Tra morfologia e sintassi di lingue classiche


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Tra morfologia e sintassi di lingue classiche

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NUOVA COLLANA DI LINGUISTICA diretta da Riccardo Ambrosini

6 NENNEN

RICCARDO

AMBROSINI

IRA

MORFOLOGIA E SINTASSI DI LINGUE CLASSICHE

E GIARDINI EDITORI E STAMPATORI IN PISA

NUOVA COLLANA DI LINGUISTICA diretta da Riccardo Ambrosini

6.

RICCARDO

AMBROSINI

IRA MORFOLOGIA E SINTASSI DI LINGUE CLASSICHE

E

GIARDINI EDITORI E STAMPATORI IN PISA

Questo volume é stato pubblicato con un contributo del Consiglio Nazionale delle Ricerche

PROPRIETÀ RISERVATA

Caelum,

non animum

mutant,

qui trans mare currunt

Orazio, Epist. 111 27 L'autentico progresso della ricerca non consiste tanto nell'accumulazione dei risultati e nella loro custodia in «manuali», quanto piuttosto nei problemi concernenti la costituzione fondamentale

dei singoli àmbiti,

que-

stioni che per lo piü nascono come contraccolpo della accresciuta

conoscenza

delle

cose.

M. HEIDEGGER, Seind und Zeit, p. 9.

Nelle pagine che seguono ho raccolto due lavori tra i quali intercorrono circa vent'anni. Il primo riproduce, senza modifiche di rilievo, il testo di un corso di lezioni di glottologia, che ho tenuto all'Università di Cagliari nell'anno accademico 1965-66. Indubbiamente poco adatte a memorizzarsi (come mi fece opportunamente notare Benedetto Marzullo, del quale avevo la fortuna di essere allora collega), queste lezioni costituivano uno sviluppo dei temi che avevo affrontato dapprima nella mia tesi di laurea — del 1949 — sulla formazione della diatesi passiva nelle lingue indo-europee (della quale conservo 1l ricordo ma non il testo) e poi nell'articolo sulle Concordanze nella struttura formale delle categorie verbali indo-europee, del 1962. Nella primavera del 1966 circolarono — quasi adespote, almeno nella mia copia, tranne che nell'ovvietà dei riferimenti a miei lavori precedenti

e, in particolare, alle Concordanze appena ricordate - in un ciclostilato formalmente corretto anche grazie alla attenta revisione di Paolo Ramat,

validissimo

mio

collaboratore di allora.

Per un tempo

non

breve rimasero ad ingiallire nella mia libreria, dimenticate -- almeno credo — da tutti e certamente da me stesso. Alcuni anni fa ebbi occasione di parlarne e di farle leggere al collega Enrico Campanile, che mi esortó a toglierle dalla forma, direi, clandestina nella quale sopravviveva l'unica copia che me ne era rimasta — e della quale io abbia notizia. Anche per questo suo consiglio, del quale lo ringrazio, mi sono deciso a presentare in una veste meno provvisoria riflessioni che, anche a mio parere, possono ancora interessare chi si occupa di problemi di ricostruzione linguistica e, in particolare, di problemi collegati con la morfo-sintassi del verbo indo-europeo. Proprio quest'argomento prendevo a dimostrazione di un'ipotesi che, sulla scia delle idee di Émile Benveniste, a me giunte allora attraverso 1] mio Maestro Tristano Bolelli, avevo affrontata nella tesi, per rielaborarla nelle Concordanze che da quella sostanzialmente derivano - l'ipotesi, cioe, del funzionalizzarsi di elementi formali o

assolutamente aspecifici o destinati precedentemente a funzioni diverse da quelle in cui li si colgono in strutture verbali di lingue indoeuropee. Questo «morfemizzarsi» — mi si permetta il neologismo -di tratti dei quali puó supporsi, ripeto, che precedentemente o fossero aspecifici o avessero pertinenza diversamente orientata mi appariva allora caratteristico di un'evoluzione da un «piano morfologico» ad un «piano sintattico», all'interno del quale solamente si sarebbe potuto parlare di un avvenuto cambio linguistico, non perché fossero mutate talune «intenzioni espressive» ma perché in esso tali «intenzioni» trovavano -- per motivi forse collegati alla forma della trasmissione dei testi o alla loro stessa maggior quantità — una più netta

10

e ricca possibilità di differenziazione funzionale. Il confronto tra strutture formali diverse, per di piü utilizzate presumibilmente con funzioni diverse — ed in parte destinate a rimanere oscure quanto al loro contenuto - nella preistoria e nella stessa storia di una lingua o di piü lingue tra loro imparentate, mi permetteva di sperimentare nell'àmbito del sistema verbale indo-europeo la validità della ipotesi jakobsoniana dello «strutturalismo diacronico», allora abbastanza nuova e, successivamente, tanto intuitivamente accettata quanto non

sempre perspicuamente dimostrata. Riguarda la sintassi di lingue classiche, e del greco in particolare, l'articolo che chiude questa raccolta. Pur piü recente di una ventina di anni, si collega al precedente perché le ipotesi che vi sono discusse, relative a interpretazioni «complessive» (o «retrospettive») di elementi sintattici, indipendentemente dalla loro lettura successiva, ed

all'uso — in greco soprattutto — di casi, per cosi dire «profondi», fanno presumere che la non diretta aderenza tra il piano formale (anche sintattico) ed il piano interpretativo, di ordine semantico, sia

un'esemplificazione ulteriore dell'intervento di criteri «dinamici» — necessariamente interpretativi — sulla struttura data volta per volta dalla forma di una lingua. Riflettendo su queste analogie tra 1 modi di impostare i problemi pur a distanza di tempo -- complessivamente, circa un quarantennio, all'inizio del quale la linguistica non aveva il rilievo che avrebbe successivamente assunto — mi viene da chiedere se l'apparente immobilità delle strutture linguistiche — per la quale sembrano cambiare forme e distribuzioni ma non la sostanza, certamente necessaria, delle

funzioni — sia l'effetto di un giudizio soggettivo sull'oggetto indagato. Ció che alimenta miei ulteriori dubbi sull'effettività realtà della realtà scientifica, per riecheggiare infine il nome che ho dato ad un problema (di ordine in certo modo trascendentale) del quale mi sono occupato, indubbiamente senza risolverlo, una decina di anni fa.

S. Concordio di Moriano, primavera 1987

I DAL PIANO FORMALE A QUELLO FUNZIONALE NELLO STRUTTURARSI DELLE CATEGORIE VERBALI INDO-EUROPEE* 0.1. «Ciö che il comparatista deve cercare nella linguistica strutturale non sono dei mezzi preparati da altri al suo uso e che egli possa utilizzare senza mutare gran che il suo comportamento tradizionale, ma, invece, nuove abitudini di pensiero che gli permetteranno di «gerarchizzare» i fatti non secondo un arbitrio proprio o nazionale — dettatogli, cioè, dall'esperienza idiolettica — ma secondo le indicazioni stesse dell'oggetto della ricerca. Ció lo libererà dalla tirannia del particolare, fonte di ristagno, dal timore che si prova a volte di fronte alla molteplicità ed all'accavallarsi dei fatti della lingua, perché sul fondo confuso dei dati bruti si schiuderannoi tratti essenziali della struttura che offriranno, per la ricerca ulteriore, un quadro adeguato all'oggetto». Cosi concludeva A. Martinet una conferenza tenuta nel 1956 all’Istituto di Linguistica di Parigi e nello stesso anno pubblicata nei «Travaux» dell'Istituto stesso (pp. 7-21). Queste conclusioni acutamente distinguono l'operare della linguistica comparativa tradizionale da quello della linguistica di impianto strutturale: ci é sembrato, perció, opportuno riportarle prima di esporre in forma comparata le linee essenziali della struttura diacronica del verbo indo-europeo, ed in particolare di quello greco e latino. Il lettore troverà qui un materiale a lui familiare, ma sottoposto ad una serie di osservazioni e ad una sistemazione generale non sempre corrispondente a quella cui lo hanno abituato le grammatiche correnti. Per tal motivo l'esposizione *.

Abbreviature principali:

al. — antico indiano airl. = antico irlandese . apers. = antico persiano asl. = antico slavo ecclesiastico fal. = falisco gr. = greco le. = indo-europeo ipf. = imperfetto

lat. = latino lit. = lituano o. = osco pcpf. = piucchepperfetto pl. = plurale pret. = preterito SCr. = sanscrito sg. = singolare

ipv. = imperativo

toc. = tocario

itt. = ittita

12 che qui segue — e che non pretende di esaurire il problema, ma soltanto di indicare alcuni tra i piü importanti elementi di concordanza strutturale — non é rivolta soltanto alla discussione minuta dei fatti o ad un'analisi, per cosi dire, anatomica del materiale, da valutarsi come statica realtà oggettiva, ma cerca di cogliere l'articolarsi stesso di questa realtà attraverso la distribuzione ed il succedersi delle opposi-

zioni che la differenziano dall'interno. Non si trascurano né si sottovalutano i dati della linguistica tradizionale: si guardano, peró, sotto una luce diversa e — speriamo -- interessante per 1] lettore. 0.2.! Le lingue ie. piü arcaiche distinguono le desinenze personali in «primarie» e «secondarie», di cui, all'ingrosso, le prime caratterizza-

no il presente, le seconde il passato. Dove l'accordo formale tra le diverse lingue manca, si é indotti a supporre che si siano avute alcune diffusioni di determinate desinenze al di fuori dell'àmbito probabilmente piü antico, con una neutralizzazione della funzione distintiva delle desinenze stesse. Ad es., le desinenze di 1* plurale in -men del greco e quelle in -mus del latino non distinguono immediatamente il presente dal passato, come invece quelle dell'ittita (pres. 1* plur. att. -m/weni, pret. — w/men) o dell'indiano antico (1* plur. pres. att. -mas, 1? plur. ipf., aor. att. -ma). Dove, invece, l'accordo tra le diverse lingue esiste, la distinzione

tra desinenze primarie e secondarie ἃ assicurato dall'aggiunta di -i alle desinenze secondarie per formare le primarie. Lo dimostrano le forme ai. d-bharat «portava», bhárati «egli porta»; questo rapporto semplice,

evidente nella flessione dell’attivo,

è oscurato al medio

quando si interpreta la coppia ai. d-bharata «era portato,» bhdrate «è portato», come se le due forme provenissero rispettivamente da *ebhereto e da *bheretai, o meglio *bhereta-i, con -a invece di -o di fronte all’; addizionale. Però è stato recentemente dimostrato che le forme greche in -sai, -tai, -ntai, che avevano indotto a ricostruire *bheretai e affini, con a e non con o, dovevano probabilmente il timbro a ad

un'estensione analogica della desinenza -ai della prima persona media «primaria». Si puó, quindi, ricostruire il sistema seguente:

1.

*e-bhere-t

*bhere-t-i

*e-bhere-to

*bhere-to-i.

Il contenuto di questo paragrafo e del seguente è tratto dall'art. cit. di A. Marti-

net. Si veda anche M. S. RurPférez, Desinencias medias primarias ie., «Emerita», 20 (1952), pp. 8 ss.

13 Ció sembra indicare l'esistenza di una particella i la cui funzione era di marcare il presente. La coniugazione ittita, che offre tanti tratti particolari, illustra assai bene la natura semantica di questo elemento. Anche F. R. Adrados? ha precisato la natura del fenomeno, affermando che un tema può rimanere opposto come termine negativo al medesimo tema addizionato con un significante previamente esistente e di valore proprio, ed ha esemplificato questo principio ricorrendo, appunto, alle desinenze -s, -t, -nt: riferendosi all'art. cit. di A.

Martinet, l'Adrados osserva che «oggi si riconosce che le desinenze -$, τί, -nt sono originariamente neutre quanto al tempo. Si convertono per grammaticalizzazione in secondarie, contrapponendosi alle stesse desinenze -s, -t, -nt addizionate con una -i che è la stessa di nüni, houtosí, lat. hic < *ho-i-ce ecc., e che indica una deixis diretta alla

sfera prossima al soggetto. Questo valore concreto si é grammaticalizzato, convertendosi in uno temporale, quando si creó l'opposizione -si, -ti, -nti / -s, -t, -nt. Una volta creata l'opposizione presente/ preterito ciascuna delle due serie poté attrarre altri due significanti: per es., il presente poté attrarre forme senza desinenza come il lat. amo, do, ma anche altre con desinenza secondaria, originariamente indifferenziata (gr. τίϑης, ἄγεις)». Ricordando che l'aumento - l'a- iniziale di ai. d-bharata, á-bharat,

che indica il passato -- é un elemento facoltativo in età antica anche nelle lingue che poi ne fecero un segno distintivo obbligatorio, si puó opporre il passato *bheret, *bhereto al presente *bhereti, *bheretoi. Ci troviamo cosi di fronte ad una situazione apparentemente paradossale, in cui il presente, che concepiamo naturalmente come tempo fondamentale del paradigma - quello che si usa all'indicativo quando un appiattimento della realtà da significare non dà motivo di impiegare altre forme, come vorrebbe una recente valutazione stilistica di alcuni romanzi moderni — è formalmente marcato per mezzo di un elemento i, mentre il passato, in cui al valore lessicale del verbo si aggiunge naturalmente il valore di una realtà temporale implicitamente distinta, si esprime per mezzo di una forma priva di indicazione positiva di questa nozione supplementare. Nel quadro strutturale del nostro esame, si é indotti, tuttavia, a

concludere che il tempo che storicamente divenne il passato — sia nella sua forma durativa, l'imperfetto, sia nella sua forma non durativa, puntuativa, l'aoristo— fosse in origine una categoria temporalmente indifferenziata, utilizzabile in riferimento ad un fatto passato,

2.

Evolución y estructura del verbo ie., Madrid

1963,

p. 72.

14 attuale o futuro, e che accanto, e forse secondariamente, a questa esistesse una forma che permetteva di collocare il fatto nel presente immediato e nello stesso istante in cui avveniva il contatto tra i parlanti. Questa forma, che si potrebbe chiamare il presente hic et nunc, si otteneva aggiungendo alla forma verbale l'elemento deittico i, cioé il timbro vocalico che sovente si trova nell'espressione di ciò che è

presente, nei due sensi — spaziale e temporale— del termine’, quello che, a detta di A. Martinet^, «actualise le grec hoütos en houtosí, et renforce nün en nüní». 51 doveva trattare, all'origine, di una forma del tipo di quelle che ad alcuni piace chiamare «espressive» — di una di quelle forme di cui si é spesso tentati di abusare e che, per l'abuso, perdono a lungo andare il loro carattere di insistenza, pur conservando i tratti fonda-

mentali che le caratterizzano. Da presente sistematicamente marcato, la categoria verbale denotata dalla aggiunta della particella -i si € attenuata in quel presente vago, adatto un poco a tutto, che é appunto il nostro, e che conserviamo, d'altronde, sin da tempi remoti. Attraverso questo progressivo rovesciamento, tale categoria a poco a poco ha ridotto l'antica forma semplice, senza -i, alla funzione di mero indice del passato, dandole anche una marca semantica che non aveva in origine. Restano, peró, alcune tracce dello stato di cose primitivo: l'aoristo cosiddetto gnomico del greco? che serve all'espressione di verità generali, fuori del tempo, sembra usurpare le funzioni riconosciute come proprie del presente, tempo marcato. Infatti, probabilmente continua un uso normale della forma non marcata con desinenze semplici, dette secondarie. Questa forma semplice, non marcata e senza l'aumento,

si incontra non soltanto

negli usi al passato che ci sono noti dalla lingua di Omero, ma anche in quella forma che, nella grammatica indiana, ha il nome di ingiuntivo — forma dal valore temporale impreciso che testimonia della indeterminatezza temporale originaria.

3. «Il fatto che determinate differenze e sfumature vocaliche vengano usate per esprimere determinate gradazioni obiettive, specialmente per indicare la maggiore o minore distanza di un oggetto dalla persona che parla, é un fenomeno che si trova in modo uniforme nei piü diversi idiomi e nei piü diversi campi linguistici... Quasi sempre,

a, o, u indicano la maggiore,

Philosophie der symbolischen Formen, 4.

ed i la minore lontananza»,

E. CASSIRER,

trad. it., Firenze 1961, p. 167.

lc., p. 18.

5. Nell'uso omerico dell'aoristo gnomico — in quanto marcato pur secondariamente — non si incontrano mai forme prive di aumento, mentre l'aumento manca spesso nell'uso temporale dell'aoristo. Ma sulla questione torneremo oltre, v. 3.4.1.

15 0.3. La natura semanticamente marcata del presente primitivo, la quale siamo indotti a postulare dalla sua forma complessa, permette di comprendere meglio talune modalità del costituirsi della coniugazione ie., quale si trova in greco, indiano antico e generalmente nelle

lingue ritenute solitamente come le piü conservatrici della famiglia je., ad eccezione di quelle dell'Anatoha e dell'ittita in particolare. Se ci liberiamo dall'ipoteca di certe reminiscenze terminologiche, vediamo chiaramente che ció che 51 chiama tradizionalmente «tema verbale», o meglio temi verbali di una stessa radice ie., come *leykwe/o- nel greco λείπω, *likwe/o- nel gr. ἔλιπον, *linkwe/o- nel lat.

linquo, erano all'origine ció che potremmo chiamare oggi altrettante parole distinte, come l'it. piangere ὃ parola diversa da piagnucolare. La coniugazione delle lingue ie. attestate, con le loro serie imponenti di tempi e di aspetti diversi, si è dunque costituita per mezzo di un amalgama di parole distinte sia derivate da una stessa radice -- cioé da un nucleo formale e semantico originario — come λείπω, ἔλιπον, sia di radici differenti, come gr. &odiw, ἔφαγον.

Il costituirsi di questa

coniugazione? si è sviluppato, forse, dopo il distacco dei popoli anatolici da un gruppo originario, ma prima della separazione tra protogreci e proto-arii, e si deve essere completata in modo parallelo, ma non identico, nei vari tipi linguistici. Un tratto di questa operazione che si trova chiaramente in greco è l'accoppiamento di un verbo con aspetto durativo e di un verbo con aspetto puntuativo che si conclude nell'opposizione tra un tema detto di presente ed un tema detto di aoristo, non marcato rispetto al precedente, cioè non specificamente durativo. Ci attenderemmo, in linea generale, che ciascuno dei due componenti avesse fornito un presente ed un passato — come avviene in parte in ittita, che appunto ci permette di postulare questi due tempi per data antica. Niente di ciò è avvenuto: il verbo con aspetto durativo ci ha tramandato, sì, il suo presente — il presente del verbo greco ed ai. — e il suo passato - il tempo che si chiama «imperfetto» —, ma la forma con aspetto puntuale corrispondente non presenta all’indicativo che il solo passato — l'aoristo. L'uso di un verbo puntuale, al presente, sarebbe sempre «abusivo», e ciò spiegherebbe perché l’aoristo, antico puntuale, non si trova nelle affermazioni relative al presente e non ha all’indicativo le cosiddette desinenze primarie. D'altronde,

se 1 verbi

non

durativi,

generalmente

puntuativi,

che

hanno dato gli aoristi, non hanno fornito dei presenti, ciò non dipende certamente dal fatto che questo presente sarebbe stato un doppio6.

È la cosiddetta «coniugazione suppletiva», quella di ὁράω, εἶδον ad es.

16 ne del presente durativo: avrebbe potuto, ad esempio, diventare un futuro — come é avvenuto in slavo. La ragione dev'essere ancora che il presente non era allora quel tempo polivalente cui siamo avvezzi oggi, ma un presente nel senso stretto della parola, un presente hic et nunc, marcato, che insisteva sulla simultaneità tra l'azione e la comu-

nicazione linguistica in atto. Tale insistenza non poteva essere espressa nel caso di verbi il cui uso era soprattutto puntuativo. C'erano dei verbi per i quali non si aveva quasi mai l'occasione di usare la forma con -i. Quando questi verbi hanno perduto la loro dipendenza lessicale e si sono collegati, sotto forma di aoristi, ad altri verbi per formare altre unità, ció che all'origine era soltanto un fenomeno

sporadico — per dirla in termini saussuriani, un fatto di parole — divenne un tratto costante del sistema linguistico, si grammaticalizzó in una struttura tipica del sistema verbale — divenne, cioè, un fatto di langue. 0.4. Abbiamo riferito ampiamente le parole di A. Martinet nell'articolo sopra citato, perché, come bene ha notato F. R. Adrados che si é attenuto sostanzialmente a questo metodo nella concezione della sua vastissima ricerca — e non in tutto e per tutto accettabile — sulla Evolución y estructura del verbo ie., esse offrono lo spunto per una revisione di vedute tradizionali, cui ci ha abituato il riferimento, più

o meno consapevole, al Grundriss di K. Brugmann’.

Si legga, ad es., il brano seguente, tratto dal I vol. della Lateinische Grammatik di M. Leumann, che, apparso nella 5* edizione dell'opera (1928, p. 302), é riportato inalterato nella 6* edizione (1963: in realtà 1 cambiamenti apportati tra la 5* e la 6* edizione non riguardano questo volume, ma in particolare quello che tratta della la sintassi, a cura di J. B. Hofmann nella 5* edizione). Il lettore si avvedrà che alcune affermazioni hanno appunto la loro origine nell'accettazione indiscussa della codificazione del Brugmann - a sua volta frutto di un secolo di ricerche linguistiche — in cui mai si era obliterato il prestigio fascinoso della tradizione classica ed indianistica. 0.5. «Nel sistema ie. si opponevano un sistema di presente-aoristo ed uno di perfetto. Queste formazioni non avevano ancora in tempo 7. K. BruUGMANN, B. DELBRÜCK, Grundriss der vergleichenden Grammatik der idg. Sprachen, Strassburg 1897-1916. Tali idee circolano in ottimi manuali quali la Griechische Grammatik auf der Grundlage von K. Brugmann Griechischer Grammatik di E. ScHwYzER, 1939-1953), voll. 3, e nelle fondamentali Vorlesungen über Syntax di ].

WACKERNAGEL (Basel 1926-1928?, voll. 2).

17

antico riferimento al tempo, ma esprimevano soprattutto l'aspetto, cioé il modo nel quale si svolgeva un'azione: il presente, con aspetto durativo o imperfettivo indicava l'azione nella sua durata ininterrotta; l'aoristo, con aspetto perfettivo, indicava l'azione in riferimento all’attimo del suo compiersi; il perfetto, con aspetto perfettivo, è la forma che esprime la condizione raggiunta dal soggetto... L'indicati-

vo presente e perfetto e l'imperativo presente continuano immediatamente le condizioni ie.».

Nel verbo latino si osservano le seguenti «perdite» e «acquisizioni»: 1) perdita del duale; 2) perdita dell'aumento; 3) perdita del significato medio: dal medio ie. derivano formalmente il deponente latino e il passivo del sistema del presente; 4) perdita dell’imperfetto ie. Sono neoformazioni sia l'imperfetto latino eram, amabam,

ed osco

fufans, sia il pcpf. lat. amaveram; 5) funzioni di aoristo e di perfetto ie. nel perfetto latino; conservazione del perfetto raddoppiato e a grado lungo (dedi, sedi); creazione di un nuovo perfetto in -ui. «Tutte le forme del sistema del perfetto tranne il perfetto indicativo sono meta- o neo-formazioni latine... Alcuni resti di forme aoristiche ie. (congiuntivo, ottativo, participio) non sono passati nel perfetto latino,

ma sono rimasti aoristici: tagam,

tagit, attigat, evenat, cliens, pa-

rens, faxo, faxim». Come in parte abbiamo già visto e come meglio vedremo in séguito, è difficile parlare di perdita dell'aumento— ormai ritenuto una innovazione —; un perfetto ie. e specialmente un impetfetto ie. — tranne a livello greco-ai., e neppure qui sempre — sono difficilmente identificabili; molti sospetti gravano sulla natura perifrastica del latino amabam, ed il tipo eram corrisponde sia a formazioni di preterito in -4- lituane, slave e celtiche? sia di congiuntivo celtico e latino, quali appunto ad-ven-às, -tul-as, egualmente costituiti dalla 'radice verbale + d’. Le osservazioni che seguono procedono dalla convinzione che nell’esaminare una formazione linguistica occorre tener presente il principio della «definizione per contrasto», cioé della possibilità che una forma dapprima sia affiancata da un'altra che ne deriva e ne pone in rilievo alcune caratteristiche espressive, sinché la prima forma o € sopraffatta nell'uso o é sostituita completamente dalla seconda, le cui 8. H. PEDERSEN (Vel. keltische Grammatik, II, Göttingen 1913, p. 422 ss.; v. anche H. Lewis-H. PEDERSEN, A conc. comparative Celtic grammar, Göttingen 1961 (rist.), p. 323) osservava che il cornico, medio-cimrico oed, cornico o, bretone oa «era» sono

derivati da *esat, cfr. lat. erat. V. anche le mie Concordanze nella struttura formale delle categorie verbali indo-europee, «Studi e saggi linguistici» II (1962) pp. 43-44.

18

caratteristiche formali differenziative, in origine non valutabili funzionalmente, divengono poi il tratto distintivo di una categoria espressiva, cioé di una serie di forme in cui si distribuisce per analogia. *

1.1.

*

*

Il sistema verbale greco, nelle sue affinità con quello ai., € con-

siderato per lo piü il punto di partenza per lo studio del verbo ie. Peró da qualche tempo va facendosi largo tra gli studiosi l'opinione che, accanto a numerose conservazioni, il sistema verbale greco e quello dell'ai. siano ricchi di innovazioni”: a ció induce il confronto tra le condizioni greco-ai. e quelle ittite, specialmente alla luce dei principi metodologici sopra riferiti. 1.2. Il sistema verbale ittita oppone costantemente un presente ad un preterito, ma é privo di forme specifiche di futuro, di perfetto e di aoristo, nonché di temi verbali collegabili con quelli dell'aoristo e del perfetto greco e ai. Mentre le formazioni reduplicate latine — quali memini, didici — e quelle sigmatiche — quali dixi, vixi — si collegano rispettivamente con il perfetto e con l'aoristo sigmatico greco e ai., l'ittita non presenta nessuna coincidenza di tal genere! . Öpportunamente l’Adrados, pur tenendo a differenziare la sua ipotesi da quella che postula un'originaria lingua indo-ittita (enunciata dall’americano Sturtevant), afferma che «lo studio senza pregiudizi del verbo ittita conduce a conclusioni assai affini». L'ittita ha, infatti, «una serie notevole di arcaismi di contro, secondo1 casi, a tutte o alla maggior

parte delle lingue ie.», perché & «un territorio linguistico arcaizzante che per la sua posizione estrema, per una migrazione o per qualche altra circostanza, non ha lasciato penetrare isoglosse che invasero.. la maggior parte del dominio linguistico ie.» (o.c., pp. 857-858). L'originalità dell'ittita consiste anche in «arcaismi che si trovano anche,.a volte, isolati altrove», ma soprattutto nella mancanza di quel «complicarsi del sistema verbale mediante opposizioni di temi» (ib.) che caratterizza tutte le altre lingue 16. 9. Cfr. al proposito R. Birwf, Griechisch-arische Sprachbeziehungen im Verbalsystem. Walldorf 1956, e la recensione di V. Pısanı in «Arch. glottologico italiano» 41 (1956), pp. 151-165. 10. Cfr. lat. memini con gr. μέμονα, lat. scicidi con ai. chichid-ür «sciciderunt» (ai. ch

« ie. *sk!); lat. dixi con gr. ἔδειξα, lat. vexi con ai. a-vak-s-i-t (cfr. V. Pısanı, Grammatica latina, Torino 1962°), pp. 271-273).

19 In ittita, infatti, la semplice opposizione di desinenze, aggiunte ad uno stesso tema, indica la differenza di tempo: questo sistema ittita coesiste, entro certi limiti, con l'altro greco e ai.: si pensi ai rapporti tra bhárati e äbharat, λέλυκε e ἐλελύκει: come è chiaro, l'aumento è un elemento «cumulativo», ridondante, di differenziazione.

In ittita, inoltre, manca l'opposizione di temi per differenziare in-

dicativo e congiuntivo: lo stesso avviene in baltico e in slavo!!, ove

egualmente coincidono indicativo e congiuntivo, ma in modo diver50 si comportano, come vedremo, il greco, ove la differenza tra i due modi é indicata dalla vocale tematica (con la proporzione: indic.: vocale tematica zero indic.: vocale tematica breve

/ /

congiuntivo: voc. tem. breve, congiuntivo: voc. tem. lunga),

e il latino e l'ai.. In queste lingue si trovano, infatti, non soltanto opposizioni di questa specie, come nell'ai., per i verbi tematici: 2* sg. pres. att. indic. 2* pl. pres. att. indic. 3? sg. pres. med. indic.

bhávasi: 2° sg. pres. att. cong. bhávasi bháva-tha: 25 pl. pres. att. cong. — bhávatha bhávate: — 3* sg. pres. med. cong. bhdvate;

e per un verbo atematico, Indicativo att. 15 sg. 3? sg. 15 pl. med. 1? sg. 3° sg. 1? pl.

émi «vado» ei imás ase «mi siedo» aste asmahe

Congiuntivo dy-a-(ni) dy-a-t(i) dy-d-ma as-ai (-e . Di fronte alle altre lingue ie. (tranne l'ittita!) il greco e l'ai. si manifestano, d'altra

parte, arcaizzanti nel «conservar vivi il senso della radice e la possibilità di molteplici derivazioni di questa, come pure di molte forme radicali. L'ie. tendeva in genere ad eliminare sin da tempo antico le forme radicali, e l'ittita, poiché se ne serviva per indicare tempi e modi, le ridusse ancor di piü»!6. Si pensi, infatti, che il presente serviva anche come futuro (uwami «vengo», «verrò» e anche «sarò venuto»), il preterito per tutti i tempi del passato (hatranum «scrivevo, scrissi, ho scritto, avevo scritto»), la 1? pers. plur. dell’indicativo si usava anche con valore coortativo (cfr. kinuna-wa epu nu-wa zabbi-

yawastati nu-wa-nna$ “U BELI.IA DINAM bannau «ed ora orsü (ebu), ora (nu-wa-) combattiamo tra noi (zabbiyawastati, 1* pl. med.), e il Dio della tempesta (U), mio signore (BELI.JA), decida (bannau, imperativo, 3? sg. att.) per noi (-nna3) la contesa (DINAM)», e l'indicativo era usuale nell'espressione del comando negativo (cfr. í3tamas «ascolta!», ma le iftama$(ti) «non ascoltare!») e nel «volontativo» di 1* sg. (le Saggahhi «ch'io non possa sapere»); è chiara la necessità del ricorso a forme derivate, quali il cosiddetto ‘iterativo’ in -Sk-, che veniva usato per indicare azione ripetuta, azione di piü soggetti, azione rivolta a piü soggetti, azione risultante da piü azioni singole e azione durativa

', il causativo in -nu- (cfr. ar- «ottenere», amu- «far

ottenere») e in -nin- (i3tark- «ammalarsi», istarnink- «far ammalare»). 13. 14.

Cfr. V. Pisani, o.c., pp. 201-204. È un probabile ottativo stem da *sta-je-m. Inasl. l'antico ottativo è continuato dall'imperativo: cfr. 2* e 3? sg. imperativo

zovi «chiama!», con -i da *-ois, *-oit, e 1* pl. imperativo dadimu «diamo!», con -imií

da *-i-mos. 15. Cfr. F. R. ADRADOS o.c., pag. 859, 861. 16. Cfr. J. FrIEDRICH, Heth. Elementarb., I, Heidelberg 1940, pp. 136-141. 17. Per il valore iterativo di forme reduplicate ittite, cfr. J. FRIEDRICH, o.c., p. 75;

21

1.3. Col perfetto greco e ai., in caso, € confrontabile, ma soltanto per le desinenze, il presente ittita in -pi. Poiché le forme in -hi sono reduplicate soltanto in pochi casi, il tipo di perfetto reduplicato non è, presumibilmente, quello più antico. in seno all'ie. A parte ciò, quest identificazione, oggi accettata anche in base a principi valutativi diversi e discordi tra loro, € stata dapprima avanzata da ] Kurylowicz!* che però in séguito!9 ha lievemente modificato il suo parere, affermando che «il criterio decisivo sembra sia il vocalismo della 3° persona singolare, che è nel preterito ittita -a < *-o come nel preterito. medio-passivo, e non *-e come nel perfetto greco e irlandese”’», nel quale ultimo si osserva una concordanza più sicura di quella offerta secondo ogni verisimiglianza dal cfr. tra gr. yé-yov-e e al. Jdjän-a, perché nulla garantisce che -a del perfetto ai. alla 3* derivi da *-e e non da * «Quindi, continua il Kurylowicz, la coniugazione ittita in -i deve considerarsi semplicemente come una coniugazione di deponente, che si diversifica dal medio-passivo ittita veramente attestato per la sua forma arcaica»: l'aggiunta di -ri ad alcune persone del presente mediopassivo dell’ittita sembra, in realtà, fenomeno recente, come dimo-

stra l'oscillazione tra esa / esari, neya / neyari alla 3* pers. sg. media del pres. (risp. «egli si siede» e «egli si volge»), alla 3* plurale (iyanta / iyantari, «essi marciano») «combatto»).

ed alla 1° sg. (zabbiyabba / zabbiyabbari

Cercheremo nei paragrafi seguenti di spiegare questo rapporto, non certamente di per sé evidente. 1.3.1. La somiglianza tra le quelle del medio greco e ai., immediatamente perspicua, deve sempre tener conto sia

desinenze del presente in -bi dell'ittita e ma particolarmente del medio ai., non è perché nel confronto tra le due serie si della suffissazione in -i sia di altre inno-

vazioni, che, pur caratterizzando il tempo (cosi fa appunto -i, come

abbiamo già detto) e la persona (aggiunta di -s, -t in ai. nelle desinen-

e le mie Ricerche ittite, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa» XXVIII (1958) pp. 285-302. 18.

«Bulletin de la Société de Linguistique», 33 (1932), p. 1 ss.

19. In Procedings of the VIIIth International Congress of Linguists, Oslo, 1957, pag. 236 ss.; ed in Inflectional Categories of I. E., Heidelberg, 1964, pp. 67-68 (di cui v. la mia recens. in «Studi e Saggi Linguistici» IV (1964), pp. 137-44). 20. Il perfetto airl. cechuin deve la conson. palatale, resa con in, a *-e finale, e presuppone un piü antico *kekan-e, che per il raddoppiamento (ed il significato) € uguale al lat. cecin-i da *ce-can-ai.

22 ze dello schema qui sotto riportato), alterano tuttavia le condizioni originarie. Ecco lo schema che dovrà peró integrarsi con altri, perché si abbia una visione chiara del fenomeno: I sg.itt.:-hi,

pres.att.;

-ha,

pres.

ai.-e (perfetto gr.-a).

medio II sg.itt.:

-ti, pres.

att.; -ta,

pres.

medio

ai.-thäh (cfr. perfetto greco -tha: l'ai. -thah,

-thas può

interpretarsi

come

-t(h)a+é+s, con aggiunta di -s come nel deponente lat. -ris rispetto a -re, che continua *-se/o, cfr. gr. -so). III sg.itt.:

-i,

pres.

att.; -a,

pres.

medio

ai.-a, in forme quali *aduha, *asaya,

sostituite da dduhat, dsayat, con -t che caratterizza la 3? pers., e forse

solo apparentemente attive?!.

Di questa 3? sg. itt. il vocalismo è certamente un originario *-o, onde rispettivamente -a al medio e -i all'attivo, tramite *o + i. La 1?

sg. fa pensare ad un vocalismo -a originario (= *E; + e?), che si modifica in ai. come -e, tramite *-a + i, eguale alla desinenza greca

di 1* sg. media pres., *-ai, prima che l'analogia con l'attivo, *-mi, la trasformasse in -mai, secondo un tipico fenomeno di cumulo determinativo (cfr. ai. sac-e «sequor» con gr. hépomai). In ittita, si ricordi, -i, oltre a derivare da *-i, può essere l'esito di *-e, o, a + i(-) (cioè, sia in corpo di parola che in sede finale): l'aggiunta di -ἰ ha, perció, modificato le condizioni originarie che troviamo nel presente medio, non caratterizzato in tal senso, ma, semmai, con l'aggiunta di -ri (v.1.3.).

1.4. Da un punto di vista diverso H. Kronasser che pur rifiuta di credere all'esistenza di suoni laringali ie., individua tuttavia nell'itt. -bi, e più ancora nel luvita -ha, des. di 1* sg. preterito, un «anatolico comune *-xa-», che potrebbe corrispondere al -xa del perfetto greco (Vgl. Laut- und Formenl. des Heth., Heidelberg, 1956, p. 189). Rispet-

to all'identificazione delle desinenze ittite in -i con quelle del perfet-

to di altre lingue ie., il confronto tra le dess. in -bi e quelle medie è, quindi, ancor meno immediato, se anche é privo del sostegno, forse 21.

V. il mio Itt. eiat e a.ind. áduhat,

89-95.

«Studi e Saggi Linguistici» VI (1966) pp.

23 piü apparente che reale, offerto dalla somiglianza con le condizioni di altre lingue. Per definirlo meglio è opportuno osservare un altro elemento, l'eguaglianza tra le desinenze del presente medio e quelle del preterito attivo della coniugazione in -hi. Tra i difetti della spiegazione di questo confronto sembra, infatti,

particolarmente evidente quello semantico. Infatti, ammettendo che la coniugazione in -hi presentasse desinenze affini a quelle del perfetto di altre lingue ie. e ricordando che in ittita si osserva all'interno di questa formazione una distinzione tra presente e preterito (più o meno come al perfetto greco si affianca un piucchepperfetto), il valore semantico proprio soltanto di alcune forma della serie in -bi potrebbe far pensare ad una categoria particolare, forse di presenti indicanti «condizione». Ciò appunto indicherebbero i temi di Sak- «sapere», ak-, «morire», au(3)- «vedere», coniugati in -bi. Ma l'ipotesi è con-

traddetta dal fatto che vi si incontrano presenti semanticamente non differenziati da quelli in -mi (cfr. asashi «colloco», tebbi «id.», dabbi «prendo», pedahhi «creo», e3sabbi «lavoro» con pebutemi «creo»; non mancano oscillazioni tra le due coniugazioni, cfr. wedahhi «costruisco»,

con

-hi,

ma

3? sg.

wetezzi

«costruisce»,

coniugata

in -mi),

mentre è assai importante per definire i rapporti semantici l'osservazione che nei preteriti della classe in -hi la distinzione formale con le rispettive persone del medio non é morfologicamente perspicua, come dimostra il seguente specchietto: Pres. medio 1) -ha

Preterito medio -pat

Preterito in -hi -hun (luv.-ha)

Pres.in -hi -hi

2) -ta

-(t)at

-ta

-ti

3) -a, -ta

-(t)at

-ta

-i

La forma in -bun della 1* sg. del preterito attivo è analogica alla forma corrispondente, in -un, della classe in -mi: cfr. eun «ero», preterito di ei- «essere», onde ‚pebbun «davo», pret. di pibbi «dò». In

altre lingue anatoliche, però, è attestata la desinenza di preterito non analogica -ha: cfr. luvita a-4-i-ha «vedevo»

(ma itt. ubhun «id.», da

au(3)- «vedere»), itt..gerogl. pa-(i-)ha «davo», ma itt. cuneif. pebbun «id.» (cfr. H. Kronasser, l.c.).

|

Da questo schema, confrontato con quello di cui a 1.3., é chiara l'identificazione delle forme con -b-, -t-, (-a), sia con quelle del perfetto sia con quelle del medio. Infatti si possono dare le corrispondenze segg.: 1? sg.itt.-ba = gr.-xa (e lat. *-ca(i), onde -c di feci, ieci?) 2* sg.itt.-ta = gr.-0a (e lat. *-(s)ta(i), onde -sti) J* sg.itt.-a = gr. -e?

24

Proprio quest'ultima identificazione dell'itt. -a è più incerta: però, in quanto l'itt. -a in questo caso risale a *-o, e *-o- é suffisso di temi nominali, si puó intravvedere una certa analogia tra l'uso come forma verbale di una forma caratterizzata da un suffisso nominale, e il

grado vocalico -o- dei perfetti greci eguale a quello di temi nominali, altrettanto in -o-, collegati con — se non tratti da — radici verbali (cfr.

gr. εἴλοχα con λόγος, λέλοιπα con λοιπός): cosi ha sottolineato i rapporti tra nome e verbo di struttura analoga É. Benveniste, («Bulletin

de la Société de Linguistique», 59 (1964), pp. 24-39) alludendo al passo dell'Odissea, y 93-97, ove Telemaco supplica Nestore di dire ciò che sa sulla morte di suo padre, εἴ xov ὄπωπας / ὀφθαλμοῖσι τεοῖσιν

«se l'hai visto con i tuoi occhi», ἀλλ᾽εὖ μοι κατάλεξον ὅπως ἤντησας ὀπωπῆς

«come hai incontrato questa visione», questo vedere effettivo, oggettivato, non virtuale (altrimenti avremmo avuto ὄψις).

Inoltre si hanno in vedico alcuni infiniti in -am, quali sád-am «sedersi», yudh-am «combattere», -tir-am «attraversare», Sübh-am «bril-

lare», che possono anche interpretarsi come temi in -a- (*-0-): come tali, però, si ricorderanno specialmente gli infiniti yamam «guidare», -Pfccham «chiedere», vareydm «per brigare», di cui il primo si collega con yama- «redine», «guidatore», e gli altri due presuppongono temi ampliati rispettivamente in *-sko- (cfr. ai. prcchati con lat. posco) e *-yo-, essendo vareya- un tema di verbo denominale. Vedremo in séguito che anche forme verbali in *-s(-) possono richiamare la struttura di nominativi singolari in -s (cfr. 4.3.6.5.). Intanto si osserverà che la struttura della 3? sg. pres. medio itt. kisa «diviene», esa «siede», è analoga a quella della 3? sg. del pres. dei verbi in -hi (cfr. aki «muore», ari «ottiene») da cui si diversifica soltanto per l'aggiunta di -i (aki da *aka-i, e particolarmente ari da *ara-i, cfr. la 3* sg. preterito ara da *ara-3 da *a/or-o-s), come quella del-

la 1*sg. del pres. indic. medio si distingue dalla 1* sg. del pres. in -hi soltanto perché -hi risale a *ba+i, e quella della 2° sg. pres. ind. med.-ta si distingue dalla 2° sg. -ti perché -ti risale a -ta-- i. Perciò le tre persone del

singolare del presente indicativo medio sono non marcate rispetto alle persone corrispondenti del presente indicativo in -hi, e in particolare vediamo nella 35 sg. in -a un tema in *-o non provvisto di desinenza: un tema «puro», come quello del neutro, quindi (Cfr. gr. γένος, lat. genus, ai. jänas < *genos; gr. δόρυ, ai. táru «albero»; gr. μέϑυ, ai. mádhu « *medhu; itt. genu, gr. γόνυ, ai. janu, lat. genu < *ge/on-w, cfr. got. kniu < *gn-

25 ew, con altro grado radicale [tema I *gen-w-, tema Il *gn-ew-] che, ulteriormente ridotto, troviamo nei derivati ai. pra-jfius, avest. fra-3nui «con il ginocchio piegato, gr. γνύπετος «inginocchiato», γνύξ «in ginocchio»). Individuato questo tema puro che indica genericamente «il diventare» (ki3a), «lo star seduto» (esa), «il volgersi» (neya), si possono trarre delle conclusioni abbastanza convincenti per quanto riguarda il tema puro suffissato con -i (aki & «il morire qui», onde «egli muore»; ari ἃ «l'ottenere qui» onde «egli ottiene»): come nel gr. φέρει da *bhere-i, si tratta di una «riduzione al presente» di un processo o di una condizione indifferenziata al tempo, e quindi della «riduzione al presente di un verbo» di un tema nominale, che con caratteristiche affini si presenta come infinito in ai. e come nore, ad es., in greco.

Non si vorrà obiettare che «di in vedico» perché, anche se netta tra forme nominali ed casuali é ancora chiaramente

infiniti veri e propri non si puó parlare «non si puó tracciare una distinzione infinito» e «l'uso delle diverse forme determinato dalla sintassi» (cfr. A.A.

Macdonell, A Vedic Grammar, Strassburg, 1910, p. 307), qui importa

mettere in luce come all'uso verbale delle forme in -a di 3* sg. media in ittita corrisponda in greco ed ai. un uso nominale — per i nostri scopi, meglio ancora se non proprio con funzione di infinito! — di temi in *-o-. 1.5. Concludendo, si osserverà che il tipo verbale itt. in -{ è fondato sul medio, come abbiamo visto che sostiene il Kury}owicz (v.1.3.), e che la 3* sg. del pres. medio a sua volta rivela stretti legami con forme altrove qualificatesi come nominali. D'altronde si ricordi che l’associazione semantica del perfetto ie. con il presente medio-passivo di verbi transitivi e con verbi intransitivi (deponenti) fu già sostenuta da J. Wackernagel (Vorl. ü. Synt. citt. I, p. 168) e largamente trattata da P. Chantraine nella sua importante Histoire du parfait grec (Paris, 1927, p. 26 ss.): cfr. gr. δέδορκα «vedo», pres. δέρκομαι; ἔολπα «spero», pres. ἔλπομαι; προβέβουλα; «preferisco», pres. βούλομαι; ἕστηκα «sto», pres. ἵσταμαι «mi colloco»; πέποιϑα

«mi fido», pres. πείϑομαι «obbedisco»; ἐγρήγορα «sono desto», pres. ἐγείρομαι «mi desto». Secondo il Wackernagel questa associazione ἃ

ancora viva in periodo classico ed ellenistico, cfr. μέμηνα «sono pazZO», pres. μαίνομαι; διέφϑορα «sono in rovina», pres. διαφϑείρομαι.

Dionisio Trace era consapevole della relazione tra perfetto e mediopassivo, quando citava l'una accanto all'altra le forme πέπηκα, διέφϑορα, ἐποιησάμην, ἐγραψάμην come esempi di diatesi (μεσότης δὲ f| ποτε μὲν ἐνέργειάν ποτε δὲ πάϑος παριστᾶσα).

media

26 L'associazione tra presente medio e perfetto attivo potrebbe far prevedere che anche le desinenze medio-passive dell'aoristo offrissero la stessa distribuzione, cioé corrispondessero a presenti attivi di verbi intransitivi o a presenti medio-passivi di verbi transitivi -- il secondo caso essendo considerato normale nelle grammatiche. In greco, peró, si hanno soltanto i verbi Baívo e δύνω (cfr. T 366, ἐν δέ

ol ἦτορ / Sv’ ἄχος passive all'aoristo, φημί e (E)pato (per Scarsi riflessi di

ἄτλητον) che mostrano ancora desinenze medioἐβήσετο, ἐδύσετο. Ben nota è l'opposizione tra cui v. anche le mie Concordanze, cit., p. 94). questa condizione si notano in latino: cfr. reverti

(arc. revorti), Pl., Am. 909, ma revertor, id., Ci., 706; per vorti, intr., cfr. Pl., Mer. 433, a- Mi. 203. Limitato é l'uso di reversus sum, attestato, ad es., in Corn. Nep., Them., V 2, Charis. I, 271, 14 (Livio). In

assensi rispetto a assentior non si puó constatare nessuna effettiva distinzione: nella lingua antica è sicuro l'attivo assentio (Pl., Am. 824; Pompon.,

167); Sisenna ne trovò tracce in Varrone (cfr. Gell., II 25

9), mentre al suo tempo la forma normale era assentior (Cic., Phil., VIII 2). D'altra parte esisteva anche assensus sum (Lucil., 432; Cic., Phil. VIII 2, XI 15; ma dissensi, ib.) accanto a assensi (Accio, 476; Cic., Att., I 14 5) (Cfr. F. Sommer, Hb. der lat. Laut-und Formenl.,

Heidelberg, 1948, p. 479). 1.6. La sostanziale identificazione di quello che divenne un tempo del verbo (il perfetto) con una diatesi del verbo stesso (il medio) ci ha posto di fronte al problema della corrispondenza tra itt. -b- e gr. -k-, analoga a quella tra itt. -t- e gr. -0- nella 2? persona. Nei paragrafi segg. si cercherà di dimostrare che é possibile scorgere la diffusione di una desinenza da una persona ad altre, diverse dalla presumibile sede originaria, sino al punto che tale desinenza diviene un morfema di un dato tempo del verbo. 1.6.1. Come sopra abbiamo visto, la desinenza di 1* sg. del «perfetto-medio» usciva in *-a. Dato in ittita un tema in vocale quale neya«volgersi», la cui 3? sg. suonava neya (v.1.4.), la 1* sg. rischiava di essere identica a questa se, in séguito all'incontro di vocali eguali (*neya + a), si fosse avuto, analogamente a quanto si osserva nell'incontro dia + i, una contrazione o un'elisione. E probabile, perció,

che tra le due vocali si sviluppasse una consonante che difendesse ed esaperasse le condizioni dell'iato.

1.6.1.1. Da un punto di vista generale, si pensi a forme affini anche in italiano: l'esito del lat. Paulus é regolarmente Polo (Dante, Par., XVIII, 136, ch'i'non conosco il Pescator né Polo), mentre Pavolo presen-

27

ta inserzione di -v- come cavolo risp. a cólo (vivo in Umbria, cfr. AIS, carta 1366) da lat. caulis; e cosi favola risp. a fola da lat. fabula, *faula (cfr. paróla da *paraula, *parabula), come vedova da vidua, rovina da ruina, Mantova da Mantua, Capova (nel Villani) da Capua. Inserzione di -g- si ha nell'it. madrigale da *materialem, nel lomb. prega «pietra», a sua volta da *prea, *preta (dissimilato da petra), nel sicil. idega

«idea», nugatri«noialtri», e simile epentesi si ode in dialetti greci mo-

derni, in ϑεγός per ϑεός, ἀκούγω per ἀκούω, ἀγέρας per ἀέρας (cfr. G. Rohlfs, Histor. Gramm. der ital. Spr. und ihrer Mundarten, Bern, 1949,

I, pp.

537-539;

A.

Thumb,

Hb.

der neugr.

Volkssprache,

Strass-

burg, 1910, p. 27).

In tutti questi casi abbiamo l'inserzione di un suono spirante sia labiale (-v-) sia velare (-g-). 1.6.1.2. Nonè illogico pensare che in ittita -- e come vedremo, anche in altre lingue ie.- si inserisse un suono di passaggio, articolato come spirante velare (cosi ritengo di aver dimostrato fosse articolato b in ittita nelle mie citt. Ricerche ittite) in forme del tipo di quelle sopra indicate e della classe in -bi, ove la differenza tra la 1? e la 3* sg. era affidata proprio a questo suono: cfr. memahbi «dico», tahhi «prendo», ma memäi «dice», tai «prende». Dato un tema mema-, es$a- l'ag-

giunta di -ἰ determinava due possibilità opposte, a seconda che si trattasse di *-i o di *a+i=i. Nel primo caso si aveva contrazione, nel secondo «difesa» della prima vocale sia attraverso un suono di passaggio sia per mezzo di un allungamento. Perció si ha: memi, ipv. «parla tu», ma memabbi «parlo», memai «parla» 3° sg.; ei «lavora tu» (o anche, senza aggiunta di -i,e$$a, come in gr. φέρε e nel lat. arc. duce, dice), ma essabbi «io lavoro»,

e33di,

«egli

lavora». In temi in vocale lunga si ebbe o ipv. da «prendi tu», ma 1? sg. dabbi e 3* sg. dai, o ipv. dai «poni tu», pai «da' tu» — e in tal caso eguaglianza formale con la 3? sg. pres., risp. dai «egli pone», pai «egli dà», ma alla 1* sg. dabbi, pabbi, secondo lo schema sopra indi-

cato. 1.6.2. Un processo analogo, e secondo alcuni, lo stesso, si ebbe nel perfetto greco e nell'aor. greco in -xa: la mancanza di suoni occlusivi spirantizzati in greco antico avrebbe associato per polarizzazione la spirante velare alla velare non spirante, x. Lo si incontra in temi in vocale lunga, e -x- puó attribuirsi sia ad un rimedio per impedire la contrazione esasperando l'iato, sia allo sviluppo fonetico di un suono laringale, a sua volta originario o inserito per identici motivi fonetici. Anche chi non crede che le laringali esistessero nel sistema fono-

28 logico ie., accetta tuttavia che, ad es., la -e- di *dhe- «porre», risalga a *e + E: e -k- si trova appunto in forme quali gr. ἔϑηκα, τέϑηκα e lat. feci che possono risalire a *dhé-a(i) o, in una fase più antica, *dheE-a(i). Questa forma è affatto eguale all'itt. dabbi, se da *dheE-ai con sviluppo consonantico di *E e conservazione della vocale radicale breve, e all'itt. dai, se con sviluppo di *eE in -@-. Anche da un

punto

di vista lievemente diverso da quello sopra esposto

(v.

1.6.1.2.) si conferma, perciò, la possibilità che la differenza tra dài e dabbi abbia una origine non soltanto fonetica, ma anche funzionale,

attraverso lo sviluppo diverso di una stessa formula originaria. Analoga al caso precedente è la corrispondenza tra gr. ἧκα (il per-

fetto elxa si può solo attribuire alla diffusione di una struttura *je-jeanche al singolare: se al singolare si fosse avuto *je-je-, come in τέϑηκα, δέδωκα, "σέστηκα, τέϑνηχα, la 1* sg. del perfetto avrebbe coinciso con quella dell'aoristo, ἧκα, da *e-je!) ed il lat. ieci. Se si

tiene conto della distribuzione del grado lungo rispetto a quello ridotto (n: €, à: a, w: o), si osserva che è affatto analoga a quella di -k-:

a qualunque processo si preferisca attribuire il rafforzamento articolatorio collegato con -E- (sia che -k- derivi da -E- in quanto la vocale lunga é uguale a e + E, sia che -E- sia stato inserito per eliminare l’iato: nel primo caso avremmo un particolare sviluppo fonetico di un suono ie., nel secondo un rafforzamento articolatorio secondario,

anche se parallelo in lingue anatoliche, in greco e latino), -k- si trova, almeno in origine soltanto nel singolare di ἔϑηχα, ἕστηκα e affini,

cioé soltanto tra vocale lunga radicale e vocale desinenziale. L'alternanza da supporsi é la seguente: sg. *(e)dhE-m > *Eöna;

*se-staE-a > *Eotóa

pl. *(e)dhE-men > ἔϑεμεν;

*se-stE-men > ἕσταμεν.

Sia che in *&öna ed in *&otäa restasse o non traccia di -E- intervocalico, é certo che -k- ha difeso l'iato, impedendo la contrazione di fronte a desinenza vocalica, mentre altrettanto non era necessario

quando la desinenza cominciava con consonante. I perfetti lat. feci, ieci (risp. da *dheE-ai, *jeE-ai; sono forse alla base dei perfetti di tipo egi, legi?), analoghi a quelli greci tranne nel raddoppiamento e nell'aggiunta di -i alla desinenza -a (cfr. τέϑηκα, aor. ἧκα), hanno diffuso -c-, nato in circostanze analoghe, a tutte le persone:

altrettanto è avvenuto

nei gr. ἑστήκαμεν, ἑστηκέναι, che

hanno sostituito i più antichi ἕσταμεν, ἑστάναι. Si ricorderà, infatti, che in Omero -x- compare soltanto dopo vocale lunga - o dittongo — e al singolare, con le sole eccezioni di ἑστήκᾶσι A 434 (ma ἑστάᾶσι,

diversamente da βεβάᾶσι, non entrava nell'esametro!), κατατεϑνή-

29 xàcow O 664 (neppure τεϑνάᾶσι poteva entrare nell'esametro!). La scelta, se non la creazione, delle forme con -x- é condizionata, quindi, alle esigenze del metro. Cfr. o 519: ἀείδῃ δεδαὼς tre’ ἱμερόεντα βροτοῖσι

ove δεδαηκώς non avrebbe permesso l'uso dell'enoplion successivo alla cesura (““-

““=-

"--

-)y«efp61,

λευγαλέοι τ᾽ ἐσόμεσϑα xal οὐ δεδαηκχότες ἀλκήν,

ove δεδαότες non sarebbe stato metricamente compatibile se non con allungamento metrico di -o-. 1.6.3.

La storia del perfetto greco permette di constatare la varia

natura di quei processi che hanno diffuso e regolarizzato alcune serie formali, in origine discordi tra loro. Ad es., la normalizzazione delle

desinenze di I e II pl. al perfetto, -auev, -ατε, è postomerica: cfr. εἰλήλουϑμεν I 49, γ 81, omer. ἐπέπιϑμεν, ἔικτον, (ed anche att.) ἴσμεν, lote di contro alle forme più recenti οἴδαμεν,-ατε (e 3* pl. οἴδᾶσιν). L'uso di -a- come caratteristica temporale puó derivare da un taglio arbitrario di un elemento radicale in una forma quale ἕσταμεν, in cui -a- risale a *E, come dimostrano il lat. stetimus e l'ai. tasthimá (*(s)te(s)tE-mó(s): la ricostruzione di forme con varianti è metodologicamente piü fededegna della ricostruzione di parole indo-europee, a meno che si dia ai simboli ricostruiti come parole un'ampia ridondanza di frange formali), in una forma quale γέγαμεν, in cui -a- risale a *-n (cfr. gli omerici ἐκγεγάτην, ἐκγεγάμεν (infinito), &xyeydvia onde si è estratto un tema yeya- che è alla base della 3* plur. γεγάᾶσι: da

*ge-gn-nti avremmo atteso Ἀγεγάασι). L'analogia di lotov, ἴστε ha determinato soltanto la sostituzione di

ἴδασιν con ἴσασιν, sostenuta anche dal pcpf. 3? pl. to(o)av, da *widsan, e non ha costituito una serie di perfetti in -s-, certamente per il

buon motivo che in -s- c'erano già futuri ed aoristi^: è questo un esempio di analogia mancata; lo si attribuirà al tentativo di evitare il concorrere di altre eventuali confusioni. Invece, l'influsso di forme quali omer. εἰλήλουθα, πέπονθα, πέποιϑα e delle 3* pl. ἔρχαται, τετράφαται — a loro volta analogiche, forse, a forme con -χϑ- e -φῦ-, come *dewdeydar (cfr. δέχϑαι, e δειδέχαται)3 — ha sostenuto in ionico ed in attico, a cominciare dal V secolo, la diffusione del perfetto 22. Siricordi, però, che -o- è da considerarsi il segno distintivo dei perfetti medi in dentale, in o, in vocale ed in nasale. 23.

Cfr. per la serie labiale τετράφϑω, τετράφϑαι.

30 cosiddetto aspirato,

in -X- e -q-, nei temi in x, y e x, f (Cfr.

E.

Schwyzer, o.c., pp. 767-776). *

*

Xx

2. Nel tipo ie. più antico manca il congiuntivo. Secondo alcuni autori un presente indeterminato, o generale, pressato da formazioni di

presente nuove e limitate a funzioni secondarie, è assurto a valore sia

temporale (di futuro) che modale (di congiuntivo). L’identità formale tra il tipo di indicativo tematico *bher-e-ti (o meglio *bhere-ti, rispetto al quale il gr. φέρει rappresenta, come si è visto, *bhere-i: il che permette di constatare che non è legittimo neppure parlare di condizioni generalmente comuni del sistema verbale greco-a. indiano, perché l’unità è spesso inattestata) ed il congiuntivo *yeug-e-ti, da rapportarsi ad una forma di indicativo atematico, fa propendere il Kuryjowicz all’ipotesi dell'origine comune delle due formazioni (o.c., pp. 137-138). In realtà, l'atematismo è probabilmente originario nell’indicativo della maggior parte dei verbi. Lo stesso *bhereti è una finzione da un punto di vista storico, solo che si pensi ai bharti di due attestazioni vediche; cfr. RV I, 173,6, bhárti svadhavam opasäm ivá dyám

«colui che è di per sé potente (sva-dhá-ván) trascina il cielo (dyam) come una corona»; e VI,

16,3,

sd sätpatih... ví panéh bharti vajam

«Il padrone di ciö che e (sát-patih) divide (ví ... bharti) la preda di Pani», cioé del nemico del cantore che, secondo la mitologia vedica,

il cantore sconfigge con la forza della parola (cf. K. F. GELDNER, Der Rig-Veda, I, Cambridge, Mass., 1951, p. 105). Si ricorderà, inoltre, 1] lat. fer-s, fer-t, ed avremo la certezza che *bhere-ti non riflette condizioni originarie, ma soltanto condizioni presupposte dalla parziale concordanza di greco e ai. e delle altre lingue ie. in cui la radice *bher- é attestata egualmente in forma tematica. Alludendo a *yeugeti il Kuryjowicz, come è chiaro, si è riferito ad uno stadio relativamente recente in cui era ancora possibile contrappore le formazioni tematiche ad altre non tali, e riconoscere nelle prime - secondo quelllo che aveva osservato L. Renou «Bulletin de la Société de Linguistique», 33 (1932), pp. 5-30 - un valore «genera-

31 le», poi evolutosi in «modale» (di un modo cosiddetto «eventuale»). Tale stadio e attestto dal cfr. del lat. edo, atematico in es, est, col. gr. ἔδομαι; del gr. ἵμεν, ai. imdh col gr. ἴομεν, ai. dyama; del lat. est, ai.

ásti con il cong. dsati (= lat. erit), da *es-e-ti; dell'ai. kmöti , pres. atematico con infisso nasale, da *kr-n-eu-ti, e del pres., 2* duale krthás «voi due fate» con il congiuntivo kárat (*kwor-e-), tematico e senza

infisso nasale, rispetto al quale, nonostante i pareri discordi, si dovranno considerare ingiuntivi le 2* e 3° sg. kar (*kar+s, ἢ, precedute come per lo più sono da ma, nella forma tipica del comando negativo, che in vedico è una funzione frequente dell’ingiuntivo (v. le mie Concordanze citt., p. 55, n. 88).

2.1. Da un punto di vista descrittivo non c'è nessuna differenza tra il presente gr. λέγομαι, ἕπομαι ed il futuro ἔδομαι: la differenza consiste

nella funzione, o meglio nel diverso valore semantico che un tipo

formativo esprime quand'è attorniato da altre forme, derivate o dalla stessa radice o da altre radici, ma in ogni caso semanticamente affini.

Tale contrasto si trasforma da opposizione semantica a opposizione funzionale, e l'elemento che distingue formalmente i valori semanti-

ci diviene l'elemento distintivo della funzione. Ci potremmo chiedere se, oltre all'origine dell’elemento come formante — o morfema - si assiste anche all'origine della funzione: chiederci, se esisteva un con-

giuntivo «noumenico» prima che se ne avesse uno «fenomenico». Ma a questa domanda, che é meno oziosa di quanto possa sembrare solo che si pensi alla asistematicità con la quale si esprimeva sia 1] modo che l'aspetto verbale in ittita, si puó rispondere che la storia delle lingue ci presenta una tendenza vieppiü chiara alla distinzione, che accresce i contrasti originari, li acuisce e riduce, invece, al minimo con mezzi sia sintetici (desinenze, morfemi, infissi, prefissi, suf-

fissi) sia analitici (perifrasi, disposizione delle parole nel periodo) le possibilità di incertezza nei casi più frequenti e, come tali, più importanti secondo l’uso, e però secondo il giudizio, di chi parla: quanto meno un elemento è distinto da un altro, tanto maggiore infatti, è il suo raggio di informazione. 2.2.

Tuttavia, allo stadio in cui *bhereti è indicativo tematico — che,

se non il più antico, indubbiamente è antico -- si possono supporre le opposizioni seguenti: A)

*bhereti / *yeugeti, presenti di funzione semantica eguale. *yu-n-eg-ti, presente determinato temporalmente. *yu-n-eg-ti / *yeugeti, opposizione tra determinato ed indeterminato, o presente «generale».

32 Da questo stadio deriva il seguente: B)

*bhereti / *yu-n-eg-ti, presenti durativi; *bhereti & divenuto semanticamente, e quindi funzionalmente, affine a *yu-n-eg-ti, perché le formazioni atematiche del tipo *bher-ti o *bi-bherti o sono arcaismi (come rivela la concordanza tra latino e ai.) o si sono specializzate altrimenti (la forma reduplicata come iterativa). Certo & che sono forme strutturalmente più semplici di *bhereti e, a maggior ragione, di *yu-n-eg-ti, in cui è specifico il richiamo al presente (cfr. lat. rumpo, vinco, gr. λιμπάνω, αἰσθάνομαι, δάκνω,

τέμνω, δείκνυμι)".

*yeugeti, congiuntivo o futuro: il richiamo meno immediato ed esplicito al presente permette di considerare questa forma come temporalmente indefinita (un presente perfettivo, non durativo, dà appunto in a. slavo, e forse in gotico, il futuro, che vi manca come

forma specifica) e modalmente collegata con l'espressione di una realtà non oggettiva: al che si richiama l'ambiguità estrema dell'uso dell'ingiuntivo in vedico.

Dallo stadio (B) si sviluppano gli usi di forme tematiche in tipi verbali atematici al di fuori del presente, quali l'aoristo atematico, quello sigmatico e il perfetto in greco, come vedremo nel paragrafo seguente. 2.3. Come ricorda E. Schwyzer (o.c., I, 790) il congiuntivo con vocale breve *e / *o di verbi che hanno un indicativo atematico compare spesso in Omero e nei dialetti greci all'infuori dell'attico soltanto nell'aoristo sigmatico, ma raramente in altre forme del verbo. ΑἹ presente

si ricordino

εἴω,

(e)louev,

ἐρείομεν

A

62,

metrico

per

*éocFouev di πἔρευμι. Tra gli aoristi radicali si ricordino χεύομεν, φϑίεται, ἄλεται. Al perfetto, εἴδομεν, ἀνώγομεν, πεποίϑομεν. All'aoristo sigmatico, τείσομεν, ἀμείψεται, βιήσεται, βάσομεν (Pindaro) ecc.

Anche πίομαι é congiuntivo aoristo, pure se usato con valore di futuro, ed avrebbe trascinato con sé quella che E. Schwyzer chiama la «neoformazione ellenistica di φάγομαι» (o.c., p. 791), anche se questa, per la correlazione notata da E. Benveniste a proposito del «rinnovamento lessicale» del greco antico («Bulletin de la Société de Linguistique», 59 (1964), pp. 24-39) proprio nella serie semantica di «mangiare» e «bere», puó dipendere da ἔδομαι. 24. Pertanto *bhereti non si oppone piü a *bherti, mentre *yeugeti si oppone ancora alla forma marcata di presente, *yu-n-ég-ti (ai. yundkti) [Della questione si è interessato, con vari ed acuti contributi, in anni recenti R. LAzzERONI].

33 Questo tipo di congiuntivo puó interpretarsi come «prospettivo»

o come «volontativo». L'uso prospettivo del congiuntivo, che è alla base dell'uso temporale come futuro, é un arcaismo sia in greco che in ai. A proposito dell'uso volontativo opportunamente il Kury}owicz osserva (o.c., pp. 139-140) che non é sempre facile decidere se «it is the will of the agent or of the speaking subject that is supposed to be noted by the subjunctive» in casi quali l'omer. ἴομεν, in cui l'agente ed il parlante parzialmente coincidono (cfr. anche v 382-3, τοὺς ξείνους... πέμψομεν

«mandiamo via gli stranieri»). È però presumibile che l'uso, volontativo, nella forma negativa accompagnato in ai. da md ed in gr. da μή, sostituisca semplicemente quello dell'antico ingiuntivo, assai spesso impiegato, come si é detto, nell'espressione del comando negativo. E giusta al riguardo l'osservazione di T. Burrow (The Skr. Lang., London, 1955, p. 347) che l'esitazione tra le desinenze principali e quelle secondarie nel congiuntivo ai. rappresenti una «transizione da un sistema più antico, in cui (come nell'ingiuntivo) le desinenze erano secondarie, ed uno in cui le desinenze primarie sono adoperate perché piü appropriate al suo predominante significato di futuro»; tale «transizione... è stata completata in greco». Da questo punto di vista, quindi, la funzione prospettiva non sembra debba considerarsi originaria nel congiuntivo. Ma cfr. € 465 τί νύ μοι μήκιστα γένηται, A 262 οὐ γάρ πω τοίους ἴδον ἀνέρας οὐδὲ ἴδωμαι

«... né mi aspetto di vederli». Peró l'argomento piü valido per considerare la funzione «prospettiva» tra le piü antiche & l'uso di forme in *-e-/*-o- come futuro in iranico, in latino (cfr. lat. eris, erit da *es-e-s, -t) ed in greco (cfr. ἔδομαι, πίομαι). Il «prospettivo» in *e/o — con le sue implicazioni sia temporali che modali — ὃ pià antico delle forme sigmatiche, alle quali tuttavia si unisce per esprimere il «prospettivo» dell'aoristo, cioé un prospettivo puntuale, parallelo al prospettivo durativo, tipico del tema del presente. La diffusione di presenti in *e/*o (tipo bhárati) e il successivo sviluppo del futuro-congiuntivo (o prospettivo) in *e/o é in stretta relazione con l'eliminazione dei presenti atematici e con 1] simultaneo sviluppo dell'aoristo atematico radicale. Il «prospettivo» sigmatico è un'acquisizione più tarda: la connessione di forme sigmatiche di congiuntivo (come in a. irlandese) o di futuro (come, oltre alle note condizioni greche e ai., nel lat. faxo e nel futuro sigmatico dell’a. irlandese, per cui v. le mie Concordanze, p. 80 e n. 166) con il resto del sistema verbale é ancora imprecisa in molte lingue storiche; inoltre, tali forme si collegano con la radice, non col tema

34 del verbo, come invece fa 1] prospettivo in *e / *o. Infine, come vedremo, la struttura della formazione in *-s- come aoristo si rivela

più recente di quella dell'aoristo radicale. 3.1. In ittita, come si é visto, manca l'opposizione tra indicativo e congiuntivo che, nelle lingue in cui é attestata, si fonda su quella tra

forme atematiche e forme tematiche. Orbene, in ittita manca proprio una delle piü caratteristiche opposizioni formali della maggior parte delle lingue ie., la differenza tra una classe atematica ed una tematica. Anche nella classe ittita in -mi, che più è simile al presente

attivo di altre lingue ie., si possono distinguere temi consonantici (come e3-mi, wek-mi «ottengo», kuenzi «uccidere» per citare forme

paragonabili risp. con *es- «essere», *wek- «volere, desiderare», *ewhen-

«uccidere»,

tutte atematiche in ai., cfr. dsmi, vásmi, hanti

«uccide») da temi vocalici: ma questi sono assai diversi dai temi in

*e/o del greco e dell'ai., ed in ittita non c'é nulla di paragonabile a *bhere/bhero- (cioè a *bher-e/o-), come non c'è nulla di paragonabile a *likw-e/o- che, caratterizzato da desinenze secondarie, ha dato l'aor.

ai. áricam, gr. ἔλιπον (ed invece, con ampliamenti nasali, il gr. λιμπάνω, ai. rindkti (*li-n-ékw-ti), lat. (-)linquo)??, nonostante in ittita si trovi una formazione in -iya- (cfr. wemiya-mi «trovo») che presenta qualche traccia di apofonia (wemiyasi «trovi», wemiyazzi / wemiezzi e anche wemizzi «trova», wemiyanzi «trovano»), ma in una forma

non immediatamente comparabile con quella greca che, grazie al vocalismo greco fortemente conservatore, sembra meglio garantisca lo stato delle condizioni originarie. Né puó valutarsi come tematica la vocale -i- che ritorna nell'itt. memiskimi,

memiskisi,

memiskizzi,

come nella I? pl. memiskiwani (ma 3* pl. memiskanzi!), cioé nel presente dell'iterativo memisk- «parlare spesso», derivato da mema«parlare». 3.2. Quindi, in epoca non molto antica il presente radicale, sia uscente in vocale sia in consonante, fu sostituito da formazioni piü adatte a sottolineare l'aspetto durativo o imperfettivo, con una tendenza analoga alla pià chiara specificazione formale del valore durativo svolta, come si è detto, dalla aggiunta di -i alle desinenze -m, -s,

-t, -nt che pertanto divennero desinenze «storiche» o «secondarie». 25. [Mi permetto di ricordare che, sull'argomento, sarebbe apparso nel 1967 il volume di Klaus Strunk, Nasalprásentien und Aoriste, Heidelberg — come nel 1969, sulla questione in genere, il vol. III/1 dell’Indogermanische Grammatik, Geschichte der indogermanischen Verbalflexion, di C. Watkins (Heidelberg)].

35 L'aggiunta di -i e la caratterizzazione formale del presente cui ora alludiamo dovette rappresentare un completo rovesciamento dei punti focali del sistema verbale, che sostanzialmente coincise con la progressiva decadenza dell'ingiuntivo in vedico. Gli elementi critici del sistema antico sono rappresentati appunto sia dall'ingiuntivo sia dalle forme di 3? pers. sg. pers. medio itt. in -a ed in genere dalla coincidenza tra le desinenze del preterito attivo e quelle del presente medio, sulla quale ci siamo già soffermati (cfr. 1.5., 1.6.): al di qua di queste forme il sistema verbale greco caratterizza fondamentalmente il sistema verbale ie. 3.3. La piü semplice delle neoformazioni del presente fu quella cosiddetta tematica, con 1 riflessi nei tempi e nei modi del verbo che abbiamo sopra constatato (v. 2.). Tale tendenza si presentó nel «significante» della radice con ampliamenti il cui valore particolare ci sfugge — e ce ne sfuggirebbe anche il valore generale, se non lo considerassimo da un punto di vista funzionale. I presenti in *-ye/yo(gr.-eiv, lat.-ere

-br-

in

latino:

cfr.

soror

moneam: un imperfetto di struttura *monej-4-m,

come

*es-à-m,

avrebbe coinciso

con il congiuntivo presente. Un futuro di tipo *monej-e-t avrebbe, d’altra parte, coinciso con il presente, *monét > monet. chiaro che si deve presupporre come più antica la formazione dei futuri di tipo legam, leges rispetto a quella dei futuri con -bIn umbro c’è un futuro anteriore benust «venerit», che può anche analizzarsi come *gwen-u-s-et, con gli stessi elementi, ma in di-

sposizione inversa, a quelli che il Pisani suppone all'origine del

56 -b- di amabo, ibo: in quest'ultimo caso un futuro od un impertetto di tipo *ej-d-m si sarebbero confusi con il presente congiuntivo. Una struttura *ej-e-s non ha lasciato traccia alcuna. 4.5.6. Si concluderà che quando il paradigma del presente si differenziò formalmente da quello dell’imperfetto, come il greco ricorse all'aumento (cfr. Aéyouev/éAéyouev) o al cumulo oppositivo dell'aumento e della deixis di -ı (λέγει / ἔλεγε), così il latino ricorse ad un tipo di forme con suffisso *-sw-, in origine probabilmente limitate all’espressione modale, del congiuntivo-futuro (cfr. fal. carefo, airl. futuro in -f-: sarà un caso, ma non si hanno analoghi tipi di imperfetto). Tale suffisso comprendeva gli elementi s e w che ritroviamo, ma invertiti, nell'umbro benust, osco comparascuster, e che sono, forse, da

collegare con quello *-w + es / is- che troviamo nel lat. amaverit < *ama-w + es/is-e-t. Il parallelismo con deic-e-t / deic-à-t permise, però, di avere *amä-s-w-e-t / *amä-s-w-a-t, di cui il primo divenne futuro (amabit) il secondo imperfetto (amabat) sulla base del rapporto *es-e-t/ *es-d-t, erit / erat. Si osservi, infine che in airl. il futuro in -f- nella maggior parte delle forme mostra in séguito morfematico *sw-+ä-: la cosa non parrà strana a chi pensi che il futuro latino legam corrisponde ad un tipo di futuro airl. in -a- « *-d-. Alla base dell'uso di forme in *sw come imperfetti e futuri é quindi un bisogno di differenziazione formale; un impulso analogo ha fatto si che nelle lingue romanze scomparisse il futuro amabit, quando, divenendo -b- > -v-, coincise con amävit. Allora forme perifrastiche già usate con valore «modale» acquisirono il valore temporale del futuro, la cui sopravvivenza era minacciata dalla indistinzione rispetto al perfetto. Alla base di ogni evoluzione formale deve cercarsi spesso una necessità espressiva, di cui occorre distinguere, nei limiti del possibile, le cause ed i mezzi di soluzione. * * *

4.6. In una serie di articoli brillanti É. la natura particolare della 3? pers. sg. di nendola la «persona-zero». La funzione na é quella della «pura» predicazione, della «personalità» e della soggettività.

Benveniste?! ha sottolineato un paradigma verbale, defifondamentale della 3* persodistaccata dalle implicazioni Nel sistema di opposizioni

51. Cfr. É. BENVENISTE, «Bulletin de la Société de Linguistique», XLIII (1946), pp. 1-12; id., For Roman Jakobson (1956) pp. 48-56; id. De la subjectivité dans le langage, «Journ. de Psychol.», 1958, pp. 257-265.

57 che distinguono le persone nel verbo, la 3* sg. é la persona non marcata,

la forma

caratterizzata negativamente

per eccellenza.

Questa

relazione tra le persone puó essere illustrata in un sistema binario, del

tipo seguente: 1?

23

3a

personale/non pers.

+

soggettivo/non sogg.

+



0

_

+

La posizione critica della 3* persona all'interno del paradigma é chiara: essa ἃ caratterizzata unicamente dal fatto di non essere personale; la correlazione di soggettività é aspecifica, perché é in relazione di contingenza con la presenza della «personalità». Il Benveniste ricorda una serie di forme di 3? pers. sg. in varie lingue del mondo, che hanno una desinenza zero, conformemente alla loro posizione funzionale di persona-zero. Del greco si ricorderà φέρει < φερεέι, ma φέρε-ι-ς; ἔφερε, ma È -qeoe-c; del presente medio ittita si ricorderanno le desinenze: -ha,

-ta ,

-d,

52 delle quali la terza deriva da *-o?^, e che corrispondono a quelle che abbiamo postulato per il perfetto greco come

-a,

«θα,

*-o.

In ungherese il presente del verbo «scrivere» suona 1° sg. ir-ok

2° sg. fr-sz

3? sg. ir,

come in turco il preterito di «amare» è 1? sg. sev-di-m

2* sg. sev-di-n

3* sg. sev-di

La 3* persona é formata o dalla pura radice o dalla radice seguita da un suffisso temporale, ma é — o é rimasta: ció sincronicamente non ha valore! — priva di desinenza, o, come si suol dire, ha desinenza

zero. Analogamente troviamo in greco ἐφάνη-ν, ἐφάνη-ς ἐλύϑη-ν, ἐλύϑη-ς ἔγνω-ν, ἔγνω-ς

ma ma ma

Épávn-zero ἐλύϑη-ΖεΓο Eyvo-zero

e se anche da un punto di vista comparativo si puó postulare un *-t desinenziale, da un punto di vista sincronico-funzionale il suo valore — come la sua realizzazione — è zero. 52.

V. sopra,

1.4.

58 Altrettanto, nel precativo (una sorta di ottativo sigmatico) del ve-

dico la 3? pers. sg. si potrà interpretare come bhü-yä-s-zero,

con -s parte del tema, cui si possono aggiungere le desinenze delle altre persone; cfr. la 1? sg. bhü-yà-s-am, che si contrappone chiaramente a bhüyam, ottativo aoristo, 1? sg., dalla struttura analoga a δοίην, otainv ecc..

Analogamente in polacco il presente del verbo «essere» si è ricostituito sulla 3* sg., presa come «tema»: Jest-em,

Jest-es,

Jest,

ove soltanto la 3* sg. corrisponde alle forme slave del presente del verbo «essere» (cfr. asl. esti «è»). Il preterito polacco é formato, come in altre lingue slave, sul participio in *-lo-: peró a questo participio si aggiungono le desinenze di 1* e 2° sg. in modo analogo a quanto abbiamo visto per il presente di «essere»; cfr. il preterito di miec «avere» (asl. imami «ho»): mialem,

miales,

ma mia].

Lo stesso fenomeno si osserva in persiano moderno: dalla 3? sg. hast «é» (con h- derivato da *s-, secondario a forme quali apers. hantiy «essi sono» = ai. sánti «id.»), si forma il presente: hastam,

hasti,

hast,

come pure 1] preterito del verbo «fare» kardam,

kardi,

kard,

che altro non è se non il participio apers. krtam (cfr. ai. krta-) seguito dalle desinenze. Nel medio-gallese la 3? sg. dell'imperfetto di «essere» suonava oed < %*es-a-t, con scomparsa di *-s- ed evoluzione di *ed in oe. Su questa forma é concresciuta la coniugazione: oedwn,

oedut,

oed,

3? plur. oedynt

con le desinenze consuete alla 1? e 2° sg. ed alla 3? plur.; a sua volta anche la 3? sg. venne ulteriormente modificata, in oedat, oedyat; ma in

un primo momento oed costitui il nuovo tema, in quanto forma zero per eccellenza. Infatti, un tema senza desinenze è esclusivamente una forma zero, quale appunto dobbiamo considerare il gr. φέρε, il lat. lege, l'ai. bhava «sii tu», l’itt. 35 sg. pres. medio neya, eia, cioè le forme tematiche (con *e/o) adesinenziali che si oppongono rispetti-

59 vamente a qéoe-t, a *lege-t, all'ingiuntivo bhava-t, alla 1° sg. neyaha, esaha.

4.6.1. Un'indagine delle desinenze ittite di 2? e 3? sg. permette di conseguire risultati fondamentalmente analoghi ai precedenti. Infatti, si offrono le possibilità seguenti:

4.6.2. Che la 3* pers. sg. sia alla base della 2° sg.; ciò avviene: 4.6.2.1.

Al presente medio-passivo, 3* sg. arta (artari), 2° sg. artati

(«tu stai, ti collochi»), ma 1? sg. arbabari; 3° sg. iyatta (iyattari), onde

2° sg. iyattati «tu cammini, migri». 4.6.2.2. In alcuni preteriti dei verbi in -hi la 3* persona ha a volte una ampliamento -$ che ritorna nella 2? persona di fronte alla desinenza -ta; struttura affatto diversa ha la 1* sg. Cfr. 15 sg. tebbun «ponevo», 2° sg. daista, 3* dais; 1° sg. pebbun «aggiungevo», 2° sg. päista, 3* sg. pais. Come ho notato nelle mie Concordanze, la struttura della 2° e 3°

sg. si oppone anche in questi casi a quella della 1° sg., ed è caratterizzata da un elemento *-s(-) che manca nella 1? sg. Sull'argomento torneremo tuttavia tra breve. 4.6.3.

Che la 2* sg. e la 3? sg. siano eguali; ciò avviene:

4.6.3.1.

In alcuni preteriti di verbi in -hi: 1? sg. dahhun «prendevo», 2° sg. = 35 sg. dai; 1? sg. tamahhun «lasciavo», 2? = 3? sg. tamaS”.

Accanto a famas si ha anche tamista, che presenta la stessa struttura della 3? sg. memista «diceva», eguale alla 2* sg., ma alternante con la 3? sg. mema$ (forma di fondazione rispetto alla 2° sg. memista) e affatto diversa dalla 1? sg. memabbun. Lo stesso rapporto si osserva nelle 1? sg. uppahhun «inviavo» e 2° sg. uppesta = 3* sg. uppesta, alternante però con uppas. Data la fondamentale equivalenza di itt. i = e, si osservi lo scambio tra: *-0+s (memas, uppas, tamas), cioè di *-o, caratteristica del medio ittita alla 3* sg. del presente, chiaramente sostituito da -ἰ nei verbi in -hi,

*-i/e + s + altra desinenza (memista, uppesta, tamista), cioè di un 53. Trai verbi in -mi, con struttura analoga si ha soltanto piddäis «fuggivi, fuggiva», che peró alterna alla 3? sg. con piddait (v. 4.6.3.4.).

60 suffisso in -i3- che troviamo anche nella 2° plur. del preterito memisten, eguale alla 2* plurale dell'imperativo, memisten. 4.6.3.2. Un altro caso di eguaglianza é dato dal preterito del verbo «vedere»: 1* sg. ubbun, ma 2° sg. austa e 35 sg. austa. In questo verbo la distribuzione delle forme con -3- ricopre, oltre all'imperativo, la cui 2° plur. è austen (cfr. sopra memisten; non è attestata nessuna 2°

plur. del preterito di «vedere»!), anche il presente indicativo, ma soltanto nella 3* sg. auszi e nella 2° plur. usteni: tale distribuzione ha reso incerti se pensare ad una radice au- o auì-, ma la domanda non ha senso se si considera che un allargamento radicale antico è divenuto col tempo un morfema temporale. Quindi, si può per ora alludere a au(3)-, riservandoci di valutare alla fine di questo capitolo il valore attribuibile a -;-. Analogo al caso sinora considerato è quello offerto dal preterito della radice che significa «proteggere», «custodire»: 2° sg. = 3° sg. pabbasta. La radice è stata confrontata con il lat. pä-scö, ai. pä- «proteggere». La diffusione di -3- in tutto il paradigma dev'essere iniziata in ittita in età antica, come rivelano la 1° sg. del presente pabbashi / pabbasmi e la 2° sg. imperativo ραβδὶ. Anche se la comparazione ci fa propendere a *pa- (o *paE-, o *peE;-, a seconda dei livelli di ricostruzione cui si voglia, con vario arbitrio, risalire), è chiaro che l’ittita ha generalizzato *pab+3-, cioè un derivato sigmatico di questa radice, come, per ripetere esempi già riportati, il greco ha generalizzato il tipo ἀλέξω, αὔξω, δέψω «ammollire» (ma δέφω «id. »), l'ai. ha generalizzato il tipo moksate «si libera» (ma cfr. mucati «egli libera») e, inversamente, il latino ha preferito quaerò (< *quais-0) rispetto a

quaesö (< * quais-s-6) ed ha differenziato viso (*vid-s-0) rispetto a video (*vid-). 4.6.3.3.

Presentano -ta sia alla 2* che alla 3? sg. del preterito:

a) alcuni verbi in -mi,

quali ei-ta «eri, era»

(*es- «essere»),

ep-ta

«prendevi, prendeva» (lat. ap-,ep-, cfr. ap-iscor, co-epi); kuenta «uccidevi, uccideva» (*gwhen-, cfr. lat. -fen-d-o, ai.hánti «uccide», ghnánti «uccidono», gr. φόνος, xéqato); punus-ta «chiedevi, chiedeva» (punus-, senza chiaro rapporto etimologico, nonostante un'ipotesi di O. Szemerényi); har-ta «tenevi, teneva». b) Tra i verbi in -hi, $akta «sapevi, sapeva».

4.6.3.4. Presentano -t sia alla 2° che alla 3? sg. del preterito attivo alcuni verbi in -mi: uwatet «portavi, portava»; pehhutet «creavi, creava»; iyat «facevi, faceva»; memiskit «dicevi, diceva»; tittanut «ponevi,

poneva»; dit «venivi, veniva». Come è chiaro, si tratta di verbi anche

61 di formazione secondaria con suffisso iterativo (*-sk-) o causativo

* (*-nu-).

4.6.3.5.

Presentano -at nella 2° e 3? sg. del preterito medio le forme

artat(i) «stavi, stava,» kisat «diventavi, -a». Oltre a kisat, come 2° sg.

è attestato anche kis-ta-t (ma 1* sg. kishat), come il preterito di ei«star seduto» suona alla 1* sg. e3bat, alla 2° sg. estat, alla 3° sg. eiat.

4.6.4. Si concluderà che non soltanto la 3* persona è la persona zero, ma la distinzione tra la 2° e la 3* sg. non è così antica come generalmente si ritiene: uno stesso morfema (*-s, *-t *-tha) poteva incontrarsi sia nell'una che nell’altra, mentre mancava decisamente nella 1? sg. e, in caso, ritornava nella 2° plurale - con distribuzione parzialmente analoga a quella del latino -is- nel perfetto. Perciò quando -s venne usato come morfema di persona, non indicò la 1* persona e, quando i morfemi si accumularono (come nel caso a 4.6.2.2.), divenne un morfema che indicava un tempo ed un modo estraneo alla diretta ed immediata sfera del parlante, e perciò il preterito, il congiuntivo o il futuro. Assai ingegnosa è l’ipotesi di C. Watkins (Indo-European Origins of the Celtic Verb, I, The Sigmatic Aorist, Dublin, 1962, pp. 9-106) che

né *-s né *-t fossero anticamente morfemi di persona, ma soltanto elementi nominalizzanti: le forme con -s, quali itt. dais, uppas, non differirebbero sostanzialmente, da questo punto di vista, dal lat.

*nec-s, *prec-s (attestato, quest'ultimo, in data antica nel sg. solo al dat. ed all'acc.; il nom. e gen. sg. sono attestati soltanto dai grammatici e dai glossatori). Già. H. Hirt”* aveva confrontato la 3* sg. dell'ingiuntivo vedico dhat col lat. (sacer)döt-em (da *sakro-dhö-tm) e V.

V. Ivanov? ha a sua volta confrontato la 1* pers. sg. del preterito kuceo (o tocario B), nekwa «distrussi» col gr. νέκυς: vi si avrebbe (almeno in kuceo, perché in turfanio le condizioni sono diverse) l'aggiunta di -a al tema *nek-w-, cosi come, secondo Watkins, si avrebbe l'aggiunta di -a al tema *nek-s- nella 3? pers. sg. corrispondente, neksa «distrusse» (o.c., p. 106). Il confronto col lat. nex (cioé *nec-s-) sarebbe ovvio ed altrettanto lo sarebbe quello della 3* sg. pret. kuceo preksa «chiese» col lat. *prec-s-, la cui 1* sg. suonava prekwa, per la quale forma non si dispone di confronti diretti come nel caso di

54. 55.

H. Hnt, Indogermanische Grammatik, Heidelberg 1921-37, IV, p. 104. Cfr. Tocharskie jazyki, sbornik stat'ej pod redakciej i s vstupitel'noj stat'ej V. V.

Ivanova, Moskva 1959, p. 17.

62

nekwa, che peró, secondo W. Krause e W. Thomas”, è da paragonare col lat. nocui, egualmente derivato a loro parere da *nokewai. Se si ricorda che -t- é elemento assai frequente nella formazione dell'infinito — ivi compreso il supino latino! —, è chiaro che gli stessi elementi (-s-, -m-, -t-, -w-) ricorrono sia nella formazione dei nomi

verbali sia come morfemi di tempo sia come desinenze personali. Tra questi, -s-, -t-? e -w- caratterizzano il passato o l'extraimmediato e reale in genere; -m-, la sola prima persona. Indubbia-

mente ció si riflette nella «rigida struttura paradigmatica delle tre persone del sg., -m(i), -s(i), -t(i)» che «appartiene soltanto al periodo più tardo dell'indo-europeo comune, e che fu completato soltanto dopo la separazione dei dialetti» (C. Watkins, o.c., p. 105), ma è opportuno distinguere una condizione recente da quella cui possiamo giungere interpretando piü a fondo gli elementi di cui disponiamo.

Nelle mie Concordanze la prudenza metodologica mi suggeriva di arrestare l'indagine ad un confronto tra i morfemi di tempo, modo e persona; recenti ricerche, sia contemporanee sia successive, hanno dimostrato l'importanza e la vitalità del problema, anche se non tutte le soluzioni sembrano egualmente sicure. Mi sono limitato qui ad integrare le mie conclusioni con quelle del Watkins, dell'Adrados e del Kury)owicz, le cui opere sono assai decise nel demolire l'edificio ottocentesco della morfologia verbale comparata. 4.7. A proposito della «funzione originaria» di una radice allargata, quale *preks — problema al quale «si puó rispondere soltanto con ipotesi più o meno verificabili» - il Watkins, dopo una tale implicita autocritica, dichiara che «l'interpretazione di forme quali quelle che hanno desinenza zero ὃ sufficiente a qualificare d'ora in poi tali forme come verbali», ma «se consideriamo il valore neutro, intransitivo,

ancora presente in tali forme nel periodo storico, come pure l'identità formale di -s con il segno del nominativo sg., è difficile evitare la supposizione che la formazione fosse in origine nominale». Possiamo proporre che forme nominali di tal sorta fossero usate soltanto in modo predicativo: 56. W. Krause - W. THoMas, Tocharische Grammatik, I, Heidelberg 1960, p. 247. Le forme di kuceo neksa e preksa (in turfanio si ha riakäs e prakás) fanno parte del preterito tocario in -s-, cioè del morfema di aoristo ie., attestato ivi nella 3° sg. dell’attivo: al medio ricorre regolarmente in kuceo, mentre è affiancato in turfanio da una flessione priva di -s-. 57.

Per l'uso di -t(-) come morfema di passato, v. le mie Concordanze, p. 95.

63 *neks «una morte non naturale (è avvenuta)». *preks «una preghiera (è avvenuta)».

Il punto di contatto tra espressione nominale potrebbe esser costituito dalla frase nominale, verbo manca. Un buon parallelo tipologico preterito persiano, ove le forme participiali 3*

ed espressione verbale ove, per definizione, il è dato dalla storia del sg. kard ecc. sono tutte

derivate come si è visto, da una forma nominale krta- «fatto», ed il

punto originario della diffusione è stato la frase nominale, come in

apers. ima tya mand krtam «ciò è quello che (fu) fatto da me». Una

forma originaria di questo genere si è così distinta funzionalmente in una forma verbale (pers. kard «fecit») ed in una forma nominale (pers. karda «factus»). Da questo punto di vista, ad uno stadio più antico, potremmo avere una differenziazione analoga tra forme verbali, *neks-- zero, *preks-- zero (cfr. toc. 3* sg. neksa, preksa) e forme nominali, *neks, *preks (cfr. lat. nex, prec-es). In ittita troviamo una

certa conferma di questa bivalenza funzionale: nel trattato di ippologia del mitanno

Kikkuli abbiamo,

come

indicazioni di tempo,

le

espressioni equivalenti: mahhan-ma lukkatta «quando si fece giorno» (3* sg. del verbo) lukkatta-ma «la mattina successiva» (avverbio);

mahhan-ma nekuz mehhur kisari «quando viene il tempo della sera» (con ki3ari, 3* sg.)

nekuz mehhur «la sera», nekuz mehhur-ma «a sera».

La distinzione tra la 3? sg. lukkatta e l'avverbio lukkatta può essere secondaria e la 3? sg. nekuzzi < *nekw-ti «fa sera» ha semplicemente la particella deittica -i suffissa allo stesso ampliamento -t che dì la forma radicale *neku-t dell’ittita nekuz < *neku-t-s. Si cfr. inoltre *leuks del toc. 3* sg. preterito lyauksa «si illuminò» ed il nom. sg. lat. lux. La differenza tra queste due forme e l’itt. lukkatta è, in ultima analisi, soltanto nella scelta dell'ampliamento, *leuks: *leukt; ma, co-

me prima si è visto, *-s- e *-t possono valere come morfemi di preterito e di forme nominali del verbo. *

x

x

5. Nelle pagine precedenti si é dato un cenno dei problemi inerenti alla struttura del verbo greco e latino. La necessaria, continua comparazione ha, forse, allargato l'indagine al di là del dato immediato. Ma una ricerca di natura formale non puó oggi soddisfarsi dei sem-

64 plici confronti contenuti in pur ottimi manuali — dei quali, il più pratico é quello di C. D. Buck, Comparative Grammar of Greek and Latin, il pià chiaro ὁ il Traité de grammaire comparée des langues classiques di Meillet-Vendryes, il piü utile sono le Vorlesungen über Syntax del Wackernagel. Si sono affrontati 1 problemi segg.: 1) rapporti tra perfetto e medio (1.1. - 1.6.3.); 2) formazione del futuro e del congiuntivo tematici (2.); 3) rinnovamenti formali del presente, per qualificarne la natura di durativo di contro alla perfettività di altri temi (3.); 4) imperfetto e aoristo, e loro reciproca delimitazione in base alla valutazione dell'aspetto delle forme fondamentali (3.4.). Si sono, poi, esaminate alcune desinenze ed alcuni morfemi temporali e modali 1) del perfetto (4.1.); 2) dell'aoristo (4.2.); 3) dell'infinito (4.3.); 4) dell'imperfetto latino (4.5.). Trattando, infine, di alcune ipotesi relative alla natura della 3* perso-

na singolare (4.6.), si sono sottolineati i probabili rapporti tra le forme nominali e quelle verbali. Da tutti questi assaggi abbiamo desunto alcune impressioni che é opportuno qui ripetere: 1) La funzione dei suffissi non è determinata ab aeterno, ma si acquisisce col tempo; 2) Tali suffissi hanno a volte un'origine affatto indipendente dalla funzione che col passar del tempo sono chiamati a svolgere: cause puramente fonetiche ne determinano a volte la nascita, ed il

3)

valore funzionale viene acquisito per contrasto rispetto sia a forme fornite di altri suffissi già esistenti o formatesi contemporaneamente sia a forme prive di suffisso. Anche se non con sicurezza estrema, si può affermare con una certa ragionevolezza che la prima e più semplice opposizione è quella tra tempo indeterminato e presente: il presente veniva «marcato» con -i. In gr. la forma più semplice di tale segnatura si osserva nella 3* sg. attiva, tipo φέρει, da *bhere+i, che si contrappone alla 2? sg. attiva, φέρεις, grazie a -s, aggiunto sulla analogia di *bheroi-s, *e-bhere-s. Poiché è assurdo pensare a φέρεις < *bhere-si+s, secondo l’ipotesi tradizionale, si dovrà supporre che a φέρεις precedesse una fase con φέρει, valida sia per la 2* che per

65 la 3* pers. sg., analoga a quella dell'ittita, in cui sia nel preterito attivo della classe in -bi sia in quello medio la 2? e la 3* sg. coincidono (v. sopra). Il tema puro *bhere si trova nell'imperativo e nella forma temporale spesso associata con le espressioni volontative,

il preterito ἔ-φερε, marcato

con il cosiddetto

aumento,

che puó considerarsi un antico elemento differenziatore di forme altrimenti ambigue. Cosi vediamo l'aor. ipv. ἰδέ opporsi all'indic. εἶδε: forme ambedue atone, come dimostra l'ossitonesi del tipo λιπέ e l'accento sul preverbio, nel tipo ἔλιπε, regolato, secondoJ. Kury}owicz («Bulletin de la Société de Linguistique» 59 (1964), p. 4), dalla legge per cui nel verbo composto «é accentuata la sillaba immediatamente precedente la radice verbale, qualunque sia l'accento originario del preverbio in questione» (cfr. &xó-, ἐπί-, ma vedi ai. ápa-, dpi- ecc.).

Naturalmente il con-

fronto con l'ai. dbharat puó far pensare — secondo l'ipotesi tradizionale — che ἔφερε risalga a *e-bhere-t, ma si deve anche ricordare, che -t nel preterito medio ittita, oltre che nell'ai. á-

duhat e d-Sayat, è semplicemente una marca del preterito medio. In altre parole, l'aumento é un tratto distintivo del preterito, alla stessa stregua di -i nel presente; nel testo di Omero, come si é visto, i cosiddetti aoristi gnomici sono caratterizzerizzati con ἐ-,

perché se un presente puó indicare un'azione in corso sia nel presente che nel passato, un aoristo gnomico, in quanto non indica qualcosa che è attualmente in corso, si caratterizza come ció che piü si diversifica dal presente, e richiede quindi l'uso costante dell'aumento.

4)

b)

Questi principi generali presentano 1] sistema verbale greco come innovativo; ció era, d'altronde, prevedibile per due motivi: la ricerca comparata tradizionale era viziata dall'importanza e dall'influenza della filologia classica; come è chiaro al lettore, abbiamo trascurato di proposito le allusioni ai contatti storici tra greco e latino, che, in quel che abbiamo visto, si presentano come portatori di tradizioni linguistiche assai diverse; la linguistica strutturale avrebbe necessariamente minato il determinismo concettuale della linguistica tradizionale.

Particolarmente importante è affermare qui quanto fu felice É. Benveniste nello scindere il problema formale da quello espressivo, e nell'intuire che i suffissi non sono ab origine forniti di significato, bensì che noi attribuiamo ad essi - come agli ampliamenti delle radici — una funzione determinata o li associamo ad una determinata

66 classe. Anche se puó sembrare un paradosso, prima dobbiamo conoscere l'intelaiatura, poi l'immagine del telaio. Solo cosi potremo avere una conoscenza oggettiva, scientifica dei fenomeni linguistici.

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69 Il PROCEDURE INTERPRETATIVE E «CASI PROFONDI» NELLA SINTASSI GRECA 0. Se la lingua è un sistema simbolico, non c’è dubbio che i simboli di cui si avvale sono (almeno) di due tipi, a seconda che rappresentino direttamente o indirettamente — pur sempre in forma convenzionale, e quindi simbolica — un dato oggetto o un dato rapporto del reale. Del primo tipo sono i simboli che denominano, ad es., «gatto» il gatto, «libro» il libro ecc., cioè i simboli per cui i nomi dati a determinate cose divengono i nomi delle cose stesse, con una varia-

bilità che, per lo più, corrisponde alla varietà dei registri usati nella comunicazione. Il «gatto» sarà quindi anche un «felino», il «libro» un «volume» ecc. È anche ben noto che se non c’è motivo sostanzia-

le per cui io chiami «gatto» un determinato felino, sembra invece corrispondere ad un’esigenza più concreta il fatto che io unisca «gatto» con una forma verbale, ad es., di «miagolare», quando voglio

dire che «il gatto miagola» e con ciò descrivere quella tale azione che compie abitualmente. Le procedure simboliche usate nei due casi sono tuttavia analoghe, perché — anche se dico «il gatto mangia», usando un verbo non onomateopeico — rappresento con due elementi, ai quali dò simbolicamente il valore di oggetto e di azione, un’azio-

ne compiuta da un determinato oggetto, ovvero anche subìta da esso, come nel caso di «le foglie volano». Del secondo tipo sono, com'è noto, i composti «esocentrici», più propri delle forme della lingua che Saussure avrebbe chiamato «parzialmente motivate».

Dato,

infatti, un composto

nominale

come

l'ingl. window, nessun parlante inesperto di etimologie vi scorge altro che un'associazione possibile con wind, «il vento» (più o meno come un parlante spagnolo associa ovviamente ventana a viento), ma non giunge ad immaginare che originariamente valesse «l’occhio del vento»: in espressioni largamente definibili come kenningar il significato non è «complessivo» (per usare una definizione, non tra le più felici, di Jakobson) ma «esterno», se non «estraneo» al valore specifi-

co degli elementi componenti. Se ciò vale per il lessico, osservazioni analoghe possono farsi per la morfologia, specialmente delle lingue cosiddette «analitiche» ma, come vedremo trattando di fenomeni verbali greci, anche caratterizzate da una struttura «sintetica». È infatti frequente il caso che determinate forme verbali, grazie al loro

70

collegamento sintattico sia con particelle sia con verbi «ausiliari» o «modali», esprimano un significato diverso da quello loro specifico. Per la seconda eventualità é superfluo ricordare le perifrasi per formare il futuro od il condizionale in lingue ben note: certo è che, per un parlante inglese, gli elementi "Il e 'd che servono ad indicare il futuro ed il condizionale difficilmente hanno qualche collegamento col significato (non con la forma, é ovvio, e con la funzione sintattica) di will, shall, would e should, come per un parlante italiano non

informato di pur banalissimi problemi linguistici puó costituire una sorpresa l'apprendere che vedró e vedrei sono formati rispettivamente da ‘vedere + ho’ e ‘ebbi’. In inglese "Il e 'd valgono al livello sincronico come mere particelle «temporalizzanti» (nel senso, é chiaro, dell'ingl. tensed), non diversamente dalle particelle vediche purá, sma e (congiunte insieme) sma purá che, riferite al presente indicativo, indicano un azione che dal passato si estende sino al presente o che durava nel passato!, e dall'a.irl. ro che, con una certa analogia anche nelle forme corrispondenti del cornico e del cimrico, indicava sia un passato relativo che un ottativo?. Ma un affine trasferimento modale (come vedremo, non privo di implicazioni temporali) si osserva nel ben noto uso del greco &v, riferito alle forme finite dell'ottativo e dei tempi «storici» dell'indicativo e a quelle infinite — e cioè nominali —, appunto dell'infinito e del participio. Di questi costrutti greci mi occuperó qui in particolare, cominciando da quelli esemplificabili con 1) νομίζω αὐτὸν ταῦτα ἄν ποιεῖν / ποιῆσαι

2) δρῶ αὐτὸν ταῦτα ἄν ποιοῦντα

ποιήσαντα.

1. La questione è più complessa di quanto potrebbe apparire, quando si pensi che &v, nei modi finiti, si collega esclusivamente con forme con desinenze «storiche», quali l'imperfetto, l'aoristo e il piucchepperfetto (per rari che ne siano i casi) indicativo oltre che l’ottativo (quasi esclusivamente presente e aoristo). Nonostante l'ovvio rapporto delle prime due varianti di (1) e (2) con 3) νομίζω αὐτὸν ταῦτα ποιεῖν

4) ὁρῶ αὐτὸν ταῦτα ποιοῦντα, 1.

Cfr. le mie Concordanze, citt., pp. 62-3.

2.

ib., pp. 56-7.

71

le rispettive costruzioni con ἄν trasformano l'infinito ed il participio da denotatori di azioni reali in connotatori di azioni che, in quanto sono possibili, sono pertanto immediatamente non reali. Lo stesso avviene,

certamente,

quando ἄν si collega con un tempo

«storico»

dell'indicativo: ma infinito e participio restano eguali nelle due varianti, laddove nell'indicazione del presente (ché il passato è, di per sé, «non reale» in quanto «non attuale», come sono tentato di dire

pensando all'inglese actually) realtà e possibilità sono contraddistinte, nei modi finiti, rispettivamente da indicativo ed ottativo — quest'ultimo sia senza ἄν (ad indicare ció che ci 51 augura avvenga ma, intanto,

non è) sia con ἄν (ad indicare ciò che potrebbe avvenire ma, intanto,

non è). Se queste sono le cause dell'uso delle desinenze «storiche» nell'ottativo nelle lingue ie., la distinzione tra finito/infinito nel greco classico sostanzialmente le neutralizza: per meglio dire, sposta in àmbito temporale la differenza di aspetto tra infinito presente ed aoristo, per cui mentre,

ad es.,

5) βούλομαι ταῦτα ποιῆσαι

indica soltanto che voglio compiere, portare a termine qualcosa -- e non «star facendo» o «mettermi a fare qualcosa» —, senza differenza temporale rispetto a 6) βούλομαι ταῦτα ποιεῖν,

evitato con i verbi che indicano azione ma non con quelli che indicano condizione (del tipo di 7) βούλομαι ἀγαϑὸς εἶναι), la seconda variante di (1) e (2) si riferisce soltanto ad un'irrealtà nel

passato, intesa come diversa da ogni possibile esperienza precedente. Quindi dalla perifrasi con ἄν deriva a ποιῆσαι un valore non solo modale ma anche temporale— che di conseguenza viene esteso anche a ποιεῖν. Si ha cosi un ampliamento della possibilità differenziativa che,

anche se non

in misura

cosi spiccata,

si osserva nel contrasto

(dove almeno é attestato) tra participio presente e participio aoristo — naturalmente senza ἄν, perché in tal caso gli usi dell'infinito e del participio 51 ricoprono. 1.1. Ora il problema non riguarda tanto l'etimologia — notoriamente oscura -- di ἄν (e di xe(v), xa, che hanno la stessa funzione di ἄν in

greco preclassico e, in genere, non attico e della koiné). Il problema riguarda, invece, l’utilizzazione «complessiva» di perifrasi con ἄν (ed equivalenti) e, soprattutto, l'infinito ed il participio (quindi in frase .

72 oggettiva retta da verbo dichiarativo o di percezione), perché in esse il piano formale risulta affatto indipendente (e lo risulterebbe anche se a noi — come al loro tempo ai Greci— fosse possibile dare un significato lessicale a queste particelle) da quello interpretativo. Le procedure interpretative, insomma, si valgono di elementi dei quali il valore specifico può essere sostanzialmente negato. Così 8) Credo che tu l’abbia detto 8a) Credo che tu l’avresti detto

ci propongono due realtà diverse (trascuro il fatto che in (8) l'uso del congiuntivo presenta come supposizione ciò che il parlante non nega che sia avvenuto o pensa che sarebbe solo avvenuto ma, in realtà,

non è successo), le quali in greco sarebbero state contraddistinte soltanto dall’assenza vs. presenza di &v nel secondo caso (l’irreale è, quindi, marcato), col contrasto, cioè, tra il semplice ποιῆσαι e la perifrasi ἄν ποιῆσαι — che è marcata, oltre che modalmente, anche temporalmente, perché vale soltanto per indicare l’azione (o per meglio dire, la non-azione) irreale nel passato. Ben diversamente il latino risolve la questione al solo livello temporale, perché le traduzioni di (8) e (8a), cioè 9) Censeo te id dixisse

10) Censeo te id dicturum fuisse,

evidenziano in (10) la possibilità di formare quel futuro nel passato che sarebbe divenuto, come ho accennato con ovvio riferimento in 0., il condizionale delle lingue romanze (e, di conseguenza, di quelle

germaniche). 1.2. La valutazione «complessiva» delle perifrasi con &v colpisce il lettore attuale per l'applicazione di un sistema simbolico che sposta l'interpretazione al di là dei singoli simboli utilizzati, ma non meno lo colpisce la collocabilità di &v in sedi che gli possono apparire relativamente libere. Ad es., in Isocrate XV 119 οὐδὲ τῶν ἐχϑρῶν οὐδεὶς ἄν ἄλλως εἰπεῖν τολμήσειεν il collegamento di ἄν con τολμήσειεν e non

con εἰπεῖν appare «preferenziale» da un punto di vista logico, sebbene ἄν sia più vicino a εἰπεῖν che a τολμήσειεν: in questa frase, com'è chiaro, εἰπεῖν non ha valore di tempo (in quanto non condizionato da &v) ma solo di aspetto, rientrando nel caso di infiniti aoristi retti

73 da verbi di «volontà», «desiderio», «tentativo» ecc., di cui si é detto

a proposito di (5) e (6).

Nel paragrafo successivo, XV 120, la distanza di ἄν dall'ottativo è notevolissima: τίς οὐκ ἂν τῶν συνεστρατευμένων πρὸς ἀμφότερα ταῦτα

διαφέρειν ἐκεῖνον προκρίνειεν; La particella ἄν si trova qui — secondo uno schema frequente -- a ridosso della parte iniziale della proposizione: altrettanto avviene in XV 208 πολὺ àv ἔτι πλέον καὶ σφῶν αὐτῶν xai τῶν ἄλλων διήνεγκαν. Come in XV 120, ἄν introduce in

certo modo l'interpretazione da dare alla proposizione stessa, quasi fosse un elemento «avvertitore di modalità» (cosi come, al livello grafico — mi ricorda R. Lazzeroni - i punti esclamativi ed iinterrogativi avvertono il lettore che quella data frase spagnola &, appunto, esclamativa o interrogativa). Per di più in XV 208 ἄν si colloca come elemento non enclitico (mentre sono enclitici xe e xa) ma da evitare in posizione iniziale assoluta (anche quando, come vedremo, precede l'enclitico τις): collocato dopo l'avverbio, ἄν viola quel «principio di soggiacenza» che negherebbe di poter inserire un elemento allotrio all'interno di un determinato sintagma. La violazione di questo principio che, come ho detto altrove?, e lecita in greco, é ancor piü netta in un altro passo di Isocrate, VII 49, ἐν

καπηλείῳ

δὲ

φαγεῖν



πιεῖν

οὐδεὶς

οὐδ᾽ἄν οἰκέτης

ἐπιεικὴς

ἐτόλμησεν: qui, infatti, ἄν si inserisce in una specificazione appositiva, sia che si preferisca intendere — come sembra — «nessuna persona onesta, neppure un servitore», sia che si segua la traduzione data da alcuni editori, «nessuno, neppure un servitore onesto». 1.3. In ambedue i passi citati ἄν è in posizione di enclisi rispetto ad un avverbio, e τις é solo casualmente enclitico rispetto a ἄν. Lo di-

mostra la disposizione contraria in cui ἄν segue τις, come ad es. in Isocrate VII 11 xai ταῦτα γνοίη τις ἄν ἐκ τῶν περὶ ἡμᾶς γεγενημένων,

ovviamente da porre a confronto, per l'identità del verbo usato, con la frase in XV 207 ὅϑεν μάλιστ᾽ἄν τις γνοίη τὴν ἐπιμέλειαν, ὅσην ἔχει

δύναμιν, che é notevole per la prolessi del soggetto dell'interrogativa indiretta (sul quale argomento torneró nelle pagine seguenti). Tuttavia il séguito ἄν τις — non a caso ancora dopo un avverbio - ritorna, ad es., XV 121 ἐπὶ toig ἐχομένοις δικαίως ἄν τις αὐτὸν ἔτι μᾶλλον ἐπαινέσειεν, e non e, certo, da ritenersi un semplice tratto stilistico di Isocrate.

3.

Cfr. le mie Tendenze della linguistica teorica attuale, Pisa 1987, p. 176.

74

1.4. A queste collocazioni di ἄν si affianca quella in cui ἄν è riferita a pronomi relativi o a congiunzioni temporali e condizionali, ai quali conferisce un valore indefinito — nelle frasi, cioè, che richiedono l’uso del congiuntivo. Così in Isocrate XV 122, ove è ancora prolettico il soggetto della dichiarativa, ἠπίσταντο γὰρ τούς te δεδιότας ὅτι μισοῦσι δι’ odg ἄν τοῦτο πεπονϑότες τυγχάνωσιν. In questi casi l'encli-

ticità di ἄν sembra ovvia. 1.4.1 Questa pur discutibile enclisi di ἄν, vista nel complesso delle sue attestazioni e da considerare non cosi cogente e chiara come quella di κε e xa, spiega perché la si trovi dopo il verbo, ad es. in VII 61, ἐν γὰρ τοῖς τῶν ἀρχόντων αἱρέσει [che costituisce tutto un sintagma] ἴδοιμεν ἂν [verbo reggente] παρ᾽ αὐτοῖς τὰς ἰσότητας.. ἰσχυούσας

[frase

oggettiva

καὶ.. μέμφομαι

col

participio

predicativo];

VI

72,

Ἐγὼ

δὲ

xai νομίζω ... xai ... λοιδορῶ [lunga serie di proposi-

zioni coordinate che esprimono le riserve di Isocrate verso gli incapaci e i discendenti peggiori dei loro padri] καὶ συμβουλεύσαιμ’ ἂν [l'ultima frase coordinataè su un piano psicologico e rappresentativo diverso dalle precedenti, quasi a dire «li critico, e perciò vorrei consigliarli...»] αὐτοῖς παύσασϑαι τοιούτοις οὖσιν [interessante conclusione con un participio coordinato col dativo retto da συμβουλεύσαιμ᾽ἄν, secondo la costruzione diadica di questo verbo che, da un lato, regge il dativo, dall'altro l'infinito: ma anche su questo argomento torneró nelle pagine che seguono]. Inoltre in Isocrate VIII 93 εἴ τις ἡμᾶς ἐρωτήσειε, ei δεξαίμεϑ᾽ἂν [secondo la lezione piü diffusa] τοσοῦτον χρόνον ἄρξαντες τοιαῦτα παϑοῦσαν ἐπιδεῖν, τίς ἂν ὁμολογήσειεν x1À., il primo ἄν non potrebbe

stare dopo el, dove avrebbe prodotto ἐάν e, quindi, un significato condizionale ben diverso da quello dell'interrogativa indiretta con interpretazione potenziale. 1.5.

Cercando di tirare le somme relativamente all'uso di &v, si dirà

che dalla sorta di enclisi, comune alle sedi sia dopo pronome relativo e congiunzioni sia al termine di sintagmi — costituiti anche da avverbi e, persino, dalla negazione οὐκ —, questa particella si è diffusa insieme con tali sintagmi nelle varie parti della frase dove essi furono collocati per motivi di rilievo espressivo. In séguito a ciò si ebbero due diverse «funzioni simboliche»: una, che dirò «trasparente», rap-

presentata sia da ‘pronome relativo o congiunzione temporale o condizionale + &v' sia da ‘forme verbali specifiche (soprattutto, ma non esclusivamente, di ottativo) + àv ': la prima struttura rappresenta l'indeterminatezza e la seconda la possibilità (e, di conseguenza,

75 l'impossibilità). Un'altra, che diró «non trasparente», rappresentata dai casi in cui &v, anche violando il «principio di soggiacenza» (che, in quanto principio di calcolo mentale, é degno di esser tenuto almeno presente negli inventari linguistici), anticipa una forma verbale «specifica» (cioè di ottativo, di tempo storico dell'indicativo, di infinito, di participio presente o aoristo), anche «saltando» quella piü vicina alla quale potrebbe esser riferita nel caso che ce ne sia un'altra, finita, alla quale deve esserlo (E il caso di Isocrate XV 119). In questi costrutti ἄν si comporta rispetto al verbo come si comporta l'articolo di fronte ad un nome dal quale è distaccato da aggettivi, participi, complementi e/o avverbi. Solo una lettura «complessiva» colloca, ad es., nel loro ordine logico gli elementi tra oi e νεώτεροι, quando l'articolo ed il sostantivo sono divisi (mi si permetta l'exemplum fictum) da τότε ἐν ταῖς ᾿Αϑηναῖς καλῶς τεϑραμμένοι xal πεπαιδευμένοι.

Ma se la lettura di questo esempio é sostanzialmente «trasparente» -lo è di meno quella di ἡ καϑ᾿ ἡμᾶς, oi καϑ' ἑαυτόν ecc. —, la procedura

per cui, dato un pilastro di un arco, si deve attendere l'altro per capire cosa abbracci l'arco stesso, é analoga nell'uso «predisponente» dell'articolo e di ἄν. La differenza consiste nel fatto che, nell'uso di

ἄν «predisponente», il livello di simbologia utilizzato va oltre il dato empirico, richiedendo al parlante cognizioni alle quali si prepara (ed é, a sua volta, preparato) proprio con l'uso «predisponente» di ἄν, che conferisce alla perifrasi nel suo complesso un valore intuibile ma non esplicitato in modo biunivoco. Il piano formale, insomma, come accennavo in principio, é rielaborato in modo specifico in quello dell'interpretazione, come la morfologia trova una sua interpretazione nella presenza fondamentale di cognizioni sintattiche che la specificano, allontanandola dalla superficie.

2. Non tutti i problemi sono cosi netti: l'infinita varietà delle lingue presenta sfumature molteplici, ad es. nell'àmbito della funzione dei casi. In due passi dalla struttura simile (ambedue sono discorsi indiretti e contengono il contrasto «sì/no»), Senofonte, per narrare (Hist. gr.

II 1 26) che gli strateghi ateniesi rifiutarono le proposte di Alcibiade, scrive 11) ἀπιέναι αὐτὸν ἐκέλευσαν. αὐτοὶ γὰρ νῦν στρατηγεῖν, οὐκ ἐκεῖνον

- che puó tradursi «gli comandarono di andarsene, perché -- dissero -ora erano loro a comandare, non lui». E per narrare che Teramene

(ib. II 2 97) riferi all'assemblea degli Ateniesi che Lisandro, ormai

76 vittorioso, per ben quattro mesi lo aveva tenuto presso di lui senza rispondere alle sue richieste, scrive 12) εἶτα κελεύοι εἰς Λακεδαίμονα ἰέναι: οὐ γὰρ εἶναι κύριος ὧν ἐρωτῷτο ὑπ᾽ αὐτοῦ, ἀλλὰ τοὺς ἐφόρους

— che può tradursi «poi gli aveva comandato di andare a Sparta per-

ché — disse - non era lui l'arbitro di ció che gli veniva chiesto da lui, ma gli efori»*. In ambedue i passi il discorso indiretto, che dipende da un verbo di «dire» implicito nel verbo che significa «comandare» — lo ho esplicitato nella traduzione con «dissero» e «disse» —, regge l'infinito (rispettivamente στρατηγεῖν e εἶναι), ma prima col nominativo (αὐτοὶ e κύριος) e poi con l'accusativo (ἐκεῖνον, scil. στρατηγεῖν; τοὺς ἐφόρους, scil. κυρίους εἶναι). Il nominativo, come è chiaro, è

coindicizzato col soggetto della proposizione reggente (rispettivamente ol στρατηγοί e Λύσανδρος), mentre non lo è l'accusativo. Per l'esattezza, l'accusativo in (11) riprende quello della proposizione

oggettiva precedente (cioè αὐτόν, che è soggetto di ἀπιέναι e che, con questo infinito, forma la frase oggettiva retta da ἐκέλευσαν), mentre in (12) l'accusativo τοὺς ἐφόρους introduce un elemento tematico nuovo.

2.1. Dal punto di vista sintattico il contrasto tra nominativo e accusativo evidenzia la differenza tra una proposizione oggettiva il cui soggetto è «legato» ed una il cui soggetto è svincolato dalla coreferenza col soggetto della reggente. L’uso del nominativo, insomma, è in questa struttura il sintomo di un legamento, mentre quello dell'accusativo di un non-legamento: così la frase italiana 13) Voglio partire, ma voglio anche che tu rimanga

(col ripetuto voglio, come vedremo, non soltanto opzionale) l’uso dell’infinito è sintomo di coreferenza di soggetti, mentre quello formalizzabile come 13a) che + soggetto obbligatorio almeno nelle persone del singolare eguali tra loro, tranne in casi di evidenza contestuale + con-

giuntivo

è sintomo di soggetti non-coreferenti. 4. Anchel’inglese richiede forme di pronome focalizzate, per lo più con le forme di casi obliqui. Le condizioni sintattiche non appaiono, quindi, completamente identiche in italiano, in cui si può dire, da un lato, sia erano essi o erano loro a comanda-

re, non tu o non te, ma, d'altro lato, non lui è largamente preferito a non egli, e non io esclude *non me, ovviamente tranne quando me indica un complemento oggetto.

77 In italiano, inoltre, é pochissimo accettabile una frase come 14) Voglio partire, ma che tu rimanga,

come forse in latino non si accettava 15) Volo proficisci, sed te manere.

Come mostra (14), la ripetizione di voglio in (15) & tutt 'altro che facoltativa, proprio in relazione alla differenza tra la costruzione coindicizzata e quella non tale. Pienamente accettabile é, infatti, 14a) Voglio che tu parta, ma che lei resti,

come lo era assai probabilmente in latino 15a) Volo te manere, eam autem proficisci.

Invece, mentre in italiano è forse inaccettabile 16) Dico di partire, ma che tu rimani

(ed anche ma che tu rimanga), in latino 17) Dico me proficisci, te autem manere

non sembra frase da escludere. È ovvio, infatti, che il valore funzionale dei casi non è eguale neppure in lingue con casi, come appunto il greco ed il latino che qui ho preso come modelli. Non c’è dubbio, anzi, che in latino le due frasi greche (11) e (12) avrebbero richiesto entrambe l’accusativo con l’infinito ed avrebbero suonato rispettivamente 18) (dicebant) sibi imperium esse, non ei

(o, con traduzione più letterale, «se, non eum gubernare») e 19) (dicebat) non se deliberare posse, sed ephoros.

La costruzione dei verbi di «dire» in latino è diversa da quella dei verbi di «volontà», mentre in greco le due costruzioni sostanzialmente coincidono, perché richiedono ambedue il «nominativo con l'infinito» nel caso di coreferenza e l'«accusativo con l'infinito» nel caso opposto. Da un certo punto di vista, quindi, e pur con un certo paradosso, si dirà che il greco si allinea, sotto questo rispetto con

lingue quali l’italiano, l’inglese, il francese ecc. che distinguono le costruzioni dei verbi di «dire» e di «volontà» in base alla coreferenza o meno, mentre il latino, che distingue in base alle proiezioni lessicali dei verbi in questione, costruisce i verbi di «volontà» in base alla

coreferenza e alla non-coreferenza ma i verbi di «dire» indipendente-

78

mente dalla coreferenzialità, e quindi in modo univoco. Invece in lingue come il greco moderno, il serbo ed il romeno (cioè nel ben noto Sprachbund balcanico), ma anche nel tedesco colloquiale’, in persiano moderno (e forse eccezionalmente anche in latino, se si deve dar credito alla lectio difficilior in Seneca, De ben. 7 26 20) Vellem, non fecissem,

perché la lectio facilior reca 20a) Vellem non fecisse)

frasi del tipo di «dico di essere» e «voglio essere» hanno costruzione eguale a «dico che sei» e «voglio che tu sia», sicché anche se i soggetti sono eguali si ricorre ad una struttura che, tradotta letteralmente in italiano, suonerebbe 21) Dico che sono

(sulla quale tornerò tra breve) e 22) Voglio che io sia

— identica, insomma, a quella usata con i verbi di «volontà» quando i soggetti sono diversi. In questo problema si incrociano, infatti, due parametri: uno relativo alla funzione dei casi ed uno relativo alla costruzione richiesta,

in base alle rispettive proiezioni lessicali, dai verbi di «dire» e di «volontà» (e di «desiderio, aspirazione» ecc.). Greco e latino, che prediligono, specialmente in certi periodi della loro storia ed in certi livelli letterari, le costruzioni con l'infinito (trascuro, quindi, i casi di λέγω ὅτι e dico quod), si distinguono, però, relativamente alla coreferenza; comune ad ambedue è l’uso del «nominativo con l’infinito» con i verbi di «volontà», mentre tipico del latino è l’uso dell’infinito

quando si tratta di un verbo di «dire». Italiano, inglese, francese ecc. distinguono la coreferenza dalla non-coreferenza anche grazie al contrasto tra modo infinito e modo finito nella proposizione dipendente. Anzi, in italiano la costruzione di (21), con «che = modo finito»

5.

Cfr. H. H. Hock,

Principles of Historical Linguistics, Berlin, New

York,

Am-

sterdam 1986, pp. 495-7. Nel tedesco parlato la costruzione con dass è preferita se la proposizione dipendente contiene un modale. Quanto al greco, la costruzione ‘verbo di volontà + congiuntivo (aoristo!) di verbo non coreferenziale' — ovvio antefatto di quella ricordata da Hock - ricorre nel NT, Mth. 13, 28 Θέλεις οὖν ἀπελϑόντες συλλέξωμεν αὐτά; (= la zizzania»), stranamente tradotto in latino Vis, imus et collige-

mus ea. Anche in ciò l’italiano è più simile al greco che al latino (v. 2.2.).

79 nella dipendente da una frase con verbo di «dire», non si affianca soltanto come variante formale a quella con «di + infinito», ovviamente nei casi di coreferenza, ma sembre distinguersi dal punto di vista interpretativo: 23) Ti dico che sono pronto a tutto

24) Dico a tutti che sono tuo amico enfatizzano la veridicità dell'affermazione.

25) Dice di essere tuo amico 26) Ha detto di essere pronto a tutto

possono infatti interpretarsi come espressioni meno sincere. In àmbito lessicale affine si puó dar credito maggiore a chi 27a) assicura che sa fare una cosa che non a

chi

27b) assicura di saperla fare.

Oppure 28a) dimostro di aver letto questo libro

quando un altro si forma una tale opinione in base a ció che dico o faccio, ma 28b) dimostro che l'ho letto,

quando adduco, dal mio punto di vista, prove chiare al riguardo. Tra le due costruzioni con dimostro, quindi, quella di (284) & meno

centrifuga di quella di (28b). Ma se l'italiano dispone di questa alternativa con i verbi di «dire», altre lingue — come si è visto — escludono ogni distinzione anche con i verbi di «volere»: la coreferenza non vi trova, quindi, una sua specifica interpretazione semantica.

2.2. Torniamo al greco classico. In esso i casi sembrano avere, in base a (11) e (12), una funzione sintattica «profonda» — per non dire che il greco dispone di «casi profondi». Certo è che, in (11) e (12) la «categoria vuota» che costituisce il soggetto della proposizione infinitiva — del quale αὐτοί in (11) e κύριος in (12) sono rispettivamente

complementi predicativi — é necessariamente in un caso che, qui,

80 non puó essere altro che il nominativo e che ha la funzione di coindicizzare la traccia stessa col soggetto della reggente. Ben diversa, quindi, la struttura latina, in cui il riflessivo se (o sibi, a seconda delle traduzioni offerte in (18)) è indice di tale coindicizzazione. Tuttavia, come vedremo, sia in latino che in greco é tipica delle frasi infinitive la forma che ha, come loro soggetto, esplicito o no che sia, proprio l'accusativo. Che non sia necessario esplicitare il soggetto possiamo facilmente convincerci leggendo (12) dall'inizio del brano. Teramene 29) ἀπήγγειλε ἐν ἐκκλησίᾳ ὅτι αὐτὸν Λύσανδρος τέως μὲν κατέχοι,

εἶτα κελεύοι εἰς Λακεδαίμονα ἰέναι.

In questa frase l'accusativo αὐτόν, che é oggetto di κατέχοι («lo aveva trattenuto» — ma si noti l'uso puramente aspettuale e non temporale dell'ottativo presente, che pur si riferisce ad azione precedente -- «sino ad allora»), viene riciclato come soggetto dell'oggettiva introdotta da κελεύοι («comandó» -- altro ottativo atemporale — «che lui andasse a Sparta»). Si tratta di fenomeni intuitivi di legamento che forse rendono il greco piü lontano del latino da schemi preferibili in sistemi linguistici formalizzati alle origini in codici giuridici — o, come oggi saremmo piü portati a giudicarli, in mentalità computerizzate. Un'osservazione analoga, ovviamente in termini diversi, non ci stupiremo di leggere nello Zibaldone di Giacomo Leopardi, che sottolineava la differenza tra latino ed italiano rispetto alla maggiore somiglianza tra italiano e greco. 2.2.1. A conferma dell'esistenza di questi riferimenti ad sensum si pensi, ad es., ad una frase alla conclusione dell'epitafio in onore delle truppe inviate dai Corinzi, attribuito a Lisia e, comunque, accolto nella sua opera (198 80). Vi si legge che 1 caduti della guerra (soggetto della frase) 30) ϑάπτονται δημοσίᾳ xal ἀγῶνες τίϑενται ἐπ᾽ αὐτοῖς [«in loro onore», benefattivo] ῥώμης καὶ σοφίας καὶ πλούτου, ὡς ἀξίους ὄντας τοὺς ἐν τῷ πολέμῳ τετελευτηχότας ταῖς αὐταῖς τιμαῖς τιμᾶσϑαι καὶ τοὺς ἀϑανάτους.

Ebbene, la proposizione che comincia con ὡς introduce un accusativo assoluto che non coincide né col nominativo, soggetto implicito

ϑάπτονται, né col dativo αὐτοῖς del complemento di vantaggio. D'altronde la scelta dell'accusativo assoluto — costruzione oltretutto non frequentissima -- è difficile a spiegarsi perché la proposizione «causale soggettiva» («perché pensano che», oppure «come se 1 morti in quella guerra fossero degni di essere onorati con gli stessi onori degli

81

immortali» — ove non poco ci sarebbe da osservare a proposito di xai che, non diversamente dal latino atque, introduce il secondo termine del paragone) non contiene nessun genitivo che avrebbe potuto recar confusione nell'interpretazione. Uno dei motivi dell'uso dell'accusativo assoluto, infatti, é quello di evitare confusione con altri eventuali genitivi, non altrimenti sostituibili nella stessa frase: anche in greco, dunque, non si poteva avere piü di uno stesso caso (o non piü di una relazione grammaticale espressa con lo stesso caso) in una stessa frase. In una lingua con i casi, a quel che sembra, i livelli formali richiedono un'attenzione non minore di quelli solo sintatticamente funzionali. La frase successiva (198 80) riprende con l'accusativo il referente dell'orazione: 31a) ἐγὼ μὲν οὖν αὐτοὺς καὶ μακαρίζω τοῦ ϑανάτου καὶ ζηλῶ «Ed io, certo, li stimo felici per la loro morte e li invidio». Ma lo

stesso referente viene variato sübito dopo con la successione di «dativo + genitivo partitivo» in 31b) xai μόνοις αὐτοῖς ἀνθρώπων οἶμαι κρεῖττον εἶναι γενέσϑαι, in cui l'Autore, variando e criticando il noto motto di Omero, affer-

ma: «per loro soli, tra gli uomini, penso che sia meglio esser nati». Dell'accusativo assoluto, quindi, é difficile dare una spiegazione che vada al di là di un rapporto referenziale col contenuto dell'orazione: mentre un genitivo assoluto, infatti, avrebbe più probabilmente significato un contrasto tematico ed avrebbe anche permesso di pensare che si trattasse di caduti in una guerra qualsiasi e non in quella in particolare, questo brano di stampo tucidideo — ma di tono certamente minore — per mezzo dell'accusativo assoluto ricollega il sintagma specifico col dativo di fine contenuto nel titolo (autografo o non che sia, dato che l'idea dell'Autore Ἐπιτάφιος toig Κορινϑίων βοηϑοῖς.

era

appunto

quella),

2.3. Questi esempi greci possono dimostrare che la mancanza di regole biunivoche impedisce una lettura sintatticamente prevedibile, ma non mancano, nel greco stesso, esempi di letture di quest'altro tipo. Ad es., in Platone, Phaedo 66e 32a) τότε ... ἡμῖν ἔσται, οὗ ἐπιϑυμοῦμέν τε καί φαμεν ἐρασταὶ εἶναι, φρονήσεως, ἐπειδὰν τελευτήσωμεν ..., ζῶσι δὲ οὔ

il dativo dell'ultima dipendente si collega con 1᾿ ἡμῖν della principale, nonostante la «variatio» che allinea la temporale-eventuale «quando

82 saremo morti» con una participiale, «da vivi, no». E questo «da vivi» si collega appunto con «a noi sarà dato avere», quasi a sottolineare che «ciò che desideriamo e di cui diciamo di essere amanti, cioè la possibilità di conoscere», lo desideriamo ed amiamo proprio da vivi. Però sorprendente può apparire la frase successiva, perché in essa il legame è totalmente intuitivo: 32b) εἰ γὰρ μὴ οἷόν te μετὰ τοῦ σώματος μηδὲν καϑαρῶς γνῶναι, δυοῖν ϑάτερον, ἢ οὐδαμοῦ ἔστιν κτήσασϑαι τὸ

εἰδέναι ἢ τελευτήσασιν,

«perché se non é possibile, con il corpo, riuscire a conoscere chiaramente nulla, una delle due, o non é dato mai il possesso della facoltà

di conoscere o lo é dopo morti». In questa frase, infatti, non c'é nessun dativo precedente cui riferire il dativo ultimo: ma l'eguaglianza degli schemi di (32 a,b) — che, oltretutto, asseriscono la stessa cosa — facilita l'attribuzione di τελευτήσασιν all'fjuiv di (324), il quale rimane il necessario completamento dei due «é possibile», cioé «olóv te + infinito aoristo» di (32b) e «Eotau + infinito aoristo» di (32a), ove gli aoristi sono ovviamente risultativi. Si tratta tuttavia di referenti impliciti: di esplicito non c'é nulla. Oltretutto queste «categorie vuote», implicite nella procedura del legamento, sono precedenti e non successive all'elemento lessicalmente marcato -- e quindi si comportano in senso contrario a quello dei «legamenti» studiati in sede generativa. Ció, invero, é facilmente spiegabile dato il diverso orientamento delle strategie di scoperta dell'inglese (di tipo prevalentemente «progressivo») e del greco (di tipo «regressivo» in quanto «incapsulante» o «complessivo» o «retrospettivo»). La grammatica generativa, è noto, ha quasi esclusivamente generalizzato strategie tipiche dell’inglese. 2.3.1. Hanno quest'ultimo orientamento, fra i molti citabili, tre esempi, uno greco e due latini, in cui il riferimento dell’accusativo di un nominale precedente è ad sensum, perché — per celiare su un termine generativo — non ve ne è traccia. Quello greco, di Plutarco, Mor. 2 Ob, reca 33) δοτέον... toig παισὶν ἀναπνοὴν τῶν συνεχῶν πόνων [ma non è

detto chi «deve dare un po' di respiro ai ragazzi dalle fatiche ininterrotte»], διήρηται

ἐνθυμουμένους ὅτι πᾶς ὁ βίος εἰς ἄνεσιν xal σπουδὴν

«convinti» — ma non é detto chi lo sia -- «che tutta la nostra vita si divide in rilassamento e tensione». Ovviamente ci saremmo attesi un dativo, da collegare con l'inespresso dativo di agente δοτέον: ma l'eventualità di accordare per errore il participio col dativo benefattivo

83 toic παισίν ha fatto preferire l'accusativo, come «caso profondo» generico non di una concordanza ma di un legame -- quasi invece dell'aggettivo verbale «secondo» (il corrispondente della perifrastica passiva latina) ci fosse stato, ad es., un χρῆ διδόναι, in cui 1l soggetto di διδόναι fosse stato τοὺς πατέρας, esplicito nel brano poche righe prima o, genericamente, τοὺς διδασχάλους o ἡμᾶς.

Il primo passo latino, tratto dal Panegyricus (16 2) di Plinio il Giovane (per l'esattezza, «Traiano imperatori dicatus»), reca 34)

Magnum

est

stare

in

Danubii

ripa,

si

transeas,

certum

triumphi.

Qui, come nell'epitafio attribuito a Lisia, il referente é ben noto e rivelato dal titolo — cioé, Traiano, o meglio il «tu» con cui Plinio gli

si rivolge, per il quale «é una gran cosa potersene stare su una riva del Danubio, sicuro di vincere se lo valichi». Insomma, l'accusativo soggetto di stare, al quale si collega il predicativo certum, è ricavabile dalla seconda persona della proposizione ipotetica si transeas, al congiuntivo per attrazione modale e quindi personalmente definito, e non già al congiuntivo perché impersonale. L'altro passo ὁ di Cicerone,

Tusc. Disp. I 117, e reca

35) Quid melius quam in mediis vitae laboribus obdormiscere et ita coniventem somno consopiri aeterno?

A prescindere dal serpeggiare delle allitterazioni nella parte finale della domanda retorica, il soggetto dell'infinitiva soggettiva (obdormiscere et ita...consopiri) non è espresso. 2.4. La strategia contraria, cioè l'uso del nominale pieno che precede la traccia, si trova in non rari passi greci con prolessi del soggetto della proposizione secondaria. Ancora da Senofonte, Comm. 4 4 15, 36) Λυκοῦργον τὸν Λακεδαίμονα καταμεμάϑηκας... ὅτι οὐδὲν διάφορον τῶν ἄλλων πόλεων τὴν Σπάρτην ἐποίησεν.

ἄν

Senofonte anticipa e focalizza qui il soggetto della dichiarativa (o oggettiva) dipendente, facendone l'oggetto del verbo della reggente e lascia la secondaria priva di soggetto esplicito. Ma se non sorpren-

de questa omissione, perché il greco (come le lingue classiche in generale) é notoriamente lingua pro-drop, puó invece sorprendere il procedimento anticipatorio che sposta nella reggente il soggetto della secondaria nel caso richiesto dal verbo della reggente stessa, e lo esprime quindi con l'accusativo se tale verbo regge l'accusativo, col genitivo se regge il genitivo ecc. Più o meno lo stesso avviene nella

84 notissima canzone che invita a vedere «il sole quant'é bello». Ma una traduzione italiana accettabile del passo dovrebbe suonare: «Non sai che lo spartano Licurgo non avrebbe reso Sparta per nulla diversa dalle altre città ecc.» oppure, con focalizzazione del nominale, «Licurgo, lo sai che non avrebbe reso Sparta ecc.». D'altronde anche questa costruzione, con soggetto anticipato e quindi opposta a quella sinora discussa, ricorre in greco, ad es. in un passo di Demostene, 18 171, 37) πάντες γὰρ οἶδ᾽ ὅτι σωϑῆναι αὐτὴν ἐβούλεσθε

che comincia con l'enfatico «tutti» e continua con «lo so che volevate che (la città) si salvasse», a meno di giudicare οἶδ᾽ ὅτι un'espressione parentetica, da rendere col nostro «lo so bene». 3. L'analisi di procedure sintattiche greche rivela, quindi, la funzione «profonda» — non interpretativa, cioé — del caso. Di particolare interesse è, in questo àmbito, la funzione dell'accusativo come caso

(ovviamente profondo) di un non-legamento superficiale, nella qua-

le puó rientrare l'uso dell'accusativo come soggetto -- logico, ovviamente, e non grammaticale — nella costruzione greca dell'infinito sostantivato. Com'è noto, l'accusativo del soggetto del verbo all'infinito, in frasi come 38) τὸ τοὺς ἀνθρώπους λέγειν

«il fatto che gli uomini parlano», è indipendente dal caso richiesto dell'infinito come complemento. Si trova, quindi regolarmente all'accusativo in 39) τὸ / τοῦ / tà / ἐκ τοῦ τοὺς ἀνθρώπους λέγειν. Non

mancano,

peró,

anche

in questo

caso esempi

di nominativo

quando il soggetto dell'infinito sostantivo é coindicizzato con quello della reggente, ad es. in frasi come 40) μάλιστα ἡγεῖτο φιλεῖσϑαι ἐκ τοῦ ἀγαϑὸς elvat

«riteneva di essere molto amato per il fatto di essere buono». Si tratta di casi analoghi a quelli considerati in 2. e 2.1., i quali ripropongono il tema del contrasto fra soggettività ed extra-soggettività: l'accusativo si propone, quindi, come il caso dell'extra-soggettivo, in opposizione al nominativo (tipico della coreferenza soggettiva in greco) ma forse anche ad altri casi, come mostrano le osservazioni relative a (32 a,b). Estraneo a queste costruzioni con il nominativo e

l'accusativo del soggetto dell'infinito sostantivo é quella, di tipo

85 chiaramente nominale, con il genitivo dell'agente, quasi l'infinito fosse un sostantivo, ad es. in Demostene (19 269), 41) τὸ ved φρονεῖν αὐτῶν peiofe®. In greco si avevano, quindi, procedure tra loro contrastanti: da un lato vi si puó individuare un «caso profondo», libero rispetto all'anafora, e d'altro lato fenomeni interpretativi, collegati anche con particolari distribuzioni formali che — come si è visto nella prima parte di queste osservazioni sintattiche — possono contraddire, andando ben oltre processi di semplice variabilità, i contenuti indicati come propri dalle forme utilizzate.

6.

Sulla questione cfr. E. SCHWYZER,

Griechische Grammatik, II, München

1950,

pp. 368-71. Neppure recenti ricerche sull'uso dei casi in latino — compreso quello dell'accusativo — prendono in considerazione costruzioni come quelle qui discusse; cfr. ad es. ]. L. ΜΟΒΑΙΕΙ͂Ο ÄLVAREZ, Sobre los casos latinos, «Revista espaniola de lingüística» 16 2 (1986) pp. 293-324 e bibliografia ivi citata.

INDICE DEI NOMI

Adrados, F. R., 13, 16, 18, 20, 62, 67. Ambrosini, R., 17, 18, 20, 21, 22, 26, 27, 31, 33, 40, 41, 45, 55, 59, 70, 73.

Lazzeroni, R., 32, 73. Lejeune, M., 54, 67. Leumann, M., 16, 67.

Benveniste, É., 24, 32, 47, 51, 56, 57,

^ If H^ 17

65, 67. Birwé, R., 18, 67. Brugmann, K., 16, 19. Buck, C. D., 64, 67.

Macdonell, A., 25, 48. Martinet, Α., 11, 12, 13, 14, 16, 67. Meillet, A., 36, 37, 40, 41, 54, 64, 67. Moralejo Alvarez, J. L. , 85.

Burrow,

Pedersen,

T., 33, 43.

Chantraine, P., 25, 43, 67. Delbrück, Ernout,

B.,

Α.,

16.

36,

54.

Friedrich, J., 20, 67.

17.

18, 19, 20, 54, 55, 67.

Pisani, V.,

14.

Cassirer, Α.,

H.,

Prévot, Α., 67. Prince Roth, Renou,

A., 46.

L., 30, 41, 43, 67.

Rohifs,

G.,

Ruipérez,

27.

M.

S., 12.

Geldner, K. F., 30.

Saussure, F. de, 69.

Gonda, J., 67.

Schwyzer, E., 16, 30, 32, 41, 45, 46, 47,

Grassmann, H., 39. Hahn. E. H.. 67 a: ua: Wo i Hauschüld, R., 19, 42, 68.

50, 67, 85. Sommer, F., 26, 67. Strunk, K., 34. Sturtevant, E. H., 18.

Hock

Szemerényi, O., 60.

H

Η

78

Hofmann, J. B., 16, 67.

Tagliavini, C., 52.

Ivanov, V. V., 61.

Thomas,

Jakobson, R., 69. Κ Yo

Thurneysen, R., 54. Trubeckoj, N. S., 68.

Kronasser,

Vendryes, J., 64, 67.

rause,

K

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W.,

62.

H., 22, 23, 67.

icz,

J., 21, 25, 30, 33, 35, 37,

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W., 62.

Thumb, A., 19, 27, 42, 68.

Wackernagel, J., 16, 25, 38, 64, 68. Watkins, C., 34, 61, 62, 68.

Lane, G. S., 67.

West,

M.

L., 50.

INDICE Premessa

I - Dal piano formale a quello funzionale nello strutturarsi delle categorie verbali indo-europee Introduzione Perfetto medio Futuro e congiuntivo tematici Rinnovamenti formali del presente Imperfetto e aoristo Desinenze e morfemi del perfetto dell’aoristo dell'infinito dell’imperfetto latino Funzione della terza persona singolare Conclusioni Bibliografia

II - Procedure interpretative e «casi profondi» nella sintassi greca Interpretazione temporale dell’infinito in periodi ipotetici L'accusativo «caso profondo»? Indice dei nomi