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Italian Pages 200 Year 2023
Fabio Ciriachi
Cervellati Ai margini del campo
Margini
Collana diretta da Filippo La Porta
Margini | 19
Fabio Ciriachi
Cervellati Ai margini del campo
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© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 19 – aprile 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-389-1 ISBN – Ebook: 978-88-5529-396-9 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Fotografia appartenente all’Archivio di famiglia di Fabio Ciriachi
Alla memoria di mio padre, Fernando, di mia madre, Emma, di mio fratello, Mauro. Ai miei figli, Amauta e Alessandro. A Marisa, con la quale condivido, tra l’altro, progetti quotidiani su cosa fare da grandi.
L’epigrafe a un proprio testo è una specie di epitaffio in vita. L’epigrafe mente non su ciò che siamo stati, come fa l’epitaffio, ma su ciò che vorremmo essere. Infatti, non vorrei essere nessuno degli autori usati come epigrafe. Fabio Ciriachi, Cervellati
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Premessa
A parte Cervellati, emerso chissà perché dalle lontananze della memoria, conoscevo poco o nulla dei protagonisti conflui ti pagina dopo pagina in quest’opera spuria che, per meglio dribblare nostalgia e ovvietà, ha proceduto attraverso improvvisazioni e scarti simili a quelli che Cervellati si concedeva sul terreno di gioco. Per documentarmi, ho consultato Wikipedia, e anche quei link e siti di internet in cui riuscivo a trovare notizie sui personaggi che un po’ alla volta, per analogia, Cervellati convocava attorno a sé. Dei libri nominati, ho indicato titolo, autore e edizione; dei brani presi dalla rete, ho indicato fonte e autore. Le poche volte in cui personaggi reali hanno obbedito alla mia fantasia è stato per raccontare, col dovuto rispetto, eventi non veri ma possibili. Alla fine, mi accorgo di aver ricostruito frammenti di una certa Italia post-bellica che il calcio di allora e la figura di Cesarino Cervellati ben rappresentano. Di inatteso, è che più mi documentavo su di lui e più mi piacevano le notizie raccolte, più gli volevo bene. Sentimento, questo, che nella connessione non casuale dei rimandi, mi ha portato a incrociare la vicenda di Astutillo Malgioglio, col quale ho voluto congedarmi, ripor-
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tando per intero, in appendice, l’articolo di Paolo Camedda che così bene ne racconta l’eccezionalità. Ci saranno di sicuro sviste, mancanze, imprecisioni, e non escludo che gli andamenti narrativi quasi diaristici, improntati a una libertà procedurale che ha fatto grande uso della digressione, possano aver influito sull’aderenza del racconto ad alcune delle verità fattuali chiamate in causa. Me ne scuso in anticipo, e per giustificarmi almeno in parte invoco la distrazione. Da un po’, fa il bello e il cattivo tempo nel mio quotidiano, convinta, forse, che la comicità involontaria di certe sue conseguenze possa compensare i pasticci che a volte provoca.
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Tanti anni fa un giocatore del Bologna si chiamava Cervellati. Penso che Cervellati sia un cognome molto significativo. Penso che non sarà facile incontrare un altro cognome significativo come Cervellati. Tanti anni fa è un luogo che conosco poco. E pensare che ci sono nato a tanti anni fa. In parte ci ho anche vissuto. Poi sono andato a vivere a poco tempo fa. Non è tanto che ci vivo. È poco. Qui dove penso a Cervellati è la mia terra di nessuno e si chiama adesso. A riprova che Cervellati è un cognome importante c’è che Word non lo sottolinea in rosso. Neanche Ciriachi è sottolineato in rosso, ma non penso che dipenda dall’importanza. Forse Word ha imparato il mio cognome a forza di leggerlo su prime pagine di romanzi dove cambiavano i titoli e le epigrafi ma l’autore ero sempre io.
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Forse per Word sono uno scrittore noto. Che non mi senta sicuro di me lo prova che non ho pubblicato nulla senza appoggiarmi a un’epigrafe. L’epigrafe a un proprio testo è una specie di epitaffio in vita. L’epigrafe mente non su ciò che siamo stati, come fa l’epitaffio, ma su ciò che vorremmo essere. Infatti, non vorrei essere nessuno degli autori usati come epigrafi. Il segreto di una buona epigrafe è di non prenderla sul serio. A farlo si rischia la derisione. Di sicuro Cervellati non ha scritto un libro di memorie. Cervellati, di nome, si chiamava Cesarino. Rimane un mistero come abbiano fatto i genitori a sapere che da grande non sarebbe diventato alto, per cui il diminutivo gli calzava a pennello. Cervellati giocava all’ala destra, infatti aveva il numero 7 cucito sulla maglia. Allora non c’era il caos di oggi e la squadra si sviluppava in modo lineare dall’1 del portiere all’11 dell’ala sinistra, passando attraverso tutti i numeri e i ruoli intermedi. Cervellati è nato nel 1930 ed è morto nel 2018. Cervellati è vissuto ottantotto anni. Oltre alle partite giocate, ai gol segnati e agli anni in cui è stato allenatore, di Cervellati non sappiamo nulla. Wikipedia non dice se si è sposato e se ha avuto figli. Per questo Cervellati lo immagino sempre su un campo di calcio a parlare con uomini di cose da uomini. Penso che Cervellati odorasse di spogliatoio. Penso che quando Cervellati usciva dalla doccia, una volta asciugato si strofinava sotto le ascelle, a mo’ di deodorante, le maglie della squadra sporche di sudore.
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Il Bologna aveva le maglie a righe verticali rosse e blu, ed era circondato da una specie di ammirazione anche dai tifosi delle altre squadre. Cervellati ha giocato nel Bologna quattordici anni, dal ’48 al ’62. Il Bologna ha vinto il suo sesto scudetto nel campionato 1940/’41 e il suo settimo e ultimo nel campionato 1963/’64. Questo vuol dire che la storia calcistica di Cesarino Cervellati abita tutta nella lunga parentesi d’insuccessi del Bologna di allora, esclusa una Mitropa Cup vinta nel 1961. Wikipedia dice che Cervellati esordì in Nazionale il 6 maggio 1951 (Italia-Jugoslavia, 0-0) sostituendo nel secondo tempo Burini. Burini non lo ricordo come ricordo Cervellati, ma qualcosa di vago mi dice che forse giocava nella Lazio. Se non fosse vero, il mio errore potrebbe dipendere da un pregiudizio di romanista che considera burini i laziali. Con un leggero imbarazzo, leggo che i trattini azzurri apparsi sul display sia sotto Burini, cognome, che sotto burini, aggettivo, derivano da una funzione chiamata “Registro formale” che mi invita a usare l’italiano “maleducati”, invece del dialettale “burini”. Apprezzo l’intenzione. Dice Wikipedia che Renzo Burini ha giocato sei anni nel Milan, sei nella Lazio e quattro nel Cesena. Renzo Burini è nato nel 1927 ed è morto nel 2019, a novantadue anni. Cesarino Cervellati, ottantotto anni, Renzo Burini, novantadue. Giocare al calcio, allora, faceva bene, rendeva longevi. Cervellati è stato anche il viceallenatore di Pesaola. Bruno Pesaola, argentino naturalizzato italiano nel ’53, detto el Petisso, “il piccoletto”, ha giocato nella Roma, nel Novara, nel Napoli, nel Genoa. Poi, oltre ad allenare Napoli, Savoia,
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Fiorentina, Bologna, Siracusa, Panathinaikos, nel 1961/’62 ha allenato anche la Scafatese. Bruno Pesaola è nato nel 1925 ed è morto nel 2015, a no vant’anni. Cervellati, Burini, Pesaola: fra tutti e tre fanno novant’anni di vita media. A metà Novecento, giocare a calcio rendeva longevi. Poi è arrivata la chimica, l’erba del terreno di gioco si è fatta più verde e folta, il livello delle prestazioni si è alzato e la vita media dei calciatori si è abbassata. Forse è così, dovrei controllare. Devo ammettere che il fascino di Cervellati, oggi, deriva anche dalla possibilità di leggere il suo cognome, ma con la minuscola, come fosse il participio passato plurale del verbo cervellare, al tempo stesso anche aggettivo (ad esempio: i libri cervellati bisogna trattarli con cura, sulla carta da lettere cervellata non si riesce a scrivere). O, anche, spostando l’accento sulla seconda “e”, come imperativo del verbo cervellarsi. Ad esempio (tono gentile,) per favore, cervèllati un po’ di più; o anche (tono minaccioso) cervèllati, altrimenti dovrò sostituirti. Word ha sottolineato in rosso cervellare, cervellarsi e cervèllati. Questo è segno che le mie fantasie su temi dell’infanzia inclinano all’errore. Crescendo, in genere, gli sbagli si correggono. Nel mio caso, al contrario, sarebbero nati dall’uso presente della memoria. Ricordare può essere pericoloso. Anche dimenticare può esserlo. Diciamo che possono essere pericolosi sia l’uno che l’altro, se vissuti in modo insufficiente. Tirando in ballo un concetto come sufficiente/insufficiente, rischio di cadere nel filosofico.
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Dov’è il confine che separa il sufficiente dall’insufficiente, si domanderebbe un filosofo che con questa domanda si pone a metà tra lo stoico e l’epicureo? Lo stoico lo saprebbe. L’epicureo sosterrebbe l’irrilevanza del problema. Il filosofo di mezzo saprebbe solo indugiare tra l’uno e l’altro. Elettivamente, per quel poco d’inevitabile che anche a mia insaputa mi lega a una filosofia, sono più vicino al filosofo di mezzo. La posizione, però, non è statica, ma deriva dalla sintesi delle continue oscillazioni ora verso lo stoico, ora verso l’epicureo. L’instabilità è così disturbante che chiudo il discorso filosofico e torno a Cervellati, con la C maiuscola. Dice Wikipedia che la pagina su Cesarino Cervellati è stata modificata per l’ultima volta il 27 aprile 2021 alle 08:57. La notizia mi sorprende perché credevo che il suo nome mi fosse rimbalzato in testa da un lontano nel tempo ben superiore al 27 aprile 2021. La vita è piena di presenze che sfuggono. La vita è un mare denso e opaco sulla cui superficie, di tanto in tanto, affiorano bolle che si rompono e rilasciano un odore. Quell’odore è il manifestarsi degli altri, e la loro vita l’apprendo con l’olfatto anche se mi sembra di vederla con gli occhi e ascoltarla con le orecchie. I sensi non vanno presi alla lettera. Sarà capitato a tutti di scoprire, a un certo punto, che si ascolta soprattutto con gli occhi. Che sia o meno capitato ad altri, però, non importa perché per fare esperienza non ci vuole l’accordo di qualcuno. Tornando a Cervellati, nella stagione 1957/’58 il Bologna perde 4-1 con la Juventus. Il terzo dei quattro gol è segnato da
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Giampiero Boniperti, un fedelissimo della Juventus, una vita al servizio della squadra. Infatti, nel 1994 viene eletto all’euro parlamento nella lista di Forza Italia. Boniperti è nato nel luglio 1928 ed è morto a giugno 2021, quasi 93 anni. Continua questa storia di longevità dei calciatori di una certa generazione. Il 3 gennaio 1954, alle 14:30, allo Stadio comunale di Bologna, per la XV giornata di campionato, davanti a 30.000 spettatori si gioca Bologna-Roma. La partita termina 2-1 per la Roma che segna al 50° con Bronée e al 67° con Pandolfini. Per il Bologna accorcia le distanze Cervellati all’84°. Egisto Pandolfini è nato nel febbraio 1926 ed è morto a gennaio 2019, quasi 93 anni. Partendo da Cervellati, il caso finora gli ha accostato Burini, Pesaola, Boniperti, Pandolfini: età media 91 anni. Word non conosce Bronée e Pandolfini e li sottolinea in rosso. Helge Bronée, danese, nasce nel 1922 e muore nel 1999. Coi suoi 77 anni rompe la catena di longevità e abbassa decisamente la media fin qui raggiunta; oltre a rivelare una propensione per i numeri doppi (tripli, nel caso di 1999). Giocatore del Nancy, Bronée viene ingaggiato nel 1950 da uno dei proprietari del Palermo, il principe Raimondo Lanza di Trabia, che durante un viaggio di piacere lo vede giocare nella partita Nancy-Grenoble. Il carattere rissoso di Bronée entra subito in conflitto con l’allenatore del Palermo Gipo Viani, che lo prende a botte nello spogliatoio dopo che Bronée, contrario alla tattica difensiva voluta da Viani per difendere il pareggio, va nell’area del Palermo e segna proditoriamente un autogol. Gipo Viani è nato nel 1909 ed è morto nel 1969, proprio come mio padre che, nel suo piccolo, mi ha allenato nel ruolo di por-
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tiere e non mi ha mai preso a botte, nemmeno a casa (quando serviva, ci pensava mia madre, il che mi ha insegnato a prenderle da una donna). Wikipedia può diventare un gorgo mortale. Leggendo di Pandolfini, infatti, ho notato due date che mi hanno colpito e subito hanno messo in moto il pensiero. Pandolfini nasce nel 1926 e termina la carriera nel 1962. Cosa mi dicono quelle due date? Fortuna vuole che, per certe cose, la memoria non sia ancora arrugginita. Ricordo che nel 2016, in occasione del novantesimo anniversario della nascita di Marilyn Monroe, qualcuno m’aveva invitato a scrivere una poesia su di lei (uscita in un’antologia che dovrei avere) e io avevo scelto di puntare sulle date della nascita e della morte con l’inversione tra 26 e 62 come traccia di un possibile destino. Il titolo, infatti, era 1926-1962. La poesia termina con questi versi: «perché il sorriso è un cucciolo e il viso / – schiavo del logo Marilyn Monroe – / portava illeso il male che decide / per un gioco di numeri banale». Come sia possibile arrivare da Cervellati a Marilyn Monroe – passando per Burini, Pesaola, Boniperti, Bronée, Pandolfini, il principe Raimondo Lanza di Trabia, Viani e mio padre – è una circostanza che indica in quali altrove posso finire se solo mi abbandono alle correnti che incrociano davanti al pontile dove ogni giorno siedo – gambe ciondoloni, piedi a pelo d’acqua e sguardo perso – a decidere cosa fare del tempo che resta (nella fantasia vivo al mare). Non sempre la faccenda assume una piega entusiasmante. Infatti, alterno momenti di euforia ad altri di sfinimento e di cupe visioni del mondo. Qualcuno ha detto che sarei bipolare, un maniaco/depressivo lieve, e che comunque ci sono le cure. Io ho detto meno male. È sempre un bene quando ci sono le cure.
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Dice Wikipedia che nel 2019 la speranza di vita per gli uomini è salita a 81 anni e per le donne è aumentata fino a raggiungere 85,3 anni. Non so se la notizia accresca la mia euforia o il mio sfinimento. Resta che tutte queste faccende sembrano piccole, raccolte in poco. Non proprio irrilevanti ma quasi. Come il quartiere dove ho vissuto da ragazzino quando l’ho rivisto dopo decenni. Non le ricordavo così piccole le strade, così corte le distanze, così prive di mistero le case. Era come se crescere e conoscere avesse rimpicciolito e spento tutto. Mi domando se sia valsa la pena farlo. Avrei potuto oppormi, ma temo che lo scorrere del tempo non avrebbe lasciato scampo. Quest’affermazione non ha senso. Deriverà dall’euforico o dal depressivo? E la risposta, verso quale dei due stati potrebbe spingermi? Forse, è meglio non rispondere più a niente e smetterla. Significherebbe, però, chiudere il discorso, e questo non va bene. Ogni accenno alla fine, con le sue suggestioni minacciose, è un lusso che alla mia età non posso più permettermi. Ormai il work può essere solo in progress. Nessun dorma.
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Cervellati non ha mai messo piede al Campo Testaccio. Costruito nel ’29, il campo della Roma chiude il 30 giugno del ’40. Le tribune stanno per crollare. Roba autarchica. E poi da venti giorni l’Italia è entrata in guerra. Cervellati ha dieci anni quando il Campo Testaccio muore. Mi sembra che avere dieci anni nel 1940 non sia una bella cosa. Si portano calzoni corti sopra il ginocchio e le gambe sotto sono sempre magre. Chi ha dieci anni nel ’40 somiglia molto ai bambini di dieci anni che si vedono nei documentari sul 1940. Somiglia un po’ meno agli attori che fanno la parte di un bambino di dieci anni in un film sugli anni ’40. A quell’età, Cervellati neanche immagina che farà il calciatore (o forse sì, chi lo sa?). Se solo lo nomino, il Campo Testaccio ha un che di mitico, sembra importante, evoca imprese. Ma è durato poco. E di imprese, poi, a parte il 5-0 alla Juventus, memorabile solo la storia dei tre argentini.
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A settembre del ’35, presidente Sacerdoti (sarà costretto a lasciare nel ’38 in quanto ebreo), Guaita, Stagnaro e Scopelli, i tre oriundi argentini della Roma, passano la visita di leva: abili e arruolati. Malgrado le rassicurazioni della dirigenza, i tre temono di finire in Africa. Si sa che a ottobre Badoglio invaderà l’Etiopia. Il giorno stesso partono in auto per La Spezia dove prendono il treno che li porta a Ventimiglia. Un passeur li accompagna a piedi fino a Mentone. In treno, raggiungono Marsiglia e da lì, su una nave mercantile fino a Buenos Aires. Grazie a una spiata, gli agenti dell’OVRA si mettono sulle loro tracce, ma invano. Giunti in Argentina, i tre fuggiaschi scontano nell’indifferenza e nel risentimento la colpa di aver cercato fortuna altrove. Nel 2000 il Campo Testaccio risorge. Nel 2008, gli scavi per la costruzione di un parcheggio sotterraneo ne compromettono la stabilità. Rimane a lungo così: instabile, inutile. Intanto i lavori vengono sospesi, e finalmente, dopo anni di degrado, il Campo Testaccio esce dal programma parcheggi e ad aprile 2021 si fa avanti una società pronta a ricostruirci impianti sportivi. Comunque, non è per ragioni del genere che a volte non dormo la notte. Quando capitano i periodi che non dormo la notte, per contrastare l’insonnia vado a letto alle 2 o alle 3, così la notte diventa molto piccola e il rischio di non dormire diminuisce. Mi hanno detto che per salvaguardare il cuore, è buona cosa andare a dormire tra le 22 e le 23. Per poter avere sonno a quell’ora, però, bisognerebbe non dormire dopo le 16 e neanche stare fino a tardi su computer, telefoni, tablet, televisione.
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Dicono che per favorire il sonno sia meglio, a letto, leggere un libro (letto, leggere, sembra lo stesso verbo). Invece dei tranquillanti, tisane di camomilla o valeriana. Ma con le tisane non fai in tempo a guadagnartelo, il sonno, che ti tocca spezzarlo per le tante pipì. Secondo alcuni, aiutarsi con la respirazione e lo yoga può servire. Anche eliminare le fonti di luce, perché la melatonina funziona bene al buio. Sono tutte informazioni utili che però sfiorano il lapalissiano. Tipo, meglio respirare aria pura piuttosto che inquinata: roba del genere. Stiamo diventando molto attenti alla nostra salute da quando abbiamo capito che è fatta di dettagli. Un’amica mi ha detto che il caffè della mattina non andrebbe mai bevuto prima delle 11. Non mi ha spiegato perché. È un po’ come se ciascuno avesse i suoi metodi per stare bene. In molti casi, però, va in scena l’atto di fede. L’amica del caffè dopo le 11, per esempio. Qualcuno le avrà dato la dritta e lei la segue convinta e la consiglia anche agli altri. Ma che verifica può aver fatto? Se anche avesse notato che bevendo il caffè alle 9 poi stava male, perché imputare il malessere proprio al caffè? E se fosse stata male dopo le 11? O anche prima delle 11, però avendo bevuto il caffè dopo le 11 del giorno prima? E se lo star male dipendesse dalla marca di caffè? Ci sono cose, per esempio, che fanno effetto solo se accadono il giorno prima di quando fanno effetto.
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Di solito le cose accadono il giorno prima per sfuggire ai sospetti di chi, il giorno dopo, vuole capire perché è accaduta una certa cosa. È possibile che tutti questi nessi causa/effetto in realtà non esistano, e però crederci rassicura. Se fosse così, crederci sarebbe un buon metodo per vincere l’insicurezza. Credere fa miracoli. È come con gl’integratori. Servono e non servono. Dipende da come uno vede il bicchiere, se mezzo pieno o mezzo vuoto. Importante, comunque, che gl’integratori siano sciolti nel bicchiere mezzo pieno piuttosto che in quello mezzo vuoto. Se proprio uno volesse scioglierli in quello mezzo vuoto, dovrebbe fare attenzione che il mezzo vuoto stia nella parte alta del bicchiere e non in quella bassa, perché altrimenti, per quanto possa mescolare, l’integratore non si scioglierà. Sono piccole accortezze che fanno la differenza. Sono gli ostacoli che saltiamo, per usare una metafora presa dall’atletica leggera. Oppure sono i paletti, tra i quali facciamo lo slalom, e qui la metafora è presa dallo sci. Quello di cui la vita non fa difetto sono le metafore. Il dubbio che almeno la metà delle cose che viviamo le viviamo per poter disporre di metafore è un dubbio legittimo. Come è legittimo credere che quelle metafore costate la metà delle cose vissute servano a spiegare la rimanente metà delle cose da vivere. Se così fosse, sarebbe un sistema perfetto.
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Ma se vivessimo in un sistema perfetto, perché ho l’impressione di galleggiare in un gigantesco lavello appena stappato e di vorticare veloce verso lo scarico? In effetti, vista così, anche l’immagine di vorticare in un lavello che si svuota potrebbe essere una buona metafora della vita. E se la perfezione fosse questo nutrire di continuo metafore alle quali aggrapparsi affinché il non-senso del vivere abbia un suo correlativo fattuale? Cesarino Cervellati è timido. Lo si capisce dalla faccia che fa quando lo riprendono in primo piano sul bordo di un campo di calcio e non sa nascondere l’imbarazzo. Forse lo intimidisce sapere di essere ripreso in bianco e nero mentre lui si sente totalmente a colori. In un filmato senza sonoro, si capisce che qualcuno a un certo punto gli dice di correre verso il centrocampo e lui parte trotterellando, ma senza l’energia che avrebbe se stesse per cominciare una partita. Da quel modo stracco di trotterellare si capisce che vivere gli costa fatica. Altra storia quando le riprese riguardano vere azioni di gioco. Lì, è una guizzante ala destra capace di segnare in tralice quasi da fondo campo. Lì, dribbla con astuzia gli avversari. Si permette giocate molto belle e se uno ne vede tante di fila risulta difficile credere che in quattordici anni di carriera abbia vinto solo una Mitropa Cup, e quasi sul finire. Forse è sbagliato vedere il meglio tutto insieme. Se uno vede il meglio tutto insieme è portato a credere che nella vita sia sempre così. In genere nella vita non è mai sempre così.
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Tra una buona cosa e l’altra, in genere, ce ne sono tante insignificanti e addirittura brutte. Se invece di mettere insieme in un filmato tutte le cose belle di una persona, uno ci mettesse le insignificanti o addirittura le brutte, la vita di quella persona sembrerebbe disgraziatissima. Forse a volte vediamo nero perché senza accorgercene guardiamo solo l’insieme delle cose brutte. Invece la vita, per la maggior parte delle persone, è un alternarsi di cose belle, insignificanti e brutte. Immaginando che uno punti a fare solo cose belle, allora le insignificanti e le brutte sarebbero il segno di quelle non riuscite. Così può capitare che a un certo punto dell’esistenza uno si domandi: quante cose insignificanti e brutte ho dovuto fare per ottenere le belle? Lì, ognuno fa i suoi conti e arriva ai suoi risultati. Chi ne esce bene, chi ne esce male. Una volta uno si è domandato se fosse valsa la pena fare tante cose insignificanti e brutte per ottenere quelle poche belle. Però è stato bravo a sospendere la risposta. Un’altra volta uno ha scoperto che quella faccenda di fare i conti non è semplice come pare. È che le cifre segnate cambiano di valore nel tempo. “Sembra che il passato cambi”, uno ha detto. E un altro ha detto: “Se il passato cambia e le cifre sono sempre diverse è impossibile fare i conti”. Infatti, questa storia di fare i conti serve più come diversivo. Un vezzo colloquiale, insomma, un argomento innocuo da spendere con sé e con gli altri. È bello continuare a credere che prima o poi tutti facciamo i conti con la vita. Aiuta a sentirsi insieme.
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E infatti nessuno pensa guarda quel fesso che ha fatto i conti con la vita. Si sa che nessuno li fa davvero anche se dice di farli, anche se infioretta il discorso di dettagli per renderlo credibile. Basta vedere le immagini di Cesarino Cervellati ai festeggiamenti per i cento anni del Bologna, al Dall’Ara, per capire che lui si è guardato bene dal fare i conti. Stavolta le riprese sono a colori. Una speaker ne annuncia a tutto volume i meriti: «È sempre stato nell’ombra, ha sempre lavorato coi giovani, ma quando è stato chiamato a salvare il Bologna lo ha fatto come nel ’76/’77», e Cervellati si fa avanti. Nel camminare, guarda bene dove mette i piedi; non per decidere cosa fare della palla, ma per non cadere. Capelli bianchi, un po’ appesantito, occhiali che si sistema sul naso, il giubbetto bianco del centenario aperto in modo giovanile, alza le mani per rispondere agli applausi. Abbraccia un dirigente, giovane, e che Cervellati non farà mai quei conti con la vita che tutti dicono di fare tanto per dire, lo si capisce dalla mano che mette sulla nuca del tipo che abbraccia, in blu, magro, una spanna più alto di lui. Il gesto è paterno, sì, ma vuole anche dire tu non ti tiri indietro perché questa finzione di bacio alla quale presto la mia faccia e la mia storia deve contenere un minimo di decente verità. È un mite, Cervellati, uno che rispetta così tanto la vita da non concepire di sprecare energie litigando. Come può contribuire a migliorare le cose? Evita gli scontri tra galletti. Ha avuto spesso il ruolo di allenatore in seconda. Non ha mai fatto la primadonna. Come ha detto la speaker alla festa: “È sempre stato nell’ombra”.
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Quando gli parlo di Cervellati, quello fa una faccia. “Hai la mia età, segui il calcio, com’è che Cervellati non ti dice niente?”. “E tu perché te lo ricordi?”. Non so che dire e rimango in silenzio. Ma è diverso da altri silenzi. Stavolta non scappo dalle parole. “Me lo ricordo perché è un nome che sentivo alla radio. Quello che non capisco è come ci sono finito sopra”. “Non si può capire tutto”. Non c’è più niente da dire e così stiamo zitti insieme. Io, quando sto zitto insieme, è come se scrollassi la memoria, e questo fa succedere sempre qualcosa nella mia testa. Infatti, parlando di Cervellati è venuto fuori che Pandolfini si chiamava Egisto. Prima di ragionare sul nome Egisto, che con le sue origini si garantisce un mare di digressioni, voglio dire, a beneficio di chi ancora non lo sa, che Pandolfini è nato ed è morto a Lastra a Signa. A me quelli che nascono e muoiono nella stessa città, soprattutto se la città ha un nome che evoca (e Lastra a Signa ce l’ha), danno sempre un’idea di vite brevi, misteriose.
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Andando dalla vita alla morte, è un po’ come se uno dovesse per forza allontanarsi dal posto in cui è nato. Se invece uno rimane lì dove è nato allora vuol dire che lì ci ha costruito qualcosa di simile a un lungo viaggio. Soprattutto quando uno campa novantatré anni, come Pandolfini. In attesa di scoprire quale lungo viaggio si nasconda dietro il nascere e il morire a Lastra a Signa di Egisto Pandolfini, penso che per lui tutte le strade percorse siano dipese essenzialmente dal modo in cui ha vissuto. Tutto, nella vita di Pandolfini, è dipeso dal modo in cui ha vissuto, tranne essere chiamato Egisto che invece riguarda il modo in cui hanno vissuto sua madre e suo padre. Per saperne di più su Lastra a Signa consulto Wikipedia. La città si chiama così perché in zona ci sono cave di “pietra serena”, l’arenaria grigia e facile da lavorare impiegata, fin dal Rinascimento, per fare davanzali, soglie, architravi, cornici e fregi. A essere precisi, e Wikipedia a volte lo permette, le cave di Lastra a Signa sono di arenaria Macigno, a grana medio-grossa; diversa dall’arenaria di Monte Modino, a grana medio-fine, che si estrae dalle cave di Fiesole. Sembra che l’arenaria più pregiata, chiamata “del Fossato”, provenisse dalle pendici del colle di Settignano. Se lo si usa con moderazione, Wikipedia può soddisfare diverse curiosità. Guai a usarla per fingersi esperti. Al massimo, si può diventare esperti in curiosità soddisfatte da Wikipedia. Da piccolo, per diventare esperti, c’era «La Settimana Enigmistica» con la rubrica Edìpeo Enciclopedico. Non li sceglievo io gli argomenti. Imparavo da quello che sceglievano loro. A caso. Ma torniamo a Egisto, che è un nome importante.
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Io non so quanto comune fosse a Lastra a Signa nel 1926 un nome che viene dal cuore sanguinolento della mitologia greca. Ricordo, però, che nei primi anni ’70 il figlio del calzolaio di Castiglion Fiorentino si chiamava Eschilo. E ricordo anche, sempre in quel periodo, che per delle faccende da sbrigare in zona, ho trattato con un fattore che si chiamava Dante. Lì ho anche conosciuto, nel normale uso della lingua quotidiana, il verbo avellare nel senso di mandare all’avello, uccidere (“ha fatto una scoreggia che avella”). Lì ho potuto scoprire – tanto ne sono stato testimone – che il termine passione si usa soprattutto per significare patire, soffrire. Io, invece, l’ho sempre legato al pathos amoroso. Tutto questo per dire che negli anni ’20 e ’70 del secolo scorso, in molti paesi della Toscana, volendo, qualche panno in Arno uno lo poteva anche sciacquare senza doversi spingere per forza fino a Firenze. Vorrei parlare subito di Egisto, ma Settignano ha aperto il sipario su un episodio occorsomi a metà degli anni ’80 proprio nel paese che ha dato i natali a Desiderio. Piazza Desiderio da Settignano è la piazza principale di Settignano. Di Desiderio, so poco o nulla (salvo collocarlo fra gli scultori del Rinascimento fiorentino) ed entra nell’episodio che sto per raccontare solo in virtù del nome. Per non farla lunga, intorno al 1984, a Settignano ci vado assieme a un amore per un incontro clandestino. Oltre a essere di Firenze, infatti, lei è fidanzata, e non possiamo girare liberamente in città. Il tempo a disposizione è poco e lei, che ha la macchina, mi fa conoscere Settignano.
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Così ci abbracciamo e baciamo in piazza Desiderio, un limite alla passione consumato proprio a ridosso dell’affaccio da cui si vede Firenze. Nel tornare ad Arezzo, in treno scrivo una poesia su Settignano, circolata solo nel giro degli amici. S’intitola Una stanza sotto il cielo, è dedicata a Gino Paoli e a differenza dei personaggi della canzone, che vedono «il cielo in una stanza», i due della poesia vorrebbero «una stanza sotto il cielo». Andava più o meno così, allora. C’era di meglio ma c’era anche di peggio. Egisto, non nel senso di Pandolfini, è il figlio di Tieste e di sua figlia Pelopia, che Tieste ha violato (per volere degli dèi) nascosto da una maschera per non essere riconoscibile durante l’incesto. La spada persa da Tieste nello stupro e conservata da Pelopia riappare, in seguito, nelle mani di un Egisto di sette anni mandato da Atreo a uccidere il suo gemello, Tieste. Ciò che precede e ciò che segue questo stato di cose sono come le mosse di una cruenta partita a scacchi dove non si arriva mai al matto. Si può restare solo affascinati e anche un po’ adirati davanti alla prepotenza della mitologia greca. A guardarla con disincanto è una sorta di gigantesca endogamia che accredita tutte le gamme dell’assurdo e mischia di continuo l’umano al divino. L’intreccio su cui i Greci hanno fondato le loro origini è un lungo elenco di condanne postume che germineranno nel futuro e che non ci stanchiamo di scontare. E Pandolfini? Ha consumato l’intera vita portando addosso quel nome obeso di destini, ignaro del sangue e dei lutti consumati alla sua ombra, e chissà che questo, a tratti, non gli abbia appesantito le gambe (si potrebbe spiegare il declassamento dalla serie A alla B che ha reso subito in salita il suo esordio nel calcio che conta).
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Cose orribili sono accadute attorno a quel nome: Atreo che invita a un banchetto il gemello Tieste e gli serve la carne dei suoi figli appena uccisi, e a fine pasto gli confessa la verità. Il suicidio di Pelopia quando sa che il padre di suo figlio Egisto è, in realtà, suo padre, Tieste. Egisto che seduce Clitennestra e la convince a uccidere Agamennone (figlio di Atreo) per vendicare Tieste, il quale aveva giurato di uccidere i figli di Atreo dopo che, con l’inganno, Atreo gli aveva fatto mangiare i propri. Oreste, figlio di Agamennone che, diventato grande, vendica il padre e uccide Egisto e Clitennestra. A pensarci bene, anche la trama di Beautiful, da un certo punto in poi, deve molto alla cruenta endogamia dei Greci antichi. Poi, come un profumo d’aria pulita in tanta macelleria, leggo la notizia che la pagina di Wikipedia su Pandolfini è stata aggiornata l’ultima volta il 31 ottobre 2021 alle 16:27. È come se gli avessero portato i fiori freschi al cimitero. È confortante sapere che Pandolfini sta nella memoria attiva e nelle cure di qualcuno. Spero che chi si occupa di lui sia bravo a cantare le ninne nanne. Per i defunti dai nomi carichi di storie, una ninna nanna ben cantata è un vero e proprio massaggio sulla memoria di ex-vivi. Pandolfini ha muscoli delle gambe normali. Se si guarda su Wikipedia la foto di Pandolfini in maglia azzurra nel 1952, si vede come i giocatori accovacciati della prima fila siano davvero accovacciati. Oggi i giocatori della prima fila non si accovacciano più così. Non possono farlo. Oggi, nel mettersi in posa per una fotografia, i giocatori della prima fila si chinano appena per non impallare quelli in pie-
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di, ma si capisce che non potrebbero mai assumere la stessa posizione dei loro colleghi di settant’anni fa perché i muscoli ipertrofici delle gambe lo renderebbero molto difficile. Oggi, nel farsi fotografare, i giocatori della prima fila piegano appena un po’ le ginocchia e flettono il busto in avanti così che sembrano offrire le terga ai compagni in piedi. Negli scherzi tra maschi, stare “a culombrina” non è una posizione conveniente. Oppure, sì, dipende. Non so nulla di Desiderio da Settignano, ma che ci sta a fare Wikipedia? Fra le tante cose che dice e mostra dello scultore morto a soli trentaquattro anni, una mi ha colpito più di altre. Il ritratto ligneo a grandezza naturale di Maria di Magdala, vecchia e nuda, ricoperta solo dei suoi lunghi capelli. L’opera deriverebbe da una statua analoga scolpita in legno policromo da Donatello. Stando a Wikipedia la versione di Desiderio avrebbe ricevuto più apprezzamenti perché meno cruda e tragica dell’altra. Sempre su Wikipedia, sono andato a vedere la Maddalena scolpita da Donatello e in effetti il viso è un’anticipazione del teschio, soprattutto se illuminato in un certo modo. A smentire quella vecchiezza, molti dettagli. Le braccia sono sode e dalla pelle tesa, muscolose nei bicipiti come se avesse fatto bodybuilding, le mani grandi e non deformate, piedi e gambe saldi. Questi aspetti ripagano dell’ansia generata dal viso, soprattutto quando, per una particolare inclinazione, la luce fugge dagli occhi e li fa grandi e neri. Forse Donatello si è servito di una modella giovane e poi ha lavorato per eccesso soltanto sul viso così da racchiudervi tutto il senso della morte prossima.
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O anche, può aver voluto conservare, in mezzo alla vecchiaia, qualche barlume di lontana bellezza. La Maddalena di Donatello è alta un metro e ottantotto. Questa misura le conferisce un’aura particolare. Lì per lì la statua viene percepita come a grandezza naturale. Poi, guardandola meglio, si avverte che qualcos’altro è presente nell’opera, qualcosa che sfugge alla presa della comprensione e rimbalza inspiegabile dal viso magro, che urla attraverso la profondità delle orbite, fino al groviglio di capelli che la vestono più di una tunica sdrucita. In realtà l’inspiegabile non sta in un dettaglio ma in quel metro e ottantotto della statua, un’altezza superiore alla naturale. Sta nei centimetri in più rispetto alla media delle donne che frequentano la chiesa. Ecco cos’è: il suo sembrare a grandezza naturale, senza tuttavia esserlo, fa sentire piccoli chi la guarda. Quella vecchia Maria di Magdala trascina con sé in un tempo in cui la Grecia dei miti e del pensiero ha già ceduto alla potenza di Roma. Un secolo e mezzo prima che Maddalena si perdesse d’amore per il Cristo, Corinto era stata rasa al suolo e i suoi tesori d’arte portati a Roma. Il tempo si condensa e svapora come se tutta l’esistenza fosse solo respiro. A tredici anni Egisto Pandolfini, in un campetto non lontano da Pieve di San Martino a Gangalandi, con la brina appena sparita dall’erba fradicia delle prode e il vapore che sale come una nebbia dai corpi sudati dei giocatori, tira calci al pallone con una certa maestria. Gli amici se ne accorgono. Prima o poi se ne accorgerà anche qualcuno importante.
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È il 1939 e deve passare un’intera guerra mondiale perché nel 1945, a diciannove anni, Egisto Pandolfini scenda in campo per la sua prima vera partita con la maglia della Fiorentina. L’approccio non è felice e a fine stagione la società lo presta all’Empoli, che gioca in serie B. Il resto, per quanto attiene al calcio, è tutto un grande presente scandito dal continuo aumento della velocità nel far girare la palla. A causa della preparazione atletica, le gambe dei giocatori diventano sempre più muscolose. Diversamente da un tempo, quando si smetteva di giocare a trentadue/trentatré anni, oggi a quarant’anni diversi giocatori stanno ancora in campo. Nella società erroneamente definita dello spettacolo (lo era ai tempi di Debord, ora si delega tutto alla festosa quaresima della rete) i calciatori occupano un posto di rilievo. Grazie a procuratori e sponsor, la velocità non riguarda solo il giro della palla, ma anche il poco tempo necessario alla formazione di grandi ricchezze. Le plusvalenze, nel caso, riguardano la magistratura. Ordinaria e sportiva. La globalizzazione ha messo a nudo la plastica non riciclabile dei processi produttivi. Ha farcito di competenze gli assemblatori di circuiti stampati. In molti campi della società comandano le macchine. Sui motori delle auto comanda il computer della casa-madre. Alla pelle delle mani, è riconosciuto solo il diritto di arrossarsi. In attesa di essere vietate per legge, le ecchimosi e le lacerazioni sono malviste. È segno che hai provato a infilare le mani in un motore.
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Dio è glabro e ciascun essere umano porta tatuata su di sé la formula estetica del proprio destino. La poesia ispirata dal vecchio gioco del calcio – quella che sta nei versi di Leopardi, Saba, Sereni, Raboni e nel corpo stesso di Pasolini (tifoso del Bologna), palla al piede su un campo di terra battuta – è sostituita da un’epica orale conformata sul lessico delle telecronache e dei commenti durante le telecronache. Il presente è una distopia resa equivoca dai tratti familiari con cui si dispiega. La perfezione dell’istante esteso attorno a una storia che inizia e si conclude anche restando aperta, grazie alla quale il cinema è diventato l’arte di respirare con lo sguardo, naufraga nel frammentarsi delle serie televisive. Nelle serie televisive, il piacere è sviato verso un’apnea ricorrente che, come ogni parvenu, è costretta a mostrarsi sempre sontuosa. Seriale è succedaneo di veloce. Non si sfugge. La nuova libertà accende di gioia governanti e sudditi. «Chi volete che liberi, Barabba o Gesù, detto il Cristo?». E il popolo rispose: «Barabba».
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Nel 1955 Helge Bronée partecipa al campionato con la maglia della Juventus. La sua avventura italiana, cominciata nel ’50 col Palermo (dove è preso a botte dall’allenatore Viani per quel famoso autogol volontario) e proseguita con la Roma e con la Juventus, prima del ritorno in Danimarca si conclude col Novara. Di notevole, quando gioca a Roma, il sodalizio col genio e la sregolatezza del portiere Moro. Alla Juventus lascia solo il malumore di Boniperti che lo accusa di non passargli mai la palla. Intorno al suo ricordo c’è come un’amarezza, qualcosa di nudo. Una specie di vergogna, di quelle che quando te ne allontani la tua ombra ci resta ancora un po’ invischiata. Undici gradi, piove. È il 26 novembre e sono le 17:39. A vederlo, non si direbbe. Sembra metà dicembre. Se però è scritto sul telefono e sul computer, che è il 26 novembre, ci credo. Ore, climi, luce. Benedetta la distrazione. Il ricordare solo a sprazzi. Benedetto l’oblio che lascia un senso di affidabile opacità.
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Se la memoria mette in fila i birilli giusti, vuol dire che sta per fare filotto. In dono, il ricordo del giorno. Non lo scegli, né lo puoi rifiutare. Lo prendi così com’è, il ricordo del giorno, e ci fai quello che vuoi. O che puoi. Stavolta la parola del dono è “fuori”. Il teatro, «La Settimana Enigmistica», il settimanale che vanta… beh, un numero di tentativi d’imitazioni quasi aureo, impronunciabile. Siccome allora credo a tutto, immagino il redattore della «Settimana Enigmistica» mentre conta i giornali concorrenti così che possa scrivere, sopra la testata: «Il giornale che vanta ben 205 tentativi di imitazione». Non dice imitazioni; dice tentativi di imitazione. Il numero di quei tentativi è mobile. Aumenta di anno in anno. Fino ad arrivare alla formula che libera il contabile: «La rivista che vanta innumerevoli tentativi d’imitazione». Per concludere con: «La rivista di enigmistica prima per fondazione e per diffusione». Il regalo della memoria è una vignetta nella cui didascalia è contenuta la parola “fuori”. Grafica semplice, essenziale. Si vede un re, come possono essere i re delle vignette. Grande corona, cotta di ermellino o qualcosa di simile, bassetto, non aitante, faccia buffa, aria per nulla regale, anzi, desolata, da traccagnotto. Guarda fuori della finestra. La didascalia non lascia scampo: «Se penso che fuori piove e mi si bagna tutto il regno!». Come non comprenderlo, come non solidarizzare. Quando esce «La Settimana Enigmistica» con quella vignetta è il 1955 (credo). Numeri. I fatti sono altro. Tornano in mente le parole della speaker che annuncia Cervellati alla festa del Bologna: «È sempre stato nell’ombra».
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I fatti sono gli aneddoti su Bronée al Palermo a proposito di ombra. Bronée e l’ombra. Non è la stessa di Cervellati, metaforica. Quella di Bronée è molto concreta. È l’ombra che batte su una piccola porzione della Favorita, nei caldi pomeriggi domenicali del campionato quasi al termine. Mentre gli altri ventuno (ventidue con l’arbitro, ventiquattro coi guardalinee) arrancano e sputano sangue sotto il sole, Bronée, che viene da un paese freddo, staziona su quel fazzoletto d’ombra. Se il gioco passa dalle sue parti, la cosa lo riguarda e si dà da fare, altrimenti… Non so perché un giorno ho ripensato a Cervellati, non so neanche perché ricordo la vignetta sull’ansia del re al pensiero della pioggia che gli bagna il regno. Avevo undici anni. Un tempo insignificante in un’eternità immobile. Non sapevo molto di re. Qualcosa di più sapevo di regine. Ex o in carica che fossero. Non le studiavo a scuola, le regine, ma le vedevo dal barbiere. Mio padre si faceva i capelli, e in attesa che toccasse a me guardavo le riviste. Si parlava molto di Soraya, in quel periodo. Dopo le rose e i fiori del ’51, quando a diciannove anni sposa lo Scià di Persia, nel’58 viene ripudiata perché non può avere figli. Sembra che prima del ripudio lo Scià fosse pronto ad abdicare in favore del fratello Alì pur di non perdere l’amore di Soraya. Ma proprio mentre sta andando a Teheran per il compleanno dello Scià, l’aereo su cui viaggia Alì precipita. Quell’abdicazione non s’aveva da fare? Non ho trovato notizie su un possibile intrigo di palazzo.
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Se su Wikipedia scrivo il nome Alì Pahlavi, vengono fuori soltanto notizie sulla morte del figlio dello Scià, Alì, suicidatosi, nel 2011, a quarantacinque anni. Prima di lui, sua sorella, Leila, si era suicidata a Londra, trentunenne, nel 2001. Entrambi figli di Farah Diba, terza moglie dello Scià dopo Fawzia d’Egitto e Soraya. Al matrimonio Soraya, già debilitata a causa del tifo, sviene tre volte per i venti chili di peso dell’abito nuziale di Dior tempestato di seimila diamanti. Sembra che a un certo punto lo Scià ordini a una cameriera di tagliare gran parte dell’abito per alleggerire la sposa. Paludi nelle quali si sprofonda, a ripassarci sopra, ma i reali, allora, vanno di moda. In Italia, fino al ’59, ci sono addirittura due partiti monarchici: il Partito Nazionale Monarchico e il Partito Monarchico Popolare. In Italia c’è la radio. La domenica pomeriggio si può ascoltare la radiocronaca del secondo tempo di una partita. Criterio di scelta: la presenza di una squadra importante. Ogni tanto danno i risultati parziali delle altre partite. Alla fine, mio padre controlla la schedina del Totocalcio, ma non vince mai. Mentre la compila, però, dice sempre che non ci scrive il nome, dietro, sennò le tasse… Dopo la partita mio padre, per arrotondare, va a scrutinare le schedine. A forza di arrotondare, dal ’58 mio padre e noi tre figli ci possiamo permettere la tessera della Roma in curva Sud. Per non stare in piedi, andiamo sul presto coi panini. Allo stadio passa il bibitaro che dice: “Caffè Borghetti, mostaccioli, me ne vado”. Se ne va ma poi torna.
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Forse ho visto giocare Cervellati. Di sicuro Cervellati lo vedo giocare il 25 marzo del ’62. È il suo ultimo campionato. Davanti a 25.000 spettatori Roma-Bologna finisce 1-2. Segniamo prima noi con Jonsson, poi una doppietta di Pascutti ci mette a sedere. Cervellati c’era. Potrebbe aver fatto lui un assist a Pascutti. Era capace di tutto, Cesarino Cervellati. Io però non lo ricordo sul campo, quel giorno. Tornare dallo stadio quando la Roma ha perso non è bello. Quel 25 marzo del ’62 mia madre ci guarda e capisce subito com’è andata. Mentre noi ci sgoliamo all’Olimpico, lei rigoverna. Abbiamo la televisione, comprata per le Olimpiadi del ’60. La lavatrice sta già lì da un anno, poi il frigorifero. Si sente una regina, mia madre, con tutti quei comfort in così poco tempo. Prima della lavatrice, lava le lenzuola nella vasca da bagno. Per strizzarle aspetta che torni mio padre dal lavoro. Poi le stende in terrazza. Il palazzo ha nove piani e la terrazza sta al decimo. Il vento dalla campagna le asciuga e profuma, le lenzuola. Così in alto, così libere di sventolare. Sono bianche ma non vuol dire che ci arrendiamo. Ci si dorme bene, poi. In quel tempo mio padre sta pensando se accollarsi altre rate per comprare la 600. Tutti, in casa, tifiamo per il sì: mio fratello grande, il piccolo, mia madre, io. Andare al mare nella 600 è bello. Mio padre alla guida, mia madre accanto, noi tre dietro a guardare dal finestrino. Il mondo di quegli anni scorre oltre il finestrino. È caldo, verde, giallo, ruggine. È giusto. Non penso mai che lo ricorderò. Ci sto bene. Chi me lo fa fare di lasciarlo per ritrovarmi in un tempo diverso da quello?
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Non può esistere altro. Ce l’ho sotto gli occhi, risuona di voci. Profuma di buono. Terra, asfalto, pioggia, erba, spighe, giornali, libri, i sedili della 600 con quel loro odore nuovo. L’odore della tazzina dopo che mio padre ha bevuto il caffè, del cassetto dove stanno i tovaglioli, del Sidol, del DDT. L’odore del tubetto di Formitrol. Dell’astuccio di cartone con le pastiglie di Resoldor. Ma queste sono dicerie. Il passato è una grande diceria. Qualcuno dice una cosa, per esempio. Un altro intende chissà che, e la ripete a modo suo. Anche la memoria dà i suoi suggerimenti. Poi passa il tempo e aumenta la spudoratezza. C’è chi è pronto a giurare su tutto. A forza di parlarne si aggiungono dettagli. Oppure se ne levano. Se ne aggiungono anche a forza di tacere, ma sono più banali. Certi dettagli vanno ad aggiungersi da soli senza che nessuno ne abbia mai parlato, e alla fine, se uno si volta e guarda indietro, è costretto a entrare in un film girato e montato da non si sa chi. Confesso che ho vissuto, si sente dire: belle facce toste. Con la scusa che ha vissuto, uno crede che nella vita ci possa infilare di tutto. Non è così che va. Guardala bene, la vita. È più porosa della pietra pomice. È piena di pause. È un continuo interstizio. Se uno mettesse insieme tutte le pause, a essere onesti dovrebbe togliere almeno una trentina d’anni da una vita di settanta. Ma arrivati a quell’età, col cavolo che si ha voglia di disfarsi della tara. Intorno agli ottanta è ancora peggio. Incarogniti dalla consistenza infelice del minuendo, non si osa neanche mettere mano al sottraendo, e se ci si è avventurati in qualche campo artistico la voglia di risolvere tutto con la glorificazione è forte. Sei disposto a glorificarmi? Se lo fai bene, se ce la metti tutta, una parte della mia gloria ti rimbalza addosso e diventa anche tua.
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Certo, è più comodo glorificare un morto. Diciamo che il morto è più maneggevole. Gli si possono far dire più cose che a un vivo. Non a caso, i glorificatori preferiscono occuparsi dei morti. O dei vivi in procinto di trapassare. Lì, giocano facile. Il morto fresco è di una malleabilità splendente. Può profondere luci mai sinistre. Ha una destrezza garantita. S’innerva qualcosa di geologico, nella glorificazione. I territori cambiano forma. Si alternano depressioni ed elevazioni. Vengono gettate le basi di una diversa morfologia. Paesaggio mutante. Territorio ubiquo. Infine, la gloria va tutta al glorificante. Il glorificato resta secco e duro, una pelle conciata sulla quale abbiano camminato in molti. In così tanti da non lasciare traccia. Poi, qualcuno accende una nuova pagina di Wikipedia e il morto entra in una prospettiva. Anche per i vivi si aprono pagine su Wikipedia. Ne segue il gioco delle consultazioni. Semplice. Clicchi su un nome ed escono le notizie. La realtà è composta da specchi deformanti e da immagini deformate. Ma tutto questo sfiora la noia. Avevamo cominciato parlando di Cervellati e, chissà perché, ci siamo trovati a parlare di gloria. Come la gestione della spazzatura e la sepoltura o la cremazione dei morti, a Roma almeno, anche la gloria dovrebbe essere gestita dall’AMA. Sbagliano sia nei calcoli, sia nel rimediare agli errori di calcolo. Lo fanno spesso. Ci sono passato più volte. Sono umani, troppo umani, ed è un fatto che viviamo in un mondo dove, una decina d’anni fa, è stato necessario coniare lo slogan “restiamo umani”.
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Sembra il segno di un troppo tardi. E forse lo è. In questa scomoda materia che è la gloria associata all’umano, la vocazione al mimetismo può tornare utile per scomparire dalla mischia senza troppi clamori. Cervellati, invece, ce l’ha fatta. La gloria, anche se modesta, è tutta sua. I suoi glorificatori restano ignoti. Un concorso di cose l’ha reso indimenticabile. Un comune convenire. Un accumulo di piccole voci che un po’ alla volta si sono rese udibili. Cervellati è come la pioggerellina. Sembra che non bagni, uno neanche apre l’ombrello. E poi, invece. Sarà per via della maglia a larghe strisce verticali rosse e blu. Per la faccia non da prepotente. Per i capelli mossi, quasi ricci. Per l’espressione con cui è immortalato sulle figurine Panini. La sua ha il numero 293. Poco importa che su eBay sia in vendita a soli 10 euro. È una cifra abbordabile. Non taglia fuori i poveri. Tutti la possono comprare. Per i più abbienti, la libreria AbeBooks.it (già libreria Piani, di Monte San Pietro, Bologna) mette in vendita, a 60 euro, una foto in bianco e nero di Cervellati del 1951, formato cm. 8,5 × 5,5, con firma autografa del calciatore. Sul retro, le firme di Cappello, Jensen, Boccardi, Mezzadri, Giovannini, Ballacci e altri. A ingrandire la foto, in basso, sulla destra, si legge una dedica scritta in obliquo: A Eleana. Con simpatia, Cesarino Cervellati. C’è anche uno svolazzo, nella firma. Se penso a Eleana, in me non si forma nessuna immagine. Con la fantasia, per non essere arrogante, ho bisogno di tempo. Allora aspetto.
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Quando ho deciso che aspetto, la moneta con cui pago l’attesa è la vita: ore, giorni. Le cose importanti costano care.
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Ci penso mentre faccio la fila in farmacia. I pensieri che nascono in farmacia sembra che non c’entrino niente con la salute, ma poi invece… Nella mia terra di nessuno chiamata “adesso”, i pensieri fatti in farmacia riguardano il passato dell’umanità. Per esempio: conosciamo, quando va bene, solo una parte della grande Storia, il resto è perso come non fosse mai esistito. Il noi non si riferisce al mio piccolo privato. Include tutti quelli che, come me, conoscono poco o nulla della Storia. Ma anche gli storici di professione e tutti gli esperti della materia. Provate a immaginare quante cose succedono ogni giorno nel mondo. Moltiplicate quell’incalcolabile quantità di cose quotidiane per il numero di giorni che fanno parte della Storia (escludete solo la preistoria). I pensieri nati in farmacia riguardano i miliardi e miliardi di eventi anonimi accaduti e dimenticati dalla Storia. Una quantità schiacciante, spaventosa. Fa sentire una nullità.
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In farmacia non ci si può distrarre. Si prende il numero come alla Posta e quando appare il tuo sul display devi andare al bancone. Se ti perdi in pensieri scatta il numero successivo, e quello col numero successivo ti passa avanti. A quel punto hai perso il turno. Infatti, ho perso il turno. Prima che scatti un altro numero, rimedio senza rifare la fila. Musi lunghi, dietro di me. Li vedo anche senza guardarli. Il farmacista che mi dà le medicine vorrebbe vendermi anche un rimedio per la distrazione. Gli dico che non c’entra la distrazione. “E cosa c’entra, allora?”. Ci tiene davvero a saperlo. Gli dico che a bloccarmi è stato il pensiero di tutte le storie che non ce la fanno a diventare Storia. Lui non capisce perché un pensiero del genere dovrebbe bloccarmi. Gli vorrei dire che siccome non sono religioso, la prospettiva di essere ricordato dalla Storia mi aiuterebbe ad affrontare la morte. Insomma, sono problemi miei, calcoli che faccio in previsione di qualcosa che presto o tardi mi riguarderà. Un abbozzo di strategia. Una risposta del genere potrebbe avviare un dialogo anche lungo, quindi me la tengo per me. Se costringessi quelli in fila ad aspettare i miei comodi, mi guarderebbero male e a me non piace essere malvisto. Come erano malvisti, negli anni ’90, tutti quei calciatori o ex calciatori che si ammalavano di gravi malattie. Gettavano un’ombra sul mondo del calcio. Diversa da quella metaforica in cui sapeva stare Cervellati o da quella fisica in
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cui si rifugiava Helge Bronée quando sul campo faceva troppo caldo. L’ombra gettata da quei tanti mali è sinistra e imbarazzante. Il 10 settembre 2018, il blog Tutto Cesena, su cui capito per caso cercando notizie in proposito, pubblica una lista di 55 nomi di calciatori morti per patologie percentualmente molto anomale rispetto alle medie nazionali. Su tutte, domina la SLA. Ci sono nomi noti in quella lista: Bernardini, Borgonovo, Facchetti, Fortunato, Picchi, Ghezzi, Rosato, Segato, Taccola, Vincenzi. Ma di fronte alla morte ogni nome è noto. E di nomi ce ne sono tanti. Sul finire degli anni ’90 l’indagine su quelle morti viene affidata al procuratore Guariniello. Non tutti i giocatori collaborano. Stessa reticenza fra i dirigenti, fra i medici. Per istruire il caso, in mancanza di archivi con i nomi dei giocatori degli anni ’60 e ’70, Guariniello si rivolge alla Panini. Nei loro album di figurine c’è tutto quello che gli serve. Secondo me la Panini dovrebbe aggiungere in un suo album anche la figurina di Guariniello. È un fatto di pertinenza. Come a Centocelle, dove le strade hanno nomi di piante, di alberi, di fiori. Fa eccezione via Domenico Panaroli, che però è un botanico. Con i nomi dei calciatori, vengono fuori i casi. Le evidenze sono numerose ma non bastano per un impianto accusatorio. Si additano polveri ingerite, pillole assunte, bevande imposte, antidolorifici in grandi quantità per minimizzare gli infortuni, eccesso di radiografie, pesticidi e altri prodotti per avere campi verdi.
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Le indagini condotte da Guariniello su altre popolazioni di sportivi hanno dato zero casi di SLA fra i ciclisti, zero casi nel basket. Nel 2019, dopo anni di ricerche, si è acclarato che un giocatore di rugby ha una probabilità di contrarre la SLA otto volte e mezzo superiore alla media. E se c’entrasse il trattamento dell’erba del campo? Una strage fra calciatori e rugbisti. Zero casi fra cestisti e ciclisti dice qualcosa. Cervellati ha cominciato e ha finito prima che iniziassero i trattamenti. Ha avuto una vecchiaia giusta. Quella che ciascuno si costruisce con la propria vita. Tanto più se la vita è stata operosa e mite come la sua. Anche Boniperti, Pandolfini, Burini, Pesaola hanno la loro vecchiaia: finiscono tutti di giocare nel ’61/’62 al massimo. Fino a quelle date ci sono i longevi. Poi qualcosa cambia e inizia la moria. Altro longevo particolare Amedeo Amadei, il fornaretto di Frascati che esordisce quindicenne nella Roma, dove gioca dal ’36 al ’38. Dopo un anno con l’Atalanta, torna alla Roma e gioca cinque campionati di fila, compreso quello del ’41/’42 in cui la Roma vince il suo primo scudetto. Muore a 92 anni dopo aver smesso di giocare nel ’56. Come allenatore, prosegue fino al ’63, prima nel Napoli, poi nella Lucchese. Chiude allenando, a titolo gratuito, la nazionale femminile. Amadei deve essere ceduto al Torino per il campionato ’48/’49, ma una petizione dei tifosi romanisti alla società evita il trasferimento. Non per molto. L’aggravarsi dei problemi economici porta la Roma a deciderne comunque la cessione. Saltato l’affare con il Torino, Amadei è nelle mire di Inter e Juventus. Prevale l’Inter.
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Grazie all’amore dei tifosi, quando il 4 maggio 1949 l’aereo coi giocatori granata di ritorno da Lisbona si schianta contro il terrapieno dell’Abbazia di Superga, Amadei è altrove. È vero, i pensieri nati in farmacia finiscono per riguardare la salute che ha, come terminale più ovvio, la morte. Infatti, tra SLA, altre malattie e incidente di Superga, è come se la morte avesse messo il cappello su queste pagine. Com’è fatto il cappello della morte? Ma soprattutto: la morte ha il cappello? Cerco in rete, e l’unico cappello che trovo, se così si può dire, è una corona regale che sta sulla testa della morte nell’affresco La signora del Mondo, dipinto da un tale Giacomo Borlone de Buschis, intorno al 1485, sulle pareti dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone. In tutte le altre raffigurazioni, la Signora è sempre a testa scoperta. Neanche nel modo in cui abitualmente la chiamava mio padre, “la morte cazzuta che va pe’ mentuccia”, c’è traccia di copricapo. Ma mio padre non fa testo, ellittico com’era nel riferirsi all’argomento. Per alludere alla propria, di morte, diceva “quando farò terra pe’ ceci”. Da piccolo non potevo capire la metafora agreste. C’entrano, probabilmente, le origini contadine di suo padre, nato ad Alatri e inurbato nella Capitale per fare il falegname e il custode scolastico. E un cappello non compare neanche nel Trionfo della Morte che affresca una grande parete di Palazzo Abatellis a Palermo. Con Palermo torna in ballo il presidente della squadra dei primi anni ’50, il principe Raimondo Lanza di Trabia. Famoso per l’ingaggio di quell’Helge Bronée che fa di tutto, in campo e fuori, affinché non ci si scordi di notarlo. Le vicende familiari del principe sono di una complessità tale che, al confronto, quelle dei miei nonni paterni – il ciociaro
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inurbato, un po’ falegname e un po’ bidello, e la testaccina operaia alla Manifattura Tabacchi che, in attesa della Prima guerra mondiale, mette al mondo due figli maschi – sono di una semplicità disarmante. Nonna lavora alla nuova Manifattura Tabacchi, ingresso su piazza Mastai, opera dell’architetto Andrea Busiri Vici che la completa nel 1863. Per definire il ramo paterno della mia famiglia mi basta consultare la memoria. Quanto al principe Raimondo Lanza di Trabia, invece, ho dovuto attingere a piene mani da Wikipedia. Si dice che il tempo cancelli e confonda anche le memorie scritte. Ma alla fine della pagina di Wikipedia dedicata al principe risulta che l’ultimo aggiornamento risale al 22/10/2021 alle 08:19. Fresca di giornata. È inutile che provi a riassumerla, Wikipedia è già molto riassunta di suo. Dovrei citarla alla lettera, ma fare l’amanuense di Wikipedia non mi sembra dignitoso. Mi limito a suggerirne la lettura a chi fosse interessato, così eviterei di dire che il principe non nasce in Sicilia, nel 1915, ma in un paesino vicino a Erba, in Lombardia, e che il padre è il nobile siciliano Giuseppe Lanza Branciforte, principe di Scordia; mentre la madre, Maddalena Papadopoli Aldobrandini, è un’avvenente nobildonna veneta, moglie del principe Gino Spada Potenziani, la quale, se avesse dichiarato la maternità, da adultera in quei tempi avrebbe rischiato la prigione; né il padre, impegnato nella guerra sul Carso, poteva, per la legge di allora, riconoscere Raimondo figlio naturale (avranno anche un altro figlio, Galvano). Mi sono lasciato prendere la mano, ma siccome non voglio usare questi mezzucci per trasgredire il divieto morale di copiare da Wikipedia, eviterò di dire che viene registrato all’anagrafe dalla levatrice come figlio d’ignoti e che gli viene attribuita l’identità fittizia di Raimondo Ginestra, dal nome di un feudo
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della famiglia Lanza; e che solo dopo la morte di Giuseppe, il padre, donna Giulia Florio decide di incontrare a villa Butera la “peccatrice” Madda e i suoi nipoti, sino ad allora disconosciuti, per deciderne la sorte: Galvano andrà a vivere con la madre a Vittorio Veneto, e Raimondo con i nonni paterni a Palermo. Col principe, pare evidente, sono caduto in una trappola, tesa non so da chi. Non me ne dovrebbe fregare nulla, e invece sto qui a menare il can per l’aia pur di spacciare quattro notizie che sono alla portata di tutti. Con la sua prosa non esemplare, infatti, su Wikipedia si legge che Raimondo vive l’adolescenza con i nonni negli ambienti elitari e raffinati di villa Trabia, respirando nobiltà e nutrendosi dello spirito anticonformista e determinato di Giulia Florio. Aggiunge, Wikipedia, che si mostra subito un ragazzo singolare, pieno di interessi, spavaldo, altero. Dice che allo studio preferisce l’azione, l’avventura. Tra le sue passioni, il mare e la pesca del tonno, per la quale mostra particolare attrazione. Si racconta che da giovane affronta nelle acque del Mediterraneo uno squalo e lo uccide con un pugnale. Devo essermi proprio rimbambito se, neanche davanti a tanta bassa agiografia, rinuncio a dire che secondo Wikipedia la nonna paterna, Giulia Florio, interviene presso Mussolini e ottiene un provvedimento speciale per cui, infine, Raimondo è legittimato quale figlio di Giuseppe con l’attribuzione del cognome Lanza Branciforte di Trabia e, assieme al fratello minore Galvano, dei diritti ereditari successivamente alla morte del padre. Ora però la smetto sul serio, quindi scelgo il più assoluto riserbo e non dirò che studia dai Gesuiti e poiché è bocciato lo mandano al Nobile Collegio Mondragone di Frascati, che a Palermo, da privatista, consegue la maturità classica nel 1934, e s’iscrive alla facoltà di Giurisprudenza.
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Mi fermo qui, sennò mi viene il fiatone, e torno di corsa a piazza Mastai. Per chi non la conoscesse, si apre sul lato destro di viale Trastevere andando verso ponte Garibaldi, distante da lì un centinaio di metri. È ampia abbastanza da permettere una dignitosa visione della facciata della Manifattura Tabacchi. È alberata e – come tutto, in zona – ha una storia. Nella Roma pontificia, gli utili derivanti dal commercio dei sali e dei tabacchi, intorno a metà Ottocento, sono la terza voce di entrata nelle casse dello Stato dopo la “dativa reale” sui fondi rustici e i proventi dei dazi doganali. Nella guerra col Regno di Sardegna, a seguito della sconfitta nella battaglia di Castelfidardo e della caduta di Ancona, lo Stato Pontificio perde i territori delle Legazioni delle Marche e dell’Umbria. Il crollo nella produzione e nelle vendite dei sali e tabacchi falcidia quasi i tre quarti delle entrate. Sarebbe un disastro se nuovi metodi di gestione, dovuti all’intraprendenza dell’amministratore generale Giuseppe Ferraioli, non permettessero alla Regia Pontificia di ridurre le perdite e di tornare a produrre utili e a dare lavoro. Quel lavoro grazie al quale entra in ballo mia nonna. Siamo a piazza Mastai, dunque, ai primi del Novecento. Il falegname-bidello originario di Alatri ha chiesto la mano della testaccina, che fa l’operaia alla Manifattura Tabacchi, e l’ha ottenuta. È il giorno delle nozze e il ciociaro inurbato, vestito a nuovo quanto meglio può, aspetta con ansia l’ora della cerimonia. L’ansia è tale che si presenta a casa della testaccina con qualche ora di anticipo. È davvero troppo. Il momento del suo arrivo è quello in cui, per lo più, ci si aggira in mutande cercando di capire cosa fare e in che ordine farlo. Lo accoglie il futuro suocero. Poche parole, ma col tono giusto, sistemano le cose: “Va’ a conta’ l’alberi a piazza Mastai, va’, e torna quanno è l’ora”, e gli chiude la porta in faccia.
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Il nonno, obbediente, traversa ponte Sublicio ed esegue. Quel giorno comandava il suocero. Per il resto degli oltre sessant’anni di matrimonio comanderà l’operaia. Lei è bassa, abbondante, rotonda. La chiamiamo palletta, ma è di un’autorevolezza puntuta. Nonno l’accudisce come meglio non si potrebbe. Lei lo bacchetta perché i pezzi di toscano che fuma nella pipa puzzano. Non c’è bagno a casa loro e il lavacro avviene in cucina. Nonno riempie il catino di zinco con pentolate di acqua scaldata sul fornello. A quel punto si chiude la porta e in cucina restano solo loro due. Quando ore dopo la porta si riapre, tra i vapori tropicali di borotalco e lavanda, nonna è vestita di tutto punto, pronta per andare al mercato. Mentre lei poggia con cura sulla testa il cappello con la veletta, nonno si veste di corsa come capita. Lei gli aggiusta il nodo della cravatta, i revers della giacca, il colletto della camicia. Lo rimprovera col solo scuotere la testa. Un piccolo aneddoto chiarisce bene la natura del loro rapporto, e quanto capillare sia stato il dominio dell’operaia sui gangli più nascosti del falegname-custode. Sul finire degli anni ’50, la domenica si fa visita ai parenti stretti. Di rito, si portano le pastarelle. A mia madre, che va col cabaret in mano davanti al suocero perché si serva, suo suocero, cioè mio nonno, il ciociaro un po’ bidello e un po’ falegname, ha un attimo d’incertezza. Poi si rivolge all’ex operaia della Manifattura Tabacchi, sua moglie, e indicando le pastarelle le chiede impacciato: “Senti ’n po’. A me quale me piace?”.
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Inizio una lettera scrivendo solo il sostantivo «Gentile». Chi leggesse quel «Gentile», senza esserne il destinatario, non capirebbe se la lettera è indirizzata a una donna o a un uomo. L’incertezza di genere non è un limite ma una possibilità. Inclusa quella di ipotizzare che la lettera sia inviata a un gentile, cioè a una persona non di religione ebraica. Nel caso, l’ebreo dovrei essere io giacché inizio la lettera col sostantivo «Gentile». Perché, altrimenti, un non ebreo, dovrebbe definire un altro non ebreo col sostantivo “gentile”? Da non ebreo, io non penso di essere un “gentile” fino al momento in cui un ebreo non mi definisce tale. Mentre mi capita spesso di essere gentile nel senso di aggettivo. Potrei anche scrivere l’intera lettera all’insegna del neutro se solo avessi l’energia. Una volta ho scritto un racconto epistolare che usa soltanto aggettivi neutri. Fino alla firma si ignora il genere del mittente. Addirittura, a causa di certe allusioni seminate apposta, chi provasse a indovinarlo, sbaglierebbe.
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Nello scrivere quel racconto, quando non trovo aggettivi neutri forzo le frasi in modo che risultino neutre rispetto al genere del mittente. Devo anche far sì che la forma non ne soffra. Dopo «Gentile», potrei scrivere «amore». Senza virgola fra “gentile” e “amore”, “gentile” torna aggettivo. Il termine “amore” è inflazionato ma garantirebbe ugualmente la neutralità del destinatario. «Gentile amore», però, lascia intendere che stia iniziando un epistolario amoroso. Io, invece, preferisco interloquire a tutto campo, non escluso l’amoroso. Lavoro di fantasia. In realtà non ho nessuno a cui scrivere. Per questo mi occupo di Cervellati. E anche del mondo di fantasmi che incontro attraverso di lui. Un mondo più presente di quanto non lasci intendere il suo passato. Presente, passato. Sembra che tra l’uno e l’altro l’unico ordine possibile sia quello cronologico. Un ordine così equivoco da risultare costrittivo. Forse il tempo sta tutto raccolto in se stesso, un grande corpo inerte al cui interno guizzano di continuo date, eventi, opere e nomi attraverso i quali illudersi di connotare il suo territorio. Il tempo, in realtà, è un grande spazio onnicomprensivo ma riottoso verso ogni regola che cerchi di imporgli forme di localizzazione. Grazie a questa aporia, posso stendere in piena libertà sia le note sul ricordo di Cervellati, sia su quanto accade altrove negli anni in cui gioca nel Bologna. In quel periodo, siamo a fine maggio del ’54, grazie all’intercessione di Marcello Venturi presso la responsabile dell’UDI,
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quella che oggi una ristretta cerchia di lettori e critici considera la più grande scrittrice italiana del Novecento, Anna Maria Ortese, viene invitata a partecipare a un viaggio organizzato in Russia. Il gruppo di viaggiatrici, come scrive Luca Clerici in Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese (Mondadori, Milano 2002), «conta quindici donne di diversa estrazione sociale e professionale: oltre alla Ortese, alcune operaie, una casalinga, quattro insegnanti, due avvocati e due medici […]. Un gruppo ideologicamente molto compatto, anche contro la Ortese». Perché le donne dell’UDI ce l’hanno con lei? Durante i giorni del viaggio, rimane un mistero. Solo sul finire, racconta Clerici, la spiegazione arriva da una ragazza russa: «Anna, loro dicono che tu hai scritto un libro contro il comunismo». A proposito di questo libro, in un’intervista del ’96, riportata in Apparizione e visione, la Ortese dice: Era Il mare non bagna Napoli, non era contro il comunismo, raccontava la città di Napoli… Non me le scorderò mai quelle donne; due di loro, è vero, decisero di venirmi a parlare a un certo punto. Ma le altre no. Tornai dalla Russia con dei dubbi sulla natura femminile, da allora le donne mi sono piaciute di meno.
Non è il primo incidente che costella di affanni la sua esistenza. La Ortese è dotata di un’acuta sensibilità che la fa vivere come se fosse sempre esposta, senza protezione. Niente matrimonio, niente figli, niente amore carnale. Innamoramenti, sì, ma nella fantasia, nella condivisione di una irrinunciabile etica del quotidiano. Le energie sono per la scrittura. Solo così percepisce il mondo. Solo così se ne difende. Un paio di settimane prima che la Ortese parta per la Russia – andrà da sola, affrontando un viaggio molto movimentato
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di tre giorni e tre notti in treno, perché non sopporta volare –, a Roma, esattamente il 16 maggio 1954 alle ore 16, allo Stadio Olimpico, per la XXXII giornata del campionato di serie A si incontrano Roma e Bologna. Prima della partita, il presidente della Roma, Sacerdoti, vuole festeggiare le molte attività sportive della Società con una sfilata di trecento atleti appartenenti alle sezioni calcio, ciclismo, baseball, hockey, pallacanestro e nuoto. Pioggia e maltempo compromettono la sfilata. Quanto alla partita, la Roma ne esce sconfitta 3-1. Apre le marcature il Bologna al 12° con Randon, raddoppia al 16° Pivatelli, e al 53° Cervellati firma il 3-0. Al 55° Bettini segna il gol della bandiera. Non è tutto, e si fosse trattato solo di questo, a parte il gol di Cervellati, non ci sarebbe niente di memorabile. Invece accade altro: al 31° del primo tempo un raccattapalle proveniente dalla Curva Sud attraversa di corsa il terreno di gioco e cerca di colpire l’arbitro Campanati, colpevole di non aver fischiato il rigore per un fallo di mano nell’area del Bologna. A quel punto il Bologna conduce per 2-0 e il rigore non visto poteva cambiare la partita. Il ragazzo viene bloccato e, stando alle cronache dei giornali, selvaggiamente preso a pugni da un dirigente della Roma prima di essere portato via. Non finisce lì. Infatti, ci sono delle conseguenze. Ne do notizia prendendola dalla didascalia sotto la foto, pubblicata sul sito “asromaultras.org”, che mostra il giovane invasore circondato di poliziotti, a testa bassa, vinto: «Peppe De Pilato invase il campo per protestare contro l’arbitro. Il presidente Sacerdoti lo assunse nella Roma come magazziniere per ricompensare la sua fede giallorossa». Nel 1954 Achille Lauro, oltre a essere presidente del Napoli, è sindaco della città. I suoi metodi elettorali non sono un mi-
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stero: pacchi di pasta in regalo agli elettori, scarpe destre in attesa delle sinistre, metà banconota da mille lire e l’altra metà a condizione che… Rimane sindaco dal ’52 al ’58. La cementificazione selvaggia parte da lì e continua coi commissari prefettizi. Il mare non bagna Napoli, di Anna Maria Ortese, esce nel 1953 e per via dell’ultimo racconto, Il silenzio della ragione, suscita le polemiche che sappiamo. Incluso l’ostracismo nei confronti della scrittrice che è un po’ il baricentro delle difficoltà incontrate nei successivi quarantacinque anni di vita. Molti lettori forti, che potrebbero sostenerla, le girano le spalle. Le fanno scontare il rigore, il non indulgere all’intrattenimento distrattivo che vena, allora, buona parte della letteratura che conta. Sarà così anche dopo. È così tuttora. Alla Ortese non si perdona il rigore, il non aver ceduto alle sirene dell’intrattenimento. Cervellati non ha letto il libro della Ortese. Non è nemmeno a conoscenza delle manovre elettorali attuate dai monarchici di Lauro. Forse non sa che, in occasione del referendum per la scelta tra Monarchia e Repubblica, a Napoli ci sono state più di novecentomila preferenze per la Monarchia contro le duecentomila e passa per la Repubblica. Per quel tanto di aria del tempo respirata da piccolo, sono sicuro che se qualcuno avesse raccontato a Cervellati la storia delle scarpe destre e delle mezze banconote da mille lire, lui si sarebbe stupito. Seppure timidamente, poi, avrebbe fatto un’osservazione del genere: “Ma scusa, veh, quanti voti avranno comprato, in quel modo, mille, duemila? E come piffero hanno fatto a registrare a chi avevano dato le scarpe destre così da sapere con certezza
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a chi dovessero andare le sinistre dello stesso numero, anche ammettendo che il modello fosse unico? O, nel caso delle banconote, dove i numeri di serie su lato destro e sinistro devono corrispondere, come dare le seconde metà giuste a mille, duemila persone senza sbagliarsi?”. Fortuna che Cervellati non l’ha rivolta a me una domanda del genere. Sarei stato in difficoltà a rispondere. Anzi, avrei fatto spallucce, e basta. Io non capivo neanche perché i nonni di Testaccio, nell’ascol tare alla radio i risultati elettorali, tirassero un respiro di sollievo alla notizia che aveva vinto la Democrazia Cristiana. Non credo che c’entrasse la religione, perché delle sorelle e dei fratelli della nonna, che abitavano tutti insieme in una grande casa a Trastevere, si diceva che già da sotto il fascismo fossero repubblicani e mangiapreti. In quella casa uno zio si chiamava Goffredo e gli usciva sempre il sangue dal naso. Era per colpa di certe vene. Un altro si chiamava Alessandro e faceva il cappellaio. Una si chiamava Natalina e lavorava all’Ufficio di Igiene. Zia Ida non era sposata e doveva portare sempre le calze elastiche per via di certe vene, diverse da quelle dello zio Goffredo. Zia Giuditta era la moglie di uno zio che stava sempre chiuso in una camera in fondo al corridoio e ci stava da così tanto che avevo dimenticato il suo nome. Tutti bisbigliavano, parlando di lui. Misteri di famiglia. Malattie che non si potevano nominare. Secondo me i grandi dicevano cose incomprensibili per custodire segreti vergognosi. Compreso quello che riguardava me, raccolto in fasce tra le macerie di un bombardamento, dove erano morti i miei veri genitori, e allevato per pietà da quella coppia che avevo imparato a chiamare papà e mamma. A vedere le cose alla luce di questi dettagli, non si può negare che la vita sia un romanzo.
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Anche nella vita occorre sospendere l’incredulità. Anche nella vita, i personaggi appaiono e spariscono senza dover rendere conto del loro esserci o non esserci. Accade proprio questo nella migliore letteratura. Mi piace pensare che esistano personaggi letterari liberi di apparire e sparire. Mi piace pensare che esistano opere dove il fucile nominato nella prima pagina non sia costretto a sparare prima della fine. La mia stessa incertezza nel capire se nella vita che conduco sono protagonista, deuteragonista o comparsa, non appartiene al cuore di molte trame narrative? E se non al cuore, almeno al fegato, ai reni o ai bronchi e polmoni. Pare pertinente la metafora respiratoria dei bronchi e polmoni perché, come nei romanzi, anche nella vita è proprio il respiro a rivelare la misura delle cose in corso. Sicché – come si dice in buona parte della Toscana, non solo per concludere un discorso ma anche per iniziarlo – vita e opere procedono assieme di pari passo. Sovente, si scambiano consigli, pareri, informazioni. Litigano anche, non è tutto rose e fiori. Può entrarci di mezzo la gelosia, l’invidia, la stanchezza, la sfiducia. Vita e opere non tengono famiglia. Oppure, se la tengono, è anche numerosa e impegnativa. Un po’ com’è stato per Tolstoj. E per Faulkner. Scrivevano come pazzi per sfamare più di una famiglia. Vita e opere hanno entrambe baricentri mobili, a tratti eccessivamente sensibili, e può capitare che le rispettive oscillazioni ne alterino gli equilibri.
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Allora è facile cercare nell’altro un capro espiatorio, sfogarsi attribuendo tutto il male a chi fino a un attimo prima era un compagno di strada. Quelle litigate finiscono in un nulla di fatto. Un nulla loquace e caotico, perché tutti, nella vita e nelle opere, hanno voglia di dire qualcosa. E se non parlano tutti assieme, per cui non si capisce niente, può capitare di sentirne delle belle. “Hai visto che mimetismo? Le parole litigano tra loro. L’ideale per raccontare lo scazzo tra…”. “Lo scazzo? Ma come parli?”. “È mimetismo, non hai capito”. Spesso l’opera vuole elevarsi sulla vita per mostrarsi migliore. E sbaglia. Altrettanto spesso l’opera sfida la vita sul piano della bassezza. E sbaglia. Non è mai una questione di alto o basso. C’entra sempre il respiro. L’opera è il polmone di destra. La vita, quello di sinistra. Perché il sangue porti ossigeno agli organi interni, i due polmoni devono respirare assieme. Così assieme da confondersi, da non essere riconoscibili. Vitaopera, Operavita, Operatività. È consentito russare quando il racconto si fa notturno. Russare è disturbante e il racconto non può non disturbare. È buona cosa affidare il ritmo del respiro a un direttore d’or chestra. In questo caso si sceglie un maestro e se ne segue la lezione. Con un maestro, il rischio è che si legittimino aspettative notevoli.
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A volte, la riuscita capita per caso. E solo per poco tempo. Come al Bologna nella prima giornata del campionato ’77/’78. Allenatore Cervellati, centravanti Gil De Ponti. La partita d’esordio è perfetta. Il Bologna gioca a Milano contro l’Inter e vince 1-0 con gol del neoacquisto De Ponti. Chi è Gil De Ponti? Stando alle sue stesse parole: «un giocatore mediocre, funambolico, estroso ma limitato». In una foto di repertorio è di spalle, il viso girato e sorridente, la maglia numero 9 poggiata sulla schiena e tenuta dal compagno di squadra Viola e da Cervellati con la sua aria anziana da allenatore. De Ponti ha i baffi e un’espressione corsara che hanno spesso i calciatori baffuti (Meroni, Pruzzo, Bergomi, Causio, tanto per citarne alcuni). Ma la sua espressione corsara dice chiaramente che sotto sotto è un bonaccione. I due punti di quella prima giornata, però, sono gli unici. Alla quinta, il Bologna ne ha solo tre, e Cervellati viene esonerato. Arriva Pesaola. È comunque un Calvario anche per el Petisso e il Bologna si salva solo all’ultima giornata battendo a Roma, la Lazio, per 1-0. In quel campionato, De Ponti segna sette gol ed è il bomber della squadra. Il calvario di De Ponti, però, è il cancro al cervello. Glielo diagnosticano, benigno, nel ’95. Sa la verità solo più tardi. Troppo tardi? «L’esame istologico parlava di tumore benigno» – dice in un’intervista alla «Gazzetta dello Sport» – «invece, quattro anni dopo mi hanno dovuto rioperare per un tumore maligno». Un giorno viene a sapere che durante una partita della Terranuovese, dove ha tirato i primi calci importanti, hanno fatto il minuto di silenzio per commemorarlo. La faccenda non gli
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piace. Molla quello che stava facendo e va subito allo stadio di Terranuova Bracciolini per smentire la notizia della morte. La sua presenza in campo risulta abbastanza convincente. L’esame istologico del primo intervento è sbagliato, e dopo quattro anni deve subire un’altra operazione. Non farà più l’allenatore ma vive ancora. Segue il calcio in TV ed è contento se l’Avellino vince. Ha concluso lì la carriera e gli è rimasta nel cuore. Quando gioca nel Cesena, è il ’76. Passeggiare in centro con la pelliccia addosso e un’anatra al guinzaglio gli vale la fame di originale.
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Un tempo ero capace di tacere in molte lingue. Il tedesco era la lingua in cui riuscivo a tacere meglio. Sarà dipeso da quel verbo all’ultimo che fino a quando non veniva pronunciato nessuno sapeva di cosa si stesse parlando. Tacere non è solo stare zitti. È pensare qualcosa, dirla tra sé e sé e poi riavvolgerla perché resti taciuta. È impossibile tacere se non si ha niente da dire. Se non si ha niente da dire si può solo stare zitti. Senza un discorso al quale imporre di restare muto, tacere è impossibile. Adesso so tacere solo in italiano e anche, ma sempre meno, in francese. Una volta che inavvertitamente mi sono ritrovato a tacere in inglese, una madrelingua che passava per strada si è fermata e mi ha guardato storto. È comprensibile. Chissà cos’avevo taciuto. E come, l’avevo taciuto. Questo per dire che viviamo in mezzo al visibile e all’invisibile.
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Il confine tra l’uno e l’altro, se sfiorato nel modo giusto, può assumere una consistenza e un ruolo fondamentali. Le fotografie di Luigi Ghirri hanno aggiunto estensione e autorevolezza alla consistenza di un tale confine. Si sono depositate sul suo breve spazio tanto da dilatarlo, da farne un luogo-guida. Da imitare, ove possibile. Nella primavera del 1983 Luigi Ghirri, assieme a Gianni Leone e a Ezio Velati, lavora al progetto Viaggio in Italia. Ne conseguiranno un libro e una mostra itinerante col contributo anche di altri fotografi. In quello stesso anno, Cesarino Cervellati è chiamato a svolgere il compito più delicato della sua carriera di allenatore: salvare il Bologna, che gioca in B, dal rischio di retrocedere ancora. Il 5 marzo 1983, alla 24° giornata, 5° del girone di ritorno, con una brutta posizione in classifica, Cervellati sostituisce Carosi. Il giorno dopo, il Bologna batte 3-1 il Perugia. Evidentemente il nome autorevole aiuta, galvanizza. Ce la farà a recuperare? La settimana successiva pareggia 1-1 a Roma con la Lazio. Dopo, è solo disastro: perde 1-3 col Milan, 1-0 con la Pistoiese, 0-1 col Como, 2-1 con la Sanbenedettese, batte 1-0 l’Arezzo, pareggia 0-0 col Campobasso, perde 1-0 con la Cavese, pareggia 1-1 col Bari, perde 2-1 col Catania, vince 1-3 col Lecce e 2-1 con la Reggiana. Fatali, nelle ultime due partite, il 4-0 subito dalla Cremonese e il 2-2 col Monza. Il 5 giugno 1983, dopo la sconfitta con la Cremonese, la retrocessione in serie C è certa anche battendo il Monza nell’ultima giornata. Il giorno successivo Cervellati, nero in viso come può esserlo un cinquantatreenne onesto condannato a portare su di sé una colpa non del tutto sua, dice che ha bisogno di allontanarsi un po’ da Bologna, di prendere una boccata d’aria pulita.
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Fa caldo. Chi lo conosce sa quale pena gli pesa sul cuore. Vai, vai, gli dicono a sguardi, vai e torna più sereno, che te lo meriti. Non ha voglia di guidare e prende l’autobus per la stazione delle corriere. La prima che parte è diretta a Ferrara. Compra il biglietto intero ma scende a Pegola. Cammina per le campagne coltivate, lungo filari di pioppi. La calura sbianca un po’ i colori. Più avanti, sul bordo della strada, un uomo con gli occhiali, giovane, non alto, sta fotografando. Non c’è niente, lì, da fotografare, pensa Cervellati, solo campi di grano e mais e una casaccia piccola, disabitata. Gli passa davanti, e l’altro abbassa la macchina fotografica, si asciuga il sudore. Senza smettere di camminare, Cervellati gli fa un mezzo cenno di saluto e va oltre. La pace del posto comincia a fargli bene. Luigi Ghirri non si aspetta, a quell’ora, un viandante così fuori posto. Non è un agricoltore, non è un turista. Talmente estraneo a tutto, nei modi e negli abiti, che per un attimo è tentato di includerlo nella porzione di mondo che ha deciso di ritrarre. Ma poi abbassa la macchina. Risponde al saluto, increspando appena le labbra. Aspetta che si allontani. Non è il caso che deragli dalla linea immaginaria del suo Viaggio in Italia. Ai margini del campo, guarda davanti a sé. Punta di nuovo la macchina fotografica. Il mondo è in posa, non vuole farlo aspettare. Io non so se l’ho visto davvero, tutto questo. Se l’avessi fantasticato, non ci sarebbe da stupirsi del lieto fine. Per le mie fantasie, il mondo è tutto una bontà e un godimento di coincidenze favorevoli. Io sento di dover dire ogni volta alle mie fantasie che le cose non stanno così.
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Guardate il male, dico loro, guardatelo, perché è il solo modo per impararlo. Per farmi contento dicono sì, sì, ma tanto lo so che poi non smettono di ruminare il solito e unico bolo che amano: il lieto fine. Va tutto bene, come dicono nei film americani ogni volta che peggio non si potrebbe. Va tutto bene. La presenza contemporanea di Bologna, Lazio e Milan nel campionato di serie B del 1982/’83 continua a colpirmi per quanto eccezionale, in rapporto a oggi. Erano tempi, quelli, in cui per me il calcio stava abbastanza in secondo piano. Il Milan, oltre che nel 1982/’83, era in serie B anche nel campionato 1980/’81. La Lazio stava in B nel 1980/’81, nel 1981/’82, nel 1982/’83, nel 1985/’86, nel 1986/’87, nel 1987/’88. Pare chiaro che la sottolineatura dell’ignominioso periodo biancoceleste debba molto al mio essere romanista. Rimestare nel tempo suscita odori simili a quelli dei lontani ritorni dalle vacanze estive. In casa, la penombra degli avvolgibili abbassati scodinzola e guaisce di gioia nel vedermi fare luce su cose mai davvero abbandonate perché mie. L’emozione di aprire il cassetto della scrivania per ritrovare quello che vi ho lasciato: la penna, i pastelli Giotto, il quaderno nuovo, l’album dei francobolli, le biglie di vetro con l’interno variegato, i doppioni delle figurine e il gonfiore dell’album quasi pieno. Il mio Capodanno, in quei lontani “allora”, non scocca alla mezzanotte del 31 dicembre, ma nel quasi ottobre del ritorno a Roma. A breve, la scuola, i compagni, una bianca asta in
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più nel numero romano cucito sul grembiule un po’ sotto la spalla sinistra. Arrivati in quarta, bisogna scucire due aste delle tre verticali affiancate e ricucirle a forma di V maiuscola accanto alla sola verticale rimasta. In quinta, anche la terza asta viene scucita e resta solo la V maiuscola. L’ultima del ciclo. “V come vittoria”, dice qualcuno, suscitando moderati entusiasmi. “V come viva”, ribatte un altro senza coinvolgere di più. Naturalmente c’è sempre chi taglia la testa al toro e accontenta tutti: “V come vaffanculo”. E lì scattano gli applausi a scena aperta. Oggi si direbbe standing ovation. Sull’etichetta di allora è scritto semplicemente: un casino della madonna. Il tempo degli odori è un apprendistato di cui non si sa nulla, mentre avviene. Lo si scopre da vecchi. Il toccare di allora che quasi crea le cose toccate. I polpastrelli improvvisano un Braille tutto di sensazioni. Colori, materiali, forme. Attraverso le mani imparo il mondo. Per costruire la fionda, taglio il ramo di fico con la biforcazione più adatta: manico robusto e forcina snella. Bene allineati fra loro. Scorteccio il legno; sotto, è chiaro e fresco. Stringo con lo spago la parte superiore della V dopo aver inserito un divaricatore nel mezzo così che, passato sulla fiamma, il legno seccando mantenga la forma di una larga U. Fisso due capi degli elastici a quadrelli sulle sommità della U e gli altri due capi alle asole della pezzola di cuoio. Ogni fionda finita è la migliore. Per provarla, cerco il sasso giusto; deve fare un lieve sibilo mentre sfreccia nella forcella. Quando l’uccello preso di mira crede di aver sentito un rumore, è già troppo tardi.
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Non caccio per bisogno. A meno che la crudeltà non rientri nella categoria. È solo un residuo dell’antico dominio sulla natura. Tempo un paio d’anni, e so quanto sia inutile. A quel punto, sto già nella folla dei dominati a sognare impossibili evasioni. Bisogna credere, comunque, che la libertà sia a portata di mano. Guai a sapere allora come stanno davvero le cose. Occorre che il fisico s’irrobustisca all’ombra di una certezza. Che i progetti sposino l’idea della riuscita. Più tardi, molto più tardi, lentamente tutto sarà visto e riordinato in modo diverso. A quel punto, una longevità che sappia mantenersi lucida mette al mondo opere degne di un dio. L’estroversione può anche essere tentata dalla pacatezza. In quel caso, l’estroverso potrebbe dire cose sorprendenti: “Gesticolare? Oh, certo, il teatro del corpo, le mani protagoniste. Perché no? Ma, ecco, mi piacerebbe anche, di tanto in tanto, non sempre, per carità, una composta quiete, un quasi fermo, un’eleganza da porgere con meno di minimi cenni. Solo l’intenzione con la sua energia. Come se una luce appena ariosa accadesse dove il moto rinuncia e lascia che la volontà si mostri chiara, perfetta nella scelta di non agire in quel momento”. Sorrido al pensiero di mettere certe parole in bocca a un estroverso viscerale come il principe Raimondo Lanza di Trabia. In quale situazione potrebbe mai pronunciarle? Lo chiamano l’uomo che inventò il calcio-mercato. Tratta i suoi affari immerso nella vasca da bagno dell’Hotel Gallia, a Milano. Un bricco di caffè da una parte e un grande crème caramel dall’altra. Riceve così i presidenti delle squadre, discute con loro, avvia trattative. Poi, il 30 novembre del ’54, quelle due camere prese all’Hotel Eden, in via Ludovisi, una per lui, una per suo fratello Galvano.
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Motivo del soggiorno, una visita medica. Raimondo sta prendendo iniziative importanti circa il patrimonio di famiglia, e la famiglia vuole sincerarsi del suo equilibrio psichico. La figlia Raimonda e la nipote Ottavia scrivono un libro in cui confutano la versione ufficiale del suicidio. Mi ero impegnato a non tornare su di lui, e tanto meno sulla sua morte. Non ho resistito. È comprensibile. Sembra che la sua vita sia filtrata da un caleidoscopio. Così inverosimile, sfaccettata, franta. E breve. Con un finale che più aperto non si potrebbe. Un mistero inferiore ad altri. Tutti roteanti attorno alla stella fissa del potere-ombra. Leggerò il libro scritto dalla figlia e dalla nipote. Loro sono autorizzate a sospettare. Io lo faccio solo per le incongruenze della versione ufficiale. Mi si è di nuovo bucato il calzino. Sull’alluce. Domani, ago e filo prima che il buco si allarghi troppo. Sono gambaletti elasticizzati. Una flebite, otto anni fa, e ho chiuso coi calzini normali. Soltanto gambaletti elasticizzati. Ne ho di grigi, di blu, di neri. Si somigliano molto. Il loro motto è: morte all’eleganza. Consapevole, come confermato dalla dottoressa di base, che la stretta dell’elastico sotto il ginocchio non fa bene alla circolazione. Giusti, dice lei, sarebbero solo i collant. Stringono alla vita, quindi a monte delle safene. Ma non riesco a immaginarmi coi collant. Non so neanche se sono aperti all’altezza della bottega. Immagino quanto possano costare. Di gambaletti elastici, ne ho due paia di riserva, ma anche lì ho già dovuto fare piccoli rammendi. Non mi capacito che le cose si consumino. Che ci siano attriti mentre magari faccio tutt’altro convinto di non correre
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pericoli. L’attrito è ostile. Per la mia svagatezza, è sempre a tradimento I piedi sono un capitolo a parte. Li assimilo alle più lontane province dell’Impero. Perdere il contatto con essi prelude al declino. Di fatto, sono la mia prova del nove. Finché saprò occuparmene da solo, buon segno. Quando dovrò ricorrere al podologo, anche solo per tagliare le unghie, beh. La luce del giorno va e viene. Nuvole a strati. In pochi secondi, dall’azzurro si passa al grigio fitto. Poi alla pioggia. Neanche la pioggia è durevole. Non faccio in tempo a prevedere una giornata di bevande calde e raccoglimento che subito tornano luce e azzurro. Bisognerebbe abbassare gli avvolgibili e accendere le lampade. Leggere proprio quel libro. Riflettere. Scrivere senza animosità. Anche la strada sbagliata può essere un’occasione. Scrivo queste note che so impubblicabili. Non c’è la storia, non ci sono i personaggi. Con chi s’identifica il lettore? Non basta Cervellati, neanche se lo racconto in un momento di intimità con se stesso, mentre fa un sopralluogo attorno al campo dello Stadio comunale dopo l’allenamento. Con quei pensieri da trentenne che soltanto la solitudine rende possibili. Pensieri bivio, uno dietro l’altro, tutti che implicano scelte così profonde da non consentire ritorni. Seguendo il percorso giusto ne può uscire. Altrimenti, gli occhi non mettono più a fuoco e lo sguardo si perde nel buio dentro. Non basta il principe Raimondo Lanza di Trabia, con le sue ombre e luci. Fascismo, guerra, liberazione. Una biografia che
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scorre ora visibile e ora nascosta come un fiume carsico. I ruoli d’intelligence durante la guerra di Spagna, i rapporti prima con Galeazzo Ciano e poi coi comandi anglo-americani, le note attrici che frequenta, un suicidio che stona con la grande voglia di vivere. Non basto io. Il vizio di mettere nero su bianco. La varietà delle digressioni attorno al pallido sole di Cervellati. Questo slalom da una parte e dall’altra senza mai lo slancio di un percorso lineare che però mi porterebbe lontano dal cuore del racconto. Invento, ma potrei anche fare autofiction. Forse non va bene che la filigrana di tutte le divagazioni sia la vecchiaia. L’ho già scritto e pubblicato, un libro sull’invecchiare. Quello però era diverso. Lì raccontavo la vecchiaia che si strappa un po’ alla volta dai fasti della gioventù. Quell’invecchiare avveniva con lo sguardo rivolto all’indietro. Come un navigante che, da poppa, guardasse allontanarsi la costa. La vecchiaia dissimulata ora sotto le parole di Cervellati, invece, guarda avanti, dove sta la morte. I tempi di arrivo sono sconosciuti. La direzione ha un che di magnetico. Il viaggio presume la messa in atto di strategie. I molti bagagli caricati alla partenza diventano sempre meno. Per alleggerire, ogni tanto ne butto qualcuno. Ma la metafora marinara non mi soddisfa. Meglio una strada. La solita, o una nuova. E allora vado, nello spirito dell’esergo a Breve lettera del lungo addio (Feltrinelli, Milano 1971) che Peter Handke ha preso da Anton Reiser, di Karl Philipp Moritz: E una volta, mentre uscivano fuori porta in un mattino caldo ma nuvoloso, Iffland disse che era un tempo buono per andar
78 via – e il tempo era davvero da viaggio, il cielo così basso sopra la terra, gli oggetti intorno così bui, come se l’attenzione si dovesse fissare soltanto sulla strada da percorrere.
Vado come per andare da un’altra parte, e invece… Di buono, c’è che s’interrompe l’equivoco. Di cattivo, che gli occhiali sono sporchi, e confondo i dettagli.
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Nel primo capitolo mi sono domandato come potessero sapere, i genitori di Cervellati, che quel figlio, da adulto, sarebbe rimasto bassino, tanto da dargli un nome al diminutivo. Domanda ingenua. Se magari anche i genitori e i nonni erano bassini, si capisce come potessero prevedere che il diminutivo non gli sarebbe andato stretto. Chiamandolo Cesarino lo hanno sottratto al calendario dei santi. Infatti, esistono san Cesare e san Cesario, ma non esiste san Cesarino. È ipotizzabile che, nel 1930, dietro una tale scelta ci sia, se non proprio l’ateismo, almeno una distanza dalla religione di Stato. I Patti Lateranensi portano la firma dell’anno prima e l’Emilia è pur sempre l’Emilia. Col rischio di essere smentito da chi invece sa, provo a vedere Cervellati come il figlio di due piccoli comunisti di Baricella, provincia di Bologna. Anche il diminutivo di Baricella potrebbe rendere la nascita di Cervellati simile all’inizio di quelle favole dove ci sono personaggi piccoli piccoli ai quali capitano cose straordinarie.
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Io non sono piccolo, anche se dal metro e ottanta della visita di leva ho già perso un paio di centimetri. Un giorno di dieci anni fa, vado in autobus dal medico di base di mia madre per delle ricette che lei non può ritirare di persona, e mi capita qualcosa che potrebbe somigliare allo straordinario di una favola. È la prima volta che utilizzo il 779, e già la sola vista dell’autobus in arrivo, con la scritta in maiuscolo e luminosa GADDA, mi dà un brivido. Il percorso è una continua sorpresa per come alterna fermate grazie alle quali ogni vettura di quella linea meriterebbe in dote una piccola biblioteca. Imboccata via Pavese, l’autobus ferma a Vittorini, Ungaretti, Govoni e Scotellaro. In via Marinetti ferma a Joyce, Malaparte, Rebora, Melville, Lorca e Baudelaire. Infine, su via Gadda, le fermate hanno nome Montale e Guido da Verona. Avrebbero potuto aggiungere Elsa Morante, la cui piazza omonima l’autobus tocca di lì a poco; e magari includere anche Anna Maria Ortese, così da sottrarla all’esilio di Castel Fusano. Diversamente da quanto annuncia la fermata, da Google Maps so che via Montale non sta nel quartiere ma dall’altra parte di Roma. Perché relegare Montale in tanta malora? Va bene la solitudine dei grandi, ma sbatterlo tutto solo tra i Prati Fiscali e la Borgata Fidene non è rispettoso. Grazie a Google Maps e a Wikipedia scopro che via Montale unisce via Lajatico (piccolo comune in provincia di Pisa) a via don Giustino Maria Russolillo (prete napoletano morto nel 1955, dichiarato “venerabile” da Giovanni Paolo II nel 1997
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e “beato” da Benedetto XVI nel 2011, fondatore, fra l’altro, delle “Apostole della santificazione universale”). A nord della viuzza, un reticolo di strade tutte sul tema della Toscana centro-orientale (Casentino, Pratomagno e dintorni); a sud, spiccano i nomi di Tina Pica, Enrico Viarisio, Mario del Monaco, Stefano Satta Flores, Pampanini (non Silvana, ma Rosetta, cantante lirica morta nel 1977). Che senso hanno quelle vicinanze? Forse qualche studioso di Montale può confortarmi con notizie sulla sua vita che spieghino la collocazione. Magari Montale andava in vacanza a Lajatico, in provincia di Pisa. Oppure, il suo consigliere spirituale era don Giustino Maria Russolillo. In rete, però, non trovo niente in proposito. Dovrebbero solo rimediare; di modo che, come è possibile percorrere via Scotellaro per chi scende alla fermata Scotellaro, così chi scende alla fermata Montale possa trovare la via omonima. E magari, ivi passeggiando, leggere o ripetere a memoria qualche sua poesia. Addirittura, mi spingo a sceglierne una che un po’ lo rappresenti. È da matti accogliere tutto Montale in una sola poesia, però me lo concedo. Non dico ora di quale si tratta, ma in appendice la riporto per intero, con dei piccoli suggerimenti di lettura che avrei rivolto allo stesso Montale, pensate un po’, se le circostanze lo avessero consentito. Infatti, quando in una registrazione visibile su YouTube Montale legge proprio quella poesia, lega tra loro alcuni versi come non si dovrebbe. Passi che lo faccia un attore, abituato a servirsi del testo per infiorettare l’interpretazione, ma l’autore sa che la lettura deve essere al servizio del testo e non può disconoscere la pausa di fine verso solo per favorire il significato; anche perché il si-
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gnificato della poesia sta proprio nel rendere udibile la cesura tra un verso e l’altro, sta nello scarto del senso che solo quella breve sospensione della voce e il diverso ritmo che ne consegue rendono possibile. Queste note ispirate a Cesarino Cervellati, cuore del racconto anche quando le digressioni mi portano lontano da lui, non sono il frutto di rose e fiori. Io cerco di farlo credere attraverso le lepidezze che spargo qua e là per alleggerire. Di ostacoli ne incontro spesso, basta che mi metta ad ascoltare il racconto del presente. La sua impudica autobiografia. A ogni ostacolo, devo dare peso alle parole, stabilirne la tara, fare in modo che solo le più adatte trovino posto in quel laico presepe vivente che coincide con l’immagine della realtà. Naturalmente, è un’immagine di comodo. Non credo che esista davvero una realtà definibile con immagini precise. Me ne costruisco ogni tanto una per dare spazio alle fantasie. La casa mentale che accoglie i miei laici presepi la esigo sempre molto grande. Le monocamere mentali non le vedo bene. Ci finisco dentro e mi impigrisco, resto indietro. Quando resto indietro, so solo di essere superato dalle cose, ma non posso sapere da cosa lo sono. Nell’incertezza, evito di compensare l’ignoranza affidandomi all’immaginazione. Meglio l’irrealtà, piuttosto che una realtà immaginata. Nella prospettiva di ritrovarmi in una realtà di metamorfosi, salterei lo scarafaggio di Gregor Samsa per atterrare su Pinocchio che sento più vicino. Lì, il grillo parlante si limita a dire cose vere ma scomode. L’eccezionale sta nel fatto che parla sul filo di un’etica domi-
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nante e non è abbastanza saggio da capire che sarà vittima delle sue verità. Pinocchio rappresenta una metamorfosi unica, caratterizzata da un procedere in direzione contraria rispetto al modello mitologico. Infatti, Pinocchio nasce come legno povero, «da catasta», dice Collodi, e dopo molte peripezie, inclusa la presenza determinante di una olimpica Fata Turchina, si trasforma in bambino. L’opposto di quanto capita a Dafne che, per sfuggire alle brame di Apollo, invece, da ninfa si trasforma in legno di alloro. Per sopportare una metamorfosi occorre l’abitudine alla lentezza. Provo con la tecnica del grillo taciturno. Non rinuncio a pensare, ma i pensieri li tengo per me. Procedo in silenzio. Non all’andatura eroica di chi batte in solitudine sentieri ingrati perché seguire il proprio demone è l’unica obbedienza possibile. Quella tempra non ce l’ho ed è inutile che cerchi di darmela. Semplicemente vado di improvvisazione in improvvisazione, convinto che forse sia questo, per me, il solo modo di progettare. Stando a quanto riporta «la Repubblica» di Bologna, il 16 aprile 2018, ai funerali di Cervellati, nella chiesa di Borgonuovo, a Pontecchio Marconi, ci sono un centinaio di persone. «Cesarino avrebbe meritato molta più gente», si rammarica il figlio dell’uomo che scoprì Cervellati e lo segnalò al Bologna, dopo averlo visto tirare i primi calci nel «Tommasini, la squadra della ditta in cui lavorava da ragazzino». Cesarino, ragazzino, Tommasini. Un profluvio di diminutivi, e anche notizie su di lui che vengono fuori un po’ alla volta. «In cui lavorava da ragazzino» è interessante.
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L’articolo in questione, a firma di Simone Monari, soddisfa anche domande alle quali non avevo trovato risposta: «Oltre ai familiari, la moglie Mariarosa (con cui era sposato da sessantacinque anni) e i due figli Stefano e Andrea…». E io che lo credevo sposato col suo lavoro. Cervellati muore a ottantotto anni, dopo sessantacinque di matrimonio. Dunque, si sposa a ventitré anni, nel 1953, quando già da cinque gioca nel Bologna. Dopo aver lavorato in fabbrica da ragazzino. Per un ritrattista come me, che ama i particolari, è bello poter aggiungere tratti determinanti nel definire una sembianza. Prima di mettere via i colori, do un’ultima pennellata attraverso le parole commosse con cui Eraldo Pecci, presente ai funerali, ricorda Cervellati allenatore: «Lui era a capo del settore giovanile, mi viene in mente una partita in cui diedi un gran calcione a un avversario, qualche giorno dopo mi chiamò da parte e mi disse che se l’avessi rifatto m’avrebbe rispedito a casa in treno, perché quel ragazzo che avevo scalciato aveva la mia stessa passione, i miei stessi sogni e che andava battuto sul campo, se ne ero capace, senza calci, senza scorciatoie». Che anno, il 1953, in cui Cesarino e Mariarosa coronano il loro sogno d’amore! Per stare in ambito calcistico, il 17 maggio s’inaugura lo Stadio Olimpico con Italia-Ungheria; e il 13 dicembre la Rai, col commento di Nicolò Carosio, trasmette per la prima volta in diretta il secondo tempo di una partita, Italia-Cecoslovacchia. Ma il calcio è niente al confronto di altri eventi: la morte di Stalin, il 6 marzo (gli succederà Chruščëv, il 7 settembre); l’approvazione della “Legge truffa” il 31 marzo (sarà abrogata, l’anno dopo, senza mai produrre effetti perché la coalizione DC, PSDI, PLI e PRI non raggiunge il 50% alle elezioni di giugno); il rinvenimento del corpo di Wilma Montesi, sulla spiaggia di Torvaianica, l’11 aprile (il delitto rimarrà impuni-
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to); l’esilio di Charlie Chaplin dagli Stati Uniti, il 17 aprile, in risposta alle accuse maccartiste di filocomunismo (vi tornerà solo nel ’72 per ritirare l’Oscar alla carriera); la descrizione sulla rivista «Nature», il 25 aprile, della doppia elica del DNA; la conquista dell’Everest il 29 maggio; l’incoronamento di Elisabetta II d’Inghilterra come Regina di Gran Bretagna, il 2 giugno; l’esecuzione nel penitenziario di Sing Sing, il 19 giugno, dei coniugi Rosenberg accusati di spionaggio; l’incisione del primo singolo di Elvis Presley, il 18 luglio; l’assalto non riuscito di Fidel Castro alla Moncada, il 26 luglio, che segna l’inizio della rivoluzione cubana; il titolo mondiale di ciclismo su strada conquistato, il 30 agosto, da Fausto Coppi… Mi fermo e mi scuso. Questo è il tempo secondo Wikipedia, ovvero un giocattolo per minare alle fondamenta la possibilità di farne esperienza qui e ora. La pratica del qui e ora ha a che vedere con quell’importante contenzioso che è la conoscenza di sé; l’ambito dove ho accumulato i debiti più consistenti. Se lo stato del mio conoscermi fosse rappresentabile da una cartografia, su molte aree della mappa dovrebbe essere scritto hic sunt leones. Non si tratta di territori inesplorati. Riguarda, piuttosto, l’esplorato a occhi chiusi, l’aver preferito il sogno del luogo al luogo reale. Riguarda l’aver scelto il pericolo di cadere da cieco anziché affrontare a occhi aperti la responsabilità di spingermi fino in fondo a qualcosa. Per questo motivo, passare dove sono già stato non mi fa quasi mai sentire nel mezzo di una ripetizione. Seguo, come posso, i tempi naturali, il loro essere tanto minimi da risultare segreti. I cambiamenti sembrano ogni volta subitanei, e invece sono il frutto di movimenti così minimi da rendersi impercettibili.
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Poi un processo si completa e solo allora, finalmente, lo vedo. Avrei avuto la possibilità di seguirlo passo passo, quell’evolversi, ma di fronte al piccolo, al poco, al graduale, mi distraggo e lo perdo di vista. La sorpresa della scoperta compensa in parte la rinuncia a quell’assidua presenza che è la contemplazione. Così, tragedie irrisolvibili, solo perché illuminate in modo diverso, trovano aggiustamento; cieli idilliaci si coprono di nuvole impreviste, il riso aperto si rivela un ghigno, i denti del mostro diventano baci. Tutti questi cambiamenti sono sopportabili perché, dopo lo sconcerto, insegnano qualcosa. Ecco cos’è per me conoscere: rischio, scombussolamento, e non, invece, essere confermato in quanto già credevo di sapere. Ecco perché il mio apprendere sfocia sempre in apprensione. La classe a cui appartengo è operaia nel senso dell’ape, del lavorare e vivere fino alla fine. Per sentirmi veramente a posto, dovrei dare al mondo qualcosa in più di quanto nel complesso gli prendo. Qualunque siano le ragioni del prendere e del dare. È una forma di ecologia. Sono tentato dal raccontare questo tempo difficile che provo ad alleggerire con divagazioni su Cervellati, ma non ci riesco. Anzi, se mi allontano troppo da Cesarino, ogni divagazione rischia di apparire aliena. Sono due anni che me ne sto a maniche rimboccate a svuotare il mare dell’ansia con una conchiglia di buonsenso. Poiché non dispongo di energie inesauribili, per aiutarmi, a volte, ricorro a esercizi. Non li prendo dalla rete, ci mancherebbe. Li invento. Naturalmente, da scrittore, li concepisco apposta per scrittori.
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Il mio preferito è un vero e proprio decalogo con tanto di postilla e prescrive queste semplici cose: 1) Prendi una giornata non proprio delle migliori e guardala negli occhi. 2) Invece di mugugnare, entraci come se volessi fare una visita guidata al disagio. 3) Quando ti sembra di girare a vuoto fra entusiasmi e sconforto, prendi un amore perso e infilalo a forza nei pensieri. 4) Per vincere il dispiacere, inizia un romanzo sulla perdita dell’amore. 5) Dopo un incipit soddisfacente, accetta di non riuscire ad aggiungere altro. 6) Allora inizia un nuovo romanzo sull’impossibilità di scrivere romanzi sugli amori persi. 7) Quando anche questo entusiasmo si sarà esaurito, pensa a un romanzo di soli incipit e mettine insieme diversi. 8) Con la vaga sensazione che sia già stato fatto, dai loro un ordine narrativo. 9) Rileggi attentamente il tutto e non sottovalutare l’ipotesi che quel ripetersi di inizi somigli abbastanza alla tua vita. 10) A questo punto opta per il romanzo autobiografico. POSTILLA – Per evitare il risentimento di chi si dovesse rico-
noscere in ruoli poco lusinghieri, astieniti dal descrivere fisicamente i personaggi femminili. Astieniti anche dal descriverli psicologicamente. Ritraili da fermi, senza che nulla lasci intendere ciò che ha preceduto lo stato in luogo e tanto meno ciò che seguirà. Come fossero tableau vivant. A chi ti accusasse di scarsa definizione, rispondi che l’opacità è negli occhi del protagonista. Sacrifichi lui, salvi te e lasci libero il lettore di vedere quello che vuole.
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Torniamo al nostro principe, che non è Giannini, come potrebbe suggerire l’onomastica giallorossa, ma Raimondo Lanza di Trabia. Saltiamo il resto della sua vita, perché molto è stato detto, e limitiamoci a due episodi, entrambi casi-limite. Il primo riguarda il calcio, ma agli antipodi di come lo vive Cervellati. Il secondo attiene alla morte che è, sì, destino comune, ma non quando assume i tratti che hanno reso misteriosa, oltre che prematura, quella del principe. Raimondo Lanza di Trabia diventa presidente del Palermo a inizi ’51, mentre la squadra si trova al primo posto del campionato, e la lascia a giugno del ’52. In quell’epoca la società rosanero appartiene a un gruppo di aristocratici. Il principe si occupa della campagna acquisti. Grazie alla sua competenza in materia, oltre a Helge Bronée porta a Palermo giocatori di valore quali Luigi Fuin, Aredio Gimona, Benigno De Grandi, Carlo Galli, il turco Şükrü Gülesin e Enrique Martegani, argentino. Tra questi, due lasciano un’impronta più sbalzata.
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Il primo è Aredio Gimona, che gioca nel Palermo dal ’49 al ’53. Il dettaglio che lo riguarda accade il 26 febbraio 1950, allo Stadio Nazionale di Roma, davanti ai 32.000 spettatori che assistono a Roma-Palermo. La Roma è allenata da Bernardini; il Palermo, dalla coppia Galli-Viani. La partita è piena di scorrettezze e di clamorose sviste arbitrali. La Roma conduce 2-1 grazie a una doppietta di Arangelovich. Al 42° del secondo tempo, lontano dall’azione di gioco, Gimona sferra, a freddo, un violento calcio sulla gamba destra di Pesaola. Frattura di tibia e perone. Inizialmente, Gimona viene squalificato a vita. Poi, in virtù del perdono concesso da Pesaola, la pena è commutata in sole undici giornate; quelle mancanti alla fine del campionato. Il secondo giocatore che merita un ricordo particolare è l’argentino Enrique Martegani. Per raccontare il dettaglio che lo riguarda, va detto che nel 1953 Raimondo Lanza di Trabia sposa Olga Villi, attrice di grande bellezza e con un curriculum notevole sia nel cinema che nel teatro. Quello stesso anno nasce la loro prima figlia, Venturella. La seconda figlia, Raimonda, nascerà nel ’55 dopo la morte del padre avvenuta in circostanze poco chiare e ufficialmente attribuite a suicidio. Il 26 novembre del 1954, infatti, come abbiamo visto, il principe muore a Roma per la caduta da una finestra dell’Hotel Eden, in via Ludovisi, dove alloggia. Ebbene, poiché il cartellino di Enrique Martegani, l’argentino, non appartiene al Palermo ma personalmente al principe (utilizza il giocatore anche perché si esibisca in palleggi nel corso di feste private) alla sua morte viene ereditato dalla moglie, Olga Villi. Forse sbaglio, ma non credo che nel mondo del calcio, e in nessun altro sport, sia mai stata ereditata la proprietà personale e non societaria di un atleta.
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La superficialità con cui ho condotto finora le ricerche calcistiche, solo per rendere attendibili le mie digressioni su Cervellati, si è scontrata col groviglio di eventi che segna la breve vita del principe Raimondo Lanza di Trabia, e ne è uscita malconcia. La sua morte non è chiara, e non voglio dirne di più. Non sono un dietrologo, ma sento che l’argomento getta un’ombra sconveniente sul mio ricordo di Cervellati. Tanto questo è semplice e piano, quanto l’altro è complicato e ambiguo. Per cui mi libero in modo definitivo del principe aggiungendo solo che la sua tragica morte ha ispirato Domenico Modugno per la canzone L’uomo in Frac, e che è presente in saggi e romanzi: Vestivamo alla marinara di Susanna Agnelli (Mondadori, Milano 1975), Il grande dandy di Marcello Sorgi (Rizzoli, Milano 2011), Il principe irrequieto di Vincenzo Prestigiacomo (Nuova Ipsa, Palermo 2006); Mi toccherà ballare (Feltrinelli, Milano 2014), scritto a quattro mani dalla figlia Raimonda e dalla nipote Ottavia Casagrande, e da ultimo Quando si spense la notte (Feltrinelli, Milano 2018), scritto da Ottavia Casagrande, con la prefazione di Raimonda Lanza di Trabia, in cui viene esplicitamente messa in dubbio la versione ufficiale della morte. Se penso al modo in cui ha preso forma il racconto finora, ho l’impressione di stare cucendo tra loro, con un grande ago da materassaio, tanti teli di canapa grezza come quella usata per i sacchi di una volta. Vorrei fare il nome di Burri, quale padre dei sacchi, ma Burri viene dopo. Prima ci sono i sacchi del carbonaio che porta il carbone nella casa di Testaccio. Poi, i sacchi ripiegati sulla spalla dei facchini che scaricano il ghiaccio dal camioncino refrigerato per le ghiacciaie del vinaio, del lattaio e dell’alimentari. Infine, c’è il sacco del mondezzaio che si occupa della raccolta nel palazzone dove abito dopo Testaccio.
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Indossa grembiule e cappello con visiera floscia, entrambi grigi, e passa non ricordo quante volte a settimana. Sale in ascensore fino al nono piano, poi scende a piedi e rovescia nel sacco il contenuto dei secchi lasciati sul pianerottolo. Nessuno ha il frigorifero e nel suo sacco ci finiscono frattaglie verminose di pollo, interiora e teste di pesce, patate marcite, frutta fradicia, croste di formaggio andate a male, carte oleate unte di burro, salsa di pomodoro inacidita, lardo rancido, marmellate muffite, torsoli di broccolo e di mela, bucce di arancio, cocce di fichi, baccelli di fave e piselli, punte di carciofi, scarti di finocchi, merda di gatto. Nella guerra delle puzze, dipende dal giorno di raccolta. Quella di pesce ha una certa prevalenza soprattutto il venerdì che è vigilia e le regole si seguono. Arrivato al piano terra il mondezzaio, curvo sotto il peso, va fino al camion fermo accanto al marciapiede, passa il sacco al collega che sta sul cassone e si accende una sigaretta in attesa che quello, rovesciato il contenuto, gli ridia il sacco vuoto. Parcheggiare il camion proprio davanti casa non è un problema. Da quelle parti, l’automobile ancora non ce l’ha nessuno. La voglia di guidare, però, è tanta, e si capisce quando arrivano le giostre perché l’autoscontro è sempre pieno. Una volta, un amico di famiglia mi fa fare due giri del palazzo nella sua Topolino Fiat. Un’altra volta vado in gita al Terminillo nella Balilla dello zio che ha un’officina di riparazioni dove mio padre, per arrotondare, tiene la contabilità. Due volte l’anno siedo sullo strapuntino dei taxi che, prima dell’arrivo della 600, ci portano avanti e indietro fra Termini e casa con le valigie per le vacanze. Armato di carta e matita, faccio il contabile agli incroci più trafficati perché si è sparsa la voce che se scrivi i numeri di
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targa di cinquecento Fiat 500 e passi la lista ai Vigili ti danno un sacco di soldi. Devo arrivare a scrivere seicento targhe di Fiat 600 per capire che si tratta di una diceria. La risata del Vigile a cui provo a passare la lista è tanto bruciante quanto chiara. Nessuno sa come staccare la stella piantata sul muso delle Mercedes. Sembra che basti svitarla, invece no. Bisognerebbe aprire il cofano. Senza televisioni e simili, la vita è nella strada. I giochi sono la riproduzione in scala di quello che vediamo fare ai grandi. Al primo posto, per importanza, c’è la bellezza femminile. Avvicinare una femmina non è facile. Per lo più ci accontentiamo di spiarle. Quanto alle esperienze personali, non potendo vantarne nessuna, facciamo di tutto per inventarne. In poco tempo, le scale del palazzo, l’ascensore, le cantine, i lavatoi, tutto diventa teatro di avventure amorose che finiscono sempre nel più glorioso dei modi. Credere al racconto degli altri, anche al più squinternato e inverosimile, è la sola condizione perché gli altri credano al nostro. Nella semplice immediatezza con cui in quei racconti si arriva al sodo, riverbera la tempistica del cinema pornografico più corrivo. Retroattivamente, una tale evidenza ha spinto alcuni osservatori del sociale a definire quella pornografia come espressione infantile dell’erotismo. Penso all’esordio di Cervellati in serie A, nel 1948. Ha solo diciotto anni quando gioca contro la Lazio. Quella domenica il Bologna perde 8-2. Come si sarà sentito, a fine partita, nello spogliatoio?
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Da mite qual è, sono sicuro che Cervellati si addossa un po’ di colpa, anche se non ne ha, e grazie al suo saper stare in ombra tiene nascosto il sacrificio. Non importa che l’allenatore e la squadra sappiano di come quel piccoletto, dopo la partita d’esordio, assuma dentro di sé colpa e pena. Certe cose funzionano per sostanza. Senza bisogno di parlare o di spiegarsi, tutti ne escono inconsapevolmente riconoscenti nei suoi confronti. Almeno un po’. Quanto basta per volerlo ancora in squadra. Ci passerà la vita. Con tutta la delicatezza e il rispetto che l’argomento merita, ricordo che il blog Bologna in diretta, nel necrologio di Cervellati, il 14 aprile 2018, aggiunge un elemento nuovo a quanto già sappiamo. Scrive, infatti, che oltre alla moglie Mariarosa e ai figli Stefano e Andrea, Cesarino lascia anche la nipote Francesca. Se mi è concessa una morale della favola, che rischia di risultare tagliata con l’accetta per quanto si fonda su dati poco attendibili, ricordo che nel 1951 Cervellati manifesta simpatia per una certa Eleana, come risulta dalla dedica autografa sulla sua foto in bianco e nero; quella in vendita su eBay, come abbiamo visto, per 60 euro. Ma in un’altra data, che forse non conoscerò mai, un Cesarino di soli ventitré anni porta all’altare Mariarosa. Avranno due figli, e poi una nipote, e non fatico a credere che Cervellati abbia trattato tutti i suoi cari con una dedizione anche maggiore di quella riservata all’amato Bologna. Sono sentimentale? Forse, anche se mi considero più che altro realistico. È esattamente questo, infatti, lo spirito con cui, nell’ambiente povero ma bello di un tempo, si vivono le faccende umane. Superando un po’ di vergogna, dico che quelli, allora, erano i valori.
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La vergogna, naturalmente, non nasce da quel lontano modo di vivere, ma dalla sufficienza con cui oggi lo etichetto con “quelli, allora, erano i valori”. Questa ammissione è una bugia. Infatti, non provo nessuna vergogna. È gratificante, però, confessare in pubblico la vergogna (guarda che bravo, un uomo che ha il coraggio di ammettere la vergogna). Altrettanto gratificante è confessare di aver mentito (guarda che bravo, ha il coraggio di ammettere la menzogna). Qui, essere uomo non conta. Essere uomo ha un valore in più, se si tratta di piangere e di provare vergogna, requisiti femminili. Ammettere di mentire è unisex. Va da sé che di questo passo, a forza di mostrare come ogni cosa possa mutarsi nel suo contrario, si può sprofondare chissà dove. Infatti, se le cose come sono le faccio diventare specchio di quello che non sono, il loro effettivo non essere, diventato essere per puro riflettersi, si rispecchierà in un altro non essere destinato a dare luogo alla stessa trasformazione che lo ha preceduto, e così via, in un continuo gioco tra essere e non essere che confonde cause ed effetti e al quale neanche Shakespeare sa trovare risposta. A questo livello, più che una mise en abyme, vedo una insulsa perdita di tempo con la quale non è il caso di scherzare. Sarebbe sciocco farlo da giovani. Figuriamoci ora. Ma dietro c’è altro, come si dice spesso. Se accredito il principio che spesso dietro ci sia altro, questo “dietro” lo devo per forza immaginare enorme, tante sono le cose che la sua mole finisce per nascondere.
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Un giorno capisco che il bello del “dietro”, invece, è che dietro non c’è niente. Sembra che in realtà tutto stia davanti, e il bello del davanti è che tutto sta sempre e solo lì. Quando a dieci anni vado coi nonni di Testaccio a fare la spesa al mercato, passiamo ogni volta davanti a Giolitti. Ha sempre la macchina della panna in azione e la porta a vetri spalancata. L’odore si sente a metri di distanza. Impossibile non voltarsi a guardare dentro. Purtroppo, desidero invano perché le pensioni dei nonni sono così all’osso che non prevedono il gelato. Io lo so, non chiedo niente e nonna capisce. Arrivati in piazza, la sua mole bassa e tonda, puntellata immancabilmente al braccio di nonno, si lancia in avanti fendendo l’aria con la veletta del cappello, si fa largo in modo autorevole tra la folla e punta dritta il banco dei formaggi: “Oggi je compramo ’a ricotta a ’sta creatura, che je piace tanto”. È vero. Dopo il gelato e la panna mi piace la ricotta, che costa molto meno. Mi piace anche l’umido della carta quando nonna, con le sue dita grassocce, apre il pacchetto sulla tavola di marmo e sembra quasi che sia sbocciato un fiore bianco. In quelle mani tozze c’è una sapienza capace di spianare grandi sfoglie di pasta all’uovo tirate a mattarello e messe ad asciugare nella stanza in ombra, appese a un bastone tra due spalliere di sedia; capace di arricciare gnocchi dove il rapporto tra farina e patate è perfetto, per cui né risultano gommosi, né si disfano cuocendo; lei è la regina della pasta e patate col battuto di lardo e odori; del riso e indivia; delle polpette di carne in umido; degli involtini alla romana col cui sugo condire tagliatelle o gnocchi. A pranzo, la domenica, non si fanno mancare nulla. Gli altri giorni sono più spartani. La sera, dopo il rosario, la cena
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è sempre una tazza di caffellatte d’orzo con dentro, a pezzi, una ciriola a metà. Mangiamo il pane mollo tirandolo su col cucchiaio da brodo. La mano di nonna è ferma come la mia. Quella di nonno trema che sembra farlo apposta, per cui intorno alla sua tazza è tutto uno sgocciolio di pezzi di pane intrisi di caffellatte. Per rimediare, mentre porta la zuppa alle labbra dischiuse, nonno si abbassa col viso sulla tavola, e dopo aver succhiato rumorosamente nel cucchiaio spalanca la bocca e mangia, col pane e caffellatte, anche il tremore della mano. Le scoregge di nonna, subito dopo cena, odorano di borotalco.
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La pagina “https://it.frwiki.wiki/wiki/Cesarino_Cervellati”, identica come grafica a quella di Wikipedia, a conclusione del paragrafo Carriera da allenatore contiene una notizia non vera. Dice, infatti, che nel 1983 il Bologna in serie B ha chiamato ancora una volta in soccorso Cervellati, «che è riuscito a salvare la squadra dalla retrocessione in serie C». Non è vero, non ce l’ha fatta. La pagina Wikipedia, invece, conclude il paragrafo Allenatore nel modo giusto: «Nel 1983, in serie B, il Bologna gli affidò per l’ultima volta la panchina nel tentativo, che si rivelò inutile, di salvare la squadra dalla retrocessione in serie C». Il rapporto che Cesarino Cervellati ha col Bologna, prima da giocatore e poi da allenatore, è un cerchio che si apre con la sconfitta per 8-2 da parte della Lazio, nel 1948, e si chiude trentacinque anni dopo con la retrocessione in serie C. Lungo l’intero percorso, con alti e bassi, la sua stella non ha cessato un istante di brillare. A volte, leggendo in bagno, uso come segnalibro uno strappo di carta igienica. Tanto per non perdere il segno, poi la sostituisco, mi dico.
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In realtà, spesso quel doppio velo piegato in due rimane fino alla fine. La carta igienica è fatta com’è fatta. Una volta ho provato a scriverci sopra, un disastro. Un’altra volta, l’ho usata al posto dei tovaglioli, e neanche quel semplice stare alla destra del piatto, con sopra cucchiaio e coltello, l’ha salvata dalla riprovazione di qualche commensale schizzinoso. È come se scontasse un lontano peccato a effetto retroattivo. Non è neanche il caso di ragionarci su. Infatti, ne ho già parlato troppo. Prima di chiudere l’argomento, però, non posso non dire che la sto usando come segnalibro per un piccolo gioiello. Schizzo di un infortunato, di Uwe Johnson, ottanta pagine nell’edizione SE del 2006, tradotto da Rossella Rizzo e con uno scritto di Luigi Reitani. Un cuneo di grande prosa che, per la gravità dell’avvenimento ispiratore, ha stravolto la vita di Uwe Johnson tanto da mettere in forse la conclusione della tetralogia I giorni e gli anni (traduzione di Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini, Feltrinelli, Milano 2002, 2005; L’Orma, Roma 2014, 2016) da poco tradotta in Italia. Temo che aver evidenziato il modo infelice con cui si apre e si chiude la carriera di Cervellati nel Bologna possa venire frainteso. Cervellati è innocente sia nel crollo della partita d’esordio e sia nello sprofondare in serie C del congedo. Anzi, in tutte le circostanze, fauste o infauste che siano, lui rimane fedele a quell’idea/dovere di cerchio da chiudere che gli permette di condurre una vita a misura del suo passo interiore. Sul campo, velocità, scatto, finte capaci d’ingannare l’avversario, dribbling ubriacanti, fiuto del gol. Da allenatore, prezioso vice di nomi tutti più grandi di lui, e pronto, però, ad
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assumersi in proprio responsabilità e rischi quando i grandi non riescono. Nel privato, calibra le forze, si rivolge in direzione del possibile e fa quello che c’è da fare, per ottantotto anni. Capisco che la sua mitezza a molti possa aver suggerito l’immagine di una vita nell’ombra. La farei anche mia, l’immagine, non sottintendesse una diminutio che davvero non gli appartiene e non merita. Da dieci giorni, ho ripreso in mano il romanzo La torre, di Uwe Tellkamp, uscito da Bompiani nel 2010, nella traduzione di Francesca Gabelli. Mille e trecento pagine di sguardi inediti nella vita quotidiana della DDR a Dresda, negli anni ’80, con nell’aria i preamboli dell’onda d’urto che cambierà il mondo allo scadere del decennio. Leggere. Se voglio avere molte vite, devo infilarmi in molti interstizi di parole aggregate da altri. Tolgo tempo allo scrivere, ma queste immersioni restituiscono il doppio sotto forma di energia visiva. La vecchiaia è un processo di graduale sprofondamento. L’ener gia visiva, alimentata dalle letture giuste, risolleva il punto di vista, rende più esteso lo sguardo d’insieme. Parlo della vecchiaia ma in realtà è lei che parla di me. Mi fa esporre senza che me ne renda conto. Quanto sa la vecchiaia di me? E quanto del mondo? “Dimmi quello che sai di me e del mondo, cara vecchiaia, io ti ascolto”. “… un pover’uom tu se’…”. “Non mi fare la Carducci. Ci mancano solo le quattro paghe per il lesso”.
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Ora la vecchiaia improvvisa una specie di danza un po’ goffa. Vuoi vedere che cade e si fa male. Del resto, all’età sua… Io ho quasi settantotto anni, ma quanti anni avrà la mia vecchiaia? “Non lo sai, birichino, che non si chiede l’età a una signora?”. Questa mi legge il pensiero. “Non l’ho chiesta a te, me lo domandavo così, tra me e me”. “Se mi seghi una gamba, birichino, e conti i cerchi, scoprirai la mia età”. “Io non ti sego niente (non sarà mica come gli alberi?)”. “Sono una vecchia quercia, birichino, anche se sono sicura che tu m’immagini come un cipresso femmina che a Bolgheri alta e schietta…”. Questa mi legge nel pensiero, e che palle con ’sto birichino. “Ma tu mi leggi nel pensiero, mia vecchiaia? Dimmelo, così mi regolo”. “Macché. Indovino perché sei prevedibile”. In effetti. Se mi chiama ancora birichino, però… È fissata con Carducci… “È stato un grande poeta, checché tu ne dica”. “Insomma”. “Nel 1906 ha vinto il Nobel”. “A volte sbagliano, a Stoccolma”. “Non quell’anno”. Lascio perdere. Ci manca solo che mi metta a questionare con la mia vecchiaia sui Nobel giusti o sbagliati. Leggendo La torre, però, non posso non rimarcare i progressi della medicina russa in rapporto a quella sovietica. Dalla morte di Breznev (1982), infatti, stare ai vertici del potere sovietico logora senza rimedio. Andropov governa due anni e muore. Nel 1984 gli succede Černenko che governa un anno e muore. Nel 1985 è la volta di Gorbačëv che governa
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sei anni e nel 1991, ancora vivo, lascia il ruolo a El’cin il quale governa fino al ’99 allorché si dimette e indica come successore Putin che da allora, rivestendo vari ruoli, governa incontrastato e sano. El’cin muore nel 2007, ed è un’eccezione. La mortalità, che negli anni ’80 funesta i vertici del potere sovietico, nella nuova reggenza russa lascia le stanze del potere e si sposta fra i giornalisti e gli oppositori. Alcuni sono così cagionevoli che muoiono anche all’estero, dove invano si spingono a cercare cure migliori. Forse non è il caso di scherzare con le tragedie. Io non ci scherzo, semmai le tratto in modo superficiale. Però il sasso lo lancio e non ritiro la mano. Ogni tanto vado al cimitero acattolico di Testaccio con un libro, e mi siedo su una panchina, tra gatti socievoli. È più facile che il libro resti chiuso e io mi metta a leggere quello che vedo. Mi piace la Piramide di spalle. Porta San Paolo. Ci sento ancora la Resistenza e l’antifascismo. Porta San Paolo è come l’ingresso di un imbuto dietro il quale c’è il duplice risucchio di via Marmorata e di viale Aventino. Seguo via Marmorata e arrivo a Testaccio, dove sono nato. Via Orazio Antinori è una stradina che va da via Amerigo Vespucci a Lungotevere Testaccio. Non so chi sia Orazio Antinori. L’ho sempre nominato senza sapere chi fosse. Di quante cose conosco solo il nome. Guardo su Wikipedia. Esploratore, tra i più stimati conoscitori del continente africano. A Perugia, dove è nato nel 1811, gli hanno eretto un busto di bronzo in un giardino pubblico (c’è la foto). Fra l’altro, si legge che Orazio Antinori scrisse: «Meglio cento volte la tenda del beduino, meglio il dorso del cammello, meglio la continua lotta e la sublime incertezza dell’indomani… io voglio morire in Africa, libero come la Natura». È morto in Africa, dove è sepolto, nel 1882.
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Con la famiglia lascio Testaccio alla fine degli anni ’40, ma ci torno ancora perché spesso vivo dai nonni paterni, il falegname- bidello e l’operaia alla Manifattura Tabacchi. Loro abitano in via Romolo Gessi, una strada che da un vertice di piazza Santa Maria Liberatrice porta anch’essa al Lungotevere Testaccio. Sarebbe una parallela di via Antinori se una curva del lungotevere non alterasse il parallelismo. Non so neanche chi sia Romolo Gessi. Potrebbe avermene parlato mio nonno. Guardo su Wikipedia. Geografo, esploratore e militare. Nato nel 1831 su una nave diretta a Costantinopoli e morto a Suez nel 1881. Dopo la sua morte il conte Luigi Pennazzi scrive: Gessi è una gloria italiana, ed al suo nome vanno unite le parole umanità e progresso perché per opera sua la tratta e la schiavitù han ricevuto un gran colpo, e lo sanno dire le provincie liberate del Bahr-el-Ghazal, del Mombuttu, del Macraca e del Hofrat-el-Naha, che annualmente fornivano ottantamila schiavi ai Gelabba, onde que’ popoli rammenteranno con riconoscenza il loro (abu) padre che aveva saputo liberarli dai flagelli delle loro famiglie.
Non è mai chiaro dove viviamo, accanto a chi e a cosa viviamo, da quali suggestioni ci lasciamo influenzare durante l’avventura di coscienza e incoscienza chiamata vita. Complice il cuore, l’ape operaia del corpo, che comincia a battere dalla sesta settimana di gravidanza e continua giorno e notte per decenni e decenni fino alla morte. Forse la vita è quella cosa che, da svegli, ci succede nella testa attraverso i sensi e i pensieri. Quella cosa che di notte ci succede nei sogni fino a quando apriamo gli occhi e, se siamo soli, possiamo pensare “e che cazzo”, e se siamo in compagnia possiamo pensare “e che palle”.
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Non sempre lo pensiamo, però capita che la vita si vesta da bastian contrario e ci offra le cose meno adatte al momento; per cui pensiamo “e che cazzo” quando non abbiamo quello che vorremmo, e pensiamo “e che palle” quando quello che abbiamo è come se lo avessimo in sovrappiù. E quando siamo soli e pensiamo “e che cazzo” vorremmo qualcuno vicino; invece, quando siamo in compagnia e pensiamo “e che palle”, magari in quel momento preferiremmo ritrovarci da soli. Mai contenti, sempre lì a volere l’impossibile o a rendere impossibile quello che potremmo avere. Perfetti romantici, come diceva Delfina. Ma di Delfina Vezzoli parlerò nel Congedo. Se lo facessi ora, si prenderebbe tutto lo spazio e addio Cervellati. Francesca Gabelli, traduttrice del romanzo di Uwe Tellkamp La torre, mi ricorda un altro Gabelli, Aristide, al quale è intitolato il carcere minorile di Porta Portese, che quando sto a Testaccio intravedo dalle finestra di casa dei nonni paterni. Wikipedia mi dice, fra tante altre cose, che Aristide Gabelli è considerato il più grande pedagogista italiano della seconda metà dell’Ottocento, e tra i principali promotori del positivismo filosofico in Italia, e che la sua concezione filosofica è affine a quella dell’americano John Dewey. Una volta a settimana, coi nonni, andiamo a trovare le sorelle di nonna che abitano a Trastevere. Traversato ponte Sublicio, passiamo sotto il carcere minorile dalle cui finestre, con sbarre e grate, escono urla di ogni tipo. Impossibile distinguere se di gioco o di dolore. “’O senti che je fanno?”, mi dice nonna alludendo a tremende torture. “Si nun righi dritto, finischi al riformatorio”, minaccia, e poi, occhi al cielo, sospira “sarv’ognuno”, come a lasciare intendere che dipende solo da Dio. Non posso negare che la paura suscitata da quelle urla a qualcosa sia servita.
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C’è sempre altro dietro ogni nuova conoscenza. A proposito dell’Aristide Gabelli, infatti, non sapevo chi avesse iniziato lì la sua carriera di maestro, alla fine della guerra, dopo che altri quattro maestri avevano rifiutato. Alberto Manzi, proprio quello che nel 1960 comincia ad alfabetizzare l’Italia televisiva col suo Non è mai troppo tardi. Il 9 settembre 2007, Michele Smargiassi, nel decennale della morte del maestro Manzi scrive su «la Repubblica» un articolo dal titolo Manzi, maestro a suon di pugni. Però! È stato forse un antesignano di Muccioli? L’opposto, stando al ricordo di Smargiassi, molto lungo e bello, che invito a leggere integralmente su: https://www.centroalbertomanzi. it/wp-content/uploads/2019/01/CentroAlbertoManzi-manzimaestro-a-suon-di-pugni.pdf. Rubo solo il brano che spiega il titolo: […] nel 1946 l’unica cattedra per il giovane Alberto Manzi era la più terribile di Roma, quella del carcere minorile Aristide Gabelli, novanta piccoli guappi tra gli otto e i diciotto, quattro maestri già fuggiti in un mese per disperazione. «All’inizio della prima lezione mi s’avvicina un ragazzo, il boss dei detenuti, e mi dice: tu ti metti lì a leggere il giornale e noi ci godiamo quattro ore di tranquillità. E io: mi spiace ma mi pagano, qualcosa devo insegnarvi. E lui: allora ce la giochiamo, se vinci tu insegni, se vinco io te ne stai zitto e buono. Bene, ce la giochiamo a carte? No, a botte. Eravamo quasi coetanei, ma io uscivo da quattro anni di Marina. Vinsi senza fatica, e salii in cattedra». Qualche mese dopo usciva il primo numero del giornalino del carcere, La tradotta. Di quei novanta, Manzi s’informò, solo due tornarono in carcere da grandi. A pugni e schiaffi contro l’ignoranza che fa schiavi: non era un santino buonista, il maestro Manzi, era un essere umano.
Saltare di palo in frasca è un modo di smarrirsi che può generare occasioni.
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Allontana anche dalla prospettiva del controllo, che è una specie di buio della mente e non porta a buoni risultati. Intanto, perché chi punta al controllo dovrebbe esigerlo totale, e questo è praticamente impossibile. E poi, perché controllare, con la sua vocazione all’utilità spicciola, è un’implicita sfiducia nei confronti della vita; è come se le si dicesse che senza lasciarsi dirigere non ce la farebbe, sarebbe persa o in grave impaccio. Il che in un certo senso è vero, ma al contrario. L’aiuto alla vita glielo diamo fidandoci di lei, anziché provando a metterle il guinzaglio. Glielo diamo rivolgendoci a braccia spalancate a tutto l’inutile di cui si nutre. Invocandolo, addirittura. Io, da un po’, gli parlo, mica mi vergogno. Gli dico: “Inutile – mio sodale – abbracciamoci forte, aiutami a non servire a niente, fammi stare nella meraviglia come un incidente che non turba ma allieta”. L’inutile, spesso, ha forme desiderabili.
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Un’ulteriore notizia su Cervellati, fra le poche reperibili in rete, la trovo nel necrologio, non firmato, uscito su «la Repubblica» di Bologna, il 14 aprile 2018: «Lo chiamavano “Cagaro” per il fisico mingherlino che certo non terrorizzava gli avversari nei contrasti, ma la sua forza erano agilità e dribbling». Chissà quante risate si sono fatti, nell’ambiente, su quel “Cagaro”, e di certo anche Cervellati ne avrà riso. Non perché lo trovasse divertente, che difatti non sembra, ma per non deludere i buontemponi con vocazione alla soperchieria. C’è sempre qualcuno da mettere in mezzo. Sempre una piccola crudeltà da officiare come promemoria di ciò che eravamo, e a memento di ciò che non smetteremo di essere. Nebbia, la notte di Capodanno. Con l’asfalto ricoperto di guazza sembra che abbia piovuto. A Roma la nebbia è un’imbucata. Tipo quelli che s’imbucano ai matrimoni. Parente dello sposo o della sposa? Del prete. Imbucarsi è un’arte. Sembra che il cambio dell’anno abbia approfittato della nebbia per nascondere qualcosa; come se, passandosi il testimone,
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l’anno vecchio avesse detto al nuovo di non farsi illusioni, e se ne fosse andato scuotendo la testa. Fa senso pensarlo, tenuto conto delle fatiche sostenute. Il campionato è un po’ fermo. Diversi giocatori sono po sitivi al Covid. Anche alcuni allenatori. L’emergenza tiene duro. Non sono abituato alla precarietà collettiva. Conosco la mia, ma isolata in un mondo che per lo più funziona alla grande e non si concede soste. Ora che la precarietà riguarda tutti, è un casino. Senza neanche averla scelta, poi, più che un’avventura è una disgrazia. Forse è vero che c’è un tempo per ogni cosa, ma io sto sempre come quando scrivo o prendo la metro: scarpe, pantaloni, camicia, giacchino di pile con la zip. Com’era vestito, prima che sparisse? Scarpe, pantaloni, camicia, giacchino di pile con la zip. Trovatelo, se vi riesce. È più invisibile che se avesse una tuta mimetica. No. È invisibile perché non ha una tuta mimetica. Non ci si nasconde meglio in quei completi a chiazze verdi, marroni, grigie. Ora, con quella roba addosso ti ridono dietro. Look del genere andavano bene quando la guerra avveniva per monti, valli e campagne, e il termine look non era neanche concepibile. O meglio, esisteva ma con tutt’altro scopo. First lesson: “Look, this is a book”. Al liceo, mio fratello grande studia l’inglese. Non gli basta, e la mattina presto segue le lezioni di spagnolo alla radio. Ascolto anch’io.
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Mamá, cuando alguien escribe a máquina, ¿necesita comer en todo momento? No, hijo, ¿por qué? Porque cuando papá le dicta a la mecanógrafa siempre dice coma, coma, coma. Ride, mio fratello grande, ma non capisco perché. “È un gioco di parole”, dice, “tra coma che vuol dire ‘virgola’ ma vuol dire anche ‘mangi’”. “E allora?”, dico. “Nel dettare una lettera alla dattilografa, il padre dice spesso, virgola, virgola, virgola, e il figlio crede che invece le dica mangi, mangi, mangi…”. Imparo che le parole possono giocare. Mi piace. Scarpe, pantaloni, camicia, giacchino di pile con la zip. Al tempo in cui gioca Cervellati, la classifica si muove piano. Due punti per la vittoria, uno per il pareggio, zero per la sconfitta. Il pareggio ha un senso. Può far parte di una strategia. Solo un punto in meno di chi vince. Ci si può rifare. Non si resta mai troppo indietro. Nel campionato italiano, la regola dei tre punti a vittoria inizia col campionato 1994/’95 dopo un anno di sperimentazione in C1 e C2. Dovrebbe limitare molto i pareggi. Perché i pareggi vanno limitati? Cosa c’è di male a finire pari? Si erode l’etica della vittoria? Il pareggio equivale alla tregua, a piccole feste private, a un borbottio di tenue soddisfazione. Niente a che vedere col carnaio pubblico di quando si festeggia la vittoria. Gennaio ringhia come un motore Euro 4 prima del blocco della circolazione. Promette sole che non può mantenere. Di feste, non ha voglia di parlare.
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Internet è piena di occasioni e io sono incline a eludere le promesse fatte. C’entra di nuovo il principe Raimondo Lanza di Trabia, va da sé, e a questo punto tanto vale che lo accetti come un argomento endemico. Ci accompagnerà fino alla fine e forse conviene farsene una ragione. Il punto è che la sua morte gronda di stranezze. È caduto di testa, ma chi si suicida non si lancia nel vuoto come se si tuffasse in una piscina; quel modo di cadere è immaginabile solo per un corpo inerte che altri buttano di sotto (Pinelli?). Data per certa la nudità, possibile non sapere se sia caduto dal primo, dal secondo o dal quarto piano? Mi auguro che il dubbio derivi soltanto dal modo approssimativo con cui la rete ne riferisce. E ancora. Perché sia lui che suo fratello Galvano hanno preso due stanze attigue al primo piano dell’Hotel Eden, a via Ludovisi, quando avevano a disposizione una suite al Grand Hotel, a via Veneto? Perché non è stato mai ascoltato, in sede di indagine, il medico che lo aveva appena visitato e che, stando alle parole di Galvano, gli aveva iniettato un forte medicinale per alleviare lo stato depressivo? Può significare qualcosa che quella notte, all’Hotel Eden, fosse presente anche Enrico Mattei? Sembra che Galvano avesse proposto a Mattei di acquistare una zolfatara. Un affare così insensato da indurre Mattei a un netto rifiuto. Mi fermo qui perché la faccenda chiama in causa altri personaggi coinvolti, otto anni dopo, con la morte di Mattei e, dieci anni prima, col progetto americano di favorire l’autonomia della Sicilia sotto la direzione della mafia. Certi gangli della storia italiana non si possono trattare con leggerezza.
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Mi salva Centocelle e l’abbaiare ostinato di un cane. Piccolo, sembra. Toni acuti, penetranti. Qualcuno apre la finestra e, a un volume di voce sufficiente a coprire l’area di pertinenza, chiede: “A canetto, me dici ’ndo stai? Mica pe’ gnente, così posso sape’ da ’ndo parti pe anna’ affanculo”. Ipse dixit. Il cane continua, ma pare meno convinto. Certe sentenze romanesche sono inappellabili. Una volta uno mi ha detto: “Il romanesco non esiste. Di romanesco ci sono solo i carciofi”. Chi sa distinguere la verità? Quando le cose si complicano, scappo nella filosofia. Come se lì fosse più facile ciurlare nel manico. Invece non lo è. Anzi, quando credo di poter procedere in automatico lungo la corteccia temporale superiore dell’emisfero sinistro, la filosofia mi costringe a coinvolgere anche altre aree del cervello. Meglio la distrazione, piuttosto che i bagliori delle sinapsi e la chimica dei neurotrasmettitori. Se provassimo a rendere evidente tutto ciò che guizza e s’interconnette nel nostro corpo, al fine di vederlo in funzione, impazziremmo. Accade nell’esperienza lisergica. Per lo più, lì, non s’impazzisce perché prima che si mostrino certi fenomeni – e si arriva a vederne, altroché – si sprofonda in una tale sospensione dell’incredulità visiva da rendere pressoché sopportabile qualunque cosa appaia. Parlo di insensatezze, lontanissime nel tempo. Oggi, un’esperienza con l’LSD sarebbe fatale. Introdurrebbe nel corpo umano, non molto cambiato negli ultimi cinquant’anni, una realtà di un parossismo devastante, inimmaginabile mezzo secolo addietro; una realtà satura di
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immagini indotte e aggressive, e di voci che non saprebbero rinunciarsi, e parlerebbero tutte assieme senza cura di essere comprese. Soprattutto, ritorcerebbe contro il soggetto, come in una malattia autoimmune, l’incalcolabile quantità di immagini depositate senza alcun ordine in ogni suo interstizio, in attesa del trasferimento in una discarica che però non esiste. Siamo uno strumento a corde vocali, non lo scordiamo. Da piccolo, rimango incantato dal racconto di mia nonna materna. Torna dall’ospedale dove è andata a trovare una parente. Dice che a una signora, nel letto accanto, hanno tolto un polipo alle corde vocali. Dice che gliel’hanno messo in un secchio pieno d’acqua vicino al letto. “Vedessi come nuotava”, dice. Sul sito di «Psychiatry on line Italia», il 24/08/2021, compare un articolo del neurologo e psichiatra Sergio Mellina, classe 1932, che, da nonno, racconta l’infanzia ai nipoti. Nella prima metà del suo lungo scritto trovo questo paragrafo, in cui si parla di Cervellati. Lo riporto testuale per la semplicità della forma, così mimetica del mondo che descrive: Il sig. Terzi gestiva il chioschetto dei gelati allo sbocco di Via Masi in Via Mazzini. Aveva un figlio che giocava in promozione nel Faenza ed era una piccola celebrità, ma ce n’era un’altra ben maggiore. Cesarino Cervellati alias “cagaro” classe 1930 da Baricella. Nel ’40, prima della guerra, frequentava con altri ragazzini – e io tra loro – un campetto di fortuna ricavato in un angolo sterrato al “Pontevecchio”, quando la Via Mazzini, ormai fuori porta, costeggiando il “Savena”, un torrentello senza pretese, diventava la via Emilia di Levante. Di abili nel calcio me ne ricordo un altro che non raggiunse la celebrità. Era robusto come una quercia, giocava scalzo e tirava delle bombe micidiali, sui palloni dell’epoca che parevano di legno. Lo chiamavano “il ragazzo del Savena” forse perché militava nella squadra locale, che gli scarpini glieli dava solo la domenica. Tutti, ad ogni leva, andammo a fare il provino al “Bologna
115 F.C.”. Presero solo “cagaro”. Fu campione d’Italia (di football) nel memorabile spareggio di Roma del 1964, con l’allenatore romano Fulvio Bernardini, inteso “Fuffo”. Giocò in “Nazionale”, restò fedele alla società felsinea, anche da allenatore. Andando sui necrologi ho scoperto che se n’è andato tre anni fa (13/04/2018), a Pontecchio Marconi.
Chissà se Seneca ha scritto di amore. Forse no, impegnato a fare la spola fra il pensiero ellenico e quello romano, tra la propria dignità e gl’intrighi di Palazzo. Vittima illustre dell’amore erotico che Platone mette al gradino più basso della scala per l’elevazione. Il destino di Seneca si gioca tutto su quel basso primo gradino della scala platonica. C’entra Messalina e, dopo di lei, il diluvio. Va in sposa a Claudio ed è imperatrice a soli quattordici anni. Bellissima; potrebbe tutto, e invece si danna. Non a causa delle prostituzioni notturne, nelle quali sembra eccellere e che sono tollerate, ma perché s’innamora di un amante. Senza quella trasgressione, dopo Claudio avrebbe regnato il loro figlio, Britannico. Invece Claudio fa uccidere Messalina, che ha solo ventitré anni, ne sposa la zia, Agrippina, e alla sua morte gli succede il figlio di lei, Nerone. Seneca inizia con esserne l’educatore. Finisce col suicidarsi su suo ordine. Tutta un’altra storia, e a determinarla sono le fortune o le sfortune erotiche di chi sta a monte del suo destino. Il clima è quello. A Pompei, su neanche diecimila abitanti ci sono venticinque lupanari. Quanto affollato, già allora, quel gradino più basso della scala di Platone.
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Va tutto bene, in una coppia, se due sistemi di bisogni diversi si compensano. O anche: se due nevrosi s’incastrano la coppia regge. Senza figli, però. Coi figli il discorso si complica fino all’irrisolvibile. Percentualmente, le riuscite delle coppie con figli sono un’infima minoranza. Gli incontri tra anziani, con alle spalle ciascuno abbastanza macerie non più fumanti, hanno una certa possibilità di riuscita. Per i giovani, invece, ci sono solo i vortici, i misti d’incoscienza e audacia, l’essere consapevoli che non c’è futuro. O che ce n’è molto poco e per pochissimi. I giovani ostentano una strana forma di speranza che, se delusa, punta alla ferocia. In strada ne incrocio uno che telefona. Dice: “Non possiamo parlare di persona?”. Il tono è addolorato ma non remissivo. Sento che se ci parlassi io convincerei, chiunque stesse dall’altra parte, ad accettare un incontro. Perché io sì e l’altro no? Perché io, da estraneo, non ho zavorre condivise con l’interlocutore. Allora, per essere ascoltati occorre creare estraneità, lasciar andare zavorre? Lasciar andare è un movimento opposto all’insistere, fonte di frustrazione. Ne è così lontano che finirebbe per avere successo solo grazie al contraccolpo dello stupore. Amare facendo sempre un passo indietro dopo essersi avvicinati. Muoversi ma in surplace, come una vite senza fine. C’entra l’elettricità. Trovare la distanza dove la tensione fra i due poli sia massima e mantenerla. Il contatto causerebbe
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corto circuito. Da evitare se non si vuole interrompere il flusso di corrente. È come il dettato della seduzione. Attrarre con forza l’altro ma spostarsi un attimo prima di essere raggiunti. Chi seduce, lo fa per esercitare questo dominio. Portarsi a letto qualcuno è un’altra faccenda. Non è un consiglio. Sono appunti per una cosa che sto scrivendo. Niente a che vedere col musical sul pasticciere comunista fantasticato dal primo Moretti. Il lavoro riguarda Cervellati e il suo tempo. È un tema dal cui centro si dipartono sviluppi e digressioni. Alla fine, stando attento a non tirare troppo i fili si dovrebbe formare una specie di gomitolo policromo. Leggero e morbido com’è, ci si potrebbe addirittura giocare a palla in corridoio, coi figli piccoli, o coi nipoti, senza il rischio di rompere nulla. Qualcosa di simile a quanto hanno fatto Cesarino e Mariarosa con Stefano e Andrea, prima. E con la nipotina Francesca, poi. Immersi nelle ombre di una casa longeva in cui il pallone duro come il legno, col quale giocavano Cesarino e i suoi amici nel 1940, è conservato sgonfio in qualche soffitta emiliana dove da tanto nessuno si ricorda di entrare.
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Dovremmo festeggiare la scoperta con una bevuta. In alto i bicchieri, dunque, e alla salute. Ecco perché. In “Storiedicalcio.altervista.org” c’è una rubrica, Le partite della loro vita, in cui vari giocatori di una volta sono invitati a scegliere la partita che ritengono indimenticabile e a raccontarla. Figurano, fra i tanti, Bicicli, Rava, Cappellini, Brizi, Sala, Burgnich, De Sisti, Manfredini. Cosa scrive Cervellati quando tocca a lui? Ascoltiamole bene, queste parole, perché sono le uniche sue trovate finora, le sole a dargli voce in prima persona. Roma, 21 novembre 1948. Nel momento di entrare nel Foro Italico, all’ingresso per gli atleti, il custode mi bloccò: «Ragazzino, fila via». Avevo 18 anni, ma ero piccolo e sbarbato, ne dimostravo sì e no 15. Si fece avanti Sansone, il nostro allenatore in seconda: «Non scherziamo – disse – deve giocare». Era la mia prima partita in serie A. Come potrei dimenticarla. La Lazio era una buona squadra, invece noi stavamo passando dal metodo al sistema puro. Non era mica facile. Per loro segnò subito Puccinelli, per noi pareggiò Gritti, poi gol di Nyers II e ancora Puccinelli, 3-1 all’intervallo. Nella ripresa la frana: Penzo, Gualtieri, Magrini, ancora Magrini, ancora Penzo e alla fine, per noi, Bernicchi. Totale: 8-2. Come
120 potrei dimenticarlo. Non sapevo nulla, non mi rendevo conto di essere in serie A, mi sembrava ancora ieri il giorno in cui scappai di casa per fare un provino con il Siracusa. Una settimana in prova, poi la proposta di giocare subito in prima squadra, serie C; invece il ritorno a Bologna e poi il passaggio dal Cral Tommasini al Bologna. C’erano Cappello, Gritti, Sarosi III, Vanz, tutti vecchi marpioni, cui davo del lei e di cui portavo le valigie. Giorno dopo giorno, scoprii che i giocatori erano simpaticissimi, che gli allenatori – da Viani a Bernardini – mi volevano bene come se fossi un loro figlio e che il presidente Dall’Ara mi considerava il suo cocchino. Come potrei dimenticarlo. Confesso che mi sono divertito. Avevo la passione per la carabina. Un giorno, in ritiro, chiesi il permesso di tenerla con me. Permesso accordato. A quel tempo ci si divertiva con poco: noi godevamo a seminare nell’albergo la polverina che faceva starnutire. Una volta le vittime furono i cuochi. Viani capì tutto quando entrò nella nostra camera mentre noi ridevamo a crepapelle. E, sempre per ridere, ci prese a schiaffi. I suoi schiaffi, però, non facevano ridere, perché Viani aveva mani che sembravano vanghe e dita che pesavano un chilo l’una. Quando arrivò a me, lo minacciai: «Attenzione, perché le sparo un colpo in fronte». Ma era per ridere. Quel giorno, a Roma, contro la Lazio, toccammo il fondo. Il passaggio dal metodo al sistema puro fu doloroso. Una domenica beccammo 5 gol, in casa, dall’Atalanta. Ma ci fu il tempo per rifarci. Anche contro la Lazio. Nel ’56-57, per esempio, segnai un gol all’andata e due al ritorno. Non mi chieda come fossero. Perché quei gol, sì, me li sono proprio dimenticati.
Dimentico il numero del taxi che devo chiamare. Arrivo alla cassa del supermercato con la spesa e invece di ricordare il codice del bancomat mi rigiro in testa il numero del cellulare. Il mio è l’unico numero che conosco a memoria. Se perdessi il cellulare, col telefono di un altro potrei chiamare solo me stesso. Ma senza cellulare non potrei rispondermi.
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Dico sempre che ora scrivo una rubrica cartacea, poi però non ho mai la pazienza di ricopiare tanti numeri sconosciuti. Lo sono tutti, anche quelli dei figli, delle persone più care. M’innamoro per la prima volta di una compagna di scuola in terza media. Ci sono le foto di classe a ricordarla. Lei è bellissima. Io sto nella fase brutto anatroccolo. Non smetto mai di guardarla. Lei neanche sa che esisto. Non vedo l’ora di andare a scuola. La domenica mi sta sulle palle. “Non la senti la partita?”. Mio padre non può capire. Studio perché i libri riguardano la scuola e quindi lei. Un pischello brutto, che sappia essere sfrontato, può piacere. Uno brutto e timido è un disastro. Con la fine delle medie, finisce anche l’adorabile tortura. In pochissimo tempo cresco di molti centimetri. Mi allontano da ciò che ero e anche da lei. Il suo viso rimane un ideale di bellezza. Del suo corpo non so nulla perché l’abbondante grembiule e qualche imperativo categorico offuscano tutto. Niente panico. Il numero del taxi lo ricordo. Il pin del bancomat, com’era sparito, riappare. Sono verifiche sullo stato delle cose. Ricordo il pin del bancomat mio e della mia compagna, il pin e il numero del cellulare, la password del computer, la password del conto on line. Per le infinite altre password ho stilato una lista consultabile al bisogno. Sono tutti ricordi sull’orlo dell’abisso. Una sinapsi indolente e sono fregato. «Non son chi fui: perì di noi gran parte». La memoria si arrabatta. Guarda le memorie artificiali e perde motivazioni.
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Però sa che basta il blackout di un giorno e la grande macchina della realtà va in crisi. Le memorie digitali sono gigantesche ma richiedono energia. Le batterie hanno le ore contate e senza ricaricarle il pozzo del sapere è inattingibile. Te li sbatti, i Giga, senza elettricità o batterie. Un lungo blackout generale equivarrebbe a un vero e proprio staccare la spina. Mio padre era socialista e per non aver preso la tessera del fascio ha perso anni di anzianità. È morto il primo aprile 1969, neanche sessantenne. Mi sarebbe piaciuto vederlo invecchiare. La mattina del 3 dicembre 1968 torno da un incontro fra gruppi teatrali a Catania. Ho guidato tutta la notte e sono stanco. Prima di andare a casa passo dai miei. Reduce da un’inutile operazione, nel pigiama che sembra di due taglie più grande, mio padre è in bagno che si rade. Ha quattro mesi di vita, ma non vuole guardare in quella direzione. È in malattia, e si alza presto come se andasse al lavoro; si rade perché ci tiene. Gli dico dei due braccianti ammazzati dalla polizia ad Avola, il giorno prima. Scuote piano la testa, alza le sopracciglia. Gli ho dedicato alcune poesie. Ogni tanto gliene scrivo una. Dopo il funerale, non ho più messo piede al Verano dove è sepolto sotto la pietra di una tomba di famiglia occupata un po’ alla volta da estranei che non si sa come allontanare. Nel 2014 vado al cimitero di Prima Porta per le ceneri di mia madre. In uno spazio riservato alle tombe sotterranee, sono infisse, qua e là, aste di ferro con grandi bandiere della Roma e della Lazio. C’è sole, quel giorno di novembre e le bandiere biancoazzurre e giallorosse schioccano al vento sul verde del prato come se continuassero un loro derby dall’esito aperto.
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Quando la ricerca ha il ritmo di una flânerie, prima o poi arriva la sorpresa. Nel web, tutte le notizie su Cervellati sono attinenti al calcio. Per sapere altro, come matrimonio, figli, nipote, ci sono voluti necrologi e una cronaca di funerale. Ora, accade l’inimmaginabile. Per la seconda volta, dopo il brano apparso su «Psychiatry on line Italia» e riportato nel capitolo precedente, le notizie su Cervellati arrivano da un ambito psicanalitico. Il luogo è un libro a cura di Franca Munari e Enrico Mangini, Metamorfosi della pulsione, edito da Franco Angeli nel 2014. Molti autori collaborano al libro, e il brano su Cervellati sta nel paragrafo Lo spazio noi-centrico che conclude l’intervento del neuropsichiatra e psicanalista Luigi Boccanegra, il quale scrive tra l’altro: Una volta Berti Ceroni raccontò come al Servizio di San Lazzaro in Sàvena avessero invitato Cesarino Cervellati, un calciatore che anch’io ricordo: era l’ala destra del Bologna, un giocatore di rilievo in quegli anni. Berti Ceroni (cui interessava già allora il tema che nei suoi scritti definisce “spazio bi-corporale” o “peri-corporale”), raccontava che in quell’occasione chiesero a Cervellati: «Ma quando lei arriva sul fondo campo vicino al corner, come sceglie il momento giusto per fare il traversone verso i compagni in area?». Cervellati aveva detto: «Veramente, non lo so nemmeno io, però una cosa è sicura: io sento che sta arrivando il difensore, e che se aspetto un attimo di più mi falcia».
Il brano si conclude col racconto di una rêverie di Goethe che non mi sembra il caso di riportare. Stamattina ho pensato alla poesia come a una sorta di paesaggio con serpente (pesco dal titolo di una raccolta di poesie di Franco Fortini, e gliene sono grato). È proprio un lungo serpente che si muove lento con le sue spire su un territorio vasto e di diversa conformazione.
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La relazione fra il corpo del serpente e le parti di territorio su cui si muove è una forma diversa di quel fare interminabile che è la poesia. Il paesaggio con serpente, corpo mobile su uno spazio cangiante ma fermo, ne rappresenta l’allegoria, mostra in cosa consiste il suo scaturire e il suo diffondersi. Ogni spira ha ragioni da esporre, sempre in rapporto con lo stato del territorio che in quel momento l’accoglie. Negarne alcune per affermarne altre non va bene. Chi tentasse di isolare la spira e il territorio con cui è in relazione, come se l’intero serpente si riducesse a quel solo tratto, nuocerebbe alla poesia. Per cogliere a fondo la relazione, bisogna considerare le tante parti che compongono un insieme per sua natura mitico e inattingibile. Di fronte all’impossibilità di comprendere il mito, ci si appassiona a una sua parte, si spende la vita a interrogarla e a lasciarsene interrogare. Ma guai a fare della parte il tutto, guai a escludere dalla considerazione ciò che non rientra nella propria sfera di interesse. Il sito Le partite della loro vita, dal quale ho preso le parole di Cervellati, a leggerlo meglio, è una specie di Spoon River del calcio di altri tempi. Per darne un’idea, prendo i dettagli di due testimonianze che stridono non poco nel confronto. Dice Giovanni Viola, portiere della Juventus tra gli anni ’40 e ’50: Firmai per la Juventus. Maglia nera con il numero 1 e i bordi bianchi al collo, calzoncini neri, calzettoni neri, scarpe basse, leggere, cucite dal calzolaio della Juve, tacchetti due più tre più due, guanti normali. Ginnastica a terra per il colpo di reni, voce per farmi sentire dai compagni perché nella mia area comandavo io, occhi solo per la palla, fegato per le uscite,
125 mani per la presa, pugni per la respinta. Se mi chiamavano «tenaglia», ci sarà stato un perché. Ma il segreto è contare su bravi difensori. Io ne avevo di bravissimi, come Manente e Bertuccelli, che non solo picchiavano ma cercavano addirittura di giocare. E poi il migliore: Parola. Non era mica comoda la porta della Juventus: tre o quattro palloni in tutta la partita, c’era il rischio di distrarsi. Invece era indispensabile essere sempre lucidi, all’erta, sul chi-va-là. Per smaltire un gol mi ci volevano due o tre giorni. Per godere una vittoria bastava aspettare fino a martedì, quando arrivava puntuale una lettera dell’Avvocato, con i complimenti e un premio personale «per il buon comportamento». Cinquantamila lire. Gianni Agnelli era il presidente e con lui non si discuteva: firmavamo il contratto in bianco, la cifra la metteva lui o chi per lui. Però ci facevano lo sconto sulle macchine della Fiat: il 10 per cento.
Il centravanti del Palermo Gaetano Troja (classe 1944) sceglie di ricordare così il suo allenatore: Laszlo Szekely, ungherese, zingaro e nomade, viveva con moglie e due figli su una roulotte, parcheggiata tra il bar e le tribune della Favorita, all’interno dello stadio. Bravissima persona, cordiale, affettuosa, troppo buona per il calcio, a metà fra il padre di famiglia e il fratello maggiore. Lui raccontava di essere un ex giocatore, centrocampista, ma non se lo ricordava nessuno. Aveva un timbro di voce burbero, i gesti da napoletano, e masticava l’italiano. Diceva «aprire la toracia», «fare la respirata», cose così. Come preparatore non era granché, ma tecnicamente era bravissimo. Dopo l’allenamento mi teneva sul campo, da solo: lui in ginocchio, io in piedi, destro e sinistro, sensibilità e tempi di salto, e pallone con la corda. Lo odiavo, quel pallone. Invece è stato il mio maestro. Precampionato a Valdagno, prima di tornare a Palermo amichevole a Cosenza, il primo tempo lo gioco con i titolari, segno tre gol, rientriamo nello spogliatoio, e Szekely, senza guardarmi negli occhi, mastica: «Ragazzo tu basta». Scoppio a piangere. Penso di essere stato bocciato. Invece è il suo modo per dirmi che sono stato promosso.
126 Me lo traducono i vecchi, da Malavasi a Ramusani. Prima partita di B, Palermo-Trani, una fifa tremenda, e i vecchi, da Malavasi a Ramusani, mi buttano in campo a calci nel sedere. Finisce 3-0 con due gol miei. Finché un giorno Szekely fu esonerato. Salutò tutti, salì sulla roulotte con la moglie e i due figli, uscì dallo stadio e tornò sulla strada. Molti anni dopo mi dissero che era morto: incidente stradale. A chi gli chiedeva se era felice, lui rispondeva sì.
Cos’ha di particolare quel primo amore della terza media, per cui si differenzia da tutti gli altri malgrado sia esistito solo nelle mie fantasie? La durata del ricordo. Come ogni pietra fondativa, resiste nel tempo. Solo di quel primo amore, verso i sessantacinque anni cerco notizie su internet e le trovo. Ha un ruolo di rilievo in campo medico. C’è anche una sua foto. Bella come la ricordo. Riconoscibile. Nel confronto con lei, non ci sono solo la bella e il brutto di quegli anni. C’è chi costruisce una prestigiosa posizione professionale e chi continua a fare puntate al buio fidando solo nel caso. C’è l’impegno per la riuscita, da una parte, e per la possibilità di cadere sempre in piedi, dall’altra. Non so come viva ora, ma se la foto su internet vuol dire qualcosa, o si muove in una elegante solitudine o all’interno di una solida famiglia. Io ho diverse macerie in mezzo alle quali oso comunque impiantare cantieri. Come la poesia, anche la vita è un paesaggio con serpente. Esistono principi astratti e forze primigenie che chiedono un corteo di forme grazie alle quali accadere.
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Quelle che la riguardano sembrano indiscutibili. Le mie, tutt’altro, anche se non mi sfugge che la disparità fra quanto conosco di lei e di me dovrebbe, almeno, farmi sospendere il giudizio. Ho amato ciò che non avrei mai potuto diventare. Belli, brutti, conta poco, sono problemi superabili, quelli. Quando invece ci allontaniamo da qualcuno perché stiamo su diverse biforcazioni del destino, lì accade qualcosa di tragico. Lì, senza minimamente sospettarlo, stiamo pagando con un’infinità di non-essere quell’unico essere che sarà la nostra vita. È un residuo, e ci sembrerà una conquista. Tutto questo mi è chiaro con una precisione che non so da dove arrivi. È come se vedessi i film della mia esistenza e di quella di lei scorrere in contemporanea. Li divide tutto. Nel gioco dell’impossibile, se potessi ricominciare daccapo sceglierei ancora il mio film. Ho fallito in molte cose. Ma se penso con quanta spudoratezza ho sfidato la sorte devo ammettere, come si dice a Roma, di aver avuto più culo che anima. E non posso non leggere la fortuna come il segno di un’astratta benevolenza di fronte alla quale chino la testa in segno di rispetto. Due involontari gesti inconsulti compiuti di recente: 1) Ho girato il polso sinistro come per guardare l’ora, ma non porto l’orologio da anni perché l’ora la guardo sul telefono. 2) Ho provato a correggere a matita una pagina di Word sullo schermo del computer. Per fortuna, mi sono fermato in tempo.
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Il 22 maggio 1963 Milan e Benfica si giocano, a Wembley, la settima Coppa dei Campioni. La partita è trasmessa in differita dalla Rai TV con la voce di Nicolò Carosio. Gli addetti ai lavori pronunciano nel modo giusto Benfica (e non può essere altrimenti, ha vinto le ultime due coppe), ma l’inesperta annunciatrice della telecronaca, davanti a quel nome imbarazzante che legge per la prima volta, e per di più in diretta, la risolve pronunciandolo Bènfica, il solo modo per allontanare la parola “fica” dalle orecchie degli italiani. È probabile che il neodirettore generale, Ettore Bernabei, abbia apprezzato; forse più della vittoria del Milan. Ricordo Cervellati attraverso un duplice sguardo. Uno è lo sguardo di allora e l’altro è quello di adesso su allora. Il primo osservatore è un pischello. Il secondo, un vecchio che un po’ ricorda e un po’ inventa il pischello che è stato. Spesso questi due sguardi fanno cortocircuito e Cervellati smette di essere il calciatore, l’allenatore e il padre di famiglia per diventare un cognome scritto con tubicini luminosi di neon come in un’opera concettuale di Mario Merz o di Joseph Kosuth.
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Quando Cervellati diventa un’opera concettuale, io smetto di pensarci perché secondo me lui non si merita il concettuale e io non voglio essere quello che glielo infligge. Non ho nulla contro l’arte concettuale, anzi. È servita a vederci chiaro dopo che tutto sembrava limitato allo scontro figurativo/informale. Ma Cervellati non può essere trascinato in una dimensione pop. Nonostante l’etimo, il pop ha bisogno di una figura che medi tra artista e pubblico. Da solo, non va da nessuna parte. Resta appiattito sulla sua pretestuosa origine. Cervellati, invece, si capisce senza bisogno di interprete. Lui è la semplicità del vivere che a volte balugina sotto strati di complicazioni. Io ne ho tante di complicazioni. Arrivano fin dal mattino, quando mi illudo di mettermi a scrivere senza che nulla possa distrarmi. Apro il computer e sullo schermo appare, come al solito, la foto di un paesaggio. Windows ne propone di nuove a suo piacimento al solo scopo di fare da sfondo. Questa volta la località proposta è la baia di Walker, in Suda frica. Come posso provare nostalgia per un luogo dove non sono mai stato? La guardo con l’avidità di chi rompe un lungo digiuno rigirandosi in bocca una sola mollica di pane. Mi nutre e mi svuota. La baia di Walker, la punta estrema dell’Africa, l’emisfero Australe, lo sguardo sull’Antartide lontanissima, l’immenso abbraccio fra oceano Atlantico e oceano Indiano. È come se quell’altrove fosse l’icona di ciò che è esistito e non è più.
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Il rosa del cielo al mattino, un mare perlaceo che sembra fermo. Bassa e folta, la macchia disegna l’arco della baia con grazia mediterranea. Perché sono stato tanto stanziale? Fossi il mondo, mi offenderei di un così scarso riguardo nei miei confronti. Il richiamo dell’emisfero Australe, ora, mi trascina verso l’impossibile: il Greaser Bar, di Brisbane, dove sabato, apertura alle 7, si esibisce Bella Paton, una cantante che amo per tante di quelle ragioni che, se le dicessi con le parole dei pensieri, mi si potrebbe ridere dietro, perciò sto zitto, salvo sottolineare la sua disarmante assenza di glamour (sì, insomma, è una che sbocconcella la vita con la sola ambizione della grazia). Questa immediatezza chiama in causa la storia di Cervellati. Se non scrivessi io, di entrambi, nessuno lo farebbe. Si perderebbero più di quanto non siano destinati a perdersi. Cervellati e Bella Paton, invece, vivono in queste pagine che mi hanno promesso forza nel sussistere, costanza nell’esserci, nel rimanere leggibili anche quando forse nemmeno più Wikipedia ricorderà i loro nomi. Conosco troppo bene la vita, per non capire che è la vita il soggetto sottinteso che mi commuove, nella baia di Walker, e m’innamora, in Bella Paton. È la vita, che mi ha ricordato il nome Cervellati affinché restituissi corposità al senso di esistere, appiattito dalla fatica quotidiana. Cervellati è morto, ma vorrei che Bella Paton fosse attraversata dal tempo con più lentezza di quanto solitamente avviene, vorrei che non perdesse troppo presto il modo in cui sa sorridere, e somigliare ai colori del suo Queensland. 13 gradi, soleggiato, 16:09 del 13/01/2022. Sembrano numeri a caso. La temperatura, lo stato del cielo. L’ora, il giorno. Cosa c’entro, con questi numeri?
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Lo scaffale del tempo non mi piace. È stretto e logoro. È affollato. Fra i compagni con cui condivido il lavoro culturale negli anni ’80, ad Arezzo, c’è uno psichiatra nemico dell’alcol, anche nella forma delle due dita di vino bevute mangiando. Ritiene che l’alcolismo derivi da una dipendenza quotidiana ben più vasta e strisciante di quanto non appaia, e invita a verificare la propria condizione attraverso un’astinenza di quarantacinque giorni senza neanche mettere l’aceto sull’insalata. Declino l’invito. Penso a lui quando, un giorno, leggo questa etichetta al collo di una bottiglia di rosato: Il Pugnitello è un antico vitigno autoctono originario della Maremma grossetana, recentemente riscoperto e a rischio di estinzione. La Regione Toscana ha nominato Enoforia «Coltivatore Custode» di questo vitigno, con l’obiettivo di diffonderlo e di valorizzare le sue qualità. Il nome deriva dalla forma del grappolo: piccolo, compatto e simile ad un pugno. Solitamente vinificato in rosso, è adatto a lunghissimi invecchiamenti, mentre il rosato di Enoforia è una versione inedita di vinificazione «in bianco», da gustare come aperitivo e ideale per accompagnare pesce, carni bianche e formaggi freschi. Acquistando questo prodotto, contribuirai alla salvaguardia della biodiversità maremmana.
Il lavoro culturale impone scelte dolorose, come sapeva bene Luciano Bianciardi, originario di Grosseto; proprio dove va a vivere, dalla fine degli anni ’80, l’amico psichiatra nemico dell’alcol. È acqua passata. Ora siamo tutti più vecchi, compreso il tempo, e non ce ne importa niente di prove del genere. In Nei colori del giorno (Garzanti, Milano 1985) Peter Handke si confronta con la Sainte-Victoire, la montagna ritratta più volte da Cézanne.
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Ricordo, di quel libro, le indimenticabili parole di Cézanne: «Tutto sta per scomparire. Bisogna sbrigarsi se si vuole ancora vedere qualcosa». Un terremoto di verità, le sue parole. Quarantatreenne, nell’86 Peter Handke scrive Canto alla durata (Einaudi, Torino 1995). A quell’età, il senso della durata gode di una prospettiva bifronte. Le due visioni opposte si equivalgono grazie a un alternarsi di egemonie tra la visione frontale e la dorsale. Ai settantotto è diverso, c’è meno visionarietà e più leggerezza, la stessa con cui sfoglio la pagina di un libro. C’è che leggo una cosa e, come se fosse un reagente, quella di colpo ne collega tra loro dieci e più, e tutte assieme sembrano quasi un inizio di risposta. È un periodo di scoperte, di sistemazioni; anche se, nel chiedere spazio, il vuoto si fa scortare da non poche difficoltà. Ma lì dove nel corso del tempo, con una certa avvedutezza, ho tracciato segni e disposto materiali, un po’ alla volta il vuoto si riempie di opere che mi guardano riconoscenti. Mi domando se Bella Paton sia bella. Per quello che si percepisce dalle foto, può essere bella, ma è come se lo fosse in modo involontario. Per questo mi piace. Le bellezze che non mi piacciono sono quelle legate a progetti, alla maniacalità che diventa imperativo, al dover sembrare talmente belle o belli da diventare adorabili. Non si può reclamare adorazione. A chi la pretendesse, varrebbe la pena rispondere come fa John Turturro in una scena di Quiz Show quando, all’assillante richiesta di lei: «Ma io voglio essere adorata!», lui si limita a dirle: «Vuoi essere adorata? Vai in India e muggisci». Da piccolo, quando c’è una che mi piace, la filo in silenzio. Devo averla sotto gli occhi il più possibile, però. La sera, non vedo l’ora di andare a letto per pensare a lei.
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È bellissimo anche così. Questo, prima della pubertà. Poi, per dirla con un luogo comune dell’epoca, l’entusiasmo è tale che rischio di diventare cieco. Rischio la spalla del lanciatore di giavellotto, il gomito del tennista, il polso della lavandaia. Nasce da lì una certa propensione a essere ambidestro. A detestare i letti che scricchiolano, le reti che cigolano. Famiglia numerosa in casa piccola. La privacy è un miraggio. La discrezione, un lusso che nell’insieme non possiamo permetterci. Si condivide tutto. Quando sono in bagno, appendo l’asciugamano alla maniglia della porta per coprire il buco della serratura. Chi mettesse l’occhio dall’altra parte, capirebbe immediatamente la ragione di quel sipario, ma un conto è far capire, un conto essere visti. Il lanciatore di giavellotto (Einaudi, Torino 1981) è anche il titolo di un romanzo di Paolo Volponi. Anche la parola sipario mi fa pensare a un altro suo romanzo, Il sipario ducale (Garzanti, Milano 1975) Grande romanziere. Grande poeta. Un uomo di una dolcezza infinita. Prima di conoscerlo di persona, a una pubblica lettura di poe sie a metà degli anni ’80, ne sento parlare da un’amica che ha lavorato per lui, nella sua casa di Urbino. Volponi cammina avanti e indietro dettando – alla mia amica, che le batte a macchina – le parole di un nuovo romanzo. Non ricordo quale fosse. Mi colpisce quel suo inventare a voce alta in presenza di una sconosciuta. Antonio Tabucchi, stando alle parole di un amico che lo conosce bene, è abituato a scrivere a mano, a matita, in piedi davanti a un leggio alla sua altezza. Scrive di getto, fino alla
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fine. Poi rilegge e al massimo corregge sei o sette parole, non di più. Dettare a una dattilografa, scrivere di getto a mano, stando in piedi. Non potrei mai. Scrivo col piglio del minatore solitario. Agli inizi, devo scavare quantità enormi di terra. Ora doso le forze, scavo dove merita, riconosco la terra povera. Ma la solitudine è condizione irrinunciabile. Anche se poi, per circostanze familiari semi-dipendenti dalla mia volontà, mi sono adattato a scrivere in mezzo a bassi continui di televisori accesi, di telefonate interminabili, di bimbi “gioiosamente” scorrazzanti per casa e sempre a fare a gara a chi emette le urla più acute e sgraziate. Raymond Carver, durante gli anni del suo primo matrimonio, porta la macchina per scrivere in automobile e lì si chiude, come sola difesa dagli strepiti dei due figli piccoli. Quando si sposa, ha diciannove anni e Maryann Burk, incinta, diciassette. Lei lo sprona sulla strada della scrittura. Condividono povertà e disagi. Presto nasce il secondo figlio. Vivono insieme a lungo. Sopportano l’alcolismo di lui. Nomadi dietro lavori precari. Un lungo apprendistato infernale prima del riconoscimento. Nel suo saggio Fires, Carver scrive: Devo dire che l’influsso più grande sulla mia vita, e sulla mia scrittura, è venuto, direttamente o indirettamente, dai miei due figli. Sono nati prima che avessi vent’anni, e dal primo all’ultimo giorno che abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto, circa diciannove anni in tutto, non c’è stata una singola zona della mia vita nella quale il loro pesante, talora malefico influsso non sia arrivato.
Cervellati fa rima con Rabagliati. È simile anche nella dizione.
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Entrambi quattro sillabe con accento sulla terza. Cervellati, però, mi piace di più. È fedele al suo destino al punto da nobilitarlo. Rabagliati, da giovane, è di notevole bellezza. Partecipa con successo al concorso americano per sostituire Rodolfo Valentino. Presto, cambia forma, si appesantisce. Per non sparire, traduce la bellezza in simpatia. In virtù di una voce femminilmente aggraziata, se la gioca col canto: «Quando canta Rabagliati fa così…». Costruisce in vita il modello di se stesso. Nasce a Milano nel 1906. Muore a Roma nel 1974. Ha dovuto bruciare tutto quanto aveva per resistere a un consumo più forte di lui. Bontà divina, come dicevano certi personaggi di film anni ’50, quanto lontano si rimbalza affidandosi all’elastico delle digressioni nate da Cesarino Cervellati. Quel diminutivo nel nome di battesimo mi tocca sempre. In genere, i diminutivi uno se li guadagna da piccolo, in ambito familiare. O nella cerchia di amici, non appena se ne forma una. Quello di Cervellati, invece, precede la sua nascita. È una specie di dote nascosta che gli cuciono addosso i genitori. Può sembrare un limite, diventa invece un vento a favore sulla sua vela. Non lo fa rampare. Procede piano. Ma la lentezza diventa misura. Diventa tempo, per vedere e capire. Tempo per scegliere. Azionate sul campo, le sue corte leve lo rendono un’ala veloce e imprendibile. Sarà pure Cagaro, ma intanto… Procede prudente. Da giocatore e da allenatore. Da uomo.
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Sposa Mariarosa, ha due figli, una nipote. Vive ottantotto anni. Muore prima dei suoi cari, com’è giusto. Lascia la sua saldezza. Il suo ricordo.
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La coperta è di lana pesante e ha un disegno scozzese. Dai lati corti pendono le frange. È ideale per le penniche del pomeriggio, sul divano. Se me la tiro fin sotto il mento, le frange fanno il solletico e mi addormento col sorriso. Magari Cervellati, in vecchiaia, ne avrà avuta una simile alla mia. Chissà se anche lui la chiamava il plaid. Tante cose le chiamavamo con nomi stranieri. Da piccolo, io le storpiavo sempre le pronunce straniere e a casa mia nessuno mi sapeva correggere. Forse anche a casa di Cervellati andava nello stesso modo. Uno pronunciava come era scritto e morta lì. Il 14 aprile 2018, il blog Bologna FC 1909, come necrologio per la morte di Cervellati, pubblica un articolo dal titolo Addio Cesarino, fedelissimo soldato rossoblù in cui, tra l’altro, si dice: Aveva il tocco dell’artista, vedeva il gioco e lo concludeva. Brevilinea ala destra che nel Bologna fece veramente sfracelli. Tutto il Bologna FC 1909 partecipa al dolore della famiglia e piange commosso la scomparsa di Cesarino, il piccoletto che
140 nascondeva la palla ai più grandi, l’eterno innamorato – corrisposto – del rossoblù, l’uomo della provvidenza che nelle difficoltà diceva sempre “io ci sono”.
Rifletto sul soldato del titolo e non lo trovo improprio. Nel calcio professionistico non esistono volontari, sono tutti (as)soldati. Gli anni a cavallo tra ’50 e ’60 sono quelli del miracolo economico. Infatti, come per miracolo ci sono un sacco di cose in vendita e con la storia delle cambiali tutti comprano. Istigato da mia madre, mio padre contribuisce al miracolo. Prima arriva la lavatrice, poi il frigorifero, e con le Olimpiadi romane del ’60, la televisione. Mio padre, gli elettrodomestici, li compra da Bagnini perché dice che da Bagnini si spende bene. A quelli del suo ufficio gli fanno lo sconto. Dice che hanno una convenzione, da Bagnini. Quel nome mi piace perché fa pensare al mare. Sul finire degli anni ’40 il fratello di mia madre emigra in Canada. Fa l’operatore cinematografico. Forse per questo, molto prima che arrivino gli elettrodomestici abbiamo una cinepresa e un proiettore a 8 mm. Quando è giorno di cinema a casa, mentre mio padre aggeggia tra le rotelle del proiettore, mio fratello grande stacca il quadro dalla parete. Rimane il gancetto ma nessuno ci fa caso. Abbassati gli avvolgibili e spente le luci, sulla parete appare un riquadro luminoso con tanti pelucchi che tremolano sui bordi. Mio padre dice che deve pulire l’obiettivo dalla polvere. Lo dice sempre. Secondo me i pelucchi gli piacciono. Se è stato messo un filmino delle vacanze, si vedono le solite cose in bianco e nero. Mio fratello grande che nuota come Tarzan. Mia madre sulla sdraio che finge di coprirsi il viso e
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parla ma non si sente niente. Mio fratello piccolo che sulla riva schizza l’acqua coi piedi. Io che mi esibisco in parate molto plastiche. Lo zoom è sovrautilizzato. Gli altri filmini sono di Walt Disney. Anche quelli in bianco e nero. Chissà perché hanno il titolo in francese. Uno s’intitola Donald roi des pompiers. Io lo leggo forte, così com’è scritto, per far vedere quanto sono bravo. Donaldroidespompiers. So anche che vuol dire Paperino re dei pompieri. È facile il francese. Chissà che studi ha fatto Cervellati. È nato nel ’30. La guerra lo coglie alla fine delle elementari. Da ragazzino già lavora in fabbrica, al Cral Tommasini. Mi sa che di tempo per studiare ne ha poco. Quando nel ’62 smette di fare il giocatore e sulla panchina del Bologna diventa il vice di Bernardini, esce una canzone di Françoise Hardy che diventa subito famosa: Tous le garçons et les filles. Il francese è facile e l’inizio lo capisco: «Tous le garçons et les filles» vuol dire “tutti i ragazzi e le ragazze”. Su «mon âge», però, mi areno. Sono due parole ma all’ascolto sembra una sola, e mi domando cosa sia quel monage. Ma certo, deve essere una città della Francia. La canzone parla dei ragazzi e delle ragazze di Monage (chissà dove si trova). Anche da noi c’è una canzone simile: Le ragazze di Trieste. Nel ’62 compio diciott’anni ma allora non significa niente perché la maggiore età si acquisisce a ventuno. Se il ’62 fosse capitato nel ’75, sarei diventato maggiorenne, perché è soltanto da allora che lo si diventa a diciott’anni. Naturalmente non aspetto tredici anni perché lo diventi a mia volta. Me ne bastano tre.
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Nel 1962 ci sono anche i Mondiali di Calcio in Cile. Allora, mi sembra normale che si giochino lì. Oggi so che il peso del Brasile è determinante nella scelta. Temendo che siano assegnati ai rivali argentini, impongono una nazione che però non è attrezzata a ospitarli. La stampa italiana sottolinea in modo razzista l’inadeguatezza. L’errore mediatico (allora non si definiva in quel modo ma in realtà, in attesa che nel ’67 Marshall McLuhan aggiornasse il vocabolario, tale era), quell’errore mediatico, dicevo, sommato alla presenza, nella Nazionale italiana, di molti oriundi sudamericani che in loco vengono considerati traditori, mettono l’Italia al centro del vituperio cileno. Quando giochiamo col Cile, il 2 giugno, a un certo punto il radiocronista, Nicolò Carosio, dice indignato: «Stanno picchiando i nostri giocatori in campo!». Grazie a un arbitro inglese incapace, giochiamo in nove contro undici. Avrebbe dovuto essere, come minimo, contro dieci. Per vedere la telecronaca commentata da Nando Martellini bisogna aspettare il 4 giugno. Niente satellite, allora. La registrazione di Cile-Italia viaggia in aereo via Londra e Francoforte per essere trasmessa in Eurovisione. Il commento non è in diretta, ma registrato a posteriori. Nando Martellini non si trattiene ed è la prima volta che un telecronista anticipa l’esito dell’azione che sta per portare a un gol (il primo del Cile). Intanto, lo sappiamo già che abbiamo perso 2-0. Perché non hanno fatto giocare campioni del valore di Losi, Sivori, Rivera, Sormani, lasciati in panchina? In tanti ci facciamo questa domanda. Ancora non siamo tutti allenatori ma cominciamo a fare le prove.
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Avevo promesso di non parlare più del principe, ma poi, siccome al dunque non ho mai mantenuto la promessa, per non farla troppo complicata ho riconosciuto a Raimondo Lanza di Trabia lo status di argomento endemico. Avendo mano libera, non rompo nessuna promessa se dico che il primo gennaio 2019, il periodico bimestrale dell’Istituto Euroarabo di Mazzara del Vallo, «Dialoghi Mediterranei», a firma di Antonino Cangemi pubblica un articolo, Vita spericolata di un dandy siciliano, ricco di notizie sul principe assenti da Wikipedia. Evito di riassumerle (le materie sono troppe) e mi limito a due brevi citazioni. La prima è da un articolo di Laura Laurenzi apparso su «la Repubblica» del 04/07/2011: La sua breve vita fu intensa quanto intrisa di contraddizioni. La coerenza non fu il forte del principe dandy siciliano. Convinto fascista, Raimondo fece da spia per il regime sia, come detto, nella guerra civile di Spagna, sia nel secondo conflitto mondiale; ma poi, conosciuto Antonello Trombadori, si convertì – da acrobata del trasformismo – alla causa antifascista e si adoperò come informatore dei partigiani.
La seconda è una nota al testo relativa a un articolo di Natalia Aspesi uscito su «la Repubblica» del 05/10/2014, Chi uccise l’uomo in frac? L’ultimo segreto del principe, nel quale possiamo leggere un suo sintetico autoritratto: Se avessi seguito le regole sarei stato sempre bastardo. Non avrei buttato piatti di vermeil e reliquie di santi tra i flutti. Non avrei amato Magdalene. Non avrei fumato oppio. Non avrei amato la morfina e l’alcol. Non avrei risparmiato la vita a un comandante repubblicano in cambio del suo impermeabile. Non avrei fuso 72 motori. Non avrei comprato un uomo. Non avrei ballato coi tonni in punto di morte. Non saprei che gusto si prova ad andare in giro nudo. Non saprei se le americane baciano meglio delle italiane. Be’, mi sarei perso molte cose.
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A proposito dei negozi dove si spende bene, oltre a Bagnini ci sono anche le Sorelle Adamoli. Comprare dalle Sorelle Adamoli ha un senso di familiarità. È come quando arrivano i vestiti dei cugini che a loro sono diventati stretti e invece con un’aggiustata alle maniche a me vanno bene. Io non ci sono mai andato, dalle Sorelle Adamoli, ma per me stanno tutte e tre lì che quando entri nel negozio ti servono e sorridono. Si somigliano molto, anche. A ripensare alla festa del Bologna FC in cui compare anche Cervellati anziano, non mi piace tanto questa storia che si fa il suo elogio pubblico col motivo che è sempre stato nell’ombra. Lui c’è stato nell’ombra, e devono ringraziare Dio che avesse il carattere che aveva. Ma perché dirlo forte, e in pubblico. Non capiscono che non suona bene? Sarà mica una qualità stare nell’ombra. Dicessero altro. Che di argomenti non avrebbero certo faticato a trovarne. Me la prendo con quella vecchia storia perché sono di malumore. Sennò magari non ci penserei. Non dovrebbe essere così, ma a volte l’etica è guidata dalle paturnie. Comunque, non si può dividere il passato a fette. A posteriori, le fette sembrano avere una consistenza che nel corso del tempo non c’è mai stata. Il passato a fette è posticcio. Wikipedia ha l’affettatrice automatica. Anno per anno, li racconta tutti. Di ognuno, mese per mese, elenca i fatti salienti. È una specie di «Selezione dal Reader’s Digest», ma tuttologa anziché letteraria. Ricordo i numeri di «Selezione» che girano per casa negli anni ’50.
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Non capisco bene da dove vengano e di che trattino. Le cose scritte in quelle pagine mi sembrano tutte come se fossero incipriate. Vai a capire. Leggere mi piace, ma fra quelle pagine c’è qualcosa che non torna. È molto meglio «Annabella». Mia madre compra «Annabella» per la moda e i consigli di bellezza. Io, invece, la sfoglio per leggervi i racconti. In ogni numero di «Annabella» ce n’è uno. A volte il racconto è di Brunella Gasperini. A volte di Giorgio Scerbanenco. In attesa che sul finire del ’62 io sia risucchiato da La nausea (Einaudi, Torino 1948), nella seconda parte degli anni ’50 leggo a caso volumetti della Mondadori con copertine molto illustrate. Appartengono alla collana “I Libri del Pavone”. Ricordo un titolo, Tigre inquieto (Mondadori, Milano 1955). È la storia di un pittore travagliato. Non mi convince molto, e a posteriori scopro di avercela con lui perché mi suggerisce che mostrarmi artista inquieto possa attrarre le donne. Mi servono anni per capire che l’inquietudine, se non ha un fondo nobile, attrae, sì, le donne, ma meglio perderle che trovarle, le attratte di bocca buona. Invece Un’avventura a Budapest (Mondadori, Milano 1955) mi piace. Ricordo anche l’autore, Ferenc Körmendi. Sarà che è ungherese come Ferenc Molnár, e chi se li scorda I ragazzi della via Pal (Fratelli Fabbri Editore, Milano 1955)? Io m’identifico con quello capace di fischiare alla pecorara, mi sembra si chiami Csonacos, perché fischio forte come lui. Non posso sapere, allora, che il senso sgradevole d’incipriato che mi dà «Selezione» dipende dall’essere figlia adottiva della CIA.
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Picchiano duro nelle periferie della guerra fredda. Leggiamo, giochiamo, ci entusiasmiamo. Ci innamoriamo anche. Vista con un po’ di distanza, viviamo. E intanto, da qualche parte, si litigano le nostre anime e i nostri voti. Ci blandiscono, minacciano, adescano. Ci comprano come al mercato. Senza darlo granché a vedere. Fortuna che la natura umana ha un dono d’anarchia che in parte ci protegge da certi modi. Un po’ riescono a fotterci, un po’ vanno in bianco. E quando ci fottono non è detto che duri. Intanto, però, prima che i film giusti comincino a raccontare come si deve la storia americana, gli indiani sono i cattivi. Ammazzano, scotennano. Selvaggi, insomma. Nasce da lì il galoppo liberatorio del Settimo Cavalleggeri. “Arrivano i nostri”. I nostri? I loro. Proprio come: li mortacci loro. Con questa faccenda di Cervellati il tempo s’è un po’ bloccato e mi trascina avanti e indietro fra l’inizio della Seconda guerra mondiale e il 1962. Non ce la fa a sbloccarsi. Che vorrà dire? Cosa c’è in quella ventina d’anni in cui non smetto di brancolare come un cieco? C’è che sono finito nell’affettatrice di Wikipedia. Il mondo a fette. La pizza al taglio. Miniature di vita che ammettono solo poche realtà. La pochezza dà loro una certa importanza. È una specie di legge del mercato. Poche, aumentano di valore. Quando uno le incontra, inevitabilmente disegna dentro di sé un mondo che crede vero ma non lo è. Sommando tante immagini non vere, credute vere, la realtà cambia. Lo sguardo sul passato vede altro. L’invenzione del passato fa deragliare il tempo. Genera equivoci che impediscono di tesaurizzare l’errore.
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La parola errore sta al crocevia di due libri che hanno a che vedere con l’amica filosofa Brunella Antomarini. Il primo è di un neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, L’errore di Cartesio (Adelphi, Milano 1994), la cui copia personale, con tanto di sottolineature e chiose, lei mi ha regalato (o meglio, era solo un prestito tanto a lungo protratto che lei, da signora qual è, ha deciso di trasformare in regalo). L’altro è un libro scritto da lei, L’errore del Maestro (DeriveApprodi, Roma 2006), in cui si prende in esame il modo incidentale e non scontato con cui il cristianesimo si è diffuso nel tempo e nello spazio. Impossibile accedere nel profondo della filosofia senza conoscere il greco antico. In alternativa, posso solo leggerla tradotta e impararne alcuni caratteri esteriori grazie all’interpretazione di chi, potendo accedervi, ne dà notizie. Notizie dal pensiero. Potrebbe essere la sigla di una trasmissione televisiva, di una rubrica radiofonica. Resta la possibilità di riflettere e ragionare insieme. Di fare filosofia in proprio potendo contare su una quantità limitata di strumenti e spinti dalla voglia di evocare l’origine alla quale non si ha accesso diretto. Il 27 ottobre 1962 Enrico Mattei muore in un incidente aereo. In sede processuale, a una prima indagine-farsa che accredita il guasto meccanico segue, dopo più di trent’anni, la sentenza che stabilisce per certo l’attentato. I mandanti restano nell’ombra. Il pubblico si alza e applaude. Negli archivi secretati di molti servizi di intelligence, nomi, cognomi, ruoli e appartenenze dormono sonni tranquilli. Nessun ficcanaso con la vocazione della verità potrà mai svegliarli e renderli pubblici. Gli appassionati di storia devono aspettare settant’anni per approfittare delle desecretazioni. I fossili delle colpe, a quel
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punto, diventano visibili ma, morti tutti i protagonisti, nessuno pagherà mai. In Italia, sapere, riguarda più il sapore che la conoscenza. Oltretutto, a essere carente non è tanto l’offerta di verità quanto la domanda. Nella prospettiva di notizie sconvolgenti, infatti, i più preferiscono che non si faccia luce. Al mercato della verità, i clienti siamo noi. E il cliente, si sa, ha sempre ragione.
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Sarebbe un peccato non sfruttare come si deve quella vera miniera di notizie che è l’articolo di Antonino Cangemi su «Dialoghi Mediterranei». Più ne leggo e più mi convinco che la vita del principe Raimondo Lanza di Trabia faccia da perfetto controcanto alla vicenda di Cervellati. Prendiamo questa, per esempio: Presto Palermo per Raimondo si rivelò troppo piccola, claustrofobica: soffocava la sua smania di avventura. Più tardi dirà: «Il miglior medico di Palermo è l’Alitalia». A vent’anni, Raimondo si trasferì a Roma, dove non fece fatica a entrare nel giro del bel mondo e dei notabili. Strinse un fraterno sodalizio con Galeazzo Ciano e con Edda Mussolini. Malgrado la salda amicizia col marito, a detta di qualche biografo il “Principino”, tombeur de femmes con pochi rivali, conobbe anche le grazie della figlia del duce.
Se vuoi veramente che il tempo non passi, non passa. Ci mancherebbe. Un autobus passa (magari in ritardo, ma passa); oppure una persona, che infatti si chiama passante. Il tempo, se ci vai d’accordo, sta fermo; talmente fermo che si fa notare.
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“Ma che roba è quella cosa che sta così ferma. Le altre si muovono e quella…”. Vanno tutti più vicino per capire meglio. Chi ha le ginocchia buone, si accovaccia. I più sciolti si mettono a quattro zampe. Qualcuno dice: “Ma questo è il tempo”. “Da che lo vedi che è il tempo?”. “Ha le forme squadrate che sembrano tonde, le piattezze che sono profonde”. “Ma che ci fa qui, tutto fermo?”. “Già, e la storia del tempo che passa, allora?”. “Sarà un tempo morto”, dice qualcuno. “Macché, respira”, dice un altro. “Da dove lo vedi che respira?”. “Non lo senti il fiatone?”. “E se il tempo sta fermo e non passa, perché invecchiamo, allora?”. La domanda gela tutti. Persino il tempo si mette in ascolto, come se neanche lui sapesse la risposta. Il silenzio è lungo, doloroso. Potrebbe non finire mai. Non importa quanto lontano da Cervellati mi portino le digressioni, perché al solo evocarlo so sempre come e dove tornare. Cesarino, il passo lento e i capelli bianchi, rientra a casa da una passeggiata dove neanche lui sa cosa gli sia passato per la testa. Da tanto, vive con Mariarosa a Pontecchio Marconi. L’aria degli Appennini piace a entrambi. La vita di paese è più facile che a Bologna. E poi i figli e la nipote li vanno a trovare. Siede sul divano con un gran sospiro, come per rilassarsi dopo una fatica, anche se ha solo camminato fino in piazza. Mariarosa lo sente e gli chiede se vuole il caffè. L’offerta funziona sempre. Sì, un caffè è proprio quello che gli ci vuole, anche se decaffeinato.
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Poi c’è «La Settimana Enigmistica», che un’ora di svago gliela regala, e «il Resto del Carlino», sempre pieno di brutte notizie, però. C’è la televisione che non ti devi alzare per accenderla o cambiare canale, e si stupisce che quel pensiero ancora lo attraversi dopo che da un secolo esiste il telecomando. Ci sono i rumori soliti dalla cucina. Appena comincia a fare buio, Mariarosa sparge per casa odori di cibo. Più tardi, prima di andare a letto, il naso segnato dal ponticello degli occhiali e la sensazione di dover affrontare una prova, si guarda nello specchio del lavandino e vede la faccia di un vecchio al quale dispiace aver sgocciolato ancora una volta nei pantaloni del pigiama. Dribblala, se ti riesce, quella faccia. Il controcanto del principe continua a levarsi dall’articolo di Antonino Cangemi: Quando scoppiò la guerra civile di Spagna, Raimondo – legato a Ciano e fedele al fascismo – non mancò di offrire il proprio contributo al regime partecipando come agente segreto alla battaglia di Guadalajara. Verso la fine degli anni ’30, Raimondo conobbe Susanna Agnelli. Tra i due nacque una relazione che non fu solo d’amicizia. Nella sua biografia, Vestivamo alla marinara, Susanna Agnelli così descrive l’esplosività del principe di Trabia: «Quando entrava in una stanza era come un fulmine. Tutti smettevano di parlare o di fare quello che stavano facendo. Gridava, rideva, baciava tutti, scherzava. Divorava il cibo come un giardino assetato in un deserto, suonava il pianoforte, telefonava e mi teneva la mano, tutto contemporaneamente».
Avevamo lasciato il tempo fermo, circondato di curiosi, e dalla domanda che ha condannato tutti al silenzio: perché invecchiamo?
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Una voce né giovane né vecchia, né maschile né femminile, pronuncia la risposta. “Invecchiamo per distrazione”. Una sentenza meno criptica avrebbe fatto più comodo. Nessuno osa chiedere che vuol dire, anche se tutti lo pensano. D’altronde, come obiettare la distrazione? È più diffusa dell’in fluenza e non ha vaccino che la moderi. Incomprensibile, invece, cosa c’entri con l’invecchiare. “Spiegati meglio”, dice uno. “Già, spiegati meglio”, dice un altro. “Se fossimo capaci di attenzione”, continua la voce né giovane né vecchia, né maschile né femminile, “vedremmo quali sono le cose che fanno invecchiare e le eviteremmo”. “Fai un esempio”, dice uno. “Aria fritta”, dice un altro. “Bla bla bla”, dicono due o tre. “E tu quanti anni hai?”, gli domanda una. “Ne ho pochi”. “Quanti…”, col tono più imperativo che interrogativo. “Il tempo che passa mi è stato addosso finché a 24 anni ho capito come fermarlo, e quindi ho 24 anni”. “Embè, che differenza ci sarebbe con noi?”, dice uno che si guarda intorno, “Io ne ho 43”. “Io 51”, fa un altro. “E io 70, allora”. “Io ne ho 23, ne ho meno di te”. Molti numeri si levano da quel gruppo vociante accanto al tempo immobile. “Sì, ma io ho 24 anni dal 1790. Quello lì fermo, è il mio tempo. Il vostro non si vede perché fugge, e vi risucchia”.
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C’è una grande risata liberatoria. “Ma vattela a pijà ’ndel secchio”, dice il settantenne. “Anvedi che paraculata”, dice una che ha taciuto la sua età. “Così so’ boni tutti”, dice il quarantatreenne con un sorrisetto poco bonario. A me, invece, la faccenda del tempo fermo interessa. Ma devo aspettare con le domande. Appena tutti se ne sono andati, mi avvicino. “Non ti chiedo come hai fatto a non invecchiare”, dico, “perché immagino che spetti a me arrivarci”. “Infatti, non potrei insegnartelo”. “Però una cosa la vorrei sapere”. “Cosa?”. “Si può tornare indietro?”. “Intendi nel tempo?”. “Sì”. “Non lo so… alla mia età il problema non mi ha proprio sfiorato”. “Io ho 78 anni, e che senso avrebbe fermarmi ora…”. “Dipende da cosa hai in ballo”. “Se è per questo, ho in progetto un libro che a realizzarlo bene dieci anni mi ci vorrebbero tutti”. “Allora prova a fermarti”. “Ma se poi ci riesco dovrei vedere i miei figli invecchiare e…”. “No, se tu ti fermi si ferma anche la tua percezione del mondo. Non puoi avere idea di cosa significhi… Hai detto che ti servirebbero almeno dieci anni?”. “Sì”. “Allora devi fare il possibile per fermare il tempo. Sei troppo âgé per concludere con le tue forze, di qualunque libro si
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tratti. Come farai con défaillance, amnesie, dubbi, difficoltà a muoverti e a concentrarti. Più vai avanti e più gli strumenti si deteriorano”. Sorrido imbarazzato. Di solito, nel pieno delle credulità più inverosimili ho una specie di reazione nervosa per cui mi viene la ridarella… Qui cerco di contenermi. La voce né giovane né vecchia, né maschile né femminile si allontana e io torno al pc. A questo lavoro. Il racconto esige distanza. Come l’ironia. Volare può essere utile. Più in alto si vola e più le cose diventano piccole. Dall’altezza siderale che riduce la storia a quattro acrobazie da saltimbanco, non dico che Cervellati o chi per lui sarebbe invisibile, ma un campo stesso di calcio lo diventerebbe, un intero campionato di seria A e B. Se un club titolato finisce in serie B, come prima cosa si deve guardare dalla supponenza di credere che tornerà subito in A. Molto meglio se si prepara all’inferno. È vero, la categoria include molte squadre di fatto inferiori, ma lì si lotta col coltello fra i denti. C’è una determinazione tale, tra quelli che giocano in serie B, che se fai lo sbaglio di affrontare la sfida con l’idea di essere più forte, ne esci massacrato. Non c’è squadra italiana che non abbia vissuto la vergogna della retrocessione. L’Inter ci prova a dire che a lei non è toccato, ma mente. È vero, non ha mai giocato in serie B, ma solo perché l’anno in cui è stata retrocessa, 1921/’22, hanno deciso di cambiare le regole. La furbata si chiama Lodo Colombo, dal nome del direttore della «Gazzetta dello Sport» che ha concepito la procedura della salvezza. A farne le spese, squadre più deboli o appartenenti all’area del centro-sud.
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Non molto diverso da quanto continua ad accadere. Il caso è un vento che a volte soffia dalla parte giusta. Nel continuo cercare notizie su Cervellati, infatti, incontro un nome che, data la mia distanza dal calcio negli anni ’70 e ’80, non ho mai sentito, Astutillo Malgioglio, classe 1958, stando a Wikipedia, portiere attivo soprattutto negli anni ’80, riserva di molti altri portieri. Dalla Cremonese degli esordi passa al Bologna e il 22 maggio del ’77 l’allora allenatore, Cervellati, gli concede gli ultimi dieci minuti della partita in sostituzione del titolare Mancini. È l’esordio in serie A, a diciannove anni. Il racconto della sua vicenda è così particolare e per certi versi affine a quella del nostro Cesarino che lo allego in appendice per intero, proprio come l’ho trovato su internet, a firma di Paolo Camedda. Dice tutto così bene, infatti, che sarebbe un peccato parafrasarlo, riassumerlo. Anticipo solo che nella stagione ’77/’78 Astutillo Malgioglio passa al Brescia (serie B) dove gioca per cinque anni. Ma è a Natale del ’77 che la sua vita cambia; anzi, alla sua vita da giocatore se ne aggiunge, parallela, un’altra che ancora lo accompagna. Salto tutto il resto, la cui lettura rimando all’appendice, e sottolineo solo la scelta di Cervellati che, a quarantasette anni, senza altra ragione che aver visto qualcosa di familiare, in quel giovane di diciannove, decide di farlo esordire, e a dieci minuti dalla fine si assume la responsabilità di togliere il portiere titolare e lo manda in campo. Un riconoscimento di anime; connesse, nel profondo, da radici comuni. A monte di tutto questo, altrove, il principe imperversa nel racconto di Cangemi:
156 La relazione con Susanna Agnelli lo portò a conoscere Gianni Agnelli, con cui strinse una familiare amicizia fatta di complicità, affinità e passioni comuni (non ultima quella per il calcio), comportamenti eccentrici, “vizi” e “licenze”. In poco tempo Raimondo divenne uno dei protagonisti della «dolce vita» romana: fu conteso dalle donne più belle, politici, uomini d’affari, intellettuali lo conobbero e rimasero stregati dal suo estro stupefacente. La «dolce vita» venne però interrotta dalla seconda Guerra Mondiale. Raimondo vi partecipa ed è ufficiale dell’esercito italiano dal ’40 al ’43; dopo l’armistizio è aiutante di campo del generale Carboni e cura il collegamento con le Forze alleate sino al ’45.
Perdere e fallire può essere un’agonia. Una vergogna. Invece, andrebbero insegnati a scuola. Si potrebbe far vedere Zorba il greco. Zorba progetta una teleferica per trasportare a valle, in meno tempo e con minor fatica, il carbone estratto a monte. L’idea viene finanziata dal proprietario della miniera e Zorba, che dirige i lavori, spende in bagordi buona parte dei soldi affidatigli per l’acquisto dei materiali. Rimedierà abborracciando il poco di cui dispone. L’inaugurazione ufficiale, alla presenza delle autorità, si trasforma in un disastro. L’impianto, più debole del necessario, è travolto dalla violenza dei carichi che scendono troppo veloci. È un miracolo se non ci sono vittime. Alla fine, tutti se ne vanno delusi, Zorba sta lì, da solo, a rimirare ciò che resta della sua teleferica: rottami, lavoro sprecato, autorevolezza dilapidata. Non è vecchio, ma non avrà altre occasioni simili. Guarda attorno a sé le rovine del suo progetto e dice qualcosa come: “Che bel disastro” o “È un disastro bellissimo”. Vede la grandezza anche nel malriuscito. Il che non deve far pensare a un’estetica della decadenza. Uscire salvi dal fallimento è un’arte che non produce grandi opere ma esseri umani altrettanto utili.
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La parte di mondo in cui si aggirano questi esseri umani beneficia della loro presenza come si è beneficiati dalla vista di un capolavoro. Oltre a Zorba il greco, un altro film didattico è La guerra dei Roses. Andrebbe mostrato a tutte le coppie che stanno per sposarsi. Nessuna indicazione su cosa fare. Di mostruosa evidenza, invece, quanto a cosa non fare. Abbastanza per salvarsi. C’è una pagina non scritta, su Cervellati, che racconta di un episodio successo a Pontecchio Marconi. Una pagina che ha vinto la propria riservatezza ed è arrivata, chissà come, fino a noi decisa a lasciarsi leggere. Tanto, dice, sono solo poche righe. Racconta di una volta che Cervellati, a ottantaquattro anni, si è fermato a guardare i ragazzini che giocano a pallone sullo slargo dietro la chiesa. È il 16 gennaio 2014. Ballardini ha preso il posto di Pioli sulla panchina del Bologna. Il giorno prima, al Dall’Ara, 2-2 col Napoli, con pareggio di Bianchi al 90°, ma un disastro coi tifosi. Per commemorare Lucio Dalla, amico del presidente onorario Gianni Morandi, e fare una sorta di gemellaggio coi tifosi del Napoli, decidono di trasmettere, prima della partita, Caruso. Ma il cerimoniale è così osteggiato dai sostenitori locali, con fischi e insulti rivolti agli avversari, che si decide d’interromperlo. Che vergogna! Per quei ragazzini, conviene Cervellati, non è successo niente, i loro modelli sono tutti campioni stranieri capaci di acrobazie stupefacenti. Per questo, nello spiazzo dietro la chiesa non si fa più gioco di squadra. Ciascuno pensa a sé, alla propria abilità nell’esibire qualche funambolismo. Roba da giocolieri, pensa Cesarino, non da giocatori. Un tiro sbilenco manda il pallone verso di lui. Potrebbe allungare un piede e fermarlo. O, addirittura, calciarlo di prima verso i ragazzini. Invece lo lascia passare, sordo ai richiami di un paio di loro che gli gridano palla!
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Andare per la via che non maltratta gli sguardi. Chiedere alla visione di stabilire lei un perimetro, e poi obbedire ai suoi limiti, curarli. È dentro un tale spazio che appare la vita. Tutto, in quell’ipotesi di calma, ha un corpo dotato di arti e di forme che lottano per difendere la grazia affidata loro. Se siamo al “tana libera tutti”, è il momento di parlare chiaro, fingere. Esistesse San Cesarino, lo invocherei nel modo in cui lo fanno certi fedeli coi loro santi. “San Cesarino, pensaci tu”, alzando gli occhi aperti al cielo e chiudendoli mentre abbasso la testa contrito. Una tale devozione sarebbe come pulire a fondo un vecchio utensile abbandonato. Restituirlo al suo aspetto originario può riaccendere la voglia di usarlo. Assieme all’utensile, si recupera il gesto della mano, la sua presa. Il teatro del corpo ritrova attorialità e la mette subito all’opera. Allora, è tutto un brillio di luci, di bisbigli, fin quando cala il buio e le voci si zittiscono.
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La libertà di divagare si sta esaurendo. L’ho usata senza risparmio, deciso ogni volta a dribblare l’ovvio e la nostalgia, a fare finte allo scontato. Adesso sono stanco e non ho sostituti dalla panchina per continuare il gioco. Vado avanti finché reggo, e poi… Ho perso leggerezza e scatto. Il fiato è sempre più corto. Quando ha capito, Cervellati, che il suo sforzo non si traduceva più in scatto? Che il dribbling aveva una elaborazione così lenta da permettere al difensore di spezzarlo sul nascere? Ho ancora un desiderio nella bacchetta magica di Raimondo Lanza di Trabia e lo esaudisco qui, ora, prima che l’affanno mi annebbi. La fonte è sempre Antonino Cangemi da «Dialoghi Mediterranei», e la scelta di un paragrafo volto al fatuo è mia, come mio è il bisogno di leggerezza. Raimondo girò il mondo, anche come diplomatico, e conobbe i personaggi più noti della sua epoca: da Aristotele Onassis, a bordo dei cui yacht si concesse più di un viaggio, all’ultimo Scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi, dal principe Ranieri di Monaco a Rita Hayworth, con cui ebbe un breve flirt; per non parlare dell’attore americano Errol Flynn, spavaldo e spaccone quasi quanto lui: si racconta che insieme passavano al setaccio le taverne di Palermo scolandosi, sino all’ultima goccia, tutte le bottiglie di Regaleali. Nel giro delle frequentazioni di Raimondo anche gli intellettuali: il regista Luchino Visconti, col quale spesso si trovava a banchettare, gli scrittori Curzio Malaparte e Alberto Moravia, tra gli altri. Tra le conquiste del principe, tantissime attrici: le due sorelle rivali nei set cinematografici, Olivia de Havilland, la dolce e coraggiosa Melania di Via col vento, e Joan Fontaine, protagonista (con Cary Grant) de Il sospetto di Hitchcock, Vivi Gioi, diva italiana del cinema dei telefoni bianchi, Hedy Lamarr, icona del fascino esotico, Joan Crawford, eletta dall’American film Institute una tra le dieci più grandi star della storia del cinema. Con la bellissima Olga Villi non fu solo un’avventura:
161 i due si sposarono nel ’53 ed ebbero due figlie, Venturella e Raimonda (padrino di battesimo Gianni Agnelli).
È un nodo del vivere? Forse no, semmai è una strettoia nella quale è impossibile non passare: odio e amore stanno insieme come vecchi coniugi alle nozze di diamante. Nessuno crede davvero che si possa solo odiare o solo amare. Col carme LXXXV Catullo apre e chiude da par suo il cerchio della dualità: Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris // Nescio, sed fieri sentio et excrucior. Nel testo originale, il cerchio aperto da Odi et amo (che non è un ossimoro, ma l’affermazione della dualità del sentire) si chiude con la dualità di excrucior che è, alla lettera, “sono messo in croce”. Ma tradurre, come spesso si legge, excrucior coi “mi struggo”, “mi tormento”, “ne ho pena”, vuol dire togliere dualità alla clausola e impedirle di coincidere con quella dell’incipit. Se invece si rispetta l’originale, la meravigliosa ipotesi di Catullo è salva: «Odio e amo. Ti chiedi forse perché io lo faccia. // Non lo so, ma sento che accade e mi mette in croce». Mentre struggersi, tormentarsi, avere pena, può avvenire in solitudine, è davvero impossibile essere crocefissi, senza la presenza dell’altro. Nella dualità della crocefissione, il solipsismo dello struggersi, del tormentarsi, dell’avere pena è interdetto. Lo dimostra bene Carmelo Bene, col suo film Salomè, del 1972. Al suono di una straniante Abat-jour ci fa vedere Cristo intento a crocefiggersi da solo. Con grandi sofferenze, riesce a inchiodarsi i piedi, poi la mano destra, finché con la sinistra, l’unica rimasta libera, indugia: afferra il chiodo che subito lascia per afferrare il martello e così via, impotente a concludere un atto che solo l’altro può perfezionare. Odio e amore vanno sempre insieme, ma non smettono mai di darsi battaglia, avidi come sono di governare da soli.
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Uniti soltanto nell’opporsi all’indifferenza, che nega il sentire prima che lo s’incontri. Mentre ammettono l’atarassia perché qui l’incontro col sentire c’è, anche se poi ci si allontana dalle sue conseguenze in nome di un superiore dominio di sé. D’estate il campionato si ferma. Prima di andare in ritiro i giocatori fanno un po’ di vacanza. Sono sicuro che Cervellati avrà scelto sempre la Riviera Romagnola: Rimini, Riccione, forse Cattolica. I primi tempi, misconosciuto; poi, circondato dall’ammirazione dei tifosi, dalle richieste di autografi. Negli anni in cui Cervellati gode della sua fama, nella mia famiglia c’è l’abitudine di andare a Ostia. Tutti insieme, non come allo stadio che è una faccenda da maschi. Ci andiamo con le borse piene di asciugamani, tamburelli e cose da mangiare. Mia madre ha la borsa di paglia e anche il cappello è di paglia. Col cappello e gli occhiali da sole non è tanto diversa dalle regine e dalle principesse in vacanza che stanno nelle riviste o nei filmati della «Settimana Incom». Il cibo è racchiuso fra coppie di piatti, e un piatto fa da coperchio all’insalatiera con la pastasciutta. Quando è l’ora, dopo l’ultimo bagno della mattina, i piatti di sopra vengono tolti e distribuiti. Mia madre fa le parti. Rigatoni al sugo di pomodoro e basilico. Al mare, meglio la pasta corta. Fettine alla pizzaiola, per secondo, con contorno di melanzane a funghetto. A parte, in una borsa a rete, la frutta lavata. Poi la busta col pane. La bottiglia dell’Idrolitina e quella del vino. Un settore dello stabilimento è riservato ai dipendenti dell’ufficio di mio padre. Ogni tanto lui incontra qualche collega e parlano, come tra colleghi. La differenza, il costume invece di giacca e cravatta.
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Cervellati era essenziale, di poche parole. Stava nell’ombra anche quando prendeva il sole, disteso sull’asciugamano dopo aver nuotato. Sempre pronto a uscire dall’ombra, però, se il Bologna lo chiamava. Ostia, in quegli anni, è un pezzo di vita bello e mi sembra che non lo vorrei rivivere in modo diverso. Poi, se ci penso, ci sono delle cose di allora che non vorrei rivivere. Siamo vicini al congedo e tutte le ultime cose hanno una responsabilità maggiore delle intermedie. Il congedo influisce sul lettore più di quanto non influisca ciò che accade prima. Iniziare bene e chiudere bene, dice il maestro. In mezzo, può esserci di tutto. In mezzo, chi cade fa in tempo a rialzarsi; chi offende può chiedere scusa. Cadere alla fine, senza il tempo per rialzarsi, si riflette retroattivamente sull’insieme. Offendere alla fine, senza il tempo per chiedere scusa, lascia un senso di malvagità. Chi vorrebbe farsi ricordare caduto e malvagio? Non è una domanda retorica. La risposta è meno scontata di quanto non sembri. Chiama in causa l’etica per cui un’azione viene ritenuta buona o cattiva. Vòlta al bene o al male. Scontata, l’inclinazione al bene. Attenzione agli automatismi, però, come se bene e male fossero sempre generali e mai particolari. Non è così. Nella ricerca del mio bene ho di sicuro fatto male. Poco importa che non lo volessi.
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Infatti, conosco solo il mio far male in modo involontario. Non ricordo una sola volta in cui abbia deciso: ora faccio del male a questo o a quella, se non come desiderio di rivalsa per un torto subito. Desiderio mai sfociato in azione. Mi piacerebbe aver fatto del male in modo proditorio. Mi sarei conosciuto meglio. Invece quella parte di me resta un mistero. In quel mistero potrebbero nascondersi orrori. Rimane il dubbio che credere di non aver mai fatto del male deliberatamente sia una falsa coscienza. Il male involontario è banale. Implica superficialità. Quella non fatico ad attribuirmela. Con una maggiore accortezza avrei potuto prevedere che certe mie azioni avrebbero causato dolore. Storie prive d’interesse. Introduzioni al grande imbroglio che si consolida, in vecchiaia, fingendo di voler sbrogliare. La noia di fingere. La profonda noia di fingere. La circostanza per cui si ritiene importante il problema della finzione. Precedute dalla parola “problema”, molte idiozie vengono nobilitate. Fingere mentre si parla del problema della finzione. Che mimetismo, che pertinenza. È per simili banalità del reale, stolide come la versione reiterata dal complottismo, che sempre più spesso smetto di fare qualunque cosa io stia facendo e soggiaccio ai dubbi della nostalgia; incerto se imboccare via della Gratitudine, per essere riuscito a vivere un prima immune dalle storture di ora, o non piuttosto via della Desolazione, per il declino del presente su se stesso che rende remota la sola ipotesi che possa esistere salvezza in un tempo prossimo venturo. Fingere in senso narrativo, è un’altra faccenda. Terminato Cervellati, inizierò un romanzo conforme al gusto corrente. Una fiction con tutti i crismi del caso.
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Una lei un po’ disturbata, un lui narciso che nasconde bene la propria gaglioffaggine, alcuni essi funzionali a teoremi di provincia, una qualche perversione del passato che si riaffaccia nel presente, l’amore, chissà, il cancro, sì, la perdita, una morte misteriosa, un’indagine che non si conclude. Un romanzo non romanzo, come dicono quei critici paraculi (non stanno solo a Cortina d’Ampezzo) i quali, dopo aver detto peste e corna della forma romanzo, decidono di scriverne uno e invece di vergognarsi (almeno un po’, mica tanto), si storcono se non hanno attenzione critica e successo di vendite. Spiego la faccenda dei paraculi. Invitato ad Arezzo, a metà degli anni ’80, per la rassegna di poesie “Confluenze”, il poeta Vito Riviello (al quale la poesia deve molto) legge, tra gli altri, anche questo distico che non smette di sembrarmi pertinente: «Un campo di girasoli a Cortona d’Arezzo / un campo di paraculi a Cortina d’Ampezzo». Forse non c’entra niente con quei critici che hanno sempre ragione, però ci consuona. Vorrei appendere la penna al chiodo dopo un successo di vendite. Inclusa una moderata soddisfazione critica. Non il bestseller, al quale serve il concorso di troppe condizioni contemporaneamente. Mettere al mondo un bestseller è come fare sei al Superenalotto. Una tragedia. Un sei al Superenalotto può viaggiare su valori di duecento milioni e passa di euro. La schedina è al portatore. Solo chi la possiede ha diritto al premio. Ci si può ammazzare pur di entrarne in possesso. Per incassare un sei ci vogliono tre mesi. Devi affidare la schedina a intermediari. L’anonimato dovrebbe essere garantito. Se non lo fosse, la malavita organizzata potrebbe esigere dal vincitore un pizzo notevole, diciamo metà della vincita, tre quarti. Chi può dirlo?
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Semmai fosse già accaduto, non lo si saprebbe. Si paga e zitti. Non mi piace il modo in cui il Superenalotto, da tanto, è cambiato. Però continuo a giocarci. Sempre gli stessi numeri. Un tempo era semplice. La sestina vincente si formava in automatico coi primi numeri estratti su sei ruote del Lotto. Si assisteva in TV alle estrazioni, ruota per ruota. Aveva l’aria di una cosa affidata al caso e alle leggi delle probabilità. Una tombola un po’ più consistente. Fare sei, con milioni di giocatori allupati, non era infrequente come adesso. Poi tutto è cambiato. La sestina non deriva più dai primi estratti del Lotto. Si forma altrove e secondo una modalità autonoma la cui correttezza, stando alle notizie sul sito della Sisal, è garantita in ogni sua fase. Un giorno che sono in vena di trame romanzesche faccio questa pensata: regola vuole che il gioco del Superenalotto s’interrompa, in tutti i terminali d’Italia, alle 19:30 del giorno d’estrazione. La sestina vincente si forma alle 20, esattamente mezz’ora dopo. Quando la mia sfiducia nella vita si accompagna alla paranoia, il che vuol dire quando entro in una logica di trama romanzesca che punta al colpo di scena, prendo in considerazione la possibilità che nella mezz’ora di tempo tra la fine delle giocate e la formazione della sestina vincente un computer molto dotato arrivi a passare in rassegna tutte le giocate fatte. Questo consentirebbe, allo stesso computer, di creare una sestina non giocata da nessuno per molte estrazioni di fila, così che il montepremi aumenti, e le puntate per accaparrarselo aumentino a loro volta. Qualcosa come la corsa all’oro. Naturalmente, occorrerebbe una notevole sospensione dell’incredulità per ammettere che i meccanismi di garanzia dispiegati per l’estrazione possano venire impunemente aggirati. A pensar male, sempre sul filo di una trama romanzesca, sorge una domanda: per la malavita organizzata, cosa sarebbe più
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conveniente? Andare di settimana in settimana a visitare tanti piccoli vincitori, a raccattare briciole, insomma, o aspettare con tutta calma che ogni sei o sette mesi venga fuori il supervincitore da duecento milioni di euro? O anche, senza implicare la malavita, quanto possono fruttare due o trecento milioni di euro fermi per un anno e più nelle casse dei gestori? Sono meschino e poco originale, lo so. Ma è il meno che possa capitare a chi s’impegola con le trame. Nebbia, nebbia, tanta nebbia. Non si vedono più le domande, non si vedono neanche le risposte. Il bestseller è altrettanto oscuro. Più inquietante, da un punto di vista sociale. La tangente sul Superenalotto, nella fiction, riguarderebbe pochi soggetti: un vincitore, l’ente che gestisce il gioco, un nucleo ridotto di malavita. Il bestseller riguarda sempre milioni di lettori, diventa costume, e poiché non è quasi mai accompagnato dalla qualità, finisce per corrompere. Una pesca miracolosa (per chi ne trae vantaggi) che incide il suo danno sul corpo della società come capita al corpo del condannato in Nella colonia penale di Kafka. Allo scrittore da bestseller preferisco lo scrittore fallito. Ha una sua poetica. Naturalmente è una preferenza pro domo mea. Quanto al rapporto con gli editori, a parte pochi e di nicchia, sono cresciuto sui rifiuti. Detta così evoca la spazzatura, gli slums. Che fissazione procedere da solo quando era fin troppo chiaro che senza un campo di appartenenza non avrei fatto molta strada. Ma lo spettacolo di quei campi, ogni volta che mi ci sono accostato, non mi ha offerto nulla che mi fosse affine, e dove non ci sto bene non mi fermo.
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Soffro di superbia? No, godo di superbia, essa mi è amica. La superiorità connessa alla mia superbia è etica. Negandomi ai giochi delle camarille mi considero migliore di chi invece vi soggiace. Quelli ne traggono vantaggi, però; io, pur di non farne parte, sono emarginato. Essere in accordo con la coscienza vale più di un libro edito o di un posto di lavoro. Queste, comunque, sono chiacchiere. Per uno scrittore parlano le opere che gli sopravvivono. Ho deciso: un giorno mi metto lì e strappo tutti i manoscritti che non vanno. Poi, curo le poche cose degne di restare oltre me. L’editoria postuma è piena di resipiscenze ed equivoci che si ritorcono tutti contro lo scomparso, anche quando possono giovare agli eredi. Chi scrive non smette mai di lavorare. Non va in pensione fino a che la testa lo assiste. Chi scrive non si dà pace. Finito anche il periodo da allenatore, per Cervellati è iniziata una fase di vero riposo. Certo avrà ancora seguito il calcio, avrà sofferto o gioito per le alterne vicende del suo Bologna. Però era fuori, spettatore di un teatro che avveniva altrove. Lo scrittore, invece, è sempre protagonista delle sue scelte. Trionfo o disastro non smettono mai di avvenire sul suo terreno. Non può staccarsi dalla condanna di scrivere. Di credere che sia importante pubblicare ciò che scrive. Lo scrittore assiste costernato allo spettacolo; la ruota della fortuna macina nomi e decreta successi. Tutto avviene per lo più in un campo che prescinde dalla qualità. È una giostra di piccoli pantheon che brillano o si spengono per le ragioni più casuali ed estemporanee. In questo alternarsi di facce sorridenti e musi ingrugnati sfilano i cadetti delle soperchierie, gli specialisti del “chiagni e
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fotti”, i fustigatori dell’aria del tempo, i manipolatori, i sadomasochisti del narcisismo imperante, il sudore arrapato sulle fronti dei vincitori. Sanno che tutto passa velocemente e mungono l’istante con una furia che strappa il sangue dalle mammelle. La lupa del disordine sorge magra come una luna piena un po’ sfigata. Sono afflitti da nuove malattie professionali che hanno imparato ad avere fretta a loro volta. Chi ne è colpito, e prima o poi tocca a tutti, deperisce velocemente. Sparirà presto dall’orizzonte dei si dice. Muore anche come spettatore. È una turbolenza inarrestabile. Non lo dimentichiamo, non dobbiamo mai dimenticarlo. Quando comincio col plurale, so che devo fermarmi, abbassare la tensione. Non sono il mondo. Mi sembra già abusivo poter disporre di un singolare tutto per me. Il plurale mi suona sempre come una chiamata di correità. Penso al “lei non sa chi sono io” trasformato in “lei non sa chi siamo noi”. O anche, per ristabilire una parità, in “voi non sapete chi siamo noi”. Chi assistesse a un’affermazione del genere, pronunciata fra due soli soggetti, penserebbe a un convegno di uomini invisibili. Argomento già trattato come si deve da Corrado Costa: « non riusciamo mai a sapere / se c’è l’uomo invisibile. / Finisce sempre che l’uomo invisibile / non si vede mai…». Sto per abbandonare Cervellati. Niente insulsaggini. Solo un sorriso, come è d’obbligo quando ti scattano la foto ricordo. Non riesco a sorridere. Anche stavolta sarò venuto con quell’aria demente che danno gli occhi mezzi chiusi.
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Congedo
Le poche pagine rimaste devono lasciare il segno. Perché “poche pagine”? I capitoli nati attorno allo spontaneo divagare, hanno tutti tra le cinque e le sette pagine. Non l’ho deciso, ma quello è stato il respiro. Il congedo per sopravvenuta stanchezza, volontaristico ai limiti del proditorio, potrebbe raggiungere un numero di pagine superiore. Potrei approfittarne per parlare di ciò che ignoro maggiormente a dimostrazione di come si possa improvvisare pescando da internet. Correggo quanto ho detto nell’ultimo capitolo. Il prossimo lavoro, finito Cervellati, non sarà una fiction ruffiana. Sarà uno scritto spurio che strizza l’occhio al piccolo saggio disimpegnato. Il tema sta tutto nel titolo: L’impossibilità di essere Bouvard e Pécuchet. È prevedibile la centralità di internet, di Wikipedia. In appendice, una riscrittura del Dizionario dei luoghi comuni.
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So che non lo farò mai, però mi piace pensarci. Fantastico di scriverlo. Nelle fantasie, lavoro con la vecchia Lettera 22. E sono molto più giovane. Siedo a una scrivania di fortuna: un ripiano di legno poggiato su cavalletti. Lo spazio, benché angusto, gode di ampia finestra con affaccio su un cortile condominiale che amo per molte ragioni. Intanto, perché ospita una grande palma la cui chioma vedo da sopra. Poi perché c’è la possibilità che l’amore per la scrittura sia corrisposto. Quella fiducia in me stesso è la pace in guerra, il sapere nell’ignoranza. Posso incontrare gli altri senza vergognarmi di avere passioni. Adesso, nel senso del più aggiornato qui e ora, la mia prevedibile serietà mi fa sentire meschino giacché l’applico soprattutto ai lati più banali della vita quotidiana: il rispetto delle regole (un tempo vivevo in un costante “rompete le regole” che era la risposta libertaria al militaresco “rompete le righe”), la prudenza nel dire esisto (una volta conducevo una vita abbastanza enfatica), la puntualità (e che problema poteva mai essere quando, senza prendere accordi, ci s’incontrava sempre al momento giusto?). In questo rugoso giardino d’infanzia che è la società letteraria, dove si gioca all’assoluto con uno scarsissimo senso delle proporzioni e con una quota di cecità che rende ridicolo fissarsi sull’importanza dei propri scritti, io mi aggiro col passo di un vecchio che la sa lunga. È il 22 gennaio 2022, sono le 12:20 e mi allontano dalla tastiera del pc perché nella vita c’è anche altro. Ho pensato molto a quello che avrei voluto scrivere come congedo.
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Un’idea era emersa subito dopo pranzo. Ma poi mi sono distratto. Poteva trattarsi di un ricordo degli anni ’50. Un periodo da matti. Credo che chiunque navighi sul mare della mia età condividerebbe l’impressione. Mettere le mani in quel decennio equivale a chiudersi in una cineteca che mischia neorealismo, commedia all’italiana, e anche un cinema sperimentale di nicchia quale quello che guizzava sull’unica striscia di schermo visibile, spiando l’arena del Novo Cine dalla finestra di casa dei nonni sul lungotevere Testaccio. Nei dintorni di quella cineteca ci sono le gite a Ostia, Roma deserta a Ferragosto, il pizzardone a piazza Venezia, Carosello, la Stock di Trieste col solito slogan della domenica: «Se la squadra del vostro cuore ha vinto, brindate con Stock 84, se ha perso consolatevi con Stock 84…» (incomprensibile l’esclusione del pareggio), l’intera paccottiglia dei graffiti in cui tutti dovremmo riconoscerci ma che in realtà ci esclude tutti, perché i luoghi comuni annientano. Inutile che mi sprema le meningi, non ricordo. Il modo migliore per far rientrare una cosa scappata di mente è non pensarci, non farle sentire l’abbaiare dei segugi che le danno la caccia. Se li sente, si nasconde più in fondo che può, e poi col cavolo che viene fuori. Potrebbe addirittura uscire quando non mi serve più e mi sto scervellando su altro, col risultato di distrarmi da quello per cui mi sto scervellando. Magari, quando l’idea per il finale giusto viene fuori, Cervellati è stato pubblicato con un finale così così, e di colpo mi ritrovo per la testa la soluzione che se l’avessi ricordata in tempo avrebbe aiutato il libro a farsi notare di più. Per favorire la memoria, mi distraggo facendo altro. Scrivo un paio di mail che rimando da tanto. Provo a leggere un po’.
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Con uno scritto da cui congedarmi, la concentrazione giusta per leggere va a farsi benedire. Leggere: facile a dirsi. Prendo un libro, poi un altro e un altro ancora, e su nessuno trovo pace. Le parole non solo sfuggono, ma hanno tutte il potere di ricordarmi che sto trascurando il lavoro. Allora eccomi qui, con le dita di nuovo sulla tastiera. All’opera. Chiudo gli occhi, e infine trovo qualcosa, non l’idea sfuggita di mente ma l’argomento. I fichi. La passione per i fichi. È incluso anche l’albero con le sue belle foglie bibliche e coi rami che sono ideali per le forcine di fionda. È incluso il latte appiccicoso che stilla dal picciuolo quando si stacca un frutto immaturo. L’odore amarognolo delle foglie, come se tutto il dolce stesse riempiendo i frutti fino a farli spaccare, a far gocciare una resina capace di attrarre vespe, api, calabroni, bombi, mosche, uccelli, tutti gli alati e i ronzanti che convivono col fico dalla nascita del mondo. La mia vita è ricca di aneddoti riferibili ai fichi, ma per quanto provi a scorrere lungo la memoria non ne trovo uno che mi faccia esclamare eureka. Allora, meglio se mi dedico ad altro. Non so perché apro Instagram e rimango folgorato da un’immagine. È della “magrittegallery londra” e annuncia: L’Empire des Lumières (1961) will be offered at the Sotheby’s London Modern & Contemporary Evening Auction on March 2. Estimate: $60 million. On view: Los Angeles 11 – 14 January; New York 22 – 27 January; Hong Kong 8 – 9 February; London 22 February – 2 March. Nella foto il quadro, con la sua cornice dorata senza passe- partout, è tenuto per i lati da due inservienti, un ragazzo e una ragazza, in guanti bianchi e mascherina nera, camicia bianca, pantaloni neri, grembiule blu scuro. Il gesto è semplice e solenne al contempo. C’è una simmetria rituale, un’aria ostensiva.
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Quell’opera di Magritte, una delle tante versioni dello stesso soggetto, ha sessantuno anni. È stata dipinta per la baronessa Anne-Marie Gillon Crowet, figlia del collezionista belga Pierre Crowet, mecenate di Magritte, e concessa in prestito, dal 2009 al 2020 al Museo Magritte di Bruxelles, dove l’ho vista. La sua bellezza ha generato un valore – arbitrario come tutte le traduzioni da bellezza in denaro – che implica una base d’asta di sessanta milioni di dollari. Concetti che svolazzano con la leggerezza di farfalle il cui batter d’ali non causerà terremoti ma silenzi stupiti. Concetti. Il concetto di “orizzonte” può venire compromesso da un semplice torcicollo. Il concetto di “visuale” può essere distorto da un granello di polvere nell’occhio. Il concetto di “concetto” può essere limitato dal non tenere conto che concetto deriva da concepito, e come noi è figlio di una dualità. Ecco perché è parziale e riduttivo pensare da soli, ed errato crederlo bastevole. Cerchiamo sempre, invece, per ogni concetto fatto nostro, l’altro che assieme a noi lo ha concepito, l’interlocutore sconosciuto col quale, senza saperlo, ragioniamo. Il nonsenso officiato in grande stile può arrivare persino a essere confuso con una profondità inarrivabile. I riti dello Zeitgeist. Un giorno lo Zeitgeist incontra il Genius Loci. L’audacia di scrivere una storia con questi due personaggi. Le spiegazioni dei sociologi non mancherebbero. Gli studi dei semiologi comporterebbero qualche titolo in più sui CV di una generazione. Il modo in cui certi filosofi leggono la realtà fa cadere le braccia. I più seguiti hanno dato voce a canaglie organizzate in bande.
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Pensare filosoficamente non è andare a caccia di visioni del mondo con potenti armamentari sapienziali, ma spogliarsi via via di ogni armamentario per diventare – da inoffensivi – il più possibile capaci di accogliere l’insolito; che non sta per forza nei fini di un progetto (anche ambizioso) ma lì dove alla nostra intelligenza – fattasi inerme e recettiva – è consentito accedere. Il pensiero filosofico, quindi, non si attiverebbe con “cerco”, ma con “mi metto in condizione di essere trovato”. Insieme ad altri, parlo e parlo come per dimenticare quanto accade. Da solo, mi dedico ai ricordi, un’attività molto libera. Ricordo che Delfina Vezzoli l’ho nominata nel capitolo 10 perché la definizione di nevrosi romantica, nel senso di volere l’impossibile o rendere impossibile ciò che si può avere, l’ho sentita da lei. Mi ero ripromesso di parlarne nel congedo, a più di quattro anni dalla morte, ed eccomi pronto a farlo. Siamo coetanei e lei è riuscita a nascondermelo sempre. La conoscenza avviene sul finire degli anni ’70, grazie a un’amica comune. Lettori appassionati, ci troviamo in un bel dialogo attorno al libro di Peter Handke La donna mancina (Garzanti, Milano 1979) appena uscito. Da allora, con pause più o meno lunghe per i suoi frequenti viaggi in Asia, non ci perdiamo più di vista. Così lontani, i ricordi non sono più né film né fotografie. Somigliano a un’insorgenza onirica. Oltre che dalla bellezza e dalla vivacità intellettuale, sono affascinato dalla sua spinta erratica: è un pozzo d’inquietudine, di aperture, di slanci, di disponibilità a farsi coinvolgere, vuoi dall’affine che dal diverso. Chissà se è davvero così? La associo a colori intensi. Indelebili, nella memoria, il rosso della sua Fulvia coupé nella quale scorrazziamo a lungo fra
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Toscana e Umbria a inizi anni ’80; il bianco del maremmano, Ulisse, che la segue anche quando si sposta in autostop; l’ava na degli inseparabili beedi Ganesh che le creano attorno il microclima olfattivo dell’amata India. Come si fa a ricordare in modo così infedele? Può dipendere dalla sua professione? Lei traduce, quindi tradisce, e io sarei indotto a fare altrettanto. Ragionamento barbino. Le devo molto, questo è un fatto. Ricordo che un giorno, mi regala Frammenti di un discorso amoroso (Einaudi, Torino 1979). Ci si parla attraverso Roland Barthes. Ma non vuol dire niente. Dovrei anche ricordare che la mia compagna di allora butta dal finestrino della macchina in corsa il libro che mi ha regalato Delfina. Dovrei anche dire che sono riuscito a riprenderlo e che ce l’ho ancora. Sì, le devo così tante cose che a raccontarle si sminuirebbero. Posso dire che nei primi ’90, lei lascia Roma per tornare a Milano. Al posto delle frequentazioni condivise – attorno al tavolo di poker mai troppo cruenti, o a casa di Silvana Ottieri a parlare di tutto e di nulla – ci scambiamo mail e, per scritto, la sua ironia non è meno affilata, le sue battute non sono meno divertenti. Nel 1999, per Einaudi, traduce Underworld di Don De Lillo, un’opera gigantesca della quale mi parla con entusiasmo. Tanto più è forte l’amore per i testi altrui, però, quanto più si apre in lei la vecchia ferita: Delfina vuole scrivere, da sempre, ma la mole di lavoro di cui si carica non le concede tregua. L’impiego del tempo si risolve spesso in scelte drastiche. Lei sa che il suo rimandare è una forma graduale di rinuncia, una perdita con la quale non farà mai pace. Mi confessa di aver scritto un romanzo, prima che ci conoscessimo, ma di averne disperso l’unica copia in mare per certi mali d’amore che esigevano un tale sacrificio.
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Lei è quella attiva, piena di conoscenze e di referenze, mobile e travolgente per sé e per le persone che le sono care. Un vulcano talmente vitale da indirizzare molta lava verso lo spreco. Dice, con la sua vita, che per farcela devi batterti, prevalere di forza; che sì, la gentilezza va bene, ma guai a non avere gomiti robusti. In rapporto a lei, io sono l’imbranato, lo stanziale disinteressato alla lotta, convinto che puntando sulla qualità sia possibile farsi aprire le porte. Naturalmente ha ragione Delfina. Le devo molto, per i più svariati motivi. In particolare, per avermi aiutato a mantenere la fiducia in me stesso, come scrittore, quando incontravo risposte così poco incoraggianti da farmi pensare alla resa. A fine gennaio del 2015 mi parla della malattia. La vedo l’ultima volta al Salone del Libro di Torino del 2016, già abbastanza provata, in compagnia della sua pneumologa. Sembrano vecchie amiche, hanno in programma di scrivere qualcosa insieme, fanno progetti. Un piacere, la loro compagnia, non ci fosse il male di mezzo. Quell’anno, al Salone, c’è anche Riccardo Duranti, impegnato con lo stand della sua casa editrice Coazinzola Press cui devo la pubblicazione di due romanzi. Sa della presenza di Delfina e, da traduttore, vorrebbe incontrarla. La cosa mi fa piacere, cerco di favorire l’incontro e forse ci riesco. Dico forse perché i rumori del Salone sono così dirompenti che la memoria non sa decidersi tra varie opzioni. Nella prima, Delfina vuole a sua volta incontrare Riccardo, però ha problemi a camminare fino allo stand della Coazinzola Press. Nella seconda, Riccardo va da lei o forse invece vorrebbe farlo ma non può lasciare lo stand. Nella terza, azzardo che forse si sono incontrati a metà strada e io, come in sogno, c’ero e mi vedevo esserci ma a che pro, visto che poi avrei dimenticato.
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Chissà com’è andata davvero. Tutto si confonde nel caos di quel labirinto vociante che, oltre a non favorire i libri, confonde i ricordi. Ci sentiamo al telefono, di tanto in tanto. Lei a Milano, io a Roma, seguo gli alti e bassi di una malattia che, seppure lenta, sembra inarrestabile. Poi un suo ultimo messaggio vocale, con le parole che si distinguono appena, come smorzate dalla consapevolezza. Il triste derivare dell’intelligenza giunta al limite del comprensibile. Forse non chiedono una risposta. Io posso accoglierle solo col silenzio. Ecco, questo ricordo non è niente, ma se l’ho scritto vuol dire che l’ho preferito al silenzio. Vuole anche dire che non ho l’energia per abitare nel passato con la frusta del domatore. Le morti sul lavoro producono oblio. La morte del giovane stagista passata sotto silenzio. Prendo la notizia dalla pagina di Sky TG24: Udine, 18enne morto durante lo stage: Procura apre fascicolo per omicidio colposo 22 gen 2022 – 12:40 La Procura di Udine ha aperto un procedimento per l’ipotesi di omicidio colposo al momento a carico del legale rappresentante, come datore di lavoro, in merito all’incidente avvenuto il 21 gennaio nello stabilimento della Burimec di Lauzacco (Udine), in cui ha perso la vita lo stagista diciottenne Lorenzo Parelli. In una nota, la Procura sottolinea la “necessità di svolgere attività di accertamento irripetibile nelle forme garantite di legge, al fine di addivenire ad una compiuta ricostruzione della dinamica dell’infortunio mortale”. Sono in corso approfondimenti d’indagine per individuare eventuali ulteriori profili di responsabilità anche a carico di altre figure aziendali. Nei prossimi giorni con ogni probabilità verrà disposta l’autopsia.
180 Lorenzo Parelli stava svolgendo un tirocinio del progetto di alternanza scuola-lavoro nella ditta di carpenteria metallica che realizza bilance stradali e utilizza lo stabilimento di Lauzacco di Pavia di Udine per lavori di laminazione. Il ragazzo è morto schiacciato da una putrella di acciaio. Immediati sono stati i soccorsi da parte degli operai dell’azienda e in pochi minuti sono arrivati alcuni equipaggi dei Vigili del fuoco di Udine, un’ambulanza e l’equipe medica dell’elicottero sanitario Fvg, ma per lo studente non c’era più nulla da fare. Tra i primi ad accorrere anche i genitori della vittima, che abitava a Castions di Strada. Il diciottenne frequentava il Centro di Formazione Professionale all’interno dell’Istituto superiore Bearzi di Udine, gestito dai salesiani.
Una società che resta indifferente a certe morti è destinata a morire. Per diserzione in massa di chi non ne può più. Nessuno, a livello istituzionale, si è fermato a riflettere su questa morte/delitto. Nessuno che abbia messo in discussione l’utilità dell’alternanza scuola-lavoro. La scuola è in caduta libera. Il lavoro è un lusso per pochi e una dannazione per tanti. Quale alternanza può generarsi tra organismi vicini al collasso? Gli studenti che manifestano contro l’alternanza scuola-lavoro in nome del compagno morto a diciott’anni vengono manganellati. Manovre imbarazzanti per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Un magnate della Repubblica Ceca è venuto a fare spese a Roma. Ha già acquisito, come scrive VignaClaraBlog.it, l’ex ippodromo a Tor di Valle, il Centro commerciale Maximo, l’area di via Monti della Tiburtina (Pietralata), l’ex sede Alitalia alla Muratella e l’area di via Città di Castello, al Fleming, un
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ettaro e mezzo di verde destinato a essere pubblico e venduto nel 2003, Veltroni sindaco, a privati, in attesa della delibera a edificarvi arrivata nel 2011, Alemanno sindaco. Per conoscere la verità, segui il denaro, si dice. Provo a seguirlo; gira in tondo, va da tutte le parti. Mi sfinisce, fa perdere le tracce, porta ovunque. Non posso continuare. Smetto. Con l’aggiunta delle due appendici il lavoro di Cervellati è finito. Qualunque cosa di buono possa circolare, nelle pagine fin qui scritte, la dedico a Cesarino Cervellati e a Luigi Ghirri che un giorno, chissà, potrebbero davvero essersi incontrati. La foto non scattata che testimonia dell’incontro la conservo io. Posso darne una copia a chiunque la richieda. Gratis, neanche a dirlo.
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Appendici
1. Montale Diverse pagine fa avevo promesso di rivelare, concluso Cervellati, quale poesia di Montale, potendone scegliere una sola, fosse in grado di rappresentarlo. È un gioco insensato, lo so, ma le promesse vanno mantenute. La poesia è L’anguilla, tratta dalla raccolta La bufera e altro. Mi raccomando, leggetela facendo sempre una piccola pausa alla fine di ogni verso, anche se il senso indurrebbe a leggere di seguito. L’anguilla, la sirena dei mari freddi che lascia il Baltico per giungere ai nostri mari, ai nostri estuari, ai fiumi che risale in profondo, sotto la piena avversa, di ramo in ramo e poi di capello in capello, assottigliati, sempre più addentro, sempre più nel cuore del macigno, filtrando tra gorielli di melma finché un giorno una luce scoccata dai castagni ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta, nei fossi che declinano dai balzi d’Appennino alla Romagna; l’anguilla, torcia, frusta,
184 freccia d’Amore in terra che solo i nostri botri o i disseccati ruscelli pirenaici riconducono a paradisi di fecondazione; l’anima verde che cerca vita là dove solo morde l’arsura e la desolazione, la scintilla che dice tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi, bronco seppellito; l’iride breve, gemella di quella che incastonano i tuoi cigli e fai brillare intatta in mezzo ai figli dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu non crederla sorella?
2. Astutillo Malgioglio, il portiere che parava per i più deboli (Pubblico integralmente, perché mi sembra di notevole eloquenza, l’articolo di Paolo Camedda del 13/11/2021, estratto dal sito: https://www.goal.com/it/notizie/astutillo-malgioglioportiere-che-parava-per-i-pi%C3%B9-deboli/15bxp5ytfr6kw 1goybpw0todjo). Era un buon portiere, ma in carriera fu soprattutto un affidabile dodicesimo: Astutillo Malgioglio e lo Scudetto vinto aiutando i più deboli. Sfogliando gli album di figurine, a tutti coloro che erano bambini negli anni ’80 del secolo scorso, cadeva l’occhio inevitabilmente su quella di un portiere, Astutillo Malgioglio. Ad attirare la curiosità e la simpatia dei più piccoli erano quel suo nome non comune e quel viso sorridente che ispirava fiducia dietro i suoi baffi.
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“Tito”, il diminutivo con cui lo chiamavano i suoi compagni di squadra – anche se come un altro suo celebre collega, Luciano Bodini, ha speso gran parte della sua carriera come dodicesimo – era un buon portiere. Aveva un fisico scultoreo e tanto coraggio. Ma le sue parate più belle (i bambini questo allora non potevano saperlo) le ha fatte fuori dal campo con il suo impegno e la sua opera in favore dei meno fortunati, i ragazzi affetti da disabilità, fisica e psicologica. La sua è una storia di straordinaria dolcezza, spesso non compresa da un mondo, quello del calcio, che gli chiedeva soltanto di pensare a neutralizzare i tiri degli avversari senza curarsi troppo dei problemi degli altri. Nato a Piacenza, il 3 maggio 1958, cresce calcisticamente nelle Giovanili del San Lazzaro, poi passa alla Cremonese e quindi al Bologna. Con gli emiliani debutta in Serie A il 22 maggio 1977. In quella gara, ultima giornata di campionato, il tecnico rossoblù Cervellati gli concede la passerella facendolo entrare in campo negli ultimi 10 minuti al posto di Franco Mancini. Nel 1977/’78 passa al Brescia, in Serie B. Con le Rondinelle gioca titolare per 5 stagioni, vive gli anni più belli della sua carriera da calciatore e scopre la sua vocazione. È la sera di Natale del 1977 e alcuni amici convincono il diciannovenne portiere piacentino, cattolico praticante, a far visita a un centro per bambini cerebrolesi. Malgioglio ci va con la sua fidanzata, Raffaella, e arriva per lui la folgorazione. Mi impressionò la loro emarginazione – ha raccontato a «Il Fatto Quotidiano» –, l’abbandono, il menefreghismo della gente. Fu un’emozione fortissima, un pugno nello stomaco. I miei genitori si sono sempre impegnati nel sociale e mi avevano già insegnato il rispetto e la solidarietà verso gli altri, ma quel giorno tutto mi apparve chiaro.
Quella visita cambia per sempre la vita di Astutillo. L’estremo difensore si sposa, ha una figlia, Elena, e decide di spendere
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una parte importante del suo tempo e dei suoi guadagni per aiutare i ragazzi meno fortunati. Parlai con Raffaella e decidemmo che non saremmo rimasti con le mani in mano. La vita non è solo una palla di cuoio. Ci mettemmo a studiare, acquistammo i macchinari e aprimmo a Piacenza un centro per la riabilitazione motoria dei bambini. Chiamai la palestra “ERA 77”, dalle iniziali del nome di mia figlia Elena nata nel 1977, di mia moglie Raffaella e del mio. Offrivamo terapie gratuite ai bambini disabili. Li aiutavamo a camminare, a muoversi da soli.
Porta avanti i suoi studi e si laurea in Medicina, mentre Raffaella consegue il Diploma ISEF. Nel 1980, dopo la squalifica di Zinetti, Azeglio Vicini lo vuole nell’Italia Under 21 come vice Giovanni Galli. Ma il mondo del calcio non lo capisce, e anzi, spesso lo ostacola e lo deride. Essere buoni in un mondo cinico e spietato è follemente percepito come un limite, anziché una qualità. E Malgioglio se ne accorge presto. Al Brescia, dopo aver dato un contributo fondamentale alla promozione nel 1979/’80, nella stagione 1981/’82 – con i lombardi in Serie B – quando Marino Perani subentra ad Alfredo Magni, lo mette fuori squadra, accusandolo di scarso impegno. Quello pensa agli handiccapati anziché parare.
Ma le cose non stanno come pensa l’ex ala del Bologna e della Nazionale. In tutta la carriera non ho mai saltato un allenamento – sottolineerà Malgioglio anni dopo –. Ero uno di quelli che si definiscono “professionisti esemplari”.
Il risultato? Il Brescia retrocede in C1. Nel 1983 “Tito” riceve la chiamata della Roma di Liedholm e accetta. Pur giocando poco, si guadagna la stima del tecnico svedese, che gli consente di usare la palestra di Trigoria per assistere i suoi ragazzi, come farà anche Eriksson dopo di lui.
187 Dei due anni in giallorosso conservo ricordi splendidi. Ho avuto ottimi rapporti con tutti. La società mi è sempre venuta incontro: portavo i bambini disabili a Trigoria per la rieducazione, usavo la palestra della squadra dopo l’allenamento.
Fra i compagni il portiere piacentino lega particolarmente con il capitano Agostino Di Bartolomei. Aveva una sensibilità particolare. Come me parlava poco, ma aveva un cuore grande. Andavamo spesso negli ospedali a trovare i bambini ricoverati in terapia intensiva.
Da portiere di riserva vince la Coppa Italia e arriva in finale di Coppa dei Campioni. Con l’arrivo di Eriksson trova meno spazio e questo lo porta, per orgoglio, ad accettare la proposta di Gigi Simoni, che lo vuole come titolare alla Lazio nella stagione 1985/’86, e a rifiutare quella del Bari in Serie A. Quello in biancoceleste sarà però per lui l’anno più difficile della sua carriera. La squadra non brilla in Serie B, e Malgioglio e il suo impegno verso i più deboli diventano il capro espiatorio del tifo più becero. Iniziano così ad apparire in Curva Nord striscioni deprecabili e assurdi cori. “Sporco romanista, sei il primo della lista”, gli urlano appena prende goal in un successo per 3-1 contro il Cagliari, ma anche: “Se stai sempre con gli handicappati, quanno ce pensi ar pallone?”.
La situazione per il portiere diventa presto insostenibile e non gli viene perdonato nulla. A Tor di Quinto, il vecchio complesso in cui Tommaso Maestrelli aveva edificato lo Scudetto della Lazio nel ’74, gli distruggono l’auto con mazze e bastoni, ma non viene trovato nessun responsabile. Fu una stagione tormentata. La squadra stentava, la società era assente e disorganizzata, i tifosi non mi lasciavano in pace. Criticavano il mio impegno fuori dal campo, insultavano la mia famiglia. Mi sono sempre chiesto il perché di tanto odio; non ho mai preteso applausi, solo un po’ di rispetto.
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Dopo ogni allenamento si ripete lo stesso triste rituale: contro Malgioglio vengono lanciate bottigliette, fischi e pomodori. Ma non basta. Si scagliano contro sua moglie, colei che rappresentava il suo punto di riferimento più importante, con cui condivide la stessa sensibilità verso i più deboli. Non soddisfatti, se la prendono anche con sua figlia Elena, nel modo più becero, insultandola a scuola. Finché si arriva alla partita contro il Vicenza, che segna il punto di non ritorno con la tifoseria biancoceleste. Il 9 marzo 1986 si gioca all’Olimpico Lazio-Vicenza. Gli insulti e i cori contro “Tito” da parte dei tifosi capitolini sono insostenibili. Il portiere è tutt’altro che sereno e compie due errori gravi che portano i biancorossi a vincere 4-3. In Curva Nord spunta lo striscione in assoluto più squallido. Tornatene dai tuoi mostri.
Malgioglio, che ha accumulato tutto dentro di sé, non ne può più e perde le staffe. Uscendo dal campo si toglie la maglia, e dopo averci sputato sopra, la lancia con rabbia verso gli ultras della Lazio. Un gesto estremo, certamente non bello, ma arrivato dall’esasperazione di un uomo onesto. La sua esperienza romana è di fatto finita in quel momento. La società lo sospende a tempo indeterminato e chiede alla FIGC la sua radiazione per “oltraggio alla maglia”. Tito non aspetta di essere giudicato e decide prima. Senza pensarci troppo rescinde il suo contratto ed è intenzionato a dire basta al calcio. Pur avendo dato tutto me stesso per la squadra, fui preso di mira dall’inizio come capro espiatorio – disse a «L’Unità» –. Mi tolsi la maglia con la consapevolezza di dire basta col calcio. I dirigenti si scatenarono e recitarono da ultrà. Proposero la mia radiazione. Fu come essere aggredito un’altra volta. Mi accusavano con frasi prive di senso: “La bandiera non si tocca”, arringavano. “Malgioglio l’ha sporcata, deve andare via”.
189 Quello che mi ferì di più, però, non furono le cattiverie nei miei confronti ma la totale mancanza di rispetto, di solidarietà, di pietà per quei bambini sfortunati che non c’entravano niente. “Mostri”, così li hanno chiamati. Il giorno dopo a Piacenza ho visto i genitori di quei bambini, che mi guardavano negli occhi. Non sapevo cosa dire. Mi sono vergognato per quei tifosi. Molti di quei bambini oggi non ci sono più.
Astutillo torna a Piacenza a dedicarsi ai suoi ragazzi a tempo pieno. Il calcio sembra già il suo passato, quando gli arriva una telefonata inaspettata: è Giovanni Trapattoni, che lo vuole all’Inter per fare la riserva di Walter Zenga. Ho letto che abbandoni, mi dispiace. È un peccato. Ripensaci. Se lo desideri, per uno come te, all’Inter c’è sempre spazio. Il calcio ha bisogno di figure come la tua.
Il portiere piacentino accetta e a Milano vive una seconda giovinezza. In 5 anni, pur giocando poco (19 presenze in tutto nelle varie competizioni) trova l’umanità che cercava. Credo sia stato Dio a mettere quell’uomo sulla mia strada: e in quel momento, poi! Durante i ritiri, la sera, Trapattoni aveva l’abitudine di fare il giro delle stanze per dire una parola a ciascuno di noi. A volte entrava nella mia, si fermava sulla porta e si metteva a piangere. Non diceva niente, ma in realtà mi parlava. Era un uomo che viveva per il calcio e per il lavoro ma che sapeva che nella vita c’è molto altro. E se io ero lì, davanti a lui, era perché ero un buon portiere, certo, ma anche perché aveva visto in me l’uomo.
Vince lo Scudetto dei record e la Coppa UEFA 1991, ma la sua vittoria più bella è il tempo che trascorre accanto agli ultimi. Con gli ingaggi dell’Inter rinnovai la palestra con attrezzature all’avanguardia. I ragazzi venivano da tutta Italia per fare rieducazione nel mio centro. Facevo allenamento al mattino ad Appiano, poi al pomeriggio lavoravo, facendo terapia con un disabile all’ora. Se c’era allenamento al pomeriggio, arrivavo
190 a Piacenza in tempo per farne uno solo, verso sera. Dicevano che mi distraeva, invece a me dava una carica straordinaria.
Riesce persino a coinvolgere alcuni dei suoi compagni. Su tutti un tedesco solitamente freddo come Jurgen Klinsmann. Dopo un allenamento chiede a Malgioglio di poter venire con lui, lo osserva mentre aiuta i bambini e commosso, prima di farsi riaccompagnare a Milano, stacca un assegno da 70 milioni di lire. Un caso raro per la categoria: in una raccolta fondi organizzata dall’AIC per perorare la causa del portiere, sono raccolte appena 700 mila lire. Jurgen veniva anche due volte a settimana, – ricorda Malgioglio – evidentemente l’avevo colpito. Veniva nelle case dei ragazzi, mangiava con loro, parlava coi genitori. Una gran persona. Aveva un atteggiamento bello, senza pudori. Era libero. È stato l’unico.
La carriera lo mette di fronte poi a uno snodo imprevisto. È il 4 marzo 1990 e al Flaminio si gioca Lazio-Inter. Zenga non sta bene, tocca a Tito. Proprio contro la sua ex squadra e quei tifosi che non lo hanno mai perdonato. Trapattoni non ebbe alcun dubbio: “Vai in campo, non sentire i fischi che arriveranno, dimostra che uomo e che portiere sei”. Il clima era teso, il presidente Pellegrini mi chiese di portare dei fiori alla curva laziale per non far scatenare gli ultras. C’era il rischio di incidenti. Io gli risposi che non sarebbe servito a niente, perché sapevo che la natura delle persone non muta. Ma a malincuore portai quei fiori.
Fischi assordanti, e dalla Curva piove in campo di tutto. Radioline, pile, bottiglie e io in piedi, senza mai cadere. L’arbitro non sospende la gara, io riesco a rimanere in piedi. Esco ferito. Il sangue che scende sul volto. La partita inizia con 15 minuti di ritardo per lancio di oggetti contro la mia porta. Mi dicono di tutto. Perdiamo 2-1 ma sono il migliore in campo.
191 Poi restiamo bloccati negli spogliatoi per parecchio tempo. I tifosi volevano assalirmi.
Nel 1991, quando Trapattoni saluta, anche per Astutillo finisce l’esperienza con l’Inter. Mi si fece davanti e mi guardò con lo sguardo di chi sa che l’avventura è finita: per lui e per me. Tolse di tasca un biglietto, scritto a mano, e me lo porse. Sapevo perfettamente le parole che avrei letto. E sì, il biglietto scritto a mano dal Trap è il più bel ricordo che mi è rimasto del calcio.
Malgioglio gioca un’altra stagione con l’Atalanta, poi dice basta nel 1992, a 34 anni dopo 264 gare disputate fra i professionisti. Continuando a impegnarsi per quella che era diventata l’essenza della sua vita. Il pallone si dimentica presto di lui e nel 1994, per mancanza di fondi, deve chiudere la sua palestra. Offrivo assistenza gratuita, e il denaro per un’idea del genere, l’unica possibile, non c’era più – ha spiegato –. Ho regalato i macchinari. Finché ho potuto, raggiungevo i pazienti a domicilio.
Subentra un momento difficile anche a livello personale, con un problema psicologico che lo mette a dura prova. Nel 2001 la sua associazione “Era 77” deve cessare l’attività. Pensavo di non venirne fuori. Ma ora ho ripreso ad aiutare gli altri con mia moglie Raffaella e sono molto felice – ha detto al «Corriere della Sera» –. Mettiamo a disposizione la nostra esperienza. Io ho sempre usato le mani, il Signore mi ha dato questo talento e continuo a farlo, stando in mezzo alla gente che soffre, dando tutto me stesso. Perché, come dice il mio padre spirituale, le mani bisogna sporcarsele, mettendole anche nella m***a.
Sviluppa progetti di “sport terapia” e continua a battersi per l’integrazione nello sport fra disabili e normodotati. Quando lo invitano, va a parlare della sua attività agli studenti nel-
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le scuole. Riceve il premio Sportivo Più nel 1995, nel 2017 è insignito del premio ISUPP (acronimo di Io sono una persona perbene), mentre l’Inter nel 2019 gli conferisce il premio BUU – Brothers Universally United per “il suo insegnamento, la capacità di spendersi in maniera sincera e silenziosa per chi soffre”. I tifosi del Brescia lo scelgono come miglior numero uno del secolo delle Rondinelle. Lui, il portiere che parava per i più deboli e li metteva al primo posto, ringrazia e continua a portare avanti la sua missione in silenzio. Riconosco che con i mezzi che avevo come calciatore potevo fare di più – ha detto recentemente al «Corriere della Sera» –. Tutte le scelte che ho fatto in carriera sono state “extracalcistiche” e qualche errore l’ho commesso, ma non ho rimpianti. Sono una persona molto fortunata. Ho incontrato e incontro persone stupende e ne sento il calore.
Il presidente Sergio Mattarella ha conferito ad Astutillo Malgioglio l’onorificenza al Merito della Repubblica Italiana, destinata a chi si è distinto per atti di eroismo, per l’impegno nella solidarietà, nel volontariato, per l’attività in favore dell’inclusione sociale, nella cooperazione internazionale, nella promozione della cultura, della legalità, del diritto alla salute e dei diritti dell’infanzia. Per il suo costante e coraggioso impegno a favore dell’assistenza e dell’integrazione dei bambini affetti da distrofia.
Con questa motivazione è stato inserito tra i 33 nuovi insigniti del 2020 e 2021 dal Capo dello Stato, e premiato durante la cerimonia di consegna delle onorificenze che si è svolta al Palazzo del Quirinale il 29 novembre 2021.
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Ringraziamenti
La stesura di Cervellati deve molto agli amici scrittori e critici dei “parlamenti” (Massimo Barone, Marita Bartolazzi, Paolo Morelli, Giorgio Patrizi) e anche a Marcella Corsi. Coi “parlamenti”, di cui faccio parte, ho potuto verificare, via via che scrivevo, la voce di ogni singolo capitolo. I giudizi ricevuti sono sempre stati preziosi, sia quando confermavano la validità del testo, sia quando ne indicavano nodi che, grazie a tanta attenzione, potevo sciogliere. A Marcella Corsi, lontana galassie dal mondo del calcio, devo la verifica che Cervellati può divertire e far riflettere anche chi non ha mai intrattenuto rapporti col pallone e i suoi adepti. Inoltre, ho usato la sua traduzione di Odi et amo perché la lingua italiana mi ha detto che era migliore della mia, e Marcella è stata così gentile da regalarmela. Ringrazio Paolo Camedda, autore dell’articolo su Astutillo Malgioglio, e Renato Maisani, direttore del sito dove l’articolo è uscito, “goal.com”, per la gentile concessione a pubblicarlo integralmente.
195
Indice
Premessa
p. 11
1
p. 13
2
p. 21
3
p. 29
4
p. 39
5
p. 49
6
p. 59
7
p. 69
8
p. 79
9
p. 89
10
p. 99
11
p. 109
12
p. 119
13
p. 129
14
p. 139
15
p. 149
16
p. 159
196
Congedo
p. 171
Appendici
p. 183
1. Montale
p. 183
2. Astutillo Malgioglio, il portiere che parava per i più deboli
p. 184
Ringraziamenti
p. 193
Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da
Filippo La Porta
1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre. 5. Lucilio Santoni, Legato con amore in un volume. Quasi un diario. 6. Luciano Curreri, Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai Sei pensieri grati e gratis. 7. Francesco Borrasso, Restare vivo. 8. Domenico Calcaterra, L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia. 9. Natàlia Cerezo, Nelle città nascoste. 10. Xavier Farré, L’auditorio di Görlitz. (Visioni poetiche). 11. Michele Rago, Pagine di diario (1951-1996). 12. Foulek Ringelheim, La seconda vita di Abram Potz. 13. Fabrizio Cossalter, Frammenti dell’età di mezzo.
14. Cesare Maria Cornaggia, Dalla parte del desiderio. Da una paternità un metodo nella cura. 15. Claudio Donà (a cura di), Note sui Sillabari. 16. Francesco Bargellini, L’impotenza. 17. René de Ceccatty, L’accompagnamento. 18. Belinda Cannone, Il sentimento d’impostura. 19. Fabio Ciriachi, Cervellati. Ai margini del campo.
Cervellati Nella mente di un vecchio scrittore emerge il nome di Cervellati. È l’inizio di una dipendenza inspiegabile; Cervellati è una gloria del Bologna d’antan, e lo scrittore tifa Roma. Insediatosi nella memoria, quel mite calciatore trascina l’io-narrante lungo territori che credeva persi. I ricordi ricorrono a Wikipedia, l’affaccio sul passato illumina l’oggi. Tra una divagazione e l’altra, emergono aspetti dell’Italia postbellica e i guasti di un presente che non apprende dagli errori. Ragionando senza temere la stupidità, il vecchio scrittore affida alla fantasia la chiusura del cerchio: “Qualunque cosa di buono possa circolare, nelle pagine fin qui scritte, la dedico a Cesarino Cervellati e a Luigi Ghirri che un giorno, chissà, potrebbero davvero essersi incontrati”. Fabio Ciriachi, romano, ha pubblicato tre raccolte di poesie presso Empiria: L’arte di chiamare con un filo di voce (1999), Il giardino urbano (2003), Pastorizia (2011). I racconti Azzurro-cielo e verde pistacchio (Edimond, 2008). I romanzi Soprassotto (Palomar, 2008), L’eroe del giorno (Gaffi, 2010), Le condizioni della luce (Gaffi, 2013), Uomini che si voltano (Coazinzola Press, 2014), Una perfetta vicinanza (Coazinzola Press, 2017). Le riflessioni sull’invecchiare Senescenza (Empiria, 2018). Ha recensito libri per la Repubblica, il Manifesto, l’Unità.
Collana diretta da Filippo La Porta
€ 11,00
Margini | 19
ISBN ebook 9788855293969