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Italian Pages 184 [192] Year 1988
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ART INFORMATION CENTER VISUAL & PERFORMING ARTS : CHICAGO PUBLIC LIBRARY
| CHICAGO PUBLIO LIBRARY 400 SOUTH STATE STREET CHICAGO, ILLINOIS 60605
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UN REGISTA A CINECITTÀ
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Fellinia Federico, Un roegiata a Cinacitta
di Federico Fellini
ARNOLDO MONDADORI EDITORE
progettoe realizzazione grafica: Giuseppe Villa redazione: Daniela Penazzo ha collaborato: Lietta Tornabuoni
ricerca iconografica a cura di Gianfranco Angelucci con l’assistenza di Daniela Barbiani © 1988 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Creazione Libri Illustrati Prima edizione: ottobre 1988
Tutti i disegni pubblicati, per gentile concessione della Diogenes Verlag g e degli 8 g Editori Laterza, ) sono di Federico Fellini
Le frasi tra virgolette contenute nelle didascalie sono di Federico Fellini
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CHICAGOPLUS: 3 LIBRARY 400 SOUTH STATE STREET CHICAGO, ILLINOIS 60605 27
ISBN 88-04-31739-6
Finito di stampare nel mese di settembre 1988 presso la Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Stabilimento di Verona Printed in Italy
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SOMMARIO
Un regista a Cinecittà
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Cronologia 4 Mario Lombardo
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Filmografia
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Indice
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i trovavo in un ambiente buio, inquietante,
« ma nello stesso tempo anche familiare. Mi muovevo lentamente. L’oscurità era profonda. Le mie mani toccavano una parete che non finiva mai. In altri film, in sogni come questo, mi liberavo volando via, ma adesso, chissà, un po’ più vecchio, un po’ più pesante, facevo una gran fatica a sollevarmi da terra. Alla fine ci riuscivo e mi trovavo librato a grandissima altezza. Il paesaggio che vedevo tra squarci di nubi laggiù in fondo, cos'era? La città universitaria, il policlinico? Sembrava un reclusorio, un rifugio antiatomico. Alla fine lo riconoscevo: era Cinecittà». Cosi diceva la mia voce nel raccontino d’inizio del mio film. Rispondevo a una troupe televisiva di giornalisti giapponesi arrivati fino a Cinecittà a pormi delle domande sullo stabilimento più famoso d’Europa. Come sarei contento se potessi cavarmela con altrettanta sbrigatività anche scrivendo il testo che mi è stato richiesto per questo libro: ma temo che non mi sarà possibile e dovrò inventare qualcosa di diverso, anche se mi sembra d’aver detto tutto nel filmetto che si chiama “Intervista”, e che forse
qualcuno di voi ha avuto occasione di vedere, Non mi fido di quello che dirò: Cinecittà oggi mi pare appartenga a un periodo del passato, e non credo davvero di essere il più adatto e attendibile a parlarne con intenti storici, tecnici, generali, come forse l’occasione pretenderebbe. Il mio punto di vista è sempre condizionato da una soggettività cosî privata e permalosa che posso soltanto raccontare Cinecittà cosi come mi è apparsa e come l’ho vissuta. La Cinecittà delle mie esperienze, insomma, dei miei film. Sî, è vero, ci ho passato molti anni, ci ho abitato come in una casa, molte volte anche la domenica pomeriggio: non per amore domestico, ma perché mi piaceva il suo silenzio da sanatorio o da ospizio nel quale potevo lavorare calmo e solo senza voci di persone che chiamano sempre lo stesso nome, né squilli di telefono.
iù rapida la luce «di Roma
Non provo un sentimento particolarmente affettuoso per Cinecittà e se a volte mi capita di passarci davanti per caso non me ne rendo neanche conto. Me ne accorgo dopo, quando sono già nel traffico della Tuscolana che torna in città o che porta in campagna verso qualche trattoriola amica. Nemmeno per un attimo indugio a pensare che dentro quelle mura rossastre, spesso ricoperte da manifesti insudiciati con scritte minacciose 0 innamorate, c’è qualcosa che ha costituito e costituisce il senso di moltissime stagioni della mia vita: in genere tendo a scappare dalle cose che più inequivocabilmente mi rappresentano; ma le pagine per questo libro le ho promesse, e vediamo un po’ come metterle insieme.
Ae pagine 2 e 6: Cinecittà ricostruita a Cinecittà,
come ogni altra realtà di Fellini, per “Intervista” (1987). Il modellino consente al regista di ricreare il suo regno, il luogo nel quale ha realizzato dal 1960 în poi tutti i suoî film: «Avrei potuto girare dall’alto con l'elicottero, ma
quel tipo di ripresa ti dà una mappa che, proprio perché è vera, non convince. Io volevo farla in un’altra maniera, Cinecittà: nel
modellino ho potuto dare un percorso diverso alle chiome dei pini, dare un colore diverso ai tetti incatramati, dare agli edifici una tinta grigia uniforme che li fa somigliare a un gioco di
costruzioni per bambini». Sopra: il manifesto colloca Cinecittà tra gli strumenti propagandistici del fascismo. Lo stabilimento nasce infatti come una Hollywood fascista, sogno d’imitazione di un Paese povero e megalomane coltivato soprattutto
dal figlio di Mussolini, Vittorio. Viene costruita in 475 giorni da Carlo Roncoroni, su progetto dell’architetto Gino Peressutti: molto rapidamente, e benissimo. Cinquant'anni dopo, edifici e teatri di stile razionalista non sono troppo diversi da quelli delle fotografie e della mappa iniziali che si vedono a fronte.
uando ho sentito parlare per la prima volta di Cinecittà? E dove? Domande inutili: quale altro luogo avrebbe potuto essere se non il polveroso, buio, schiodato cinema Fulgor di Rimini? Tutta la mia vita, in fondo, è cominciata da quel cinemino. Quella saletta più lunga che larga, dove l’estate per far respirare un po’ la gente che s'era dentro assiepata “Usciaza”, la maschera, apriva le porte laterali e se quelli che passavano per la strada si fermavano sulla soglia a naso in aria li spingeva indietro con grida da pazzo e chiudeva le tende. Lo chiamavano “Usciaza” che in romagnolo significa in modo blasfemo qualcosa di molto grande, di molto grosso. Era enorme infatti e quando il Fulgor l'estate chiudeva lavorava allo scalo merci come scaricatore. Era anche infido, stava immobile nel buio nascosto dietro le tende per spiare sulle facce degli spettatori la minima espressione di insofferenza quando sullo schermo, nei cinegiornali, appariva il Duce, e poi correva a fare la spia al Fascio. Una volta, in quattro, lo hanno arrotolato dentro la tenda, facendolo girare come un salamone appeso al soffitto e legandolo alle caviglie e sopra la testa. Da là dentro lanciava urla da bestia, ma nessuno aveva il coraggio di andarlo a liberare.
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M ussolini inaugura Cinecittà il 27 aprile 1937, di pomeriggio, con gerarchi, bandiere, fanfare, bambini in divisa, operai inquadrati militarmente, generali e deputati. Scrive il quotidiano Me Abi
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acclamazioni il grande piazzale che della Città cinematografica forma vasto e luminoso ingresso, ha presenziato all’inizio del film “Elevazione”, soggetto di Vittorio Mussolini, e del film “Aviazione”, Des: svolgerà sotto la superdirezione di Vittorio
Mussolini stesso... Il Duce ha poi presenziato alla sincronizzazione del film “Scipione l’Africano”...». Il motto mussoliniano «la cinematografia è l'arma più forte» echeggia l'analogo slogan leninista.
Proprio in un cinegiornale ho sentito per la prima volta quel nome: Cinecittà. Che anno era, il 1936? Il 1937? Nelle immagini in bianco e nero si vedeva Mussolini attraversare un terreno che pareva un cantiere, tutto disseminato da baracche grandi come hangars, e capannoni più alti di quelli dei mercati generali. Procedeva a passo energico, remigando con le braccia, lungo viali desolati seguito da un codazzo di gerarchi fascisti in divisa, che
facevano a gara nel fingere di stentare a tenergli dietro: «Il Duce ha inaugurato gli stabilimenti cinematografici di Cinecittà. L’Italia ha finalmente un proprio complesso per la realizzazione di film...», recitava stentorea la voce dello speaker. Nel Giornale Luce Mussolini parlava con tecnici in tuta bianca; Mussolini, con le mani sui fianchi, guardava nella macchina da presa; Mussolini apprezzava, muovendo la grossa testa in cenni di consenso; Mussolini si intratteneva con uomini e donne, avvolti in lenzuola, altri con corazze e cimieri, scambiando con loro scattanti saluti doppiamente romani. Non ricordo d’essere rimasto particolarmente impressionato, né mi pare fosse particolarmente impressionato il pubblico del cinema. Il Fulgor resta per me l'emblema di ogni cinema, l’ho già raccontato in quasi tutti i miei film. Adesso, nell’atrio, c'è una mia grande fotografia. Sto lf, proprio sopra la cassa, e non posso fare a meno di pensare che quando c’è un film che non piace, la gente uscendo se la prenderà un po’ anche con me, mi guarderà con delusione. Moltissimi anni fa, invece, vicino alla cassa stava il proprietario del locale, uno che era convinto di essere il sosia di Ronald Colman; per la verità non gli assomigliava molto, forse un pochino quando si metteva di tre quarti
con l'ombra del cappello su un occhio, ma doveva star fermo, però, e avere la sigaretta tra le dita, sotto il mento,
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Rag stile, iconografia e grottesco fascista in “Amarcord” (1973). Nell’immagine sopra, uno dei ragazzi del film sogna di venir sposato alla ragazzina amata dall'enorme ritratto del Duce composto da migliaia e migliaia di fiori di colore bianco e rosa. «Il condizionamento buffonesco, di teatralità, di infantilismo, la
soggezione a un potere burattinesco, a un mito ridicolo, è
proprio il fulcro di “Amarcord”... Una grande ignoranza e una grande confusione... Ancora oggi,
quello che più mi interessa è la maniera psicologica, emotiva di essere fascisti: una sorta di blocco, di arresto alla fase
dell’adolescenza...».
8 bozzetto di Fellini per il cinematografo di Rimini in “Amarcord” e un'immagine del cinema degli anni fascisti nella fotografia di lavorazione a Cinecittà de “Il feroce Saladino” di Mario Bonnard (1937). con Alida Valli e Angelo Musco. A fronte, manifesti pubblicitari di film realizzati a Cinecittà. Nonostante la volontà della dittatura fascista di controllare e dirigere il cinema, il genere italiano prediletto rimane la commedia: su 279 film girati a Cinecittà tra l’aprile 1937 dell’inaugurazione e il luglio 1943 della caduta del fascismo, 120 sono commedie, mentre i film di propaganda politica o di guerra sono 17.
un po’ a destra, col fumo che gli saliva dritto come un filo. Lui lo sapeva che l’immobilità favoriva la somiglianza. E allora, quasi senza respirare, stava rigido come dipinto sul muro, vicino alla biglietteria, dove dietro ilvetro con la finestrella c’era la moglie, che staccavaibiglietti con delle grandi leccate di pollice, e allattava anche, coprendo seno e bamboccio con un asciugamano afiori, e da là sotto si sentiva un gran ciucciare, e a tratti delle strilla da tucano. I film che proiettava nel suo locale, lui andava a vederli qualche giorno prima a Bologna, e quando tornava faceva il misterioso: «Ah, io non parlo», diceva, ma poi, con grandi
dondolamenti della testa e una serie in crescendo di «ostcia-burdèl», dava chiaramente a capire che li a Bologna era stato testimone di fatti straordinari. «Muore?», chiedevamo noi sulle spine. «Muore ’sta melanzana!», sghignazzava lui, perdendo un po’ dell’aplomb di Ronald Colman. Lo guardavamo ammirati, pieni di invidia. «E Jean Harlow quando viene?» «A Natale è qui», annunciava lui con grande sicurezza. «E Wallace Beery?» «A fine gennaio. Forse. Perché non so se lo faccio venire».
Una domenica mattina, da dietro una tenda, l’ho visto solo solo, seduto in platea, quasi al buio, che guardava il telone bianco fumando in silenzio. E la moglie del farmacista, che andava al Fulgor per farsi tastare? Vedeva i film tre o quattro volte di seguito, e tutto attorno a lei era un gran carosello di giovanotti, anche noi ragazzini tentavamo la grande avventura, cambiando posto in continuazione con una lenta marcia di avvicinamento. Lei non guardava nessuno, fumava lentamente, attraverso le maglie della veletta, tendendo i labbroni tumidi, gli occhi quasi strabici fissi sullo schermo, mentre noi, ansimanti e col cuore che scoppiava, ci davamo un gran da fare sulle sue cosce. Mi piacerebbe fare un film sul cinema Fulgor, raccontando tutto quello che succedeva in quel cinemino, dove un’intera generazione è stata condizionata e in parte protetta, durante gli anni del fascismo, da quelle ombre lucenti che sul telone raccontavano storie affascinanti di un Paese più ricco, libero, felice e divertente come era l’America.
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