misura a parametri di giustizia non dipendenti dal mercato. In quest’ultimo senso, infatti, il diritto del lavoro può essere visto come uno strumento giuridico capace di agire come strumento di controllo – e talvolta persino di redistribuzione – del potere nella società capitalistica. Una recente causa discussa presso la CGE, inerente la compatibilità del diritto del lavoro greco – specificamente della disciplina sul licenziamento collettivo – con la libertà di stabilimento e di circolazione dei capitali, appare paradigmatica del modo di trattamento del problema e della posta in gioco, che va ben al di là di un singolo caso locale, investendo tutta la “filosofia” politico-giuridica della UE rispetto al mondo del lavoro. In tale senso, questa “filosofia” espressa dalla CGE è quindi anche una cartina di tornasole del neo-ordoliberalismo, di cui la UE è fedele depositaria. Dice con inusitata chiarezza, nella sua “arringa”, l’Avvocato generale Wahl: L’Unione Europea si fonda su un’economia di libero mercato, il che implica che le imprese devono essere libere di gestire la propria attività nel modo che ritengono più opportuno. Ci si chiede, quindi, quali siano i limiti all’intervento degli Stati membri volto a garantire la sicurezza del lavoro per i lavoratori. Su tale questione la Corte è chiamata a pronunciarsi nell’ambito del presente rinvio pregiudiziale132.

132 Avvocato generale Nils Wahl, par. 1 delle conclusioni presentate il 9 giugno 2016 nella causa C-201/15, Anonymi Geneki Etairia Tsimenton Iraklis (AGET

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Di fatto, l’Avvocato si domanda se – e sembra auspicare che – in un’economia di libero mercato, quale è quella istituita dai Trattati europei, il diritto del lavoro debba sparire in quanto “impedimento” a tale economia. A questa domanda la CGE risponde sostanzialmente in senso positivo. Infatti, sebbene la Corte, fino agli anni Novanta, avesse mantenuto un certo equilibrio, da un lato, impedendo che i sistemi nazionali di diritto del lavoro potessero essere usati come strumenti protezionistici, e, dall’altro lato, rispettando l’autonomia nazionale in cui Stato e parti sociali pongono i diritti dei lavoratori sulla base delle rispettive forme di capitalismo democratico, a partire dagli anni Duemila (p.e., sentenze Viking del 2005 e Laval del 2006) la CGE mostra chiaramente la propria ideologia neo-ordoliberale. Quale è il cavallo di Troia per l’imposizione nei vari Stati membri di tale ideologia? La protezione della libertà contrattuale dell’imprenditore intesa come diritto fondamentale protetto dall’art. 16 della Carta di Nizza. Come è stato sostenuto, in tale comportamento ideologico appare «una specie di autonomia dell’economico che si rivale finalmente sull’autonomia del politico, di origine europea» (Perulli 2012, 84). Adesso, le politiche sociali nazionali diventano secondarie rispetto alle necessità dell’impresa e del libero mercato. Quali sono le caratteristiche di questa ideologica impostazione giurisprudenziale? Come ci racconta sinteticamente Giubboni (2016), le libertà dell’impresa divengono diritti “costituzionali” e gli storici diritti collettivi del lavoro già “costituzionalmente protetti” (come in Italia) divengono diritti privati che potenzialmente violano le libertà d’impresa, e quindi in tal caso facilmente limitabili in nome della preminenza normativa della libertà d’impresa: Il primo aspetto è la definitiva consacrazione delle libertà economiche (di stabilimento e di prestazione dei servizi) a diritti fondamentali […]. Specularmente, e con ovvio capovolgimento della prospettiva che è storicamente propria (anche) dell’ordinamento costituzionale italiano, i diritti collettivi fondamentali dei lavoratori (sciopero e contrattazione colletti-

Iraklis), cit. in Giubboni, 2016.

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va) vengono convertiti in poteri privati tendenzialmente oppressivi di quelle libertà (Giubboni 2016, 110).

Più in generale, la CGE mira a ridurre il diritto di autodeterminazione degli Stati, dei sindacati e delle altre parti sociali rispetto alle loro relazioni sociali, ponendole sotto la giurisdizione della legge e dei tribunali europei: Sembra che la Corte trasponga ai sindacati i limiti che impone agli Stati membri per quanto riguarda le libertà di mercato (proporzionalità, controllo giurisdizionale) ma senza offrire a queste organizzazioni la controparte riconosciuta per lo Stato: un ampio margine di discrezionalità nella definizione degli obiettivi sociali da proteggere e i mezzi per garantire tale protezione. In altre parole, rifiuta di considerare il sistema di relazioni sociali come un ordine costituzionale che gode della capacità di autodeterminazione. Questo sistema è posto sotto la supervisione del legislatore e dei tribunali (Azoulai 2008, 1350-1351).

Ma, così facendo, la CGE però, viola anche la libertà di contratto fra agenti sociali: Questa analisi equivale, in effetti, a negare la scelta dell’organizzazione sociale basata sulla libertà di negoziazione tra le parti sociali (Azoulai, 2008, 1351).

Se contro il diritto di sciopero si invoca il diritto superiore dell’impresa transnazionale, si compie una totale alterazione del potere economico che viene trasferito a tutto vantaggio di tale impresa, la quale gode anche della libertà di de-localizzare gli impianti, spostare la sede legale e/o trasferire manodopera fra giurisdizioni alla ricerca di quella più “favorevole”, etc.; quindi si viene a creare un ulteriore enorme potere dell’impresa transnazionale nei confronti della controparte contrattuale. Quindi, il nuovo modello europeo sembra avere tendenzialmente raggiunto l’obiettivo neo-ordoliberale dispiegato già a partire dalle riflessioni degli anni Trenta: trovare uno scudo costituzionale al capitalismo, riparandolo in particolare dalla classe antagonista per definizione, quella del lavoro. È infatti qui, sul mercato del lavoro che convergono sia le politiche macroeconomiche uscite dalla gestione della recente crisi, sia quelle microe-

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conomiche gestite primariamente attraverso la via giurisprudenziale. Dal punto di vista delle prime, è comune osservazione che la strada imposta dalla Ue ai vari paesi, in varie occasioni e modalità, è stata quella della liberalizzazione dei mercati del lavoro133. Riforme in questo senso sono già state approvate in Grecia, Spagna e Italia. La competitività dell’economia deve essere ripristinata attraverso ciò che gli economisti definiscono “svalutazione interna”, ovvero tagli salariali, riduzione delle prestazioni sociali, crescente «flessibilità del mercato del lavoro (Greblo 2019, 131).

Dal punto di vista delle seconde politiche, tale liberalizzazione ha sussunto il tema del “licenziamento economico”, allo scopo di garantire al massimo le prerogative imprenditoriali sulla eliminazione degli ostacoli alla organizzazione efficiente dell’impresa e all’accesso al mercato, le quali richiedono sia che le decisioni sul livello di occupazione ottimale siano esclusivamente nelle mani dell’impresa, sia che tali decisioni possano essere assunte in un quadro di prevedibilità e di bassi costi di transazione. In Italia il governo Renzi si è assunto il compito di introdurre una riforma sul tema, che non era stata compiuta dal precedente governo (Monti) mandatario della UE, con il Jobs Act (d. lgs. n. 23 del 2015), in cui spicca l’idea centrale del contratto a tutele crescenti che appare in linea con la basilare condizione per la libertà d’impresa in tema di decisione occupazionale ottimale con costi transazionali bassi e prevedibili. In complesso, il rigore con cui l’ideologia neo-ordoliberale si è andata affermando sul tema del mercato del lavoro, ha fatto concludere taluno che Il diritto del lavoro sopravviverebbe nell’UE solo come una raccolta di eccezioni alle libertà di mercato e alle leggi sulla concorrenza, sempre soggette a un test di proporzionalità (Collins 2011, 464).

133 Va peraltro notato che una recente ricerca del FMI (2015), ha evidenziato che riforme strutturali del mercato del lavoro come quelle imposte dall’UE hanno avuto effetti negativi sulla produttività.

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Solo nel caso di una rivalutazione dell’impresa intesa come istituzione sociale complessa, nella quale confluiscono i diversi interessi «proprietari» degli stakeholders, e non solo quelli dei proprietari azionisti, ovvero una definizione di impresa che sia “socialmente responsabile” (vedi paragrafo 16), allora il diritto del lavoro può riottenere un ruolo non secondario in quanto «la “sicurezza del lavoro per i lavoratori” è senza dubbio uno dei più rilevanti di tali interessi» (Giubboni 2016, 133). Infine, una osservazione sull’istituto della codeterminazione (la partecipazione più o meno paritetica di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro nei consigli di sorveglianza nelle imprese con più di duemila dipendenti)134: essa è forse l’unica caratteristica dell’“economia sociale di mercato” tedesca apparentemente a tutela del lavoratore e certamente non è stata acquisita dalla UE, nonostante la sua dichiarazione di adesione all’“economia sociale di mercato”. Comunque, in fondo, la codeterminazione non era stata osteggiata dagli ordoliberali (Somma 2015, 561); questo, nella misura in cui essa sarebbe stata intesa sia come una fonte di disinnesco del conflitto sociale, sia come coinvolgimento dei lavoratori capaci di valorizzare a fini produttivi il «capitale umano», ovvero di responsabilizzare le maestranze (lasciando però l’iniziativa economica all’imprenditore)135. Tuttavia, come noto, proprio con i governi socialdemocratici di Schröder all’inizio del nuovo secolo, i dettami dell’ordoliberalismo sono divenuti più cogenti e anche la codeterminazione è finita nel mirino in quanto è istituzione e non relazione di puro mercato, tanto che, secondo Somma (2015, 573), «la fuga dalla codeterminazione, ovvero il suo brutale accantonamento, sembra solo una questione di tempo».

134 Un esempio di studio teorico-economico del ruolo della codeterminazione nella concorrenza oligopolistica è studiato teoricamente, p.e., da Fanti e Gori (2019). 135 Preferita invece dagli ordoliberali è la partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa, perché induce l’identificazione del lavoratore con il datore di lavoro e quindi la collaborazione tra capitale e lavoro, oltreché l’identificazione psicologica del lavoratore con il mercato.

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Quindi, il mercato del lavoro è, anche ideologicamente, un campo di intervento privilegiato della UE. Due sono state le principali manovre della UE rispetto ai mercati del lavoro: 1) agire secondo il neologismo «flexsecurity», che va per la maggiore sia fra gli economisti che nelle più recenti politiche europee dell’occupazione; con esso si intende un tentativo di assicurare un lavoro “qualsiasi”, da un lato, e ottenere una totale individualizzazione, flessibilizzazione (soprattutto in uscita) e precarizzazione del rapporto di lavoro, dall’altro lato; 2) vincolare i livelli salariali ai livelli di produttività. Nel primo caso , con la flexsecurity si sono manifestati i seguenti fenomeni: i) una consistente riduzione degli strumenti di tutela del posto di lavoro (il licenziamento arbitrario non è accettato solo se esplicitamente discriminatorio); ii) le indennità di disoccupazione vengono condizionate al comportamento del disoccupato, che deve essere attivo nella ricerca e nella disponibilità all’addestramento ad altri posti di lavoro e deve accettare qualsiasi proposta d’occupazione anche peggiorativa rispetto al suo precedente status professionale e reddituale; iii) le fondamentali libertà economiche di circolazione di imprese, capitali, merci e servizi sono la priorità e vengono “premiate” anche a livello giudiziario, a scapito sia dei diritti sociali individuali che l’esercizio delle libertà collettive (diritto di sciopero, contrattazione). Nel secondo caso abbiamo assistito al tentativo di provocare lo spostamento dalla contrattazione collettiva – quale strumento della solidarietà redistributiva – a una contrattazione a livello aziendale (fra l’altro anche promuovendo, per gli accordi a livello di singola impresa o territoriali, l’opzione di deroga agli accordi a livello centrale), al fine di vanificare la solidarietà di classe del contratto collettivo. In particolare sul piano operativo, due sono i provvedimenti della UE (vedi il paragrafo 6)rilevanti per questo caso (Losurdo 2017, 385): 1) il cosiddetto patto Euro plus ha impegnato gli Stati contraenti della zona euro (più Bulgaria, Danimarca, Lettonia, Lituania, Polonia e Romania) a riallineare le dinamiche salariali ai tassi di produttività industriale; 2) il cosiddetto «Documento dei cinque Presidenti Completare l’Unione economico e monetaria dell’Europa» del 2015 non solo ha ribadito l’impegno del patto Euro plus, ma lo ha rafforzato proponendo l’istituzione di un sistema di «autorità per la competitività per la zona euro» in-

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caricate di «stabilire se l’evoluzione delle retribuzioni sia in linea con quella della produttività e raffrontarla con l’evoluzione nei principali partner commerciali con economie simili». In conclusione, l’obiettivo delle politiche della UE – perfettamente raggiunto – è un’ampia redistribuzione del potere economico-sociale a vantaggio dell’impresa e del mercato.

16. Il principio di sussidiarietà Iniziamo col ricordare la centralità del principio di sussidiarietà per l’evoluzione storica dell’ordoliberalismo tedesco. È a tale principio che si deve il successo dell’ordoliberalismo e della sua dicitura tedesca di “economia sociale di mercato”, prima nello Stato tedesco e successivamente nella UE. Seguiamo quindi Dardot e Laval (2019, capp. 3, 7) nel loro interessante racconto sulla affermazione della dottrina ordoliberale nella Germania del dopoguerra. È nel 1948, che la ricostruzione politica ed economica della Germania dall’”anno zero” prende corpo. Nell’aprile 1948, il comitato scientifico nominato dall’amministrazione tedesca per l’economia nella zona anglo-americana, che comprendeva in particolare Eucken, Böhm e Müller-Armack, presentava un rapporto in cui si affermava che la gestione del processo economico doveva essere garantita dal libero meccanismo dei prezzi di mercato. Erhard, responsabile dell’amministrazione economica della “bi-zona”, pochi giorni dopo adottò questo principio, chiese la liberazione dell’economia dai controlli statali, varò la riforma monetaria il 21 giugno dello stesso anno, creando il marco. Va notato che queste misure erano decisamente in contrasto col clima dirigista e interventista che all’epoca prevaleva nell’Europa della ricostruzione. I due uomini che ebbero un ruolo decisivo nello spingere Erhard a quelle decisioni politiche e a farsi il paladino politico delle dottrine ordoliberali – ricordiamo che fu ancora lui a far passare la legge “anti-cartello” e l’indipendenza della Bundesbank nel 1957 – furono Eucken e Röpke. Il primo, nel libro “La miseria economica tedesca” (Die deutsche Wirtschaftsnot), raccomandava di rompere il sistema dell’economia gestita dallo Stato (accusato di assomigliare a una continuazione diretta

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della politica nazista) associando la riforma monetaria alla liberalizzazione dei prezzi. Il secondo riproponeva, come Eucken, quale soluzione ai mali dell’economia tedesca, il recupero del ruolo dei prezzi come indicatori di scarsità136. L’organizzazione politica dello Stato da ricostruire, quindi, da un lato, si legittima promuovendo l’economia di mercato al rango di istanza legittimante, ma dall’altro lato, l’ordoliberalismo, segnatamente nella persona di Röpke, ritiene che si debba legittimare l’autorità politica anche con considerazioni allo stesso tempo morali e sociali. Ed è qui che entra in scena il principio di “sussidiarietà”. Röpke, infatti si domanda dove sta la base della legittimità politica, e suggerisce che, oltre alla ovvia risposta per la quale uno Stato legittimo è quello che osserva la legge, ovvero che rispetta lo Stato di diritto e il principio della libertà di scelta del cittadino, ci sia un’altra fonte di legittimità che è l’osservanza del principio di “sussidiarietà”; si tratta appunto del principio difeso dalla dottrina cattolica, che prevede il rispetto della comunità in cui gli individui sono integrati nelle sfere naturali gerarchiche. Quindi lo Stato deve garantire l’ordine del mercato, ma anche l’ordine morale e sociale, il che significa che il fondamento dell’ordine politico dello Stato non è esclusivamente economico, ma anche sociologico. Quest’ultimo ambito è di fatto rappresentato nell’ordinamento costituzionale “economico” dal principio di sussidiarietà: Se uno Stato decentralizzato di tipo federale, rispettando il principio di sussidiarietà basato sull’idea di questa gerarchia di “comunità naturali”, è preferibile, è solo perché una tale forma istituzionale fornisce un quadro sociale stabile, sicuro, ma anche moralizzante per gli individui. Tale integrazione nella famiglia, nel vicinato, nel villaggio o nella località, nella regione, è ciò che dà agli individui un senso delle loro responsabilità, un senso degli obblighi verso gli altri, un appetito per l’esercizio delle loro funzioni, senza il quale non vi è né legame sociale né autentica felicità, in modo che possiamo anche parlare di un “doppio circuito” tra la società e lo Stato (Dardot e Laval 2019, 92).

136 «Nell’aprile del 1948, Erhard visitò Röpke, che all’epoca viveva a Ginevra e (secondo uno dei suoi biografi) prese la decisione sulla riforma monetaria al suo ritorno dalla Svizzera» (Dardot e Laval 2019, 91).

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È proprio Röpke a fornirci una lucida spiegazione del principio di sussidiarietà, insieme alla centralità della sua applicazione, sia per ottemperare alla dottrina liberale della limitazione del potere statale, sia per spiegare il “principio della gerarchia”: dall’individuo fin su verso l’alto, verso il governo centrale, il diritto originario si colloca con il rango inferiore e ogni rango superiore prende il posto del rango immediatamente al di sotto di esso nel caso che un certo compito sia al di là delle capacità di quest’ultimo. In questo modo si crea una gerarchia di individui attraverso la famiglia e la parrocchia nel distretto o nel paese e, infine, nel governo centrale, una gerarchia che allo stesso tempo limita il governo stesso ed oppone ad esso il diritto personale dei ranghi inferiori con le loro invulnerabili sfere di libertà. In questo ampio senso di sussidiarietà il principio del decentramento politico contiene già il germe del liberalismo nel suo senso ampio e generale, un’idea che è alla radice della concezione di un governo solido, che pone i limiti necessari a se stesso e si colloca sullo sfondo (Röpke 2002, 90-91)

Per Röpke lo Stato ha quindi il compito di perseguire due obiettivi, ritenuti complementari: il consolidamento dell’economia di mercato nella società e l’integrazione degli individui nelle comunità locali. Quindi, i Democratici Cristiani adottarono, sotto l’influenza di Erhard, a partire dal 1949, nel proprio programma gli elementi essenziali della dottrina ordoliberale. I democratici cristiani erano divisi tra due programmi politici di riferimento, che riflettevano anche differenti angolature interpretative da cui si guardava il concetto di “economia sociale di mercato”, nome col quale si erano concentrati i principi della dottrina ordoliberale in precedenza esposti: uno, chiamato Programma Ahlen, era influenzato dalla dottrina sociale cattolica, mentre l’altro, intitolato Direttive di Dusseldorf, era più chiaramente d’ispirazione liberale; quest’ultimo finì per avere la prevalenza. C’era un legame tra l’orientamento cristiano-sociale e quello ordoliberale, tale da consentire un comune programma? La risposta è positiva e quel legame era proprio il principio di sussidiarietà, secondo il quale nei limiti delle possibilità, l’iniziativa e la responsabilità sono consegnate a ogni cittadino. Ciò determina il processo decisionale decentralizzato e

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la formazione di una proprietà privata: i componenti dell’economia di mercato (Starbatty 1988, 91).

Sicuramente, la conciliazione tra una dottrina cristiano-sociale e una ordoliberale fu, in Germania, resa possibile dal fatto che, da un lato, il libero mercato e la concorrenza apparivano obiettivi economici “equi”, e, dall’altro lato, gli obiettivi sociali e morali erano permeati da una “etica economica” più ispirata a Kant che all’utilitarismo edonista anglo-sassone. Dopo l’excursus storico e dottrinale ordoliberale, dal quale è emersa l’importanza del principio di sussidiarietà per la Germania e per la successiva costruzione della UE, possiamo passare ad analizzare come esso sia stato interpretato sia in ambito teologico che giuridico, con particolare riferimento alla UE e all’Italia. Cos’è, in generale, il principio di sussidiarietà? Un principio regolatore – applicato in vari ambiti fra cui la politica e il diritto – per cui, se un ente inferiore è capace di svolgere bene un compito, l’ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente supportarne l’azione. Tralasciando l’ambito strettamente tecnico in cui esso trova applicazione nell’ordinamento giuridico come un vero e proprio principio giuridico, possiamo considerarne brevemente la sua interpretazione in due ambiti: 1) quello teologico-politico della dottrina sociale della Chiesa cattolica, ma anche quello dei suoi collegamenti con quello delle Chiese riformate; 2) quello del diritto internazionale, specificamente nella UE. Rispetto al primo ambito, la lettera enciclica Rerum Novarum (1891) di papa Leone XIII è il primo documento in cui il principio è di fatto posto alla base della società137:

137 Rerum Novarum («Delle cose nuove») è un’enciclica promulgata il 15 maggio 1891 da papa Leone XIII. La sua originalità è dovuta al fatto che con essa la Chiesa cattolica si esprime, per la prima volta, sulle questioni sociali del suo tempo (già interpretate in modo dominante dal socialismo e dal liberalismo), dando origine alla moderna dottrina sociale della Chiesa. Quest’ultima fu poi aggiornata dalla Quadragesimo Anno di papa Pio XI, dalla Mater et Magistra di papa Giovanni XXIII, dalla Populorum Progressio di papa Paolo VI e infine dalla Centesimus Annus di papa Giovanni Paolo II.

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non è giusto, come abbiamo detto, che il cittadino e la famiglia siano assorbiti dallo Stato: è giusto, invece, che si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti. […] Se dunque alla società o a qualche sua parte è stato recato o sovrasta un danno che non si possa in altro modo riparare o impedire, si rende necessario l’intervento dello Stato (Rerum Novarum, par. 28)

Il principio viene ripreso quarant’anni dopo la Rerum Novarum dall’enciclica Quadragesimo Anno (1931) di Pio XI. Qui il principio di sussidiarietà viene ripreso per sviluppare in modo più netto una visione anti-statalista, secondo cui lo Stato dovrebbe rigorosamente rispettare tale principio senza né sostituirsi né interferire con le competenze dei corpi intermedi. Infatti l’enciclica, inizialmente, constata che l’individualismo – e, nel contempo, anche il progresso che ha condotto a un crescente “gigantismo” che penalizza il “piccolo” – ha estinto ogni associazione intermedia fra l’uomo e lo Stato e che le corporazioni avrebbero sollevato anche lo Stato da gravosi compiti, precisando come per il vizio dell’individualismo, come abbiamo detto, le cose si trovano ridotte a tal punto, che abbattuta e quasi estinta l’antica ricca forma di vita sociale, svoltasi un tempo mediante un complesso di associazioni diverse, restano di fronte quasi soli gli individui e lo Stato. E siffatta deformazione dell’ordine sociale reca non piccolo danno allo Stato medesimo, sul quale vengono a ricadere tutti i pesi, che quelle distrutte corporazioni non possono più portare, onde si trova oppresso da un’infinità di carichi e di affari. È vero certamente […], che […] molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima venivano eseguite anche dalle piccole (Quadragesimo Anno, 79).

L’enciclica prosegue definendo precisamente il ruolo del principio e auspicando la diffusione dei corpi intermedi a cui lo Stato dovrebbe affidare i compiti più vicini all’uomo, ritirandosi poi in buon ordine per rimanere a fare soltanto il “guardiano di notte”: Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di

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aiutare in maniera suppletiva (subsidium) le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle. Perciò è necessario che l’autorità suprema dello Stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta; e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto più perfettamente sarà mantenuto l’ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell’attività sociale, tanto più forte riuscirà l’autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e più prospera l’azione dello Stato stesso (Quadragesimo Anno, par. 80-81).

La retorica appena vista esprime, come ovvio corollario, che chi sta in basso non solo non deve essere sollevato dai compiti, ma ne deve invece essere gravato, mentre a chi sta in alto, come lo Stato, deve essere vietato di sollevarlo. Successivamente, è esplicita, nell’affermare la centralità del principio per la filosofia sociale della Chiesa, la lettera enciclica Mater et magistra di papa Giovanni XXIII nel 1961, che in relazione ai politici, prescrive che: devono essere attivamente presenti allo scopo di promuovere, nei debiti modi, lo sviluppo produttivo in funzione del progresso sociale a beneficio di tutti i cittadini. La loro azione, che ha carattere di orientamento, di stimolo, di coordinamento, di supplenza e di integrazione deve ispirarsi al principio di sussidiarietà (Mater et magistra, par. 40).

Infine, nel 1992, in occasione del centenario dall’uscita della Rerum Novarum, Giovanni Paolo II promulga l’enciclica Centesimus annus, dove vengono ribaditi, in termini attualizzati, sia il ruolo chiave del principio di sussidiarietà che il ruolo minimo dello Stato, ruolo che invece non sarebbe rispettato dal welfare state: Disfunzioni e difetti dello Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle

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altre componenti sociali, in vista del bene comune […]. Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane […] conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso (Centesimus annus, par. 48).

Il compito dello Stato non è di intervenire nell’attività economica, ma esso ha il compito di determinare la cornice giuridica, al cui interno si svolgono i rapporti economici, e di salvaguardare in tal modo le condizioni prime di un’economia libera, che presuppone una certa eguaglianza tra le parti, tale che una di esse non sia tanto più potente dell’altra da poterla ridurre praticamente in schiavitù […] Al conseguimento di questi fini lo Stato deve concorrere sia direttamente che indirettamente. Indirettamente è secondo il principio di sussidiarietà, creando le condizioni favorevoli al libero esercizio dell’attività economica, che porti ad una offerta abbondante di opportunità di lavoro e di fonti di ricchezza (Centesimus annus, par. 15).

La visione ordoliberale dello Stato, che deve stare fuori dall’economia, ma, al contempo, essere garante della concorrenza di mercato, è straordinariamente esplicita nelle parole dell’enciclica. Ma nello stesso tempo, a differenza della visione ordoliberale, lo Stato deve intervenire direttamente e secondo il principio di solidarietà, ponendo a difesa del più debole alcuni limiti all’autonomia delle parti, che decidono le condizioni di lavoro, ed assicurando in ogni caso un minimo vitale al lavoratore disoccupato (Centesimus annus, par. 15).

Qui, nel principio di solidarietà per cui lo Stato deve intervenire nel mercato del lavoro sulle condizioni di lavoro e sussidiando i disoccupati, si rileva anche una sottostante differenza teologica fra il cattolicesimo romano e il protestantesimo nord-europeo, secondo il quale non bisogna sussidiare i disoccupati perché de-responsabilizzante per loro e per tutti e perché in fondo essi stessi sono causa del loro male. Anche la dottrina sociale della Chiesa attribuisce un ruolo importante all’impresa, come la dottrina neo-ordoliberale:

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Se con “capitalismo” si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia d’impresa”, o di “economia di mercato”, o semplicemente di “economia libera” (Centesimus annus, par. 32).

Da quest’ultimo paragrafo dell’enciclica, si ricava che i) se il capitalismo significa centralità dell’impresa capitalistica allora esso va bene (ma non è chiaro cosa potrebbe essere in alternativa), ii) comunque è preferibile non usare il termine economia capitalista e sostituirlo con economia di impresa o di mercato o libera. Inoltre, l’enciclica è chiara sul profitto: La Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell’azienda: quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti (Centesimus annus, par. 35).

Quindi, se l’impresa genera profitto è cosa non solo buona (maggior benessere) ma anche “giusta”. Qui l’enciclica, sposando un po’ arditamente la teoria economica neoclassica stabilisce l’equazione “impresa capitalistica uguale giustizia distributiva”. Ma l’enciclica va oltre all’affermazione della centralità dell’imprenditore nella economia capitalista, tanto cara a Schumpeter; infatti, se per quest’ultimo lo spirito d’impresa era soprattutto l’ingrediente per mantenere viva la dinamica del capitalismo, per l’enciclica tale spirito esprime in radice addirittura la libertà della persona, assumendo così un significato esistenziale ed etico piuttosto che soltanto economico138: «La moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona» (Centesimus annus, par. 32).

138 Appare qui una evidente contrapposizione ideale fra la Chiesa, che, non potendo non vedere che l’impresa è una organizzazione gerarchica, ne fa, comunque, la rappresentazione di un ordine naturale affermando così implicitamente che la disciplina e l’obbedienza sono la cifra della libertà umana, e chi, al contrario, in tale organizzazione vede un caso dell’oppressione della libertà umana.

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Proprio considerando la ovvia centralità dell’uomo nella dottrina sociale cristiana, ci parrebbe non del tutto garantita – osservando l’organizzazione gerarchica dell’impresa che per sua natura si basa su comando ed obbedienza – l’equazione fra libertà dell’uomo e l’economia dell’impresa. Infatti, la Chiesa oppone un rimprovero morale all’impresa nel caso che, pur svolgendo essa tutti i ruoli positivi sopra detti, riduca i dipendenti alle figure dostoievskiane degli “umiliati e offesi”: Tuttavia, il profitto non è l’unico indice delle condizioni dell’azienda. È possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità (Centesimus annus, par. 35).

Adesso l’enciclica non vuole limitarsi ad una condanna morale dell’impresa per l’”umiliazione” dei dipendenti, ma offre una interpretazione economica di tale “umiliazione” che, dice, si riverberebbe in un danno anche per il profitto dell’impresa stessa (probabilmente in quanto gli “umiliati” ridurrebbero i loro sforzi e la loro obbedienza): Oltre ad essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi negativi anche per l’efficienza economica dell’azienda. Scopo dell’impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell’azienda, ma non è l’unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell’impresa (Centesimus annus, par. 35).

Non è difficile qui riconoscere una stretta somiglianza fra la dottrina sociale cristiana e la moderna teoria della “responsabilità sociale” delle imprese139. Al contrario di quanto ha sostenuto con

139 La teoria riguarda vari ambiti. Per una discussione del tema in ambito giuridico vedi Libertini (2013). Per una riflessione generale nel campo dell’economia vedi Benabou e Tirole (2010). Per uno specifico studio teorico-economico degli effetti della medesima in un mercato oligopolistico vedi Fanti e Buccella (2018).

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rigore Friedman, l’impresa non dovrebbe avere come unico scopo la remunerazione degli azionisti proprietari, ma tenere conto anche della intera comunità di persone con la quale l’impresa è coinvolta (p.e. operai, clienti, cittadini, ambiente, etc.) e comportarsi responsabilmente verso di loro. Tuttavia ci appare importante notare come l’impresa, che è un ente privato, in questo caso si incarichi di ricoprire ruoli sociali, di fatto surrogando o al massimo complementando le competenze dello Stato. Si potrebbe anche sostenere che in un certo senso l’impresa è più vicina, più prossima, più informata rispetto alle realtà di intervento: i “suoi” operai, i “suoi” clienti, i “suoi” territori, i “suoi fiumi” e così via. In questo esercizio di surroga dello Stato nell’impegno sociale da parte dell’impresa, potremmo allora vedere anche una sottile forma dell’applicazione del principio di sussidiarietà. Il principio di sussidiarietà140 attribuisce un importante ruolo e valore ai cosiddetti corpi intermedi (famiglie, associazioni, chiese etc.), che si trovano in qualche modo tra il singolo cittadino e lo Stato. In generale ciò significa che la società è gerarchicamente disposta in corpi e che le società di ordine superiore devono aiutare, sostenere e promuovere lo sviluppo di quelle minori. O per meglio dire, il “corpo” superiore non solo deve lasciare a quello “inferiore” i compiti che esso è in grado di svolgere, ma deve spingerlo a farlo e aiutarlo. Quindi, questo principio predice che lo Stato, nel caso che i corpi intermedi possano svolgere una funzione sociale (per esempio nei campi della sanità, della scuola, dei servizi sociali, etc.), debba astenersi dall’interferire e poi non solo lasciare che questi “corpi di ordine inferiore” svolgano tali funzioni, ma anche deve sostenerli – supporto finanziario compreso – o al massimo coordinare gli interventi nel caso di molteplici corpi intermedi. L’antropologia e la teologia cristiana basano il principio dell’organizzazione della società e del potere sul principio di sus-

140 Ricordiamo che il principio di sussidiarietà principalmente esaltato dalla dottrina sociale cattolica e dagli ordoliberali è di tipo orizzontale per distinguerlo da quello verticale che, invece, regola l’attribuzione di competenze fra le istituzioni pubbliche gerarchicamente ordinate.

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sidiarietà. Poiché, secondo tale dottrina, l’ordinamento giuridico ha al suo centro l’uomo – in relazione con gli altri uomini – non sorprende che le funzioni pubbliche spettano in primo luogo a chi è più vicino all’uomo coi suoi bisogni, le sue risorse, le sue attività. Tuttavia non deve intendersi che il principio di sussidiarietà debba necessariamente applicarsi ad una società organica di tipo gerarchico-corporativo. In termini generali, con il principio di sussidiarietà potremmo intendere anche che “lo Stato non deve sostituirsi ai cittadini là dove essi sono in grado di fare da soli”, anzi deve spingerli e metterli nelle condizioni per fare da soli. Quindi, anti-statalismo da un lato, e dall’altro costruzione da parte dello Stato della totale responsabilizzazione dell’individuo: sarà competenza solo di quest’ultimo, con i redditi che si sarà meritato, curarsi, istruirsi, assicurarsi, etc. Quindi una interpretazione del principio di sussidiarietà cristiano in una chiave decisamente neo-ordoliberale. Antiseri (2005), che è convinto assertore della combacianza fra dottrina sociale cattolica e ordoliberalismo, trova in Italia già in Rosmini, nella Filosofia della politica del 1838, una precoce formulazione del principio quando scrive che il governo civile opera contro il suo mandato, quand’egli si mette in concorrenza con i cittadini, o colle società ch’essi stringono insieme per ottenere qualche utilità speciale; molto più quando, vietando tali imprese agli individui e alle loro società, ne riserva a sé il monopolio.

Inoltre, Antiseri rintraccia non solo nel pensiero cattolico ma anche in Tocqueville una descrizione del «principio di sussidiarietà»141, che per Antiseri è «autentico baluardo a difesa della li-

141 Così Alexis de Tocqueville, ne La democrazia in America: «Gli Americani di tutte le età, condizioni e tendenze, si associano di continuo. Non soltanto possiedono associazioni commerciali e industriali, di cui tutti fanno parte, ne hanno anche di mille altre specie: religiose, morali, grandi e futili, generali e specifiche, vastissime e ristrette. Gli Americani si associano per fare feste, fondare seminari, costruire alberghi, innalzare chiese, diffondere libri, inviare missionari agli antipodi; creano in questo modo ospedali, prigioni, scuole. Dappertutto, ove alla testa di una nuova istituzione vedete, in Francia, il governo, state sicuri di vedere negli Stati Uniti un’associazione».

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bertà degli individui e dei “corpi intermedi” nei confronti delle pretese onnivore dello statalismo». Per la verità, in Italia la visione ordoliberale non è recepita in modo unanime nel pensiero cattolico. Vale la pena segnalare l’inversa ricezione dei lavori di Röpke in Italia da parte di due economisti, Einaudi, da un lato, e l’economista cattolico Vito, dall’altro lato. Come ben documenta Magliulo (2010), mentre Einaudi applaude a Röpke perché l’ordoliberalismo ristabilisce il primato dell’economia sulla politica ed esalta quello che deve essere l’unico sovrano politico, cioè il consumatore142, Vito, richiamandosi all’autorità della Chiesa, critica Röpke, per la ragione simmetricamente opposta a quella di Einaudi e degli ordoliberali: la democrazia non è la sovranità del consumatore, né il mercato può da solo determinare l’allocazione delle risorse143. Una medesima forte contrapposizione nel mondo cattolico italiano rispetto alla ricezione della visione ordoliberale la si ha anche fra due politici non economisti (La Pira e Sturzo), che appare paradigmatica delle due posizioni che si confrontano già nel dopoguerra, quella keynesiana e quella neo-ordoliberale. Ancora Antiseri (2005) riporta come, nel 1954, La Pira, considerato un convinto statalista, in una lettera all’allora presidente della Confindustria Costa, minimizza il ruolo dell’impresa privata e della concorrenza «in uno Stato, come il nostro, nel quale la quasi totalità del sistema finanziario è statale e in cui 3/4 circa del sistema produttivo è, direttamente o indirettamente, statale […] l’economia moderna […] è economia essenzialmente di «intervento statale» – anche se diversamente graduata – mentre le aziende di Stato e parastatali costituiscono, direttamente o indirettamente, la spina dorsale della sua organizzazione e il coefficiente massimo del suo peso economico e politico e della sua forza sociale», men-

142 «Il frutto spirituale immateriale più alto della economia di mercato è quello di sottrarre l’economia alla politica. Le decisioni su quel che si deve produrre, sul come produrlo, sul quanto produrre sono prese direttamente dal vero unico padrone del mercato, dall’uomo consumatore» (Einaudi 1942, 58). 143 «L’iniziativa privata, quale estrinsecazione della persona umana, non è certamente bandita; e neppure la concorrenza, quale strumento stimolatore delle capacità dei singoli, è condannata. È escluso però che la concorrenza possa rappresentare il principio regolatore dell’economia» (Vito 1947, 715).

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tre Sturzo, che ci appare dai suoi scritti un convinto ordoliberale, per esempio, l’11 agosto 1951 afferma tranchant che «lo Stato è per definizione inabile a gestire una semplice bottega di ciabattino». La dottrina sociale protestante (in particolare calvinista) si approccia in modo diverso al principio di sussidiarietà. Essa afferma come ogni sfera sociale (ad es. Stato, chiesa, famiglia, scuola, associazioni, industria, scienza, ecc.) sia un ente creaturale, cioè origini direttamente da Dio, quindi non vi è autorità terrena (p.e. Stato e Chiesa) che possa regolarla. Ne consegue che ogni sfera si riferisce direttamente alla sovrana Parola di Dio senza mediazioni (della Chiesa), è autonoma dalle altre144, sovrana su se stessa e risponde solo a Dio della sua condotta145. Il principio di sovranità delle sfere e il principio di sussidiarietà si differenziano perché il primo non riconosce i) l’esistenza di sfere “superiori” in rapporto ad altre “inferiori” ovvero una gerarchia di rapporti, essendo per esso ogni sfera legittimamente sovrana e in rapporto paritario alle altre; ii) la partecipazione armonica di tutti i settori sociali in vista dell’unico bene della persona, essendo un valore assoluto ‒ da perseguire anche con la forza – l’indipendenza delle sfere sociali146. Ma entrambi i concetti – e le corrispondenti dottrine religiose a cui appartengono – si avvici-

144 Naturalmente le sfere devono sia rispettarsi, sia dialogare fra loro su basi di parità, dando ciascuna il proprio contributo alla società. 145 Il concetto di sovranità delle sfere pare formulato per la prima volta, nella seconda metà dell’Ottocento, dal teologo calvinista e primo ministro olandese Abraham Kuyper. Dato che la dottrina della sovranità delle sfere implica una separazione della chiesa dallo Stato e dalle altre sfere sociali e dato che nei Paesi Bassi vi erano molte “chiese”, ne risultava una società basata su pilastri legittimamente autonomi, ciascuno di essi corrispondente alla sfera di una comunità religiosa con le proprie istituzioni sociali come scuole, stampa, ospedali ed assistenza sociale. Un esempio di sfera sovrana è l’Università, ove né Stato né chiesa possono dettare metodi, dottrine, ricerche etc., e che deve gestirsi con leggi e persone che appartengono alla sfera stessa. Per esempio Kuyper fondò la “Università libera”, dove i ministri delle chiese riformate olandesi sarebbero stati istruiti senza interferenze da parte dello Stato olandese, essendo i ministri di culto al di fuori della sfera di competenza del governo. 146 Inoltre, un’altra conseguente differenza è che mentre chi si riferisce al principio di sussidiarietà in genere perora un sostegno (anche economico) dello Stato ai corpi intermedi (e quindi anche alla Chiesa), chi si rifà al principio di sovranità delle sfere esclude qualsiasi supporto, specialmente alle Chiese.

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nano nel comune anti-statalismo, essendo così entrambi compatibili con l’ispirazione neo-ordoliberale. Su una conclusione non vi sono dubbi: la dottrina ordoliberale incorpora e rielabora il pensiero teologico cristiano147 nei suoi aspetti umani e sociali. Rimane invece una questione aperta e meritevole di esplorazione se e in quale misura sia maggiore il riferimento alla teologia protestante o a quella cattolica, come già brevemente discusso al paragrafo 1148. Dopo questo preliminare esame del ruolo del principio di sussidiarietà nella dottrina sociale cristiana e della sua compenetrazione con la dottrina ordoliberale, passiamo ad osservarne la presenza all’interno della costruzione europea. Nel diritto dell’Unione Europea, il trattato di Maastricht, siglato il 7 febbraio 1992, ha qualificato la sussidiarietà come principio cardine dell’Unione Europea. Tale principio viene, infatti, richiamato nel preambolo del Trattato: […] decisi a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più

147 Nota che è del tutto corretto riferirsi alla dottrina sociale della chiesa come anche teologia della medesima: «l’antropologia cristiana è in realtà un capitolo della teologia e, per la stessa ragione, la dottrina sociale della Chiesa, preoccupandosi dell’uomo, interessandosi a lui e al suo modo di comportarsi nel mondo, “appartiene […] al campo della teologia e, specialmente, della teologia morale”» (Centesimus annus, par. 55). 148 Per esempio, Hien (2016) ricorda come in conseguenza della riforma calvinista ebbe a svilupparsi una diffusione della “disciplina” che coinvolse tanto i Paesi Bassi e la Prussia luterana che altri stati luterani e persino cattolici, per cui suggerisce che l’ordoliberalismo abbia subito l’influenza «tanto del luteranesimo tradizionale quanto del protestantesimo ascetico, in quella mescolanza tipica del pietismo tedesco», perché il pensiero ordoliberale mostra la contraddizione di invocare, da un lato, tanto istituzioni forti che limitino l’“azzardo morale” quanto, dall’altro lato, una forte base etica; la contraddizione giace nel fatto che se l’etica è radicata nell’economia e nella società, allora sarebbe inutile lo Stato forte per “disciplinare il peccatore”. Le posizioni ordoliberali in tema di welfare (come dice Röpke, lo Stato deve solo mettere ciascuno nelle condizioni di aiutare se stesso, senza sostegni di alcun genere che incentiverebbero solo l’azzardo morale a spese della responsabilizzazione individuale) richiamano alla mente sia l’idea di Lutero che “non si viva oziosamente del lavoro altrui” che quella calvinista che “Dio aiuta colui che si aiuta”.

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vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio della sussidiarietà.

E viene esplicitamente sancito dall’Articolo 5 del Trattato CE che richiama la sussidiarietà come principio regolatore dei rapporti tra Unione e Stati membri: La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato. Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario. L’azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato.

Tale principio è stato ripreso in senso rafforzativo dal Trattato di Lisbona che, a partire da quanto era stato disposto nella mancata Costituzione europea, ha introdotto un elenco di competenze ed ha attribuito ai parlamenti nazionali un tipo di controllo ex ante del principio stesso. Il principio di sussidiarietà, sancito dal trattato sull’Unione Europea, definisce le condizioni in cui l’Unione ha una priorità di azione, rispetto agli Stati membri, sulle competenze non esclusive dell’Unione, col fine di proteggere la capacità di decisione e di azione degli Stati membri e legittimare l’intervento dell’Unione se gli obiettivi di un’azione possono, «a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione», essere conseguiti meglio a livello di Unione che a quello degli Stati membri. La parte prima, titolo I, del TFUE – il trattato di Lisbona, sottoscritto nel 2007 ed entrato in vigore nel 2009, che ha riformato le competenze e i poteri dell’Unione – classifica le competenze dell’Unione in tre categorie (competenze esclusive, competenze concorrenti e competenze di sostegno) e identifica i settori che rientrano nelle tre categorie di competenze. L’Unione Europea ha: i) competenza esclusiva sulle materie che riguardano il mercato unico europeo, l’unione doganale tra gli Stati membri e la politica monetaria per i paesi che hanno l’euro come moneta. La competenza esclusiva europea si estende

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anche alle politiche sulla fauna e flora marina e, entro certi limiti, a quelle sul commercio e gli accordi internazionali. Significa che in queste materie solo l’Ue ha potere legislativo, gli Stati membri possono solo applicare le norme europee tramite le leggi nazionali. ii) Competenza concorrente su varie materie molto importanti come agricoltura, reti di trasporto transeuropee, politiche di coesione economica e sociale, energia, ricerca. Su queste materia sia l’Ue che gli Stati possono legiferare, ma questi ultimi possono farlo solo se l’Unione Europea non ha già proposto norme in merito. L’Ue svolge quindi un ruolo decisivo anche nelle materie di competenza concorrente. iii) Un ruolo di coordinamento delle diverse politiche degli Stati, in particolare in materia di politiche economiche (per esempio nelle politiche industriali, culturali e educative e turistiche e occupazionali e di definizione di una politica estera e di sicurezza comune (ad esempio nella protezione civile). Su queste materie la UE non può approvare norme o contrastare quelle dei paesi membri (anche se c’è comunque una clausola di flessibilità che le permette di occuparsi di alcune materie anche oltre quanto previsto dai trattati). Il principio di sussidiarietà si applica ai settori in cui l’Unione ha competenze non esclusive concorrenti con quelle degli Stati membri. È previsto un controllo149 da parte dei parlamenti nazionali sul rispetto del principio di sussidiarietà. La procedura, però, ci appare quantomeno inadatta a un serio e ponderato controllo. La procedura prevede che ogni parlamento nazionale o ciascuna camera di uno di questi parlamenti può, entro un termine di otto settimane a decorrere dalla data di trasmissione di un progetto di atto legislativo, inviare ai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione un parere motivato che espone le ragioni per cui ritiene che il progetto in causa non sia conforme al principio di sussidiarietà. Per ottenere il riesame del progetto (chiamato con fantasia calcistica «cartellino giallo»), è necessario che il parere motivato abbia raccolto almeno un terzo dell’insie-

149 Conformemente all’articolo 5, paragrafo 3, secondo comma, e all’articolo 12, lettera b), TUE.

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me dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali. Dopo che l’istituzione che ha presentato il progetto di atto legislativo ha ricevuto il “cartellino giallo”, essa può decidere di mantenere il progetto, di modificarlo o di ritirarlo, motivando la propria decisione. Pare di capire che la Commissione può bellamente infischiarsene del “cartellino giallo” e fare come le aggrada, in barba a più di un terzo della rappresentanza popolare. Solo se a protestare è più della metà dei membri dei parlamenti nazionali, allora la procedura cambia. Uno potrebbe aspettarsi che, di fronte a una tale maggioranza della rappresentanza popolare che contesti la conformità di una proposta legislativa rispetto al principio di sussidiarietà, la Commissione dovesse ritirare la legge. Ma ciò non avviene: accade solo che la questione è rinviata al legislatore (Parlamento europeo e Consiglio), che si pronuncia in prima lettura. Se il legislatore ritiene che la proposta legislativa non sia compatibile con il principio di sussidiarietà, può respingerla deliberando a maggioranza del 55 % dei membri del Consiglio o a maggioranza dei voti espressi in sede di Parlamento europeo (caso definito col nome di “cartellino arancione”). Fino ad oggi, la procedura “cartellino giallo” è stata avviata tre volte, mentre non è mai stato fatto ricorso alla procedura “cartellino arancione”. Vista la procedura, non appare facilmente immaginabile come possa accadere che entro otto settimane tutti i parlamenti di decine di nazioni diverse (circa 40 parlamenti) sia in grado di capire, discutere, votare, esprimere più del 50% dei no e poi stilare un comune parere motivato, e, fatto questo, che dopo ci sia ancora il 55% dell’élite dei consiglieri più la maggioranza dei parlamentari europei che accolga il ricorso. Insomma, la procedura del “cartellino giallo” pare assai improbabile per tempistica e numeri. Non desta quindi sorpresa che la UE in un proprio sito sottolinei con malcelato orgoglio che non ci sia mai stato un solo “cartellino arancione” e soltanto tre “cartellini gialli”, di cui due sono stati bellamente infischiati perché la Commissione non ha ritirato la legge. Anche nel caso del principio di sussidiarietà per le materie non concorrenti sembra prevalere l’impressione che la Commissione UE possa facilmente avocare a sé il diritto legislativo sottraendolo ai paesi competenti per trattato.

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Cosa si può dire del presente e del futuro di questo principio come è recepito nella UE? Lasciamo la risposta a uno dei tanti contributi di riforma della UE. Dawson e deWitte (2016) infatti propongono una riforma del diritto dell’Unione in senso procedurale, per cui la nuova costituzione europea non dovrebbe essere partigiana (cioè gli obiettivi politici devono essere eliminati dal Trattato che invece adesso “costituzionalizza” una certa direzione politica) ma pluralista (consentire e incanalare la contestazione sulla direzione politica). Questa proposta dovrebbe allora aprire alla possibilità di contestazione politica150 non solo i Trattati, ma anche la dimensione e la natura delle sue competenze. In questo senso il principio di sussidiarietà viene completamente rivisto. Oggi esso è un “imbroglio”, per vari motivi. Il primo è che compara l’efficienza delle varie istanze ai vari livelli gerarchici rispetto a un dato obiettivo, ma questo obiettivo non è discusso nei suoi contenuti, nei suoi meriti, nei suoi fini, nei suoi effetti collaterali, etc., ovvero non è “politicizzato”. Ciò […] richiederebbe un ripensamento del principio di sussidiarietà. La funzione di tale principio negli attuali trattati si basa […] su un “imbroglio”. Operando principalmente come un test di efficienza comparativa, verifica la capacità delle diverse istituzioni di attuare determinati obiettivi, senza mettere in discussione i meriti di questi obiettivi in primo luogo (Dawson e deWitt 2016, 222).

Il secondo motivo è che l’assegnazione dei poteri alle istanze nei vari livelli gerarchici dipende da una valutazione di efficienza, di output legitimacy, secondo l’approccio tipico della governance, in opposto invece a un approccio di government dove l’assegnazione dei poteri ad una certa istanza dovrebbe rispondere ad una scelta politica democratica dei cittadini: I poteri sono assegnati in base al livello di governance che appare di poter agire efficacemente, non in base alle opinioni politiche dei cittadini

150 Il messaggio di questa proposta potrebbe essere riassunto con la frase seguente: «Il ruolo della legge non è prescrivere ma politicizzare» (Dawson e deWitt 2016, 222).

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sui settori in cui l’UE dovrebbe o non dovrebbe agire (Dawson e deWitt 2016, 222).

Il terzo motivo è che l’attuale interpretazione del principio di sussidiarietà permette di fatto che il potere di scelta sia discrezionalmente nelle mani del potere esecutivo della UE (quale la Commissione): Questa formulazione del principio di sussidiarietà ha portato a una serie di problemi intrattabili con il risultato che l’attribuzione di “competenze condivise” è spesso diventata un’area di più o meno libera discrezionalità dell’esecutivo (Dawson e deWitt 2016, 222).

Quindi, con la proposta di riforma in senso procedurale, il principio di sussidiarietà verrebbe interpretato come un problema di “politica” e non come una questione giuridica, sottraendolo alla regolazione secondo il criterio fintamente neutrale della “migliore efficienza”; quale sia, fra Stato nazionale oppure UE, l’istituzione che deve agire in un determinato settore è una scelta politica e non legale o tecnica: Un approccio procedurale al diritto nell’UE comprenderebbe la sussidiarietà come una questione politica piuttosto che giuridica. L’equilibrio tra i poteri nazionali e dell’UE – chi è “il migliore” per regolare e il grado e la prescrittività dell’intervento a livello di UE – non sarebbe più una questione legale o tecnocratica, ma una legittima divisione politica su cui i diversi gruppi politici potrebbero prendere posizione (Dawson e deWitt 2016, 222).

Non solo, ma una “sussidiarietà” decisa “politicamente” e “democraticamente” renderebbe anche “responsabile” la Commissione UE: le istituzioni europee sarebbero politicamente responsabili. Istituzioni come la Commissione, in base a questo modello, sarebbero riluttanti a emanare un regolamento a livello UE “non necessario” non a causa del timore di un controllo giurisdizionale, ma a causa della loro necessità di difendere e giustificare politicamente le proposte in un’arena in cui la decisione di regolamentare a livello dell’UE potrebbe essere contestata politicamente (Dawson e deWitt 2016, 222).

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Sorprende come il ricorso alle presunte virtù taumaturgiche della sussidiarietà, intesa quale positiva trasformazione della tradizionale catena decisionale democratica, da un lato, sia invocato da tutte le parti (sinistra, centro, destra, organismi sovra-nazionali, Stati nazionali etc.) e, dall’altro lato, invece nessuno rilevi in tale ricorso una peculiarità fondamentale: che, mentre, la sussidiarietà, nel suo contesto originale, avrebbe dovuto probabilmente significare – almeno come “filosofia” politica – un certo decentramento del potere, sia decisionale che soprattutto amministrativo, alle istanze locali, in prevalenza intese come prodotti della società civile (associazioni varie) piuttosto che di natura pubblica (come comuni, distretti e altre amenità) per evidenti ragioni di partecipazione civile in un’ottica comunitaria (tipicamente cristiana), oggi sia inteso dai suoi cantori politici (UE, etc.) ed accademici in un senso diametralmente opposto. Andiamo a spiegare meglio. Due sono le “astute” interpretazioni di tale principio che vanno per la maggiore: 1) quella tipica della UE e in genere dei vertici del potere che suggerisce di “avocare” a sé le competenze e i poteri dei livelli inferiori della base piramidale del potere, perché si ritiene evidente che il livello alto sia più capace, più efficiente, etc. a gestirli151: quindi non decentramento del potere, ma addirittura un suo ulteriore accentramento illegittimo tramite espropriazione di potere legittimo altrui – è per esempio il caso della espropriazione delle competenze economiche e sociali degli Stati nazionali da parte della UE; 2) quella che invece invoca, all’inverso, l’espropriazione di poteri politici democratici al livello alto, p.e. lo Stato, per consegnarli, generalmente, a strutture non-politiche della società civile (ma anche a istanze politiche locali come i comuni), motivandola in due modi diversi: o perché esse li gestiscono meglio in virtù di convinzioni ideali indimostrabili quali “esse sono più vicine al popolo”, “piccolo è bello”, etc., oppure soprattutto perché si ritiene che il “privato” è meglio del “pubblico”. Tuttavia entrambi i modi convergono a una comune e sottile conclusione: la cosa cruciale per coloro che invocano questa sussidiarietà 151 Questo vale specialmente in un’ottica emergenziale, che peraltro sappiamo essere la cifra costante del governo di tipo neo-ordoliberale (come accennato nel paragrafo 6).

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è che le strutture non-politiche della società civile investite dei poteri siano “private” e di “diritto privato”, quindi non si tratterebbe altro che di una motivazione “mascherata” per invocare la privatizzazione di settori pubblici con i corrispondenti aumenti dei profitti privati e dell’influenza di ideologie “private” sulla società (ideologie sia neoliberali che religiose, basti pensare alla sussidiarietà in questo senso applicata al sistema educativo). Ora, appare davvero paradossale che queste due interpretazioni della sussidiarietà vengano spacciate per quella originale che era intesa in un senso di maggiore decentramento del potere e in un’ottica di maggiore partecipazione comunitaria (magari corporativa) al sistema politico, in quanto entrambe sono, in realtà, esattamente l’opposto152. La disamina attenta dell’argomentazione a favore della sussidiarietà svolta da Crouch rivela tutto il contenuto paradossale di cui dicevamo sopra, paradosso che rende addirittura internamente incoerente tale argomentazione, senza che, peraltro, il suo autore se ne preoccupi: La sussidiarietà, derivata originariamente dalla dottrina sociale cattolica, è un concetto chiave nella progettazione delle politiche dell’UE. Essa ritiene che i livelli più alti di autorità dovrebbero intervenire solo quando i livelli locali necessitano del loro sostegno per l’attuazione delle varie politiche. Esiste naturalmente un ampio dibattito su quando è necessario un tale supporto. Dal punto di vista che sto qui sviluppando, verrebbe invocato quando le autorità di livello inferiore (tra cui gli Stati-nazione) non sono in grado di regolamentare adeguatamente i mercati transnazionali. Due aree del processo decisionale sembrano particolarmente mature per questo approccio: il proposito di estendere la democrazia oltre lo Stato-nazione, in modo che quando è necessaria un’autorità più centrale, essa risponda a interessi diversi da quelli del capitale globale; il rafforzamento delle comunità e delle economie locali in modo che possano guardare con fiducia al loro ruolo a livello globale (Crouch 2019, 75).

152 Invece, come si vede nella chiara interpretazione di Röpke, data sopra, della sussidiarietà, il movimento direzionale della cessione dei poteri di “intervenire” va sempre necessariamente dall’alto verso il basso, salvo arrestarsi laddove una ulteriore discesa comportasse una perdita di valore (o benessere, comunque lo si voglia misurare) per l’intera catena verticale di soggetti gerarchizzati.

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Dapprima, Crouch esprime il concetto di sussidiarietà nella totale ambiguità di interpretazione: quando si dice che “i livelli più alti di autorità dovrebbero intervenire solo quando i livelli locali necessitano del loro sostegno per l’attuazione delle varie politiche” si intende che i livelli locali devono essere resi i titolari di quelle politiche e sostenuti dal livello alto nel gestirle, oppure che i livelli alti devono intervenire per sottrarre a quelli locali in difficoltà il potere di attuazione delle varie politiche? Poi il dilemma sembra sciogliersi quando Crouch focalizza il concetto generale sulla relazione specifica fra organismo sovra-nazionale (p.e. UE) e Stato-nazione, in cui prima postula che le autorità di livello inferiore (gli Stati-nazione) non siano in grado di regolamentare adeguatamente i mercati transnazionali e quindi ne fa conseguire che esse devono cedere i loro poteri decisionali all’organismo superiore (il quale, aggiunge senza un filo di ironia, saprebbe bene come fare, udite udite, a combattere gli interessi del capitale globale!). Successivamente – come se fosse una logica conseguenza della (discutibile ma legittima) interpretazione della necessità della sussidiarietà intesa verso l’alto come cessione dei poteri dalle autorità di livello inferiore (gli Stati-nazione) a quelle di livello superiore – Crouch fa seguire una paradossale (o forse non tanto) affermazione sulla necessità della sussidiarietà intesa verso il basso come “rafforzamento delle comunità e delle economie locali in modo che possano guardare con fiducia al loro ruolo a livello globale”: ma se lo Stato ha del tutto ceduto (o è stato espropriato di) quel ruolo, perché sarebbe troppo piccolo e inadeguato alla globalizzazione, allora come potrebbero avere un ruolo nella globalizzazione le micro istanze locali? A meno che non si pensi che l’importante sia eliminare gli Stati, per far posto a un mondo composto, in alto, da imperi del capitale globale e, in basso, da parrocchie e associazioni. Cosa che probabilmente non dispiacerebbe ai progettisti neo-ordoliberali. Infine, vogliamo ricordare che per Crouch la sussidiarietà ha anche una dimensione culturale, che si sviluppa in quel movimento di poteri di cui – come abbiamo appena visto – non è mai ben risolta la direzionalità, se dall’alto verso il basso oppure, più spesso, dal basso verso l’alto, e quindi nel caso per esempio della relazione UE-Stati nazionali una persona deve essere pronta a

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sentirsi più “mondiale” o più “nazionale” a seconda della direzione in cui sta oscillando il pendolo della “sussidiarietà”: La sussidiarietà ha anche una dimensione culturale. Un mondo globalizzato ha bisogno di cittadini a proprio agio con una varietà di identità stratificate – delle matrioske. Ma questo significa prestare attenzione alle bambole più piccole e a quelle più grandi. Dobbiamo essere in grado di provare sentimenti di lealtà e identificazione di varia forza – verso la nostra comunità locale, il nostro villaggio o la nostra città, la nostra regione, il nostro paese, la nostra regione del mondo, la nostra comune umanità –, e fare in modo che si nutrano e fortifichino a vicenda senza restare intrappolati in un conflitto a somma zero (Crouch 2019, 88).

Infine, qualche annotazione sul principio di sussidiarietà in Italia. L’ordinamento giuridico italiano ha introdotto per la prima volta il principio di sussidiarietà recependo il diritto comunitario, poi persino costituzionalizzandolo nell’art. 118 nel 2001 (seguito dalla legge di attuazione del 5 giugno 2003, n. 131). La legge prevede, sulla base del suddetto principio, che Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarità (Art. 118).

Tale principio implica che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni necessarie per permettere alla persona e alle aggregazioni sociali (i cosiddetti corpi intermedi: famiglia, associazioni, partiti) di agire liberamente nello svolgimento della loro attività. L’intervento dell’entità di livello superiore, qualora fosse necessario, deve essere temporaneo e teso a restituire l’autonomia d’azione all’entità di livello inferiore. Il significato è che un’entità di livello superiore non deve agire in situazioni nelle quali l’entità di livello inferiore – fino ad arrivare al cittadino – è in grado di agire per proprio conto153. Un esempio in cui il principio è ope-

153 Va ricordato che un ordoliberale molto diffidente del “pubblico” può anche dubitare della bontà della sola sussidiarietà verticale, se argomenta come fa Antiseri (2005): se con l’introduzione della sussidiarietà verticale «per esempio, si dice che la Nazione farà quello che non farà l`Europa, la Regione farà quello

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rativo è quello del servizio sanitario nazionale (o dell’istruzione pubblica) quando cliniche private (o scuole private) svolgono in regime di convenzione funzioni di ospedali pubblici (o di scuole pubbliche) con l’intero rimborso dei costi. Da notare che vi sono due interpretazioni del principio di sussidiarietà, in rapporto alla facoltà o meno per i pubblici poteri di agire come sussidiari dell’azione dei privati singoli e associati: i) gli enti istituzionali possono agire, se la loro azione risulta più efficiente ed efficace dell’azione della libera iniziativa privata, ancorché regolamentata (la legge italiana riflette questa interpretazione), oppure ii) i pubblici poteri debbono agire solo tramite l’azione dei singoli e dei gruppi sociali liberamente costituiti ove essi esistano – oppure, nel caso ancora non esistano, debbono favorire e attendere i tempi di formazione e di azione di questi corpi intermedi prima di assumere una iniziativa potenzialmente concorrente. Cioè a dire che è vietato agli enti pubblici di sostituirsi ai corpi intermedi, a meno che questi ultimi ‒ che pure sono meno efficienti ed efficaci – non siano però nemmeno in grado di fornire il livello minimo essenziale rispetto a un bisogno della comunità. Appare evidente che la seconda interpretazione è molto restrittiva nei confronti delle competenze dei poteri pubblici. Inoltre va notato come implicitamente viene attribuita ad un corpo privato (o a un ente locale) nell’azione amministrativa la medesima legittimità che se l’azione fosse svolta dallo Stato. Quindi, anche in Italia con l’art. 118 si riscrive l’ambito del diritto pubblico e del “pubblico”, segnando un ritiro dello Stato dai suoi ambiti e compiti tradizionali attraverso un divieto ad agire entrato nella Costituzione; tale divieto assume, specie nella interpretazione al punto ii) sopra, aspetti paradossali: solo il privato può fornire servizi di interesse generale – e stiamo parlando

che non fa lo Stato, la Provincia farà quello che non fa la Regione, e i Comuni e le Aree metropolitane faranno quello che non fa la Provincia […] è chiaro che, se il principio di sussidiarietà verticale non viene esplicitamente coniugato con quello di sussidiarietà orizzontale, si cade in modo inequivocabile in una più subdola e pericolosa forma di statalismo celebrata nella formula: ciò che non fa il pubblico lo fa comunque il pubblico. E non è detto che il pubblico più vicino alla gente abbia il cappio meno stretto».

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per esempio di istruzione, sanità, poste, comunicazioni, etc. ‒ e questo persino se il privato fosse meno efficiente del fornitore pubblico. E in più, paradosso nel paradosso, se nessun privato fosse preparato a fornire il servizio alla comunità, allora la medesima verrebbe privata di quel bene in attesa che il privato divenga sufficientemente preparato (e, anzi, il “pubblico”, a proprie spese, deve supportare il privato affinché esso sia messo in grado di operare!).

17. Unione Europea: governo “pastorale” e “disciplinare” Fanti (2021) fornisce una analisi genealogica – a partire da Foucault – della lunga via percorsa dall’idea e dalla prassi di un “governo economico degli uomini”, che va dal pastorato cristiano alla contemporanea governance di stampo manageriale, di cui l’Unione Europea è individuata come un caso paradigmatico154. Nello specifico di un’analisi giuridica dei fondamenti dell’Unione Europea, i costituzionalisti De Lucia (2015) e Cantaro (2016), affermano che il rapporto che si crea tra la governance della UE e gli Stati nazionali ricorda assai da vicino quello tra pastore, pecora e gregge. Infatti, la governance della UE sarebbe dedita ad «assistere, persuadere, indirizzare le condotte di coloro che vi sono assoggettati a praticare quelle virtù economiche di frugalità e competitività necessarie a sopravvivere nell’epoca del capitalismo finanziario» (Cantaro 2016, 12). Al posto della legittimazione “metafisica” e della legalità “formale” della tradizione dello Stato europeo, la UE sostituisce, come narrazione auto fondante, la promessa di salvezza rivolta ai popoli europei. E per conseguire la salvezza promessa, bisogna che il pastore insegni – secondo le persistenti modalità tipiche della sorveglianza, della direzione, della raccomandazione, dell’avviso, dell’am-

154 «La governance costituisce l’insieme di pratiche giuridiche, regolative, relazionali che sostanziano quella “dittatura commissaria di mercato” che è l’assetto istituzionale della Unione Europea» (Fanti 2021, 473).

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monizione, del premio e della punizione, e così via155 – e le pecore accettino ed introiettino nella loro intima coscienza la verità: in questo caso siamo di fronte a delle verità – quelle economiche dell’ordoliberalismo – rappresentate come virtù incontestabili che esigono di essere insegnate e concretamente praticate (Cantaro 2016, 12).

De Lucia parte dal nuovo scenario istituzionale dei programmi di aggiustamento e di assistenza finanziaria, che implicano forme di ingerenza nelle politiche degli Stati beneficiati che appaiono inedite per l’ordinamento comune, disciplinate da una serie di normative frammentate, la cui formulazione finale è riassunta nel Reg. n. 472/2013. Sebbene questo nuovo scenario abbia ispirato una pletora di commenti, molti di questi hanno concordemente ravvisato in esso il manifestarsi di ulteriori elementi autoritari del sistema istituzionale dell’Unione (vedi paragrafi 11 e 12). Tuttavia, De Lucia si approccia con un’ottica diversa a commentare le dinamiche di potere in atto e le relative conseguenze nel sistema istituzionale europeo: l’ottica è quella di Foucault, con i due concetti relativi alle tecniche di potere per governare gli uomini, il pastorato cristiano e la tecnica disciplinare (categorie foucaultiane già applicate alle relazioni internazionali e adesso applicate al rapporto tra gli Stati e l’Unione Europea, in cui quest’ultima utilizza tali tecniche di potere mentre oggetti diretti della pressione pastorale e disciplinare sono essenzialmente le istituzioni nazionali, in primis i governi). In particolare, De Lucia rintraccia le peculiarità del potere pastorale nelle pratiche di controllo permanente sugli Stati che prendono le forme del Fiscal compact o del Mip, mentre individua i connotati del potere disciplinare nei regolamenti unionisti relativi agli adempimenti a cui devono sottostare gli Stati che chiedono assistenza finanziaria, come il MES. La somiglianza tra il pastorato cristiano e la attuale governance economica appare particolarmente evidente nella profonda dif-

155 «Non si tratta solo di insegnare ciò che si deve sapere e fare, né si tratta semplicemente di insegnarlo attraverso principi generali: è necessaria una modulazione quotidiana. L’insegnamento deve cioè avvenire attraverso l’osservazione, la sorveglianza, la direzione esercitata in ogni momento […] sulla condotta integrale delle pecore» (Foucault 2017, 138).

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ferenza fra la governance e il governo politico (goverment) liberale tradizionale (si rimanda a Fanti 2021, per ulteriori approfondimenti). Come sintetizza Somma (2019, 52) tale antagonismo oppone la governance in quanto forma di partecipazione ai processi decisionali alternativa al government: la prima celebrata come modalità cooperativa di risoluzione dei problemi incentrata sulla persuasione, e il secondo stigmatizzato perché rinvia agli schemi gerarchici tipici dello Stato nazionale, avvezzo ad operare attraverso divieti e imposizioni.

Per De Lucia, se si definisce il pastorato come «un insieme di tecnologie incentrate su un regime di verità, finalizzate ad assistere, persuadere e indirizzare le condotte di coloro che vi sono assoggettati in vista della loro stessa salvezza» che si esercitano particolarmente, nelle parole di Foucault, «attraverso l’osservazione, la sorveglianza, la direzione esercitata in ogni momento», risulta evidente, negli ordinamenti giuridici e nelle prassi codificate dell’Unione, il ruolo pastorale della Commissione e delle altre istituzioni, anche se, in realtà, il rapporto tra pastore, singola pecora, gregge, verità e salvezza è molto articolato. Vediamo alcune caratteristiche del pastorato foucaultiano e osserviamo come corrispondano alla gestione tipica della governance nella sua declinazione unionista. Innanzitutto, anche in quest’ultima ci deve essere una verità incontestabile come quella cristiana che è alla base dell’impegno pastorale. Nella UE la verità è la scienza economica, officiata dagli esperti che soli conoscono i principi non contestabili; questa expertise – peraltro corrispondente alla specifica dottrina economica del neo-ordoliberalismo – è alla base della costruzione e giustificazione dei dispositivi di attuazione e controllo della UE, che sono davvero complicatissimi e incomprensibili, come peraltro devono essere i dogmi e i teolegumeni. In secondo luogo, gli strumenti del pastore per governare gli uomini sono principalmente due: la direzione di coscienza e la confessione, ovvero l’estrazione della verità dalla pecora stessa, che implica una intima e totale conoscenza di ciascuna pecora fin

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nei suoi più reconditi pensieri156. È facile notare la similitudine fra le pratiche unioniste e quelle pastorali di cui sopra: il pastore UE richiede agli Stati-pecorelle di fare esami di coscienza approfonditi, da cui fare emergere le verità del mercato e della concorrenza, e di confessarsi ripetutamente, regolarmente e esaustivamente, attraverso richieste di informazioni e documenti di tutti i tipi, quali, ad esempio – fra le centinaia di tipologie annidate nelle pile di regolamentazioni accumulate e modificate negli anni – i programmi di stabilità, i programmi nazionali di riforma, i programmi di bilancio nazionali a medio termine, nonché i continui incontri e il rimpollare di tavoli, con i quali si realizza un controllo continuo, prolungato, con oggetto tendenzialmente illimitato che si avvicina molto a una sorta di “esame di coscienza” che ogni governo nazionale è tenuto a fare di fronte alla Commissione (confessando tutte le sue aspirazioni) (De Lucia 2015, 883).

Investigazione ed esame di sé sono le tecniche grazie alle quali ciò che permetterà al potere del pastore di esercitarsi e all’obbedienza di compiersi sarà una certa verità […]. È questa particolare verità a costituire la base del rapporto di obbedienza integrale, su cui verrà costruita un’economia di meriti e demeriti […] rapporti nuovi, basati sui meriti e demeriti, sull’obbedienza assoluta e sulla produzione di verità nascoste (Foucault 2017, 140).

Il segreto del rapporto obliquo, indiretto, oblativo, tecnocratico, giuridicamente mediato da norme di soft low e di lex mercatoria, fra UE e Stati membri somiglia al segreto del potere del pastorato cristiano che non è semplicemente lo strumento dell’accettazione […] della legge, ma prendendo in qualche modo di traverso il rapporto con la legge, instaurerà una forma di relazione di obbedienza individuale che sarà esaustiva, totale e permanente (Foucault 2017, 140).

156 La forma di direzione di coscienza è tipica del pastorato; essa, al contrario della direzione attraverso il comando, agisce tramite «l’esame di coscienza proprio per sottolineare ulteriormente e in maniera ancora più netta il rapporto di dipendenza verso l’altro» (Foucault 2017, 140).

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Pensiamo al Mip e al complesso barocco delle procedure di valutazione da parte della Commissione rispetto agli squilibri presenti o solo presentiti negli Stati membri: meccanismo di allerta, vaglio delle singole situazioni economiche, stato di salute, esiti preoccupanti, esame approfondito, ma soprattutto la predisposizione di una classificazione dei vari livelli di obbedienza – di meriti e demeriti – fino ai disobbedienti che necessitano dell’intervento disciplinare: ad esempio, ciascun Stato viene collocato in una fra sei categorie, in base all’accertamento di: 1) non sussistenza dello squilibrio; 2) squilibrio che richiede un monitoraggio e un’azione politica; 3) squilibrio che richiede un monitoraggio e un’azione politica decisa; 4) squilibrio che richiede un monitoraggio specifico e un’azione politica decisa; 5) squilibrio eccessivo che richiede un monitoraggio specifico e un’azione politica decisa; 6) squilibrio eccessivo che richiede un’azione politica decisa e l’avvio della procedura per squilibrio eccessivo. È perfettamente coerente con il governo di tipo pastorale anche la caratteristica dell’azione della UE di essere sempre emergenziale, contingente e personalizzata per gli Stati (vedi i noti trattamenti diversi e specifici per Italia o Grecia): infatti il pastore non sarà pertanto l’uomo della legge, né il suo rappresentante; la sua azione sarà sempre congiunturale e individuale […]. Il pastore non è […] un giudice, ma un medico che si fa carico di ogni anima e della malattia di ogni anima (Foucault 2017, 132).

Non solo la pecora deve obbedire integralmente, ma anche il pastore deve essere convinto di essere al servizio delle sue pecore, di fare il loro bene: colui che è diretto, deve vivere il rapporto col pastore in termini di servitù integrale, mentre il pastore deve sentire la sua carica come un servizio che fa di lui il servitore delle sue pecore (Foucault 2017, 137).

È così che si deve sentire la Commissione, un oblatore, e i suoi gesti offerenti non sarebbero altro che i pareri e le raccomandazioni da essa formulati nei confronti dei singoli Stati, per esempio in relazione ai documenti che gli stessi devono periodicamente predisporre; pareri e raccomandazioni la cui finalità è quella di ammonire,

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sollecitare, incoraggiare […] il miglioramento delle condizioni dello Stato che ne è destinatario e il connesso adeguamento delle sue politiche (De Lucia 2015, 885).

Quando la Commissione europea opera la valutazione dei possibili squilibri macroeconomici degli Stati membri, analizzandone lo “stato di salute” e, nel caso si temano esiti preoccupanti, sottoponendoli ad un “esame approfondito”, non fa altro che applicare la tecnica pastorale che stabilisce e utilizza una “dettagliata economia dei meriti e dei demeriti”. E quando la Commissione rende meno stringenti i parametri dei provvedimenti UE (p.e., Fiscal compact) agli Stati che promuovono riforme di maggiore impatto sui bilanci pubblici, non fa altro che concedere un “premio pastorale” riservato ai virtuosi. Nonostante che, paradossalmente, lo zelo per la salvezza di una singola pecora non deve essere da meno di quello per il gregge157, in quanto il pastorato è un governo omnes et singulatim, tuttavia in certi casi il pastore può e deve escludere la pecora scandalosa affinché il suo comportamento non contagi tutto il gregge158. Prendiamo, ad esempio, il punto 17 del preambolo del Reg. UE 1176/2011 quando si legge che «è necessario intervenire in tutti gli Stati membri per sanare gli squilibri macroeconomici e le divergenze in materia di competitività, in particolare nella zona euro. Tuttavia, la natura, l’importanza e l’urgenza delle sfide politiche possono differire in modo significativo da uno Stato membro all’altro». Allora, basta sostituire, in questo testo, al singolo Stato la figura della pecora e all’insieme dei paesi dell’Unione (specie la UEM) quella del gregge, e non sarà difficile vedere in esso l’ap-

157 «qui sta il paradosso, la salvezza di una singola pecora deve sollecitare nel pastore altrettanto zelo quanto ne suscita la salvezza dell’intero gregge» (Foucault 2017, 128). 158 «il vescovo in quanto pastore può scacciare dal gregge le pecore che, a causa di una malattia o di uno scandalo, potrebbero contagiare tutto il gregge […] la necessità di salvare il tutto implica che, all’occorrenza, si debba accettare di sacrificare una pecora quando questa potrebbe compromettere la totalità. La pecora che dà scandalo, la pecora corrotta che rischia di corrompere tutto il gregge, deve essere abbandonata, eventualmente esclusa, cacciata ecc.» (Foucault 2017, 120, 128).

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plicazione del governo omnes et singulatim. E quando, nel medesimo punto, si legge, in riferimento agli squilibri in un paese, che «le loro potenziali conseguenze negative, sul piano economico e finanziario, che accrescono la vulnerabilità dell’economia dell’Unione e costituiscono una minaccia per il buon funzionamento dell’unione economica e monetaria», è altrettanto facile vedere che il pastore si sta preoccupando del contagio che la pecora deviante dalla norma può trasmettere al resto del gregge, con l’opzione, quindi, anche di escluderla. In ogni caso, le istituzione UE vegliano, come il buon pastore, affinché nessuno Stato (o pecora) possa farsi – e fare agli altri Stati (o gregge) –del male. Viene quindi da domandarsi se la UE sia effettivamente disposta a sacrificare la pecora “contagiosa”, per esempio per salvare l’euro. Secondo Cantaro la risposta è, con riferimento al noto caso greco, positiva: Una situazione ben nota ai governi e ai cittadini greci ai quali la governance economica europea ha, a più riprese, fatto intendere che la cosiddetta Grexit era un prezzo che il resto del gregge, per non essere anch’esso corrotto, avrebbe accettato. Con conseguenze catastrofiche – il ritorno al baratto, se non all’età della pietra – per la pecora indisponibile a farsi domare. L’Unione, a differenza del pastore foucaultiano, non intende immolarsi per soccorrere tutte le sue pecore. L’euro è salvo. Forse (Cantaro 2016, 13).

Peraltro, nel caso della Brexit è stata la pecora a cambiare gregge e pastore. Invece, nel caso di quegli Stati membri che beneficiano di assistenza finanziaria – dal Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF), dal MES, dal FESF o dal FMI – De Lucia rintraccia, nelle azioni che i finanziatori possono fare sugli Stati riceventi, una sorta di disciplinamento della sovranità statale, nel senso che Foucault ha dato a tale termine 159. Lo Stato richiedente assistenza finanziaria, si assoggetta, più o meno volontariamente

159 «La disciplina, in modo non diverso ma più intenso del pastorato, rappresenta l’applicazione di una specifica scienza a degli individui per rafforzarli, attraverso un esercizio graduale, protratto lungo una scala temporale» (De Lucia 2015, 887).

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e si sottopone all’esercizio disciplinare realizzando le correzioni politiche ed economiche, analiticamente dettagliate e conformi agli standard disciplinari (correzioni che, peraltro, non avrebbe potuto realizzare da solo, causa, per esempio, l’opposizione democratica), sotto la sorveglianza e con l’approvazione di esperti. De Lucia sottolinea che la giuridicizzazione di piuttosto vaghi concetti economici (p.e., buona salute economica, competitività, sana situazione dei bilanci pubblici o politica di bilancio virtuosa degli Stati membri) conduce a un sistema “ibrido”, comprendente simultaneamente hard law e soft law, e ad una contraddittoria situazione: da un lato, vi è un eccesso di regolazione giuridica, che come una ragnatela imprigiona qualsiasi condotta di politica economica degli Stati, mentre, dall’altro lato, il sistema normativo tende a “de-legalizzare” per lasciare spazio alla non-democratica discrezionalità della tecnocrazia e alle modalità aziendalistiche della governance. Tuttavia questa contraddizione sarebbe solo apparente se si utilizza la lente di lettura foucaultiana, secondo cui le condotte degli Stati sono gestite tramite le tecniche sia del pastorato che del disciplinamento. Di fatto il codice giuridico viene infatti ad essere limitato ai soli aspetti essenzialmente procedurali dei processi decisionali, ma nella sostanza tutto dipende da complicate valutazioni tecnico/economiche: le norme sulla governance economica hanno realizzato un sistema basato, più che sull’efficacia giuridica, su un insieme di conoscenze gestito dal pastore […] che, esaminando le prestazioni realizzate o progettate, è in grado di supportare, incoraggiare, avvertire (e all’occorrenza minacciare) lo Stato a perseguire politiche che possano portare al suo successo sul mercato (se del caso vincendo le tentazioni) (De Lucia 2015, 894).

D’altronde la soft law, o meglio gli strumenti a basso tasso di legalizzazione del Consiglio e della Commissione, come lo sono i pareri, gli avvisi, le raccomandazione, i moniti, le valutazioni, i progetti, le misurazioni, le statistiche, gli indicatori, i benchmarking, lo scambio di best practices, e così via scendendo con atti aventi sempre minor grado di forza giuridica, sono «indubbiamente i più idonei a realizzare un disegno istituzionale incentrato sull’autoregolazione e l’autoresponsabilità del singolo Stato, nel

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quale peraltro il pastore non debba rispondere delle relative scelte» (De Lucia, 2015, 895). Infatti, mentre colui che è governato secondo lo schema giuridico, o del comando di legge, riceve solo un obbligo di esecuzione senza necessità di adesione interiore, nel caso della direzione di tipo pastorale, mediante azioni aventi gradi “soffici” di legge, il governato si assoggetta volontariamente. Il governato pensa, nel primo caso, secondo la formula che “il potere politico vuole al posto mio e mi imporrà la sua volontà che io voglia o meno”, mentre nel secondo caso secondo la formula che “voglio che l’altro mi dica ciò che devo volere”. Questo implica anche che la soft law tipica della governance della UE «non si fonda sullo “schema della legge”, ma su quello della salvezza, ossia sulla virtù del soggetto» (De Lucia, 2015, 895). Un’altra ragione, per interpretare secondo il concetto foucaltiano della tecnica disciplinare alcuni aspetti della governance europea, è la seguente. Come è stato sottolineato, il persistente perseguimento da parte della UE degli obblighi di giuridicizzare, possibilmente a livelli costituzionali, le idee neo-ordoliberali è dovuto al fatto che in tal modo si intende fornire un comando “pedagogico” sovranazionale – tipico dell’intera nuova governance economica europea – in quanto il diritto svolge, come noto, anche una funzione educativo-pedagogica, ma «a corredo del monito di pedagogia istituzionale si sono approntate una serie di fitte gabbie legali – norme e sanzioni – che elevano l’obbligo morale (rectius: moralizzatore) a precetto giuridico» (Iannì 2017, 108). Ricordando il risalto dato nell’analisi foucaultiana anche alla natura terapeutico/pedagogica dei dispositivi disciplinari volti a rendere “docili” i corpi e le anime rispetto alle norme, allora può essere sottolineata la corrispondenza in termini di funzione pedagogica fra i programmi di ingerenza della UE negli Stati e la tecnica disciplinare. Peraltro, merita ricordare anche una interpretazione delle relazioni fra UE e Stati membri del tutto indipendente dalla lente di lettura genealogica foucaultiana, ma che però ne condivide l’af-

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flato “archeologico”, pur collocandosi non nel filone cristiano ma in quello specificamente ebraico. Joseph Weiler, rettore dell’Istituto universitario europeo di Firenze, il quale ha peraltro ritenuto che «l’Europa, dopo Maastricht, ha perso la sua anima profonda, la visione messianica della dichiarazione Schuman e l’aspirazione di Jean Monnet a “unire gli uomini, non gli Stati”» (Cantaro 2016, 5), propone una parabola di ambiente ebraico per gettare luce sulla relazione fra l’istituzione dell’Unione e le (crescenti) restrizioni della sovranità degli Stati membri. Per un ebreo osservante della religione basate sulla Legge, o nomos, non sarebbe facile fornire una motivazione per convincere il proprio figlio ad osservare tale Legge (al di là dell’ovvio riferirsi all’Autore da cui deriva il nomos), come, d’altronde, non lo sarebbe anche per chi volesse motivare la sottomissione e la lealtà nei confronti della Costituzione. Il filosofo Isaiah Leibowitz per trovare una risposta prende il caso delle osservanze rituali che riguardano e limitano i tre fattori centrali dell’esistenza mondana, il cibo, il lavoro e l’amore, ovvero le leggi sul cibo kosher, sul Sabbath, sulla purezza nelle relazioni sessuali. Queste limitazioni rituali non sono giustificabili secondo il razionalismo utilitarista, anzi apparirebbero ad esso probabilmente alquanto bizzarre e arbitrarie, e quindi, da questo punto di vista, il membro della comunità sarebbe osservante per la sola ragione di essere stato comandato ad esserlo, ovvero si tratterebbe di un’obbedienza pura e acritica e di sottomissione. Tuttavia, questa forma di sottomissione, condivisa dall’ebraismo ortodosso come anche da diverse correnti dell’Islam, contiene in realtà il seguente paradosso: nella misura in cui mi sottometto a un’autorità trascendente che non è di questo mondo, ottengo l’emancipazione e la liberazione dalle autorità di questo mondo, se mi rendo schiavo di un padrone estraneo a questo mondo non posso che essere indipendente dai padroni di questo mondo 160.

160 Infatti, secondo Weiler (2003, 30) «astenendosi dal mangiare tutto quanto si desidera, ci sì libera da una parte assai potente della nostra esistenza fisica. Accomodando la propria vita in modo tale da non lavorare il sabato, viene soggiogato il richiamo ancora più forte della carriera e del posto di lavoro. E trattenen-

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Weiler trae da questa parabola conclusioni che sono, secondo lui, valide per il discorso costituzionalista europeo: La prima è che un atto di sottomissione spesso è allo stesso tempo un atto di emancipazione e liberazione. La seconda è che, come ci insegna Aristotele, la virtù è un habitus dell’anima e le abitudini vengono instillate tramite la prassi. La terza è che il proposito di obbedire alla legge non coincide con le conseguenze di tale obbedienza. Il singolo può obbedire per segnalare la sua sottomissione all’autorità da cui emana il precetto, ma la conseguenza – non il suo proposito – può essere, appunto, l’emancipazione (Weiler 2003, 30-31).

Traslando queste conclusioni dall’ambito religioso ebraico e dagli insegnamenti aristotelici all’ambito dell’adesione degli Stati all’Unione, troviamo una genealogia differente da quella foucaultiana, per rintracciare tuttavia la medesima interpretazione, quella delle tecniche pastorali e disciplinari161 usate dalla UE per sottomettere volontariamente gli Stati alla verità salvifica del pensiero neo-ordoliberale.

18. La “costituzionalizzazione” del pareggio di bilancio Come abbiamo visto, l’UE ha marciato con insistenza per far inserire all’interno delle Costituzioni nazionali l’obbligo del pareggio di bilancio. Tale costituzionalizzazione elimina, almeno formalmente, in modo definitivo la discrezione parlamentare e quindi la sovranità popolare sulla fiscalità. In questo paragrafo ci occupiamo di mostrare che non solo la sottrazione della sovranità monetaria già avvenuta con la BCE, ma anche – e forse, secon-

dosi dall’abbandono sessuale, anche quando si ama davvero, anche se all’interno del vincolo matrimoniale, si asserisce un certo qual grado di indipendenza pure rispetto a questa parte tanto piacevole della nostra vita». 161 De Lucia (2015, 884) suggerisce che «una tesi non molto lontana da quella qui proposta è stata già formulata – sia pure in una prospettiva molto più ampia – da Joseph Weiler quando, a proposito del costituzionalismo europeo, ha narrato una parabola, la cui conclusione era, tra l’altro, che un atto di sottomissione può essere nel contempo un atto di liberazione e di emancipazione e che la virtù è un habitus dell’anima che si impone solo con la pratica».

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do taluni, soprattutto – quella della sovranità fiscale occupa un posto centrale nel progetto neo-ordoliberale162. In questo senso, Tarizzo (2020, 269) afferma che «sovrano è chi governa il fisco»163. Egli sottolinea la centralità della fiscalità nella nascita dello Stato moderno e soprattutto nell’idea di sovranità popolare che si afferma con la modernità. Infatti, se ancora nelle Rivoluzioni inglesi del Seicento il motivo economico fiscale può ancora confondersi con quello religioso, nelle successive rivoluzioni americana e francese tale motivo appare decisivo. La sovranità popolare viene strettamente associata alla sovranità fiscale. La nota massima della Rivoluzione americana (no taxation without representation) chiarisce senza possibilità di equivoci che sovrano è chi governa il fisco. Anche la Rivoluzione francese ebbe come una delle cause principali la crisi fiscale della monarchia, e fu proprio il governo rivoluzionario in nome del Popolo non solo a rivendicare ma addirittura a fondare la sovranità fiscale, basti pensare alle innovazione nelle forme finanziarie (gli assegnati) e le riforme dell’assetto fiscale e debitorio (Cambon), sovranità fiscale che richiede la sovranità del Popolo espressa nella cittadinanza e nella

162 Non a caso il pensatore che per alcuni versi ha indirettamente influenzato i neo-ordoliberali austro-tedeschi, Schumpeter, riconosce l’assoluta centralità della fiscalità nella storia dei popoli: «Lo spirito di un popolo, il suo livello culturale, la sua struttura sociale, gli atti che la sua politica può preparare – tutto questo e altro è scritto nella sua storia fiscale, spogliata di tutte le frasi. Chi sa ascoltare il suo messaggio qui discerne il tuono della storia del mondo più chiaramente che altrove» (Schumpeter cit. in Tarizzo 2020, 26). 163 Peraltro Tarizzo distingue anche due visioni contrapposte della sovranità, che ancora oggi possono aiutare a gettare luce sia sulla filosofia politica che sulla storia contemporanea, e che possono in sintesi farsi risalire a Hobbes e Locke, rispettivamente: secondo la prima «abbiamo una concezione teologico-politica che assolutizza la legittimità del sovrano e tende a renderla non negoziabile», mentre per la seconda «abbiamo una concezione economico-politica che vincola la sovranità al buon governo, alla corretta amministrazione delle res publicae, tenute distinte dalla proprietà privata con cui la proprietà pubblica deve scendere a patti. Mentre nel primo caso nulla (o quasi) giustifica la rivolta, nel secondo ogni offesa arrecata alla proprietà privata così come ogni atto di malgoverno o indebito tentativo di aggiudicarsi le res publicae (Locke pensava a Re Giacomo II d’Inghilterra) possono legittimare la Gloriosa Rivoluzione dei sudditi» (Tarizzo 2020,271-272).

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rappresentanza, e per questo richiede una identità collettiva164. La quasi identificazione della sovranità politica con quella fiscale viene esemplificata perfettamente dal fatto storico che non tutto il popolo ma solo chi pagava le tasse aveva il diritto di esprimersi per le decisioni in materia fiscale165. Insomma, si può in gran parte convenire con la proposizione che la sovranità la esercita chi ha il controllo del fisco. Tarizzo sottolinea come in Europa l’attenzione sia stata rivolta soprattutto alla cessione di sovranità sulla moneta da parte degli Stati, ma, se si vuole parlare di vera perdita di sovranità bisognerebbe invece soprattutto guardare al fatto che la UE ha posto vincoli alla sovranità nazionale in tema di fiscalità, e in particolare non soltanto prescrivendo vincoli di spesa (che sono quelli mediaticamente più discussi) ma anche forti vincoli al potere di tassazione degli Stati, sottraendo così la sovranità agli Stati Membri proprio nelle sue fondamenta. Il caso della Brexit fornisce l’esempio di quanto possa essere ritenuta importante proprio la sovranità fiscale nazionale, in quanto la Gran Bretagna posse164 «La sovranità reclamata dalla “Nazione” – o, il che per Sieyès era lo stesso, dal Terzo Stato – era, per prima cosa, la sovranità fiscale. E il problema che la “Nazione” francese dovette affrontare a quel punto fu il problema che travaglia tutte le nazioni moderne: affinché sia possibile approntare un sistema di prelievo adeguato ai bisogni degli Stati moderni, che nel corso dell’Ottocento e del Novecento cresceranno fino a raggiungere dimensioni impensate nei secoli precedenti, è necessario che si crei un sentimento di mutua solidarietà tra i cittadini e un senso di appartenenza collettiva alla medesima persona plurale, “noi”, che veglia sui singoli “io”» (Tarizzo 2020,275-276). 165 «Chi deve esercitare la sovranità fiscale una volta entrati nell’era della sovranità popolare? Il Popolo, certo, ma non tutto il Popolo versava le tasse o ne pagava abbastanza nell’Inghilterra del Settecento, o sul continente europeo a inizio Ottocento, o negli Stati Uniti d’America durante lo stesso periodo […] primo, solo chi dava un sufficiente contributo all’erario poteva avere voce in capitolo su quanto si dovesse esborsare di volta in volta, sullo sfondo di una regolazione complessiva del sistema fiscale; secondo, solo chi dava un contributo sufficiente all’erario poteva aver voce in capitolo su come spendere e gestire il tesoro, ossia governare […]. L’idea era che cittadini sprovvisti di indipendenza economica e incapaci di versare allo Stato contributi che superassero una soglia minima (variamente definita a seconda dei contesti) non fossero in condizione di sviluppare un giudizio indipendente e affidabile sulla gestione della cosa pubblica, sul governo […] [questa] la posizione di quasi tutti i “liberali” in Europa […] Proprietas, non veritas, facit legem» (Tarizzo 2020, 277-278)

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deva già la sovranità monetaria (che pare invece essere quella più al centro delle critiche euroscettiche). In questo caso l’Unione Europea, proprio negli impedimenti alle manovre fiscali dei singoli Stati, sembrerebbe assumere il comportamento di una figura politica composita descritta dal costituzionalista Luciani (1998) e suggerita anche da Tarizzo: l’“antisovrano”. Si tratta, in ultima analisi, della figura corrispondente alla governance politica (che ha origine in quella aziendale) applicata dalle élite europee della UE come modello di governo sovra-nazionale in linea con la prassi dell’ideologia neo-ordoliberale (vedi Fanti 2021, parte II). Infatti, nella descrizione di Luciani (1998, 781), l’antisovrano è un quid che in tutto e per tutto si contrappone al sovrano da noi tradizionalmente conosciuto: non è un soggetto (ma semmai una pluralità di soggetti); non dichiara la propria aspirazione all’assoluta discrezionalità nell’esercizio del proprio potere (cerca anzi di presentare le proprie decisioni come logiche deduzioni da leggi generali oggettive, quali pretendono di essere quelle dell’economia e dello sviluppo); non reclama una legittimazione trascendente (che sia la volontà di Dio oppure l’idea dell’eguaglianza degli uomini), ma immanente (gli interessi dell’economia e dello sviluppo, appunto); non pretende di ordinare un gruppo sociale dotato almeno di un minimum di omogeneità (il popolo di una nazione), ma una pluralità indistinta, anzi la totalità dei gruppi sociali (tutti i popoli di tutto il mondo che ritiene meritevole di interesse); non vuole essere l’espressione di una volontà di eguali formata dal basso (si tratta infatti di un insieme di strutture sostanzialmente e talora formalmente organizzate su base timocratica).

Il tributarista Boria introduce il concetto di “tassazione negativa” per definire la politica dell’UE di sottrarre le questioni fiscali e, in particolare, il potere di tassazione agli Stati nazionali, politica che mira, in realtà, non tanto a sostituire le fiscalità nazionali con una fiscalità sovra-nazionale, quanto piuttosto soltanto ad impedire che le democrazie nazionali possano usare il potere fiscale per fini che ostacolerebbero la libertà dei mercati ovvero il profitto dei capitalisti: La tassazione “negativa”, espressione di un’opzione ideologica orientata verso il concetto di mercato e la neutralità della finanza pubblica, è un chiaro indice di come il sistema giuridico della UE sia caratterizzato da

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una funzione sottrattiva, non sostitutiva, rispetto al potere di tassazione esercitato dai singoli Stati Membri. In altre parole, l’Unione Europea assume direttamente il potere di regolare alcune questioni fiscali sottraendole alla competenza degli Stati-nazione, e così riducendo la sovranità fiscale nazionale; detto ancora altrimenti, la legislazione europea non si presenta come una regolazione positiva della tassazione, e dunque come un sostituto del potere fiscale originariamente attribuito agli Stati-nazione, ma non fa che produrre una restrizione del potere di tassazione nazionale con lo scopo di impedire che esso possa andare in una certa direzione, in particolare che possa costituire un fattore di ostruzione alla libertà del mercato e alla struttura competitiva del business. La tassazione “negativa” segna esemplarmente il limite della sovranità nazionale in materia fiscale, senza rimpiazzarla con una nuova sovranità fiscale europea (Boria 2017, 198).

Pertanto anche Boria associa la UE all’“antisovrano” e ne sottolinea gli aspetti deficitari in senso democratico (già discussi ampiamente nei paragrafi precedenti) della sua (anti) “sovranità”: l’Unione Europea costituisce un «antisovrano», il quale si contrappone al potere nazionale non per introdurre una nuova sovranità ma per contenere e talvolta annullare la sovranità degli Stati-nazione. D’altronde, è risaputo che l’Unione Europea presenta aspetti istituzionali inconciliabili (quantomeno nella versione attualmente regolata dai Trattati) col concetto moderno di sovranità. Soprattutto, la UE difetta delle due precondizioni fondamentali della sovranità: l’idea di un potere ascendente (determinato dalla rappresentatività popolare) e il legame con un popolo-nazione (Boria 2017, 198).

Tuttavia, per Tarizzo, la UE mira, nel condurre il suo attacco alla sovranità fiscale nazionale, soprattutto ad attaccare la sovranità popolare, per lasciare uno Stato nazionale non tanto de-sovranizzato ma piuttosto con nuove regole e competenze che lo “immunizzino” appunto dalla volontà popolare, uno Stato rimodellato, secondo gli obiettivi neo-ordoliberali, con una sovranità negativa, che per Tarizzo rappresenta la situazione dei quasi-Stati inizialmente formatisi dalla decolonizzazione, già formalmente indipendenti ma ancora privi della possibilità di esercitare una sovranità positiva nel senso di intervento attivo nei vari ambiti di competenza statuale (economia, scuola, sanità, ricerca, sicurezza

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sociale etc.); quindi, lo Stato neo-ordoliberale è un quasi-Stato, poiché anche lì la sovranità positiva tende ad essere disattivata, azzerando (o riducendo prepotentemente) la possibilità di decidere quali tipi di intervento politico-economico attuare, con l’effetto di slegare vieppiù lo Stato dai cittadini. Lo Stato neoliberale assomiglia, in tal senso, a una quasi-colonia (Tarizzo 2020, 280).

In conclusione, nel caso in cui si identifichi, con alcuni buoni motivi, la sovranità statuale con la sovranità fiscale, bisogna sottolineare che l’attacco della UE alla sovranità nazionale, avviene non solo imponendo restrizioni di spesa pubblica ma soprattutto, anche se meno percepito, restringendo il potere di tassazione; in particolare la riduzione del gettito fiscale statale è stata originata dal fatto che il sopradetto sistema di tassazione «negativa» imposto dalla UE ha colpito l’imposizione fiscale indiretta in molti suoi elementi (basti pensare alla eliminazione dei dazi doganali o dell’economia statale). Per immaginare le conseguenze di ciò, merita allora accennare anche alle suggestive similitudini che Tarizzo propone fra la Francia del secondo Settecento e quella nell’Europa odierna: Esiste una vaga analogia tra la crisi nella Francia prerivoluzionaria e quella nell’Europa odierna. Non voglio certo insinuare che siamo all’alba di una rivoluzione. Ma il tipo di crisi fiscale in cui la Francia si consumò per anni è abbastanza simile alla crisi attuale. In Francia, come detto, il livello di imposizione fiscale indiretta aveva toccato limiti mai raggiunti prima e l’alto livello del debito pubblico rendeva problematico rivolgersi ai banchieri, sicché parve necessario aumentare gli introiti estendendo le imposte dirette e abolendo i privilegi della nobiltà e del clero. In Europa, ci troviamo in una situazione non troppo diversa, anche se più complessa (Tarizzo 2020, 283).

Peraltro, la politica della UE, come delle altre organizzazioni sovranazionali, ha già, fin dalla basilare decisione fondativa della libera circolazione di merci e capitali, sferrato un duro colpo alla “sovranità fiscale” degli Stati nazionali. Sono i mercati reali e finanziari che fanno le regole del gioco, perché tengono in pugno gli Stati nella misura in cui questi hanno perso la loro sovranità, e in particolare quella fiscale. L’argomentazione è estremamente

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semplice: lo Stato non può più scegliere di tassare né i capitali reali (le imprese) né quelli finanziari per il semplice fatto che i capitali sono liberi di circolare e vanno dove sono meno tassati. Anche le imprese vanno dove sono meno tassate e dove costa meno produrre. Se possono trasferirsi le imprese, e quindi capannoni e macchine ecc., immaginiamo di come possono volare i soldi, che ormai sono tutti virtuali (Bin 2013, 376).

Se diventa difficile tassare questi capitali166, ogni Stato tenterà di tenersi buoni i capitalisti cercando di offrire loro le migliori condizioni, ovvero di rinunciare il più possibile alle proprie prerogative di sovrano fiscale. Questo implica una “competizione “fiscale” (tax competition)167 al ribasso fra i vari Stati per poter mantenere il proprio capitale o sottrarlo agli altri paesi; come scrive Chiarini (2017, 61) «l’aver accettato di aprire i mercati a livello di organizzazione mondiale del commercio, per cui merci e capitali possono circolare liberamente ha portato […] ad una tax competition esasperata che sgretola la sovranità degli Stati nazionali, riducendo lo spazio europeo ad una sorta di comunità di competitori fiscali a ribasso». Le frontiere aperte secondo le politiche UE – unite alla mancanza di un’armonizzazione fiscale su scala europea e mondiale – significano la fuga dei capitali per quantitativi enormi dai paesi di origine verso paesi con regimi fiscali più vantaggiosi168.

166 «Il fatto stesso che la fiscalità non coincida più con le dimensioni del mercato spinge verso il decentramento. Ad esempio ci sono cespiti che a livello nazionale non si riescono più a tassare, perché la mobilità dei capitali impedisce pure di identificarli» (Bordignon 2012, 12). 167 Persino l’ex-presidente “tecnico” Monti, non certo un anti-europeista, osserva: «una moderata concorrenza fiscale tra gli Stati europei può sortire effetti positivi, inducendo i singoli paesi a gestire in modo più accorto le finanze pubbliche. Oggi però siamo di fronte ad una concorrenza eccessiva. La libera circolazione dei capitali e delle persone consente di trasferirsi agevolmente in un altro paese portando con sé il proprio denaro, ed il vincolo di decidere all’unanimità in materia fiscale diventa ancora più nefasto all’aumentare del numero degli stati membri» (Goulard e Monti 2012, 84-85). 168 Tale fenomeno è stato da alcuni chiamato, in modo ironico, “effetto Depardieu” alludendo all’attore francese che spostò i propri capitali in Russia in risposta all’imposta del 75% sui grandi patrimoni durante il governo Hollande.

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Peraltro, una inarrestabile conseguenza è che gli Stati mantengono la possibilità di ricavare l’indispensabile gettito solo dai lavoratori, i quali divengono sempre più tassati e ciò, insieme alla riduzione dei salari dovuti sia al trasferimento delle imprese nei paesi a basso costo del lavoro e del fisco, sia alla libera circolazione delle persone che stimola la concorrenza di manodopera immigrata, implica l’aumento della disuguaglianza: le imposte su capitali e imprese sono scese ovunque in Europa, scaricando l’onere fiscale sui cespiti non mobili, cioè in sostanza sui redditi del lavoro […] con il conseguente effetto di deflagrazione delle diseguaglianze sociali (Bordignon 2012,51).

Potremmo concludere, osservando che la riduzione della “sovranità fiscale” degli Stati nazionali non significa affatto un suo trasferimento alla UE, ma un corrispondente aumento della “sovranità” dei capitalisti cosmopoliti e, quindi, del loro potere. Delineata l’importanza della sovranità fiscale, affrontiamo, quindi, brevemente l’analisi rispetto a dove affonda le sue radici la richiesta del vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. Vedremo chiaramente come esso faccia parte dell’armamentario teorico e soprattutto ideologico del pensiero neo-ordoliberale fin dalla sua nascita. Ci sia consentita una breve digressione genealogica rispetto alla teoria della Public Choice. Come riportano van Horn e Klaes (2011) e soprattutto Jardini (2000, 312-319), i militari americani e la RAND Corporation svolsero nel secondo dopoguerra un ruolo cruciale nell’indirizzo e nel sostegno della scienza verso fini “politici”. L’élite militare degli Stati Uniti era ben conscia che i progressi della scienza e dell’ingegneria – pianificate secondo un modello militare che integrava strettamente i settori militare e industriale col mondo accademico – avevano svolto un ruolo decisivo nella vittoria della seconda guerra mondiale. Per mantenere questo modello (ed evitare che scienziati puri, ingegneri e scienziati sociali di alto livello preferissero i loro posti di lavoro nel mondo accademico) l’Air Force, in collaborazione con la Douglas Aircraft, creò la RAND Corporation, nel 1946, la quale, nel 1948, dopo essersi separata dalla Douglas Aircraft e divenuta una società privata senza scopo di lucro, si trasferì a Santa

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Monica in California. Lì si orientò allo studio di logistica, guerra e strategia prevalentemente attraverso l’analisi dei sistemi, che «univa l’econometria, la teoria dei giochi, la probabilità e la statistica, nonché la programmazione lineare e la programmazione dinamica», impiegando sempre più economisti e altri scienziati sociali che usavano l’analisi dei sistemi per questioni economiche e politiche169, anche se, in generale, come sostiene lo storico Amadae (2003, 41), la RAND ha utilizzato l’analisi dei sistemi per sviluppare «una scienza totale della guerra in cui qualsiasi problema logistico e strategico, non importa quanto complesso, potesse essere risolto con un’analisi quantitativa rigorosa». Arrow lavora presso la RAND e ne viene profondamente influenzato170, a partire dal libro pubblicato nel 1951 contenente il basilare “Teorema dell’impossibilità”, che probabilmente dà il via all’analisi economica dei processi politici e alla teoria della scelta sociale. In particolare, la RAND non ha semplicemente fornito ad Arrow un’ispirazione per quel libro, ma tutti i contributi seminali di Arrow all’economia – p.e. su “learning by doing”, economia dell’informazione e “ricerca e sviluppo” – hanno avuto, secondo lo storico Mirowski (2002, 299), «la loro genesi e motivazione in alcune iniziative di ricerca RAND». Per Amadae e deMesquita (1999), Arrow ricevette dal suo capo alla RAND, Helmer, il compito di derivare una singola funzione matematica che avrebbe predetto gli esiti politici collettivi per l’intera Unione Sovietica, e il futuro premio Nobel avrebbe affrontato il compito unendo la teoria dei giochi171 che era in voga 169 In termini pratici, «il programma di ricerca della RAND veniva considerato un successo o un fallimento dal fatto che i suoi risultati di ricerca facessero avanzare o meno gli interessi dell’Aeronautica» (Van Horn e Kleis, 306). 170 «Arrow ha ricevuto l’ispirazione per la sua pionieristica Social Choice and Individual Values (RAND RM-291, 28 luglio 1949) dalla sua estate del 1948 alla RAND» (Van Horn e Klaes 2011, 307). 171 Amadae e deMesquita (1999) riportano le parole «presuntuose» contenute nel testo di von Neumann e Morgenstern presentato come punto di origine di una teoria della scelta razionale dell’azione umana definitiva perché assiomatizzante i principi dell’agire razionale: «Vogliamo trovare i principi matematici completi che definiscono il comportamento razionale. per i partecipanti a un’economia sociale […] Il concetto immediato di una soluzione è plausibilmente un insieme di regole per ogni partecipante che gli dirà come comportarsi in ogni

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alla RAND172, la funzione di benessere sociale Bergsoniana, che tentava di tradurre le preferenze private in un’unica scelta pubblica, e l’analisi formale del voto proprio in quel periodo formulata pionieristicamente da Duncan Black 173. Peraltro è ancora un allievo di Arrow a fornire la prima analisi economica del voto; Anthony Downs, pubblicando nel 1957 la sua tesi, An Economic Theory of Democracy, in accordo con l’individualismo metodologico riduce i fini perseguiti dal governo e dalle istituzioni democratiche agli interessi dei singoli individui – agenti politici – che li compongono, svalorizzando del tutto i concetti di interesse pubblico e servizio pubblico174. Ancora due studiosi della RAND pubblicarono nel 1954 (Shapley e Shubik, 1954) un articolo in cui definiscono l’indice di potere come una formula matematica che esprime il potere di un legislatore in funzione della sua capacità di cambiare le decisioni. È quindi alla RAND che viene individuato un nuovo metodo su cui costruire uno studio dei processi politici, legislativi, istituzionali, insomma del “pubblico” e della democrazia, e anche della scienza della politica, di cui sia l’homo oeconomicus che la teoria dei giochi sono protagonisti. Questo approccio teorico della scelta razionale venne condiviso da studiosi di varie discipline, che formarono una comunità dedita alla diffusione interdisciplinare di tale approccio, di cui la Public Choice è un esempio primario. Lasciamo ad Amadae e deMesquita (1999, 278) la descrizione della formazione dei diffusori della teoria della scelta razionale:

situazione che potrebbe concepibilmente presentarsi» (von Neumann e Morgenstern 1944, 31). 172 Peraltro, come riporta Leonard (1992), il libro di von Neumann e Morgenstern ricevette poca attenzione al di fuori della RAND Corporation, dove ai matematici fu assegnato il compito di esplorare la sua rilevanza per il rischio nucleare. 173 È anche probabile che Arrow abbia incontrato una copia di On the Rationale of Group Decision Making di Black quando ha lavorato come revisore per Econometrica. 174 Downs assume che gli agenti politici hanno come obiettivo la massimizzazione dei propri guadagni e formula il famoso teorema dell’elettore mediano (per vincere le elezioni e massimizzare i propri voti, i partiti politici devono spostarsi verso il centro per soddisfare l’elettore mediano).

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All’inizio degli anni ’60, si verificò un incontro di menti, che portò alla fondazione della Public Choice Society (originariamente chiamata Committee on Nonmarket Decision Making). I ricercatori attivi nei suoi primi incontri includevano i successivi Nobel Herbert Simon (economia e amministrazione pubblica), John Harsanyi (matematica) e James Buchanan (finanze pubbliche), nonché Gordon Tullock (finanze pubbliche), John Rawls (filosofia), James S. Coleman (sociologia) e William Riker (scienza politica)175. La Public Choice Society è degna di nota per aver contribuito a generare la massa critica necessaria per stabilire l’approccio della scelta razionale come metodo di indagine a livello accademico. Nel fondare la società, i membri si sono assicurati che la loro nuova disciplina avrebbe beneficiato di una rete attiva di intelletti con mentalità simile. A tal fine si sono tenute riunioni annuali. La società ha anche avviato una rivista permanente, Public Choice, che è stato uno dei primi segni che l’approccio formale alle decisioni collettive non di mercato stava maturando in un programma di ricerca riconoscibile.

Che i metodi dell’economia, basati in particolare sull’assunto che l’azione razionale individuale ed egoista caratterizzi il comportamento umano – la teoria della scelta razionale – si siano diffusi dall’economia alle altre discipline quali la scienza politica, costituisce la cosiddetta tesi dell’imperialismo economico (Stigler 1984). Date queste premesse e ramificazioni, la nascita della teoria della Public Choice e della sua branca che qui interessa particolarmente, l’”economia politica costituzionale”, è per convenzione, attribuita principalmente al Nobel Buchanan e al suo libro del 1962, scritto con Tullock, The Calculus of Consent: LogicalFoundations of Constitutional Democracy. Per questo una breve analisi del lavoro di Buchanan e Tullock (BT) consente di concentrare le caratteristiche peculiari dell’economia costituzionale. Anche BT riconoscono che le autentiche radici intellettuali della teoria della Public Choice (anche se una sua qualche prefigu175 Come specificamente analizzato da Amadae e deMesquito (1999), Riker guiderà la scuola di scienze politiche di Rochester, la quale farà da battistrada nell’uso dei modelli formali dei processi decisionali collettivi basati sull’assunzione di un’azione razionale individuale egoista, ovvero della teoria della scelta razionale per studiare processi politici come le elezioni, il comportamento legislativo, i beni pubblici, la formazione di trattati e la strategia diplomatica nelle relazioni internazionali.

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razione può essere rintracciata nella scienza politica propriamente detta176), vanno ricercate altrove, cioè essa ha un debito intellettuale verso la teoria dei giochi e l’economia contemporanea per averci fornito l’apparato concettuale e le tre linee guida che hanno orientato la nostra indagine. In primo luogo, la teoria dell’utilità – che è stata in larga misura elaborata dagli economisti ma nel contempo ha tratto grande vantaggio dal lavoro dei teorici dei giochi – ci ha indotto a concentrare l’attenzione sul calcolo decisionale dell’individuo singolo. In secondo luogo, la teoria dei giochi in particolare, ma anche la nostra formazione economica, ci hanno spinto a ricercare “soluzioni” a “giochi politici” ben definiti. Infine, la political economy e gli sviluppi della statistica ci hanno portato a individuare un insieme di “regole del gioco politiche ottimali”, assumendo il punto di vista di un attore che cerca di massimizzare la propria utilità (BT 1998, 432).

BT, ricordando che le origini stanno nei lavori di tre matematici e fisici francesi all’epoca della Rivoluzione (Borda, Condorcet e Laplace) e dell’autore di “Alice nel paese delle meraviglie”, il reverendo Dodgson (Lewis Carrol), ripresi da Duncan Black in The Theory of Committee and Elections (che raccoglie articoli pubblicati tra il 1948 e il 1949), attribuiscono il lungo oblio di questi antichi lavori, prima che Black e la Scuola della Public Choice li riportassero all’attenzione, al fatto che essi costituissero una sfida alla “sacralità” della democrazia: credo che la tendenza a nasconderla in tutti i modi possibili possa essere attribuita all’importanza della sfida che essa poneva alla dottrina democratica tradizionale. Questi studiosi avevano individuato un problema che, pur essendo centrale per la teoria tradizionale, resisteva a tutti i tentativi di risolverlo. In un’epoca in cui la democrazia era quasi una religione non c’è da stupirsi se la maggior parte degli studiosi evitò di affrontarlo (BT 1998, 434).

176 Buchanan e Tullock riconoscono anche come predecessore la scuola di Scienza politica di Bentley (1935, pubblicato per la prima volta nel 1908): «la nostra concezione del processo democratico ha molto in comune con quella della scuola di scienza politica che prende le mosse da Arthur Bentley per spiegare le decisioni collettive nei termini di un’interazione tra interessi di gruppo. In tutta la nostra analisi il termine «gruppo» potrebbe sostituire il termine «individuo» senza alterare in modo significativo i risultati» (BT 1998, 53).

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Anche Arrow è riconosciuto come un precursore, ma soprattutto nella misura in cui la sua teoria poteva rappresentare un attacco alla democrazia: «Nonostante lo stile difficile ed ellittico, egli implicitamente contribuì a confutare definitivamente la teoria della democrazia fondata sulla «volontà della maggioranza». Tuttavia Arrow viene criticato principalmente non tanto per aver sostenuto che gli esiti del voto democratico non soddisfano il pre-requisito della “razionalità”177, ma soprattutto per aver sostenuto che «similmente, il meccanismo di mercato non crea una scelta sociale razionale», per la qualcosa lo accusano di «non aver compreso la natura del mercato. Esso non crea alcuna “scelta sociale” in quanto tale, e la razionalità o l’irrazionalità in questo caso sono completamente irrilevanti» (BT 1998, 442). Osserviamo almeno cinque caratteristiche fondamentali che sono al cuore del pensiero di Buchanan e della sua scuola. La prima è il rifiuto della concezione organica dello Stato, della filosofia politica tedesca e degli ideali di democrazia, per esempio, di Rousseau, la cui “volontà generale” viene definita “mistica”: Lo Stato organico ha un’esistenza, un modello di valori e una motivazione indipendente da quella degli esseri umani individuali che pretendono di farne parte […] mettendo in discussione aspetti più controversi come quelli che sottendono l’idea di una “volontà generale”. Infatti è solo all’interno di una concezione organica della società che si può postulare l’emergere di una mistica volontà generale (BT 1998, 56).

177 In questo caso BT ritengono ancora accettabile il risultato di Arrow in quanto esso rivelerebbe comunque una debolezza della democrazia: «Il libro fu pubblicato nel 1951, alla fine di una fase durata un secolo in cui la quantità delle decisioni politiche era costantemente cresciuta nei governi democratici. A quell’epoca gran parte della comunità intellettuale riteneva che la soluzione a molti problemi fosse quella di affidarne la gestione al governo democratico. Se i governi devono risolvere praticamente tutti i problemi e occupare un ruolo notevole all’interno dell’apparato economico, è evidente che devono funzionare in modo razionale. È difficile sostenere che una determinata attività debba essere affidata al governo, se poi il processo decisionale pubblico è analogo al lancio di una moneta» (BT 1998, 441).

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Le versioni ideali della democrazia, come ci sono pervenute dalla storia e dalla filosofia politica, appartengono alla concezione organica dello Stato e quindi per questo da rifiutare: «Ridotte all’essenziale, molte versioni ideali della democrazia non rappresentano che varianti della concezione organica» (BT 1998, 56). BT considerano, con una bizzarra opinione, che la concezione organica estrema dei filosofi politici tedeschi sia diametralmente opposta alla tradizione filosofica occidentale, nella quale l’individuo, secondo loro, è considerato l’entità filosofica fondamentale. Gli interessi pubblici non devono essere più oggetto di studio, perché in realtà non esistono seppure siano mitizzati come il Graal: «si abbandona la ricerca di qualche “interesse pubblico”, che ha molto in comune con quella del Santo Graal» (BT 1998, 56). La seconda caratteristica è l’anti-marxismo esplicito. Infatti, al pari della concezione organica dello Stato deve essere rifiutata a priori anche quella marxiana178, o quelle che comunque contemplino un conflitto fra classi o fra grandezze collettive: rifiutiamo anche qualsiasi teoria o concezione della collettività imperniata sull’idea dello sfruttamento di una classe dominata da parte di una classe dominante. Alludiamo in particolare alla concezione marxista […]. Qualsiasi concezione dell’attività dello Stato che divida la società in una classe dominante e in una classe oppressa, e che consideri il processo politico come un semplice strumento attraverso cui viene imposto e

178 Il rifiuto di ogni concezione marxiana dello Stato è tale che persino un possibile equivoco o un falso sapore allusivo devono essere estirpati dalla teoria buchaniana, tanto da condurre alla eliminazione dell’innocente aggettivo “economico” perché potenzialmente allusivo al marxismo, come si rileva dal conseguente cambio del titolo iniziale del libro di Buchanan e Tullock: «La concezione dell’attività politica imperniata sulla classe dominante finisce per essere strettamente legata alla nostra a causa di una sfortunata identità terminologica. Per accidente storico infatti questa concezione, nella sua variante marxiana, ha finito per diventare nota come l’interpretazione «economica» dell’attività dello Stato. La dialettica marxiana, con l’importanza che attribuisce alla posizione occupata nella struttura economica come fonte primaria del conflitto di classe, ha fatto sì che il termine «economico», in sé del tutto innocente, venisse impiegato in modo assolutamente fuorviante. Proprio l’uso e l’abuso di questa espressione ci hanno indotto a modificare l’originario sottotitolo di questo volume, che suonava «Teoria economica delle costituzioni politiche» e che è diventato quello attuale» (BT 1998, 57).

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mantenuto il dominio di classe, deve essere considerata irrilevante […]. Questa conclusione è valida sia che si concepisca la classe dominante come la intendeva Marx, cioè i proprietari dei mezzi di produzione, sia che la si individui in un’aristocrazia di partito o in una maggioranza caratterizzata da unità d’intenti (BT 1998, 56-57).

La terza caratteristica è l’esplicita assunzione del postulato dell’individualismo metodologico: per comprendere qualsiasi fenomeno collettivo (in questo caso le istituzioni politiche come gli enti pubblici o persino i partiti) si deve far riferimento soltanto al comportamento degli individui – e alle interazioni fra questi comportamenti – che compongono tale collettivo179. L’individualismo metodologico si contrappone in modo netto all’organicismo sia rispetto allo Stato che alla società: Avendo rifiutato la concezione organica dello Stato […] ci ritroviamo con una concezione puramente individualista della collettività. Consideriamo l’azione politica come il prodotto dell’azione di individui che scelgono di perseguire i loro scopi collettivamente piuttosto che da soli, e il governo niente di più di un insieme di processi, un meccanismo, che consente a tale azione collettiva di aver luogo. Questa prospettiva fa dello Stato qualcosa che è costruito dagli uomini, un artefatto che è per sua natura suscettibile di essere modificato e perfezionato (BT 1998, 58).

L’ambito politologico recupera il soggetto collettivo del gruppo, ma adesso il gruppo è considerato solo nelle unità che lo compongono, unità rappresentate dall’homo oeconomicus, col che la teoria della scelta razionale180 fa il suo ingresso totale in tale ambito.

179 «L’espressione che meglio descrive questo lavoro è forse “individualismo metodologico”; con ciò si vuole intendere che i singoli esseri umani costituiscono la fondamentale unità di analisi e l’azione collettiva, così come quella individuale, è determinata dalle loro scelte» (BT 1998, 36). 180 Peraltro BT ammettono che, a causa di incertezze varie, la scelta razionale individuale rispetto a “beni” sociali risente di una razionalità non piena: «potremmo attenderci che gli individui siano meno razionali nella sfera delle scelte pubbliche rispetto a quella delle scelte private». Il motivo della non pienezza «risiede nel diverso grado di responsabilità sulle decisioni finali. La responsabilità di una determinata scelta privata ricade esclusivamente su colui che prende la decisione. I costi e i benefici sono tangibili, e l’individuo tende a considerare molto attentamente le alternative che ha di fronte. Al contrario, nell’ambito delle decisioni collettive, non può mai esserci una corrispondenza così precisa tra l’azione

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La quarta caratteristica è che il trasferimento dell’homo oeconomicus nella sfera politica, trasforma l’interesse di chi agisce in tale sfera da “pubblico” a “personale”; in particolare, per tali attori, adesso viene a rilevare l’interesse a massimizzare la propria utilità o guadagno, il che avviene ottenendo e conservando i migliori posti nella struttura delle istituzioni pubbliche: 1) i “politici” hanno l’obiettivo della elezione o della ri-elezione; 2) gli “amministrativi” – la burocrazia – l’obiettivo della perpetuazione ed espansione delle loro prerogative nella gestione. Per esempio, i burocrati agiscono sia per espandere la dimensione del proprio ufficio che quella del proprio stipendio: Secondo semplici ipotesi di Public Choice theory, potremmo prevedere che i voti dei burocrati sarebbero stati in parte diretti all’espansione delle dimensioni delle loro agenzie e in parte all’aumento dei propri stipendi […]. Fintanto che gli uffici o le agenzie rimangono relativamente piccoli, l’espansione delle dimensioni degli uffici offre probabilmente la ricompensa più interessante per i burocrati. Man mano che le agenzie diventano più grandi, tuttavia, e i membri della burocrazia arrivano a costituire una quota sempre più ampia del collegio elettorale totale, la possibilità dell’uso del potere di voto dei dipendenti pubblici per aumentare gli stipendi diventa direttamente reale (BT 1977, 148).

La quinta caratteristica è costituita dalla rappresentazione del processo politico-legislativo come un normale meccanismo di mercato. Come chiosa Buchanan nella sua lettura per il premio Nobel: La differenza rilevante tra mercati e politica non risiede nei tipi di valori/interessi che le persone perseguono […]. Al mercato, gli individui scambiano mele con arance; in politica i privati si scambiano quote convenute in contributi per le spese di ciò che si desidera comunemente, dai servizi della locale caserma dei vigili del fuoco a quella del giudice (Buchanan 1986).

individuale e il risultato, anche se quest’ultimo viene predetto con accuratezza. Il votante riconoscerà, naturalmente, l’esistenza di costi e benefici associati all’intervento pubblico, ma né la sua parte di benefici né la sua parte di costi possono essere stimate con una facilità paragonabile a quella delle scelte di mercato» (BT 1998, 87).

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BT sottolineano che, nella loro visione, l’azione politica è sia “amorale” che “benefica” (cioè mirante ad ottenere vantaggi per tutti, proprio come si dice che faccia il “mercato”) e che quindi sia una rappresentazione più adeguata persino per le “anime belle” che nella politica vedono la realizzazione di valori positivi181; questo perché nella visione tradizionale l’azione politica è descritta invece come una lotta fra classi in cui qualcuno vince a spese di chi perde, e, inoltre, secondo tale visione la democrazia maggioritaria potrebbe essere mantenuta solo invocando le norme morali del comportamento umano182. La sesta caratteristica è che BT si concentrano sull’applicazione della teoria della scelta razionale degli individui al quadro costituzionale che costituisce e garantisce l’insieme di regole per i mercati su cui gli individui razionalmente sceglieranno e scambieranno i beni, pubblici o privati che siano. Poiché BT ritengono di poter valutare se «modificazioni specifiche nell’insieme dei vincoli che chiamiamo governo possano rendere le cose “migliori” o “peggiori”» definiscono razionalista l’approccio del loro libro, ma probabilmente per evitare l’equivoco sulla definizione, che è notoriamente invisa sia ai neoliberali austro-americani come Hayek che agli ordoliberali tedeschi, esplicitano il loro rifiuto dell’impiego di una “funzione di benessere sociale” perché «reintrodurrebbe in modo surrettizio una concezione organica» (BT 1998, 58) e impongono un criterio di “valutazione” ritenuto sufficientemente debole, ovvero l’unanimità:

181 «la nostra concezione del processo politico è sicuramente più congeniale di altre a coloro che in esso vedono “rose e fiori”, “desiderio di pace” o altri valori di questo tipo. Noi consideriamo infatti l’azione politica, o il processo di decisione collettiva, come una forma di attività umana che rende possibile il conseguimento di un mutuo vantaggio. Nella nostra prospettiva l’attività politica, come quella di mercato, è quindi un’impresa autenticamente cooperativa in cui tutte le parti hanno in linea di principio la possibilità di guadagnare qualcosa» (BT 1998, 355). 182 Se il “gioco” politico fosse, in effetti, simile […] alla dottrina della regola della maggioranza, la preservazione dell’ordine politico verrebbe a dipendere dalla forza dei vincoli morali sul comportamento umano. Se, al contrario, si adotta una visione più ampia e, crediamo, più «corretta» della scelta politica, viene meno la necessità di fare affidamento sui precetti morali» (BT 1998, 355).

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La nostra analisi dovrebbe consentirci di determinare a quali condizioni un dato membro del gruppo valuterebbe un determinato mutamento costituzionale come un miglioramento; quando tutti gli individui esprimono lo stesso giudizio, la regola dell’unanimità ci fornisce un criterio etico estremamente debole per affermare che un certo stato di cose è «migliore», un criterio che è implicito nella stessa concezione individualista dello Stato. Solo se si può mostrare che uno specifico mutamento costituzionale è nell’interesse di tutte le parti, sarà considerato un «miglioramento» vero e proprio […]. Per discutere la costituzione originaria o i miglioramenti a una costituzione esistente adotteremo il criterio dell’unanimità, cioè prenderemo in considerazione quelle proposte che beneficiano ciascun membro del gruppo sociale (BT 1998, 58-59).

I governanti e i legislatori, interessati solo alla propria utilità ricavabile dal consenso democratico, non potranno che soddisfare il più possibile le richieste dei propri elettori causando una crescita incontrollata delle spese e quindi del deficit. La logica conseguenza è una sola: il regime democratico implicherebbe ineluttabilmente la devastazione del bilancio. Tullock (1959), in particolare, mette in luce anche un altro meccanismo di crescita eccessiva della spesa pubblica in regime democratico-parlamentare, il cosiddetto log-rolling183; esso è per la verità causato principalmente dalle cosiddette lobby – rappresentanze di interessi forti che cercano di influenzare con denaro o altri incentivi dall’esterno i decisori pubblici per favorire i propri interessi – ma i teorici della Public Choice, forse presi dal loro biasimo ideologico per la democrazia parlamentare, ne attribuiscono soprattutto la fonte ai partiti 184 che – sebbene siano fra loro contrapposti – sarebbero incentivati dai meccanismi democratici

183 Con logrolling si può tradurre il noto motto latino do ut des, che in questo contesto può consistere nello scambio dei voti fra membri di organismi deliberativi al fine di ottenere l’approvazione di provvedimenti di interesse reciproco. 184 Questo punto è ben sottolineato da Iannì (2017, 103): «Così ragionando, tra le altre cose, si finisce per confondere pericolosamente le relazioni egoistico-privatiste con quelle solidaristico-pubbliche, dimenticando – o fingendo di dimenticare – che esiste pur sempre una netta distinzione tra partiti e rappresentanze elettorali, da un lato, e gruppi di potere/pressione dall’altro: solo i primi, e non anche i secondi, sono tenuti a motivare le loro scelte in modo trasparente, non ultime quelle di compromesso parlamentare sulle quali si imporrà il successivo giogo della responsabilità politica».

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stessi a comportamenti opportunistici, come un redditizio gioco di sostegni legislativi reciproci ed incrociati. Una volta costruita questa visione pessimistica del comportamento degli attori pubblici e delle procedure liberaldemocratiche, necessariamente conduttive al deficit di bilancio, non rimane a questi autori che perorare come unico rimedio alla inesorabile tendenza all’eccesso di spesa intrinseca alla democrazia liberale, la costrizione per via costituzionale – il testo normativo più alto – ad una politica annuale di pareggio del bilancio pubblico, indipendentemente quindi dalle necessità dei “fini” che la politica democratica si darebbe, compreso quello redistributivo. Su questo fondamentale punto, la chiarezza di questi teorici è icasticamente esemplare: «È necessaria una norma costituzionale significativa […]. I bilanci non possono essere lasciati alla deriva nel mare della politica democratica» (Buchanan e Wagner 1977, 183). Vanberg, inizialmente collega di Buchanan e poi direttore del Walter Eucken Institut a Friburgo dal 2001 al 2010, è assai efficace nel descrivere i caratteri salienti della teoria buchaniana e nel dimostrare i punti in comune tra l’ordoliberalismo, in specie l’Ordnungstheorie di Walter Eucken, e il programma di ricerca sull’”economia politica costituzionale” di Buchanan, e quelli di entrambi con la “scienza del legislatore” di Adam Smith e con il pensiero neo-liberale austriaco di Hayek (Vanberg, 2015). Come si definisce l’“economia costituzionale” (Constitutional Economics) e quale è il suo obiettivo? Buchanan parte dalla constatazione che qualsiasi analisi positiva che pretende di essere utile in un giudizio normativo definitivo deve riflettere un confronto informato delle proprietà operative di insiemi alternativi di regole o vincoli. Questa analisi è il dominio dell’economia costituzionale (Buchanan 2001a [1987], 4),

e, quindi, stabilitone il dominio, ne fornisce una definizione: L’economia politica costituzionale è un programma di ricerca che indirizza l’indagine sulle proprietà operative delle regole e delle istituzioni all’interno delle quali interagiscono gli individui e sui processi attraverso i quali queste regole e istituzioni vengono scelte o nascono (Buchanan 1999 [1990], 377).

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Per essere più chiaro sull’oggetto specifico della Constitutional Economics – che potrebbe anche non essere compreso dall’economista neoclassico ortodosso – Buchanan si serve dell’analogia che collega quest’ultima con la teoria dei giochi. L’analogia consente di illustrare una netta scelta categoriale: quella fra scelte compiute all’interno (within) di regole date e scelte delle (of) regole medesime, ovvero, fra scelte all’interno di vincoli e la scelta dei vincoli, dove la prima categoria si riferisce all’economia normativa neoclassica e la seconda alla Constitutional Economics: sembrerebbe innaturale o bizzarro, all’interno della mentalità promossa dall’economia ordinaria, considerare la prospettiva che un individuo possa deliberatamente scegliere di vincolare o limitare l’insieme delle opzioni di scelta disponibili. All’interno di questa mentalità, l’utilità di chi sceglie è sempre massimizzata consentendo scelte su tutta la gamma consentita da vincoli determinati esogenamente […]. L’economia costituzionale rivolge l’attenzione analitica alla scelta tra vincoli (Buchanan 1999 [1990], 379s.).

Come osserva Vanberg, Buchanan asserisce che l’Economia politica costituzionale, nella misura in cui enfatizza la scelta delle regole come mezzo per migliorare la condizione umana, ha una origine non tanto nella teoria economica neoclassica quanto piuttosto nella “scienza del legislatore” di cui parla Smith185: «si può sostenere che l’”economia costituzionale” sia più strettamente correlata al lavoro di Adam Smith e degli economisti classici che alla sua moderna controparte “non costituzionale”» (Buchanan (2001a [1987], 3). Buchanan inoltre asserisce la filiazione dell’economia politica, in generale, e della “sua” economia costituzionale, in particolare, dalla filosofia morale, implicitamente criticando la frammentazione in ambiti ristretti dell’economia neoclassica:

185 Infatti, Smith afferma la centralità per il sistema economico e politico della «scienza di un legislatore, le cui deliberazioni dovrebbero essere governate da principi generali che sono sempre gli stessi», per ovviare ai danni creati dall’«abilità di quell’animale insidioso e astuto, volgarmente chiamato statista o politico, i cui consigli sono diretti dalle fluttuazioni momentanee degli affari» e addirittura definisce l’economia politica come branca della “scienza di un legislatore” (1981 [1776], 428).

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L’economia politica classica è emersa dalla filosofia morale, e i suoi fautori consideravano i loro sforzi per rientrare naturalmente nei limiti del discorso filosofico. In quanto incarnazione moderna, l’Economia costituzionale si colloca allo stesso modo, indipendentemente dalla frammentazione disciplinare (Buchanan 2001a [1987], 6).

L’economia politica costituzionale, come la teoria della Public choice, si accorgono dell’assenza di una teoria e di un ruolo delle istituzioni all’interno della economia neoclassica ortodossa186 e per porvi rimedio – pur rimanendo nel suo paradigma ideologico – centrano l’attenzione sul diritto e sulle istituzioni pubbliche che, in realtà non solo non sono neutrali ma addirittura sono esse a modellare i fenomeni economici e sociali; questa attenzione, affinché sia mantenuto il paradigma ideologico neo-ordoliberale, cade sulla scelta delle regole come “mezzo” per garantire il “fine” che le preferenze individuali siano soddisfatte al meglio. Vanberg tiene a sottolineare anche una importante convergenza, quella fra il pensiero dei fondatori del neo-ordoliberalismo, sia del filone austro-americano come Hayek sia di quello tedesco della scuola friburghese come Eucken, Böhm ed altri, da un lato, e la scuola di Buchanan, dall’altro lato; la convergenza si riscontra sia nella focalizzazione sul diritto che fonda l’ordine economico concorrenziale, sia nella rivendicazione esplicita dell’origine del proprio pensiero nello Smith della “scienza del legislatore”. Infatti, anche Hayek, come Buchanan, si pone come un propagatore dell’eredità di Smith e un critico della ristrettezza di obiettivi della economia neoclassica ortodossa:

186 Basta ricordare a proposito l’opinione piuttosto sferzante di Walras rispetto alla definizione di Smith dell’economia politica come branca della “scienza della legislazione”, e rispetto, in generale, sia alla filosofia morale che alla teoria delle istituzioni, bollate semplicemente come non-scientifiche, al contrario della teoria economica che apparterrebbe al dominio delle scienze fisiche e matematiche: «se l’economia politica fosse semplicemente ciò che Adam Smith disse che era […] sarebbe certamente un argomento molto interessante, ma non sarebbe una scienza in senso stretto […] la “teoria delle istituzioni” [è] “scienza morale o etica” [opposta alla] teoria pura dell’economia [che è] scienza fisico-matematica» (Walras 1954 [1874]: 52, 63, 76).

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Eppure, sebbene il problema di un ordine sociale appropriato sia oggi studiato dai diversi punti di vista dell’economia, della giurisprudenza, delle scienze politiche, della sociologia e dell’etica, il problema può essere affrontato con successo solo nel suo insieme […]. In nessun luogo l’effetto funesto della divisione in specializzazioni è più evidente che nelle due più antiche di queste discipline, economia e diritto. Quei pensatori del Settecento a cui dobbiamo le concezioni fondamentali del costituzionalismo liberale, David Hume […] e Adam Smith […] erano ancora interessati a ciò che alcuni di loro chiamavano la “scienza della legislazione” […]. Uno dei temi principali di questo libro sarà che le regole di giusta condotta studiate dall’avvocato servono una sorta di ordine il cui carattere è largamente ignorato dall’avvocato; e che questo ordine è studiato principalmente dall’economista, il quale a sua volta ignora similmente il carattere delle regole di condotta su cui poggia l’ordine che studia (Hayek 1973,4s.).

Esiste una differenza fra Hayek e Buchanan rispetto al loro comune sentire, secondo il quale è il sistema di regole a far risultare l’ordine economico e le giuste azioni economiche? La risposta è positiva, ma la differenza è sottile e spesso colmata: essa sarebbe quella per cui Hayek imputa alla selezione evolutiva la formazione delle regole e del corrispondente ordine, mentre Buchanan le imputa ad una scelta deliberata che deve essere compiuta in modo razionale e massimizzante l’utilità individuale; tuttavia Hayek appare consapevole di entrambe le dimensioni – quella evolutiva e quella intenzionale – nella formazione del diritto: La questione che è di importanza centrale tanto per la teoria sociale quanto per la politica sociale è quindi quali proprietà le regole devono possedere in modo che le azioni separate degli individui producano un ordine generale. […] Il nostro interesse principale saranno quindi quelle regole che, poiché possiamo modificarle deliberatamente, diventano lo strumento principale con cui possiamo influenzare l’ordine risultante, vale a dire le regole del diritto (Hayek 1973, 45).

È molto importante notare la comune radice “ideologica” e la comune azione operativa (l’”impresa”) fra l’austriaco Hayek e l’americano Buchanan, tale da mettere in secondo piano le eventuali differenze “scientifiche” fra loro, e invece tale da giustificare la definizione di un unico progetto neo-liberale austro-america-

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no, come chiaramente viene espresso da Buchanan (2001b[1992], 121s.): Non sono d’accordo con Hayek su aspetti importanti del suo lavoro. Tuttavia, lungo diverse dimensioni, mi sento di condividere l’“impresa hayekiana” più inclusiva. Queste dimensioni si estendono dalla comprensione di base di cosa sia l’economia alla preoccupazione per i fondamenti filosofici di una società libera.

Quanto alla vicinanza fra Hayek e gli ordoliberali tedeschi, è sufficientemente illustrativo ricordare che Hayek nel 1962 lasciò l’Università di Chicago per l’Università di Friburgo, ove si insediò proprio nella ex-cattedra di Eucken. Così come non è difficile rintracciare una similitudine fra il concetto ordoliberale di Ordnungspolitik e la “scienza del legislatore” di Smith, anche in assenza di particolari riconoscimenti di Smith da parte degli ordoliberali. Per quanto riguarda i fondatori della Scuola di Friburgo, basta leggere quanto scrivevano già nel loro Manifesto fondativo nel 1936 per notare la stretta somiglianza con l’“economia costituzionale” di Buchanan: La trattazione di tutte le questioni pratiche politico-giuridiche e politico-economiche deve essere calibrata sull’idea della costituzione economica […]. Vogliamo portare un ragionamento scientifico, come mostrato in giurisprudenza ed economia politica, in vigore per il […] problema di comprendere e modellare gli strumenti giuridici per una costituzione economica (Böhm, Eucken, e Grossmann-Doerth 1989, 23s.).

Il fatto di rivendicare la formazione e il mantenimento di una “costituzione economica” come atto primario e necessario per salvare il funzionamento corretto dei mercati – ovvero l’economia capitalista – avvicina chiaramente Eucken e gli ordoliberali a Buchanan. Una ulteriore evidente convergenza fra i neoliberali americani della Public Choice e gli ordoliberali tedeschi la si può riscontrare nella comune avversione per Keynes. Per i neo-ordoliberali, la vera battaglia senza quartiere è quella fra chi difende il capitalismo borghese e chi lo indebolisce, e Keynes, secondo loro, sta

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pericolosamente fra i “nemici” del capitalismo borghese. Infatti Keynes sarebbe, nella visione della Public Choice, uno scribacchino accademico [che] ha lasciato carta bianca ai politici: ha distrutto i vincoli al normale desiderio dei politici di spendere e spendere senza la pur evidente necessità di tassare. Da una valutazione oggettiva risulta che politicamente il keynesianismo rappresenta sostanzialmente una malattia che nel lungo periodo può essere fatale alla sopravvivenza della democrazia (Buchanan e Wagner, 1984, 133).

Altrettanto nella visione di Röpke (2010, 157) ‒ che individua come preliminare scelta dell’economista quella relativa ai valori e alle strutture del «mondo borghese per il quale ‒ o contro il quale ‒ dobbiamo deciderci» ‒ in cui Keynes è l’uomo che ha dato il maggior impulso alla tendenza antiborghese, raccogliendo tanta ammirazione con la sua banale e cinica osservazione: “In the long run, we are all dead” (“alla fine, si muore tutti”), mentre non poteva sfuggire ad alcuno che questa osservazione equivale al motto dell’Ancien Regime “Après nous le déluge!” ‒ e scaturisce da uno spirito decisamente antiborghese. Essa rivela la stessa tipica noncuranza antiborghese per il domani riscontrabile nella moderna politica economica, che ci ha indotti a considerare l’indebitamento come una virtù e il risparmio come una follia.

Vanberg individua anche un possibile collegamento esplicito, sebbene indiretto, tra le idee dei fondatori ordoliberali tedeschi e quelle di Buchanan, nella figura del chicaghiano Henry Simons: infatti, da un lato, il suo libro Economic Policy for a Free Society (1948) viene citato da Eucken nel suo basilare Grundsätze der Wirtschaftspolitik come un importante lavoro simile al proprio, dall’altro lato è Buchanan stesso a riconoscere il grande ascendente esercitato su di lui – come sugli altri studenti di Chicago – da Simons187.

187 Basta infatti leggere come si esprime Simons (1948, 160) per notare la somiglianza della sua idea sia con il concetto ordoliberale di Ordnungpolitik che con quello di “economia costituzionale” di Buchanan: «Il credo liberale richiede l’organizzazione della nostra vita economica in gran parte attraverso la partecipazione individuale a un gioco con regole definite. Invita lo Stato a fornire un

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In fondo, potremmo dire che l’Ordnungspolitik ordoliberale o anche l’ordine hayekiano prescrivono, esattamente come l’”economia costituzionale” di Buchanan (magari ricorrendo a un metodo diverso, per esempio giuridico oppure evolutivo- cognitivista oppure “giochista”), l’intervento sul quadro delle regole per creare, mantenere e migliorare l’ordine economico risultante in modo indiretto, al contrario della politica discrezionale e, in genere, democratica, che cerca di migliorare i risultati in modo diretto con interventi specifici nel processo economico. In questo senso il percorso insistente, tramite il quale la UE è arrivata all’imposizione della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio agli Stati nazionali, può apparire il compimento delle idee neo-ordoliberali, la cui trama genealogica, a partire dagli austriaci – divenuti poi americani come Hayek – o dai tedeschi – come i fondatori della Scuola di Friburgo negli anni Trenta europei – per arrivare alla Public Choice e a Buchanan negli anni Sessanta dell’America, è stata qui brevemente accennata. Prima di affrontare lo specifico caso della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio in Italia, è interessante delineare le vicende di tale provvedimento nelle due patrie del pensiero neo-ordoliberale, ovvero gli Usa e la Germania, seguendo il quadro descrittivo fornito, fra altri, da Ciolli (2012) e Iannì (2017). Mentre la tradizione fin dai Padri fondatori non appare contraria al debito pubblico quando necessario e l’esperienza ad esso favorevole del New Deal è fin troppo proverbiale, a partire dal 1969, fu costituito un think tank di stampo conservatore – la National Taxpayers Union – a sostegno di un emendamento costituzionale sul pareggio di bilancio. E già nel 1980 il parlamentare democratico Dennis De Concini portò in discussione al Senato la proposta di obbligare il Presidente al bilancio annuale in pareggio, derogabile solo con la maggioranza qualificata dei tre quinti di ciascuna Camera. Successivamente Reagan sostenne sia le ipotesi dell’obbligo del pareggio, che della riduzione del potere governativo in tema di indebitamento a vantaggio del Congresso

quadro stabile di regole all’interno del quale l’impresa e la concorrenza possano controllare e dirigere efficacemente la fornitura e la distribuzione dei beni».

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(che poteva dare o meno la sua approvazione all’indebitamento con un quorum di due terzi). Alla fine del primo mandato di Reagan (nel 1985), fu adottato il Balanced Budget and Emergency Deficit Control Act (o Gramm-Rudman-Hollings Act), al fine di ridurre il debito federale e di riscrivere la “fiscal Constitution”, che conferiva al Comptroller General, a capo del General accounting Office, un potere di controllo e una responsabilità per l’applicazione dell’Act, ma quest’ultimo fu dichiarato incostituzionale dalla Corte Suprema (con la sentenza Bowsher v. Synar), perché il conferimento anche del potere di controllo ad una istituzione dotata di poteri legislativi violava il principio della separazione dei poteri. Due anni dopo, fu discusso in Congresso un meccanismo per cui, in caso di mancata riduzione del deficit rispetto all’anno precedente, le spese federali previste sarebbero state automaticamente ridotte, e, sebbene stavolta il potere di controllo dell’esecuzione del meccanismo rispettasse il principio della separazione dei poteri, non fu prodotta alcuna decisione. I repubblicani tornarono all’attacco, nella campagna di middle term del 1994, stavolta aggiungendo all’obbligo di pareggio anche una proposta di vincolo dal lato delle entrate, secondo la quale un incremento della tassazione avrebbe dovuto ottenere una maggioranza parlamentare dei tre quinti, peraltro senza che le loro proposte avessero alcun seguito. Il tema della possibile introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione è tornato di attualità sotto la presidenza Obama (sulla spinta sia del deficit enorme che affliggeva la California che del fatto che molti degli Stati interni negli Usa avevano inserito una norma più o meno simile nelle loro Costituzioni). Ciò però ottenne, fra l’altro, una decisa posizione contraria di otto prestigiosi economisti, con una lettera ad Obama per scongiurare l’introduzione del pareggio nella Carta costituzionale. Infatti, i Premi Nobel Arrow, Diamond, Maskin, Sharpe, Solow, e, inoltre, Charles Schultze, Alan Blinder, e Laura Tyson, autorevoli membri del Council of Economic Advisors, in una lettera in data 8 luglio 2011 sottoscrivono che: scrivere nella Costituzione che il bilancio debba essere in equilibrio ogni anno rappresenterebbe una politica fortemente errata. L’aggiunta di ulteriori restrizioni, come farebbero alcune proposte di modifica del bilancio

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in pareggio, quale un tetto arbitrario sulle spese federali totali, peggiorerebbe ulteriormente l’emendamento sul bilancio in pareggio188.

In particolare, gli otto economisti evidenziano sette argomenti contrari all’introduzione del vincolo di bilancio in Costituzione, tra i quali: il fatto che un emendamento di bilancio in pareggio imporrebbe azioni controproducenti di fronte alle recessioni; il timore di non poter finanziare il costo delle infrastrutture, della ricerca, della sostenibilità ambientale e dell’istruzione; il pericolo per i bilanci statali nel caso lo Stato federale trasferisse gli oneri di spesa, oggi a suo carico, su di essi; il danno conseguente alla vendita di beni pubblici da parte degli Stati che sarebbero necessari a causa delle maggiori spese correnti e del minore finanziamento federale; il fatto che non ci sia alcuna altra grande nazione che azzoppa la sua economia con un obbligo di pareggio di bilancio e che quindi bisogna lasciare che il Presidente e il Congresso elaborino politiche fiscali in risposta alle esigenze e alle priorità nazionali, come saggiamente hanno previsto gli autori della Costituzione americana; infine, l’unico effetto della costituzionalizzazione del vincolo di bilancio sarebbe quello di mettere una camicia di forza all’economia del Paese. In conclusione, nella patria dei teorici della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio essa non è mai stata accolta (tranne a livello di costituzioni statali). Anche nella patria degli ordoliberali di Friburgo, primi negli anni Trenta a perorare la Costituzione economico-finanziaria, solo nel 1969 si avrà un intervento normativo in tema di bilancio (art. 115 Grundgesetz, GG) ma solo per limitare il ricorso al prestito alle spese in conto capitale. Tuttavia la costituzionalizzazione del vincolo di bilancio arriverà di colpo189 in Germania nel 2009; infatti, il nuovo art. 109

188 La lettera è disponibile, per esempio, a: https://www.cbpp.org/press/ press-releases/press-release-nobel-laureates-and-leading-economists-oppose-constitutional. 189 Nel 2007, il Tribunale costituzionale federale aveva rilevato l’impossibilità per l’allora normativa vigente di arginare il deficit pubblico, che appariva significativo in alcuni Länder, come Berlino e Brema.

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comma 3 della Carta tedesca recita: «i bilanci della Federazione e dei Länder, di norma, devono essere portati in pareggio senza ricorrere al prestito». La riforma costituzionale è ampiamente condivisa, la votano più dei due terzi dei membri della camera bassa, con un ampio coinvolgimento anche del partito socialdemocratico (SPD) all’opposizione, e fissa le procedure necessarie per il raggiungimento del pareggio di bilancio e nuove regole contabili nei rapporti tra Stato centrale e Länder. In sintesi, dalla precedente regola, secondo cui si poteva ricorrere a indebitamento solo per finanziare le spese in conto capitale, si passa a introdurre un vero e proprio divieto all’indebitamento: in particolare è obbligatorio il pareggio di bilancio senza ricorrere al debito e inoltre solo lo Stato centrale – e non più i Länder – può ricorrere al debito, ma in ogni caso esso non può superare l’ammontare dello 0.35 % del PIL. Bifulco (2011), peraltro favorevole alla riforma costituzionale, ne mette in evidenza la portata europea, ipotizzando però un nesso causale bi-direzionale fra le azioni della Ue e della Germania. Secondo una direzione, l’azione del legislatore costituzionale tedesco è l’effetto di ciò che vuole la UE, come già manifesto nell’art. 104 del Trattato istitutivo della Comunità europea, a cui, infatti, rinvia il nuovo art. 109, comma 2, della Costituzione tedesca. Secondo l’altra direzione, ne è anche la causa in quanto sia la UE che i singoli Stati membri saranno influenzati proprio dalla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio introdotta in Germania, come sarebbe prova l’iniziativa omologa intrapresa dal Governo italiano appena poco dopo nel settembre 2011. Ma il sapore “europeo” della riforma costituzionale tedesca va al di là di qualsivoglia nesso direzionale per assurgere ad essere «considerata la prima riforma costituzionale postnazionale […] pensata in un’ottica europea e forse globale ed è anche all’interno di questi più ampi livelli ordinamentali che finirà per svolgere i propri effetti» (Bifulco 2011, 5). Anche gli aspetti di forte limitazione dell’autonomia di bilancio dei Länder previsti dalla riforma costituzionale tedesca che evidenziano la tendenza accentratrice all’interno dello Stato tedesco, vanno letti, secondo Bifulco, in un’ottica europeista, secondo la proporzione per la quale il maggior accentramento degli Sta-

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ti nei confronti delle istanze locali sta al maggior accentramento dell’Unione (o degli esecutivi degli Stati in essa) rispetto agli Stati membri. Anche Ciolli rileva come la riforma costituzionale tedesca, da un lato «sotto il profilo dei rapporti con l’Unione […] soddisfa il necessario rispetto dei Trattati e del Patto di stabilità europeo» ma, dall’altro lato, cerca di condurre «una moral suasion nei confronti degli altri Paesi, affinché ne seguano le orme» anche se, a bene vedere, l’iniziativa tedesca appare “imperiale” nei confronti degli altri Stati europei in quanto «la Germania sembrerebbe convinta di imporre agli altri Stati della zona euro l’inserimento nelle rispettive Costituzioni di misure altrettanto draconiane, più che contrattare con questi una soluzione politica comune europea» (Ciolli 2012, 7-8). In Italia, la legge costituzionale 20 aprile 2012, n.1, ha introdotto con il nuovo art. 81 il principio del pareggio o meglio, come vedremo, dell’equilibrio di bilancio nella Carta costituzionale190, ha imposto vincoli più stringenti e puntuali in materia di bilancio, contabilità pubblica e stabilità finanziaria, mentre, con la modifica degli artt. 117 e 119, ha introdotto le regole in materia di bilancio anche per le Regioni e gli enti locali. Dato che il relativo disegno di legge governativo fu presentato in data 15 settembre 2011, tale legge fu approvata con insolita rapidità (in meno di sette mesi), e con la maggioranza qualificata dei due terzi, così da rendere im-

190 Riportiamo la cruciale disposizione del nuovo articolo 81: «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere, adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e se non per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princıpi definiti con legge costituzionale».

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possibile il ricorso al referendum confermativo, tanto che taluni parlano di revisione affrettata191. Una prima osservazione riguarda la difformità – e la conseguente incertezza – fra il titolo della legge che parla di “introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”, e il testo della medesima (v. art. 81) che invece parla solo di equilibrio del bilancio192. Secondo taluni (p.e., Ciolli, 2012, Furnò 2017) la riforma dell’art. 81 Cost. non modifica in nulla i vincoli già previsti dalla normativa comunitaria né, d’altra parte, l’ordinamento comunitario – Fiscal compact compreso – richiedeva alcun puntuale e stringente obbligo giuridico per gli Stati nazionali di approvare una revisione costituzionale in materia di bilancio; potremmo allora dedurne che quindi si sia trattato di un eccesso di zelo di gran parte del mondo politico italiano nel voler mostrare alla UE e ai mercati l’adesione italiana ai più stretti principi neo-ordoliberali193.

191 Appare ancora più (e non sappiamo dire se tragicamente o comicamente) pessimista la convinzione espressa da Bergonzini (2016, 148): «Gli itinera di approvazione degli atti normativi citati sono stati tali da indurre in chi scrive la convinzione che la quasi totalità dei parlamentari italiani del 2012 non avesse – né quindi abbia a tutt’oggi – alcuna reale consapevolezza delle conseguenze del proprio voto». 192 Secondo Bergonzini, titolo e testo erano incongruenti non per una svista in sede redazionale (tanto che ciò era noto prima della stesura, rappresentando persino una delle motivazioni del voto contrario in sede finale da parte della Lega), ma perché il Governo italiano mirava al c.d. “effetto annuncio” nei confronti della UE e dei mercati finanziari, e, quindi, «la legge costituzionale in esame si collocherebbe […] nell’ambito di un fenomeno ben radicato nel nostro ordinamento: quello dei titoli “ad effetto mediatico”» (Bergonzini 2016, 149). 193 Un ulteriore esempio della aderenza della riforma costituzionale del 2012 al progetto neo-ordoliberale di de-politicizzazione degli Stati nazionali portato avanti dalla UE, è l’istituzione (prevista dall’art. 5, comma 1, lettera f) di un ente parlamentare, ma neutrale, tecnicamente competente, in grado di svolgere analisi indipendenti (dalle autorità politiche) sull’osservanza dei vincoli di bilancio e sulle previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica, in linea con quanto più volte suggerito dalla UE per la sua sorveglianza dei processi di bilancio degli Stati. Nella legge rafforzata 243/2012, l’ente – che è indipendente – ha assunto il carattere di “ufficio parlamentare di bilancio”, comprende tre membri scelti tra esperti di finanza pubblica e svolge sia un ruolo consultivo (fornisce stime, analisi etc.) sia di verifica del pareggio di bilancio e della sostenibilità di spese, quali

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È importante notare la struttura della nostra Carta costituzionale, perché in essa, a differenza per esempio di quella tedesca, vi è una inscindibile unitarietà collegante i diritti in materia sociale ai diritti “liberali” e le norme economiche non sono disgiunte dalla protezione sociale, in quanto anche il fine ultimo delle disposizioni economiche deve essere l’utilità sociale. In altre parole, «non vi è una vera e propria separazione tra Stato sociale e mercato e le stesse norme economiche trovano un limite proprio nei valori sociali», così che si può ipotizzare che «se la Costituzione è una, al modificarsi della parte cosiddetta economica […] davvero si modificherebbero in modo incisivo anche le finalità della Costituzione» (Ciolli 2012, 17). Come riassume Furnò (2017), vi sono due posizioni opposte nella valutazione degli effetti del nuovo art. 81 Cost: 1) da un lato, si afferma che, nonostante l’avvenuta costituzionalizzazione del principio dell’equilibro finanziario ed i più stringenti vincoli europei, imposti alle politiche nazionali di bilancio sino dal Trattato di Maastricht del 1992, la normativa è ancora duttile al punto di non permettere compressione dei diritti fondamentali a causa delle limitazioni di bilancio; 2) dall’altro lato, invece, si sostiene che la costituzionalizzazione dei vincoli di bilancio ha trasformato il disegno originario dei Costituenti194, che prevedeva il contemperamento degli interessi finanziari con gli altri interessi costituzionalmente garantiti, in una prevalenza degli interessi finanziari e di bilancio, a scapito della tutela dei diritti fondamentali che divengono condizionati al pareggio di bilancio.

pensioni e sanità. Questo tipo di enti neutrali perorati dalla UE come dal FMI, sono solo formalmente di natura tecnico-amministrativa, ma «di fatto rappresentano un altro significativo esempio di proliferazione dei poteri neutri, che hanno il compito di prendere decisioni di grande rilievo, senza però essere chiamati ad assumersi la conseguente responsabilità politica» (Ciolli, 2012, 19). 194 Questa trasformazione della Costituzione, frutto della volontà generale costituente alla fine della seconda guerra mondiale, avviene secondo una “regia” da parte della UE: «È particolarmente significativo che questo cambio di orizzonte della costituzione materiale si realizzi prima a livello europeo e poi, con un effetto di dirottamento, venga veicolato, con esiti diversi secondo la forza di resistenza dei diversi tessuti costituzionali, negli ordinamenti dei singoli Stati membri» (De Ioanna, 2016, 199).

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La prima posizione evidenzia (Luciani, 2012) che «il saldo che conta è quello “strutturale” e quel saldo non si ottiene sulla base di un mero computo aritmetico delle entrate e delle uscite, ma va desunto da un calcolo più complesso (e discrezionale), che deve tenere conto degli effetti del ciclo economico» e che quindi «l’indebitamento è consentito non solo per far fronte a circostanze eccezionali, ma anche allo scopo di moderare gli effetti del ciclo»: in altri termini, anche con la costituzionalizzazione dei vincoli di bilancio «le politiche anticicliche sono implicitamente ammesse. E se sono ammesse possono essere alimentate dalla spesa pubblica e possono essere finanziate da ulteriore indebitamento»195, anche se il medesimo Luciani avverte che la sua opinione è strettamente tecnico-giuridica e non fattuale, perché in pratica le pressioni della UE e il potere dei mercati finanziari limiterebbero fortemente il ricorso a politiche keynesiane finanziate dal debito. La seconda posizione, invece, evidenzia una trasformazione radicale da un disegno costituzionale che non vietava alla politica democratica di decidere misure Keynesiane espansive di deficit spending (fermo restando il limite generico dell’equilibrio finanziario) a un assetto che invece le vieta in linea di principio, consentendone la praticabilità solo a condizioni enumerate e particolarmente rigorose (Chessa 2016, 402).

Fra gli aspetti critici, è stato segnalato (Bergonzini 2016) 1) l’introduzione diretta nella Costituzione (art. 81 e 97), senza filtri,

195 Luciani (2013), riporta, a conferma della sua ipotesi di flessibilità del nuovo dettato costituzionale e di una sostanziale continuità col passato, le coerenti letture della Corte, a partire, in regime di “vecchio” art. 81 Cost, dal 1966 («il precetto costituzionale attiene ai limiti sostanziali che il legislatore ordinario è tenuto ad osservare nella sua politica di spesa, che deve essere contrassegnata non già dall’automatico pareggio del bilancio, ma dal tendenziale conseguimento dell’equilibrio tra le entrate e la spesa», sent. Corte cost. n. 1) per finire, in regime di “nuovo” art. 81 Cost, al 2013 («il principio dell’equilibrio tendenziale del bilancio, già individuato da questa Corte come precetto dinamico della gestione finanziaria (…), consiste nella continua ricerca di un armonico e simmetrico bilanciamento tra risorse disponibili e spese necessarie per il perseguimento delle finalità pubbliche (…) non può essere limitato al pareggio formale della spesa e dell’entrata» Corte cost. 25 ottobre 2013, n.250, in Giur. cost., 2013, 3781 ss).

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di svariate nozioni di natura squisitamente economica: «pareggio» (nel titolo) o «equilibrio» (nel testo) di bilancio, «ciclo economico», «indebitamento», «sostenibilità del debito»196; 2) il ricorso (soprattutto nella legge rinforzata di attuazione) alla tecnica del rinvio mobile all’ordinamento UE. Questo secondo punto ci appare paradossale: la fonte delle fonti italiana che rinvia ad altri ordinamenti, fra l’altro non democraticamente legittimati e che potrebbero in alcuni casi essere persino di infimo grado di legge (tanto per dire, una qualche circolare attuativa o addirittura un insulso numeretto magari partorito da una qualche tavolata di sedicenti esperti economici). Ma Bergonzini coglie un altro aspetto che rivela la reale portata della riforma costituzionale del 2012: innanzitutto la sua «“architrave” non è, come potrebbe apparire, l’art. 81, ma il nuovo comma 1 dell’art. 97: per la prima volta, la Costituzione disciplina espressamente il debito pubblico», ma soprattutto impone che esso sia «sostenibile, “in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea”, cioè con riferimento all’intera evoluzione del quadro sovranazionale […] il risultato è che sia l’equilibrio di bilancio sia il valore-obiettivo del debito corrispondono a valori che […] vanno ricercati altrove». Anche in questo caso quello che ci sembra quantomeno paradossale è che la Costituzione vada alla ricerca dei propri oggetti non solo altrove, ma in ultima istanza debba attenersi persino (per la derivazione a cascata dai vari regolamenti europei) «alle indicazioni periodiche di Commissione e Consiglio UE, all’esito del monitoraggio sugli andamenti delle economie nazionali; indicazioni, è bene sottolineare, tutt’altro che stabili e definitive» (Bergonzini 2016, 149-150). Questo significa due cose: i) consegnare oggetti costituzionalizzati (i.e. il valore-obiettivo del debito) alla assoluta discrezionalità delle istituzioni europee; 2) trasformare indicatori

196 «L’inserimento, direttamente nel nostro tessuto costituzionale, di concetti e temi estratti direttamente dalle discipline economiche […] costituisce una assoluta novità per la nostra esperienza costituzionale, e fa sostenere a taluni che la nostra Costituzione avrebbe preso in qualche modo posizione a favore di una ben determinata spiegazione teorica dei fatti economici» (De Ioanna 2016, 192). In altre parole, la Costituzione avrebbe aderito al pensiero economico neo-ordoliberale.

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economici descrittivi – come abbiamo visto persino goliardicamente arbitrari – in regole prescrittive di massimo livello. Nella costituzionalizzazione di valori quantitativi «si situa un cambio sostanziale nella funzione della norma costituzionale» (De Ioanna 2016, 199). Questa tecnica di costituzionalizzare norme che rinviano a scatola chiusa a concetti economici quantitativi ambigui, da riempire discrezionalmente e soprattutto da parte di istituzioni sovranazionali, non è né neutrale né casuale, bensì un “mezzo” – che si avvale della proceduralità democratica ‒ per una ulteriore espropriazione della sovranità democratica nazionale197. Infine, due ulteriori osservazioni particolari sulla riforma costituzionale del 2012: 1) il Governo aumenta il suo potere (durante la crisi economica può adottare misure di emergenza con decreto-legge) e si riduce quello del Parlamento (p.e., se gli è concesso di proporre il rinvio del pareggio di bilancio di un dato anno per circostanze eccezionali, la decisione finale però spetta alla Commissione europea e al Consiglio europeo, come accaduto quando il Parlamento italiano votò il 17 aprile 2014 per posticipare il pareggio di bilancio al 2016, ma spettò poi al Consiglio europeo di accettare – previo invio di una bella raccomandazione critica – questo rinvio a causa delle gravi condizioni economiche); 2) la Corte costituzionale – che viene investita del ruolo di controllore di ciò che in precedenza era solo un autonomo “fine” politico ed ora è divenuto un obbligo giuridico-costituzionale – vede trasformato il suo ruolo, dovendo diventare giudice dei conti pubblici (come fosse la Corte dei Conti) e che potrebbe aver accolto (p.e., secondo Ciolli, 2014) il vincolo di bilancio come una “super regola” al di sopra dei diritti sociali (p.e. ha dichiarato incostituziona-

197 Questa interpretazione è ben espressa da De Ioanna (2016, 200): «E la leva tecnica che intende destrutturare il perimetro e la forma delle tutele giuridiche sociali (i diritti sociali di cittadinanza, evocati nell’art. 117, secondo comma lett. m), Cost.) è costituita dal rinvio in bianco a concetti economici polisense, il cui contenuto è riempito da strutture tecnocratiche poste fuori dal perimetro della decisione e della discussione democratica. La democrazia come procedura diviene lo schermo dietro il quale le élite […] mettono in opera gli imperativi dei mercati, espressione di una discorsività presentata come “naturale” e non resistibile».

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li leggi regionali, che aumentavano la spesa, ad esempio, per la cura di gravi malattie). Che l’Europa, con le sue imposizioni persino di “costituzionalizzare” i principi economici neo-ordoliberali, abbia il ruolo di diffondere tali principi anche negli Stati dove la Carta Costituzionale nata dal popolo costituente del secondo dopoguerra non li prescrive, anzi contiene in parte i principi opposti, risulta chiaro nelle riflessioni dei sostenitori europeisti contemporanei italiani. Innanzitutto, sembra loro che la Costituzione contenga i residui ideologici di una cultura catto-comunista, vecchi di 70 anni, avversi alla cultura dell’impresa, della concorrenza, del profitto: Nella costituzione è scritto, all’articolo 41, che “l’iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Quell’articolo è successivo, nella Costituzione, a quelli sulla libertà sindacale e il diritto di sciopero. E non è un caso. Sono ovviamente considerati più importanti. Sono passati più di 70 anni dal varo della nostra Carta, ma i sospetti nei confronti dell’impresa, della formazione del profitto, in generale sull’attività imprenditoriale, non sono scomparsi. Sono radicati nella nostra cultura ancora vagamente catto-comunista. Il populismo italiano si nutre di questo cibo avariato, dei suoi avanzi (de Bortoli e Rossi 2020, 85-86).

Ma l’Europa, imponendo la “costituzionalizzazione” di alcuni principi di vincoli del bilancio recepiti in Italia con la legge costituzionale 20 aprile 2012, n.1, avrebbe espressamente introdotto nella Carta italiana i principi della tutela della concorrenza, emendando così i residui di una “vecchia” ideologia e introducendone una nuova: Non possiamo dunque stupirci se i principi della concorrenza sono così a lungo trascurati se non osteggiati. La concorrenza è entrata di fatto nel nostro ordinamento grazie al diritto europeo. L’articolo 117 della Costituzione dopo la riforma assegna una riserva statale per la tutela della concorrenza. È in applicazione della legge 99 del 2009, l’Italia deve adottare ogni anno una legge sulla concorrenza (de Bortoli e Rossi 2020, 86-87).

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Merita riportare l’idea che il ministro del governo Prodi e autorevole europeista Padoa-Schioppa ha della Costituzione repubblicana e del ruolo salvifico dell’Unione Europea: la Costituzione è risultata un parto “ambiguo”, al contempo contenente due opzioni inconciliabili fra loro, l’intervento dello Stato proprio di un «sistema di tipo sovietico» oppure il sistema di libero mercato, e per questo scegliendo di vincolarsi esternamente a un organismo sovra-nazionale di sani principi mercatistici si è superato tale “ambiguità” andando nella direzione giusta. Quindi, tutti i passaggi imposti nei vari anni dalla UE secondo il progetto neo-ordoliberale sono stati la salvezza per l’”imperfetto” e “ambiguo” Stato costituzionale italiano: la Costituzione del 1948 aveva consapevolmente lasciato aperta la scelta tra libertà e costruzione economica, tra un sistema di tipo sovietico e uno di mercato; le leggi riguardanti la produzione, la distribuzione, il lavoro, la sicurezza dei prodotti erano vecchie, incomplete, incoerenti con la stessa Costituzione. Furono il Trattato di Roma e la conseguente ampia produzione di direttive a risolvere l’ambiguità della Costituzione repubblicana e a spingerci verso il completamento e la modernizzazione del nostro ordinamento economico. La liberalizzazione valutaria e della finanza, la creazione della Consob e dell’Antitrust, l’indipendenza della Banca d’Italia, le privatizzazioni, la tutela del lavoratore e del consumatore sono solo alcuni tra i molti frutti della partecipazione all’Europa (Padoa-Schioppa 2006, 143-144).

19. Hayek e la costruzione federalista Rispetto al tema della Unione Europea, al di là dell’analisi giuridica, istituzionale ed economica della sua struttura e del suo funzionamento, è meritevole condurre un’analisi più profonda per cercare le idee che hanno spinto al progetto sovra-nazionale e ne hanno poi modellato l’evoluzione pluridecennale fino ai nostri giorni. Come osservazione generale, possiamo dire che il progetto europeo rispondeva alla messa a tema politico di una rivisitazione in chiave economica della relazione fra conflitto e ordine, intesa nel senso di addomesticazione del primo e di rafforzamento e stabilizzazione del secondo, così che si può convenire che

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ad avere un peso decisivo è l’idea per cui le scelte economiche fondamentali dovessero essere poste al di fuori dell’area del conflitto politico e sociale, per rispondere piuttosto ad un modello di ordine, presidiato come valore massimo da regole di rilievo materialmente e formalmente costituzionale (Olivito e Repetto 2016, 6).

Dal punto di vista economico ciò che meglio riflette la messa in opera dell’idea-ideologia di ordine e de-politicizzazione è la centralità dell’obiettivo di sovra-nazionalizzazione, autonomizzazione e tecnicizzazione della politica monetaria: La stessa separazione originaria tra politica monetaria, oggetto di una disciplina rigidamente codificata nei Trattati e affidata alla supervisione della Banca centrale europea e del SEBC, e politica economica, lasciata tutt’al più ad azioni di coordinamento delle istituzioni dell’Unione, non può essere colta al di fuori di questa opzione ideologica (Olivito e Repetto 2016, 6-7).

Il padre seminale dell’idea – come anche della ideologia ad essa sottesa (quest’ultima in condivisione con altri genitori) – è probabilmente Hayek. Il titolo in italiano del suo saggio del 1939, Le condizioni economiche del federalismo tra Stati, è perfettamente illustrativo del contenuto. Questa paternità sembra peraltro largamente riconosciuta: proprio per inquadrare nel lungo periodo le implicazioni delle scelte che si sono venute facendo negli ultimi trent’anni […] può essere istruttivo prendere le mosse da un noto saggio di Hayek del 1939 […]. Merita innanzi tutto attenzione la consapevolezza con cui – quando l’unificazione europea era ben là da venire – venivano impostati i termini del rapporto tra unificazione politica ed economica. Quest’ultima, infatti, non avrebbe potuto che precedere l’unificazione politica […] può valere la pena sottolineare come proprio il dibattito più recente abbia riproposto interrogativi non dissimili da quelli destati dalla lettura delle pagine hayekiane (Olivito e Repetto 2016, 7-8).

Anche Somma (2019), nel sostenere che il cosmopolitismo nell’accezione neoliberale alteri l’equilibrio fra democrazia e capitalismo, riconosce ad Hayek la paternità di aver per primo individuato, e peraltro, come vedremo più avanti, anche caldeggiato

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come un male minore rispetto ai benefici, il conflitto fra democrazia e capitalismo: Che il conflitto tra capitalismo e democrazia sia un risvolto inevitabile del cosmopolitismo lo possiamo ricavare dal contributo di fine anni Trenta […] confezionato da un padre del neoliberalismo: Friedrich von Hayek (Somma 2019, 33).

Sebbene Hayek affermi di propugnare fortemente la costruzione di una federazione sovra-statuale che depotenzi le singole sovranità nazionali al fine di favorire la pace internazionale, non è difficile comprendere, leggendo il suo testo, che la possibilità di realizzazione di quel fine in realtà era fatta dipendere dalla creazione di una economia mondiale neoliberale per sempre libera da ostacoli, creazione che di fatto poi veniva a costituire il vero interesse per la perorazione di un’azione in senso cosmopolita. Il contributo muove da una considerazione fondativa del pensiero cosmopolita, ovvero che il superamento della sovranità nazionale costituisce una condizione imprescindibile per promuovere la causa della pace […] per Hayek, la pace non costituiva un valore fine a se stesso. Essa era funzionale a promuovere un ordine economico incentrato sulla libera circolazione dei fattori produttivi, celebrata in quanto capace di spoliticizzare il mercato: di vanificare l’azione dei pubblici poteri volta e influenzare la formazione dei prezzi e a ostacolare con ciò lo sviluppo del mercato autoregolato (Somma 2019, 34).

Infine, una sottolineatura ampiamente motivata dell’importanza di Hayek per la storia dell’Unione Europea ci è soprattutto fornita da Streeck, il quale dopo aver rilevato che le federazioni di stati possano concordare al meglio sulla liberazione delle loro economie dall’intervento statale, cioè su cosa la scienza politica contemporanea ha definito “integrazione negativa” – è stata segnalata da Friedrich von Hayek già nel 1939 (Streeck 2015, 367),

prosegue sottolineando come le idee hayekiane, all’epoca minoritarie rispetto all’influenza keynesiana, siano in realtà quelle che si sono affermate nel guidare il progetto dell’Unione Europea, tanto che quest’ultima sembra oggi proprio l’applicazione delle intuizioni sviluppate da Hayek nel 1939:

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L’articolo di Hayek del 1939 sembra un progetto per l’Unione Europea di oggi – e non solo nel suo uso retorico del tema della pace. È vero che la politica di integrazione del dopoguerra inizialmente concepiva l’unificazione europea come la costruzione di un’economia mista transnazionale, e all’epoca gli argomenti di Hayek per l’inevitabile (e a suo avviso ben accetto) liberalismo di un’economia politica sovranazionale integrata probabilmente sembrava assurdo alla maggior parte. Con il tempo, tuttavia, l’integrazione europea è sgusciata via dalle sue illusioni keynesiane e dal suo entusiasmo per la pianificazione, e più l’integrazione è progredita e avanzata nel centro della politica economica europea, più ha seguito le intuizioni di Hayek del 1939 (Streeck 2014, 115-116).

Quali sarebbero state, allora, le intuizioni profetiche di Hayek? In tali intuizioni si riteneva cruciale che fosse data una pronta risposta su alcune non rinviabili necessità: sulla necessità all’interno di una federazione di neutralizzare l’effetto delle istituzioni democratiche sull’economia e lasciare le scelte allocative ai mercati liberi; sulla necessità di vietare l’intervento statale che distorce il mercato negli Stati membri, compresa l’abolizione delle valute nazionali; e sugli ostacoli politici che (secondo Hayek, fortunatamente) ostacolano l’integrazione federale oltre la creazione e la liberalizzazione dei mercati (Streeck 2017, 115).

Se il progetto federativo europeo, iniziato dopo la seconda guerra mondiale per il fine più o meno retorico di garantire la pace, è invece diventato un caposaldo della diffusione ubiquitaria della “concorrenza” e delle pratiche della governance come surrogato del governo liberale democratico, può essere attribuito alla stringente logica con cui Hayek lo aveva presentato, la quale aveva di fatto già prefigurato i percorsi evolutivi del progetto dal generico pacifismo cosmopolita al nuovo ordine economico e politico neo-liberale. Infatti, il progetto federativo europeo ha dimostrato nel lungo periodo ‒ in virtù della sua intrinseca logica politica ed economica anticipata da Hayek – di essere un motore affidabile e sempre più potente per la trasformazione liberale delle economie nazionali europee e il contenimento dei progetti democratici nazionali per far prevalere la giustizia sociale contro la giustizia del mercato. Era come se l’articolo di Hayek avesse elaborato le linee di forza lungo le quali le istituzioni dell’unità europea, originariamente progettate per qualcosa di completamente diverso, alla

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fine si sarebbero posizionate. Ciò divenne particolarmente chiaro quando iniziò la svolta neoliberista nei primi anni ’80 […] Oggi, e più che mai da quando il conflitto di distribuzione democratico-capitalista si è spostato al livello della diplomazia finanziaria internazionale, le “forze di mercato” il cui obiettivo è liberare il processo di accumulazione capitalista dai correttivi politici si sostengono sulla dinamica istituzionale prevista da Hayek nel 1939 (Streeck 2014, 115).

L’omaggio di Streeck alla lungimiranza teorica e politica di Hayek è tale che tutto il drammatico processo di trasformazione politica ed economica imperniato sull’azione dell’Unione Europea potrebbe essere definito come Hayekization del capitalismo europeo: La conversione dell’Unione Europea in un veicolo per la liberalizzazione del capitalismo europeo non iniziò improvvisamente nel 2008; è l’essenza e il risultato di una continua metamorfosi che è la variante europea del processo di liberalizzazione globale in corso dagli anni ’80. Questo duplice processo – la liberazione ora rapida dell’economia dalla democrazia e la separazione della democrazia dal governo dell’economia, inteso a sancire l’egemonia istituzionale della giustizia di mercato sulla giustizia sociale – potrebbe essere descritto come Hayekization del capitalismo europeo, in memoria del suo promotore teorico da tempo dimenticato, ma poi tanto più riproposto con successo (Streeck 2014, 115-116).

Hayek pone al cuore della costruzione della federazione l’unione “economica” e argomenta come questa sia la misura fondamentale alla base di tale costruzione, anche più di quella politica, che invece taluni sembrano supportare come primaria e sufficiente, cosa peraltro sensata visto quale sembra essere l’obiettivo dichiarato e unanimemente condiviso della costruzione di una federazione, cioè la prevenzione della guerra fra Stati. L’argomentazione di Hayek è retoricamente ben articolata. Prima egli si associa con la diffusa opinione nel riconoscere che l’obiettivo primario sia la pace: Indubbiamente, lo scopo principale della federazione interstatale è garantire la pace: prevenire la guerra tra le parti della federazione eliminando le cause di attrito tra di esse e fornendo meccanismi efficaci per la risoluzione di eventuali controversie che potrebbero sorgere tra di loro e per prevenire la guerra tra la federazione e gli Stati indipendenti ren-

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dendo il primo così forte come per eliminare qualsiasi pericolo di attacco dall’esterno (Hayek 1948, 255).

Quindi ammette che, a prima vista, per il solo scopo pacifista sarebbe più consona e quindi più caldeggiata una unione solo politica: Se questo obiettivo potesse essere raggiunto da una semplice unione politica non estesa alla sfera economica, molti sarebbero probabilmente contenti di fermarsi alla creazione di un governo comune ai fini della difesa e della condotta di una politica estera comune (Hayek 1948, 255256).

Quindi, Hayek ricorda, però, che esempi storici come l’impero austro-ungarico depongono a favore di una unione sia politica che economica: Sebbene vi siano casi di paesi che concludono unioni doganali senza fornire strumenti per una politica estera comune e una difesa comune, la decisione di diversi paesi di fare affidamento su una politica estera comune e su una forza di difesa comune, come nel caso delle parti della doppia monarchia dell’Austria-Ungheria, è stata inevitabilmente combinata con un’amministrazione comune in materia di tariffe, denaro e finanza (Hayek 1948, 256).

Hayek, tuttavia, vuole focalizzarsi sugli effetti economici interni alla federazione; comunque prima motiva la necessità dell’unione economica anche in considerazione soltanto degli obiettivi esterni alla federazione, quali la politica estera e la difesa: Le relazioni dell’Unione con il mondo esterno forniscono alcune importanti ragioni per questo, dal momento che una rappresentanza comune in paesi stranieri e una politica estera comune sono difficilmente concepibili senza una politica fiscale e monetaria comune. Se i trattati internazionali devono essere conclusi solo dall’Unione, ne consegue che l’Unione deve avere il potere esclusivo su tutte le relazioni estere, compreso il controllo delle esportazioni e delle importazioni, ecc. […]. Non meno importanti sono i requisiti di una politica comune di difesa […] gli interessi regionali creati da qualsiasi tipo di protezionismo regionale porterebbero inevitabilmente ostacoli a un’efficace politica di difesa […] sarebbe impossibile condurre una politica di difesa senza essere ostacolati in ogni fase da considerazioni di interessi locali (Hayek 1948, 256).

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Ma per Hayek, l’estensione dell’Unione alla sfera economica è soprattutto assolutamente necessaria per mantenere la coerenza interna dell’Unione. Infatti non vi è alcun motivo valido per cui qualsiasi cambiamento che influisca su una determinata industria in un determinato territorio dovrebbe incidere più pesantemente su tutti o la maggior parte degli abitanti di quel territorio che sulle persone altrove (Hayek 1948, 257).

Ma ancor più importante è un effetto di diluizione, di scompaginamento, di permutazione e ricombinazione dei conflitti di interesse fra gruppi interni ai singoli Stati (potremmo dire anche dei conflitti di classe): Tali frontiere economiche creano comunità di interesse su base regionale e dal carattere più intimo: determinano che tutti i conflitti di interessi tendono a diventare conflitti tra gli stessi gruppi di persone, anziché conflitti tra gruppi di composizione costantemente variabile, e che di conseguenza ci saranno conflitti perpetui tra gli abitanti di uno Stato in quanto tali anziché tra i vari individui che si trovano schierati, a volte con un gruppo di persone contro un altro, e altre volte su un altro problema con il secondo gruppo contro il primo […]. Il semplice fatto che tutti scoprano più e più volte che i loro interessi sono strettamente legati a quelli di un gruppo costante di persone e antagonisti a quelli di un altro gruppo è destinato a creare forti attriti tra i gruppi in quanto tali. Che ci saranno sempre comunità di interesse che saranno influenzate in modo simile da un evento particolare o una misura particolare è inevitabile. Ma è chiaramente nell’interesse dell’unità dell’insieme più ampio che questi raggruppamenti non debbano essere permanenti e, più in particolare, che le varie comunità di interesse debbano sovrapporsi territorialmente e non essere mai identificate in modo duraturo con gli abitanti di una particolare regione (Hayek 1948, 258).

Se regimi e politiche economiche differenti fossero implementati all’interno di una federazione, allora in ciascuno dei suoi singoli Stati membri si formerebbero coalizioni di interessi fra cittadini, con il risultato che le frontiere fra Stati rappresenterebbero sempre il confine fra popoli economicamente in opposizione, con la conseguenza che sarebbero sempre le medesime coalizioni di interesse – anziché coalizioni in cui varia costantemente la composizione – a scontrarsi fra loro.

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Al contrario, se queste coalizioni non fossero permanenti – e quindi di conseguenza le varie comunità di interesse potrebbero sovrapporsi territorialmente e non essere mai identificate in modo duraturo con gli abitanti di una determinata regione – allora l’unità della federazione potrebbe essere più facilmente garantita. Hayek, invocando l’esperienza degli Stati federali esistenti, afferma che non tanto le chiaramente perniciose tariffe e valute nazionali, ma anche il più minimo e nascosto atto protezionistico sarebbe in grado di minare la Federazione nella sua unità politica, cosicché per assicurare quest’ultima contro i pericoli di misure economiche nazionali protezionistiche è assolutamente necessaria l’unione economica: negli Stati federali esistenti, anche se agli Stati vengono negati gli strumenti più grossolani del protezionismo come tariffe e valute indipendenti, le forme più nascoste di protezionismo tendono a causare attriti crescenti, ritorsioni cumulative e persino l’uso della forza tra i singoli Stati. E non è difficile immaginare quali forme prenderebbe se i singoli Stati fossero liberi di usare l’intero arsenale di protezionismo. Sembra abbastanza certo che l’unione politica tra i vecchi Stati sovrani non durerebbe a lungo se non accompagnata dall’unione economica (Hayek 1948, 258).

Hayek chiarisce subito cosa intenda per unione economica: libera circolazione di merci, servizi, capitali e uomini (insomma le quattro libertà di circolazione che sono alla base della UE). Tramite esse nessun Stato nazionale avrà influenza sul prezzo. Tramite esse le politiche degli Stati saranno prive di efficacia. Dove esistesse all’interno di uno Stato, per esempio, un salario più alto del dovuto per la presenza di istituzioni che lo garantiscono, allora con le frontiere aperte subito i capitali prenderebbero la via della fuga e i migranti poveri prenderebbero la via dell’arrivo, e l’anomalia del mercato del lavoro sarebbe prontamente eliminata. L’assenza di tariffe e la libera circolazione del capitale e degli uomini fra Stati della federazione ha alcune importanti conseguenze che sono spesso trascurate. Esse limitano in larga misura la portata della politica economica dei singoli Stati. Se beni, uomini e denaro possono muoversi liberamente oltre le frontiere interstatali, sarà impossibile influenzare

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i prezzi tramite l’azione dei singoli Stati. L’Unione diventa un mercato unico e i prezzi nelle sue diverse parti differiranno solo per i costi di trasporto. Qualsiasi cambiamento in qualsiasi parte dell’Unione nelle condizioni di produzione di qualsiasi merce che può essere trasportata influenzerà ovunque i prezzi. Analogamente, qualsiasi modifica delle opportunità di investimento o della compensazione del lavoro in qualsiasi zona dell’Unione influenzerà, più o meno prontamente, l’offerta e il prezzo del capitale e del lavoro in tutte le altre zone dell’Unione (Hayek 1948, 258-259).

Hayek si lamenta, inoltre, della forma con cui lo Stato, probabile preda dei gruppi monopolistici, aiuta una determinata industria: l’aiuto consisterebbe nel consentire la restrizione dell’offerta, insomma nel favorire pratiche monopolistiche e collusive per aumentare il prezzo di vendita, e mostra come tale dannoso comportamento sarebbe eliminato con l’unione sovranazionale: Ora quasi tutta la politica economica contemporanea intesa ad aiutare industrie particolari cerca di farlo influenzando i prezzi. Sia che ciò avvenga da consigli di marketing o schemi di restrizione, da una “riorganizzazione” obbligatoria o dalla distruzione della capacità in eccesso di determinati settori, l’obiettivo è sempre quello di limitare l’offerta e quindi di aumentare i prezzi. Tutto ciò diventerà chiaramente impossibile per i singoli Stati all’interno dell’Unione. L’intero arsenale di consigli di marketing e altre forme delle organizzazioni monopolistiche delle singole industrie cesserà di essere a disposizione dei governi statali (Hayek 1948, 259).

Con l’unione, i singoli Stati, se ancora volessero aiutare un settore, lo dovranno fare però con una esplicita politica di tassazione ordinaria e di sussidio mirato e non più con la compiacenza alle pratiche monopolistiche; il risultato sarà allora quello di eliminare quelle protezioni contro la concorrenza interna ed estera, che, per esempio, hanno protetto molti produttori inglesi: Se vogliono ancora aiutare determinati gruppi di produttori, dovranno farlo attraverso sovvenzioni dirette da fondi raccolti dalla tassazione ordinaria. Ma i metodi con cui, ad esempio, in Inghilterra, i produttori di zucchero e latte, pancetta e patate, filati di cotone, carbone e ferro sono stati tutti protetti negli ultimi anni dalla “concorrenza rovinosa”, da dentro e fuori, non saranno più disponibili (Hayek 1948, 259).

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Con una precisione e una chiarezza davvero lungimiranti se non profetiche, se pensiamo alla successiva costruzione della UE, Hayek sottolinea quali sarebbero le misure economiche da implementare nella federazione: la moneta unica, la banca centrale unica, che assicurerebbero il controllo monetario, creditizio e dei prezzi, la stabilità dei prezzi come obiettivo primario, e la libera circolazione di tutto. Ciò, inoltre, avrebbe poi ulteriori effetti economici che limiterebbero “spontaneamente” anche le altre possibilità di fare politiche economiche rimaste ai singoli Stati, come, per esempio, fare una qualsiasi politica industriale: Sarà inoltre chiaro che gli Stati all’interno dell’Unione non saranno in grado di perseguire una politica monetaria indipendente. Con un’unità monetaria comune, la latitudine accordata alle banche centrali nazionali sarà limitata almeno quanto lo era sotto un rigido gold standard – e forse un po’ di più poiché, anche sotto il tradizionale gold standard, le fluttuazioni degli scambi tra i paesi erano maggiori di quelli tra parti diverse di un singolo Stato, o di quanto sarebbe auspicabile consentire all’interno dell’Unione. In effetti, sembra dubbio che, in un’Unione con un sistema monetario universale, continueranno ad esistere banche centrali nazionali indipendenti; probabilmente dovrebbero essere organizzati in una sorta di sistema della Federal Reserve. Ma, in ogni caso, una politica monetaria nazionale che era principalmente guidata dalle condizioni economiche e finanziarie del singolo Stato avrebbe inevitabilmente portato alla rottura del sistema monetario universale. Chiaramente, quindi, tutta la politica monetaria dovrebbe essere federale e non statale. Ma anche per quanto riguarda l’interferenza meno approfondita con la vita economica rispetto alla regolamentazione della moneta e dei prezzi, le possibilità aperte ai singoli Stati sarebbero fortemente limitate. Mentre gli Stati potrebbero, ovviamente, esercitare il controllo delle qualità dei beni e dei metodi di produzione impiegati, non si deve trascurare il fatto che, a condizione che lo Stato non potesse escludere le merci prodotte in altre parti dell’Unione, qualsiasi onere imposto a una determinata industria dalla legislazione statale lo metterebbe in serio svantaggio rispetto a industrie simili in altre parti dell’Unione (Hayek 1948, 259-260).

Ma quando Hayek cerca di illustrare con qualche esempio come la formazione della federazione abbia successo nel consentire di ridurre le possibilità decisionali dei singoli Stati membri, mostra – verrebbe da dire freudianamente – a cosa stia pensando riguardo ai veri obiettivi della costituzione di una federazione in-

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ter-statuale. Infatti fra i mille possibili esempi di restrizioni nella sovranità decisionale, quali va a scegliere? Si può impedire una legislazione che regoli l’orario di lavoro e persino il lavoro minorile! Come è stato dimostrato dall’esperienza nelle federazioni esistenti, anche una legislazione come la restrizione del lavoro minorile o dell’orario di lavoro diventa difficile da attuare per il singolo Stato (Hayek 1948, 260).

Hayek argomenta anche che non solo la politica monetaria sarebbe tolta dalle mani statali, ma anche la politica fiscale (come l’imposizione sui fattori produttivi e sulle merci), pur se lasciata “formalmente” nelle loro mani, in pratica sarebbe stata fortemente depotenziata: Inoltre, nella sfera puramente finanziaria, i metodi per aumentare le entrate sarebbero in qualche modo limitati per i singoli Stati. Non solo la maggiore mobilità tra gli Stati renderebbe necessario evitare ogni tipo di tassazione che spingerebbe il capitale o il lavoro altrove, ma ci sarebbero anche notevoli difficoltà con molti tipi di tassazione indiretta. In particolare se, come sarebbe senza dubbio auspicabile, si dovessero evitare gli sprechi dei controlli di frontiera tra gli Stati, sarebbe difficile tassare qualsiasi merce che potesse essere facilmente importata. Ciò escluderebbe non solo forme di tassazione statale come, ad esempio, un monopolio del tabacco, ma probabilmente molte accise (Hayek 1948, 260).

Naturalmente se gli effetti economici “spontanei” causati dalla federazione non fossero sufficienti a limitare la sovranità statale in materia economica, allora si dovrà ricorrere a restringere coattivamente la libertà dei singoli Stati: Non si intende qui trattare in modo più completo queste limitazioni che la Federazione imporrebbe sulla politica economica dei singoli Stati […] È infatti probabile che, al fine di prevenire l’evasione delle disposizioni fondamentali che assicurano la libera circolazione di uomini, beni e capitali, le restrizioni che sarebbe auspicabile che la costituzione della federazione imponesse alla libertà dei singoli Stati dovrebbero essere persino più grandi di quanto abbiamo finora ipotizzato e che il loro potere di azione indipendente dovrebbe essere ulteriormente limitato (Hayek 1948, 260-261).

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Hayek, quindi, precisa che gli effetti limitativi prodotti dalla federazione non si eserciteranno solo sulla politica economica dei singoli Stati, ma anche sui sindacati e sulle associazioni economiche in genere che siano in tali Stati: Una volta che le frontiere cessano di essere chiuse e la libera circolazione è garantita, tutte queste organizzazioni nazionali, sindacati, cartelli o associazioni professionali, perderanno la loro posizione monopolistica e quindi, in quanto organizzazioni nazionali, il loro potere di controllare la fornitura dei loro servizi o prodotti (Hayek 1948, 261).

Peraltro Hayek avverte che le limitazioni introdotte non consentiranno ad alcuni di perseguire i loro ideali e che gli effetti economici non saranno indolori per altri: qui si dovrà sostenere che l’istituzione di un’unione economica porrà limiti molto chiari alla realizzazione di ambizioni ampiamente apprezzate […] il raggiungimento dell’unificazione potrebbe impedire il raggiungimento di altri ideali […] non dobbiamo qui sottolineare il caso estremo ma comunque importante che la restrizione sulle nazioni porterà a cambiamenti considerevoli nello standard di vita della popolazione di uno Stato integrato con un altro (Hayek 1948, 255, 256, 257-258).

Nello Stato nazionale – rileva inoltre Hayek – azioni protezionistiche a favore di settori produttivi, come una tariffa per aumentare la crescita o per impedire il declino di un certo settore possono trovare il favore di tutta la popolazione – nonostante l’aiuto a certi settori provochi un corrispondente sacrificio per gli altri – per evidenti motivi patriottici e comunitari veicolati dalle ideologie: Nello Stato nazionale le ideologie attuali rendono comparativamente facile persuadere il resto della comunità che è nel loro interesse proteggere la “loro” industria dell’acciaio o la “loro” produzione di grano o qualsivoglia merce sia. Un elemento di orgoglio nazionale per la “loro” industria e considerazione di potenza nazionale nel caso di guerra indurrebbero le persone a consentire al sacrificio. L’argomento decisivo è che il loro sacrificio beneficia compatrioti la cui posizione è a loro familiare (Hayek 1948, 262).

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Ma, nel caso di una federazione, le ideologie risulterebbero inefficaci perché gli stessi motivi patriottici e solidaristici verso i membri della propria comunità non sarebbero certo applicabili agli sconosciuti stranieri membri di altri paesi dell’Unione: è forse probabile che il contadino francese sia disposto a pagare di più il suo fertilizzante per aiutare l’industria chimica britannica? Sarà pronto l’operaio svedese a pagare di più le sue arance per aiutare il coltivatore californiano? O l’impiegato della city di Londra a pagare di più le sue scarpe o la sua bicicletta per aiutare l’operaio americano o belga? O il minatore sudafricano sarebbe pronto a pagare di più le sue sardine per aiutare il pescatore norvegese? (Hayek 1948, 262-263).

Infine, con un chiasmo elegante, Hayek arriva a definire la vera vocazione e l’obiettivo ultimo del (neo) liberalismo: infatti non si tratta tanto di aver dimostrato che una federazione interstatale necessita per funzionare stabilmente di un programma fortemente liberale, ma anche e soprattutto che l’eliminazione della sovranità nazionale e la sua sostituzione con un efficiente ordinamento giuridico internazionale sono il complemento necessario e il logico approdo del programma liberale: Poiché abbiamo finora ritenuto che un regime economico strettamente liberale è una condizione necessaria per il successo di qualsiasi federazione inter-statale, può essere aggiunto, in conclusione, che il contrario non è meno vero: l’abrogazione delle sovranità nazionali e la creazione di un efficace ordine legale internazionale è un complemento necessario e il logico “consumo” del programma liberale (Hayek 1948, 269).

Secondo Hayek, basta il buon senso per illustrarci come, se in uno Stato nazionale il mito della nazionalità assicura obbedienza alla legge perché espressione della volontà della maggioranza di connazionali, allora, in una federazione inter-statale, i cittadini di uno Stato saranno più riluttanti ad assicurare obbedienza ad una volontà espressa da popoli differenti e con differenti storie e tradizioni. Di conseguenza, lo Stato federale deve necessariamente intervenire poco per evitare probabili opposizioni: Sebbene, nello Stato nazionale, la sottomissione alla volontà della maggioranza sarebbe facilitata dal mito della nazionalità, deve essere chiaro che le persone sarebbero riluttanti a sottomettersi a una qualsiasi inter-

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ferenza nei loro affari quotidiani nel caso in cui la maggioranza che governa fosse composta da persone di diversa nazionalità e differenti tradizioni. È, in fondo, soltanto senso comune ritenere che il governo centrale di una federazione composta da molti differenti popoli dovrebbe necessariamente essere ristretto nei suoi ambiti se vuole evitare d’incontrare una resistenza crescente da qualche parte dei vari gruppi inclusi nella federazione (Hayek 1948, 264-265).

La conclusione logica delle sue argomentazioni è duplice, una per quanto riguarda il livello inter-statuale in comparazione con quello statale, l’altra per quanto riguarda il livello statale all’interno del sistema federale, ma entrambe convergenti in un medesimo punto: il raggiungimento, attraverso la federazione degli Stati, dell’obiettivo di un grado minimo di regolamentazione. Un governo federale ha infatti un minore scopo per intervenire nell’economia: Ci sono pochi dubbi che gli ambiti per la regolazione della vita economica saranno molto più ristretti per il governo centrale di una federazione che per gli Stati nazionali (Hayek 1948, 265).

A sua volta, un governo statale, una volta “incorporato” in una struttura inter-statuale, vedrà i suoi poteri ridotti e di conseguenza i suoi interventi prima considerati usuali diventeranno impossibili: E poiché, come abbiamo visto, il potere degli Stati all’interno della federazioni saranno ancora più ridotti, gran parte delle interferenze con la vita economica a cui eravamo abituati saranno del tutto impraticabili in una organizzazione di tipo federale (Hayek 1948, 265).

Il livello federale è quindi per sua natura – per esempio per diversità di condizioni economiche e culturali e assenza di “simpatia” fra i membri – tale da scongiurare, o quantomeno rendere estremamente difficile, interventi protezionistici o comunque distorsivi del libero ordine dei mercati. Quindi è assai meglio che la federazione comprenda Stati “poveri” e Stati “ricchi”, perché la medesima tipologia sociale di persona può opporsi a una certa legislazione in un paese “povero” e invece appoggiarla in un paese “ricco”. Va allora notato che

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quella che talvolta viene oggi considerato un difetto originale della Unione Europea, cioè quello di unire paesi di differente livello di sviluppo, sia invece, paradossalmente, proprio un requisito – secondo gli obiettivi dell’ottica hayekiana – per creare l’Unione: più disomogeneità fra Stati, meno legislazione può essere prodotta a livello federale: la diversità di condizioni e i diversi stadi di sviluppo economico raggiunti dai diversi membri della federazione saranno di serio ostacolo ad una legislazione di livello federale (Hayek 1948, 263).

Hayek ha, quindi, una chiara visione dell’effetto liberalizzatore e depoliticizzante che emerge “endogenamente”198 dal superamento della forma statale attraverso la costruzione di una federazione inter-statale. Ancora una volta, Hayek, per illustrare come diventi quasi impossibile una legislazione comune a livello federale con Stati di differente ricchezza e composizione sociale, fa uso del mercato del lavoro, con gli esempi della limitazione degli orari di lavoro e del sussidio di disoccupazione (ovviamente implicitamente considerate regolamentazioni pericolose da Hayek, in quanto non è necessario ricordare che con la prima regolamentazione si riduce il plus-lavoro e con la seconda si impedisce la concorrenza diretta dei disoccupati per un posto di lavoro che abbasserebbe i salari): persino un tipo di legislazione che limitasse gli orari di lavoro o prevedesse un sussidio pubblico di disoccupazione o la protezione di posizioni di comfort, sarebbe vista in una luce differente in Stati poveri e in Stati ricchi e potrebbe nei primi danneggiare realmente e creare violenta opposizione dalla medesima tipologia di persone che nei secondi la richiederebbe e la troverebbe profittevole (Hayek 1948, 263).

All’interno di una federazione verranno a mancare le basi “morali” per il supporto da parte dei cittadini a politiche redi-

198 Cioè un risultato che è in gran parte indipendente dalla stessa volontà della federazione, che da un lato esautora le istanze democratiche a livello statale e dall’altro lato è per sua natura ostacolata a creare a sua volta una legislazione potenzialmente soggetta alle medesime istanze.

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stributive; ancora una volta Hayek (2006) illustra il suo ragionamento con le presunte deboli virtù “morali” dei soliti lavoratori tipicamente presi ad esempio: Il popolo di un qualsiasi Paese può essere facilmente persuaso a fare un sacrificio per sostenere quella che considera come la propria industria o la propria agricoltura, o per fare in modo che nel suo Paese nessuno scenda sotto un certo livello […]. Ma basta considerare i problemi sollevati dalla pianificazione economica di un’area come l’Europa occidentale per vedere che mancano completamente le basi morali per una simile impresa. Chi potrebbe immaginarsi che esista qualche comune ideale di giustizia distributiva tale da indurre il pescatore norvegese a rinunciare alla prospettiva di un miglioramento economico per aiutare il suo compagno portoghese, o l’operaio olandese a pagare di più per la sua bicicletta allo scopo di aiutare il meccanico di Coventry, o il contadino francese a pagare più tasse per sostenere l’industrializzazione dell’Italia? (Hayek 2006, 228).

Ma per Hayek non c’è solo una base “morale” riferita ai lavoratori dei diversi stati che consente ad una struttura politica sovra-statuale di poter eliminare azioni nel campo “redistributivo”. Tale struttura “cosmopolita” ha soprattutto un formidabile effetto de-politicizzante e pacificante, sia a livello esterno che interno. Infatti essa presenta un duplice vantaggio199. Il primo, diciamo a livello esterno, è quello di trasformare il conflitto inter-statale in una salubre concorrenza economica fra Stati: È quasi certo che in un sistema di pianificazione internazionale le nazioni con maggior benessere e quindi più potenti verrebbero odiate e invidiate dalle nazioni povere molto più che in un’economia libera: e queste ultime, a ragione o a torto, sarebbero tutte convinte che la loro posizione potrebbe migliorare molto più in fretta se fossero libere di fare ciò che vogliono» (Hayek 2006, 275).

Ma è soprattutto il secondo vantaggio, quello di sostituire al conflitto fra classi all’interno dei singoli Stati un generico conflitto

199 «Peraltro il cosmopolitismo non si limitava a produrre un rifiuto delle politiche redistributive dal punto di vista morale. Consentiva anche di rimpiazzare i conflitti tra Stati nazionali con una sana “lotta per la concorrenza”, e soprattutto la lotta di classe con il conflitto tra poveri» (Somma 2019, 38).

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fra “poveri” dei differenti Stati, a mostrare la natura della desiderabilità dell’istanza cosmopolita. In quest’ultima cornice. se una federazione introducesse salari minimi per proteggere i lavoratori di un paese sufficientemente ricco, danneggerebbe i lavoratori dei paesi poveri disponibili a lavorare a salari più bassi per migliorare comunque il loro stato di povertà, mettendo quindi i lavoratori dei due paesi in “conflitto” ovvero, in termini edulcorati, in “concorrenza” fra loro; quindi, la magia della “concorrenza” unita alla sostituzione degli Stati nazionali con una federazione sovra-statuale farà sparire la lotta fra classe lavoratrice e classe capitalista – e con essa anche il ben noto spettro evocato nel 1848 da Marx – e farà invece uscire dal cilindro la “guerra” inter-statale fra le classi lavoratrici: Per il lavoratore che vive in un Paese povero, la richiesta fatta da un suo collega più fortunato di essere protetto contro la concorrenza a salari bassi da una legislazione di salari minimi, si suppone nel suo interesse, è spesso niente più che un mezzo per privarlo della sua sola occasione di migliorare la propria condizione: quella di superare gli svantaggi che gli sono naturali, lavorando a salari più bassi rispetto ai suoi compagni degli altri Paesi […]. In realtà, se si arriva a considerare come un dovere per l’autorità internazionale attuare la giustizia distributiva fra i diversi popoli, lo sviluppo coerente e inevitabile della dottrina socialista farà in modo che la lotta di classe diventi una battaglia tra le classi lavoratrici dei diversi Paesi (Hayek 2006, 275).

Hayek, inoltre, cerca di dimostrare come in una federazione di Stati liberali democratici, come la Francia e l’Inghilterra, risulterebbe impossibile l’affermarsi di una economia pianificata di tipo socialista: Che gli inglesi o i francesi debbano affidare la protezione delle loro vite, libertà e proprietà – in breve, le funzioni dello Stato liberale – a un’organizzazione super-statuale è concepibile. Ma che essi dovessero essere disposti a dare al governo di una federazione il potere di regolare la propria vita economica, di decidere cosa dovrebbero produrre e consumare, non sembra né probabile né desiderabile. Tuttavia, allo stesso tempo, in una federazione questi poteri non potrebbero essere lasciati agli Stati nazionali; pertanto, la federazione sembrerebbe significare che nessuno dei due governi potrebbe avere poteri per la pianificazione socialista della vita economica (Hayek 1948, 265-266).

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Riassumendo, Hayek, dopo aver iniziato illustrando quali fossero le precondizioni economiche della pace internazionale, mira a dimostrare che la coerenza interna ed esterna di una federazione di Stati richiede necessariamente una politica economica liberale, ma soprattutto suggerisce che per affermarsi – ovvero per eliminare la possibilità che lo Stato democratico divenga socialista o, in altre parole, perché il capitalismo sia tutelato dal pericolo della democrazia – una politica economica liberale deve accoppiarsi a una cornice politica sovra-statuale. Per Hayek, quindi, la federazione internazionale può avere successo nel preservare la pace internazionale soltanto se riesce a integrare la sua l’economia, e la sua economia può essere integrata solo sotto forma di un mercato unico e libero (da interventi statali), in quanto solo il mercato può essere un fattore unificante e da tutti accettato (perché, secondo Hayek, altri tipi di accordi economici non sarebbero stati sostenibili). Un mercato libero per merci, capitali, lavoro e quant’altro, imposto e vigilato dalle norme federali, rendendo così del tutto impotente il livello statale, che per Hayek era oramai preda dell’invadenza delle istituzioni democratiche potenzialmente dominate da obiettivi di emancipazione del lavoro e di redistribuzione delle risorse in modi indipendenti dalla distribuzione fornita dal mercato. Tuttavia dobbiamo rilevare come Hayek tendesse a sottovalutare quella considerazione che in termini odierni è nota come ipotesi “no demos”, ovvero l’assenza di un popolo europeo omogeneo da tutti o dalla maggior parte dei punti di vista, o che invece ritenesse che comunque la cultura omologante del mercato, sotto le opportune nuove istituzioni federali si sarebbe diffusa rapidamente fino a diventare l’unica comune fonte di identità dei cittadini-consumatori: L’errore di ragionamento di Hayek, nel suo piano per una federazione internazionale legata al neoliberismo, era di pensare che tutte le società nazionali partecipanti si sarebbero adattate felicemente – e quindi potessero essere indotte a fondere i loro interessi e le loro identità – nel libero mercato che il governo centrale avrebbe cercare di stabilire per il bene della pace internazionale. Ciò che gli sfuggì fu che le persone avrebbero cercato di difendere il loro modo di vivere e le loro pratiche economiche basandosi sulle loro tradizioni culturali e usando qualsiasi istituzione politica che avevano lasciato loro. Forse il motivo era che considerava

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tali peculiarità come nient’altro che tatuaggi sulla pelle di un Homo oeconomicus universale; o che la possibilità democratica di un’azione collettiva contro la giustizia del mercato semplicemente non esisteva nel suo mondo (Streeck 2014,181).

Volendo infine omaggiare la rilevanza teorica e pionieristica del lavoro di Hayek, possiamo concordare che l’articolo di Hayek del 1939 costruisce un ponte tra l’economia austriaca, il “liberalismo autoritario” interbellico di Schmitt, l’ordoliberismo tedesco del dopoguerra e il neoliberismo dell’UE dagli anni ’90 (Streeck 2015, 368).

L’eliminazione della sovranità dei governi democratici nazionali e l’eliminazione della democrazia dal governo della federazione inter-statale sono un tutt’uno. Hayek sa bene che solo la costruzione federativa può garantire la libertà di tutti mercati (per lui la “mercatocrazia” è sinonimo di democrazia). E se, per avere la “mercatocrazia” internazionale, si deve rinunciare alle democrazie nazionali che male sarà mai, specie per un vero liberale? Infatti egli afferma che se il prezzo da pagare per lo sviluppo di un ordine democratico internazionale è la restrizione del potere e delle funzioni del governo, è comunque un prezzo non troppo alto e tutti coloro che genuinamente credono nella democrazia dovrebbero essere pronti a pagare (Hayek 1948, 271).

Naturalmente non tragga in inganno il termine “democrazia” nell’affermazione di Hayek; per Hayek la democrazia non è certo la sovranità popolare (non solo quella rousseauiana, ma anche quella che nel secondo dopoguerra informa il patto costituzionale in alcuni paesi, specie l’Italia); quella democrazia non è efficiente ed è in fondo liberticida, perché «la democrazia funziona solo se non la sovraccarichiamo e se le maggioranze non abusano del loro potere di interferire con la libertà individuale» (Hayek 1948, 271). Quindi, nel pensiero di Hayek, la democrazia da realizzare a livello internazionale, era ben diversa da quella realizzata a livello dello Stato nazionale democratico200, esercitata da partiti con-

200 Per amor di precisione, riportiamo alcune specifici suggerimenti tecnici di Hayek sul disegno ideale di una democrazia rappresentativa (che, peral-

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correnti alla formazione dell’indirizzo politico e partecipata ben oltre il momento elettorale, basata sulla libertà e l’uguaglianza dei cittadini, e così via. Quella di Hayek è una concezione che già da allora è rimasta una caratteristica del pensiero neo-liberale, e che possiamo chiamare, con l’ossimoro di Somma, quella di una “democrazia spoliticizzata”: la concezione neoliberale della democrazia non si è nel frattempo aggiornata, se non altro in quanto risente della volontà di neutralizzare il riconoscimento della società in quanto vicenda funzionale a prevenire l’autofagia del mercato. Per questa la concezione continua a potersi sintetizzare ricorrendo a un ossimoro, ovvero all’idea di democrazia spoliticizzata: chiamata a sterilizzare il conflitto sociale, a disattivare le cinghie di trasmissione tra questo e le scelte dei pubblici poteri. A impedire che l’esercizio della sovranità popolare corregga l’ambiguità di fondo della democrazia borghese (Somma 2019, 50).

Non dobbiamo però dimenticare che le intuizioni di Hayek non sono solitarie. Egli stesso tira in ballo Robbins, suo collega alla London School of Economics e presumibile sodale nella riflessione teorica e politica quotidiana201:

tro, come ironizza Streeck, sarebbe comunque ancora troppo “democratica” se comparata con la a-democrazia che oggi è implicata nell’Unione Europea): «Più specificamente, Hayek propone di trasferire i poteri legislativi a un’“assemblea legislativa” i cui membri sono eletti per quindici anni, per un solo mandato. Ogni cittadino avrebbe potuto votare una sola volta nella vita, all’età di 45 anni, in modo che le persone nate in un determinato anno occupassero un quindicesimo dei seggi nell’assemblea. I rappresentanti di partiti politici e gruppi di interesse (funzionari sindacali!) non dovrebbero essere ammessi alle elezioni; l’indipendenza dei deputati dovrebbe essere rafforzata da disposizioni generose per la loro vecchiaia. I mezzi usati oggi per immunizzare l’economia capitalista contro le politiche democratiche-interventiste sono ovviamente diversi, sebbene la Commissione europea e la direzione della Banca centrale europea siano persino meno elette dei membri dell’assemblea proposta da Hayek» (Streeck 2017, 196). 201 Come dice Hoover (2003, 111), la contrapposizione fra Keynes e la LSE di Robbins e Hayek sull’intervento dello Stato era molto più di un disaccordo intellettuale, in quanto dietro all’attività della LSE vi era l’appoggio dell’élite transnazionale: «Potenti forze finanziarie erano al lavoro nel retroscena. Negli anni Trenta, la Fondazione Rockefeller ha svolto un ruolo centrale nel sostenere LSE. La stessa Fondazione ha anche sostenuto l’Institut Universitaire des Hautes Etu-

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In una recente discussione sul liberalismo internazionale, è stato giustamente sostenuto [da Robbins] che una delle principali carenze del liberalismo ottocentesco risiede nel fatto che i suoi sostenitori non si sono resi sufficientemente conto del fatto che il raggiungimento della riconosciuta armonia degli interessi tra gli abitanti dei diversi Stati era solo possibile nell’ambito della sicurezza internazionale (Hayek 1948, 269-270).

Infatti, anche Robbins, nel suo Economic Planning and International Order del 1937, esprime in modo altrettanto convinto la necessità sia di eliminare la sovranità dello Stato che di formare una Federazione fra Stati, specificando bene che, però, tanto la Confederazione di Stati indipendenti quanto, all’opposto, un unico Stato mondiale sarebbero, invece, altrettanto dannosi degli Stati nazionali: L’esistenza di un solo Stato i cui capi siano malintenzionati può rendere vana la cooperazione di un mondo di popoli pacifici. Solo con l’abbandono della sovranità – del diritto di fare la guerra – da parte degli Stati nazionali, questo pericolo può essere scongiurato […]. [È] evidente che la semplice associazione fra Stati sovrani è inefficace. La confederazione – Staatenbund – non ha mai avuto molto successo […]. Ma uno Stato mondiale [Einheitsstaat] completamente unitario non è né praticamente attuabile né desiderabile […] Caligola desiderò un giorno che tutto il popolo romano possedesse una sola testa per poter conoscere l’estasi suprema di decapitarlo con un solo colpo. Questo grande Leviatano – lo Stato mondiale unitario – potrebbe suscitare le stesse tentazioni nei sadici dei nostri tempi. Se la sovranità indipendente significa caos, uno sconfinato Stato mondiale potrebbe significare morte […]. Non si deve giungere né a un’alleanza né a una completa unificazione, ma a una federazione. Non Staatenbund, non Einheitsstaat, ma Bundesstaat (Robbins 1979 [1937], 209-210)202.

des Internationales di Ginevra, che è diventato, con von Mises nel suo staff, il centro della resistenza europea agli approcci socialisti e keynesiani all’intervento governativo nel mercato». Noto che, forse non a caso, entrambi i volumi pubblicati da Robbins nel 1937 e 1939 erano basati su una serie di conferenze tenute su invito all’Institut ginevrino. 202 Hayek riporta nel suo lavoro proprio quelle conclusioni di Robbins, riassumendole nell’affermazione che questi aveva fatto: «non devono esserci né alleanze né completa unificazione; né Staatenbund né Einheitsstaat ma Bundesstaat».

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Robbins, nel 1939, attacca la sovranità statale ancora più causticamente e, con toni profetici, predice l’ineluttabile eliminazione degli Stati, ma l’evento predetto può accadere attraverso l’auspicata federazione oppure, meno auspicabile, attraverso un Cesare che crei l’Impero mondiale: Oggi sappiamo che se noi non distruggiamo lo Stato sovrano, lo Stato sovrano distruggerà noi […]. Come la polvere da sparo ha reso antiquato il sistema feudale, così l’aeroplano rende antiquato il sistema delle sovranità indipendenti europee. Un tipo più ampio di organizzazione è inevitabile. Si realizzerà per mutuo accordo o mediante la conquista cesarea? Questa è la questione non ancora risolta. O impero o federazione: guardando le cose dall’alto non ci sono altre alternative (Robbins 1944 [1939], 102-103).

È facile vedere che le posizioni di Hayek e Robbins sono essenzialmente le medesime. Entrambi convergono su una visione “cosmopolita” del governo, che è però incentrata sulla federazione di Stati più che su un governo unico di una unione, proprio perché, come le parole sopra riportate di Robbins sintetizzano magistralmente, solo attraverso di essa si depoliticizza il governo e si tagliano le unghie alla democrazia, e questo per le sottili ragioni ‒ sopra analizzate ‒ di logica politica ed economica intrinseche a quel sistema politico internazionale che, invece, né in un’alleanza fra Stati né in unico governo mondiale (o continentale) – eppure apparentemente efficaci al pari di una federazione se l’obiettivo fosse stato solo quello di impedire la guerra fra gli Stati nazionalistici – potrebbero risultare valide. Effettivamente, la proposta federale avanzata sia da Robbins che da Hayek – le cui motivazioni sono spiccatamente neo-ordoliberali – è di qualità diversa da altre proposte di Europa più o meno unitaria apparse già nell’800. Come rileva Becchi (2015), mentre sia l’illuminismo settecentesco203 che il mazzinianesimo e il proudhonismo ottocentesco

203 Becchi ricorda che Rousseau, nelle Considerazioni sul governo di Polonia del 1772, arriverà a incitare i polacchi a non sacrificare la loro identità nazionale, constatando, a malincuore, che esistono solo europei e non più francesi, tedeschi, spagnoli.

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parlavano di Europa, tuttavia, rimaneva in essi il riconoscimento delle diverse identità culturali e politiche dei diversi Stati, e la identità europea era paradossalmente data proprio dalla ricchezza delle differenze nazionali, e persino infra-nazionali, nel ’900. Invece, prima con il movimento internazionale (assai diffuso nelle élite internazionali, specie finanziarie) del conte nippo-austriaco Coudenhove-Kalergi iniziato col saggio Paneuropa nel 1923, poi in sede britannica col Federal union research institute diretto da Beveridge a Oxford, a cui aderiva Robbins, come col movimento italiano nato nel 1941 col Manifesto di Ventotene (Spinelli, Colorni e Rossi), viene proposta drasticamente l’abolizione degli Stati nazionali sovrani e la creazione degli Stati Uniti d’Europa. In questo contesto di analisi, merita ricordare, che, piuttosto curiosamente, il fondatore del federalismo Spinelli riconosce nelle sue memorie la sua ispirazione non, come ci si aspetterebbe, in Mazzini o Cattaneo o Proudhon (ritenuti, invece, fumosi e contorti), ma nella letteratura in senso federalista degli inglesi degli anni Trenta, che quasi lo folgora e dei quali ricorda proprio Robbins, di cui tradurrà anche il libro del 1939204. Anche Somma rileva, quasi con sorpresa, una sostanziale somiglianza fra il testo di Hayek e il Manifesto spinelliano, di cui rileva «l’enfasi con cui si invoca la fine del “feudalesimo economico che si è sviluppato all’ombra degli Stati nazionali” e l’istituzione in sua vece di “un mercato comune fondato su una moneta unica e sulla libera circolazione degli uomini, delle merci, dei capitali, dei servizi”», in cui le disparità sociali sembrano solo quelle «“provocate dalle divisioni nazionali” e non anche quelle riconducibili all’appartenenza di classe» (Somma 2019, 38-39), e in cui “imprenditori e lavoratori” sono accomunati nella inclusione nel mercato salvifico da cui i lavoratori risulterebbero avvantaggiati 204 «Salvo il libretto di Lionel Robbins […] che poi tradussi […] non ricordo né i titoli né gli autori degli altri. Ma la loro analisi del pervertimento politico ed economico cui porta il nazionalismo, e la loro presentazione ragionata dell’alternativa federale, mi sono rimaste fino ad oggi nella memoria come una rivelazione. Poiché andavo cercando chiarezza e precisione di pensiero, la mia attenzione non fu attratta dal fumoso e contorto federalismo ideologico di tipo proudhoniano o mazziniano, ma dal pensiero pulito e preciso di questi federalisti inglesi» (Spinelli 1984, 307-308).

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come consumatori. Effettivamente, la lettura del Manifesto non può che evocare un inconfondibile sapore neo-ordoliberale. Probabilmente, la sostanziale unità ideologica dei progetti federalisti a ridosso della seconda guerra mondiale, che sembrano profetizzare la nascita della UE, la si spiega col triangolo – non molto notato – Robbins-Hayek-Spinelli. Merita, infine, ricordare anche Einaudi, che nel periodo in cui si confrontava col pensiero di Röpke, formula l’auspicio di uno Stato federale europeo in cui sia unico e libero il mercato di merci e persone, che prefigura la futura Comunità europea205. E ancora ben prima di Einaudi, è dal mondo cattolico liberale italiano che viene un appoggio incondizionato all’avvento del “cosmopolitismo” prima economico e poi politico206. Tornando alla proposta hayekiana qui esaminata, essa è senza dubbio stata recepita nel progetto di costruzione della UE; non si è trattato quindi di un contributo astratto, ma di un lucido e logicamente stringente progetto che è stato portato avanti con perseveranza e lungimiranza, a testimoniare anche che sul piano operativo neo-liberali e ordo-liberali appartengono alla medesima centrale di pensiero militante. Per dirla con Bonefeld (2017, 756), la visione di Hayek del 1939 di un sistema di “federalismo interstatale” si è rivelata nel contesto europeo la più suggestiva, al fine di creare una costituzione economica europea in cui gli

205 «nell’agosto del 1944 Luigi Einaudi, esiliato in Svizzera, scrive il saggio: I problemi economici della Federazione europea, prezioso contributo alla formazione dello Stato federale e brillante spiegazione della razionalità economica di un mercato europeo allargato a un continente dimensione, simile a quella che si sarebbe creata con la Comunità Economica Europea (CEE) nel 1957. […] la Federazione Europea dovrebbe assicurare libertà “…al traffico interstatale di persone e cose all’interno del territorio federale unico” […]. L’espressione “mercato unico” è usata da Einaudi con lo stesso significato dell’espressione odierna. […]. Scritte circa 70 anni fa, queste parole sono ancora moderne» (Santagostino, 2010, 368-369). 206 Infatti, scrive Sturzo: «Alcuni hanno timore della potenza enorme che ha acquistato e acquista sempre più il capitalismo internazionale che, superando confini statali e limiti geografici, viene quasi a costituire uno Stato nello Stato […]. Contro l’allargamento delle frontiere economiche dai singoli stati ai continenti, insorgono i piccoli e grandi interessi nazionali, ma il movimento è inarrestabile; l’estensione dei confini economici precederà quella dei confini politici. Chi non sente ciò, è fuori della realtà» (Sturzo 1954 [1928], 242-243).

L’“autosufficienza nazionale” di Keynes

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Stati federati operano all’interno di un quadro sovranazionale di diritti economici individuali, leggi e regolamenti che prevalgono sul processo decisionale democratico nazionale e incorporano le assemblee parlamentari democratiche di massa prive di potere con il ruolo di camere legittimanti un processo legislativo sostanzialmente de-democratizzato da parte di un consiglio di premier nazionali.

20. L’“autosufficienza nazionale” di Keynes Ma pochi anni prima di Hayek, nel 1933, Keynes aveva messo in luce come la causa della libertà di circolazione internazionale di merci e fattori produttivi fosse ‒ anziché un dogma di fede nel quadro del progresso dell’umanità pacificata – un pericolo per il futuro, pericolo da contenere proprio rivalutando l’ambito nazionale del circuito economico e riducendo il più possibile il cosmopolitismo economico. Come preliminare all’analisi della posizione di Keynes sulla relazione fra l’economia e lo Stato nazionale, accenneremo brevemente a quella di Max Weber economista rispetto alla medesima relazione, che, mutatis mutandis, sembra precedere Keynes rispetto a una visione “autarchica” e toccare certe tematiche oggi rilevanti in sede UE, come le migrazioni. Questa posizione viene espressa nel suo discorso inaugurale all’Università di Friburgo del 1895 sotto il titolo indicativo “Lo Stato nazionale e la politica economica tedesca” (Weber, 1998). Come argomenta Joerges (2013), che ne rivaluta l’importanza alla luce del dibattito sull’europeismo contemporaneo, l’attualità di questa affascinante ed inquietante posizione può essere rintracciata in due elementi: 1) l’oggetto dello studio sul campo207 riguardante le ragioni e le implicazioni delle migrazioni dei lavoratori; 2) l’uso di questo oggetto per dispiegare la sua visione degli impegni politici ed economici dello Stato

207 Weber utilizzò questo oggetto di studio «per spiegare alcune delle sue posizioni teoriche più astratte come delle sue provocazioni politiche», studio che appare «di straordinaria attualità e l’analisi fornita da Weber eccelle in precisione e sottigliezza» (Joerges 2013, 3).

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nazionale, visione che «è, nel migliore dei casi, in contrasto con la vocazione europea» (Joerges 2013, 3). Oggetto generale della sua analisi è la trasformazione delle strutture pre-moderne del patriarcato in un’economia agraria capitalista, trasformazione nella quale Weber individua sia le pressioni che questa esercita sui proprietari terrieri, sia gli effetti della medesima sul lavoro dipendente. Rispetto a questi ultimi, egli identifica la struttura di incentivi che causa nella Prussia orientale l’importazione di “lavoro a basso costo” dalle regioni limitrofe della Polonia e dalla più profonda Galizia orientale. Il lavoro empirico dal quale Weber attinge per il suo discorso inaugurale risale ad una ricerca del 1892 da lui svolta da Privatdozent a Berlino all’interno di una inchiesta della Verein für Socialpolitik (Associazione per la riforma sociale) sulla situazione della forza lavoro agraria nel Reich tedesco, dove Weber si era occupato della migrazione dei lavoratori dalla Polonia fino alla Prussia occidentale, e nella quale aveva evidenziato la capacità dei polacchi, al contrario dei tedeschi, di sopportare le cattive condizioni di lavoro e la situazione sociale nella nuova economia agraria; questa differenza “comportamentale” delle due popolazioni di lavoratori tendeva ad aumentare gradualmente la componente polacca a discapito di quella tedesca. A corredo di questa analisi, Weber esprime la sua preoccupazione per il declino della “germanità” (Deutschtum) nella Prussia occidentale. Una preoccupazione che non parrebbe certo condivisibile dagli “europeisti” di oggi. Ma Weber suggerisce, al fine di correggere l’eccesso di immigrati, l’intervento dello Stato nazionale attraverso due misure: la chiusura delle frontiere ai lavoratori stranieri e l’acquisto di terreni da parte dello Stato, misure che sarebbero ancora più «irritanti nelle prospettive dell’UE» (Joerges 2013). L’analisi weberiana dei lavoratori migranti dalla Polonia alla Germania chiarisce il meccanismo che sta dietro al fenomeno: la migrazione scatena la concorrenza “al ribasso” fra lavoratori. Inoltre, con inusitata chiarezza, Weber definisce la scienza economica un’ancella della politica, e la politica può liberamente scegliere fra interventismo statale o laissez-faire, purché la sua dimensione sia quella nazionale e il suo obiettivo la potenza e la ricchezza dello Stato-nazione:

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la scienza della politica economica è una scienza politica. Essa è dunque una ancella della politica […] lo Stato nazionale non è per noi un qualcosa di indeterminato che si crede di porre tanto in alto quanto più si avvolge la sua essenza in una mistica oscurità, bensì è l’organizzazione di terrena potenza della nazione […] vogliamo sostenere l’esigenza che per le questioni della politica economica tedesca – e, tra le altre, anche quella che riguarda se e in che misura lo Stato debba intervenire nella vita economica oppure, al contrario, se e quando lo Stato debba lasciare libere le forze economiche della nazione di dispiegarsi liberamente e abbattere le loro barriere – l’ultima e decisiva risoluzione, in ogni singolo caso, spetti senz’altro agli interessi di potere economici e politici della nostra nazione e del suo rappresentante, vale a dire lo Stato nazionale tedesco (Weber 1998 [1895], 17-18).

Ma quel che più vale, è l’applicazione qui della sua epistemologia: il rifiuto di attribuire “validità oggettiva” agli argomenti presentati in nome dell’economia politica, l’avvertenza che essi vogliono veicolare surrettiziamente giudizi normativi e scelte politiche. Tornando a Keynes, egli inizia il suo lavoro del 1933 ricordando di essere stato un convinto fedele del libero commercio, di avere scritto nel 1923 come il rispetto di quella fede fosse per lui basato su «verità fondamentali» e non costituisse solo una dottrina economica della quale un uomo razionale e istruito non poteva dubitare, ma fosse anche parte della legge morale. Tuttavia oggi ritiene fondate le posizioni di chi allora aveva sostenuto che una tariffa sulle importazioni avrebbe avuto un effetto positivo sulla disoccupazione e che da lui era stato invece accusato di dannoso protezionismo. Insomma la premessa è necessaria proprio per l’oggetto del suo contributo, che è appunto quello di spiegare le ragioni che l’hanno spinto ad abbandonare la fede nell’internazionalizzazione della libera economia. Anche Keynes parte dal presupposto che l’“internazionalismo” in campo economico si giustifica prima di tutto invocando come scopo la pace. Per Keynes, invece, mentre è assai improbabile che l’apertura economica internazionale garantisca la pace, come peraltro l’esperienza ha confermato, è invece piuttosto probabile che favorisca il sorgere di conflitti:

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Per cominciare con la questione della pace. Oggi siamo pacifisti con così tanta forza di convinzione […]. Ma ora non sembra ovvio che una grande concentrazione di sforzi nazionali per espandere il commercio estero, che la penetrazione della struttura economica nazionale da parte delle risorse e dell’influenza dei capitalisti stranieri, che una stretta dipendenza della nostra stessa vita economica dalle politiche economiche fluttuanti di paesi stranieri, siano salvaguardie e garanzie di pace internazionale. È più facile, alla luce dell’esperienza e della lungimiranza, pensare del tutto il contrario […]. Ad ogni modo l’età dell’internazionalismo economico non ebbe particolare successo nell’evitare la guerra; e se i suoi amici ribattono che il suo insuccesso non gli debba negare una ulteriore possibilità, è ragionevole sottolineare che un successo maggiore non è certo probabile nei prossimi anni (Keynes 1933, 757-758-759).

Al contrario, Keynes arguisce che la causa della pace possa essere meglio servita se si inverte la tendenza all’apertura internazionale, isolando di più le economie nazionali in direzione dell’autosufficienza: Per queste forti ragioni, quindi, sono propenso a credere che, una volta compiuta la transizione, una misura maggiore dell’autosufficienza nazionale e dell’isolamento economico tra paesi rispetto a quella esistente nel 1914 potrebbe tendere a servire la causa della pace, piuttosto che altrimenti (Keynes 1933, 759).

Le condizioni favorevoli dell’800 – non ultime la possibilità di espansione coloniale e le grandi differenze di cultura tecnica e industriale fra paesi – che portavano a ritenere senza alcun dubbio vantaggioso l’“internazionalismo” in campo economico, non vi erano già più al momento in cui Keynes scriveva. In un’epoca in cui migrazioni di massa popolavano nuovi continenti, era naturale che gli uomini portassero con sé nei Nuovi Mondi i frutti materiali della tecnica dell’Antico Mondo, incarnando i risparmi di coloro che li stavano inviando […]. In secondo luogo, in un’epoca in cui c’erano enormi differenze di livello nell’industrializzazione e nelle opportunità di formazione tecnica in diversi paesi, i vantaggi di un alto grado di specializzazione nazionale erano molto considerevoli (Keynes 1933, 759).

Della forma novecentesca dell’internazionalismo economico, Keynes percepisce la dannosità, sostenendo che le sue tipiche caratteristiche i) della libertà di movimento dei capitali finanziari, e

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ii) della separazione fra proprietà e controllo nelle grandi società per azioni, saranno, per quanto riguarda la prima, fonte di difficoltà per le politiche economiche nazionali, e per quanto riguarda la seconda, sempre più nel futuro fonte di tensioni e inimicizie. Rispetto alla prima caratteristica, Keynes osserva come la possibilità del capitale di raggiungere qualsiasi area del globo indipendentemente da dove sia la sua sede originaria sia un obiettivo – insieme alla massima specializzazione internazionale – dei fautori dello stato delle cose esistente ma sia anche causa, attraverso il noto fenomeno della “fuga dei capitali”, di impedimenti all’esercizio delle politiche economiche su scala nazionale: La protezione degli interessi esteri esistenti di un paese, la cattura di nuovi mercati, il progresso dell’imperialismo economico: queste sono una parte appena evitabile di uno schema di cose che mira al massimo della specializzazione internazionale e alla massima diffusione geografica del capitale ovunque sia la sua sede di proprietà. Le politiche nazionali raccomandabili potrebbero spesso essere più facili da comprendere, se, ad esempio, si potesse escludere il fenomeno noto come “la fuga del capitale” (Keynes 1933, 758).

Rispetto alla seconda caratteristica, Keynes ritiene che Il divorzio tra la proprietà e la reale responsabilità della direzione è grave all’interno di un paese quando, in una società per azioni, la proprietà è suddivisa tra innumerevoli persone che acquistano per il loro interesse oggi e per il medesimo interesse rivendono domani e mancano del tutto di conoscenza e responsabilità nei confronti di quello che possiedono momentaneamente (Keynes 1933 758).

La gravità di questa condizione tipica del capitalismo moderno è che essa, nel lungo periodo, condurrà a tensioni che supereranno l’eventuale guadagno ottenuto separando il possesso dei titoli finanziari costituenti la proprietà di impresa dall’impegno imprenditoriale: Potrebbero esserci alcuni calcoli finanziari che dimostrano che è vantaggioso che i miei risparmi vengano investiti in qualunque parte del globo abitabile che mostri la massima efficienza marginale del capitale o il più alto tasso di interesse. Ma l’esperienza già accumulata sta dimostrando che la separazione tra proprietà e management è un male nei rapporti tra

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gli uomini, dando per probabile o certo a lungo termine la creazione di tensioni e inimicizie che annulleranno il calcolato guadagno finanziario (Keynes 1933, 758).

Infatti, Keynes ritiene che la separazione fra proprietari e manager, che de-responsabilizza entrambi, abbia effetti ancora più perniciosi in un contesto internazionale; infatti se tale separazione avviene a livello internazionale, ciò è, specie in periodi di crisi, intollerabile – io sono irresponsabile verso ciò che possiedo e coloro che gestiscono ciò che possiedo sono irresponsabili nei miei confronti (Keynes 1933, 758).

L’avversione di Keynes per questa condizione di deresponsabilizzazione del capitalismo moderno e per la libera circolazione dei capitali finanziari, assume in lui forme sarcastiche quando immagina la zitella inglese che detiene titoli per gli investimenti urbani della città di Rio: L’investimento del risparmio britannico in rotaie e materiale rotabile che gli ingegneri britannici avrebbero dovuto installare per trasportare gli emigranti britannici in nuovi campi e pascoli, i cui frutti sarebbero tornati nella giusta proporzione a coloro la cui frugalità aveva reso possibili queste cose, non era nella sua essenza neppure lontanamente equiparabile all’“internazionalismo” in campo economico di una proprietà parziale dell’AEG della Germania da parte di uno speculatore di Chicago, o dei miglioramenti comunali di Rio de Janeiro da parte di una zitella inglese (Keynes 1933, 760).

Purtroppo, quella forma ottocentesca di liberalizzazione economica mondiale che premiava i virtuosi è stata essa stessa la causa che ha poi generato la forma novecentesca – quella della zitella inglese che detiene i titoli di un comune brasiliano – che è invece più gravida di svantaggi che di vantaggi: «Eppure era il tipo di organizzazione necessaria per facilitare il primo [il liberalesimo dell’800] che ha però finito col trasformarsi nel secondo» (Keynes 1933, 760). Oggi, però, sostiene Keynes, non vi sono più i vantaggi dell’800 nell’estendere la divisione internazionale del lavoro: «non sono convinto che i vantaggi economici della divisione internazionale del lavoro oggi siano affatto paragonabili a quelli che erano» (Keynes 1933, 760). In particolare, Keynes, os-

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serva, con corretta previsione, come la crescita economica stia tendenzialmente espandendo i settori dei servizi personali, immobiliari, locali (cioè settori che sono internazionalmente non-traded) rispetto alle materie prime e ai manufatti (settori traded), cosicché un eventuale costo maggiore sul secondo tipo di beni causato dall’autarchia sarebbe più che controbilanciato dai vantaggi di quest’ultima: all’aumentare della ricchezza, sia i prodotti primari che i manufatti svolgono un ruolo relativo minore nell’economia nazionale rispetto alle case, ai servizi personali e ai servizi locali che non sono oggetto di scambi internazionali; con il risultato che un moderato aumento del costo reale dei primi conseguente ad una maggiore autosufficienza nazionale può cessare di avere gravi conseguenze se confrontato con vantaggi di diverso tipo. L’autosufficienza nazionale, in breve, anche se costa qualcosa, potrebbe diventare un lusso che possiamo permetterci se lo volessimo (Keynes 1933, 761).

Quali sarebbero i vantaggi dell’autosufficienza nazionale? Intanto va preso atto che il mondo capitalistico internazionalizzato è una brutta cosa: Il capitalismo internazionale decadente sebbene individualista, nelle mani del quale ci siamo trovati dopo la guerra, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso – e non distribuisce le merci. In breve, non ci piace e stiamo iniziando a disprezzarlo (Keynes 1933, 761).

Inoltre, sarebbe vantaggioso ottenere l’indipendenza massima possibile dell’economia nazionale: Non credendo che siamo già salvati, ognuno di noi vorrebbe provare a elaborare la propria salvezza. Non desideriamo, pertanto, essere in balia delle forze mondiali che elaborano o cercano di trovare un equilibrio uniforme secondo i principi ideali, se possono essere chiamati tali, del capitalismo laissez-faire […] Vogliamo […] essere i nostri padroni e essere liberi quanto più possiamo renderci tali dalle interferenze del mondo esterno […] tutti dobbiamo essere il più liberi possibile dalle interferenze dei cambiamenti economici esterni, al fine di realizzare i nostri esperimenti preferiti verso la repubblica sociale ideale del futuro; e che un movimento deliberato verso una maggiore autosufficienza nazionale e un maggior isolamento economico renderà più facile il nostro compito,

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nella misura in cui possa essere realizzato senza costi economici eccessivi (Keynes 1933, 762-763).

Sebbene Keynes si esprima per la libertà dell’iniziativa privata per quanto riguarda gli aspetti microeconomici, egli dice però di essersi anche convinto che il mantenimento della struttura dell’impresa privata è incompatibile con quel grado di benessere materiale a cui ci dà diritto il nostro progresso tecnico, a meno che il tasso di interesse non scenda a un livello molto più basso di quella che potrebbe verificarsi tramite l’azione delle forze naturali che operano come nel passato (Keynes 1933, 763).

In effetti, dice Keynes, affinché si realizzasse quel tipo di società che vorrei, il tasso di interesse dovrebbe scendere quasi a zero, ma, purtroppo, la libera circolazione dei capitali, nonché delle merci, contribuisce a mantenere un livello mondiale del tasso d’interesse ben più alto di quello che sarebbe necessario per il progresso economico nazionale: In effetti, la trasformazione della società, che preferisco, potrebbe richiedere una riduzione del tasso di interesse verso il valore zero entro i prossimi trenta anni. Ma in un sistema attraverso il quale il tasso di interesse trova, sotto il funzionamento delle normali forze finanziarie, un livello uniforme in tutto il mondo, dopo aver tenuto conto dei rischi e simili, è molto improbabile che ciò accada. Pertanto, per una complessità di ragioni, che non posso elaborare in questo luogo, l’internazionalismo in campo economico che abbraccia la libera circolazione dei capitali e dei fondi prestabili, nonché dei beni scambiati, può condannare questo paese per una intera generazione a un livello molto più basso di prosperità materiale di quanto potrebbe essere ottenuto con un sistema diverso (Keynes 1933, 763).

Il corollario che consegue dal ragionamento è: lasciare circolare liberamente capitali e merci impedisce di ridurre “internamente” il tasso di interesse (e di profitto), ovvero di ridurre il guadagno di capitalisti e finanzieri, di quanto sarebbe necessario per ottenere un benessere sociale maggiore. Quindi, per Keynes due sono le prospettive di riforma dello Stato per riformare anche l’attuale civiltà: i) abbandonare il gretto calcolo finanziario da commercialisti per la valutazione delle principali scelte politiche,

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sociali ed economiche (quindi l’opposto del pensiero ordoliberale), seppure cum grano salis perché permangono ambiti in cui questo calcolo è ancora necessario; ii) recuperare la sovranità del puro “politico” rispetto ai fini che deve avere l’economia, quindi, in primis, sulla scelta del grado di apertura con l’estero: Ma una volta che ci permettiamo di essere disobbedienti alla prova del profitto di un commercialista, abbiamo iniziato a cambiare la nostra civiltà […]. È lo Stato, piuttosto che l’individuo, che deve cambiare il suo criterio. È l’idea del Cancelliere dello Scacchiere come presidente di una sorta di società per azioni che deve essere scartata. Ora, se le funzioni e gli scopi dello Stato devono essere così ampliati, la decisione su cosa, in linea di massima, deve essere prodotta all’interno della nazione e cosa deve essere scambiata con l’estero, deve stare in alto tra gli oggetti della politica (Keynes 1933, 766).

Ma – dice ancora Keynes – c’è un altro importante motivo per ri-orientare le nostre menti, e, quindi, l’auspicato isolamento nazionale per liberarsi dalla dipendenza estera sarebbe soltanto un mezzo e non un fine. Il fine sarebbe, piuttosto, l’attenzione alla – diremmo oggi – “qualità” del vivere, al godimento estetico della natura e dell’arte, che secondo Keynes è spietatamente dimenticato dal calcolo finanziario del profitto; quest’ultimo rende la condotta della vita «una sorta di parodia dell’incubo di un commercialista» (Keynes 1933, 766). La polemica contro il calcolo del ragioniere, contro il fatto che tutte le decisioni sono prese solo secondo la logica del profitto, contro la miopia autodistruttiva della ricerca del solo rendimento finanziario, persino contro il linguaggio “economico-finanziario” definito come un idioma imbecille208, raggiunge toni potenti, enfatici ma anche lirici: Invece di usare le loro risorse materiali e tecniche notevolmente aumentate per costruire una città delle meraviglie, costruirono baraccopoli; e pensavano che fosse giusto e consigliabile costruire baraccopoli perché i

208 Che l’idioma imbecille non fosse di moda solo allora ci è evidente quando pensiamo quante volte anche oggi di fronte alla richiesta del pagamento delle pensioni o di una spesa sanitaria viene opposto il monito – imbecille secondo Keynes – per cui così facendo “si ipoteca il futuro”.

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bassifondi, alla prova dell’impresa privata, “rendevano”, mentre la città delle meraviglie sarebbe stata, secondo loro, un atto di folle stravaganza, che nell’imbecille idioma finanziario oggi alla moda, avrebbe “ipotecato il futuro” […] le menti di questa generazione sono ancora così afflitte da calcoli fasulli che diffidano delle conclusioni che dovrebbero essere ovvie, a causa della dipendenza da un sistema di contabilità finanziaria che mette in dubbio se tale operazione “pagherà”. Dobbiamo rimanere poveri perché non “paga” essere ricchi. Dobbiamo vivere in tuguri, non perché non possiamo costruire palazzi, ma perché non possiamo “permetterci” di costruirli. La stessa regola del calcolo finanziario autodistruttivo governa ogni ambito della vita. Distruggiamo la bellezza della campagna perché gli splendori non appropriati della natura non hanno alcun valore economico. Siamo in grado di spegnere il sole e le stelle perché non pagano un dividendo (Keynes 1933, 764).

Keynes postula una relazione causale del tipo seguente: a causa del calcolo del profitto vengono tenuti inutilizzati lavoro e risorse, e create baraccopoli. Ma se ciò non fosse avvenuto, con le spese causate in conseguenza dai sussidi di disoccupazione e assistenza, non solo si sarebbero rese superflue tali spese ma nel contempo si sarebbero costruite le più belle città del mondo. Infatti se si fosse creata la piena occupazione di uomini e risorse impiegandole nella fornitura di tutti i più alti standard dell’arte e della civiltà per le città inglesi il denaro così speso non solo sarebbe stato migliore di qualsiasi altro speso in sussidi di disoccupazione, ma avrebbe reso superfluo qualsiasi sussidio. Perché con quello che abbiamo speso per i sussidi in Inghilterra dopo la guerra avremmo potuto rendere le nostre città le più grandi opere dell’uomo al mondo (Keynes 1933, 765).

Infine, Keynes scrive la famosa e amara frase con cui viene “bollata” la campagna della scienza economica liberista – intrapresa prima della Rivoluzione francese dai fisiocratici e da Turgot – come un inutile spargimento di sangue e una distruzione di antiche tradizioni per ottenere che il libero prezzo di “mercato” del pane fosse più basso […] di meno di un centesimo (penny)! fino a poco tempo fa abbiamo concepito il dovere amorale di rovinare gli aratri della terra e distruggere le secolari tradizioni umane legate all’allevamento per ottenere una pagnotta di pane a un qualche decimo di centesimo (penny) in meno. Non c’era nulla che non fosse nostro dovere

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sacrificare a questo Moloch e Mammona in uno; poiché credevamo fedelmente che l’adorazione di questi mostri avrebbe superato il male della povertà e condotto la prossima generazione in modo sicuro e confortevole, sulla scia dell’interesse composto, verso la pace economica (Keynes 1933, 765).

Keynes offre anche la ricetta del vero internazionalismo, che non significa affatto la libera circolazione dei capitali e delle masse di diseredati che offrono forza-lavoro a buon mercato, bensì «idee, conoscenza, arte, ospitalità, viaggi: queste sono le cose che dovrebbero essere per loro natura internazionali» (Keynes 1933, 758). Keynes, con la lucidità che gli è consueta, mette in questione che il principio economico del profitto, soprattutto quando è ridotto al calcolo del commercialista, possa diventare il principio politico, ed evidenzia il pericolo – sia per il benessere del paese sia per il suo livello di civiltà – che si verrebbe a creare quando il ministro del Tesoro si comportasse come il presidente di una società per azioni. In particolare, Keynes ribadisce che spetta interamente al “politico” e non all’“economico” ogni scelta nel campo dell’economia, quindi anche decidere “se, quanto e come” aprirsi all’estero spetta allo Stato coi suoi rappresentanti (come diceva Weber). Infine Keynes, dopo aver criticato l’uso ubiquitario della logica del profitto e aver riportato alla “politica” nazionale – quindi alla politica democratica – il compito di decidere cosa sia meglio in tema di apertura con l’estero dell’economia, ci fa sapere quale sia l’opinione personale che ha maturato sul tema: lasciate che le merci siano un prodotto nazionale ogni volta che sia ragionevolmente e convenientemente possibile; e, soprattutto, lasciate che la finanza sia principalmente nazionale […]. Sono quindi solidale con coloro che minimizzerebbero, piuttosto che con quelli che massimizzerebbero, i coinvolgimenti di tipo “economico” tra le nazioni (Keynes 1933, 759).

Una interpretazione riassuntiva del contributo di Keynes suggerisce che egli non intendeva sostenere il “nazionalismo economico”, all’epoca praticato in particolare dai Paesi che avevano ripoliticizzato il mercato ricorrendo a schemi mutuati dalla dottrina fascista. Neppure invocava cambiamenti

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rivoluzionari […] ma semplicemente indicava la direzione di marcia da intraprendere per cambiamenti meditati, per una “tendenza secolare”. Comunque dichiarava oramai estinto “l’internazionalismo economico” di matrice ottocentesca, e con ciò tramontata la certezza alla base del cosmopolitismo: che “una concentrazione di sforzi nazionali per attirare commercio estero, la penetrazione di una struttura economica nazionale da parte delle risorse e delle influenze di capitali stranieri e una stretta dipendenza della nostra vita economica dalle fluttuanti politiche economiche di Paesi stranieri assicurino la pace internazionale” […]. Per molti aspetti Keynes ha previsto con largo anticipo la fine ingloriosa di un ordine legittimatosi a partire dalla sua capacità di alimentare la pace, trasformatosi invece in un catalizzatore di conflitti (Somma 2019, 30).

Abbiamo appena visto che nel racconto di Keynes la finanza deve essere nazionale, le merci devono essere prodotte internamente, lo Stato nazionale deve tendere all’autosufficienza economica e cercare di isolarsi dalle influenze delle altre economie. Quali insegnamenti di misure di politica economica fattibili e realistiche ci consegna il contributo di Keynes? Il controllo dei movimenti dei capitali, il controllo della mobilità di masse di forza-lavoro, un nuovo sistema di cambi nazionali e un recupero della sovranità monetaria nazionale sono un minimo comun denominatore del pensiero keynesiano da tenersi ben in conto per chiunque abbia a cuore il recupero della democrazia insieme alla rinascita della politica; quest’ultima potrebbe tornare attuale, se si è memori delle affermazioni di Sombart – l’economia non è il nostro destino – e di Schmitt – la politica è il nostro destino. Quanto al controllo sulla libera circolazione delle merci, benché possa oggi sembrare controverso e inattuabile, in realtà bisogna considerare che nella logica keynesiana esso a tutt’oggi costituisce un corollario indispensabile per le politiche di sostegno alla domanda in funzione anticiclica. L’incentivo economico ai consumi deciso da un’autorità politica deve infatti poter produrre effetti entro il contesto territoriale di riferimento per quell’autorità (Somma 2019, 30).

Politiche di sostegno della domanda in funzione anticiclica, in assenza di controlli e politiche tariffarie, potrebbero creare un aumento delle importazioni e un peggioramento dei conti con l’e-

Concludendo

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stero, tali da peggiorare la crisi. Senza un intervento dello Stato sulla circolazione internazionale delle merci, il sostegno alla domanda sarebbe vanificato, o peggio si tradurrebbe in un peggioramento degli indici negativi che solitamente accompagnano i cicli economici avversi: ad esempio in un aumento degli squilibri nella bilancia commerciale e con ciò nella bilancia dei pagamenti (Somma 2019, 30).

I contributi di Keynes e Hayek furono pressoché coevi e pressoché opposti nelle proposte e nelle previsioni. Se il secondo ha trovato seguaci militanti che hanno reso operativo il suo contributo attraverso la costruzione della odierna UE, il primo ha visto smantellate tutte le applicazioni del suo pensiero. Tuttavia non meno veri e non meno attuali possono risultare i suggerimenti emergenti dal suo contributo che abbiamo sopra analizzato.

21. Concludendo Rimane in fondo centrale la questione del nesso fra democrazia e sovranità. La “sovranità” indica il potere più alto, a cui tutti gli altri sono subordinati. Il potere moderno con la sovranità che ha assunto verticalmente il potere di comando e il monopolio del diritto e della violenza, eliminando tutti i poteri intermedi e feudali, ha permesso unificazione politica, universalizzazione e razionalizzazione come condizioni della società moderna. Sovranità e capitalismo hanno realizzato di volta in volta fidanzamenti, nozze e divorzi, a seconda delle convenienze di entrambi, come suggerisce Braudel (1989). Il connubio fra capitalismo e Stato nazionale sovrano “liberale” uscito dalla Rivoluzione francese è stato particolarmente solido nell’800. Quando la sovranità “liberale” (basata sul censo e sul laissez faire) si è modificata in sovranità liberal-“democratica”, il matrimonio è cominciato ad apparire più di convenienza che di amore, a dispetto delle retoriche. Un matrimonio precario, come evidenzia, con straordinaria efficacia, la Luxemburg, tracciando in poche parole una intera teoria (marxiana) dello Stato liberal-democratico: nella società capitalista

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le istituzioni rappresentative, democratiche nella forma, sono nel contenuto lo strumento degli interessi della classe dominante. Ciò si manifesta in modo tangibile nel fatto che non appena la democrazia mostra la tendenza a negare il suo carattere di classe e a trasformarsi in strumento degli interessi reali della popolazione, le forme democratiche vengono sacrificate dalla borghesia e dai suoi rappresentanti statali (Luxemburg 1989 [1899], 47).

Non vi è dubbio che un secolo di lotte aspre per i diritti sociali, grazie al meccanismo democratico, ha ampliato gli interessi della classe antagonista a quella capitalista, come il cosiddetto compromesso keynesiano negli Stati europei del dopoguerra testimoniava. Allora la borghesia ha iniziato le pratiche di divorzio con quella forma-Stato, come lo sviluppo dell’Unione Europea, qui ripercorso, testimonia. Non è difficile, quindi intuire che concetti come globalismo, cosmopolitismo, internazionalismo, federalismo (spesso accomunati in modo ovviamente improprio), oppure nel campo politico-giuridico governance e soft law, oppure, ancora, in quello sociologico “liquidità” e “multiculturalità”, non sono altro che i segni della insofferenza del capitalismo del XXI secolo, caratterizzato dall’aspetto turbo-finanziario, al coniuge della “sovranità” e chiari segnali di divorzio: nessun capitalista transnazionale accetta oggi di avere un potere sopra di sé. La sovranità è drasticamente stigmatizzata e ridotta nel neologismo di “sovranismo”209.

209 Merita riportare per intero la colorita descrizione che Galli fa di questa “stigmatizzazione” della sovranità da parte del potere e del connesso pensiero (neo-ordoliberale) oggi dominante: «“Sovranità: disprezzarla, o deriderla”: è l’imperativo politicamente corretto delle élite intellettuali mainstream. Chi evoca quel concetto che sta al cuore della dottrina dello Stato, del diritto pubblico, della Costituzione e della Carta dell’Onu, è ormai considerato un maleducato, un troglodita: compatito e schernito come chi cercasse di telefonare in cabine a gettoni, quando non demonizzato come fascista. Sovranità è passatismo o tribalismo, nostalgia o razzismo, goffaggine o crimine. E sovranismo è sinonimo di cattiveria… La sovranità è cosa da poveri di spirito: ai poveri va infatti tributata simpatia (a parole) solo se migrano; se stanno fermi sono accusati di essere preda di superstiziose paure, di ricercare identità, sicurezza e protezione incatenandosi allo spazio, al sangue e al suolo delle «piccole patrie». Oppure, è cosa da demagoghi, nelle cui mani si mostra per ciò che veramente è: prigionia, logiche confinarie e identitarie, chiusura morale e intellettuale, razzismo, xenofobia. Lucus a non lucendo, la sovra-

Concludendo

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Il filosofo politico Galli inizia il proprio recente saggio (Galli 2019) con una domanda fondamentale ed una risposta tranchant: «Sovranità è democrazia? Oggi sì», e lo conclude, affermando che il ritorno della sovranità è il segno dell’esigenza di una nuova politica: Un tempo il pensiero non conformista doveva criticare la sovranità e la sua pretesa di autosufficienza, la sua intrinseca alienazione, la violenza implicita nelle sue istituzioni. Oggi, davanti ad altra violenza, ad altra alienazione, ad altra pretesa di autosufficienza, deve vedere nelle pur contraddittorie richieste di sovranità il sintomo dell’esigenza di ritrovare un approccio integrale, ed emancipativo, alla politica.

Se un tempo, e per molto tempo, la critica alla sovranità è stata “emancipativa”, oggi, di fronte ad un altro potere di comando non legittimato ed espressione di ristrette élite, può divenire “emancipativa” la richiesta di sovranità. Che dire allora della campagna per il superamento della dimensione “nazionale” a favore del “post-nazionale”? Se in assenza di una qualche idea di “nazione” e di “cittadinanza” (che necessariamente richiederebbe un minimo di comune appartenenza, di religione civile, di patriottismo, di sentirsi parte di un destino comune ecc., cosa che pare, ai più, assente in Europa) il “federalismo” come istituzione compiuta condurrebbe solo a una esplosione di forze centrifughe, allora il “federalismo” perorato dal neo-ordoliberalismo (di Hayek, Robbins, Spinelli, etc.) diventa invece – e non può che essere così – non un federazione ma soltanto un livello di potere “sovranazionale”, come la UE. Ma se è così, dalla lettura – compiuta qui – del coacervo di eventi, tensioni, idee e ideologie che hanno accompagnato le tappe della costruzione europea, emerge, più che altro, una drastica considerazione di natura filosofico-politica: questo livello di potere “sovranazionale” edificatosi come UE «non solo non è politicamente originario perché strutturalmente derivativo, pattizio, ma non è

nità è bassezza. Il cosmopolitismo è il bene; la sovranità, nella sua angustia spaziale, è il male. Se proprio si deve parlare di sovranità, sia quella degli Stati Uniti d’Europa, che però devono nascere estranei alle logiche della sovranità statuale» (Galli 2019).

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neppure suscettibile di democratizzazione, perché non ha alle spalle una istituzionalizzazione su grandi spazi tale da consentire il radicarsi di un principio di legittimità autonomo» (Preterossi 2017, 116). Se per “post-nazionale” si intende questo tipo di architettura “sovra-nazionale”, allora anche a molti viene il sospetto di Preterossi: che con esso si intenda semplicemente indebolimento della sovranità, giurisdizionalizzazione del potere ecc.: un processo da un lato oggettivo in virtù della maggiore porosità dei confini e della proliferazione reticolare degli scambi, dall’altro fortemente ideologico (segnato dalla confluenza del ripudio hayekiano della taxis e della fuga normativista, genericamente “progressista” dal potere) […]. Alla fine a troneggiare sono le sovranità economiche “indirette” del mercato “assoluto” (Preterossi 2017, 116).

La democrazia ha bisogno di un territorio e di un contesto socio-istituzionale come lo Stato-nazione210. Se i diritti sociali e la giustizia sociale sono andati di pari passo con lo stabilirsi della democrazia, allora il contesto nazionale è condizione necessaria per l’emancipazione211. Sembrerebbe allora che chi ha a cuore gli interessi del capitale e ritiene, come Hayek, la giustizia sociale un residuato tribale da eliminare e la cittadinanza un residuato giacobino da dissolvere nel mare della società aperta, dovrebbe per-

210 «il nesso tra democrazia e nazione non può essere negato né demonizzato. Identificare nazione e nazionalismo è un grave errore concettuale e storico. Pur con tutte le ambiguità del termine (che oscilla tra l’artificialismo della nazione costituente rivoluzionaria e le radici prepolitiche della comunità etnica) […] negare che la democrazia abbia bisogno di contesti, e che quello offerto dallo Stato-nazione sia stato quello privilegiato e a tutt’oggi insostituito sarebbe irrealista» (Preterossi 2017, 114). 211 Fra le posizioni contrarie, particolarmente significativa e autorevole è quella di Tommaso Padoa Schioppa, uno dei maggiori fautori dell’unione monetaria e Ministro dell’Economia nei governi italiani di centro-sinistra, che senza mezzi termini equipara Stato nazionale a totalitarismo, nazionalismo e guerra e addirittura a perversione della democrazia: «Tra le favole più spesso raccontate ve n’è una che si riassume così: il contenitore della democrazia è lo Stato nazionale; ergo chi ama la democrazia deve preservare intatta la sovranità nazionale […]. Il totalitarismo e la guerra si erano scatenati proprio all’interno dello Stato nazionale, divenuto – per un senso d’impotenza e di frustrazione che oggi riappare – non contenitore della democrazia ma culla della sua perversione» (Padoa-Schioppa 2006, 63-64).

Concludendo

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seguire la massima edificazione cosmopolitica in cui la democrazia è soltanto – come dicono autorevoli neo-ordoliberali – quella dei mercati, mentre chi ha cuore la giustizia sociale e la passione civile dovrebbe perseguire (o almeno sperare) un improbabile ritorno della nazione con il massimo possibile di sovranità economica e anche politica. Ma il sentiero del prossimo futuro avrà davvero solo questo bivio? Intanto va ricordato che il capitalismo (e anche il pensiero neo-ordoliberale) è proteiforme, capace di assumere vesti nuove in vecchi scenari e un nazionalismo veicolo di elementi stabilizzatori del capitalismo e di alcuni capisaldi del pensiero neo-ordoliberale, come l’individuo-impresa, la sussidiarietà e la gerarchia della comunità organica, potrebbe anche essere una strategia nuova del progetto neo-ordoliberale. Ma, d’altro canto, un’accelerazione del processo di de-politicizzazione e di dissoluzione degli Stati territoriali potrebbe rendere troppo difficile il compito ‒ lasciato alla soft low, alla concessione dei diritti a “tutto” e alla psicopolitica212 ‒ di “governare” gli uomini atomizzati, fino al rischio dell’esplodere dell’anomia e della ingovernabilità di spazi troppo aperti, tanto da dover richiedere l’azione di un nuovo katéchon213, la cui pre-figurazione apparirebbe, però, oggi troppo difficile. Inoltre, rimangono grandi territori statali, persino imperiali o multi-imperiali (p.e. Usa e Cina), che come potenze autonome perseguono le loro finalità, con una autonomia e una direzionalità (intenzionale o soltanto storico-evolutiva) che può sfuggire anche alla rete delle élite capitalistiche mondiali: per usare una metafora cara ad alcuni pensatori della sovranità moderna (da Hobbes a Hegel a Schmitt), Leviathan e Beehemoth – sotto cangianti forme – continuano il loro duello biblico.

212 La lezione foucaultiana ha aperto la strada per comprendere come «il potere non consiste solo nel governo o nell’oppressione di soggetti già esistenti, ma anche nella creazione di quei soggetti stessi» (Fanti 2021, 91). Vedi anche Han (2016). 213 Il tema del katechon come figura che trattiene l’esplosione dell’anomia e del disordine è di derivazione teologica e apocalittica, caro alla riflessione di Carl Schmitt, e magistralmente indagato da Cacciari (2013).

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Sicuramente questa Unione Europea presenta una ambiziosa, originale, inedita e sbilanciata costruzione214 che ha – specie dal 1992 – accelerato in modo sorprendente il tempo al di là di quanto potesse essere immaginabile dall’esperienza secolare della storia istituzionale europea. Essa si mostra come una costruzione tecnocratica e formalistica di pertinenza di élite ristrette e distante dalla prassi democratica e dalla partecipazione popolare come forse nessuna altra istituzione post-assolutista. Tuttavia, la UE ha una caratteristica: la mancanza di sostanza e di energia politica. Un ritorno di questa sostanza e di questa energia (che comunque rimane nelle prerogative del “popolo”) è comunque auspicabile, come è auspicabile che sia essa – e non altri surrogati – a porsi e a risolvere legittimi dilemmi, quale ad esempio: rottamare la sovranità territoriale o rottamare Maastricht?215

214 « [...] l’integrazione sovranazionale attuata facendo precedere l’unificazione monetaria a quella economico-fiscale prima ancora che a quella politica di un’area come quella dell’U.E.M., così come una moneta senza Stato, rappresenta un unicum nel panorama comparatistico» (Marzulli 2014, 14). 215 Ho qui preso spunto dal titolo del libro di Barba et al., 2016.

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