Fellini anarchico 8833020991, 9788833020990

Furono per primi due francesi, il critico André Bazin e più tardi lo scrittore Daniel Pennac, a parlare di un «Fellini a

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Fellini anarchico
 8833020991, 9788833020990

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Da pochi a pochi appunti di sopravvivenza

Il cinema del no visioni anarchiche della vita e della società

L’oppio del popolo

Goffredo Fofi

Fellini anarchico

elèuthera

© 2020 Goffredo Fofi ed elèuthera editrice

RINGRAZIAMENTI

sono grato a Emanuele Dattilo, Nicola Villa, Andrea Breda e alle magnifiche amiche della redazione

di elèuthera per il loro aiuto e la loro pazienza

Progetto grafico di Riccardo Falcinelli

il nostro sito è www.eleuthera.it

e-mail: [email protected]

Dedico questa modesta impresa a Vincenzo Mollica, il più fedele degli amici di Fellini, e alla memoria di Tullio Kezich, suo biografo e il più attento dei suoi critici.

Introduzione

Dei tre artisti che sono stati, io credo, i più «anarchici» nella storia della nostra cultura almeno nella seconda metà del Novecento e dei primi lustri del Duemila – Fellini, Pasolini e Bene – solo il terzo si dichiarò più di una volta pienamente anarchico; gli altri due furono più cauti nelle loro dichiarazioni di idealità politiche, ma la radicalità della loro ispirazione, messa a confronto con i vari conformismi del loro tempo, ce li fa considerare tali almeno in alcune fasi e opere della loro creazione. Pasolini tentò quasi ossessivamente un dialogo con la società in cui viveva e con il proprio tempo, da provocatore-educatore, soffrendo delle reazioni che ne risultavano e finendo, io credo, per cercare la morte, per tirarsi fuori dalla società, dalla storia, dalla vita. Bene guardò le cose dall’alto di un’eccezionale diversità, seguendo fino in fondo la propria vocazione, e fu il più genialmente diverso di tutti. Fellini, infine, mediò per il possibile tra le sue convinzioni e acquisizioni e il mondo dello spettacolo, lo spettacolo della società. Fu il più «mobile» dei tre, nonostante l’apparente chiusura al confronto Rimini-Roma, e cioè provincia-città,

passato-presente, realtà-visione, normalità-eccezionalità e in definitiva io-tutti, io-tutto. Formidabile affascinatore di masse (di intellettuali e di popolo), Fellini espresse una diversità esplosiva che poteva conquistare la curiosità l’attenzione il rispetto dei pubblici più diversi e più lontani. Fu simile in questo, in cinema, ai più grandi, ai Buñuel Kurosawa, Bergman ma più di tutti a Kubrick, per la grandiosità e libertà della sua invenzione. Mentre Pasolini e Bene, pur grandissimi, si rivelarono o meno astuti di lui nella loro ricerca di una fascinazione «di massa», o (Bene) più radicalmente altro e profondo, o (Pasolini) più accanitamente alla ricerca di un dialogo, di un confronto. Se Bene fu coscientemente anarchico (individualista), Pasolini lo fu senza averne piena coscienza, per disillusione nei confronti di una collettività che tradiva le speranze di una generazione e i valori di una tradizione, e Fellini progressivamente, via via che il suo confronto con la Storia del suo tempo gli imponeva una visione meno ironica della realtà (e cioè distanziata, da grande umorista quale anche era). Più di Bene – che si contentava di un pubblico elitario e fedele – e più di Pasolini – che si voleva in fin dei conti poeta-vate come quelli del tardo Ottocento – Fellini, come Kubrick, voleva piacere al colto e al semplice, all’alto e al basso; e prese presto gusto a un cinema «for the millions», che era tra i pochi a saper praticare, con una diversità che era insieme stupefacente e profonda, comprensibile e libera. Dopo l’iniziale adesione ai valori di un umanesimo che possiamo ben dire anarcoide (soprattutto La strada [1954]), è di fronte all’euforico disordine del boom e più ancora alla cinica reazione del potere alle prospettive di cambiamento cercate da una minoranza (spesso superficiale nelle analisi e nei valori) e al crollo dell’illusione in un diverso controllo della storia in una chiave diciamo pure socialdemocratica e progressista, che Fellini si disincanta e che gli si fa chiaro un quadro sociale, nazionale e internazionale, nuovo e terribile, non diversamente da quanto hanno vissuto e considerato altri, da quello che altri grandi hanno sofferto e su cui hanno ragionato, anche diversissimi da Fellini, e su cui infine è stato Christopher Lasch a scrivere le pagine più lucide in La cultura del narcisismo.

Dire Fellini anarchico è una forzatura? Forse lo è pensando ai film degli anni di splendore – ideologicamente incerti nonostante la solidità e la forza del quadro sociale affrontato, la loro immaginifica ricchezza, la loro formidabile vitalità, la crudeltà profonda dell’insieme anche se superficialmente colorata – ma lo è sempre di meno via via che Fellini ha sentito l’urgenza di spingersi più a fondo, l’insoddisfazione del presente, il bisogno di scavarne il senso e la paura delle conclusioni a cui tutto questo avrebbe potuto portarlo e lo ha infine portato. Il giudizio si fa più profondo e insieme più amaro, ma si fa anche più limpido. Più amaro e perfino più tragico. È sul fallimento di una civiltà che infine Fellini ragiona negli ultimi film: dell’umanesimo, della democrazia. Ed è qui che sentiamo Fellini più vicino, amaro della nostra stessa amarezza. Fino alla jacovittiana «sagra dello gnocco» che è il quadro più spietato dell’imbecillità che ci sovrasta – la società del consumo e, più tardi, del coronavirus… Due poveri sbandati e sciocchi, marginali per condizione ma anche per scelta, sono gli unici a volere e sapere ascoltare ancora, leopardianamente, «la voce della luna». Il giro è chiuso, e sì, Fellini è arrivato a convinzioni che sono ormai pienamente e saldamente anarchiche. Disperatamente anarchiche. «Una forma di disperazione creativa» definì l’anarchia Colin Ward, il più chiaro dei suoi teorici. A questo Fellini era ormai giunto, ed è a questo punto che la sua parabola si è conclusa.

CAPITOLO PRIMO

Fellini anarchico?

Fu per primo Callisto Cosulich, attento giovane critico di frontiera, a parlare del film d’esordio firmato dal solo Fellini, Lo sceicco bianco (1952), poco amato dai critici come dal pubblico perché sconcertati da una diversità niente affatto sentimental-neorealista, come del primo film anarchico italiano, e fu in Francia il grande André Bazin a parlare di un «Fellini anarchico» dopo aver visto, con entusiasmo, La strada, mentre ancora di recente un altro francese, Daniel Pennac, ha insistito su un Fellini anarchico e cosciente di esserlo. Assistito via via da tre sceneggiatori congeniali come Ennio Flaiano, Tonino Guerra (che si dichiarava tranquillamente anarchico) e Bernardino Zapponi (idem)… Mentre la grande biografia felliniana di Tullio Kezich, ricostruendo anno per anno e quasi mese per mese la vita di Fellini, ci ha ricordato le sue scoperte, i suoi amori (Jung!), la sua forza e capacità di diversità, di autonomia, di libertà. (Anche Kezich amava definirsi anarchico, nonostante la sua forte presenza istituzionale). L’humus romagnolo e il giovanile confronto con il fascismo, ma forse, soprattutto, i bombardamenti a tappeto subiti dalla sua città, che furono tra i più feroci e mortali della guerra che

il nostro paese abbia subito (sui quali Fellini aveva forti ricordi ma di cui non parlava volentieri), hanno certamente influito sulla visione che il regista ha avuto della società, ma rispondendovi con una vitalità (un amore per la vita, per la sua bellezza e per le sue varie stranezze) in modi ora irridenti e ora commossi. Si è schierato nei primi film dalla parte dei marginali – i girovaghi, le prostitute, i «bidonisti»… – raccontando i loro confusi tentativi di rivolta e le fatiche della sopravvivenza in un contesto fortemente classista, ostile; ha affrontato le mutazioni del boom nel possente quadro della Dolce vita (1960); ha dichiarato la sua irrecuperabilità di artista a un ordine borghese in Otto e mezzo (1963); e ha via via espresso e mostrato le sue convinzioni nelle grandi opere ultime, dove la narrazione si è fatta metafora e insieme giudizio. La visione critica della società le attraversa e il regista si fa forte del successo internazionale, di fatto accettando di farsi anche lui clown, oggetto di curiosità mediatica, «attore» e non solo regista, ma per esprimere un’eccezionale autonomia e una libertà creativa comparabili solo con quelle di un Buñuel, di un Bresson, di un Bergman, di un Kubrick, di un Tarkovskij. E questo non solo nel suo film più autobiografico, Amarcord (1973), dove la figura del padre è palesemente quella di un anarchico, ma perfino nella ricostruzione della Roma antica, nel Satyricon (1969) (cosa sono se non anarchici i due giovani hippies che ne sono protagonisti? e non è forse anarchico il «testamento» di Encolpio/Randone verso la fine del film?), mentre E la nave va (1983) narrava la fine di un’altra epoca molto più vicina dell’antica Roma… l’avvicinarsi alla prima guerra mondiale, che gli autori, Fellini e Guerra, confrontano non esplicitamente con gli annunci di fine della nostra, di civiltà, ma negli anni del suicidio di una società borghese divisa in nazioni e fazioni, da lotte inter-capitaliste. Non diversa la seconda guerra mondiale nelle sue cause ed effetti e non diversa la crisi che oggi il mondo attraversa causata anche questa dalla logica di «das Kapital» che ha come idoli soltanto il Denaro e il Dominio, mentre il Casanova (1976) ci mostra la marionettistica alienazione di un individualismo narcisistico, ridicolo e manipolabile, e La voce della luna (1990) affida a due irrecuperabili sbandati (a due anarchici, infine!) la fragile

ma irriducibile distanza da una società che il regista ci mostra nella sua degenerazione festaiola e conformista, nell’euforia consumista della «sagra dello gnocco»… Fellini ha saputo astutamente divertire, volendolo e non volendolo, con un po’ di ipocrisia, anche i potenti, l’ipocrisia dei potenti. Ha confessato – anche a me, poiché abbiamo parlato più volte di tutto questo, avanzando io dubbi sulle sue «astuzie» di narratore, sull’ambiguità di molte sue visioni del «carattere nazionale» e in particolare, da sessantottino, sulla sua paura, in Prova d’orchestra (1979), del caos che il ’68 avrebbe prodotto, dei pericoli di un «anarchismo» rivendicativo e protestatario che riguardava un’intera società (ed è questo il suo film che più violentemente ho criticato e gli ho rimproverato, ma su cui vedi avanti…) – di essere rimasto sbalordito dall’entusiasmo di tutta o quasi la «comunità nazionale» per Amarcord. Egli era convinto che avrebbe provocato irritazioni e critiche di una parte almeno degli italiani, di cui pensava di aver messo allo scoperto i difetti culturali maggiori, il provincialismo, il familismo, il maschilismo e, in sostanza e in breve, quel complesso di idee e comportamenti che si è soliti chiamare, almeno dal 1945 in avanti, fascismo. La parola «fascista», scrisse Fortini sul «Politecnico» subito dopo la Liberazione, aveva finito molto rapidamente per essere non soltanto un sostantivo, di ben chiara identità ideologica, politica, storica… era anche diventata l’aggettivo con cui ormai si bollava la prepotenza, il maschilismo presenti nella nostra cultura. Ci sono state certamente astuzia e ambiguità nel modo di Fellini di raccontare noi italiani, e ci sono state adesione e ripulsa, con la forte coscienza di una personale distanza ma anche di una qualche vicinanza a quei modelli, qualcosa infine che apparteneva a tutta un’epoca, una società, una civiltà. E che tutta la designava. Fellini non è stato certamente un moralista alla Chiaromonte, ma piuttosto alla Flaiano. E sarebbe anche opportuno che qualche giovane bene intenzionato volesse scavare, invece di discettare frivolmente sugli argomenti alla moda «repubblicana» e accademica, nelle considerazioni sull’Italia e gli italiani che ci hanno lasciato

quei due grandi «moralisti classici», insieme a quelle dei loro amici e complici Brancati, Moravia, Pasolini, Fortini, Calvino eccetera, rappresentanti della grande, della grandissima generazione che il fascismo aveva vissuto e subito e che ha visto o fatto la guerra e che ha preso parte attivissima alla grande stagione della ricostruzione, pur con tutte le sue ambiguità e contraddizioni. Ché il periodo davvero vitale della nostra storia nazionale è stato solo quello che va dal 25 luglio del 1943 al 9 maggio del 1978, una data su cui Fellini ha molto ragionato, sconvolto come tutti dalla paura del futuro che la barbarie brigatista apriva per tutti. E Prova d’orchestra è stato il film-chiave di quel periodo, preceduto in qualche modo da quello di Monicelli (da Cerami e con Sordi, in qualche convinto modo co-autori), Un borghese piccolo piccolo (1977) che raccontava fuor di metafora il disagio e il fascismo latente (il nascente «populismo» diventato ben presto un male nazionale e collettivo) di una piccola e piccolissima borghesia, ma anche di un proletariato sconcertato e spaventato da un angosciante disordine quotidiano. In modi a volte incerti (di un’incertezza che era bensì collettiva) il cinema italiano è stato il testimone e narratore di un’epoca, è stato negli anni tra i Quaranta e i Settanta del Novecento l’investigatore formidabile di una comune vitalità che ha segnato una stagione di film rappresentativi degli umori «della base» e «della maggioranza», dall’alto al basso della scala sociale, e che ha dimostrato una creatività e prodotto un’arte all’altezza delle esigenze più nuove, dimostrative di un immaginario variegato e travolgente. A quella stagione ne è seguita un’altra, tuttora ossessivamente dominante, di letargo (o, meglio, e ormai si può ben dirlo, di morte) di questo mezzo d’espressione e comunicazione di cui tutti o quasi tutti si sono nutriti nel corso del Novecento, un letargo o una morte provocati da mutazioni non solo antropologiche ma soprattutto economiche (la finanziarizzazione dell’economia e il legame ormai indissolubile tra banche e mafie), politiche (la globalizzazione e i nuovi-antichi sistemi di scalata e gestione del potere) e tecnologiche (basti pensare alla diffusione di internet e al fenomeno del «fascismo quotidiano» espresso dai suoi più condizionati cultori). Internet ha trasformato la «comunicazione» in una sbracata aggressività di sproloquianti

su tutto e su tutti, e contro tutti invece che contro una parte: dal punto di vista del capitale e dei suoi più giovani e aggressivi rappresentanti, uno strumento fondamentale per «tener buone le masse» convincendole di un’indipendenza mentale, in realtà radicalmente manipolata e condizionata. La «cultura del narcisismo», appunto… Fellini fu un ammiratore e consumatore e poi cantore delle forme di cultura espresse autonomamente dal popolo quasi unico tra gli artisti italiani, e sulla scia dei Picasso, degli Stravinskij, dei Brecht, dei Majakovskij e di tante «avanguardie storiche» (il circo… i giornali umoristici in cui fece i suoi esordi… l’avanspettacolo… il fumetto…), e detestò la televisione (vedi Ginger e Fred, ma non solo), così come prima di lui Pasolini, per il suo potere onnipervasivo e per i suoi effetti alienanti e omologanti: un «fascismo del nostro tempo» che veniva dopo quello della pubblicità denunciato da Godard. Il «fascismo del nostro tempo», di questo tempo in cui scrivo queste pagine, ben più ammaliante e universalmente diffuso di quelli che l’hanno preceduto, ha certamente la sua più importante matrice in Internet, e nasce dal fallimento delle rivoluzioni e dei movimenti di rivolta della seconda metà del Novecento, uccisi dalla loro fragilità (a volte pochezza conoscitiva e anche morale), ma soprattutto dalla forza e dalla violenza del Potere, del Capitale, delle classi dirigenti dei Paesi Ricchi, maestre peraltro in ipocrisia culturale. Nel film Le fond de l’air est rouge (1977), montaggio di storia degli ultimi tentativi di cambiare il mondo venuti dalla sinistra, dopo i massacri della seconda guerra mondiale, Chris Marker ha distinto chiaramente due periodi, quello delle «mani fragili» e quello delle «mani tagliate». Da quella immane e forse definitiva sconfitta, preludente l’era dei populismi e dei fondamentalismi e, mondialmente, del disastro ecologico, siamo usciti nell’Occidente benestante con quel ripiegamento narcisistico, singolo e di gruppo, facilmente manipolabile con l’aiuto dei nuovi mezzi che i padroni e i loro servi osano ancora chiamare, mai con così tanta menzogna e ipocrisia, «di comunicazione». E vorrei anche ricordare quel che scrisse alla fine delle sue memorie un maestro d’anarchia come Buñuel – di cui Fellini disse di invidiare in particolare un film di cui avrebbe voluto esser lui l’autore, Il fascino discreto della

borghesia (1972) – parlando dei «quattro cavalieri dell’Apocalisse» che erano, secondo lui, già in piena azione nel mondo: la scienza, la tecnologia, la sovrappopolazione e, non ultima, la comunicazione, che egli chiamava ancora informazione. E vorrei ricordare che nel suo libro diceva che gli sarebbe piaciuto, dopo morto, poter uscire ogni dieci o vent’anni dalla tomba, recarsi al chiosco più vicino e comprare una mazzetta di giornali per vedere cosa mai gli uomini avrebbero ancora combinato, nella loro smania distruttiva, autodistruttiva… È su questo sfondo che io vedo l’ultimo Fellini, quello di alcuni film-documento-dichiarazione ancora pienamente narrativi, inventivi. Ma in qualche modo già fuori tempo… Prima di arrivarci sarà però bene seguire il precedente percorso del regista, di tempo in tempo e quasi di film in film, soffermandoci su quelli più dimostrativi ed esplicativi. Le opere e il contesto, e i passaggi più significativi da un tempo a un altro nella coscienza sociale del regista. La critica e la crescente sfiducia nella collettività, in ogni collettività organizzata, infine, e la predilezione e l’amore di sempre per gli emarginati per condizione o anche, e soprattutto, per scelta.

CAPITOLO SECONDO

Carrellata

Vediamo, anche se di corsa, i punti salienti del percorso artistico di Fellini, a costo di ripetere cose note e stranote… Fellini nasce a Rimini nel 1920 e muore a Roma nel 1993. La sua vita è priva di trasferte all’estero più o meno avventurose, e questo è stato comune fino a tempi recenti (fino alla globalizzazione) a tanti nostri registi e scrittori, con l’esclusione dei giramondo di professione e vocazione (rari) e dei radicalmente curiosi della modernità, come Antonioni (ma non vengono alla mente, almeno in cinema, molti altri nomi…). Anche Pasolini e Bene sono stati ostinatamente «locali», tra la regione d’origine e la capitale, tra le radici e «il mondo». Le sue due città sono state sufficienti a Fellini, più che sufficienti a inventare in cinema un mondo e a registrare una dialettica essenziale e significativa, a «interpretare» l’Italia; superata soltanto, alla fine, in opere che ambivano a una sintesi superiore. Fece «le sue università» nei giornali umoristici, nell’avanspettacolo, nella radio, e collaborando a sceneggiature per film «di genere», e dei generi un tempo portanti del cinema più popolare, il comico e il dramma passionale; a sfondo più sociale dopo la Liberazione. Ha frequentato e conosciuto, ha narrato ed evocato le forme dello spettacolo popolare di un tempo, compreso il circo, nella loro

evoluzione o nella loro agonia, e da questo interesse, da questa esperienza, è stato molto ispirato, e gli è anche molto servito; ma ha anche scritto per Rossellini, collaborando a più di un capolavoro e apprendendo dal maestro una libertà dello sguardo e del metodo che però, anche nevroticamente, ha preferito spostare dal plein-air rosselliniano al chiuso di Cinecittà, a un luna-park di cui essere principe e direttore. Se il primo cercava e stimolava nelle riprese di strada la presenza della Grazia, il secondo tentava di provocarne la presenza nel chiuso di un set artificiale. Come sceneggiatore, ha scritto anche per due «maggiori» dai quali ha avuto da imparare, ma vedendoli più da coetaneo che non da allievo: Germi e soprattutto Lattuada. E anche da loro ha assorbito un’insofferenza verso il midcult dominante (anche verso convenzioni chiamate neorealismo). Chissà per chi votava, ma fu certamente «terzaforzista», contrario alla dicotomia DC/PCI e più tardi ai ricatti della «guerra fredda». Sottili venti di anarchia e non di buonsenso attraversano a volte le opere di Germi e quasi sempre di Lattuada, anche se, nel primo, meno chiari e coscienti e nel secondo, si può dire, più «borghesi». Grazie a Lattuada esordì come regista, coregista, con Luci del varietà (1950), il racconto più patetico che ardito della tournée di una sgangherata compagnia di avanspettacolo dentro una provincia poco entusiasmante, dentro l’«Italia minore», come si diceva un tempo. Lo sceicco bianco non piacque per la sua novità, anche se vi sono in nuce molte cose che faranno in futuro il suo successo, quelle dei Vitelloni (1953) e di Le notti di Cabiria (1957), e in fondo anche del Bidone (1955) per quella Roma minore e nascosta, per quei «giri» di personaggi di dubbia e incerta moralità, appena coscienti della loro amoralità, della loro confusione morale cattolica e romana. L’ansia di un qualcosa che non si sa definire, di uno star bene, di una tranquillità economica ancora lontana ma anche di una chiara collocazione dentro una società, un accordo col mondo, negato anzitutto dalla necessità, da una condizione di classe subalterna ma senza la coscienza di quel che dovrebbe conseguirne. Il sogno dell’incontro con uno «sceicco bianco» è mera evasione, è il sogno di un mondo altro immaginario, e il risveglio alla realtà

impone la pesante accettazione del mondo com’è, o meglio: com’è per chi non ha abbastanza, per ragioni storiche ed economiche, per chi non potrà ancora accedere a un mondo privilegiato, che sarà peraltro, come quello dello «sceicco bianco», molto squallido, una variante grottesca dell’esistente, appunto un sogno, mentre il mondo dei ricchi resta inavvicinabile. Cabiria, attirata nell’appartamento lussuoso da una nuova e più concreta e realistica figura di «sceicco bianco», il divo cinematografico Nazzari (un attore celeberrimo nel ruolo di se stesso), ne sentirà per un attimo l’odore, prima di essere respinta alla strada. Insieme a I vitelloni, autobiografico ritorno a Rimini, malinconico affresco di una provincia ancora addormentata e che il regista rivisiterà con più alte ambizioni esattamente vent’anni dopo in Amarcord, ma che figura quasi come una resa, pur se intelligente e anche astuta, al canone neorealista, il giovane Fellini si permette però un geniale sberleffo a danno del neorealismo e di un committente che è nientemeno che Zavattini (l’antica diffidenza dei romagnoli per gli emiliani vi entra forse per qualcosa?). Basti dire che Agenzia matrimoniale, l’episodio felliniano di L’amore in città (1953), un’inchiesta in più episodi di cui notevoli quelli di Antonioni su un gruppo di donne che hanno tentato il suicidio e di Lattuada su un erotismo esplosivo e sfacciato, è quasi una stramba aggiunta a Lo sceicco bianco, una storia inventata di sana pianta e, di fatto, una beffa nei confronti di Zavattini, maestro del pensiero neorealista rappresentante di un moralismo catto-comunista dominante nelle ideologie del cinema italiano del tempo, ben diverso da quello, molto più alto e radicale, dei catto-comunisti alla Berlinguer, Dossetti, Balbo, Rodano, Romanò, Ossicini… Tra il 1954 e il 1957, La strada, Il bidone e Le notti di Cabiria formano una sorta di trilogia, confermata dalla presenza in tutti e tre di Giulietta Masina; una trilogia dell’emarginazione che perlustra un mondo di sconfitti tuttavia non domati, alle prese col problema della sopravvivenza (propria ma, nel Bidone, anche dei propri cari), mostrando aspetti diversi dell’«arte di arrangiarsi». (E possiamo considerare questa «arte» come l’espressione di un istintivo e

spontaneo anarchismo di tutta una parte della società, costretta a vedersela da sola in un mondo decisamente classista, ostile). Fu questo un tema tra i maggiori del cinema italiano del tempo, affrontato dai nostri comici (da Totò a Sordi) e dall’affermarsi della commedia all’italiana, con registi quali Monicelli, Pietrangeli, Risi, Comencini, Salce e con sceneggiatori come Age-e-Scarpelli o Scola-e-Maccari, e Sonego, e Vincenzoni, e da Fellini in chiave, se non tragica, certo malinconica e patetica, e sofferta. Zampanò e il Matto hanno scelto la vita che fanno, da girovaghi, ma Gelsomina, donna e vittima, deve viverla per ragioni che sono, alla base, economiche; e Cabiria è simile a Gelsomina, prostituta ingenua e un po’ stolida, ma ostinatamente attaccata alla vita, amante della vita. In questi personaggi anche la critica più banale seppe riconoscere un’eredità, diciamo così, charlottiana, mentre quella meno banale vi vide una matrice cristiana e fin evangelica. La critica cattolica difese ed esaltò allora Fellini, salvo abbandonarlo quando osò fare La dolce vita… Tema di questi tre film è, in sostanza, nonostante la loro predilezione per figure insolite e diverse, per un mondo aborghese e per più versi a-proletario, un contesto di «classi subalterne». È in sostanza la Grazia, cattolicamente ma anche socialmente intesa: una marginalità obbligata, ma con un afflato di solidarietà, un’ansia di giustizia che, se è priva di rivolta, tuttavia respinge le compiacenze borghesi e piccoloborghesi, e ignora ideologie che, semplicemente, non possono appartenerle. Scelte che non sono scelte, e presenza infine di Grazia… L’ottusità brutale di Zampanò giunge all’uccisione del Matto e all’abbandono di Gelsomina, ma anni dopo l’ascolto casuale della musichetta che Gelsomina aveva appreso a suonare sulla sua tromba risveglia in lui desolazione e rimorso, il sentimento di un’irrimediabile e cupa solitudine: il suo pianto notturno e solitario sulla spiaggia è un indizio di salvezza, raggiunto dopo esperienze bensì tremende. È impossibile pensare ad astuzie di sceneggiatura, in questo finale, che pare invece nascere da convinzioni profonde, da un’autentica «simpatia» per i personaggi che è di Fellini ma anche dei suoi scrittori.

Nel 1960 La dolce vita consacra Fellini regista dal successo mondiale, di critica e di pubblico. Grandiloquente ma amara panoramica su una metropoli mondana, caotica e corrotta, riassume i risultati sociali e antropologici di un decennio di vita sociale ma anche di politica nazionale, ed è in questo senso anche un film storico che interpreta con grande acutezza un’epoca del nostro passato recente. Fellini vi riprende temi del progetto su Moraldo in città (Fellini in città!) con Moraldo divenuto Marcello, giornalista-scrittore di mezza tacca, che è ancora in qualche modo Fellini stesso. E Mastroianni sarà d’ora in poi l’alter ego del regista, la maschera dietro la quale amerà nascondersi: nel pantano della capitale governativa ed ecclesiastica, la sua crisi è un disincanto senza illusioni, un viaggio senza prospettiva. Un’ultima scena sembra riportarci ai tipici finali precedenti (dopo l’orgia, su una spiaggia autunnale dei pescatori traggono a riva un pesce mostruoso, annuncio di un futuro incomprensibile, ma anche presenza o incombenza di un male indecifrabile): Marcello è chiamato dall’altro lato di un fiumiciattolo dall’angelica, dalla semplice servetta umbra che ha incontrato tempo addietro, ma non la riconosce né distingue quel che ella gli grida. Non sa più sentire, i giochi sono fatti, e non ci sono, almeno per lui, prospettive di salvezza. E per Roma? per l’Italia? Certamente Fellini vuol metterci in guardia… Il suo è il possente affresco di una società al suo punto di svolta, nel pieno di un «miracolo» che sembra solo economico. Affresco, appunto, e non un soggetto lineare, ma una costruzione per blocchi, quasi autonomi. La novità è anche nel rifiuto di una trama lineare, di una sceneggiatura di tradizione. Una novità decisamente esplosiva. Conta la costruzione ad affresco: ampi episodi che, mediatore Marcello, portano dal mondo delle borgate a quello della nobiltà, da via Veneto ai palazzoni di periferia, dal mondo del cinema al Vaticano, dalla superstizione religiosa delle campagne alle crisi esistenziali e alla presenza di un irrazionale cui si risponde, chi meno brutalmente accetta ogni novità, con un nevrotico disagio – parallelo alla «incomunicabilità» che angosciava Antonioni, il quale nell’anno di La dolce vita propone una presunta Avventura (1960) che mette a confronto nell’Italia che cambia nuove debolezze e nuove solitudini – o

addirittura col suicidio dell’intellettuale più nevrotico e cosciente, preceduto dall’uccisione dei propri cari. Come estremo rifiuto di un futuro alienante, un futuro che spaventa. Alla nuova civiltà che avanza non si oppone rivolta (il ’68 è ancora molto lontano) ma disperazione. Di fronte al boom, si suicida Mastronardi, si dà all’alcol Bianciardi, si stravolge Cassola, si prepara lentamente alla morte, solo rinviata, anche Pasolini: «questa sera a Samarcanda»… Nessun professore universitario (una professione tra le più corrotte e stupide da decenni, forse proprio a partire dagli anni del boom, una professione tra le più scioccamente «miracolate») ha ancora pensato di studiare le reazioni al «miracolo» degli intellettuali italiani del tempo, anche se singoli libri e film, poesie e prose, inchieste e saggi di quegli anni vi si sono soffermati con onestà e intelligenza. E il peso di quella mutazione ha la sua incidenza anche nella mutazione ultima di cui viviamo le conseguenze «aspettando la fine», una mutazione che Fellini non ha potuto vedere ma che ha intuito, nella sua pre-finale radicalità. La dolce vita è un’opera-cerniera, «epocale», ed è il film della conversione felliniana a una libertà creativa quasi assoluta: rinnega la costruzione tradizionale dei film precedenti, e i suoi blocchi narrativi sono l’affermazione di un linguaggio decisamente nuovo, diverso, inedito, che può solo rinviare alla libertà delle grandi avanguardie. E del più grande dei registi anarchici, Luis Buñuel, l’unico che, parlo per diretta testimonianza, riusciva a mettere in crisi il regista rimineseromano. Da questo momento in avanti i suoi film sono brani di biografia affrontati con visionaria sregolatezza. Dopo la splendida satira contro la censura di Le tentazioni del dottor Antonio, incarnato in un formidabile Peppino De Filippo (episodio di Boccaccio ’70, del 1962, che è anche una vendetta contro chi ha osteggiato in molti modi, in area cattolica, il successo di La dolce vita), Fellini è pronto a raccontare, con molta libertà, se stesso e la propria moglie, la propria più diretta realtà; ed ecco Otto e mezzo e Giulietta degli spiriti (1965) che mescolano ricordi (veri o immaginati, simil-veri) a ossessioni, fantasie, mistificazioni. Ma mentre in Otto e mezzo Fellini narra se stesso con estrosa sapienza nel disordine di

realtà-ricordo-fantasia, Giulietta racconta la liberazione dai propri fantasmi di un personaggio femminile – piccoloborghese, cattolica, repressa – attraverso una sorta di caotica e catartica psicoanalisi junghiana, e convince meno per la sovraccarica freddezza di scenografie più liberty (l’amato Rubino come primo ispiratore) che surreali, in cui il regista sembra perdersi e bearsi. È tuttavia un film che rivela, ancor più di Otto e mezzo, l’influenza determinante di Ernst Bernhard sul regista. (Per la piccola storia, fu un altro grande regista, nevrotico più autentico e non alla ricerca di ispirazione ma di salute, Vittorio De Seta, a indirizzare Fellini dal grande psicoanalista). Negli anni Sessanta Fellini è ormai un regista-personaggio di fama mondiale. Una soggettività onirica e vistosa domina le sue costruzioni, sempre più slegate nell’insieme ma, blocco per blocco, di sconcertante potenza visionaria. Toby Dammit, da Poe, episodio di Tre passi nel delirio (1968), apre la stagione di una maturità che dialoga ostinatamente col profondo (sogno e incubo insieme) e non altrettanto efficacemente col presente. Affiora per la prima volta in modo così ossessivo un tema ormai fondamentale nella sua opera, quello della morte, che si aggiunge a quello della decadenza della civiltà, una decadenza non ancorata realisticamente – storicamente e socialmente – soltanto ai suoi anni e a un’italica realtà, ma che riguarda la civiltà nel suo insieme, quella occidentale. Un Fellini adulto, un grande Fellini che chiarisce a se stesso una diffidenza nei confronti della società a cui appartiene, che si farà via via, a parer mio, più anarchica. Nel dialogo denso con due collaboratori più coscientemente ma meno tranquillamente «anarchici» di lui, Guerra e Zapponi. Satyricon e Roma (1972) Fellini li ha scritti con Bernardino Zapponi, che conosceva storia e tradizioni della città come le sue tasche, un «romanista» che sapeva perdersi genialmente negli umori più profondi di una città becera e barocca, puttana e bigotta come nessun’altra. Roma alterna sequenze suggerite da un’esperienza e conoscenza dirette anche per Fellini, come era già stato in La dolce vita, ad altre (poche) più incerte o attuali. Appartengono ai ricordi del regista la Roma degli anni del fascismo, il teatro d’avanspettacolo, la trattoria all’aperto,

la pensione «famigliare» con una super-mamma che è anche eco di primitive Mater Matuta…), mentre altre appaiono più mediate (gli scavi, il bordello per ricchi, la geniale sfilata di moda per ecclesiastici, e i rari confronti con la Roma contemporanea). Vicinanza e distacco, partecipazione e giudizio, nel tempo lungo o lunghissimo della Storia, in una Roma che sembra mantenere nelle sue viscere l’eco di un passato extrastorico dell’uomo. Una sorta di crescente diffidenza nei confronti della Storia, della Società, che era al fondo del primo film «zapponiano» e «romano» di Fellini, il Satyricon. Nella sua struttura intrisa di ricognizione onirica di un passato inconoscibile e di documentario fantastorico su un impero al tramonto, sulla fine di un’epoca e l’inizio di un’altra (che si ignora cosa potrà essere, ma che sarà certamente di lunga lunghissima decadenza), Satyricon non nasconde l’ambizione di voler essere anche un film sull’oggi. Fellini si sdoppia nel giovane Encolpio, una sorta di Moraldo dell’antichità, e nel vecchio Eumolpo, retore più o meno bidonista e cialtrone sul cui funerale chiude il film e che fa obbligo testamentario ai suoi eredi, così simili agli hippies degli anni del film, di divorare il suo cadavere. Satyricon è un’opera di straordinaria ricchezza figurativa, ed è più funerea e notturna del passaggio a una Roma vissuta, non immaginata con la mediazione di Petronio. Forma con Roma un dittico superbo, un ieri-e-oggi che ci regala un’interpretazione storica profonda, una ricostruzione-analisiconfronto di civiltà, una diversità e una perennità. Sono queste, io credo, le opere infine più ambiziose del nostro regista e quelle che battono le migliaia di libri, saggi o romanzi scritti sulla storia e decadenza di una civiltà, della nostra… Ed è qui, a mio parere, che Fellini completa il suo apprendistato «ideologico», precisa la sua distanza e differenza dalla società in cui vive perché sa vedere oltre, oltre l’attualità e oltre la Storia… E qui, davvero, il confronto con l’opera di Kubrick e con quella di Buñuel, se qualcuno fosse all’altezza di farlo, sarebbe davvero illuminante per tutti… Di I clowns (1970), realizzato per la RAI-TV, Fellini è un protagonista assoluto e mette in scena direttamente se stesso – come farà in tanti film-documentari e film-interviste – mentre

vaga con una bizzarra troupe (i clown sono dappertutto e l’assurdo è dappertutto, perciò è decaduto lo spettacolo dei clown) alla rievocazione di un tempo scomparso. L’ultimo dei clown è lui, Fellini, che si dà a spettacolo nello spettacolo della società di consumo e che sa cogliere nei funerali svaccati dell’ultimo clown il senso di una morte diventata essa stessa spettacolo ma, in tal modo, solo apparentemente neutralizzata. La morte, ancora. Di una civiltà, di una civiltà dello spettacolo – ché tra alcune scene del Satyricon e di Roma e quelle di I clowns, la somiglianza è fortissima, l’umore è lo stesso. Ma la tentazione pur forte al filosofare su ciò che il regista pensa di aver capito, sulle conclusioni a cui è arrivato o sta arrivando, è mitigata dall’autoironia. «Sì, sono e resto un ‘fregnacciaro’, sempre», si ostina a dire Fellini, e anche in questo è la sua grandezza – anche a confronto con gli altri Grandi, Bene e Pasolini, più drammaticamente coinvolti nel proprio ego, non capaci di un’oggettivante distanza e della conseguente ironia. Vent’anni dopo I vitelloni Fellini ritorna con Amarcord alla sua Rimini, tra Romagna e Marche e né Romagna né Marche… Vi era già in parte tornato nell’avvio di I clowns e con le prime immagini di Roma. Sceneggiato con Tonino Guerra, romagnolo di Santarcangelo (una dozzina di chilometri da Rimini, sua quasi periferia), al posto dell’attualità e della crudezza ancora naturalistica e pur sentimentale che erano de I vitelloni c’è nel film – beninteso un capolavoro, e un film da manuale sull’identità «fascista» che ci appartiene – un dolce-amaro naturalismo dalle tinte vagamente gogoliane o, meglio, da Saltykov-Ščedrin e da russi minori e pur gogoliani dell’Ottocento, che stempera le sue punte grottesche visionarie aggressive nel ventre disagevole, e talora fastidioso, di una nostalgia regressiva. Fellini ha detto più volte che non immaginava che Amarcord venisse così amato da una comunità nazionale, da una cultura nazionale che egli aveva inteso, nel film, criticare, mettere in discussione. Ma chissà se era proprio così, e l’ambiguità felliniana vale in questo come in altri casi a spiegare le diffuse doppie letture possibili dei suoi film, diciamo quelle «intellettuali» in sintonia o in contrapposizione a quelle affettive, «viscerali». Un Fellini sornione, molto più astuto dei suoi critici, tutti.

Film che sembra apparentemente in tono minore, ma tra i più coesi e riusciti, apparentemente attorno a un narrare «regolare», col suo «borgo» da una primavera a un’altra primavera (e Il borgo era il titolo iniziale del film, ma già usato da Faulkner!), Amarcord è un film come ovattato, incline non verso la modernità del Fellini-clown ma verso una certa consolazione sentimentale del Fellini-umorista. E tuttavia prospetta una lettura del passato fascista del nostro paese acuta, anzi acutissima, smontandone il mito dall’interno e mostrando la mediocrità del regime e del popolo che lo accettava e se ne compiaceva. Amarcord è un film-chiave per capire il nostro paese, la sua storia e la sua politica, la mediocrità della sua cultura, in senso precisamente antropologico. È un film, in questo senso, che servirà da manuale per far capire chi eravamo – o chi ancora si continuerà a essere – ai nostri figli e nipoti, se ce ne saranno. È anche il film in cui compare una figura, minoritaria e perdente, quella del padre del protagonista, dichiaratamente anarchica, di un semplice ma ostinato oppositore di un regime che fu perfino più volgare che violento… Con Casanova Fellini cambia registro, e non soltanto perché il film si contrappone all’elegia di Amarcord e per la prima volta gioca fuori casa, ma perché si cimenta con l’Europa attraverso uno dei più famosi personaggi del Settecento cosmopolita. Punta, abbassandola, su quella dimensione erotica che ha fatto passare il nome di Casanova in antonomasia, riducendo il libertinismo del personaggio storico alla nozione più angusta e corrotta di dongiovannismo, e ne fa un Casanova cialtrone, piagnone, disperato, ossessionato, teatralissimo, nonché un atleta del sesso, così murato nel suo ottuso maschilismo da risultare alla fine un mezzo uomo, non un uomo intero. Un uomo-macchina, come la bambola meccanica che lo ossessiona. Il filo rosso che attraversa il film è il suo rapporto nevrotico con le donne, col sesso femminile visto come qualcosa di oscuro, di soverchiante, di divorante: il sesso come gorgo, maelström. È anche una libera e rabdomantica reinvenzione di ciò che fu il Settecento, quel secolo decisivo che è stato l’ossessione del più grande dei suoi rivali e contemporanei, Stanley Kubrick. E sarebbe assai interessante, se qualcuno volesse provarci, mettere a

confronto, poniamo, Casanova e Barry Lyndon, i film e i personaggi. (Dissi una volta a Fellini: «Ma perché l’odioso Casanova e non il più umano, ambiguo Cagliostro? E tu sai bene che molti ti hanno definito, come fecero con Rossellini, un Cagliostro moderno». Mi rispose, pressappoco: «Proprio per questo, perché c’è qualcosa di Cagliostro in molti di noi, in me, mentre di Casanova, per fortuna, non abbiamo, non ho, proprio niente. Perché io Casanova lo odio, odio quel tipo di uomo, quella sintesi-parodia del maschio»). La città delle donne (1980) è un film sullo stesso tema, ma in cui il protagonista è in fondo l’autore, e in cui Fellini sembra riversare anche materiali e ossessioni del film-fantasma Il viaggio di G. Mastorna, covato per un decennio e mai realizzato perché un film sulla morte, anzi, in qualche modo, sulla propria morte, non è affatto facile portarlo a termine… Calcolato, nel suo apparente disordine, è una ricognizione onirica del proprio inconscio attraverso l’universo femminile, visto in modo discutibile e riduttivo secondo molte acute femministe e detestato da altre meno acute, ma anche una riflessione sul cinema, pur nella consueta chiave di ricordi d’infanzia e adolescenza mescolati a quelli dell’avanspettacolo, dei fumetti. Mi ostino a considerarlo una prova minore, ma forse dovrei rivederlo. E tuttavia, quanti sono i registi e gli artisti che, oltre Fellini, hanno osato procedere a questa sorta di «autocoscienza del maschio», e per di più del maschio di specie italica? Prova d’orchestra, che l’aveva preceduto, prodotto a basso costo dalla TV, era invece un apologo leggibile a diversi livelli (politico, etico, estetico) che entrava in pieno (voleva entrare) nel dibattito politico di quell’anno, di quel tempo. Suscitò infinite discussioni, e plausi, e ripulse, cadendo in un particolare momento di tensione della società italiana, di cui denunciava non troppo metaforicamente la disgregazione. Erano gli anni delle stragi di Stato, e nel 1978, con l’ignobile omicidio di Aldo Moro e poco più tardi con la morte, diciamo pure di crepacuore, di Enrico Berlinguer, si era chiuso il periodo più aureo della nostra Storia nazionale, gli anni che vanno dal 25 luglio 1943 al 9 maggio 1978. Ma chi altri osò esprimere un pari sconcerto, una pari – diciamo pure – paura e disperazione nei

confronti di un paese imbastardito (e anche di una sinistra istericamente languente e, dopo Berlinguer, tendenzialmente suicida; di un sindacato che moriva nei corporativismi più egoisti e miopi), oltre ai socialisti Monicelli e Comencini e a una piccola parte dell’intellighenzia più acuta (e penso anzitutto a Sciascia e Pasolini, ma anche a un ’68 residuale, benché suicidariamente mortificatosi nelle beghe dottrinarie e burocratiche para-marxiste dei piccoli gruppi-partito – parodie, tutti, del modello leninista – e nelle grandi chiacchiere sociofilosofiche)? Il film fa intravedere un Fellini preoccupato, decisamente e sinceramente spaventato, da quel che in Italia avveniva e dal possibile ritorno di un dominio tradizionalmente fascista. Non era questo da temere, nella realtà, quanto l’antico dominio di un capitalismo astuto che sulle ceneri delle rivoluzioni da esso combattute e massacrate (ché sì, erano ancora gli anni delle rivolte anticoloniali, delle guerriglie, del risveglio nero negli USA, delle rivoluzioni al potere in India e Cina e in tanto «Terzo Mondo», delle rivolte studentesche in giro per tutto o quasi il pianeta…) preparava un’ultima mutazione, quella di cui siamo ostaggi, una nuova forma di dittatura, tecnologica e basata sull’imposizione-affermazione della «cultura del narcisismo». Si sentiva – e come! – in Prova d’orchestra l’angoscia di un artista (di una persona) certamente non rivoluzionario e allineato, si può dire, su posizioni conservatrici, ma spaventato e più che spaventato da un disordine che non può che portare, secondo lui, a una nuova dittatura. Ma non si può trascurare di ricordare l’insolita tensione e coesione formale del film e la preoccupazione di voler provocare nello spettatore una riflessione adulta, una reazione positiva. (Questo film Fellini lo scrisse con il meno geniale dei suoi sceneggiatori, Brunello Rondi, di area e tradizione, diciamo così, democristiana, che gli era servito sino ad allora per le ossessioni erotiche che lo caratterizzavano). Da ex sostenitore e propagandista di un movimento, il ’68, a cui avevo dato energie e sogni, Prova d’orchestra è forse il film di Fellini verso il quale fui, da critico, più duro. Ne capisco ora meglio le ragioni e il valore, anche se non lo considero un film dei suoi migliori. Ma

appunto, se non Pasolini e Sciascia e certi vecchi registi e scrittori di forte tradizione socialista e terzaforzista, e più confusamente alcuni rari comunisti, chi cercò con il massimo di sincerità e lucidità di ragionare sulla confusione di quegli anni? Prova d’orchestra seppelliva a suo modo il ’68, attribuendogli in fondo una responsabilità che aveva solo in parte. Ma la sua preoccupazione era sincera, anche se non di un ritorno alla dittatura Fellini aveva da temere, quanto di uno scollamento, con risposte più subdole da parte del Capitale: il cosiddetto populismo, le leghe, le manipolazioni mediatiche e tecnologiche. La televisione, per un tempo, e poi la più invadente e corruttrice, la più «assoluta» delle invenzioni, Internet. E la nave va (scritto con Guerra) tornò al passato e alla nostalgia, in modi ambiziosamente alti. Vi è in questione, infatti, la fine di una civiltà (all’alba della prima guerra mondiale), con evidenti richiami alla fine della nostra. Un personaggio di giornalista segue e commenta una crociera di melomani che accompagna alla sepoltura marina le ceneri di una grande cantante, e la musica vi ha un grande posto, ma più ancora il cinema (e la televisione, l’informazione). Dopo questo film, malinconico e funereo, oscuro e antisolare, il regista ha trovato sempre maggiori difficoltà a realizzare i suoi progetti più ambiziosi, anche in ragione del loro costo e della mutazione stessa del sistema cinematografico, che comincia in quegli anni la sua estrema, definitiva decadenza. E dopo gli insuccessi commerciali degli ultimi lavori, come sempre assai costosi, Fellini accetta perfino di dedicarsi alla pubblicità. La sua fantasia si è fatta col tempo più cupa, e i suoi tentativi di ritrovare una sintonia con una società e un pubblico che vanno enormemente mutando, come peraltro egli ha previsto, non sembrano più funzionare. Ginger e Fred (1986) è stato lanciato come un film radicalmente critico nei confronti della televisione, ma non dice su questo mezzo nulla di più di quanto altri, ed egli stesso nei suoi film-intervista, hanno già detto. Il gran carnevale che Fellini ci mostra è una galleria di «mostri», simile a quella di altri film del riminese sul circo, sul cinema, sulla rivista ecc. Ginger e Fred ritorna anche a una narrazione più semplice (senile?) da racconto, da novella, frammentata di sketch. È a ben vedere un malinconico film

senile sulla senilità – la propria, ché se Ginger è Giulietta, Fred è Marcello/Federico – cui aggiungono tono e calore le identificazioni dei protagonisti – e con loro del regista – con i personaggi, e il loro spaesamento di più che sessantenni di fronte all’incomprensibilità e volgarità del mondo di oggi così come al proprio decadimento biologico e alla nostalgia che li invade della gioventù, nel ricordo di un mondo più umano del presente, e del sogno di armonia che la gioventù portava con sé, anche se esile e misero e a suo modo anch’esso «volgare». Benché di una volgarità più povera, ingenua, poetica rispetto a quella contemporanea. Intervista (1987) è un altro esercizio, più sciolto e divertito, di cinema sul cinema (su Cinecittà), di cui mostra con ritmo anche festoso retroscena e incantesimi, ma anche le solide pratiche artigianali, i legni e i chiodi, la colla e la cartapesta, gli attrezzi e i trucchi, nella consueta mescolanza di malinconia e allegria, sincerità e prestidigitazione, senza nascondere il fondo di disincanto: e le antenne televisive attorno al set somigliano a croci di cimitero. L’ultimo film di Fellini è stato, ed è a ritroso molto significativo e fin simbolico, La voce della luna. Esso contrappone, in mezzo a ridondanze abituali e a ripetizioni non sempre convincenti, efficaci, due pazzi gentili (Roberto Benigni e Paolo Villaggio) che si confrontano con un’italica umanità vieppiù confusa, vociante e gridante, volgare e consumista. È una dichiarazione di sfiducia molto cruda nella società italiana, che forma una specie di trittico con Amarcord (l’Italia povera sotto il fascismo) e La dolce vita (l’Italia del boom, della DC e dei pentapartiti). È anche una dichiarazione dolce-amara di dolorosa solitudine. Non vale rimproverargli limiti, imprecisioni, lungaggini. In quella piazza del paeseItalia invasa a terra da automobili fetide e sui tetti da antenne, piena di vetrine sgargianti e di chiese come silos, di Banche «di Reggiolo e Tucson» e di palchi festaioli (la «sagra dello gnocco»), le folle sono sguaiate, ridanciane o irose, esibizionistiche e metodiche portatrici di distruzione, i vigili urbani sono tutti capelloni e i sindaci untuosi, gli immigrati da ogni luogo vendono ogni cosa, e padroni nani osteggiano ex proletari senza politica. Ovviamente nei margini, nei

sottoscala, negli anfratti di questa festa continua si nascondono i disadattati, gli espulsi, i subalterni assoluti, gli imperfetti, quelli-che-non-ce-l’hanno-fatta. Poche scene più avanti, ecco i giovani di una maxi-discoteca che somiglia a una fabbrica, e che sembrano gli operai robotici di Metropolis (1927) trascinati da una musica ossessiva ad agitarsi meccanicamente e senza ragione apparente, costretti, obbligati al divertimento. Ed ecco però, nell’ombra, la sola speranza di una fiaba rassicurante, quella antica leopardiana dell’ascolto della natura, della «voce della luna». Fellini non dà risposte e non sta a lui darne. Non ci ha detto «di chi è la colpa?» o «che fare?», ma con il suo ultimo film ci ha mostrato più e meglio di tutti come siamo, noi italiani di oggi, come abbiamo voluto diventare tornando dopo un trentennio da vivi a un purgatorio incosciente. E lo ha fatto con una malinconia e un dolore condivisi con i più coscienti, con i pochi coscienti. Non si può dire che il suo distacco da questa società e da questa storia sia parallelo solo alla mutazione del mondo e ne consegua, ma lo è infine anche del cinema, cioè il mezzo espressivo a cui ha dedicato la sua esistenza. Dietro le musichette di Nino Rota che accompagnano ogni evocazione della sua figura e della sua opera come una convenzione mediatica ipocrita e traditrice, non ci è certamente difficile vedere un Grande Sconfitto, dentro la storia della parte del genere umano che più ha capito e lottato, e che è dunque la più sconfitta di tutte, quella che ha la più piena coscienza della sua sconfitta; noi dobbiamo allora cogliere di lui e della sua opera il messaggio più duro e finale, quello di un’estrema diffidenza e distanza da Questa Società, da questa decadenza, da questo annuncio di fine. Fellini anarchico? Sì, almeno alla fine; senza fiducia in nessun ordine sociale di cui ha fatto esperienza, e senza più fiducia in nessun ordine sociale a venire. Difendendosi, male, dal male della società, dal male della storia, dal male che è il Capitale con le sue due uniche molle, i suoi soli ideali, i suoi due feticci: il Dominio e il Denaro. Sconfitto, perdente, egli che per un tempo era sembrato un vincente assoluto. Ma, anche per questo, «nostro».

CAPITOLO TERZO

Sceneggiatore per Germi e Lattuada

Del Fellini sceneggiatore e allievo-collaboratore di un Rossellini in stato di grazia pur nelle disgrazie dell’epoca, si è detto e scritto abbastanza; meno si è ragionato sui due altri registi per i quali ha lavorato, dai quali ha, come si dice, imparato il mestiere, Pietro Germi e Alberto Lattuada. Il primo, genovese, socialista (più tardi nelle file del PSDI saragattiano, non esattamente un partito rivoluzionario…), cercò, come De Santis, come Lattuada, come De Sica, la strada di un cinema in qualche modo «pedagogico» nei confronti di un pubblico di massa da alfabetizzare alla democrazia. E con lui e per lui Fellini costruì le forti narrazioni di In nome della legge (1949), discusso film sulla mafia dallo sguardo irrimediabilmente nordico, «continentale» e infine paternalistico, e del Cammino della speranza (1950), che portò Fellini a «inventare» un Sud e un Centro e un Nord con personaggi di poveri migranti le cui vicende somigliano invero a quelle dei migranti attuali, ma in dissenso da Germi per la sua propensione al melodramma, per la sua distinzione troppo netta tra i buoni e i cattivi. Fellini parlò spesso di un progetto su Napoli, affascinato dalla vitalità di quella popolazione e dalla sua diversità, nel male ma soprattutto nel bene. E sarebbe stato un film assai diverso da quelli dei «riformisti» come Rosi – e certamente più vicino e più affascinato dal mondo popolare

e dalle sue espressioni artistiche, la canzone, la sceneggiata, Totò… – ed estraneo anche alla visione tutto sommato piccolo-borghese di Eduardo, per quanto profonda e appassionante. Anche La città si difende (1951), e la città era Roma, fu corale e «buonista» già nel titolo, e fu il film su cui si consumò il distacco di Fellini da Germi: la Roma di Fellini essendo già da allora, coscientemente, quella di Belli e non quella di Zavattini o, peggio, dei Poveri ma belli (1957) e delle Ragazze di piazza di Spagna (1952). Dei buoni e dei cattivi, degli irrecuperabili e dei recuperabili nitidamente distinti (e sarebbe interessante paragonare, rivedendoli uno appresso all’altro, La città si difende e Il bidone, banditi e bidonisti…). Diverso il caso di Alberto Lattuada, milanese e borghese, colto di buone letture e cinefilo di buone visioni. Il film che lasciò forse una traccia più forte su Fellini tra quelli scritti con/per Lattuada è certamente Senza pietà (1948), disperata storia d’amore degli anni di guerra, tra una ragazza di buone origini costretta alla prostituzione e un disertore nero dell’esercito americano occupante, dalle parti di Livorno, e nelle spire di una malavita organizzata e crudele. Senza pietà ma anche senza speranza, senza futuro, la storia d’amore tra Carla Del Poggio e John Kitzmiller, tra volti e corpi di una volgare forza espressiva, come quelli che Fellini cercherà e «schederà» in futuro preparando i suoi film. Tra di loro, ingenua e gentile, c’è anche Giulietta Masina, di cui si ricorderà e che ripeterà in Lo sceicco bianco e, ovviamente, in Le notti di Cabiria, facendone per un tempo una figura ben definita, anche ripetitiva e via via un po’ leziosa. Con/per Lattuada, Fellini scrisse Il mulino del Po (1949) – non proprio nelle sue corde (poco «socialista» anche in questo caso, e interessato alle figure più marginali e aggressive; più «anarchiche»?) – e anche Il delitto di Giovanni Episcopo (1947), da un romanzo «d’ispirazione russa» di D’Annunzio sulla Roma umbertina, «violentando» l’immagine paciosa del Fabrizi delle sue prime sceneggiature romanesche e dello stesso Roma, città aperta (1945). E con Lattuada, a cui lo legava una buona amicizia, così come sua moglie si era legata alla moglie di Lattuada (e posso dirlo per aver ricevuto le confidenze di quest’ultima), esordì nella regia firmando con lui Luci del varietà, un perfetto ritratto del mondo

dell’avanspettacolo e del teatro di varietà più povero, affrontato con allegra malinconia. Il film contemporaneo e sullo stesso ambiente diretto da Monicelli, Vita da cani (1950), scritto insieme al protagonista Fabrizi, a Maccari, ad Amidei, aveva maggiori ambizioni romanzesche, con risvolti melodrammatici, assenti dal più crudo Luci del varietà. (Monicelli, socialista DOC e autore rigoroso di un cinema «per il popolo» come l’amico Comencini, anche lui di solida cultura socialista, dettero più tardi alcuni capolavori di un cinema altamente popolare e, a mio parere, altamente anarchico: il primo Un borghese piccolo piccolo e Il marchese del Grillo [1981]; il secondo, con maggior radicalismo politico, i due film che i giovani registi del ’68 avrebbero dovuto studiare a memoria perché furono i più sessantottini di tutti, Lo scopone scientifico [1972] e Delitto d’amore [1974]). Purtroppo l’amicizia tra un Fellini desideroso di affermarsi e un Lattuada rivendicante la centralità del «fratello maggiore» non resistette a quell’impresa, e Lattuada, grande e civile regista anche di opere acremente libertarie, si trovò sorpassato da un Fellini di crescente autonomia e di spavalda autorialità. L’insuccesso (di pubblico e di critica) di Lo sceicco bianco, una prima splendida perlustrazione della capitale, fu riscattato dal successo di I vitelloni, un ritorno a Rimini che tuttavia finisce con una fuga da Rimini verso Roma (a cui avrebbe dovuto seguire un Moraldo in città, insomma un «Federico a Roma», che Fellini non riuscì a realizzare ma di cui rimane qualcosa nella prima parte del grande affresco dedicato più tardi alla città). I vitelloni ha ancora qualcosa di crepuscolare e veristico da cui Lo sceicco era esente, e i neorealisti potevano accettarlo, mentre furono assai perplessi di fronte a La strada, il cui trionfo cominciò da Parigi. Ed è bene ricordare che a tradurre per il pubblico più vasto i dialoghi italiani fu un grande scrittore decisamente anarchico come Raymond Queneau, i cui romanzi qualche professore meno ottuso dovrebbe confrontare con i film del Nostro, scoprendovi forse un simile percorso. Zampanò, Gelsomina e il Matto divennero ben presto personaggi noti in mezzo mondo (ma come sarebbe stato più forte quel film se Fellini avesse ceduto alle insistenze di Alberto Sordi a voler fare il Matto, al posto dello yankee

Richard Basehart, un tantino melenso). Pochi osarono al tempo, recensendo il film, parlare di «realismo magico», dimenticando l’importanza che la poetica bontempelliana aveva avuto sulla letteratura italiana degli anni del fascismo e ancora in parte su quella del dopoguerra, nonostante il neorealismo, per esempio sulla grande Ortese, e indirettamente sullo stesso Calvino. Ma voglio anche ricordare le mie reazioni di giovanissimo spettatore del tempo, sconcertato dalla diatriba dei comunisti contro il film a vantaggio del rivale diretto al festival di Venezia del 1954: Senso. Proprio non capivo come si potesse considerare, diciamo così, di sinistra un film in cui una nobile veneziana ruba il denaro destinato al Risorgimento (idem est, per me, alla Resistenza) per comprare la diserzione del suo ganzo austriaco (idem est, per me, tedesco, cioè, con il senso di allora, nazista), e considerare invece di destra (per il suo fondo, diciamo pure, cristiano) un film che parlava di marginali, poveri, reietti, e mostrava dal vero le strade di un’Italia contemporanea e povera, ancora ben lontana dal venire attraversata dall’Autostrada del Sole. Anche Le notti di Cabiria è un film quantomeno anarcoide, quadro affettuoso ma anche duro del mondo delle prostitute, dei loro clienti, dei loro «magnaccia». E c’erano ancora, allora, i «casini», sui quali fu il socialista Comencini a cercar di scavare, in chiave di melodramma, per raccontare l’avvilimento di una condizione femminile infame in Persiane chiuse (1951) e in La tratta delle bianche (1952). Si piangeva facilmente a quei tempi, prima della Legge Merlin, sulla condizione delle prostitute in film, romanzi, fotoromanzi, ma da lì a dimostrare una qualche effettiva solidarietà ce ne correva, e se le puttane dei film commuovevano, non era lo stesso per quelle della vita vera. Che le prostitute potessero essere a loro modo come l’angelica Cabiria, era inconcepibile, tutt’al più potevano essere delle stupide, non delle povere di spirito. Nella cifra felliniana purezza e peccato, tenerezza e ferocia, finivano per incontrarsi e per scontrarsi, mentre l’affabulazione rimandava alla realtà e la realtà rimandava all’affabulazione. Il bidone, film poco amato da tutti, nella sua semplicità realistica, e che sembra scartare la poesia per il grigio di una cronaca di gruppo, di un gruppo non gradevole, di un gruppo non simpatico, è di un equilibrio rarissimo tra

vicinanza e distanza, dall’ambiente e dai personaggi. E ha un finale tra i più disperati del nostro regista, e uno bensì dei più «religiosi». Senza l’affettuosa consolazione del finale di Cabiria, rivendicante la forza dell’attaccamento alla vita nonostante tutto, la forza di un’improbabile speranza.

CAPITOLO QUARTO

Intorno a Gelsomina: i perdenti

Metto insieme delle citazioni felliniane, una delle quali da un’intervista che gli feci io stesso: «La scelta del diverso, del marginale, dello strano, del matto, dipendeva un po’ dalle cattive letture e poi da una mia inclinazione alle forme dello spettacolo popolare, al circo equestre come la più popolare di tutte. Lì, l’estremo, l’eccesso, il fenomeno, sono di casa e all’estremo c’è il vagabondo, proprio quello di Chaplin, caricatura di un personaggio tra l’angelico e il feroce. C’era in me una simpatia per queste figure sulla quale non riesco a far luce, se non tornando ai ricordi d’infanzia, al ‘Corriere dei Piccoli’, alla grande seduzione esercitata su di me da Bibi e Bibò, da Arcibaldo, da Fortunello. Credo che Gelsomina, Cabiria e in generale l’aspetto clochard e clownesco, la simpatia per quei personaggi e per quelle storie, abbiano appunto queste matrici: il ‘Corriere dei Piccoli’, Il circo di Chaplin, Dickens, Pinocchio, senza tentare interpretazioni più sottili, che non mi appartengono. Questi sono stati i miei angeli custodi, le fonti delle mie ispirazioni». In un’altra intervista, questa con Giovanni Grazzini, diceva: «Le radici da cui sono nati Gelsomina e Zampanò e la loro storia pescano in una zona profonda e oscura, costellata di sensi di colpa, timori, struggenti nostalgie per una moralità più compiuta, rimpianto per un’innocenza tradita». E a proposito

dell’innocenza: «Davanti a un innocente mi arrendo subito e mi giudico pesantemente. I bambini, gli animali, gli sguardi con cui ti fissano certi cani, l’estrema modestia che certe volte ravviso nei desideri della gente umile, ha il potere di turbarmi». Questa «zona dell’infanzia» è il punto di partenza di alcune ispirazioni fondamentali del cinema di Fellini. Solo che queste ispirazioni, queste intuizioni, questa fedeltà all’immagine dell’infanzia, cambiano nel corso della vita di Fellini come cambiano nel corso della vita di ognuno. Diceva il grande Witold Gombrowicz in Ferdydurke che «siamo tutti foderati di infanzia», l’infanzia ci perseguita e in qualche modo ci definisce, ci chiude ma anche ci apre, ci indica delle possibilità (o dei sogni). Lo spostamento, la vera rottura in questo ordine, il vero accesso alla maturità, è stato per Fellini il ritorno a un altro tipo di infanzia, a un altro tipo di fantastico, di mondo immaginario che non era più quello esteriore, immediato, della fiaba o del fumetto bensì qualcosa di molto più intimo: «Ho spostato», ha detto in un’altra intervista, «il mio punto di vista senza deludermi nell’ansia di vedere in maniera fantastica i paesaggi del mondo magico. Ho cambiato orizzonte, mi sono messo da un’altra parte guardando queste cose non come a un mondo sconosciuto fuori di me ma come a un mondo dentro di me». Rivendicò questo salto fondamentale nella sua opera, che poi è il salto di Otto e mezzo, attribuendolo all’influenza avuta su di lui da Bernhard, il grande psicoanalista junghiano. Fellini ha detto più volte, e me lo ha ripetuto, che la lettura di Jung, soprattutto di Sogni, memorie e riflessioni, era stata per lui fondamentale, insieme a quella di Pinocchio, e che il libro di Jung era il libro a cui era tornato più spesso e che più aveva influito sulla sua esistenza. (E fu lui a farmelo conoscere, regalandomi una copia dell’edizione economica. Due altri libri ho avuto da lui in regalo, entrambi di Jane Roberts: Le comunicazioni di Seth e Un libro di Seth. La vostra realtà quotidiana, le conversazioni registrate di una medium americana degli inizi del Novecento con uno spirito egizio di non so più quale dinastia!).

È anche questo lo sfondo su cui bisogna collocare la figura del «diverso», del marginale, del vagabondo, del bizzarro, del fisicamente o mentalmente «imperfetto» (o, come oggi si dice, del disabile, come se esistessero dei «perfetti»!), che ha anch’essa un’evoluzione nella sua opera, che non è ferma, che cambia nel corso degli anni. La chiave fondamentale di queste figure è quella del «povero di spirito» d’origine evangelica: «Beati i poveri di spirito perché di loro è il regno dei cieli». Che è anche quella, a ben vedere, di tanta grande letteratura dell’Ottocento, per esempio di Dostoevskij. Per i cattolici, il povero di spirito è colui che accede al Regno dei cieli prima degli altri, e per i credenti è anche un’indicazione pratica: è con la forza dei semplici che si può accedere al mistero, alla santità. Per Fellini le tante figure dei «semplici» hanno un’origine abbastanza precisa, gli vengono dal rapporto con Rossellini, fondamentale per lui anche da questo punto di vista. È per Rossellini e su sua influenza e spinta che Fellini lavora sul personaggio della pazza Anna Magnani in Il miracolo (1948); è Fellini che scrive insieme a Rossellini Europa ’51 (1952) e altri film fondamentali nel cinema rosselliniano, nel passaggio dalla registrazione del reale alla reinvenzione del reale, un reale spesso poco «realistico», perché vira all’esemplare e al metaforico e al metafisico, nella ricerca di quella verità più profonda che nella narrazione del reale apparente può sfuggire. Rossellini è una sorta di genio tutelare, con cui Fellini deve anche confliggere perché, per affermarsi, l’allievo ha anche bisogno di definire un proprio territorio diverso da quello del maestro; però Rossellini c’è, e non bisogna dimenticarsene. Non parlerò di quella cosa più banale – anche perché troppo evidente e troppo studiata – di quelle ossessioni femminili ricorrenti nei suoi film, e via via più astratte, meno realistiche: i personaggi delle tettone, le saraghine, le Anitone dei suoi film, i manifesti giganti delle super-donne che prendono vita e ossessionano i censori democristiani, eccetera, eccetera. Per quanto importantissima, questa zona è un po’ retrò: rimanda in definitiva a un modo di vedere la donna quale poteva avere un uomo della generazione di Fellini, un modo certamente maschilista, certamente non liberatorio, condizionato da usi,

costumi e abitudini peggio che discutibili. In questo Fellini rimane a lungo un vitellone, perlomeno fino a Giulietta degli spiriti, dove è il regista a spronare la sua attrice (e consorte!) a liberarsi, e a quella Città delle donne dove si mette in discussione, di fronte all’aggressivo avvento di un nuovo femminismo, in modi ancora incerti e ambigui, ma tuttavia onestamente, tentando quell’«autocoscienza maschile» che al tempo molti giovani maschi vollero praticare. E forse un po’ vitellone Fellini è sempre rimasto, come tanti di noi anche più giovani di lui. I suoi film forse più ambigui e difficili da decifrare sono proprio Giulietta degli spiriti e La città delle donne, e andrebbero rivisti e analizzati da donne che probabilmente non li amano, e non da critici di sesso maschile, perché hanno dentro qualcosa che non ci appartiene più, ma anche risvegliano una complicità spesso deteriore con il loro autore. Nel 1950, Fellini collabora alla sceneggiatura di Francesco giullare di Dio di Rossellini, ne segue in parte la lavorazione, ed è forse questo un punto di svolta fondamentale per la sua ispirazione, o meglio per la coscienza di una parte assai rilevante della sua successiva ispirazione di regista, di «creatore». Chi c’è più «povero di spirito» di Francesco – certamente di quello dei Fioretti, ma anche in buona parte, è ipotizzabile, del Francesco storico, reale? Qualcosa di Francesco e qualcosa della pazza del Miracolo entrano in uno strano rapporto con la Pallina dei testi per la radio, scritti per la compagna della sua vita, allora giovane quanto lui. Cico e Pallina vengono prima di Rossellini, e rimandano alle sue vignette per il «Marc’Aurelio». Giulietta viene prima di san Francesco e della Magnani… ma è ancora una «proto-Giulietta», l’annuncio di qualcosa in incubazione. Giulietta Masina, la compagna di Fellini di tutta la vita, sembra essere, nella realtà, perfetta per il tipo di fantasticheria che lui ha costruito: una piccola donna-clown, con la semplicità dei «poveri di spirito» e, anche in quanto donna, carica di un suo mistero, di una diversità evidente rispetto ai personaggi femminili del cinema del tempo, degli ideali del tempo, troppo realistici per la sua ispirazione. Il personaggio ancora secondario della Masina (in Senza pietà di Lattuada ma

scritto da lui, in Luci del varietà, in Lo sceicco bianco…) si preciserà nei due film di cui è protagonista, i primi grandi successi internazionali del cinema di Fellini. Sarebbe molto interessante confrontare le diverse Giuliette di Federico, ma non tanto quella più complessa di Giulietta degli spiriti quanto la Giulietta delle sceneggiature, la Giulietta di La strada, la Giulietta di Cabiria, la Giulietta di Europa ’51, che viene anche questa dalla penna di Federico ed è una variante, più vitale allegra estroversa, e più risolta, in qualche modo più contenta di sé nella sua diffusa maternità e sensualità. Forse è il vero personaggio masiniano, il più significativo e nuovo, il più libero dei suoi personaggi femminili e il più rappresentativo (grazie anche a Rossellini?) del cinema di Fellini, e con quello del Bidone è il suo personaggio più normale, realistico. La strada è servito da riferimento obbligato per altri film di Fellini. Fortunella (1958), affidato alla regia incerta di un Eduardo De Filippo meno a suo agio di quando lavorava su propri testi, ha per esempio delle attinenze fortissime con La strada, ne è una sorta di retorico bis (ma in Fortunella domina Sordi in un’interpretazione superlativa e geniale, come fortissima variante di Zampanò). Nel finale de Il bidone (1955), Giulietta, rovesciando in qualche modo il suo ruolo, diventa la persona semplice e saggia nei confronti del marito bidonista interpretato da Richard Basehart: un bidonista un po’ scombinato ma simpatico, che però è anche il più bugiardo, il più fiacco, il meno responsabile, il più vile dei bidonisti. E il meno tragico, anche perché sembra rifiutare la dimensione della tragedia, che invece arriva con la morte di Broderick Crawford, nel finale del film, che è uno dei più forti finali del cinema del tempo, più straziante perché più gelido di quello di La strada. Nel Bidone un incontro molto significativo – perché ciò cui allude non è il rimorso per ciò che si è perduto, diciamo pure per la possibilità di accedere alla Grazia, come accadeva in La strada e come accadrà a Mastroianni di fronte alla servetta umbra nel finale di La dolce vita – è quello del bidonista principale, Augusto (Broderick Crawford), che si perde perché commosso da un’istintiva e vera comunicazione con un altro essere

umano, che è infine una variante di Gelsomina, una minorata ma non una ritardata come era Gelsomina: la ragazza storpia del pre-finale del film, nella casa dei contadini, che porta Augusto a perdersi salvandosi (salvando l’anima!) e a pagare questa scelta con la vita. L’elemento della verità, della rivelazione, è il muto dialogo con una povera ragazzina sciancata. Il personaggio di La strada fu decisivo per l’affermazione, anche internazionale, della Masina, ma le precluse ruoli più complessi, fin quando il marito non si decise a scrivere per lei Giulietta degli spiriti. In un film come Nella città l’inferno (1959) di Castellani, dove non sembra esserci stata la mano di Fellini, la Magnani diventa una sorta di Zampanò, una Magnani virile, una Magnani «guappa», una Magnani violenta e un po’ camorrista di fronte alla quale la Masina è di nuovo una Gelsomina turlupinata dalla vita, una che non sa essere all’altezza delle situazioni e dominarle invece che farsene dominare. E non bisogna dimenticare che i suoi personaggi vanno collocati in un’epoca che è quella delle maggiorate e delle Anitone, anche se per il cinema le maggiorate, le tettone, sono figure mitiche, sono giganti: quasi una parodia delle «maggiorate» che piacevano agli italiani di allora, quelli di Gli italiani si voltano, l’episodio di Lattuada in L’amore in città. Sono esagerazioni, e sono una delle spie dell’accesso a un cinema moderno, che non è quello del realismo e neanche della commedia, ma un cinema all’altezza della riflessione filosofica, metafisica, ma anche storica e sociologica più alta proposta dal secondo dopoguerra, che è «la strada» seguita dai Bresson, Dreyer, Buñuel, Clouzot, Bergman, Antonioni, Kurosawa, Tarkovskij, e parte in Italia da Rossellini e procede con Fellini e va verso Pasolini, in quanto quel che loro hanno portato al cinema prima non c’era. Hanno portato qualcosa di davvero nuovo, rispetto ad altri registi pur grandi, ma che lavoravano all’interno di convenzioni letterarie e cinematografiche definite, e strette. Qui, invece, qualcosa di nuovo arriva, che prima non c’era o era nell’ombra, e che si afferma con decisione, perfino con una certa violenza. Un altro paragone che i personaggi di Gelsomina, di Cabiria e degli altri della Masina sollecitano, è un po’ il modo in cui,

nella stessa epoca, è stata vista o non è stata vista la figura del diverso, anzi del disabile. Diciamo intanto che il cinema italiano si è occupato pochissimo di queste cose, nonostante un buon film di Gianni Amelio, Le chiavi di casa (2004), che è però del nuovo secolo ed è arrivato cinquant’anni dopo La strada. Nel grande cinema di Visconti e di Antonioni, per esempio, non ci sono i diversi, i malati, gli storpi, i minorati, i poveri di spirito. E non ci sono nemmeno in Pasolini, dove ci sono semmai figure più concrete, salvo poi quando si va verso il fantastico, pure con gli episodi di Totò. C’è sempre stata poca attenzione verso queste figure reali e concrete della diversità che sta in mezzo a noi, e che invece Fellini elenca, per esempio, in certe splendide pagine di La mia Rimini. E mette nei suoi film! In La mia Rimini c’è un elenco dei pazzi di paese, degli sciancati, dei ritardati, dei «mostri» quasi da Cottolengo (di cui si accorse il Calvino di La giornata di uno scrutatore, di cui dirò più avanti), ci sono figure ben reali, pezzi di mondo, abitanti del mondo che nei film di Fellini sbucano da ogni parte: la vecchina nana, la monachella nana, il facchino scemo di Amarcord che sogna, che racconta, il Giudizio di I vitelloni, personaggi che popolano la realtà italiana di quegli anni, visibili soprattutto nelle province anche se presenti alle esperienze di tutti, ma che il cinema si guarda dal mostrare, non considerandoli degni di narrazione, e tantomeno di poesia. Questo avviene invece con Fellini, che è davvero anche in questo un precursore: dell’attenzione verso la diversità fisica e psichica. Un’attenzione che nasce sostanzialmente in Italia con il ’68 – quello dei cattolici e non quello dei giovani marxisti, o presunti tali – il ’68 delle organizzazioni che hanno cominciato a occuparsi concretamente dei diritti degli handicappati, per esempio il movimento di Capodarco. Cito da una mia intervista a Fellini: «Se devo riandare alle prime emozioni personali e figurative, da bambino c’era indubbiamente in me una grande curiosità per la diversità. Io e mio fratello passavamo interi pomeriggi a giocare in un cortile chiuso di un vecchio palazzo nobiliare. Al terzo piano abitava un mongoloide, un bambino che noi chiamavamo ‘la testa’; a volte si affacciava dietro i vetri, e subito dopo un’ombra lo

tirava via». (Sì, tanti hanno detto che in quel che Fellini ha raccontato c’è sempre dell’esagerazione o addirittura dell’invenzione, che amava gonfiare i suoi ricordi, e talvolta reinventarseli. Ma anche se fossero solo invenzioni, e sono convinto che non lo fossero, si tratta pur sempre di invenzioni significative per definire la poetica di un autore. I poeti non pescano soltanto dalla realtà, pescano anche dal loro travisamento della realtà, o dal loro intervento fantastico sulla realtà…). «Poi una volta questo testa lo vedemmo in cortile accompagnato da due donne. Era un bambino con un gran testone, con gli occhi vuoti, la bocca piena di bava. Il fascino del deforme, del diverso mi ha sempre incantato, mi ha sempre profondamente suggestionato, mi ha sempre incuriosito. Perché? Ma chi lo sa? Queste emozioni ci portavano a pensare che la realtà non era quella confortante suggerita dalla scuola, dalla mamma e dal papà, ma aveva un aspetto pauroso, suggeriva una ribellione. Io credo di essere un carattere molto mite e pacifico, ma forse coltivo una passione segreta per la ribellione (non tanto quella politico-rivoluzionaria: i botti, il chiasso, i cortei non mi piacciono molto), per la trasgressione. Questa è una vera vocazione: trasgredire. E magari essere premiato dal sindaco come trasgressore, oppure dal Papa…». Anche qui ritorna il Fellini del conformismoanticonformismo, un po’ uomo d’ordine e un po’ ribelle in una dialettica che caratterizza il suo rapporto con il potere. Anche Rossellini era fatto così, si muoveva in questa ambiguità che fa parte da sempre del «posto» dell’artista dentro una società. Nel cinema italiano ci sono figure, più che di diversi, di umiliati e offesi. Nel cinema di Lattuada, per esempio, in Il delitto di Giovanni Episcopo (che aveva Fellini tra i suoi molti sceneggiatori) oppure in Il cappotto (1952). Troviamo qualcosa, anzi molto, nel cinema di Comencini, a partire dal suo interesse per i bambini, per l’infanzia. Sui marginali fisici e mentali troviamo invero assai poco, nonostante Basaglia, il ’68, Capodarco… In passato troviamo forse qualcosa nei documentari di Gian Vittorio Baldi, purtroppo dimenticati. Più di recente in molti documentari o lungometraggi di un confuso cinema minore, cantore dei margini, poco autoriale e molto sociale, un po’ superficiale e alla moda.

Della letteratura (e del teatro, della musica, del fumetto) a Fellini piacevano le cose che potevano tornargli utili – che erano anzitutto quelle scoperte nell’infanzia. Gli piacevano gli autori che andavano bene per la sua macina, per il suo lavoro. Si informava, questo sì, ma non mi è sembrato che fosse un «lettore forte», come non lo sono peraltro la maggior parte dei grandi scrittori e artisti «in proprio». Conosceva bene Kafka, perché Kafka gli apparteneva, e forse lo aveva davvero accostato e capito grazie a Bernhard. Degli scrittori contemporanei era amico, mi disse, di Tobino, l’autore di Le libere donne di Magliano, e venerava Gadda e Landolfi. Ma c’è uno scrittore con il quale lui ha avuto un rapporto che sarebbe tutto da studiare: Calvino, diversissimo da lui. Calvino che diceva, confrontandosi forse con Pasolini, che ci sono due tipi di artisti, i loici e i viscerali: Calvino è un loico, Pasolini un viscerale. Anche Fellini è un viscerale, ma ha anche molto del loico; non è un raziocinante, e si lascia trascinare dalle sue emozioni, dalle sue fantasie. Con Calvino, però, c’è un punto d’incontro sul tema specifico dei diversi, in uno dei libri più belli dello scrittore ligure, uno dei meno letti oggi tra i suoi: La giornata di uno scrutatore uscito nel 1963, in anni eccezionali per la cultura italiana, nel cinema, nella letteratura, nel teatro (Carmelo Bene!), nella pittura eccetera. Calvino era stato chiamato – è vero – a fare lo scrutatore per le elezioni politiche dei primi anni Sessanta al Cottolengo di Torino, il luogo dove si portavano e si portano ancora le persone deformi, anche quelle talmente deformi da essere invedibili perché mostruose, da non poter essere proposte alla visione se non dei parenti strettissimi. Siamo nella città, Torino, dove peraltro De Amicis ha quasi goduto, nel libro Cuore, a raccontare storpi, malati, minorati, deturpati dal lavoro, figure che, probabilmente, hanno inciso sull’immaginario di Fellini come hanno inciso sull’immaginario di tutti noi, sull’immaginario della nazione per decine e decine di anni. Cuore, con Pinocchio, è stato il libro chiave dell’immaginario dei bambini italiani (e dunque degli adulti) per un secolo e mezzo.

In La giornata di uno scrutatore, Calvino è mandato dal suo partito, il PCI, a fare lo scrutatore proprio al Cottolengo. Si ritrova, quindi, a vedere suorine – alcune sante e alcune tremende – che portano fin nella cabina elettorale malati, storpi, deformi, deficienti; vede che le suore votano al posto loro, o guidano la loro mano, e che li fanno votare tracciando un segno sopra la croce della DC; manipolazioni ovvie nell’ottica della carità cattolica del tempo e del legame tra Chiesa e Democrazia Cristiana in tempo di guerra fredda. Nel finale del racconto, Calvino – il razionale, il loico Calvino – si trova a dover ragionare su questa diversità, sul fatto che, tra gli umani, nella società e ai suoi margini, si constata l’incompletezza, la limitatezza dell’individuo, la limitatezza dell’uomo, e quello che un’altra grande scrittrice, Anna Maria Ortese, chiamava «il fallimento della creazione»: «la creazione è tarata», bisognerebbe rifarla, ricominciando da un’altra parte perché l’uomo (e gli animali, e le piante…) è questo cumulo di violenza, di imperfezione, di malattia, di debolezza, si ammala e muore, uccide i simili e la natura, non è capace di volare, non è capace di tener fede alle sue vocazioni e alle sue idee, perché è fatto di quella pasta che finisce per generare le religioni cattoliche, al positivo ma anche al negativo. Ho sentito parlare della Masina con ironia perché, a quanto si diceva, andava a messa, era credente, come se fosse una forma di minorazione. Siamo un paese cattolico che detesta di essere tale, e se c’è qualcuno che prende il cattolicesimo sul serio, «noi di sinistra» ci sentiamo obbligati a sentirci superiori… Io non sono cattolico, ma mi dà un gran fastidio l’atteggiamento di sufficienza dei presunti laici e atei, spesso membri bigotti di altre «chiese» come lo sono stati, diversamente integralisti, i comunisti. E come lo è in generale il nostro atteggiamento di sufficienza, di supponenza laicista verso chi crede, verso chi pensa a qualche forma di trascendenza… Nel finale del suo libro, del suo memoir, Calvino vede un vecchio contadino che accarezza con immenso amore la figlia minorata, la figlia col testone, la figlia deforme e stupida, totalmente irrecuperabile, e vede il segno dell’umano, dell’incompiutezza umana e del suo riscatto, vede qualcosa che lo sconvolge e lo mette in discussione. Queste pagine assomigliano a quelle in cui tanti, e lo stesso Calvino, hanno parlato della solidarietà tra gli umani

di fronte ai grandi disastri collettivi, le guerre come le pestilenze… Nell’Italia in cui sono cresciuto, quando si parlava di queste figure di «imperfetti» li si diceva «gli infelici», e anche questa è una parola ambigua, basata sulla convinzione che non possa esistere felicità nella diversità, nell’imperfezione; come se noi «perfetti» si fosse automaticamente felici… Gli infelici sono figure che servono alla letteratura, servono al cinema. Per esempio, il cinema noir ne ha fatto un uso massiccio: quanti storpi, quanti zoppi, quanti ciechi nel teatro dell’Ottocento, nei film di Lang e Buñuel, nei melodrammi del muto e in quelli italiani degli anni Cinquanta del Novecento. Fra i grandi noir americani ho una particolare predilezione per la figura del ragazzino sordomuto di Le catene della colpa (1947) di Tourneur, una figura che nella trama del film è fondamentale quanto il protagonista Robert Mitchum. È anzi lui il vero protagonista del film, rispetto alle perfide «dark ladies» e ai sadici gangster che popolano i romanzi e i film del noir. E vale lo stesso per l’horror. I romanzi di Stephen King e i film che ne sono stati tratti sono impensabili senza queste figure. In Il miglio verde (1999), un film bellissimo tratto da un suo ampio romanzo, la figura del nero condannato a morte che scopre di avere poteri da guaritore, bensì assumendo la malattia su di sé, è l’elemento della comunicazione con l’alterità, con il mistero, con quello che non siamo in grado di vedere e capire, con ciò che sta oltre. Il sodalizio tra Fellini e Flaiano a un certo punto si ruppe, e fu Flaiano a rompere con Fellini, non viceversa. Sono stato amico di Rosetta, la vedova di Ennio. Avevano avuto una bambina malata, morta intorno ai cinquant’anni in Svizzera dove venne ricoverata dopo la morte di Ennio, e dove si trasferì Rosetta per starle vicina. (È tra l’altro questo il motivo per cui le carte di Flaiano sono state donate da Rosetta alla biblioteca cantonale di Lugano). La loro bambina era deforme, soffriva di gigantismo e non era mai cresciuta mentalmente. Secondo Rosetta, la vera ragione della rottura di Flaiano con Fellini non fu il fatto, a differenza di quanto è stato detto, che Federico si presentasse come autore unico dei suoi film dimenticando l’apporto degli sceneggiatori (anche se questo

contò). D’altronde, appropriarsi del lavoro degli sceneggiatori è qualcosa di estremamente legittimo e di assolutamente scontato: l’autore di un film è il regista, almeno nel cinema d’autore, e non c’è nessuno scandalo in questo, lo sceneggiatore è al servizio del regista… Ci fu in realtà qualcosa di più profondo e più grave, e che mi costa dire. Rosetta mi ha raccontato che Fellini invitò un’estate Ennio, lei e la bambina, che non aveva mai visto, nella sua casetta di Fregene, al mare. E il rapporto di Fellini con la bambina fu disastroso, nel senso che, secondo Rosetta, Fellini fu estremamente imbarazzato, quasi spaventato dalla sua deformità. Capita. Capita a molti di noi, e a me capitava un tempo con i malati psichici, mai con quelli fisici con i quali invece la comunicazione mi è stata sempre facile. Ci sono persone – e le loro convinzioni razionali non contano – che reagiscono alla diversità tirandosi indietro con paura, perché qualcosa smuove in loro (in noi) dei meccanismi intimi, delle paure incontrollabili. Questo forse spiega il rimuginare felliniano su queste figure e la difficoltà e il bisogno di passare dalla fase infantile del fascino per il diverso a una fase adulta di rapporto e confronto. Quello che a Fellini continuò a interessare fu proprio il diverso come mediatore col mistero. E la figura forse più straordinaria del suo cinema adulto, la più singolare del suo ultimo cinema, è quella dell’androgino del Satyricon; l’androgino che viene rapito perché la sua assoluta diversità è ciò che permette il dialogo con gli dei, col mistero, come con le sibille o con le sfingi del mito. Il mito, e siamo di nuovo a Jung… Il rapporto con il mondo-altro, con il mondo nascosto che è anche il mondo dei morti, è un tema che nell’ultimo Fellini diventò centrale. Il viaggio nell’aldilà che egli voleva immaginare e proporre nel film che avrebbe dovuto essere il suo definitivo, Il viaggio di G. Mastorna, non lo vedremo mai, il viaggio di Mastorna è stato più volte immaginato e messo a punto, ma non è mai stato girato perché, io credo, c’era probabilmente nell’intimo di Fellini il rifiuto di farlo: farlo era come accettare di entrare in quel mondo, non solo di raccontarlo ma di accostarcisi fino a restarne presi, prigionieri. Forse scattò anche qui una sorta di esorcismo. Però, in

generale, queste figure sono figure che appartengono anche a Giulietta. Per esempio, nei film che Fellini ha progettato e non ha realizzato per Giulietta c’è la storia della medium Eileen Garrett. Fellini ne aveva letto l’autobiografia e voleva girarlo per lei. Nel suo cinema e nella sua vita compaiono molte figure di medium. Pensiamo all’infantile giochino dell’asa nisi masa con il «mago» interpretato da Polidor nella scena del night, o alla ricorrente presenza del mago Rol nella sua biografia; nel cinema di Fellini ci sono molte di queste figure. Tra i film pensati per Giulietta, ce ne sono davvero di bizzarri. Oltre a quello sulla medium, c’è il film con la storia di una monachina di assoluta semplicità e ingenuità, eco del Francesco rosselliniano (e sarebbe stata probabilmente una ripetizione di La strada…), e c’è un film dove Giulietta Masina si sarebbe divisa in tanti personaggi femminili, in episodi diversi, che comprendevano addirittura una saponificatrice sul modello di quella di Collegno dell’immediato dopoguerra, una donna avara e prepotente, una chiromante, una miliardaria… Una galleria che è forse alla base della varietà di personaggi femminili di La città delle donne. Una variante ben nota all’interno di questo percorso felliniano nella diversità è quella dei clown. Il mondo, ha detto Fellini, è pieno di clown, in fondo siamo tutti dei clown. Questo è un altro aspetto della diversità, uno dei più prevedibili per un artista che ha avuto il circo come prima ispirazione ma anche come metafora della società. Ma quello che negli ultimi film è impressionante è il passaggio dai clown ai mostri. I mostri in senso proprio, non solo l’androgino ma anche il minotauro del Satyricon, il pesce-sirena che alla fine di La dolce vita esemplifica in modo fin troppo simbolico il marcio e l’ambiguo della società che sta nascendo (che è quella del miracolo economico); i mostri collettivi e banali in motocicletta del finale di Roma, uno dei finali meno analizzati e più impressionanti del suo cinema, una corsa che attraversa la Roma notturna, dopo che la Magnani ha sbattuto la porta in faccia al regista dicendogli: «Ma va’ a dormi’, Federico!».

Con le mitologie di Roma si entra in una nuova epoca. Quella Roma è morta, quella Magnani sta per morire, quella società, quella civiltà, sta finendo e quel che vediamo del nuovo è l’invasione di Roma di motorini e motociclette i cui guidatori sono giovani vestiti di nero, di cuoio, il volto coperto e con il casco, che invadono la città passando accanto a monumenti che sono la Storia, e perdendosi infine nel vuoto. Una lunghissima carrellata che si perde nel vuoto, un mondo di cui si impadroniscono esseri che sembrano alieni, la premonizione, la paura di una mutazione terribile – quella che poi è avvenuta con «l’età del narcisismo» analizzata da Lasch… – verso gli incubi della post-modernità, anzi di una nuova era, di un cambiamento che è anche una fine. E non si tratta di fantascienza, anche se quando Roma venne girato poteva sembrarlo. Nell’ultimo cinema di Fellini, quello che viene dopo è, in fin dei conti, la notte dei morti viventi. Il modo in cui viene di solito ricordato Fellini dall’ipocrita società italiana ufficiale è quello delle musichette di Nino Rota, e ovviamente Fellini ha in questo le sue responsabilità: voleva piacere, voleva fare film costosi e personali, e doveva fare in modo che avessero successo, voleva sbalordire. E fu l’ultimo regista che, film dopo film, riuscì a farlo rimanendo un grande, come è accaduto solo in un altro caso, quello di Kubrick nei suoi ultimi tempi – entrambi fedeli al motto del cavalier Marino che «è del poeta il fin la meraviglia», ma unendo la meraviglia alle più alte ambizioni. Nino Rota è un ottimo musicista, ma vedere Fellini come un consolatore dell’ipocrita sentimentalismo nazional-piccolo-borghese di oggi è assolutamente abusivo. Fellini voleva piacere, ma anche provocare, e portare lo spettatore al ragionamento, da antropologo vero della società in cui viviamo. Mediatrice, sempre, tra l’alto e il basso, l’opera di Fellini ha avuto, come quella di Kubrick, la ventura, non la colpa, di piacere anche al midcult degli pseudo-alfabetizzati (dei diplomati e laureati) della nostra era. Nei suoi ultimi film, mi è stato impossibile non vedere un Fellini molto triste, non dico tragico ma certo disperato. E questo mi era confermato dal rapporto personale, dai suoi (educatissimi) sfoghi. I film non glieli facevano fare più, il

cinema era cambiato, anzi andava rapidamente morendo, come accadeva a lui stesso… Giulietta era malata, una malata terminale, e sia lui che lei lo sapevano bene; lui stesso era molto malato. Nelle ultime conversazioni e telefonate continuava a dire: «Non so se faccio prima il film o se vado prima in ospedale e mi opero, secondo te cosa devo fare?». In realtà, il film non glielo facevano fare, non glielo avrebbero fatto fare: non aveva altra scelta. Aveva tentato un’ultima carta chiamando a raccolta tutti gli attori piccoli e grandi al cui successo aveva contribuito, e tutti erano disposti ad aiutarlo, ma i produttori gli risposero: «Un film di (con) Alvaro Vitali, mettiamo, costa dieci e incassa cento, duecento, magari mille; un film di Fellini costerebbe mille o duemila e incasserebbe, oggi come oggi, cento, duecento; il gioco non vale la candela…». Per lui in verità c’era solo una scelta possibile: andare in ospedale sperando di cavarsela e, magari, trovar la maniera di rimettersi in gioco. Nell’ultimo cinema di Fellini (e si torna a Giulietta…), alle immagini finali di Roma ne corrispondono tante di Ginger e Fred, che vedono nella televisione il regno dell’alienazione e dell’imbecillità, per un popolo che se ne è lasciato corrompere (e in questo, il disprezzo di Fellini per la televisione è comparabile solo a quello di Pasolini). Da Ginger e Fred, il ritrovarsi di due sopravvissuti, si evince che l’Italia è diventata un popolo di mostri. E sì che Fellini e Pasolini non hanno potuto assistere all’ultima metamorfosi, di fronte all’informe massa dei castrati volontari, una massa soprattutto giovanile, plasmata dal digitale, dal «progresso» e dallo «sviluppo». Forse Fellini avrebbe condiviso l’opinione di Houellebecq – uno scrittore alla sua altezza! – che l’umanità non merita di sopravvivere. Questi ultimi personaggi – Ginger e Fred, Masina e Mastroianni – mescolano, come in Fellini non è successo spesso, il personaggio e la persona vera. Recitano se stessi, due sopravvissuti, due naufraghi che cercano inutilmente il recupero di un’identità in tempi davvero nuovi, e sperano di far combaciare il passato e il presente, diciamo pure la cultura di massa e popolare di un tempo con quella nuova della televisione. In questo film, infine, la Masina è la Masina e

sembra recitare se stessa, mette in scena se stessa. E Mastroianni, l’attore che infine ha impersonato Fellini da La dolce vita in avanti, non le è da meno. Ginger è la Masina, la Masina è la Masina… Ginger è infine il suo personaggio più bello, il più normale fra i suoi, donna e attrice, e una donna reale scarsamente cambiata dall’immaginario del regista. Ma la conclusione vera del cinema di Fellini è la lunghissima sequenza che chiude il suo ultimo film, La voce della luna: la «sagra dello gnocco», perfetta rappresentazione estrema della società italiana come essa è diventata, ha voluto diventare, si è lasciata diventare. Il regno del non-pensiero, della non-responsabilità, dell’evasione per l’evasione. Tutti allegramente insieme, nel consumo e nel rumore. In La voce della luna, Fellini ha cercato anche di tornare ancora a Giulietta, perché Benigni, e in qualche modo Villaggio, sono degli avatar, delle trasformazioni, delle metamorfosi del personaggio di Giulietta. I due sfasati protagonisti sono dei sopravvissuti, dei provinciali sopraffatti dalla «sagra dello gnocco», dall’invadenza di una festa continua da cui non potranno che nascere le pesti del futuro, che Fellini non ha potuto vedere… Alla «sagra dello gnocco» tutti gli italiani sono chiamati a divertirsi, a consumare divertendosi, senza fermarsi mai a pensare, mai a ragionare sul mondo che stanno vivendo e che hanno contribuito e contribuiscono a edificare. Lo scrissi, Fellini mi chiamò, e nacque qui lo stretto rapporto che ho potuto avere con lui dopo di allora. In qualche modo, ho visto il Fellini degli ultimi tempi come un Fellini tragico – forse esagero, ché Fellini aveva anche il dono del pudore, dell’autoironia, ma certamente era un Fellini molto melanconico, molto triste. In qualche modo era un Fellini che tornava ancora all’infanzia e al discorso che si faceva all’inizio. Tornava al Fellini bambino, alla divaricazione tra due tendenze. Una molto forte, non al conformismo che è una parola sbagliata, ma all’accettazione della vita così com’è, come nei girotondi nel secondo finale di Otto e mezzo, non quello pensato originalmente (che era una sorta di treno dei morti e già un annuncio del Mastorna), ma quello del grande circo della vita, il circo col bambino col piffero che si trascina

e che trascina dietro di sé tutti i personaggi del film, tutti quelli incrociati da Fellini nella sua vita! E che era di fatto la glorificazione della vita, del nostro passaggio sulla terra. L’altra tendenza, che ha messo la sua età matura, è stata invece quella della non-accettazione del mondo così com’è. E torniamo al discorso che si faceva citando Anna Maria Ortese: la creazione è sbagliata, e da questo errore noi siamo sopraffatti. L’ultimo Fellini si fa più filosofo che mai, anche se filosofo non ha mai smesso di esserlo, in modo meno ampolloso e più ironico (e sentimentale), un filosofo che mette in discussione la società umana e le sue basi, le cosiddette leggi della convivenza (e dello sviluppo). La sua arte se ne arricchisce, nel momento stesso in cui più se ne sente umanamente oppresso. Io capisco i tanti a cui La voce della luna non è piaciuto e non piace. La voce della luna è un film imperfetto e sbilanciato, ma è per me un film straziante, quello tra i suoi in cui più mi ritrovo, per l’analisi cruda e immediata del nostro presente, da ascoltatore anch’io, come i due bizzarri del film, della voce della luna, da lettore amante della poesia di Leopardi. Il Fellini che è partito dalla vocazione infantile, dai sogni infantili, è anche il Fellini che, negli ultimi anni, aveva pensato a un film sui bambini, il cui soggetto ho trovato nel librointervista di Giovanni Grazzini. È un film impossibile da fare, che non sarebbe mai riuscito a fare. Il film più anarchico di tutti quelli che ha fatto e di tutti quelli che ha pensato. Forse se lo è inventato lì per lì, chissà. Non conosco un rifiuto della società, di ogni società che si dice adulta, più radicale di questo: «Il film che rimpiango di non aver fatto, ma che è praticamente impossibile, è una storia con una trentina di bambini di due-tre anni, che vivono in un caseggiato alla periferia della città. Mi attraggono le misteriose comunicazioni telepatiche fra i bambini, gli sguardi che si scambiano negli incontri per le scale e sui pianerottoli, quando stanno dietro una porta o dentro una culla, o sono tenuti per mano come mazzi di insalata; la vita di un palazzone, vista e presupposta tutta da bambini, con storie di amori totali, di odi, di infelicità,

sempre per le scale, i ballatoi, il giardinetto davanti. Finché questi bambini, trascinati come lepri, vengono portati all’asilo e lì, il primo giorno, castrati».

CAPITOLO QUINTO

Con Guerra e Zapponi, un cinema radicale

Fellini cominciò la sua carriera come sceneggiatore, e ancor prima come gagman per i film di Macario, blando comico d’era fascista e post-fascista ma ottimo organizzatore di una compagnia di riviste, la più quotata degli anni di guerra e dopoguerra. Macario fece società per diversi anni con la supersoubrette Wanda Osiris, realizzando riviste eleganti e signorili, diverse da quelle della compagnia Totò-Anna Magnani, di ben altro spessore anche negli anni di guerra, e soprattutto negli ultimi tempi del regime e nell’euforia della Liberazione. Sbarcato da Rimini a Roma, il giovane Fellini si era fatto conoscere scrivendo testi e disegnando vignette sul «Marc’Aurelio», la più nota rivista umoristica del tempo, secondo le formule del «ridi poco» condizionate dalla censura, come teorizzato da Achille Campanile, che fu suo amico, e da altri, e obbligatorie anche alla radio al tempo in cui scriveva le vicenduole sciapette di «Cico e Pallina», svagati fidanzatini che erano infine una gentile idealizzazione della coppia Fellini-Masina e che fu la Masina a recitare.

Per lui fu fondamentale – e lo ha sempre detto scritto – l’incontro con Rossellini, che avvenne nella botteguccia di via Nazionale dove Federico con altri faceva caricature a pagamento ai soldati inglesi e americani dopo la Liberazione. Non è superfluo ricordare che il giovane Fellini, e anche il Fellini maturo, fu amico e in qualche modo allievo del grande Jacovitti, una sorta di geniale catto-anarcoide del fumetto per l’infanzia, e non solo per quella… Avendo Federico scritto e sceneggiato per Aldo Fabrizi, insieme a Piero Tellini, Avanti c’è posto (1942) e Campo de’ fiori (1943), in cui Fabrizi ebbe a fianco Anna Magnani in divertenti duetti romaneschi, fu lui a convincere l’attore a prender parte a Roma, città aperta con un compenso più basso, così che Rossellini potesse permetterselo, ma maggiore fu il suo contributo alla sceneggiatura e lavorazione di Paisà (1946), per il quale diresse anzi una breve scena di raccordo dell’episodio finale sui partigiani del Po. Sostituirà Rossellini, anni dopo, girando al suo posto alcune ultime immagini di Dov’è la libertà…? (1954), il film in cui Rossellini tentò di dare uno spessore ideologico, pur rispettandone la maschera, al nostro comico più famoso, Totò. Fellini vi fu coinvolto, come lo fu in parte anche Mario Monicelli, quando Rossellini si stancò per qualche sua ragione del film, ma dovette apprezzarne il soggetto, sceneggiato da alcuni grandi personaggi della cultura italiana del dopoguerra, Brancati e Flaiano, Pietrangeli e Talarico. Dov’è la libertà…? fu un film trasandato perché Rossellini si stancava presto dei suoi progetti. Narra di un disgraziato – tale Salvatore Lo Jacono, barbiere – che ha ammazzato col rasoio un insidiatore della virtù di sua moglie. Quando, graziato, esce di carcere, si ritrova nella famiglia di lei, una laida piccolaborghesia bottegaia, scoprendone l’abominio (anche della moglie, tutto fuorché fedele): al tempo delle leggi razziali ha tradito una famiglia di vicini ebrei per impadronirsi dei loro averi. Ma scopre anche i compromessi di un sopravvissuto al lager (Leopoldo Trieste, commediografo e attore triestino che Fellini molto amava e che fu protagonista del suo film di esordio, Lo sceicco bianco, e uno dei «vitelloni»). Disgustato, Totò-Salvatore compie una sorta di evasione alla rovescia: riesce a rientrare proditoriamente nel carcere, e, processato,

trova il modo di farsi condannare di nuovo. Meglio il carcere, della cattiveria e dello squallore della società là fuori. Non siamo alla convinzione di tanti, non a caso anarchici, al tempo del fascismo che «quando la canaglia impera la patria degli eroi è la galera», ma ci siamo vicini. E d’altronde Rossellini difende una libertà di cui si è fatto, anche egoisticamente, portatore giorno per giorno, la libertà con cui ha affrontato la sua vocazione di regista – con una correlata dose di cinismo… – che ha affascinato il giovane Fellini, libertà anche nei confronti del cinema, della visione «classica» del regista-autore come teorizzata e apprezzata dai critici del tempo, e in particolare dai sostenitori di un neorealismo presto codificato dai teorici della sinistra, figli di un idealismo compromesso con il fascismo. Penso in particolare a quelli che si dissero comunisti o compagni di strada dei comunisti, come Chiarini, Barbaro e soprattutto Aristarco, che Fellini detestò sopra ogni altro critico e che fu un suo implacabile persecutore in nome di un realismo-col-messaggio che si voleva rozzamente «lukacsiano» e che esaltava al contrario Visconti per il suo passaggio «dalla cronaca alla storia, dal neorealismo al realismo» (e non so dire quanto Visconti poi lo stimasse). Penso anche al «buonismo» zavattiniano, inviso anche agli altri grandi del cinema del tempo, Antonioni e Lattuada, e mal sopportato dai socialisti Monicelli, Comencini, Germi… Ma torniamo a Rossellini, che la nouvelle vague francese definì il «Socrate» di un cinema nuovo, estraneo ai metodi produttivi e alle grammatiche formali del cinema ereditato dagli anni Trenta e Quaranta, ai «codici» sia hollywoodiani che moscoviti. A un Rossellini assolutamente lontano dal «buonismo» di Zavattini e del suo succube più bravo, De Sica; e non dimenticando che gli sceneggiatori di Sciuscià (1946) furono cinque e quelli di Ladri di biciclette (1948) sette, anzi otto con Sergio Amidei che si staccò presto dal gruppo non condividendo il loro lavoro, e che non a caso era stato tra i primi collaboratori di Rossellini. Rossellini si allontanò dal fascismo durante la guerra e finì per guardare alla politica con l’occhio dell’opportunista, ma continuando – anche nevroticamente – a cercare un modo di narrare al passo con i tempi, tra lezioni di storia secondo

l’ideale di un’alfabetizzazione di massa tramite la televisione (che vanno dagli Atti degli Apostoli [1969] a Socrate [1970], al progetto di una vita di Marx che non riuscì a realizzare…), e un cinema documentario e d’attualità (una delle sue ultime imprese fu una lunga intervista a Salvador Allende in Cile, poco prima del golpe). Questi furono terreni sui quali Fellini, la cui maturazione e la cui carriera furono molto più lineari e «pacifiche», non volle seguirlo, attento più di Rossellini al richiamo del successo (e meno abile nel rapporto con i politici), ma anche a una propria maturazione-progressione, di film in film, con una coscienza sempre più acuta della propria vocazione e delle proprie convinzioni. Per finirla con i «buonisti» del neorealismo, e con la commissione cultura della Botteghe Oscure (da Alicata a Rossanda), è bene ricordare che la partecipazione di Antonioni, Lattuada, Fellini e perfino Dino Risi al film collettivo L’amore in città, sfuggì in più direzioni ai canoni del neorealismo teorizzati dal suo ideatore e coordinatore, Zavattini: Antonioni in direzione dello psicodramma, Lattuada dell’esaltazione erotica, Risi dell’embrionale commedia all’italiana e Fellini della parodia e della beffa. La sua Agenzia matrimoniale era infatti inventata di sana pianta e non, come fece credere a Zavattini, un’agenzia vera, così come il caso che vi si narrava, messo a punto con l’aiuto di Tullio Pinelli, uno sceneggiatore «classico» da cui, come da Piero Tellini, Fellini ebbe molto da apprendere per potersene infine distaccare. Pinelli, appunto. Torinese, commediografo di qualche successo (come lo fu dopo di lui Leopoldo Trieste), Pinelli fu importante per Fellini non solo come puntello morale (aveva fatto la Resistenza), ma anche come puntello professionale nell’organizzazione di una sceneggiatura, fu una «spalla», una volta stabilite le idee generali, in grado di elaborarle e di trasformarle nella stesura dei progetti, nella concretezza delle indicazioni registiche. Se Rossellini era nato nel 1906 e aveva quattordici anni più di Fellini (che era del 1920), Pinelli era nato nel 1908 e Flaiano nel 1910, e quindi furono più fratelli maggiori che maestri. Rossellini fu invece un Socrate anche per lui e non solo un compagno d’avventura, mentre Pinelli fu,

ancor prima, una sorta di addestratore, di trainer professionale, come lo era stato Tellini, e Flaiano fu per lungo tempo un compagno d’avventura, e l’elemento del gioco dovette essere, nei loro rapporti, molto più presente che con gli altri collaboratori (per esempio Brunello Rondi, dalle cui ossessioni erotiche Fellini prese forse più che dagli altri). Se mi sento di parlare di una componente anarchica, che credo estremamente cosciente anche se non dichiarata, nell’opera di Rossellini, è a partire dal confronto con l’orrore della guerra e della Storia che essa nasce, soprattutto nei capolavori che aprirono al cinema strade decisive, Paisà, Germania anno zero (1948) e Europa ’51. Quest’ultimo fu il suo film ideologicamente più maturo e profondo, ispirato non a caso dal pensiero e dalla biografia di Simone Weil, un film decisivo in cui Fellini fu forse più coinvolto ideologicamente di quanto non abbia voluto riconoscere. Quel film cominciava con il suicidio di un bambino negli anni della pace e della ricostruzione, meno attenti ai valori umani che a quelli sociali e materiali, ed è bene ricordare che un film di poco precedente, Germania, anno zero, terminava con il suicidio di un altro bambino, alla fine di un conflitto che fece sessanta milioni di morti e dopo il fallimento dell’ideologia e del regime nazista. Fellini era stato vicino a Rossellini nello scrivere Il miracolo, di cui fu anche interprete a fianco della Magnani (ricordate? era il vagabondo da cui la pazza si fa mettere incinta, convinta che sia San Giuseppe e che dunque suo figlio sarà un nuovo Gesù…), e Rossellini aveva ambientato sulla costiera amalfitana poco tempo dopo un film in cui Fellini non fu coinvolto ma di cui ebbe certamente a parlare con Rossellini, La macchina ammazzacattivi (1952), che nasceva da un’idea di Eduardo De Filippo, altro amaro e formidabile innovatore con i tre atti di Napoli milionaria (1950). Come Dov’è la libertà…?, fu un fallimento sul piano artistico, per la trasandatezza e noncuranza della regia, e perché, forse, lo stesso Rossellini si trasse indietro rispetto alle conclusioni che avrebbe dovuto pur trarne, avendone forse paura… Il film aveva alla base un’idea che possiamo considerare piuttosto anarchica, quella di un semplice fotografo di paese che scopre che i cattivi ripresi nelle sue foto finiscono dopo per

malamente morire… Un sogno che, in modi diversi, mi sembra sia stato di molti… Una componente anarchica altrettanto forte (e bizzarra, originale, a volte più esplicita a volte più nascosta) percorre l’opera di Fellini e quella dei suoi collaboratori più importanti, Flaiano, Guerra e Zapponi. Non è anarchico solo chi dichiara di esserlo (e troppo spesso si tratta solo di parole, parole, parole!), una visione anarchica della società attraversa tante opere di tanti artisti diversi che anarchici non hanno pensato a dichiararsi, ma… E Fellini è di questi, come gli sceneggiatori (co-autori) che predilesse, e di cui merita parlare diffusamente. Tanto più che ho avuto l’enorme fortuna di essere amico dei due più grandi, Tonino Guerra e Bernardino Zapponi, e di aver conosciuto, sia pur superficialmente, Ennio Flaiano (diventando più tardi, come ho già detto, molto amico della vedova, Rosetta, di formazione maestra elementare come me, a cui ho dato una mano – come Giovanni Raboni e Vanni Scheiwiller – a proposito della pubblicazione postuma delle opere del marito). Molti anni fa ho trascorso un pomeriggio, una sera e la mattina successiva a Parigi, dove allora vivevo, con Flaiano ed Elio Petri (che più tardi ho rivisto molte volte). Eravamo nel 1964-1965. Petri sapeva che avevo molto amato i suoi primi film, mi aveva scritto gentilmente a proposito di un mio articolo sui «Quaderni piacentini» e mi cercò perché a Parigi ero nella redazione di una rivista di cinema, «Positif», e voleva che vedessi il suo ultimo film. Era La decima vittima (1965), tratto da La settima vittima di Robert Sheckley, un tentativo purtroppo non riuscito di coniugare commedia all’italiana e fantascienza americana. Era peraltro con loro un giovane scrittore francese amico di Flaiano, Daniel Anselme, grasso ed esuberante. Di lui avevo letto come tutti un libro di cui si era molto parlato, In licenza a Parigi (Trois jours à Paris), decisamente schierato contro la guerra d’Algeria a cui era stato costretto a prender parte come soldato di leva (era anche stato, giovanissimo e al seguito di suo padre, un membro attivo della Resistenza). Nel libro raccontava appunto di una licenza nella confusa Parigi che finge di non sapere che la Francia è in guerra, una guerra coloniale lontana… (Al tempo collaboravo,

grazie a due amici del gruppo di «Positif», a qualche attività del «reseau Jeanson», il gruppo clandestino di aiuto agli algerini così chiamato dal nome del suo fondatore, il filosofo Francis Jeanson… I due amici erano Paul-Louis Thirard, che mi fece in Francia da fratello maggiore, e Michèle Firk, che emigrò a Cuba e finì suicida in Guatemala per non essere presa dalla polizia e rischiare, sotto tortura, di parlare, dopo il rapimento dell’ambasciatore USA finito con una sparatoria in cui l’ambasciatore era morto. Ma questa è un’altra storia…). Flaiano mi affascinò, gli dissi tutto il mio entusiasmo per Tempo di uccidere, il suo romanzo di esordio, che consideravo e considero un capolavoro della nostra letteratura in una vena esistenzialista (poco amata e poco analizzata dalla nostra fetida accademia), il romanzo che servì a me e a tanti per capire qualcosa del nostro orrendo colonialismo africano. Mi scuso per questi ricordi, che c’entrano poco con Fellini ma che c’entrano per il tramite di Flaiano, scrittore ed elzevirista amatissimo (sul «Mondo» di Pannunzio, dove fu anche critico di teatro e di cinema acutissimo, nonché, quando era il caso, spiritoso e divertente). Anche Flaiano come Fellini (e oso dire come me, nel mio minimo) non disprezzava le forme più popolari dello spettacolo e della cultura, il circo e le fiere, la rivista e l’avanspettacolo, e poi il fumetto, il fotoromanzo, i giornali umoristici, i film comici e quelli melodrammatici, Totò e Matarazzo… Meno, semmai, l’opera lirica, una passione che era invece possibile condividere, più tardi, con Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci. Flaiano è stato sceneggiatore di molti film dove è possibile rintracciare, palesi o sotterranee, «critiche del presente» e più in generale della società organizzata, in chiave di commedia: Roma città libera (1946), scritto tutto da lui per Marcello Pagliero, vivace carrellata notturna nella Roma dell’occupazione angloamericana (negli stessi anni, e sullo sfondo di un confuso dopoguerra, collaborò a un capolavoro di Mario Soldati, Fuga in Francia [1948]). E dopo è arrivato Fellini: Luci del varietà per Lattuada e Fellini, e poi, per il solo Fellini, La strada, Le notti di Cabiria, Il bidone, La dolce vita, Otto e mezzo, Giulietta degli spiriti; ma anche Guardie e ladri (1951) per Steno e Monicelli, Totò e Carolina (1955),

massacrato dalla censura, per Monicelli, Fantasmi a Roma (1961) per Pietrangeli, eccetera; e il contributo dato a capolavori come Signore e signori (1966) di Germi o La notte (1961) di Antonioni, eccetera. Ironico, ma anche autoironico e antiesibizionista, Flaiano è anche l’autore di Un marziano a Roma, una commedia del 1960 sul filo del paradosso, feroce critica della società italiana (e della società moderna in generale) in cui il «marziano» è infine un avatar del «persiano» di Montesquieu. Scrisse anche una divagazione su quel modello, in cui a sbarcare a Roma era Gesù, molto intervistato e invitato nei salotti buoni, ma che se ne fugge sconsolato, essendo riuscito come unico risultato della sua discesa sulla terra a «convertire un prete». Flaiano anarchico? Forse no, ma ci siamo vicini! Ho conosciuto Bernardino Zapponi grazie ad Anna Maria Gandini, libraia milanese coltissima (ah, le milanesi di un tempo! Cederna, Gandini, Lepetit, Mauri Ottieri, Archinto, formidabili amiche…). Fu suo marito a fondare e dirigere la rivista «Linus», con l’aiuto di Oreste Del Buono, una rivista che, come due generazioni e più di lettori sanno, è stata fondamentale per la loro formazione (per esempio, in un paese tradizionalmente refrattario, per l’affermazione di un moderno senso dello humour), e ovviamente per la conoscenza del fumetto moderno e della storia del fumetto. «Linus» fu anche una delle letture preferite di Fellini e del suo (più tardi anche mio) amico Vincenzo Mollica. Zapponi sapeva di me grazie a una comune amica italiana diventata parigina, Ornella Volta, morta anche lei di recente, cui si deve un fondamentale saggio-rassegna sulla figura del vampiro. Egli faceva, tutto da solo, una rivista dal titolo provocatorio, «Il delatore». Era costruita per numeri monografici (ricordo I bambini cattivi, Il sadismo, La morte, Il gergo della malavita, I travestiti, Il silenzio…) che erano in realtà antologie di testi e illustrazioni rubati a fonti diverse, ma in stretto legame con certi umoristi-vignettisti francesi suoi amici, irriverenti e iconoclasti, come Siné e Topor (c’era allora «Harakiri», «Charlie-Hébdo» arriverà molto più tardi). Erano fascicoli disturbanti, i cui contenuti avevano alle spalle le predilezioni per gli autori di uno humour noir amati da André

Breton e dai surrealisti, proprio a partire dalla famosa antologia bretoniana. Zapponi voleva coinvolgermi nel lavoro della rivista, sapeva di me da Ornella e perché a Parigi collaboravo con «Positif» e «Midi-Minuit Fantastique» e avevo scritto sui film di Maciste, difeso Leone e il western all’italiana, apprezzato l’horror di Freda, Bava e Margheriti, firmato quasi sempre con pseudonimi molto americani, come accadeva anche per gli autori degli «spaghetti-western»… Ma io, perso in altre battaglie e tra i redattori dei «Quaderni piacentini», avevo promesso e non mantenuto… Lo ritrovai più tardi a Roma, dove la redazione della rivista che mi ero inventato, «Lo straniero», era a due passi da casa sua. Aveva una moglie francese, generosa bella simpatica, che aveva fatto la soubrettina in riviste e rivistine scritte a volte dallo stesso Bernardino. Nella stessa via, a due isolati di distanza, abitava Alberto Arbasino, un altro grande, anzi un grandissimo, che lasciava spesso nella portineria dello «Straniero» bozze e fotocopie di cose sue intestandole «Al caro vicino Goffredo Fofi»… Qualche anno prima Bernardino aveva scritto un libro di racconti bizzarro e fuori moda, Gobal, che era piaciuto molto a Fellini e che avevo letto anche io con gran divertimento. Fellini aveva voluto conoscerlo e ne era diventato amico, facendone un suo sceneggiatore di fiducia, dividendosi (finito il tempo di Pinelli e Flaiano) tra lui e Tonino Guerra a seconda dei soggetti affrontati: con Guerra quelli più «romagnoli» (come Amarcord, che Guerra mi disse esser basato su ricordi suoi più che di Fellini, anche se, aggiungeva, Santarcangelo e Rimini sono a pochi chilometri di distanza ed essendo lui e Federico coetanei tanti ricordi erano comuni), e con Zapponi quelli più originali e bizzarri. Il primo fu Toby Dammit, l’episodio di Tre passi nel delirio, sotto il segno di Poe, cupo notturno aggressivo. Poi, forti della comune conoscenza del teatro detto minore, venne I clowns, e vennero i film più «romani» come appunto Roma ma anche il Satyricon, e infine forse i più ambiziosi progetti felliniani, La città delle donne, il più discusso tra tutti, e il cupo capolavoro Casanova. Cui Fellini volle bensì replicare con un finale «messaggio»

leopardiano, La voce della luna, obbligatoriamente poetico e dunque coinvolgendovi Tonino. Prima che grande sceneggiatore Guerra è stato un grande poeta, che ha scritto i suoi versi nel dialetto del suo paese, Santarcangelo di Romagna, un dialetto condiviso con Rimini. Ricordo ancora l’emozione con cui Grazia Cherchi mi fece scoprire nei primi anni Sessanta le poesie di I bu, i buoi… e l’emozione con cui mi recai a incontrarlo nel palazzone a fianco del nuovo Palazzo di Giustizia di Roma in cui abitava, dietro presentazione di una comune amica, forse il più grande romanziere italiano del Novecento, Elsa Morante, che molto lo stimava. Avevo riletto da poco delle sue cose e volevo intervistarlo, ma l’intervista diventò subito un dialogo. Sulla poesia, sul cinema, sulla Russia, su Fellini… Un suo libro di ricordi della prigionia terminava con una frase indimenticabile: liberato dalla detenzione, appena fuori dai cancelli del lager, Tonino raccontava di aver visto volargli vicino una farfalla e per la prima volta di non aver seguito l’istinto e afferrarla e mangiarla… (Per contrasto, leggendo quelle righe, mi era venuto in mente un altro finale, non di libertà ma di morte, quello di Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque. Prima guerra mondiale: nella trincea in cui è di vedetta il protagonista vede volare una farfalla e si sporge per ammirare quel simbolo di libertà e di bellezza, e un soldato nemico lo prende di mira e lo uccide…). Erano molto diversi tra loro, Tonino e Bernardino, e del secondo mi piace ricordare, perché chi mi legge possa capire, come lo vidi nella sua stanza di morte in una clinica romana (la stessa in cui era morta pochi anni prima Elsa Morante, e a due passi di lì ero andato qualche volta a trovare Silone): la moglie gli aveva messo tra le mani non un rosario, come è d’uso in un paese cattolico, ma una copia del romanzo che aveva voluto rileggere durante la malattia, Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome, un gioiello dello humour inglese… L’ultima volta che vidi Tonino fu a Pennabilli, pochi giorni prima di un Natale, quando mi recai a intervistarlo per conto di Radio3 e passai ore bellissime con lui e con la sua estroversa moglie russa parlando di tutto e di niente, ma ovviamente anche di cinema. Insistetti con lui nella mia convinzione che,

essendo un poeta, il suo apporto di sceneggiatore era fondamentale per registi più prosatori che poeti (e io, che non amavo certa retorica di Francesco Rosi, avevo trovato struggente e bello un film poco amato dagli altri critici come Tre fratelli [1981], dove le diversità tra i due autori si erano amalgamate benissimo). Mentre non avevo amato Nostalghia (1983) di Tarkovskij – poesia sopra poesia, troppa…! – ma continuavo ad apprezzare il lavoro che aveva fatto con Antonioni, l’altro suo grande autore, romagnolo anche lui come Federico, e quel Deserto rosso (1964) che ero stato tra i pochi a difendere a spada tratta anni prima, tra critici perplessi che avevano, a Venezia, riso indecentemente quando Monica Vitti diceva di stare così male che le facevano male anche i capelli… ed era una frase, ebbe a dirmi Tonino, rubata a un grande, grandissimo poeta: Amelia Rosselli… E quale finale fu più ardito e «anarchico» di quello di Zabriskie Point (1970), con il sogno dell’esplosione finale di tutta la società dei consumi, di tutte le società di modello yankee? Oltre che ad Amelia, figlia di un bellissimo personaggio dell’antifascismo italiano fatto uccidere col fratello dai fascisti italiani nella Francia in cui si erano rifugiati (una vicenda che ha ispirato Il conformista di Moravia e il bel film del 1970 che ne ha tratto Bernardo Bertolucci), Deserto rosso mi fa pensare al tragico destino di Monica Vitti, malata e priva di coscienza da qualche decennio e dimenticata da quasi tutti. Con Zapponi avevamo meditato una nuova versione del romanzo Turnabout di Thorne Smith, l’autore della serie dei Topper e di I married a witch (Ho sposato una strega) e di altre avventure fantastiche che entrambi conoscevamo (ed eravamo pochissimi, non solo in Italia!) e apprezzavamo per la loro fantasiosa e paradossale diversità. Avevamo entrambi amato da ragazzi il piccolo film che ne aveva tratto Hal Roach, la farsesca storia di un portentoso e magico scambio dei ruoli in una coppia borghese, lui nel corpo di lei e lei nel corpo di lui, con tutto quel che ne consegue… Andai io a parlarne alla Vitti, che era allora una diva d’importanza pari a quella dei «colonnelli» della commedia all’italiana (Sordi, Gassman, Mastroianni, Tognazzi, Manfredi…), unica donna tra loro, e lei

se ne entusiasmò, ma finì che si lasciò trascinare in altre imprese. Zapponi scrisse deliziose commedie sessuali assai bizzarre, una con Pozzetto che, marito della bella Ornella Muti, veniva a scoprire di aver sposato un ex militare delle truppe speciali dei parà che aveva cambiato sesso a Casablanca… e una, Piso pisello (1981), diretta ed edulcorata da Peter Del Monte, che parlava della morbosa attenzione esercitata da un ragazzino con un pene fuori misura… E voglio ricordare, come una delle più belle sceneggiature che abbia mai letto, anche Passione, pubblicata per la piccola casa editrice Milano Libri dall’Anna Maria Gandini citata prima, che parlava di un amore omosessuale in ambiente proletario romano, ma che non diventò mai un film, nonostante l’entusiasmo per il ruolo del rozzo fabbro trasteverino – regolarmente sposato ma travolto da un’inedita passione per un giovane apprendista neanche lui coscientemente gay – di due attori che erano tra i più noti del tempo, Vittorio Gassman e Tomas Milian… (Di Zapponi voglio ricordare anche un altro film che ho molto amato, diretto da un altro grande regista e amico, Mario Monicelli: Il marchese del Grillo, con Alberto Sordi in una delle sue più grandi interpretazioni. Poteva averlo scritto solo uno che sapeva tutto della storia di Roma, del suo popolo e del suo poeta Gioacchino Belli, una conoscenza già dimostrata con Fellini). Ma cosa ha tenuto insieme questi tre grandi personaggi della nostra storia del cinema e dell’humus popolare su cui esso è cresciuto? Credo, sul fondo, proprio il grandissimo amore per una cultura che molti hanno chiamato di massa, vivacissima in tante forme fin quando la televisione non l’ha distrutta: il teatro dialettale, il circo, la sceneggiata, la rivista teatrale e l’avanspettacolo, i settimanali umoristici come il «Marc’Aurelio» e «Il Travaso», il fotoromanzo (Lo sceicco bianco!), la canzone, la radio, le feste di piazza, i giocolieri, il fumetto (con il geniale Jacovitti così influente sulla sua opera, ché la formidabile «sagra» finale di La voce della luna sarebbe stata impensabile senza il suo magistero…) e insomma i clown e le Miss Italia così come gli Zampanò e le Gelsomine, come i Totò e le Magnani…

Io credo sia stata – maturata attraverso storie sempre personali ma su fondo collettivo e generazionale, tra fascismo e antifascismo, tra guerra e guerra civile, tra gli anni della ricostruzione e della guerra fredda – una diffidenza di fondo nei confronti della società costituita e dei suoi baluardi, Chiesa, Famiglia e Proprietà nelle loro versioni ufficiali, borghesemente oppressive di ogni libertà individuale, di pensiero e di comportamenti, a cui corrispose la predilezione per gli umili, gli ultimi, i marginali, gli oppressi, gli strambi, i perdenti costretti all’«arte di arrangiarsi». Questa vocazione, divenuta col tempo convinzione, ha guidato Fellini come i suoi sceneggiatori prediletti, da Pinelli e Flaiano a Guerra e Zapponi, tutti diversamente «anarchici» secondo la definizione moderna di anarchia proposta da quei grandi maestri che i nostri autori probabilmente non conoscevano (a eccezione di Zapponi), l’inglese Colin Ward e lo statunitense Paul Goodman, per esempio, loro contemporanei. Un’anarchia come «forma di disperazione creativa», secondo la definizione di Ward, che ricorda l’insegnamento del più grande leader e teorico anarchico italiano, quell’Errico Malatesta caro alle memorie dei nostri riminesi e santarcangiolesi, ma anche, io credo, a quella di un Antonioni che, con il finale di Zabriskie Point, si è spinto insieme a Tonino Guerra più avanti di tutti nella critica di un’alienante e orrenda modernità… In un contesto di conformismo catto-comunista e «buonista» come quello che ha ipocritamente dominato la scena italiana, vincendo e stravincendo, si trattò di una diversità attiva, di una forma di resistenza e di un’affermazione di indipendenza e di libertà. E, oso dire, di anarchia.

CAPITOLO SESTO

Tre grandi e i loro rapporti: Bene, Fellini, Pasolini

Ma sono La dolce vita e Otto e mezzo i film di svolta di Fellini, quelli di una raggiunta maturità e assoluta autonomia di ispirazione, pensiero, linguaggio. Una visione della società e una visione del cinema, dell’arte, e in particolare di un’arte che sappia far perno sull’invenzione personale e originale, ma che sappia anche imporsi agli spettatori e addirittura «al mondo»; che gridi un Io con la maiuscola. Come in Italia è accaduto con egual forza solo nel caso di Pier Paolo Pasolini e di Carmelo Bene suoi contemporanei. Sono convinto che siano stati loro tre – anche per la risonanza pubblica delle loro opere e delle loro dichiarazioni – i più rappresentativi intellettuali e artisti degli anni che vanno dalla Resistenza all’uccisione di Aldo Moro, infame punto di chiusura del tratto più vivo e più bello della nostra storia unitaria. Che i tre non si amassero e non si frequentassero è dovuto, io credo, proprio alla coscienza di essere loro i più grandi. Bene non amava troppo Fellini (gliene chiesi, ne abbiamo parlato); diceva che si fermava alla superficie, che non scavava abbastanza. Fellini era molto più aperto nei suoi

confronti, ma anche con Pasolini Carmelo ha avuto rapporti transitori, superficiali. La distanza che si creò tra di loro fu dovuta nel caso di Fellini e Pasolini alla frustrante esperienza per il friulano della promessa che il riminese non mantenne di produrre Accattone (1961), il suo esordio di regista. Fellini si è giustificato attribuendone la colpa ai suoi finanziatori, senza però convincere Pasolini, che si vendicò con ironica dolcezza in La ricotta (1963) mettendo in bocca a Orson Welles la famosa battuta su Fellini: «Egli danza. Egli danza». Più altero e meno portato al dialogo con quelli che figuravano di fatto come suoi rivali, Carmelo tenne tranquillamente le distanze. Il mondo, anche quello dell’arte, anche quello del cinema, era allora abbastanza grande per accoglierli tutti e tre, e ancora altri come Antonioni, come Visconti, come i giovani Bertolucci e Bellocchio, come i registi della «commedia all’italiana» che uno di loro, Mario Monicelli (il più «socialista» di tutti e, con Comencini, il più «pedagogico»), considerava più necessari socialmente dei grandi artisti (che non sentivano la responsabilità di un superio collettivo): erano coloro che descrivevano il popolo (gli spettatori cinematografici, infine) in tutte le sue contraddizioni affinché mutasse, affinché si liberasse dei suoi immani limiti, pregiudizi, ipocrisie, viltà. Mentre i Grandi Artisti (e Monicelli li considerava, con grande rispetto, davvero tali) dovevano e potevano permettersi di pensare soltanto alla loro personale visione, e se questa aveva in loro delle risonanze sociali tanto meglio, ma non era questo che essi cercavano. Il loro dialogo con il pubblico non poteva non essere che radicale. Erano loro i grandi artisti, con tutte le loro differenze, come i Bernini e i Borromini e i Caravaggio del Seicento, come i Rossini, i Verdi, i Donizetti, i Bellini dell’Ottocento… come i grandi delle avanguardie degli anni Venti di cui si consideravano infine eredi. La distanza che mantennero tra di loro fu segnata da una rispettosa rivalità (a volte, sì, un po’ acidula). Il loro era un rapporto di rispettosa rivalità tra grandi che sanno di esserlo, che sanno di essere unici, e che credono di essere, in qualche modo, i più liberi e profondi di tutti. Individualisti assoluti, in qualche modo. Grandi Narcisi? Certamente. E fu d’altronde

Carmelo a spiegarmi il mito di Narciso: la ricerca di scoprire chi siamo, che cos’è l’uomo, che cosa è l’io; un andare a fondo che porta, nel mito, fino alla morte. Qualcosa di estremo e di ben diverso dal narcisismo di cui intere generazioni sono oggi afflitte, nato dal ripiegamento sul sé dovuto all’assoluta sconfitta di ogni idea di rivoluzione, dovuta alla violenza della reazione capitalista contro i movimenti di liberazione (d’ogni sorta, dei poveri e perfino dei figli dei ricchi) degli anni successivi alla seconda guerra mondiale (vedi le analisi di Christopher Lasch, il più geniale sociologo della seconda metà del Novecento). A modo loro Bene, Fellini e Pasolini furono dei grandi narcisi, o, per dir meglio, dei grandi individualisti nel senso più alto del termine, che possiamo anche dire anarchico quasi per definizione, ricordando l’aurea affermazione di Camus «mi rivolto, dunque siamo», che vale bensì più in politica che nel campo del pensiero e dell’arte. Se in politica la rivolta parte da un moto individuale che può allargarsi a diventare un fenomeno collettivo, in arte l’Io rimane la misura di tutto. La differenza, la radicalità individuale offre un riferimento, un esempio, un’esplorazione del fondo e dell’oltre che intende essere, coscientemente o meno, utile a tutti, che ha il suo valore sociale nel riuscire a chiedere e a dire più di ogni trattato di sociologia, che ha il suo termine di paragone solo nella grande ricerca filosofica (anche se i filosofi hanno il dovere di argomentare e spiegare e gli artisti no). Dei tre grandi registi che è possibile definire diversamente anarchici, Carmelo è stato il più superbamente autonomo (anche il più «filosofo», il più superiore e distante) e Pasolini il più superbamente provocatorio (anche il più coinvolto corpo e anima nel suo cammino verso la morte, dettato dal non più riconoscersi nella vita sociale del suo tempo, nel popolo, nell’Italia del suo tempo; da una disperazione dovuta alla mutazione del paese – di cui fece in modo di non dover vedere gli esiti ultimi, seguiti peraltro da quelli atroci che andiamo oggi vivendo), mentre Fellini, per carattere e per formazione (anche perché nato artigiano – sceneggiatore al servizio di un regista prima che artista, prima che autore/regista ostinatamente artista), ha mantenuto viva in tutta la sua

carriera l’esigenza di un dialogo con il grande pubblico, e ha seguito (con pochissimi altri grandi registi/artisti, forse solo con Kubrick tra i suoi contemporanei) l’antica «consegna» di Giambattista Marino: «meravigliare» per piacere, per essere riconosciuto e amato, per raccontare-costruire grandi, non piccoli mondi. Anzi: mondi vastissimi, sbalorditivi. Ma sempre, tuttavia, con una capacità di penetrazione, nel caso di Fellini, da straordinario antropologo, come un Malinowski o un Lévi-Strauss del cinema, applicata alla descrizione e analisi del nostro popolo, della nostra Italia. Più poeta Carmelo, più vate Pasolini, più antropologo Fellini, furono però tutti e tre ugualmente e persino furiosamente innamorati del proprio paese e proprio per questo più furiosamente diversi dai modi comuni di concepire questa appartenenza. Furono italiani, insomma (come altri ribelli, come i Bianciardi e i Mastronardi e tanti altri che non accettarono il mondo così come stava diventando e preferirono distaccarsene senza esitare), nel modo alto e distante in cui, dopo la guerra, al suo ritorno in Italia dopo tanti anni di esilio, Gaetano Salvemini reagiva a chi gli diceva «noi italiani siamo fatti così». «Io sono italiano, e non sono fatto così», egli replicava. La diversità di Carmelo, così vicina alle sue radici sacro-salentine; quella di Pasolini, «forza del passato» a confronto con un presente corrotto e intollerabile; quella di Fellini, così vicina (e così critica) alla sua Rimini e alla sua Roma, specchio entrambe d’Italia, non hanno lasciato molte tracce nell’humus nazionale, al contrario. Ma tutti e tre hanno molto di comparabile, nelle loro scelte, a quelle di tanti grandi che Ignazio Silone diceva essere stati modello di eresia, soprattutto meridionale, e non solo i Bruno e i Campanella vittime dell’inquisizione, ma nel nostro tempo, oltre ai Tre di cui trattiamo dovremmo ancora aggiungere i Brancati e gli Sciascia, le Morante e le Ortese, i Rossellini e perfino i Totò. I veri grandi artisti, disse qualcuno, non possono che essere radicali e novatori, non possono che essere anarchici; l’arte vera, quella non consolante e mercificata, è una delle espressioni più necessarie, in ogni società, del rifiuto dell’ingiusto, del brutto e del falso, un rifiuto che non possiamo non definire anarchico e che, di conseguenza, spinge

alla ricerca di un mondo altro e migliore, di qualcosa che non possiamo non chiamare armonia, utopia.