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Italian Pages 48 Year 1991
CLASSICI ITALIANI DEL NOVECENTO
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Bruno Maier
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Saba
poesia e teatro
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Ghirlandina DI CLASSICI ITALIANI DEL NOVECENTO
10
In questa collezione Ferruccio Ulivi Vita e opere di Gabriele D'Annunzio
Emerico Giachery Vita d'un uomo: itinerario di Giuseppe Ungaretti Giorgio Pullini Pirandello e il teatro del Novecento Giorgio Barberi Squarotti La simbologia di Giovanni Pascoli Franco Lanza
Esperienza letteraria e umana di Cesare Pavese Giorgio Pullini Giuseppe Berto: da «Il cielo è rosso» a «Il male oscuro»
Giacinto Spagnoletti Svevo: da «Una vita» a «La coscienza di Zeno»
Pasquale Tuscano Introduzione a Ignazio Silone Emilio Pasquini La memoria culturale nella poesia di Eugenio Montale Bruno Maier
Umberto Saba, poesia e teatro Alba Andreini Carlo Emilio Gadda: storia interna del «Pasticciaccio» Giorgio Varanini Bassani narratore, poeta, saggista Nino Borsellino Il viaggio interrotto di Italo Calvino
Il Comitato Modenese della «Dante», concluso il ciclo dedicato alla Divina Commedia e alla Cultura Medievale, di cui è stata recentemente
ultimata la pubblicazione degli Atti in quattro volumi, si è proposto di
offrire un nuovo e non meno importante appuntamento culturale attraverso una serie di «incontri» con la poesia e la letteratura moderna. Di qui l'idea di un programma sui «Classici Italiani del Novecento» che, condotto da insigni studiosi, è in atto dalla primavera del 1989 e ha avuto un ampio consenso di pubblico, in particolare del mondo scolastico: docenti e studenti. Questo risultato conforta un impegno profondamente avvertito dalla «Dante» e premia la sua fedeltà a una tradizione di promozione culturale che intende venire incontro, con qualificate attività, al desiderio di crescita dei giovani. La pubblicazione delle «lezioni» sul Novecento accentua il raggiungimento di tale obiettivo e consente di mettere a disposizione di una più vasta cerchia di pubblico una raccolta di testimonianze che si presentano con caratteri propri anche di novità e vogliono essere un contributo alla comprensione del nostro tempo in una delle sue peculiari forme espressive. Un doveroso ringraziamento desidero rivolgere alla Banca Popolare dell'Emilia che, ancora una volta, con generosa sensibilità, ha reso
possibile l'iniziativa e la pubblicazione degli atti. Un «grazie» anche ai proff. Renato Bertacchini e Silvia Menabue che, con chiara competenza e impegno, si sono succeduti nella predisposizione e realizzazione del programma. IL PRESIDENTE DEL COMITATO PROVINCIALE DELLA «DANTE» VALTER VALDRÈ
L'ampia diffusione ed il vivo interesse registrati in occasione della pubblicazione dei primi cinque volumetti di questa felice collana — non solo tra il pubblico dei giovedì culturali della Dante Alighieri, sempre così attento ed esigente nella sua eterogenea ed articolata composizione, ma anche all’interno di una più ampia fascia di destinatari, che vede al primo posto docenti e studenti delle nostre scuole — ci hanno incoraggiato a proseguire nell'organizzazione di un terzo, conclusivo ciclo dedicato ai Classici italiani del Novecento, e nella conseguente pubblicazione di tutto il materiale delle conferenze, con il quale la collana Ghirlandina viene ad articolarsi complessivamente in una ventina di volumetti. Da Gozzano a Moravia, da Federigo Tozzi a Tomasi di Lampedusa, si snoda un itinerario tra molti degli autori che la critica e il pubblico hanno concordemente riconosciuto come i maggiori del nostro secolo, proposti attraverso chiavi di lettura sempre aggiornate, in grado di render conto del più recente dibattito accademico e letterario. La forma agile e discorsiva offerta dal registro «parlato» dei testi — desunti dagli interventi dei relatori che si sono avvicendati nella Chiesa di San Giovanni — potrà agevolarne la fruizione, soprattutto a quel pubblico di studenti più giovani per il quale auspichiamo che queste lezioni-colloquio costituiscano uno stimolante approccio alla lettura, e quindi all'esegesi interpretativa e critica, degli autori del nostro Novecento. SILVIA MENABUE
Il ciclo di incontri dedicati a «I classici italiani del Novecento», tenuti dal maggio 1989 nella Chiesa di San Giovanni in Modena, è frutto della preziosa collaborazione da tempo esistente tra il Comitato modenese della Società Dante Alighieri e la Banca Popolare dell'Emilia. Con la pubblicazione degli atti di ogni singolo incontro, la Banca intende confermare, anche nel campo della letteratura, il suo impegno per la diffusione dei più autentici valori della cultura. BANCA POPOLARE DELL'EMILIA
Bruno Maier
Umberto Saba, poesia e teatro
MUCCHI EDITORE
ISBN 88-7000-183-0
Volume pubblicato con il contributo della BANCA POPOLARE DELL'EMILIA
© BANCA POPOLARE DELL'EMILIA
All rights reserved.
î No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or trasmitted in any form or by any means, electronic, mechanical photocopying, or otherwise, without the prior permission of the MUCCHI editor s.r.l. - Via Emilia Est, 1527 - 41100 Modena (Italia). Printed in Italy by MUCCHI s.p.a. - 41100 Modena (Italia).
1st edition Mucchi editore srl Modena october 1991
La mia lezione si articolerà in due momenti o in due fasi tra loro certamente distinte, ma
anche dialetticamente compenetrate. Una prima parte di questa lezione sarà una sorta di profilo generale della poesia e della figura di Saba, perché poeta e poesia in questo caso sono due entità strettamente congiunte e indissociabili; mentre la seconda parte di questa lezione sarà dedicata ad un’opera che solo recentemente è entrata negli interessi degli studiosi, e precisamente quel dramma breve, scritto nel 1911 e rappresentato a Trieste nel 1913, intitolato I/ letterato Vincenzo. Un'opera indubbiamente minore rispetto al Carzonzere, alle Scorciatoie e raccontini, alle altre prose e poesie di Saba, ma della quale pure è necessario usare per avere un profilo completo ed organico del poeta triestino. Ho detto, er passant, del nesso strettissimo che c'è tra Saba uomo e Saba poeta: vorrei proprio cominciare questa mia lezione con alcuni aneddoti, non per una sorta di divertimento, che il critico è bene non tenga troppo presente, ma perché questi atteggiamenti di Saba, di cui dirò, ci consentono di capire questo nesso strettissimo, di cui vi parlavo, fra l’uomo e il
poeta.
Saba è probabilmente l’ultimo nei nostri poeti che è vissuto sapendo di essere poeta, con la consapevolezza di realizzare in sè una sorta di mito stesso del poeta. Un poeta che ha vissuto in sè i miti della sua poesia, che non è andato a cercare altrove la poesia, ma l’ha trovata nella radice della sua personalità, nel conflitto razziale, di cui egli era esponente e vittima: «Eraz due razze in antica tenzone», come si legge in un famoso sonetto di Autobiografia. Ebbene, nel parlare di Saba può essere utile partire da alcuni accertamenti di carattere aneddotico,
che ci consentano di capire certi aspetti della sua personalità. Per esempio, Saba viveva il mito del poeta, del poeta che deve essere onorato e riverito, che deve avere la fronda
peneia, sulla sua testa giovanile prima, canuta poi: non è un caso che già nelle lettere molto giovanili al Tedeschi egli abbia chiara la visione che sarà un poeta, che avrà i tormenti del poeta, ma anche le soddisfazioni sublimi del poeta. Anche se questa convinzione poi viene a contrastare con il pessimismo proprio di
questo autore fin dalla giovinezza, con la nevrastenia che ricorre già nelle lettere giovanili al Tedeschi. Ecco Saba viveva tàlmente il mito del poeta e credeva talmente di impersonare in sè questo mito, che una volta, in una delle conversazioni
che ho avuto con lui — io ero molto giovane, Saba è morto nel ’57, quindi le conversazioni 8
si svolgevano moltissimi anni fa —, ricordo che, senza sorridere, ma anzi con una sorta di ironica amarezza, mi diceva: «Pensa qui a Trieste arrivano tanti personaggi che non contano niente, e c'è la banda che li aspetta alla stazione. Quando arrivo io non trovo mai la banda». Ora non credo che Montale, per esempio, abbia mai desiderato vedere la banda alla stazione, ma certo questo fatto, questo pensiero di essere accolto a Trieste da una fanfara o da una banda, è tipicamente sabiano e ci riporta proprio a questo suo vivere da poeta, nella condizione del poeta che proietta su se stesso il mito della poesia. Ancora un’altra testimonianza brevissima, sempre in questo ordine di idee: Saba, come sapete, faceva un mestiere, come tutti noi. Viveva certamen-
te anche di poesia, ma non soltanto di poesia e, come si legge in varie parti della sua prosa e anche della sua poesia, aveva «d’antichi libri raro negozietto», cioè aveva una libreria antiquaria che si chiamava «Libreria antica e moderna, diretta da Umberto Saba». Ora Saba per esempio faceva con molta coscienziosità il suo mestiere di proprietario di una libreria antiquaria; pubblicava dei cataloghi molto belli, nei quali faceva una descrizione quasi filologicamente impeccabile dei libri che veniva offrendo ai suoi lettori. Ebbene però, tante volte in libreria se ne stava a scrivere le sue poesie, a meditare, a sbrigare la corrisponden)
za; arrivava qualche cliente, che diceva: «Signor Saba!» e Saba rispondeva in dialetto: «Ma non lo vedi che stavo scrivendo!». E allora, capite, è un atteggiamento che nessun libraio del mondo accetterebbe, ma Saba, siccome era un uomo certamente eccezionale,
così era anche un libraio di eccezione. Sempre nell’ambito di questa aneddotica, la quale ci consente di capire come Saba fosse un poeta esclusivamente centripeto, che metteva veramente se stesso al centro del mondo e del proprio mondo in particolare, come attestazione dunque di questo atteggiamento tipico, che costituisce una costante della sua personalità e si rovescia o si riflette nella sua stessa poesia, vorrei ricordarvi un terzo aneddoto, del quale io sono coprotagonista. In una delle visite, tra le ultime che ho fatto a Saba in libreria, ho visto vicino a lui una bella edizione
della Gerusalemme Liberata, — aveva spesso delle edizioni stupende, molto pregiate, che offriva ai suoi clienti — . Avendo visto dunque vicino a lui proprio un testo della Gerusalemme Liberata, e sapendo che egli non amava molto il Tasso, ho detto: «Vedo qua che lei sta leggendo il Tasso!», Saba saltò su e disse: «No!! no!! non è che legga il Tasso, perché come tu sai è un poeta che io aborro!» «Ma perché?» — io sapevo il perché naturalmente, ma volevo farlo parlare, avevo piacere che mi confermasse questa sua ostilità. Rispose così, 10
con una frase secca ed epigrafica, come era spesso nella sua consuetudine: «Perché Tasso è un retore». Proprio con quella e aperta, triestina, per cui il Tasso diventava ancora più retore di quello che poteva essere in realtà. Allora io, un po’ perché ero molto giovane, un po per provocarlo in una forma di cordiale provocazione, dissi: «Ma senta Saba, anche
quei versi bellissimi che Clorinda morente rivolge a Tancredi» e li ho citati «— Amico, hai vinto: t0 ti perdon... perdona/ tu ancora, al corpo no, che nulla pave,/ a l’alma sè: deb! per lei prega, e
dona/ battesmo a me ch’ogni mia colpa lave. — anche questa è retorica?» e Saba rispose: «Sì sì, anche questa». La discussione finì a quel punto, e finisce anche questa aneddotica iniziale su Saba, la quale non vuole naturalmente presentarvi un Saba in tono non accademico,
ma vuole farvi capire questa unità strettissima tra Saba uomo e poeta, che si manifestava anche in questi atteggiamenti della sua realtà esistenziale, nel suo vissuto, come si suol dire
oggi in sede critica, che io stesso ho avuto modo di sperimentare di persona. Se adesso vogliamo accostarci alla poesia di Umberto Saba, possiamo dire che una prima forma di approccio ci può derivare non tanto dall’accostamento alla sua poesia, bensì dall'accostamento alla sua poetica. Chiarire la poetica di ogni poeta è una via indispensabile per arrivare alla sua poesia. Direi che per Saba 11
questa via, più che opportuna, è necessaria,
perché Saba stesso si è occupato di poesia e della propria poesia in particolare, e anche quando ha parlato della poesia in generale si è in realtà interessato o ha tratto lo spunto dalla sua poesia personale. E quindi studiare la poetica di Saba può essere, anzi deve essere, un sussidio indispensabile per entrare nel mondo della sua poesia. Citiamo dunque il saggio del 1911, intitolato Quello che vesta da fare ai poeti, che egli aveva destinato alla «Voce», ma che poi invece non vi comparve. Non se ne sa la ragione precisa, alcuni pensano si sia trattato della opposizione di Scipio Slataper, un altro triestino con il quale, a dire la verità, Saba non era nei migliori rapporti, perché proprio in quegli anni Slataper aveva scritto un articolo in cui aveva inserito Saba, con altri autori del tempo, nella
scuola dei parvzli poeti crepuscolari. Ricordo che, ancora quando parlavo con Saba negli ultimi anni della sua vita, uno degli obiettivi polemici che lo facevano più indignare, verso il quale si scagliava con più energia e con più violenza, era proprio la definizione di poeta crepuscolare, ed aveva certamente ragione. Egli non è un poeta crepuscolare, non ha le ironie, le smancerie, quell'insieme di ironia e
di nostalgia che connota i poeti crepuscolari. Quindi aveva ragione nel dichiararsi non crepuscolare, completamente diverso. Sta di fat12
to comunque che questo saggio del 1911 non fu pubblicato nella «Voce», ed è invece un saggio importante, perché molti errori della critica successiva forse si sarebbero potuti evitare, molti lumi che soltanto dopo la pub-
blicazione di questo saggio, del 1959, sono derivati alle poesie di Saba, sarebbero stati proiettati su quella poesia già molti anni prima, e avrebbero concesso una comprensione, un'intelligenza critica, più profonda e più aderente, della sua poesia. Ad ogni modo, questo saggio di Saba è importante perché ci presenta un poeta che vede con molta chiarezza e con molta acutezza all’interno della sua esperienza: quando scrive questo saggio nel 1911 ha già alle spalle, o sta scrivendo, alcune delle poesie più belle delle raccolte Casa e campagna e Trieste e una donna, che sono press’a poco tra il ’10 e il 12, quindi
a cavallo di quegli anni. Ora questo saggio, Quello che resta da fare ai poeti, parte non a caso, secondo un modulo critico abbastanza frequente in quegli anni, da una precisa e ben consapevole polemica antidannunziana. Una polemica che è molto significativa sia in se stessa, come testimonianza delle tendenze di-
verse della poesia di Saba, sia anche perché testimonia che quella crisi di dannunzianesimo o quella simpatia per il dannunzianesimo, che Saba aveva avuto in precedenza, fino a vestirsi come D'Annunzio, fino a cercare di 13
imitarlo anche negli atteggiamenti, ormai va finendo, o è, nel 1911, senz’altro esaurita. Del
1911 è anche I/ letterato Vincenzo, nel quale si manifestano una poetica e una tematica abbastanza simili a quelle affrontate nel saggio Quello che resta da fare ai poeti; potrei dire che il saggio e il dramma I/ letterato Vincenzo si lumeggiano a vicenda, si implicano a vicenda, l’uno getta la sua luce anche sull’altro e viceversa. Saba parte senz'altro da una fiera polemica antidannunziana, cioè distingue o meglio contrappone alla «disonestà» del poeta delle Laxdi, cioè alla disonestà appunto di D'Annunzio, l’«onestà» di Manzoni. Una contrapposizione molto netta e molto precisa, formulata in quel periodo, e quanto mai interessante. D’Annun-
zio era allora al culmine della sua fama internazionale, ed erano pochi i poeti o gli scrittori, i critici 0 i letterati disposti a fare una simile decisa contrapposizione, che ha per questo un valore anche maggiore. Da questa contrapposizione noi traiamo subito un'indicazione per la poetica di Saba, che può essere detta «la poetica dell’onestà», ovvero della necessità per il poeta di essere innanzi tutto «nella vita come
nella letteratura,
un
uomo
onesto».
Quando c’è questo requisito essenziale tutto il resto viene dopo, perché essere onesto significa essere sincero con se stesso e con gli altri, concepire la poesia come una sorta di religio14
ne, come uno stato di grazia, come una ricerca
di verità. Questo è un motivo nucleare della poetica di Saba, la poesia come religione, ricerca di verità, e ancora rinuncia ad ogni decorazione letteraria, ricerca della parola definitiva, che sola può rendere adeguatamente lo stato mentale. Per avere la grazia della poesia, dice Saba, occorre un quotidiano esame di coscienza: se pensiamo che la poesia di Saba è, quant’altra mai, legata ai dati dell’autobiografia e dell’indagine interiore, comprendiamo quanto è importante questa affermazione. Un'affermazione che poi rientra un po’ nella più generale poetica dei «vociani», i quali, in polemica con l’archeologismo neoclassico o classicistico di Carducci, e in polemica con il decadentismo superomistico di D'Annunzio, cercavano proprio un’arte fatta di sincerità, un'arte fatta di esame di coscienza, di introspezione, di confessione. Saba, anche se si dichiara di un’altra specie rispetto ai «vociani», certamente rientra in questa linea di gusto, di poetica, di
sensibilità psicologica e umana. Si richiama, diciamo, al programma e alla poetica della «Voce».
Tutto questo Saba viene confermando nel suo stesso saggio Quello che resta da fare ai poeti, con una sorta di verifica di carattere stilistico e testuale; egli fa cioè un piccolo esercizio di critica stilistica e linguistica, di critica della 19
parola, prendendo come pretesto una sua lirica, e mostrando tutta una serie di varianti che
caratterizzano la conquista dell’espressione definitiva. Quindi ricordiamoci un fatto fondamentale, per capire la poesia di Saba: in Saba la poesia non è qualcosa di dato dall’esterno, da ricordi letterari, anzi la letteratura è
quello che deve essere esorcizzato dalla poesia, dal cerchio magico della poesia, e la stessa espressione definitiva non nasce come un dono prodigioso, ma come una successiva, progres-
siva conquista. La conquista della parola definitiva è il travaglio, è il lavoro, è l’onestà del lavoro del poeta, e quindi — la deduzione che ne ricava Saba — l’espressione definitiva non è quella estrinsecamente più bella, ma è quella che rende, nella sua genuinità, la situazione
umana e psicologica del poeta. Saba dice: «Non si può, per il più bel verso di una letteratura, falsare, consciamente o no, la pro-
pria visione». Il poeta deve tendere ad un tipo morale il più remoto possibile da quello del letterato di professione; quindi la letteratura — dice Saba — è la nemica, non l’amica della poesia.
Qui Saba riprende tutto un motivo che trascorre attraverso il nostro romanticismo e che
trova forse te sia nei letteratura basterebbe 16
una delle sue espressioni più elevaSaggz critici sia nella Storia della italiana di Francesco De Sanctis: ricordare la famosa affermazione
di De Sanctis che Dante è più «poeta» che «artista», laddove Petrarca è più «artista» che «poeta». Quando De Sanctis parla di «artista» dice qualcosa di molto simile a quello che Saba intende nell'usare la parola «letterato», o in quelle affermazioni famosissime, quasi scandalistiche, «la letteratura sta alla poesia come la menzogna alla verità», oppure «Petrarca sta a Dante come una candela al sole»; dove penso che nessuno di noi potrebbe certamente accettare una così feroce limitazione del Petrarca. Ma qui non importa se Saba avesse o non avesse ragione, importa che Saba rivendicava una delle ragioni interne, fondamentali, della sua poesia, cioè l’esorcizzazione della letteratura, della letterarietà, di quello che Slataper chiamava un «duro e secco mestiere», e invece rivendicava l’assolutezza della poesia, espres-
sione dell'umanità più profonda, dell’interiorità più interna del poeta. Questi motivi programmatici del 1911 sono poi approfonditi adeguatamente nel saggio del 1948, che è un vero e proprio libro, intitolato Storia e cronistoria del Canzontere. Saba ci dà una specie di tesi di laurea — dice lui — sulla sua poesia, esaminata da un punto di vista psicologico, storico ed estetico. Ci dà una sorta di autobiografia interiore, in cui protagonista è certamente la sua poesia, con tutte le implicazioni tematiche: la storia della sua poesia, i diversi apporti culturali, l’imporL7
tanza che potè avere per Saba la lezione di certi grandi poeti come Dante, lo stesso Petrarca, Foscolo, Leopardi naturalmente, Carducci,
Pascoli, D'Annunzio, dei quali egli non potè non subire qualche influsso. E poi altri personaggi della cultura tedesca, come Nietzsche da un lato, indagatore della vita psicologica più riposta, e Freud, che Saba definisce «il primo esploratore dell'immenso reame dell'inconscio». Direi anzi che da quando Saba si accosta negli anni ’20 alla psicanalisi di Freud, crede di aver trovato la chiave che apre ogni porta, la soluzione di tutti i suoi problemi. A parte questo fatto, occorre però sottolineare che la psicanalisi entra nella poesia di Saba non perifericamente, ma nuclearmente: ci sono delle opere di Saba, a partire da // piccolo Berto, per esempio, in cui l’apporto psicanalitico non si può non avvertire, e va tenuto presente anche dal punto di vista critico, per avere una interpretazione adeguata di questa
poesia. Quindi noi possiamo dire che questa Storia del Canzoniere è una sorta di guida alla lettura dell’opera maggiore di Saba, la quale ci consente di entrare nell'atelier intimo del poeta, nel reticolo delle varianti: ci sono delle discussioni variantistiche oltremodo interessanti, ci sono delle indicazioni su versi che
sono caduti dalla memoria, perché il poeta ha voluto freudianamente che cadessero. Ci troviamo di fronte a un Saba che ci dà un'idea 18
non solamente della sua tematica, dei suoi
apporti culturali, della città di Trieste, dei personaggi che popolano il suo mondo poetico, ma anche del suo modo di comporre. E c'è ancora da notare che emerge, con Sforza e cronistoria del Canzoniere, un altro aspetto fondamentale della poesia di Saba, questo suo gusto di riallacciarsi al filo d’oro della tradizione italiana. Certamente Saba si riteneva profondamente legato alla letteratura italiana. Ricordate quella famosa poesia Avevo, in cui egli dice «Avevo una città bella tra i monti ecc. — e continua — per sempre a Italia la sposai col canto». Il che appunto vuol significare che Saba aveva legato il nome e la città di Trieste alla letteratura italiana, al filo d’oro della tradizione letteraria italiana. Ora se, da queste indicazioni di poetica, che potrebbero essere ulteriormente lumeggiate tenendo presenti alcuni passi di saggi dedicati da Saba a vari autori, dove egli ha modo di ripercorrere e di approfondire il suo concetto di poesia, passiamo ad un approccio alla poesia di Saba per se stessa, dobbiamo dire che la poesia di Saba è, nel senso goethiano, più alto della parola, poesia d’occasione, cioè poesia
profondamente necessaria, che nasce all’insegna della necessità. E lo dice anche lui qualche volta: «Non potevo non scrivere quella poesia, quella poesia premeva dentro di me». E c'è anche un passo, che può essere ricordato, di lo
Pier Antonio Quarantotti Gambini, il quale dice che Saba aveva delle accensioni, delle cotte, per certi suoi versi, per certi suoi Com-
ponimenti: queste cotte, quando avevano una durata profonda ed autentica, si esprimevano in una poesia compiuta; a volte, dice Quarantotti Gambini, duravano un giorno, una setti-
mana, un mese, dopo di che Saba prendeva la poesia o il pezzo di prosa che prima lo aveva tanto entusiasmato, ne faceva una pallottola e la gettava nel cestino. Anche questo rientra nello stile di vita e di poesia proprio di Saba. Una poesia di occasione, che canta, se vogliamo usare ancora la
metafora sabiana, piuttosto i valori danteschi, che sono i valori della vita — la sua poesia è per eccellenza poesia delle cose e della vita — , che non i valori petrarcheschi, che sono, sem-
pre secondo
Saba, i valori della morte.
E
dobbiamo dire che la vita si redime, si sublima
— usiamo un termine volutamente freudiano — nella poesia del nostro autore. Non è un caso che la poesia abbia per Saba un valore addirittura catartico, si direbbe quasi terapeutico: «e d'ogni male mi guarisce un bel verso». La possibilità che tutta la vita di Saba sia riscattata e sublimata in poesia è colta dal medesimo poeta, il quale, per esempio, dice in una sua lirica molto nota, «Ho in cuore di una vita il
canto, dove il sangue fu sangue, il pianto pianto, antico vesiste come quercia allo sfacelo». E qui si 20
può citare anche un’altra poesia notissima che si intitola Amai, in cui Saba dice «M'’incantò la
rima fiore lamore, /la più antica difficile del mondo», cioè egli non va in cerca delle rime più peregrine, delle parole più rare e desuete — una tendenza verso lo stile alto che era propria di D'Annunzio — ma cerca invece un linguaggio familiare, che meglio renda con chiarezza e con semplicità quella che Saba chiama l’«ispirazione», un mito che è stato certamen-
te distrutto dalla critica moderna, ma al quale l’autore resta costantemente fedele. Quindi si può dire che Saba non punta sull’uomo di eccezione, sul vivere inimitabile di D'Annunzio, anzi — e qui possiamo associare a Saba un altro autore della linea triestina, cioè Italo Svevo — punta invece sull'uomo comu-
ne: «Essere uomo tra gli umani / 10 non so più dolce cosa»; e, se leggiamo la famosa poesia Il borgo, troviamo che Saba esprime il desiderio di essere come tutti gli uomini di tutti i giorni. La poesia di Saba non punta dunque sull’eccezionalità, sull’anomalia, sul vertice di assoluto individualismo, incomparabile ed inconfondibile, punta invece su questa possibilità di potenziamento dell’umanità, attraverso il colloquio con gli altri. Anzi possiamo dire di più, e cioè affermare che la poesia di Saba è caratterizzata da due poli o da due interne tensioni: il Saba che si rinchiude in sè stesso, nei momenti di pessimismo, di malinconia, di cupezza, di ZI
angoscia, nei momenti in cui egli usa espres-
sioni orrende nei confronti di Trieste e di certe persone — questo Saba esiste indubbiamente —, e poi c'è un altro Saba, forse il Saba più umano,
ed è quello che, al contrario, va in
cerca del rapporto con gli altri, si immerge fra le genti, si sente popolo, «s/ popolo in cut vivo / onde son nato», come dice in un’altra sua bellis-
sima poesia. Quindi la tensione interna della poesia di Saba si dipana tra questi due poli, un polo che tende alla celebrazione dell’individualismo e un polo che tende alla rivendicazione dell'umanità e della comunanza,
della
sua appartenenza a tutti gli uomini di tutti i giorni. Attraverso questa chiave, certamente il Canzoniere può essere letto, nella sua totalità, in
questa interna tensione dinamica, che ne condiziona lo svolgimento e che ha varie realizzazioni, nel corso del lunghissimo periodo in cui Saba è venuto scrivendo. Si può dire anche che quella di Saba è per eccellenza una poesia delle cose, gremita di cose, — perché egli crede nelle divine cose, come dice in una poesia —,
dove le cose sono appunto le cose, e non sono un correlativo oggettivo di altro, come può avvenire nella poesia di Montale per esempio. Quella di Saba è per eccellenza una poesia realistica, e in questo senso si può parlare di un «realismo sabiano», o anche di una concretez-
za propria della poesia di Saba. Se noi voglia20
mo allora puntualizzare il tono della poesia di Saba, ancora una volta abbiamo un suggerimento offerto dal poeta stesso, il quale parla di poesia e di tono «raso terra», di una musicalità intima e segreta che non tende mai ad espandersi, anche quando egli si concede il gusto della canzonetta o della fuga, e ci dà alcune delle espressione più alte e più belle, definitive, della sua poesia. Quindi la poesia di Saba presuppone un accostamento anche al mondo esterno, e unisce il desiderio di isolamento e di
solitudine ad un colloquio con gli altri e ad una partecipazione alla loro esistenza. C'è in proposito una pagina di Saba che vorrei ricordarvi, perché è molto bella e ci illumina su questo atteggiamento: è una delle ultime prose che Saba abbia scritto e si intitola // Sogno di un coscritto. Egli ricorda che, quando si trovava a fare il militare nel 1908 a Salerno, arrivato in caserma, gli dissero che non aveva-
no divise per tutti i nuovi arrivati e che quindi, per quella sera, poteva rimanere in borghese. Egli, dopo aver cenato, con due suoi commilitoni si recò in un cinema: i due commilitoni erano in divisa, e lui invece in borghese: la cassiera staccò quindi tre biglietti, di cui due erano con riduzione e l’altro, per Saba, un biglietto intero; allora uno di questi due commilitoni disse alla cassiera: «Sa.. guardi signora che anche lui è dei nostri, anche se è vestito in borghese, anche se non ha il vestito militare 25
.. è dei nostri.. quindi anche lui deve pagare mezzo biglietto». E Saba fa questo commento: «O Linuccia mia — parla alla figlia — quelle furono tra le parole più sublimi che ho mai inteso nella mia vita, perché per la prima volta non ero più solo, ero con gli altri, appartenevo anch'io a un organismo, facevo parte di una comunità». Bellissime considerazioni, che ci riportano al discorso che venivo facendo, e danno conferma a questa linea interpretativa della poesia di
Saba, di questi due poli, di cui uno è la tendenza verso l’isolamento in se stesso, e l’altro invece, più umano, più sensibile, più
trepido, che sentiamo a noi più vicino, e che consiste proprio nell’avvicinamento agli altri, nel vivere in sè la vita di tutti, nel partecipare alla vita degli altri. Quale vita? La vita che si può vedere — dice Saba — sullo sfondo di una bella giornata vissuta a Trieste. Anche questa è un’affermazione fondamentale, fatta da Saba
nel celebre discorso per la Laurea che gli è stata conferita dall'Università di Roma nel 1953, e che ci riporta a quella che è la radice profondamente triestina della sua poesia: «Trieste, egli dice, è stato l'osservatorio dal quale io ho guardato il mondo intero, Trieste è presente nelle mie poesie anche quando la città non è nemmeno nominata». Questo è profondamente vero, perché le poesie di Saba non sarebbero potute nascere se non in quel 24
periodo, in quella città, con quei condizionamenti anche ambientali, oltre che in presenza di quei personaggi, che poi sono entrati nella sua poesia. Ed ecco che questa poesia, nata a Trieste, si allarga ad una visione totale della vita umana, diventa una totale interpretazione poetica del mondo. Asserzioni come queste ci consentono di capire quel valore di messaggio che può avere la poesia di Saba, la quale, attraverso un lungo ordine, è venuta evolvendosi nel tempo, anche se alcune delle sue poesie giustamente famose, cito per esempio A mia moglie, La Capra, Trieste, Città vecchia, Tre vie, Via della
pietà, ecc., sono composte da Saba in età relativamente giovanile. Occorre dire che Saba, attraverso questo travaglio di pensiero, di
riflessione sulla propria poetica, che accompagna la composizione della sua poesia, è riuscito abbastanza presto a capire le ragioni interne della sua personalità, e a tradurle in poesie che, come quella A mia moglie, segnano veramente una data fondamentale ed ineludibile della poesia italiana del '900. Una poesia, per citare A_mia moglie, che all’inizio fece scandalo, che trovò dissenziente la stessa Lina, la meravigliosa Lina, moglie del poeta, ma che in realtà, quando la si interpreta secondo la linea ermeneutica proposta da Saba — cioè come una poesia religiosa — , diventa il canto della maternità universale, in cui la donna, e le ferezne 25
| di tutti i sereni animali / che avvicinano a Dio,
sono uniformate nell’eterno problema della nascita e della maternità universale. Questa è la poesia di Saba: non uno scherzo, come molti pensavano, non una poesia fatta in tono quasi di caricatura 0 di canzonatura; è una poesia estremamente seria e — vorrei dire con Manzoni — una sorta di Inno sacro: se San France-
sco avesse avuto una moglie probabilmente si sarebbe rivolto a lei con le parole con cui Saba si rivolse alla sua, quasi un canto francescano. Vanno poi ricordati naturalmente, in sede di storia poetica di Saba, i Versi militari, che sono anteriori a queste poesie. Se noi guardiamo agli esordi poetici di Saba, sentiamo che sono spesso troppo condizionati dalla presenza in lui della tradizione poetica italiana. La linea Petrarca-Foscolo, per esempio, o anche la linea Petrarca-Carducci: infatti c'è qualcosa di Carducci nelle liriche giovanili di Saba, come c'è qualcosa di D'Annunzio e di Pascoli — Dante lo scoprirà, dice lui stesso, più tardi —. Ora, finché Saba faceva il giovane malinconico e si rivolgeva all'amico Tedeschi in termini vittimistici e superomistici al tempo stesso, non usciva in fondo dal mondo della letteratura; ma d’un tratto, con l’esperienza della vita militare, egli è messo di fronte non a persone che fanno poesia e letteratura, ma ad un
mondo tutto diverso, quello militare. Questo mondo segna una rottura decisa, quasi violen26
ta, ed è una violentazione che Saba a un certo momento subisce, ma una violentazione salu-
tare per la sua poesia; egli dice infatti «Me stesso ritrovai fra î miei soldati | nacque tra essi la mia musa schietta». Cioè la musa non più letteraria, la poesia non più letteraria, la poesia che rappresenta un riscatto e un superamento della letteratura nasce proprio con l’esperienza dei Versi militari. Perciò questa
raccolta lirica, ancorché anteriore a quelle liriche famose che vi ho citato prima, è una tappa fondamentale del cammino di Saba, e va tenuta presente proprio per questa funzione di rottura rispetto alla corteccia letteraria, che spesso aveva aduggiato la poesia precedente di Saba. Ed ecco che, da quando Saba ha scoperto il mondo esterno e la realtà degli altri, si dipana storicamente il Canzonzere. Nascono i personaggi famosi del Canzoniere, nasce la meravi-
gliosa Lina, la moglie, nasce la figlia Linuccia, nasce l’amata nutrice dal volto incorniciato di capelli bianchissimi, più duro delle pietraie del Carso, nascono le fanciulle di Saba, Erna, Paolina, Chiaretta, Eleonora, nasce il soldato
Zaccaria dal «quore — collag — che con quista molti quori — ancora una volta con la qg — », dove si vede che l’autore, portato da quella sua istanza realistica di cui vi parlavo prima, cerca di immettere nel tessuto della poesia persino la parlata sgrammaticata di un militare se2
mianalfabeta; così come, quando parla di un marinaio, citerà — e si tratterà proprio di una
citazione — una canzonetta allora in voga che dice «meglio dire addio all'amore, se nell’amor non v'è felicità». Quindi Saba non ha nessuno scrupolo a fare queste citazioni, così come, sempre innamorato della musica di Verdi, egli spesso tende a toni che si possono dire quasi verdiani, per questo suo amore al melodramma,
non nel senso deteriore della
parola, ma nel senso del grande melodramma italiano, della linea Mozart
—
Verdi,
ma
soprattutto Verdi. Quindi anche la sua poesia certe volte tende a queste misure; ed è questa un’altra connotazione della poesia di Saba: trarre gli spunti, i suggerimenti, gli accenti tonali dalle più imprevedibili fonti. Possiamo citare qualche altra lirica molto nota di Saba, per esempio le Tre vie, dove c’è il contrasto tra le ragazze lavoranti che «cucioro tetre le allegre bandiere»: la poesia di Saba spesso si giova di questi contrasti, nasce da quella figura retorica che si chiama 0ss7720r0, mettendo insieme dei termini apparentemente contradditori, come la serena disperazione, un tipi-
co ossimoro sabiano che ci riporta a quella condizione conflittuale che c’è in fondo nell’animo del medesimo Saba. Ricorderete probabilmente quel sonetto in cui egli dice che in lui «eran due razze in antica tenzone»: la componente ebraica materna e la componente ariana 28
paterna si scontrano in lui in un conflitto che a volte si ècomposto nella sua poesia, e a volte si è venuto esasperando proprio all’interno della sua esperienza poetica. Quindi la poesia di Saba non è, come
alcuni hanno detto, una
poesia idillica, è invece profondamente drammatica, in cui tutte le contraddizioni, tutti i
contrasti della vita si fondono e spesso anche si esasperano, si compongono, ma anche si accentuano. Abbiamo un Saba molto legato alle più disparate occasioni della vita: non so quanti poeti si siano ispirati ai giocatori di football, ma Saba ha scritto le famose Cinque poeste per il gioco del calcio, in cui ha reso popolare la squadra di calcio della mia città. Non so quanti poeti abbiano tratto ispirazione, o preso come pretesto tematico un Caffè, ma Saba ha cantato il
Caffè Tergeste, che concilia «l’italo e lo slavo,/ a tarda notte lungo il suo bigliardo», che diventa dunque una sorta di professione ideologicopolitica di Saba, il quale è stato sempre avverso alle lotte e alle prepotenze razziali, e purtroppo ne sarebbe stato vittima. Ricordo a questo proposito un articolo famosissimo, secondo alcuni famigerato, che Saba ha scritto
nel 1948, quando si veniva discutendo a livello internazionale del problema di Trieste: Saba allora pubblicò nel «Corriere della Sera» un articolo, che a Trieste fece un po’ scandalo,
che si intitolava Se fossi 1! Governatore di Trieste, 29
in cui diceva con grande semplicità e con grande chiarezza che, se fosse stato eletto Governatore di Trieste, per prima cosa avrebbe promulgato una legge che vietasse le lotte, i contrasti, le prepotenze e le arroganze razziali. È lo stesso Saba che aveva visto conciliare lungo il bigliardo del Caffè di Tergeste gli italiani e gli slavi, in un periodo molto arretrato, nel 1910-12.
Quindi possiamo dire che nel Carzonzere l’esperienza di una intera vita è trascesa, trasferita, sublimata in poesia, in una poesia che può
essere definita «della bontà»: questa è una delle parole-chiave per intendere Saba. C'è un suo racconto famoso che si intitola E/lg gli fa del bene. Questo stesso motivo ricorre anche nel dramma I/!/ letterato Vincenzo, ed è uno dei
motivi veramente nucleari della personalità e dell’opera di Saba, il quale può essere definito, per certi riguardi, il «poeta della bontà», proprio per questo senso di totale accettazione della vita. C'è un passo in cui dice: «07 esiste colpa, è la vita che è fatta così e bisogna accettarla come è». Questa totale accettazione della vita è uno dei temi fondamentali della poesia di Saba, insieme all’amore della vita, che ricorre
in tantissime poesie: citerò una delle più famose, e cioè Ulisse: «nella mia giovanezza ho navigato lungo le coste Dalmate.... — che finisce — ... e della vita il doloroso amore». Direi proprio che il centro della poesia di Saba va ricercato 30
in questo doloroso amore della vita, che è appunto il dittatore di tante sue poesie. E si capisce che un poeta come Saba, così pieno di fermenti umani, di tormenti, di accensioni e di illuminazioni umane, sia un poeta il cui messaggio rappresenta forse quanto di più
umano è possibile ritrovare nella nostra poesia del 900. Montale è un poeta che ci può dare la coscienza profonda del dramma esistenziale del nostro tempo, il senso della difficoltà dei rapporti umani, dell’impossibilità di trovare la parola adatta, di vivere in un mondo dove c'è l'anello che non tiene; Saba invece è un poeta che accetta la vita nei suoi drammi, nelle sue contraddizioni,
nei suoi tormenti,
nei suoi
dolori, nelle sue angosce, ma che tuttavia sa dare una parola — così dice lui stesso — di dorata letizia, sa portare in ognuno di noi qualcosa di sereno. In questo modo credo di avervi dato una sorta di guida iniziale alla lettura del Canzonzere di Saba, e adesso vorrei passare alla seconda parte di questa mia lezione, intrattenendovi brevemente su questo dramma di Umberto Saba, intitolato // letterato Vincenzo, recentemente
scoperto e pubblicato. Non farò un lungo discorso, solamente vi dirò che Saba lo ha
composto
nel 1911, è stato poi recitato a
Trieste, non con successo, anzi con un clamoroso insuccesso, il 20 settembre 1913. Adesso 31
possiamo leggerlo, pubblicato dalla prof.sa Saccani, che appartiene al gruppo pavese, perché i manoscritti di Saba sono stati acquistati dalla Università di Pavia. E questo un dramma importante, non tanto in se stesso, perché non aggiunge nulla alla gloria poetica di Saba, ma perché ci consente di capire alcuni aspetti della personalità e dell’opera di Saba, in un periodo cruciale della sua vita, in cui egli scriveva Quello che resta da fare ai poeti, e veniva via via componendo quelle poesie che avrebbero costituito le due raccolte più famose del Saba giovane, cioè Casa e campagna e Trieste e una donna. Il dramma è incentrato tutto su due personaggi, precisamente il letterato Vincenzo, che è una proiezione e una controfigura del medesimo Saba, e la moglie di Vincenzo, Lena, che è una controfigura della moglie Lina. Vincenzo ha abbandonato Lena, o Lena ha abbandonato Vincenzo: hanno avuto una discussione pro-
vocata da alcune affermazioni del cognato di Vincenzo, fratello di Lena, e quindi, quale sia la colpa dell'uno o dell’ altro, si sono separati da vari anni, tanto è vero che Vincenzo vive con un'amante, Bianca, e Lena sta, lontana da
lui, con la figlioletta. Le prime scene dî questo dramma ci portano ad un colloquio molto indicativo tra Vincenzo e il suo segretario Attilio, nel quale, a mio
parere, è forse riconoscibile l’amico di giovennf:
tù di Saba, Amedeo Tedeschi. Vincenzo, con questo amico, si viene un po’ sfogando, viene esponendo le sue perplessità, i suoi rimorsi, e quindi fa una sorta di esame di coscienza, una professione di bontà, nel senso che vi ho
illustrato poco prima. Vincenzo è un letterato famoso, è una controfigura di D'Annunzio,
oltre che di Saba stesso, anzi alcuni potrebbero trovare in lui una sorta di caricatura di D’Annunzio, ma io direi invece che nel Letferato Vincenzo c'è sia una componente dannunziana,
sia una componente sabiana, e direi che alla fine trionfa la componente sabiana, e che anzi questo dramma rappresenta la vittoria del sabismo sul dannunzianesimo, cioè la vittoria
dell'esame di coscienza del letterato e del poeta «onesto», sul poeta «letterato», imbevuto di letteratura, che cerca di apparire in una luce e in una veste superumana, come D’Annunzio. Non è un caso che questo Vincenzo, in vena di bontà, dica ad Attilio «...c'è quel giovane poeta che mi ha scritto... bisognerà che gli risponda, non devo trascurarlo... c'è una rivista che mi ha invitato a collaborare.. finora non ho risposto, dovrò rispondere ....come sarebbe bello se potessi vedere di nuovo mia moglie Lena, sai che non l’ho mai dimenticata ...». Quindi è un uomo in crisi; c'è poi un altro fatto da tenere presente: egli è legato ad una letterata che si chiama Bianca, la quale ha tratto un romanzo dalla sua relazione con 515)
Vincenzo; questo è un lato di Bianca che non piace evidentemente
a Vincenzo,
il quale,
proprio per la sua componente sabiana, non vuole pubblicizzare la sua vita personale. Un fatto che va sottolineato, dal punto di vista della tecnica teatrale, è questo: il personaggio di Bianca viene più volte citato nel corso della conversazione, nel corso dei dialoghi che si dibattono, ma non appare mai, il che naturalmente porta un po’ di monotonia all’opera, la quale è fatta da duetti, o tra Vincenzo e Attilio,
o tra Vincenzo e Lena. Ci sono due
duetti importanti: il primo è questo tra Vincenzo e Attilio, il secondo sarà il duetto tra
Vincenzo e la moglie Lena. Per uno di quei casi che possono avvenire, Vincenzo vagheggia un incontro con la moglie, e poco dopo la moglie va lei stessa con la bambina, a chiedere protezione per la piccola — «.. {o non sto bene... la bambina ha bisogno di essere protetta, ha bisogno di essere tenuta bene..» —, e prega il marito di riprendere la bambina. Qui nasce questo singolare duetto tra Vincenzo e la moglie Lena, un dialogo fatto di vari sentimenti, perché il ritorno della moglie suscita in Vincenzo il desiderio di tornare con lei; agisce in lui il mito della bontà, egli a un certo momento abbraccia la moglie, tutti e due si abbracciano, piangono insieme. Sono situazioni che ben convengono ad una certa umanità, propria del Saba di 34
quegli anni, ma anche del Saba successivo. Però a un certo momento la discussione ritor-
na su quel punto di frattura, provocato dalle parole del cognato di Vincenzo, che ha determinato la separazione fra i due. Così la moglie si allontana un’altra volta da lui, con la bam-
bina, non riesce a dimenticare quel puntiglio e soprattutto non riesce a capire un fatto: ella pensava di sacrificare se stessa sull’altare dell’amore del marito per questa Bianca — «....questa è una letterata come te... quindi io sono pronta a sacrificarmi sull’ara di questo grande amore...» —, ma Vincenzo replica molto vivacemente che non si tratta di un grande amore, che ha conosciuto Bianca dopo aver lasciato Lena, quindi non è stata Bianca a detronizzare Lena nel cuore di Vincenzo. Questo irrita un’altra volta Lena, la quale si allontana con la bambina dicendogli «..tu sei un cattivo uomo, tuttavia sei un gran buon poe-
ta..». Ma il letterato replica dicendo che egli non è un cattivo uomo e un grande poeta, bensì un uomo ed un poeta superficiale: «Sono superficiale sia nei miei versi come nella mia Vita».
L’esame di coscienza porta dunque il letterato Vincenzo a fare una sorta di autoconfessione, di dichiarazione del suo stato d’animo, che investe insieme la sua poesia e la sua umanità. Quindi abbiamo un uomo in crisi che giunge,
attraverso il colloquio chiarificatore con la 90
moglie, alla consapevolezza e alla presa di coscienza di questa crisi. Possiamo concludere che I/ letterato Vincenzo è una sorta di esame di coscienza,
svolto in forma
drammatica,
di
quegli esami di coscienza che erano tipici dell'ambiente «vociano»: si pensi all’Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra, un testo
tipico dell’atmosfera di poetica, di gusto e di introspezione, propria degli anni della «Voce». Saba dopo aver scritto questo dramma se ne è completamente dimenticato, probabilmente perché ricordava l’insuccesso ottenuto dalla sua rappresentazione; però c'è una spia filologica che ci fa capire, esaminandone il manoscritto, che forse Saba pensava di ridurlo, di correggerlo, di rivederlo, perché ci sono delle correzioni autografe. Sta di fatto però che non lo ha mai pubblicato, non è stato nemmeno incluso nelle prose curate nel 1964 dalla figlia Linuccia, e appena adesso è stato messo a disposizione degli studiosi. Saba dunque ha completamente trascurato, per non dire addirittura rinnegato, a parte le correzioni dell’autografo, questo suo dramma del 1911. Però se Saba lo ha dimenticato, non
lo può invece dimenticare il critico, perché, non tenendo conto di questo dramma, verrebbe meno un anello di quella metaforica catena che può essere costituita dalle opere sabiane nella loro successione diacronica. Un anello, se 36
vogliamo, sperimentale, marginale, forse significativo piuttosto in sede storico-documentaria che non strettamente poetica, ma tuttavia legato alla passione di Saba per il teatro — confermata anche da qualche lettera ad Amedeo Tedeschi e ad altri suoi corrispondenti — e per di più capace di lumeggiare una crisi umana, psicologica ed artistica, che, prima di essere propria del letterato Vincenzo, è stata vissuta in prima persona, e intimamente sofferta, dal poeta triestino.
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Notizie bio-bibliografiche UMBERTO
SABA
—
Nasce nel 1883, a Trieste, da madre
ebrea, in omaggio alla quale assume lo pseudonimo Saba (in ebraico «pane»). Interrotti gli studi, si imbarca come mozzo su di un mercantile, quindi si trasferisce in Toscana, dove entra in contatto con l’ambiente letterario fiorentino. Pubblica nel 1911 il volume Poesze, che non raccoglie consensi; segue Cos miei occhi,
nel 1912, che lo fa in un certo qual modo conoscere. Terminata la guerra, rientra a Trieste e diviene proprietario di una bella libreria antiquaria, presso la quale pubblica nel 1921 la prima edizione del Canzoniere, cui seguono Preludio e canzonette nel 1923 e Figure e canti nel 1926. Le campagne razziali lo costringono nel 1941
a lasciare Trieste, per Parigi, Roma,
Firenze e Milano
(ritornerà nella sua amata Trieste dopo parecchi anni). Nel 1945 dà alle stampe il secondo Canzoniere, che aggiunge al primo le raccolte successive, ristrutturando tutto il materiale. Nuove edizioni del Canzoniere, sempre ampliate, escono nel 1948 e,
dopo la sua morte, nel 1961. La sua attività di prosatore è riassunta nei racconti Scorciatoie e raccontini (1946), in Storia e cronistoria del Canzoniere (1948), singolare esercizio critico sopra
la propria poesia, e in Erresto, un romanzo incompiuto, edito solamente nel 1975. Muore il 25 agosto del 1957 a Gorizia. F. PORTINARI, Umberto Saba, Milano, Mursia, 1963 M. LAVAGETTO, La gallina di Saba, Torino, Einaudi, 1974 A. PINCHERA, Umberto Saba, Firenze, La Nuova Italia, 1974 M. LAVAGETTO, Per conoscere Saba, Milano, Mondadori, 1981
E. FAVRETTI, La prosa di Umberto Saba. Dai racconti giovanili a «Ernesto», Roma, Bonacci, 1982.
E. GUAGNINI (a cura di), I/ punto su Saba. Saggi. Bari, Laterza, 1987
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