Un Brassens ai margini. Brassens oriundo italiano e anarchico 9788894725810, 1025557768

Fra i tanti aspetti della personalità ricca e attraente di Geor­ges Brassens, alcuni sono meno conosciuti, spesso travia

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Un Brassens ai margini. Brassens oriundo italiano e anarchico
 9788894725810, 1025557768

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Isabelle Felici

Un Brassens ai margini Brassens oriundo italiano e anarchico

La Fiaccola

И Q7

BIBLIOTECA LIBERTARIA A,

Georges Brassens.

Isabelle Felici

UN BRASSENS AI MARGINI Brassens oriundo italiano e anarchico

Edizioni La Fiaccola

Isabelle Felici, Un Brassens ai margini - Brassens oriundo italiano e anarchico, Edizioni La Fiaccola, Ragusa, dicembre 2023. ISBN 978-88-947258-1-0

Pubblicazione a cura dell’Associazione Culturale «Sicilia Punto L», via Garibaldi 2/A, 97100 Ragusa. www. siciliapuntol. it E-mail: [email protected]

Richieste, pagamenti e contributi vanno indirizzati a: Associazione Culturale «Sicilia Punto L», via Garibaldi 2/A, 97100 Ragusa. E-mail: [email protected] Conto corrente postale n. 1025557768.

In copertina un disegno di Quebeuls tratto dal calendario 2021 del GIRA (Centre international de recherches sur l’anarchisme) di Marsiglia, dedicato a Georges Brassens. Stampa: PressUp srl. Dicembre 2023

Opera pubblicata con il contributo dell Università Paul-Valéry Montpellier 3. UNNERSITÉ

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Avvertenza

La prima parte di questo libro è tratta dal saggio di Isabelle Felici «Brassens, le fils de ГItalienne»' in una traduzione di Marta Massel, con qualche aggiornamento, mentre la seconda è tratta da Brassens anarchiste12, che ha preceduto per motivi contingenti il volume che avete tra le mani, nonostante questo sia stato ideato già nel 2018. Per limitare le note a piè di pagina è stata aggiunta una nota bi­ bliografica. L’appendice comprende alcuni testi pubblicati per la pri­ ma volta in italiano. Il volume è stato rivisto da Alessandra Giro, che l’autrice ringra­ zia per la perspicacia e i suggerimenti. Grazie a Giuseppe Aiello e a Raffaele Ruggiero per il prezioso aiuto.

1 Isabelle Felici (a cura di), «Brassens, le fils de Xltalienne», Sur Brassens et autres «enfants» d’italiens, PULM, Montpellier, 2017, pp. 19-44. 2 Isabelle Felici, introduzione al volume Brassens anarchiste, Atlande, Neuilly, 2023.

Georges Brassens e Pierre Nicolas durante le riprese di un programma televisivo nel 1973.

Brassens, il figlio dell’«Italiana»

più «autenticamente» francese di Georges Brassens, straordinario rappresentante della canzone francese che trascorse gli ultimi giorni della propria vita con le Favole di Jean La Fontaine e una grammatica francese al capezzale. Poiché la sua ascendenza era italiana per via materna, il fatto che Brassens fosse nipote d’italiani è passato per lungo tempo inosservato. Il det­ taglio di questa origine è sfuggito anche a molti dei suoi ammiratori, persino ai più ferventi, benché le biografìe e le dichiarazioni dello stesso Brassens lo segnalino: «Tua madre era italiana?», gli chiese André Sève. «Sì, di Napoli. Mio padre era di Séte. Quindi si mesco­ lavano О Sole mio e delle arie di opera e di operette, Si Гоп ne sétait pas connu e Salut, denteare chaste et pure, Santa Lucia e Fascination1». In un’altra occasione, Brassens parla di sua madre in quanto «figlia di immigrati italiani» e non ha, riguardo tali origini, molte più informa­ zioni di quelle che volentieri fornisce ai giornalisti. Informazioni che sono tuttavia sbagliate, come vedremo. Ciò che è decisamente auten­ tico e sincero è, secondo il termine utilizzato dal suo amico Eric Bat­ tista, «l’affetto» che portava per le sue origini. Sarebbe un controsenso cercare ad ogni costo una presunta spe­ cifica italianità nel lavoro del poeta e cantante, forse un controsenso duplice: Brassens non amava i portabandiera e inoltre diceva che non essendo una pianta non sentiva di avere radici. Ci si può invece in­ terrogare sulle forme che assunse questo attaccamento alle origini. La questione è meno frivola di quanto sembri poiché alcuni percepisco­ no nelle musiche di Brassens un’influenza italiana che altri non men­ zionano affatto о alla quale accennano appena. Al di là del semplice on vi è oriundo italiano

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1 Si Гоп ne s'étaitpas connu è la canzone del film Un soir de rafie (Notte a Parigi) di Carmine Gallone, 1931; Salut, demeure chaste et pure (Saluto, residenza virtuosa e pura) è la cavatina di Faust nell’opera di Charles Gounod; Fascination è cantata sulla melodia di un compositore italiano che ha fatto carriera a Parigi, Dante Pilade Marchetti.

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dato di fatto - un’icona della canzone francese che proviene per metà da una famiglia di origine straniera - ci si può chiedere cosa signifi­ casse per Brassens essere il «figlio dell’italiana» e se questa eredità si sia trasmessa nella sua opera.

Elvira Dagrosa, madre di Georges Brassens.

La questione dell’origine e di alcuni stereotipi

Elvira, la mamma, che veniva chiamata Albine, ha qui un posto di rilievo poiché è lei a fare da tramite con i nonni italiani, che Bras­ sens conosce poco о niente: il nonno muore prima della sua nascita e la nonna quando ha cinque anni. Alcuni biografi, citandosi l’un l’al­ tro, presentano Elvira come figlia di un journalier napolitain. Hanno probabilmente avuto accesso a qualche documento amministrativo, forse i registri del censimento che designano come journalier chiun­ que fosse senza un’attività chiaramente definita, tanto in ambito agri­ colo quanto in ambito industriale о edilizio. In merito all’epiteto na­ politain, va ricordato che anche in Francia questo non designava uni­ camente le persone originarie della città di Napoli e nemmeno della

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sua regione, ma piuttosto gli italiani del sud della penisola. A Séte, alcuni continuano ancora oggi ad indicare in questo modo gli italiani originari della Campania о più in generale del sud della penisola, creando un’ambiguità poiché altri, a cominciare da Brassens, pren­ dono il termine alla lettera: napolitain = di Napoli. In una corrispondenza con un genealogista che gli ha trasmesso il risultato delle proprie ricerche sull’ascendenza francese della sua fa­ miglia, Brassens sembra rimpiangere di non saperne di più sulla par­ te italiana: Grazie a lei mi metto a pensare a questi sconosciuti ai quali devo la vita, cosa che, lo ammetto, non avevo saputo fare da solo. Non risalivo con il pensiero al di là dei miei nonni paterni. Dei materni, degli italia­ ni, non si sa nulla.

Di fatto, mentre Brassens è in vita, l’eredità italiana da parte ma­ terna non desta alcuna curiosità. Persino Alphonse Bonnafé, profes­ sore di Georges alle scuole medie di Séte e amico durante gli anni parigini, nella presentazione delle canzoni di Brassens per la presti­ giosa collana Poètes d’aujourd’hui (Seghers 1963), omette il ramo ma­ terno. Infatti egli descrive dei genitori affettuosi e uniti, ma fa di Brassens un robusto figlio e nipote di muratori francesi. Non si può dire se la sua penna avesse occultato la donna о l’italiana, ma resta che implicitamente, secondo la frase di Bonnafé, la madre non tra­ smette nulla e non contribuisce nemmeno al fisico da «bell’atleta» dell’illustre abitante di Séte. L’omissione potrebbe essere dovuta ai pregiudizi dell’epoca nei riguardi degli italiani. Grazie a una ricerca d’archivio è ora possibile saperne di più sul­ l’origine della famiglia materna: i nonni Michele Dagrosa (D Agrosa), 1856-1916, e Maria Augustalia (Augusta) Dolce, 1862-1926, sono originari di Marsico Nuovo in Basilicata. Dispiace notare che anche i biografi più informati non si prendono la briga di riportare i fatti accuratamente: uno di loro indica così che i genitori della piccola El­ vira erano nati a Marsico Nuova (invece di Marsico Nuovo) per af­ fermare una pagina dopo che «dalla parte dei Dagrosa sono napole­ tani», confondendo Basilicata e Campania. Quanto a Jacques Vassal, autore della monumentale, e notevole sotto molti punti di vista, bio­ grafia pubblicata nel 2011, afferma che Marsico Nueve, sempre invece di Marsico Nuovo, è in Puglia invece che in Basilicata. Anche gli

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amici di Georges si sbagliano, compresi quelli con cui condivide ori­ gini transalpine, come Mario Poletti, che fa nascere Elvira nei din­ torni di Napoli nel 1887. E forse René Fallet, in un articolo del Ca­ nard enchainé del 29 aprile 1953, senza sapere ancora nulla di Brassens e senza nemmeno conoscerlo, ad andarci più vicino, basandosi sem­ plicemente sul suo aspetto da «boscaiolo calabrese»2. Giuseppe Setaro, basandosi sui documenti di stato civile che ha raccolto, dà informazioni più precise: il nonno Michele fa il contadi­ no prima della partenza per la Francia, poi diventa operaio e in se­ guito anche imbianchino. Emigra assieme alla moglie, la prima figlia Antonetta e la suocera, Mariantonia Matera, nel 1880 о forse nel 1881. Per la Basilicata è l’inizio della Grande Emigrazione ed è pro­ babile che Brassens avesse più cugini negli Stati Uniti e nei paesi del­ la Piata che a Marsico Nuovo. Degli altri sei figli di Michele e Maria Augustalia, tutti nati a Séte, solo due bambine sopravvivono, Elvira e la sorella minore di quest’ultima, Louise Fernande, nata nel 1898. Per evitare che i figli nati in Francia «diventassero» dei piccoli fran­ cesi e forse nella prospettiva di un ipotetico ritorno, Michele intra­ prende le pratiche per registrarli allo stato civile nel suo comune d’origine. Anche se nata a Séte, Elvira diventa così cittadina italiana per decreto del procuratore del re d’Italia di Potenza il 9 aprile 1891. Michele non rinnova tuttavia la prassi per gli altri figli e l’ultima, Louise, conserva la cittadinanza francese. Notiamo che anche il padre di Brassens, Jean-Louis, proviene da un’immigrazione, certo meno lontana: i suoi genitori avevano lascia­ to Castelnaudary, nella zona dell’Aude, per Séte, sempre verso il 1880, quando il porto conobbe una fase di grandi lavori. I ricordi di Brassens trasmessi a Eric Battista, che citeremo a più riprese, confermano che ci sono stati pochi contatti con i nonni ma­ terni: Tutti i giovedì pomeriggio, per anni, mia madre mi ha portato sulla tomba dei suoi genitori. Era lo scopo della nostra passeggiata. Credo che, a parte il figlio del custode del cimitero, sono stato il bambino di Séte che ha frequentato di più il cimitero.

2 Va notato che mentre Fallet paragona il fisico di Brassens a quello di un «boscaiolo calabrese», in Italia si parla di lui come di un «antico Gallo». Cfr. in appendice il docu­ mento sulla tournée di Brassens in Italia nel marzo del 1958.

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Per andare a Ramassis salivamo per il Chàteau-Vert, passavamo dietro la caserma e poi ritrovavamo la strada che fa il giro della monta­ gna. Sul marciapiede di terra, mi arrampicavo sulle panche. Mi arram­ picavo sui margini di terra che delimitavano i vigneti. Trovavo che mia madre non camminasse abbastanza velocemente. Sullo stagno, si vede­ vano le piccole barche immobili dei pescatori di vongole e le imbarca­ zioni provenienti da Mèze о da Marseillan. Non appena arrivavo al camposanto, assetato, andavo a bere a un rubinetto. L’acqua era calda e sapeva di terra. La tomba dei miei nonni era addossata al muro di cinta. L’Italiana toglieva i rametti di pino, puliva la pietra, bagnava le piante verdi con quel piccolo secchio che io correvo a riempire. Praticava il culto dei morti. Se l’ho continuato, è per fedeltà alla sua memoria perché sono un buon figlio.

L’evocazione di queste passeggiate settimanali, anche se assume dei colori molto locali, ha caratteristiche tali da risvegliare i ricordi di altri nipoti d’italiani emigrati che hanno praticato, altrove, gli stessi riti familiari. Il racconto evoca il bacino di Thau sul quale dà il cimi­ tero del Py, altrimenti detto Ramassis («a Séte si pronuncia la -s fi­ nale» precisa Brassens in un’intervista alla radio) о cimitero dei po­ veri. E più famoso l’altro cimitero di Séte, dove sono sepolti per­ sonaggi illustri, come Paul Valéry о Jean Vilar, il cimitero marino, molto più vicino alla città, come finiscono col comprendere a loro spese i turisti mal informati. Per andare al cimitero dei poveri, biso­ gna raggiungere l’altra parte della «montagna», termine utilizzato da­ gli abitanti di Séte per designare il Mont Saint-Clair che domina la cittadina. Coloro che volessero oggi fare la stessa passaggiata non troveranno i vigneti descritti da Brassens. Della nonna Brassens conserva qualche immagine legata ai dram­ mi dell’infanzia: Era mia nonna materna, Augusta, che aveva il compito di condur­ mi due volte al giorno alla scuola Saint-Vincent. Questa modesta isti­ tuzione cattolica si trova in un quartiere vicino al nostro. Vi ho cono­ sciuto, a partire dall’età di tre anni, i miei primi tormenti scolastici. Giunta l’ora fatale, al momento di mettersi in cammino per la scuola, la nonna italiana agiva con astuzia: «Vieni, piccolo mio, andiamo a pas­ seggiare». Per ingannarmi sulla nostra destinazione finale, adottava ogni volta un itinerario diverso, evitando di prendere la strada più corta, verso l’alto, la rue Caraussane-, mi irrigidivo immediatamente. Scende­

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vamo dunque lungo la rue de l’tìospice. La mia diffidenza si addormen­ tava. Di corporatura robusta, l’ava camminava lentamente, tenendomi la mano. Portavo nell’altra un cestino che conteneva la mia merenda. Giravamo verso destra per prendere rue dlssanka, о più in basso ancora, rue de la Revolution. «Piccolo mio, andiamo al Chàteau d’eau a veder nuotare i pesci rossi. Lancerai loro del pane». Attraversavamo il giardi­ no pubblico per uscirne dal lato opposto, su rue du Genie, a due passi dalla scuola. Era proprio l’ora in cui i pesci dormivano e non bisognava disturbare il loro sonno: passavamo senza fare rumore vicino alla vasca. A volte, scendevamo fino alla rue de la Poste e arrivavamo vicino al ca­ nale per veder navigare le imbarcazioni... Queste lunghe e perfide de­ viazioni conducevano inevitabilmente alla fantastica porta di ferro da­ vanti alla quale lasciavo esplodere la mia disperazione.

Il ricordo è tanto più doloroso in quanto legato alla scuola, che Brassens non apprezza affatto. E in questa istituzione cattolica che, da piccolo, lo rinchiudono nello sgabuzzino; ciò potrebbe spiegare la sua fobia scolastica. L’episodio lascia trapelare un’informazione im­ portante su Elvira: probabilmente troppo assorbita dalla quotidianità — era stiratrice - non poteva occuparsi personalmente del figlio anco­ ra in tenera età. La nonna è associata a un altro ricordo dell’infanzia di Brassens. Sua madre, seppur la più affettuosa delle madri, «picchiava sodo» e, per sfuggire alle punizioni, la strategia era abbastanza semplice: Da piccolino, dopo ciascuno dei miei misfatti, sfuggendo i rigori materni, andavo a gambe levate a cercare rifugio presso la mia nonna italiana. Bussavo alla sua porta gridando: «Nonna, aprimi. Presto! Mi vogliono picchiare». [...] La grande fortuna era vivere lì, tutta la fami­ glia riunita sotto lo stesso tetto... Condividere la stessa esistenza, senza mai lasciarci. Non un solo giorno.

Più grande, il bambino continua a dare alla madre buone ragioni per picchiare sodo, quando sparisce dimentico di sé per ore, senza avvertire del luogo in cui si trova. Forse non è inutile ricordare che ai pericoli abituali delle città, piccole о grandi, Séte aggiunge quello dell’annegamento, sempre possibile in uno dei numerosi canali. Uno zio di Brassens del resto morì in seguito a una caduta in un canale. Può darsi, quindi, che questa fermezza e questa tendenza ad essere manesca siano state, più che un credo educativo, il risultato di in­ quietudini a volte fondate; è emblematico l’episodio in cui l’alunno

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Brassens si ferisce nel cortile della scuola e viene riportato a casa «con la testa avvolta in un asciugamano da cucina insanguinato». Questa severità materna non sembra aver turbato Georges che trova, al con­ trario, che aveva ragione: ero un bambino gentile, piuttosto affettuoso, ma ecces­ sivamente turbolento... facevo delle fughe di svariate ore così, senza motivo: lo spettacolo del mondo mi faceva perdere di vista casa mia. Allora, al ritorno, le prendevo... ma questo non mi ha arrecato alcun danno.

Deve anche rendere conto a sua madre quando ritorna dai suoi giochi spericolati nei cantieri, «bianco come un garzone di fornaio»: Lei mi puliva in una tinozza di zinco, in un’acqua in cui aveva fatto sciogliere dei cristalli di soda: i miei primi sali da bagno! Mi striglia­ va... mi raschiava. Si soffermava soprattutto sulle mie ginocchia, che trovava sempre troppo nere.

Molte madri, qualunque fosse la loro origine, hanno inflitto trat­ tamenti simili ai figli e hanno dimostrato la stessa volontà di imporre la propria autorità. Per esempio la madre di Emile Miramont, amico d’infanzia di Georges, che non ha alcun ricordo dell’«italianità» della signora Brassens, tiene a sottolineare che la propria «madre, che non era affatto italiana, esercitava al più alto grado la stessa brutta abitu­ dine» autoritaria. Nata e cresciuta a Séte, Elvira Dagrosa potrebbe non aver mai parlato la lingua dei genitori, come tanti figli e figlie d’italiani unifor­ mati dalle politiche della scuola pubblica francese. Del resto, la lin­ gua dei genitori forse non era neanche l’italiano ma, più verosimil­ mente, il dialetto della loro regione. Elvira parlava un bellissimo francese, con l’accento di Séte, come testimonia una trasmissione te­ levisiva prodotta nel 1958. Stupisce il fatto che, in un film del 2011 an­ dato in onda sul canale nazionale France 2, qualcuno abbia avuto la strana idea di rappresentarla con un accento italiano. Nelle biografie di Brassens, la figura materna diviene man mano più visibile, ma El­ vira è in genere etichettata come italiana, oppure napoletana come si è detto. Il colpevole di questo sbaglio che si ripete di testo in testo po­ trebbe essere Brassens stesso - e soprattutto chi non capisce la sua ironia. Se in alcune interviste, Brassens designava sua madre come fi­

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glia d’immigrati, la chiamava spesso «l’italiana», cosa che lei - alme­ no alla nascita - di fatto era, sulla carta. Questo soprannome è forse anche una traccia, utilizzata in contropiede dal figlio, dei nomignoli xenofobi che gli italiani e i loro figli potevano sentire, a Séte e altro­ ve. Alcune biografie tra le più recenti ritengono preferibile sottoli­ neare l’«origine» italiana della madre di Brassens ma, qualunque sia l’appellativo utilizzato, è spesso accompagnato dagli abituali cliché. Così, piace dire che Elvira, da «buona napoletana, considera la reli­ gione come una seconda natura» e che canta, come gli altri italiani a Séte, «dalla mattina alla sera, e dalla sera alla mattina»... Brassens alimenta del resto gli stereotipi: al suo amico Eric Battista parla vo­ lentieri di sua «madre italiana, che vale doppio»! Ma dagli aneddoti familiari che racconta, emerge, al di là delle immagini convenzionali, il ritratto di una donna dal carattere ben temprato, dal temperamen­ to inquieto verso coloro che ama, interessata in particolar modo alla loro integrità fisica e a quella dei loro pantaloni, ossessionata dalla pulizia, preoccupata della propria buona reputazione, alla quale alla fine non è così difficile far piacere: L’Italiana aveva idee di un’altra epoca. Avrebbe voluto comporre per suo figlio un corredo di biancheria di nozze: lenzuola, asciugamani, tovaglie, federe del cuscino... Con, ovviamente, ricamate, le mie inizia­ li. Un giorno, mi ha proposto di contrassegnare con una G due dozzine di fazzoletti bianchi. Trovavo la cosa così assurda che mi ero arrabbiato. Eppure, mi sarebbe stato facile concederle questo piacere... Ricamando questi cenci, avrebbe avuto per un momento l’illusione di avere un figlio come tutti gli altri.

Elvira è ambiziosa e inquieta per gli studi e la vita professionale del figlio, anche dopo l’esplosione del successo, poiché ai suoi occhi bisognava diventare medico, avvocato, impiegato. О almeno avere un posto fisso: «Il sogno di mia madre, che era figlia d’immigrati italia­ ni, era che suo figlio avesse un impiego statale. Poiché ero piuttosto dotato, s’incavolava spesso perché vedeva che non studiavo abbastan­ za. E per questo motivo che non mi ha più permesso di prendere le­ zioni di musica». «Il mio successo come artista non ha mai placato la sua inquietudine: avrò una pensione? La vigile Italiana aveva le sue ragioni. Se ne intendeva di miserie». Miserie e sfortune che aveva avuto modo di conoscere, come quella di diventare vedova di guerra con una bambina in tenera età, Simone, la sorellastra di Georges. Al

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contrario della madre, spesso apprensiva, Brassens descrive il padre come una persona serena: Era l’opposto di mia madre, logorata da una perpetua inquietudine. «Avanti sempre! Quando non avremo più nulla andremo all’ospizio. Altri ci sono andati...» L’Italiana sarebbe morta nel tragitto, di vergo­ gna e di disonore.

E forse anche per evitarle la vergogna che Georges «corregge», con l’aiuto della sorella maggiore, le proprie pagelle scolastiche re­ stando «nei limiti del verosimile: l’italiana era ben lungi dall’essere ingenua e credulona. Desideravamo solo per lei - e per me - una ve­ rità meno dura». Quanto al desiderio di Georges di seguire dei corsi al conservatorio, questo non viene esaudito, come racconta in un’in­ tervista radiofonica nel 1979: Mia madre non ha voluto che io studiassi la musica perché quando ha visto che avevo questa specie di passione, che sembrava alla fine una vocazione, ha avuto paura di vedermi diventare musicista. Orbene, i musicisti, a quel tempo, i cinema muti avendo chiuso bottega, le trat­ torie avendo cacciato i musicisti, la maggior parte dei musicisti, degli eccellenti musicisti peraltro, andavano per le strade a fare quello che oggi chiamiamo l’elemosina. Insomma, si mettevano in una piazza con due-tre strumenti e poi tendevano la mano. Allora mia madre non vo­ leva affatto vedere suo figlio diventare musicista. A quell’epoca, gli sbocchi in provincia non sembravano numerosi per un musicista, non ce n’erano.

E per Simone, bocciata all’esame finale della scuola elementare, Elvira escogita la peggiore delle punizioni, la fine delle lezioni di pia­ noforte: «Addio allo strumento! E l’italiana, che adorava la musica, ne fu certamente ancora più punita».

Il gusto dell’Italia in musica Malgrado questi divieti che privano «i figli dell’italiana» di una formazione musicale classica, tutta la famiglia canta. Si accende il grammofono, si va a teatro, si ascoltano i cantanti di strada che ven­ dono i fogli volanti (a Napoli più famosi come “copielle”) e, a Séte, c’è il chiosco della musica in piazza. In visita a Parigi nel 1937, Bras­ sens si reca al teatro del Chàtelet e a un concerto dell’orchestra di

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Ray Ventura. E anche l’epoca del boom della radio ed è impossibile stilare la lista degli interpreti. Accontentiamoci di citare i due «mo­ stri», Tino Rossi e Charles Trenet. C’è poi il cinema dove il giovane Brassens vede ogni sorta di film, tra cui i musical americani e i primi film parlati francesi che, precisa, «a quell’epoca, soprattutto cantava­ no». C’è infine, e soprattutto, il jazz che lo influenza moltissimo e che pratica sin dall’adolescenza poiché fa parte di un’orchestra per cui suona la batteria. Dopo una prima esperienza catastrofica, il gruppo si esibisce in un bar a Séte, sul monte Saint-Clair. Racconta Emile Miramont, un altro membro del gruppo: Siciliano di carnagione scura, il Titoungue, padrone di questi luo­ ghi, aveva messo su lui stesso questo piccolo caffè con delle assi raccolte sulla spiaggia secondo il capriccio delle tempeste. Mafioso delle gan­ ghe, ci diede la nostra seconda chance per un «sandwiche», dieci fran­ chi e limonata a volontà.

Il jazz era la musica preferita di Georges e l’influenza che questo esercita su di lui è profonda: Il modo di cantare di Brassens è spesso confrontabile a quello dei cantanti di blues, specialmente per la sua messa a punto della canzone e per il suo modo di attaccare un po’ in ritardo sull’accompagnamento, così caratteristico ne La chasse aux papillons. La nettezza dello stile di Brassens e la freschezza della sua espressione lo avvicinano del resto ai cantanti neri per quanto riguarda il tenore stesso delle sue canzoni.

Queste affermazioni di Boris Vian sono frequentemente citate, e lo stesso Brassens riprende questo paragone con i cantanti neri nel­ l’intervista radiofonica del 1979 già citata. Anche il ritmo del verso e la canzone folclorica francesi occupano un posto privilegiato: «O rage, о désespoir, ò vieillesse ennemie»3, il verso francese è in 6/8. La mia musica preferita, in fondo, è il 6/8. Ma mi piace molto il fox. Mi piacciono il fox e il 6/8. Un-due-tre, un-due-tre, ta-la-la ta-lala ta-la-la ta-la... E in 6/8 che è fatta la maggior parte delle canzoni francesi. [...] La maggior parte delle canzoni dette folcloriche sono in 6/8. Ta-la-la... [Brassens canticchia l’aria di Brave Marin revìent de 3 «Oh rabbia, oh disperazione, oh vecchiezza nemica». Celebre verso della tragedia di Pierre Corneille II Cid.

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guerre e canta la prima strofa di Ferrine e'tait servante] E il ritmo fran­ cese per eccellenza, questo, ed è anche il ritmo del verso francese.

La marcia, l’altro ritmo che «predilige oltre al 6/8», non è da me­ no. Sempre nella stessa intervista, canta о canticchia ogni sorta di marcia: Auprès de ma blonde, Zimmerwald (di cui canta a memoria l’ultima strofa: «La parole de Lénine / De Liebknecht et de Rosa / Retentit dans les champs, les casernes, les usines, / L’ennemi est dans notre pays. / Si la guerre éclate, le bourgeois à abattre / Sera écrasé par Zimmerwald»4). Si diverte a variare i ritmi e canticchia una Marsigliese ]azzata per provare che «certamente, con la musica si fa quello che si vuole». Tra le sue canzoni, prende l’esempio di La Mauvaise réputation, che è una «marche doublée»: Vede, tutte queste sono delle marce. Mi piacciono molto le marce, diciamo. Ecco. Ed è per questo che nelle mie canzoni c’è questo: tam­ tam tam-tam... È il fox-trot, è il one-step, è la marcia! E la marcia raddoppiata.

Le influenze sono dunque molteplici, come dichiara lui stesso, per esempio a André Sève: «Ho ascoltato moltissimo. Tutti i rit­ mi. Si può ballare senza andare al ballo. La musica delle danze è en­ trata in me e la ritiro fuori, senza pensare nemmeno per un momen­ to di stare scrivendo una danza». «Al ritmo, ci tengo molto». E del resto la base del suo modo di comporre, come spiegò all’amico Louis Nucera: «Sono sensibile prima di tutto al ritmo. Rimugino, batto, scandisco i versi grattando la mia chitarra, un po’ come i marmocchi recitano un brano da imparare a memoria». Si ha una viva immagi­ ne di questo processo compositivo grazie alla registrazione, che Ma­ rio Poletti ha reso pubblica aggiungendo un CD a uno dei suoi libri di memorie, di una seduta in cui Georges Brassens lavora alla mu­ sica di Les Copains d'abord. Ne sono ugualmente testimonianza i ri­ cordi d’infanzia di suo cugino Georges che condivideva la sua ca­ mera nei mesi estivi, facendo un po’ da fratello minore, e lo ascoltò mentre componeva le sue prime canzoni battendo il ritmo sul bor­ do del tavolo. 4 «La parola di Lenin / di Liebknecht e di Rosa / risuona nei campi, nelle caserme, nelle fabbriche, / il nemico è nel nostro Paese. / Se scoppia la guerra, il borghese da ab­ battere / sarà annientato da Zimmerwald».

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Nell’intervista radiofonica del 1979, Brassens ritorna a più riprese sulla questione dei ritmi e evoca le canzoni che sua madre gli canta­ va, fra cui «canzoni italiane»: Cantava in primo luogo delle canzoni italiane, era napoletana, mia madre. Avevo questo repertorio in più, delle canzoni italiane. E poi cantava le canzoni che erano di moda a quell’epoca, le canzoni che era­ no state di moda al tempo in cui sua madre aveva vent’anni. [...] La mia cultura si regge su quello: su tutte le canzoni che si cantavano a partire dal 1900 perché a quell’epoca non c’era questo grande divario tra le generazioni e mia madre cantava le canzoni di sua nonna о di suo nonno, le canzoni di sua madre, cantava le canzoni della sua epoca. [...] Il grammofono era molto più diffuso di quanto si pensi oggi, c’erano dei grammofoni più о meno dappertutto. [...] E a quel tempo tutti cantavano. [...] La canzone era l’arte popolare per eccellenza a quel tempo.

Non è facile interrompere il flusso di parole entusiaste di Bras­ sens, che si esprime con un tono brioso e volentieri ironico e pun­ gente su ogni argomento, e il giornalista non ha la prontezza di chie­ dergli il titolo di queste canzoni italiane sentite durante l’infanzia, né di domandargli di canticchiarne l’aria. Brassens non dà maggiori det­ tagli neppure al suo amico Battista che lo sente pronunciare frasi del tipo: «Mi sono attenuto a questo ostinato e ossessionante martella­ mento: una reminiscenza della canzone popolare italiana». Nessuno sembra aver pensato, mentre lui era in vita, di porgli delle domande più dirette su quali fossero queste canzoni italiane. Ci si deve limita­ re, dunque, a delle congetture. Quale Italia poteva cantare la madre di Brassens, nata a Séte da genitori italiani? La domanda ci conduce a un argomento ben più vasto: cosa cantavano dunque «dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina tutti questi Napolitains»'? Se ci si attiene alle affermazioni di Brassens, le sole canzoni italiane che lui abbia mai citato sono, come abbiamo visto, Santa Lucia e О Sole mio, cosa che porta a pensare che, sul grammofono della famiglia Brassens, potrebbe aver girato un disco ancora presente nelle famiglie d’origine italiana negli anni Cin­ quanta e Sessanta: un’antologia di canzoni napoletane, forse quelle cantate da Enrico Caruso. Il tenore napoletano incise infatti, nel cor­ so della sua lunga carriera di star internazionale, i due titoli citati da Brassens e molti altri, ottenendo grazie al supporto fonografico un

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riscontro senza precedenti, visto che le sue registrazioni, comprese quelle delle canzoni napoletane, circolano ampiamente ancora oggi. Giuseppe Setaro, insegnante di francese che si è appassionato di Brassens, formula un’ipotesi interessante che ha però il difetto di non essere basata su una testimonianza diretta di Brassens: il cantante non evoca mai una «cultura d’origine» che gli sarebbe arrivata diret­ tamente dai nonni italiani e dalla bisnonna. Tuttavia, secondo Seta­ ro, le radici della sua musica potrebbero affondare «nella memoria genetico-musicale dei suoi antenati materni». Essendo lui stesso ori­ ginario della Basilicata, Setaro immagina Brassens bambino che sal­ tella sulle ginocchia di sua nonna e di sua madre al suono delle can­ zoni del paese d’origine, immagine alla quale aggiunge quella delle ninnenanne cantate per addormentare quel bambino turbolento. In particolare, Setaro prende in considerazione la tarantella, che non è proprio una ninnananna, proponendo una lista di canzoni che Bras­ sens ha scelto di mettere in musica su questo ritmo e sottolineando che non si tratta di un ritmo autoctono francese. L’autore apporta anche una distinzione: la tarantella, che i nonni materni potrebbero aver cantato e trasmesso alle loro figlie, non era una tarantella napo­ letana, ingentilita dalle influenze della musica colta - della quale Na­ poli è stata una capitale - ma una tarantella rustica, più «primitiva», che ancora oggi si può sentire in Basilicata. Sempre Setaro cita sva­ riate registrazioni in cui Brassens interpreta in privato, e quindi in modo più libero e spontaneo, La Femme d’Hector e Le chapeau de Mireille, una canzone che Brassens compose per Marcel Amont, о an­ cora Brave Margot e Lafile indienne, cantate in gruppo durante una serata tra amici in Belgio: Brassens, insoddisfatto del risultato, si in­ terrompe, protesta, riprende, protesta ancora e dà l’esempio con la sua chitarra, «con un ritmo marcato e saltellante, proprio il ritmo della tarantella», nella quale Setaro riconosce una tarantella rustica5. Perché bisogna saperle riconoscere queste tarantelle, ci dice Setaro. Persino tra i musicisti la valutazione può essere soggettiva e, soprat­ tutto in frammenti di breve durata come quelli citati da Setaro; di­ pende dalla sensibilità personale dell’ascoltatore percepire oppure no l’influenza di una tarantella rustica. Ma anche di una tarantella tout 5 Enpassant, Giuseppe Aiello ci fa notare che anche le tarantelle napoletane erano rustiche, come Lo guarracino о Cicerenella.

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court', tra gli esempi che si trovano per illustrare l’influenza italiana su Brassens figura Gastibelza^ una tarantella secondo Joèl Favreau, men­ tre per Setaro sarebbe piuttosto una giga, un’altra danza rapida, ma francese, alvernese, in questo caso. L’ipotesi dunque non regge: vi­ ste le differenze di valutazione per gli stessi titoli, si tratta piuttosto di un’opinione. Altro esempio, come si è visto, Georges Brassens considerava la Mauvaise Réputation una «marche doublée», insisten­ do sull’influenza del jazz, del fox-trot più esattamente, mentre secon­ do l’opinione di Setaro il ritmo di questa canzone è quello della ta­ rantella. Un’ipotesi più convincente sarebbe che la somiglianza notata da Setaro fosse piuttosto il risultato di influenze e incroci, dovuti a cir­ colazioni e immigrazioni tra Alvernia, Italia e il resto della Francia, tra diverse tradizioni musicali, ma l’argomento ci allontana dal nostro proposito ed è fuori dalle nostre competenze. Dice ancora Setaro che questa tarantella della Basilicata è carat­ terizzata da un’assenza quasi totale di linea melodica. Ora, in Bras­ sens, la melodia che si aggiunge al ritmo, anche quando sembra sem­ plice e senza pretese, conta molto nell’alchimia delle sue canzoni6, come si sforza di spiegare in tutte le interviste e ancora nel 1979: Sento dire di qua e di là che le mie musiche sono monotone, che faccio sempre la stessa musica pum-pum-pum eh... il ritmo della mar­ cia, è il ritmo della marcia che dà loro quest’impressione. Non è affatto vero, insomma non ha importanza, non mi disturba affatto.

Tuttavia, al fine di risultare più convincente, a volte, ad esempio durante alcune interviste, capita che Brassens modifichi la melodia о il ritmo di alcune delle canzoni più conosciute per persuadere i suoi interlocutori dell’importanza della musica e non del solo testo. Ciò vale ad esempio per Le Gorille. Non ci sembra possibile condividere l’opinione di Giuseppe Setaro, per il quale Le Gorille è «l’esempio più compiuto di quel tipo di tarantella» rustica, caratterizzata da «un rit­ mo monotono e martellante» e quasi sprovvisto di melodia: notiamo infatti che Le Gorille possiede questo ritornello con vocalizzo, «Gare au Goriiiiille» [«Attenti al goriiiilla»], che potrebbe ricordare quello 6 Sulla complessità delle melodie di Brassens cfr. il testo intitolato «Musicista quanto voi, massa di rumoristi!», in appendice.

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di certe tarantelle napoletane «colte», influenzate dal melodramma, che si cantano a piena voce, «funiculì funiculàààààà». Alla questione dell’influenza della tarantella sui ritmi delle sue canzoni, Brassens avrebbe potuto rispondere come fece in altro con­ testo: «Si dà il ritmo che si vuole. Prendete una qualsiasi delle mie canzoni, potete farne un valzer, potete farne un fox, potete farne un tango, potete farne quello che volete». E alla domanda se fosse la ta­ rantella rustica e primitiva della Basilicata più di quella leggera e bril­ lante napoletana che si doveva riconoscere dietro alle sue melodie, diffìcilmente sarebbe riuscito a risalire alla sua memoria di bimbo piccolissimo. Tanto più che della nonna italiana racconta le passeg­ giate per le vie di Séte, ma non le canzoni о ninnenanne che avreb­ bero colpito il suo orecchio così fine. È invece probabile che si ri­ cordasse altre canzoni sentite nell’età in cui la passione per la musi­ ca lo vince e sua madre si preoccupa del suo desiderio di diventare musicista. Fra queste canzoni della sua adolescenza, vi sono quelle cantate da Tino Rossi. Brassens riserva una grande ammirazione per Tino, anche se le sue qualità artistiche sono oggi quasi completamente di­ menticate e la sua figura gode di scarsa considerazione. Quest’am­ mirazione è percettibile nel filmato che testimonia un duetto del Na­ tale del 1977 durante il quale Georges, con tangibile piacere, canta in­ sieme a Tino Santa Lucia, canzone del repertorio napoletano cono­ sciuto in tutto il mondo. Ci vogliono pochi istanti per notare il suo sguardo pieno di ammirazione. Di questo fascino è testimone anche Battista al quale Brassens dice che «Tino è un incantatore, quando canta incanta». Brassens condivide questa ammirazione con milioni di persone, fra cui sua madre e sua sorella. Quando Brassens è ado­ lescente, Vieni vieni vieni (1934) è un successo planetario e su questo slancio, Tino Rossi, una sorta di Rodolfo Valentino alla francese, viene proiettato verso una carriera cinematografica. Uno dei film nei quali recita si svolge a Napoli, una Napoli da strapazzo che fa da sfondo a un romanzo pubblicato nel 1924 da Auguste Bailly, Naples au baiser defeu (Napoli dal bacio focoso), trasposto cinematografica­ mente nel 1937 con la regia di Augusto Genina. E un «film che can­ ta», secondo le parole di Brassens a proposito del cinema della sua gioventù, ed è probabile che un giovanotto dell’epoca che, come Brassens, va molto al cinema abbia visto Naples au baiser defeu, ma­

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gari con la sorella о con la madre, e abbia cantato le numerose canzo­ ni del film. Il quaderno sul quale Elvira ricopia le parole delle canzoni che ama cantare contiene forse quelle di Naples au baiser defeu, messe in musica da Vincent Scotto. Anche senza avere la memoria fenome­ nale di Georges per le parole e le melodie, coloro che condividono l’esperienza di aver avuto una nonna fan di Tino Rossi potranno te­ stimoniare il carattere di penetrante orecchiabilità dei suoi ritornelli: la tarentelle del film è una di quelle melodie che si hanno in testa e sulle labbra al momento di addormentarsi e che si ritrovano il matti­ no dopo al risveglio. Vincent Scotto, compositore marsigliese i cui genitori erano originari dell’isola di Procida, ha in comune con Bras­ sens una passione sfrenata per la musica e la mancanza di una vera e propria formazione musicale accademica. Nel momento in cui com­ pone la musica del film, fa già il bello e il cattivo tempo nella canzo­ ne francese da vari decenni e ha già scritto migliaia di melodie, ma non ancora, sembrerebbe, delle tarantelle. L’idea gli viene forse dalla necessità di aderire alle descrizioni del romanzo, in particolar modo a questa frase che sembra dare il la alla colonna sonora del film: Sui marciapiedi, ai piedi dei grandi hotel, i cantanti, trascinando le loro espadrillas, grattando dei mandolini e lanciando le loro note, fini­ vano di tracciare, per un popolo di stranieri, l’immagine di una Napoli da leggenda.

La tarantella di Naples au baiser defeu potrebbe aver lanciato una moda poiché non è la sola in voga all’epoca: sebbene citasse soprat­ tutto degli interpreti maschili, Brassens sente forse Rina Ketty e la Tarentelle en vendanges da lei cantata nel 1937, un anno prima del suo successo mondiale fattendrai/Tornerai e due anni prima di Sombre­ ro! et mantilles, quando l’esotismo spagnolo (andaluso) prende il so­ pravvento sull’esotismo napoletano. Va notato che Rina Ketty, Ce­ sarina Picchetto, non è né napoletana né andalusa, poiché emigra all’inizio degli anni Trenta da Sarzana (Liguria) per raggiungere le zie a Parigi. La questione della tarantella ci porta lontano e bisognerebbe stu­ diare il gusto «italiano» nella canzone francese degli anni Trenta, che passa necessariamente dall’orecchio di Georges Brassens, insieme a molti altri gusti esotici, poiché l’epoca è caratterizzata da un’«apertura a stili musicali stranieri, prestiti che, aiutati da immigrazione, di-

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schi, radio e tournées internazionali, fanno furore a partire dai de­ cenni Venti e Trenta: tango, pasodoble, beguine, cabaret berlinese, melopee russe e gitane, danze italiane», come recita 1JEncyclope'die de la chansonfran(aise. Questa lista comprende anche il jazz. Per il gusto «italiano» contribuisce in particolar modo l’idolo di Brassens, Tino Rossi, che di fatto era corso, ma nessuno ebbe a rimproverargli la sua origine, visto che non era certo l’«autenticità» lo scopo ricercato. An­ che se non ha la formazione di un cantante lirico, la sua voce gli con­ sente di calcare le orme dei più grandi tenori, in particolar modo di Enrico Caruso, e di registrare a sua volta delle canzoni napoletane che, con molta probabilità, possono aver girato sul grammofono della famiglia Brassens: ancora О Sole mio e Santa Lucia, e anche Core in­ grato che Tino interpreta in Naples au baiser defeu. Notiamo che il suo repertorio include altre tarantelle, oggi meno conosciute rispetto a quelle del film. Occorre un certo coraggio per percorrere tutta la discografia del cantante corso, ma si troveranno, nella casualità degli ascolti, altre possibili tarantelle, forse Bambinetta e Regimila (campa­ gnola) (che non è di Scotto) e Giovinetta-, ma, attenzione, Fiorella è un tango. Tino Rossi non ha potuto seguire le tracce di Caruso fino ad in­ terpretare la Tarentella napolitana colta di Gioacchino Rossini, alla quale Charles Trenet, altro idolo di Brassens, ammicca in una delle sue canzoni, La tarentelle de Caruso, nel 1966. Neanche Trenet ricerca l’autenticità: la storia si svolge a Venezia, «dans la folie du Corso / et aussi de la tarentelle / que chantait le grand Caruso7», ma l’esotismo è meno grossolano di quello di un’altra tarantella, anche se un po’ «molle», registrata nel 1953 da Annie Cordy: Trois bandits de Napoli (I tre banditi di Napoli). Sono concentrati, nelle parole e nella musi­ ca, tutti gli stereotipi dell’epoca sugli italiani, ladri e pusillanimi. Ci­ tiamo ancora il pezzo di Yves Duteil, inciso nel 1977, intitolato pro­ prio Tarentelle, tramite il quale la canzone francese potrebbe aver de­ finitivamente preso in prestito e modificato il ritmo non autoctono della tarantella. Alla fine, malgrado le diverse valutazioni che si possono dare alla presenza о meno del ritmo della tarantella nelle sue canzoni, è molto probabile che Brassens designasse tuttavia come «canzoni italiane» о 7 Nella follia del Corso / e anche della tarantella / che cantava il grande Caruso.

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«canzoni napoletane», trasmesse mediante il canale familiare, soltan­ to i «classici» che hanno fatto il giro del mondo. Le canzoni popolari che dice di aver sentito durante l’infanzia potrebbero dunque venire piuttosto da questo repertorio, accessibile ovunque, popolarizzato an­ che da cantanti lirici come Caruso, le cui registrazioni erano molto in voga e di conseguenza popolari, nel senso in cui Brassens utilizza la parola, e poi da star come Tino Rossi. Certamente, nelle famiglie originarie dell’Italia, non solo in quella di Brassens, si è per forza di cose più sensibili a questo tipo di repertorio. Altri figli d’italiani po­ tranno confermarlo e ritrovare nel percorso «italiano» di Brassens tracce dei loro ricordi. Quando si presenta l’occasione di cantare in italiano in un duetto con Tino Rossi su un palco televisivo, la scelta cade su Santa Lucia, un’aria che Brassens canta anche in privato, di­ cono i suoi intimi. E l’unica canzone che abbia mai interpretato in italiano: ne ha registrate alcune in spagnolo, ma nessuna delle sue canzoni in italiano è cantata da lui.

La musicalità dell’italiano... e le parole

Brassens non parlava italiano, come testimonia Nanni Svampa che peraltro se ne stupisce, convinto anche lui che la madre di Bras­ sens fosse napoletana e che il suo rampollo fosse quindi per forza ita­ lofono. Come molti figli (o nipoti) d’italiani che non osano, per vera e propria ignoranza о assai sovente per pudore, parlare la lingua degli avi, Brassens ne conosce sicuramente la musicalità e, certamente, qualche frammento. Coltiva persino il desiderio di impararlo, come racconta Mario Poletti: A volte, senza ragione alcuna, Georges mi lanciava e rilanciava questa frase in italiano: «Stai attento la piccola è moltofragile!» E stato solo molto più tardi, consultando il metodo Assimil d’italiano, che ho scoperto che era la prima frase di questo libro.

Ma sembra che il cantante abbia avuto questo genere di velleità linguistica anche per il latino, al fine di leggere Ovidio in versione originale, e per il bretone. Non sapeva neanche l’occitano, ma prova­ va forse per la sua metà meridionale lo stesso affetto provato per la sua metà di origine italiana. La sua gestualità in una foto del 1978 e il messaggio scritto su un cartello che Brassens regge all’estremità di un

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bastone, come se fosse pronto a partire in manifestazione, о che in­ colla sulla parete di casa sua a Lézardrieux in Bretagna, la dicono lunga in proposito: «Siete in un’enclave. Occitania disastrata». «Non prenderete per sempre gli occitani per scemi... Voleri viurel». L’occitano era già stato abbandonato da suo nonno paterno, arrivato a Séte da Castelnaudary, da cui Brassens sembra aver ereditato, insie­ me alla sua grammatica Bescherelle, l’amore smodato per la lingua francese. Gli rimangono le inflessioni meridionali che mantiene an­ che dopo «il bel giorno in cui sbarca nella capitale»; ma sono leggere e accade che alcuni, dall’orecchio evidentemente poco allenato, non le percepiscano. Persino l’amico Gibraltar non se ne accorge all’ini­ zio della loro amicizia perché Brassens si sforza, come più tardi Yves Montand, di prendere le distanze da ciò che lo caratterizza come meridionale. Brassens sa giocare con gli accenti: nella trasmissione che registra per una radio di Montpellier nel 1980, a due passi da casa sua, le sue inflessioni sono nettamente più marcate; e quando incide una strofa e il ritornello àlUne partie depétaaanque, per il disco Les chansons de sajeunesse a favore dell’associazione Perceneige di Lino Ventura, è chiaro che si diverte a riprodurre la parlata di Marsiglia. Perché Brassens ha un gran senso deH’umorismo e adora fare battute e raccontare storie divertenti. I suoi amici d’infanzia Victor Laville e Emile Miramont riportano entrambi un aneddoto che lui ripete di frequente, «che consisteva nell’imitare (con l’accento) una matrona che inveiva contro il proprio rampollo: Et né t’amouse pas avec les pétif des gouap’s! Amouse-toi avec des pétit’ Franchèses corame toi!» (Non giocare con i figli dei guappi! Gioca con dei pic­ coli francesi come te!). La matrona era napolitaine, ovviamente. Si tratta dello stesso senso delfumorismo che anima una canzone che Emile Miramont sente cantare da Brassens all’epoca della loro gio­ ventù a Parigi: Je viens sous ta fenestriné Chanter pour la dernièré fois Car j’ai compris Messaliné Qué tou te foutais dé moi La la la la lallallala L’autre jour, la chose est clairé, Tou m’a envoyé ton chien



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Il m’a mordu lé derrièré Qa c’est quéqu’ chos’ que je crains. Mon cale^on est déchiré J’ai plous rien à te cachet Pourquoi es-tou rebellé Ma Caroliné bellé Pourquoi donc es-tou si cruellé?8

Il passo è tanto più divertente dal momento che Miramont sente in queste parole francesi grossolanamente italianizzate con delle и e delle é che sostituiscono i suoni francesi ù e э un «sabir, quello che si costruivano, con una buona volontà toccante, i primi emigrati italia­ ni, desiderosi di integrarsi al più presto mediante la lingua». Se Mi­ ramont non è in grado di riconoscere le parole francesi nell’interpre­ tazione del suo amico, non c’è dubbio che Brassens fosse capace di imitare alla perfezione l’accento italiano. Miramont cita anche a me­ moria una canzone che giudica «stramba». Nei ricordi del suo amico, Brassens cantava danzando: Il général Cadorna mangea de bonné bifteck Y le pauvré soldat il mangea des castagna sec La tchin boum boum (гх)

Miramont non sa l’italiano e trascrive alla francese queste parole trasparenti, inconsapevole di trasmettere pressoché intatta una strofa di una canzone dei soldati della prima guerra mondiale, Il generai Cadorna si mangia le bistecche / ai poveri soldati ci dà castagne secche. Anche se Miramont la ritiene pescata dal «folklore italiano trasmes­ so dalla famiglia», la canzone non può che essere giunta a Brassens tramite il contatto con un’immigrazione italiana a Séte più tarda ri­ spetto a quella dei suoi nonni, arrivati vari decenni prima della gran­ de guerra. E segno che Brassens conosce bene l’ambiente «italiano», facile d’altronde da incrociare a Séte: a un amico belga raccomanda la lettura del romanzo di Francois Cavanna uscito nel 1978, Les Ritals, nei termini seguenti: 8 «Vengo sotto la tua finestrella / A cantare per l’ultima volta / Perché ho capito Messalina / Che te ne infischiavi di me / La la la la lallallala / L’altro giorno, la cosa è chiara, / Mi hai mandato il tuo cane / Mi ha morso il didietro / Questa è una cosa che te­ mo. / I miei pantaloni sono strappati / Non ho più niente da nasconderti / Perché sei ri­ belle / Mia bella Carolina / Perché dunque sei così crudele?».

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Leggilo appena puoi. È un libro formidabile. Non solo è ben scrit­ to, ma anche permeato di grande sensibilità. Cavanna mette in scena gli italiani con un’autenticità, una truculenza senza pari. La loro men­ talità, le loro abitudini, tutto corrisponde. Persino il loro accento. A Sé­ te, c’erano molti italiani nella mia via. Ebbene, leggendo Les Ritals, mi sembrava di essere là.

Grazie a questa frequentazione dell’ambiente degli immigrati ita­ liani di Séte, in particolar modo quando si reca al negozio di alimen­ tari della zia, vicino al porto, e grazie al contatto con la nonna mater­ na, l’orecchio del cantante potrebbe anche essersi «abituato» ai dia­ letti piuttosto che all’italiano. Quale lingua gli parlava sua nonna mentre lo portava a scuola promettendogli di andare ad ammirare le barche e i pesci? Forse il dialetto del suo villaggio, tanto più che lei sapeva male il francese; lo conferma Robert Barrès, un amico d’in­ fanzia a casa del quale la nonna andava a fare le pulizie. Di questo dialetto potrebbe ben rimanere una traccia nel modo in cui Brassens parla di Cristo come del «crociato» e nell’italiano che utilizza, «tanto rude quanto rudimentale», ci dice Eric Battista, per raccontare «con un’aria di giubilo», «questa storiella edificante», riprodotta qui con l’italiano un po’ storpiato di Battista: Un penitente calabrese va a confessarsi. In ginocchio nella santa garitta, attraverso la finestrella dotata di griglia, fa la sua confessione: — Padre, martedì hofato una cosa cattiva con la sposa mia... — Che cosa, figlio mio? — Padre, hofato sessantanove... — Sessantanove? Peccato mortale! Peccato mortale! Peccato mortale!... Ma che bella combinazione! La parola gli piace a tal punto che ne gode. La ripete dieci volte nel corso della giornata, scoppiando a ridere: Che bella combinazione!

Non solo l’italiano è storpiato ma la barzelletta non è proprio di gusto sopraffino. Altri scherzi riportati da Battista, altrettanto rusti­ ci, includono parole italiane: Brassens gli dava del «cornuto» quan­ do la sua gatta si lasciava accarezzare da un altro, lo stesso Brassens, mentre Battista dormiva: la reputazione di pornografo del fonogra­ fo deve pur avere un fondamento. Fra le parole italiane usate da Brassens, Battista riporta ancora il termine «urlatore», a proposito di Brel, un appellativo che designa negli anni Sessanta cantanti come

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Celentano e che, all’epoca yé-yé, ha forse varcato le Alpi per arrivare fino a Brassens. Si incontrano anche delle parole italiane nelle canzoni. Non az­ zardiamoci a stilare un elenco, il «buon maestro» avrebbe trovato stu­ pida l’idea. Ad André Sève, che aveva rilevato i nomi dei fiori che si trovano nelle sue canzoni, disse che quell’elenco era «una ricerca idiota. Metto dei fiori perché abbelliscono una canzone ma se credi che mi interessino, guardati attorno, sul tavolo, sulla mia finestra, non ce ne sono». Inoltre, gli elenchi sono sempre incompleti, se non discutibili e sbagliati. Bisogna considerare italiane quelle parole la cui origine straniera non è più percepita, come balourd, bravache, bastion, barbon, persino fiasco * Ma forse è più giusto limitarsi a quelle la cui origine italiana è ancora visibile, come lazzi, baste о basta, mercanti. In questo caso c’entra l’influenza di Victor Hugo о Alfred de Musset. In Montélimar c’è anche un «rouler presto», ma prestò, come in petto, appartiene al linguaggio musicale e, inoltre, è molto comodo per la rima con «auto». Benché si tratti di una canzone postuma, e quindi forse «completata» da Jean Bertola, occorre notare che Tant quii у aura des Pyrénées contiene un curioso chi lo sa? Ma si parla, in questa canzone, di Mussolini e di maccheroni: l’uso dei termini ita­ liani si giustifica quindi sul piano narrativo, come l’utilizzo dell’ingle­ se e del tedesco in Les deux oncles. Quanto a Vendetta, il termine è utilizzato in un contesto corso. Ci sono tracce d’italiano anche negli altri scritti. Il volume delle opere complete contiene le prefazioni che Brassens ha redatto per al­ cuni artisti che ringrazia, incoraggia e con i quali si complimenta. La parola «bravo» è usata di frequente ma occorre notare che, se il ter­ mine viene quasi sempre banalmente utilizzato alla francese Qraw), quando si tratta di complimentarsi con un suo traduttore, citando il famoso adagio traduttore traditore, Brassens scrive: «Dico ‘Bravo’». E ci sembra di sentirglielo dire veramente, pronunciato all’italiana: Braaavo! È la stessa musicalità che si sente (o crediamo di sentire) quando scrive a Salvatore Adamo: «Bravo, mio caro Salvatore, e ad­ dirittura bravissimo!». Braviiissimo! Quanto al suo romanzo, La tour des miracles, contiene - come le canzoni - lazzi e mercanti?, vi figura­ no anche camorra e pupazzo, quest’ultima parola viene utilizzata al singolare о al plurale come nell’espressione pupazzi de pacotille (pu­ pazzi da strapazzo).

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Senza che il romanzo proponga una vera e propria definizione della parola, si capisce che il termine camorra viene utilizzato per de­ signare la comunità, una sorta di utopia rabelesiana situata sulla cima della collinetta di Montmartre, in una torre dei miracoli, che dà il ti­ tolo al romanzo, scritto all’epoca in cui Brassens credeva forse ancora che il collettivo fosse possibile e che in gruppo si potessero seguire i «capricci di ogni tipo». Con pupazzi si riferisce a tutti i nemici di questa banda, i bisbetici di passaggio, i seccatori, le creature di umore tetro, tutte le persone che guardano storto, insomma. Camorra e pu­ pazzo sono entrambi presenti nel Nouveaupetit Larousse illustre del 1954 e sono dunque giunte attraverso il francese a Brassens, che sicu­ ramente non le scelse a caso. Come Brassens non avrebbe mancato di dire, questi termini italiani, come i fiori nelle sue canzoni, abbel­ liscono il tutto e non bisogna darvi un significato che non c’è. Ma come non notare che camorra evoca Napoli e che, anche se la parola è utilizzata in senso inverso poiché la banda è sicuramente, a dir po­ co, sfrontata e stramba ma non delinquente, la parola va a rafforzare un’affermazione di marginalità. Essere napolitani a Séte, dopo tutto, significava proprio essere malvisti e quindi essere ai margini, cosa che Brassens sarà, in un modo о nell’altro, per tutta la vita fin dalla sua gioventù. Ricordiamo l’affare dei quattro maturandi, un furto com­ messo da alcuni ragazzi per i quali Brassens faceva il palo. I suoi complici furono tutti espulsi dalla scuola e Georges, messo al bando, vide la madre soffrire per i commenti malevoli che i pupazzi benpen­ santi non mancavano di farle. Queste parole italiane utilizzate qua e là potrebbero pur essere anche un segno dell’affetto di Brassens per l’Italia delle sue origini, che tuttavia non lo spinge a manifestare una curiosità particolare per il Paese stesso. Solo all’inizio del suo successo, nel 1958, Brassens par­ tecipa ad alcuni concerti organizzati nella penisola e alla trasmissione Palco girevole andata in onda il 30 marzo9. Se si eccettua il concerto di Cardiff del 1973, quella in Italia è la sua unica uscita in un Paese non francofono: a Brassens non piace cantare davanti a un pubblico che rischia di non capirlo; Nanni Svampa, che lo ha tradotto in mi­ lanese e in italiano, non è mai riuscito a convincerlo a venire a can­ tare a Milano. Cfr. il documento sulla tournée di Brassens in Italia nel marzo 1958 in appendice.



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Brassens non manifesta molto interesse per l’Italia, a parte per l’Italia che si è spostata a Séte, né vi è in lui una vera curiosità per la cultura italiana. La sua reputazione gli impedisce di continuare a fre­ quentare i bouquinistes e i librai. E un suo amico, Mario Poletti, a fornirgli i libri che desidera: Poletti riceve dei messaggi о dei titoli cerchiati su dei cataloghi, per esempio, La Divina commedia, nella traduzione francese di Masseron uscita nel 1964 e in un’edizione del 1928, ma ciò che emerge da queste liste è che Brassens è soprattutto attento alla letteratura e alla poesia francese. Nella scelta delle amicizie il cantante è invece molto «italiano»: Lino Ventura, Louis Nucera, Mario Poletti, soprannominato le Rital da Brassens, Eric Battista. Quest’ultimo non manca di alimentare gli stereotipi sugli italiani, dicendo di Brassens che «per metà italiano, avrebbe dovuto essere superstizioso, soprattutto con la morte con la quale ha fatto troppo il fanfarone». C’è anche il sarto, Mario Evan­ gelista, che gli hanno raccomandato i fratelli Motta (direttore d’or­ chestra e tromba a Bobino, mitica sala di concerto a Parigi), forse i chitarristi, Victor Apicella, le Napolitain, Mimi (Barthélémy) Rosso (nato a Monaco), e anche il liutaio, Jean Favino, tutta gente con cui può condividere l’affetto per le origini. Cavanna, che vediamo canta­ re in coro il ritornello di Le Roi sulla scena di una celebre trasmissio­ ne televisiva, Le grand échiquier, non fa parte degli intimi. I suoi ami­ ci di Séte non sono di origine italiana, forse perché queste amicizie risalgono all’epoca delle scuole medie e del liceo, che i figli d’italiani frequentano poco all’inizio degli anni Trenta. Ci sono comunque al­ meno il cognato Yves, figlio di Angelo Cazzani, proprietario di una società di import-export, e Raymond Scannapieco, anche lui chitar­ rista. Giuseppe Setaro è sicuro che non si trattasse di una semplice coincidenza. Quanto a spingersi a dire che si tratta di un modo indi­ retto per compensare un’assenza nell’«albero genealogico sfrondato dei suoi antenati» in cui «manca tutto il ramo italiano, in altre parole l’essenziale: la pasta e il mandolino», per utilizzare le parole di Bras­ sens riportate da Battista, non vi è che un passo. Benché glielo si metta a volte tra le mani, come il primo strumento che avrebbe toc­ cato, il mandolino non appare nella vita di Brassens. Invece la pasta sembra onnipresente. Benché si dichiarasse «frugivoro e vegetariano», Brassens aveva delle abitudini alimentari disordinate, come dicono numerose testi­

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monianze. In alcune foto, lo si vede gustare un salame, forse uno di quelli che suo cugino di Séte gli portava a Parigi: quarantotto salami in una valigia, si capisce perché Georges Granier si ricordi della mar­ ca... In altre foto mangia, in piedi!, qualcosa che sembra proprio es­ sere un piatto di pasta al sugo, forse gli «gnocchi di Gisèle», mamma di Mario Poletti. Il suo entourage evoca frequentemente le mangiate di pasta: per soddisfare la loro passione comune, l’attore Lino Ven­ tura, emigrato in Francia da bambino, portava l’occorrente, poiché la cucina di Georges non era attrezzata per cucinare la pasta come si deve; poi i due uomini facevano a gara a chi ne mangiava di più, rac­ conta Louis Nucera. Georges apprezza molto i piatti della moglie del suo amico di Séte Raymond Scannapieco e i cannelloni della moglie di suo cugino, anche lei di origine italiana. In una foto degli anni Sessanta, all’uscita di un concerto, si vede il cantante che tiene in mano un libro e una scatola che degli amici о degli ammiratori gli hanno regalato: dal nome dell’autore, Fernand Méry, e dalla coper­ tina che si intravede, si deduce che si tratta di un libro sui gatti. E si distingue molto bene il nome della marca scritta sulla scatola, un pacco di pasta italiana Agnesi. La passione per la pasta risale alla sua gioventù a Parigi: nel 1945-1946, racconta il suo amico e uomo di fi­ ducia Pierre Onteniente, Georges viene spesso ad aspettarlo all’uscita dall’ufficio e vanno «insieme [verso il boulevard de Clichy\ fin dall’ita­ liano all’angolo dove poteva[n]o pagar[s]i una porzione di pasta о di ravioli, che Georges adorava». Ma la pasta è già presente durante la sua infanzia in famiglia. Battista riferisce che: Se dipendesse solo da lui, Brassens mangerebbe solo pasta, mac­ cheroni, con del formaggio. Del parmigiano. La sua ambrosia: le la­ sagne e i cannelloni al forno. Tutto ciò, beninteso, arricchito da una quantità spaventosa di peperoncino. Sua madre eccelleva in questa cu­ cina italiana. Non lesinava nemmeno sulle spezie. Nessuno, dopo, ha saputo preparargli le sue specialità come lei. Elvira aveva un modo ini­ mitabile di impastare la pasta e di preparare il ripieno. Brassens ne con­ serva un ricordo sacro. Si fa fuori un gran piatto di ravioli. Alla fine, di­ chiara: - Puppchen, è eccellente. Sei l’angelo del focolare. Ma a onor del vero devo dire che non eguaglia affatto ciò che faceva l’italiana.

E così che Georges dà a un ristoratore di Séte stabilitosi a Parigi la ricetta dei cannelloni bianchi che preferisce e che forse caratterizza la cucina «italiana» di sua madre:

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Mio caro amico, Ecco la ricetta dei cannelloni come li faceva la signora Brassens (senza tornata [l’espressione che si usa a Séte per il concentrato di po­ modoro]). Con i miei cordiali saluti Georges Brassens

Cannelloni Il giorno prima, preparare un brodo di ossa midoliose di bue, di vi­ tello e di maiale aggiungendo carote, sedano, porri, cipolle e tre chiodi di garofano. Lasciar cuocere a fuoco lento per un’ora e mezza. Il giorno dopo, far sbollentare i cannelloni, regolare il fuoco così che l’acqua non bolla troppo forte per non rompere i cannelloni, ag­ giungere all’acqua un po’ d’olio per evitare che si incollino e del sale. Toglierli dall’acqua con la schiumaiola uno a uno e disporli su un panno. (Nella casseruola, e a seconda della grandezza di quest’ultima, non mettere più di 8-10 cannelloni.) Farcirli con carne tritata, disporli uno accanto all’altro in una teglia da forno. Fare quest’operazione du­ rante la cottura degli altri cannelloni. Contemporaneamente, far riscal­ dare il brodo e versarlo, ben caldo, sui cannelloni fino a coprire questi ultimi. Spolverare di formaggio romano grattugiato, mettere in forno caldo. Tirarli fùori quando la superficie è dorata. (Importante: non de­ vono nuotare in un’eccessiva quantità di brodo).

Questa ricetta viene a concludere la nostra escursione «italiana» attraverso l’universo familiare, amicale, musicale, poetico e culinario di Georges Brassens; un universo che, malgrado il passare delle ge­ nerazioni, si tinge ancora, a sprazzi, di colori italiani; i frammenti di lingua e di dialetto, i piatti che ricordano l’infanzia, le amicizie si as­ sociano a un immenso affetto per colei che trasmette e rappresenta questa alterità: sua madre. L’unica Italia con cui Brassens sia vera­ mente stato in contatto è l’Italia immigrata a Séte che, lo si vede con i nonni materni di Brassens, non è fatta solo di pescatori napolitains. Ciò radica ancora di più Brassens in uno dei territori che hanno con­ tribuito alla sua formazione, quello della sua città natale. Qualche anno dopo la sua morte, la città di Séte comincia a ri­ trovare e reinventare un’italianità: è verso la metà degli anni Ottanta che a Séte, le facciate delle case che costeggiano i canali si agghinda­ no di colori all’«italiana». Lo ricorda La Gaiette de Sete nel suo nu­ mero dell’estate del 2013. Ed effettivamente le facciate sono molto più variopinte rispetto a quanto si vede sullo sfondo di una delle ul­

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time passeggiate a Séte del cantante nella trasmissione di Evelyne Pagès ripresa nell’aprile del 1981, Escale en Languedoc. Di fronte al ritorno di un passato che ci si era sforzati di dimen­ ticare - poiché, occorre ricordarlo, fino agli anni Settanta, grosso modo fino alla pubblicazione dei Ritals di Francois Cavanna (1978), non era di buon gusto dichiararsi italiano -, un passato che, a Séte come altrove, riemerge fino a diventare una moda, è probabile che, se la sua anima avesse spiccato il volo all’orizzonte qualche anno do­ po, Brassens sarebbe stato lui stesso vittima della sindrome dei Ri­ tals. Avrebbe probabilmente trovato, come in ogni cosa, il tono giu­ sto per accogliere la propria memoria familiare ricostruita e ci piace pensare che avrebbe condiviso la nostra opinione a proposito della presunta influenza italiana sui ritmi che aveva scelto: piuttosto che caricaturare all’estremo, come fanno alcuni che vedono nelle sue can­ zoni - Le Gorille ancora - un «etnotipo» (come Jacques Vassal, che fa proprio il termine), sembra più giusto considerare che si trattasse di un’influenza tra molte altre e non la più importante, data l’onnipre­ senza del jazz. E se influenza «italiana» vi fu, questa rappresentava piuttosto il riflesso, come abbiamo dimostrato, di una presenza «ita­ liana» nella canzone francese, soprattutto all’epoca in cui il giovane Brassens si forma musicalmente; quella in cui Vincent Scotto recu­ pera un gusto «italiano» per il suo cantante di punta Tino Rossi, ascoltato, indubbiamente, con un’attenzione e un’emozione partico­ lari nelle famiglie di origine italiana. Detto ciò, Brassens non ha finito di riservarci delle sorprese po­ stume. Nonostante a Séte si verifichi l’inversione tra il maestrale e la tramontana e ci si trovi tra Spagna e Italia, nelle sue canzoni, tra tut­ te le danze citate (marcia e fox-trot a parte), seguidille, rigodoni, mi­ nuetti, pavane, sardane, villanelle e fandanghi, è proprio la tarantella che si incrocerà più sovente.

All’impasse Florimont (Paris XIVе) il 6 maggio 1955 con Jeanne et Marcel Pianelle.

Georges Brassens anarchico

È anarchico; ascoltare le sue canzoni, anche in tradu­ zione, dovrebbe essere sufficiente a capire quali forme assumesse questo impegno. Ma siccome agli «stronzi bisogna dire tutto», al ri­ schio d’incorrere nell’ira postuma del maestro che preferiva le «parole coperte», è giocoforza dare qualche particolare in più e anche qualche spiegazione. Sono parole che mai Brassens avrebbe pronunciato in pubblico, о almeno non in questa forma, ma che utilizza in uno dei suoi quaderni. Scriveva nel suo diario: rassens

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Bisogna masticargli le parole. Le parole masticate non hanno più sapore. A loro, bisogna ripetere sempre le stesse cose. Nelle mie canzo­ ni, bisogna ascoltare tra le note. Penso che non si debba mai dare spiegazioni, perché manda tutto all’aria.

Tutto comincia in famiglia. La prima influenza anticonformista che segna Georges è probabilmente quella che suo padre, Jean-Louis Brassens, detto Louis, gli trasmette con i suoi comportamenti: non entrava mai in chiesa, neanche per la prima comunione del figlio, aveva principi educativi basati sulla libertà di scelta ed era, a suo mo­ do, un libero pensatore. A tutti gli ammiratori del cantante è nota la storia dei furti perpetrati da una banda di adolescenti di Séte, fra i quali anche ragazzi di buona famiglia. I ladri sono scoperti e fanno dei nomi. E così che il diciassettenne Georges passa alcune ore in commissariato (prima di essere condannato dal tribunale di Mont­ pellier a due anni con la condizionale). In Les quatre bacheliers (I quattro maturandi), Brassens rende omaggio al padre, di cui vanta l’apertura mentale. L’autore spiega così la genesi di questa canzone: È venuto a prendermi in commissariato, gli hanno spiegato quello che avevo fatto e mi ha riportato a casa. Non mi ha detto niente mentre tutti i padri erano venuti a rimproverare i figli. Tutti i padri erano ve­ nuti a minacciare i figli di diseredarli, di mandarli in riformatorio:

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UN BRASSENS AI MARGINI

«Non sei più mio figlio!», ecc. Mio padre, che era un omone di un me­ tro e ottanta, è entrato. Aveva l’aria severa, è entrato e tutti hanno pen­ sato che sarebbe scoppiato il finimondo. In realtà, è venuto e mi ha detto: «Vuoi mangiare qualcosa?». Allora ho pensato che era doveroso scrivere questa canzone perché avere un padre così è una fortuna.

La personalità ribelle di Brassens potrebbe inoltre essersi formata in reazione alla necessità di dover resistere, con affetto, a una mam­ ma cattolica praticante e sempre preoccupata dell’opinione altrui. Chissà se possa aver influito anche il fatto che la rue de l’Hospice, a Séte, dove è nato Georges, poi ribattezzata rue Henri-Barbusse e ora per metà rue Georges-Brassens, è perpendicolare alla rue de la Frater­ nità e parallella alla rue de la Revolution. Va notato inoltre che l’indole di Brassens lo spinge a restare iso­ lato: Vivevo già ripiegato, come una chiocciola, nella mia conchiglia. Mi sembra di essere sempre stato solo, insomma. Tutti siamo soli. L’ho forse percepito più delle altre persone. Tutto quello che facevano i miei compagni alla fin fine m’interessava poco. Avevo una vita interiore in­ tensa, fin dall’infanzia [...]. Vivevo sempre molto in disparte; e siccome sentivo che tutto quello che pensavo, tutto quello che potevo immagi­ nare, tutto quello che potevo concepire a quel tempo rischiava di recar­ mi guai, e cioè di farmi screditare - a quei tempi ci tenevo alla conside­ razione degli altri - restavo zitto. Così la mia apparenza esterna era del tutto normale. Ero un mostro all’interno, ma all’esterno mi comportavo più о meno normalmente. A quei tempi, mi pensavo anormale: sicco­ me le mie idee non erano quelle degli altri, mi ritenevo un mostro. Più tardi mi sono accorto che i mostri erano gli altri.Il

Il periodo della seconda guerra mondiale gli dà modo di capire chi sono i veri mostri. Dal febbraio 1940, nonostante brevi ritorni a Séte, Brassens vive a Parigi, la sua città prediletta1, che ha già visita­ to nel 1931 e nel 1937. Parigi apre al giovane Georges nuove prospet­ tive perché, paradossalmente, «grazie alla guerra» che gli sta rubando la gioventù, Brassens può vivere «senza troppe preoccupazioni». La vita parigina s’interrompe per un anno, tra il marzo del 1943 e il mar­ zo del 1944, dopo che Brassens ventiduenne viene chiamato, come decine di migliaia di uomini e donne francesi e belgi, per il servizio ' Cfr. il testo intitolato «Brassens per le vie di Parigi» in appendice.

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del lavoro obbligatorio in Germania (Service du travail obligatoire, STO). Viene mandato a Basdorf, alla periferia di Berlino, dove lavo­ ra per la BMW. Quando Georges decide di non tornare in Germa­ nia alla fine del permesso di dieci giorni, la zia Antoinette, che lo aveva accolto nel 1940, non insiste nel tenersi in casa il nipote, che adesso si trova in una condizione di illegalità. Comincia così la vita da recluso in un vicolo di Parigi, ■AV impasse Florimont, da Jeanne Le Bonniec, sarta e amica della zia, e Marcel Planche, in una casa che l’artista lascia solo negli anni Sessanta, molto dopo l’arrivo del grande successo. Là vive ai margini della società, senza contatti esterni poi­ ché, in questa «piccola bohème», riceve vitto e alloggio e viene accu­ dito come un bambino. Jeanne lo aiuta a pubblicare le sue poesie a spese dell’autore, gli offre la prima chitarra, mentre Marcel divide con lui le razioni di tabacco. Anche se luna è nata in Bretagna e l’al­ tro a Brie-Comte Robert (a una trentina di chilometri da Parigi), fanno parte delle persone che hanno ispirato la Chanson pour l’Auvergnat (Canzone per l’Alverniate). Anche la vita amorosa di Georges è libera, disinteressata e anticonformista2. La casa AeWImpasse Florimont è piccola, due stanze, non ha né luce né acqua corrente: circola una foto di Brassens a petto nudo mentre si lava nel cortiletto di quella casa con l’acqua presa da una catinella, sotto lo sguardo attento di due gatti saliti sul tetto. Circo­ lano anche le foto dei numerosi animali ospitati in questa «arca di Noè», fra cui la famosa anatra, felicemente diventata Gianna aveva un’oca in una traduzione ritmica in italiano trovata in rete.

Brassens militante e giornalista In questo periodo Georges scrive e legge soprattutto poesia fran­ cese, frequenta la biblioteca del XIV arrondissement che, «se avesse memoria, si ricorderebbe per forza» di lui. In poche parole, costruisce il Brassens che conosciamo, iscritto in qualità di autore alla SACEM (Société des auteurs, compositeurs et éditeurs de musique) fin dal 1942. Ha già scritto parecchie canzoni di cui gli amici del STO han­ no la primizia e che in gran parte finiscono nel cestino della carta Cfr. il testo intitolato «Brassens e Venere» in appendice.

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straccia del sempre più esigente cantautore, ma per fortuna non tut­ te. A quel periodo risalgono per esempio Maman, Papa e Pauvre Martin, una canzone già a suo modo politica. L’attività letteraria del giovane autore è intensa: scrive numerose poesie, nel 1942 pubblica a spese dell’autore la sua prima raccolta poetica, A la venvole\ e lavora alla stesura di un romanzo. Gli scritti, editi e inediti, inclusi nel volume delle opere complete danno un’idea di questa vivacità creativa. L’attività politica è altrettanto intensa. Una tappa del percorso politico di Brassens, quasi ancora uno scherzo goliardico, consiste nell’ideazione del Partito preistorico internazionale. Membri di que­ sto partito, insieme a Georges, che si firma «Occhio di mammut», sono un amico del STO André Larue, «Plesiosauro indeciso», e l’a­ mico d’infanzia Emile Miramont, che riceve in questa occasione il suo soprannome di «Corno di uro» (Come d’auroch, che ritroverà la dovuta «s» finale nella canzone che Brassens gli dedica qualche anno più tardi). Forse in reazione allo scoppio della bomba atomica, il programma di questo partito è di denunciare il progresso e di pro­ porre il ritorno alla vita primitiva. Già fedele all’idea che «il plurale è del tutto inutile per l’uomo e quando si è più di quattro, non si è che una banda di stronzi», il partito non supera il numero di tre soci. Il trio organizza la pubblicazione di un giornale, Le Cri des gueux (Il grido dei pezzenti), di cui, fin dal 3 aprile 1946, è pronto un intero numero, ricorda André Larue3 4. Il giornale non trova i fondi necessa­ ri, ma i due testi scritti da Brassens, uno su Francois Villon e uno sul verso libero, potrebbero essere stati riusati in altra sede. Infatti, Bras­ sens comincia a frequentare gli anarchici e a fare qualche passo nel giornalismo. Tramite Marcel Planche, reduce della prima guerra mondiale du­ rante la quale aveva subito danni fisici a causa dei gas, Georges cono­ sce Marcel Renot, compagno di Planche durante la guerra e membro del gruppo della federazione anarchica del XV arrondissement, come conferma Victor Laville, un amico salito anche lui a Parigi da Séte. Georges si mette a frequentare le riunioni e si lega ad altri anarchici. 3 L’espressione è formata con le parole vento e volare e designa quello che vola via con il vento. 4 Cfr. l’editoriale di Le Cri des gueux in appendice.

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Forse spinto dai compagni del gruppo del XV arrondissement, о per­ ché deluso dalla non pubblicazione del Cri des gueux, nel giugno del 1946, Brassens manda, senza firmarlo, un articolo al Libertaire, perio­ dico fondato da Louise Michel e Sébastien Faure nel 1895 e rina­ to nel 1944. Brassens si stupisce di vederlo pubblicato nel numero del 28 giugno 1946 e si reca alla sede della federazione, quai de Valmy, che è anche sede del Libertaire, dove gli danno l’indirizzo di Henri Bouyé, responsabile del giornale. Insieme alla compagna, Bouyé ge­ stisce una bottega di fioraio al numero 86 deH’tì"u