Tutela urbis: Il significato e la concezione della divinita tutelare cittadina nella religione romana (Potsdamer Altertumswissenschaftliche Beitrage) (Italian Edition) 9783515097857, 3515097856

English summary: Macrobius noted that all cities come under the protection of a god. The Romans themselves had a particu

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Table of contents :
RINGRAZIAMENTI
PREFAZIONE
1. INTRODUZIONE
PARTE PRIMA
2. L’EVOCATIO ROMANA
3. GIUNONE
4. GIUNONE REGINA
5. GIUNONE CELESTE
6. GIUNONE CURITE
8. VOLTUMNA – VORTUMNO
9. LA DIVINITÀ TUTELARE DI ISAURA VETUS
10. RIFLESSIONI CONCLUSIVE
PARTE SECONDA
11. IL GENIUS E LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA
12. LA DIVINITÀ TUTELARE SEGRETA DI ROMA
13. IL VINCOLO TRA ROMA E I PROPRI DÈI
14. IL SEGRETO
15. UN MISTERO «ROMANO»
FONTI PRINCIPALI
BIBLIOGRAFIA
INDICE
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Tutela urbis: Il significato e la concezione della divinita tutelare cittadina nella religione romana (Potsdamer Altertumswissenschaftliche Beitrage) (Italian Edition)
 9783515097857, 3515097856

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Giorgio Ferri Tutela urbis

POTSDAMER ALTERTUMSWISSENSCHAFTLICHE BEITRÄGE (PAwB)

Herausgegeben von Pedro Barceló (Potsdam), Peter Riemer (Saarbrücken), Jörg Rüpke (Erfurt) und John Scheid (Paris) –––– Band 32

Giorgio Ferri

Tutela urbis Il significato e la concezione della divinità tutelare cittadina nella religione romana

Franz Steiner Verlag Stuttgart 2010

Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek: Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über abrufbar. ISBN 978-3-515-09785-7 Jede Verwertung des Werkes außerhalb der Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist unzulässig und strafbar. Dies gilt insbesondere für Übersetzung, Nachdruck, Mikroverfilmung oder vergleichbare Verfahren sowie für die Speicherung in Datenverarbeitungsanlagen. Gedruckt auf säurefreiem, alterungsbeständigem Papier. © 2010 Franz Steiner Verlag, Stuttgart Druck: Bokor Offsetdruck, Bad Tölz Printed in Germany

Petro avo dilectissimo

Rut. Nam. De red. I 3-4: Quid longum toto Romam venerantibus aevo? Nil umquam longum est, quod sine fine placet.

RINGRAZIAMENTI Desidero in questa sede ringraziare – senza alcuna retorica – alcune persone, il cui contributo è stato determinante alla genesi, all’elaborazione, al completamento e alla pubblicazione del presente lavoro. In primis il Prof. Jörg Rüpke, ordinario di Vergleichende Religionswissenschaft presso l’Università di Erfurt, che ha molto gentilmente acconsentito ad accogliermi per un anno in Germania e ad instaurare una collaborazione tra i nostri due paesi nella forma di un dottorato in co-tutela. Egli mi ha permesso così di confrontarmi con una tradizione di studi diversa da quella in cui mi sono formato: dal che è scaturito un mio grande arricchimento, certo dal lato della formazione scientifica, ma parallelamente – e non è un dato scontato – anche dal lato umano. Le sue osservazioni e i suoi consigli sono stati assai preziosi. Devo infine alla sua cortesia e alla sua certamente immeritata considerazione la pubblicazione in questa sede prestigiosa. Per quanto riguarda l’Italia, i miei più sinceri ringraziamenti vanno alla Prof.ssa Anna Pasqualini (Antichità Romane) e al Prof. Mariano Malavolta (Storia Romana), miei referenti accademici presso l’Università di Roma “Tor Vergata”, l’ateneo presso il quale ho avuto il piacere e il privilegio di svolgere il mio dottorato di ricerca. Senza la loro enorme competenza, il loro sostegno e la loro disponibilità questo lavoro non avrebbe mai visto la luce. Un affettuoso debito è anche quello che porterò sempre al Prof. Enrico Montanari, ordinario di Storia delle religioni presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Egli mi propose, ormai qualche anno fa (nel 2004), di laurearmi con lui, dandomi pertanto la possibilità di effettuare la decisiva – per me – scoperta della disciplina da lui insegnata, che mi ha dischiuso nuove e stimolanti prospettive. Infine a lui devo la pubblicazione del lavoro che costituisce il completamento di quello che il lettore sta sfogliando ora (qui FERRI 2010a). La sua eccellente padronanza di più argomenti ha costituito un apporto di insostuibile rilevanza per la mia formazione. Altri docenti e colleghi hanno reso possibile il compimento della mia ricerca, con il loro apporto – diretto o indiretto – sul piano accademico, scientifico e umano. Li menzionerò qui in ordine rigorosamente alfabetico (omettendone i titoli solo per evitarne la continua ripetizione): Alfonso Archi, Corinne Bonnet, Enzo Caffarelli, Giovanni Casadio, Mario Chighine, Annette Hupfloher, Paolo Garofalo, Richard Gordon, Charles Guittard, Eugenio Lanzillotta, Attilio Mastrocinque, Giovanni Mennella, Diana Püschel, Veit Rosenberger, Claudia Santi, Valerio Salvatore Severino e Marco Toti.

PREFAZIONE Volendo riferire il presente studio ad una determinata tradizione di studi accademici, non si esiterà a collocarlo nell’alveo della cosiddetta “Scuola di Roma” di Storia delle religioni. Tale “etichetta” tuttavia pone più problemi di quanti in realtà non ne risolva: il fatto stesso di mettere l’espressione tra virgolette è già un segnale di quanto la pur generica denominazione di “scuola” sia di per sé troppo angusta per comprendervi le diverse e disparate prospettive degli studiosi ad essa appartenuti o che ad essa hanno improntato il proprio metodo. Caposcuola indiscusso1 della Storia delle religioni in Italia fu Raffaele Pettazzoni, che ne tenne la prima cattedra stabile presso l’Università di Roma “La Sapienza” a partire dal 1924. Pettazzoni fu studioso insigne a livello internazionale e molto attivo a tutti livelli, accademico, scientifico, coordinativo ed organizzativo: conferì dignità accademica alla disciplina in Italia, rivendicandone l’autonomia; redasse opere di notevole respiro e profondità (La religione nella Grecia antica fino ad Alessandro (1921); Dio. Formazione e sviluppo del monoteismo nella storia delle religioni. Vol. I: L’essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi (1922); La confessione dei peccati (1929–1936) e L’onniscienza di Dio (1955), solo per citarne alcune); fondò nel 1925 la rivista dal titolo «Studi e Materiali di Storia delle Religioni»2, e nel 1954 il periodico «Numen» (entrambe ancora in attività); fu accademico dei Lincei e presidente dell’IAHR (International Association for the History of Religions)3. Dopo Raffaele Pettazzoni la disciplina in Italia ha annoverato tra le sue fila studiosi di notevole caratura intellettuale, quali Angelo Brelich, Ernesto de Martino, Ugo Bianchi e Dario Sabbatucci, solo per fare alcuni nomi. Nonostante le rilevanti differenze tra i rispettivi metodi – emblematiche ad esempio quelle rinvenibili tra Pettazzoni e de Martino4 – così come la diversità dei temi indagati, pur tuttavia è possibile individuare dei punti di riferimento comuni. Per dar conto in questa sede della metodologia propria alla “Scuola di Roma”, il punto di vista più interessante ci sembra quello di Angelo Brelich (d’ora in poi B.), per più di un motivo. Anzitutto, in quanto successore di Raffaele Pettazzoni alla cattedra di Storia delle religioni dell’Università “La Sapienza” di Roma, nel 1958,5 egli si trovò di fronte all’arduo compito di prendere in mano il timone della disciplina in Italia: compito tanto più difficile in quanto l’illustre predecessore 1

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Il primo insegnamento accademico in assoluto in Storia delle religioni Italia fu quello tenuto da B. Labanca a partire dal 1886, trasformata però solo due anni dopo in insegnamento di Storia del Cristianesimo. La disciplina fu reintrodotta poi in Italia nel 1912 da U. Pestalozza presso la Regia Accademia scientifico-letteraria di Milano. Dapprima libero docente, questi ebbe poi una cattedra stabile nel capoluogo lombardo a partire dal 1935. Cfr. BIANCHI 1970, 26; SINISCALCO 1996. Sulla genesi e le vicende relative alla rivista, cfr. BRELICH 1979f. Per una dettagliatissima biografia di Raffaele Pettazzoni si rimanda a quella redatta da Mario Gandini sul periodico «Strada Maestra». Cfr. MONTANARI 2006; da ultimo cfr. SEVERINO 2009. Egli era risultato primo davanti a E. de Martino e U. Bianchi. Il concorso portò all’istituzione di due nuove cattedre di Storia delle religioni, a Cagliari (de Martino) e a Messina (Bianchi).

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l’aveva più o meno istituita in Italia, e ne era stato fino ad allora l’unico esponente di rilievo internazionale, detenendone peraltro, lo si è visto, la prima cattedra stabile nelle università italiane. B. cercò di definire le premesse, la fisionomia, i confini e i criteri metodologici propri alla Storia delle religioni, e ciò anche più di Pettazzoni, per cui il metodo era piuttosto implicito nella ricerca.6 Tale sforzo era acuito anche dal personale travaglio dello studioso: egli, nato a Budapest da padre fiumano e madre ungherese, si era formato scientificamente in Ungheria con maestri quali András Alföldi e Károly Kerényi, laureandosi con quest’ultimo nel 1937.7 Necessariamente il suo metodo fu improntato a quello vigente in terra magiara, essenzialmente quello di Kerényi. Il problema è che esso presentava delle differenze insanabili con il metodo cui si richiamava Pettazzoni:8 tra le altre la presenza di categorie e concetti presupposti come universali, dunque a-storici, quali «solare», «lunare», «tellurico», «cosmico», o «Grundintuition» («intuizione di fondo»), «Idee an sich» («idea in sé»), etc.9 Questa fase di passaggio porterà il B. ad una constante riflessione sulla metodologia propria alla prospettiva di Pettazzoni, abbracciata in modo consapevole. Cruciali in questo senso saranno gli anni ’50: primo lavoro del «nuovo corso», sono le Tre variazioni romane sul tema delle origini, del 1955,10 nel quale tuttavia permangono delle tracce del “vecchio” B. (una su tutte la centralità del tema delle «origini»). L’anno successivo avrà luogo il definitivo distacco dal primo maestro Kerényi, con una recensione molto critica dell’opera di lui Umgang mit Göttli-

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BRELICH 1979c, 123; cfr. LANTERNARI 1979, 14; NANINI 2004, 5: «Brelich è, per certi aspetti, il vero fondatore della “Scuola Romana”, se non altro perché a lui appartiene il duro e oscuro lavoro di costruzione di un’identità in senso lato “storicistica” che, per quanto messa in dubbio – in primis da lui stesso –, rimane tutt’oggi come punto fermo nello studio scientifico della religione a livello nazionale e internazionale». 7 La tesi, dal titolo A Triumphator, aveva per oggetto il trionfo romano. B. aveva redatto in precedenza un’altra tesi sotto la direzione dell’Alföldi, Aspetti della morte nelle iscrizioni sepolcrali dell’impero romano, pubblicata nel 1937 nelle «Dissertationes Pannonicae» (I. 7), collana diretta dall’Alföldi, destando un certo interesse tra gli studiosi: Franz Cumont in un suo soggiorno a Roma volle incontrare il promettente giovane. Quanto ai rapporti Brelich-Kerényi si segnala la prossima pubblicazione del carteggio tra i due nella Collana di Editori Riuniti University Press “Opere di Angelo Brelich”. 8 Emblematica in proposito la recensione di Raffaele Pettazzoni alle opere di B. Die geheime Schutzgottheit von Rom e Vesta (qui BRELICH 1949a e BRELICH 1949b). Scrive in proposito B.: «Pettazzoni stesso che ne aveva letto anche il manoscritto, dimostrando interesse per alcune parti – ne prese le distanze, con una recensione (…) cortese e ponderata che, dopo apprezzamenti e critiche di fondo che ora mi sembrano giuste per l’essenziale (…), si concludeva con una specie di monito personale, elegantemente espresso, ma ugualmente indicativo di un incipiente deterioramento dei nostri rapporti (ottimi durante e immediatamente dopo la guerra): in sostanza, se io non mi adeguavo al suo indirizzo, la nostra stessa «collaborazione» accademica era in pericolo» (BRELICH 1979a, 36). Sulla ricezione delle due opere presso la comunità scientifica, cfr. FERRI 2010a, cap. V. 9 Sulla fase di passaggio tra le due metodologie da parte di B. cfr. MONTANARI 2010b; FERRI 2010a, cap. V. 10 BRELICH 20103, 29; cfr. BRELICH 1979a, 54–57.

PREFAZIONE

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chem.11 La strada era aperta per la fase più matura, nell’ottica della metodologia poi sempre seguita e difesa dal B. I punti fondamentali che caratterizzano la concezione che lo studioso ebbe della disciplina, e di conseguenza della c. d. “Scuola di Roma”12, che ne seguì e cerca tuttora di seguirne l’insegnamento, sono fondamentalmente due: il primo è l’approccio prettamente storicistico, nel senso del «carattere irriducibilmente storico di ogni formazione religiosa»13; inoltre fondamentale è l’impiego nella ricerca della comparazione storico-religiosa, sostenuta da un adeguato studio dell’etnologia.14 Analizzeremo tra breve i due punti. Ma prima c’è da definire meglio la natura dell’oggetto studiato: la religione. Come afferma B., la Storia delle religioni «non è la storia dell’inesauribile varietà di comportamenti, idee, reazioni, sentimenti, credenze, esperienze religiosi»; tale concezione «confonderebbe la religione con la religiosità, trascurando l’essenziale aspetto istituzionale della prima»15. Ogni religione è composta infatti da un «complesso di istituzioni che (…) si conservano indipendentemente dalla sempre varia e mutevole religiosità degli individui». Quanto allo stesso concetto di religione, B. è dell’avviso che si possano chiamare «religioni» «quei complessi di istituzioni, credenze, azioni, forme di comportamento e organizzazione mediante la cui creazione, conservazione e modifiche adeguate a nuove situazioni, singole società umane cercano di regolare e di tutelare la propria posizione in un mondo inteso come essenzialmente non-umano, sottraendone, investendo di valori e includendo in rapporti umani quanto ad esse appare d’importanza esistenziale»16. Naturalmente il nostro concetto di religione è esso stesso un prodotto storico occidentale e influenzato strutturalmente dal Cristianesimo,17 le cui componenti principali – delle credenze, dei riti, un comportamento, un personale specializzato – non sono allo stesso tempo (tutte) presenti in un’altra “religione”, o non la esauriscono, oppure non si prestano neanche a confronti, se non al prezzo di inevitabili forzature.18 Le credenze religiose hanno un ruolo fondamentale che «a differenza delle altre profane, consiste (…) nel garantire al gruppo umano il controllo su ciò che altrimenti apparirebbe incontrollabile, sottraendo la realtà alla sfera disumana della casualità e conferendole un significato umano»19. In questo tentativo di 11 BRELICH 1956, 1–30; BRELICH 1958, 364–365, BRELICH 1979a, 62–64. In realtà tale recensione aveva in origine un’intenzione di “apertura”, piuttosto che di “rottura”, come ha ben messo in evidenza SPINETO 2003, 399 sgg., in base alle lettere contenute nell’epistolario di Kerényi. 12 BRELICH 2002; NANINI 2004, 6 sgg. 13 BRELICH 2002, 141. 14 Cfr. BRELICH 1960; BRELICH 2002. Circa la comparazione nei lavori di B., cfr. BRELICH 1960, 63–119; LANCELLOTTI 2005; FERRI 2010b. Si veda inoltre il numero monografico dedicato al tema, a cura di G. Filoramo e N. Spineto, del periodico «Storiografia» (6, 2002). 15 BRELICH 1960, 84; CFR. BRELICH 1979c, 128. 16 BRELICH 1966, 66. 17 Ibid., 4 sgg.; cfr. BRELICH 1985, 202–203; SABBATUCCI 2000, 286. 18 BRELICH 1979e, 140 sgg. 19 Ibid., 156.

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esercitare un controllo su tutto ciò che appare incontrollabile si ricorre spesso alla personalizzazione e all’antropomorfismo 20. Tali procedimenti favoriscono e consentono all’uomo di entrare in relazione più facilmente con gli esseri sovrumani, ma anche di comprendere meglio il mondo circostante: «esprimere in forme umane tutto ciò che circonda l’uomo e determina il suo destino, significa contemporaneamente due cose: il mondo, pur senza perdere nulla della sua sovrumana potenza e grandezza, appare più comprensibile, più trasparente, meno informe e mostruoso; allo stesso tempo l’uomo, ritrovando le proprie forme nel mondo nonumano, acquista non solo un maggior senso di sicurezza e confidenza con la realtà, ma anche una maggiore dignità, poiché riconosce sé stesso come simile agli dèi che reggono l’universo»21. Tutte queste considerazioni, riflesso del costante impegno di B. alla valutazione del rapporto tra “religione” e “religioni”, lo portano senz’altro ad affermare che non esiste “la” religione: «è inaccettabile la posizione di coloro che considerano le religioni storiche come semplici varianti “della religione”, cioè, nei fatti come forme più o meno snaturate e deformate dell’unica vera religione determinata dalla realtà oggettiva trascendente»22. La religione «non è stata (e non è, dove esista e funzioni) – mai e in nessun luogo – un ‘dato di fatto’, né piovuto dal cielo per rivelazione né congenito alla natura umana né insito in una certa forma culturale, un dato di fatto di cui cambino solo, quasi secondariamente o casualmente, le forme superficiali, ma sempre e dovunque, come la cultura stessa, creazione continua»23. Anche le c. d. “religioni universalistiche” non possono essere comprese al di fuori di determinate configurazioni culturali.24 Veniamo al primo pilastro dell’impostazione metodologica condivisa da B. Si è parlato di processi storici: essenziale importanza acquista dunque lo studio della storia che prescinda da qualsivoglia scivolamento nell’arbitrario o nel metafisico. La Storia delle religioni non deve allontanarsi dall’approccio storicistico: di qui le nette prese di posizione del B. nei confronti di quegli orientamenti che, secondo lo storicismo, deformerebbero la storia alla luce di schemi predefiniti o preconcetti e di quelli che, cosa ancor più grave, pretendono di basarsi su presupposti più o meno scopertamente fideistici o a priori astorici. B. nello specifico definisce lentamente un orientamento metodologico che definisce storicista, nel corso di una costante polemica nei confronti di posizioni di metodo, rispetto alle quali distingue le proprie per opposizione e negazione, stabilendo un nuovo orientamento sulla base di ciò che a suo avviso non si poteva più essere. Tra le posizioni verso cui il B. appuntò le sue critiche vi sono: evoluzionismo, strutturalismo, monoteismo primordiale, fenomenologia religiosa, il 20 Cfr. infra, cap. 11. 21 BRELICH 2007, 59; cfr. SABBATUCCI 2000, 296: «gli dèi sono gli strumenti logici con cui una religione politeistica “pensa” la realtà». 22 Ibid., 138. 23 BRELICH 1969, 9; cfr. LANTERNARI 1997, 87: «per comprendere le radici di un fenomeno nelle sue componenti religiose non è possibile trascurare molti altri aspetti e problemi riferibili alle componenti extra-religiose»; MASSENZIO 1997, 520. 24 BRELICH 1979h, 242–244.

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concetto di homo religiosus, psicologismo, contro le quali applica spesso la categoria critica cosiddetta dell’irrazionalismo.25 In opposizione a tutti questi orientamenti il B. ribadisce e sottolinea come l’impostazione sottesa allo studio scientifico delle religioni debba essere rigorosamente storicistica. Il fatto di riconoscere qualcosa di immutato nell’umanità, anch’esso tuttavia «costituito storicamente in epoche estremamente remote», non deve far «recedere neanche di un passo dallo storicismo: l’indirizzo non dipende dalle teorie “ultime” che sono probabilmente piuttosto le sue proiezioni e che restano (…) indimostrabili»26. In realtà non si è mai trovata una struttura unica che caratterizzi tutte e solo le religioni, ma se anche per assurdo la si trovasse, essa andrebbe comunque ricondotta esclusivamente alla storia.27 Di qui la critica, a volte sottesa, a volte meno, anche a chi riteneva che lo storicismo costituisse solo «un’opzione filosofica, cioè un preconcetto (leggi: non meno ingiustificato e scientificamente compromettente dei preconcetti fideistici)»28, per cui il B. ribatteva che, comunque, «al mestiere dello storico l’“opzione” storicista” è “più confacente di ogni altra: lo storico, in quanto tale, cerca, ed esclusivamente, le ragioni storiche, cioè umane, di ogni formazione culturale (e perciò anche religiosa) e abdicherebbe al suo mestiere nel momento stesso in cui ammettesse la sola possibilità di un intervento di fattori sovrumani nella storia o fondasse giudizi su valori “assoluti” prestabiliti da Dio o chi per lui»29. Volendo spingerci ancora più in là: «anche se noi riteniamo che una determinata religione sia quella ‘giusta’ e le altre erronee, restiamo sempre davanti al compito storico di spiegare come in una civiltà si sia costituita o diffusa la ‘giusta’ religione, e come nelle altre (…) religioni ‘false’; a questa questione storica non risponde – dal punto di vista scientifico – neppure la tesi della ‘rivelazione’, perché rimarrebbe sempre da chiedersi perché la rivelazione sia stata accolta da una parte dell’umanità e non da altre parti di essa»30. Di conseguenza: «dal punto di vista storico è irrilevante se una credenza sia ‘giusta’ o ‘sbagliata’»31; «anche lo storico credente, finché studia la storia delle 25 Per una più esauriente disamina degli argomenti prodotti dal B. contro questi orientamenti, cfr. FERRI 2010a, appendice. 26 BRELICH 1979g, 212. 27 BRELICH 1966, 4; BRELICH 1979h, 249; per le recenti riprese dell’orientamento fenomenologico, cfr. XELLA 2003, 232–239. 28 Sulla peculiare «opzione» di E. de Martino, cfr. BIANCHI 1970, 165–166. 29 BRELICH 1979g, 207. Cfr. LANTERNARI 1997, 78: fenomenologia e teologia operano «assumendo i fatti religiosi nella loro astrazione, staccati dalla storia culturale, sociale, politica entro cui sono calati»; DE MARTINO 1953–1954, 21: «la storia del sacro cede il luogo ad una più o meno dissimulata storia sacra»; DE MARTINO 1957: 90: «con ciò la storia delle religioni entra in un non componibile dissidio con la teologia, fondata invece sull’opposta persuasione che all’inizio del processo ierogenetico non sia l’uomo storico, ma Dio»; GASBARRO 1988, 297: «ci possono essere in una cultura fenomeni etichettabili dallo storico come metastorici (…), ma una cosa è leggere questi fenomeni come manifestazioni-concretizzazioni di un noumeno ontologicamente o teologicamente presupposto come vero e reale, un’altra è guardare ad essi come ad invenzioni culturali completamente umane». 30 BRELICH 1966, 7. 31 Ibid.

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religioni, deve sapere prescindere dalla propria fede, perché non appena introduce nell’interpretazione di un fatto religioso fattori sovrumani (…), egli rinuncia al mestiere dello storico, che è quello di cercare di rendere conto delle ragioni umane che hanno prodotto un fenomeno culturale, un evento, una situazione, ecc.»32. La religione va studiata nella storia e solo in essa. In definitiva – schematizzando – da una parte vi sono «coloro per i quali niente di essenziale è mai cambiato, può cambiare o deve cambiare il mondo; tutto è deciso sin da sempre», da quando, a seconda delle posizioni, Dio ha creato il mondo e l’uomo o comunque da quando quest’ultimo esiste; dall’altra parte «stiamo noi, stanno coloro per i quali la partita è aperta, per i quali c’è stata, c’è e ci sarà storia», per i quali «l’uomo di oggi non è proprio quello di sempre e nemmeno quello di una generazione fa e per i quali il domani dell’uomo dipende anche da ciò che sta già facendo»33. I due campi vengono ad essere di conseguenza, secondo questo schematismo, uno «sia pur inconsciamente religioso o teologico e l’altro integralmente laico; uno sostanzialmente conservatore (…) e l’altro impegnato nel presente e aperto al futuro»34. E allora anche l’«opzione» diventa «storica»: «anche questa posizione genericamente umana mi appare inseparabile dalla posizione dello storico: preferisco d’aver “scelto” così, perché nello stesso poter scegliere trovo la giustificazione della mia posizione: non tutto è determinato sin da sempre, se io posso ancora scegliere. La storia sta, appunto, in scelte»35. Dunque perché storicismo? «Basta la semplice risposta: perché solo lo storicismo risponde ai fatti obiettivi»36. Ma allora quale storicismo? «Lo storicismo che noi contrapponiamo a ogni indirizzo antistorico, si fonda anzitutto sul fatto obiettivo del continuo (…) mutare delle culture e sul riconoscimento che esso dipende dalle forze creative delle società umane, che si esplicano nelle varie forme della conservazione e dell’innovazione. Questo storicismo prescinde da ogni presupposto metafisico (…) e si realizza nell’individuare i fattori che mettono in grado, di volta in volta, di procedere alla scelta di una soluzione culturale. Esso mira a comprendere la novità e la portata di ogni siffatta soluzione mediante il confronto 32 BRELICH 1979h, 249–250; si vedano inoltre le riflessioni del B. all’indomani del famoso congresso dell’IAHR del 1960, tenutosi a Marburgo: BRELICH 1979d (cfr. la posizione di Werblowsky riferita in SCHIMMEL 1960; SHARPE 19862, 276–278; per tutti gli sviluppi istituzionali successivi, STAUSBERG 2008). Cfr. PETTAZZONI 1959, 10: voler affiancare alla religione un altro valore oltre a quello culturale – quindi umano – assegnandole un “valore autonomo”, porterebbe a voltare le spalle all’idea di svolgimento, che è invece «al centro del pensiero storicistico»; SABBATUCCI 2000, 128–129, «Fare storia delle religioni secondo l’insegnamento di Pettazzoni, significa accettare la sua problematica e il relativo metodo di ricerca, per cui storia religiosa e storia politica sono un tutt’uno: sono storia culturale». 33 BRELICH 1979g, 209; cfr. tuttavia CASADIO 2005, 4046: «In stark opposition to phenomenology and any other irrationalist approach, Brelich stresses the omnipresence of history as a factor of total explanation, a concept that in his illusory persuasiveness is clearly conditioned by a positivist mentality». Sulla risoluzione senza residui nella storiografia, come linea metodologica che unisce Brelich-de Martino-Sabbatucci si veda SEVERINO 2009, 129–130. 34 BRELICH 1979g, 209–210. 35 Ibid., 210. 36 Ibid., 218.

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con la situazione precedente e con altre soluzioni scelte in situazioni analoghe (…) da altre società: donde la sua dimensione comparativa da cui nessuna storiografia può prescindere sotto pena di esaurirsi in mera cronaca locale»37. Seconda componente essenziale del metodo storico-religioso è la comparazione. Come ebbe modo di affermare Pettazzoni: «la natura è il mondo della necessità; la storia è il mondo della libertà, e quindi della varietà, e quindi della comparabilità»38. Il metodo comparativo si esplica quindi immancabilmente nella storia: «La ricerca del comparabile diventa anzitutto ricerca delle ragioni storiche cui la comparabilità è dovuta: ma poi, rendendosi sempre più lucidamente conto del fatto che comparabilità non significa mai identità, il comparativista si trova anche di fronte al compito di individuare le ragioni, ugualmente storiche, per cui le formazioni comparabili non si riducono a questo loro aspetto, ma sono anche risultati di singoli, unici e irripetibili processi creativi, risolutori di situazioni in ogni caso differenti»39. Tanta è l’importanza della comparazione per il B. da spingerlo ad affermare che «fuori del comparativismo, la storia delle religioni non è nulla, non esiste»40. Tale impostazione è nel B. cosciente e compiuta, come si è già avuto modo di notare poco sopra, a partire dalla sua opera Tre variazioni romane sul tema delle origini (1955). Nella prefazione alla seconda edizione del volume (1976), egli afferma: «lo scopo stesso della comparazione – anziché l’appiattimento e la generalizzazione, – è precisamente l’individuazione di quanto in ogni formazione culturale è irripetibilmente specifico, ma che senza lo sfondo comparativo apparirebbe – oltre che inafferabile – privo di rilevanza storica»; inoltre essa «non deve operare illazioni sull’oggetto specifico della ricerca, presumendo che quanto esiste altrove, debba necessariamente esistere anche in esso»41. La comparazione è il «filo di Arianna» della Storia delle religioni, a patto però che sia storica (individuante): «non, cioè, una comparazione orizzontale e sterile di fenomeni, bensì comparazione di processi storici; non comparazione intenta a livellare e a ridurre, bensì a differenziare e a precisare, onde cogliere, oltre che le trame fondamentali comuni, le irripetibili soluzioni creative concrete»42. Infatti «nella ricerca storica (…) non si ha bisogno di scoprire e tener presente ciò che ci è di comune tra diversi fenomeni (…), ma anche di osservare scrupolosamente quanto, sullo sfondo di ciò che è comune tra di essi, distingue un fenomeno dall’altro»43. Nel procedere alla comparazione e alla valutazione della specificità di una cultura, va sempre tenuta a mente la polarità tra conservazione e innovazione, 37 38 39 40

Ibid., 222. PETTAZZONI 1959, 11. BRELICH 1979f, 195. Ibid., 196; sul metodo comparativo di B. cfr. in generale LANCELLOTTI 2005; FERRI 2010b; per una storia degli studi, cfr. PETTAZZONI 1959; RIES 1996. 41 BRELICH 20103, 32. 42 BRELICH 1979c, 129. 43 BRELICH 1969, 16; cfr. SABBATUCCI 2000, 100.

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«due aspetti del medesimo processo, perché nessuna religione, come nessuna civiltà crea ex nihilo, mentre d’altra parte anche la ‘pura’ conservazione richiede sempre nuovo impegno nel continuo mutare delle condizioni»44. Infatti «ogni prodotto culturale, finché vive (ma neanche per la sua morte si può stabilire un istante preciso), è, in ogni momento della sua esistenza, contemporaneamente conservazione e innovazione creativa»; ancora, «anche la conservazione può avere un aspetto creativo nello sforzo di salvare valori antichi in condizioni mutevoli, mentre anche l’innovazione, oltre ad avere necessariamente la propria base nella tradizione, può anche consistere nel ripresentare questa in forme adeguate alle nuove condizioni – ciò che non esclude, ma integra soltanto, l’aspetto inerte e vacuo della conservazione e quello originale e creativo dell’innovazione»45. Nell’esame degli elementi oggetto dei due processi, B. preferisce parlare di «riplasmazioni», piuttosto che di «relitti» o «sopravvivenze» (i survivals della vecchia antropologia evoluzionistica). Egli si serve del funzionalismo46 ma, colmandone la grave lacuna del disinteresse per il processo storico, preferisce sottolineare la funzione attiva che tali elementi rivestono in una data società: essi sarebbero cioè stati «riplasmati» per assolvere ad una nuova funzione, e anzi proprio perché conservano un’utilità sono stati riadattati e trasmessi. Al criterio funzionalista di sopravvivenza, secondo il quale niente sopravvive che non trovi una funzione nuova, B. affianca quello della variazione d’importanza, per cui ciò che era prima fondamentale viene marginalizzato, ma non per un’incapacità intrinseca al «relitto», quanto piuttosto a causa del particolare sviluppo che la civiltà ha inteso darsi, senza dimenticare che qualsiasi retaggio è suscettibile di trasformazione. In quest’ottica è di gran lunga più utile «esaminare – e questo si può fare solo attraverso la comparazione – quali retaggi primitivi, reinterpretati, abbiano funzionato da punto di partenza per la formazione di idee, tradizioni, istituzioni religiose nuove; essi gettano nuova luce sulle origini concrete e non solo su quelle genericamente qualificabili come “primitive”»47. Invece di conservare o respingere il concetto di «relitto», B. «tenta dunque di considerarlo alla stregua di una “variabile concomitante” quale che sia il livello col quale essa possa interagire»48. L’evento «culturale» va analizzato dunque secondo due aspetti: «se e nella misura in cui esso dipende da fattori culturali (…) e nella misura in cui esso suscita reazioni culturali»49. Il metro da usare è quello «delle conseguenze storiche, 44 45 46 47

BRELICH 1969, 9; cfr. BRELICH 2002, 149–150. BRELICH 2002, 150; cfr. BRELICH 1979h, 253; LANTERNARI 2005, 8. Per cui cfr. MONTANARI 2001, 51 sgg. BRELICH 1979e, 180; cfr. MONTANARI 2001, 61. Cfr. inoltre BRELICH 1979a, 47, a proposito della prospettiva folklorica incentrata sulle «sopravvivenze pagane»: «sebbene da allora [scil. BRELICH 1953–1954] non mi sia più occupato di fatti folkloristici, altri studi hanno piuttosto rafforzato, anziché fugare, il mio sospetto che nel folklore attuale spesso non tanto «sopravvivano» – «scaduti» –fenomeni delle civiltà «egèmoni» antiche, quanto piuttosto ciò che anche sotto queste era già folklore (…). E allora è giustificato – entro certi limiti (…) – operare con il concetto della «continuità» al posto di (o accanto a) quello della «sopravvivenza». 48 MONTANARI 2001, 62. 49 BRELICH 1979g, 220.

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della misura in cui essi incidono sulla storia»50. La cultura va considerata come un continuo processo di azione e creazione: «perciò nella storia c’interessa ciò che una cultura – nata da precedenti, in un particolare ambiente, attraverso particolari vicende – ha fatto di ciò che possedeva in partenza e, in ogni momento della sua storia ha continuato a fare di quello che precedentemente aveva fatto. E ciò si comprende solo in base alla conoscenza di quanto, di volta in volta, costituiva i presupposti delle sue creazioni»51. In ciò gioca un ruolo fondamentale anche il concetto di «tradizione», che in varia misura tende a conservare e a cristallizzare il nucleo di un sistema religioso; va osservato quindi che «se non si comprende il fondamento, vale a dire l’origine storica del più antico sistema tradizionale, non si comprende neppure, in primo luogo, la sostanza stessa della religione; inoltre, non si è neppure in grado di afferrare il senso o di valutare la portata delle innovazioni che modificano il sistema tradizionale»52. «Ogni acquisizione – propria o mutuata dall’esterno – modifica la cultura di una società, provocando reazioni a catena che si susseguono tra i due poli rappresentati dall’integrazione dell’elemento nuovo, da un lato, e dall’adattamento della tradizione ad esso, dall’altro»53. La comparazione storico-religiosa in questo dimostra pienamente la sua validità quando «tende alla massima puntualizzazione raggiungibile del processo creativo da cui il singolo fenomeno studiato è scaturito nel seno di una società determinata dal suo immenso passato e pressata o stimolata dal suo presente, come ogni società umana è sempre ma in sempre diverse condizioni». In definitiva, essa deve diventare «una dimensione interna comune a ogni ricerca»54. La comparazione inoltre, non isolando i fenomeni ma considerandoli nel loro contesto storico, consente di verificare che, almeno nella documentazione storicoreligiosa in nostro possesso, non esistono creazioni “pure”: «non conosciamo neanche un solo caso di creazione assoluta, priva di ogni aspetto tradizionale – perfino le religioni “fondate” (…) si attaccano per molti versi a tradizioni preesistenti, spesso a quelle stesse che per altri versi combattono (…) – mentre d’altra parte non conosciamo nessuna tradizione puramente passiva, priva di momenti creativi»55. In questa prospettiva, cioè con l’accento ai processi creativi e perciò – non lo si ripeterà mai abbastanza – culturali, nessuna religione appare, come un blocco immutato nei secoli, ma, come ad esempio la religione greca, «un incessante divenire creativo, cioè storia»56. La straordinaria innovazione del metodo storico-comparativo «avrebbe insegnato a qualsiasi studioso di scienze religiose a tenere conto, dinanzi a qualunque civiltà religiosa antica o moderna, della necessità di ricercarvi segni tardivi o lasciti spontanei di elementi di derivazione da arcaici caratteri “primitivi”: autenti50 51 52 53 54 55 56

Ibid., 221. BRELICH 2002, 163 BRELICH 1979e, 179. Ibid., 175–176. BRELICH 1979f, 196. BRELICH 1979b, 117. BRELICH 1969, 9.

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camente riconoscibili o alterati nel corso dei mutamenti di tempo e di condizioni»57. Una delle preoccupazioni più vive in B. è infatti quella di «superare la vecchia tendenza di una storiografia retrospettiva («a rovescio») che cerca solo i presupposti e i precedenti del dopo, per impostare invece una storiografia prospettica, la quale colga le direttrici e i significati delle forze creative, volte verso il nuovo e il peculiare di ogni civiltà religiosa, in ogni sua fase»58. Prendere coscienza della capacità creativa di ogni umanità «ci restituisce la libertà e l’autonomia del soggetto pronto a rifiutare il “dato” e a impegnarsi nel porre nuovi valori»59. In questa prospettiva ci si figura uno studioso che si svincola così da dogmi di ogni sorta, anche solo disciplinari: «non esiste una verità storica; ogni cultura crea le proprie verità storiche, ma queste non per questo sono arbitrarie, soggettive, prive di valore, bensì sono prodotti coerenti di quel continuo – e irreversibile – processo che è la storia culturale stessa»60. L’opera di B. perciò incessantemente «manifesta il suo significato in riferimento all’idea-guida secondo la quale la creatività umana è il solo motore della storia»61. Alla luce delle considerazioni appena svolte non è possibile sottovalutare quanto una corretta definizione e un corretto uso della comparazione stessero a cuore al B., che non mancò di far calare implacabilmente la sua scure censoria ogni qual volta ritenne che essa fosse usata in modo improprio o forzato come ad es. il comparativismo di matrice evoluzionistica, interessato solo al recupero delle analogie62 o l’utilizzo che della comparazione faceva la fenomenologia63: a diffe57 Lanternari 2005, 7. 58 LANTERNARI 1979, 15; talvolta anche in B. l’idea di «svolgimento» conserva degli elementi di stampo evoluzionistico, come ad esempio in Paides e Parthenoi, in cui l’introduzione etnologica di oltre cento pagine «validissima se considerata in sé», è però «funzionale al resto della ricerca solo se si ammette un’equiparazione, a fini comparativi, del «primitivo» (le iniziazioni tribali moderne) al «primordiale» (le iniziazioni preistoriche in Grecia)»: MONTANARI 1993a, 99. Residui di evoluzionismo sussistono più in generale nel metodo di B.: cfr. MONTANARI 2001, 59–60. Va sottolineato inoltre come il Nostro si sia poco giovato del lavoro di Lévi-Strauss e della sua critica all’evoluzionismo: cfr. ad es. MASSENZIO 1997, 512 sgg. sulla critica lévistraussiana all’interpretazione evoluzionistica del rapporto magia/scienza e sull’analisi del legame tra magia e mitologia. 59 BRELICH 1979f, 196. 60 BRELICH 1968, 136. Cfr. LANTERNARI 1997, 74. 61 MASSENZIO 2006, 12. 62 MASSENZIO 2006, 11; cfr. PETTAZZONI 1959. Per B. l’indirizzo evoluzionistico sarebbe «sorprendente» poiché invece di cercare «un qualsiasi ‘evolversi’ delle idee religiose, esso punta tutta la sua attenzione su quanto (…) non si ‘evolverebbe’ affatto, ma rimarrebbe presente, in forma di ‘sopravvivenze’», con ciò da una parte svalutando l’“evoluzione” «mostrandone soprattutto l’incapacità sia di assorbire sia di eliminare i residui di fasi precedenti», dall’altra «anche gli elementi derivati dalle fasi storiche più antiche, considerandole – anziché come fermenti sempre vivi – come corpi estranei, fossilizzati o sclerotizzati»: BRELICH 1969, 49; cfr. BRELICH 1979e, 169–170. 63 Avendo quale fine ultimo quello di giungere a pretesi archetipi generalmente umani, validi ab ovo e fuori dal tempo, di fatto essa «sottrae la religione alla storia e contemporaneamente alla sfera umana» (BRELICH 1979c, 130). La differenza con lo storicismo è quindi radicale: laddove questo di ogni singola formazione religiosa cerca di individuare ciò che vi è di specifico e di nuovo, «per la fenomenologia, la comparazione serve a delineare ciò che tra formazioni

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renza di essi, «il metodo della comparazione storica aiuta a cogliere l’originalità di ciascuna religione. Esso consente di comprendere il meccanismo di un tipo particolare di processo creativo – la creazione religiosa – che tanta parte ha avuto nella storia dell’umanità. Alla luce della comparazione storica le religioni rivelano, dunque, la loro essenza e la loro dignità e si collocano tra le forme in cui l’uomo manifesta il suo modo di essere, che è sempre un modo creativo, cioè un vivere storicamente»64. Così come va criticato l’uso errato della comparazione, allo stesso modo inoltre si deve biasimare la totale mancanza di tale dimensione nella ricerca.65 Per quanto la comparazione sia vitale per il nostro campo di studi, non va dimenticato comunque che essa «di per sé non è una scuola, non è un indirizzo, non è nemmeno una tecnica, è soltanto un mezzo che può esser impiegato con varie tecniche e al servizio di vari ordini di ricerca di varie finalità»66. Storia e comparazione non sono un accessorio, ma l’essenza stessa della Storia delle religioni e del suo metodo: «di metodo storico-religioso ce n’è uno solo (…): quello fondato sulla comparazione e tendente a interpretazioni storiche»67. In quanto disciplina storica, la Storia delle religioni si rivela estremamente utile anche per indagare le «modalità di rappresentazione» sottese ad un dato evento e il rapporto tra «fonti dirette», legate alla cultura materiale, e fonti letterarie,68 o, per dirla più in generale, tra storia e mito (o anche mitizzazione della e

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storiche diverse vi è, malgrado ogni diversità, di strutturalmente comune» (BRELICH 1979d, 136; cfr. LANTERNARI 1997, 75). Se si segue questa linea di pensiero, di conseguenza si riesce a dire che la comparazione nell’orientamento fenomenologico non avrebbe neanche molto senso, visto che esso non potrebbe spiegare come «malgrado ogni “bagaglio” precostituito – di un tipo o dell’altro – ogni singola civiltà della storia umana abbia saputo farne qualcosa di diverso» (BRELICH 1979g, 212). BRELICH 1979e, 182. Nella prefazione a Paides e Parthenoi, B. afferma che l’opera «intende mostrare [scil. ai classicisti] che nessun problema riguardante aspetti religiosi delle civiltà antiche può trovare soluzione finché è posto nella prospettiva limitata della Altertumswissenschaft, mentre al solo contatto di un pensiero comparativistico i dati cominciano immediatamente a parlare un linguaggio nuovo e a rivelare significati insospettati» (BRELICH 1969, 9; cfr. BRELICH 1972b; SANTI 2004). Anzi, con un procedimento analogo a quello usato dai filologi per colmare le lacune di un testo frammentario mediante il confronto con testi simili, anche la comparazione può integrare “filologicamente” i singoli fatti religiosi lacunosamente documentati alla luce di altri contesti religiosi (BRELICH 1958, 21). Inoltre, soprattutto per quanto riguarda la mitologia, «la comparazione può servire da mezzo di controllo e di garanzia atto a rettificare le costruzioni chiamate a vita dal metodo filologico»; infatti è noto che «l’epoca della documentazione di un mito o di una variante d’un mito non decide sull’epoca del mito stesso». Altra osservazione importante è che anche se avessimo una documentazione sufficientemente antica e abbondante che ci «permettesse di riconoscere i dati di fatto relativi al processo di formazione del fenomeno studiato, la comparazione non sarebbe meno necessaria ai fini dell’interpretazione, per la semplice ragione che un unicum (…) non può essere oggetto di conoscenza scientifica; il suo significato potrebbe esser tutt’al più “intuito”, ma mai accertato con un minimo di attendibilità» (Ibid). BRELICH 1979c, 127. BRELICH 1979d, 133. Cfr. in generale MONTANARI 1990a; MONTANARI 2009.

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nella prima). Tale prospettiva si rivela particolarmente proficua nell’indagine delle religioni antiche: in relazione all’argomento della ricerca che seguirà ci riferiremo qui alla religione romana con un esempio tratto dalla narrazione liviana del decennale assedio di Veio.69 Nel decimo anno di assedio della potente città etrusca viene eletto dittatore Marco Furio Camillo. Tra le varie iniziative volute dal celebre generale romano, per dare una svolta decisiva ad una situazione che sarebbe potuta diventare logorante, vi è l’ordine di costruire una galleria in direzione della rocca. A tutta prima, lo scavo di un cuniculus sembrerebbe un particolare solo “tecnico”, un dettaglio financo banale: esso cela invece una sorprendente e ricca stratificazione di tradizioni, momenti narrativi e dati storici. Anzitutto esso è collegato all’espiazione del prodigio relativo all’inconsueta crescita del livello delle acque del Lago Albano, espiazione necessaria, per concorde affermazione dell’oracolo di Delfi e dell’aruspicina etrusca, alla conquista dell’odiata città etrusca. Altro elemento della «costruzione mitica» dell’evento è il parallelo effettuato dagli storici con la guerra di Troia: dopo dieci anni70 Camillo, «novello Ulisse», grazie a uno stratagemma (il cuniculus come il cavallo) e assecondando il volere degli dèi, si impadronisce della statua di culto della divinità protettrice del luogo (Giunone Regina come il Palladio) riuscendo infine ad aver ragione dell’odiata città nemica; ulteriori e analoghi motivi sono costituiti dalla cattura dell’indovino (l’aruspice) e dai vari conflitti interni, sia tra «capi» che tra «ordini», prima del ricompattamento e dell’attacco finale.71 Ma la ricchezza di spunti adombrati dal riferimento al cuniculus non si ferma di certo qui: il Dumézil ha in proposito citato due tradizioni di matrice indo-europea, la persiana e l’irlandese, aventi la medesima struttura narrativa;72 un episodio simile esisterebbe anche per Roma, e si riferirebbe alla punizione del malvagio re di Alba Aremulus, Allodius o Amulius.73 Ulteriore riferimento ben individuabile è quello relativo alle opere idrauliche e alla maestria degli Etruschi in questo campo.74 Già Ettore Pais aveva proposto di 69 Liv. V 19, 10–11; V 21. Per la trattazione completa cfr. FERRI 2010a, cap. IV. Sulla guerra contro Veio, cfr. infra, cap. 4. 70 Inizialmente si pensa ad un anno solo (V 4, 11–12) ma si richiama ugualmente la guerra di Troia come esempio di assedio prolungato lontano dalla patria. Diod. XIV 82, 1 attribuisce alla guerra una durata di 11 anni. 71 Cfr. DUMÉZIL 1982, 196 sgg.: Agamennone-Achille, Agamennone-Tersite, Ulisse-Tersite, Camillo-Appio Claudio, patrizi-plebei. 72 DUMÉZIL 1973, 21–89. Entrambe vedono l’opposizione vittoriosa degli dèi delle acque, rispettivamente Apam Napat e Nechtan, per il tramite della forza esplosiva dell’elemento loro proprio, ad un antagonista, Franrasyan e Boand. Che l’episodio romano possa trarre le proprie origini anche dal patrimonio mitico indoeuropeo risulterebbe anche da un’analisi linguistica: Nechtan e Nettuno derivano dalla stessa radice *Nept-. 73 Cfr. HUBAUX 1958, 140–142; cfr. DUMÉZIL 1973, 67–68; PASQUALINI 1996, 241; D’ARCO 1997, 144–145. Il diverso esito finale, per cui i Romani riescono a venire a capo del pericolo rappresentato dall’acqua, ha portato tuttavia il Briquel a proporre un parallelo più diretto, il racconto di Erodoto a proposito della presa di Babilonia da parte di Ciro: Her. I 189–190; BRIQUEL 1993, 173. 74 Cfr. BERGAMINI 1991; RAVELLI – HOWARTH 1988.

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interpretare l’episodio del cunicolo di Veio ipotizzando che l’aruspice avesse indicato agli assedianti una condotta praticabile.75 Non si può infatti escludere che il racconto originario prevedesse che i Romani si fossero serviti di un cunicolo già esistente per risalire alla cittadella di Veio.76 Questa breve digressione ha inteso mostrare quanto all’elaborazione della tradizione siano funzionali allo stesso tempo sia gli elementi «mitici», sia i c. d. realia, e di come sia invero non solo metodologicamente non corretto, ma anche azzardato, voler escludere gli uni a favore degli altri e viceversa: ognuno di essi è valido nella misura in cui rivela gli intenti e i motivi che stanno alla base del loro impiego, più o meno consapevole, da parte di un determinato autore. La vulgata deforma e arricchisce gli eventi, ma lo fa anche a partire da elementi reali, che partecipano alla «costruzione» del racconto annalistico.77 La prospettiva storicoreligiosa condivisa tra gli altri dal B. indaga tutti questi elementi ritenendoli ugualmente importanti ai fini dell’elaborazione mitica e/o storica – in misura variabile a seconda dei casi –, e considerandoli per questo tutti «storia». Più nello specifico nel caso in questione si vuol intendere, sia che il tunnel sia stato scavato davvero da Camillo a Veio in quel preciso momento o da qualcun altro altrove e in un’altra epoca (e poi magari solo utilizzato dai milites), sia che costituisca invece un espediente o un topos letterario,78 che in realtà esso è allo stesso tempo sia l’una che l’altra cosa, perché ogni “mattone” ha contribuito a costruire la leggenda e ogni variante di essa è significante79. A posteriori è per noi allo stesso modo interessante e utile indagare i motivi alla base dell’elaborazione del singolo autore, sia esso Livio o Dionigi: nel primo caso, ad esempio, lo storico romano si sofferma sulla costruzione del cunicolo perché forse maggiormente a conoscenza di questa tecnica e del suo impiego, anche a scopo non bellico, magari anche per osservazione diretta, mentre nel secondo lo storico greco è portato ad effettuare il paragone con la piena del Nilo alla luce della sua sensibilità e delle sue conoscenze.80 Una fusione tra elementi letterari e reali poteva avvenire anche interamente nella storia: illuminante in questo senso l’episodio relativo a Catone, legato di Acilio Glabrione in Macedonia, che riesce ad aver ragione dell’esercito di Antioco

75 PAIS 1928, 328 sgg. 76 Lo Scullard nota in proposito che la galleria tra Fosso di Formello e Fosso Piordo corre sotto il punto in cui è più probabile che si trovasse il campo romano (a NO), il solo relativamente piano dal quale la città poteva essere avvicinata, e che in questo punto le mura, erette verosimilmente in previsione di un attacco romano, erano costruite su alcuni cunicoli riempiti di terra e pietre: SCULLARD 19772, 281. 77 Cfr. MONTANARI 1990a, 36 sgg. 78 DE SANCTIS 19602, 136. 79 Cfr. BRELICH 1979a, 32: «non basta dimostrare di un episodio narrato dagli storici che esso non può essere avvenuto in quel modo; «sfatare le leggende» (…) è solo un primo passo per porre poi il problema della loro origine e del loro significato». 80 Per tutti i riferimenti si rimanda di nuovo a FERRI 2010a, cap. IV; per le differenti impostazioni di Dionigi e Livio, cfr. MONTANARI 1976, 21 sgg.

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grazie al ricordo dalle letture di scuola del sentiero tenuto dai trecento di Leonida.81 La storiografia a Roma svolge anche una funzione che altrove è riservata al mito: «il racconto annalistico dell’incendio gallico», ad esempio, «quand’anche si dimostrasse infondato sul piano evenemenziale, non perderebbe il suo carattere fondante, che è tipico di ogni vero mito: esso orienta, giustifica, costruisce la storia ulteriore»82. L’idea romana della storia, se confrontata con altre tradizioni, come quella etrusca, «dimostra quanto poco separabili siano, in sede di costruzione di una vulgata, i processi «storificanti» da quelli «mitizzanti» e soprattutto quanto ambedue siamo legati ad un «campo ideologico» di fondo che li impronta e per ciò stesso li distingue rispetto a dinamiche storiche di altre culture»83; la mitizzazione romana è operata nella storia.84 Si è parlato in proposito per Roma sia di «storificazione dei miti» che di «epopea»85: il passaggio dall’epopea alla storia può essere osservato prestando attenzione a quelli che Sabbatucci definisce «cicli narrativi»86. In Livio ad esempio, i «cicli» riguardanti l’istituzione della censura e l’introduzione di concordia ad opera di Camillo, collocati inoltre in un periodo storico che alla transizione dalla storia all’epopea si presta assai bene – dalla prima repubblica all’incendio gallico –, sarebbero scanditi secondo schemi che proprio da questo momento definiranno la trama narrativa delle gesta d’età repubblicana. Tra questi vi è lo schema fondamentale e originale della repubblica, il dissidio plebe-patriziato, insieme a numerosi altri:87 «ogni elemento tende a perdere un valore oggettivo per divenire segno connotativo dell’unica realtà esistente: il processo evolutivo che attraverso la dialettica plebe-patriziato porta all’incremento di magistrature, di assemblee, di diritti, di divinità, della libertas, in una parola della res publica»88. L’epopea e la storia sono dunque commensurabili: «La seconda, come la prima, conserva le caratteristiche di un «discorso interno», che rimuove ogni alte-

81 Liv. XXXVI, 16. 82 MONTANARI 1990a, 40; cfr. MARTINI 2004, 26–27: «Anche se certe narrazioni rimangono non dimostrate dal punto di vista dei realia e pur se dovessero restare tali nel futuro, ne va sottolineato il carattere «fondante» pari a quello del mito e, di conseguenza, la loro «validità» storica: la registrazione di un avvenimento da parte del Pontefice così come il racconto di un annalista, nel momento in cui entrano a far parte della tradizione storica e si inseriscono nel patrimonio culturale, diventano «fondanti» ed acquisiscono valore di «fatto». Relativamente all’«archeologia delle rappresentazioni e dei comportamenti», cfr. AMPOLO 1983, 12; sui «modelli di comportamento» e le modalità di autorappresentazione da parte della nobilitas repubblicana, cfr. MONTANARI 2009. 83 MONTANARI 1990a, 33. 84 Ibid., 34. 85 SABBATUCCI 1975, 18 sgg.; in diversa prospettiva cfr. DUMÉZIL 1973. 86 Ibid., 31–60. 87 Ad es.: impersonificazioni sostitutive delle parti in conflitto (i nemici di turno – Fidenati, Veienti, Volsci, etc. – che subentrano nel ruolo dei patrizi o dei plebei), localizzazioni extraromane del conflitto (ad. es. Ardea) o della sua potenziale composizione (a Veio), etc. Cfr. MONTANARI 1986, 39. 88 MONTANARI 1986, 39–40.

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rità, ogni lontananza, ogni sfondo mitico»89; nella narrazione relativa al V e all’inizio del IV secolo «pratica fabulatoria e pratica storiografica appaiono interconnesse. In tal senso, ad es., Veio può interpretarsi, secondo la «storia», come un segno connotativo di un’anti-Roma, in cui l’elezione di un monarca sembra risolvere il conflitto fra consoli e ordines, proponendo uno pseudo-modello di «concordia»; o, secondo l’epopea, come una nuova Troia la cui espugnazione farà vendetta dell’antico assedio. Allo stesso modo, Camillo può significare, secondo la storia, lo strumento promotore della concordia fra patrizi e plebei e, secondo l’epopea, il prodigioso favorito della Mater Matuta, il fatalis dux che muore invitto dopo aver esercitato l’imperium quasi come un re. Interpretazione o, se vogliamo, dimensione fabulatoria e dimensione storica possono anche essere reciprocamente funzionali: se, ad es., la storificazione spiega come una concatenazione religiosa di concetti porti a Camillo, in quanto risolutore delle discordie, la fabulazione spiega perché proprio Camillo debba essere il promotore di concordia (e non, come sarebbe più ragionevole ma certo meno epico, un accordo fra le parti)»90. Naturalmente, «fabulazione e storificazione non devono essere intese come dimensioni irriducibili: non si tratta di cogliere lo storico nel leggendario (secondo i canoni della Quellenforschung positivista), ma di considerare, se mai, leggendaria tutta la produzione annalistica, non nel senso della sua irrealtà, ma in quello – caratteristico di un mito – della sua realtà di «racconto fondante», legittimato dalla natura religiosa della fonte narrativa: il collegio pontificale»91. Ultimo elemento caratterizzante da tener presente in riferimento alla Storia delle religioni è la sua prospettiva “globale”. Ciò è un portato inevitabile della sua dimensione comparativa: se è vero che «ciò che crea le differenze tra le singole civiltà, è la loro storia»92, allora la comparazione, insegnandoci «a pensare in millenni e in decine di millenni e a non fermarci davanti alle barriere delle piccole storie locali o a quelle geografiche solo apparentemente invalicabili»93, svela che la storia è una: «nulla come la comparazione perseguìta su scala universale ci restituisce la visione dell’unità della storia»94. 89 Ibid., 40. 90 Ibid., 40–41. Cfr. CAVALLARO 1984, 637: «In conclusione: egli è il protagonista di un racconto ricco di falsificazioni, ma non privo, in certi casi, di ‘appigli’ concreti. Il grande L. de Beaufort, che nel 1738 fondò su basi solidissime la critica della leggenda di C., lo indicava, però, come un grand homme (…); e allo stesso, p. es., in una moderna trattazione critica, meritatamente celebre, C. viene presentato come «il più grand’uomo della sua gente e del suo tempo» (MÜNZER 1910b, 324). In un certo senso, la critica della leggenda, e il riconoscimento delle falsificazioni storiche che si sovrapposero a strati, giovano a intendere meglio la forma mentale degli storici romani, che vollero o accolsero quelle falsificazioni, pur mettendo in rilievo monumenti autentici come il titulus nominis Camilli». 91 MONTANARI 1986, 41. Sul ruolo cruciale dei pontefici romani nell’elaborazione dell’annalistica e di un orientamento culturale «attualistico» e «demitizzante», cfr. SABBATUCCI 1975; MARTINI 2004. 92 BRELICH 1966, 7. 93 BRELICH 1979f, 195. 94 Ibid.; cfr. BRELICH 1979h, 250–251; cfr. BRELICH 1966, 151–154.

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Enrico Montanari – Giorgio Ferri

La comparazione, abbattendo i confini settoriali di qualsivoglia sorta, ha fatto sì che la Storia delle religioni fosse uno dei prodotti di una storia universale, il cui oggetto è indifferentemente la religione delle civiltà c. d. superiori o di quelle tradizionali, sia le manifestazioni popolari che quelle colte; essa si svincolò dai confini di fronte ai quali invece altri ambiti disciplinari si arrestavano, come l’etnologia (di fronte alle civiltà letterate) o il folklore (di fronte ai prodotti degli strati egemonici della società)95. Riassumendo, nella sua indagine di fenomeni in sé «irrazionali» la Storia delle religioni rimane ancorata alla storia: così facendo, essa costituisce una disciplina fondamentale per indagare le singole «storie», dunque le varie culture, considerando allo stesso momento il dato freddamente «annalistico» e quello «mitico» o «simbolico», ai fini della ricostruzione del fenomeno religioso (e non solo) quale ci si presenta dinanzi al termine o nel corso del suo svolgimento storico.96 Il metodo storico-religioso è estremamente utile poiché di taglio «interdisciplinare», e perciò aperto ai contributi degli specialisti di settore (archeologi, storici dell’arte, linguisti, filologi, storici del diritto, epigrafisti, etc.); esso si dimostra quindi assai proficuo ed è il più adeguato a rilevare il significato di un «sistema di rappresentazioni» cui si è fatto cenno sopra.97 In conclusione, nel presente lavoro si è cercato di tener presenti tutte queste istanze metodologiche, certo non esclusive della “Scuola di Roma”, ma che pur tuttavia ne caratterizzano in profondità le prospettive. Esso vuole servire anche quale nuova “presentazione” al mondo accademico internazionale di una tradizione di studi assai prestigiosa ma che, specialmente nell’ultimo ventennio, si è troppo chiusa in se stessa e limitata all’interno dei confini del «bel paese là dove ‘l sì suona»; sperando che ciò sia di auspicio e sprone ad un rinnovato dialogo e ad un proficuo interscambio scientifico con le altre tradizioni, europee ed internazionali. Enrico Montanari – Giorgio Ferri Roma, giugno 2010

95 BRELICH 1979f, 194; cfr. LANTERNARI 1997, 74. 96 Cfr. MONTANARI 1990a, 2 sgg. 97 MONTANARI 2009, 17–18.

1. INTRODUZIONE 1.1. CONSIDERAZIONI SULLA GUERRA NEL MONDO ANTICO Pochi fenomeni della storia umana possono essere definiti veramente «universali». Tra di essi vi è certamente la guerra, insieme «legge di natura e invenzione umana, pulsione spontanea e costruzione giuridica»1. Sia essa «internazionale» o «interna», «regolare» o «irregolare», «di conquista» o «di difesa», etc.2, il minimo comun denominatore risiede nel conflitto tra (almeno) due parti avverse. Ciò comporta necessariamente l’elaborazione di tattiche e strategie e il ricorso a tutte le possibili risorse a propria disposizione, materiali e, potremmo dire, «immateriali». Possiamo annoverare tra queste ultime – vi torneremo fra poco – certamente l’apporto fornito dalla componente religiosa, vale a dire il supporto di una o più divinità e la celebrazione di taluni atti rituali specifici. Le riflessioni appena svolte sono assai appropriate per quanto riguarda le società antiche.3 La guerra costituiva un fenomeno onnipresente nell’Antichità: ad esempio Atene, nel secolo e mezzo tra i conflitti con i Persiani (490 e 480–479 a. C.) e la battaglia di Cheronea (338), combatté in media per più di due anni su tre, senza mai godere di dieci anni consecutivi di pace; quanto a Roma, è ben nota l’asserzione di Livio secondo cui il tempio di Giano tra il VII e il I sec. a. C. fu chiuso solo due volte.4 La pervasività del fenomeno bellico è direttamente proporzionale alla sua presenza ma soprattutto alla sua influenza sulla documentazione disponibile. Esso alimentò in primis l’opera degli storici, fornendole spesso e volentieri un principio di unità: un esempio su tutti la Guerra del Peloponneso in Tucidide. Influenza decisiva si ebbe anche nella produzione filosofica, retorica, poetica e, non da ultima, su un altro fenomeno «universale»: la religione.

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GARLAN 1985, 17. Cfr. in generale BONANATE 1998 (con ulteriore bibliografia). Cfr., anche per tutte le altre classificazioni, BONANATE 1998, 5 sgg. Si rimanda inoltre ai tre più importanti e influenti trattati sulla guerra: L’arte della guerra di Sun-Tzu, stratega cinese del V sec. a. C. (il suo nome era propriamente Sun Wu, laddove «tzu» ha il significato di «maestro»: il titolo originale era infatti Sun-tzu Ping-fa, cioè «L’arte della guerra del maestro Sun»); il dialogo Dell’arte della guerra di Niccolò Machiavelli, redatto tra il 1519 e il 1520; il trattato Della guerra (apparso per la prima volta nel 1832) del più grande teorico di essa, il generale prussiano Karl von Clausewitz. Nonostante la distanza nel tempo e nello spazio tra questi autori, pure essi sono giunti a conclusioni spesso assai simili, soprattutto i primi due (salta immediatamente all’occhio l’accostamento tra le parole «arte» e «guerra»): cfr. BONANATE 1998, 47–52. VERNANT 1968; BRISSON 1969; GARLAN 1985; BONANATE 1998, 19–25. Liv. I 19, 2–3.

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1. INTRODUZIONE

Senza voler assolutamente trascurare il filone «scettico»5, che tendeva a privilegiare il dato «umano» e «storico», è pur vero che spesso le guerre dell’antichità erano considerate anche come delle teomachie.6 Si riteneva che gli dèi potessero giocare un ruolo determinante nell’apertura dell’ostilità. Una resa notissima di questa concezione nell’epica è la guerra di Troia, il cui casus belli originò dalla contesa tra Afrodite, Era e Atena per il pomo d’oro: è celeberrimo lo spettacolo degli dèi combattenti sotto le mura di Ilio che la divina genitrice di Enea, Venere, permette al figlio di contemplare.7 Tuttavia, anche quando si principiava a combattere per questioni più propriamente contingenti, allo stesso modo gli uomini si aspettavano spesso che le proprie divinità intervenissero e li aiutassero, ritenendo che esse combattessero al loro fianco. Ciò valeva sia per le guerre più o meno leggendarie, quali l’impresa troiana, il conflitto dei Sette contro Tebe o le ostilità affrontate da Enea in Italia, sia per quelle storiche, come la guerra persiana, la seconda guerra punica o il conflitto tra Ottaviano e Antonio.8 Inoltre, secondo una prassi comune nelle situazioni che sfuggono al controllo umano, il rapporto instaurato con la divinità per il tramite di riti, preghiere, offerte, contribuiva a normalizzare, regolamentare, legittimare e conferire alla guerra un ulteriore spazio di manovra umano, oltre a quello squisitamente bellico.9 La vittoria costituiva la dimostrazione più evidente che gli dèi erano dalla propria parte, che erano più potenti, ma anche che si era stati maggiormente attenti e scrupolosi nel rispettare i termini prefissati nel rapporto col divino e che si erano onorati gli dèi con più devozione.10 Quest’ultima considerazione si attaglia particolarmente al caso di Roma.11 Come le sconfitte erano imputate ad empietà che avevano suscitato la collera degli dèi e turbato la preziosa pax deorum, 12 così le vittorie andavano attribuite alla pietas romana, ineguagliata dagli altri popoli: pietate ac religione omnes gentes

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Un esempio su tutti è Polibio, il quale fondamentalmente esclude dalla narrazione l’intervento o le cause riferibili agli dèi, in base a quella che è stata definita «the political view of religion» e ad una visione fondamentalmente evemeristica delle figure divine (cfr. WALBANK 1972, 59–60). Una possibile eccezione è il ruolo di Tyche/Fortuna, soprattutto nell’ascesa di Roma: WALBANK 1972, 60–65; cfr. GRIMAL 1981, 240–241; CANFORA 2001, 624–627. 6 Sul rapporto tra guerra e religione, cfr. CRÉPON 1992; RÜPKE 1993; RÜPKE 2007b, 89–97; ANDO 2008, 120–124. 7 Aen. II 604 sgg. 8 Cfr. SCHWENN 1920–1921, 204 sgg.; BRELICH 20103, 42 sgg. anche per il caso di un conflitto divino «indiretto», cioè tra due sistemi religiosi diversi, simboleggiati da Fortuna Primigenia (Preneste) e Giove (Roma). 9 Cfr. in generale BRELICH 1966, parte II; BRELICH 2007, cap. II. 10 Cfr. RÜPKE 2007b, 92 sgg., specialmente sul concetto di «costruzione religiosa» della guerra. 11 Cfr. in part. LE BONNIEC 1969; RÜPKE 1990. 12 Cfr. SORDI 1985.

1.2. ROMA E L’INTRODUZIONE DI NUOVI CULTI

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superavimus.13 Per i Romani, così come per i Greci, la guerra rientrava nel ristretto novero dei casi in cui le divinità potevano nuocere agli uomini.14 La divinità guerriera per eccellenza della religione romana era ovviamente Marte, le cui feste anticamente inauguravano la stagione guerriera tradizionale nel mese di marzo, che dal dio traeva il nome, e vi ponevano fine nel mese di ottobre. Pure in questo campo, come in molti altri, era però Giove a rivestire il ruolo più importante: egli trasmetteva il proprio volere ai magistrati, che senza questi segni (gli auspicia) non avrebbero potuto intraprendere alcun atto amministrativo o bellico; il collegio dei fetiales agiva in suo nome, provvedendo acché la guerra fosse giusta (bellum iustum) e delimitando religiosamente la parentesi in cui il conflitto si sarebbe svolto; era garante in quanto Victor della pax sovrana e vittoriosa; in suo nome lo stato vinceva le guerre, il cui atto finale si concretava spesso nel trionfo, nel quale il generale, al termine del corteo, ascendeva al Campidoglio e deponeva l’alloro ai piedi della statua del dio nel suo tempio, il più venerando di Roma.15 1.2. ROMA E L’INTRODUZIONE DI NUOVI CULTI Rispetto ad altri sistemi politeistici, il romano era particolarmente «aperto» ed «inclusivo». Ciò era probabilmente anche un riflesso dell’apertura della compagine Roma dal punto di vista etnico e sociale.16 Funzionale in questo senso la mancanza di strutturazione del suo pantheon, dominato sì dalla figura di Giove, ma che il peculiare processo di demitizzazione, operante già in età arcaica, aveva privato dei rapporti genealogici tra gli dèi, dunque della possibilità che si formassero insiemi di divinità più o meno coerenti tra loro, come accadde invece, tra le altre, alla religione greca e a quella babilonese.17 Tra le conseguenze di questa impostazione vi era non solo l’accettazione e la dignità dell’«altro» sul piano divino, bensì, di più, una continua tendenza all’omologazione e all’assunzione delle divinità straniere: già Romolo si preoccupò di introdurre a Roma il culto di Ercole.18 È questo probabilmente il motivo più plausibile e allo stesso tempo più semplice per cui il grande Mommsen giungeva a definire il concetto stesso di culto straniero come «variabile» («schwankend») e il Bernard a rimarcare, nel caso dei 13 Cic. De har. res. IX 19; cfr. De nat. deor. II 3, 8: Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione id est cultu deorum multo superiores. 14 DUMÉZIL 1985, 137–138. Gli altri casi vengono individuati nelle offese arrecate agli dèi e nell’imperscrutabile volere del Destino. 15 Su Giove cfr. tra gli altri KOCH 1986; MONTANARI 1993e; sulle altre divinità romane coinvolte nelle guerre, cfr. LE BONNIEC 1969. 16 AMPOLO 1988, 172–177; GIARDINA 1997a. 17 Sulla demitizzazione in riferimento a Giove, cfr. KOCH 1986; MONTANARI 1986; in generale sul politeismo, cfr. BRELICH 2007. 18 Liv. I 7, 15.

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1. INTRODUZIONE

Baccanali, l’assenza a quel tempo di leggi «positive» contro l’introduzione di culti non romani.19 D’altronde «une législation interdisant sans aucune exception des cultes exotiques eût (…) contrevenu au 20 principe même du polythéisme» .

Ulteriore conseguenza di questa forma mentis era che nessun dio, per quanto «straniero», era accostato senza il dovuto rispetto, rischiando dunque che si adirasse, né se ne negava l’esistenza, come non avverrà neanche per i due sistemi religiosi che maggiormente metteranno in crisi il romano, vale a dire il dionisiaco e il cristiano: ci si opponeva alle conseguenze sociali e politiche della loro organizzazione, ma non si contestava in alcun modo la realtà e la potenza delle loro divinità.21 Come si avrà modo di illustrare più in dettaglio, l’introduzione di un nuovo culto poteva avere luogo sia in tempo di pace, a seguito di particolari esigenze di ordine religioso o politico, sia in momenti di «crisi» più o meno puntuali – il verificarsi di uno o più prodigia – o maggiormente prolungati nel tempo, in primis le guerre. In quest’ultima eventualità, i Romani ricorrevano talvolta ad un particolare rito, l’evocatio. Rimandandone l’approfondimento, per ora diremo solo che con esso si provvedeva ad ottenere che la divinità tutelare particolare della città abbandonasse la propria sede e i suoi protetti, acconsentendo a trasferirsi a Roma. La centralità di questo rito deriva principalmente da due fattori, legati uno allo status religioso della città secondo le concezioni romane, l’altro alle strutture politiche di Roma e in generale delle compagini dell’Italia centrale antica. Se infatti il concetto di «città-stato» è di per sé criticabile e frutto di speculazioni moderne,22 è però indubitabile che la città fosse il centro e il fulcro della vita politica delle realtà statali italiche (e non solo)23; la situazione non muterà di molto neanche in età imperiale, tranne l’ovvia constatazione della preminenza assoluta della capitale sulle altre, ad essa sottomesse. Volendo cercare una definizione della città antica, si può asserire che essa è «una comunità organizzata in modo da garantire la partecipazione dei suoi membri (polìtai nel mondo greco; cives in quello romano) alla vita sociale in tutte le sue manifestazioni 24 (politiche, militari, religiose)» . 19 20 21 22 23 24

Discussione in TURCAN 1994, 26 sgg. Ibid., 30. Cfr. PETTAZZONI 1966b; SORDI 1985; TURCAN 1994, 28 sgg. Cfr. DE MARTINO 1989, anche per una critica all’impostazione di FUSTEL DE COULANGES. Cfr. PAUL 1982, 146. AMPOLO 1980, XXXI. Émile Benveniste (BENVENISTE 1976, 281) ha ben rilevato la grande distanza tra il termine greco pólis e il latino civitas. Il primo denuncia ancora in epoca storica il senso di «fortezza», «cittadella» (ad es. in Tuc. II 15); si tratta di un antico termine indoeuropeo che ha assunto – solo in greco – il senso di «città» e poi di «Stato». Per quanto concerne il latino, la parola urbs, di origine sconosciuta, per il fatto di designare la «città» non è correlativa del greco pólis, ma di ástu, di cui ricalca le sfumature di senso nei suoi derivati: «per corrispondere al gr. pólis, il latino ha il termine secondario civitas, che indica alla lettera l’insieme dei cives ‘concittadini’. Ne segue che il rapporto che il latino stabilisce tra civis e civitas è l’inverso di quello che ci mostra il greco tra pólis ‘città’ e polítēs ‘cittadini’».

1.2. ROMA E L’INTRODUZIONE DI NUOVI CULTI

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Inoltre, è funzionale alla posizione giuridica dei membri della città la divisione del lavoro, il cui primo elemento è che, almeno il linea di principio, «i cittadini sono i possessori delle terre e viceversa»25. In ogni caso, tale centralità della città sul territorio circostante comportava, sul piano religioso, che i templi e i riti del centro urbano fossero i più importanti dell’intera comunità politica che a quel centro urbano si riferiva, come notava già a suo tempo Fustel de Coulanges nella sua fondamentale opera La cité antique.26 Invece, sul piano politico, ciò significava che in tempo di pace i rapporti diplomatici si intrattenevano tra città e città, laddove in guerra l’unico modo possibile per sottomettere definitivamente un nemico era di conquistarne la capitale: dalla narrazione dell’assedio di Ilio, sino alle devastazioni ben più reali della Tarda Antichità, la presa delle città ricorre con tale frequenza da divenire un topos letterario.27 A partire dalla distruzione di Alba Longa, la storia romana di età regia e repubblicana aveva come oggetto, sul fronte esterno, principalmente ingentia (…) bella, expugnationes urbium, fusos captosque reges, come afferma Tacito, dolendosi invece dell’argomento molto meno epico della sua trattazione: immota quippe aut modice lacessita pax, maestae urbis res, et princeps proferendi imperi incuriosus erat, riferendosi a Tiberio.28 Livio racconta di innumerevoli assedi ed espugnazioni; lo stesso vale per Cesare, e potremmo continuare a lungo. Tenendo a mente le considerazioni precedenti, risulterà chiaro come, per i Romani (e non solo), combattere contro un’altra città non comportasse solo battaglie e assedi, bensì pure la necessità di entrare in contatto con i suoi dèi protettori.29 I Romani infatti, distinguendo attentamente tra abitatori umani e divini del luogo, non potevano prescindere dall’assenso della divinità civica alla conquista: diversamente si sarebbe commessa un’empietà e messa a rischio la pax deorum. A questa divinità in particolare era destinata la celebrazione dell’evocatio, funzionale al trasferimento dell’essere divino a Roma, insieme al suo simulacro e al culto. Il presente lavoro ha lo scopo di delineare, per quanto possibile, la fisionomia, il significato e la concezione della divinità tutelare cittadina nella religione romana. A questo scopo, nella prima parte si approfondiranno le caratteristiche dell’evocatio; ci si soffermerà poi sui casi accertati o probabili in cui la celebrazione del rito ebbe luogo e le divinità coinvolte, in primis Giunone. Nella seconda parte, si avrà modo di indagare come i Romani concepissero il vincolo che legava 25 AMPOLO 1980, XXXI. 26 FUSTEL DE COULANGES 192328. La prima edizione comparve a Parigi nel 1864. Per una valutazione dell’opera, cfr. AMPOLO 1980, XIII sgg. In generale sulla città antica, cfr. AMPOLO 1980; PUGLIESE CARRATELLI 1993; PUGLIESE CARRATELLI 1994. Relativamente allo status politico e religioso delle poleis greche, cfr. BRACKERTZ 1976; SOURVINOU-INWOOD 1988; ATHERTON 1989; SOURVINOU-INWOOD 1990; BURKERT 1995a; COLE 1995. 27 Cfr. PAUL 1982. 28 Tac. Ann. IV 32. 29 Cfr. in generale MASTROCINQUE 1981.

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1. INTRODUZIONE

gli dèi con il luogo: figura chiave per comprendere il fenomeno è sicuramente il genius. Si cercherà infine di capire quale fosse la misteriosa divinità tutelare segreta di Roma, di cui riferiscono alcuni autori.30

30 Per un’introduzione a tutti questi argomenti, cfr. MONTANARI 2010a.

PARTE PRIMA Evocatio deorum

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2. L’EVOCATIO ROMANA 2.1. IL RITO 2.1.1. Caratteristiche e scopi Il domenicano Casto Innocente Ansaldi,1 spirito inquieto, erudito sensibile ai fermenti culturali razionalisti e illuministi, scrittore fecondo di opere teologiche, antichità ebraiche ed esegesi biblica, può a buon diritto considerarsi un precursore dell’interesse per la storia delle religioni antiche, cui si rivolse con atteggiamento curioso e alieno da pregiudizi. In questo campo egli redasse, nel 1743, il primo studio moderno riguardante l’evocatio, dal titolo De diis multarum gentium Romam evocatis sive de obtinente olim apud Romanos deorum praesidum in oppugnationibus urbium evocatione.2 Proprio da esso ci sembra opportuno cominciare, con la definizione che del rito romano diede l’autore, assai efficace per precisione e sintesi: Veterem apud Quirites obtinuisse morem, ut Urbium in oppugnationibus, ultimam ubi ad dimicationem ventum esset, Tutelares Deos, quorum sub praesidio Urbs foret, certo carmine conceptisque verbis, novas iide, evocarent in sedes, ampliora templa solemnioresque polliciti illis aras, quod Preaesidibus inde non excedentibus Diis Urbe capi posse non crederent, nefasque opinarentur ejusmodi Urbium Deos, ceteris hostili licentia direptis, veluti mancipia captivos habere, docent universi qui de antiquitatibus loquuntur Romanis, tametsi brevissima usi oratione in re ceteroquin dignissima commentario; mirum enim quot quantaque ejus e cognitione profluant consectaria Romanam undique rem, Imperii jura scilicet atque arcana, Religionem Romanorum veterem, ritus ac caeremonias, pluriumque loca Scriptorum mirifice 3 illustrantia.

Con l’evocatio deorum,4 «uno dei capolavori della casistica pontificale»5, i Romani letteralmente «chiamavano fuori» la divinità protettrice della città nemica assediata, pregandola di abbandonare la sua dimora e i suoi protetti e di accettare di trasferirsi a Roma, dove le sarebbero stati consacrati un culto e un tempio,6 il quale avrebbe accolto la statua di culto.7 Che il rito, fosse destinato specificatamente alla divinità tutelare cittadina lo apprendiamo dalle fonti, oltre che dalla

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Cfr. ROSA 1961. Esso ebbe una discreta fortuna, tanto da essere riedito altre tre volte (nel 1753, 1761, e 1765). ANSALDI 1743, 1. Esiste infatti anche un’evocatio relativa all’esercito: cfr. RÜPKE 1990, 70–75. BOUCHÉ-LECLERCQ 1907, 573. Cfr. in generale BASANOFF 1947; PFISTER 1966; ALVAR 1984; BERTI 1990; BLOMART 1997; GUSTAFSSON 2000; FERRI 2006; GUITTARD 2007b. Liv. V 21, 3; Dion. Hal. XIII 3, 3; Paul. Fest. 268 L; Plin. N. h. XXVIII 18; Macr. Sat. III 9, 8. MÜLLER 1931, 509.

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2. L’EVOCATIO ROMANA

considerazione che il carmen evocationis, tramandatoci da Macrobio,8 ad essa si rivolgeva e, infine, che il votum di un tempio sembra essere ad essa riservato, come apparirà evidente dai casi rispettivamente della Giunone Celeste di Cartagine e della Giunone Regina di Veio.9 La celebrazione del rito aveva luogo poco prima che l’esercito sferrasse l’ultimo assalto alle mura, quando ormai la vittoria appariva certa.10 La distinzione protettori-protetti, per cui la guerra non era mai «totale», bensì distingueva attentamente tra inquilini divini e umani del luogo da conquistare,11 riflette il tipico atteggiamento religioso romano che «da una parte qualifica particolarmente questa religione, il cui carattere “tollerante” viene troppo facilmente collegato alla sua natura “nazionale”; e dall’altra costituisce l’espressione culminante di quella che può ben dirsi “l’ispirazione religiosa dell’imperialismo romano”, 12 inteso però nella sua essenza di perenne superamento delle frontiere etniche» .

Quanto al termine evocatio, il sostantivo nella tradizione è presente in verità solo in Macrobio,13 mentre nelle altre fonti troviamo esclusivamente la forma verbale evocare. Proprio una così scarsa attestazione del termine ha portato A. Blomart a sostenere che sarebbe preferibile parlare di «divinità evocate», piuttosto che di una «pratica dell’evocatio»14. Lo scopo principale alla base della celebrazione del rito era di ottenere il sostegno della divinità poliade alla causa di Roma e, insieme con esso, il permesso di conquistare la città protetta, scansando il pericolo di commettere un sacrilegio col mantenere l’ostilità del dio del luogo,15 senza il cui appoggio – o la cui neutralità16 – la conquista sarebbe stata praticamente impossibile.17 Inoltre, agendo diversamente si sarebbe corso il rischio di turbare la tanto preziosa pax deorum, che i Romani si peritavano con cura e scrupolosità di conservare, anche in tempo di guerra. Quest’ultima, infatti, doveva essere necessariamente un bellum iustum per essere combattuta senza conseguenze sul piano divino e a ciò contribuivano in prima istanza i sacerdoti, come i fetiales.18

8 Analisi dettagliata infra, par. 5.2. 9 Infra, capp. 4 e 5. 10 Macr. Sat. III 9, 2; Liv. V 21, 1; cfr. DUMÉZIL 1985, 139; infra, par. 4.1.4. Plin. N. h.XXVIII 18 afferma invece che il rito aveva luogo ante omnia. 11 Cfr. BASANOFF 1947, 141 sgg. 12 CATALANO 1965, 26–27. L’esempio più indicativo circa il carattere sovrannazionale della dinamica imperiale romana si ha nel discorso del 48 d. C. dell’imperatore Claudio, conservato in parte nella Tavola di Lione, per cui cfr. GIARDINA 1997a. 13 Sat. III 9, 5: ...idem ipsi quoque hostili evocatione paterentur… 14 BLOMART 1997, 100, n. 14; anche RÜPKE 1990, 162 preferisce intitolare il paragrafo dedicato all’evocatio “deos evocare”. 15 Macr. Sat. III 9, 2; Serv. Ad Aen. II 351. 16 RÜPKE 1990, 164: «Untätigkeit». 17 Macr. Sat. III 9, 2; cfr. RÜPKE 1990, 162; GLADIGOW 1992, 16. 18 LE BONNIEC 1969, 103; RÜPKE 1990, 129, 147–151; NORTH 1990, 571.

2.1. IL RITO

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Con l’abbandono della sua protezione divina, insieme ai sacra ad essa connessi, la città era di fatto «desacralizzata»19. È probabile che sia questo il presupposto di alcune testimonianze che, in apparenza, potrebbero far pensare invece ad una scarsa considerazione dei Romani per le entità divine locali.20 La principale è quella per cui con la conquista tutti i loca sacra et religiosa cessavano di essere tali:21 secondo la concezione romana, tuttavia, ciò è avvenuto proprio perché è venuta a mancare la protezione divina, e con essa il rischio di infrangere la pax deorum. Occasionalmente, dunque, i Romani potevano esibire disprezzo durante la conquista delle città, non solo delle vite umane, ma anche degli oggetti e degli edifici sacri.22 Ciò tuttavia solo se si riteneva che il dio non vi avesse più nulla a che fare: si veda come, ancora nel IV secolo d. C., Libanio lamenti in che modo la distruzione dei templi ancora “abitati” costituisse un enorme sacrilegio e privasse le campagne della propria «anima»23. Ma vi erano anche altre ragioni alla base della pratica del rito. Così come il salvataggio dei sacra equivaleva al salvataggio della città stessa, analogamente a quanto era accaduto per Roma medesima, «nuova Troia» (ri)sorta dai Penati salvati da Enea, o prima della battaglia di Salamina con la messa al sicuro della statua lignea di Atena, o, ancora, in occasione del sacco dei Galli con il trasferimento dei sacra e delle Vestali a Caere ad opera di Lucio Albinio, col privare la città conquistata del suo nucleo sacrale, quello da cui essa si sarebbe potuta continuamente rinnovare, si otteneva allo stesso tempo sia la vera e propria conquista della città sia di aumentare il «potere» divino dalla parte dei Romani.24 Di più, è presumibile che l’evocatio avesse un grande effetto psicologico sull’esercito, motivandolo, dissipando qualsivoglia dubbio di poter incorrere nella collera divina, e lasciando dunque l’onere della conquista alle sole armi.25 Queste ultime, comunque, a loro volta avevano già avuto modo di dare una chiara dimostrazione di potenza al dio, spesso spinto a favorire il più forte in battaglia, secondo una concezione diffusa nei popoli a spiccata vocazione bellica.26 Infine, com’è naturale, un grande peso esercitavano le motivazioni di natura più squisitamente politica, soprattutto per le conseguenze che la celebrazione del rito poteva comportare in termini di propaganda: allo straniero giunto nell’Urbe l’impressionante spettacolo della moltitudine di templi, sacelli e altari forniva un

19 Verg. Aen. II 351–352; Serv. Ad Aen. II 351; Macr. Sat. III 9, 1 sgg.; HUBAUX 1958, 194; LE GALL 1976, 522. 20 Cfr. RÜPKE 1990, 162; DUMÉZIL 20012, 371–374; escluderei tuttavia tra queste motivazioni il caso di Minerva Capta, per cui cfr. infra, cap. 7. 21 Cfr. ad es. Dig. XI 7, 36. 22 Tac. Ann. I 51: Non sexus, non aetas miserationem attulit: profana simul et sacra et celeberrimum illis gentibus templum quod Tanfanae vocabant solo aequantur. 23 Lib. Or. 30 9; 42 sgg. 24 ROHDE 1963, 195; PFISTER 1966, 1162; FUNKE 1981, 729 sgg.; cfr. SORDI 1960, 49–52. 25 ANSALDI 1743, 86; ALVAR 1984, 145. 26 ROHDE 1963, 195.

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2. L’EVOCATIO ROMANA

segno tangibile di quanto non solo la forza delle armi, bensì le stesse divinità sostenessero la causa romana.27 La consuetudine politico-religiosa romana di accogliere entità divine di paesi conquistati produceva un’amplificazione del proprio politeismo con effetto di unificazione politico-religiosa,28 ma poteva indurre anche a considerazioni più scherzose, come quella della Quartilla petroniana: Utique nostra regio tam praesentibus plena est numinibus, ut facilius possis deum quam hominem invenire!29 Oltre alle statue, poi, i templi custodivano pure numerose reliquie.30 Ancora più profonda doveva farsi quella convinzione col riscontrare quante divinità straniere avessero “scelto” di dare il proprio appoggio soprannaturale ai Romani, alcune di queste a seguito di un’evocazione. La conseguenza era di certo il pensiero che la grandezza di Roma, più che per i meriti militari, fosse voluta dagli dèi medesimi. Cicerone ne era fermamente convinto: persuasi, Romulum auspiciis Numam sacris constitutis fundamenta iecisse nostrae civitatis, 31 quae numquam profecto sine summa placatione deorum immortalium tanta esse potuisse.

I Romani, pur rimanendo sempre fedeli alle proprie divinità,32 allo stesso modo adoravano quelle di altre popoli, ricercandone sempre di nuove: dum undique hospites deos quaerunt et suos faciunt.33 È anche accogliendo tutti i culti che essi pensavano di aver meritato la sovranità sul mondo.34 A ben vedere, si potrebbe dire addirittura che la quasi totalità dei culti romani, con la sola possibile eccezione dei Penati portati da Troia, fu in realtà presa da altri popoli.35 La considerazione di questa pietas «universale» sarà anche funzionale alla costruzione del concetto di Impero «ecumenico», che conferiva diritto di cittadinanza a dèi e uomini nella grande patria dell’orbis Romanus.36 Gli autori cristiani ovviamente rovesceranno questa prospettiva in chiave polemica: Tertulliano negava che gli dèi importati da altre città – emblematicamente definiti numina victa da Minucio Felice37 – potessero essere messi in relazione con la grandezza di Roma, visto che non erano stati capaci di difendere il proprio popolo. Egli asseriva inoltre che l’Impero era il risultato non della religiosità, bensì del suo opposto, la mancanza di scrupoli.38 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38

Cfr. VAN DOREN 1954, 497; ROHDE 1963, 191–192, 196; STAMBAUGH 1978, 583–585. LANTERNARI 2005, 10–11. Petr. Sat. 17 5. STAMBAUGH 1978, 586–587. Cic. De nat. deor. III 5; cfr. anche Cic. Cat. III 19; Ael. Arist. A Roma 104; FONTANELLA 2007, 153. Cic. Pro Flacco 69: sua cuique civitati religio, Laeli, est, nostra nobis. Min. Fel. Oct. VI 3. Ibid. VI 2–3. ORLIN 1997, 14. In merito al riflesso dell’origine troiana sul piano sociale, cfr. GIARDINA 1997a, 62 sgg. TURCAN 1994, 31; cfr. NORTH 1976, 11. Oct. VI 3. Tert. Ad nat. II 17; Apol. XXV 15. Cfr. inoltre Ambr. Ep. XVIII 30: Si ritus veteres delectabant cur in alienos ritus eadem Roma successit? [...] Quid, ut de ipso respondeam quod queruntur, captarum simulacra urbium, victosque deos, et peregrinos ritus, sacrorum

2.2. PEREGRINA SACRA

37

Un modello «mitico» dell’evocatio è il ratto del Palladio, senza il possesso del quale i Greci non avrebbero potuto conquistare Troia: il racconto dell’impresa compiuta da Ulisse e Diomede si trova nella c. d. Piccola Iliade.39 La valenza del Palladio è accostabile anche alla difesa adottata dai Romani per non subire a loro volta un’evocazione: tenere scrupolosamente nascosto il nome della divinità tutelare segreta di Roma.40 Vi è quindi una valenza «passiva» del rito insieme alla valenza propriamente «attiva» per cui si può parlare anche di volta in volta di «precauzione» o di «arma» a seconda della prospettiva in cui esso veniva celebrato.41 Il rito è stato pure verosimilmente fonte d’ispirazione per diversi autori latini, soprattutto in età augustea, con un insistito e non casuale riferimento a Giunone.42 Nell’evocatio è infatti in primissimo piano una divinità particolare: la divinità tutelare della città, ruolo che, come verrà esaurientemente mostrato oltre, Giunone si trovò a rivestire spesso. Nella dialettica religiosa che si instaura al momento della conquista tale divinità gioca un ruolo estremamente rilevante per il suo peculiare legame con il luogo oggetto delle mire di conquista romane, legame che, di per sé già importante, in questa fase diventa centrale.43 Secondo modalità che avremo modo di approfondire, si riteneva che questa tipologia di dèi dimorasse dall’inizio nel posto in cui era sorta la città e che anzi questa fosse nata grazie anche al suo benestare, oppure che fin da tempo immemorabile un dio avesse assunto la protezione del luogo con tutto quanto esso conteneva.44 Una rappresentazione visiva efficace e diffusa in età ellenistica mostra queste divinità con la corona turrita, simbolo inequivocabile del confine materiale della città che esse contribuivano a difendere, o più semplicemente armate.45 2.2. PEREGRINA SACRA 2.2.1. L’importazione di culti stranieri a Roma L’importazione di culti stranieri, così come l’istituzione di nuovi, era considerata parte del mos maiorum, conformemente alle parole che Livio fa dire a Camillo all’indomani dell’incendio gallico:

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alienae superstitionis aemuli, receperunt?; Aug. De civ. Dei I 2 sgg.; Firm. Mat. De err. XV 3; BARNARD 1990; AMES 2007. Cfr. SCHWENN 1920–1921, 317; DUMÉZIL 1982; BRIQUEL 1993 179–180; BURKERT 2005, 273; cfr. anche BRUUN 1972, 116, sull’evocatio come «mito». Cfr. infra, parte II. BRUUN 1972, 109; RÜPKE 1990, 155 sgg. Conclusioni in merito nel cap. 10. RUPKE 1990, 120, 163; FERRI 2008, 44. Cfr. in generale infra, cap. 11. Per un esempio più “attuale” si pensi alla personificazione dell’Italia, rappresentata secondo questo modello, anche a significare la caratteristica politica principe della Penisola, da sempre terra di città, che le mura della corona servono appunto efficacemente a simboleggiare.

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2. L’EVOCATIO ROMANA

At etiam, tamquam veterum religionum memores, et peregrinos deos transtulimus Romam et 46 instituimus novos.

Tale assunzione si poteva realizzare in vari modi, ripartiti in due contesti fondamentali, bellico e pacifico, secondo la distinzione effettuata da Festo: «Sono chiamati peregrina sacra quelli portati a Roma dopo l’evocazione degli dèi durante gli assedi delle città, o quelli fatti venire a Roma in tempo di pace per determinate ragioni d’ordine religioso, come dalla Frigia quello della Grande Madre, dalla Grecia quello di Cerere, da Epidauro quello di Esculapio: essi vengono praticati nel modo di coloro, dai quali 47 sono stati adottati» .

L’espressione peregrina sacra si riferisce ad una categoria ben definita di dèi stranieri, che Festo distingue in due gruppi a seconda del contesto nel quale è avvenuto il trasferimento dei sacra: bellico, tramite un’evocatio, e pacifico, per determinate ragioni di ordine religioso. Tale motivo di distinzione non sembra però essere sempre sufficiente, e il per pacem sembra essere stato aggiunto solo in opposizione alla situazione in cui, stando alle fonti, veniva praticata normalmente l’evocatio, cioè in guerra. Il caso della Mater Magna, ad esempio, è legato indissolubilmente a vicende belliche: i Libri Sibillini indicarono l’accoglimento della dea frigia a Roma come rimedio alla situazione critica del 205 a. C.48 Secondo il Geiger il motivo di questa distinzione consisterebbe nella minore o maggiore distanza del culto delle divinità assunte a Roma da quello destinato alle divinità statali: la seconda categoria comprenderebbe divinità extra-italiche adorate in modo diverso dal cerimoniale romano-italico.49 Questa distinzione, tuttavia, non appare soddisfacente dato che, ad esempio, l’evocatio era praticata anche nei confronti di divinità non italiche,50 e che i culti assunti passavano comunque attraverso il filtro del collegio dei pontefici, che provvedevano ad adattare il culto straniero al sistema religioso romano.

46 Liv. V 52, 10. Cfr. CATALANO 1965, 23–24: «Nulla, nelle concezioni giuridico-religiose romane, impediva di rivestire di forme solenni atti giuridico-religiosi che riguardassero divinità, persone, luoghi stranieri». Per un glossario delle parole relative ai trasferimenti cultuali, cfr. BLOMART 1997, 103, n. 33. 47 Paul. Fest. 268 L: Peregrina sacra appellantur quae aut evocatis dis in oppugnandis urbibus Romam sunt conlata, aut quae ob quasdam religiones per pacem sunt petita, ut ex Phrygia Matris Magnae, ex Graecia Cereris, Epidauro Aesculapi: quae coluntur eorum more, a quibus sunt accepta. Sulle formule e le pratiche per importare gli dèi a Roma e in Grecia, cfr. FUSTEL DE COULANGES 192328, 176–177. 48 Liv. XXIX 10, 4–5: Civitatem eo tempore repens religio invaserat invento carmine in libris Sibyllinis propter crebrius eo anno de caelo lapidatum inspectis, quandoque hostis alienigena terra Italiae bellum intulisset, eum pelli Italia vincique posse, si Mater Idaea a Pessinunte Romam advecta foret. 49 GEIGER 1920, 1664. 50 Cfr. infra, capp. 5 e 9.

2.2. PEREGRINA SACRA

39

A questo proposito, se la causa principale dell’assunzione di un culto straniero in tempo di guerra era costituita dall’evocatio,51 in tempo di pace lo stesso valeva solitamente per i libri Sibyllini,52 due tra le principali «modalità di regolazione del politeismo romano»53. Non a caso, tutti gli esempi addotti da Festo in proposito (Cibele, Cerere ed Esculapio) si riferiscono alla consultazione dei libri cuostoditi dai viri sacris faciundis. Oltre che dalla situazione contingente, tuttavia, era anche la causa a fare la differenza. Nel caso dell’evocazione possiamo parlare di causa «attiva» ed «esterna»: ci troviamo cioè nella fase della conquista, voluta e perseguita attivamente, contro un nemico esterno; quanto ai libri, la causa diventa «passiva» e «interna», nel senso che si deve far fronte ad una crisi improvvisa, non desiderata, potenzialmente dannosa, che ha avuto luogo entro i confini del territorio romano.54 In entrambi i casi, il nuovo culto era «necessario», ai fini della conquista da una parte, ai fini della risoluzione del momento di crisi dall’altra. Inoltre, comune era l’istituzione che apriva e chiudeva il processo di acquisizione del culto straniero, il Senato: quanto all’evocatio, esso evidentemente conferiva il nulla osta al generale cum imperio per procedere a celebrare il rito, qualora lo avesse ritenuto necessario,55 insieme ad un sacerdote, che poteva essere un pontifex (se le due cariche non erano ricoperte da una sola persona);56 i Libri Sibillini, invece, erano consultati solo dopo che il venerando consesso aveva riconosciuto il prodigium come tale e aveva convocato i viri sacris faciundis.57 Si può dunque forse parlare di «complementarità» tra decemviri e pontefici, come ha fatto Sabbatucci,58 ma con grande cautela, e limitatamente alle differenti cause e ai diversi contesti, in cui tuttavia i due collegi non rivestono la medesima importanza, visto che spetta sempre e solo ai pontefici il compito di normalizzare, adattare e fissare il nuovo culto nel tempo e nello spazio romani. Entrambi presiedono all’accoglimento di culti «forestieri», ma l’applicazione dell’interpretatio Romana è sempre appannaggio dei pontefici:

51 Non è pertanto in alcun modo condivisibile la posizione di BLOMART 1997, che estende di fatto la definizione di evocatio a qualunque spostamento, concreto o solo giuridico, di divinità, nazionali o straniere, in pace e in guerra. 52 Su questi ultimi in generale, cfr. SANTI 2008. 53 MONTANARI 2008, 11. 54 Cfr. FERRI 2010a, cap. IV., par. 3. 55 Camillo prima di partire per Veio pronuncia il votum ex senatus consulto (Liv. V 19, 6); manda una lettera al senato per la questione del bottino prima di procedere all’assalto alla città cum iam in manibus victoriam esset, urbem opulentissimam capi (Liv. V 20, 1): cfr. Macr. Sat. III 9, 2 [scil. Romani] cum obsiderent urbem hostium, eamque iam capi posse confiderent, certo carmine evocarent tutelares deos. Cfr. ORLIN 1997, 63. 56 Come nel caso di Publio Servilio Vatia, per cui cfr. infra, cap. 9 57 Cfr. ORLIN 1997, 61 sgg. 58 SABBATUCCI 1988, 19.

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2. L’EVOCATIO ROMANA [scil. Numa] cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque 59 adsciscendo turbaretur.

Essi si riservavano un certo margine di libertà nella fissazione del nuovo culto: basti pensare al caso di Giunone Regina, in cui il culto, originariamente gentilizio, fu affidato a Roma a dei iuvenes.60 Va ricordato pure quanto accadde all’indomani della conquista di Capua, nel 211 a. C.: i Romani ammassarono un’ingente quantità di statue e la portarono a Roma; fu poi compito dei pontefici determinare quali dei simulacri fossero venerabili oggetti di culto e quali semplici rappresentazioni plastiche.61 Al termine del processo di «romanizzazione» e fissazione delle caratteristiche del culto, vi era la ratifica ufficiale del Senato: 62

ne quis templum aramve iniussu senatus aut tribunorum plebis partis maioris dedicaret.

Le divinità evocate, per quanto riconosciute a Roma come divinità ufficiali, rimanevano separate dalle altre divinità straniere entrate a far parte del pantheon romano per altre ragioni (come quelle economiche)63: solo esse, per quanto riguarda l’Italia, erano classificate come peregrina sacra delle città nemiche conquistate. I culti delle città prese senza un’evocatio potevano rimanere sul luogo,64 o, se portate a Roma, erano talvolta oggetto solo di un culto privato.65 Le divinità evocate invece venivano solitamente portate a Roma,66 dove ricevevano, conformemente al votum solenne presente nel carmen evocationis, un culto pubblico e un tempio, ma al di fuori del pomerium.67 J. Le Gall ritiene che un’alternativa alla costruzione di un tempio a Roma potesse essere il culto nel tempio del dio cui la divinità evocata era stata assimilata.68 Tutto ciò non implica comunque che: 1) il culto della divinità scomparisse dal luogo di provenienza: tale convinzione erronea deriva dalla pratica usuale di rimuovere la statua di culto dalla città conquistata, ma, ancor di più, da una semplicistica equazione evocatio = distruzione della città di cui abbiamo in realtà una sola testimonianza, quella di Macro59 Liv. I 20, 6; cfr. BRELICH 1966, 228–229. Non concordiamo dunque con BOUCHÉ-LECLERCQ 1907, 573, secondo cui i pontefici limiteranno al suolo italico la loro competenza in merito alle importazioni di culti, demandando ai Xviri s. f. il compito di occuparsi di quelli provenienti da fuori. 60 VAN DOREN 1954, 491–494; infra. 61 Liv. XXVI 34, 12: Signa statuas aeneas quae capta de hostibus dicerentur, quae eorum sacra ac profana essent ad pontificum collegium reiecerunt. 62 Liv. IX 46; cfr. Tert. Apol. 5; PRELLER 1978, 138. 63 Cfr. MERLIN 1906, 140 sgg. 64 Secondo BOUCHÉ-LECLERCQ 1907, 573, ciò accadeva sempre. 65 Arnob. III 38: Cincius pronunciat solere Romanos religiones urbium superatarum partim privatim per familias spargere, partim publice consecrare. 66 Sempre, secondo VAN DOREN 1954, 490. 67 BOUCHÉ-LECLERCQ 1907, 573. CATALANO 1978, 543–544, circoscrive alle divinità extraitaliche l’impossibilità di introdurre divinità entro il pomerio. 68 LE GALL 1976, 523. Egli adduce l’esempio della Tanit di Cartagine, che avrebbe ricevuto un culto nel tempio di Giunone Regina sull’Aventino, finché il suo culto non fu importato ufficialmente a Roma da Elagabalo: cfr. infra, par. 5.3.

2.2. PEREGRINA SACRA

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bio sull’evocatio della Caelestis di Cartagine (Sat. III 9), evocatio seguita da una cosiddetta devotio hostium. Poteva benissimo accadere che dopo un’evocatio il culto potesse continuare sul luogo d’origine, anche se ridotto da «centro» a «succursale» del culto stesso.69 2) Le statue delle divinità evocate fossero trasportate tutte a Roma: Blomart, ad esempio, adduce quale possibile discriminante lo status giuridico della città successivo alla conquista, per cui se questa diventava municipium romano, quindi territorio romano, il dio poteva continuare a dimorare in loco.70 Sia G. Wissowa che M. Humbert parlano tra l’altro di «distruzione giuridica» conseguente all’evocatio.71 Nel testo di Festo non viene detto in che modo fosse tributato a Roma il culto alle divinità evocate. Plinio asserisce al riguardo solo che i Romani con l’evocatio promettevano alle divinità tutelari un culto uguale o più grandioso a Roma.72 Al contrario, siamo edotti a sufficienza sul quae coluntur eorum more, a quibus sunt accepta dell’altro gruppo: Valerio Massimo afferma ad esempio che i Romani fecero venire da Elea una sacerdotessa di Cerere (Callifana o Callifena), anche se quella città non era ancora una civitas foederata, per adorare la dea conformemente ai riti greci originari.73 Cicerone rileva enfaticamente come il carattere peculiare del culto non risiedesse solo nel fatto che esso fosse stato importato dalla Grecia, ma anche che fosse officiato da sacerdotesse greche, affermando inoltre che i Romani conferirono a queste sacerdotesse la cittadinanza romana proprio perché il culto era rivolto ai cives (Callifane fu la prima a riceverla, nel 98 a. C.)74. In ogni caso, è sicuro che il culto a Roma perdesse in modo più o meno sostanziale le sue caratteristiche originarie, tanto più che il carmen non era molto specifico in materia. Come si è detto, la definizione del culto a Roma era appannaggio del collegio dei pontefici: è plausibile che, conformemente alla libertà di movimento che si erano riservati con la promessa del carmen evocationis, non ci fosse uno stringente bisogno di osservare e mantenere il significato e i culti originari degli dèi evocati nel momento in cui questi erano accolti ufficialmente a Roma.75 Le divinità evocate, inoltre, perdevano certamente l’importanza che avevano nel loro luogo di provenienza: oltre al fatto di rimanere in misura variabile delle “straniere” a Roma, non si può escludere che, con l’assenso ad essere evocate, esse avessero in qualche modo negato la propria essenza, con la conseguenza di un «abbassamento di status»76.

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EISENHUT 1963, 1328; LE GALL 1976, 524 n. 18; cfr. infra, par. 5.4. BLOMART 1997, 103. Sul controllo romano cfr. Tac. Ann. III 71, 1; Paul. Fest. 146 L. WISSOWA 19122, 48 e 520; HUMBERT 1978, 307. N. h. XXVIII 18: eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Val. Max. I 1, 1. Pro Balbo 55. VAN DOREN 1954, 493–494. RÜPKE 1990, 163. Cfr. Min. Fel. Oct. XXV 6 sgg.

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2. L’EVOCATIO ROMANA

2.2.2. Statue “parlanti” e politica Le divinità spesso comunicavano la loro volontà per mezzo del loro simulacro: le statue parlanti, a prima vista un fatto “folkloristico”, hanno in realtà rivestito una grande importanza politica. I Romani trovarono in queste rappresentazioni un mezzo adatto per nascondere la loro reale politica espansionistica nell’ambito dei trasferimenti ufficiali dei culti. Quest’idea era diffusa nella letteratura di età augustea e nelle rappresentazioni teatrali: erano gli dèi stessi che chiedevano di essere portati a Roma.77 Un celebre esempio è quello di Cibele, che fu portata a Roma nel 204 a. C., per vari motivi, tra i quali: la competizione tra patrizi e plebei, con le loro feste di Cerere e Flora; la politica estera di Roma che mirava ad espandersi verso l’oriente anatolico, il luogo da cui faceva derivare le proprie origini;78 un pegno dell’alleanza del regno pergameno con Roma in funzione anti-macedone.79 Al rifiuto del re Attalo di consegnare il simulacro della dea, essa stessa affermò di voler essere portata a Roma.80 Con l’arrivo della Mater Magna si avvera quanto riportato dai Libri Sibillini:81 nel 203 a. C. Annibale lascia l’Italia. Dopo essere stata ospitata nel tempio di Victoria, la pietra nera, la sacra immagine della dea, fu accolta tempio costruitole sul Palatino e dedicato nel 191 a. C.82 Un episodio simile è legato al dio Asclepio. Questi apparve in sogno ad uno dei Romani inviati a prenderlo, su ordine dei libri Sybillini, affermando che era suo volere seguirli a Roma.83 Tale volontà fu resa in modo evidente il giorno seguente: il serpente del dio andò verso il porto e salì sulla nave romana, che lo avrebbe portato fino alla sede prescelta dell’isola Tiberina. Il motivo del trasferimento a Roma del dio della medicina va ricercato nella terribile peste del 292 a. C., diffusasi per di più durante un periodo di guerra contro i Sanniti: si doveva curare lo stato “malato” e attenuare i contrasti politici interni; esso va inoltre collegato simbolicamente all’alleanza offerta ai Romani da Demetrio Poliorcete dieci anni prima. Tale apertura verso la Grecia, politica e al tempo stesso culturale, si accompagna ad un’apertura sociale verso i plebei: la delegazione inviata ad Epidauro era guidata da Quinto Ogulnio Gallo, che, in qualità di tribuno, diede ai plebei, con una legge del 300 a. C., l’accesso alle cariche di pontefice e augure. L’esempio più famoso di statua parlante in ambito romano è probabilmente quello di Giunone Regina, che manifestò la propria volontà con un cenno del capo

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Cfr. ad es. Ov. Fast. IV 326; Liv. V 21, 8. Ov. Fast. IV 247–272; Erod. I 11, 3. Cfr. COARELLI 1990, 635–636. Ov. Fast. IV 268 sgg; SCHMIDT 1909, 5 sgg. Liv. XXIX 10, 4–6. Sulla relazione tra l’arrivo di Cibele e la futura vittoria di Roma v. Liv. XXIX 10, 5–8; Ov. Fasti IV 255 sgg; Herod. I 11, 3; sulla dimora di Cibele a Roma, Liv. XXXVI 36, 3–4. 83 SCHMIDT 1909, 31 sgg.; SABBATUCCI 1988, 18–23.

2.3. FREQUENZA DELL’EVOCATIO

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o a voce.84 Nella propaganda augustea Giunone Curite è ben contenta di essere portata a Roma,85 e lo stesso accade per Voltumna-Vortumno.86 2.3. FREQUENZA DELL’EVOCATIO: RITO «BANALE» O «ESTREMO»? In tutti questi casi, lo ripetiamo, bisogna distinguere il contesto in cui il trasferimento si è verificato: bellico, per cui esso sarà stato preceduto da un’evocatio, o in tempo di pace, senza che sia stato necessario ricorrervi. Pur non potendosi escludere a priori che il rito potesse essere usato per evocare le divinità anche al di fuori della conquista di una città, non abbiamo testimonianze certe in merito: in ogni caso trasferimento non coincide con evocatio.87 Nonostante ciò, sebbene ci si aspetterebbe di trovare un cospicuo numero di evocationes nella tradizione, considerate le molte città conquistate dai Romani nel corso della loro espansione, in realtà le uniche di cui abbiamo notizia certa sono l’evocatio di Giunone Regina da Veio nel 396 a. C. e quella di Giunone Celeste da Cartagine nel 146 a. C. Fermo restando l’ambito guerresco, o, se vogliamo, la conquista,88 il solo in cui possiamo porre la celebrazione del rito, le ipotesi che ci si prospettano sono opposte. Da un lato si è supposto che l’evocatio fosse «un rite banal du vieil arsenal religieux romain de la guerre», talmente consueto che non se ne fece menzione se non in casi eccezionali, come quelli riguardanti Veio e Cartagine.89 Dall’altro, invece, si è ritenuta l’evocazione una pratica «estrema»90, circoscrivendone l’uso agli assedi particolarmente lunghi ed impegnativi contro nemici mortali,91 oppure esclusivamente alle urbes fondate Etrusco ritu.92 È possibile tuttavia un compromesso tra le due posizioni. Anzitutto, va escluso sia che ogni città conquistata abbia subito l’evocazione della propria divinità tutelare, sia che in tutta la storia romana ciò sia accaduto solo due volte o addirittura una, come ritengono gli autori che considerano il caso di Veio modellato su quello di Cartagine o viceversa.93 Ciò per la semplice constatazione che, sebbene non si possa ipotizzare una meccanica successione evocatio-devotio, per la possibilità che gli dèi abbandonassero talvolta il luogo spontaneamente, pure Ma84 85 86 87 88 89 90 91 92 93

Cfr. infra, parr. 4.1.6–4.1.7. Ov. Fast. VI 49–51. Prop. IV 2, 3 sgg. Non è dunque in alcun modo condivisibile la posizione di BLOMART 1997, 107. GUSTAFSSON 2000, 79. LE GALL 1976, 524; cfr. BRUUN 1972, 116; ALVAR 1984, 144–145. Le Gall tuttavia basa la sua asserzione ipotizzando la celebrazione di un’evocatio per ognuna delle città devotae menzionate da Macrobio; in realtà la cosa non è affatto scontata: cfr. infra, par. 5.4. BOUCHÉ-LECLERCQ 1907, 573. ORLIN 1997, 61–62; cfr. KÖVES-ZULAUF 1972, 89, n. 91. WISSOWA 19122, 374; BASANOFF 1947, 196; tale limitazione geografica è però smentita dall’evocatio di Giunone Celeste da Cartagine e dall’iscrizione rinvenuta ad Isaura Vetus, per cui cfr. infra, capp. 5 e 9. Infra, parr. 4.1.3.; 5.1.3; cfr. ORLIN 1997, 15, n. 13.

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2. L’EVOCATIO ROMANA

crobio afferma che la seconda era possibile iam numinibus evocatis, 94 e sarebbe decisamente inverosimile che nella lunga lista delle città devotae raccolta dall’autore tardo-antico: Stonios†, Fregellas, Gavios, Veios, Fidenas; haec intra Italiam, praeterea Carthaginem et Corinthum, sed et multos exercitus oppidaque hostium Gallorum Hispanorum Afrorum 95 Maurorum aliarumque gentium quas prisci loquuntur annales,

solo due siano andate incontro a questo destino, tanto più che si può supporre con buona probabilità un’evocatio per città di volta in volta conquistate e distrutte (Volsinii), prese senza colpo ferire e poi distrutte (Falerii), conquistate con molta fatica, saccheggiate ma non distrutte (Veio), etc. Si può pertanto formulare l’ipotesi che, in occasione degli assedi, si evocassero gli dèi protettori della città con una certa frequenza, come Plinio leggeva in Verrio Flacco: Verrius Flaccus auctores ponit quibus credatur in obpugnationibus ante omnia solitum a Romanis sacerdotibus evocari deum cuius in tutela id oppidum esset promittique illi eundem 96 aut ampliorem apud Romanos cultum,

e che la decisione fosse presa caso per caso, alla luce delle particolari e contingenti motivazioni belliche o religiose. Le fonti ci hanno tramandato con certezza due sole evocationes, ma, almeno in qualche altro caso, se ne possono supporre altre. Non è da escludere anche che la città che veniva privata dei propri dèi dovesse essere di una certa importanza, se non una «capitale», e che lo stesso accadesse per la rispettiva divinità, con tutti i risvolti propagandistici che la conquista e il trasferimento del simulacro a Roma necessariamente comportavano. Forse un riflesso di questa situazione è adombrato in un passo di Ammiano Marcellino relativo agli eventi del 363 d. C.97 Dopo aver oltrepassato con l’esercito il fiume Abora a Cercusio e prima di giungere in Assiria, quasi all’apice della parabola ascendente della spedizione persiana, Giuliano arringa i propri soldati. Dapprima li incoraggia enumerando le vittorie romane contro i Persiani;98 il discorso si allarga poi agli altri nemici affrontati dai Romani nei secoli precedenti. Gli esempi addotti in proposito dall’imperatore sono assai indicativi: plures absumptae sunt maioribus nostris aetates, ut interirent radicitus quae vexabant. Devicta est perplexo et diuturno Marte Carthago, sed eam dux inclytus timuit superesse victoriae. Evertit funditus Numantiam Scipio, post multiplices casus obsidionis emensos. Fidenas ne imperio subcrescerent aemulae Roma subvertit, et Faliscos ita oppressit et Veios, et suadere nobis laborat monumentorum veterum fides, ut has civitates aliquando valuisse 99 credamus.

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Macr. Sat. III 9, 9. Ibid., 13. Plin. N. h. XXVIII 18 (la sottolineatura è ovviamente nostra). Cfr. KÖVES-ZULAUF 1972, 89. Amm. Marc. XXIII 5. Ibid., 16–19. Ibid, 20.

2.3. FREQUENZA DELL’EVOCATIO

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Esaminando attentamente le parole di Giuliano si possono fare delle considerazioni interessanti. Com’è noto, il suo interesse fu rivolto alla filosofia; pure, egli conobbe in modo approfondito la storia antica: i modelli a cui cercò di uniformare la sua condotta furono in primis Marco Aurelio, poi Alessandro Magno.100 Tra tutti i possibili fatti esemplari, egli ne scelse cinque, il più recente dei quali risaliva a più di cinque secoli prima (la lontananza temporale è acuita dalla considerazione finale che solo con molta fatica si sarebbe potuto credere alla potenza di queste città nel passato): si trattava perciò di eventi oltremodo importanti, non sconosciuti verosimilmente agli stessi soldati, che da essi avrebbero dovuto trarre incoraggiamento e sprone a dare il meglio di sé in battaglia. La prima città menzionata è Cartagine, capitale-simbolo dell’Impero cartaginese: da essa, secondo la testimonianza di Macrobio, Scipione Emiliano evocò Giunone Celeste nel 146 a. C.101 Solo tredici anni dopo, nel 133, lo stesso generale romano conquistò Numanzia,102 capitale dei Celtiberi, evocandone forse la divinità tutelare, poiché tra le città devotae elencate da Macrobio non riusciremmo a trovare un oppidum Hispanorum maggiormente “degno” di subire un’evocatio prima della devotio hostium.103 Vi è poi Falerii, capitale dello stato falisco, da cui fu verosimilmente evocata nel 241 a. C. Giunone Curite,104 indi Veio, simbolo e a suo tempo città più potente del nomen Etruscum, privata da Furio Camillo nel 396 a. C. della sua dea, Giunone Regina.105 Abbiamo volutamente lasciato per ultima Fidene, poiché le vicende che la riguardano vanno viste nell’ottica dell’ostilità tra Roma e Veio. La città latina fu a lungo contesa dalle due storiche rivali per la sua posizione strategica; finalmente, dopo essersi ribellata ai Romani in favore dei Veienti, fu assediata e conquistata dai primi nel 426 a. C. Proprio per questo legame tra la storia di Veio e quella di Fidene, si può credere che gli eventi che riguardano la seconda possano aver costituito un modello per la prima, o, viceversa, che le circostanze che portarono alla conquista di Veio abbiano influenzato la costruzione del racconto riguardante Fidene: lo suggeriscono dei particolari ripetuti come gli aiuti portati in entrambi i casi dai Falisci, ma soprattutto l’espediente usato per venire a capo della resistenza della città assediata, vale a dire lo scavo di una galleria sotterranea in direzione della rocca;106 inoltre, anche per Fidene è stata ipotizzata un’evocatio, riguardante Giunone Caprotina.107 Certamente la città subì una devotio, almeno stando a Macrobio. 100 101 102 103 104 105 106 107

Cfr. ad es. l’epistola A Temistio 1. Infra, cap. 5. Cfr. in generale SCHULTEN 1936. GUITTARD 2002, 33. Infra, par. 5.4. Infra, cap. 4. Sull’episodio, cfr. diffusamente FERRI 2010a, cap. IV. PALMER 1974, 15. Altro argomento in comune è la menzione nelle fonti sia di una distruzione della città (Flor. I 6, 4; Eutr. I 19; Macr. Sat. I 11, 37) sia dell’esistenza sul sito di un insediamento privo di importanza in epoca imperiale (Cic. De leg. agr. II 96; Strab. V 320; Hor. Ep. I 11, 7; Iuven. VI 57; X 100; Plin. N. h. III 68); quanto a Veio, cfr. in generale infra, cap. 4.

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2. L’EVOCATIO ROMANA

Tutte queste città, dunque, comportarono difficoltà eccezionali per essere piegate, concretamente – l’assedio di Veio durò 10 anni, secondo la tradizione, così come il bellum Numantinum, ma anche Cartagine richiese notevoli e prolungati sforzi – o potenzialmente – la posizione munita di Falerii avrebbe portato ad un lungo assedio se gli abitanti non si fossero consegnati in fidem. Tutte le città furono inoltre devotae: sicuramente Veio, Fidene e Cartagine, con buona probabilità Numanzia e Falerii. L’ultima considerazione che si può fare riguarda la successione in cui Giuliano nomina le città: le prime due, in ordine cronologico, dovevano rispecchiare la situazione più familiare a quella dell’esercito al momento del discorso, cioè l’impiego in un teatro di operazioni assai lontano da Roma; le altre, più vicine all’Urbe, ma comunque esemplari, sono di nuovo elencate in ordine cronologico. Concludendo, l’imperatore scelse tra gli eventi del glorioso passato di Roma presumibilmente i più adatti a sortire nei soldati l’effetto psicologico desiderato: si trattava di città rappresentative, potenti, importanti, ma anche munite e apparentemente quasi impossibili da espugnare. I Romani del passato, invece, ce l’avevano fatta, certo anche con l’aiuto del proprio “arsenale” religioso, dapprima evocando la divinità tutelare e poi consacrando la città agli dèi inferi. Con l’aiuto dei sacerdoti che lo accompagnavano, tra cui degli aruspici, Giuliano, imperatore e pontefice massimo, sperava forse di fare lo stesso con la capitale del nemico, Ctesifonte.108 Ma gli dèi vollero altrimenti. 2.4. EVOCATIO–INTERPRETATIO Un’ultima questione da esaminare in relazione all’evocatio è quella relativa alla c. d. interpretatio Romana. Una spiegazione chiara di cosa essa sia è fornita dal Wissowa: «Nella convinzione che le divinità degli altri sistemi religiosi differissero da quelle romane solo nel nome, ma che fossero in realtà essenzialmente identiche o affini ad esse, il Romano faceva uso dovunque nei paesi stranieri dell’intepretatio Romana (Tac. Germ. 43): egli cioè riconosceva, più o meno a ragione, i propri dèi in quelli stranieri, basandosi su singole somiglianze concettuali o cultuali, e dando a questi il nome di quelli, nome di cui gli abitanti delle province si appropriavano, nella stessa misura in cui si aprivano alla superiore cultura 109 romana» .

Non fa differenza se il nome indigeno del dio rimanga come epiteto vicino al romano, oppure scompaia: ad esempio, quando nelle fonti un dio britannico appare 108 È indicativo in questo senso che nel paragrafo precedente Ammiano Marcellino si soffermi diffusamente sulle macchine ossidionali (murales machinae) in dotazione ai Romani. 109 WISSOWA 19122, 85 (trad. mia); cfr. in generale WISSOWA 1918; SPICKERMANN 1997; ANDO 2008, 43–58. Nel passo citato Tacito si riferisce in particolare ad una divinità locale di nome Alcis: sed deos interpretatione Romana Castorem Pollucemque memorant. Ea vis numini, nomen Alcis. Cfr. Cic. De nat. deor. I 84: ... at primum, quot hominum linguae, tot nomina deorum: non enim, ut tu Velleius, quocumque veneris, sic idem in Italia Vulcanus, idem in Africa, idem in Hispania.

2.4. EVOCATIO–INTERPRETATIO

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prima come deus Cocidius, poi come deus Mars Cocidius, poi infine solo come Mars, abbiamo semplicemente di fronte la stessa divinità, solo in tre momenti diversi della romanizzazione della provincia.110 Gli scrittori si sono serviti ampiamente dell’interpretatio Romana. La pratica di essa, pur in sé non obbligatoria, 111 era così normale e diffusa che essi ne facevano uso senza sentire il bisogno di spiegare o motivare alcunché: ecco quindi che troviamo Mercurio e Apollo in Gallia,112 Minerva in Britannia,113 Cerere e Saturno in Africa114 e così via. Essenziale in ciò era il riconoscimento e il confronto dell’essenza e/o della funzione peculiare dell’essere divino: una divinità guerriera era identificata con Marte, etc.115 L’approccio all’“altro” poteva però essere diverso: diversamente da Tacito, Cesare applica sempre l’interpretatio Romana, traducendo il nome della divinità locale senza riportare mai il nome indigeno: 117

Galli se omnes ab Dite patre prognatos praedicant;116 deorum maxime Mercurium colunt.

Va notato come egli si produca nella denominazione latina delle divinità galliche agli inizi della conquista, e non dopo la sottomissione della Gallia. Le iscrizioni galliche (sempre in latino) confermano in una certa misura questa testimonianza. Spesso però esse aggiungono al nome divino romano un epiteto gallico che sembra contenere il nome indigeno dell’essere venerato: «ma proprio questi casi mostrano quanto l’interpretatio Romana fosse oscillante: varie volte accade, infatti, che lo stesso epiteto (cioè nome indigeno) accompagna ora l’una, ora l’altra delle divinità romane».118 Tali incertezze mostrano come gli esseri venerati dai Galli ovviamente non fossero identici alle divinità romane. Cesare si sofferma anche sugli dèi dei Germani: deorum numero eos solos ducunt, quos cernunt et quorum aperte opibus iuvantur, Solem et 119 Vulcanum et Lunam, reliquos ne fama quidem acceperunt.

110 Cfr. VAN ADRINGA 2007, 87–88. 111 BIKERMAN 1937–1938, 189. 112 Su Mercurio cfr. Plin. N. h. XXXIV 45; Tert. Apol. 9; Scorp. 7; su Apollo, Eumen. Paneg. VI 21, 7; 22, 1. 113 In qualità di dea di una fonte sacra: quibus fontibus praesul est Minervae numen (Solin. 22, 10). 114 Su Ceres Africana v. Tert. Ad uxor. I 6; De exhort. cast. 13; su Ceres e Saturnus insieme ad es. Tert. De pall. 4; De testim. an. 2; Passio SS. Perpet. et Felic. 18, 4. 115 WISSOWA 1918, 12 sgg. 116 De b. G. VI 18, 1. 117 Ibid. 17, 1–2: Deorum maxime Mercurium colunt: huius sunt plurima simulacra, hunc omnium inventorem artium ferunt, hunc viarum atque itinerum ducem, hunc ad quaestus pecuniae mercatusque habere vim maxima arbitrantur. Post hunc Apollinem et Martem et Iovem et Minervam. De his eandem fere quam reliquae gentes habent opinionem: Apollinem morbos depellere, Minervam operum atque artificiorum initia tradere, Iovem imperium caelestium tenere, Martem bella regere. 118 BRELICH 1966, 232. 119 De b. G. VI 21, 2; cfr. BRELICH 1966, 236–238.

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2. L’EVOCATIO ROMANA

Come si vede, in quel momento storico la conoscenza di quelle divinità è molto scarsa. Dopo poco più di un secolo, invece, sarà abbastanza approfondita perché Tacito possa indentificare le singole divinità con Mercurio, Ercole, etc. Va detto, comunque, che queste identificazioni vanno viste non come eruditi tentativi di interpretazione, ma come la situazione di fatto dei normali rapporti dei Romani con questi popoli, venutasi a creare fin dai primi rapporti con essi. Inoltre, all’epoca dei primi rapporti con il mondo gallico e con il germanico, il processo dell’interpretatio Romana delle divinità di sistemi religiosi stranieri aveva già una lunga tradizione alle spalle in ambito mediterraneo.120 Spesso era più importante un’impressione, anche superficiale, piuttosto che la comprensione dell’intima essenza di una divinità: ad esempio, quando il romano si trovava in una terra selvaggia e ricca di boschi e chiamava gli dei locali Diana e Silvano, egli si basava su un’impressione, senza chiedersi se i nativi li intendessero allo stesso modo. Il soldato riteneva il dio invocato durante una battaglia una divinità della guerra, il mercante considerava un dio degli affari quello sotto la cui tutela gli indigeni ponevano i loro negozi. Il fatto che la divinità principale dei Galli e dei Germani abbia ricevuto il nome di Mercurio, evidenzia, secondo il Pârvan, che quelle terre furono frequentate prima dai mercanti che dai soldati.121 Un altro elemento da tener presente è che il romano in terra straniera non ha alcun bisogno di accostarsi ad altre concezioni religiose: egli “porta” dovunque con sé i propri dèi, e con essi i concetti inerenti alla propria religione, come il comandante di una legione del Reno che eresse un altare I(ovi) o(ptimo) m(aximo) dis patris et praesidibus huius loci Oceanique et Reno.122 Non si tratta, naturalmente, solo di un influsso unilaterale romano sulle province, ma di un vero e proprio scambio: ad esempio, accanto alla Romana vi era un’interpretatio Celtica. I veicoli più importanti in questo senso erano i mercanti e i soldati.123 Nelle province non esiste di fatto una religione ufficiale, al di fuori del culto di Iuppiter Optimus Maximus e, più tardi, dell’imperatore: la vera religione di stato rimane legata alla città di Roma; la patina del nome romano ricopre un vasto spettro di concetti religiosi diversi. L’interpretatio non comporta quasi mai conseguenze sul piano del culto nelle province, ciò accade solo in casi sporadici e nelle province più romanizzate. La valutazione scrupolosa degli dèi e dei culti stranieri, elaborata nella pratica dell’evocatio, resterà sempre un principio dominante della politica religiosa di Roma, pur se sempre più confusa con l’applicazione dell’interpretatio Romana. Gli esempi non mancano, uno su tutti quello dell’introduzione del culto di Cibele a Roma, che venne rigidamente delimitato, codificato e depurato degli elementi più distanti dalla sensibilità religiosa romana.124 Lo stesso avvenne per i culti di Attis e Mâ, poi assimilata a Bellona: entrambi passarono attraverso il “fil120 121 122 123

SPICKERMANN 1997, 146 sgg. PÂRVAN 1909, 22 sgg. CIL XIII 8810. Cfr. ad es. PÂRVAN 1909, 37 sgg.: gli stabilimenti commerciali sono stati particolarmente importanti nell’importazione dei culti orientali. 124 Liv. XXIX; Ov. Fast. 297–328; DUMÉZIL 20012, 420.

2.4. EVOCATIO–INTERPRETATIO

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tro” della tradizione pontificale che li rese «romani», eliminandone gli elementi giudicati troppo estranei.125 Allo stesso modo, il culto del Sol invictus Elagabal venne condannato alla damnatio memoriae solo perché era rimasto straniero, mentre, al contrario, la figura del deus Sol invictus di Aureliano (in realtà un Baal siriano) verrà sottoposta ai principi elaborati secoli prima nell’ambito della pratica pontificale dell’evocatio, conoscendo pertanto una grande fortuna a Roma: il culto del dio sarà affidato ad un collegium publicum, composto da pontifices Solis; la sua immagine avrà caratteristiche greco-romane; sarà venerato infine come dominus imperii Romani. Secondo il Basanoff, l’accoglimento a Roma del culto orientale di Cibele, per quanto formalmente «nazionale»126, inteso all’inizio come un’eccezione, valse come precedente per gli altri, svuotando di fatto l’evocatio di gran parte della sua ragion d’essere: gli dèi venivano ormai accolti dopo la conquista di una provincia in modo essenzialmente pacifico.127 In ogni caso, l’abitudine di confrontare la divinità straniera con gli dèi romani, il fatto religioso straniero con quello romano in occasione di ciascuna evocatio, si trasforma verosimilmente in una tradizione pontificale, sfumando e identificandosi gradualmente con la stessa interpretatio.128 Si è supposto inoltre che, dopo la conquista dell’Italia e la seconda guerra punica, con l’importazione di decine di divinità, il pantheon romano fosse diventato così funzionale e geograficamente differenziato che da un parte era possibile un’interpretatio Romana della massima ampiezza. Dall’altra, invece, si è ritenuto che le divinità delle regioni più lontane (in senso geografico, ma soprattutto culturale) fossero considerate a tal punto “barbariche” da non essere integrabili;129 ciò poteva essere una proiezione della chiusura all’ammissione di nuovi cittadini nello stesso periodo, proiettando la realtà sociale anche sul piano simbolico.130

125 Cfr. BASANOFF 1947 212–213. 126 Cfr. DUMÉZIL 20012, 420: «grazie alla leggenda di Enea, né Venere [Ericina] né Cibele erano delle straniere». 127 BASANOFF 1947, 207. 128 Ibid., 211–212. 129 RÜPKE 1990, 164 e 257–258. 130 Ibid., 164; cfr. NORTH 1976, 11; ANDO 2008, 58: «In its enigmatic status, interpretatio Romana resembles many of the other mechanisms with wich Romans and their subjects negotiated cultural difference, translation among them; it is likewise emblematic of the myriad problems besetting the study of cross-cultural contact in the ancient world».

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3. GIUNONE 3.1. UNA DIVINITÀ “SCONCERTANTE” 3.1.1. Le origini Scrivere di Giunone è cosa estremamente complessa. Dumézil la considera «la più importante, ma anche la più sconcertante, dea di Roma»1. L’importanza deriva alla divinità, più che da considerazioni mitologiche – molto indicativo in questo senso il fatto che conosciamo per il Latium un’unica iscrizione attestante il vincolo matrimoniale tra Giove e Giunone2 – anzitutto dal ruolo preminente che essa ha ricoperto a Roma e in numerose città centro-italiche ed etrusche. L’elemento «sconcertante» è invece direttamente collegato allo spiccato carattere polivalente della sua figura, in cui di volta in volta si possono riconoscere una specializzazione o un aspetto prevalente rispetto ad un altro. Vi sono anche da considerare i suoi rapporti con le grandi divinità femminili di altri sistemi religiosi. Ma le problematiche non si esauriscono qui, sono anzi numerose.3 Nel presente lavoro si avrà modo di soffermarsi su molte delle questioni riguardanti Giunone, ma da un ben determinato punto di vista: il rapporto della dea con l’evocatio, rito in cui essa sembra aver giocato un ruolo particolare. Vedremo come ciò, oltre a sollevare altri problemi, possa però costituire anche uno strumento proficuo per capire meglio il significato e la collocazione di questa divinità nel sistema religioso romano. Per accennare alla varie questioni riguardanti la dea e dare un quadro d’insieme iniziale, diremo anzitutto che Giunone non era una divinità esclusivamente romana, né sembra aver avuto a Roma la sua prima dimora. La teoria più plausibile, a partire dall’analisi linguistica del nome, ne colloca le origini in Italia centrale, forse in area latino-falisca.4 Nonostante vi siano nella tradizione indicazioni circa l’introduzione del culto a Roma ad opera dei Sabini, gli argomenti addotti in tal senso non appaiono decisivi.5 1 2 3

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DUMÉZIL 20012, 261. Essa si trovava nel tempio di Giunone ad Ardea: Plin. N. h. XXXV 115; cfr. KOCH 1986, 86. In generale su Giunone, cfr. THULIN 1918; GIANNELLI 1942; DUMÉZIL 1954; DURY-MOAYERS – RENARD 1981; DURY-MOAYERS 1984; LA ROCCA 1990; MONTANARI 1993f; GRAF – LEY 1999; DUMÉZIL 20012, 261–270. Mi sono inoltre avvalso, per gentile concessione dell’autrice (che colgo l’occasione per ringraziare), dell’articolo della Prof.ssa ANNA PASQUALINI, Giunone Sospita Lanuvina …e le altre (Feriae Latinae novae, IX ed., Lanuvio, Aula Consiliare, 10 giugno 2006), ancora inedito. LA ROCCA 1990, 814; DUMÉZIL 20012, 261. Cfr. LA ROCCA 1990, 814.

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3. GIUNONE

È accertato invece che la vecchia teoria che faceva derivare il nome della divinità dall’omologa etrusca Uni vada ribaltata, poiché il latino non aggiunge una i- ad una vocale iniziale, mentre è più volte attestata la perdita della medesima lettera nella stessa posizione.6 Il nome sarebbe un calco della forma latino-falisca *Iūnī, variante arcaica di Iūnō.7 Si è ipotizzato tuttavia che la ricezione in Etruria sarebbe in realtà più antica e risalente forse già al VII sec. a. C.8 Così come vi erano numerose Giunoni a Roma,9 ve n’erano molte anche nelle città del Lazio e in Etruria (come Uni), senza dimenticare la presenza dell’Hera greca nelle poleis italiote. A questa proliferazione della divinità tra i Latini, gli Italici e gli Etruschi corrispondeva una considerevole varietà di epiteti. Solo per dare un’idea: Lucina, Regina, Caprotina, Moneta, Curitis, Populonia, Sispes Mater Regina, Martialis, etc.10 La presenza in molte città comportava una diversa funzione e un diverso ruolo della dea nel sistema religioso locale, anche alla luce del fatto che, di tutte le divinità del pantheon italico, Giunone era quella maggiormente polivalente. 3.1.2. Una figura divina complessa A questo proposito, gli studiosi non hanno avuto difficoltà ad individuare di volta in volta nelle varie Giunoni la preponderanza di un aspetto rispetto ad un altro. I principali sono tre, che Dumézil, certo anche nell’ottica della sua celeberrima impostazione trifunzionale, ha riconosciuto come contemporaneamente presenti nella Giunone di Lanuvio: guerriero (Sospita), muliebre (Mater) e politico (Regina)11. Il trait d’union di queste tre funzioni andrebbe individuato nella provenienza del termine iuno dal lemma indo-europeo *yuwen- (>iuvenis) in cui la radice *yu ha il significato originario di «forza vitale»12. In effetti non sembrano esserci più dubbi sull’appartenenza del nome della dea alla famiglia dei termini aventi la medesima radice, quali α ών, aevum, iunix («giovenca») e, appunto, iuvenis. Il 6

Ibid.; cfr. BRELICH 1968, 161. Al contrario FERRI 1956, 111–113, nega la derivazione fonetica di Uni da Iuno: il primo nome sarebbe uno dei tanti di una dea-madre anatolica, *Vni, *Venni, *Vunni, VNI, sviluppatosi poi in Uni in Etruria e in Venus nel Lazio. 7 COLONNA – MICHETTI 1997, 159. Le prima attestazioni del teonimo in Etruria risalgono alla fine del VI sec. e provengono da Pyrgi. 8 LA ROCCA 1990, 814, sulle attestazioni a Tarquinia; cfr. DUMÉZIL 20012, 261. 9 Giunone era anche una divinità gentilizia, precisamente della gens Iunia: cfr. MONTANARI 1998, 15. 10 Cfr. in generale GIANNELLI 1942 (soprattutto per le epigrafi); DURY-MOAYERS – RENARD 1981. 11 DUMÉZIL 1954, 115: «Il paraît donc que la lourde titulature de la déesse lanuvienne est destinée à exprimer l’omnivalence de la déesse, mais une omnivalence structurée, analysée selon la vieille conception indoeuropéenne des trois fonctions (…): Junon défend dans ou par la bataille; Junon assure et organise la fecondité régulière; Junon est la reine auguste et sacrée». 12 THULIN 1918, 1115; GIANNELLI 1942, 211; RENARD 1950–1951; RADKE 1974, 247; DURYMOAYERS – RENARD 1981, 143–145 (anche per le precedenti ipotesi scartate); RADKE 1987, 255 sgg.

3.1. UNA DIVINITÀ “SCONCERTANTE”

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significato del nome in origine sarebbe stato dunque semplicemente «la giovane»13. Stabilito il legame iuno-iuvenis, si tratta, per quanto possibile, di definirlo meglio: il iuvenis è colui che è in possesso del massimo della forza vitale.14 Non sappiamo tuttavia quanto tale nozione fosse definita, se nel senso astratto di «giovinezza», oppure attivo di forza vitale, impetuosità d(e)i giovani o, ancora come suddivisione sociale, riferita cioè ai iuvenes quale fascia d’età.15 Collegata ai iuvenes in generale, Giunone condivideva tuttavia un rapporto più stretto con le rappresentanti femminili della categoria. Ogni donna era protetta da una propria iuno, analoga al genius, la divinità tutelare di ogni singolo uomo sin dalla propria nascita. Si avrà modo di tornare sull’argomento, ma va accennato subito che tale concezione non è arcaica come quella del genius, bensì certamente successiva e da essa derivata, e che in nessun modo Iuno deriva dalla moltitudine delle iunones, bensi è vero il contrario.16 Giunone accompagna e protegge la donna nella fase più delicata della sua vita, quella dell’età fertile. Le epiclesi della dea in questo ambito costituiscono una sorta di lista di indigitamenta del mondo femminile: Cinxia, Unxia, Pronuba, Iugalis, Fluona, Lucina. Sotto la tutela della dea si diventa donna, ci si sposa e si mettono al mondo i figli. Giunone ha un ruolo centrale anche nel calendario romano: da Iuno deriva presumibilmente il nome del mese Iunius.17 Alla dea era inoltre consacrato il primo giorno di ciascun mese, le calende, giorno di «rinascita» della luna: ut autem Idus omnes Iovi, ita omnes Kalendas Iunoni tributas et Varroni et pontificalis 18 adfirmat auctoritas.

In quei giorni ricorrevano spesso anche i natales dei templi ad essa dedicati.19 Il calendario romano più antico, il «romuleo», caratterizzato da una durata di 10 mesi con l’aggiunta di un periodo indiviso variabile, era basato sul ciclo lunare, ed è quasi certo che il legame Giunone-calende sussistesse già allora.20 Ciò induce ad attribuire alla dea un ruolo ancora più importante di Giove – al quale, com’è noto, erano sacre le idus – nel campo della scansione romana del tempo, almeno in origine, 21 proprio perché l’inizio del mese era collegato a e 13 RADKE 1965, 153. 14 BENVENISTE 1937; DURY-MOAYERS – RENARD 1981, 145. 15 Cfr. DUMÉZIL 20012, 262: «Il nome resta però troppo oscuro per fornire un punto di partenza alla ricerca». 16 Cfr. infra, par. 11.1.3. 17 Ov. Fast. VI 26, 56. Un mese portava il nome di Giunone anche ad Aricia, Tibur, Praeneste, Laurentum e Lanuvium: Ov. Fast. VI 59 sgg.; Macr. Sat. I 12, 30; LA ROCCA 1990, 814. 18 Macr. Sat. I 15, 18; Lyd. De mens. III 10. I Laurentini pregavano la dea nelle medesime occasioni, chiamandola Kalendaris Iuno. Troppo omnicomprensivo appare il legame Giunoneluna teorizzato da GIANNELLI 1942, 212–214. 19 PALMER 1974, 33–34. 20 BRELICH 1972a, 304. 21 Ibid., 305, che parla anche di «parallelismo non perfetto» tra il rapporto Iuno-kalendae e quello Iuppiter-idus. Il rapporto «paritetico» tra Iuppiter e Iuno sarebbe stato «quasi certamente suggerito da arcaici influssi del politeismo greco, ma realizzato con mezzi tipicamente

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3. GIUNONE

determinato dalla luna nuova: un pontifex minor annunciava la comparsa dell’astro al rex ed entrambi sacrificavano a Giunone in curia Calabra;22 lo stesso faceva la regina nella Regia.23 Inoltre, si fissavano le nonae del mese invocando Iuno Covella.24 Proprio il verbo calo contenuto nella formula avrebbe conferito alle kalendae il loro nome.25 Non si dimentichi infine che il calendario originariamente lunare implica un ulteriore ed evidente riferimento alla tutela esercitata dalla dea sulla donna, essendo sincrono al ciclo mestruale.26 Quanto alle altre funzioni (guerriera e politica), esse sono a Roma strettamente collegate, particolarmente per quel che riguarda – ancora – i giovani. Sotto la tutela di Giunone essi acquistano i diritti politici e diventano atti alle armi, cioè iuvenes veri e propri secondo la classificazione romana delle classi d’età, completando così il processo che li rendeva adulti, iniziato con l’abbandono della bulla e l’assunzione della toga virilis. Tale «passaggio» giungeva a compimento infatti nell’importantissima festa dei Lupercalia, allo stesso tempo rito d’iniziazione e antichissima lustratio della cittadella sul Palatino e con essa del popolo tutto.27 Giunone è presente nelle celebrazioni sotto molti aspetti: in quanto Februalis, con riferimento al februare, l’atto stesso della purificazione;28 quale apportatrice di fertilità, trasmessa da iuvenes maschi a iuvenes femmine per il tramite delle striscia di pelle recante il suo stesso nome (amiculum Iunonis)29, ricavata dall’animale sacro alla dea, la capra,30 non solo dunque con un palese rimando alla sessualità, ma pure alla maternità agognata e ricercata, intesa anche come «passaggio» da donna potenzialmente fertile a matrona (punto d’arrivo del percorso che rendeva una ragazza una donna a tutti gli effetti). Vi è forse anche un rimando alla crescita della comunità.31

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romani (non mitologici, calendariali). Significativamente, esso non ha avuto ulteriori espressioni istituzionalizzate rilevanti. Iuppiter aveva un’altra strada da percorrere, quella che lo doveva portare ad essere dio sovrano (poliade) di Roma». Macr. Sat. I 15, 10 sgg.; sulla celebrazione del sacrificio da parte di entrambi, cfr. BRELICH 1972a, 300, n. 1. Macr. Sat. I 15, 18. Sulla confutazione della posizione di KERÉNYI circa la pertinenza della flaminica alla sfera di Giunone, cfr. MONTANARI 1986, 13–14. Varr. De l. L. VI 27; Macr. Sat. I 15, 10. Il nome della dea viene collegato talvolta a cavus (la luna cava è la luna nuova) o a *covere-cavere, «sviare» su una base *covendla: LA ROCCA 1990, 814; cfr. RADKE 1965, 99–100. Serv. Ad Aen. VIII 654. MONTANARI 1993f, 340. BRELICH 20103, 101 sgg., 153 sgg., 174 sgg.; DURY-MOAYERS – RENARD 1981, 153–157; SABBATUCCI 1988, 53–60; da ultimo CARAFA 2006. Varr. De l. L. VI 34: februatur populus; Macr. Sat. I 13, 4: lustrari autem eo mense civitatem necesse erat. Cfr. BRELICH 20103, 137 sgg.; PALMER 1974, 18–19; DURY-MOAYERS 1984, 89. Paul. Fest. 75–76 L. Ov. Fast. II 425 sgg.; cfr. GIANNELLI 1942, 212. Si noti inoltre come la voce che avrebbe ordinato alla donne di farsi penetrare da un capro sacro, atto che provvidenzialmente un augure etrusco converte in fustigazione con la striscia di pelle ricavata dall’animale, provenga dal bosco sacro a Giunone Lucina, il luogo più antico consacrato alla dea a Roma. Sul rapporto Giunone-Fauno (l’Inuus dell’aition ovidiano), cfr. DURY-MOAYERS 1984, 89–90; CARAFA 2006, 491. PEPPE 1990, 326.

3.1. UNA DIVINITÀ “SCONCERTANTE”

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La purificazione della comunità era collocata in molte società alla fine dell’anno, e Roma non fa eccezione. L’antico calendario terminava il 23 febbraio, con i Terminalia: Giunone protegge pertanto anche il passaggio dal vecchio anno al nuovo, in un periodo caratterizzato da celebrazioni in onore dei defunti (i Parentalia, 13–21 febbraio), dal ricordo di morti «particolari» (il 17, in occasione dei Quirinalia, si ricordava lo smembramento di Romolo), da divinità dal carattere infero (Tacita Muta, festeggiata il 21 nel corso dei Feralia) e da pratiche agrarie che implicavano la fine/morte dei cereali (la tostatura del farro).32 L’anno nuovo, inoltre, comincia ancora sotto l’egida della dea (insieme a Marte), alle calende di marzo.33 Un ultimo significato della festa è rinvenibile probabilmente pure ad un livello sociale «cosmico» con il passaggio da una fase pre-cittadina a quella propriamente cittadina e organizzata.34 Si può affermare pertanto che Giunone sia una divinità con una speciale tutela per gli inizi: della società organizzata, della scansione temporale generale (anno) e particolare (mese, ma anche giorni dello stesso calcolati in base alle calende), della vita – questi due ultimi aspetti sembrano saldarsi nel culto di Iuno Lucina: il tempio, sorto nel luogo sacro più antico dedicato alla dea a Roma,35 datava il suo natalis al 1° marzo, contemporaneamente antico capodanno e ricorrenza dei Matronalia alla luce della speciale tutela della dea sul parto (Lucina da lux) – e delle attività proprie ai cittadini nell’età maggiormente «produttiva» e utile per la città, siano essi uomini (attività civile e guerriera) o donne (facoltà riproduttiva e matrimonio)36. Per questo Giunone appare spesso associata a Giano, come nelle calende o in una tipica cerimonia di passaggio quale il Tigillum Sororium: la coppia divina si occupa quindi degli inizi intesi sia come «nascita» che come «passaggio»37. 32 CARAFA 2006, 477; per tutti i riti citati, SABBATUCCI 1988, 47 sgg. Sul rapporto LupercaliaNonae Caprotinae, cfr. BRELICH 20103, 137 sgg.; SABBATUCCI 1988, 60 sgg., 233–235; CARAFA 2006, 490–491. 33 Vi sono molteplici rapporti tra Giunone e Marte. Anzitutto la tradizione che considera il dio della guerra come figlio della dea: Ov. Fast. V 229 sgg.; Paul. Fest. 97 M. Vi sono poi i già citati Matronalia alle calende di marzo, mese in cui, nel solo calendario di Filocalo, al 7 compare anche un’altra festa detta Iunonalia. Vi è infine anche una Iuno Martialis: DURYMOAYERS – RENARD 1981, 167–168; PALMER 1974, 32–33; SORDI 1993. Cfr. SABBATUCCI 1988, 91–93, 191–192, in cui l’autore ipotizza un reciproco contemperamento del «femminile» e del «maschile», rappresentati dalle due divinità, nei mesi ad esse dedicati, marzo e giugno. 34 BRELICH 20103, 92 sgg. 35 Il tempio fu dedicato nel 375 a. C. ma sorse in un bosco già da lungo tempo consacrato alla dea sulle pendici settentrionali dell’Esquilino. Cfr. Plaut. Truc. 476; Tert. Ann. 39; Schol. Bern. Verg. Ecl. IV 62; Dion. Hal. IV 15, 5. Va detto anche che è a Giunone in quanto Lucina che si riferisce il maggior numero di epigrafi arcaiche a Roma e nell’Italia Centrale: GIANNELLI 1942, 215. 36 Cfr. RADKE 1965, 153, per cui, in confronto al genius, il nome della dea andrebbe inteso più precisamente come «die junge Frau im empfängnisfähigen Alter». 37 DURY-MOAYERS – RENARD 1981, 182–188; SABBATUCCI 1988, 318 sgg.; MONTANARI 1990b, 21–82; DUMÉZIL 20012, 264. Esisteva anche un Ianus Iunonius: Macr. Sat. I 9, 16; I 15, 19; Varr. apud Lyd. De mens. IV 2; Serv. Ad Aen. VII 610.

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3. GIUNONE

Un’altra evidente connotazione propria a Giunone è quella di divinità poliade, più manifesta in Etruria e nel Lazio che a Roma,38 anche perché in quest’ultima oscurata e condivisa da altre divinità, Giove in primis. In molte città vi è una Giunone a proteggerla, spesso in veste di guerriera, fondendo in modo più palese le funzioni politica (tutela della città) e bellica (difesa e probabilmente protezione dell’esercito di iuvenes)39. L’esempio migliore è quello della Giunone Sospita di Lanuvio, rappresentata armata e ricoperta dall’egida, l’arcaica armatura ricavata dalla pelle di capro. Ve n’erano tuttavia molte altre analoghe, come la Regina di Veio, la Curite di Falerii, e verosimilmente la Moneta di Roma, il cui tempio, non a caso, era posto sull’arx. 40 Giunone sembra avere un particolare rapporto con la cittadella fortificata, di cui spesso appare come la protettrice.41 Spesso si trova a condividere questa dimora con Giove, dio dei summa, con il quale infatti è presente, ma in posizione ad esso subordinata, nel tempio più venerando di Roma sull’altra altura del colle capitolino, il Capitolium, e, in base a questo modello, lo sarà poi anche in numerose città in Italia e nelle province.42 La posizione «altimetrica» ha un preciso significato religioso, potendosi spesso attribuire alle divinità considerate le protettrici della città.43 Oltre a Giove Ottimo Massimo e alle Giunoni appena considerate – con l’eccezione costituita dalla Curite di Falerii – valga per tutti l’esempio di Atena sull’acropoli di Atene.44 In maniera differente, se e in proporzione al probabile assorbimento successivo in sé di altre funzioni o divinità locali, le Giunoni italiche presentavano però anche l’altra connotazione che abbiamo riconosciuto a Roma, cioè quella relativa alla sfera femminile. Secondo alcuni non sarebbe estranea all’accentuazione della connotazione guerriera della dea l’influenza della figura e del culto di Hera Argiva: i tratti più propriamente bellici sarebbero dunque successivi rispetto a quelli muliebri primordiali. Lasciando da parte il problema, non si possono tuttavia sottovalutare le profonde affinità sussistenti tra Giunone e la sua omologa greca, ov-

38 Quanto all’Etruria, non è da escludere che il ruolo preponderante di Uni potesse avere a che vedere con il particolare status della donna nella società etrusca, per cui si è parlato di Mutterkultur: cfr. RALLO 1989. 39 Tale fusione è presumibilmente personificata dalle Iunones Iterduca e Domiduca: i Romani spiegavano gli epiteti rispettivamente come «colei che conduce la sposa al matrimonio» e «colei che conduce la sposa alla sua nuova casa». Tuttavia la valenza originaria dovette essere originariamente militare, sfera alla quale i termini iter e -duca sono spesso correlati: cfr. Aug. De civ. Dei, VII 3; Mart. Cap. II 149; PALMER 1974, 38. GIANNELLI 1942, 214, mette in relazione i due epiteti con la luce lunare che avrebbe permesso ai viandanti di seguire il proprio cammino. 40 Anche negli altri casi documentati (Mons Albanus, Segni e forse Cori) il culto della dea è localizzato sulle acropoli: LA ROCCA 1990, 832–833. Cfr. SABBATUCCI 1988, 189 sgg. 41 GIANNELLI 1999, 125. 42 Cfr. BIANCHI 1950; BIANCHI 1974; BARTON 1982. 43 Tac. Hist. IV 53; Vitr. I 7, 1; Plut. Q. R. 92; BRELICH 20103, 120. Falsa ma indicativa a posteriori del legame Giunone-alture l’etimologia proposta da PALMER 1974, 29: moneta madre Terra, e te, Giove, prendo a testimoni”. Quando nomina la Terra, tocca la terra con le mani; quando nomina Giove, alza le mani al cielo; quando dice di impegnarsi nel voto, si tocca il petto con le mani. Mi risulta che nei tempi antichi furono maledette le seguenti città: Stonios†, Fregelle, Gavi, Veio, Fidene, entro i confini d’Italia; inoltre Cartagine e Corinto, e molti altri eserciti e città nemiche in Gallia, in Spagna, in Africa, in Mauretania e in altre regioni, di cui parlano gli antichi annali. Di qui dunque ha origine la frase di

5.2. STORICITÀ DELL’EVOCATIO

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Virgilio per questa evocazione e spostamento di divinità: “uscirono tutti, lasciati i templi e gli altari, gli dèi...”; e per indicare che si trattava di numi tutelari, aggiunse: “su cui si reggeva questo impero”. E per mostrare, oltre all’evocazione, anche la forza della maledizione, in cui, come abbiamo detto, si invoca specialmente Giove, dice: “...l’aspro Giove ad Argo tutto / tra36 sferì” [Aen. II, 326–327] .

Lo scrittore, per sua stessa ammissione, attinse al quinto libro delle Rerum reconditarum di Sammonico Sereno,37 a loro volta debitrici dell’opera di un certo Furio, verosimilmente Lucio Furio Filo, intimo amico di Scipione.38 Questi fu forse anche uno degli auctores non specificati in cui Verrio Flacco trovò le notizie sull’evocatio riportate da Plinio 39 ed utilizzate presumibilmente anche da Plutarco40 e Sammonico.41 Si è proposto anche il nome di Cornelio Labeone, esperto di Etrusca disciplina, vissuto nel III sec. d. C.42 Da questo o da altri testi molto probabilmente lo stesso Virgilio conobbe il rito dell’evocatio. Infatti sia il commento di Servio, sia la trattazione più esauriente di Macrobio, hanno come punto di partenza il medesimo passo virgiliano (Aen. II 351–352): Excessere omnes adytis arisque relictis / di, quibus imperium hoc steterat. 43 Il vate mantovano poteva aver certamente rinvenuto un episodio analogo in Omero,44 ma non è da escludere una conoscenza più diretta del rito alla luce degli eventi relativi all’assedio di Perugia del 40 a. C., in cui fu con tutta probabilità evocata la divinità tutelare della città, Iuno Perusina.45 Di più, la conoscenza poteva essere di prima mano poiché responsabile dell’evocazione della dea fu Augusto in persona. Anche l’etrusco Mecenate poteva essere ben informato circa lo svolgimento dei fatti, la cui eco e la cui portata, già di per sé notevoli – basti ricordare come molti (antichi e moderni) parlino in proposito di simbolo della fine del nomen Etruscum46 – potevano rivestire un particolare interesse per

36 Macr. Sat. III 9, 1–15. Su Macrobio, cfr. CRACCO RUGGINI 1979, 36, n. 91; PASCHOUD 1993, 709; sulla cronologia, in rapporto anche alla figura di Servio, cfr. PELLIZZARI 2003, 5, 15 sgg. 37 Su Sammonico Sereno, in particolare nell’opera di Macrobio, cfr. RAWSON 1973, 169. 38 Cfr. supra, par. 4.1.3. 39 N. h. XXVIII 18; cfr. KÖVES-ZULAUF 1972, 88. 40 Q. R. 61. 41 RAWSON 1973, 169. 42 GUITTARD 1998b, 64. 43 Serv. Ad Aen. II 351; Macr. Sat. III 9, 1 e 14; cfr. ANSALDI 1743, 4: Macrobii testimonio, nemo Marone nitide ac evidenter magis ad vetustissimum & occultissimum hoc sacrum respexit. Ille siquidem Trojae obisidionem & incendium, in Æneae narratione Didoni facta, Romano more, describens, victos non modo memorat Deos captos Penates, verum & quum jam moenia armatus hostis haberet, sese in arma praecipitem ferrentem Æneam, extremamque ad ultionem Socios ita hortantem inducit: “Iuvenes fortissima frustra Pectora, si vobis audentem extrema cupido Certa sequi quae sit rebus fortuna, videtis. Excessere omnes adytis arisque relictis Dii, quibus imperium hoc steterat”. Cfr. Serv. Ad Aen II 244: (…) Sane si peritiam Vergilii diligenter intendas, secundum disciplinam carminis Romani quo ex urbibus hostium deos ante evocare solebant hoc dixit; erant enim… 44 Cfr. ad es. Om. Il. XXII 213. 45 SORDI 1993. 46 Ibid., 191–192.

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5. GIUNONE CELESTE

Virgilio, orgoglioso della sua romanità ma ben consapevole allo stesso tempo delle origini etrusche della città nei pressi della quale era venuto al mondo.47 Non sembra comunque giustificato nutrire eccessivi dubbi sulla storicità dell’evocatio verificatasi a Cartagine al termine della terza guerra punica,48 così come è stato fatto tra gli altri da Georg Wissowa,49 seguito da Latte,50 Pfister51 e Gabba,52 i quali, sulla base della mancanza di tracce del culto di Giunone Celeste a Roma prima di Settimio Severo, ritengono la tradizione sull’evocatio una leggenda tarda.53 Anzitutto, Scipione si dimostrò scupoloso osservatore delle tradizioni religiose considerate come autenticamente romane,54 avendo in questo campo degli illustri modelli: Lucio Emilio Paolo e Publio Cornelio Scipione, entrambi auguri, il secondo anche membro del collegio dei Salii.55 Numerose cerimonie scandirono le varie fasi del conflitto: una delle più importanti fu la cosiddetta devotio hostium, la consecratio della città alle divinità infere.56 Nello specifico, anche se le uniche testimonianze della celebrazione di un’evocatio di fronte a Cartagine sono tarde, e manca una menzione in un testimone oculare quale Polibio (la sua narrazione ci è giunta in frammenti, ma è alla base del testo di Appiano), ben attestata è invece la celebrazione del rito che consentiva di radere al suolo un centro urbano, e ciò era possibile solo se gli dèi lo avevano abbandonato, quasi sempre perché evocati.57 5.2.2. Analisi del carmen evocationis Vi sono poi ragioni più propriamente linguistiche, legate alle caratteristiche del carmen evocationis, così come ci è stato tramandato da Macrobio. Per quanto sia stata avanzata la possibilità che esso possa costituire un nuovo assemblaggio da materiale preesistente, comunque antico,58 sembra infatti ormai un dato acquisito quello relativo alla sua autenticità e arcaicità.59 Carmen è qui inteso nel senso di «formula composta di certe parole ad un certo scopo»60, spesso a carattere ritmico,61 anche se il passo successivo alla sfera 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59

Aen. X 198 sgg.; cfr. Plin. N. h. III 130; PERRET 1952, 7–8. Cfr. PICARD 1954, 101. WISSOWA 19122, 374. LATTE 1960, 125, n. 2 e 346, n. 4. PFISTER 1966, 1162. GABBA 1990, 233, n. 133. Motivi di perplessità anche in RAWSON 1973, 169–172. Cfr. RAWSON 1973, 164–166; BERTI 1990, 71–72. Cfr. Plut. Aem. 3, 1 sgg.; Liv. XL 42, 13; XXXVII 33, 7; Polyb. XXI 13, 10. Ma cfr. VERSNEL 1976, 405. Su delle possibili eccezioni, cfr. infra. VERSNEL 1976, 387. ENGELBRECHT 1902; CATALANO 1965, 25, n. 41; VERSNEL 1976, 379 sgg.; COARELLI 1988a, 405–406; DUMÉZIL 20012, 369–370. 60 Per tutti i significati, cfr. LTL s.v. Per vari esempi di carmina, cfr. APPEL 1909, 8 sgg. 61 HICKSON HAHN 2007, 236.

5.2. STORICITÀ DELL’EVOCATIO

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del vaticinio, ma soprattutto del maleficio (excantatio) è assai breve.62 Esso costituiva anzitutto la componente più importante del più complesso rituale dell’evocatio. Macrobio ne fornisce alcune definizioni: mos vetustissimus, Romanus, arcanus, multis ignotus e annoverabile tra gli occultissima sacra. 63 Si fa riferimento dunque ad un rito ritenuto molto antico, con la componente di indeterminatezza che ciò comporta (arcanus), ma allo stesso tempo con una marcata componente «attiva» di segretezza per evitare che altri ne facessero un uso potenzialmente dannoso, principalmente ai danni della stessa Roma.64 Esso è ritenuto inoltre come autenticamente romano.65 Il carmen era quasi sicuramente custodito dai pontefici. Possiamo affermare ciò in primis per la menzione di una disciplina carminis Romani con il quale i Romani evocavano gli dèi dalle città nemiche.66 Il termine disciplina ha qui il valore di doctrina, scientia, sapientia, peritia, experientia; può averne anche uno più vincolante di leges civitatis.67 Ci si riferisce dunque ai possessori di conoscenze tecniche specifiche in campo religioso, gli stessi che ai primordi della storia di Roma erano competenti anche in campo giuridico:68 [ius civile] per multa saecula inter sacra caerimoniasque deorum immortalium abditum soli69 sque pontificibus notum.

La conferma arriva da Plinio, secondo il quale l’evocatio era un sacrum ancora ben conosciuto al suo tempo e custodito in pontificum disciplina.70 Il riferimento ai pontefici è rafforzato pure dalla doppia menzione che fa Servio, subito dopo aver parlato dell’evocatio, prima del ius pontificale (e di un rito analogo, l’exauguratio)71, poi della preghiera rivolta da loro a Giove Ottimo Massimo con la formula precauzionale sive quo alio nomine te appellari volueris.72 L. Peppe riconosce nel carmen la lingua tipica di fine III sec. – prima metà del II sec. a. C. innanzitutto per la grande somiglianza con la preghiera pronunciata da Scipione l’Africano a Lilibeo nel 204 a. C.73 Quanto a quest’ultima, la datazione è 62 FYNTIKOGLOU – VOUTIRAS 2005, 154; HICKSON HAHN 2007, 236. Sull’excantatio cfr. BASANOFF 1947, 34–37; ERNOUT 1964; BAISTROCCHI 1987, 251–258; RIVES 1995. 63 Sat. III 9, 1–2. Cfr. ORESTANO 1989, 31–32. 64 Cfr. MONTANARI 1994, 11; infra, capp. 12–15. 65 Cfr. ANSALDI 1743, 33: Heinc statim videt quisque, vehementiori erui momento, numquam usu habitam apud Orientales, Graecosque Tutelarium Numinum, hostilium in Oppugnationibus Urbium evocationem. Ibid., 34: verum ars eos [scil. Deos] evocandi propria fuit Romanorum. 66 Serv. Ad Aen. II 244. 67 TLL s.v. 68 Liv. I 20, 5; cfr. NORTH 1990, 563; CRIFÒ 20003, 187 sgg. 69 Val. Max. II 5, 2. 70 Plin. N. h. XXVIII 18. 71 Cfr. supra, par. 4.1.8. 72 Serv. Ad Aen. II 351. 73 Liv. XXIX 27, 2–4: «Divi divaeque», inquit, «qui maria terrasque colitis, vos precor quaesoque, uti, quae in meo imperio gesta sunt geruntur postque gerentur, ea mihi, populo plebique Romanae, sociis nominique Latino, qui populi Romani quique meam sectam, imperium auspiciumque terra mari que secuntur, bene verruncentem eaque vos omnia bene iuvetis, bonis auctibus auxitis; salvos incolumesque victis perduellibus victores, spoliis decoratos,

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stata effettuata sia sulla base di considerazioni linguistiche (ad es. l’uso del raro verruncare) sia di contenuto, come la presenza del sintagma populus plebesque, il cui unico precedente ricorre nei carmina Marciana. Egli propone quindi di datare il carmen devotionis all’avanzato III sec. e il carmen evocationis tra gli inizi del II sec. e il 146 a. C., sia pure con i possibili ammodernamenti morfologici. 5.2.2.1. Si deus si dea… Si deus si dea est, cui populus civitasque Charthaginienis est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti.

L’invocatio costituisce un momento essenziale nel rapporto con la divinità, in cui l’orante ne pronuncia il nome per richiamarne l’attenzione su quanto ci si accinge a chiederle.74 In questo caso troviamo al posto del teonimo la formula precauzionale si(ve) deus si(ve) dea. Essa sarà esaminata nel capitolo successivo in rapporto alla divinità ad essa più intimamente legata, il genius, così come ci si soffermerà sull’evidente riferimento a due divinità diverse, una invocata con si deus si dea, l’altra con ille. Basti qui accennare che, a mio parere, ci si rivolge da una parte al nume tutelare «presupposto» ed «immanente» del luogo, il genius loci, dall’altra alla divinità «scelta» in un momento successivo per proteggere la città, in questo caso Tanit-Iuno Caelestis.75 5.2.2.2. Precor venerorque... Precor venerorque veniamque a vobis peto.

Subito dopo l’invocatio, così come accade di consueto nel carmen, seguono uno o più verbi designanti la preghiera.76 Il verbo precor trae la sua origine dal linguaggio giuridico; ancora in Plauto l’uso del verbo precari è limitato alla sfera profana e si riferisce alla sfera semantica del «domandare»77. Tale considerazione urta solo apparentemente contro la presunta antichità del carmen evocationis: il «contratto» con gli dèi ha carattere pienamente giuridico oltre che religioso – attraverso il rito e il culto si preserva la fides del rapporto uomini-dèi. Sembra quasi superfluo inoltre aggiungere che, in verità, la distinzione tra i due piani non ha

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praeda onustos triumphantesque mecum domos reduces sistatis; inimicorum hostiumque ulciscendorum copiam faxitis; quaeque populus Carthaginiensis in civitatem nostram facere molitus est, ea ut mihi populoque Romano in civitatem Carthaginiensium exempla edendi facultatem detis». Il Peppe ipotizza poi, sempre sulla base di questo confronto, che si possa individuare una linea politica degli Scipioni volta da una parte a diminuire la forza della nozione di populus recependo ove possibile nelle formule termini alternativi (plebs) o politicamente meno forti (civitas), dall’altra a sottolineare l’elemento individuale (me meosque, militibusque meis, etc.): cfr. PEPPE 1990, 331 sgg. Cfr. GUITTARD 1998b. Cfr. infra, par. 11.2.5. Cfr. GUITTARD 1980. In generale sulla preghiera, cfr. FLASCHE 1990. SCHILLING 1954, 54; cfr. FYNTIKOGLOU – VOUTIRAS 2005, 153–154.

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senso se applicata alla realtà romana, vista la loro compenetrazione in essa. Le cose cambieranno solo con l’avvento del Cristianesimo.78 Le altre due componenti, veneror e veniamque a vobis peto, invece, più che a rapporti giuridici, si riferiscono ad un tipo di richiesta più vicina alla preghiera così come viene comunemente intesa, cioè un’elargizione ottenuta per condiscendenza divina, «gratuitamente»79, una supplica, una preghiera «pura»80. Anzitutto, Schilling ne ha dimostrato un’evoluzione diametralmente opposta rispetto a quella di precari: fino all’epoca imperiale il verbo è riservato esclusivamente agli dèi.81 Nello specifico, venerari tradurrebbe l’appello alla divinità, il sollecitare il dio con una certa tecnica, mentre venia (*venus) costituirebbe la risposta del dio all’orante, la sollecitazione soddisfatta, l’oggetto ottenuto,82 anche se appare ormai forse un po’ forzato assegnare ad entrambi un «accento irresistibile d’impresa magica e di supplica persuasiva»83. Dumézil parla in proposito di venus come dello «sforzo per accattivare i sensi o per orientare la volontà altrui, sia, più spesso, il risultato vittorioso di questo sforzo, la conquista senza violenza»84; secondo la valenza del verbo al medio in vedico – «vincere» – l’uomo non costringe o men che meno vincola gli dèi, bensì: «si sforza di conquistarli, di orientarli verso il proprio desiderio, con più affabilità, familiarità e rispetto di quanto non facciano le preghiere patteggiate del tipo “do ut des”»85. 5.2.2.3. Ut vos populum civitamque Carthaginiensem deseratis… Ut vos populum civitamque Carthaginiensem deseratis, loca templa sacra urbemque eorum 86 relinquatis absque his abeatis, eique populo civitati metum formidinem oblivionem iniciatis, proditique Romam ad me meosque veniatis nostraque vobis loca templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique populoque Romano militibusque meis propitii sitis.

L’elemento fisico nell’evocatio viene indicato con loca templa sacra urbs, mentre quello personale con populus e civitas; il punto di riferimento romano invece è indicato prima con Romam ad me meosque, poi con mihique populo Romano militi78 Cfr. ad es. PETTAZZONI 1966b. 79 Cfr. MONTANARI 1976, 191 sgg., sulla ricerca della venia elargita da Venus Erycina durante la seconda guerra punica. 80 DUMÉZIL 1987, 238; cfr. FYNTIKOGLOU – VOUTIRAS 2005, 154. 81 SCHILLING 1954, 37–59; cfr. DUMÉZIL 1987, 231–238. 82 Venia è termine propriamente pontificale: Serv. Ad Aen. I 519. 83 SCHILLING 1954, 55–56, che parla anche di «aspetto magico della captatio benevolentiae» (ibid. 56, n. 1). Cfr. BASANOFF 1947, 33. 84 DUMÉZIL 1987, 235–236. 85 Ibid., 236. 86 Cfr. Serv. Ad Aen. II 244: INSTAMUS TAMEN subaudiendum “quamquam sonitum dederunt, tamen instamus”. INMEMORES inprovidi, aut non memores oraculorum. Quidam inmemores “dementes” accipiunt, quoniam memoria in mente consistit. Sane si peritiam Vergilii diligenter intendas, secundum disciplinam carminis Romani quo ex urbibus hostium deos ante evocare solebant hoc dixit; erant enim inter cetera carminis verba haec, eique populo civitatique metum, formidinem, oblivionem iniciatis; unde bene intulit inmemores caecique furore, tamquam quos dei perdiderant.

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busque.87 Civitas indica qui la multitudo hominum, vale a dire tutta la popolazione cittadina.88 Agli dèi di Cartagine viene richiesto di infondere nella popolazione metus, formido e oblivio. La formido è il timore che si prova davanti ad un simbolo, una presenza, ma anche timore religioso; il metus è la paura, in più di un senso.89 Gli abitanti, nonostante il pericolo incombente, si trovavano in questo momento ancora al sicuro all’interno delle mura. Dopo la conquista e ormai alla mercè dell’esercito romano il metus si trasformerà nella devotio in terror, una paura più profonda perché accompagnata da tremore, pallore e battito dei denti.90 Quanto all’oblivio, si può intendere una «dimenticanza» delle divinità tutelari da parte della popolazione, sia dovuta alla paura e allo stato miserevole in cui ci si trovava, sia infusa dalle divinità stesse, come ha ritenuto Dumézil.91 Secondo lo studioso francese, nell’economia del rito una parte rilevante sarebbe stata giocata dalla necessità per gli dèi di non venir meno alla fides nei confronti dei loro fedeli, per rompere la quale avrebbero appunto indotto negli animi di questi metus, formido e oblivio. Quest’ultima avrebbe comportato un ripudio dei tuti nei confronti dei tutores, liberandoli da qualsivoglia obbligo di natura “contrattuale” e consentendo loro di abbandonare la vecchia dimora in favore di Roma. Tale tesi è tuttavia a mio parere fondata su un presupposto errato, che cioè la divinità, se avesse rifiutato l’invito del generale romano ad agire in questo modo, sarebbe stata presa prigioniera assieme alla città protetta. Come si avrà modo di vedere nel caso di Minerva Capta, infatti, gli dèi non potevano essere prigionieri, se non da altri dèi o comunque con il determinante aiuto degli stessi; nel resto dei casi il dio agiva di propria iniziativa.92 Alla luce del suo punto di vista, Dumézil propende dunque per la lezione proditi (la parola è corrotta nel testo), interpretandola come «abbandonati» perché «dimenticati», facendolo derivare non da pro-dere, bensì da prod-ire.93 Successivamente, gli dèi dovranno trovare maggiormente graditi i loca, i templa e i sacra, ma soprattutto la città che li accoglierà, Roma, ed essere propitii94 al generale, al popolo romano e ai soldati.

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PEPPE 1990, 329–330. Gell. N. A. XVIII 7, 5; cfr. PEPPE 1990, 334, n. 101. Cfr. PEPPE 1990, 338. Cic. Tusc. IV 8, 19. DUMÉZIL 1985, 141 sgg. Cfr. infra, cap. 7. DUMÉZIL 1985, 142–143; cfr. HEUSSLER 1979. Da respingere la lezione propitii al posto di proditi: cfr. ENGELBRECHT 1902, 481. 94 Anche quest’ultimo termine ha generato dei dubbi e di conseguenza altre proposte d’interpretazione, quali propositi e praepositi: cfr. RAMMINGER 1986.

5.2. STORICITÀ DELL’EVOCATIO

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5.2.2.4. Si ita feceritis… Si ita feceritis, ut sciamus intellegamusque, voveo vobis templa ludosque facturum.

Se gli dèi manifesteranno in modo chiaro l’accettazione del voto, esaudendo la richiesta contenutavi, riceveranno quale ringraziamento templi e giochi. Un dato da sottolineare con forza è che, anche se gli obblighi rituali venivano portati a termine alla perfezione e senza errori e il voto apparentemente era accettato, ciò non comportava necessariamente l’obbligo da parte della divinità di esaudirlo. 95 Il contratto era stipulato tra due controparti assolutamente non sullo stesso piano, non dunque bilaterale in senso proprio: il modello che forse può avvicinarsi di più a questo rapporto è quello intercorrente tra patronus e cliens.96 L’uomo non era in condizione di esigere alcunché né di forzare la divinità ai suoi voleri, come non si verificava completamente neanche per le formule c. d. «magiche» dell’excantatio e della defixio.97 L’eventuale rottura non era certo imputata al dio, bensì a demeriti umani, unica causa dell’ira divina e della conseguente rottura della pax deorum. Da qui l’importanza e il potere attribuito alla parola, non per costringere, ma per assolvere correttamente senza errori o approssimazioni alla propria parte nel dialogo con l’essere divino.98 Solo la controparte umana, secondo il diritto divino, era obbligata a mantenere gli impegni presi all’atto della pronuncia del votum, rimanendo voti reus o voti (voto) damnatus99 sino alla dedicatio, la consegna pubblica al dio. 100 La sola libertà che aveva l’uomo era di non offrire alla divinità quanto pattuito se il voto non veniva esaudito.101 Anche l’espressione do ut des, che spesso ricorre nei testi, va dunque applicata correttamente,102 tenendo sempre a mente il margine d’azione e di libertà riservato alla divinità. Potremmo al massimo concedere un certo grado di «seduzione» alla proposta da parte dell’uomo,103 ma nulla di più: altrimenti, non vi sarebbe alcuna differenza rispetto ad una formula magica.104 I Romani godevano del favore degli dèi perché ad essi sottomessi: Dis te minorem quod geris, imperas: hinc omne principium, huc refer exitum.105

95 Cfr. NORTH 1990, 569; BLOMART 1997, 99; MONTANARI 2001, 182; FYNTIKOGLOU – VOUTIRAS 2005, 157; RÜPKE 2007a, 4. 96 NORTH 1990, 570, che vede in questo rapporto la caratteristica di «una transazione di tipo quasi-giuridica» (sic); cfr. GRIMAL 1948, 176. 97 Cfr. tra gli altri DUMÉZIL 20012, 370; GRAF 2005; GRAF – FOWLER – NAGY 2005. 98 FYNTIKOGLOU – VOUTIRAS 2005, 161. 99 Cfr. WISSOWA 19122, 382; RÜPKE 2004, 180–183. Gli dèi potevano anche sollecitare lo scioglimento del voto con dei fulmini, detti postularia fulgura. 100 Sull’importanza del votum nella vita politica e religiosa romana, cfr. ORLIN 1997. 101 BELAYCHE 2007, 285. 102 Cfr. HOHEISEL 1990. 103 DUMÉZIL 20012, 370. 104 SABBATUCCI 1988, 137; cfr. LE GALL 1976, 521; MONTANARI 1993c, 271. 105 Hor. Carm. III 6, 5–6.

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5. GIUNONE CELESTE

5.2.2.5. In eadem verba hostias fieri oportet… In eadem verba hostias fieri oportet auctoritatemque videri extorum, ut ea promittant futura.

Mentre si pronuncia il carmen evocationis, si devono sacrificare delle vittime, anche se non meglio specificate (a differenza di quanto accadrà per il c. devotionis); il plurale hostias va riferito verosimilmente all’esigenza di una corretta litatio e alla ripetizione del sacrificio in caso di vittime non adatte.106 Il momento dell’esame degli exta – in particolare, presumibilmente, del caput iocineris107 – è importante almeno quanto la pronuncia del carmen. Esso viene effettuato secondo le regole dell’extispicina etrusca,108 altro dato indicativo circa la verosimile vetustà del testo tramandatoci da Macrobio (senza volerci pronunciare su un’origine etrusca del rito)109. L’esame delle viscere costituisce la prima e più importante conferma della buona disposizione del dio; come abbiamo visto sopra, vi potevano essere successivamente altri momenti, come la riuscita della conquista, una preghiera e/o un sacrificio dinanzi alla statua di culto e il buon esito del trasporto di questa a Roma. All’esame degli exta è riferito un termine particolare, auctoritas. Come si è visto sopra in merito all’episodio del ratto degli exta, il senso che compare nelle XII tavole è quello di «diritto di possesso»110. Tuttavia, in seguito, con la codificazione del rito, il significato diventa piuttosto quello di «garanzia» giuridico-religiosa dell’esaudimento della richiesta da parte del dio: la controparte umana ha fatto tutto quello che si poteva per ottenere l’assenso e la benevolenza della divinità; rimane solo da lanciare l’assalto alle mura civiche ed eventualmente, in un secondo momento, dedicare quanto pattuito. Se dunque di garanzia si parla, va esclusa la valenza di «pressione giuridica»111 – sostitutiva della costrizione “magica” dell’excantator – sia, in una certa misura, la già proposta perfetta equiparazione ad un contratto bilaterale: piuttosto «avis motivé» che impegna solo colui che propone il «contratto»112. Per tutte le considerazioni precedenti, inoltre, sfumerei l’asserzione del Guittard secondo cui è da escludere un cambiamento d’idea da parte della divinità.113 Infine, sono da segnalare anche le proposte degli studiosi circa il significato da assegnare all’espressione ea promittant futura. Basanoff ha proposto di riferirla agli exta, nel senso che le viscere donate al momento dell’evocatio costituiscono 106 GUITTARD 1998b, 65. 107 Ibid. 108 Cfr. WISSOWA 19122, 418–419; SCHILLING 1962; PALLOTTINO 19847, 332 sgg.; TORELLI 1986, 210 sgg.; GUITTARD 1998b; MANSUELLI 1998, 107–108, 115–116, DUMÉZIL 20012, 551 sgg.; PRESCENDI 2007, 39–41. BASANOFF 1947, 38, è invece dell’avviso che in questo momento non si proceda ad alcuna pratica di extispicina. 109 Come ritiene ALVAR 1985, 262–263; contra GUITTARD 2002, 30; cfr. in generale GUITTARD 1998b. 110 Cfr. GUITTARD 1998b, 61. 111 BASANOFF 1947, 39. 112 GRIMAL 1948, 176. 113 GUITTARD 1998b, 66–67.

5.3. DOPO CARTAGINE

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la garanzia di altri sacrifici futuri al dio e dunque del culto.114 Grimal invece la riferisce a verba, spostando la «garanzia» alla recitazione del carmen.115 Guittard, dal canto suo, è dell’avviso che si voglia intendere la «garanzia» divina che quegli eventi si verificheranno.116 5.3. DOPO CARTAGINE 5.3.1. Il problema del trasporto della statua di culto Scipione non dedicò alcun tempio alla dea di Cartagine, forse per la mancata traslazione a Roma della statua. Tuttavia, è stato ipotizzato che il tempio ad Ercole eretto nel Foro Boario durante la censura esercitata nel 142 possa riferirsi al votum del carmen evocationis.117 In effetti tra le divinità portate a Roma vi poteva benissimo essere stato anche il (semi)dio che i Greci assimilavano al Melqart fenicio e il cui culto aveva ricevuto un significativo incremento ad opera dei Barcidi.118 I rapporti tra Ercole-Melqart e Tanit-Astarte sarebbero d’altronde molto stretti, se si accetta l’identificazione, proposta da Coarelli, delle figure acroteriali della seconda fase del tempio arcaico nell’area di S. Omobono con queste due divinità.119 Quel che è certo è che, secondo i termini del voto, Scipione indisse alla fine della guerra dei ludi di ringraziamento;120 Orlin ipotizza che la mancata dedica di templi da parte degli Scipioni possa spiegarsi con la maggiore pubblicità offerta dai ludi al generale, per di più con molta meno enfasi sul ruolo del dio cui un eventuale tempio sarebbe stato dedicato.121 Quanto alla statua di Giunone Celeste, non possiamo asserire con certezza se sia stata trasportata a Roma, come avveniva solitamente a seguito di un’evocatio. Si possono fare due ipotesi, entrambe possibili, vale a dire: la statua fu trasportata a Roma e temporaneamente ospitata in un tempio, forse quello di Giunone Moneta,122 indi riportata a Cartagine in occasione della fondazione della colonia Iunonia Karthago nel 123 a. C. da parte di Gaio Gracco123 in solo dirutae 114 BASANOFF 1947, 39; dello stesso avviso BLOMART 1997, 99. 115 GRIMAL 1948, 175. 116 GUITTARD 1998b, 64–65: «il faut que soit constatée la garantie des entrailles de façon que ces entrailles assurent que ces événements se produiront». 117 BERTI 1990, 73. 118 Cfr. PICARD 1964. Secondo BERTI 1990, 73, ulteriori indicazioni in questo senso sarebbero la popolarità di Ercole nelle dottrine pitagoriche, cui né l’Africano né gli Emilii erano estranei, e una deliberata imitatio Paulli dell’Emiliano, poiché proprio ad Ercole Emilio Paolo rivolse delle preghiere prima della battaglia di Pidna (Polyb. XXIX 18; Plut. Aem. XIX 2–3). 119 COARELLI 1988a, 233 (con ulteriore bibliografia). Sui rapporti tra Giunone ed Ercole, cfr. DURY-MOAYERS – RENARD 1981, 188 sgg.; DURY-MOAYERS 1984, 84 sgg. 120 Liv. Per. 51; App. VIII 20, 135. 121 ORLIN 1997, 66–75. 122 LE GALL 1976, 523. 123 App. VIII 20, 136; cfr. CUMONT 1897, 1248; BASANOFF 1947, 66; ZECCHINI 1983, 152; BERTI 1990, 74–75; DELLA CORTE 1985, 757. A conferma di un sicuro trasferimento della statua a Roma, COARELLI 1988a, 406, adduce i paralleli di Apollo Caelispex, di Ercole e verosimil-

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Carthaginis,124 oppure rimase in terra africana, in qualche sede provvisoria.125 Margherita Guarducci ritiene che nel 146 a. C. si sia avuto un trasporto metaforico a Roma, cioè delle sole tradizioni e pratiche religiose;126 di fatto i dati inducono a ritenere come certa la permanenza di Giunone Celeste nella sua città fino ad Elagabalo.127 Quanto all’iconografia, la dea era solitamente ritratta seduta in trono o a cavallo di un leone, con degli attributi caratteristici: fiore, colomba, crescente lunare e corona turrita, carattere distintivo delle divinità tutelari cittadine.128 Il nome della colonia, com’era accaduto poco più di cento anni prima nel caso di Falerii,129 palesa la volontà di porre il nuovo abitato sotto la protezione della “sua” dea.130 Tuttavia, Giunone Celeste è in realtà il nome della dea al termine del processo di progressiva interpretatio da parte dei Romani. All’altro capo vi è il nome propriamente cartaginese, Tanit, l’Astarte punica.131 5.3.2. La Tanit cartaginese e l’interpretatio della dea a Roma Tanit era la divinità tutelare di Cartagine.132 Dal V–IV sec. a. C., inoltre, essa aveva assunto anche il ruolo di dea suprema del pantheon cartaginese, a scapito di Baal Hammon.133 Il tempio della dea, fondato secondo la tradizione da Didone,134 era il più importante della città e si trovava sull’acropoli, Byrsa; lo circondava un boschetto sacro.135 Altre sue denominazioni furono Dea (o Diva) Caelestis, Virgo Caelestis o semplicemente Caelestis.136

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mente di Iuppiter Africus; egli non esclude neanche che in occasione della deduzione coloniale graccana potesse essere coinvolto un altro simulacro, diverso da quello originario. Liv. Per. 60. Cfr. Hor. Carm. II 25–28: Iuno et deorum quisquis amicior / Afris inulta cesserat impotens / tellure: victorum nepotes / rettulit inferias Iugurthae; Ov. Fast. VI 37–46; RAWSON 1973, 171. VERSNEL 1976, 383; HALSBERGHE 1984, 2204. GUARDUCCI 1946–1948, 12. Cfr. infra. HALSBERGHE 1984, 2214; LA ROCCA 1990, 856; BULLO 1997, 272. Liber col. 217. HALSBERGHE 1984, 2209, ritiene invece che il nome della colonia sia stato all’origine della denominazione Iuno Caelestis. La bibliografia su Tanit è vasta: in generale si vedano CUMONT 1897; GIANNELLI 1942, 223; HALSBERGHE 1984; LA ROCCA 1990, 837–839. Una resa più fedele del nome sarebbe Tinnit: cfr. HALSBERGHE 1984, 2203. La divinità era anche nume tutelare di altre città o regioni: cfr. HALSBERGHE 1984, 2206. Su Astarte, cfr. BONNET 1996. Sul rapporto Astarte-Tanit a Cartagine, cfr. HUSS 1999, 93. CUMONT 1897, 1247–1248. Sull’importanza della dea si confronti l’affermazione di Ulpiano (Lib. Sing. Regul. XXII 6): Deos heredes instituere non possumus …nisi Caelestem Salinensem Carthagini. Sul rapporto Tanit-Astarte a Cartagine, cfr. BONNET 1996, 97–105. HALSBERGHE 1984, 2205; HUSS 1999, 91–92. Secondo alcuni tale avvicendamento fu favorito dal carattere incruento del culto di Tanit, diversamente da quello di Baal: cfr. ZECCHINI 1983, 151. Su Baal, cfr. in generale XELLA 1991; XELLA 1994. Verg. Aen. I 446–449; Herod. V 6, 4. Ov. Fast. VI 45; Apul. Met. VI 388 ; Verg. Aen. I 441. Sugli altri titoli, cfr. CUMONT 1897; GUARDUCCI 1946–1948, 12–13; ZECCHINI 1983; HALSBERGHE 1984, 2204 sgg.; BULLO 1997.

5.3. DOPO CARTAGINE

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L’identificazione con Giunone, se forse fu facilitata anche dalla tendenza delle divinità semitiche ad una poco accentuata individualizzazione,137 dovette certo procedere in modo decisivo dall’essere la dea punica contemporaneamente divinità poliade,138 guerriera139 e della fertilità:140 se infatti quest’ultimo tratto, tipico di Astarte, consentiva di accostarla a divinità analoghe come Venere, Cerere, Fortuna, Bona Dea e Cibele (ma anche ad Atena e Diana per la verginità: da questa peculiarità forse pure l’alternanza Iuno-Virgo)141, tuttavia le sue caratteristiche, prese tutte insieme, portavano inevitabilmente ad identificarla con Giunone, l’unica dea del pantheon romano a possederle tutte allo stesso tempo.142 Analogamente, Giunone era la suprema divinità femminile, paredra di Giove, così come Tanit lo era di Baal Hammon e poi di Saturno.143 La variegata complessità dell’interpretatio di Giunone con Tanit-Astarte è offerta dagli straordinari e ormai celeberrimi rinvenimenti del tempio B di Pyrgi, in cui alla Uni del testo etrusco corrisponde nel fenicio Astarte.144 Se accettiamo inoltre la valenza uranica di Giunone Regina proposta dal Giannelli, avremmo un ulteriore punto di contatto tra la dea italica e quella africana, vera regina caelorum145 (ma anche pluviarum pollicitatrix)146. Un rapporto con il regno potrebbe presumersi infine anche da un episodio dell’Historia Augusta, in cui Celso, un usurpatore africano dell’epoca di Gallieno, fu peplo deae Caelestis ornatum.147 Dopo la conquista di Cartagine, il culto di Caelestis, già diffuso nel Mediterraneo Centrale, specialmente nelle aree già sottoposte al dominio punico, si diffuse ulteriormente, giungendo sino in Britannia e in Dacia. Nel 46 a. C., a causa dell’adesione dell’Africa ai Pompeiani, venne meno il riferimento alla dea nel nome della città, per cui la colonia fu ribattezzata Colonia Iulia Concordia Karthago.148 137 CUMONT 1897, 1249; HALSBERGHE 1984, 2204. 138 Spesso è ritratta con la corona turrita: BULLO 1997, 272; un’epigrafe di Cirta (CIL VIII 6943) la chiama C. Fortuna (= Tyche). 139 Tratto questo probabilmente indigeno: ZECCHINI 1983, 150. 140 CUMONT 1897, 1249–1250; cfr. ZECCHINI 1983, 161. 141 CUMONT 1897, 1249; BULLO 1997, 270. Cfr. Apul. Met. VI 4: Magni Iovis germana et coniuga … quae te virginem vectura leonis caelo commeantem percolit … 142 GIANNELLI 1942, 223, ritiene invece che l’identificazione Tanit-Giunone a Roma non abbia riguardato l’aspetto poliadico. Cfr. BRELICH 1968, 143. 143 HALSBERGHE 1984, 2204–2205, anche sulla confusione e la compresenza dei diversi nomi ed appellativi.Tanit poté essere interpretata anche come Cibele: FERRON – SAUMAGNE 1967– 1968, su una triade romana Saturno, Cibele, Esculapio come interpretatio Romana di quella punica Baal Hammon, Tanit, Eshmoun. 144 Sul testo, cfr. da ultimo BATTAGLINI 2001. La bibliografia in merito è notevole. Si vedano a titolo esemplificativo: BLOCH 1968; BLOCH 1969; PYRGI 1970; BLOCH 1972; FERRON 1972; PALMER 1974, 43–50; DUMÉZIL 1980, 129–138; PICCIRILLI 1980, 424 sgg.; COLONNA 1981; DURY–MOAYERS – RENARD 1981, 196 sgg.; PALLOTTINO 19847, 270 sgg.; COLONNA 1984– 1985; COARELLI 1988a, 231 sgg.; LA ROCCA 1990, 816. 145 GIANNELLI 1942, 223. 146 Tert. Apol. XXIII 6; cfr. Aen. I 80; IV 120 e 160 sgg. 147 HA XXX Tyrann. 29. 148 Plut. Caes. 57; Paus. II 1, 2; C. Dio XLIII 50, 3; App. VIII 20, 136.

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Si è supposto che proprio Cesare abbia dato impulso ad un processo di marginalizzazione della dea, supportando la ripresa del culto di Baal e relegandola in riva al mare, presso le saline, da cui l’epiteto Salinensis, o forse limitando i privilegi connessi con il culto.149 Augusto, in ogni caso, si preoccupò di continuare l’opera di rilancio della città, deducendo una nuova colonia di 6000 abitanti e riconoscendola civitas libera. 150 Secondo Carandini, tra la distruzione delle città punica e la fondazione della colonia augustea (29 a. C.) non vi sarebbe traccia di alcuna vita urbana, non potendosi addurre come prova di ciò la centuriazione.151 In proposito, è interessante notare come per la groma per la limitatio delle centurie fu collocata sulla Byrsa, l’acropoli, in cui si trovava il tempio della Caelestis. I primi documenti non letterari di un culto della dea a Roma si possono datare al I sec. d.C.152, mentre l’apice viene toccato tra il II e il III sec. d. C. Nel corso del II secolo le dediche alla dea aumentano notevolmente sia in numero sia in importanza: valga per tutti quella trovata a Roma, a NE dell’Arx, datata al 259,153 importantissima tra l’altro perché ci consente di fissare il punto d’arrivo ideale del processo di identificazione di Tanit con Giunone: la costruzione del tempio dedicato alla dea. Molto indicativa è infatti la sua presunta ubicazione, il mons Tarpeius: ci troviamo dunque sul Campidoglio, più precisamente sull’arce, dalla parte del Foro Olitorio, dunque all’interno del pomerio.154 L’iscrizione del 259, insieme ad altre due, inoltre, non sono state scoperte in giacitura primaria, quindi si è supposta una loro provenienza dall’Arx.155 A questa potrebbe riportare anche il fatto che il tempio della dea a Cartagine era sede di un famoso oracolo: si volle dunque forse collegare la dea al luogo di culto della sua omologa, Giunone Moneta, da cui venivano presi gli auguria, mutatis mutandis gli “oracoli” romani.156 Un ulteriore argomento a sostegno di questa ubicazione, invero alquanto debole, è fornito dal Basanoff, secondo cui la confusione di Valerio Massimo circa gli epiteti della dea di Veio, chiamata Iuno Moneta, insieme alla frase sed ipsam caelo Iunonem petitam, sarebbe l’esito della consapevolezza che anche Iuno Caelestis fu petita da Cartagine e di una conoscenza di una fonte che ne menzionava l’evocazione.157

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ZECCHINI 1983, 152–153, 163. App. VIII 20, 136; DELLA CORTE 1985, 757. CARANDINI 1984, 53. CIL VI 780; cfr. LA ROCCA 1990, 837; COARELLI 1988a, 406; sul culto in Italia, cfr. CUMONT 1897, 1248. CIL VI 37170 = ILS 4438. Non dunque dalla parte dell’attuale Ara Coeli, interpretata dal Gatti come esito di Ara Caelestis: cfr. GUARDUCCI 1946–1948, 12 sgg.; LA ROCCA 1990, 837. Da escludere pertanto anche una connessione con l’exoratio della II guerra punica, come invece ritiene BASANOFF 1947, 65. Va detto infine che in età tarda dovette venir meno la rigidità circa l’impossibilità di erigere un tempio di una divinità straniera all’interno del pomerio: Iside ad esempio riceverà un tempio proprio sul Campidoglio: cfr. STAMBAUGH 1978, 595. GUARDUCCI 1946–1948, 13 sgg.; CORDISCHI 1993, 207. GUARDUCCI 1946–1948, 12; GIANNELLI 1993, 127. Sulle caratteristiche fondamentali della “divinazione” romana, cfr. in generale SANTI 2008. Per HALSBERGHE 1984, 2221, l’oracolo sarebbe un’innovazione romana. BASANOFF 1947, 47.

5.3. DOPO CARTAGINE

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Coarelli è invece dell’avviso che la posizione del sacello della dea vada connessa al Capitolium, più precisamente alle pendici del colle sovrastanti il vicus Iugarius, dalla parte dunque dell’area di S. Omobono.158 Ciò per vari motivi: il collegamento con Iuppiter Africus; l’epiteto di praesentissimum numen loci montis Tarpei, che ricorda l’analoga localizzazione del santuario capitolino della Fortuna Primigenia;159 il legame degli Scipioni con il Capitolium. Egli ne conclude che fu quest’ultimo ad essere considerato in età imperiale come il mons Tarpeius. Ulteriore indicazione in questo senso sarebbe l’epiteto triumphalis attribuito alla dea in due iscrizioni: se per alcuni esso è un semplice termine cultuale senza connessioni con il trionfo,160 per Coarelli invece conferirebbe alla dea le caratteristiche di dea del trionfo e della vittoria, rimandando all’evocatio e al trionfo di Scipione.161 Un forte impulso al culto della dea giunse, e non a caso, dal primo imperatore africano, Settimio Severo.162 In alcune monete, databili al 203–204, la dea simboleggia la città di Cartagine, cui l’imperatore conferì il ius Italicum. Un episodio decisivo avvenne sotto il regno di Elagabalo, che ordinò di portare nell’Urbe il simulacro di Tanit, al fine di celebrare sul Palatino le nozze tra la dea e il dio di Emesa.163 Il tempio sul Campidoglio fu dunque restaurato o costruito per volere di questo imperatore, al fine di dare una degna dimora alla nuova consorte del nume di cui egli era sacerdos amplissimus.164 La dea ricevette anche un culto pubblico, officiato da sacerdoti e sacerdotesse specifici, detti canistrarii e sacrati, probabilmente ordinati secondo una ben stabilita gerarchia.165 Come si è accennato poco fa, sappiamo inoltre che il santuario africano di Caelestis ospitava un noto oracolo, attestato per la prima volta sotto il regno di Antonino Pio, in un periodo di ripresa e rinnovata espansione del culto della dea.166 La fine del culto di Caelestis a Roma può essere messa in relazione con il saccheggio del tempio

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COARELLI 1988a, 406–407. CIL XIV 2852: Tu, quae Tarpeio coleris vicina Tonanti. GUARDUCCI 1946–1948, 16. Anche per gli epiteti conosciuti solo a Roma di Invicta (CIL VI 77–78) e di Victrix (CIL VI 756). Altro segnale in questo senso sarebbe per Coarelli i vari collegamenti tra Caelestis e la Fortuna Redux, quindi tra l’Astarte punica e quella che lo studioso considera un’altra divinità ad essa identica: COARELLI 1988a, 406–408. HALSBERGHE 1984, 2210–2211. C. Dio LXXIX 12; Herod. V 6, 4; cfr. ZECCHINI 1983, 160–163; HALSBERGHE 1984, 2213. Alla luce della notizia di Erodiano (V 6, 3) sul trasferimento del Palladio da parte dell’imperatore, GROß 1935, 94, suppone l’intenzione di creare una nuova triade rispetto alla capitolina Giove – Giunone – Minerva, cioè Baal – Caelestis – Minerva. MUNDLE 1961; ZECCHINI 1983, 162; CORDISCHI 1993, 207. Nel caso di una costruzione ex novo, HALSBERGHE 1984, 2214, suppone che inizialmente la statua fosse stata ospitata nell’Elagabalium; egli inoltre ipotizza (ibid., 2220), senza tuttavia addurre alcuna prova, che il santuario fosse stato costruito sul modello imperante in Oriente e nell’Africa Settentrionale. In generale sulla politica religiosa di Elagabalo, cfr. PIETRZYKOWSKI 1986. HALSBERGHE 1984, 2215–2219. HA V. Macr., III 1–4. Sulle testimonianze relative, in generale ZECCHINI 1983, 153 sgg.; secondo HALSBERGHE 1984, 2221, l’oracolo sarebbe un’innovazione romana.

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5. GIUNONE CELESTE

nel IV–V sec. d. C. per la costruzione di un altro edificio nel Foro Olitorio.167 Il tempio di Cartagine fu distrutto nel 421, sotto Flavio Costanzo, alla luce dell’insuccesso dei tentativi di cristianizzarlo.168 Nel V secolo vi erano ancora alcuni fedeli della dea, tra cui una setta di Caelicolae.169 5.4. IL RAPPORTO TRA EVOCATIO E DEVOTIO Dopo che gli dèi sono stati evocati con successo e hanno abbandonato la loro dimora, si può procedere a devovere la città, cioè a consacrarla alle divinità infere: alla distruzione “religiosa” della città, non più tale senza i propri dèi, segue dunque la distruzione fisica.170 Il rito della devotio è particolarmente celebre in relazione alle gesta dei Decii Mures, ma vi è una netta distinzione tra il rituale riguardante il sacrificio del generale durante la battaglia – la devotio ducis – e la distruzione della città dopo la conquista – la devotio hostium, ma potremmo definirla anche devotio urbis – come ha ben messo in luce il Versnel.171 Se infatti la figura del pronunciante e alcuni degli dèi destinatari del rito sono gli stessi, lo scopo è invece ben diverso: la prima riguarda la persona del generale e l’esercito nemico, la seconda il territorio nemico con tutto ciò che vi si trova all’interno, dagli edifici alla popolazione.172 Il magistratus cum imperio (dictator o imperator) invoca gli dèi inferi, Dis Pater, Veiovis173 e i Manes, chiedendo loro di infondere il terrore ai nemici e di distruggere sia questi che le loro proprietà, entrambe consacrate a quegli dèi; si chiede inoltre la salvezza del titolare dell’imperium e dell’esercito da lui comandato.174 Il votum, una volta esaudito, verrà sciolto con il sacrificio di tre pecore nere. Vengono infine presi a testimoni Tellus e Iuppiter.175 Come nel precedente carmen compaiono delle «formule precauzionali»: sive quo alio nomine fas est nominare, quem (quos) me sentio dicere,176 quisquis e ubiubi, ma, a differenza di esso, l’individuazione dei destinatari è qui «pedissequa» ed «analitica»177.

167 168 169 170 171 172 173 174 175 176 177

GUARDUCCI 1946–1948, 20. ZECCHINI 1983, 166–167. Salvian. De gub. Dei, VIII 2–3; Filastr. Divers. heres. XV. Che le due non si equivalgano è dimostrato in modo chiaro dal caso di Troia e di Roma, risorta questa dopo la distruzione e la messa in salvo dei sacra a Caere: cfr. BRUUN 1972, 113. VERSNEL 1976, anche per la differente valutazione del termine nella storia degli studi. Cfr. WINKLER – STUIBER 1957; RÜPKE 1990, 156–161; MONTANARI 1993b; GRAF 2005, 262–265. VERSNEL 1976, 407 sgg., ipotizza che la d. ducis sia posteriore alla d. hostium, consistendo essa in due riti in origine separati: una devotio dell’esercito nemico più un’auto-consecratio del generale romano. Inoltre essa sarebbe stata praticata solo in pochi casi. Cfr. SABBATUCCI 1988, 21–22. Cfr. Liv. VIII 9, 6–8 (devotio di Decio Mure nel 340 a. C.); VERSNEL 1976, 401 sgg. Cfr. GUITTARD 1980, 398–399; GUITTARD 1998a, 90–92. Cfr. ENGELBRECHT 1902, 481; HICKSON HAHN 2007, 240–241, sull’analoga forma «intendiamo», che sottolinea l’interesse del pronunciante ad evitare possibili fraintendimenti o errori. PEPPE 1990, 335.

5.4. IL RAPPORTO TRA EVOCATIO E DEVOTIO

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È molto interessante notare anche il cospicuo novero dei casi di città devotae riportato da Macrobio, secondo la testimonianza dei testi da lui consultati: Stonios [ma il testo è corrotto], Fregellas, Gabios, Veios, Fidenas, haec intra Italiam, praeterea Carthaginem et Corinthum, sed et multos exercitus oppidaque hostium Gallorum, Hispanorum, Afrorum, Maurorum aliarumque gentium quas prisci loquuntur annales.

Molte città furono dunque devotae e distrutte, in Italia e fuori.178 Visto che certamente per Cartagine e molto probabilmente per le altre città la devotio fu preceduta da un’evocatio, possiamo respingere la considerazione di Wissowa e Basanoff, secondo i quali la seconda fosse riservata alle urbes fondate Etrusco ritu, e circoscritta dunque alle città dell’Etruria e del Latium vetus; ciò risulterà ancor più chiaro del resto quando esamineremo il caso dell’evocatio della divinità tutelare di Isaura Vetus.179 Dal testo inoltre sembra di poter arguire che Scipione sia stato protagonista anche di un’altra devotio, quella di Numantia, la cui caduta nel 133 a. C. sancì la fine della resistenza dei Celtiberi e la definitiva sottomissione dell’Hispania. 180 Solo i dictatores e gli imperatores potevano votare sacralmente la città: tale puntualizzazione costituisce un’ulteriore conferma della notizia di Plinio secondo cui l’evocatio era di competenza dei sacerdoti, presumibilmente pontefici. Anche quando era compito del magistrato pronunciare la preghiera, egli lo faceva su suggerimento del sacerdote competente.181 Inoltre, la distinzione di Macrobio ha senso solo se è un’altra persona a recitare il carmen evocationis; se fosse stato lo stesso generale a farlo, l’autore non avrebbe avuto bisogno di specificare che solo i dictatores e gli imperatores potevano pronunciare la formula della devotio, oppure avrebbe dato tale notizia all’inizio della trattazione: «Lo stesso troviamo a Roma [rispetto all’evocatio ittita]: secondo il passo sopra citato di Plinio, Verrio Flacco attribuiva basandosi sulle sue fonti l’evocazione ai sacerdotes e Macrobio, il quale non dice nulla al riguardo, lo presuppone tacitamente quando evidenzia in proposito 182 che solo i dittatori e gli imperatori possono eseguire la devotio» .

Ancora, proprio la confusione che vigeva in merito ai due rituali in età tarda può indurre a ritenere che allora si credesse che fosse il solo generale a rapportarsi alla divinità tutelare della città assediata, come accade già in Livio, nel cui racconto della presa di Veio è il solo Furio Camillo ad agire. Quanto al legame evocatio-devotio, non mi sembra corretto affermare che ad un’evocatio seguisse immancabilmente una devotio, reale, giuridica o simbolica,183 o, viceversa, che ogni devotio fosse sempre preceduta da un’evocatio.184

178 179 180 181 182 183

Cfr. VERSNEL 1976, 380 sgg. Cfr. infra, cap. 9. ASTIN 1967, 125 sgg.; GABBA 1990, 230–231. FYNTIKOGLOU – VOUTIRAS 2005, 154, 166. Cfr. BOUCHE-LECLERQ 1907, 571. Cfr. WOHLEB 1927, 207 (trad. mia); cfr. FERRI 2006, 215. VERSNEL 1976, 381; PEPPE 1990, 342, n. 128; BLOMART 1997, 101.

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Possiamo affermare ciò alla luce del fatto che, da una parte, una città privata dei suoi dèi poteva non essere distrutta, come abbiamo rilevato nel caso di Veio, dall’altra per la presenza nelle fonti di casi di abbandono volontario di una città da parte dei propri dèi prima della conquista.185 Inoltre diversi sono i destinatari: da una lato la divinità tutelare della città, dall’altro gli dèi inferi.186 Si veda finalmente l’affermazione del Rüpke: «Nel contesto di questo rituale offensivo [l’evocatio] rientra anche la devotio di eserciti e città nemiche, che termina dopo la vittoria con la consecratio del territorio nemico. Dato che tuttavia questa devotio non mostra alcun interesse per i sacra nemici, essa non ha alcun legame 187 concettuale con l’evocatio» .

184 LE GALL 1976, 524; corretta dunque la posizione di KÖVES-ZULAUF 1972, 89, del quale non si può condividere tuttavia il carattere «magico» attribuito alla devotio: cfr. MONTANARI 1993b, 201. 185 Cfr. SCHWENN 1920–1921, 312; GUITTARD 1989, 1243; BURKERT 2005, 273. 186 KÖVES-ZULAUF 1972, 89, n. 91. 187 RÜPKE 1990, 164 (trad. mia).

6. GIUNONE CURITE 6.1. LA DIVINITÀ TUTELARE DI FALERII VETERES 6.1.1. La dimora della dea Non vi è più alcun dubbio sul fatto che l’insediamento di Falerii Veteres vada identificato con l’odierna Civita Castellana, 1 anche se il nome con cui ci riferiamo all’abitato antico è in realtà una creazione degli studiosi moderni e non trova riscontro nelle fonti antiche, in cui compaiono diversi toponimi;2 lo stesso vale per Falerii Novi. Useremo dunque i nomi invalsi negli studi recenti solo per comodità, identificando la città antica ovviamente con Falerii Veteres e la nuova con Falerii Novi. Il sito di Civita Castellana è posto su di uno sperone tufaceo che si innalza sulle valli del Treia e degli altri corsi d’acqua che in esso confluiscono in quest’area. L’aspetto geomorfologico del colle è in linea con le caratteristiche topografiche della maggior parte degli insediamenti sia del Bronzo medio e recente, sia e soprattutto del Bronzo finale relativi all’Etruria meridionale: oltre alla presenza di acque perenni, quindi, collocazione su alture ben difese naturalmente e munite di difese artificiali nei punti potenzialmente più vulnerabili.3 L’imprendibilità della città è forse riflessa nell’etimologia che fa derivare il toponimo da fale, col significato di oppidum;4 inoltre fala aveva anche il significato di «torre»5. 6.1.2. L’epiteto Anche la protettrice di Falerii era (una) Giunone,6 sul cui epiteto tuttavia non vi è accordo nelle fonti. Troviamo infatti: Curitis, Curritis, Quiritis e Curis.7 Tale varietà sembra riflettere la molteplicità delle funzioni attribuite dalle fonti alla dea, come è possibile d’altronde constatare ogni qual volta si tratti di Giunone: divinità poliade, dunque, ma anche guerriera e con evidenti legami con la sfera femminile: 1 2 3 4 5 6 7

Cfr. in generale CORRETTI 1987; MOSCATI 1990, anche e soprattutto per le vicende storiche dell’insediamento urbano; da ultimo OPITZ 2009. Cfr. CORRETTI 1987, 324, 331 sgg., anche sulla storia della ricerca archeologica. MOSCATI 1990, 141–142, 153–154. Paul. Fest. 81 L: Faleri oppidum a Fale dictum; Paul. Fest. 78 L: Falae dictae ab altitudine, a falado, quod apud Etruscos significat caelum, e poco più avanti, s. v. falarica: ex falis, id est ex locis exstructis. Cfr. Plut. Cam. 9, 2; 10, 1; BASANOFF 1947, 97 sgg. Serv. Ad Aen. IX 705. CIL XI 3100; 3125; 3126. Solo BASANOFF 1947, 106, ipotizza essere stata (anche) una Fales. Cfr. AUST 1901; GIANNELLI 1942, 218–219, 226; EISENHUT 1963; DURY-MOAYERS – RENARD 1981, 161–165; CORRETTI 1987, 326.

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6. GIUNONE CURITE 8

matronae Iunonis Curitis in tutela sunt.

Più varianti dell’epiclesi significano più etimologie, proposte sia dagli antichi che dai moderni, ovvero: Cures, curis, currus, quirites e curia.9 Radke, come Dumézil,10 paragona Iuno Curitis alla Iuno Sospita Mater Regina di Lanuvio, ma, dopo aver rilevato le possibili somiglianze esteriori – l’iconografia le ritraeva entrambe armate di scudo e lancia11 – ipotizza un’affinità più profonda a livello semantico: considerato che i nomi terminanti in -tis si riferiscono spesso ad abstracta, e verificato il significato di «soccorso, aiuto» per l’epiteto Sispita, lo studioso tedesco fa derivare Curitis (*cursitis) da *cursire, *cursis, quindi currere, inteso come «aiutare, correre in aiuto», dunque con il medesimo significato riferibile alla dea di Lanuvio.12 Vi è poi l’etimologia riferibile alla città sabina di Cures, come si legge ad esempio in uno scolio a Persio (IV 26): Curibus: quod nomen loci est unde et Iuno Curitis dicitur quia ibi vehementer colitur.

Ciò ha portato tra l’altro il Basanoff ad ipotizzare che la dea, non appartenente al pantheon locale, sia stata ivi importata e la sua unicità in territorio sabino abbia fatto sì che assumesse l’epiclesi di Curitis.13 Il culto sarebbe poi stato importato di lì anche a Falerii. Tuttavia, questa ipotesi presuppone una «sabinità» originaria della città da non dare invece per scontata. Già in antico infatti vi erano posizioni discordanti circa l’appartenenza etnica dei Falisci: oltre alla supposta provenienza da Argo, su cui torneremo, essi sono detti anche duo Etruriae populi (insieme ai Capenati)14, quasi certamente per gli stretti vincoli con Veio,15 oppure entità etnica a sé stante.16 La posizione attuale rileva gli indubbi caratteri di originalità della civiltà falisca, inserendoli tuttavia in un contesto di influenze esterne soprattutto etrusche.17 Varrone riporta l’etimologia a curis, la parola sabina usata per designare l’hasta, la lancia;18 anche in Festo Curis appare con frequenza come l’appellativo riferito alla dea: 19

Iunoni, quae Curis appellata est.

8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19

Paul. Fest. 55 L. Fonti e bibliografia in DURY-MOAYERS – RENARD 1981, 162–165. DUMÉZIL 1954, 117. Sul «tipo», cfr. LA ROCCA 1990, 819–822; cfr. DURY-MOYAERS 1984. RADKE 1965, 102. BASANOFF 1941, 126–127; ma cfr. EISENHUT 1963, 1325. Plin. N. h. III 51, narrando fatti accaduti durante l’assedio di Veio. Falisci e Capenati potevano occasionalmente partecipare anche alle riunioni dei populi Etruschi ad fanum Voltumnae: Liv. V 16, 6. Diod. XIV 96, 5. Cfr. PALLOTTINO 19847, 275 sgg.; CORRETTI 1987, 342–344. Varr. ap. Dion. Hal. II 48, 4. Paul. Fest. 56 L; cfr. ibid. 43 L; 55 L.

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6.1. LA DIVINITÀ TUTELARE DI FALERII VETERES

In età tarda, invece, Tertulliano afferma che l’epiteto sarebbe derivato da un non meglio identificato Pater Curris.20 Dionigi di Alicarnasso attribuisce a Tito Tazio il culto di una Iuno Curis o Quiris in ognuna delle trenta curiae create da Romolo.21 Del culto facevano parte l’offerta di acqua e vino22 e il sacrificio su mensae curiales, una per ogni curia: 23

Curiales mensae in quibus immolabatur Iunoni, quae Curis appellata est.

Il Palmer interpreta la presenza di queste trenta Giunoni come il residuo di una molteplice evocatio avvenuta al momento dell’istituzione del sistema curiato.24 Tale ipotesi appare comunque inverosimile per una serie di considerazioni, che esporremo brevemente qui di seguito. Alla stessa organizzazione «curiata» appartenevano anche i Fornacalia, la festa della torrefazione del farro, elemento di capitale importanza economico-religiosa ai primordi di Roma: farris torrendi feriae.25 Anch’essa era festeggiata dalle singole curie, ciascuna in una propria giornata e in un proprio spazio nel Foro, e non poteva spingersi oltre il 17 febbraio, giorno dei Quirinalia. Il dio Quirino era in stretta relazione con le curie: il suo nome (quirinus da *co-virinus) è una forma aggettivale derivata da curia (*co-viria)26. Siamo quindi in un contesto cultuale riferibile ad una fase ancora gentilizia della storia di Roma.27 Non a caso, nel medesimo periodo si celebravano anche i Parentalia, l’unica festa dei morti dedicata esplicitamente agli antenati (parentes)28. Tutto ciò per dire che le Iunones Quirites, molto probabilmente, ricevettero il loro nome e l’incarico di tutelare le singole curie all’atto di nascita delle stesse o poco dopo, esclusivamente da ciò traendo la ragione della loro «creazione», senza che vi sia alcun bisogno di ipotizzare una loro evocatio da altri luoghi. Contro questa considerazione urta anche il fatto che l’epiclesi è attestata sia a Falerii che a Beneventum.29 Inoltre, sarebbe strano che, pur provenendo da luoghi diversi, nessuna di queste Giunoni avrebbe conservato nel nome una nota distintiva «locale». Infine, così come le none di ottobre riguardano le curie, lo stesso avviene alle calende dello stesso mese, in cui si celebrava il culto del cosiddetto Tigillum Sororium, dedicato a Iuno Sororia e Ianus Curiatius.30 Se pertanto in questo giorno vi sembra essere una divisione di competenze tra le due divinità, il 7 ottobre esse si riuniscono probabilmente in una sola figura, Iuno Quiritis, protettrice dunque dei viri riuniti (co-viri) in curie (co-virie), ma, per le sue caratteristiche 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30

Tert. Apol. XXIV 8. Cfr. BASANOFF 1947, 107 sgg.; EISENHUT 1963, 1330. Dion. Hal. II 50; cfr. EVANS 1939, 217 sgg.; PALMER 1970, 152 sgg.; PALMER 1974, 5. Paul. Fest. 56 L; Mart. Cap. II 149. Paul. Fest. 56 L; Dion. Hal. II 50, 3. PALMER 1970, 180–181. Plin. N. h. XVIII 8. Cfr. BRELICH 20103, 159 sgg.; SABBATUCCI 1988, 60–63. In generale su Quirino e le problematiche ad esso legate, BRELICH 1960; KOCH 1960b; RA2 DKE 1981a; SABBATUCCI 1988, 63 sgg; DUMÉZIL 2001 , 224–245. SABBATUCCI 1988, 65. Cfr. Ibid., 48. CIL XI 3125; IX 1547. Dion. Hal. III 22, 7–9; Fest. 380 L; Paul. Fest. 399 L; SABBATUCCI 1988, 318 sgg.

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peculiari, con una speciale protezione per la parte delle popolazione da cui lo stato poteva e doveva attendersi la propria sicurezza e accrescimento, i iuvenes. Ciò potrebbe costituire anche un riflesso cultuale della collatio civitatis tra Romani ed Albani a seguito della contesa tra Orazi e Curiazi, ma anche della realizzazione del novus ordo voluto da Tullo Ostilio, ottenuto creando la Curia Hostilia, dinanzi alla quale le curiae veteres perderanno la loro importanza, che rimarrà solo a livello cultuale.31 Ma giova tornare alla dea oggetto della nostra trattazione. In proposito, useremo per comodità l’epiteto di Curitis/Curite poiché è quello ritenuto il più plausibile dagli studiosi moderni, ferma restando la difficoltà di potersi pronunciare con certezza sulla questione.32 È certo comunque che le diverse forme fossero equivalenti per i Romani, come risulta evidente dai Fasti, nei quali al 7 ottobre troviamo sia Iovi fulguri [I]unoni Curriti in campo, sia Iovi fulg(uri) Iunoni Q(uiriti) in camp(o).33 6.1.3. Il culto Non possediamo alcun documento figurato con l’iconografia della dea.34 Diversamente da Giunone Regina, tuttavia, abbiamo delle testimonianze scritte, dalle quali apprendiamo che la dea era ritratta con la lancia in mano: 35

Curitim Iunonem appellabant, quia eandem ferre hastam putabant;

di più, lo si è visto, l’hasta era detta in sabino curis: [Iuno Curitis]… quae ita appellabatur a ferenda hasta, quae lingua Sabinorum curis dici36 tur.

L’aspetto guerriero sarebbe accentuato inoltre accettandone l’identità con la Curitis di Tivoli – città che, analogamente alla capitale dei Falisci, vantava origini argive37 – rappresentata con lo scudo e su un currus.38 Si vedano anche le notizie di Servio: Iuno Curitis, tuo curru clipeoque tuere meos curiae vernulas;

39

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…est Curitis, quae utitur curru et hasta.

31 Varr. De l. L. V 155: Curiae duorum generum; nam et ubi curarent sacerdotes res divinas, ut curiae veteres, et ubi senatus humanas, ut curia Hostilia. Cfr. MONTANARI 1990b, 21–82; PASQUALINI 1996, 231–232. 32 GIANNELLI 1942, 218–219; EISENHUT 1963, 1324. 33 Lo stesso sembra accadere a Falerii: cfr. CIL XI 3100; 3126. 34 Per le proposte di identificazione in rilievi, monete e sculture, cfr. LA ROCCA 1990, 835. 35 Paul. Fest. 43 L. 36 Paul. Fest. 55 L. 37 Cfr. infra. 38 Cfr. EISENHUT 1963, 1331; LA ROCCA 1990, 836. 39 Serv. Ad Aen. I 17. 40 Ibid. 8; cfr. ibid. IV 59.

6.1. LA DIVINITÀ TUTELARE DI FALERII VETERES

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È invece ormai un dato acquisito identificare il Tempio di Giunone Curite con quello portato alla luce nel 1886 dal Cozza, il cui scavo fu pubblicato l’anno successivo dal Pasqui.41 Esso è sito in località Celle, su di un altopiano separato da una gola, scavata dal Rio Maggiore, dalla collina di Vignale, in cui si sviluppò l’abitato più antico di Falerii Veteres. Purtroppo il pessimo stato di conservazione, dovuto anche alla secolare azione distruttrice del corso d’acqua prospiciente la parte anteriore dell’edificio, ha generato più di una discussione circa l’esatta fisionomia della pianta, di volta in volta considerata a tre celle, ovvero ad una cella con alae laterali.42 Quel che è certo, tuttavia, è che il santuario avesse dimensioni grandiose, degne della divinità poliade della capitale di una realtà politica di non trascurabile importanza quale la falisca. Inoltre, in conformità con la natura geologica dei luoghi dell’Etruria Meridionale – frequenti le formazioni tufacee di origine vulcanica – e l’uso di origine etrusca di incanalare le acque per raccoglierle e conservarle, nel tempio di Celle si osserva la presenza di un bacino rettangolare di fronte alla cosiddetta «abside» e di una vasca davanti all’edificio.43 Entrambi erano alimentati da cunicula e vi sono stati rinvenuti numerosi materiali votivi, tra cui degli ex voto anatomici.44 L’acqua costituiva dunque una parte integrante del complesso cultuale, ed era usata verosimilmente a fini lustrali e salutari.45 Lo stesso avveniva, ad esempio, a Veio nel tempio di Portonaccio e presumibilmente in quello di Giunone Regina,46 ma anche a Volsinii nel tempio della «Venere di Cannicella»47. Per quel che riguarda più propriamente il culto, abbiamo un’interessante testimonianza di Dionigi di Alicarnasso, dal quale risulta evidente che esso riguardasse particolarmente le donne, in veste di sacerdotesse.48 Ancor più notevole è quanto tramanda Ovidio, che assistette in prima persona al rito celebrato in onore della dea nel suo tempio presso Falerii, città natale della moglie.49 Dal poeta di 41 PASQUI 1887. In generale sul tempio, BASANOFF 1941, 111 sgg.; COMELLA 1986, 177. 42 Sulla pianta, cfr. COMELLA 1986. 43 Lo stesso sistema di cunicoli, vasche e cisterne è osservabile nei due santuari posti sull’altura di Vignale: cfr. MOSCATI 1990, 155 sgg. 44 COMELLA 1986, 181 sgg. 45 Plin. N. h. II 230; cfr. BASANOFF 1941, 117, 132 sgg. 46 Cfr. FERRI 2010a, cap. IV, par. 3. 47 BASANOFF 1947, 76–77; STOPPONI 1985. 48 Dion. Hal. I 20–21. 49 Am. III 13: Cum mihi pomiferis coniunx foret orta Faliscis, / moenia contigimus victa, Camille, tibi. / Casta sacerdotes Iunoni festa parabant et celebres ludos indigenamque bovem; / grande morae pretium ritus cognoscere, quamvis / difficilis clivis huc via praebet iter. / Stat vetus et densa praenubilus arbore lucus; / adspice – concedas numen inesse loco. Accipit ara preces votivaque tura piorum – ara per antiquas facta sine arte manus. / Hinc, ubi praesonuit sollemni tibia cantu, / it per velatas annua pompa vias; / ducuntur niveae populo plaudente iuvencae, / quas aluit campis herba Falisca suis, / et vituli nondum metuenda fronte minaces, / et minor ex humili victima porcus hara, / duxque gregis cornu per tempora dura recurvo. / Invisa est dominae sola capella deae; / illius indicio silvis inventa sub altis / dicitur inceptam destituisse fugam. / nunc quoque per pueros iaculis incessitur index / et pretium auctori vulneris ipsa datur. / Qua ventura dea est, iuvenes timidaeque puellae / praeverrunt latas veste iacente vias. / Virginei crines auro gemmaque premuntur, / et tegit auratos palla superba pedes; / more patrum Graio velatae vestibus albis tradita supposito vertice sacra fe-

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Sulmona apprendiamo che esso comprendeva giochi solenni, una processione composta da giovani e giovanette (che cantavano anche degli inni)50, dalle sacerdotesse del culto e ovviamente dal simulacro della divinità. Vi era poi il sacrificio di giovenche bianche, di un maiale e di un ariete, oltre ad un rito più cruento in cui si cacciava una capra, che andava in premio al giovane che riusciva a ferirla.51 Il rituale era forse avviato da una fanciulla nubile detta kanephoros,52 ma esisteva anche un pontifex sacrarius Iunonis Curritis. 53 A partire dalla descrizione ovidiana, si è identificato il luogo di culto da cui prendeva le mosse la processione nell’area in fondo al Fosso dei Cappuccini, in cui infatti si trovano un altare, una vasca e tracce di una strada abbastanza impervia che conduce al santuario di Celle.54 6.2. LA PROBABILE EVOCATIO DELLA DEA 6.2.1. La guerra del 241 a. C. Da questo tempio fu verosimilmente evocata la dea. In proposito, è opportuno accennare allo svolgimento dei fatti storici. La capitale dello stato falisco fu assediata ed espugnata una prima volta da Camillo nel 394 a. C., in ritorsione degli aiuti portati a Veio per tutta la durata dell’assedio,55 conclusosi solo due anni prima con la conquista e il saccheggio della potente rivale.56 Ma le operazioni non durarono a lungo: nelle fonti l’evento risolutivo è attribuito, con poca verosimiglianza storica, al noto episodio del tradimento del maestro di Falerii,57 episodio che potrebbe adombrare o costituire una ripetizione della deditio di un secolo e mezzo dopo.58 Vi furono poi altri scontri tra Falisci e Romani, intervallati da foedera e paci, fino alla tappa fondamentale costituita dalla conquista e distruzione della città da parte dei Romani nel 241 a. C., poiché nell’ultimo anno della prima guerra punica i Falisci si erano ribellati al giogo di Roma.59 Concluse le ostilità con Cartagine, furono inviati in territorio falisco due eserciti consolari che ebbero ragione dei

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runt. / Ora favent populi tum cum venit aurea pompa, / ipsa sacerdotes subsequiturque suas. / Argiva est pompae facies; Agamemnone caeso / et scelus et patrias fugit Halaesus opes / iamque pererratis profugus terraque fretoque / moenia felici condidit alta manu. / Ille suos docuit Iunonia sacra Faliscos. / Sint mihi, sint populo semper amica suo! Cfr. Dion. Hal. I 21, 2; supra, par. 4.2.3. Cfr. EISENHUT 1963, 1329–1330. Sul rapporto di Giunone con la capra, cfr. supra, par. 3.1.2. Dion. Hal. I 21, 2. CIL XI 3125; 3100. COMELLA 1986, 185. Cfr. Liv. V, 8–19; Plut. Cam. 2, 10. Liv. V 26–27; cfr. supra, cap. 4. Liv. V 27; Plut. Cam. 9–10. Georges Dumézil ha paragonato l’episodio sia con il mito vedico dell’Aurora sia con il rito romano dei Matralia: cfr. DUMÉZIL 1980, 93–102. Cfr. Liv. V 27, 12: victi a vobis et imperatore vestro dedimus nos vobis… In generale sul conflitto, le cause e gli eventi successivi, cfr. LORETO 1989; DI STEFANO MANZELLA 1990.

6.2. LA PROBABILE EVOCATIO DELLA DEA

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rivoltosi in sei giorni.60 La città fu presa d’assedio, che comunque non durò a lungo visto che i Falisci si arresero presto, dandosi in fidem, atto che molto probabilmente evitò l’asservimento, se non il massacro della popolazione.61 La resa fu accettata e i termini imposti furono la consegna delle armi, dei cavalli, degli schiavi e di oltre metà del territorio, annesso in qualità di ager publicus.62 Inoltre, la popolazione fu costretta a trasferirsi in un nuovo insediamento a circa 6 km dall’oppidum primitivo, Falerii Novi, i cui resti sono tuttora visibili, in primis la pregevole porta ad arco, perfettamente conservata, presso l’attuale località di S. Maria in Falleri.63 I consoli Quinto Lutazio Cercone e Aulo Manlio Torquato Attico celebrarono all’inizio del marzo 240 il trionfo,64 regolarmente riportato dai Fasti,65 ma del quale possediamo anche una testimonianza più singolare: un’iscrizione datatoria apposta sulla parte anteriore di una corazza bronzea da cavaliere facente parte del bottino di guerra di un soldato romano.66 Fu praticata un’evocatio prima dell’espugnazione della capitale falisca? Purtroppo non vi sono testimonianze in proposito, ma la cosa è in sé probabile. Anzitutto vi è il contesto bellico: Falerii dapprima si rivoltò, poi fu cinta d’assedio. L’essersi consegnata in fidem non evitò la distruzione della città67 (ma i templi più importanti furono risparmiati), e forse a questa decisione contribuì, oltre alla prospettiva di finire in catene o peggio, la diffusione della notizia della celebrazione del rito dinanzi alle mura, segno tangibile che gli dèi locali erano passati dalla parte dei Romani.68 Vi era d’altronde un parallelo molto indicativo, vicino nel tempo e nello spazio: la conquista e distruzione di Volsinii nel 265 a. C., dunque solo 24 anni prima e a non molta distanza dalla capitale falisca. La caduta della città etrusca, centro federale e religioso del nomen, doveva aver destato molto scalpore nelle menti dei Falisci, alleati storici degli Etruschi, in particolare di Veio. Al termine di quel conflitto era stato verosimilmente evocato Voltumna.69 Analogamente, non si doveva ignorare neanche la sorte di Veio, messa a ferro e fuoco dopo essere stata privata della sua Giunone.70 Inoltre, così come Veio 60 61 62 63

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Liv. Per. 20; Eutr. II 28. Val. Max. VI 5, 2; cfr. LORETO 1989, 723; DI STEFANO MANZELLA 1990, 344. Cfr. DI STEFANO MANZELLA 1990, 345. Zonar. VIII 18. Sullo status giuridico della nuova fondazione e la composizione dei suoi abitanti, cfr. DI STEFANO MANZELLA 1990. Non si comprende la motivazione che ha portato BERNARDI 1979, 98, ad ubicare il nuovo abitato nell’odierna Civita Castellana, in realtà sede dell’antico. Sui problemi relativi alla cronologia, cfr. LORETO 1989, 719–720; sull’eccezionalità del trionfo celebrato da entrambi i consoli, ibid., 728 sgg. InscrIt XIII.1, 549: Q(uintus) Lutatius C(aii) f(ilius) C(aii) n(epos) Cerco, co(n)s(ul) an(no) DXII / de Falisceis k(alendis) Mart(iis). / A(ulus) Manlius T(iti) f(ilius) T(iti) n(epos) Torquatus / Atticus, co(n)s(ul) an(no) DXII de Falisceis IV non(as) Ma[rt(ias)]. ZIMMERMANN 1986. Il testo recita: Q. Lutatio. C. F. A. Manlio. C. F. / Consolibus. Faleries. Capto. Il pezzo si trova al Getty Museum di Malibu. LORETO 1989, 722; DI STEFANO MANZELLA 1990, 365. Cfr. tuttavia Macr. Sat. III 9, 2 sull’evocatio come pratica segreta e sconosciuta a molti. Cfr. infra, cap. 8. Cfr. supra, cap. 4.

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6. GIUNONE CURITE

(all’epoca dell’assedio la città etrusca più potente), Volsinii e poi Cartagine, Falerii era la capitale di un’entità statale, per cui forse si considerò necessario procedere alla celebrazione di un’evocatio. 6.2.2. Il culto successivo a Roma e a Falerii Valga anche la considerazione che pure Giunone Curite ricevette un tempio a Roma, nel Campo Marzio: Iovi Fulguri Iunoni Quiriti in campo è l’annotazione in vari calendari al 7 ottobre.71 Ci troviamo dunque al di fuori del pomerio, dal che possiamo almeno supporre che la divinità fosse considerata straniera.72 Se è certa l’ubicazione del santuario nella zona del Campo Marzio, molto più incerta è l’identificazione del luogo preciso ed eventualmente il riconoscimento in strutture ancora conservate: Castagnoli lo aveva riconosciuto nel Tempio A dell’area sacra di Largo Argentina,73 ma tale ipotesi è stata rifiutata da Coarelli74 e Ziolkowski, il quale a sua volta aveva proposto come possibili resti del tempio quelli trovati nel 1877 sotto la demolita chiesa di S. Anna.75 Basanoff, dal canto suo, propende per il Tempio C di Largo Argentina, ai margini della Palus Caprae.76 La recente ipotesi del Manacorda, invece, prospetta la possibilità di identificare il tempio in uno dei due edifici rappresentati nella Forma urbis Romae del Lanciani (fr. 234b–c)77, e di collocarlo in stretta relazione con i templi di Vulcano e Iuppiter Fulgur, subito a S dell’area sacra di Largo Argentina e a O della cavea del theatrum Balbi.78 Pur con alcune differenze nella sistemazione della topografia del luogo, anche Coarelli ritiene di localizzare il tempio di Iuno Curitis alle spalle del Teatro di Balbo, sempre in stretta connessione con il tempio di Iuppiter Fulgur: entrambi gli dèi sarebbero stati evocati da Falerii.79 Nonostante il più che probabile trasferimento del simulacro a Roma, il culto della dea nel suo santuario di Celle non cessò. La presenza di ex voto databili alla seconda metà del III e al II sec. a. C., e, in modo più esauriente, le terrecotte architettoniche confermano la continuità del culto,80 anche se più modesto che in precedenza. Vi è anche un’iscrizione di età imperiale che fa cenno al lucus Iunonis Curitis.81 Non solo, ma, come abbiamo visto poco sopra, ogni anno si celebrava presso il tempio della dea il sontuoso rito cui assistette personalmente Ovi71 BASANOFF 1941, 136 sgg., ritiene che il testo mancante del calendario precesareo di Anzio al 1° giugno vada così integrato: IUNONI. IN. [CAMPO.], supponendo dunque che vi fosse un’altra festività dedicata a Iuno Curitis, risalente peraltro ad una fase precedente al conflitto con Falerii. 72 Cfr. ad es. infra, par. 8.2.2. 73 CASTAGNOLI 1946, 169–175. 74 COARELLI 1981, 43; COARELLI 20033, 338. 75 ZIOLKOWSKI 1992. 76 BASANOFF 1941, 139 sgg. 77 LANCIANI 1990–2007, tav. XXI. 78 MANACORDA 1999, 121. 79 COARELLI 1997, 211 sgg. 80 COMELLA 1986, 184. 81 CIL XI 3126.

6.2. LA PROBABILE EVOCATIO DELLA DEA

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dio. Anche il sito del primitivo insediamento continuò ad essere popolato, come testimoniano i ritrovamenti, anche se naturalmente la contrazione dell’abitato fu notevole.82 Le ipotesi circa il destino dei culti di Falerii dopo la distruzione della città variano considerevolmente. Hülsen ritiene che i Romani abbiano lasciato il culto e il tempio di Iuno Curitis sul posto, e abbiano invece portato a Roma i culti di Giano e Minerva. 83 Wissowa è invece del parere che Iuno Curitis sia stata evocata nel 241.84 Più articolata la posizione del Basanoff: il tempio nel Campo Marzio sarebbe stato dedicato nel 388 a. C. a seguito di un’exoratio, con la quale i Romani importarono il culto della dea e se ne assicurarono il sostegno senza evocarla, mentre l’evocatio vera e propria avrebbe avuto luogo più tardi, con la conquista della città.85

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MOSCATI 1990, 169–170; DI STEFANO MANZELLA 1990, 361; contra LORETO 1989, 722. HÜLSEN 1909, 1970. WISSOWA 19122, 49 e 187. BASANOFF 1947, 52 sgg.

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7. MINERVA CAPTA 7.1. UNA DEA PRIGIONIERA? 7.1.1. Un problema spinoso Una questione particolare, legata anche all’evocatio, riguarda la figura di Minerva Capta, giunta a Roma da Falerii nel 241 a. C. assieme a Iuno Curitis e Ianus Quadrifrons.1 Dando infatti all’epiteto il significato di «catturata», come fanno alcuni studiosi,2 ci troveremmo di fronte al compito di rispondere alla domanda: era possibile prendere prigioniera una divinità? La fonte che ci informa dell’esistenza di questa dea sono i Fasti di Ovidio, che fa derivare il particolare epiteto da caput o da capere.3 Questa particolare Minerva era stata portata a Roma dopo la conquista della sua città: da ciò dunque il suo particolare status di «prigioniera», forse perché aveva rifiutato di farsi evocare? Le ipotesi degli studiosi sono varie e contrastanti: L. Preller ritiene, con altri, che l’epiteto derivi dal fatto che la testa (caput) è la sede del pensiero.4 Altri invece intendono capta con «presa», «accettata»5. G. Radke ritiene che Capta fosse il vero nome e Minerva l’epiteto della divinità.6 Un’ipotesi interessante è anche quella di T. Köves-Zulauf,7 che ritiene che alla desinenza -ta sia da attribuire un significato attivo, come accade per altri epiteti:8 Capta starebbe di conseguenza per «l’accogliente»9. P. E. Huschke deduce dal fatto che nel 241 a. C. Falerii si 1 2 3

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MARTIN 1987, 52, ritiene che anche il Giano falisco abbia subito un’evocatio. Altre divinità molto venerate presso i Falisci erano anche Marte (cfr. Ov. Fast. III 89; Liv. XXII 1, 11; Plut. Fab. Max. 2, 2) ed Apollo sul monte Soratte (Verg. Aen. XI 785; Plin. N. h. XIX; Sol. II 26). Ad es. WISSOWA 1899; BRUUN 1972, 120; MONTANARI 1993c, 271; DUMÉZIL 20012, 272, 371. III 835–848: Caelus ex alto qua mons descendit in aequum, / hic, ubi non plana est, sed prope plana via, / parva licet videas Captae delubra Minervae, / quae dea natali coepit habere suo. / Nominis in dubio causa est. Capitale vocamus / ingenium sollers: ingeniosa dea est. / An quia de capitis fertur sine matre paterni / vertice cum clipeo prosiluisse suo? / An quia perdomitis ad nos captiva Faliscis / venit? et hoc signo littera prisca docet. / An quod habet legem, capitis quae prendere poenas / ex illo iubeat furta recepta loco? / A quacumque trahis ratione vocabula, Pallas, / pro ducibus nostris aegida semper habe! Cfr. LTL, s.v. PRELLER 1978, 260. Ad es. GUSTAFSSON 2000, 58. RADKE 1965, 81. KÖVES-ZULAUF 1993; cfr. FERRI 2006, 231–236. (Iuno) Februata, (Mater) Matuta, (Fortuna) Viscata: queste divinità hanno compiuto le azioni inerenti al loro epiteto, le possono sempre compiere e le compiranno: februare = purificare, *matuere = fare del bene, *viscare = invischiare. Cfr. TLL, s. v. capio, 330 sgg.

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7. MINERVA CAPTA

sia arresa e consegnata in fidem, non in potestatem, che non poteva aver avuto luogo alcuna cattura.10 7.1.2. Era possibile prendere prigionieri gli dèi? D’altronde, contro la consueta interpretazione di capta = prigioniera, linguisticamente ineccepibile, contrasta fondamentalmente la considerazione che il concetto di una divinità prigioniera costituirebbe un unicum nella storia antica. Esistono delle rappresentazioni di divinità avvinte come Era, Afrodite e Prometeo, ma in questi casi il dio è catturato da un altro dio;11 anche nel caso dell’imprigionamento di Pico e Fauno da parte di Numa, questi riesce nel suo intento solo conformemente al volere di Giove e con l’aiuto della ninfa Egeria.12 Da alcuni testi relativi alla conquista di città, tuttavia, si potrebbe ricevere l’impressione che fosse possibile prendere prigionieri anche gli dèi. Ad esempio, nella formula di deditio la città si dichiara pronta a divina humanaque omnia dedere.13 Molti includono nei divina non solo gli oggetti sacri e i doveri di culto, ma anche gli esseri divini, dato che humana comprende sia le cose che le persone. In secondo luogo, alla presa di una città è spesso associata la rimozione delle statue di culto, con o senza un’evocatio, e si parla anche di di ablati, di dèi «portati via»14. Infine, abbiamo precisa menzione di una categoria definita di dèi, gli dei captivi.15 L’elemento unificante di questi tre argomenti è costituito dalla statua della divinità: la possibilità di prendere prigioniero un dio è legata alla misura in cui si ritiene possano coincidere numen e simulacro.16 In nessun caso possiamo però parlare di identità. Solo la statua puo essere presa, e solo con il consenso della divinità: «La statua, solo la statua, può essere catturata, il dio da parte sua si muove di sua iniziativa, 17 libero, insieme al vincitore, quale suo adiutore divino» .

Macrobio ritiene che per i Romani fosse sacrilego prendere prigionieri gli dèi:18 proprio per questo in realtà questi di captivi non sono mai esistiti. Tertulliano parla di dei captivi intendendo verosimilmente quelli giunti a Roma in seguito a campagne belliche, distinguendoli da quelli “adottati” in tempo di pace. È da escludere quindi che presso i Romani vi fossero delle divinità prigioniere per definitionem, presso un popolo cioè che vedeva nella sottomissione agli dèi il 10 11 12 13 14 15 16 17 18

HUSCHKE 1970, 355 sgg. Cfr. Od. VIII, 267 sgg.; MEULI 1975, 1062 sgg.; ICARD-GIANOLIO 2004, 468–471. Ov. Fast. III 261 sgg.; sull’episodio, cfr. MORA 1994, 111–115. Liv. I 38; VII 31,3; XXVI 33, 12 sgg.; XXVIII 34, 7; cfr. RÜPKE 1990, 209–210. Liv. XXVI 30, 9; XXVI 33, 12 sgg.; XXVII 16, 7; Aug. De civ. Dei I 6; Serv. Ad Aen. VII 607. Tert. Apol. X 4 sgg.: …omnes istos deos vestros homines fuisse... nunc ego per singulos decurram, tot ac tantos, novos veteres, barbaros Graecos, Romanos peregrinos, captivos adoptivos, proprios communes, masculos feminas, rusticos urbanos, nauticos militares?. Cfr. VAN DOREN 1954, 494–497; in generale FUNKE 1981. KÖVES-ZULAUF 1993, 161; cfr. supra, par. 2.2.2. Macr. Sat. III 9, 2.

7.1. UNA DEA PRIGIONIERA?

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motivo principale del proprio successo.19 Se fosse stato possibile prendere prigioniero un dio insieme alla sua statua, inoltre, non si vede perché delle decine di divinità «prese» solo una sarebbe dovuta essere caratterizzata dall’epiteto Capta. È più probabile che la Minerva di Falerii avesse già l’epiteto che la caratterizzava. Resta pertanto da capire come essa lo abbia ricevuto. 7.1.3. Un tentativo di interpretazione È possibile che Minerva a Falerii potesse essere già da tempo «avvinta» da catene o legami di altra sorta, secondo un uso ben attestato nel mondo greco e nel Vicino Oriente, come ad esempio Artemide ad Efeso, Era a Samo e Apollo a Tiro.20 Anche a Roma vi era una statua di Saturno legata da corde di lana, che venivano sciolte in occasione dei Saturnalia;21 Elagabalo incatenò il Palladio nel tempio da lui costruito sul Palatino;22 la Tyche di Costantinopoli fu rappresentata incatenata.23 Le statue di culto erano legate per più motivi: per limitare o quantomeno tenere sotto controllo divinità considerate pericolose, per «liberare» la loro benevolenza in occasione della festa annuale loro dedicata,24 comprendente spesso anche una processione, oppure per il timore che il dio potesse abbandonare i propri protetti,25 anche a seguito di un’evocatio,26 stesso principio per cui la Nike di Atene era rappresentata senz’ali, a significare che non avrebbe mai dovuto abbandonare la città.27 Probabilmente furono queste rappresentazioni ad influire sul mito, non viceversa.28 Questa concezione giunse a Falerii molto probabilmente attraverso i rapporti con la Magna Grecia, che certamente vi furono, anche se mediati dagli Etruschi, i quali ebbero costanti ed intense frequentazioni con i Greci,29 sia pacifiche, in particolare nel corso della loro presenza in Campania,30 ma anche per il tramite degli scambi commerciali – ricordiamo ad esempio i rinvenimenti e le influenze osservabili nei porti di Tarquinia e Caere, Gravisca e Pyrgi – sia occasioni di scontro armato, come la battaglia di Cuma del 474 a. C., vinta da Ierone, e il sac19 Hor. Carm. III 6, 5: Dis te minorem quod geris, imperas. L’essenza della pietas è il riconoscimento dell’assoluta superiorità della natura divina; cfr. Cic. De nat. deor. I 45: praestans deorum natura hominum pietate coleretur; ibid. I 56: pie sancteque colimus naturam excellentem atque praestantem. 20 Su quest’ultimo, cfr. Diod. XVII 41, 7–8; Plut. Q. R. 61. Sull’argomento cfr. in generale MEULI 1975; ICARD-GIANOLIO 2004, 468–471. 21 Macr. Sat. I 8, 5; Stat. Silv. I 6, 4; su Saturno, cfr. BRELICH 20103, 113 sgg.; sui Saturnalia, SABBATUCCI 1988, 344–355. 22 HA III 4. 23 Fonti in MEULI 1975, 1081. 24 MEULI 1975, 1043. 25 Schol. Pind. Ol. VII 95. Cfr. ZIEHEN 1949, 186. 26 SCHWENN 1920–1921, 317; MEULI 1975, 1077. 27 Paus. III 15, 7. 28 SCHWENN 1920–1921, 319. 29 Cfr. BONGHI JOVINO 1986. 30 PALLOTTINO 19847, 135 sgg.

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7. MINERVA CAPTA

cheggio di Pyrgi nel 384 a. C. ad opera di Dionigi:31 due tiranni di Siracusa dunque, colonia di Corinto.32 I rapporti con la città dorica sono intensi in età orientalizzante (VII sec. a. C.) e si riflettono nella storia di Demarato, della famiglia aristocratica corinzia dei Bacchiadi, che, a seguito della presa di potere del tiranno Cipselo (657 a. C.) si sarebbe rifugiato a Tarquinia, imparentandosi poi con la nobiltà locale e avendo un figlio, Lucumone, che sarebbe poi diventato il re di Roma Lucio Tarquinio Prisco.33 Egli avrebbe insegnato agli Etruschi la scrittura e gli artisti al suo seguito avrebbero introdotto in Italia l’arte plastica.34 I Corinzi, i fondatori di Siracusa, appartenevano all’ethnos dorico, lo stesso di Argo. Proprio a questa città peloponnesiaca i Falisci facevano risalire le proprie origini: la città sarebbe stata fondata da un Halaesus/Halesus argivo, a seconda delle fonti considerato ora un compagno, ora un figlio bastardo di Agamennone, oppure figlio di Nettuno.35 Più di un autore individuava delle somiglianze tra Argo e Falerii, soprattutto esteriori e in ambito religioso,36 motivandole con la supposta origine argiva della città falisca; d’altronde nelle fonti è testimoniata con frequenza una diffusione del culto di Hera Argiva, dal Sele fino alla regione dei Veneti.37 Le analogie erano individuate nell’iconografia della dea, nel culto (sacrificio, funzione delle donne consacrate al culto, presenza di una kanephoros nubile destinata a dare principio al culto, cori di vergini), ma anche nell’aspetto dell’edificio di culto: il tempio era ritenuto simile all’Heraion di Argo, ed era analogamente orientato verso sud-est.38 Vi erano altri santuari di Hera in Magna Grecia considerati «argivi»: alle foci del Sele, non lontano da Poseidonia-Paestum e al capo Lacinio presso Crotone.39 Riassumendo, è possibile che Falerii, forse per il tramite etrusco, abbia accolto alcuni influssi del mondo greco, in particolare di ambito dorico, in alcuni usi e nel culto: troppe sono infatti le testimonianze per supporre uno sviluppo indipendente. Tra questi elementi vi dovette essere dunque anche la consuetudine di incatenare la statua di culto per evitare che abbandonasse la città, usanza diffusa sicuramente presso i Dori e le loro colonie, come testimoniano i casi dell’Artemide Orthia Lygodesma di Sparta e dell’Artemide Lyaia di Siracusa.40 Sulla scelta di Minerva non possiamo pronunciarci, tranne forse che per la considerazione che la «messa in catene» dovette essere necessariamente succes31 32 33 34 35 36 37 38 39 40

Cfr. Ibid., 202, 235. Sulla storia della colonizzazione greca in Italia cfr. MUSTI 19998, 179 sgg.; MUSTI 2005. Dion. Hal. III 46 sgg.; Strab. V 2, 2; Plin. N. h. XXXV 16; cfr. PALLOTTINO 19847, 180–181. Tac. Ann. XI 14; Plin. N. h. XXXV 152. Fonti in CORRETTI 1987, 323; la tradizione circa l’origine argiva è ben radicata a partire da Catone, e si riflette anche in epoca tarda su Falerii Novi, fondata secondo Sol. II 7 da un Falerius argivo, altrimenti ignoto. Va menzionato anche, in contesto militare, l’uso di armi di tipo «argolico». Dion. Hal I 21, 2; Ov. Am. III 13, 31. Anche la Iuno di Tibur è detta Argeia: CIL XIV 3556. Cfr. LA ROCCA 1990, 815–816. Dion. Hal. I 21; LA ROCCA 1990, 835. LA ROCCA 1990, 816. MEULI 1975, 1044 sgg.

7.1. UNA DEA PRIGIONIERA?

127

siva rispetto all’adozione di Giunone Curite quale divinità poliade. Infine, possiamo constatare come nella nostra fonte principale, Ovidio, Minerva non sia concepita né rappresentata in catene: egli non avrebbe certo fatto passare sotto silenzio un particolare così inconsueto.41 Tuttavia, il poeta di Sulmona la vide più di due secoli dopo, nel suo tempietto sul Celio,42 ovviamente libera da vincoli, necessariamente recisi per far sì che la dea fosse portata a Roma, anche con il grande effetto propagandistico che ciò dovette comportare. Togliendo all’epiteto della dea il suo significato negativo, in teoria potremmo ipotizzarne un’evocatio, come taluni hanno fatto,43 ma contro tale considerazione osta il fatto che la divinità poliade della capitale falisca era Giunone Curite: il rito è rivolto specificamente alla divinità tutelare della città.44

41 KÖVES-ZULAUF 1993, 159. Alcuni hanno proposto un paragone con l’episodio del ratto del Palladium da parte di Ulisse e Diomede, ma in verità in modo poco convincente: tra le discordanze il fatto che nel caso di Atena l’accaduto è un sacrilegio, che scatena l’ira divina e deve portare alla restituzione dell’idolo. Cfr. CANCIANI 1987. 42 Cfr. Varr. De l. L. V 47: Caeriolense (…) circa Minervium qua in Caelium montem itur. Si è supposto che il sacello fosse posto nell’area della chiesa dei SS. Quattro Coronati: BASANOFF 1947, 51; GIRARD 1989, 164, che ipotizza inoltre essere stato il 19 marzo il dies natalis del tempio. 43 LE GALL 1976, 522; TORELLI 1986, 169; COARELLI 1997, 216. 44 La questione in realtà coinvolge due divinità: cfr. in generale la parte seconda del presente lavoro.

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8. VOLTUMNA – VORTUMNO 8.1. LA DIVINITÀ TUTELARE DI VOLSINII 8.1.1. Vortumnus: l’etimologia del nome Basta l’affermazione di Varrone a chiarire l’importanza che ebbe Vortumno, non solo per la sua città: 1

deus Etruriae princeps.

A tale preminenza non corrisponde tuttavia quello che sappiamo del dio, il quale presenta una fisionomia incerta e pone dei problemi di non facile soluzione.2 L’accordo delle fonti viene meno già per quanto riguarda il nome: Vertumnus lo chiamano Properzio3 e Ovidio,4 Vortumnus la fonte più antica, Varrone. L’oscillazione tra le due forme è diffusa sia nella tradizione manoscritta che in quella epigrafica e corrisponde a quella tra vortere e vertere:5 il mantenimento della forma Vortumnus è facilmente spiegabile nel contesto religioso in quanto arcaismo. Anche l’etimologia è discussa. Lo Schulze ha ritenuto il nome etrusco,6 facendolo derivare dai gentilizi etruschi del tipo Veltymnus,7 Veldumnius e *Vertumna. Per un carattere «protolatino» propende invece Giacomo Devoto.8 Questi distingue due gruppi di nomi: il primo, sicuramente indoeuropeo, è definito dal suffisso alternante morfologicamente del participio presente medio (-mno-, -meno-, mono-), aggiunto a una radice verbale e preceduto dalla vocale tematica e/o;9 Vor-

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De l. L. V 46, a proposito della topografia della città: In Suburanae regionis parte princeps est Caelius mons a Caele Vibenna, Tusco duce nobili, qui cum sua manu dicitur Romulo venisse auxilio contra Tatium regem. Hinc post Caelis obitum, quod nimis munita loca tenerent neque sine suspicione essent, deducti dicuntur in planum. Ab eis dictus Vicus Tuscus, et ideo ibi Vortumnum stare, quod is deus Etruriae princeps; de Caelianis qui a suspicione liberi essent, traductos in eum locum qui vocatur Caeliolum. Per una storia degli studi relativi al tema, cfr. CAMPOREALE 1985. IV 2. Met. XIV 622–771. Cfr. EISENHUT 1958, 1669. Vortumnus: CIL VI 803, 804; IX 327, 2320; Vertumnus: CIL III 1420610; V 7235; IX 5892; XI 4644a. SCHULZE 1933, 252. Cfr. COLONNA 1985, 112 sgg., in merito ad un certo Arruns Veltymnus, il quale avrebbe ricevuto da Vegoia una profezia che chiarisce bene i rapporti domini-servi intercorrenti a Volsinii tra IV e III sec. a. C. DEVOTO 1940. Altre parole dello stesso gruppo sono: aerumna («tormento»), alumnus («l’allevato»), autumnus («rinfrescante»), clitumnus («il riparato»).

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8. VOLTUMNA – VORTUMNO

tumno apparterrebbe a questo gruppo.10 Il secondo invece, certamente non indoeuropeo, presenta un suffisso -mn- aggiunto a radici nominali e con alternanze fonetiche; a differenza della vocale libera del primo, le parole di questo gruppo hanno sempre la vocale u davanti a -mn-, come Volumnia, Picumnus e infine Voltumna, da considerarsi quindi esso solo come pienamente etrusco.11 Ancora, con l’accostare Vertumnus ad alumnus, la cui latinità è certa (da alere), Devoto rileva come nel primo nome vi sia stata un’identica formazione, in questo caso dalla radice verbale indoeuropea *wert-, «volgere»: il nome del dio sarebbe quindi entrato in etrusco nella fase antichissima del protolatino come attributo di una divinità connessa con il volgere dell’anno.12 Il Radke13 pensa invece a Vortumno come a «colui che porta o avvia il *vorta («compimento, esaudimento»)» del rito, funzione che lo collegherebbe a Giano, nominato all’inizio di ogni sacrificio, ed entrambi sarebbero perciò principes in relazione alla funzione, non all’importanza.14 8.1.2. Il sito di Volsinii e la storia della città fino al 265 a. C. L’identificazione della città considerata la dimora di Vortumno, Volsinii,15 è controversa. La teoria più seguita è quella formulata nel 1828 da K. O. Müller che colloca la città etrusca (Velsna, Velzna)16 sul sito dell’attuale Orvieto.17 Altri l’hanno invece riconosciuta in Bolsena, che ne ha conservato il nome.18 Si sa che nel 264 a. C. essa fu distrutta dai Romani e gli abitanti trasferiti in una nuova

10 Cfr. PROSDOCIMI 1989, 497, 542. 11 Alla luce di queste considerazioni non si può condividere la posizione di EISENHUT 1961a, 852, che pone in relazione Vortumnus e Voltumna anche a livello etimologico, entrambi da vortere/vertere e con un’alternanza l–r riferita oltre che all’ambito etrusco anche a quello anatolico. RADKE 1965, 327, pensa invece a un’origine italica del nome Voltumna, riportando alcune parole venete tra cui vo.l.tiiomno.s. 12 DEVOTO 1940, 277; cfr. DUMÉZIL 20012, 300; contrario ad un’origine indoeuropea del nome Vortumnus CRISTOFANI 1985, 82. 13 RADKE 1965, 319–320. 14 Cic. De nat. deor. II 67: Principem in sacrificando Ianum esse voluerunt; Varr. De l. L. V 46; cfr. CAPDEVILLE 1999, 124–127 (con cui non concordiamo), il quale a partire da questa posizione (princeps da primus) pensa che Varrone con «deus Etruriae princeps» possa aver inteso Vortumno come il primo dio venuto a Roma dall’Etruria o come una sorta di dio della guerra che doveva in un certo modo apparire come il capofila dell’esercito. Su un’altra possibile connessione tra Giano e Vortumno, cfr. infra. 15 Cfr. in generale STOPPONI 1994. 16 Sulle monete anche Velsu, Velznani, Velsz(u)na: cfr. ENKING 1961, 830; un’ulteriore conferma viene dall’etnico velznaχ iscritto accanto a uno dei personaggi della Tomba François: CIE 5269; cfr. PALLOTTINO 1937, 341 sgg., 357. 17 MÜLLER 1828, 451. Cfr. tra gli altri PALLOTTINO 19847, 277–281; BASANOFF 1947, 60; EISENHUT 1958, 1676; COLONNA 1999, 10, n. 3. 18 Cfr. PAIS 1915, 447, n. 2 e 448, n.1; ENKING 1961, principalmente alla luce degli scavi condotti dall’Ecole Française di Roma a partire dal 1946; SCULLARD 1977, 131–135. Il nome è attestato per la prima volta in Proc. Bell. Goth. I 4; esso si trasmise anche al lago, in antico lacus Volsiniensis.

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8.1. LA DIVINITÀ TUTELARE DI VOLSINII

sede, pianeggiante e meglio controllabile, secondo lo schema che si ripeterà poco più di vent’anni dopo con Falerii.19 La città antica va quindi ricercata in una posizione munita come quella della stessa Falerii Veteres e di Veio. Il sito di Orvieto è senz’altro il più indicato, com’è possibile constatare ancora oggi, guardando dalla pianura l’alto zoccolo di tufo che si erge sulla valle del Paglia o ascendendo con la funicolare dalla stazione ferroviaria alla parte alta della città. L’alto grado di difendibilità, già di per sé notevole, era inoltre acuito e integrato da fortificazioni, la cui presenza corrobora in maniera decisiva l’accenno di Zonara alle possenti difese murarie di Volsinii:20 i Romani dovevano cautelarsi dal ripetersi di un assedio particolarmente difficile com’era già accaduto a Veio. Col collocare la città antica ai piedi e sulle estreme propaggini dei colli dell’angolo nord-orientale del lago di Bolsena, la città etrusca di Orvieto rimarrebbe senza nome,21 dato che il moderno deriva da un generico urbs vetus, e resterebbero difficilmente spiegabili la ricchezza e la grandiosità delle testimonianze archeologiche, in primis delle grandi necropoli di Crocifisso del Tufo e della Cannicella, intense dalle origini fino al IV sec. a. C., quando si arrestano quasi del tutto per riprendere nel Medioevo.22 Inoltre, a Bolsena i resti risalgono all’età ellenistica e romana, non a caso dal momento in cui la popolazione volsiniese è costretta a trasmigrare, anche se la località doveva ospitare già da prima un centro etrusco di media importanza, dotato di templi, necropoli e di un’ampia cerchia di mura, la cui presenza avrà consentito di non costruire ex novo un nuovo stanziamento, ma solo di ampliare quello già esistente.23 Invero non sembra essere una grande difficoltà neanche la distanza di 14 km tra Bolsena ed Orvieto.24 Una conferma ulteriore è data dalla posizione geografica di quest’ultima, collocata nella corona lungo la fascia che corrisponde approssimativamente ai confini geografici dell’Etruria e che dà l’impressione di una sorta di delimitazione protettiva del territorio etrusco.25 Alla preminenza religiosa e politica della città dovette corrispondere anche un alto grado di floridezza economica: 26

[scil. Volsinii] erat opulenta, erat moribus et legibus ordinata. Etruriae caput habebatur.

La città appare per la prima volta nella storia romana nel 392/391 a. C.: i Volsiniesi e i Sappinati27 invasero l’agro Romano, anche in ragione del fatto che a

19 Cfr. supra, par. 6.2.1. 20 PALLOTTINO 19847, 280, e n. 33. Secondo Procopio invece (Bell. Goth. II 20, 8) Orvieto non fu mai circondata da mura: cfr. ENKING 1961, 830. 21 SCULLARD 1977, 135, propone perciò di identificare l’Orvieto etrusca con Sappinum. 22 PALLOTTINO 19847, 278, e n. 30. 23 PALLOTTINO 19847, 281; HARRIS 1985, 154–155; contra SCULLARD 1977, 131. 24 ENKING 1961, 830–831; TAYLOR 1923, 149 sgg. 25 PALLOTTINO 19847, 131–132. Da sud a nord le città sono: Veio, Faleri, Volsini, Perugia, Arezzo, Fiesole e, meno periferiche, Chiusi e Volterra. Dubbi sull’identificazione dell’antica Volsinii con Orvieto sono stati avanzati ancora recentemente, ad es. da MORELLI 1990. 26 Val. Max. IX 1; cfr. Oros. IV 5: Volsinienses, Etruscorum florentissimi.

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8. VOLTUMNA – VORTUMNO

causa di una carestia e di una pestilenza non fu possibile ai Romani allestire un esercito nell’immediato per contrattaccare.28 Dopo l’elezione di sei tribuni militari, a due di essi, Lucio Lucrezio e Caio Emilio, furono affidate le operazioni militari, che si conclusero in modo abbastanza rapido e portarono alla stipula di una tregua di venti anni con Volsinii previo un congruo risarcimento.29 Volsinii subì altri rovesci e dovette venire a patti con i Romani anche a seguito della guerra che i tutti i populi etruschi – ad eccezione degli Aretini – condussero contro Roma nel 312/311–308 a. C. nel contesto della più generale opposizione degli altri popoli italici, Sanniti in primis, alla sempre più invadente presenza romana nella penisola: l’obiettivo era lo sfondamento del fronte di Sutri, che però resistette e fu sbloccato dal contrattacco di Q. Fabio Rulliano, che prese anche alcune roccheforti dei Volsiniesi.30 Nella fase successiva alla battaglia di Sentino (295 a. C.) la resistenza etrusca sembra affidata in maniera particolare agli stati del sud, tra cui spicca proprio Volsinii: questa fu di nuovo sconfitta con Roselle e insieme a Perugia e ad Arezzo chiese la pace.31 I Fasti Trionfali registrano per il 294 i trionfi di L. Postumio Megello su Sanniti ed Etruschi e di M. Attilio Regolo ancora sui Sanniti e de Volsonibus, per il 280 di T. Coruncanio su Vulcenti e Volsiniesi. La storia dell’antica Volsinii termina nel 265/264 a. C. con la conquista della città, la sua distruzione e la deportazione degli abitanti sulle rive del Lago di Bolsena.32 I Romani erano intervenuti su sollecitazione degli aristocratici della città, espulsi dopo che vi avevano preso il sopravvento i servi,33 forse anche a seguito delle tensioni sociali dovute alle condizioni della pace del 280, che non è difficile pensare fossero particolarmente svantaggiose.34 Volsinii fu depredata, insieme forse al Fanum Voltumnae:35 la ricchezza del bottino è indicata dalle circa duemila statue di bronzo,36 alcune delle quali adornarono probabilmente nell’area sa27 Salpinum è stata identificata dal Gamurrini (in: GAMURRINI – COZZA – PASQUI – MENGARELLI 1972, 7, n. 2) con il sito attualmente noto come Civita di Grotte di Castro; favorevole a tale ipotesi COLONNA 1999, 21. 28 In realtà i primi rapporti della città con Roma sono ascrivibili quasi certamente alle forniture per le frumentazioni romane a partire dal V sec. a. C.: cfr. COLONNA 1985, 106–110. Non è neanche da escludere che alcuni Volsiniesi facessero parte dei volontari accorsi da ogni parte dell’Etruria in aiuto a Veio: cfr. Liv. V 17, 9; 18, 10. Sulla storia di Volsinii e dei suoi rapporti con Roma, cfr. PALLOTTINO 19847, 225–244; HARRIS 1985. 29 Liv. V 31–32. 30 Liv. IX 29 sgg.; Diod. Sic. XX 35. 31 Liv. X 37: tres validissimae urbes, Etruriae capita, Volsinii, Perusia, Arretium, pacem petiere. 32 Attestate queste ultime dal solo Zonar. VIII 7. 33 Val. Max. IX 1; sullo status particolare di questi servi, cfr. HARRIS 1985, 152–153; in generale sulla storia sociale di Volsinii cfr. COLONNA 1985. 34 HARRIS 1985, 149–150. 35 Secondo HARRIS 1985, 153–154, e CRISTOFANI 1999, 121, in questa occasione il luogo sacro venne distrutto. 36 Plin. XXXIV 34: Signa quoque Tuscanica per terras dispersa quin in Etruria factitata sint, non est dubium. Deorum tantum putarem ea fuisse, ni Metrodorus Scepsius*, cui cognomen a Romani nominis odio inditum est propter MM statuarum Volsinios expugnata obiceret; COLONNA 1999, 11–13, ritiene che il candelabro della prima metà del V secolo di cui attualmente si sono perse le tracce (CAHN 1970, 11, n. 17) e proveniente sicuramente da Volsinii (vi

8.1. LA DIVINITÀ TUTELARE DI VOLSINII

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cra del Foro Boario, vicino al tempio di Fortuna e Mater Matuta, il monumento dedicato dal console M. Fulvio Flacco, trionfatore de Vulsiniensibus, 37 recante l’iscrizione: 38

M. Folv[io(s) Q. f co]sol d(edet) Volsi[nio] cap[to].

Dopo la deportazione degli abitanti nel nuovo sito la città fu inclusa quale municipium nella tribus Pomptina39 o Pomentina.40 8.1.3. Il Fanum Voltumnae Nelle vicinanze di Volsinii era il famoso Fanum Voltumnae,41 la cui ubicazione è altrettanto problematica. Scavi recenti hanno individuato una plausibile “candidata” nell’area di Campo della Fiera, dove i resti murari e i reperti sembrerebbero indicare la presenza di un importante santuario extraurbano.42 Altre localizzazioni individuano il fanum all’interno di Orvieto, presso Veio,43 a Montefiascone44 o a Bolsena.45 Il luogo sacro accoglieva i concilia annuali (o comunque periodici) dei principes dei duodecim populi componenti la lega o federazione etrusca,46 che ivi

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è la determinazione locativa «velsenalθi») sia l’unico cimelio del bottino raccolto dai Romani. Ciò dall’integrazione dell’iscrizione mutila «[---]xθunaitla», ossia «del [---]xthuna» con «Velθunaita» o «Veluθunaita». Dubbi in merito sono stati espressi da CAPDEVILLE 1999, 111, n. 8. Act. triumph. CIL I2 46; CIL I2 172; Fest. 228 L; CRISTOFANI 1999, 121. È certo vero, come ricorda L’EISENHUT (1958, 1675–1676), che vi erano stati già due trionfi sui Volsiniesi nel 294 e nel 280, ma ad essi non era seguita una devotio hostium, come nel 264; essi non possono essere quindi tirati in ballo per escludere un’evocatio in quell’anno: cfr. infra. L’iscrizione su blocchi di peperino fu scoperta al centro dell’area: cfr. COARELLI 20033, 375 e infra. Cfr. PFIFFIG 1966, 57–59, anche sull’organizzazione del municipio e del territorio circostante in età romana. TORELLI 1985, 47–48. PFIFFIG 1975, 71, propone un’espressione etrusca *fanu velθum(n)as; cfr. SCULLARD 1977, 242–246; PALLOTTINO 19847, 307–312; COLONNA 1985, 120, pone la localizzazione del santuario nell’ottica di un blocco Chiusi-Orvieto responsabile nella seconda metà del V sec. dell’accelerazione delle spinte tendenti all’unificazione federale della nazione etrusca: l’ubicazione del fanum all’interno del territorio volsiniese risulterebbe pertanto facilmente spiegabile perché nello stato di Porsenna e nella posizione più facilmente accessibile dalle città etrusche all’epoca più influenti, quelle dell’Etruria meridionale; cfr. in proposito anche RONCALLI 1985, 71–73. RONCALLI 1985, 55 sgg; CRISTOFANI 1999, 208; BRUSCHETTI 1999. ENKING 1961, 844–845. Ciò poiché il fanum è nominato solo in relazione a Veio e non menzionato nel Rescritto di Hispellum. Tale posizione è tuttavia insostenibile poiché siamo a conoscenza di riunioni della lega avvenute mentre Veio era assediata dai Romani e dopo la conquista di essa: cfr. ENKING 1961, 847. DUCATI 1925, 131; SCULLARD 1977, 136. BASANOFF 1947, 61–62. Il numero dodici ha probabilmente un carattere rituale: cfr. PALLOTTINO 19847, 310. Un tentativo di ricostruire i componenti originari della lega, i mutamenti soprattutto in età romana e il modello riflesso nella tradizione sulla dodecapoli padana, si trova in TORELLI 1985.

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8. VOLTUMNA – VORTUMNO

stabilivano le linee guida della politica estera comune – sembra comunque in maniera non vincolante47 –, soprattutto per quanto riguardava le guerre,48 si occupavano presumibilmente di questioni economiche49 e procedevano a celebrare i riti comuni.50 Inoltre in età arcaica eleggevano probabilmente uno tra i dodici lucumoni per fungere da primus inter pares.51 Più tardi tale ruolo sarà forse ulteriormente limitato alla sola sfera religiosa e verrà designato dal termine sacerdos, come appare nel celebre Rescritto di Costantino,52 che ci rende edotti anche della persistenza dell’istituzione in età tarda.53 In alcune iscrizioni latine di età imperiale ricorre anche il titolo di praetor Etruriae (XV populorum), in lingua etrusca zilaθ meχl rasnal.54 8.1.4. Voltumna Il dio titolare del fanum era Voltumna,55 nominato negli unici cinque passi di Livio tramite i quali lo conosciamo sempre in relazione al luogo sacro dedicatogli.56 Già al tempo dello storico patavino la figura del dio doveva essere abbastanza indefinita e oscura, a ciò contribuendo la confusione-sovrapposizione con Vortumno (su cui fra poco ci soffermeremo). Certamente non si metteva in dubbio la sua origine etrusca, ma già riguardo al genere cominciavano le prime incertezze: per molti Voltumna era una dea.57 È invece ormai un dato acquisito considerarla una divinità di sesso maschile.58 La confusione sarebbe iniziata con la ricezione nel latino dei nomi etruschi con la finale in -(n)a (ben rappresentata nell’onomastica sia divina che umana: Vibenna, Sisenna, Caecina, Tinia, Paχa, Cauθa, etc.), divenuti sia maschili che femminili. Funzionale a ciò il fatto che probabilmente quando si trattava di nomi di divinità, particolarmente gentilizie, si siano mantenuti talvolta entrambi i generi, secondo 47 SCULLARD 1977, 245–246. 48 Cfr. Liv. IV 23, 5; IV 25; IV 61, 2; V 17, 6; VI 2, 2; RONCALLI 1985, 70 sgg.; sul carattere eccezionale di queste riunioni si è invece pronunciato PARETI 1929–1930, 89 sgg. 49 RONCALLI 1985, 69–70. 50 SCULLARD 1977, 245; sulla Lega Etrusca e i relativi passi di Livio, cfr. AIGNER FORESTI 1994; BRIQUEL 1994. 51 PALLOTTINO 19847, 310–311; comunque non prima del VII sec. a. C., dato che i concilii presupporrebbero una struttura di tipo urbano dei populi aderenti: cfr. CAMPOREALE 1985, 13; TORELLI 1985, 51. 52 CIL XI 5265; sulla relazione di questo tipo di leghe con il concetto di nomen, cfr. MONTANARI 1976, 149 sgg. 53 A parere del PETTAZZONI (1928, 208) la dicitura presente nel Rescritto (aput Volsinios, Tusciae civitate(m)) non sarebbe sufficiente a localizzare il fanum nel sito di Orvieto; egli la ritiene tuttavia come l’ipotesi più probabile. 54 CIE 5360; cfr. CIE 5093 e 5472; PALLOTTINO 19847, 311; per un’analisi dettagliata a partire dalle epigrafi cfr. DE SIMONE 1985, 89–100. 55 Oppure Veltha o Veltune; cfr. PALLOTTINO 19847, 328. 56 IV 23, 5; IV 25, 7; IV 61, 2; V 17, 6; VI 2, 2. 57 Tale confusione è ancora presente negli studiosi moderni: cfr. WISSOWA 19122, 287; WISSOWA 1924b; DEVOTO 1940, 279; BASANOFF 1947, 57–58; RADKE 1965, 347; DUMÉZIL 20012, 300. 58 PFIFFIG 1975, 235; CRISTOFANI 1985, 75; ELBOJ 1992, 108–110; CAPDEVILLE 1999, 118.

8.2. I RAPPORTI TRA VOLTUMNA E VORTUMNUS

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modelli alternanti già noti ai Romani, quali Cacus-Caca, Faunus-Fauna, Ruminus-Rumina, ma anche il più generico sive deus sive dea, il che starebbe a sottolineare anche la cautela con la quale ci si indirizzava a Roma alle divinità straniere.59 A ciò contribuì senz’altro a posteriori anche la capacità del dio di vertere la propria forma,60 anche se da ciò non gli si può attribuire alcuna ambiguità sessuale o bisessualità.61 8.2. I RAPPORTI TRA VOLTUMNA E VORTUMNUS 8.2.1. Un’identità originaria? Non si dubita più nemmeno della fondamentale identità a Roma tra Voltumna e Vortumnus.62 Il problema è però che tale identità non doveva essere originaria, ma con tutta probabilità dovuta o quantomeno fissata dagli eventi del 264 a. C., che ci riportano al tema unificante del nostro lavoro, l’evocatio. È opinione comune che prima di distruggere Volsinii M. Fulvio Flacco ne avrebbe evocato la divinità tutelare. Mentre però la communis opinio pensa a Vortumno, tale divinità dev’essere senz’altro identificata in Voltumna, e per una serie di ragioni. Innanzitutto nessuna iscrizione menziona Vortumno in Etruria: le poche che conosciamo vengono dall’Umbria (Tuder), dall’Apulia (Canusium), dalla Cisalpina (Segusio), da Ancona e dalla Macedonia.63 Del dio in quella che sarebbe dovuta essere la sua terra d’origine non v’è traccia.64 Lo stesso Varrone poi, che lo aveva posto al sommo della gerarchia divina etrusca, in un altro passo del De lingua Latina (V 74) lo pone nel novero delle divinità introdotte a Roma dal re sabino Tito Tazio, insieme ad altre quali Quirino, Ops e Flora.65 Ancora, nella fonte più ricca e graziosa riguardante il dio, la IV elegia di Properzio,66 il dio stesso rac59 Cfr. HERBIG 1922, 11 sgg.; PETTAZZONI 1928, 208; SCHULZE 1933, 417 sgg. 60 Cfr. Prop. IV 2, 21 sgg.: Opportuna mea est cunctis natura figuris: / in quamcumque voles verte, decorus ero. / Indue me Cois, fiam non dura puella: / meque uirum sumpta quis neget esse toga?; cfr. Ov. Met. XIV 622 sgg. 61 Cfr. EISENHUT 1961a, 853; Ibid., 855, in cui vi è un riferimento all’ipotesi di A. Brelich secondo cui Vortumnus avrebbe avuto originariamente una natura bisessuale, secondo lo schema adottato nella sua opera Die geheime Schutzgottheit von Rom (BRELICH 1949a), tuttavia né in questa né nella recensione di R. Pettazzoni pure citata (PETTAZZONI 1949, 182–185) Vortumno viene mai menzionato! BAYET 19692, 112. BASANOFF 1947, 57–58, pensa a un passaggio dal sesso femminile (Voltumna) a quello maschile (Vortumnus). Quanto ad Aug. De civ. Dei, IV 21 (Varr. Ant. rer. div. 14, fr. 119 CARDAUNS): Quid necesse erat …deo Volumno et deae Volumnae ut bona vellent, abbiamo a che fare con due nomi puramente latini collegati alla radice di volo. 62 Ad es. BASANOFF 1947, 57; MONTANARI 1976, 150. 63 Rispettivamente: CIL XI 4644a; IX 327; V 7235; IX 5892; III 1420610. 64 DUMÉZIL 20012, 300. 65 WISSOWA 19122, 287. Le divinità menzionate si inseriscono tutte nella «terza funzione» del noto schema tripartito sviluppato da G. Dumézil, nel quale rientra anche lo stesso re sabino (DUMÉZIL 20012, 160–161 e 301). 66 Per un’analisi dettagliata, cfr. RÜPKE 2009.

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8. VOLTUMNA – VORTUMNO

conta con evidente soddisfazione di come la statua lignea dedicatagli agli albori stessi dell’esistenza di Roma fosse poi stata sostituita da un’altra di bronzo forgiata da Mamurio Veturio,67 ancora cioè in epoca molto antica, dato che fu l’artista osco a forgiare i famosi ancilia, le copie perfette dell’originale donato a Numa da Giove.68 A questo punto siamo al culmine della confusione: Vortumno è un dio etrusco, sabino o latino? L’ultima è l’affermazione che sembra senz’altro rispondere di più al vero.69 Anzitutto l’idea di una provenienza etrusca si basa unicamente su due fonti tardo-repubblicane: Varrone e Properzio. Entrambe presentano delle contraddizioni evidenti al loro interno. Il primo afferma essere Vortumno il principale dio dell’Etruria e contemporaneamente portato da Tito Tazio dalla sua terra natale, la Sabina. Il secondo lo dice di origine etrusca ma anche che una sua statua si trovava a Roma almeno dal tempo di Romolo.70 Properzio è anche l’unico ad associare esplicitamente il nome del dio a Volsinii.71 Entrambi poi si riferiscono esclusivamente alla statua,72 che si trovava in un luogo particolare, il vicus Tuscus, 73 chiamato così dagli Etruschi che vennero in aiuto contro i Sabini a Romolo 74 o a Servio Tullio 75 oppure, secondo altre ipotesi, dai fuggiaschi etruschi a

67 ILLUMINATI 1961, 41–80. 68 Prop. IV 2, 59–63: stipes acernus eram, properanti falce dolatus, / ante Numam grata pauper in urbe deus. / At tibi, Mamurri, formae caelator aenae, / tellus artifices ne terat Osca manus, / qui me tam docilis potuisti fundere in usus. Sugli ancilia cfr. AIGNER FORESTI 1993, 159– 168. 69 SUITS 1969, 486. In questo caso non ci è di molto aiuto il fatto che Ovidio non menzioni affatto un’origine straniera del dio, ciò essendo piuttosto ascrivibile a una sua generica posizione antietrusca, come ritiene DUMÉZIL 1951, 295–296. 70 E alla prima fase del regno se intepretiamo Prop. IV 2, 53–54: Vidi ego labentis acies et tela caduca, / atque hostis turpi terga dedisse fugae, come vista dal dio tramite la sua statua, quindi già lì al momento degli scontri cui parteciparono gli Etruschi! Tuttavia è di gran lunga preferibile pensare che Properzio intendesse dire che Vortumno fosse presente per proteggere il suo popolo in guerra, senza dover presumere però che fosse anche, in quanto princeps del suo esercito, esso stesso un dio della guerra: cfr. VAN DOREN 1954, 493; CAPDEVILLE 1999, 126–127; ciò non è neanche desumibile da Prop. IV 2, 27: Arma tuli quondam, che si riferisce semplicemente alle capacità metamorfiche del dio. 71 Cfr. EISENHUT 1958, 1671–1672. 72 Solo una fonte (Porph. Ad Hor. epist. I 20, 1) parla di un sacellum: ciò non è una contraddizione dato che il termine, oltre che a un piccolo edificio templare, designa anche un recinto sacro; cfr. EISENHUT 1958, 1671; ARONEN 1999c, 310. Tale definizione ha portato alcuni ad intendere erroneamente che vi fosse stata in quell’area un’aedes: ad. es. LUGLI 1946, 185 sgg., afferma che tale edificio templare fu spostato più a sud a causa della costruzione della basilica Iulia. Infine è da notare che signa in Prop. IV 2, 2 è plurale poetico. Sulla statua, cfr. PENNY SMALL 1997. 73 Nelle fonti tarde anche vicus Turarius: Tusci aliquando ad Aricinis pulsi contulere se Romam, et vicum qui modo Turarium dicitur insederunt (Schol. Cruq. Ad Hor. Sat. II 3, 228). In generale sul vicus, cfr. PAPI 1999. 74 Varr. De l. L. V 46; cfr. Serv. Ad Aen. V 560. 75 Cfr. COARELLI 1983, 230, in merito a Fest. 180 e 486 L.

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seguito della battaglia di Aricia76 o dagli artigiani (sempre etruschi) giunti a Roma per la costruzione del Tempio di Giove Capitolino e ivi insediatisi.77 Il sito può essere individuato con buona approssimazione: al limite del Velabro e del Foro Romano, dietro il tempio dei Castori, all’angolo SE della basilica Iulia;78 da questa posizione il dio poteva bearsi della vista del foro, verso cui la statua doveva quindi essere orientata.79 Ora, in età storica il signum Vortumni costituiva un segno di riconoscimento del posto e Varrone si riferisce alla statua per sottolineare l’«etruscità» del luogo di Roma «etrusco» per definizione.80 Lo scrittore reatino tuttavia non dice esplicitamente che la statua si trovasse là dal tempo dell’insediamento degli Etruschi di Celio Vibenna: la maggiore antichità – esplicitamente affermata – del nesso luogo-Etruschi spetta quindi alla concessione fatta da Romolo ai suoi adiutori Tusci. Nulla impedisce quindi di ritenere che l’associazione tra Vortumno e l’Etruria sia stata dedotta dal luogo in cui la statua del dio si trovava da lungo tempo. Anche le etimologie fornite dagli antichi non si riferiscono mai all’etrusco, ma solo al latino, e sono associate tutte, con sensi diversi, al verbo vertere («mutare», «volgere», «trasformare», anche in senso riflessivo): vertere del Tevere, il cui corso deviato permise di guadagnare alla terra un luogo in precedenza occupato per gran parte da una palude, il Velabro, sul cui limite sarebbe poi stata collocata la statua del dio;81 vertere dei fiori in frutti (erano associate al dio le stagioni caratterizzate da colori e succhi, l’estate e l’autunno, che forse dal teonimo deriva l’ultima sillaba del nome)82 e, collegato a ciò, il vertere dell’anno;83 capa76 Liv. II 14, 9; Dion. Hal. V 36, 4; CRISTOFANI 1985, 81. 77 PAPI 1999, 196: il quartiere poté essere infatti costruito solo dopo la bonifica del Foro, per cui v. infra a proposito del vertere della cloaca Maxima; una “fusione” delle due versioni (aiuti militari etruschi e regno di Tarquinio Prisco) è presente in Fest. 487 L e Tac. Ann. IV 65: sedem meam [scil. mons Caelius] acceperat a Tarquinio Prisco, seu quis alius regum dedit; nam scriptores in eo dissentiunt. Come si vede anche già all’epoca di Tacito vi erano più versioni. 78 Varr. De l. L. V 46; Liv. XLIV 16, 10: aedes P. Africani pone Veteres [scil. tabernae] ad Vortumni signum; Cic. Verr. II 1, 154: (…) quis a signo Vortumni in Circum Maximum venit e Ps. Asc. Ad l.: Signum Vertumni in ultimo vico Turario est sub basilicae angulo flectentibus se ad Rostra versus dextram partem; PUTNAM 1967, 178; ARONEN 1999c, 310; COARELLI 1983, 230; EISENHUT 1958, 1678, localizza invece il signum nel foro all’angolo NE della basilica Iulia. L’ARONEN (1999c, 310–311) nota tuttavia che il vicus Tuscus in realtà non entrava nel foro e pertanto l’angolo della basilica doveva essere necessariamente l’altro. 79 Prop. IV 2, 6: Romanum satis est posse videre Forum. 80 De l. L. V 46; cfr. ad es. Hor. Epist. I 20, 1 sgg: Vertumnum Ianumque, liber, spectare videris, scilicet ut prostes Sosiorum pumice mundus; CIL VI 9872: [ad Vo]rtumnum, riferito alla bottega di una artigiano dell’argento. 81 Prop. IV 2, 6–10: Hac quondam Tiberinus iter faciebat, et aiunt / remorum auditos per vada pulsa sonos: / at postquam ille suis tantum concessit alumnis, / Vertumnus verso dicor ab amne deus; cfr. Ov. Fasti VI 409–410: Nondum conveniens diversis iste figuris / nomen ab averso ceperat amne deus; PUTNAM 1967; COARELLI 1983, 229; ARONEN 1999c, 311. In generale sul Velabro v. GUIDOBALDI – ANGELELLI 1999. 82 DUMÉZIL 20012, 301. 83 Prop. IV 2, 11 sgg.: Seu, quia vertentis fructum praecipimus anni, / Vertumni rursus credis id esse sacrum. / Prima mihi variat liventibus uva racemis / et coma lactenti spicea fruge tu-

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cità del dio di vertere la propria forma;84 vertere delle merci, con riferimento cioè alla mercatura e alla compravendita.85 Un altro vertere, infine, deporrebbe a favore della grande antichità del culto di Vortumno, quello della cloaca Maxima, costruita in connessione con i lavori di bonifica del Foro e del Velabro all’epoca dei re etruschi:86 proprio in quel punto essa ha un andamento irregolare, forse come atto di omaggio nei confronti del dio (la cui statua si sarebbe già trovata sul posto)87; diversamente, l’andamento a «V» della cloaca poteva essere un accorgimento idraulico per rompere eventuali onde di piena del fiume rifluenti verso il Foro: in questo caso a Vortumno sarebbe toccata la protezione di questo peculiare e importante tratto del sistema fognario (quindi il rapporto cronologico sarebbe invertito e la statua sarebbe stata posta in loco subito dopo la costruzione della cloaca Maxima)88. Resta però il fatto che in età storica Vortumno era avvertito chiaramente come (anche) etrusco. A mio avviso tale considerazione deriva dall’interpretatio Romana che i Romani fecero del dio etrusco – stavolta non vi sono dubbi – Voltumna, in particolare a seguito di una verosimile – ma si badi, non certa – evocatio avvenuta nel 265/264 a. C. In quell’anno, lo si è visto, M. Fulvio Flacco celebra un trionfo de Vulsiniensibus, si impadronisce di un enorme bottino, fa erigere un donario in pietra nel Foro Boario e con tutta probabilità un tempio sull’Aventino,89 in cui sappiamo si fece ritrarre in veste di trionfatore, allo stesso modo di L. Papirio Cursore nel tempio di Conso, sempre sull’Aventino, votato pochi anni prima, forse durante la campagna contro Taranto conclusa nel 272 a.

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met…; cfr. WISSOWA 19122, 288. Tale valenza sarebbe indicata anche dalla scelta del sito della statua del dio, nell’ottica di una topografia religiosa intimamente collegata con la tematica del cambiamento del ciclo annuale, come indicherebbero i culti di Acca Larentia e Angerona; le medesime considerazioni suscita anche il riferimento a Mamurio Veturio: cfr. ARONEN 1999c, 311. Sempre sulla topografia religiosa del luogo, ma con un accento sul carattere funerario dei culti in essa presenti, cfr. COARELLI 1983, 227–298. Prop. IV 2, 21 sgg.: Opportuna mea est cunctis natura figuris: / in quamcumque voles verte, decorus ero; 47–48: At mihi, quod formas unus vertebar in omnis, / nomen ab eventu patria lingua dedit; Ov. Met. XIV 765: forma deus aptus in omnes; Corp. Tib. III 8, 14: mille habet ornatus. Porph. Ad Hor. Epist. I 20, 1: Vortumnus autem deus est praese[n]s vertundarum rerum, hoc est emendarum ac vendendarum, qui in vico Turario sacellum habuit; Ps. Asc. Ad Cic. Verr. II 1, 154: Vertumnus autem deus invertendarum rerum est, id est mercaturae; Ascon. Ad Hor. Epist. I 20, 1: Vertumnus et Ianus dii sunt, qui praesunt negotiis ementium et vendentium, ante quorum templa erant loca, in quibus cum caeteris rebus [etiam] libri venales erant; Plaut. Curc. 484: vel qui ipsi vorsant, vel qui aliis ubi vorsentur praebeant; EISENHUT 1958, 1683–1684. COARELLI 1983, 229–230 (in part. il relazione a Servio Tullio); BAUER 1993; COARELLI 20033, 370. In generale sulle profonde conoscenze degli Etruschi nel campo dell’idraulica, cfr. BERGAMINI 1991. COLONNA 1987, 59–61, 69–70. GUIDOBALDI – ANGELELLI 1999, 107. Sui bruschi cambiamenti di direzione della cloaca, cfr. COARELLI 1988a, 242–243. Altro culto collegato alla cloaca Maxima fu quello di Venus Cloacina, per cui v. COARELLI 1983, 83–89. ALTHEIM 1930, I, 160 sgg. ha sostenuto (ma senza prove) che, come il tempio di Diana, anche quello di Vortumno fu costruito al tempo di Servio Tullio.

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C.90 Il tempio della divinità proveniente da Volsinii si trovava forse in Loreto maiore,91 con maggior precisione ad ovest delle Terme Surane, se si tiene in considerazione un’interpretazione di un frammento della forma urbis severiana.92 8.2.2. Una chiave di lettura: l’ubicazione del tempio sull’Aventino La collocazione del tempio ci dà una precisa chiave di lettura degli eventi. Innanzitutto, l’Aventino ebbe sempre una carattere di «alterità» e «marginalità»93: isolato dagli altri colli94 e di difficile accesso a causa della zona che lo separava dal Palatino,95 secondo una tradizione diffusa sarebbe stato la sede dell’augurium di Remo che vi sarebbe anche stato sepolto.96 Anco Marcio lo aggiunse alla città e lo popolò con i profughi di Tellene, Politorio e altre città venute in suo possesso.97 In età storica fu lo scenario delle lotte tra patrizi e plebei, che ivi attuarono la celebre secessione, installarono il tempio della propria triade (Cerere, Libero e Libera)98 e, a seguito della lex Icilia de Aventino publicando, databile al 456 a. C., ottenero il permesso di edificare case (oltre alla restituzione delle terre in precedenza occupate abusivamente)99. Il colle da pagus agricolo divenne quindi un quartiere plebeo dallo spiccato carattere mercantile.100 L’Aventino si trovava al di fuori del pomerium e costituiva pertanto anche uno dei luoghi privilegiati per l’erezione degli edifici sacri votati a divinità straniere.101 Già da lungo tempo vi si trovava il tempio dedicato a Diana,102 il più antico e il più importante costruito sul colle – detto perciò anche collis Dianae,103 ma anche il luogo caratterizzava a sua volta la dea come Aventina o Aventinen-

90 Fest. 228 L: Picta quae nunc toga dicitur, purpurea ante vocitata est, eaque erat sine pictura. Eius rei argumentum est …pictum in aede Vertumni et Consi, quarum in altera M. Fulvius Flaccus, in altera T. [sic] Papirius Cursor triumphantes ita picti sunt. 91 CIL I2 240; InscrIt XIII 2, 149; Fasti Vall.: Dianae in Aventino et Vertumno in Loreto maiore; più generici gli altri calendari (Fasti Amit., Fasti Ant., Fasti All.): Dianae, Vortumno in Aventino. 92 COARELLI 20033, 418: il tempio, un periptero sine postico, sarebbe in ogni caso repubblicano; l’alternativa proposta è l’identificazione con il tempio di Conso. 93 In generale sull’Aventino, cfr. MERLIN 1906; ANDREUSSI 1993. 94 Strab. V 3, 7. 95 Varr. De l. L. V 43; Ov. Fasti II 391–392; Tib. II 5, 33–34. 96 Liv. I 6, 4; Ov. Fasti IV 811–818; Flor. Epit. I 1, 6; Serv. Ad Aen. VI 770; Dion. Hal. I 87, 3; Plut. Rom. 9 e 11; CARAFA – D’ALESSIO 2006, 387–401. 97 Cic. De rep. II 18; Liv. I 33, 1. 98 Tempio che avrebbe ereditato le funzioni del tempio di Fortuna e Mater Matuta: cfr. ZEVI 1987, 128. 99 Liv. III 31, 1; 32, 7; Dion. Hal. X 31, 1; 32, 1. 100 Cfr. MERLIN 1906, 69–91; COARELLI 1997, 215–218. Caratteristico in questo senso il culto tributato a Minerva nel tempio adiacente a quello di Diana dagli artigiani e successivamente dagli attori e dagli scribi (Fest. 446 L; ANDREUSSI 1993, 149). Il colle perse tali caratteristiche in età imperiale, in cui si trasformò in quartiere aristocratico: cfr. COARELLI 20033, 411. 101 MERLIN 1906, 53–68; CATALANO 1978, 543–544; ANDREUSSI 1993, 149. 102 In generale sul tempio, cfr. MERLIN 1906, 203–226; ALFÖLDI 1961; VENDITTELLI 1995. 103 Mart. VII 73, 1; XII 18, 3.

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sis104 – e risalente secondo la tradizione nientemeno che a Servio Tullio,105 che prese a modello il tempio di Artemide ad Efeso, santuario federale delle popolazioni ioniche.106 Al suo interno era inoltre conservata le stele con il testo della lex Icilia107 e del patto tra Roma e le città latine.108 Vi era poi il tempio dedicato a Iuno Regina, risalente al 392/391 a. C., votato da Furio Camillo e destinato ad accogliere il simulacro della dea protettrice di Veio, evocata nel 396 a. C. In un luogo con queste caratteristiche peculiari, anche se il sito esatto non è stato ancora individuato, sorse dunque il tempio della divinità poliade di Volsinii.109 I collegamenti tuttavia non si esauriscono qui, e ci portano al Foro Boario.110 Confinante ad est con il Velabro e a sud con l’Aventino, con quest’ultimo condivideva delle importanti caratteristiche di «marginalità» e «alterità»111: in quanto coincidente con l’emporio della città era in origine probabilmente esterno al pomerio e alle mura; il suo inserimento nell’ambito della città è connesso all’assorbimento progressivo della plebe nel corpo cittadino; la fascia prospiciente il portus, esclusa nel IV sec. dall’ampliamento delle mura repubblicane, fu scelta per la celebrazione di tipici riti di margine o di confine, come il seppellimento rituale di una coppia di Galli e una di Greci.112 Sul limite settentrionale dell’area secondo la tradizione Servio Tullio fece erigere intorno al 580 a. C. sullo stesso basamento due templi gemelli dedicati a Fortuna e a Mater Matuta;113 importante la presenza dell’acqua, visto l’affaccio diretto del santuario sulla palude del Velabro e la presenza di numerose cisterne ascrivibili anche ai rituali praticati in questo luogo sacro.114 La prima delle due divinità è estranea alla religione romana primitiva115 – forse introdotta dal re

104 Fest. 164 L; Val. Max. VII 3, 1; Prop. IV 8, 29; Mart. VI 64, 13. 105 Altra caratteristica di “marginalità”: il re, figlio di una schiava, volle che il tempio ricevesse un culto particolarmente dagli schiavi, che il 13 agosto, detto anche dies servorum, non dovevano lavorare: cfr. Fest. 432 L; Plut. Q. R. 100; WISSOWA 19122, 350; SCULLARD 1981, 174. 106 Varr. De l. L. V 43; Liv. I 45, 2–6; Dion. Hal. IV 26. 107 Dion. Hal. X 32; Liv. III 31. 108 Dion. Hal. IV 26; nell’area del santuario era probabilmente contenuto anche il testo di una lex arae Dianae che serviva da modello di regolamento per altri culti: CIL III 1933; XI 361; XII 4333. 109 MERLIN 1906, 202, ritiene che il tempio sia stato costruito sull’Aventino per mancanza di spazio nella zona del Velabro, dove avrebbe invece trovato posto la sua statua, sembra di capire approssimativamente nella stessa data di dedica del tempio. 110 In generale sul Foro Boario, cfr. COARELLI 1988a. 111 COARELLI 1995, 295–296, anche sull’originaria estraneità del culto del culto di Ercole presso l’ara Maxima. 112 Tale sacrificio si verificò certamente nel 225 e nel 216 a. C.: Oros. IV 13, 3–4; Liv. XXII 57, 6; Plin. N. h. XXVIII 2, 12; Plut. Marc. III 6. Nel Foro Boario ebbero luogo anche il primo munus gladiatorio nel 212 a. C. e vari prodigia: cfr. COARELLI 1995, 296–297. 113 Dion. Hal. IV 27, 7; IV 40, 7; Liv. V 19, 6; Ov. Fasti VI 569–572, 613–626; Plut. Q. R. 74; Fort. Rom. 10; cfr. PISANI SARTORIO 1995; COARELLI 20033, 373–375. 114 PISANI SARTORIO 1995, 282. 115 In generale su Fortuna, cfr. KAJANTO 1981, 502–558; CHAMPEAUX 1982–1987; COARELLI 1988a, 253–328.

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stesso116 –, e anche la seconda, pur presente nel più antico calendario romano, proveniva da Satrico o da un altro degli antichi santuari del Latium (si è ipotizzato anche tramite un’evocatio)117. I templi vennero dedicati lo stesso giorno, l’11 giugno118. Il santuario fu ricostruito119 (o ridedicato)120 da Furio Camillo probabilmente appena dopo l’incendio gallico, secondo i termini del votum pronunciato nel 396 a. C., poco prima cioè della partenza del dittatore per piegare definitivamente Veio.121 Proprio qui sono state rinvenute le tracce di alcuni donari, dei quali uno almeno è quasi certamente quello eretto da M. Fulvio Flacco e ornato da alcune delle statue bronzee provenienti da Volsinii, come fanno presumere le tracce di perni.122 Possiamo constatare quindi come i costruttori di un tempio sull’Aventino intervennero in qualche modo anche nella medesima area del Foro Boario, e come lo avessero fatto anche in relazione a divinità evocate o quantomeno importate; tutti e tre inoltre erano in rapporto con gli Etruschi.123 C’è dell’altro. Il tempio di Diana e quello di Voltumna-Vortumnus condividevano il dies natalis, il 13 agosto.124 Inoltre, le due divinità erano state le protettrici delle due principali leghe centro-italiche, l’etrusca e la latina, che Roma gradualmente incorporò o ridusse ad un ruolo puramente esteriore,125 e ad esse era dedicato il luogo sacro centrale delle rispettive federazioni: il tempio in cui il celebre e misterioso rex Nemorensis tributava il culto a Diana Aricina126 e il Fanum Voltumnae. Inoltre per entrambe si è ipotizzata un’evocatio, certa invece nel caso di Iuno Regina: questa dovette avere un qualche rapporto con Diana, se il medesimo personaggio, M. Emilio Lepido, nel corso di due campagne contro i Liguri votò due templi alle dee, nel 179 a. C., mentre ricopriva la carica di censore;127 il tempio di Iuno Regina era forse collegato al tempio di Fortuna nel Foro Boario.128

116 All’interno del tempio era conservata una statua in legno del re stesso che dovette avere con la divinità un rapporto ierogamico: cfr. COARELLI 1988a, 253–363; PISANI SARTORIO 1995, 281. 117 PISANI SARTORIO 1995, 281; su Mater Matuta cfr. COARELLI 1988a, 244 sgg.; DUMÉZIL 20012, 59–63. 118 Paul. Fest. 113 L; CIL I2 216, 221, 224, 226, 320. 119 COARELLI 20033, 375. 120 Liv. V 19, 6; 23, 7. 121 Votum relativo in realtà al solo tempio di Mater Matuta: cfr. supra, par. 4.1.3. 122 Nella fase V della classificazione presente in COARELLI 20033, 374; cfr. TORELLI 1968, 71– 76; PISANI SARTORIO 1995, 283. 123 Cfr. in part. COLONNA 1980, 174, su Camillus quale cognomen di origine etrusca. 124 CIL I2 217; 240; 244; 325; cfr. inoltre supra a proposito dell’ubicazione del tempio. La coincidenza è del tutto casuale per WISSOWA 1924a, 221, e EISENHUT 1958, 1676, il quale nota tuttavia che a differenza degli altri templi aventi lo stesso dies natalis quelli di Diana e Vortumno condividevano anche una vicinanza di carattere topografico. 125 Liv. I 45, 3: [parla Servio Tullio]: caput rerum Romam esse, de quo totiens armis certatum fuerat. Cfr. ROHDE 1963, 192–193. 126 Varr. De l. L. III 43: commune Latinorum Dianae templum. Sul rex Nemorensis cfr. Suet. Calig. 36; Paus. II 27, 4; Strab. V 3, 12; Ovid., Fasti III 271; Serv. Ad Aen. VI 136; BRELICH 1949a, 25–30; MALAVOLTA 2006, 39–51. 127 Liv. XXXIX 2, 8; 2, 11 (sui vota); XL 52, 1–4 (sulle dedicationes). 128 COARELLI 1997, 487.

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Per quanto riguarda infine i rapporti tra la Giunone di Veio e Voltumna-Vortumnus, oltre alla collocazione dei templi sull’Aventino e alla provenienza di entrambi da importanti città etrusche, merita una menzione la recente e articolata ipotesi secondo la quale l’eccessiva accelerazione della scala della politica estera romana che portò la città a confrontarsi dapprima con un centro vicino come Veio e poco tempo dopo alla conquista di due città ben più lontane (Falerii e Volsinii) e a portare aiuto ad un’altra ancora più distante (Chiusi) porterebbe a distinguere nettamente due fasi: nei pressi e lontano da Roma. Di conseguenza, la datazione della conquista di Veio andrebbe anticipata e sarebbe rappresentata dall’episodio di Aulo Cornelio Cosso e del re veiente Tolumnio, mentre il vero assedio avrebbe interessato la città di Volsinii.129 8.2.3. Sulla probabilità di un’evocatio di Voltumna Fissati tutti i dati utili, resta finalmente da capire se a Volsinii abbia avuto luogo un’evocatio e da analizzare il processo che portò Voltumna ad essere identificato con Vortumnus. Quanto al primo punto, la probabilità è elevata. Innanzitutto il contesto bellico: il rito evocatorio era praticato di fronte alle mura della città assediata, come avvenne certamente a Veio e a Cartagine, e Properzio fa asserire al dio di aver abbandonato la sua città inter proelia;130 vi è stato un votum che portò alla dedica di un tempio; la città subì una devotio hostium, praticabile solo dal detentore dell’imperium (in questo caso il console M. Fulvio Flacco) e la cui conditio sine qua non era che in precedenza la divinità tutelare doveva essere evocata per non compiere un’azione sacrilega.131 La maggior parte degli studiosi si è pronunciata in tal senso:132 l’ipotesi più articolata – anche se puramente congetturale – è quella del Basanoff, che pensa alla presenza di un altare nel vicus Tuscus prima dell’evocatio e a una sua riconsacrazione e alla collocazione su di esso della statua del dio dopo i fatti del 265/264 a. C., in maniera simile a quanto avvenuto per il tempio di Mater Matuta dopo la presa di Veio.133

129 MORA 1999, 135–136. 130 IV 2, 3–4: Tuscus ego Tuscis orior, nec paenitet inter / proelia Volsinios deseruisse focos. Non è a mio avviso accettabile l’opinione di EISENHUT (1958, 1677) il quale intende l’aggettivo Volsinios semplicemente come sinonimo di Tuscos, da intendere quindi come pars pro toto e poiché Volsinii era città eminente tra le etrusche e per ragioni di stile, per evitare cioè di ripetere per la terza volta il medesimo aggettivo. 131 Serv. Ad Aen 351; Macr. Sat. III 9, 2. 132 WISSOWA 19122, 287; BASANOFF 1947, 57; VAN DOREN 1954, 493; BRUUN 1972, 114; COLONNA 1985, 112; COARELLI 20033, 410; prudenza in RAWSON 1973, 170 n. 78; GUITTARD 1998b, 56; GUSTAFSSON 2000, 56. 133 Sulla posizione di BASANOFF riguardo a tutte le questioni sollevate, v. BASANOFF 1947, 56– 63.

8.2. I RAPPORTI TRA VOLTUMNA E VORTUMNUS

143

Molto meno correttamente tuttavia s’intende di solito che il dio portato dalla potente città etrusca fosse Vortumnus. 134 Anche il Devoto, cui si deve l’analisi linguistico-strutturale che ci ha consentito di fissare la diversa origine delle due divinità, tenta di conciliare le evidenze linguistiche con le testimonianze storiche cercando di giustificare l’innegabile etruscità di Vortumno in Varrone con l’ingresso della parola di origine indoeuropea nella lingua etrusca nella fase antichissima del «protolatino»135. Non vi è tuttavia bisogno di supporre una ricostruzione siffatta, poiché più semplicemente, come si è accennato, da Volsinii in realtà giunse a Roma il solo Voltumna, «interpretato» come Vortumnus, che non si mosse invece dalle sedi originarie. Tale considerazione consente anche di superare un’obiezione più volte avanzata ad una possibile evocatio avvenuta nel 265/264 a. C. secondo cui Vortumno, divinità italico-romana, identificato in una certa fase con l’etrusco Voltumna, non sarebbe potuto essere evocato perché la sua statua si trovava già da lungo tempo nel vicus Tuscus.136 8.2.4. (Un) Giove etrusco? Voltumna non era un dio locale, ma con grande probabilità è da identificare nientemeno con Tinia (frequente anche la forma Tin, ad esempio sul fegato di Piacenza), la divinità suprema degli Etruschi, omologa al Giove romano.137 Voltumna costituì forse inizialmente solo un epiteto (*Tin(ia) Velthumna)138, applicato a Tinia per caratterizzare la sua funzione particolare a Volsinii – e contenente probabilmente anche un riferimento alla città stessa139 –, poi «autonomizzatosi»140. Lo stretto legame dell’epiteto con una città in particolare spiegherebbe inoltre sia perché esso non sia attestato in Etruria, sia perché al contrario esso sarebbe stato estremamente “valorizzato” a Roma in funzione propagandistica, oltre che 134 Ad es. WISSOWA 19122, 287; BASANOFF 1947, 56 sgg.; VAN DOREN 1954, 493; SUITS 1969, 485; ORLIN 1997, 12, n. 4. 135 DEVOTO 1940, 277–280. 136 RADKE 1965, 317–318; ARONEN 1999e, 214. 137 PETTAZZONI 1928; PFIFFIG 1975, 231–234; RONCALLI 1985, 64–69, sulle testimonianze, soprattutto epigrafiche, relative alla presenza e al ruolo di Tinia ad Orvieto; CRISTOFANI 1985; CRISTOFANI 1999, 207. CAPDEVILLE 1999, 124–129 (con cui non concordiamo), ritiene invece che Tinia e Voltumna fossero due divinità diverse, secondo la distinzione tra summus e princeps (a partire dalla più volte citata definizione data da Varrone a proposito di Vortumno come deus Etruriae princeps); tale differenza avrebbe avuto un riflesso topografico nella posizione dei templi delle rispettive divinità: sull’acropoli Tinia, nella pianura sottostante Voltumna. Contrario a questa identificazione ELBOJ 1992, 135–139 che lo ritiene invece un omologo di Marte. 138 Analogamente a tina θvariena, cui era tributato un culto nell’area C del santuario di Pyrgi o a tinia calusna adorato nell tempio del Belvedere a Orvieto: CRISTOFANI 1985, 80. 139 EISENHUT 1961a, 850–851; CAPDEVILLE 1999, 122–123 e n. 62; una conferma ulteriore verrebbe secondo CRISTOFANI 1985, 80, dal fatto che i nomi del tipo in -mena (-mna) hanno una maggiore condensazione nelle zone di Volsini-Chiusi, piuttosto che in area meridionale. 140 PFIFFIG 1975, 235 sgg.; RONCALLI 1985, 73; CRISTOFANI 1985, 79–80; DE SIMONE 1997, 188; contra CAPDEVILLE 1999, 124–129.

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8. VOLTUMNA – VORTUMNO

per la presenza di un Giove talmente importante da oscurare tutti gli altri, Giove Ottimo Massimo.141 Nell’unica attestazione etrusca giunta fino a noi, uno specchio, databile al IV sec., proveniente da Tuscania e raffigurante l’extispicio di Pava Tarchies e Avle Tarchunus, compare un Veltune (esito di un arcaico *Velθunaie > Velθunie)142. Questi è rappresentato come un uomo barbuto e con la lancia, conformemente ad un’iconografia di stampo ellenizzante riferibile anche a Tinia.143 Quanto alle sembianze di Vortumno a Roma si è ipotizzato che la sua statua lo ritraesse come un giovane di graziose fattezze, se Properzio e Ovidio l’ebbero presente nel comporre i loro versi. 144 Le due iconografie dovevano quindi essere diverse, ma si ricordi che anche il Veltune etrusco poteva essere considerato in senso lato un iuvenis secondo la classificazione romana delle classi d’età, che fin dalla metà del V sec. a. C. in alcuni specchi etruschi, ma anche in ambiente italico, Tinia è rappresentato secondo un tipo giovanile senza barba145 – sull’identità non vi sono dubbi in quanto vi è sempre l’attributo dello scettro o del fulmine146 – e che conosciamo altri esempi di Giove “giovane”, come Iuppiter Anxurus.147 La difficoltà è comunque acuita dalla capacità del dio di mutare forma.148 Non poteva d’altronde essere una divinità locale la protettrice del luogo di riunione dei duodecim populi etruschi ma, così come accadeva con Iuppiter Latiaris per la Lega Latina e Zeus Amarios per quella achea,149 un dio riconosciuto come importante e venerato da tutti i membri della federazione. Non può essere allora un caso che il dies natalis del tempio di VoltumnaVortumnus sia il giorno del mese per eccellenza sacro a Giove, le Idi, 150 in questo caso di agosto, lo stesso giorno in cui venne dedicato il tempio della divinità federale “erede” di Iuppiter Latiaris, Diana Aricina.151 Il voler mantenere separati a tutti i costi Tinia e Voltumna d’altronde porterebbe a inevitabili forzature, come quella del Milani,152 il quale ritenne Vortumno il vero dio supremo della religione etrusca (concepito come divinità solare), mentre Tinia sarebbe stato introdotto in Etruria solo nella seconda metà del IV sec. a. C. Secondo il tipico procedimento dell’interpretatio Romana, legato al «filtro» del collegio pontificale operante al momento di introdurre nuovi culti, Voltumna 141 142 143 144 145 146 147 148 149 150 151 152

RONCALLI 1985, 73. COLONNA 1999, 12. EISENHUT 1961a, 854; HARARI 1997, 282; MASSA-PAIRAULT 1999, 86. EISENHUT 1958, 1681–1682. PETTAZZONI 1928, 211 e 213, n. 1; CRISTOFANI 1985, 85; MASSA-PAIRAULT 1999, 86–87, che riconosce in una statua proveniente da Monterazzano, vicino Viterbo, la versione romana e imperiale del tipo di Tinia Voltumna. Sul rapporto dell’attributo caratteristico di Tinia, il fulmine, e la scienza fulgurale presente nell’Etrusca disciplina, v. PETTAZZONI 1928, 212–224. Cfr. Verg. Aen. VII 799; Serv. Ad l.; Porph. Ad Hor. Sat. I 5, 26; PETTAZZONI 1928, 211. EISENHUT 1958, 1686. Strab. VIII 7, 3; Polyb. V 93, 10; PETTAZZONI 1928, 212. Cfr. RADKE 1987, 80; in generale sulle idus, BRELICH 1972a; DUMÉZIL 20012, 169–170. Anch’essa elargitrice di sovranità: v. la profezia in Liv. I 45, 3–7. MILANI 1892.

8.2. I RAPPORTI TRA VOLTUMNA E VORTUMNUS

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venne fatto coincidere a Roma con Vortumnus.153 Ma cosa portò a tale identificazione? 8.2.5. Voltumna–Vortumnus: interpretazione, sovrapposizione e identità Innanzitutto la statua nel vicus Tuscus. Vortumno dovette essere considerato il protettore del luogo etrusco di Roma per eccellenza in ragione della grande antichità della sua statua, e per questo e per la venerazione particolare dei Tusci di Roma fu in realtà esso ad essere etruschizzato.154 A ciò si aggiunga una venerazione di tipo più generale e dal duplice carattere: agrario, per cui la statua veniva ogni anno coronata di fiori e le venivano offerte le primizie dei campi;155 relativo agli scambi e ai commerci effettuati in quel luogo.156 Molto probabilmente anche Voltumna, per la tutela esercitata sulla lega e sul luogo delle riunioni di essa, doveva avere delle connessioni con la sfera economica, più in particolare con le attese e i prodotti dell’agricoltura e con gli scambi e i commerci.157 La collocazione della statua di Vortumno partecipava inoltre della natura dei luoghi in cui M. Fulvio Flacco decise di onorare il dio: l’Aventino, il Foro Boario e il vicus Tuscus erano infatti tutti e tre dei luoghi frequentati assiduamente da stranieri, anche in ragione delle attività commerciali che vi avevano luogo. Una differenza fondamentale tra il sito del tempio e quello della statua però c’era, e importante: quest’ultima si trovava all’interno del pomerio. Anche per questo forse, parallelamente all’identificazione, rimase un certo grado di distinzione tra le due divinità, riflessa dalla palese contraddizione presente Properzio, che fa dire a Vortumno: 158

nec templo laetor eburno: Romanum satis est posse videre Forum,

nonostante il poeta non potesse ignorare la presenza del tempio sull’Aventino. E allora possiamo solo ipotizzare che fosse rimasta una differenza soprattutto a livello di religiosità popolare tra un dio onorato da tempo immemorabile in un luogo frequentatissimo tramite una statua visibile a tutti e un dio la cui provenienza e connotazione etrusche erano note ma relativamente recenti – due secoli prima dell’epoca di Properzio; non si dimentichi anche che la data era certamente fissata dal natalis del tempio e forse anche dall’iscrizione sul donario del Foro

153 Sull’interpretatio, cfr. supra, par. 2.4. 154 ARONEN 1999c, 311. 155 Prop. IV 2, 11–18; 41–46; Colum. De r. r. X 308 sgg.: mercibus ut vernis dives Vortumnus abundet, et titubante gradu multo madefactus Iaccho aere sinus gerulus plenos gravis urbe reportet; per queste caratteristiche come decisive per la caratterizzazione di un Vortumno fondamentalmente “agrario”, v. CRISTOFANI 1985, 84–86. 156 WISSOWA 1924a, 220. 157 PALLOTTINO 19847, 311–312; RONCALLI 1985, 69–72. 158 IV 2, 5–6.

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8. VOLTUMNA – VORTUMNO

Boario –, onorato in un tempio edificato in una zona ancora “altra” visto che l’Aventino fu incluso nel pomerio solo da Claudio.159 Anche l’iconografia, che abbiamo visto dovette presentare alcuni elementi di somiglianza, aveva verosimilmente pure delle caratteristiche distintive, essendo funzionale all’identificazione delle due divinità solo in seconda istanza, mentre altri furono i motivi principali, vale a dire l’etruscità “acquisita” (per Vortumno) e la grande somiglianza tra i due nomi, per cui si è parlato anche di «approssimazione fonetica»160. Una volta subito il processo di rotacizzazione della l161 infatti, il nome delle due divinità diveniva quasi identico.162 La trascrizione in o della prima vocale in Livio (dalla forma autentica *Velthumna o *Veltumna) corrisponde invece al trattamento normale in latino di un e etrusco compreso fra un v e un l velare.163 Decisiva dovette essere tuttavia la presenza del gruppo -mn-: anche se pienamente latino in Vortumno, fu avvertito come straniero per la sua frequente presenza in etrusco – lingua che i Romani colti conobbero e parlarono a lungo164 –, pur avendo tutt’altra origine, secondo la già considerata classificazione di G. Devoto.165 Alla sabinità menzionata da Varrone fu invece forse funzionale il fatto che nelle vicinanze del tempio sull’Aventino si trovasse la tomba di Tito Tazio.166 Possiamo ipotizzare infine che vi sia stata anche una particolare attenzione da parte dei Romani nel relazionarsi al dio protettore della lega etrusca, visto che molti dei membri di essa all’epoca della conquista di Volsinii non erano sottomessi e che comunque in qualche modo il fanum dovette essere attivo anche in età tarda, considerato che nel Rescritto di Costantino (IV sec. d. C.) si attesta delle riunioni aput Volsinios, Tusciae civitate(m)167, il che comporta necessariamente la presenza di un luogo sacro – la mancata menzione sembra indicativa.168 Non si di159 CATALANO 1978, 487; si ricordi infine che i templi di solito erano chiusi (cfr. ad es. Sen. Ep. 41, 1; Liv. XXX 17, 6) e che quindi molte meno persone potevano aver presente l’iconografia della statua di culto di Voltumna-Vortumnus. 160 DUMÉZIL 20012, 300; cfr. CAPDEVILLE 1999, 119–120. 161 Fenomeno invero non usuale: cfr. CRISTOFANI 1985, 76; CAPDEVILLE 1999, 119, che pensa a una pronuncia «popolare»; molto più difficile da accettare la posizione di EISENHUT 1961a, 852, dato che il passaggio da l a r ha dovuto effettuarsi in latino, non in Asia Minore. 162 Cfr. ad es. PETTAZZONI 1928, 208, in cui compare il binomio Vortumnus (Vertumnus) – (Vortumna) Voltumna. 163 Come in Volsinii rispetto a Velzna, Volturnus rispetto a *Velθurna, etc. Cfr. DE SIMONE 1975, 145 sgg; CRISTOFANI 1985, 75; CAPDEVILLE 1999, 119. SABBATUCCI 1988, 296, ipotizza che Volturnus possa essere un altro nome di Vertumnus. 164 Cfr. Liv. IX 36. 165 Cfr. supra; CRISTOFANI 1985, 76–78, pensa invece a Voltumna come derivato da una base velθu- con aggiunta del suffisso -me, secondo un fenomeno riscontrabile in una serie di gentilizi etruschi, per cui cfr. anche DE SIMONE 1975, 145 sgg. 166 Varr. De l. L. V 152; Fest. 496 L. 167 E non sarebbe determinante se il fanum fosse rimasto nel luogo originario o fosse stato avvicinato alla nuova Volsinii: gli scrittori antichi, non distinguendo mai fra i due siti, testimoniano una continuità, in particolare dei culti. Sul Rescritto v. l’esauriente bibliografia in SENSI 1999, 365, n. 1. Sfugge per quali motivi, in base al testo del Rescritto, il RADKE (1965, 320) possa ritenere Voltumna una divinità umbra piuttosto che etrusca. 168 EISENHUT 1961a, 850.

8.2. I RAPPORTI TRA VOLTUMNA E VORTUMNUS

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mentichi infine che ancora in età augustea Livio poteva leggere sulle sue fonti il nome della divinità tutelare del fanum. Il destino di Voltumna-Vortumnus a Roma non sarà particolarmente glorioso, almeno stando alla scarsità di notizie nelle fonti.169 Il tempio non è più menzionato dopo i primi anni della nostra era, se riportiamo a Verrio Flacco la notizia presente in Festo circa la pittura in esso conservata.170 Quanto alla statua del dio, essa continuò a godere del culto dei fedeli fino ad età tarda, considerato che al tempo di Diocleziano ci si preoccupò di restaurarla.171 Ma con ciò Voltumna-Vortumnus non fu condannato ad essere ricordato solo da pochi antiquari: divenne anzi un soggetto caro agli artisti, quali Francesco Melzi, Luca Giordano, Antoon Van Dyck, Jean Ranc, François Boucher, Jean-Baptiste Lemoyne il Giovane, Laurent Delvaux, Camille Claudel e molti altri, che gli consentirono di vivere una piacevole pensione dorata dedita alle schermaglie amorose con la diletta ninfa Pomona.172

169 Alla luce della quale BASANOFF 1947, 57, ritiene pertanto Vortumno ricevesse il culto dai pontefici piuttosto che dal popolo. 170 228 L; MERLIN 1906, 310, 312. 171 CIL VI 804: Vortumnus temporibus Diocletiani et Maximiani. La base in marmo, ora scomparsa, fu rinvenuta nel 1549 tra le colonne del tempio dei Castori e la chiesa di S. Teodoro. 172 Ov. Met. 622–771; DUMÉZIL 20012, 301; anche Pomona in origine era una divinità maschile: cfr. DUCATI 1925, 104.

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9. LA DIVINITÀ TUTELARE DI ISAURA VETUS 9.1. UN ALTRO CASO DI EVOCATIO? 9.1.1. L’iscrizione Nel settembre del 1970 Alain Hall ha scoperto a NO di Bozkir, nell’attuale Turchia centro-meridionale, un’iscrizione su un blocco di granito relativa alla conquista della città di Isaura Vetus da parte di Publius Servilius Vatia.1 Siamo ben informati circa il cursus honorum del personaggio: console nel 79 a. C., l’anno seguente fu nominato proconsole di Cilicia con il compito di contrastare i pirati che, a seguito del vuoto di potere creatosi con la sconfitta di Antioco, avevano potuto ricominciare le loro funeste attività senza impedimenti. In questo compito egli riportò notevoli successi, occupando le coste della Licia e della Panfilia, avanzando poi attraverso il Tauro (primo tra i Romani) e sottomettendo definitivamente gli Isauri nel 75.2 Il testo dell’iscrizione recita: Serveilius C(aii) f(ilius) imperator, hostibus victeis, Isaura Vetere capta, captiveis venum dateis, sei deus seive deast, quoius in tutela oppidum vetus Isaura fuit, [x] votum solvit.

9.1.2. Probabilità di un’evocatio Questa scoperta ha una grandissima importanza ai fini dello studio dell’evocatio. Sebbene s’imponga una certa prudenza – lo stesso Hall parla di un rito ad essa «simile»3 –, non vi sono serie ragioni per dubitare che di fronte alla città anatolica sia stato praticato questo particolare rituale. Nel testo dell’iscrizione sono infatti presenti tutte le caratteristiche proprie al rito, ovvero: 1) Vi è la consueta formula cautelare sive deus sive dea. Così come nel carmen evocationis tramandatoci da Macrobio ci si rivolge alla divinità locale sostituendo al teonimo tale formula, qui resa con grafia “arcaizzante”, sei deus seive

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HALL 1973; «AE», 1977, 816; CIL I2 2954, p. 953. Per le fonti cfr. ORMEROD 1922; SHERK 1984, 67; GREENIDGE – CLAY – GRAY 1986, 235– 244; RÜPKE 2005, II, 1285; in part. per il cursus honorum, BROUGHTON 1951, II, 82, 87, 90– 91, 99, 105, 114, 206, 333. HALL 1973, 570.

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9. LA DIVINITÀ TUTELARE DI ISAURA VETUS

deast: con essa il romano si cautelava da possibili imprecisioni o errori, anche involontari, circa l’essenza o il nome dell’essere divino invocato.4 2) Il destinatario è chiaramente la divinità tutelare dell’oppidum. Nonostante quest’ultimo termine sia molto meno frequente di urbs in riferimento all’evocatio, pure esso compare in una fonte importante come Verrio Flacco, tramandato da Plinio.5 3) Vi è stato un votum, e si specifica che esso è stato sciolto.6 Non ne compare tuttavia l’oggetto, anche se dalle altre testimonianze si può ipotizzare che ci si riferisca a dei giochi, a un culto o a un tempio: in quest’ultimo caso, visto il lasso di tempo che intercorreva solitamente tra voto e dedica7 – o comunque necessario all’edificazione dell’edificio sacro – la datazione dell’iscrizione potrebbe essere abbassata di uno o più anni. 4) Gli abitanti sono stati venduti come schiavi. In teoria è ipotizzabile anche una devotio hostium, 8 cioè la distruzione della città, e di tutto ciò che in essa era contenuto, con la conseguente consacrazione alle divinità infere. Nei casi di evocatio conosciuti o verosimili, gli abitanti della città conquistata e/o distrutta (o per meglio dire i superstiti, visto che il rito presuppone delle ostilità e una resistenza armata) risultano o deportati in un nuovo sito o appunto venduti come schiavi. Inoltre P. Servilio Vatia aveva tutte le carte in regola per votare sacralmente una città, in quanto detentore dell’imperium, secondo la già vista affermazione di Macrobio: Urbes vero exercitusque sic devoventur iam numinibus evocatis, sed dictatores imperatoresque soli possunt devovere…9 Il testo purtroppo non dice nulla sulle caratteristiche dell’evocatio, ma la sua importanza non viene sminuita dato che costituisce la prima testimonianza epigrafica del rito, diretta e ben datata; inoltre conferma sostanzialmente l’attendibilità del carmen trasmessoci da Macrobio,10 la cui antichità non può perciò più essere messa in dubbio.11 Così come negli altri casi sopra accennati, anche la presa dell’oppidum di Isaura Vetus fu allo stesso modo laboriosa e decisiva. Mentre infatti le fonti non si soffermano sui particolari delle conquiste precedenti (tra cui le città licie Phaselis e Olympus e la cilicia Corycus), Isaura Vetus richiese invece notevoli sforzi, anLE GALL 1976 521–522; ALVAR 1985; DUMÉZIL 20012, 53–56; GUITTARD 2002, 25–54; FERRI 2006, 216–222; cfr. infra, par. 11.2. 5 Plin. N. h. XXVIII 18, ma anche Macr. Sat. III 9, 13 a proposito delle devotae urbes. È possibile che con esso più che alla città ci si potesse riferire alla comunità dei cittadini: cfr. PEPPE 1990, 337. 6 LE GALL 1976, 521. 7 Sulla funzione e il significato del votum dei templi nel sistema religioso romano, cfr. da ultimo ORLIN 1997. 8 Sulla distinzione devotio hostium – devotio ducis cfr. supra, par. 5.4. 9 Sat. III 9, 9. 10 RÜPKE 1990, 164. 11 Macrobio (Sat. III 9, 6) asserisce di aver rinvenuto la formula del carmen evocationis in un’opera di Sammonico Sereno, che avrebbe a sua volta attinto da un certo Furio, verosimilmente Lucio Furio Filo, amico di Scipione Emiliano, il distruttore di Cartagine: cfr. supra, parr. 3.3; 4.4. 4

9.1. UN ALTRO CASO DI EVOCATIO?

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che perché si dovette deviare un fiume o isolare la città dalle sue risorse idriche.12 Fu proprio questa impresa, che mise fine alla guerra, ad essere considerata dai contemporanei come la più notevole tra quelle compiute da Servilio, e tale da valergli il trionfo a Roma e il cognomen ex virtute di Isauricus, che sarebbe passato poi al figlio.13 P. Servilio Vatia, inoltre, figlio e nipote di auguri (C. Servilio e Q. Cecilio Metello Macedonico)14, era anche un pontefice di lunga esperienza nell’ambito del collegio,15 visto che all’epoca della campagna in Asia Minore ne faceva parte già da più di venti anni.16 Nel 63 si candidò anche alla carica di pontefice massimo. Nulla vieta pertanto di pensare che proprio il generale, in qualità di pontifex, abbia pronunciato il carmen evocationis di fronte alla città assediata:17 tale testo sacro era certamente custodito proprio nei libri pontificales18 ed era pronunciato dai sacerdoti.19 La divinità fuit quella sotto la cui tutela si trovava la città: proprio il perfetto potrebbe far pensare che la statua fosse stata trasportata a Roma, dove il dio/la dea avrebbe perso le sue prerogative di divinità poliade, come era successo d’altronde a tutte le altre divinità evocate, per ricevere un culto ed entrare a far parte del pantheon romano. Diversamente o, pur rimanendo sul luogo, essa perse questa funzione, oppure altre divinità romane l’affiancarono nello stesso sito. Non è da escludere quindi che la divinità abbia ricevuto un tempio sul luogo: Beard, North e Price parlano in proposito di un «rilassamento» dei tradizionali obblighi religiosi del rituale20 e di un’evoluzione dei concetti di «romanità» e «romano», per cui se precedentemente offrire una dimora romana alla divinità evocata significava consacrarla nella città di Roma, alla fine della Repubblica, in piena espansione imperialistica e con il conseguente cambiamento e ampliamento di prospettive, il territorio provinciale poteva essere considerato abbastanza romano da valere per l’Urbe stessa.21 La collocazione su un edificio, presumibilmente il tempio, sarebbe desumibile dalle caratteristiche stesse dell’epigrafe: la lavorazione della parte posteriore del blocco, lasciata grezza, che suggerisce già di per sé l’inserimento in una costruzione di dimensioni non trascurabili (il blocco stesso è largo più di un metro, alto più di mezzo e spesso 30 cm), il fatto che le lettere della prima linea siano alte 6 cm (più di un cm rispetto alle successive, anche per dar risalto al nome dell’imperator), ma soprattutto che l’ultima linea sia scolpita a una certa distanza 12 Sull’ubicazione delle due città di Isaura Vetus e Nova, cfr., con posizioni opposte, ORMEROD 1922, 44–47 e HALL 1973, 570. L’incertezza influisce poco sulla questione trattata, visto che entrambe le città vennero prese per sete. 13 Fonti in BROUGHTON 1951, II, 105. 14 RÜPKE 2005, II, 1285, n. 4. 15 BROUGHTON 1951, II, 620. 16 RÜPKE 2005, II, 1285, pone la sua cooptazione intorno al 103 a. C. 17 LE GALL 1976, 520. 18 Plin. N. h. XXVIII 18; LE GALL 1976, 522. 19 Plin. N. h. XXVIII 18. 20 «Watering down»: BEARD, NORTH & PRICE 1998, 133–134. 21 Ibid., 134. Traggo il corsivo dagli autori.

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9. LA DIVINITÀ TUTELARE DI ISAURA VETUS

dal bordo inferiore dell’epigrafe, hanno portato Le Gall ad ipotizzare che essa fosse destinata ad essere vista dal basso verso l’alto.22 Non è tuttavia corretto desumere da ciò che le divinità evocate ricevessero sempre il culto loro promesso sul posto.23 9.1.3. Considerazioni metodologiche L’evocatio d’altronde aveva sicuramente subito dei cambiamenti rispetto alle caratteristiche desumibili da Livio e Macrobio.24 Non mi sembra pertanto da condividere l’osservazione di G. Gustaffson che, a proposito della posizione di Beard, North e Price, puntualizza che di «rilassamento» dei tradizionali obblighi del rituale si potrebbe parlare se veramente conoscessimo questi ultimi, visto che le fonti risalgono a qualche secolo dopo;25 di più, l’importazione del dio a Roma non sarebbe una caratteristica «fissa», il minimo comun denominatore dell’evocatio essendo solo la conquista.26 L’ultima considerazione è di per sé condivisibile e riflette la distinzione fatta da Festo sui motivi che portarono all’importazione di nuovi culti a Roma,27 ma le altre lo sono assai meno. Anzitutto, se l’opera di ricostruzione della religione romana dovesse basarsi su documenti contemporanei agli eventi, qualunque studioso del settore dovrebbe pensare a cercarsi un altro lavoro, oppure basarsi solo sulle epigrafi o sui documenti tipicamente conservativi come il feriale arcaico, per ignorare il resto.28 Nel nostro caso, cioè le modalità in cui veniva sciolto il votum pronunciato all’atto di evocare la divinità tutelare, dovremmo non considerare che Livio e Macrobio, a quattro secoli di distanza, sono concordi nell’affermare che l’essere divino avrebbe ricevuto un tempio a Roma, in due casi anch’essi distanti più di due secoli (espugnazioni di Veio e Cartagine). La conferma alle parole del primo è fissata nel calendario,29 mentre il carmen evocationis che il secondo riporta per intero chiede alle divinità di accettare di trasferirsi a Roma, dove riceverà un tempio e dei giochi.30 È ovvio che tutto ciò non ci consente di ricostruire un modello ben definito del rito, ma possiamo almeno tener presente le caratteristiche ricorrenti che, fino a prova contraria, costituiranno la base delle nostre speculazioni: a partire da esse si può dire che, se il tempio alla divinità di Isaura Vetus venne dedicato sul posto, siamo di fronte ad un mutamento almeno di un elemento – importante – del rituale. I riti non erano d’altronde affatto immuni dai cambiamenti, spesso anche per ragioni d’ordine meramente pratico: un esempio pregnante è la dichiarazione 22 23 24 25 26 27 28 29 30

HALL 1973, 569; LE GALL 1976, 523. LE GALL 1976, 523–524. FERRI 2006, 240–244. GUSTAFSSON 2000, 62. Ibid., 79. Cfr. supra, par. 2.2.1. Cfr. BRELICH 20103, 87, n. 11; 139–140. CIL I2, 224 (Fast. Arv.): Iunoni Reginae in Aventino. Sul tempio della Caelestis a Roma, cfr. supra, parr. 5.3.1.–5.3.2.

9.1. UN ALTRO CASO DI EVOCATIO?

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di guerra affidata ai feziali, originariamente da compiersi sul confine del popolo contro cui si sarebbero aperte le ostilità, poi, con l’ampliarsi dei confini, presso il lembo di terra prospiciente il tempio di Bellona, all’uopo tramutato in ager peregrinus facendolo acquistare da un soldato straniero.31 Voler ignorare tali conclusioni, per quanto provvisorie, porterebbe a generalizzare troppo, come fa A. Blomart, che estende di fatto la definizione di evocatio a qualunque spostamento di culti, anche quelli patrii.32 Dei cambiamenti d’altronde dovevano esserci stati: dopo la conquista dell’Italia e la seconda guerra punica, con l’importazione di decine di divinità, il pantheon romano doveva essere diventato così funzionale e geograficamente differenziato che da un parte era possibile un’interpretatio Romana della massima ampiezza, dall’altra che le divinità delle regioni più lontane (in senso geografico, ma soprattutto culturale) fossero considerate a tal punto “barbariche” da non essere integrabili;33 ciò poteva essere una proiezione della chiusura all’ammissione di nuovi cittadini nello stesso periodo, proiettando la realtà sociale anche sul piano simbolico.34 Secondo il Rüpke il rito si era ormai ridotto ad un semplice votum.35 9.1.4. Sul mantenimento della formula sive deus sive dea nell’iscrizione Un particolare finora stranamente non notato è il fatto che la formula cautelare sive deus sive dea, comprensibilmente impiegata nel carmen evocationis per rivolgersi con la dovuta circospezione alla divinità tutelare poco prima dell’ordine di attacco, sia mantenuta anche nell’iscrizione. Quando essa viene collocata, infatti, il voto, qualunque esso fosse, è stato sciolto. A questo punto sarà stata insediata una guarnigione o comunque si sarà proceduto ad assicurarsi in qualche modo il controllo dell’oppidum, e di conseguenza si sarà provveduto anche ad entrare in rapporto con le élites locali; queste avrebbero potuto comunicare senz’altro, se prima non erano noti, tutti i dati relativi alla loro divinità maggiore, nome in primis. Che anche in questa fase successiva si mantenga quindi la tipica prudenza romana nel rapporto con il divino, tanto da fissarla su un’iscrizione visibile a tutti, è un fatto notevole: forse i Romani temevano un «colpo di coda» religioso da parte degli autoctoni, cioè un turbamento della pax deum conseguente a un’errata comunicazione del nome divino, fatto tanto più esiziale se l’essere divino era stato già trasferito a Roma, ma non meno dannoso se esso aveva continuato a dimorare nella sua città. Altrimenti, è possibile pensare che, pur sciolto il voto, i pontefici, i soli ad essere competenti in materia di divinità evocate e responsabili dell’accoglimento e

31 Serv. Ad Aen. IX 52; sui genera agrorum, cfr. CATALANO 1978, 492–506; in generale sul concetto di ius fetiale, cfr. CATALANO 1965, cap. I. 32 BLOMART 1997; cfr. la giusta critica in GUSTAFSSON 2000, 76–77. 33 RÜPKE 1990, 164; 257–258. 34 NORTH 1976, 11. 35 RÜPKE 1990, 164.

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9. LA DIVINITÀ TUTELARE DI ISAURA VETUS

dell’adattamento dei culti stranieri al diritto sacro,36 ancora non si fossero pronunciati sul caso relativo ad Isaura, forse anche per la mole di lavoro che Servilio, e non solo lui, stava dando loro in quel momento! Non si dimentichi che Livio o la sua fonte nel racconto della conquista di Veio non avevano avuto problemi a sostituire alla formula che manteneva indefinito il nome divino, il nome proprio della divinità evocata, Iuno Regina, segno evidentemente che il processo d’integrazione della dea nel pantheon romano era ormai completo e ben documentato.37 Terza possibilità, forse la più verosimile, è che ci si riferisca alla divinità «generale» dell’oppidum, al suo genius, categoria che, com’è noto, non possedeva un vero e proprio nome, e a cui la formula sive deus sive dea appare intimamente legata.38 In più, come si è visto, è alla seconda divinità invocata nel carmen (la «particolare») che solitamente era dedicato un tempio a Roma dopo la vittoria: per questo non stupirebbe invece la dedica in loco alla divinità «generale» della città. Si avrebbe inoltre verosimilmente la trascrizione fedele del formulario giuridico specifico dell’evocatio, come spesso accadeva nelle iscrizioni, ad esempio per quanto riguardava gli statuti municipali.39 Con questa attestazione di evocatio viene a cadere la certezza del Wissowa, seguito dal Basanoff e altri,40 per cui tale rito era riservato alle divinità poliadi delle città fondate Etrusco ritu, le sole degne di essere qualificate come urbes: Isaura Vetus è un oppidum dell’Asia Minore.41 L’iscrizione di Isaura Vetus fissa per il momento al 75 a. C. circa il terminus ante quem delle attestazioni del rito.

36 LIV. I 20, 6: [Scil. Numa] Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritos peregrinosque adsciscendo turbaretur. 37 Sul carmen, cfr. supra, par. 5.2. 38 Cfr. in generale infra, cap. 11. 39 Cfr. PACI 1989. Ringrazio la dott.ssa S. ANTOLINI per l’indicazione. 40 WISSOWA 19122, 374; BASANOFF 1947, 21; LATTE 1960, 125; critiche in GRIMAL 1948, 173; CATALANO 1965, 25, n. 42. 41 HALL 1973, 570; LE GALL 1976, 520; BLOMART 1997, 101.

10. RIFLESSIONI CONCLUSIVE 10.1. QUALI DIVINITÀ VENIVANO EVOCATE? 10.1.1. Caratteristiche principali Giunti al termine dell’analisi dettagliata dei casi di evocatio attestati o probabili,1 è possibile trarre alcune conclusioni. La prima è, evidentemente, che le divinità evocate sono le protettrici di centri importanti, «capitali» o simboli di sistemi statali o federali di cospicua rilevanza.2 Il culto di esse è pertanto diffuso oltre le mura cittadine ed è il perno del sistema religioso «locale» (sulla centralità di questo elemento torneremo tra poco). A queste divinità i Romani riservavano il rito evocatorio. La diffusione del culto del dio da evocare ne palesava ovviamente le caratteristiche principali, genere in primis: in caso di sesso femminile l’essere divino era automaticamente interpretato come una Giunone: «Ce n’est certes pas par hasard que la déesse évoquée portait toujours le nom Iuno. Le cas de Caelestis, que l’histoire éclaire pleinement, montre qu’il ne s’agissait que du nom latin 3 considéré par les pontifes comme le plus approprié à cet effet» .

Ciò spiega anche perché Voltumna rimase una divinità di sesso maschile. Il fenomeno è particolarmente evidente nel caso di Tanit che, a rigor di logica, in quanto

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Per amor di completezza daremo conto, senza discuterle, di tutte le altre ipotesi avanzate dagli studiosi circa altre possibili divinità evocate: Dioscuri (BASANOFF 1947, 153 sgg.; BAYET 19692, 123; BRUUN 1972, 118; contra CASTAGNOLI 1983, 8, che ipotizza invece essersi trattato di exoratio; cfr. GUITTARD 1998b, 56, n. 10); Cerere (SABBATUCCI 1988, 143); Dis Pater (PASQUALINI 1996, 227, n. 47); Mater Matuta (COARELLI 1988a, 246; PISANI SARTORIO 1995, 281); Sol (GROß 1950, 1008); Diana Aricina (ROHDE 1963, 192–193; BRUUN 1972, 118; COARELLI 20033, 375); Consus (GROS 1990, 135; COARELLI 20033, 410); Feronia (TORELLI 1982 128; CASTAGNOLI 1984, 19, n. 79); Mefitis (CALISTI 2006, 222–224); Venus Obsequens (RADKE 1965, 314); Minerva Capta (fonti supra, cap. 7); Ianus (MARTIN 1987, 52); Iuno Caprotina (COARELLI 1997, 54); Iuno Sospita (BASANOFF 1947, 134 sgg.; BRUUN 1972, 117; cfr. EISENHUT 1963, 1328); Venus Erycina (BLOMART 1997, 105–106; contra MONTANARI 1976, 212); Cibele (ARRIGONI 1984, 773); Iuppiter Imperator (BRUUN 1972, 116; PALMER 1974, 21; BLOMART 1997, 104; cfr. VAN DOREN 1954, 490); Iuppiter Fulgur (COARELLI 1997, 214 sgg.); divinità tutelare di Numantia (supra, par. 2.3.); Apollo Pizio (DUMÉZIL 20012, 461); Iuno Perusina (PALMER 1974, 33; SORDI 1993; COLONNA – MICHETTI 1997, 159; cfr. supra, par. 5.2.1.); Venus Victrix (BASANOFF 1947, 190–193; ORLIN 2007 68– 69); Yahve dal tempio di Gerusalemme (KLOPPENBORG 2005); dio dei Cristiani (BERNARDI 1979, 78; FERRI 2006, 244; cfr. PFISTER 1966, 1164). Cfr. KÖVES-ZULAUF 1972, 89, n. 91. BASANOFF 1947, 89.

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10. RIFLESSIONI CONCLUSIVE

omologa di Astarte, avrebbe dovuto essere interpretata come una Venere.4 Ma ciò non accadde poiché, oltre alle caratteristiche di dea della sessualità e della fertilità, in quanto protettrice della città essa era anche una divinità poliade e, come spesso avviene in questi casi, guerriera. La divinità scelta dai Romani per «tradurla» nell’Urbe fu dunque Giunone, l’unica che presentasse allo stesso tempo i tre aspetti principali di divinità poliade, guerriera e muliebre;5 ciò oltre al fatto di essere la dea più importante di Roma, come si può dedurre soprattutto dalla sua primordiale posizione calendariale, dalla quale risulta un ruolo inizialmente più importante di quello dello stesso Giove. 10.1.2. Le grandi figure divine dei sistemi politeistici Prima di approfondire ulteriormente il discorso su Giunone, tuttavia, vi sono da fare delle necessarie considerazioni preliminari. Le caratteristiche della dea sono il risultato del carattere «omologante» di tutte le grandi figure divine, le quali nel corso del tempo tendenzialmente assommano in sé competenze e caratteristiche che inizialmente non possedevano. Tale fenomeno avviene su più livelli: al più alto esso include l’assorbimento nella maggiore delle divinità minori; vi è poi l’assunzione di epiclesi, competenze, attributi, etc. Ovviamente ciò avviene in due sensi, non solo dunque con un trasferimento «forzato», con l’imposizione della divinità del conquistatore, ma anche con un’omologazione spontanea della divinità maggiore con quella locale, che da queste assimilazione viene peraltro nobilitata. In entrambi i casi si attiva il meccanismo dell’interpretatio: vi devono essere già delle caratteristiche comuni funzionali al riconoscimento di un essere divino nell’altro. Tutte queste considerazioni hanno a che fare più in generale con la strutturazione propria ai sistemi politeistici.6 Prodotto tipico delle civiltà cosiddette «superiori» (Mesopotamia, Egitto, India antica, Iran zoroastriano, Grecia, Roma, Etruschi e popoli italici, civiltà precolombiane), il politeismo riflette la complessità dell’organizzazione sociale, economica e culturale delle società in cui si sviluppa, tramite la specializzazione dei poteri del mondo extraumano e una gerarchizzazione funzionale all’unità del sistema e alla neutralizzazione di qualsiasi possibile confusione. Esso è una «tendenza a organizzare in figure complesse e differenziate e tra di loro coordinate in un pantheon la totalità di quelle realtà non umane con cui una società ha bisogno di regolare i propri rapporti. Dato questo carattere ‘tendenziale’ del politeismo, la figura divina non è mai statica e definitiva, ma non per questo è un casuale aggregato di elementi eterogenei e dissociabili a volontà; nella fluidità dei processi storici, le divinità, in una religione politeistica, si

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Tra le caratteristiche di Venere vi è anche quella, analoga a Giunone, della «copertura» di culti più antichi: cfr. KOCH 1955, 833; RADKE 1965, 314; SCHMIDT 1997, 193. Stessa interpretazione Astarte-Uni ritroviamo nelle celebri lamine auree rinvenute a Pyrgi: cfr. PALMER 1974, 55; supra, par. 5.3.2. Nello specifico anche celesti: cfr. supra, par. 3.1.2. BRELICH 1966, 151–257; SCARPI 1993; BRELICH 2007.

10.1. QUALI DIVINITÀ VENIVANO EVOCATE?

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costituiscono come nuclei atti a cristallizzare più o meno stabilmente intorno a sé complessi 7 d’interessi più o meno correlati» .

Questi «nuclei» dunque assimilano o espellono nel corso della loro vita uno o più elementi a seconda dei processi storici e religiosi in cui sono coinvolti. Una divinità può diventare «minore» o essere assorbita in una divinità maggiore8, viceversa quest’ultima può assorbire altre divinità, spesso sotto forma di epiteti, formare con un altri dèi un gruppo di divinità «maggiori», o diventare addirittura, tramite un estremo processo di teocrasia, «la» divinità maggiore di un sistema religioso enoteistico.9 Tutti questi processi sono più o meno fluidi: «non è mai esistito un politeismo assolutamente perfetto»10. Essi incontrano inoltre più di un limite. Anzitutto «le grandi divinità, per quanto complesse esse siano, non esauriscono del tutto, nel loro insieme gli interessi religiosi della civiltà che le venera: se così non fosse, le divinità minori non servirebbero e scomparirebbero»11; non esistono divinità «inconfondibili». Inoltre, così come assistiamo a fenomeni di aggregazione attorno al «nucleo» costituito da una grande figura divina, è possibile assistere al processo inverso, vale a dire l’«autonomizzazione» degli epiteti, che può portare alla formazione di entità divine indipendenti.12 Alla luce di quest’ultima considerazione, particolarmente interessante e proficua per il nostro lavoro sarà l’analisi della «dialettica» tra culto «nazionale» (o federale) e culto «locale». Essa può esplicarsi, lo si è visto, in due sensi: la grande divinità può «disgregarsi» in divinità minori, oppure la divinità locale può assurgere a divinità «nazionale»13. Le tendenze rimangono sempre contrastanti e opposte: assimilazione e unità da una parte, indipendenza e particolarismo dall’altra.14 In un sistema sociale come quello romano e italico (ma potremmo estendere il discorso anche alla Grecia), da sempre caratterizzato dalla presenza capillare di città, in ambito religioso fu l’elemento «locale» a mantenere sempre un’importanza rilevante. La divinità poliade era l’«anima» della città, l’elemento aggregante a livello religioso, garanzia di protezione ma anche di indipendenza: era questo vincolo che i Romani spezzavano con l’evocatio. Sia quando veniva trasportata a Roma, sia quando rimaneva nella sua dimora, la divinità andava spesso incontro ai processi sopra descritti, in primis quello dell’interpretatio. Ma anche quando ciò accadeva, essa rimaneva comunque «diversa» per il tramite dell’elemento propriamente «locale». 7 8 9 10 11 12

BRELICH 1969, 475. Ad esempio Pallas da Atena: cfr. ZIEHEN 1949, 189. BRELICH 2007, 59 sgg. Ibid., 99. Ibid., 100. BRELICH 1966, 168; GLADIGOW 1981, 1221 sgg.; AUGÉ 2002, 112–113; BRELICH 2007, 102: «Nessuno può dire con sicurezza se il dio Terminus dei romani (che già nel calendario arcaico aveva una festa propria) sia un’entità scissa da Iuppiter Terminus, oppure sia una divinità originariamente indipendente, che in seguito Iuppiter ha assorbito nella sua più complessa figura, facendone un proprio aspetto (ed epiteto)». 13 Come accadde ad es. in Egitto: BRELICH 2007, 105. 14 Cfr. GLADIGOW 1975, 26.

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10. RIFLESSIONI CONCLUSIVE

10.1.3. Giunone: il significato di una “scelta” Applicando tutte queste riflessioni alla dea dalla quale il nostro discorso ha preso le mosse, diremo che tutte le Giunoni portate a Roma saranno interpretate ed assimilate alla dea già presente in città, senza però mai confondersi con essa: proprio la loro provenienza ne costituiva il tratto maggiormente distintivo e caratterizzante. Si doveva ricordare che esse giungevano a Roma perché protettrici di città vinte, grandi divinità straniere che avevano accettato di mutare la propria dimora, perdendo così il proprio carattere «politico»15. Funzionale a ciò era inoltre il mantenimento o il conferimento di un epiteto accanto al nome di Giunone che, a ben vedere, in quanto divinità importata in tempi antichissimi, quasi mai appare da solo a Roma. In senso opposto, una divinità locale poteva essere intepretata come una Giunone, possibilmente attraverso la trasformazione del suo nome in epiteto della dea, di cui gli dèi locali potevano apparire più tardi come suoi aspetti o manifestazioni.16 È dunque assai probabile che spesso gli epiteti di Giunone non fossero altro che divinità locali in origine autonome. A questo elemento «locale» si può inoltre aggiungere la spiccata tendenza romana a divinizzare eventi «puntuali», cioè presenze estremamente circoscritte nel tempo e nello spazio, manifestazioni singole e non meglio precisate del divino.17 Ci riferiamo ad esseri divini come Bonus Eventus, Fortuna Huiusce Diei, Aius Locutius, Rediculus, ma anche ai vari genii locali e personali18 e ai cosiddetti Sondergötter.19 Alcuni di questi dèi divennero probabilmente anche delle Giunoni, come è forse possibile ipotizzare per Moneta, fosse essa l’«ammonitrice» dopo un terremoto – indicativo che Cicerone la citi come ultimo tra gli esempi di fenomeni «panici»20, insieme a quello di Aio Locuzio21 –, «voce» che, secondo la tradizione, salva il Campidoglio dagli assedianti galli,22 o «voce» di un culto oracolare come i tanti presenti a Roma ai primordia, al tempo cioè di Evandro, la cui madre, Carmenta, era non solo dotata di facoltà mantiche, ma al tempo stesso, 15 16 17 18 19 20 21

GRAF – LEY 1999, 74–75; cfr. supra, par. 2.2.1. KOCH 1986, 89; cfr. BRELICH 2007, 103, per l’esempio di Apollo. Cfr. FUSTEL DE COULANGES 192328, 172–173; GLADIGOW 1975, 29; GLADIGOW 1981, 1209. Cfr. infra, cap. 11. Da ultimo RÜPKE 2007b, 61–64. SANTI 2008, 28 sgg. Cic. De div. I 45: Saepe etiam et in proeliis Fauni auditi et in rebus turbidis veridicae voces ex occulto missae esse dicuntur; cuius generis duo sint ex multis exempla, sed maxuma. Nam non multo ante urbem captam exaudita vox est a luco Vestae, qui a Palati radice in novam viam devexus est, ut muri et portae reficerentur; futurum esse, nisi provisum esset, ut Roma caperetur. Quod neglectum cum caveri poterat, post acceptam illam maximam cladem expiatum est; ara enim Aio Loquenti, quam saeptam videmus, exadversus eum locum consecrata est. Atque etiam scriptum a multis est, cum terrae motus factus esset ut sue plena procuratio fieret, vocem ab aede Iunonis ex arce exstitisse; quocirca Iunonem iram appellatam Monetam. Haec igitur et a dis significata et a nostris maioribus iudicata contemnimus? 22 Liv. V 47, 4 sgg.

10.1. QUALI DIVINITÀ VENIVANO EVOCATE?

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come Giunone, in quanto Prorsa e Postverta proteggeva e favoriva le nascite23 e aveva un tempio presso lo stesso colle.24 L’importanza dell’elemento «locale» è stato ereditato e mantenuto intatto nel Cristianesimo: gli dèi, i genii locorum, ma anche gli eroi in Grecia sono divenuti le Madonne e i santi.25 Proprio la Madonna è la figura maggiormente paragonabile a Giunone: entrambe in generale appartengono al tipo della «Grande Madre»26, ma, allo stesso tempo, presentano numerose ipostasi particolari, con precise caratteristiche e competenze. Perché recarsi in pellegrinaggio alla Madonna di Pompei o di Loreto quando vi è in ogni città una chiesa dedicata alla Vergine? Ciò accade perché ognuna di esse è «specializzata» e avvertita quasi come un’entità diversa dalle altre, 27 fatto salvo naturalmente il riferimento costante ad una figura unica, ben più importante e stringente in una religione monoteistica, ma a livello storico-religioso fenomeno del tutto analogo a quanto si verifica nel politeismo. Afferma Silvio Ferri a proposito della religione greca: «se noi diciamo: «Apollo», non formuliamo un concetto, che solo sussiste, se aggiungiamo, «Apollo di Delfi», se mettiamo cioè in evidenza il τόπος. Afrodite non significa niente se non la collochiamo a Paphos o a Knidos. Zeus è un’espressione vacua se non diciamo Keraunios o Katabaites (…). Athena è incerta qualora non predichiamo «quella dell’acropoli di Atene». Demetra è inafferabile, non specificando «quella di proprietà della famiglia degli Eumol28 pidi» .

Questo fenomeno è acuito dal fatto che gli dèi antichi non possedevano il dono dell’ubiquità.29 Le differenze tuttavia non si esauriscono nel tratto «locale», che può anche essere ancor più circoscritto di una città: riconsiderando gli esempi offerti dalla figura della Vergine, si pensi alle numerosissime Madonne presenti nelle edicole di Roma, quasi novelle Lares compitales. Altri tratti distintivi sono ravvisabili anche al già visto livello «puntuale»: si prenda ad esempio la Madonna della Vittoria (il pensiero va qui alla Venus Victrix di Cesare), cui, nella migliore tradizione antica, Onorato IV Caetani votò e, dopo la battaglia di Lepanto, dedicò una chiesa a Sermoneta; indicativamente, nella stessa città la cattedrale è dedicata ad un’“altra” Madonna, S. Maria Assunta, e sorge sulle rovine di un tempio dedicato a Cibele.30

23 SABBATUCCI 1988, 27–29; SANTI 2008, 30 sgg. 24 Liv. V 47, 2. 25 Cfr. BRELICH 1958, 129–141; PETTAZZONI 1966a; BRELICH 1968, 159; VERSNEL 1981, 16– 17; FREDOUILLE 1997; infra, par. 13.2.3. 26 DURY-MOYAERS 1984, 93; PRANDI 1993, 346. In generale STAUFFER 1984. 27 BRELICH 2007, 103, che adduce anche quale esempio a livello calendariale il diverso giorno festivo dell’Addolorata e dell’Assunta; cfr. BOYANCÉ 1963, 20. 28 FERRI 1990, 85, che conclude: «L’unica storia della religione greca possibile (…) dovrà diffidare del nome che è sempre un’interpretazione e considerare come base la triplice unità, locale, psicofisica e sociale». 29 FUSTEL DE COULANGES 192328, 171–172. 30 Sempre su un tempio dedicato a Cibele sorge il santuario della Madonna dell’Arco, a Sant’Anastasia, in provincia di Napoli. La competenza «puntuale» di questa particolare Ver-

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10. RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Si potrebbero addurre moltissimi altri esempi: Madonna del Divino Amore, della Stella, del Buon Consiglio, etc. Per tornare alla religione romana, esiste in essa un’entità divina che, ben più di Giunone, incarna l’elemento «locale»: il genius loci. Se la prima «diventa» la divinità tutelare del luogo, il secondo vi è presente da sempre; le due figure divine condividono un rapporto particolare a livello della tutela del singolo, tramite i vari genii e iunones. Ma è anche nella formula dell’evocatio che essi compaiono probabilmente insieme. Questi argomenti saranno trattati nel prossimo capitolo, e, a partire da essi, si cercherà infine di fare luce sulla misteriosa figura della divinità tutelare segreta di Roma.

gine riguarda i terremoti; non a caso incombe sul luogo sacro la mole minacciosa del Vesuvio.

PARTE SECONDA La divinità tutelare cittadina nella religione romana

11. IL GENIUS E LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA 11.1. IL GENIUS NELLA RELIGIONE ROMANA 11.1.1. Nota preliminare Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti…

Così recita l’invocazione del carmen evocationis tramandato da Macrobio. Pur essendoci soffermati in dettaglio sulle varie componenti del carmen nel paragrafo dedicato a Giunone Celeste, se n’è volutamente rimandata la trattazione in quanto intimamente legata al genius, figura divina dal ruolo importantissimo nella religione romana e centrale nell’economia del discorso dal quale il presente lavoro prende le mosse. Sarà dunque opportuno trattare per sommi capi le caratteristiche principali di questo peculiare essere divino. Potremo poi soffermarci sulla formula «precauzionale» sive deus sive dea, utile anche per approfondire i rapporti tra il genius e Giunone, che si riveleranno fecondi di spunti e riflessioni importanti. A partire da queste considerazioni, infine, avremo tutti gli elementi per volgere la nostra attenzione alla misteriosa figura della divinità tutelare segreta di Roma. 11.1.2. Caratteristiche e peculiarità del genius Il genius è la divinità che meglio simboleggia l’elemento «puntuale» che abbiamo poc’anzi rilevato come altamente caratteristico della religione romana: «Genius est une notion authentiquement romaine»1. Il dossier riguardante la divinità ne fa emergere alcune caratteristiche ben definite: «Genius est soit la personnalité d’un individu telle qu’elle s’est constituée à sa naissance, soit cette personnalité comprise comme un double, physiquement et moralement solidaire de l’individu depuis sa naissance jusqu’à sa mort, soit une sorte de divinité qui lui est spécialement attachée et qui requiert un culte, en particulier aux anniversaires de sa naissance».

Tale è la definizione del Dumézil in un magistrale articolo sull’argomento.2 Essa consente subito di sgombrare il campo dalle teorie che, basandosi in prima istanza sull’espressione lectus genialis, incentrano la figura del genius

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SCHILLING 1979, 415. DUMÉZIL 1983, 86.

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11. IL GENIUS E LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA

sull’elemento sessuale, considerandolo un «principio di fecondità»3 o un «potere mascolino di procreazione»4. Invece: «la condition nécessaire et suffisante d’existence et de durée du Genius, c’est, dans son 5 support charnel, non la virilité, mais simplement la vie» .

Il «godimento» cui spesso allude Plauto è quindi in generale quello della vita, la capacità di godere in sé.6 Inoltre, la parte del corpo concordemente messa in rapporto con il genius non è mai l’organo sessuale, bensì la fronte: al genius risale la pienezza delle facoltà intellettuali.7 Infine, la funzione generativa sembra più pertinente alla sfera del dio Libero, il quale, secondo S. Agostino, tutelava la produzione e l’emissione di tutti i semina liquida.8 La valenza della parola è passiva: il genius è «ce qui a été infanté»9. Tale interpretazione è confermata sia dalla considerazione dei termini aventi analoga radice, quali primigenius («primordiale», non «primogenito») e ingenium («ciò che è in essere»)10, sia di quelli formatisi in modo analogo, come venia (la «grazia ottenuta» tramite il venerari) o modius (uno staio di grano è una quantità misurata, moderata)11. Il genere maschile è dovuto al fatto che l’ipotetico *genium viene personalizzato (e divinizzato): la differenza con ingenium è che questa parola riceve la sua caratterizzazione dall’«in», nel senso di un tratto statisticamente presente nell’individuo, dalla qual cosa il genere «inanimato» neutro; il genius invece «forma» dinamicamente l’individuo alla nascita, conferendogli la sua peculiare personalità: esso passa perciò al maschile, genere «animato»12. Il genius nasce con l’individuo e ne protegge tutto il corso della vita, è depositario della personalità di esso. La ricorrenza in cui viene celebrato è dunque tipicamente il compleanno, in cui riceveva offerte di vino, fiori, torte e incenso.13 Più

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BAYET 19692, 65: cfr. DE MARCHI 20032, 57: «principio generativo». WISSOWA 19122, 175, che fondamentalmente riprendeva la posizione espressa da T. BIRT nel «Lexikon» di W. ROSCHER, s. v. Cfr. HILD 1896, 1488–1489; CESANO 1922, 449; RADKE 1965, 138; KUNCKEL 1974, 9. Altri autori antichi riferivano l’etimologia al verbo gerere: Paul. Fest. 94 M; Mart. Cap. II 152. DUMÉZIL 1983, 87. Sulla corretta intepretazione dell’espressione: Paul. Fest. 84 L; Serv. Ad Aen. VI 603; Arnob. Adv. Nat. II 67; OTTO 1910, 1160; DIETRICH FABIAN 1984, 105 sgg. DUMÉZIL 1983, 86; cfr. il testo riportato in CHIOFFI 1990, 224–225; ROMEO 1997, 599. Serv. Ad Aen. III 607: frontem genio [consecratam esse], unde venerantes deum tangimus frontem; cfr. Serv. Ad egl. VI 3; Ad buc. V 3; ROMEO 1997, 599. Diverso il rapporto tra Giunone e le sopracciglia delle donne, sacre alla dea: cfr. DUMÉZIL 20012, 263; DIETRICH FABIAN 1984, 110. De civ. Dei VII 21; cfr. MONTANARI 1988, 103 sgg. DUMÉZIL 1983, 91. Ibid., 89; cfr. MONTANARI 1993d, 314. SCHILLING 1979, 416–417; DUMÉZIL 1983, 91; DUMÉZIL 20012, 316; «DÉLL», ss. vv. DUMÉZIL 1983, 91. Censorin. De die nat. II 3: curve eum potissimum suo quisque natali veneremur; Tibull. I 7, 49–54; II 2; Ov. Trist. III 13–18. Raramente tali offerte potevano consistere anche in maialini e capre: Hor. Carm. III 17, 13–16. Cfr. OTTO 1910, 1158–1159, contro la posizione secondo cui il genius era venerato in questa occasione in quanto natalis.

11.1. IL GENIUS NELLA RELIGIONE ROMANA

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propriamente esso personifica il dies natalis,14 costituendo la «personalità» (divinizzata) dell’individuo quale si è formata alla sua nascita: il genetliaco del singolo, così come l’anniversario della dedica di un tempio, «riguarda infatti anche la qualità dell’essere (come del culto) che nasce»15. La quasi identità geniusprotetto era resa in forma visibile dalla raffigurazione del primo con le fattezze del secondo.16 In Plauto il termine genius è usato talvolta in sostituzione di animus e viceversa, ma si farebbe un grosso errore a confondere i due termini: esso è infatti concepito come esterno all’uomo, miticamente una sorta di «doppio»17. È deus e comes dell’individuo, che gli appartiene18 e che vive sotto la sua tutela: 19

genius est deus, cuius in tutela ut quisque natus est vivit.

Da alcuni testi ed iscrizioni si potrebbe arguire anche che il genius in realtà non morisse insieme al suo protetto20. Lo si pregava, si giurava in suo nome, si compivano delle offerte in suo onore. Prima che nel diritto si precisasse la nozione di «persona», il genio costituiva, nell’ambito della religione romana, ciò che vi si accostava di più.21 Il genius si confonderà progressivamente con il daimon greco,22 mentre il Cristianesimo a sua volta lo «tradurrà» con la figura dell’angelo custode.23 A riprova dell’antichità della concezione del genius vi è la sua probabile origine in ambito etrusco: Colonna ha proposto, con argomenti persuasivi, di riconoscere nella parola farθan il termine etrusco per designarlo.24 Lo stesso Tages, il fondatore della disciplina etrusca, era considerato figlio di un genius e nipote di

14 Sull’intercambiabilità genius-natalis, cfr. Tibull. I 7, 49; 64; II 2, 1; II 2, 5; II 2, 19; IV 5, 9; Ov. Trist. V 5; 13. 15 MONTANARI 1993d, 313. 16 BRELICH 1949a, 15. 17 OTTO 1910, 1155; SABBATUCCI 1988, 187; MONTANARI 1993d, 313. 18 Hor. Ep. II 2, 187 sgg.; Varr. ap. Aug. De civ. Dei VII 13; Paul. Fest. 94 M, 84 L. 19 Censorin. De die nat. III 1. 20 In Amm. Marc. XXI 14, 2 si dice invece che esso poteva abbandonare il proprio protetto quando questi era sul punto di morire. Cfr. CESANO 1922, 453; KUNCKEL 1974, 44–45; CHIOFFI 1990, 168; DUMÉZIL 20012, 315: «ci guarderemo bene dal pretendere di smussare queste contraddizioni: esse sono nella materia stessa, sono più che naturali, e non provano nulla contro l’intelligenza dei Romani». 21 DUMÉZIL 20012, 316; sulla formazione del concetto di persona, cfr. MONTANARI 2001, 155– 174. 22 Cfr. Amm. Marc. XXI 14, 3–4. 23 SCHILLING 1978, 71 sgg.; SCHILLING 1979, 431 sgg.; MAHARAM 1998, 916–917. 24 COLONNA 1980; cfr. PALLOTTINO 19847, 327; ALVAR 1985, 263; TORELLI 1986, 193, 191, 198; COLONNA 1981, 29 (a Pyrgi). ALTHEIM 1930, 44 sgg., supponeva l’esistenza di un genius etrusco dallo spiccato carattere fallico. L’equivalente in ambito italico sarebbe cerfus / cerfia in umbro (Tavole Iguvine) e Kerris / Kerriios in osco (iscrizioni di Agnone): CESANO 1922, 449.

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Giove. 25 Il campo semantico del verbo farθnaχe è quello del «generare», lo stesso da cui trae origine il termine romano: genius da gignere.26 11.1.3. Genii–iunones: un parallelismo originario? Così come ogni uomo era protetto dal suo genius, almeno da un certo punto in poi si riteneva che ogni donna fosse posta dalla nascita sotto la tutela di una propria iuno.27 Questa concezione ha prodotto delle ipotesi discutibili. Anzitutto, alla luce delle teorie «numinose» circa la prima fase della religione romana, sostenute soprattutto da Rose e Wagenwoort, si riteneva che la dea Giunone avrebbe tratto la sua origine da un primordiale numen delle facoltà generative della donna. L’argomento forte di questa posizione sarebbe lo stretto legame di esso con il genius, concepito, lo si è visto poc’anzi, quale capacità generatrice dell’uomo.28 A fronte di ciò, tuttavia, deriverebbe un diverso sviluppo: il genius sarebbe rimasto divinità individuale e «puntuale», mentre già in età arcaica sarebbe emersa la grande divinità femminile «sovraindividuale», Giunone.29 Il Wissowa tentava di spiegare la divergenza tramite i diversi ruoli dell’uomo e della donna nella società romana: laddove il primo viveva una vita variegata, che si esplicava in molteplici ambiti (civico, bellico, lavorativo, etc.), la seconda invece vedeva il suo ruolo fondamentalmente circoscritto a quello della moglie.30 Contro questa posizione, il Dumézil ha giustamente fatto notare che dai molteplici genii non scaturì mai un dio chiamato Genius, ma, soprattutto, che non vi è traccia di una Giunone delle donne prima di Tibullo.31 L’argomento contrario,32 relativo alla presenza nel rituale degli Arvali di una Iuno Deae Diae, si riferisce all’epoca imperiale, e non si può escludere che esso abbia subito dei ritocchi al tempo di Augusto, restauratore di queste cerimonie ormai quasi scomparse in un momento in cui il parallelismo genio degli uomini – giunone delle donne era effettivamente operante.33 Un’iscrizione di età repubblicana (58 a. C.)34 attesta di una res divina dovuta nel suo bosco sacro sia a Iuppiter Liber, sia al genio di questi, Genius Iovis Liberi; nella seconda iscrizione, posteriore, in cui si parla di un Genius Iovis (e di un Genius Martis)35, una divinità femminile, Victoria, è allo 25 Paul. Fest. 492, 6–7 L. 26 Censorin. De die nat. III 1: Hic [scil. genius] sive quod ut genamur curat, sive quod una genitur nobiscum, sive etiam quod nos genitos suscipit ac tutatur, certe a gerendo genius appellatur. Cfr. OTTO 1910, 1156; DUMÉZIL 1983. 27 Per le iscrizioni, cfr. GIANNELLI 1942, 237–238; CHIOFFI 1990. 28 Bibliografia in DIETRICH FABIAN 1984, 113; cfr. WISSOWA 19122, 182; LATTE 1960, 103; supra. 29 BASANOFF 1941, 117–118; cfr. DIETRICH FABIAN 1984, 103–104. 30 WISSOWA 19122, 183. 31 DUMÉZIL 20012, 262. Egli nota inoltre che nei passi in questione (III 19, 15; III 6, 48) si potrebbe egualmente arguire che in realtà ogni donna avesse anche una propria Venere. 32 LATTE 1960, 105. 33 DUMÉZIL 20012, 262–263. 34 CIL IX 3513. 35 CIL II 2407.

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stesso modo provvista di un suo «doppio», che però si chiama Genius Victoriae, non *Iuno Victoriae.36 Analogamente, parecchie iscrizioni testimoniano di genii di donne.37 Come avrebbe fatto un tale concetto a svilupparsi se fosse già esistita la iuno individuale? In effetti lo spiccato carattere maschile dato a posteriori al genius risentiva del già visto accento conferito alla sua supposta funzione fecondativa.38 La denominazione valida per entrambi i sessi fu invece in origine quella del genius, tanto più che, come vedremo tra poco, l’unico genius realmente importante della familia era quello del pater. Funzionale all’affiancamento ai genii delle iunones fu forse anche la peculiare tendenza romana a produrre della coppie divine, quali ad esempio Cacus-Caca, Ruminus-Rumina, Faunus-Fauna, Liber-Libera.39 Nel caso in questione, tuttavia, il «doppio» della donna ricevette il suo nome dalla dea «femminile» per eccellenza della religione romana, Giunone.40 Un riflesso di ciò nel culto domestico potrebbe essere la rappresentazione in parecchi larari di due serpenti, uno maschio e uno femmina,41 ma è forse da intendere una resa figurativa del genius loci, anche in considerazione del fatto che non esiste in letteratura un riferimento del genius personale al serpente,42 Probabilmente, inoltre, la presenza di due rettili potrebbe alludere al genius loci in quanto sive mas sive femina.43 11.2. LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA 11.2.1. Le attestazioni Uno degli elementi più interessanti del carmen evocationis è sicuramente la presenza nell’invocatio dell’espressione sive deus sive dea al posto del teonimo. Per quale motivo i Romani agivano in questo senso? Possiamo anzitutto escludere le motivazioni fornite in chiave polemica dagli autori cristiani. Valga a titolo esemplificativo l’asserzione di Arnobio, secondo cui la formula sive tu deus es sive dea sarebbe da porre in relazione con i dubbi del fedele nei confronti della divinità alla quale indirizzare la propria preghiera. Egli rileva polemicamente che il fatto che i pagani rivolgessero ai loro dèi preghiere 36 DUMÉZIL 20012, 263 ; cfr. DIETRICH FABIAN 1984, 111–112. 37 CIL V 5892; VI 363 = 30748; 2128; 5646; 6575; 8958; 15471; 15502; 15675; 16374; 20385; 21423; 24153; 24745; 25554; 35043; 35953; 37444; 38984 VIII 22770; XI 1820; cfr. CHIOFFI 1990, 200 sgg. 38 BRELICH 1949a, 13. 39 Cfr. BRELICH 2007, 75. 40 GIANNELLI 1942, 217; DIETRICH FABIAN 1984, 109–112; FASCE 1985, 656. 41 CESANO 1922, 454–455; KUNCKEL 1974, tavv. 29–35. Sul culto domestico del genius, cfr. ORR 1978, 1569–1575. 42 BOYCE 1942, 17–18. 43 SCHILLING 1979, 419; DE MARCHI 20032, 60; infra. BOYCE 1942, 21, pensa invece ad un raddoppiamento a fini puramente artistici, per ottenere una rappresentazione simmetrica.

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che iniziavano con la formula sive deus sive dea indicava che quegli dèi avevano un sesso; questo però è la caratteristica che permette di distinguere i corpi, ed essi non potevano appartenere agli dèi. Al contrario, il dio cristiano non ha sesso: solo il suo nome è detto di genere maschile.44 Si può riportare tuttavia l’opinione del pontefice Quinto Muzio Scevola, tramandata da un altro autore cristiano, Agostino, secondo cui verus Deus nec sexum habeat nec aetatem nec definita corporis membra.45

Gli studiosi, invece, hanno spesso sottolineato quanto alla base di un tale atteggiamento siano da porre il costante formalismo e la grande prudenza che caratterizzavano il rapporto del Romano con il divino. Essi erano vòlti ad evitare tanto le imprecisioni quanto eventuali errori involontari, entrambi potenziali cause di ostilità da parte degli dèi e quindi di rottura del sommo bene costituito dalla pax deorum.46 Ciò è senz’altro vero, ma abbisogna di alcune precisazioni e distinzioni, su cui ci soffermeremo dopo aver riportato i testi in cui compare l’espressione oggetto della nostra trattazione, utilmente raccolti da J. Alvar47 (e a cui ne vanno verosimilmente aggiunti due altri)48. Le epigrafi sono circa una decina e presentano queste varianti: sei deo sei divae, sei deus sei dea, sive deo sive deae, si deo si deai, sei deus seive deast. All’età repubblicana sono ascrivibili quattro iscrizioni. Le prime tre non consentono purtroppo soverchie speculazioni per la loro brevità.49 La più notevole è però la quarta, relativa alla presa di Isaura Vetus ed esaminata da noi in precedenza: la destinataria è la divinità tutelare cittadina.50

44 Arnob. Adv. Nat. III 8: Ac ne tamen et nobis inconsideratus aliquis calumniam moveat, tamquam deum quem colimus marem esse credamus ea scilicet caus, quod eum cum loquimur, pronuntiamus genere masculino, intellegat non sexum et familiaritate sermonis appellationem eius et significationem promi. Non enim deus mas est, sed nomen eius generis masculini est, quod idem vos dicere religione in vestra non quitis, nam consuestis in precibus «sive tu deus sive dea» dicere quae dubitationis exceptio dare vos diis sexum diiunctione ex ipsa declarat. Adduci ergo non possumus, ut corpora credamus deum. Nam esse necesse est corpora, si sunt mares ac feminae, in significata et generum disiunctione. Quis enim vel exigui sensus nescit terrenorum ab illo animantium conditore non alia de causa generis diversi sexus institutos esse atque formatos, nisi ut per coitus et conubia corporum res caduca et labilis successionis perpetuae innovatione duraret? Cfr. MORA 1994, cap. I. 45 De civ. Dei IV 27; la frase di Scevola si trova nell’opera Iur. civ. fr. 71. Agostino nota subito dopo come anche Varrone sia della stessa opinione (Ant. rer. div. fr. 117; cfr. Arnob. Adv. nat. VII 1). 46 Cfr. WISSOWA 19122, 37–38; LATTE 1960, 54; BAYET 19692, 128. 47 ALVAR 1985; cfr. BRELICH 1949a, 10–12; GUITTARD 2002, 27 sgg. 48 BÉRATO – GASCOU 2001; GUITTARD 2002, 29. 49 CIL I 632 = I 22 801 = VI 110 = VI 30694: sei deo sei deivae sac(rum) / C(aius) Sextius C(ai) f(ilius) Calvinus Pr(aetor) / de senati sententia / restituit; CIL I 1114 = I 2 1485 = XIV 3572: Sei deus / sei dea; CIL VI 111: Sive deo / sive deae / C. Ter. Denter / ex voto / posuit. 50 Supra, cap. 8.

11.2. LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA

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In riferimento all’età imperiale, tre menzioni provengono dagli atti dei rituali dei fratres Arvales e sono databili tra il 183 e il 224 d. C.51 Interessante è anche la dedica di un centurione della III legio Augusta in Mauretania 52

Genio summ[o] Thasuni et deo sive deae [nu]mini sanc[to] .

Vi sono poi l’iscrizione su un basamento proveniente da Lanuvio53 e infine altre due provenienti dalla Gallia, che la recente e convincente proposta di sciogliere la sigla S D S D in esse contenute con S(ive) D(eo) S(ive) D(eae) consente di annoverare a pieno titolo in questo elenco.54 Quanto infine alle testimonianze scritte, si possono citare alcuni passi che riportiamo qui di seguito. Livio descrive l’evento, riferibile al 349 a. C., che valse a Marco Valerio Massimo il cognomen Corvus. Il giovane tribuno, prima di venire alle mani con un Gallo, vede posarsi sul proprio elmo un corvo. Egli interpreta il fatto come un presagio favorevole, pregando la divinità si divus si diva che glielo ha mandato di assisterlo nel combattimento, come in effetti si verificherà.55 Questo testo dimostra che Livio conobbe la formula precauzionale sive deus sive dea, consentendoci dunque di includere anche la preghiera di Camillo dinanzi alle mura di Veio nella tipologia di testi che stiamo esaminando. Egli avrà sostituito ad essa il nome della divinità giunta a Roma a seguito dell’evocatio del dictator, Giunone Regina, da secoli «romanizzata» a seguito dell’interpretatio dei pontefici.56 Anche Aulo Gellio riporta un episodio di estremo interesse. I Romani ignoravano la cause dei terremoti, dunque il dio da placare nel caso se ne fosse verificato uno: propterea veteres Romani cum in aliis vitae officiis tum in costituendis religionibus atque in dis immortalibus animadvertentes castissimi cautimissique, ubi terram movisse senserant nuntiatumve erat, ferias eius rei causa edicto imperabant, sed dei nomen, ita uti solet, cui servari ferias oporteret, statuere et edicere quiescebant ne alium pro alio nominando falsa religione populum alligarent. Eas ferias si quis polluisset piaculoque ob hanc rem opus esset, hostiam «si deo si deae», immolabant, idque ita ex decreto pontificum observatum esse M. 57 Varro dicit, quoniam et qua vi et per quem deorum dearumve terra tremeret incertum esset.

51 CIL VI 2099; I 20–24; II 1–14 = VI 32386: [...] sive deo sive deae, in cuius tutela hic / lucus locusve est, oves II…, [...] sive deo / sive deae oves II…; CIL VI 2104 a = VI 32388: [...] sive deo sive deae ov(es) n(umero) II…; CIL VI 2107 = VI 32390 = ILS 5048: [...] sive deo / sive deae verb(eces) II… 52 CIL VIII 21657. 53 ILS 4016: Si deo si deai, / Florianus rexs. 54 CIL XII 37; 3131; BÉRATO – GASCOU 2001; GUITTARD 2002, 29. 55 Liv. VIII 26, 4: Namque conserenti iam manum Romano corvus repente in galea consedit, in hostem versus. Quod primo ut augurium caelo missum laetus accepit tribunus, precatus deinde, si divus si diva esset qui sibi praepetem misisset, volens propitius adesset. Si è supposto che il corvo costituisca un riferimento a Lug, equivalente celtico di Marte, cui l’animale era sacro: cfr. ALVAR 1985, 254. 56 Cfr. ALVAR 1985, 257–258; supra, par. 4.2.2. 57 Gell. Noct. Att. II 28, 2.

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11. IL GENIUS E LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA

Rimangono due testi. Il primo, il più tardo, è il carmen evocationis macrobiano, già considerato in dettaglio e sul quale torneremo ancora.58 Il secondo è la descrizione che Catone fa della pratica del lucum conlucare, vale a dire del debbio, l’occupazione umana e la messa a coltura del lucus, da intendersi etimologicamente come «radura», ma anche come «bosco sacro»59. Il periodo dell’anno destinato a questi lavori agricoli era la seconda metà di luglio, dopo il raccolto: i Lucaria pertanto avevano luogo il 19 e 21 luglio, prima di altre due feste consacrate invece all’acqua, con la sistemazione dei pozzi e delle canalizzazioni (Neptunalia il 23 luglio e Furrinalia il 25)60. Prima di procedere bisognava celebrare un piaculum con l’offerta di un porco ad una divinità si deus si dea: Lucum conlucare more sic oportet: porco piaculo facito, sic verba concipito: «si deus, si dea es, quoium illud sacrum est, uti tibi ius est porco piaculo facere illiusce sacri coercendi ergo harumque rerum ergo, sive ego sive quis iussu meo fecerit, uti id recte factum siet, eius rei ergo te hoc porco piaculo immolando bonas preces precor, uti sies volens propitius mihi domo familiaeque meae liberisque meis: harunce rerum ergo macte hoc porco piaculo im61 molando esto» .

11.2.2. In merito alla «divinizzazione» del luogo La divinità cui la preghiera si rivolge è, con tutta probabilità, il genius loci. L’aspetto tutelare «locale» riferibile al genius è importante come quello «personale», e con esso si intreccia. Quella romana è infatti una «risposta» di tipo culturale, osservabile anche in altri sistemi religiosi, che qualifica in modo tipico il legame della comunità con uno o più luoghi. La prima fase è propriamente l’approccio progressivo con un dato luogo, concepito come abitato da un essere divino. Ne consegue il mantenimento del rapporto con l’essere sovrumano che vi abita. Con il tempo tale legame si fonde con l’ascendenza umana che il luogo ha abitato per generazioni, qualificando la linea familiare attraverso il capofamiglia maschio. Cercheremo di spiegarci meglio prima con una premessa di carattere generale, poi tentando di ricostruire quanto accadeva più nello specifico nella religione romana. Generalizzando, diremo anzitutto col Brelich che «l’uomo primitivo prova un fortissimo bisogno di cautelarsi e di sapersi regolare di fronte al mondo extra-umano. Una delle esperienze umane fondamentali – inseparabile dalla forma stessa della coscienza umana – è, infatti, quella di trovarsi di fronte al mondo, anziché far parte di esso»; le cose che non dipendono dall’individuo o dalla comunità sono «quelle che 58 Supra, par. 5.2.; cfr. infra, par. 11.2.5. 59 Cfr. DUMÉZIL 1989, 46–47. Concettualmente le due formule non differiscono tra loro: entrambe sono volte ad un’espansione territoriale, a una «conquista» in senso lato (ALVAR 1985, 249–251); ci si mette al riparo dalla «violenza» che si sta per compiere sulla porzione di spazio in oggetto (cfr. Ov. Fast. IV 747 sgg. in cui i pastori chiedono scusa a posteriori a Pales per eventuali danni arrecati durante il pascolo); prevedono un sacrificio e una preghiera alla divinità tutelare del luogo. 60 DUMÉZIL 1989, 19–39. 61 Cat. De agric. 139.

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suscitano reazioni angosciose, che l’uomo deve incanalare in forme istituzionali solide e tra62 dizionalmente sancite, atte a consentirgli un comportamento sicuro» .

Egli cerca dunque per quanto possibile di esercitare un controllo sulla realtà che lo circonda. A questo sforzo è intimamente legato quello di comprensione, «perché comprendendo riesce a controllare la realtà da cui dipende»63. Le istituzioni religiose derivano spesso da questa doppia tensione: comprendere e controllare significa non essere in balìa degli eventi, poter «agire», almeno limitatamente, sul mondo. Uno dei mezzi più comuni in cui questo sforzo di risoluzione della «crisi della presenza»64 dell’uomo nel mondo si esplica è la creazione di un rapporto di tipo personale con il non-umano. Da qui alla creazione di esseri personali ritenuti presenti e attivi nel nonumano il passo è breve. Questo processo genera però una situazione in realtà paradossale: la ragion d’essere di quegli esseri è duplice e contraddittoria, in quanto essi devono allo stesso tempo rappresentare il non-umano e poter essere coinvolti in rapporti umani. Tale paradossalità, in apparenza insuperabile, suscita tuttavia i continui sforzi umani tesi a plasmare questi esseri al fine di trovare una soluzione soddisfacente.65 Negli esseri divini mostruosi, ibridi, animaleschi, dal comportamento ambiguo, prevale il primo aspetto (rappresentare il non-umano); nelle divinità antropomorfe il secondo, per quanto l’altra componente sia comunque presente ed esse conservino sempre la loro schiacciante superiorità rispetto all’uomo. Ne conclude il Brelich che si può sostenere, pur se con qualche approssimazione, che se gli esseri sovrumani non sono antropomorfi l’atteggiamento religioso sarebbe da ritenersi improntato in prevalenza al “timore”, laddove nei politeismi sarebbe l’aspetto “venerazione” a prendere il sopravvento, senza tuttavia eliminare il primo.66 In definitiva, «esprimere in forme umane tutto ciò che circonda l’uomo e determina il suo destino, significa contemporaneamente due cose: il mondo, pur senza perdere nulla della sua sovrumana potenza e grandezza, appare più comprensibile, più trasparente, meno informe e mostruoso; allo stesso tempo l’uomo, ritrovando le proprie forme nel mondo non-umano, acquista non solo un maggior senso di sicurezza e di confidenza con la realtà, ma anche una maggiore dignità, poi67 ché riconosce sé stesso come simile agli dèi che reggono l’universo» .

Per quanto riguarda la religione romana, con tutta probabilità possiamo porre il genius in una fase assai antica di essa, quasi certamente anteriore a quella di compiuto antropomorfismo delle divinità. È possibile effettuare un parallelo con le religioni non politeistiche che riconoscono una qualsiasi forma di esseri “attivi”, 62 BRELICH 2007, 57. 63 Ibid., 58. Sulla diversa prospettiva di Pettazzoni rispetto a questa particolare problematica, cfr. SEVERINO 2009, 126 sgg. 64 Sul concetto demartiniano cfr. tra gli altri DE MARTINO 1948; DE MARTINO 1958; cfr. MASSENZIO 1997, 525 sgg. 65 BRELICH 2007, 58; cfr. AUGÉ 2002, 86 sgg. 66 BRELICH 2007, 59; cfr. DUMÉZIL 20012, 37 sgg. 67 BRELICH 2007, 59.

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compresi gli antenati o i “feticci”, tipologia di esseri con i quali vige sempre un rapporto “personale”. Ad esempio, quando rivolge loro una preghiera, l’uomo si serve del “tu”: questo solo dato, insieme al fatto di utilizzare un linguaggio umano parlando ad entità sovrumane implica di per sé un certo grado di antropomorfizzazione, grado “minimo” però che presuppone solamente che l’essere cui ci si rivolge possieda un’esistenza personale, ma non implica ancora tuttavia che questi abbia acquisito una personalità.68 Il potere attribuito a quegli esseri divini può essere più o meno grande, ma resta indifferenziato. Non siamo ancora di fronte a divinità «caratterizzate», con interessi, sfere di competenza e poteri specializzati e distinti tra loro, con l’ulteriore considerazione che tale processo di differenziazione non è tuttavia mai compiuto: «Spesso noi proiettiamo sugli esseri sovrumani delle varie religioni il nostro concetto corrente di personalità (come insieme organico e coerente di caratteri), e così, con involontario arbitrio, «integriamo» ciò che i dati (miti o credenze espresse) dicono di quegli esseri. I dati, infatti, non ci presentano – nemmeno in quel massimo antropomorfismo che è del politeismo greco – «figure» o personalità complete, ma singoli caratteri e vicende che rispondono alle 69 funzioni assegnate a quei personaggi» .

Gli esseri extra-umani di questo tipo maggiormente accostabili al genius romano sono quelli che con gran fatica potremmo definire «spiriti», secondo una classificazione ormai datata, ma che in mancanza di una migliore continueremo ad usare (sempre tuttavia tra virgolette)70. Vi sono dunque «spiriti» legati a diversi ambiti della vita umana: alla natura selvaggia e in genere al non-abitato, realtà dunque maggiormente «angosciose» e «imprevedibili»; questi «spiriti» della natura sono spesso collegati particolarmente a punti caratteristici come una roccia, una grotta, una sorgente.71 Si possono trovare inoltre «spiriti» di altre realtà come il mare, il cielo, il sole, etc.: essi «rappresentano la potenza delle cose cui sono attribuiti e che, in questo modo, si personalizzano»72. Vi sono poi gli «spiriti» protettori della sfera più familiare all’uomo: della casa o delle sue parte, dell’individuo, dei gruppi, etc. Infine vi sono gli «spiriti» dei morti in genere e dei propri, gli antenati. Il genius è l’essere divino che nella religione romana meglio rappresenta questa tipologia: è presente in ogni luogo, tutela il singolo ma anche gruppi e istituzioni, può essere pregato anche dopo la morte dell’individuo. È ovvio che tutto questo discorso risente di classificazioni alquanto generiche e, parzialmente, di stampo evoluzionistico, così come sarebbero necessarie delle distinzioni almeno per i dati di età storica, meglio conosciuti. Una certa schematizzazione è tuttavia utile quantomeno ad una comprensione preliminare e necessaria ad un ulteriore

68 Ibid., 56. 69 BRELICH 1979a, 107; in generale sui Söndergötter, cfr. USENER 19292. 70 Cfr. BRELICH 1966, 21. Gli «spiriti» fanno parte a loro volta della categoria degli esseri extraumani attivi nel presente. 71 Cfr. STOLZ 1998, 66–67; BRELICH 2007, 100–101. 72 BRELICH 1966, 22.

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approfondimento, soprattutto per concezioni così arcaiche e relativamente poco documentate come quella del genius. 11.2.3. Dal genius personale al genius loci Consideriamo la figura del genius loci. Si può supporre che i più antichi Romani suddividessero il loro territorio «in due grandi regioni contigue e talvolta sovrapposte: quella in cui gli uomini erano normalmente padroni, e quella in cui si sentivano estranei. Nella prima, chiaramente ripartita, agivano Lari di ogni genere; nella seconda, vari dèi, maldefiniti come la regione stessa, di cui 73 è esempio Fauno» .

Anche quella tracciata dal Dumézil è una classificazione che tenta di mettere in ordine fenomeni religiosi talmente antichi e vaghi da risultare oscuri agli stessi antiquari romani di età repubblicana. Si può certo ipotizzare che il genius in origine fosse meno importante dei Lari o dei Penati, così come che il suo aspetto di protezione «locale» gli sia derivato dall’assimilazione al Lare,74 ma il dato con cui dobbiamo fare i conti è che, in età storica, ad esso è ascritta una grande varietà di poteri e competenze, tra cui quella di tutela di un luogo. Si può forse tentare di formulare un’ipotesi circa il processo alla base di questo esito. La più antica competenza riferibile del genius è, quasi certamente, quella relativa alla tutela del singolo individuo, stando almeno all’etimologia del nome, esaminata sopra.75 A partire dall’individuo vi potè essere un primo allargamento in senso «orizzontale»: il genius del pater familias, in quanto protettore di tutta la familia, era venerato da tutti i componenti di essa, consanguinei e schiavi, tanto da apparire ad un certo punto quasi come un essere divino distinto dal genius personale, con una tutela dunque allargata a più individui – pur se il giorno in cui lo si festeggiava era il natalis del pater.76 Vi è poi probabilmente da supporre uno sviluppo più propriamente «verticale», alla luce del significato dell’espressione lectus genialis, il lettuccio preparato all’indomani del matrimonio.77 Anche stavolta non ci si riferisce – almeno direttamente – alla procreazione: «al momento in cui si definisce la condizione materiale, l’ambiente e il supporto delle future nascite (e dunque dei Genii), non è forse naturale che sia evocata la nascita di colui che sarà l’agente di tale propagazione (e dunque sia onorato e invocato il suo Genio)? Il Genio compare in questo quadro non come dio della procreazione quale esso non è mai in altri contesti: esso è qui ciò che è in ogni altra situazione, la «personalità» divinizzata di un uomo, quale venne al mondo, sorto da una serie di altri uomini ciascuno dei quali ebbe il suo Genio, e chiamato a mettere al mondo, attraverso i figli, un’altra serie, ciascun termine della quale avrà pur esso il suo Genio. La consacrazione del letto nuziale al Genio del rappresentante attuale 73 74 75 76 77

DUMÉZIL 20012, 301. Ibid., 319; cfr. FASCE 1985, 656. Cfr. MONTANARI 1993d, 314. CESANO 1922, 454. Poteva darsi anche un genius familiae: CIL X 6302. Hor. Epist. I 1, 87–89; Serv. Ad Aen. VI 603; Paul. Fest. 214 L2; Arnob. Gent. II 67; cfr. Plin. N. h. XVII 53.

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11. IL GENIUS E LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA della serie, e l’omaggio reso al Genio da colei che è stata scelta per continuare la serie, non vanno intesi dal punto di vista sessuale, ma dal punto di vista della gens, della continuità delle 78 generazioni, che è quindi anche continuità dei Genii» .

La linea «verticale» è dunque quella che collega tutti i patres insieme ai loro genii: «l’individuo, infatti, si colloca all’interno di un rango e in un ruolo stabiliti da una specifica successione. In questo senso, il genius rivela anche rapporti con concetti o figure mitici, legati al «destino» della personalità oltre la morte: sia in riferimento all’imago (o rappresentazione 79 del volto del defunto) sia in rapporto con gli antenati (di parentum), con i lari e con i mani» .

Questa «verticalità» gentilizia potrebbe aiutare a capire l’ulteriore estensione delle competenze del genius al luogo. Protettore del pater, ultimo della serie gentilizia degli antenati da cui è stata ereditata e in virtù di cui si possiede quella porzione di mondo,80 il genius venerato nel suo altare domestico protegge il luogo in cui la famiglia ha vissuto e vive, cioè la casa e il terreno ad essa pertinente. Esso naturalmente condivide questa tutela con altri esseri i divini: i Lari, i Penati (protettori della parte più interna della casa), Giano (soglie), Vesta (focolare), etc.81 Il genius sembra riassumere in sé, almeno da un certo punto in poi, le competenze delle prime due categorie di esseri divini citati: i Penati infatti proteggono soprattutto il pater familias e i suoi parenti, mentre i lares esercitano una protezione allargata alla familia nella sua accezione più ampia e contemporaneamente sul luogo in cui questa dimora. A questo proposito, anche i Lari sono stati collegati con la divinizzazione degli antenati defunti, dal che la protezione della casa in cui essi hanno abitato e che hanno trasmesso ai propri discendenti: hanc domum iam multos annos est cum possideo et colo patri avoque iam huius qui nunc hic habet,

dice il lar familiaris nel prologo dell’Aulularia di Plauto.82 Secondo la già ricordata schematizzazione del Dumézil, i Romani concepivano il loro territorio come diviso tra «abitato» e «non-abitato», zone spesso vi78 DUMÉZIL 20012, 317; cfr. DUMÉZIL 1983, 91–92; FASCE 1985, 656; SABBATUCCI 1988, 187; RADKE 1987, 183: «das Adjektiv genialis ist nicht von genere, sondern erst von genius gebildet, vom Namen der Gottheit, die züstandig für die Fortsetzung des Lebens innerhalb der Generationen ist». 79 MONTANARI 1993d, 313–314. Tale sarebbe la differenza caratterizzante della iuno rispetto al genius secondo SABBATUCCI 1988, 188 (dissentiamo tuttavia circa l’equazione «gentilizio = possesso di un genius): «La iuno era la loro persona essenziale [scil. delle donne], quella conferita alla nascita; però, vigendo la patrilinearità, esse non erano portatrici del «gentilizio» (= non avevano un genius), col matrimonio passavano dalla famiglia paterna a quella del marito e, mediante un apposito rito detto detestatio sacrorum, dovevano addirittura far atto di rinuncia ai culti della propria famiglia d’origine». 80 Cfr. BRELICH 1979e, 151. 81 Cfr. in generale DE MARCHI 20032, cap. I. 82 Cfr. FUSTEL DE COULANGES 192328, 168–169; DE MARCHI 20032, 42; SABBATUCCI 1988, 24: «i Lares viales erano una specie di geni protettori di un determinato territorio, quasi i «proprietari» di esso, intesi anche come i primordiali abitatori del luogo e dunque idealmente o figuratamente gli «antenati» degli attuali abitatori».

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cine e dai confini incerti. Per espandere la prima c’era evidentemente bisogno dell’assenso dell’essere divino che dimorava nella seconda: un tipico abitatore dei luoghi selvaggi era Fauno (o i Fauni)83, ma il concetto di genius verosimilmente meglio rendeva l’indeterminatezza e l’ignoranza circa le caratteristiche del protettore sovrumano del posto. Il rito del lucum conlucare ben mostra l’approccio tipico con cui i Romani cercavano di ottenere il permesso della misteriosa entità che si trovava nel lucus. Nella concezione religiosa romana si riteneva infatti che ogni luogo, di ogni tipo, ospitasse la propria divinità «immanente», il proprio genius loci: 84

nullus enim locus sine genio.

In proposito, anche se l’applicazione del concetto di «panteismo» ai Romani non appare condivisibile, vale la pena di riportare l’elegante ricostruzione di L. Cesano circa la formazione e l’estensione della categoria di genius loci: «È vera e propria divinità presente nel luogo che protegge, custodisce, santifica ed ove esercita un’azione speciale ed attiva su coloro che vi giungono o vi dimorano e lo sentono presente. Il genius loci è là ove il luogo appare notevole o per bellezza di panorama o per ubertà, per ricordi mitologici, storici, o è difficile pel transito, ai confini di un paese esposto ai pericoli di vicini inospitali, oppure ha assunto una speciale importanza, effimera o duratura per chi vi ha soggiornato più o meno a lungo. Allora l’essenza divina, la divinità che il Romano nel suo panteismo sentiva ovunque presente, si impersonava nel Genius loci che nel luogo aveva culto. Ovunque fosse un credente là primo spirito protettore ed amico a lui più vicino 85 era il genius loci che la sua fede evocava ad animare e santificare il luogo stesso» .

Spesso questo dato – la presenza di un dio – era l’unico su cui il Romano sentiva di potersi pronunciare: 86

Hoc nemus, hunc (…) frondoso vertice collem (quis deum incertum est) habitat deus.

Ciò si verificava anche quando si poteva disporre di una qualche indicazione circa l’identità dell’essere divino locale. Molto indicativo in proposito il passo di Virgilio da cui si è tratta l’affermazione di Servio. Il contesto è l’episodio dell’Eneide in cui Enea si trova a dover tornare nei luoghi in cui era seppellito il padre Anchise nel primo anniversario della sua morte. L’eroe troiano dapprima liba presso il tumulo del genitore due coppe di vino puro, due di latte, due di sangue. Poi, dopo aver sparso dei fiori purpurei, si rivolge al padre, salutandolo e dolendosi che egli sia morto prima di aver raggiunto le sedi destinate dal Fato. A questo punto accade un fatto notevole: un serpente, uscendo dalla terra, dopo aver disegnato sette volute, aggirato il tumulo, si ciba delle offerte, per ridiscendere infine nel profondo del tumulo.87 83 84 85 86

Verg. Aen. VIII 314; cfr. MONTANARI 2001, 177. Serv. Ad Aen V 85. CESANO 1922, 462. Aen. VIII 351–352; cfr. Ov. Fast. III 295–296: Lucus Aventino suberat niger ilices umbra, quo posses viso dicere: «Numen inest». 87 Aen. V 75–99: ille e concilio multis cum milibus ibat ad tumulum magna medius comitante caterva. Hic duo rite mero libans carchesia Baccho fundit humi, duo lacte novo, duo san-

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L’apparizione del serpente lascia dubbioso l’eroe troiano sulla precisa identità da dare all’essere divino da esso simboleggiato (questa certezza deriva anche dal fatto che questi consuma, quindi accetta, le offerte alimentari di Enea)88. L’animale spesso personifica il genius loci, qui per anguem plerumque ostenditur89 e si ritrova con frequenza nei larari domestici assieme al genius; nel caso di statuette, compare talora avvolto sul braccio di quest’ultimo.90 Ma la polivalenza attribuibile al serpente avrebbe potuto portare a riconoscervi allo stesso modo il genius del padre,91 o un essere divino al genitore in qualche modo collegato (famulus), non potendosi neanche trascurare la più generica valenza ctonia del rettile.92 Certo, a prima vista queste incertezze potrebbero anche riferirsi all’ignoranza che, all’epoca di Virgilio, si aveva dell’esatto significato della maggior parte degli usi e delle concezioni più arcaiche della religione romana,93 acuita pure dall’influenza di concezioni di derivazione più propriamente greca, quali quelle del daimon e dell’eroe divinizzato, tipica questa dell’escatologia ellenistica.94 Tuttavia, il principale presupposto della religio romana, da relegere, «fare trattenendo(si)», cioè attardandosi con scrupolo su ogni dettaglio delle operazioni

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guine sacro, purpureosque iacit flores ac talia fatur: “salve, sancte parens, iterum; salvete, recepti nequiquam cineres animaeque umbraeque paternae. Non licuit finis Italos fataliaque arva nec tecum Ausonium, quicumque est, quaerere Thybrim”. Dixerat haec, adytis cum lubricus anguis ab imis septem ingens gyros, septena volumina traxit amplexus placide tumulum lapsusque per aras, caeruleae cui terga notae maculosus et auro squamam incendebat fulgor, ceu nubibus arcus mille iacit uarios aduerso sole colores. Obstipuit visu Aeneas. Ille agmine longo tandem inter pateras et levia pocula serpens libavitque dapes rursusque innoxius imo successit tumulo et depasta altaria liquit. Hoc magis inceptos genitori instaurat honores, incertus geniumne loci famulumne parentis esse putet; caedit binas de more bidentis totque sues, totidem nigrantis terga iuvencos, vinaque fundebat pateris animamque vocabat Anchisae magni manisque Acheronte remissos. Sull’episodio, cfr. BAYET 1961; FASCE 1985, 656–657. Cfr. Liv. I 56, 4–5: Haec agenti portentum terribile visum: anguis ex columna lignea elapsus cum terrorem fugamque in regia fecisset, ipsius regis non tam subito pavore perculit pectus quam anxiis implevit curis. Itaque cum ad publica prodigia Etrusci tantum vates adhiberentur, hoc velut domestico exterritus visu Delphos ad maxime inclitum in terris oraculum mittere statuit. Serv. Ad Aen. V 85. Cfr. ad es. KUNCKEL 1974, tav. 37. Cfr. Ov. Fast. II 543–546, sull’aition dei Feralia: Hunc morem Aeneas, pietatis idoneus auctor, Attulit in terras, iuste Latine, tuas. Ille patris Genio sollemnia dona ferebat; hinc populi ritus edidicere pios. BAYET 1961, 49. Il serpente poteva anche essere considerato come il mezzo per la divinità di esprimere il proprio volere, come avvenne con l’abbandono dell’acropoli del serpente sacro ad Atena al tempo dell’invasione persiana, interpretato come il segno dell’approvazione della dea all’evacuazione di Atene (Herod. VIII 41), oppure con il serpente sacro ad Asclepio, «segno» palese della volontà del dio di trasferirsi a Roma (supra, par. 2.2.2.); cfr. anche PAILLER 1997. BAYET 1961, 39, 48. Ibid., 48 sgg.

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rituali»,95 era ben presente ai Romani di età augustea e lo sarà ancora a lungo. Dovremmo dedurre dall’episodio «che Enea, cioè qualunque romano, non fosse in grado di distinguere varie specie di spiriti? È il contrario: Enea ripete il rito proprio perché conosce quelle varietà e, siccome il serpente è polivalente, non sa di quale di esse si tratti. L’incertezza esiste, è avvertita dal celebrante, ma deriva da un’informazione insufficiente di cui il celebrante è consapevole e sulla quale si 96 fonda il suo comportamento» .

11.2.4. Significato e uso della formula sive deus sive dea Alla luce di queste considerazioni, possiamo tornare a considerare l’uso della formula sive deus sive dea. Essa qualifica una precauzione, uno scrupolo, l’allontanamento di qualsivoglia errore o imprecisione da parte dei Romani nel loro rapporto con il divino. In ciò è affiancata da espressioni «precauzionali» analoghe, quali sive mas sive femina, sive quo alio nomine fas est nominare, quisquis es, etc.97 Il sive è volto ad includere tutte le possibili alternative, riducendo il rischio di errori rituali: in Catone, ad esempio, è impiegato non solo per rivolgersi al genius loci, ma anche per pregare il dio di essere propizio sia che il rito sia celebrato da chi lo invoca, sia da chi sia stato da lui delegato a farlo: sive ego sive quis iussu meo fecerit. Tutto ciò naturalmente a condizione che il rito sia eseguito correttamente: uti id recte factum siet. I riti importanti come i sacrifici, infatti, erano nulli senza una preghiera: 98

victimas caedi sine precatione non videtur referre aut deos rite consuli.

Questa andava pronunciata senza commettere alcun errore, pena il suo invalidamento e la necessaria ripetizione; la difficoltà era maggiore quando si recitavano testi quasi incomprensibili per la loro antichità, quali il carmen Saliare. Ad isolare il celebrante provvedeva prima l’ordine di assoluto silenzio, poi l’opera dei tibicines, tramite un «muro» sonoro a protezione dell’atto.99 Anche durante la recitazione ci si “rassicurava” tramite espressioni quali quod me sentio dicere.100 95 Cfr. MONTANARI 2001, 177–178. 96 DUMÉZIL 20012, 54–55. 97 Cfr. Macr. Sat. III, 9, 10: Dis pater Veiovis Manes, sive vos quo alio nomine fas est nominare; Apul. Met. XI, 2: quoquo nomine, quoquo ritu, quaqua facie te fas est invocare… Cfr. anche due testi di defixiones, per la cui segnalazione ringrazio il Prof. M. MALAVOLTA: si baro si mulier si puer si puella si servus si liber («AE» 1992, 1127); ut furem istum si ancilla, si puer, si puella extinguas… («AE» 1988, 837). 98 Plin. N. h. XXVIII 10. 99 Ibid. 11: Praeterea alia sunt verba inpetritis, alia depulsoriis, alia commendationis, videmusque certis precationibus obsecrasse summos magistratus et, ne quod verborum praetereatur aut praeposterum dicatur, de scripto praeire aliquem rursusque alium custodem dari qui adtendat, alium vero praeponi qui favere linguis iubeat, tibicinem canere, ne quid aliud exaudiatur, utraque mem inisigni, quotiens ipsae dirae obstrepentes nocuerint quotiensve precatio erraverit; sic repente extis adimi capita vel corda aut geminari victima stante. 100 Cfr. Varr. De l. L. VII 8.

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Nell’augurium salutis del 5 agosto addirittura si chiede al dio il permesso di chiedere!101 In questo contesto, l’espressione sive deus sive dea assume una rilevanza del tutto particolare per la funzione che si trova a ricoprire: essa costituisce infatti la prima parte della preghiera, l’invocazione, momento essenziale e delicatissimo, in cui si provvede a catturare l’attenzione della divinità.102 In una religione politeistica c’è bisogno di stabilire con la massima esattezza l’identità dell’essere divino cui ci si rivolge, tanto più che, in molte di esse, gli dèi non possedevano il dono dell’ubiquità.103 A Roma si cerca di specificare con precisione la sequenza degli dèi invocati – un esempio molto noto sono le lunghe liste degli indigitamenta104 o Sondergötter105 – o di procedere in modo «inclusivo», come avviene per espressioni quali …ceterisve diibus,106 …ceterisque diis deabusquae107 o di deaeque omnes,108 in modo da comprendere le divinità possibilmente trascurate, quelle nemiche109 o addirittura possibili divinità sconosciute. In questo senso, in Grecia esisteva anche un ágnostos theós. 110 Anche la formula sive deus sive dea agisce in questa direzione, «includendo» le possibili alternative circa il nome e il genere dell’essere divino invocato: tali alternative sono funzionali però alla sollecitazione di una sola divinità, nel senso di una «disgiunzione», non dunque di una «enumerazione» o di una «accumulazione»111. È poco probabile che ci si riferisse ad una divinità androgina,112 vista la presenza pressoché nulla di questa tipologia di esseri sovrumani nella religione ro101 C. Dio XXXVII 21, 1 sgg.; cfr. SABBATUCCI 1988, 256. VERSNEL 1981, 5, riporta una singolare preghiera dei Corciresi a Zeus e Dione, in cui viene chiesto loro quali dèi o eroi debbano pregare per stabilire la concordia! 102 Cfr. APPEL 1909, 75 sgg.; BRELICH 1966, 41; GUITTARD 1980, 395, n. 1; GUITTARD 1998a. 103 FUSTEL DE COULANGES 192328, 171–172; GUITTARD 1998a, 71 sgg. Un fenomeno analogo è riscontrabile nella religione ittita, per cui cfr. FERRI 2008; FERRI 2010a, cap. II. 104 In generale PERFIGLI 2004. 105 USENER 19292, 73 sgg. 106 CIL VI 30991 = ILS 3597. 107 Cfr. ad es. CIL III 8237; 142173. 108 Serv. Ad Georg. I 10; I 21; Ad Aen. VIII 103; Liv. I 32, 9; cfr. VERSNEL 1981, 13–14; CADOTTE 2002–2003. Vale la pena di menzionare anche un misterioso Pater deorum omnium (cfr. RÜPKE 2005, I, 32) probabilmente prodotto del fenomeno «inclusivo» opposto a quello di nominare tutti gli dèi e le dee, vale a dire la teocrasia: cfr. BRELICH 2007, 78. 109 Liv. I 32, 6; VIII 9. 110 NORDEN 2002, 261 sgg. ritiene in modo troppo netto che dalla concezione greca sia derivata la romana. Secondo ALVAR 1985, 269, la formulazione stessa delle due espressioni metterebbe in evidenza la distanza enorme tra la «capacità d’astrazione concettuale» dei Greci e quella dei Romani. Sull’ágnostos theós, cfr. PASCAL 1894; JESSEN 1903; BIRT 1913; WEINRICH 1915; BIKERMAN 1937–1938; TURCAN 1987; VAN DER HORST 1989; HENRICHS 1994; NORDEN 2002. 111 GUITTARD 2002, 53: «Le recours à sive… sive marque la volonté d’identifier la divinité à laquelle on s’adresse, d’attirer son attention: ce n’est pas un ensemble, une globalité, mais un individu qui est sollicité». 112 BRELICH 1949a; cfr. PETTAZZONI 1949; GUITTARD 2002, 41 sgg.

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mana.113 Da escludere anche, per i motivi visti poc’anzi, che si indagasse su una possibile presenza di una divinità nel senso di «se c’è un dio o una dea»: il Romano sa per certo che c’è una divinità in ogni luogo nonostante questo sia spesso l’unico dato sicuro di cui è in possesso.114 Quando invece si poteva essere abbastanza certi circa l’identità del dio invocato, o si possedevano quantomeno delle indicazioni più o meno chiare in merito, si poteva scegliere lo stesso di mantenere il sive deus sive dea, rimanendo dunque al riparo da imprecisioni o errori. In questa eventualità, la «scelta» o l’«ipotesi» circa la divinità invocata era fornita da altri elementi. Anzitutto il tipo di animale sacrificato: «attraverso il dono si definisce il destinatario»115. Gli atti degli Arvali ne costituiscono un magnifico esempio: vi sono elencati minuziosamente il tipo, il genere e il numero delle vittima che competono ad una certa divinità. Nelle tre iscrizioni relative ai rituali di questa confraternita considerate sopra, la formula sive deo sive deae è applicata evidentemente a diversi esseri divini: nella prima è ripetuta due volte, ma solo la seconda viene specificato che ad essa compete la tutela del luogo e del bosco sacro: in cuius tutela hic lucus locusque est. Nella terza alla divinità sive deo sive deae non vengono offerte, come alle altre, oves II, bensì verbeces II: l’officiante ha in mente una figura differente da quelle intese nella prima iscrizione, forse un dio, dato che i montoni erano sacrificati alle divinità maschili.116 Durante la seconda guerra punica il genius publicus riceverà per ordine dei Libri Sibillini cinque hostiae maiores. 117 Al genio di Nerone si sacrificò un toro.118 Nel rito del lucum conlucare il genius loci riceve un porco, mentre abbiamo visto che il genio personale molto raramente riceve dei sacrifici di tipo cruento. Questo per dire che, per quanto riguarda la categoria dei genii, vista la tipologia disparata del tipo di offerte ad essi destinate, potremmo al massimo parlare di «indicazione» del campo d’azione e dell’effetto desiderato, probabilmente per derivazione e analogia con le divinità personali maggiormente caratterizzate: «tale incertezza [scil. sul genere di Pales] non fa meraviglia: la religione romana, demitizzata e demitizzante, prestava più attenzione al campo d’azione divino che non al sesso delle divi119 nità» .

Riconsideriamo a questo proposito il racconto di Gellio circa la divinità dei terremoti: l’unica cosa su cui ci si può pronunciare con certezza è che essa ha causato la scossa. I pontefici potrebbero in teoria «identificare» Tellus, come fece il con113 Sulle divinità androgine, cfr. BERTHOLET 1934; BRELICH 1949a; ZANDEE 1988; BRISSON 1997; TOMMASI MORESCHINI 1998; TOMMASI MORESCHINI 2000; GUITTARD 2002, 41 sgg.; AUGÉ 2002, 149 sgg. 114 DUMÉZIL 1989, 52–55. 115 RÜPKE 2004, 167; cfr. GUITTARD 2002, 32; RÜPKE 2007b, 82 sgg. 116 Viceversa le pecore erano destinate alle dee: Iovi verbeces II altilaneos (CIL VI 2099; I 24); Iunoni deae Diae oves II (ibid. II 1); Virginibus divis oves II; Famulis divis verbeces duos; Laribus verbeces duos (ibid. II 2); Matri Larum oves duas (ibid. II 3). 117 Liv. XXI 62. 118 RÜPKE 2004, 168. 119 SABBATUCCI 1988, 130.

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sole Sempronio nel 268 a. C., votandole un tempio per placarla dopo aver avvertito una scossa di terremoto durante una battaglia contro i Piceni,120 o Ceres, come avvenne a seguito di un altro terrae motus in Sabina nel 174 a. C.121 Tuttavia questi episodi sembrano costituire l’eccezione piuttosto che la regola, poiché, come afferma Ammiano Marcellino, ancora nel IV secolo d. C. i fisici disputavano senza successo sulle cause precise del fenomeno, da essi ignorate. Per questo, né nei libri liturgici né nei testi dei pontefici si trovava alcunché di preciso sulla divinità che causava i terremoti: così facendo si mirava ad evitare di fissare i riti espiatori in onore di un dio anziché di un altro, essendo oscura l’identità di chi fra loro fosse il responsabile delle scosse.122 La speculazione antica aveva portato al massimo a classificare i terremoti in quattro tipologie: motus terrae brasmatiae, climatiae, chasmatiae, mycematiae.123 Ora, più cause moltiplicate per quattro tipi generano molte possibilità di scelta: i pontefici invece «scelgono» consapevolmente di non pronunciarsi, evitando il rischio di turbare gravemente la pax deorum in caso di errore, poiché per quell’evento naturale si erano decretate delle feriae.124 Sarebbe interessante conoscere quali vittime vennero offerte alla divinità si deus si dea, ma Gellio non lo specifica, o già la sua fonte, Varrone, ignorava tale informazione. Il genius, proprio per l’antichità della sua concezione, aveva dei contorni sfumati e indefiniti: «quando un romano diceva genius loci aveva esaurito tutto ciò che poteva enunciare del personaggio soprannaturale rivelatosi indirettamente, mediante un fenomeno singolare, in un 125 luogo determinato, e si rassegnava a codesta scarsità» .

Lo stesso accadeva per figure simili quali ad esempio i Penati: già Varrone mostrava di ignorare l’essenza, il nome e il numero degli dèi che Enea portò con se da Ilio.126 Schilling ritiene che prima della divinità personale Venus vi sia stato un *venus neutro, impersonale:

120 Flor. Epit. I 14, 2. 121 Liv. XLI 28, 2. Più chiara la situazione in Grecia, in cui si può riferire quasi a sempre Poseidone, in quanto Enesidaone o Enosigeo (scuotitore della terra), l’influenza sui terremoti e sulle mareggiate: cfr. ad es. l’Inno omerico dedicato al dio. 122 Amm. Marc. XVII 7, 9–10: Adesse tempus existimo pauca dicere, quae de terrae pulsibus coniectura veteres conlegerunt. Ad ipsius enim veritatis arcana non modo haec nostra vulgaris inscitia, sed ne sempiterna quidem lucubrationibus longis nondum exhausta physicorum iurgia penetrarunt. Unde et in ritualibus et pontificiis obtemperantibus sacerdotiis cavetur, ne alio deo pro alio nominato, cum, qui eorum terram concutiat sit in abstruso, piacula committantur 123 Ibid. 13 sgg. 124 Anche nel rapportarsi a culti stranieri i Romani erano molto attenti a non suscitare le ire di un dio sconosciuto. Esempio probante il celebre affare dei Bacchanalia in cui si distinse accuratamente tra dato sociale, da reprimere, e dato religioso, da regolamentare: cfr. PETTAZZONI 1966b; SORDI 1985, 150 sgg.; MONTANARI 1988, 119 sgg. 125 DUMÉZIL 20012, 50. 126 Macr. Sat. III 4, 7; Varr ap. Arnob. Adv. Nat. III 40; cfr. RADKE 1981b, 344 sgg.

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«L’idée d’une divinité indistincte, quasi impersonelle, était (…) familière à l’esprit 127 romain» .

Secondo Varrone anticamente i Romani non avevano né statue né templi, ma adoravano gli dèi all’aperto, nei boschi sacri: [scil. regnante Numa] nondum tamen aut simulacris aut templis res divina apud Romanos 128 constabat.

Dobbiamo cercare di uscire dalla gabbia concettuale del politeismo greco quale modello per le religioni dell’antichità: anch’esso, in cui è riscontrabile l’esempio più compiuto di distinzione e personalizzazione delle diverse figure divine, è il risultato di un lungo processo nel quale in piena età storica convivono istanze diverse, che sarebbe errato ed improprio etichettare semplicisticamente come «primitive». Se da una parte dunque la prima menzione letteraria esplicita di una statua è molto antica, risalente ad Omero e riferibile all’Atena di Ilio,129 pure molti dèi ancora in età storica erano concepiti o rappresentati in forma di alberi, pietre, betili, piramidi o colonne130 – celeberrima la pietra nera di Pessinunte, idolo aniconico di Cibele. Emblematico in quest’ottica, quasi punto d’incontro delle varie tendenze, il simulacro visto da Pausania ad Amyklai, vicino Sparta: una colonna con piedi, mani e volto!131 A maggior ragione una religione tendenzialmente demitizzante, altamente conservatrice e incentrata sul rito come quella romana,132 poteva non sentire l’esigenza, almeno inizialmente, di rappresentare la divinità in forma umana, pur concependola come tale.133 In età storica sarà l’influenza della statuaria greca a condurre alla rappresentazione anche di numina in origine non caratterizzati in senso antropomorfo,134 ma rimane sempre quantomeno la possibilità da parte romana di adorare gli dèi anche senza dover necessariamente conferire loro una figura.135 Si veda l’affermazione del Versnel a proposito di questa differenza fondamentale della religione romana rispetto alla greca: 127 SCHILLING 1954, 60. 128 128 Ant. rer. div. I 18, 38; cfr. Varr. ap. Aug. De civ. Dei IV 31: [scil. Varro] dicit etiam antiquos Romanos plus annos centum et septuaginta deos sine simulacro coluisse … qui primi simulacra deorum populis posuerunt, eos civitatibus suis et metum dempsisse et errorem addidisse, prudenter existimans deos facile posse in simulacrorum stoliditate contemni. Cfr. CANCIK 1985–1986, 256 sgg.; RÜPKE 2007b, 107–118. 129 Il. VI 92; 273; 303. 130 Cfr. FUNKE 1981, 670; METZLER 1985–1986; FERRI 1990. 131 Paus. II 9, 6. Tertulliano (Nat. I 12, 3) paragona lo xoanon della Pallas ateniese alla croce. Sull’argomento, cfr. in generale METZLER 1985–1986; FERRI 1990. 132 BRELICH 1966, 225–228; SABBATUCCI 1975, 17 sgg.; FUNKE 1981, 675–676; MONTANARI 1986. 133 DUMÉZIL 20012, 33 sgg.; cfr. AUGÉ 2002, 103 sgg. Nella speculazione posteriore, tuttavia, già le divinità portate da Enea con sé, i Penati, erano intese come rappresentate in forma antropomorfa. 134 FUNKE 1981, 755–756. 135 KUNCKEL 1974, 11.

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11. IL GENIUS E LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA «The gods of the early Romans, unlike those of the early Greeks, were never actually visualised and individualised. Deprived of individual personality their identity was primarily defined by their function; the rarely possessed ‘shapes’ either in a plastic or in a 136 psychological sense» .

È dunque certamente vero che «la sessualità delle divinità non è separabile dalla loro rappresentazione plastica»,137 ma, per quanto riguarda la situazione romana, specialmente in età arcaica, vi doveva essere più di un’esitazione a rappresentare essere divini dal contorno indefinito e inafferrabile quali potevano essere i genii: certo era facile assegnare un genere al genius del pater o a quello di Giove, 138 ma come procedere nei confronti di un genius loci? Inoltre, diversamente da quanto accadeva in Grecia, non si davano solitamente epifanie della divinità: quando questa intendeva comunicare la propria volontà lo faceva in altro modo, tramite segni ordinari e istituzionalizzati (il volo degli uccelli, l’osservazione dei fulmini, etc.) o più straordinari ed episodici (prodigi, fenomeni «panici», etc.), per cui non ci si aspettava di poterla vedere “di persona”139. La figura del genius rimane indefinita, anche se da un certo punto in poi si comincerà a rappresentare questo tipo di esseri sovrumani. Ad essi tuttavia non si conferirà mai un nome proprio: in origine il genio più antico, quello individuale, non lo richiedeva poiché riceveva la sua differenziazione e la sua caratterizzazione dall’essere il «genio di». Anche il genius loci risentirà di questo processo: il fatto di essere la divinità di «quel» preciso luogo era l’unico dato conosciuto e allo stesso tempo minimo, necessario e sufficiente per stabilire un rapporto con essa, e per questo verosimilmente non svilupperà mai dei contorni netti e una personalità inconfondibile. 140 Non si può escludere inoltre che la categoria dei genii in qualche modo fosse funzionale a collocare e raccogliere tutte le divinità di cui sfuggiva del tutto o quasi l’essenza, e questo potrebbe spiegare l’estensione della denominazione a così tante realtà diverse. Lo stesso accadde per un’altra tipologia di esseri divini «incerti», assurti col tempo a «categoria», i Penati, tra cui i Romani, da un certo punto in poi, compresero tutti gli dèi, maschili e femminili, onorati nella casa per una qualche ragione: 141

penates sunt omnes dei qui domi coluntur,

tanto che, come è noto, ogni padrone di casa era libero di scegliere le divinità che preferiva quali di penates. 142 Questo tipo di esseri sovrumani ben rappresentava quel quid che rimaneva inesplicabile ai Romani nell’approccio con il divino, tratto questo quasi certa136 VERSNEL 1981, 16; cfr. SABBATUCCI 1988, 113–116. 137 RÜPKE 2007b, 58. 138 Sui genii delle divinità, cfr. OTTO 1910, 1157; CESANO 1922, 465–466; 479–481; DIETRICH FABIAN 1984, 111; per la situazione in Etruria, COLONNA 1980, 162, 168–169. 139 Cfr. MUSSIES 1988; FYNTIKOGLOU – VOUTIRAS 2005, 158. 140 Cfr. CESANO 1922, 463; BRELICH 2007, 101. 141 Serv. Ad Aen. II 514. 142 DUMÉZIL 20012, 312.

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mente ereditato dagli Etruschi, nel cui pantheon possiamo trovare degli dèi involuti (inesplicabili) e opertanei (segreti)143. Se dunque il viatico per la piena realizzazione di una divinità «personale» è il progressivo indebolimento dei vincoli caratterizzanti con il «luogo» o la «funzione» specifici,144 possiamo dire che, per quanto riguarda il genius, ciò si verifica in misura molto limitata o per nulla. Tirando le fila di quanto si è detto, la formula sive deus sive dea ben mostra la prudenza e lo scrupolo con cui i Romani si accostavano al divino ed evitavano di pronunciarsi sull’identità di un essere sovrumano quando le informazioni in loro possesso erano insufficienti e, per la loro stessa incompletezza, potenzialmente compromettenti o dannose. Un apporto decisivo al suo sviluppo fu apportato verosimilmente dalla nozione di genius loci, 145 i contorni del quale rimarranno indefiniti: in questo caso il dubbio sussisteva sull’essenza stessa della divinità, non solo sul suo nome o, eventualmente, sulle sue epiclesi.146 Si poteva cercare di restringere il margine di incertezza attraverso la scelta dell’animale da sacrificare, scelta indicativa probabilmente del campo d’azione in cui la divinità avrebbe dovuto esercitare il suo potere: «Greek gods ‘live’, Roman gods ‘work’, i.e. function, sometimes for a very short time, in 147 their own domain, but never step outside it» .

Abbiamo visto tuttavia la grande varietà di offerte che questa categoria di esseri divini ricevette in diverse occasioni. Ulteriori specificazioni potevano darsi tramite l’orientamento dell’orante: un bosco, una città, etc.148 Si tentava così di «avvicinarsi» il più possibile alla fisionomia dell’essere divino, se si conoscevano almeno alcuni dati che lo riguardavano, o all’effetto che da esso ci si aspettava, o entrambi. Ciò è ben riscontrabile nell’invocazione del carmen evocationis, alla quale è opportuno ora rivolgersi. 11.2.5. La formula nel carmen evocationis: a quale divinità ci si riferisce? Giova anzitutto riportarla per intero: Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti, precor venerorque veniamque a vobis peto, ut vos populum civitatemque Carthaginiensem deseratis, loca templa sacra urbemque relinquatis, absque his abeatis, eique populo civitati metum formidinem oblivionem iniciatis, proditique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique populo Romano militibusque meis propitii sitis, ut sciamus intellegamusque. Si 149 ita feceritis, voveo vobis templa ludosque facturum.

143 144 145 146

TORELLI 1986, 162. GLADIGOW 1993, 33. GUITTARD 2002, 25. GUITTARD 2002, 54, ritiene invece che il dubbio non sussistesse «sur la nature d’un dieu, mais sur son nom exact et la série de ses attributions qui s’expriment à travers ses épiclèses». 147 VERSNEL 1981, 16. 148 GUITTARD 1998a, 76. 149 Macr. Sat. III 9, 7–8.

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La questione principale da porsi riguarda l’identità delle due divinità cui il carmen è rivolto. Non vi sono infatti dubbi in proposito: si passa da un essere divino si deus si dea cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela ad un altro che ricevette l’urbis huius populique tutelam, soprattutto per effetto del teque maxime, che mette in risalto la figura del secondo. Inoltre, dopo l’invocazione, ci si rivolge loro con l’insistita ripetizione della seconda persona del pronome vos (a vobis, vobis); di conseguenza, tutti i verbi sono al plurale: deseratis, relinquatis, abeatis, iniciatis, veniatis, sitis. Due divinità: si può subito escludere perciò l’ipotesi avanzata da Georges Dumézil, secondo cui il carmen fosse rivolto a tutti gli dèi della città, inglobati nell’espressione sive deus sive dea.150 Se questa fosse stata l’intenzione, ci saremmo dovuti aspettare un’invocazione del tipo dii deaeque omnes … teque maxime, o ille … ceterive dii, o simili. Quanto alle altre ipotesi, Le Gall ritiene di identificare la seconda divinità con Baal, sia per le numerose attenzioni ricevute dal suo omologo romano, Saturno, durante la seconda guerra punica, sia per il genere maschile del pronome dimostrativo ille.151 Guittard pensa allo stesso modo a Baal Hammon e ritiene che l’insieme delle due invocazioni non possa essere indirizzato ad altri che alla coppia Tanit-Baal.152 Il Berti ipotizza un coinvolgimento di Melqart/Eracle sulla base del fatto che Scipione Emiliano dedicò un tempio al dio nel Foro Boario nel 142 a. C.153 A nostro parere, si avvicina forse di più al vero la posizione di J. Alvar, il quale dopo aver criticato la posizione di Le Gall, rileva che si ha a che fare con due divinità, per cui: «dans le premier cas elle [scil. l’invocazione] ferait réference à des êtres abstraits ou généraux, tandis que dans la deuxième il serait question d’éléments concrets».

Si distinguerebbe dunque tra il protettore generale dello stato cartaginese e la divinità tutelare particolare della città, come sarebbe accaduto a Roma con Iuppiter Optimus Maximus e il genius urbis Romae sive mas sive femina.154 Rilevare il passaggio dal «generale» al «particolare»155 ci sembra di per sé un’osservazione condivisibile, in primis per l’impiego della locuzione teque ma-

150 DUMÉZIL 20012, 53, n. 9; cfr. LE GALL 1976, 521–522; BERTI 1990, 74. Da escludere anche che ci si rivolgesse ad una sola divinità: cfr. ENGELBRECHT 1902, 482–484. 151 LE GALL 1976, 522; medesima l’opinione di FERRON – SAUMAGNE 1967–1968, 96, che, in base al testo di un’iscrizione rinvenuta a Cartagine, suppongono pure una consecratio al dio del suolo di Cartagine o di un terreno di essa da parte dello stesso Scipione Emiliano o di un corpo sacerdotale. Baal ha tuttavia caratteristiche di divinità «nazionale» e «uranica» più che «poliade»: cfr. XELLA 1994, 168–169. 152 GUITTARD 2002, 33–35. 153 BERTI 1990, 73; cfr. supra, par. 5.3.1. 154 ALVAR 1985, 256; contra GUITTARD 2002, 34, n. 56. 155 Cfr. PEPPE 1990, 329, n. 77.

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xime. L’avverbio infatti, lungi dall’essere un’epiclesi,156 ha il significato di «e tu soprattutto»157. Probabilmente però bisogna invertire l’ordine: l’elemento «generale» è costituito dal genius, il «particolare» dalla divinità considerata la protettrice della città. In base a tutte le considerazioni dispiegate nelle pagine precedenti, l’essere divino «immanente» e «presupposto» è infatti il primo: il Romano sa che vi dev’essere un genius loci, ivi presente fin da quando il luogo esiste. Si rivolge dunque ad esso con la formula che abbiamo visto essere ad esso particolarmente collegata ed appropriata. Vi è poi la divinità «eletta» ad un certo punto per proteggere la città, costruzione umana ed artificiale sorta in un determinato luogo già protetto da un genius. Essa può anche cambiare nel corso della storia: l’esempio è offerto dalle due divinità proposte dall’Alvar, ma, di nuovo, in ordine invertito. Il genius urbis Romae (su cui avremo modo di tornare diffusamente) è la divinità presente ab ovo sul sito della città, mentre Giove Ottimo Massimo è consapevolmente «scelto» e «costruito» ad un certo punto della vicenda storica dell’Urbe;158 prima di esso la divinità più plausibile a ricoprire questo ruolo è Quirinus, il dio dei Quirites, identificato poi con il fondatore della città.159 Per queste considerazioni nessuna delle due divinità è indicata nel carmen: l’unico nome proprio è quello della città, Cartagine, qualificazione necessaria e sufficiente per circoscrivere ed identificare gli dèi cui ci si rivolge.160 Della prima si prende semplicemente atto che il populus e la civitas siano in sua tutela: entrambi i termini qualificano l’elemento «personale», rispetto a quello «fisico», indicato con loca templa sacra urbis. 161 Quanto alla seconda, si specifica chiaramente il conferimento della tutela della città e del popolo che vi abita da un certo punto in poi, parrebbe di intendere per scelta consapevole: qui urbis huius populique tutelam recepisti.

Entrambe dimorano nell’elemento «fisico», qualificato sia in senso più generico, verosimilmente più appropriato per la prima (loca), sia più particolare con la tipica dimora della divinità personale (il templum); tutte e due saranno naturalmente presenti poi nei sacra della città. Una differenza tra i due esseri divini sarebbe anche riscontrabile a posteriori, visto che è la sola divinità «particolare» che nor156 157 158 159

LE GALL 1976, 522, n. 15. BASANOFF 1947, 32; GUITTARD 1998a, 90, n. 101; GUITTARD 2002, 34, n. 56. Cfr. KOCH 1986. Cfr. BRELICH 1960; KOCH 1960b; RADKE 1981a; PORTE 1981; SABBATUCCI 1988, 63–70; MONTANARI 1993g; DUMÉZIL 20012, 224–240. L’identificazione Quirino-Romolo ha luogo probabilmente a partire dal III sec. a. C. «quando, con l’erezione di un gruppo bronzeo raffigurante i gemelli allattati dalla lupa, si ufficializza il mito dei fondatori e il «culto» del primo re dei Romani» (MONTANARI 1993g, 609). L’identificazione è completa e definitiva al tempo di Augusto: cfr. Aen. VII 187 e 612. Devo a più di una conversazione con il Prof. Enrico Montanari, che qui calorosamente ringrazio, la riflessione e l’identificazione di Quirino quale divinità «particolare» di Roma. 160 Cfr. GUITTARD 1998a, 90. 161 PEPPE 1990, 329–330.

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malmente riceve un tempio a Roma; alla prima, evidentemente, è richiesto solo il permesso di «invadere» il luogo da essa protetto, analogamente a quanto avveniva in occasione del rito del lucum conlucare. Il complesso rapporto tra i due esseri divini è verosimilmente analogo a quello vigente tra Lari e Penati, nozioni assai vicine e spesso perciò confuse e in concorrenza tra loro, che in realtà però si riferiscono l’una al luogo e l’altra alla costruzione che vi si trova162. Quanto ai primi, infatti, il pater familias, ritornando al proprio podere, si preoccupava innanzitutto di salutare il Lar familiaris;163 ad esso veniva annunciata la partenza per un viaggio,164 nel corso del quale si sarebbero incontrati alium Larem, aliam urbem, aliam civitatem,165 ed era invocato quando ci si stabiliva in una nuova casa.166 Rispetto ai secondi, invece, si ricordi che Enea porta con sé da Troia i Penati, le divinità familiari legate all’elemento umano che abita l’elemento «artificiale» del luogo, la casa; essi seguono la famiglia e sono dunque trasportabili da un luogo all’altro.167 Appena resosi conto di essere giunto nella terra assegnatagli dai fati, l’eroe troiano dapprima «presenta» il luogo ai Penati di Troia, ma la prima divinità cui rivolge la sua preghiera altri non è che il genius loci.168 Si dovette ritenere probabilmente che la stessa situazione fosse presente a Cartagine, almeno secondo la concezione romana degli autori di età augustea, i quali però (soprattutto Virgilio) attinsero «all’immenso deposito storico-antiquario e ritualistico accumulatosi lungo secoli di attività dei sacerdozi»169. Nel luogo in cui sarebbe sorta la città punica vi era da sempre una divinità «locale», un genius. Giunta in quei lidi da Tiro, Didone li «sceglie» per opera di Giunone e vi costruisce un maestoso tempio dedicato alla dea,170 che dunque «riceve» (recipit) la tutela della città. Qualcosa del genere concepisce un altro poeta dello stesso periodo per Roma: Ovidio mette infatti in bocca a Giunone le parole 171

Ipse mihi Mavors “commendo moenia” dixit “haec tibi. Tu pollens urbe nepotis eris”

.

A corollario di queste considerazioni, non lo si ripeterà mai abbastanza, non si vuole indicare ovviamente che i fatti siano andati in questo modo, ma che così il «sistema di rappresentazioni» romane aveva rielaborato i dati di cui era in possesso e speculato su quelli che non aveva più o di cui ignorava il reale significato.172 162 163 164 165 166 167 168 169 170 171 172

DUMÉZIL 20012, 312. Cat. De r. r. II. Plaut. Mil. 1339. Plaut. Merc. 836–837. Plaut. Trin. 39–41. Inoltre, secondo Ovidio (Fast. V 129–148) i Lari sarebbero stati figli di Mercurio. Enea poté essere definito perciò penatiger: Ov. Met. XV 450. Aen. VII 120–122; 135 sgg. MONTANARI 2001, 115–116. Aen. I 446–450. Fast. VI 53–54. Sul tema, oltre all’introduzione al presente volume, cfr. da ultimi MONTANARI 2009; FERRI 2010a, cap. IV.

11.2. LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA

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Avendo identificato la divinità «particolare» con Tanit-Iuno Caelestis,173 l’unico dato che apparentemente osta alla nostra ricostruzione è il fatto che il pronome dimostrativo ille si trovi al maschile. Va escluso infatti che il testo del carmen, per quanto standardizzato, non fosse modificabile, poiché almeno il nome della città doveva essere cambiato di volta in volta. Possiamo qui forse seguire il Basanoff, 174 il quale ricorda che «le carmen est sorti des mains des pontifes. C’est une formule juridique. Et dans le droit: 175 176 verbum hoc ‘si quis’ tam masculos quam feminas complectitur. Le principe est général. Et il s’appuie sur le ius civile, produit de la même officine des pontifes: Ulpien en énonce en 177 effet une application concrète, dans son commentaire ad Sabinum ».

La distinzione tra i due modi per designare le divinità tutelari «generale» e «particolare», entrambi presenti nella disciplina pontificalis (si ricordi l’episodio del terrae motus tramandato da Gellio), potrebbe dunque essere dovuta o alla diversa natura e al diverso ruolo dei due esseri divini, oppure alla maggiore antichità della formula sive deus sive dea, anche nel caso sia stata ricevuta dall’Etrusca disciplina.

173 174 175 176 177

Cfr. supra, par. 5.3.2. BASANOFF 1947, 110. Dig. L 16, 1, Ulp. lib. I ad edictum; cfr. Gaius, eod. 152. Ulp. Eod. 195, pr. Eod., 172.

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12. LA DIVINITÀ TUTELARE SEGRETA DI ROMA1 12.1. I TENTATIVI DI IDENTIFICAZIONE 12.1.1. Le fonti Alcuni autori riportano la singolare notizia della tutela di Roma da parte di una divinità dal nome sconosciuto. Tra di essi Macrobio, il quale fornisce il quadro più completo della situazione: “Excessere omnes adytis arisque relictis / di, quibus imperium hoc steterat” [Aen. II 351– 352] et de vetustissimo Romanorum more et de occultissimis sacris vox prolata est. Constat enim omnes urbes in alicuius dei esse tutela, moremque Romanorum arcanum et multis ignotum fuisse ut, cum obsiderent urbem hostium, eamque iam capi posse confiderent, certo carmine evocarent tutelares deos, quod aut aliter urbem capi posse non crederent, aut etiam, si posse, nefas aestimarent deos habere captivos. Nam propterea ipsi Romani et deum, in cuius tutela urbs Roma est, et ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt. Sed dei quidem nomen non nullis antiquorum, licet inter se dissidentium, libris insitum et ideo vetusta persequentibus, quicquid de hoc putatur, innotuit. Alii enim Iovem crediderunt alii Lunam, sunt qui Angeronam, quae digito ad os admoto silentium denuntiat, alii autem quorum fides mihi videtur firmior, Opem Consivam esse dixerunt. Ipsius vero urbis nomen etiam doctissimis ignoratum est, caventibus Romanis, ne quod saepe adversus urbes hostium fecisse se noverant, idem ipsi quoque hostili evocatione paterentur, si tutelae suae nomen 2 divulgaretur.

Il brano di Macrobio è denso di informazioni degne di nota. La prima è la constatazione che ogni città si trovasse sotto la protezione di un dio. Vi è poi la menzione della pratica dell’evocatio, cui è funzionalmente legato il mantenimento del segreto circa il nome del dio protettore della città di Roma: i Romani così facendo intendevano evitare qualunque rischio di incorrere in una possibile privazione del nume, cosa che essi stessi avevano più volte ottenuto a scapito, come si è visto, di un buon numero di importanti città nemiche, con i nefasti effetti dal punto di vista politico e religioso che ciò aveva comportato. Egli riporta poi un breve elenco di possibili candidate al ruolo, dando anche la sua preferenza per una di esse. Infine, appare evidente come l’autore tardoantico confonda più di una volta due segreti, quello circa il nome della divinità e quello circa il nome della città stessa.3

1

2 3

Il titolo di questo capitolo, oltre ovviamente a riferirsi al contenuto dello stesso, vuole essere contemporaneamente un affettuoso e sentito omaggio all’opera di Angelo Brelich dal medesimo titolo (Die geheime Schutzgottheit von Rom, qui BRELICH 1949a), dalla quale hanno preso le mosse la mia riflessione prima e le mie ricerche relative all’argomento poi. Macr. Sat. III 9, 1–5. A proposito del secondo, cfr. FERRI 2007; FERRI 2009; FERRI 2010a, cap. III. Sulla differenza, infra, par. 15.2.1.

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12. LA DIVINITÀ TUTELARE SEGRETA DI ROMA

Il rapporto stretto della notizia circa l’esistenza di un dio protettore di Roma il cui nome non era conosciuto con la pratica del rito evocatorio non può essere casuale, poiché ricompare nella fonte più antica pervenutaci sull’argomento, cioè Verrio Flacco (in Plinio): Verrius Flaccus auctores ponit quibus credatur in obpugnationibus ante omnia solitum a Romanis sacerdotibus evocari deum cuius in tutela id oppidum esset promittique illi eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Et durat in pontificum disciplina id sacrum, constatque 4 ideo occultatum in cuius dei tutela Roma esset, ne qui hostium simili modo agerent.

Il fatto che il sacrum permanga ai suoi tempi nella disciplina pontificalis5 costituisce la prima causa per cui, allo stesso modo, si continuava a mantenere segreto il nome del dio sotto la cui tutela si trovava la città di Roma, vale a dire per non correre il rischio che un nemico potesse evocarlo. Viene meno qui la confusione presente invece in Macrobio: per evocare un dio bisogna conoscere il suo nome, non quello della città. Il terzo autore che tratta l’argomento, Servio, è concorde nel ritenere che i Romani tenessero celato il nome della divinità cittadina per il timore di poterne essere privati: EXCESSERE quia ante expugnationem evocabantur ab hostibus numina propter vitanda sacrilegia. Inde est quod Romani celatum esse voluerunt in cuius tutela urbs Roma sit, et iure 6 pontificum cautum est ne suis nominibus dii Romani appellarerunt, ne exaugurari possent.

Esattamente lo stesso è presente in Plutarco: Per quale motivo di quel dio, sia esso maschio o femmina, al quale in special modo spetta custodire e proteggere Roma, è proibito parlare e cercare di conoscere e nominare? [scil. I Romani] connettono questo divieto allo scrupolo religioso, raccontando che Valerio Sorano andò malamente in rovina per averlo rivelato. È forse perché, come ci assicurano alcuni scrittori di cose romane, che ci siano invocazioni e incantamenti degli dei per i quali, ritenendo che alcuni dèi dei nemici siano stati evocati e si siano stabiliti presso di loro, temevano di patire lo stesso da parte di altri? Come infatti dei Tirii si dice che ponessero delle catene alle statue dei culti propri o di quelli altrui per assicurarle quando le facevano uscire per i bagni o per altre purificazioni, così i Romani ritenevano che il modo migliore e più sicuro di conservarsi un dio, fosse di tenerlo innominato e ignorato. O, come scrive Omero: «La Terra a tutti gli dèi è comune, grande e piccola» [Il. XV 193] nel senso che gli uomini dovrebbero riverire e onorare tutti gli dèi, dappoiché condividono la terra con loro, così gli antichi Romani tenevano nascosta la divinità responsabile della loro 7 sicurezza per il desiderio che non solo quel dio, ma tutti, venissero onorati dai cittadini?

Molte ipotesi sono state fatte sul nome della divinità ignota che vegliava su Roma. Gli elementi su cui ci si è concentrati per sostenere l’una o l’altra “candidata” fondalmente sono: il legame e l’importanza di esse con e per Roma, il culto, soprattutto il pubblico, e l’elemento concernente la sfera del segreto. Se doves4 5 6 7

Plin. N. h. XXVIII 18. Cfr. KÖVES–ZULAUF 1972, 90–91. KÖVES-ZULAUF 1972, 106. Serv. Ad Aen. II 351; cfr. Ad Georg. I 498: Nam verum nomen eius numinis, quod urbi Romae praeest, sciri sacrorum lege prohibetur: quod ausus quidam tribunus plebis enuntiare in crucem levatus est. Plut. Q. R. 61.

12.1. I TENTATIVI DI IDENTIFICAZIONE

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simo tralasciare l’ultimo punto, la divinità maggiormente papabile sarebbe ovviamente Giove, dapprima come membro più importante della triade arcaica, poi come Ottimo Massimo; sarebbe però ben strano che la divinità segreta di Roma fosse allo stesso tempo anche la più importante del sistema religioso romano.8 Vediamo dunque le altre. 12.1.2. Luna Divinità introdotta secondo Varrone da Tito Tazio,9 dunque dalla Sabina, Luna10 è la divinità meno feconda di spunti e una delle meno probabili ad essere identificata in questo ruolo. Che questa dea comunque potesse ricoprire il ruolo di protettrice di una città è certo per quanto riguarda la colonia romana omonima, fondata nel 177 a. C.; inoltre abbiamo delle rappresentazioni della dea con la lancia in mano, l’attributo tipico delle divinità tutelari cittadine.11 L’aspetto segreto può essere rintracciato nell’oscurità delle notti, in particolare quelle di luna piena. La dea tuttavia non riveste una particolare importanza nel culto pubblico: non vi sono giorni festivi ad essa riservati né sacerdozi.12 Le erano dedicati un tempio sul Palatino,13 uno sull’Aventino14 e un culto nella Graecostasis.15 Era inoltre rappresentata insieme a Sol nella spina del Circo Massimo,16 e l’imperatore Adriano avrebbe voluto porre una sua statua gigantesca di fronte al tempio di Venere e Roma, sempre insieme al suo paredro celeste. Il Radke ritiene che la menzione di Macrobio vada in realtà riferita a Lua.17 12.1.3. Ops Consiva Ad Ops Consiva18 era dedicato un sacrarium nella Regia al quale avevano accesso solo il pontefice massimo e le Vestali.19 Già questo basterebbe a mostrare l’importanza della dea: il culto è officiato dal supremo sacerdote del sistema religioso romano, coadiuvato dal collegio femminile più importante, per le cui com8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19

Di questo parere è invece WISSOWA 19122, 338. De l. L. V 74. Cfr. RADKE 1965, 189–190; MALAVOLTA 1977. BRELICH 1949a, 38–39. WISSOWA 19122, 315. Varr. De l. L. V 68; Hor. Carm. IV 6, 38; Macr. Sat. III 8, 3. Cfr. CIL I2 314; Liv. XL 2, 2; Tac. Ann. XV 41; Ov. Fast. III 883 sgg.; ANDREUSSI 1999b. Il natalis del tempio cadeva il 31 marzo. SCULLARD 1981, 180. Tert. De spect. IX; Cassiod. Var. III 51, 6. Qui avrebbe avuto anche un luogo sacro ad essa dedicato: Lyd. De mens. I 12. RADKE 1965, 186. Ciò per la successione delle feste delle divinità menzionate: 17 (Saturnalia, per il legame con il dio), 19 (Opalia), 21 (Divalia o Angeronalia), 23 dicembre (Feriae Iovi). Cfr. BRELICH 1949a, 41–46; RADKE 1965, 97, 238–240; KÖVES-ZULAUF 1972, 72–80; POUTHIER 1981; DUMÉZIL 1987, 269–281; ARONEN 1999a. Varr. De l. L. VI 21; Paul. Fest. 202 L; cfr. POUTHIER 1981, 59 sgg.

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12. LA DIVINITÀ TUTELARE SEGRETA DI ROMA

ponenti il Dumézil ha anche avanzato un’interessante analogia: così come esse, in quanto vergini, sospendevano in modo indefinito la fecondità e la maternità, reprimendole al fine di concentrarle, così Ops, in quanto Consiva, proteggeva il raccolto immagazzinato, cioè un’abbondanza attuale ma in riserva.20 Si ricordi inoltre che nella Regia erano custoditi anche gli ancilia Saliorum, il cui originale è definito senza mezzi termini pignus imperii da quasi tutte le nostre fonti.21 Il luogo connette più in generale la dea con la fase più antica della città, ed il culto era forse officiato in origine dal re nel suo ruolo di capo della religione statale.22 I legami della dea con lo stato sono aumentati inoltre dalla notizia che Cesare fece collocare nel suo tempio sul Campidoglio (dedicatole in quanto Opifera) il tesoro23 e che, sempre davanti ad esso, si riunivano le matrone in occasione dei ludi saeculares di agosto.24 La dea era festeggiata il 25 agosto, giorno degli Opiconsivia.25 Il nome della dea porta in sé un chiaro riferimento ad un’altra divinità, Consus, la quale possedeva un altare sotterraneo presso il Circo Massimo che poteva essere mostrato solo in particolari occasioni e davanti al quale sacrificava il flamen Quirinalis di nuovo insieme alle Vestali.26 Altre feste dedicate alla coppia Ops-Consus erano i Consualia del 15 e gli Opalia del 19 dicembre.27 La dea è considerata la divinità segreta di Roma da Macrobio.28 12.1.4. Angerona La dea più affascinante dell’elenco, anche e soprattutto in ragione dell’alone di mistero che l’avvolge è Angerona (o Angeronia o Diva Angerona)29. La sua statua di culto si trovava in un luogo non meglio identificato ai piedi del Palatino, presso

20 DUMÉZIL 1987, 276. 21 Cfr. GROß 1935, 97–116; COLONNA 1991; AIGNER FORESTI 1993. 22 DUMÉZIL 20012, 164. Un legame ancestrale con la città vi sarebbe anche alla luce delle etimologie che dal nome della dea fanno derivare il termine oppidum: Paul. Fest. 222 L; cfr. Varr. De l. L. V 141; BASANOFF 1947, 24–25. Sulle varie etimologie, cfr. POUTHIER 1981, 21 sgg. 23 Cic. Att. XIV 14, 5; 8, 1; XVI 14, 4; Phil. I 17; II 35; 93; V 15; VIII 26; Vell. Pat. II 60, 4; POUTHIER 1981, 239 sgg. 24 CIL VI 32323, 75 = ILS 5050. Il tempio era stato dedicato da un Metellus pontifex: Plin. N. h. XI 34. 25 SCULLARD 1981, 181; SABBATUCCI 1988, 193–198. 26 Dion. Hal. II 31; Tert. De spect. V; cfr. SABBATUCCI 1988, 274–283; CIANCIO ROSSETTO 1993. 27 Sulla relazione tra le feste di agosto e di dicembre, cfr. DUMÉZIL 1987, 276–281; POUTHIER 1981, 101–113. 28 Macr. Sat. III 9, 4. 29 Su Angerona, cfr. AUST 1894; WISSOWA 19122, 241; WAGENWOORT 1941; LAMBRECHTS 1944; HUBAUX 1944; DEROY 1949; BRELICH 1949a, 46–49; DUMÉZIL 1956, 44–70; RENARD 1960; ERNOUT 1969; CAPOVILLA 1957; RADKE 1965, 63–64; BOLOGNA 1978, 318–319; PROSDOCIMI 1978; CANCIANI 1981; COARELLI 1983, 255–261; BADER 1992; ARONEN 1993a; ARONEN 1993b; RÜPKE 1995, 552–555; DUBORDIEU 2003.

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la Via Nova, nella curia Acculeia o nel sacellum Volupiae.30 Qui, il dodicesimo giorno prima della calende di gennaio, cioè il 21 dicembre, in occasione dei Divalia o Angeronalia, venivano celebrati dei riti in suo onore dai pontefici.31 Questo giorno era il più corto dell’anno solare: già Mommsen sosteneva, riferendosi ad una delle etimologie relative al nome della dea – da angere: «stringere», «soffocare»32 –, che essa sarebbe stata ritratta con la bocca chiusa poiché la sua festa chiudeva l’anno.33 Sabbatucci, mettendo a confronto questo silenzio con quello di Tacita-Muta, dea connessa ai Feralia dei 21 febbraio, ritiene che le due divinità metterebbero fine rispettivamente al periodo caratterizzato dalla loquacità dei Fauni e dal chiasso dei Saturnalia.34 Il Deroy ipotizza che il nome della dea possa provenire da un *anger(us) con il significato di «che va in due direzioni», quindi «indeciso», «esitante», con un’allusione all’esitazione del sole che sembra arrestare il suo corso prima di darvi di nuovo principio.35 La connessione con il percorso annuale dell’astro metterebbe inoltre in relazione Angerona con Summanus, dio onorato nel momento diametralmente opposto dell’orbita solare, cioè il solstizio d’estate.36 Quanto all’angina, un’epidemia della quale Angerona avrebbe contribuito a guarire,37 sempre il Sabbatucci afferma: «dal punto di vista calendariale, diremmo: l’angina che il nome della dea evocava e il suo potere esorcizzava, è la «strettezza» dello spazio concesso al sole in questo momento 38 dell’anno, ed è al contempo la «chiusura» dell’anno» .

Il gesto di richiamare al silenzio e il tema più generale del silenzio hanno anche fatto pensare al Brelich al mondo dei morti, i taciti Manes, le umbrae silentes: ciò anche per la topografia del luogo dimora della dea, connotato da importanti valenze sepolcrali, come la tomba di Acca Larentia e il posto in cui i sacerdoti sacrificavano dis Manibus servilibus.39 Contrario a questo collegamento, Dumézil, il quale, attraverso la comparazione con il mondo indoeuropeo, ha invece ritenuto che la figura della dea facesse riferimento ad uno degli scopi del silenzio,

30 COARELLI 1983, 255–261; ARONEN 1993b; ARONEN 1999d. Su Volupia, cfr. EISENHUT 1961b. 31 Varr. De l. L. VI 23; Paul. Fest. 16 L; CIL I2, 337. 32 Macr. Sat. I 10, 9. 33 CIL I 409 = I2 337–338; cfr. WISSOWA 19122, 241. 34 SABBATUCCI 1988, 358. Per un’identità Tacita-Angerona si è pronunciato LAMBRECHTS 1944; cfr. BADER 1992, 228–232; DUBORDIEU 2003, 272 sgg. 35 DEROY 1949. 36 PROSDOCIMI 1978. 37 Macr. Sat. I 10, 8–9; Paul. Fest. 16 L. 38 SABBATUCCI 1988, 359. 39 BRELICH 1949a, 47–49; cfr. WAGENVOORT 1941; LAMBRECHTS 1944; RENARD 1960; ERNOUT 1969; BOLOGNA 1978, 329 sgg.

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12. LA DIVINITÀ TUTELARE SEGRETA DI ROMA «quello di concentrare il pensiero, la volontà, la parola interiore, e di ottenere mediante questa concentrazione un’efficacia magica che non possiede la parola pronunciata; spesso le mitolo40 gie mettono questo potere al servizio del sole minacciato» .

Volupia vi sarebbe stata associata in quanto dea «qui assure, avec le plaisir correnspondant, la satisfaction d’un besoin conscient, la realisation 41 d’un dessein auquel on tient» .

Ciò che fece sì che si potesse credere che Angerona fosse la divinità occulta della città fu fondamentalmente la particolare iconografia del suo simulacro, che ritraeva la dea con il dito dinanzi alla bocca, nel tipico atto di richiamare al silenzio, e/o con la bocca stessa fasciata da una benda.42 Sia quel che sia, il riferimento è ad un silenzio che appare di natura assoluta e rivolto evidentemente a qualcosa che era di fondamentale importanza tacere. È molto indicativo anche il fatto che Plinio faccia riferimento a questa divinità subito dopo aver parlato del segreto che avvolgeva l’«altro» nome di Roma e della fine di Valerio Sorano per averlo rivelato: «Non appare inopportuno citare qui un esempio di un antico culto disposto precisamente per questo silenzio, infatti la dea Angerona, cui si sacrifica il dodicesimo giorno prima delle ca43 lende di gennaio, è rappresentata nel suo simulacro con la bocca fasciata da una benda» .

Al di là delle varie speculazioni, partendo da questo dato, si può ritenere che, in qualche modo, Angerona personificasse il segreto rituale e l’obbligo del silenzio44. E dunque la posizione calendariale della festa, alla fine/inizio dell’anno solare, poteva alludere all’auspicio che per un altro anno, così come quello appena terminato, il nome segreto di Roma sarebbe dovuto rimanere occulto. Poco importa che fino al I secolo i Romani non potessero stabilire con esattezza che proprio quel giorno fosse il più corto dell’anno: «les Romains savaient en tout cas qu’il y avait un temps annuel critique, de plus en plus critique, angusti dies, et que, un beau jour, la crise cessait ; Angerona était l’agent de ce 45 processus sauveur» .

12.1.5. Pales Un’altra dea ha molte caratteristiche che possono additarla a ricoprire il ruolo di divinità occulta di Roma: Pales.46 Il Basanoff in particolare la considera tale, 40 DUMÉZIL 20012, 298. 41 DUMÉZIL 1956, 68. 42 Plin. N. h. III 65; Solin. I 6; Macr. Sat. I 10, 8; III 9, 4. Non sappiamo se la benda si debba intendere come scolpita o se venisse avvolta attorno al viso del simulacro una drappo di stoffa, secondo un procedimento analogo alla statua della Fortuna Virgo (fonti e discussione in COARELLI 1988a, 265 sgg.) o alle statue legate e incatenate: cfr. DUBORDIEU 2003; supra, cap. 7. Sulle identificazioni erronee, cfr. CANCIANI 1981. 43 Plin. N. h. III 65; cfr. KÖVES-ZULAUF 1972, 101–102. 44 BASANOFF 1947, 28; cfr. SABBATUCCI 1988, 358. 45 DUMÉZIL 1956, 46, n. 1; cfr. tuttavia WEINSTOCK 1950, 150; KIRSOPP MICHELS 1951, 263; SCULLARD 1981, 209; RÜPKE 1995, 554–555.

12.1. I TENTATIVI DI IDENTIFICAZIONE

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nientemeno che la divinità tutelare del Palatium, coincidente con la Diva Palatua alla quale il flamen Palatualis offriva un particolare sacrificio di nome Palatuar.47 Sembra ormai definitivamente risolta dal Dumézil la querelle relativa alla nota del calendario anziate al 7 luglio: Palib. II. La distinzione non sarebbe nel sesso ma nelle competenze, per cui la dea sarebbe invocata nelle feste ad essa dedicate dapprima a protezione del bestiame minuto, da sola (21 aprile), poi, «sdoppiata», il 7 luglio, a protezione sia del bestiame grosso che di quello minuto.48 In effetti la dea che comparve a Marco Atilio Regolo nel 267 a. C. per richiedere un tempio fu una sola: Sallentini Picentibus additi caputque regionis Brundisium inclito portu M. Atilio duce. Et in 49 hos certamine victoriae pretium templum sibi pastoria Pales ultro poposcit .

I legami di Pales con lo stato romano sono di grande rilevanza: innanzitutto la festa della divinità, i Parilia, ricorreva il 21 aprile, anniversario del Natale di Roma. 50 Adriano la rinnoverà, col nome di Rhomâia, in onore della Dea Roma.51 In questo giorno si procedeva inoltre a una lustratio dell’intera cittadinanza per mezzo di un particolare suffimen, in cui rivestivano un ruolo di primo piano le Vestali.52 12.1.6. Vesta Dea fondamentale nel sistema religioso romano53 e massimamente adorata dai Romani.54 Grandissima importanza avevano i sacra della dea, il cui salvataggio in occasione del saccheggio gallico di Roma equivalse alla salvezza della città. Inoltre nel tempio della dea erano conservati in gran parte i cosiddetti pignora imperii, gli oggetti sacri più importanti, garanti della salus e della potenza dello stato.55 Medesima funzione ricopriva il fuoco sacro, in origine forse il focolare della dimora del rex, al cui ininterrotto ardere badava il corpo sacerdotale femminile 46 Cfr. BASANOFF 1947, cap. IV; BRELICH, 1949a, 20–24; RADKE 1965, 242–243; COSI 1987; DUMÉZIL 1987, 257–268; ARONEN 1999b; LUNELLI 2003. 47 BASANOFF 1947, 94; cfr. WISSOWA 19122, 200. Quanto alle fonti: Fest. 476–477 L; Varr. De l. L. VII 45; CIL VI 10500; Fest. 284 L; Paul. Fest 285 L. 48 DUMÉZIL 1987, 257–268. Sul Pales maschile cfr. DUMÉZIL 20012, 333–334. 49 Cfr. Flor. Epit. I 15. Cfr. Schol. Veron. Verg. Georg. III 1; Schol. Bern. Verg. Georg. III 1; ROHDE 1963, 201–201; ARONEN 1999a; LUNELLI 2003. 50 La tradizione in questo è concorde. Il giorno dei Parilia costituiva anche un antico capodanno pastoralis: JOHNSON 1960, 114 sgg.; CARAFA – D’ALESSIO 2006, 392, 422 sgg. 51 PFISTER 1914. 52 Ov. Fast. IV 721 sgg.; cfr. SCULLARD 1981, 103–105; SABBATUCCI 1988, 128 sgg. 53 Cfr. WISSOWA 19122, 156–161; GIANNELLI 1913; GIANNELLI 1914; BRELICH 1949b; KOCH 1958; KOCH 1960a; RADKE 1965, 320–335; GUIZZI 1968; HOMMEL 1972; BEARD 1980; RADKE 1981b; FISCHER-HANSEN 1990; PAILLER 1997; SCOTT 1999; DUMÉZIL 20012, 277– 289. 54 Cfr. ad es. Aug. De civ. Dei III 28: nihil apud Romanos templo Vestae sanctius habebatur; ibid. VII 16: [Vestam] dearum maximam putaverunt. Per BAISTROCCHI 1987, 144, n. 86 Vesta è la divinità arcana di Roma. 55 Cfr. WISSOWA 19122, 159, n. 5; GIANNELLI 1914; GROß 1935; infra.

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più importante della religione romana, le Vestali.56 Esse, tra gli altri compiti, prendevano parte ai riti fondamentali del calendario festivo pubblico, ad esempio preparando la mola salsa, la mistura di farro tostato e sale con la quale si procedeva ad immolare la vittima prima del sacrificio.57 La dea era nominata in tutti i sacrifici, all’ultimo posto (al primo naturalmente era Giano)58. Il festivo dedicato a Vesta cadeva il 9 giugno.59 La scelta delle sacerdotesse sacre alla dea avveniva tramite captio, lo stesso procedimento impiegato per il flamen Dialis, sacerdozio di sicura origine pre-repubblicana, e quindi questo potrebbe costituire un probabile indizio a favore dell’antichità del sacerdozio. Anche nel culto privato Vesta rivestiva una grande importanza, affiancandosi in ciò ai di penates: dea del focolare della casa, che ad ogni inizio d’anno andava riacceso con la fiamma attinta da quello pubblico,60 dal teonimo sarebbe derivato, secondo alcune interpretazioni, il nome di una parte importante della casa quale era il vestibulum. Il carattere «originario» e se vogliamo anche «segreto» di Vesta è dato dal fatto che la dea non aveva mitologia né antropomorfismo e quindi iconografia, se non tarde: nel suo tempio (specificatamente un’aedes, secondo la tradizione l’unica tonda dedicata a una divinità propriamente romana)61 non c’era alcuna statua che la raffigurasse, ma solo il fuoco.62 Se non esisteva una mitologia relativa a Vesta, ne esisteva però una sulle Ve63 stali . Una Vestale fu Rea Silvia, la madre di Romolo e Remo.64 Vi sono varie versioni del mito: la più famosa considera Marte il padre dei mitici gemelli, mentre in un’altra (quella di Plutarco) il genitore è un fallo trovato sul focolare da Tarchezio, re di Alba, mentre la madre sarà una schiava. Quest’ultima variante ci riporta a due miti paralleli, la nascita di Servio Tullio (nato da una schiava e dal fallo o da padre sconosciuto) e quella di Caeculus (concepito dalla madre con la scintilla di un focolare), entrambi “fondatori” o restauratori. Comune a questi miti è la presenza di un principio maschile innominato o sconosciuto.65 Altro elemento segreto è dato dal fatto che nessuno oltre alle sacerdotesse della dea potesse accedere alla parte più interna del tempio, il penus, nel quale erano conservati i pignora imperii, e alla sola virgo Vestalis maxima, inoltre, era consentito vedere il Palladium.66 56 Sul loro status, cfr. GIANNELLI 1913, 59 sgg.; GUIZZI 1968; BEARD 1980; RADKE 1981b, 365–369. 57 Cfr. GIANNELLI 1913, 70–77. 58 Cfr. ad es. Cic. De nat. deor. II 27; Serv. Ad Aen. I 292. Cfr. inoltre BRELICH 1949b, 28–40. 59 SCULLARD 1981, 149–150; SABBATUCCI 1988, 202–206. 60 Ov. Fast III 143 sgg.; Macr. Sat. I 12, 6. 61 Cfr. BRELICH 1949b, 41–48; RADKE 1965, 328; SABBATUCCI 1988, 205; SCOTT 1999; DUMÉZIL 20012, 281 sgg. 62 Ov. Fast. VI 295–330; cfr. RADKE 1981b, 363, 365; FISCHER-HANSEN 1990; DUMÉZIL 20012, 287. 63 BRELICH 1949b, 95 sgg. 64 Cfr. CARAFA – D’ALESSIO 2006, 258 sgg. 65 Cfr. BRELICH 1949b, 68 sgg.; CARAFA – D’ALESSIO 2006, 263. 66 Cfr. FERRI 2010, cap. III, par. 4.

12.1. I TENTATIVI DI IDENTIFICAZIONE

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12.1.7. Altre ipotesi Per amor di completezza daremo conto anche delle altre ipotesi, che di volta riconoscono la divinità tutelare segreta di Roma in Valentia,67 Volupia,68 Flora e Venus.69 Tuttavia, il difetto di fondo di tutte queste supposizioni è di riguardare divinità il cui legame con Roma non può essere supposto come originario; anche qualora ciò sembri sussistere, però – si pensi a Vesta – in realtà abbiamo a che fare con (almeno) un nome noto, elemento che cozza con il supposto alone di segretezza che circondava l’identità della divinità tutelare di Roma. Vi è dunque la necessità di riconsiderare i dati in nostro possesso, partendo dagli unici due elementi che possono essere attribuiti senza ombra di dubbio a questa figura divina: il vincolo con la città di Roma e il «segreto».

67 BÜTTNER 1893, 123. 68 COARELLI 1983, 260: più precisamente egli ipotizza essere Volupia il nome segreto di Roma. 69 Su queste ultime due divinità, cfr. FERRI 2009; FERRI 2010, cap. III. Due divinità tutelari di Roma si riconoscono anche in Tutilina (KÖVES-ZULAUF 1972, 83) e in Tutanus (Varr. Menip. 213).

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13. IL VINCOLO TRA ROMA E I PROPRI DÈI 13.1. UN LEGAME INSCINDIBILE 13.1.1. Hic manebimus optime Non appena i Galli ebbero abbandonato Roma, lo spettacolo che si parava di fronte ai Romani era desolante: la città era un cumulo di rovine. In molti, soprattutto i tribuni e la plebe, ripresero con forza il progetto, già avanzato qualche anno prima, di emigrare a Veio,1 con la differenza però che il primo proposito prevedeva di dividere la popolazione tra le due città, mentre dopo l’incendio gallico si spinse per abbandonare Roma del tutto. Gli argomenti a favore di questa soluzione erano come prima cosa la posizione della citta etrusca, costruita su un sito ben più munito e difendibile dell’Urbe; inoltre, dopo la recente conquista, essa era ormai quasi del tutto disabitata, e offriva un gran numero di case libere in cui avrebbe potuto agevolmente trovare spazio la popolazione romana superstite. Contro questa eventualità si erse Marco Furio Camillo. Egli, mantenuta la carica di dittatore, rivolse dapprima le sue cure all’ambito religioso, in accordo con la pietas che contraddistingue il personaggio: si restaurarono e purificarono tutti i templi con un rito tratto dai libri Sybillini, appositamente consultati; si strinsero ufficialmente vincoli di ospitalità con i Ceriti, per aver accolto i sacra e le Vestali, consentendo così di non interrompere il culto; si decise di celebrare i ludi Capitolini in onore di Giove Ottimo Massimo.2 Ciò fatto, pronunciò un articolato discorso per ricordare ai suoi concittadini i vincoli inscindibili vigenti tra Roma e i propri dèi. Esso costituisce pertanto una «chiave» di grande importanza per tentare di comprendere il legame che, agli occhi dei Romani, sussisteva tra il luogo ed i suoi abitanti divini.3 Camillo in primis ricordò come tutti gli eventi di quegli anni siano dipesi dal trattamento riservato agli dèi: tutto andò bene finché ci si lasciò guidare da loro, 1 2

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Liv. V 24, 5–11; 30, 4–9. Cfr. FERRI 1960. Liv. V 50, 1–5: Omnium primum, ut erat diligentissimus religionum cultor, quae ad deos immortales pertinebant rettulit et senatus consultum facit: fana omnia, quod ea hostis possedisset, restituerentur terminarentur expiarenturque, expiatioque eorum in libris per duumuiros quaereretur; cum Caeretibus hospitium publice fieret quod sacra populi Romani ac sacerdotes recepissent beneficioque eius populi non intermissus honos deum immortalium esset; ludi Capitolini fierent quod Iuppiter optimus maximus suam sedem atque arcem populi Romani in re trepida tutatus esset; collegiumque ad eam rem M. Furius dictator constitueret ex iis qui in Capitolio atque arce habitarent. Si costruì inoltre un tempio ad Aius Locutius e si dichiarò sacro tutto l’oro, sia quello ritolto ai Galli, sia quello portato in precenza nel tempio di Giove da altri templi. Liv. V 49, 8; 55, 2. Cfr. HUBAUX 1958, 74–88; STÜBLER 1964, 73–93; BRUUN 1972, 110 sgg.; BEARD 2000. Sul concetto di «Ortsgebundenheit» cfr. da ultimo CHIAI 2009 (con riferimento in questo caso all’ambito frigio).

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13. IL VINCOLO TRA ROMA E I PROPRI DÈI

mentre le disgrazie cominciarono quando essi furono trascurati. La lunga e faticosa guerra contro Veio ne era un ottimo esempio: essa ebbe fine quando, per ammonimento degli dèi, fu fatta defluire l’acqua dal Lago Albano.4 La rovina portata dai Galli cominciò dopo che si ignorò la voce di Aio Locuzio e gli ambasciatori inviati a Chiusi violarono il diritto delle genti. Le sventure hanno ricordato ai Romani i loro doveri religiosi.5 Il ritorno agli dèi, la messa in salvo dei sacra a Caere, la continuità del culto, insieme ai sacrilegi della parte avversa, hanno infine restituito loro la benevolenza divina.6 Pensare di spostarsi sarebbe un’empietà: Roma è stata fondata dopo aver preso auspici ed augùri; non v’è luogo in essa che non sia pieno del culto degli dèi.7 Poi un passaggio estremamente importante: come i sacrifici solenni (dunque il culto pubblico) si svolgono in giorni prestabiliti, così non meno determinati sono i luoghi in cui li si deve celebrare.8 Non si può pensare che l’epulum Iovis possa aver luogo in un posto diverso dal Campidoglio, né che si abbandonino oggetti sommamente sacri quali il fuoco di Vesta, il Palladio o gli ancilia.9 Gli antenati non hanno minimamente pensato di spostare a Roma i riti che era necessario invece celebrare sul Monte Albano e a Lavinio.10 I riti trasferiti a Roma sono quelli delle città nemiche vinte: invertire il senso portando i romani a Veio sarebbe empio.11 Lo stesso accadrebbe trasferendo i sacerdoti, mentre le Vestali 4 5

Cfr. FERRI 2010a, cap. IV. Liv. V 51, 5–8: Intuemini enim horum deinceps annorum vel secundas res vel adversas; invenietis omnia prospera evenisse sequentibus deos, adversa spernentibus. Iam omnium primum, Veiens bellum – per quot annos, quanto labore gestum! – non ante cepit finem, quam monitu deorum aqua ex lacu Albano emissa est. Quid haec tandem urbis nostrae clades nova? Num ante exorta est quam spreta vox caelo emissa de adventu Gallorum, quam gentium ius ab legatis nostris violatum, quam a nobis cum vindicari deberet eadem neglegentia deorum praetermissum? Igitur victi captique ac redempti tantum poenarum dis hominibusque dedimus ut terrarum orbi documento essemus. Adversae deinde res admonuerunt religionum. 6 Liv. V 51, 9–10: Confugimus in Capitolium ad deos, ad sedem Iovis optimi maximi; sacra in ruina rerum nostrarum alia terra celavimus, alia avecta in finitimas urbes amovimus ab hostium oculis; deorum cultum deserti ab dis hominibusque tamen non intermisimus. Reddidere igitur patriam et victoriam et antiquum belli decus amissum, et in hostes qui caeci avaritia in pondere auri foedus ac fidem fefellerunt, verterunt terrorem fugamque et caedem. 7 Liv. V 52, 2: Urbem auspicato inauguratoque conditam habemus; nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus. 8 Liv. V 52, 2: sacrificiis sollemnibus non dies magis stati quam loca sunt in quibus fiant. 9 Liv. V 52, 5–7: Forsitan aliquis dicat aut Veiis ea nos facturos aut huc inde missuros sacerdotes nostros qui faciant; quorum neutrum fieri saluis caerimoniis potest. Et ne omnia generatim sacra omnesque percenseam deos, in Iovis epulo num alibi quam in Capitolio pulvinar suscipi potest? Quid de aeternis Vestae ignibus signoque quod imperii pignus custodia eius templi tenetur loquar? Quid de ancilibus vestris, Mars Gradive tuque, Quirine pater? Haec omnia in profano deseri placet sacra, aequalia urbi, quaedam vetustiora origine urbis? 10 Liv. V 52, 8 : Et videte quid inter nos ac maiores intersit. Illi sacra quaedam in monte Albano Laviniique nobis facienda tradiderunt. Sull’importanza di Lavinio e di Alba e dei riti in esse celebrati, cfr. SORDI 1982, 70–74; THOMAS 1990; PASQUALINI 1996. 11 Liv. V 52, 8–12: An ex hostium urbibus Romam ad nos transferri sacra religiosum fuit, hinc sine piaculo in hostium urbem Veios transferemus? Recordamini, agite dum, quotiens sacra instaurentur, quia aliquid ex patrio ritu neglegentia casuve praetermissum est. Modo quae

13.1. UN LEGAME INSCINDIBILE

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hanno una sola residenza, l’Urbe, mai abbandonata se non poco prima per il sommo pericolo portato dai Galli; al flamen Dialis non è lecito rimanere una sola notte fuori della città.12 Enorme nocumento verrebbe pure allo svolgimento della vita politica: gli auspici necessari a riunire le assemblee e i comizi andavano presi obbligatoriamente all’interno del pomerium. 13 La città sorse in quel luogo per volontà degli dèi, evidente sia nella scelta del sito – colli salubri, un fiume adatto ai trasporti, distanza dal mare funzionale ai commerci e tale da evitare il pericolo di subire scorribande da parte di flotte straniere, ubicazione al centro dell’Italia14 – sia da altri chiari segni da essi manifestati: il rinvenimento del caput sul Campidoglio, il rifiuto di Terminus e Iuventas di spostarsi dal futuro sito del tempio di Giove, la presenza del fuoco di Vesta e degli ancilia caduti dal cielo, oltre che di tutti gli altri dèi.15 Naturalmente, alla fine Camillo riesce a convincere i propri concittadini, anche grazie al celebre omen dell’hic manebimus optime.16 Dalle parole del dittatore

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res post prodigium Albani lacus nisi instauratio sacrorum auspiciorumque renovatio adfectae Veienti bello rei publicae remedio fuit? At etiam, tamquam veterum religionum memores, et peregrinos deos transtulimus Romam et instituimus novos. Iuno regina transvecta a Veiis nuper in Auentino quam insigni ob excellens matronarum studium celebrique dedicata est die! Aio Locutio templum propter caelestem uocem exauditam in Nova via iussimus fieri; Capitolinos ludos sollemnibus aliis addidimus collegiumque ad id novum auctore senatu condidimus; quid horum opus fuit suscipi, si una cum Gallis urbem Romanam relicturi fuimus, si non voluntate mansimus in Capitolio per tot menses obsidionis, sed ab hostibus metu retenti sumus? Liv. V 52, 13–14: De sacris loquimur et de templis; quid tandem de sacerdotibus? Nonne in mentem venit quantum piaculi committatur? Vestalibus nempe una illa sedes est, ex qua eas nihil unquam praeterquam urbs capta movit; flamini Diali noctem unam manere extra urbem nefas est. Hos Veientes pro Romanis facturi estis sacerdotes, et Vestales tuae te deserent, Vesta, et flamen peregre habitando in singulas noctes tantum sibi reique publicae piaculi contrahet? Liv. V 52, 15–17: Quid alia quae auspicato agimus omnia fere intra pomerium, cui oblivioni aut neglegentiae damus? Comitia curiata, quae rem militarem continent, comitia centuriata, quibus consules tribunosque militares creatis, ubi auspicato, nisi ubi adsolent, fieri possunt? Veiosne haec transferemus? An comitiorum causa populus tanto incommodo in desertam hanc ab dis hominibusque urbem conveniet? Liv. V 54, 4–5: Non sine causa di hominesque hunc urbi condendae locum elegerunt, saluberrimos colles, flumen opportunum, quo ex mediterraneis locis fruges devehantur, quo maritimi commeatus accipiantur, mari vicinum ad commoditates nec expositum nimia propinquitate ad pericula classium externarum, regionum Italiae medium, ad incrementum urbis natum unice locum. Argumento est ipsa magnitudo tam novae urbis. Cfr. Cic. De rep. II, 5–6; 10–11. Liv. V 54, 7: Hic Capitolium est, ubi quondam capite humano invento responsum est eo loco caput rerum summamque imperii fore; hic cum augurato liberaretur Capitolium, Iuuentas Terminusque maximo gaudio patrum vestrorum moveri se non passi; hic Vestae ignes, hic ancilia caelo demissa, hic omnes propitii manentibus vobis di. Cfr. Hor. Carm. III 5, 10–12 (a proposito di un soldato di Crasso che alla morte sul campo a Carre preferisce passare dalla parte del nemico): anciliorum et nominis et togae oblitus aeternaque Vestae incolumi Iove et urbe Roma; STÜBLER 1964, 92: «die Lage Roms ist ein Unterpfand seiner göttergewollten Herrschaft»; TURCAN 1983. Liv. V 55, 1–2.

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13. IL VINCOLO TRA ROMA E I PROPRI DÈI

traspare anche la particolare importanza di alcuni luoghi ed elementi ben definiti del sistema religioso romano: tra i primi va senz’altro annoverato il Campidoglio, tra i secondi i cosiddetti pignora imperii. 13.2. I SIMBOLI 13.2.1. Il Campidoglio La sacralità del colle agli occhi dei Romani fu incontrastata per tutto il tempo in cui si continuò a praticare la religione tradizionale.17 Per fare un esempio, un chiaro indice della sua centralità nella storia di Roma è la tradizione sulla sua difesa al tempo dell’invasione gallica. Sembra ormai accertato che in realtà esso non fu risparmiato, secondo un filone storiografico-letterario facente capo ad Ennio.18 La vulgata ha deformato gli eventi reali nell’ottica del tipico procedimento romano di mitizzazione nella storia: l’episodio, inteso come evento conclusivo di un «anno di anni», da un lato «viene descritto come una distruzione per fuoco che per l’identificazione mitica delle origini della città con le origini del «tempo», acquista quasi il significato di una «conflagrazione cosmica» (non a caso collocata alla fine del primo anno di anni); dall’altro, la miracolosa preservazione della rocca capitolina indica un elemento di continuità sussistente al di sopra del 19 succedersi delle ere» .

Inoltre, alla condanna di Manlio per adfectatio regni, segue la legge affinché ne quis patricius in arce aut Capitolio habitaret:20 la «pubblicizzazione» dell’arce prelude ad una fase di profonde trasformazioni costituzionali che sfocerà nelle leggi Licinie-Sestie. Il Campidoglio ha dunque un’importanza fondamentale, è la sedes deorum,21 pignus della sopravvivenza di Roma come comunità sacra e garanzia della sua durata, del potere conferito ai Romani dagli dèi, per cui non è pensabile che lo si possa abbandonare: «a ben vedere l’alternativa non è tanto fra Roma e Veio, quanto fra il Campidoglio e Veio, 22 come luoghi che il fato designa sedi di impero» .

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Cfr. GIANNELLI 1993; REUSSER – TAGLIAMONTE 1993. SORDI 1984; cfr. MONTANARI 1990a, 35 sgg. MONTANARI 1990a, 39. Liv. VI 20, 13. Sulla ricchezza delle statue presenti sul colle, cfr. Serv. Ad Aen. II 319: in Capitolio enim omnium deorum simulacra colebantur. 22 SORDI 1984, 91, che così prosegue: «Alla radice di questa trasformazione ‘ideologica’ del ricordo più antico ed autentico della resistenza di Veio, da cui partì la riscossa di Roma, contro i Galli, c’è la nuova sensibilità ‘imperiale’ che matura in Roma alla fine del III e agli inizi del II secolo e che coincide con l’affermarsi in Italia del Capitolium come simbolo dell’impero e con il diffondersi dei Capitolia nelle colonie di Roma». Sui Capitolia, cfr. BIANCHI 1950; BARTON 1982.

13.2. I SIMBOLI

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Edificato sul Capitolium, il tempio di Giove Ottimo Massimo era il santuario più sacro di Roma.23 In questo luogo si era verificato l’omen del caput humanum, da qui Terminus e Iuventas avevano rifiutato di essere spostati. A sostegno di ciò, la considerazione dei Cristiani come il luogo in cui abitavano i demoni più potenti.24 La distruzione del tempio nell’83 a. C. aveva scatenato interpretazioni apocalittiche circa il futuro dello stato romano, sconvolto dalla guerra civile tra Mariani e Sillani:25 «fra tempio capitolino e stato romano c’era piena identità simbolica: la distruzione dell’uno – 26 secondo questa interpretazione [scil. di Appiano] prefigurava la fine dell’altro» .

Analogamente, a seguito dello scontro tra Flaviani e Vitelliani nel 69 d. C. (non senza significato il fatto che gran parte dei soldati di Vitellio fosse di origine gallica e germanica)27 scoppiò un incendio che distrusse nuovamente l’edificio.28 Poco prima si era verificato un prodigio: sul colle furono viste molte e grandi impronte di esseri divini, come questi lo avessero abbandonato: «e dicevano i soldati che quella notte avevano dormito colà, che il tempio di Giove si era aperto da solo con molto fragore»29. Questo prodigio era stato interpretato, soprattutto in ambito gallico, addirittura come foriero di una translatio imperii.30 Per i Romani chi incendiasse il Campidoglio commetteva un delitto paragonabile per gravità solo al parricidio.31 Per fare un ultimo esempio, il mancato adventus di Costantino sul colle segnò un punto di svolta «epocale» non solo nel cerimoniale, ma nel legame stesso dell’imperatore con la città e il suo luogo più venerando: di lì a poco il figlio di Costanzo Cloro, conscio delle resistenze insuperabili che avrebbe incontrato a Roma, le volterà le spalle non celebrandovi i suoi vicennalia e decidendo di trasformare Bisanzio nella Seconda Roma.32 13.2.2. I pignora imperii Quanto ai cosiddetti pignora imperii, a prima vista essi potrebbero apparire come meno legati al luogo di cui costituivano il pignus33 di salvezza e continuità

23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33

Cfr. TAGLIAMONTE 1999a; DE ANGELI 1999. Cfr. FRASCHETTI 2004, 109–122. App. Bell. civ. I 83. BARZANÒ 1984, 117. Tac. Hist. II 93; C. Dio LXV 17, 2. BARZANÒ 1984. C. Dio LXV 8, 2. Un episodio analogo accadde durante l’assedio di Gerusalemme del 70 d. C. (Tac. Hist. V 13, 1; cfr. KLOPPENBORG 2005) e poco prima dell’assassinio di Commodo (Lampr. Comm. 16, 2). Tac. Hist. IV 54; cfr. ZECCHINI 1984. Arr. Epict. I 7, 32–33. Sull’evento e la sua risonanza, cfr. FRASCHETTI 2004, 9 sgg. Gli adventus degli imperatori cristiani avranno luogo a S. Pietro: FRASCHETTI 2004, 243 sgg. In generale sul concetto e i vari significati di pignus, cfr. MANIGK 1941.

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13. IL VINCOLO TRA ROMA E I PROPRI DÈI

nell’avvenire, ma in realtà non è così:34 essi esercitavano la loro funzione poiché e a patto che il luogo in cui dimoravano rimanesse Roma. L’ubicazione della città era stata scelta dagli dèi tramite gli auspici e un augurium stativum.35 Non era un templum, ma possedeva un confine sacro, il pomerium,36 ritualmente inaugurato (cioè per cui era stata richiesta l’approvazione divina)37, che distingueva le urbes dalle altre città (oppida) secondo il linguaggio giuridico-religioso romano.38 Esso ne costituiva il confine e allo stesso tempo segnava limite in cui potevano essere presi gli auspicia urbana.39 Tutti i templi dedicati a divinità non italiche dovevano essere posti al di fuori di esso.40 Anche le mura erano considerate sanctae.41 Un esempio indicativo è quello relativo ai Penati di Lavinio: dopo due tentativi di traslazione a Roma, a seguito dei quali furono prodigiosamente ritrovati nella città di provenienza, furono lasciati nella loro dimora avita poiché ad essa intimamente legati:42 questi oggetti così facendo «comunicano» l’importanza del legame con il luogo. I pignora sono allo stesso tempo «garanzia» di protezione divina e di legittimazione al potere, come accade per gli ancilia, il cui originale, secondo la tradizione, fu conferito a Numa dallo stesso Giove: «Pignus ha infatti il significato di pegno, garanzia, ipoteca, ostaggio, prova, testimonianza. Per i Romani, era quindi il segno tangibile della volontà propizia degli dèi, la vivente e vi43 brante testimonianza della «scelta» divina» .

Ma quali oggetti erano considerati tali? L’elenco più preciso è fornito da Servio: septem fuerunt pignora, quae imperium Romanum tenent: †aius matris deum, quadriga fictilis 44 Veientanorum, cineres Orestis, sceptrum Priami, velum Ilionae, palladium, ancilia.

Questi oggetti erano custoditi in vari luoghi: la pietra nera di Cibele nel suo tempio sul Palatino, la quadriga veiente sul frontone del tempio di Giove Ottimo Massimo (fino al 296 a. C., quando fu sostituita da una copia in bronzo per iniziativa degli edili Cn. e Q. Ogulnio)45, le ceneri di Oreste nel tempio di Saturno nel

34 Sui pignora, cfr. WISSOWA 19122, 156–166; GIANNELLI 1913, 65–70; GROß 1935; SAVAGE 1945, 158–159; BAISTROCCHI 1987, 307–329; AIGNER FORESTI 1993. 35 CATALANO 1978, 476–477; CARAFA – D’ALESSIO 2006, 378–409. 36 Cfr. BASANOFF 1939; CATALANO 1978, 479 sgg.; GIARDINA 1997b. 37 Sulla differenza templum-pomerium, cfr. CATALANO 1978, 475–476. 38 Varr. De l. L. V 143; cfr. Liv. I 44, 3 sgg.; Gell. XIII 14, 1. 39 Varr. ap. Solin. I 18; Cat. ap. Serv. Ad Aen. V 755. 40 CATALANO 1978, 543–544. 41 Con relativa sanzione per chi le avesse violate e danneggiate: Dig. VIII 9, 3; 11; Zonar. VII 3. È ben noto chi fu il primo a farne le spese! 42 SABBATUCCI 1988, 203–204; THOMAS 1990. 43 BAISTROCCHI 1987, 320, n. 8. Cfr. GROß 1935, 15: «In weitesten Sinn kann als religiöses Unterpfand jeder Gegenstand gelten, mit dem nach der Überzeugung des Besitzers Schutz und Erhaltung einer Sache verbunden ist». 44 Serv. Ad Aen. VII 188. 45 Liv. X 23, 12.

13.2. I SIMBOLI

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Foro, gli ancilia nella Regia, il resto degli oggetti (scettro di Priamo, velo di Iliona, Palladio) nel penus interior dell’aedes di Vesta.46 Tra parentesi, ad essi ne potremmo aggiungere altri, alcuni esplicitamente definiti come tali, altri no, ma aventi di fatto questa funzione: l’idea è sempre e comunque quella già sottolineata di legittimazione-continuità. Tra i primi vi sono senz’altro il sacro fuoco di Vesta47 e lo stesso Tempio Capitolino,48 tra i secondi i Libri Sibillini49 e il nome e la divinità segreti di Roma.50 A partire da Augusto l’imperatore è egli stesso un pignus, spesso in associazione a Vesta:51 nel 12 a. C. egli, divenuto pontifex maximus, dedica un signum Vestae sul Palatino, rendendo pubblica una parte della sua domus; controversa è l’esistenza di un’ara o di un’aedes.52 Secondo alcuni ciò avrebbe comportato la creazione o il trasferimento di una copia del Palladio sul colle.53 Solo questa considerazione è di per sé sufficiente a qualificare la statuetta di Atena senz’altro come il pignus più importante,54 alla cui centralità per Roma potremmo paragonare solo il mantenimento del segreto circa il vero nome della città e quello della sua divinità tutelare. Esso era conservato nel penus interior del tem-

46 Giacché ve n’era un exterior: Festo (152 L), parlando della fabbricazione della muries dice che essa viene conservata in un vaso o seria, quae est intus in aede Vestae in penu exteriore. Sarebbe stato ben strano d’altronde che si potesse avvicinare ai pignora la moltitudine di donne che doveva accostarsi al tempio nei giorni in cui esso era aperto, cioè durante il ciclo festivo (7–15 giugno) in cui erano inseriti i Vestalia del 9. Solo Ovidio (Fast. VI 395 sgg.) ci dice che esse potevano accedere al tempio, ma questa evenienza va esclusa (RADKE 1965, 327): potremmo conciliare le due notizie ritenendo che si aprisse solo la porta del tempio per permettere alle donne di vedervi all’interno, senza che però fosse permesso loro entrarvi. GUIZZI 1968, 119, n. 78, ritiene che il penus fosse visibile quando gli oggetti sacri erano tratti fuori dal loro nascondiglio abituale per essere ripuliti; secondo la sua opinione ciò accadeva il 15 giugno. In ogni caso il fuoco, secondo Dion. Hal. II 66, 2, era normalmente visibile. Inoltre, la divisione doveva essere richiesta dal bisogno di accedere con cadenza relativamente frequente agli ingredienti sacrificali (muries, mola salsa) e allo stesso tempo dalla necessità di mantenere per quanto possibile indisturbati i pignora. Diventa così accettabile la notizia della vita di Elagabalo (già rigettata da WISSOWA 19122, 159, n. 4) relativa al tentativo dell’imperatore di asportare il Palladio dal tempio di Vesta: in penum Vestae, quod solae virgines solique pontifices adeunt, inrupit (HA Heliog. 6). Egli ha fatto irruzione nella parte più recondita del penus, l’interior, mentre, in quanto pontifex maximus poteva accedere senza problemi alla parte esterna: cfr. GIANNELLI 1914. In generale sul termine penus, cfr. SANTI 2009. 47 Liv. V 52, 7; XXVI, 27, 14; Flor. Epit. I 2, 3. 48 Tac. Hist. III 72; IV 54. 49 Rut. Nam. De red. II 55. 50 Cfr. infra, cap. 15. 51 Ov. Fast. III 419–428; cfr. TURCAN 1983, 17–18; ROSENBERGER 2007, 302–303. 52 Cfr. CAPPELLI 1999; FRASCHETTI 2004, 69–70. 53 Fonti in FRASCHETTI 2004, 69–70. Il legame del Palladio con il colle si mantenne a lungo: l’attuale chiesa di S. Sebastiano sul Palatino, costruita sulle rovine del tempio di Elagabalo, in cui questo imperatore fece portare il Palladio (o una copia), era nota nel Medioevo come S. Maria in Pallara, epiteto derivante appunto da Palladio. Nella chiesa si può ammirare ancora oggi l’affresco absidale raffigurante questa particolare ipostasi della Madonna. 54 Cfr. GROß 1935, 69–96; ZIEHEN 1949; SORDI 1982; CANCIANI 1987; PELLIZZARI 2003, 49–60.

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13. IL VINCOLO TRA ROMA E I PROPRI DÈI

pio di Vesta e poteva essere accostato solo dalla virgo Vestalis maxima.55 Il Palladio era apportatore di salus ed imperium, due cose fondamentali all’Urbe: Palladium illud, quod quasi pignus nostrae salutis atque imperii custodiis Vestae continere56 tur.

L’idea di protezione divina-legittimazione al potere era così connaturata alla natura dell’idolo da ingenerare una contesa tra Roma e Costantinopoli sul suo possesso: esisteva infatti una tradizione che ne attribuiva a Costantino lo spostamento sulle rive del Bosforo57 e la sua collocazione sotto la colonna di porfido che sorreggeva la statua dell’imperatore ritratto come Helios, al centro del Foro circolare.58 Ma la presenza del Palladio nel penus è certa almeno fino agli inizi del V sec. d. C., secondo le testimonianze di Prudenzio59 e Servio.60 La «soluzione» era spesso ricercata nell’accusa reciproca di possedere una copia della statuetta, specialmente da parte romana.61 Questa diatriba è tutt’altro che una baruffa tra antiquari, ma coinvolgeva direttamente il primato politico e religioso, di volta in volta ribadito da Roma e contestato da Costantinopoli e interessava gli stessi Cristiani.62 13.2.3. Il concetto di pignus nel Cristianesimo In proposito, per aprire una piccola parentesi, il concetto di pignora imperii fu fatto proprio anche dal Cristianesimo. Un’interessante fase di «passaggio» è la menzione, da parte di alcune fonti, della presenza, alla base della colonna del Foro di Costantinopoli, a stretto contatto con il Palladio, di alcune reliquie propriamente cristiane.63 La colonna, inoltre, era strettamente collegata alla Tyche di Costantinopoli, secondo un’altra raffigurazione ritratta incatenata ad una croce por-

55 Cfr. FERRI 2007, 298–301; FERRI 2009, 54–56; FERRI 2010a, cap. III. 56 Cic. Pro Scaur. 48; cfr. Ov. Fast. VI 427–428 (profezia di Sminteo): aetheriam servate deam, servabitis urbem: imperium secum transferet illa loci. BRELICH 2007, 94, riporta un interessante parallelo, lontano nello spazio e nel tempo rispetto a Roma: in Giappone lo specchio di Amaterasu era custodito nel tempio di Ise da sacerdotesse vergini; cfr. GROß 1935, 22. 57 CRACCO RUGGINI 1980, 607, n. 39: CRACCO RUGGINI 1983; PELLIZZARI 2003, 49–60; FRASCHETTI 2004, 65–69. 58 KARAMOUZI 1983; CRACCO RUGGINI 1983, 242, n. 7; 247–248, su Elagabalo quale Costantino ante litteram; PELLIZZARI 2003, 55, n. 106. Una replica in legno fu collocata anche nell’Ippodromo: CRACCO RUGGINI 1983, 242. Secondo la tradizione Costantino conferì pure un «secondo» nome alla città (o alla sua Tyche), Anthousa, sul modello di Roma-Flora: cfr. FERRI 2009, 55, n. 84; FERRI 2010a, cap. III 59 Contra Symm. I 192–195; II 965–967; Perist. II 509–512. 60 Ad Aen. II 166. 61 Sulle copie del Palladio, cfr. Dion. Hal. I 69, 3; Strab. VI 1, 14–264; Serv. Ad Aen. II 166; MASTROCINQUE 1981, 4–5; CRACCO RUGGINI 1983, 248–251. Procopio (Bell. Goth. I 15) afferma che alla sua epoca i Romani non sapevano più dove si trovasse il Palladio: anche in questo caso, non si può dire se a causa del “furto” di Costantino o per il suo occultamento per proteggerlo dalla distruzione. Cfr. PELLIZZARI 2003, 59; infra, par. 15.1. 62 CRACCO RUGGINI 1983, 249–251. 63 FROLOW 1944, 76–77: KARAMOUZI 1983, 222–223, n. 19.

13.2. I SIMBOLI

207

tata da Costantino ed Elena.64 Un frammento della croce si trovava anche nella statua del medesimo imperatore sopra la colonna porfiretica.65 Di più, il vero Palladio della Seconda Roma diventeranno le reliquie della Madonna66 e le icone che la ritraevano,67 particolarmente in quanto Theotokos.68 Si giunse persino ad ipotizzare una fantomatica dedica sin dalle origini a Maria.69 A Roma lo sviluppo è analogo, con un accento ben più marcato però sui corpi e le reliquie dei santi, in particolare Pietro e Paolo.70 I termini usati in relazione ad essi sono patrocinia, reliquiae, ma anche, appunto, pignora.71 Cristiani come Paolino di Nola e Gregorio di Tours impiegarono spesso il termine in questa accezione, asserendo pure che ogni città si trovava sotto la protezione di un santo.72 I santi infatti, lo si è accennato sopra,73 personificano in contesto cristiano il tipico carattere «locale» presente nelle religioni antiche, caratteristico delle divinità locali, dei genii e degli eroi:74 «nel culto dei santi protettori della città, del paese, della nazione, il cristianesimo continuò ad esprimere in forme popolari la vita religiosa dello Stato, del comune, della regione o della na75 zione; i santi furono, ancora una volta, i successori degli dei» .

A questo processo era funzionale la trascendenza del Dio cristiano rispetto all’immanenza degli dèi delle religioni antiche.76 Il patrocinio dei santi sulla città di Roma è evidente nel racconto che Orosio fa del sacco del 410 d. C.: una virgo è addetta alla custodia di vasa che costituiscono Petri apostoli sacra ministeria; i barbari difendono i Romani unitisi alla processione diretta alla basilica del santo per metterli al sicuro.77 Il parallelo con la messa in salvo dei sacra e delle Vestali in occasione dell’incendio gallico è fin troppo evidente per essere discusso in dettaglio. I fedeli dell’antica religione, in-

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Fonti in MEULI 1975, 1081; cfr. KARAMOUZI 1983, 233. FUNKE 1981, 712. FROLOW 1944, 101–102. Ibid., 102 sgg.; cfr. GLADIGOW 1979, 110–111. MCCORMACK 1975, 149–150. FROLOW 1944, in particolare sul processo di «sostituzione» della Vergine alla Tyche; MCCORMACK 1975, 150, suppone invece un «mantenimento» delle due figure nel binomio Theotokos-Eudokia. GROß 1935, 25; HEID 2007, 414–415. Su Pietro e Paolo novelli Romolo e Remo, cfr. CRACCO RUGGINI 2001. In relazione a Cristo, il termine pignus assume anche un nuovo significato: quello di garanzia, «caparra», della salvezza dopo la morte. GAGOV 1958; CRACCO RUGGINI 1979, 38, n. 97. Sull’importanza delle reliquie nel mondo classico, cfr. PFISTER 1909–1912; MASTROCINQUE 1981; GARLAND 1992, 82–98. GROß 1935, 26. Par. 10.1.3. Cfr. BRELICH 1958, 129 sgg.; FREDOUILLE 1997; LA ROCCA 2002; HEID 2007, 419–421. PETTAZZONI 1966a, 97; cfr. GAGOV 1958; PASCHOUD 1990, 158. In generale sull’origine e lo sviluppo del culto dei santi, cfr. BROWN 1981. BRELICH 1966, 27–28. Analisi dettagliata dell’episodio in FRASCHETTI 1993.

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13. IL VINCOLO TRA ROMA E I PROPRI DÈI

vece, dopo il saccheggio ovviamente derisero i martiri, le cui tombe non furono capaci di proteggere la città.78 13.2.4. Pignora e translatio imperii Torniamo all’Antichità. Lo spostamento di questi oggetti è anche uno degli elementi funzionali ad una translatio imperii, il cui spettro agiterà più di una volta i pensieri dei Romani: lungo la ben più che millenaria storia di Roma vi sarà pertanto più volte bisogno di sottolineare lo stretto ed esclusivo legame tra l’Urbe e le sue divinità. Come si verifica nel discorso di Camillo, ciò accadde soprattutto all’indomani di minacce vere o presunte di sostituzione di essa con altre città.79 Le stesse parole del dittatore riflettono molto probabilmente l’impressione suscitata in Livio dal pericolo di spostamento del baricentro dell’Impero verso Oriente, ad Alessandria, corso poco prima durante il conflitto tra Ottaviano e Antonio.80 Lo stesso padre adottivo del futuro Augusto, Cesare, aveva per un momento accarezzato il proposito di trasferire la capitale ad Ilio o ad Alessandria.81 Altre «minacce», verranno da Veio, poco prima e appena dopo l’incendio gallico,82 da Corfinium, ribattezzata Italica dai socii insorti nel 90 a. C.83, da Capua un quarto di secolo dopo, a proposito della rogatio Servilia, la quale, lo afferma Cicerone, avrebbe rischiato di privare l’Urbe dei suoi migliori cittadini in favore di una possibile altera Roma.84 Vi saranno poi i già menzionati «pericoli» apportati dai progetti di Cesare ed Antonio, ma anche, in età imperiale, da Caligola, che propose di spostare la capitale prima ad Anzio, poi ad Alessandria;85 pure Nerone ebbe una particolare predilezione per l’Egitto e per la sua principale città.86 Questa continua necessità di riaffermare la centralità e l’inamovibilità di Roma risente anche della concezione «ciclica» del tempo ereditata dagli Etruschi, ma privata dell’elemento relativo alla fine del nomen allo scadere del decimo saeculum: Roma è una città continuamente «rifondata», ed ognuna di queste «rifon-

78 Aug. Serm. CCXLVI 7, 8; Oros. I 6, 4. Agostino aveva anche ironicamente rimarcato la vana speranza dei Romani nei Penati che non seppero salvare Troia (De civ. Dei I 2 sgg.; cfr. Firm. Mat. Err. XV 3) e la mancata difesa di Roma da parte degli dèi (Serm. CV 9). 79 Cfr. CEAUSESCU 1976; KRAUS 1994, 280–282. 80 CEAUSESCU 1976, 86, sgg. 81 Suet. Iul. 79 3. Cfr. CEAUSESCU 1976, 81 sgg. 82 L’ultima volta in cui Veio riappare in questa veste è all’epoca di Nerone, in funzione scherzosamente “salvifica”. Essa avrebbe dovuto infatti offrire (temporaneo!) riparo ai Romani poiché l’Urbe sarebbe stata inglobata in tempi brevi dalla Domus Aurea, allora in costruzione: Roma domus fiet; Veios migrate, Quirites, si non et Veios occupat ista domus (Suet. Nero 39). 83 Strab. V 4, 2. 84 Cic. Leg. Agr. I, 17–19; 24; II 86–87; 91; Liv. IX 6, 5; Gell. I 24, 2. 85 Suet. Cal. 49, 2. Cfr. CEAUSESCU 1976, 90–92. 86 CEAUSESCU 1976, 92 sgg.

13.2. I SIMBOLI

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dazioni» non fa che ribadirne l’eternità.87 Alla fine, tuttavia, sebbene Roma rimarrà la città madre e la capitale ideale,88 dapprima la residenze imperiali si moltiplicheranno – Nicomedia, Sirmio, Treviri, Milano, etc. – poi il centro dell’Impero si sposterà a Costantinopoli,89 realizzando in qualche modo i timori dei secoli precedenti.90

87 SORDI 1972; CEAUSESCU 1976, 89; CATALANO 1982, 100–103; TURCAN 1983; KRAUS 1994, 284, n. 5. 88 FÉVRIER 1993. Sui concetti di renovatio e translatio collegati alla fondazione di Costantinopoli, cfr. CATALANO 1982; IRMSCHER 1983. Sull’iconografia relativa alle due città, cfr. BÜHL 1995. 89 Cfr. OSTROGORSKY 19933, 40–41. Inizialmente Costantino, così come Cesare, aveva pensato ad Ilio: Sozom. VI 9; Cod. Theod. XIV 13, 1; Cod. Iust. XI 21, 1. Si può accennare infine al fatto che l’ultima volta in cui si parlerà di trasferimento della sede imperiale ciò sarà a detrimento di Costantinopoli: Costante II, negli anni ’60 del VII sec., visitò dapprima Roma (primo imperatore a farlo dopo il 476), indi si stabilì a Siracusa, per meglio difendere la Sicilia dagli attacchi degli Arabi. Questo evento generò una forte opposizione nella città sul Bosforo, sfociata in una congiura e nell’uccisione dell’imperatore nel 668. Indicativamente, la salma fu riportata a Costantinopoli e ivi inumata nella chiesa degli Apostoli. Per le fonti, cfr. OSTROGORSKY 19933, 106–108. 90 Cfr. DUMÉZIL 20012, 422 (a proposito dell’assunzione del culto della Magna Mater alla fine del III sec. a. C.): «Da allora, i generali la invocarono nelle imprese difficili, negli scontri cruciali. Quando il Vicino Oriente fu aperto alle armi romane, alcuni fecero perfino voto di recarsi a sacrificare a Pessinunte (Cic. Har. resp. 28; Val. Max. I 1, 1): prima e discreta manifestazione di quella che sarà più tardi una delle tentazioni e delle paure di Roma: il ritorno alle origini, il trasferimento dell’impero a «Troia», o per lo meno, in Oriente, e, al fine, Bisanzio, seconda Roma». Ciò in realtà anche perché nella storia romana è osservabile che ad una fondazione corrisponde la distruzione della città-madre: Troia prima di Lavinio, Alba Longa prima di Roma. Cfr. KRAUS 1994, 270 sgg. Sebbene indubitabilmente realizzata in accordo con le tradizionali cerimonie di fondazione (cfr. LATHOUD 1925; ALFÖLDI 1947; CRACCO RUGGINI 1980; FOLLIERI 1983; CALDERONE 1993), la nuova città di Costantino era profondamente segnata dal Cristianesimo, a differenza dell’antica capitale, che rimarrà ancora a lungo fedele alla religione avita. L’affermazione sempre più evidente della nuova fede porterà ad un confronto-scontro tra due opposte visioni del mondo, su cui cfr. PASCHOUD 1967; CRACCO RUGGINI 1972; MOMIGLIANO 19753; MANGANARO 1976; CRACCO RUGGINI 1979; SCICOLONE 1981; MOMIGLIANO 1986; BEATRICE 1990; CANFORA 1991; PASCHOUD 1993; FORLIN PATRUCCO 1993; MARCONE 1993; MAZZARINO 1995, 35 sgg.; RINALDI 1997; ANDO 2001; AUGÉ 2002, 14, 69 sgg.; PELLIZZARI 2003.

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14. IL SEGRETO 14.1. PROSPETTIVA SOCIOLOGICA E MORFOLOGIA Il segreto divide. Ogni speculazione in merito deve necessariamente prendere le mosse da questa considerazione: il segreto distingue tra chi «sa» e chi «non sa»1. La preoccupazione principale della prima controparte è di mantenerlo, o diffonderlo nel modo più limitato possibile, della seconda il tentativo di penetrarvi, o, quantomeno, l’interrogarsi su di esso. Ulteriore specificazione vi può essere, per «chi sa», in una sanzione religiosa, statale o iniziatica,2 che gli dona la facoltà, il privilegio o l’onere di ritenere quanto invece deve rimanere nascosto a tutti gli altri.3 Questi ultimi, a loro volta, a seconda del tipo di segreto, non solo «non possono» sapere, ma «non devono»: il segreto è dunque di per sé e in misura variabile sempre «elitario». Tale dimensione è evidente anche nel verbo correntemente usato per intenderne il disvelamento: «divulgare» vuol dire renderlo noto alla «massa» nella sua accezione negativa, il vulgus.4 Per tracciare una pur sommaria «morfologia del segreto»5, esso riguarda l’«ignoto», non l’«inconoscibile»6: in altre parole l’«ignoto» non può esserlo in assoluto, ma, almeno per qualcuno, essere o essere stato «noto». Si può parlare di segreto solo finché sia (o sia stata o sarà) rispettata questa condizione necessaria e sufficiente. Entro questi termini, esso è praesens: «Il vero ‘segreto’, per esprimersi nei termini agostiniani rispetto al tempo, può essere praesens de praeterito, oppure praesens de praesenti, oppure praesens de futuro. Ma in ogni caso, 7 solo e unicamente praesens» .

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Cfr. BOLLE 1987, 1: «Not only is there no religion without secrecy, but there is no human existence without it»; SIMMEL 1992, 383: «Tutte le relazioni tra gli uomini si basano sul fatto che essi sanno qualcosa l’uno dell’altro». Sulle società segrete, cfr. SIMMEL 1992, 421 sgg. Cfr. SIMMEL 1992, 408: «Das Geheimnis gibt der Persönlichkeit eine Ausnahmestellung, es wirkt als ein rein sozial bestimmter Reiz, prinzipiell unabhängig von dem Inhalt, den es hütet, aber natürlich in dem Maße steigend, in dem das ausschließend besessene Geheimnis bedeutsam und umfassend ist. Und dazu wirkt eine Umkehrung, analog der soeben erwähnten. Jede höhere Persönlichkeit und alle höheren Leistungen haben für den Durchschnitt der Menschen etwas Geheimnisvolles». ORESTANO 1989, 26–27. Traggo la classificazione da ORESTANO 1989. Cfr. ORESTANO 1989, 11–12: «A un certo grado delle nostre conoscenze, «l’altra faccia della luna» era «ignota», ma che vi fosse non era un mistero per nessuno. Invece, allo stato, l’esistenza di altri pianeti abitati non solo è «ignota», ma «inconoscibile». ORESTANO 1989, 12.

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14. IL SEGRETO

Una volta diffuso, ovviamente, cessa di essere tale.8 14.2. IL SEGRETO A ROMA Veniamo a Roma. Nella prospettiva romana il segreto principalmente nasconde. Il termine «segreto» deriva dal latino secernere, in cui cerno esprime il «separare», il «dividere», il «distinguere» (il primo significato, tutto agricolo, è «passare al setaccio»)9, mentre il prefisso se ha funzione iterativa ed intensiva, giacché esprime allo stesso modo la separazione, l’allontanamento, la privazione.10 Il secretus è pertanto in primis qualcosa di «separato», da cui anche il sostantivo con l’accezione di «recesso», «luogo appartato» (e secretarium come «luogo solitario» o «aula giudiziaria» e a secretis come titolo per alcuni funzionari di corte)11. Vi erano ovviamente molte altre parole usate per riferirsi alla sfera semantica del «segreto»: interior, internus, intimus, initia (e initiatus), condere (e Consus), abscondere, reconditus, tectus, detegere, celare, occultare, tacere, silere, penus (e penetralia), obscurus, arcana, velum (e velare) e moltissime altre ancora.12 Alcuni segreti erano classificabili come perpetui: in altre parole, l’ignoto non riguardava il «risultato», subito noto o destinato ad esserlo, bensì gli aspetti «tecnici» che tale esito determinavano (il «come» si fa): «È quel che avviene nei ‘segreti’ delle arti e dei mestieri e che può dare luogo a fenomeni corporativi, per la loro gelosa conservazione o che avveniva nel prendere gli auspicia o nella procuratio prodigiorum da parte di membri di collegi sacerdotali (…). È quel che avviene per 13 molti ‘arcani’, nei quali il ‘segreto’ copre non quanto si fa (…), ma come e perché lo si fa» .

Di questa tipologia fanno parte gli arcana imperii, i «segreti», le «tecniche», i «trucchi del mestiere» per esercitare il comando e mantenere il potere.14 8

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L’ORESTANO (1989, 12) porta l’esempio della congiura di Catilina, segreta finché non fu scoperta e a noi nota ormai nelle sue caratteristiche generali; viceversa la «maschera di ferro» è allo stesso tempo oggetto di storia, ma anche di segreto praesens, perché vi sono solo congetture sull’effettiva identità di chi celava. Cfr. SIMMEL 1992, 409: «Das Geheimnis enthält eine Spannung, die im Augenblick der Offenbarung ihre Lösung findet». Per comprendere l’importanza dei termini cerno e cribrum («setaccio», «crivello», «vaglio») si considerino alcuni termini che da essi derivano: decerno, decretum, discerno, discrimino, excerno, certus, crimen. ORESTANO 1989, 16. Quanto alle locuzioni, cfr. ORESTANO 1989, 17: secretae artes (le «pratiche magiche») secreta Sibyllae («l’antro di una pitonessa»), secreta carmina (i «versi sibillini») e il particeps ad omne secretum (il «confidente»). Cfr. ORESTANO 1989, 19–24. Ibid. 14. Arcanus va posto in relazione con arca e arceo (cfr. ad es. TLL, s. v.): in entrambi è presente il senso dell’ignoto e di ciò che deve rimanere tale. Nel primo termine il senso è passivo, nel secondo attivo, ed è riferito a qualcosa che deve essere tenuto segreto. Arcanus ha in sé entrambe le valenze, potendosi intendere con esso contemporaneamente cose tacita o celata e altre tacenda o celanda. Nomen-omen, il la parola è spesso usata da Tacito nelle sue varie sfumature (cfr. in part. BENARIO 1963). Egli impiega arcanus per un totale di undici volte,

14. IL SEGRETO A ROMA

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Per fare degli esempi, un Tarquinius rex fece gettare a mare culleo insutum un tale A. Atilio duumviro poiché, corrotto da un Petronio Sabino, gli aveva mostrato un libro secreta rituum civilium sacrorum continentem.15 Secondo Ovidio Tantalo subì il ben noto supplizio per aver rivelato i segreti degli dèi.16 Viene anche alla mente, sia permesso il momentaneo salto al Medioevo, il Guido da Montefeltro dantesco, il quale, dopo aver ammesso che «li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte, 17 ch’al fine de la terra il suono uscie»

si rammarica che, alfine, proprio questa minuta conoscenza delle leve del comando, note ed occulte, ne abbia determinato la dannazione eterna. Il dialogo con Bonifacio VIII chiarisce bene il «come si fa» di chi governa, diverso da quanto, noto a tutti, è scritto su costituzioni, leggi, regolamenti ed editti. Il pontefice promette dapprima l’assoluzione a Guido, ormai fattosi frate, per il consiglio fraudolento destinato ad abbattere finalmente Palestrina, feudo dei Colonna, vecchi rivali dei Caetani (la famiglia cui apparteneva Bonifacio). Guido, persuaso, fornisce infine il consiglio richiesto, una vera e propria perla di Realpolitik: «lunga promessa con l’attender corto 18 ti farà trïunfar ne l’alto seggio» .

Parimenti diffusa e nota è la tipologia «religiosa» concernente la sfera del segreto: a Roma il termine che sancisce tutto quanto «non è permesso» in questo ambito era nefas.19 Gli auspicia, auguria, extispicia, etc., se non diffusi, costituivano segreti praesentes de praesenti o de futuro20. Frequente era la celebrazione dei sacra

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prevalentemente al neutro plurale, con diverse valenze: in alcune il senso è di qualcosa di privato (De or. 2 1: arcana semotae dictionis), ignoto (Ann. II 54: hausta fontis arcani aqua) o anche “mistico” (Germ. 18 2: arcana sacra). Tuttavia le espressioni dello storico che più ci interessano sono quelle riferite al contesto politico: evolgato imperii arcano (Hist. I 4, 2), arcana domus (Ann. I 6), arcana imperii (II 36), dominationis arcana (II 59); in tutti questi casi si intendono fondamentalmente la conoscenza e le forze segrete sui quali poggia l’autocrazia (BENARIO 1963, 360). Cfr. KÖVES-ZULAUF 1972, 99, n. 142: «nicht das imperium an sich ist geheim, sondern die Methoden der Herrschaft sind es». Val. Max. I 1, 13: Tarquinius autem rex M. Atilium duumvirum, quod librum secreta rituum civilium sacrorum continentem, custodiae suae conmissum corruptus Petronio Sabino describendum dedisset, culleo insutum in mare abici iussit, idque supplicii genus multo post parricidis lege inrogatum est, iustissime quidem, quia pari vindicta parentum ac deorum violatio expianda est. Met. IV 458. Inf. XXVII 76–78. Inf. XXVII 110–111. Cfr. ad es. SAVAGE 1945. In generale sul segreto nelle religioni, cfr. MENSCHING 1926; BOLLE 1987; CULIANU 1990; CANCIK 1998. Per la situazione in Grecia, cfr. WALLIS 1989; BREMMER 1995; BURKERT 1995b; PETTAZZONI 19972. Quanto al segreto nella sfera del diritto, cfr. ORESTANO 1989, 31 sgg. Cfr. SAVAGE 1945, 160–161.

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14. IL SEGRETO

lontano dagli occhi dei profani, qualora ciò fosse stato richiesto dalla natura del rito: «il secernere sacra profanis, prim’ancora che operazione concettuale rivolta a distinguere la sfera del divino da quella dell’umano, era materiale allontanamento dei ‘profani’, in molti culti, dal luogo dove si compivano sacrifizi o altri riti, che venivan detti per antonomasia ar21 cana e mysteria» .

Un esempio in proposito è la cerimonia conclusiva dei riti degli Argei, cui potevano assistere solo i pontefici, le Vestali, i pretori a coloro per i quali era θέμις l’essere presenti.22 Segreti più lassi erano quelli che interessavano solo alcune categorie ben definite, come le donne a proposito dei riti in onore di Bona Dea.23 In ogni caso, anche quando erano lontani da occhi e orecchie indiscreti, i sacerdoti non erano mai certi completamente che, a loro volta, fossero stati in qualche modo «esclusi» dalla conoscenza di uno o più nozioni da parte della divinità: l’espressione Iuppiter optime maxime, sive quo alio nomine te appellari volueris,24 oltre a qualificare la ben nota cautela romana nel rapporto con il divino, mostra pure come ci si potesse aspettare che il dio avesse o potesse voler essere chiamato con un altro nome, sconosciuto ai sacerdoti stessi. Il segreto circa il nome degli dèi era anche funzionale ad evitare che qualsivoglia malintenzionato potesse «agire» ritualmente sugli dèi romani, tramite ad esempio un’evocatio o un’exauguratio: Inde est quod Romani celatum esse voluerunt in cuius tutela urbs Roma sit, et iure pontificum 25 cautum est ne suis nominibus dii Romani appellarentur, ne exaugurari possent.

Esso riguardava dunque potenzialmente tutti gli dèi: i di indigetes sono quegli esseri divini quorum nomina vulgari non licet;26 una volta sacrificati gli animali in occasione degli Ambarvalia era vietato nominare ancora Marte;27 un tabù del nome vigeva anche durante i sacra di Cerere;28 Plinio afferma che era religio nominare sub tecto la divinità invocata insieme a Seia e Segesta (che noi sappiamo essere Tutilina) e infatti non lo fa proprio perché mentre scriveva certamente non si trovava all’aria aperta!29 Tuttavia, il segreto più importante era

21 ORESTANO 1989, 29. 22 Dion. Hal. I 38, 3. 23 Cic. Har. resp. XXXVII; cfr. Plut. Caes. 9; C. Dio XXXVII 45. Sul nome della dea, cfr. Serv. Ad Aen. VIII 314; PERUZZI 1969, 155–156. 24 Serv. Ad Aen. II 351. 25 Ibid. 26 Fest. 94 L s. v. indigetes. 27 Cfr. SABBATUCCI 1988, 175. 28 Serv. Ad Aen. IV 58: et Romae cum Cereri sacra fiunt, observatur ne quis patrem aut filiam nominet, quod fructus matrimonii per liberos constet. 29 Plin. N. h. XVIII 8: hos enim deos tum maxime noverant, Seiamque a serendo, Segestam a segetibus appellabant, quarum simulacra in circo videmus – tertiam ex his nominare sub tecto religio est –, ac ne degustabant quidem novas fruges aut vina, antequam sacerdotes primitias libassent. Cfr. Macr. Sat. I 16, 8; KÖVES-ZULAUF 1972, 80–85; GUITTARD 1998a, 86; DUMÉZIL 20012, 241.

14. IL SEGRETO A ROMA

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quello concernente la divinità tutelare segreta di Roma, alla quale finalmente ci volgeremo.

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15. UN MISTERO «ROMANO» 15.1. PROLEGOMENI Discettare dell’esistenza degli dèi non è questione attinente alla scienza. Non v’è dubbio alcuno che, per i Romani – ma potremmo agevolmente estendere il discorso, pur con le doverose puntualizzazioni e precisioni, a pressoché qualunque altro popolo dall’antichità ai giorni nostri – le divinità fossero considerate come delle entità realmente esistenti ed operanti nel mondo. Quanto alla divinità segreta di Roma, dunque, rilevare che una tale concezione «sorga» ad un certo punto della storia della città non è in sé sbagliato, ma necessita di alcune precisazioni. Per un duméziliano «campo ideologico»1 come quello romano non si può pensare ad «invenzioni» o «creazioni» ex novo: Honos, Virtus, Mens, Concordia, per fare degli esempi di divinità in precedenza non venerate in alcun modo a Roma, a seguito dei vari vota iniziano ad «esistere» solo nel culto pubblico, non in assoluto.2 Il Romano si sforza di volta in volta di capire quale divinità è presente, è intervenuta o potrebbe farlo nel campo potenzialmente infinito dei di deaeque omnes di un sistema politeistico: «trova» ma non «inventa» nulla, o almeno non ritiene di farlo. Il fatto che la prima menzione della divinità segreta di Roma risalga, per quanto ne sappiamo, a Verrio Flacco (in Plinio) non comporta automaticamente che questa concezione sia stata «creata» allora o poco prima.3 Ci si può chiedere invece perché ad un certo punto si cominci a riflettere sul tema: giacché per la relazione causale con l’evocatio, la cui antichità non può essere messa in discussione,4 non si può dubitare che si considerasse Roma come protetta fin da tempi remoti da una divinità. Il «segreto» è solo una conseguenza di questa situazione: «non si trovò una divinità tutelare per Roma perché vi era un’evocatio, bensì il contrario: poiché esisteva una divinità tutelare si temeva che i nemici potessero usare il medesimo rito anche contro Roma, e si faceva fronte a questo pericolo mantenendo segreta l’identità della di5 vinità» . 1 2 3 4 5

Discussione dettagliata in MONTANARI 2001, 74 sgg. Cfr. ROHDE 1963, 198; KERÉNYI 1940, 221: «Per i romani gli dèi esistevano sempre come potenzialità, ma s’innalzavano ad attualità solo in un determinato momento, facendo acquistare così maggior determinatezza alla loro essenza». WEINSTOCK 1950, 149; LATTE 1960, 125, n. 2; cfr. KÖVES-ZULAUF 1972, 90–95. Supra, par. 5.2. KÖVES-ZULAUF 1972, 95. DUMÉZIL 20012, 437, nota come già al tempo della seconda guerra punica (dedica ad un genius, forse il genius populi Romani o il genius urbis Romae), «si siano moltiplicate e precisate le speculazioni poco coerenti sul nome segreto di Roma e sulla divinità protettrice che le è così intimamente congiunta da confondersi con essa stessa», chiosando poi: «Non possiamo precisare il momento in cui si formò la concezione della «divinità

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15. UN MISTERO «ROMANO»

La trattazione di Verrio Flacco, ad esempio, può essere sorta dalla tradizione circa il supposto crimine di Valerio Sorano, in un’epoca abbastanza vicina (Verrio scrive in età augustea) per avere una seppur minima conoscenza dei fatti, ma in cui la tradizione circa la colpa dell’erudito di Sora si era già consolidata.6 Il pericolo scampato allora, durante la guerra sociale, poteva essere funzionale ad una rinnovata riflessione circa le «garanzie» religiose del nuovo corso inaugurato da Augusto, restitutor degli antichi sacerdozi, riti e culti, il quale, pontifex maximus, dedicò sul Palatino un signum o un sacello (o entrambi) a Vesta,7 di cui faceva parte una riproduzione del Palladio, pignus della salus dell’Urbe e fecondo motivo, almeno per un erudito, per riflettere di cose religiose. Si potrebbe pure risalire agevolmente più indietro nel tempo, considerando la probabile fonte di Macrobio relativa al carmen evocationis, presente in Sammonico Sereno: Lucio Furio Filo,8 vissuto nel II sec. a. C.9 Tuttavia, è da credere che, così come fece l’intimo amico di questi, Scipione Emiliano, di fronte alle rovine fumanti di Cartagine, il pensiero circa una possibile analoga sorte futura della loro città tornasse a far capolino nella mente dei Romani all’indomani della celebrazione di ciascuna evocatio, a partire almeno dalla prima che conosciamo, quella della Giunone Regina di Veio. I momenti di crisi e i «pericoli» corsi da Roma lungo tutto il corso della sua storia furono sempre fecondi di interventi e riflessioni sul piano religioso, in particolare quello tra il II sec. a. C., epoca delle grandi conquiste mediterranee (e delle evocationes celebrate a Cartagine e probabilmente a Numanzia) e i primi decenni del seguente (guerra sociale e «crimine» di Valerio Sorano)10. Vi è sicuramente dell’altro. Tornando all’età augustea, dinanzi alla grandezza e alla potenza dell’Impero consolidato e ampliato da Augusto, di fronte all’accecante splendore del saeculum da lui inaugurato, al cospetto della magnifica imponenza marmorea della capitale del mondo, non solo un erudito, ma qualunque Romano doveva necessariamente riconoscere che l’Urbs era depositaria di qualcosa di diverso, che possedeva qualcosa in più rispetto a qualunque altra città. Il Leitmotiv più ricorrente era ovviamente la suprema venerazione e la pietas dei Romani nei confronti degli dèi. In proposito, quello circa la divinità segreta poteva costituire un’ulteriore motivazione del successo senza precedenti di Roma, un quid funzionale a spiegare perché, a differenza di tutte le altre città, proprio l’Urbe avesse raggiunto quel

segreta di Roma». Latte, p. 125, n. 2, (…) segnala che St. Weinstock (…) crede di riconoscervi un segno orientale e non pensa che si tratti di un’immagine anteriore al primo secolo: scetticismo eccessivo; i legami di questa concezione con i rischi dell’evocatio, pratica assai antica, non possono essere cancellati ed attestano una maggiore antichità». 6 Sul tema, cfr. in generale FERRI 2007. 7 Cfr. in merito GUARDUCCI 1971, 89 sgg. 8 Cfr. supra, parr. 4.1.3; 5.2.1. 9 A questa età risale WEINSTOCK 1950, 149. 10 Cfr. MAZZARINO 1995, 20.

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vertice supremo e incontrastato di potenza: così facendo, attraverso la religione i Romani «durkheimianamente» celebravano la propria società.11 D’altronde 12

«gli dèi sono gli strumenti logici con cui una religione politeistica “pensa” la realtà» .

Non a caso, la questione torna d’attualità al tramonto del mondo antico, quando eventi epocali, fondamentalmente la definitiva affermazione del Cristianesimo quale religione di stato e il sacco alariciano, portarono autori contemporanei come Servio, Macrobio ed altri ad interrogarsi sulla portata di questi accadimenti, anche e soprattutto sul piano religioso. Essi sono gli ultimi epigoni antichi di una ricerca che ancora appassiona noi moderni. Le stesse parole di Macrobio sembrano quasi trasmettere l’immagine di archivi polverosi e di eruditi affannati: Sed dei quidem nomen non nullis antiquorum, licet inter se dissidentium, libris insitum et ideo vetusta persequentibus, quicquid de hoc putatur, innotuit. Alii enim Iovem crediderunt alii Lunam, sunt qui Angeronam, quae digito ad os admoto silentium denuntiat, alii autem quo13 rum fides mihi videtur firmior, Opem Consivam esse dixerunt.

Ognuno di questi autori, non sappiamo a partire da quando giacché non viene specificato, ha fornito la propria opinione in materia, e anche Macrobio non vi si sottrae. La concezione della divinità tutelare segreta ci dice molto sulla particolare religiosità dei Romani: individuare il momento della sua «invenzione» conta molto meno della sua importanza per gli elementi relativi alla «storia della mentalità» che essa ci trasmette.14 Allo stesso modo, rilevarne tautologicamente l’assurdità o l’impossibilità non ci è di grande utilità. L’approccio razionalistico è sterile senza lo sforzo di calarsi nella mentalità dell’epoca e del popolo con cui abbiamo a che fare, pena un approccio non molto distante da quello dei colonialisti europei ottocenteschi nei confronti dei sistemi religiosi africani. Questo elemento, pur se non appartenente effettivamente alle origini di Roma – ma si faticherà a trovarne molti... – da un certo punto in poi ha una sua validità per i Romani, ed è su di essa che dobbiamo concentrare i nostri sforzi interpretativi, insieme al tentativo di ricostruire lo sviluppo di questa concezione. Il parallelo più pregnante è quello dell’altro pignus supremo della storia di Roma, il Palladio. Abbiamo visto quanto sia complessa la tradizione che lo riguarda. Marta Sordi individua, con buoni argomenti, il terminus post quem nell’introduzione del culto della Madre Idea a Roma (205 a. C.) e alla metà del II sec. a. C. il terminus ante quem per la datazione della pretesa tradizione romana 11 L’opera più rappresentativa di ÉMILE DURKHEIM è senz’altro Le forme elementari della vita religiosa (qui DURKHEIM 1963); sull’impostazione dello studioso, compresi i suoi aspetti problematici, cfr. FILORAMO – PRANDI 1991, 109–112; MASSENZIO 1997, 485–493; ACQUAVIVA – PACE 1998, 31–39; AUGÉ 2002, 21 sgg. 12 SABBATUCCI 2000, 296. 13 Macr. Sat. III 9, 4. 14 Sul concetto, oltre all’introduzione al presente volume, cfr. MONTANARI 2009; FERRI 2010a, cap. IV.

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15. UN MISTERO «ROMANO»

circa il possesso dell’idolo.15 Già in antico Servio riporta la tradizione circa il suo ritrovamento da parte di Gaio Flavio Fimbria tra le rovine di Ilio durante la guerra mitridatica.16 Tuttavia, in età augustea, parallelamente alla pretesa di imperium sul mondo, la tradizione più comunemente accettata era quella che vedeva nel Palladio di Roma l’originale, portato da Enea con sé.17 Analogamente più tardi Costantinopoli pretese di possedere la statuetta autentica. Tutte queste varianti non contrastano tra loro, ma ci forniscono informazioni sul momento storico in cui furono scritte e sull’intento che ne guidò la redazione.18 Ciò che più conta, di nuovo, è che da un certo punto in poi ogni Romano credesse che il vero Palladio fosse custodito nel penus dell’aedes Vestae, fosse stato salvato nell’incendio del 241 a. C. dal pontefice massimo Lucio Cecilio Metello19 e, quando Elagabalo lo fece asportare per collocarlo sul Palatino, in molti abbiano ritenuto di averlo visto.20 Anche in questo caso, è relativamente importante che Elagabalo abbia in precedenza ricevuto a sua insaputa una copia o che in questo imperatore sia adombrato in realtà Costantino: conta che si ritenesse che qualcuno avesse realmente visto l’idolo, segno di una nozione religiosa ormai consolidata. Di conseguenza, nel momento in cui scrivono Verrio Flacco e Plinio, e a maggior ragione Servio e Macrobio, i Romani erano fermamente convinti che una divinità dal nome segreto proteggesse la città di Roma. Abbiamo visto le motivazioni: evitare il pericolo di subire un’evocatio e il tentativo di riconoscervi un quid della superiorità a livello religioso dell’Urbe rispetto alle altre città. Un’altra, singolare, è proposta da Plutarco: se ne teneva nascosto il nome per evitare che i Romani adorassero solo quella divinità, tralasciando le altre, con il rischio di diventare monolatri e quindi di turbare la moltitudine di dèi con i quali vigeva la pax deorum.21 Anche lo scrittore greco tenta quindi di dare una spiegazione della tradizione. Non sappiamo se fosse scettico al riguardo o, com’è più probabile, leggesse senza stupore la notizia; fatto sta che, nelle Questioni Romane egli procede al tentativo basandosi su un elemento proprio alla sua mentalità, cioè un passo di Omero: «La Terra a tutti gli dèi è comune, grande e piccola»22. Inoltre, avendo vissuto per parecchi anni ad Atene, egli avrà sicuramente avuto modo di vedere l’altare al «dio sconosciuto» che si trovava in città e che proprio in quel periodo (probabilmente il 51 d. C.)23 S. Paolo aveva preso a pretesto per una celebre predica agli Ateniesi.24 15 16 17 18 19 20 21

SORDI 1982, 76–77. Serv. II 166. Vale la pena di rilevare come egli fosse luogotenente di un Flacco, Valerio. Dion. Hal. I 68–69; II 66; cfr. Cic. Phil. II 10, 24; Ov. Fast. Vi 424. Cfr. CRACCO RUGGINI 1985, 248–249. Sui risvolti «mitici» dell’episodio, cfr. BRELICH 1939. HA Hel. VI 6–7. Q. R. 61. Azzardando un paragone con l’età moderna, lo stesso accade con l’omaggio reso al milite ignoto: è importante che questi non abbia nome così da assurgere a simbolo di tutti i soldati morti dei quali non si poté stabilire l’identità. 22 Il. XV, 193. 23 BRENK 2007, 470. 24 Acta Apostol. XVII 16–34.

15.2. IL GENIUS URBIS ROMAE

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Tutte le varie spiegazioni sono dunque «plausibili» e ci dicono qualcosa sull’epoca in cui vennero avanzate e sulla mentalità e personalità degli autori che le hanno proposte.25 Conta cosa il dato «dice» agli autori, l’interpretazione che essi ne forniscono. Del resto, potremmo mai sapere con certezza quali divinità furono invocate il giorno della fondazione della città, se mai ve ne furono? Lasciamo ad altri queste speculazioni. 15.2. IL GENIUS URBIS ROMAE 15.2.1. La vera divinità tutelare segreta di Roma? Giunti a questo punto, facendo tesoro di tutte le considerazioni del presente lavoro e senza pretese di «indovinare» alcunché,26 ci cimenteremo anche noi nel tentativo di dire qualcosa di più a proposito della misteriosa divinità tutelare di Roma, cercando di basarci quanto più possibile sugli elementi reali della mentalità religiosa romana. Per prima cosa, solleviamo subito dall’attesa il tenace lettore che ha fin qui seguito il presente studio: a nostro parere l’essere divino che, secondo le concezioni religiose romane, ha più titoli per ricoprire il ruolo di divinità tutelare segreta di Roma è un genius, che potremmo ragionevolmente identificare con il genius urbis Romae sive mas sive femina di cui parla Servio.27 Partiamo da questa notizia: Et in Capitolio fuit clipeus consecratus, cui inscriptum erat «genio urbis Romae sive mas sive femina».

Questa frase scarna contiene in realtà tutti gli elementi di cui abbiamo bisogno per la nostra identificazione. Anzitutto, non vi è dubbio che il genius sia un dio: genius est deus.28 Secondo le considerazioni dispiegate nelle pagine precedenti, inoltre, esso è l’unico essere divino cui può essere attribuita una presenza sul sito di Roma fin dalle origini; di più, in base alle concezioni romane riferibili alla categoria dei genii, all’atto della «nascita» esso avrebbe conferito all’Urbe il suo ben definito «carattere», la sua «personalità». D’altronde, come afferma Macrobio, 25 Cfr. FLESS – MOEDE 2007, 258–259. 26 Anche KERÉNYI, nella premessa a BRELICH 1949a, 7, cerca di prevenire la possibile «delusione» di quanti si sarebbero potuti aspettare una soluzione inequivocabile al mistero! 27 Serv. Ad Aen. II 351: EXCESSERE quia ante expugnationem evocabantur ab hostibus numina propter vitanda sacrilegia. Inde est quod Romani celatum esse voluerunt in cuius tutela urbs Roma sit, et iure pontificum cautum est ne suis nominibus dii Romani appellarerunt, ne exaugurari possent. Et in Capitolio fuit clipeus consecratus, cui inscriptum erat “genio urbis Romae sive mas sive femina”. Et pontifices ita precabantur: “Iuppiter optime maxime, sive quo alio nomine te appellari volueris”; nam et ipse ait [IV 576] sequimur te, sancte deorum, quisquis es. 28 Censorin. De die nat. III 1.

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15. UN MISTERO «ROMANO» 29

constat enim omnes urbes in alicuius dei esse tutela.

Il genius urbis Romae esiste da quando esiste la città, è la sua divinità tutelare «puntuale» e «primordiale». Per questo ha un particolare legame con il luogo30 ed è da questo identificato: esso è il genius «della città di Roma», informazione minima, necessaria e sufficiente per non confonderlo con altri,31 in primis con il genius populi Romani. Servio infatti afferma: 32

genium dicebant antiqui naturalem deum uniuscuiusque loci vel rei vel hominis.

C’è dunque una sostanziale differenza tra il protettore della città e quello del popolo che abita in essa.33 Ancora, il genius urbis Romae è detto sive mas sive femina. Questa informazione ci richiama immediatamente alla memoria il sive deus sive dea, la formula «cautelare» presente nel carmen evocationis, cui, lo abbiamo visto, il genius è particolarmente legato in quanto divinità «generale» della città. A questo proposito, è interessante rilevare come il passo di Servio lo menzioni assieme alla divinità «particolare» della città (e della res publica), Giove Ottimo Massimo. Ci si rivolge ad entrambe con la dovuta cautela, limitata al nome nel caso di Giove, più ampia in relazione al genius. Una delle nostre fonti, Plutarco, afferma che la divinità segreta di Roma è ἄρρην εἴτε ϑήλεια: l’espressione genius sive deus sive dea, d’altronde, costituirebbe una tautologia.34 L’espressione sive mas sive femina potrebbe anche forse deporre a favore di una certa antichità della dedica di cui parla Servio, cioè prima della prima età imperiale, quando appare ormai fissato il binomio genius-iuno rispettivamente per l’uomo e la donna.35 29 Macr. Sat. III 9, 2; cfr. Symm. Rel. III 8: varios custodes urbibus cultus mens divina distribuit. 30 Cfr. Prud. C. Symm. II 370: fataliter urbem sortitam quonam genio proprium exigat aevum. Più “polemicamente” in ibid. II 244: quamquam cur Genium Romae mihi fingitis unum, cum portis, domibus, thermis, stabulis soleatis assignare suos genios, perque omnia membra Urbis perque locos geniorum millia multa ne propria vacet angulus ullus ab umbra? 31 Cfr. supra, cap. 11. Per MCCORMACK 1975, 140, questo genius è una creazione dell’epoca di Servio. 32 Ad Aen. I 302. Cfr. Symm. Rel. III 8: ut animae nascentibus, ita populis fatales genii dividuntur. 33 CESANO 1922, 463. Alcuni, tra cui DUMÉZIL 20012, 319, e CANCIANI 1994, 438, ipotizzano invece un’equivalenza o un’identità tra le due figure divine. Il genius populi Romani ricevette un tempio vicino a quello della Concordia nel Foro Romano e una statua d’oro sui Rostri: cfr. CANCIANI 1994; PALOMBI 1995. In suo onore venivano celebrati i Ludi Genialici l’11 e il 12 febbraio (calendario di Filocalo e feriale Campanum: CIL I 258, 309). Cfr. anche FEARS 1978. Dal punto di vista iconografico il g. p. R. era molto simile ad Honos: CANCIANI 1994, 438–439. 34 BRELICH 1949a, 12. WISSOWA 19122, 179, suppone che la divinità tutelare di Roma abbia ricevuto solo in un secondo momento la qualifica di genius, e fosse inizialmente indicata con la perifrasi sive deus sive dea, in cuius tutela haec urbs est. 35 CANCIANI 1994, 438, basa invece l’antichità del genius sul fatto di essere rappresentato sotto forma di scudo.

15.2. IL GENIUS URBIS ROMAE

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Quella del genius loci diventa inoltre la «categoria» per indicare la divinità tutelare del paese o, ben più spesso, della città, affiancandosi, sovrapponendosi o confondendosi talvolta con l’essere divino che già ricopriva il ruolo. Le divinità civiche erano infatti spesso femminili, o rappresentate come tali, 36 ma ciò non impediva di indicarle come genii della città protetta.37 Sono esplicitamente denominate in tal modo grandi dee quali Iside38 e la Tanit-Caelestis di Cartagine.39 Ciò era dovuto anche ad una fusione con un altro concetto, quello di Fortuna-Tyche, rappresentata sempre in veste femminile, a differenza di quanto accadeva invece normalmente per il genius.40 Tuttavia, la «specializzazione» di una sola divinità nella funzione della phylaké si verifica solo in età ellenistica per l’influenza del filone di pensiero filosofico incentrato sul ruolo della τύχη nella vita umana.41 Un bell’esempio di questa (con)fusione di elementi di diversa provenienza è una statuetta rinvenuta in un tesoretto a Weißenburg, che rappresenta un genius dalla forte valenza sincretistica:42 la figura, maschile, reca nella mano destra un fulmine, nella sinistra una cornucopia, attributo tipico del genius e di Fortuna,43 sormontata da un disco solare. Sul capo, unita ad un cimiero piumato, vi è una grande corona turrita, caratteristica questa riferita alle mura urbane e quindi peculiare alle divinità tutelari cittadine. Quanto al «segreto», quale miglior modo di serbarlo di una divinità che in realtà non possiede un nome? Riferirsi al genius urbis Romae non implica che sotto questa denominazione sia celato un qualche essere divino personale, al contrario. Il genius normalmente non ha nome, ed anzi talvolta ci si rivolge ad esso tramite la formula sive deus sive dea, come nel rito del lucum conlucare o nel carmen evocationis. Inoltre, un tale essere divino avrebbe consentito di poter limitatamente conciliare una certa «pubblicità» circa l’essere divino protettore dell’Urbe, senza che ciò comportasse però particolari rischi dal punto di vista religioso. A ben vedere infatti, l’osservazione dell’Alvar in proposito: «On peut signaler que l’argument de l’occultation du nom de la divinité tutélaire de Rome est très candide, car évidemment l’ennemi peut employer une formule qui “rompt l’obscurité”, 36 Cfr. ad es. CIL VIII 2595: Gen. col. Cirtae, con la rappresentazione della città in figura di donna. 37 Cfr. ROMEO 1997, 599. 38 Serv. Ad Aen. VIII 696: Isis autem est genius Aegypti. 39 Polyb. VII 9, 2 (indicata come daimon); HALSBERGHE 1984, 2205, n. 10. Nel 46 a. C. Metello Scipione fece coniare delle monete recanti l’immagine della dea insieme con la scritta G(enius) T(errae) A(fricae). Cfr. VON HESBERG 1981, 1073 (genius-Fortuna-Tanit a Tripolis) 40 Anche la Caelestis è denominata Tyche a Cirta: CIL VIII 6943. Sul rapporto Fortuna-Tyche, cfr. KAJANTO 1981, 525–532; sul rapporto Giunone-Fortuna-Tyche, cfr. DURY-MOYAERS – RENARD 1981, 181–182. 41 MASTROCINQUE 1981, 15 sgg. Essa compare tuttavia già in Esiodo (v. 360 della Teogonia), nell’Inno omerico a Demetra (v. 420), in Pindaro, etc. La Tyche più antica era quella di Smyrna: Paus. IV 30, 4. 42 ROMEO 1997, fig. 53. 43 BRELICH 1949a, 15.

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15. UN MISTERO «ROMANO» comme le faisaient les Romaines, avec la tournure sive deo sive deae in cuius tutela Roma 44 est..» ,

non regge alla luce di quanto abbiamo cercato di mostrare relativamente al pensiero religioso romano. Abbiamo visto infatti che i Romani tramite l’uso della formula «cautelare» sive deus sive dea intendono invocare la divinità «primordiale» e «generale», il cui nome non era in realtà necessario conoscere, e anzi, proprio perché non era possibile farlo, in quanto appartenente alla categoria dei genii, era in tal modo apostrofato. Tutto ciò ovviamente non esclude di potergli conferire un nome in un secondo momento. Non si dimentichi mai, inoltre, che per i Romani il dio non era mai costretto a fare alcunché, nemmeno nel caso in cui se ne fosse conosciuto l’eventuale nome segreto. Se mai ne avesse avuto uno, poi, il dio non avrebbe fatto altro che apprezzare la pietas dei Romani, reverenti al punto di non spingersi a presumere alcunché di certo in proposito, riservandosi di decidere per conto proprio. Il Romano non ha bisogno di conoscere l’identità di un dio per venerarlo o fare la sua volontà, come rileva Servio in Virgilio: 45

nam et ipse ait [IV 576] sequimur te, sancte deorum, quisquis es.

Anche la città di Roma, secondo alcuni, possedeva un nome segreto. Rimandando altrove per un approfondimento dell’argomento,46 possiamo qui però immediatamente rilevare che vi è una differenza fondamentale rispetto al segreto circa il nome della divinità tutelare di Roma: questa infatti nasce insieme alla città, non viene «creata» dagli uomini, diversamente da quanto accade invece per l’insediamento urbano, fondato su iniziativa dell’uomo.47 Una fonte tarda, Giovanni Lido, afferma esplicitamente che fu Romolo a conferire il nome segreto alla città: esso dev’essere stato noto perciò a qualcuno (almeno in senso «mitico», cioè come spiegazione a posteriori una volta sorta questa tradizione) che abbiamo supposto essere in epoca storica il pontefice massimo.48 Il genius urbis Romae non ha nome, ma ha contemporaneamente il nome della città, è caratterizzato esclusivamente dall’essere il «suo» genio, e da ciò riceve la sua personalità e la sua funzione. Per le considerazioni precedenti, riteniamo pertanto che i due nomi segreti vadano considerati come diversi.49 44 45 46 47

ALVAR 1985, 272, n. 75. Serv. Ad Aen. II 351. FERRI 2009; FERRI 2010a, cap. III. Non così in età ellenistica, in cui all’atto della fondazione, si conferiva un nome alla Tyche della città: cfr. MASTROCINQUE 1981, 18. Così si comporterà Costantino al momento della fondazione di Costantinopoli: cfr. supra. 48 Per tutte le questioni qui sollevate e le fonti, cfr. FERRI 2007; FERRI 2009; FERRI 2010a, cap. III. 49 A differenza di quanto ritengono PASCAL 1894, 195; BRELICH 1949a, 13; KÖVES-ZULAUF 1972, 104, n. 165. Stessa considerazione, ma su premesse totalmente differenti, in PROSDOCIMI 2009, 23.

15.2. IL GENIUS URBIS ROMAE

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Consideriamo infine gli ultimi due dati presenti nel passo di Servio: il luogo e l’oggetto della dedica al genius urbis Romae. Della sacralità del colle capitolino abbiamo riferito ampiamente sopra. Più in particolare, Servio si riferisce ad una delle sue alture, il Capitolium, su cui spiccava ovviamente per maestosità ed importanza il tempio di Giove Ottimo Massimo. Il genius urbis e Giove Ottimo Massimo, le divinità «generale» e «particolare» di Roma, sono menzionati uno dopo l’altro: non si può escludere in definitiva che lo scudo fosse in qualche modo in relazione con questo edificio sacro. Anzitutto, con il termine Capitolium si può intendere sì l’altura del colle, ma anche, più nel dettaglio, il tempio dedicato alla triade capitolina, come sarà normale soprattutto per i templi costruiti in base a questo modello nelle varie colonie50. Inoltre, nonostante il tempio capitolino fosse dedicato specificamente a Giove, Giunone e Minerva, ospitava il culto di numerose altre divinità, a partire dagli dèi che dimoravano in precedenza nell’area, Terminus e Iuventas: 51

in Capitolio enim omnium deorum simulacra colebantur.

Sono ricordati dei sacrifici sul Campidoglio il 9 ottobre al genius publicus, probabilmente il genius urbis, assieme a Fausta Felicitas e Venus Victrix.52 L’unica probabile eccezione in cui si parla di una dedica di un Capitolium ad un’altra divinità, oltre alle componenti della triade capitolina, riguarda proprio il genius della città.53 In questa direzione porta pure la notizia di Livio secondo cui, nel 193 a. C., gli edili Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo decorarono il tempio con clipei dorati.54 Si era negli anni successivi alla fine della seconda guerra punica, conflitto durante la quale, nel 218 a. C., ci si era già rivolti ad un non meglio specificato genius, considerato molto importante visto che gli vennero offerte cinque hostiae maiores,55 e che potremmo supporre si trattasse del genius urbis.56 Ma perché uno scudo? Un oggetto quale uno scudo (dorato) poteva costituire un simbolo di una divinità, come avveniva probabilmente ad Atene per Atena57 e a Roma con l’hasta per Marte.58 50 51 52 53

54 55 56 57 58

BIANCHI 1950. Serv. Ad Aen. II 319. InscrIt II 37, 195. Più esattamente di Lambaesis: CIL VIII 2612. L’iscrizione è databile al 208–209 d. C. Interessante in proposito, anche se non pertinente ad un Capitolium, bensì ad un’aedes dedicata ai componenti della triade capitolina (giacché non tutti i templi ad essi dedicati sono dei Capitolia: BIANCHI 1950, 398–399), un’iscrizione in cui compare, oltre a Giove, Giunone e Minerva, proprio il genio del luogo: CIL VI 401. Liv. XXXV 10, 11; 41, 10; cfr. XXXVIII 35. Liv. XXI 62, 9. Ma genius populi Romani in C. Dio XLVII 2, 3 e L 8, 2. PALOMBI 1995, 365, ritiene invece si trattasse del genius publicus o genius populi Romani. ZIEHEN 1949, 187. Plut. Rom. XXIX 2; Serv. Ad Aen. VIII 3; Arnob. Adv. Nat. VI 11. Cfr. DUMÉZIL 20012, 38 sgg.

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15. UN MISTERO «ROMANO»

In questo senso, un altro dato interessante è quello fornito dall’Anthologia Palatina: alla fine del IV sec. d. C. un Teodoro, prefetto della città, restaura il tempio della Tyche di Costantinopoli, onorando con la sua generosità la dea e, per estensione, «Roma dallo scudo d’oro»59. È questa una notizia che può delineare efficacemente uno dei punti d’arrivo, in età imperiale, delle diverse tipologie di divinità esaminate in questo lavoro: la Dea Roma.60 15.2.2. Dal genius alla dea «di» Roma Anzitutto, in poesia l’oro è un colore usato spesso per riferirsi alla capitale del mondo, l’aurea Roma.61 Di conseguenza, la dea che la simboleggia, oltre alla corona turrita, secondo la nota iconografia delle divinità tutelari civiche, ha anche il diadema d’oro, e lo scudo, anch’esso d’oro: Erige crinales lauros seniumque sacrati vertici in virides, Roma, recinge comas. Aurea turri62 gero radient diademata cono perpetuosque ignes aureus umbo vomat.

Talvolta la Dea Roma è rappresentata entro uno scudo circolare, il clipeus (lo stesso tipo oggetto della dedica al genius urbis)63. Come il genius essa «è» Roma, è la città divinizzata, ma secondo concezioni provenienti dal mondo greco-ellenistico64. Per questo la dea costituirà un «contenitore» di molte delle caratteristiche e dei simboli che abbiamo visto associati alle origini e alle divinità tutelari cittadine. Nelle varie rappresentazioni, essa pertanto reca sull’elmo la lupa e i gemelli, in mano un corno dell’abbondanza o il Palladio, è incoronata del genius populi Romani, è affiancata da (una) Tyche,65 da Venere, etc.66 Con l’affermazione del Cristianesimo quale religione di stato viene probito qualunque culto degli dèi tradizionali, dunque anche dei genii: nullus omnino secretiore piaculo Larem igne, mero Genium, penates odore veneratus accen67 dat lumina, imponat tura, serta suspendat. 59 Anth. Pal. IX 697. Con «Roma» si intende ovviamente Costantinopoli (cfr. Anth. Pal. 657, 5), che però riprende pressoché in toto le iconografie riferibili a Roma: la prima statua ad essa dedicata non è altro che un simulacro della Tyche portato da Roma ad opera di Costantino (Zos. II 31)! Cfr. in generale BÜHL 1995, 21 sgg. 60 Cfr. in generale MELLOR 1981. 61 Cfr. ad es. Ov. Ars am. III 113; Aus. Ordo urbium nobilium (Roma) 1: Prima urbes inter, divom domus, aurea Roma. Molti altri esempi in MARPICATI 2009. 62 Rut. Nam. De red. I 115–118. 63 DI FILIPPO BALESTRAZZI 1997, fig. 23. 64 BRELICH 1949a, 9; cfr. FEARS 1978, 284: «The goddess Roma is rather only one aspect in which can be personified the divine dynamis-numen manifested in the collective activities of the Roman People and its institutions». Il culto della Dea Roma è attestato per la prima volta a Smyrna nel 195 a. C.: Tac. Ann. IV 56. Cfr. MELLOR 1981, 956 sgg.; SABBATUCCI 1988, 151: «si direbbe che gli Smirnei deificando Roma abbiano contraccambiato le onoranze riservate dai Romani alla loro dea [scil. Cibele]». 65 Sulle differenze Dea Roma-Tyche, cfr. MCCORMACK 1975, 140. 66 Cfr. MELLOR 1981, 1011–1017; BÜHL 1995; DI FILIPPO BALESTRAZZI 1997.

15.2. IL GENIUS URBIS ROMAE

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Poco prima, una delle notte precedenti il suo ferimento mortale, Giuliano, l’ultimo difensore della religione degli avi, aveva visto il genius publicus: esso si allontanava in atteggiamento alquanto triste attraverso la tenda dell’imperatore, con il capo e la cornucopia avvolti da un velo.68 Scomparsi i genii, il culto di Roma continuò attraverso la Dea Roma, allo stesso tempo dea, personificazione e simbolo.69 Numerose raffigurazioni ornano la città ancora oggi.70 Particolarmente interessanti sono tre di esse, quelle riferibili al Campidoglio. La prima fa parte del programma iconografico del Vittoriano, il monumento eretto per celebrare l’Unità d’Italia. La Dea Roma è posta al centro esatto della costruzione: ad essa confluiscono i due fregi laterali (il Trionfo del Lavoro e il Trionfo dell’Amor patrio di Angelo Zanelli, autore anche della statua della dea), si trova sotto il basamento, ornato dalle statue delle 14 città d’Italia, su cui campeggia la statua equestre di Vittorio Emanuele II, e ai suoi piedi vi è l’Altare della Patria con la tomba del Milite Ignoto. Vi è poi il simulacro posto al centro dello scalone centrale del Palazzo Senatorio che domina Piazza del Campidoglio, una statua in porfido e in marmo di Minerva seduta, di epoca domizianea, trasformata in Dea Roma e qui collocata da Matteo di Città di Castello nel 1588–89. Infine, al culmine della torre campanaria del medesimo edificio, eretta da Martino Longhi il Vecchio tra il 1578 e il 1582, è collocata una statua femminile, restaurata alla fine del XIX sec. come Minerva-dea Roma. Sul Campidoglio dunque, il colle più sacro della città, una triplice rappresentazione della Dea Roma (anche) in forma di Minerva-Atena, dea del Palladio e cu-

67 Cod. Theod. XVI 10, 12. Sulla legislazione antipagana, cfr. GAUDEMET 1990. Il culto era ancora vivo nel 399, quando a Cartagine si era celebrato un banchetto in onore del genio della città: Aug. Serm. LXII 9–10. 68 Amm. Marc. XXV 2, 3: Ipse autem ad sollicitam suspensamque quietem paulisper protractus cum somno ut solebat depulso, ad aemulationem Caesaris Iulii quaedam sub pellibus scribens obscuro noctis altitudine sensus cuiusdam philosophi teneretur, vidit squalidius, ut confessus est proximis, speciem illam Genii publici, quam, cum ad Augustum surgeret culmen, conspexit in Galliis, velata cum capite Cornucopia per aulaea tristius discedentem. Il genius publicus era apparso all’imperatore anche nella notte precedente la sua proclamazione ad Augusto: Amm. Marc. XX 5, 10. CESANO 1922, 468, ritiene che quello visto da Giuliano fosse invece il suo genius personale. Cfr. MCCORMACK 1975, 144–145. Bruto vide il suo genius personale prima e dopo la battaglia di Filippi: Plut. Brut. 36, 5–7; 48, 1; Caes. 69, 6–13. 69 Cfr. SCHILLING 1979, 437–441; BÜHL 1995, 3: «Doch sind die Grenzen zwischen ›Gottheit‹ und ›Personifikation‹ keinesfalls scharf – man denke nur an die Gestalt der ›Dea Roma‹». 70 BÜHL 1995, 288–296, ne riconosce una raffigurazione nel mosaico dell’arco di trionfo di S. Maria Maggiore, risalente al V sec. La Dea Roma sovrasta anche uno dei due emicli in cui Giuseppe Valadier racchiuse Piazza del Popolo. L’ultima raffigurazione è recentissima, collocata nel 2003: un volto in travertino che da Piazza Montegrappa guarda verso Ponte Risorgimento, opera dell’artista polacco Igor Mitoraj denominata appunto dea Roma.

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stos urbis, 71 novello genius urbis Romae, continua ancora oggi idealmente a vegliare sull’Urbs sacratissima. 72

71 Cic. Pro domo 144; cfr. De leg. II 17, 42; Ad Att. VII 3, 3: Ad fam. XII 25, 1. 72 Amm. Marc. XXVII 3, 3. Un ulteriore simbolo dalla forte valenza «sincretistica» potrebbe essere considerato anche lo scudo, attuale simbolo della città e del Comune di Roma, che riporta a lettere gialle in campo rosso – i colori di Roma, derivati, secondo la tradizione, dall’oro e dal porfido – la celeberrima sigla SPQR. In esso, secondo la nostra prospettiva, sarebbero presenti allo stesso tempo il genius (lo scudo, pur se non un clipeus), la prima divinità «particolare» (Quirinus: la «Q», da intendere come Quiritium – perciò Senatus Popolus(que) Quiritium Romanorum – piuttosto che come l’enclitica -que, come ha ben messo in luce BERNARDI 1979, 209; cfr., secondo un’altra prospettiva, PROSDOCIMI 2009) e il rimando alla seconda, Giove Ottimo Massimo, per il tramite del luogo, il Campidoglio, dove fu dedicato lo scudo al genius urbis Romae, dove si trovava il Tempio Capitolino, e dove, infine, ha sede a partire dal 1143–1144 il governo municipale della città di Roma. Sui simboli di Roma, cfr. RENDINA 2009; in generale sull’importanza dei simboli, ELIADE 1980; PINKUS 1993.

FONTI PRINCIPALI Plin. N. h. XXVIII 18: Verrius Flaccus auctores ponit quibus credatur in obpugnationibus ante omnia solitum a Romanis sacerdotibus evocari deum cuius in tutela id oppidum esset promittique illi eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Et durat in pontificum disciplina id sacrum, constatque ideo occultatum in cuius dei tutela Roma esset, ne qui hostium simili modo agerent. Verrio Flacco prende in considerazione degli autori i quali ritenevano che, in occasione degli assedi, i sacerdoti romani fossero soliti per prima cosa evocare il dio sotto la tutela del quale si trovava quella città e promettergli un culto uguale o più grande presso i Romani. E questo rito permane nella disciplina dei pontefici e per questo motivo si continua a tener nascosto sotto la tutela di quale dio si trovi Roma, affinché qualche nemico non possa comportarsi allo stesso modo. (Trad. mia) Liv. V 21, 1-3: Tum dictator auspicato egressus, cum edixisset ut arma milites caperent, “Tuo ductu”, inquit, “Pythice Apollo, tuoque numine instinctus pergo ad delendam urbem Veios, tibique hinc decimam partem praedae voveo. Te simul, Iuno regina, quae nunc Veios colis, precor ut nos victores in nostram tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua templum accipiat”. Allora il dittatore, dopo aver presi gli auspici, uscito fuori dalla tenda e dato ordine ai soldati di prendere le armi, disse: «Sotto la tua guida, Apollo Pizio, e ispirato dalla tua divina volontà vado a distruggere la città di Veio, e ti prometto in voto la decima parte della preda. Ed insieme a te, o Giunone Regina, che ora abiti in Veio, io supplico di seguire noi vincitori nella nostra città, che tosto sarà anche tua, ove ti accoglierà un tempio degno della tua maestà». (Trad. L. Perelli) Liv. V 22, 3-7: Cum iam humanae opes egestae a Veis essent, amoliri tum deum dona ipsosque deos, sed colentium magis quam rapientium modo, coepere. Namque delecti ex omni exercitu iuvenes, pure lautis corporibus, candida veste, quibus deportanda Romam regina Iuno adsignata erat, venerabundi templum iniere, primo religiose admoventes manus, quod id signum more Etrusco nisi certae gentis sacerdos adtrectare non esset solitus. Dein cum quidam, seu spiritu divino tactus seu iuvenali ioco “Visne Romam ire, Iuno?” dixisset, adnuisse ceteri deam conclamaverunt. Inde fabulae adiectum est vocem quoque dicentis velle auditam;

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motam certe sede sua parvi molimenti adminiculis, sequentis modo accepimus levem ac facilem tralatu fuisse, integramque in Aventinum aeternam sedem suam, quo vota Romani dictatoris vocaverant, perlatam, ubi templum ei postea idem qui voverat Camillus dedicavit. Quando già le ricchezze umane erano state portate via da Veio, cominciarono a rimuovere le cose consacrate agli dei e gli dei stessi, ma a guisa di devoti, non di predoni. Infatti dei giovani scelti da tutto l’esercito, coi corpi lavati e mondi da impurità e in veste candida, cui era stato affidato il compito di trasportare a Roma Giunone Regina, entrarono in atto di venerazione nel tempio, accostando dapprima le mani reverentemente, poiché secondo il rito etrusco nessun altro se non un sacerdote di una determinata gente era solito toccare la statua. Poi, avendo uno di loro detto, sia per ispirazione divina o sia per giovanile scherzo: «Vuoi andare a Roma, o Giunone?», gli altri gridarono che la dea aveva fatto cenno di sì col capo. La leggenda aggiunge essersi udita anche la voce della dea, che affermava di essere disposta a venire: di certo sappiamo che, rimossa dalla sua sede con l’aiuto di un piccolo congegno, fu di facile e lieve trasporto, quasi acconsentisse a venire, e fu collocata intatta nell’Aventino, la sua eterna dimora, dove l’avevano chiamata i voti del dittatore romano; qui lo stesso Camillo che le aveva promesso il tempio più tardi lo consacrò. (Trad. L. Perelli) Val. Max. I 8, 3: Captis a Furio Camillo Veiis milites iussu imperatoris simulacrum Iunonis Monetae, quod ibi praecipua religione cultum erat, in urbem translaturi sede sua movere conabantur, quorum ab uno per iocum interrogata dea an Romam migrare vellet, velle se respondit. Hoc voce audita lusus in admirationem versus est, iamque non simulacrum, sed ipsam caelo Iunonem petitam portare se credentes laeti in ea parte montis Aventini in qua nunc templum eius cernimus, collocaverunt. Dopo che Veio fu conquistata da Furio Camillo, i soldati dietro suo ordine tentavano di spostare dal basamento la statua di Giunone Moneta, che aveva colà una particolare devozione, per trasferirla a Roma. Ironicamente interrogata da uno di loro se volesse emigrare, la dea rispose di si. Udita questa voce, lo scherzo si mutò in ammirazione e i soldati, credendo ormai di portar con sé non la statua, ma Giunone stessa fatta venire giù dal cielo, lietamente la posero in quella parte dell’Aventino, in cui oggi ne vediamo il tempio. (Trad. R. Faranda) Plut. Cam. VI 1-2: Διαπορϑήσας δὲ τὴν πόλιν ἔγνω τὸ ἄγαλμα τῆς ῞Ηρας μεταϕέρειν εἰς ῾Ρώμην ὥσπερ ηὔξατο. Κὰι συνελϑόντων ἐπὶ τούτῳ τῶν τεχνιτῶν, ὁ μὲν ἔϑυε καὶ προσηύχετο τῆ ϑεῷ δέχεσϑαι τὴν προϑυμίαν αὐτῶν καὶ εὐμενῆ γενέσϑαι σύνοικον τοῖς λαχοῦσι τὴν ῾Ρώμην ϑεοῖς. Τὸ δ’ἄγαλμά φασιν ὑποφϑεγξάμενον εἰπεῖν, ὅτι καὶ βούλεται καὶ συγκατανεῖ. Λιούιος δέ φησιν εὔχεσϑαι μὲν τὸν

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Κάμιλλον ἁπτόμενον τῆς ϑεοῦ καὶ παρακαλεῖν, ἀποκρίνασϑαι δέ τινας τῶν παρόντων, ὄτι καὶ βούλεται καὶ συγκαταινεῖ καὶ συνακολουϑεῖ προϑύμως. Dopo il sacco della città Camillo decise di trasferire a Roma la statua di Giunone, secondo il voto. Radunati allo scopo gli operai, cominciò a sacrificare e invocò la dea di gradire il loro zelo e di abitare propizia con gli dei di Roma; la statua allora, dicono, bisbigliò sommessamente che accettava volentieri. Livio racconta, invece, che Camillo pregava e invitava la dea tenendo una mano sulla statua, e alcuni dei presenti risposero ch’essa accettava volentieri e bramava di seguirli. (Trad. C. Carena) Dion. XIII 3, 3: Ὁ αὐτὸς Κάμιλλος ἐπὶ τὴν Οὐιεντανῶν πὸλιν στρατεύων ηὔξατο τῇ βασιλείᾳ Ἤρᾳ τῇ ἐν Οὐιεντανῖος, ἐὰν κρατήσῃ τῆς πόλεως τό τε ξόανον αὐτῆς ἐν Ῥώμῃ καϑιδρύσειν καὶ σεβασμοὺς αὐτῇ καταστήσεσϑαι πολυτελεῖς. ἁλούσης δὲ τῆς πὸλεως ἀπέστειλε τῶν ἱππέων τοὺς ἐπιφανεστάτους ἀρουμένους ἐκ τῶν βάϑρων τὸ ἕδος· ὡς δὲ παρῆλϑον οἱ πεμφϑέντες εἰς τὸν νεὼν καί τις ἐξ αὐτῶν, εἴτε μετὰ παιδιᾶς καὶ γέλωτος εἴτε οἰωνοῦ δεόμενος, εἰ βούλοιτο μετελϑεῖν εἰς Ῥώμην ἡ ϑεός, ἤρετο, φονῇ γεγωνῷ τὸ ξόανον ἐφϑέγξατο ὅτι βούλεται. τοῦτο καὶ δὶς γέγονεν· ἀπιστοῦντες γὰρ οἱ νεανίσκοι, εἰ τὸ ξόανον ἦν τὸ φϑεγξάμενον, πάλιν ἤροντο τὸ αὐτὸ καὶ τὴν αὐτὴν φωνὴν ἤκουσαν. Lo stesso Camillo, conducendo la campagna contro la città di Veio, fece un voto alla Giunone Regina dei Veienti, per cui, se si fosse impossessato della città, avrebbe trasportato la sua statua a Roma e avrebbe disposto dei riti magnifici in suo onore. Dopo aver preso la città egli inviò i più illustri tra gli equites a rimuovere l’idolo dal suo piedistallo; quando quelli che erano stati mandati entrarono nel tempio e uno di loro, o per gioco e scherzo o bramoso di un omen, chiese se la dea volesse venire a Roma, la statua proferì a voce alta che, sì, lo voleva. Per di più ciò avvenne due volte: i giovani infatti, dubitando che fosse stata la statua ad aver parlato, posero di nuovo la stessa domanda e udirono le medesime parole. (Trad. mia) Paul. Fest. 268 L: Peregrina sacra appellantur quae aut evocatis dis in oppugnandis urbibus Romam sunt conlata, aut quae ob quasdam religiones per pacem sunt petita, ut ex Phrygia Matris Magnae, ex Graecia Cereris, Epidauro Aesculapi: quae coluntur eorum more, a quibus sunt accepta. Sono chiamati peregrina sacra o quelli portati a Roma dopo l’evocazione degli dei durante gli assedi delle città, o quelli fatti venire a Roma in tempo di pace per determinate ragioni d’ordine religioso, come dalla Frigia quello della Magna Mater, dalla Grecia quello di Cerere, da Epidauro quello di Esculapio: essi vengono praticati nel modo di coloro, dai quali sono stati adottati. (Trad. mia)

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Serv. Ad Aen. II 244: INSTAMUS TAMEN subaudiendum “quamquam sonitum dederunt, tamen instamus”. INMEMORES inprovidi, aut non memores oraculorum. Quidam inmemores “dementes” accipiunt, quoniam memoria in mente consistit. Sane si peritiam Vergilii diligenter intendas, secundum disciplinam carminis Romani quo ex urbibus hostium deos ante evocare solebant hoc dixit; erant enim inter cetera carminis verba haec, eique populo civitatique metum, formidinem, oblivionem iniciatis; unde bene intulit inmemores caecique furore, tamquam quos dei perdiderant. Con «tuttavia insistiamo» si deve sottintendere: “sebbene essi avessero fatto rumore, tuttavia insistiamo”. Con «incuranti»: “incauti, o non memori degli oracoli”. Alcuni interpretano incuranti con “senza senno”, poiché la memoria ha la sua dimora nella mente. Se miri in maniera davvero approfondita alla conoscenza di Virgilio, egli ha detto ciò conformemente alla disciplina della formula romana con la quale gli dei erano evocati dalle città dei nemici; tra le altre, vi erano infatti nella formula queste parole: «e a quel popolo e alla città infondete timore, paura e oblio»; da ciò ha rettamente inferito «incauti e resi ciechi dalla pazzia», come coloro condotti alla rovina dagli dei. (Trad. mia) Serv. Ad Aen. II 351: EXCESSERE quia ante expugnationem evocabantur ab hostibus numina propter vitanda sacrilegia. Inde est quod Romani celatum esse voluerunt in cuius tutela urbs Roma sit, et iure pontificum cautum est ne suis nominibus dii Romani appellarentur, ne exaugurari possent. Et in Capitolio fuit clipeus consecratus, cui inscriptum erat “genio urbis Romae sive mas sive femina”. Et pontifices ita precabantur: “Iuppiter optime maxime, sive quo alio nomine te appellari volueris”; nam et ipse ait [IV 576] sequimur te, sancte deorum, quisquis es. «Fuggirono» poiché prima della presa della città si evocavano gli dèi nemici al fine di non commettere dei sacrilegi. Perciò i Romani vollero che fosse nascosto sotto la tutela di quale dio si trovi la città di Roma, e nel diritto pontificale si evita di chiamare gli dei romani col proprio nome, perché le loro sedi cultuali non possano essere spostate. E sul Campidoglio fu consacrato uno scudo, sul quale era inciso: «al genio della città di Roma sia esso maschio o femmina». E i pontefici pregavano in questo modo: «O Giove Ottimo Massimo, o in quale altro modo vuoi essere chiamato». E lo stesso [Virgilio] dice [IV 576] ti seguiamo, dio santo, chiunque tu sia. (Trad. mia)

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Serv. Ad Aen. XII 841: MENTEM LAETATA RETORSIT iste quidem hoc dicit; sed constat bello Punico secundo exoratam Iunonem, tertio vero bello a Scipione sacris quibusdam etiam Romam esse translatam. «Rallegrata mutò i suoi sentimenti»: questi dice proprio così; ma è certo che durante la seconda guerra punica Giunone sia stata supplicata con preghiere, e che per di più nella terza sia stata anche portata a Roma insieme a certi altri sacra. (Trad. mia) Macr. Sat. III 9, 1-15: [1] “Excessere omnes adytis arisque relictis / di, quibus imperium hoc steterat” [Aen. II, 351-352] et de vetustissimo Romanorum more et de occultissimis sacris vox prolata est. [2] Constat enim omnes urbes in alicuius dei esse tutela, moremque Romanorum arcanum et multis ignotum fuisse ut, cum obsiderent urbem hostium, eamque iam capi posse confiderent, certo carmine evocarent tutelares deos, quod aut aliter urbem capi posse non crederent, aut etiam, si posse, nefas aestimarent deos habere captivos. [3] Nam propterea ipsi Romani et deum, in cuius tutela urbs Roma est, et ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt. [4] Sed dei quidem nomen non nullis antiquorum, licet inter se dissidentium, libris insitum et ideo vetusta persequentibus, quicquid de hoc putatur, innotuit. Alii enim Iovem crediderunt alii Lunam, sunt qui Angeronam, quae digito ad os admoto silentium denuntiat, alii autem quorum fides mihi videtur firmior, Opem Consivam esse dixerunt. [5] Ipsius vero urbis nomen etiam doctissimis ignoratum est, caventibus Romanis, ne quod saepe adversus urbes hostium fecisse se noverant, idem ipsi quoque hostili evocatione paterentur, si tutelae suae nomen divulgaretur. [6] Sed videndum ne quod non nulli male aestimaverunt nos quoque confundat opinantes uno carmine et evocari ex urbe aliqua deos, et ipsam devotam fieri civitatem. Nam repperi in libro quinto rerum reconditarum Sammonici Sereni utrumque carmen, quod ille se in cuiusdam Furii vetustissimo libro repperisse professus est. [7] Est autem carmen huius modi quo di evocantur cum oppugnatione civitas cingitur: “Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti, precor venerorque veniamque a vobis peto, ut vos populum civitatemque Carthaginiensem deseratis, loca templa sacra urbemque relinquatis, [8] absque his abeatis, eique populo civitati metum formidinem oblivionem iniciatis, proditique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique populo Romano militibusque meis propitii sitis, ut sciamus intellegamusque. Si ita feceritis, voveo vobis templa ludosque facturum”. [9] In eadem verba hostias fieri oportet auctoritatemque videri extorum, ut ea promittant futura. Urbes vero exercitusque sic devoventur iam numinibus evocatis, sed dictatores imperatoresque soli possunt devovere his verbis: [10] «Dis pater, Veiovis, Manes, sive quo alio nomine fas est nominare, ut omnes illam urbem Carthaginem exercitumque quem

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ego me sentio dicere fuga formidine terrore compleatis quique adversum legiones exercitumque nostrum arma telaque ferent, uti vos eum exercitum eos hostes eosque homines urbes agrosque eorum et qui in his locis regionibusque agris urbibusque habitant abducatis, lumine supero privetis exercitumque hostium urbes agrosque eorum quos me sentio dicere, uti vos eas urbes agrosque capita aetatesque eorum devotas consecratasque habeatis ollis legibus quibus quandoque sunt maxime hostes devoti. [11] Eosque ego vicarios pro me fide magistratuque meo pro populo Romano exercitibus legionibusque nostris do devoveo, ut me meamque fidem imperiumque legiones exercitumque nostrum qui in his rebus gerundis sunt bene salvos siritis esse. Si haec ita faxitis ut ego sciam sentiam intellegamque, tunc quisquis votum hoc faxit ubiubi faxit recte factum esto ovibus atris tribus: < te,> Tellus mater, teque, Iuppiter, obtestor». [12] Cum Tellurem dicit, manibus terram tangit; cum Iovem dicit, manus ad caelum tollit; cum votum recipere dicit, manibus pectus tangit. [13] In antiquitatibus autem haec oppida inveni devota: Stonios†, Fregellas, Gavios, Veios, Fidenas; haec intra Italiam, praeterea Carthaginem et Corinthum, sed et multos exercitus oppidaque hostium Gallorum Hispanorum Afrorum Maurorum aliarumque gentium quas prisci loquuntur annales. [14] Hinc est ergo quod propter huius modi evocationem numinum discessionemque ait Vergilius: «excessere omnes adytis arisque relictis di», et ut tutelares designaret, adiecit «quibus imperium hoc steterat». [15] Utque praeter evocationem etiam vim devotionis ostenderet, in qua praecipue Iuppiter, ut diximus, invocatur, ait: «... ferus omnia Iuppiter Argos / transtulit. [Aen. II, 326-327]. [1] “Uscirono tutti, lasciati i templi e gli altari, / gli dèi su cui si reggeva questo impero” [Aen. II, 351-352]. L’espressione è desunta da un’antichissima usanza dei Romani e dai più segreti misteri sacri. [2] È noto che tutte le città si trovano sotto la protezione di un dio. Fu usanza dei Romani, segreta e sconosciuta a molti, che, quando assediavano una città nemica e confidavano ormai di poterla conquistare, ne chiamassero fuori gli dèi protettori con una determinata formula di evocazione; e ciò o perché ritenevano di non potere altrimenti conquistare la città o, anche se fosse possibile, giudicavano sacrilegio prendere prigionieri gli dèi. [3] Questo è anche il motivo per cui i Romani vollero che rimanesse ignoto il dio sotto la cui protezione è posta la città di Roma e il nome latino della città stessa. [4] In verità il nome del dio si trova in alcuni libri di antichi autori, per quanto discordi fra loro, e quindi gli studiosi dell’antichità riuscirono a conoscere ogni opinione in proposito: alcuni lo credettero Giove, altri Luna, certuni Angerona, che con un dito sulla bocca intima silenzio; altri infine, e questa mi sembra credenza più fondata, affermano trattarsi di Ope Consivia. [5] Invece il nome della città è sconosciuto anche ai più dotti, poiché i Romani presero ogni precauzione: volevano evitare, in caso di divulgazione del nome tutelare, di dover subire, in seguito ad evocazione dei nemici, ciò che sapevano di aver fatto spesso nei confronti di città nemiche. [6] Però bisogna stare attenti a non incorrere nell’errore commesso da alcuni, ritenendo che un’unica formula servisse per evocare gli dèi da una città e renderla maledetta [meglio: «votarla sacralmente»].

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Nel libro V delle Curiosità di Sereno Sammonico ho trovato l’una e l’altra formula di incantesimo: ed egli dichiara di averle rinvenute in un antichissimo libro di un certo Furio. [7] Ed ecco la formula usata per evocare gli dèi quando si cinge d’assedio la città: «Il dio o la dea sotto la cui protezione si trova il popolo o lo stato cartaginese, e te soprattutto che accogliesti sotto la tua protezione questa città e questo popolo, io prego e venero, e vi chiedo questa grazia: abbandonate il popolo e lo stato cartaginese, lasciate i loro luoghi, templi, riti e città, [8] allontanatevi da essi e incutete al popolo e allo stato timore, paura, oblio, e venite propizi a Roma da me e dai miei, e i nostri luoghi, templi, riti e città siano a voi più graditi e cari, e siate propizi a me, al popolo romano e ai miei soldati. Se farete in modo che sappiamo e comprendiamo, vi prometto in voto templi e giochi». [9] A queste parole bisogna far seguire immolazione di vittime e consultazione di visceri che ne garantiscano di future. Quando poi sono già state evocate le divinità, si pronuncia la maledizione sulle città e sugli eserciti, ma possono farlo soltanto i dittatori e i generali con le seguenti parole: [10] «O padre Dite, Veiove, Mani, o con qualsiasi altro nome sia lecito nominarvi, riempite di fuga, di paura e di terrore tutti, la città di Cartagine e l’esercito, che io intendo dire, e quelli che porteranno armi e dardi contro le nostre legioni e il nostro esercito, portate via con voi quell’esercito, quei nemici e quegli uomini, le loro città e i loro campi e quelli che abitano in questi luoghi e regioni, nei campi e nelle città, privateli della luce del sole, e così l’esercito nemico, le città e i campi di coloro che io intendo dire, e voi considerate maledette e a voi consacrate quelle città e quei campi, le persone e le generazioni, secondo le leggi e i casi per cui soprattutto son maledetti i nemici. [11] Io li do e li consacro in voto come sostituti per me, per la mia persona e la mia carica, per il popolo romano, per il nostro esercito e le nostre legioni, affinché lasciate sani e salvi me, la mia persona e il mio comando, le nostre legioni e il nostro esercito impegnati in questa impresa. Se farete ciò in modo che io sappia, intenda e capisca, allora chiunque farà questo voto, dovunque lo faccia, sarà valido se compiuto con tre pecore nere. < Te, > madre Terra, e te, Giove, prendo a testimoni». [12] Quando nomina la Terra, tocca la terra con le mani; quando nomina Giove, alza le mani al cielo; quando dice di impegnarsi nel voto, si tocca il petto con le mani. [13] Mi risulta che nei tempi antichi furono maledette le seguenti città: Stonios†, Fregelle, Gavi, Veio, Fidene, entro i confini d’Italia; inoltre Cartagine e Corinto, e molti altri eserciti e città nemiche in Gallia, in Spagna, in Africa, in Mauretania e in altre regioni, di cui parlano gli antichi annali. [14] Di qui dunque ha origine la frase di Virgilio per questa evocazione e spostamento di divinità: «uscirono tutti, lasciati i templi e gli altari, gli dèi...»; e per indicare che si trattava di numi tutelari, aggiunse: «su cui si reggeva questo impero». [15] E per mostrare, oltre all’evocazione, anche la forza della maledizione, in cui, come abbiamo detto, si invoca specialmente Giove, dice: «...l’aspro Giove ad Argo tutto / trasferì» [Aen. II, 326-327]. (Trad. N. Marinone, con modifiche mie)

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Iscrizione di Isaura Vetus: Serveilius C(aii) f(ilius) imperator, / hostibus victeis, Isaura Vetere / capta, captiveis venum dateis, / sei deus seive deast, quoius in / tutela oppidum vetus Isaura / fuit, [x] votum solvit. Servilio, figlio di Caio, imperator, sconfitti i nemici, conquistata la città di Isaura Vetus, messi in vendita i prigionieri, a quella divinità, sia essa un dio o una dea, sotto la cui tutela si trovava la città di Isaura Vetus, [x] scioglie il voto. (Trad. mia) Plut. Q. R. 61: «Διὰ τί τὸν ϑεὸν ἐκεῖνον, ᾧ μάλιστα τὴν Ῥώμην σῴζειν προςήκει καὶ φυλάττειν, εἴτ’ ἐστὶν ἄρρην εἴτε ϑήλεια, καὶ λέγειν ἀπείρηται καὶ ζητεῖν καὶ ὀνομάζειν; ταύτην δὲ τὴν ἀπόρρησιν ἐξάπτουσι δεισιδαιμονίας, ἱστροῦντες Οὐαλέριον Σωρανὸν ἀπολέσϑαι κακῶς διὰ τὸ ἐξειπεῖν». Πότερον, ὡς τῶν Ῥωμαϊκῶν τινες ἱστορήκασιν, ἐκκλήσεις εἰσὶ καὶ γοητεῖαι ϑεῶν, αἷς νομίζοντες καὶ αὐτοὶ ϑεούς τινας ἐκκεκλῆσϑαι παρὰ τῶν πολεμίων καὶ μετῳκηκέναι πρὸς αὑτοὺς ἐφοβοῦντο τὸ αὐτὸ παϑεῖν ὑϕ’ ἑτέρων; ὥσπερ οὖν Τύριοι δεσμοὺς ἀγάλμασι λέγονται περιβαλεῖν, ἕτεροι δ’ αἰτεῖν ἐγγυητὰς ἐπὶ λουτρὸν ἢ καϑαρμόν τινα προπέμποντες, οὕτως ᾤοντο Ῥωμαῖοι τὸ ἄρρητον καὶ τὸ ἄγνωστον ἀσφαλεστάτην εἶναι ϑεοῦ καὶ βεβαιοτάτην φρουράν. Ἢ καϑάπερ Ὁμήρῳ πεποίηται τὸ γαῖα δ’ ἔτι ξυνὴ πάντων ὅπως οἱ ἄνϑρωποι τοὺς ϑεοὺς πάντας σέβωνται καὶ τιμῶσι τὴν γῆν κοινῶς ἔχοντας, οὕτως ἀπεκρύψαντο τὸν κύριον τῆς σωτηρίας οἱ παλαιοὶ Ῥωμαῖοι, βουλόμενοι μὴ μόνον τοῦτον ἀλλὰ πάντας ὑπὸ πολιτῶν τοὺς ϑεοὺς τιμᾶσϑαι; Per quale motivo di quel dio, sia esso maschio o femmina, al quale in special modo spetta custodire e proteggere Roma, è proibito parlare e cercare di conoscere e nominare? [I Romani] connettono questo divieto allo scrupolo religioso, raccontando che Valerio Sorano andò malamente in rovina per averlo rivelato. È forse perché, come ci assicurano alcuni scrittori di cose romane, che ci siano invocazioni e incantamenti degli dei per i quali, ritenendo che alcuni dèi dei nemici siano stati evocati e si siano stabiliti presso di loro, temevano di patire lo stesso da parte di altri? Come infatti dei Tirii si dice che ponessero delle catene alle statue dei culti propri o di quelli altrui per assicurarle quando le facevano uscire per i bagni o per altre purificazioni, così i Romani ritenevano che il modo migliore e più sicuro di conservarsi un dio, fosse di tenerlo innominato e ignorato. O, come scrive Omero: «La Terra a tutti gli dèi è comune, grande e piccola» [Il. XV, 193], nel senso che gli uomini dovrebbero riverire e onorare tutti gli dèi, dappoiché condividono la terra con loro, così gli antichi Romani tenevano nascosta la divinità responsabile della loro sicurezza per il desiderio che non solo quel dio, ma tutti, venissero onorati dai cittadini? (Trad. mia e di G. Colonna di Cesarò)

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Serv. Ad Georg. I 498: Nam verum nomen eius numinis, quod urbi Romae praeest, sciri sacrorum lege prohibetur: quod ausus quidam tribunus plebis enuntiare in crucem levatus est. Infatti il vero nome di quel nume, che protegge la città di Roma, è proibito sapere per legge dei sacra: per aver osato pronunciarlo un certo tribuno della plebe fu levato sulla croce. (Trad. mia) Plin. N. h. III 65: Superque Roma ipsa, cuius nomen alterum dicere arcanis caerimoniarum nefas habetur, optimaque et salutari fide abolitum enuntiavit Valerius Soranus luitque mox poenas. Non alienum videtur inserere hoc loco exemplum religionis antiquae ob hoc maxime silentium institutae, namque diva Angerona, cui sacrificatur a.d. XII kal. Ian., ore obligato obsignatoque simulacrum habet. Inoltre la stessa Roma, il cui altro nome è ritenuto sacrilego dire nei misteri cerimoniali, abolito per opportuna e utile sicurezza rivelò Valerio Sorano e subito dopo ne pagò il fio. Non appare inopportuno citare qui un esempio di un antico culto disposto precisamente per questo silenzio, infatti la dea Angerona, cui si sacrifica il dodicesimo giorno prima delle calende di gennaio [il 21 dicembre], è rappresentata nel suo simulacro con la bocca fasciata da una benda. (Trad. mia) Serv. Ad Aen. I 277: Urbis enim illius verum nomen nemo vel in sacris enuntiat. Denique tribunus plebei quidam Valerius Soranus, ut ait Varro et multi alii, hoc nomen ausus enuntiare, ut quidam dicunt, raptus a senatu et in crucem levatus est, ut alii, metu supplicii fugit et in Sicilia comprehensus a praetore praecepto senatus occisus est. Infatti nessuno pronuncia il nome di quella città persino durante i riti. Infine un certo tribuno della plebe, un certo Valerio Sorano, come sostiene Varrone e molti altri, osò pronunciare questo nome, cosicché alcuni dicono che sia stato arrestato dal senato e levato sulla croce, mentre altri che per paura della pena sia fuggito e, catturato in Sicilia dal pretore su ordine del senato, sia stato ucciso. (Trad. mia) Solin. I 4-6: Traditur etiam proprium Romae nomen, verum tamen vetitum publicari, quoniam quidem quo minus enuntiaretur caerimoniarum arcana sanxerunt, ut hoc pacto notitiam eius aboleret fides placitae taciturnitatis, Valerium denique Soranum, quod contra interdictum eloqui id ausus foret, ob meritum profanae vocis neci datum. Inter antiquissimas sane religiones sacellum colitur Angeronae, cui sacrificatur ante diem XII k. Ian.; quae diva praesul silentii ipsius praenexo obsignatoque ore simulacrum habet. Si tramanda anche un nome autentico di Roma, che tuttavia si vietò di render noto, poiché a dire il vero furono rese inviolabili le parti segrete dei cerimoniali

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perché esso [nome] non fosse divulgato, sì che con questo accorgimento la convinzione dell’opportunità di un tranquillo silenzio portasse all’oblio di quell’informazione; e infine (si tramanda che) Valerio Sorano, per il fatto che avrebbe osato pronunciarlo, in barba al divieto, sia stato messo a morte per effetto del suo sacrilegio. (Trad. M. Malavolta)

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261

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INDICE RINGRAZIAMENTI ………………………………………………………...

3

PREFAZIONE ………………………………………………………………

5

1. INTRODUZIONE ………………………………………………………… 1.1. CONSIDERAZIONI SULLA GUERRA NEL MONDO ANTICO … 1.2. ROMA E L’INTRODUZIONE DI NUOVI CULTI ……………..…

21 21 23

PARTE PRIMA: Evocatio deorum ………………………………………...

27

2. L’EVOCATIO ROMANA …………...…………………………………… 2.1. IL RITO ……………………………………………………………… 2.1.1. Caratteristiche e scopi ………………………………………….. 2.2. PEREGRINA SACRA ……………………………………………….. 2.2.1. L’importazione di culti stranieri a Roma …..…………………… 2.2.2. Statue “parlanti” e politica …………………….... 2.3. FREQUENZA DELL’EVOCATIO: RITO «BANALE» O «ESTREMO»? …………………………………………....................... 2.4. EVOCATIO–INTERPRETATIO ……………………………………...

29 29 29 33 33 38 39 42

3. GIUNONE ………………………………………………………………..

47

3.1. UNA DIVINITÀ “SCONCERTANTE” ……….…………………… 3.1.1. Le origini ………………………………………………………. 3.1.2. Una figura divina complessa …………………………………… 3.1.3. Un’ostilità ricorrente ……………………………………………

47 47 48 53

4. GIUNONE REGINA ……………………………………………………..

55

4.1. LA GUERRA CONTRO VEIO …………………………………….. 4.1.1. Una premessa sulla cronologia ………………………………… 4.1.2. Una guerra «epocale» ………………………………………….. 4.1.3. Marco Furio Camillo “eroe culturale” …………………………. 4.1.4. L’evocatio di Giunone Regina …………………………………. 4.1.5. L’episodio del taglio degli exta.………………………………… 4.1.6. Intervento dei iuvenes …………………………………………. 4.1.7. Le valutazioni liviana e plutarchea degli eventi prodigiosi ……. 4.1.8. Evocatio in due fasi? …………………………………………... 4.2. DOPO VEIO ………………………………………………………… 4.2.1. Conseguenze della vittoria ……………………………………..

55 55 57 63 58 70 72 74 75 77 77

264

INDICE

4.2.2. Due Regine a Roma? …………………………………………… 4.2.3. “Pericolosità” di Giunone durante la seconda guerra punica ..…

78 82

5. GIUNONE CELESTE ……………………………………………………

87

5.1. UNA DEA NEMICA ………………………………..……………… 5.1.1. Ancora sull’avversione di Giunone nei confronti dei Romani …. 5.1.2. L’exoratio nel corso della seconda guerra punica ……………… 5.1.3. L’evocatio alla fine della terza guerra punica ………………….. 5.2. STORICITÀ DELL’EVOCATIO ……………………………………. 5.2.1. La testimonianza di Macrobio …………………………………. 5.2.2. Analisi del carmen evocationis ………………………………… 5.2.2.1. Si deus si dea .……………………..………………………. 5.2.2.2. Precor venerorque ................................................................ 5.2.2.3. Ut vos populum civitamque Carthaginiensem deseratis ….. 5.2.2.4. Si ita feceritis ………………………………………………. 5.2.2.5. In eadem verba hostias fieri oportet ………………………. 5.3. DOPO CARTAGINE ……………………………………………….. 5.3.1. Il problema del trasporto della statua di culto ………………….. 5.3.2. La Tanit cartaginese e l’interpretatio della dea Roma …………. 5.4. IL RAPPORTO TRA EVOCATIO E DEVOTIO ………………….....

87 87 88 90 91 91 94 96 96 97 99 100 101 101 102 106

6. GIUNONE CURITE ………………………………………………..….… 109 6.1. LA DIVINITÀ TUTELARE DI FALERII VETERES …….…….…... 6.1.1. La dimora della dea ……………………………………….….… 6.1.2. L’epiteto ……………………………………………………..…. 6.1.3. Il culto ………………………………………………………..… 6.2. LA PROBABILE EVOCATIO DELLA DEA ………………………. 6.2.1. La guerra del 241 a. C. ………………………………………… 6.2.2. Il culto successivo a Roma e a Falerii …………………………

109 109 109 112 114 114 116

7. MINERVA CAPTA ……………………………………………………… 119 7.1. UNA DEA PRIGIONIERA? ……………………………………….. 7.1.1. Un problema spinoso …………………………………………… 7.1.2. Era possibile prendere prigionieri gli dèi? ……………………… 7.1.3. Un tentativo di interpretazione …………………………………

119 119 120 121

8. VOLTUMNA – VORTUMNO ………………………………….............. 125 8.1. LA DIVINITÀ TUTELARE DI VOLSINII …………………………. 8.1.1. Vortumnus: l’etimologia del nome …………………………….. 8.1.2. Il sito di Volsinii e la storia della città fino al 265 a. C. ……….. 8.1.3. Il Fanum Voltumnae ………………………………………….. 8.1.4. Voltumna ……………………………………………………… 8.2. IL RAPPORTO TRA VOLTUMNA E VORTUMNUS ………………

125 125 126 129 130 131

INDICE

8.2.1. Un’identità originaria? ………………………………………… 8.2.2. Una chiave di lettura: l’ubicazione del tempio sull’Aventino …. 8.2.3. Sulla probabilità di un’evocatio di Voltumna ………………….. 8.2.4. (Un) Giove etrusco? ..………………………………………….. 8.2.5. Voltumna–Vortumnus: interpretazione, sovrapposizione e identità ………………………………………………………….

265 131 135 138 139 141

9. LA DIVINITÀ TUTELARE DI ISAURA VETUS ……………………….. 145 9.1. UN ALTRO CASO DI EVOCATIO? ……………………………..… 9.1.1. L’iscrizione ……………………………………………………... 9.1.2. Probabilità di un’evocatio ……………………………………… 9.1.3. Considerazioni metodologiche …………………......................... 9.1.4. Sul mantenimento della formula sive deus sive dea nell’iscrizione ………………………………………………….. 10. RIFLESSIONI CONCLUSIVE …………………….………………….. 10.1. QUALI DIVINITÀ VENIVANO EVOCATE? ……………………. 10.1.1. Caratteristiche principali ……………………………………… 10.1.2. Le grandi figure divine dei sistemi politeistici ……………….. 10.1.3. Giunone: il significato di una “scelta” ………………………… PARTE SECONDA: La divinità tutelare cittadina nella religione romana

145 145 145 148 149 151 151 151 152 154 157

11. IL GENIUS E LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA …….……..…… 159 11.1. IL GENIUS NELLA RELIGIONE ROMANA ………….................. 11.1.1. Nota preliminare ………………………………………............ 11.1.2. Caratteristiche e peculiarità del genius ……………….….......... 11.1.3. Genii–iunones: un parallelismo originario? …………………… 11.2. LA FORMULA SIVE DEUS SIVE DEA ……………….…………. 11.2.1. Le attestazioni ………………………………………….…..… 11.2.2. In merito alla «divinizzazione» del luogo ………………..…... 11.2.3. Dal genius personale al genius loci ………………………….... 11.2.4. Significato e uso della formula sive deus sive dea ……………. 11.2.5. La formula nel carmen evocationis: a quale divinità ci si riferisce? ………………………………………………………

159 159 159 162 163 163 166 169 173 179

12. LA DIVINITÀ TUTELARE SEGRETA DI ROMA ……………….…… 185 12.1. I TENTATIVI DI IDENTIFICAZIONE ………………………….. 12.1.1. Le fonti ………………………………………………..………. 12.1.2. Luna ………………………………………………….………. 12.1.3. Ops Consiva ………………………………………….………. 12.1.4. Angerona ………………………………………..……………. 12.1.5. Pales …………………………………………….….….……...

185 185 187 187 188 190

266

INDICE

12.1.6. Vesta ……………………………………………….…………. 191 12.1.7. Altre ipotesi ………………………………………….………… 193 13. IL VINCOLO TRA ROMA E I PROPRI DÈI ………….………………. 195 13.1. UN LEGAME INSCINDIBILE ……………….…………………... 13.1.1. Hic manebimus optime ………………………………………… 13.2. I SIMBOLI …………………………………….…………………... 13.2.1. Il Campidoglio ………………………………………………... 13.2.2. I pignora imperii ……………………………………………… 13.2.3. Il concetto di pignus nel Cristianesimo ……………………… 13.2.4. Pignora e translatio imperii …………………………………...

195 195 198 198 199 202 204

14. IL SEGRETO …………………………………………….………..…… 207 14.1. PROSPETTIVA SOCIOLOGICA E MORFOLOGIA …………… 207 14.2. IL SEGRETO A ROMA …………………………………………… 208 15. UN MISTERO «ROMANO» ……………………………………………. 211 15.1. PROLEGOMENI ………………………………………………….. 15.2. IL GENIUS URBIS ROMAE ……………………………………….. 15.2.1. La vera divinità tutelare segreta di Roma? ……………………. 15.2.2. Dal genius alla dea «di» Roma ………………………...………

211 215 215 220

FONTI PRINCIPALI ………………………...………………….…………

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P O T S DA M E R A LT E RT U M S W I S S E N S C H A F T L I C H E B E I T R ÄG E

Herausgegeben von Pedro Barceló, Peter Riemer, Jörg Rüpke und John Scheid.

Franz Steiner Verlag

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ISSN 1437–6032

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