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territori e lingue in diaspora italiani a vancouver silvia aru
TERRITORIO E SOCIETà
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Pacini Editore
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VoLume realizzato con il patrocinio e con il contributo di
Dipartimento di Studi Storici e Geografici, Università degli Studi di Firenze
© Copyright 2011 by Pacini Editore SpA ISBN 978-88-6315-340-8 Realizzazione editoriale
Via A. Gherardesca 56121 Ospedaletto (Pisa) Responsabile editoriale Valentina Bàrberi Fotolito e Stampa Industrie Grafiche Pacini In copertina Foto panoramica della baia di Vancouver Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni per uso differente da quello personale sopracitato potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dagli aventi diritto.
indice
Introduzione, Mappare le identità, narrare le diaspore............................... pag.
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Sezione I – IL QUADRO TEORICO Capitolo I. Identità diasporiche 1. Introduzione................................................................................................ » 2. L’identità come costrutto sociale................................................................... » 3. I volti della diaspora ................................................................................... » 4. Il ruolo del territorio nei processi identitari................................................. » Capitolo II. Lingue
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migranti
1. Introduzione................................................................................................ » 2. Le frontiere della Geografia delle lingue...................................................... » 3. Italiano, dialetto e lingue minoritarie: tempi, luoghi, funzioni.................. » 4. Dinamiche linguistiche in ambito diasporico.............................................. » Capitolo III. Emigrare: flussi
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italiani e politiche canadesi
1. Introduzione................................................................................................ » 2. Note sulle migrazioni italiane dal secondo dopoguerra.............................. » 3. Migrazioni e problematiche generazionali.................................................. » 4. Modelli d’integrazione a confronto: le politiche multiculturali canadesi.... » 5. Migrare in Canada...................................................................................... »
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Sezione II. Gli italiani a vancouver Capitolo IV. Il
contesto di indagine
1. La rete dell’associazionismo italiano a Vancouver...................................... » 2. L’attività dell’Italian Cultural Centre........................................................... » 3. L’area di indagine: i motivi di una scelta.................................................... » 4. La metodologia applicata............................................................................. » 5. L’accesso alla comunità e la problematica del consenso.............................. » Capitolo V. Pratiche
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identitarie: reti, simboli, lingue
1. L’esperienza migratoria................................................................................ » 93 2. Contatti tra la comunità e l’Italia................................................................ » 101
3. Le lingue tra funzione simbolica e uso........................................................ » 108 4. Usi linguistici in divenire: una lettura generazionale................................. » 117 5. La lingua sarda e friulana a Vancouver..................................................... » 120 Capitolo VI. Narrazioni
identitarie in diaspora
1. Introduzione................................................................................................ » 2. Riferimenti all’Italia e alla regione di provenienza..................................... » 3. Identificazione con l’Italia e con il Canada................................................ » 4. Aspetti generazionali: Italian Canadian Generations................................... »
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Conclusioni....................................................................................................... » 141 Bibliografia....................................................................................................... » 143 Sitografia........................................................................................................... » 151
A Lucia Bacchitta Fronteddu e Paolo Frau
“Quando divento grande voglio essere americana”, disse Giustina. Guardammo tutti nostra sorella; nessuno di noi aveva mai detto una cosa del genere. “Anch’io”, fece eco Maria. “Ma va non sai nemmeno cosa sia un americano”. La burlò Joe. “E invece sì”, protestò Giustina. Ed era più di quanto il resto di noi sapesse. “Lo siamo già, americani”, dissi io. “La signora Zimmerman ha detto che se uno è nato qui è americano”. “E quella è pazza”, disse Joe che non poteva sopportare i maestri. “Siamo italiani e se non ci credi domanda a papà”. Ma mio padre non fu di troppo aiuto. “I vostri figli saranno americani, ma voi, figlio mio, siete metà e metà. E adesso smettetela di fare domande. Queste cose le dovreste sapere dalla scuola. E che cosa imparate dalla scuola se no?” (Mangione, in Sollors, 2005, p. 231)
Io sono nata in Italia, a Montecchio, però mia mamma e mio papà sono albanesi e anche io allora sono albanese.
Io ho fatto l’asilo qui, la scuola qui. Io vorrei chiedere al maestro due cose. La prima cosa è questa: io sono italiana o albanese o tutti e due? La seconda: ma io sono immigrata o no? (Vera, 11 anni, Albania, in Caliceti, 2010, p. 67)
introduzione Mappare le identità, narrare le diaspore We carry so many homelands on the shoulders of a single Earth Zbiegniew Herbert
La tematica migratoria, abbracciando le mobilità di ieri e di oggi, dischiude un campo di indagine vario e molteplice. Il termine molteplice rimanda a quelle implicazioni sociali, economiche, culturali e politiche presenti in ogni migrazione, che risultano determinanti per la storia dei territori di partenza e di arrivo, tanto quanto per la vita del migrante. Lo stretto rapporto esistente tra congiunture storiche, contesti territoriali e motivi alla base delle scelte individuali, oltre che le connessioni che perdurano e quelle che si rompono tra territori ed elementi culturali di riferimento del migrante sono aspetti imprescindibili per comprendere nel profondo ogni mobilità geografica. Il fenomeno e il suo studio dunque non si concludono nel momento dell’arrivo del singolo nel nuovo Stato, ma trovano un’ulteriore frontiera di ricerca nel processo di inserimento e nei rapporti transnazionali che vengono mantenuti dalle varie comunità di migranti tra terre di partenza e terre di destinazione. Tra gli elementi che godono di un’attenzione crescente vi è senz’altro quello relativo ai processi identitari che coinvolgono i gruppi di migranti, e che rinviano alla trama di rapporti culturali e materiali tra contesti territoriali più o meno distanti e al sentimento di appartenenza da essi sviluppato. Questi due aspetti, connessioni materiali e sentimenti d’appartenenza – ovvero pratiche e discorsi identitari – non sono elementi tra loro disgiunti, ma determinano, interagendo, un circolo sinergico. È dai flussi materiali che spesso si evince la forza pragmatica dei discorsi identitari e viceversa sono i flussi materiali che spesso rendono ragione di molti discorsi identitari. Viviamo d’altronde in un mondo e in un tempo in cui il termine identità, e il concetto da esso veicolato, si trova negli ambiti discorsivi più disparati: a partire dal marketing turistico, alla pianificazione territoriale, alla progettazione partecipata, alle leggi statali e regionali nate per la tutela di tratti culturali “peculiari” (dalle lingue minoritarie, ai vini doc., ai balli fino ad arrivare al cibo), alle “lotte delle minoranze” che, in vari angoli del pianeta, rivendicano riconoscimento o autodeterminazione (Taylor e Habermas, 2005). Il termine si trova nei discorsi politici che, in nome di identità nazionali, chiedono norme che tutelino gli “autoctoni” dall’Altro, da chi “autoctono” non è, sancendo divisioni che si traducono spesso in differenze in termini di diritti e gerarchie sociali. La lista potrebbe continuare all’infinito, e questa indeterminatezza terminologica serve a chiarire quanta problematicità è insita in questo concetto polisemico (Fabris, 2006) che necessita da parte di chi lo utilizza di una qualche definizione preliminare della prospettiva da cui lo osserva, del senso che gli attribuisce e delle coordinate teoriche attraverso cui ne tesse il significato. Questo vale ancora di più quando si parla di identità dei migranti, viste troppo spesso come elementi di disturbo di identità nazionali preesistenti, omogenee e immutabili. Si è infatti più volte assunto, non solo nel senso comune ma, in passato,
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territori e lingue in diaspora. italiani a vancouver
anche all’interno del mondo accademico, che esistesse un isomorfismo tra spazio, luogo e cultura; che i confini delle varie identità culturali si potessero facilmente evincere a partire dai confini statali presentati nelle carte geografiche di tipo politico1. Mappare le identità significa così, secondo tale isomorfismo, attribuire a ogni Stato presente nella rappresentazione cartografica un’unica cultura omogenea, metaforicamente evocata dalle tessere colorate che compongono il mosaico statale del planisfero e dal tratto nero che le definisce e che rimanda al confine, al limite tra ciò che è uguale e ciò che è differente, tra ciò che si trova dentro e ciò che si situa fuori, tra il Noi e l’Altro (Minca e Bialasiewicz, 2004). Il presente studio si concentra su questo Altro, per cercare di comprendere l’intricata trama attraverso cui il migrante, la cui vita sfida l’equazione “luogo certo=cultura certa” (dell’Agnese, 2001), struttura la propria identità culturale tra tessere differenti del puzzle mondo, tra colori diversi di una stessa carta. Questo Altro è esemplificato dalla comunità italiana di Vancouver e dalle esperienze migratorie di coloro che ne fanno parte. Il migrante costituisce spesso il confine di una società (Dal Lago, 1999); l’essere liminale che non è solo vettore di mutamento sociale nel contesto di inserimento, ma che incarna identità basate su appartenenze molteplici o plurisituate. Identità migranti lette dunque come frontiere in perenne trasformazione, più che come confini netti che stabiliscono una volta per tutte uguaglianze e alterità. Tali identità sono in divenire perché cambiano nel tempo in rapporto alle congiunture storiche e alle politiche adottate, ma anche perché sono da riferirsi non solo agli emigrati in quanto tali, di vecchia e nuova generazione, ma anche, inevitabilmente, ai loro figli e nipoti2, nonché, ovviamente, al contesto socio-culturale d’arrivo. La ricerca di modalità alternative alla lettura fissista, essenzialista ed esclusiva delle culture e delle appartenenze, è centrale all’interno della recente geografia culturale (Nash, 2002). Questo interesse concede uno spazio sempre più ampio alle differenti rotte culturali, alla mobilità e all’“ibridità culturale”. La formulazione di nuovi termini o concetti nasce spesso dalla necessità di tracciare nuovi universi di significato da opporre ad altri ritenuti superati, obsoleti o, peggio ancora, ideologici e devianti. In ambito antropologico e geografico, soprattutto anglo-americano, per rispondere a tale esigenza si è utilizzato un concetto già noto, ma innestandovi un ampliamento di significato: quello di diaspora. Le diaspore (e le identità diasporiche) non possono essere cartografate, ma solo narrate. Come la voce che narra, ma non si fissa, la diaspora è un processo “never ending”3 (Fortier, 2000), senza con-fine che de-finisce. Le identità diasporiche sono
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Per una lettura critica della “logica cartografica” e, nello specifico, per l’analisi del nesso storico esistente tra la rappresentazione cartografica e la creazione dello Stato moderno (e, successivamente, dello Stato-Nazione) – tutte logiche che sono alla base dell’isomorfismo qui citato – si rimanda a Boria (2007), Farinelli (1992, 2009), Minca (2001) e Squarcina (2007, 2009). Si calcola che tra il 1876 e il 1976 26 milioni di italiani abbiano lasciato il paese e che ora ci siano circa 60.000.000 di italiani al mondo (considerando sia gli emigrati che gli oriundi) (Clò e Fiore, 2001). “Once the migration process is initiated, it is never ending […] it does not end when integration is seemingly achieved, nor does the physical return to the Italy bring migration to halt. […] Migration is equated with endless wandering; it is a state of perpetual homelessness that is conceived in pathological terms, epitomized by Bottignolo in the figure of the ‘stateless person’” (Fortier, 2000, p. 53).
introduzionE
infatti mobili e legate ai molteplici percorsi che collegano gli individui migranti a più scale territoriali e sono pertanto in antitesi concettuale con le identità essenzialiste, inscritte, come si dice, nel sangue e radicate organicamente all’interno dei territori nazionali. La diaspora, come processo che coinvolge una popolazione che abita lontano dallo Stato d’origine, è dunque il termine sintetico che racchiude quegli studi sulla migrazione e sulla cittadinanza transnazionale che si concretizzano in pesanti critiche nei confronti delle categorie statiche e limitate di nazione, “etnicità”, comunità, luogo e Stato, utilizzate per lungo tempo anche in ambito accademico (Blunt, 2007). Gloria Anzaldúa (Gupta e Ferguson, 2008), figura di spicco nell’elaborazione della teoria culturale e di quella queer, aveva già focalizzato la sua attenzione sulle problematiche identitarie di coloro che abitano fisicamente in un’area di confine, area che è stata definita in maniera icastica dalla studiosa come “la striscia limitata che corre lungo l’orlo scosceso dei confini naturali”4. La situazione in cui si trovano coloro che abitano in un’area transfrontaliera può essere assimilata a quella di coloro che vivono la vita attraverso il confine, come ad esempio i migranti lavoratori o le élites transnazionali. Per comprendere meglio tali problematicità si sono impiegati il termine di “multiculturalismo” o “interculturalismo” e quello di “subcultura”. I concetti cui tali termini alludono, utilizzati sempre più nelle teorizzazioni accademiche così come nell’uso comune, sono da considerarsi una debole presa d’atto che le “singole” culture hanno perso i loro ancoraggi in luoghi altrettanto definiti e richiamano pertanto la pluralità delle culture che possono sussistere all’interno di uno stesso Stato. È nel clima teorico aperto dai concetti di diaspora, di multiculturalismo e di transculturalismo (o “terzospazio” Bhabha, 1990)5, che ho dedicato una crescente attenzione alla storia e alle dinamiche di inserimento degli emigrati italiani all’estero – principalmente di coloro che varcarono i confini dello Stato a partire dall’ultima grande ondata migratoria italiana, quella del secondo dopoguerra – interrogandomi su quali pratiche (connessioni materiali, immateriali e simboliche con il contesto di provenienza) e narrative (senso di appartenenza, etc.) articolino nel tempo l’esperienza diasporica degli italiani che vivono nella città di Vancouver6. Parlare di identità in ambito estero ha inevitabilmente portato il presente lavoro a interagire con una molteplicità di studi italiani e non, dal carattere squisitamente interdisciplinare, che possono essere ricondotti a due approcci metodologici principali. Tali approcci in tempi e modi diversi, hanno indicato alcune importanti linee
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“[…] the narrow strip along steep edges of national boundaries” (Anzaldúa, in Gupta e Ferguson, 2008, p. 61). Mentre i concetti di multi – o interculturalismo presuppongono culture identitarie preesistenti che si mescolano in vario modo e grado, il concetto di “transculturalismo” o di “terzospazio” (thirdspace; Bhabha, 1990) parte dall’ibridità fondamentale di ogni cultura che viene soltanto in un secondo tempo (e più o meno surrettiziamente) fissato in un’entita essenzialista, normalmente “nazionale”. Il “terzospazio”, quindi, non è tanto uno spazio di sovrapposizione e interazione fra culture di partenza differenti, quanto un presupposto imprescindibile, anche se mai osservabile come tale, di ogni definizione di cultura. La ricerca empirica (svolta tra il gennaio e l’aprile del 2008) è stata condotta nell’ambito del Dottorato di ricerca in “Geostoria e geoeconomia delle regioni di confine”, XXI ciclo, Università degli studi di Trieste.
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territori e lingue in diaspora. italiani a vancouver
guida per la concettualizzazione e la successiva trattazione della nostra tematica: il costruttivismo sociale e il paradigma della mobilità. Partendo dagli spunti offerti dai due filoni teorici, il primo capitolo definirà le impostazioni disciplinari di riferimento. La trattazione, accogliendo il filtro concettuale della scuola costruttivista, legge le identità come “formazioni sociali”, ovvero come processi che si costruiscono all’interno di determinati contesti socio-territoriali e nel corso di specifiche congiunture storiche. L’identità, non inscritta fisiologicamente né nella natura dell’uomo né nel luogo dove si trova ad abitare, non sarà dunque un assunto facilmente desumibile dalla carta d’identità del singolo individuo, ma rimanderà principalmente al senso di appartenenza sviluppato da quest’ultimo rispetto a un gruppo, col quale condivide determinati parametri e fattori di identificazione, e alle pratiche a esso legate. Tra gli elementi di identificazione spiccano il territorio e la lingua7; per tale motivo a questi primari aspetti identificativi verranno dedicati nella parte teorica rispettivamente un paragrafo (cap. I, par. 4) e un capitolo specifico (cap. II). È necessario, quando si parla di processi identitari, comprendere come essi siano inseriti all’interno di dinamiche sociali ben più ampie, ed è a partire da queste considerazioni che si può cogliere la crescente importanza che ha assunto la tematica nel mondo contemporaneo. Se così non fosse, la stessa identità, ridotta a puro fatto soggettivo, potrebbe essere oggetto di studio della sola psicologia o socio-psicologia. Invece è proprio dallo studio della comparabilità delle singole percezioni identitarie e della loro contestualizzazione che si coglie l’importanza che una tale problematica riveste per innumerevoli discipline degli Human studies8. Il capitolo III dell’opera inquadra pertanto la presenta italiana a Vancouver all’interno di una specifica cornice storica e politica. Leggere le identità come costrutti sociali, come processi in perenne svolgimento piuttosto che dati di fatto statici, significa inglobare all’interno dello studio di tali “flussi identitari” sia dati soggettivi che oggettivi. A questo proposito sembrano fortemente attinenti le parole di Pierre Bourdieu: Nulla è meno ingenuo del problema che divide gli studiosi: e cioè sapere se bisogna far entrare nel sistema criteri che pervengono non solo alle proprietà cosiddette “oggettive” (come l’ascendenza, il territorio, la lingua, la religione, l’attività economica etc.), ma anche quelle cosiddette “soggettive” (come il sentimento d’appartenenza etc.), cioè le rappresentazioni che gli
Carlo Tullio Altan cita i cinque “oggetti” di memoria alla base del processo identitario: L’epos, celebrazione del comune passato; l’ethos, solidarietà sociale condivisa che si basa sul complesso istituzionale-normativo; il logos, la lingua; il genos, la discendenza; il topos, il luogo di identificazione del gruppo (Tullio Altan, 1995). Questi fattori non sono semplici tasselli che compongono il mosaico della memoria, ma ognuno può elevarsi a simbolo dell’unità stessa del gruppo, della sua identità. Essi inoltre non sono statici, ma variano nel tempo il loro ruolo, modificando di conseguenza la propria importanza in funzione di determinate circostanze; hanno il compito di alimentare le immagini che servono alla comunità quale supporto per la propria costruzione identitaria. Di rado questi elementi sono enfatizzati contemporaneamente e in egual misura. 8 Indagare la sola soggettività porterebbe in effetti a naufragare nel mare di discorsi solipsistici, in cui l’analisi di differenti percezioni identitarie – totalmente disgiunte da una matrice storico territoriale ben precisa – sembrerebbe, là dove si sposasse una visione fissista, scontata conseguenza dell’essere nati qui e non lì o, nel caso che tali percezioni si leggessero come processo, potrebbe invece farle apparire come bizzarrie di gruppo non facilmente comprensibili. 7
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agenti sociali si fanno delle divisioni della realtà e che contribuiscono alla realtà delle divisioni9. (Bourdieu, 1988, p. 117).
Le ragioni soggettive che stanno alla base dei processi identitari di carattere nazionale sono sempre interconnesse con processi culturali e politici più ampi e inserite all’interno di dinamiche complesse di relazioni sociali. Inoltre, un’analisi che partisse dai soli dati soggettivi, presupporrebbe necessariamente l’esistenza di un’identità soggettiva preesistente al contesto storico sociale10. L’identità diasporica, così letta, è dunque un modo per parlare sia di politiche perseguite dagli Stati che di emozioni vissute dai migranti (Nash, 2002) e l’efficacia di tale pratica si potrà evincere in più punti all’interno della presente trattazione, soprattutto nella seconda sezione, interamente dedicata all’indagine empirica a Vancouver, laboratorio di sperimentazione della declinazione dei concetti di identità e diaspora. In questa parte del lavoro, si è dapprima tracciato un quadro del contesto in cui si è svolta la ricerca e della metodologia seguita (cap. IV). Inoltre, per cercare di rendere operativo il tal volta nebuloso concetto di diaspora (cap. I), sono state analizzate le due anime che compongono ogni processo identitario di gruppo: le pratiche (cap. V) e le narrazioni (cap. VI). Con il termine di pratiche identitarie in ambito diasporico, ci si riferisce all’esperienza migratoria e alle reti di contatto tra la comunità e l’Italia, visto che, su un piano oggettivo, la diaspora viene da esse creata (Clifford, 1999). Le pratiche però non sono definite solamente dall’inserimento del singolo e della comunità in una rete di relazioni tra differenti Stati e attori sociali, ma anche da una serie di competenze individuali, prime tra tutte quelle linguistiche. Ampio spazio del capitolo V è stato dedicato dunque agli usi e ai cambiamenti che interessano le lingue parlate dalla comunità (inglese, ma soprattutto i codici d’origine: italiano, dialetto e/o lingue minoritarie) e alla funzione da esse svolta nel definire specifici sentimenti di appartenenza. All’interno della ricerca linguistica è stato inoltre condotto un breve approfondimento sui gruppi sardi e friulani11 (cap. V, par. 5). Dopo aver definito le implicazioni più squisitamente pratiche (legami e competenze) della dimensione diasporica, l’opera si conclude con un capitolo sulle narrazioni identitarie, ovvero sulle elaborazioni discorsive di appartenenza territoriale che ogni diaspora, sfidando con il suo potere destrutturante la concezione nazionale della cittadinanza (Salih, 2005) (cap. VII), porta con sè. Sono proprio le narrazioni – complesse combinazioni di nazionalismo culturale (che colloca la terra originaria dei padri e la cultura originaria dentro i confini del territorio italiano)12 e di coscienza
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Il profondo nesso tra discorsi identitari e pratiche è ben sintetizzato dal seguente brano di Bourdieu: “Le categorie secondo le quali un gruppo pensa se stesso, e rappresenta la propria realtà, contribuiscono a determinare la realtà di tale gruppo” (Bourdieu, 1988, p. 128). Per una critica serrata a tale concezione si rimanda a Lévi-Strauss, 1950. Tale scelta deriva, come si avrà modo di spiegare nel dettaglio, dall’importanza che la lingua sarda e quella friulana hanno nel determinare un forte grado di identificazione locale in ambito italiano. Ciò che si cercherà dunque di valutare in sede di analisi dei dati è se il diverso status giuridico (rispetto alla maggior parte degli altri idiomi locali) e l’importanza assunta dalle due lingue minoritarie in ambito italiano siano in qualche modo ravvisabili anche a Vancouver. Nonostante l’uso accademico che associa ormai quasi esclusivamente all’identità una natura fluida, contestuale e frammentaria, si assiste nelle pratiche discorsive comuni alla presentazione di
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territori e lingue in diaspora. italiani a vancouver
diasporica (che riabilita l’emigrante e la sua esistenza multi-locale) – che turbano i concetti statici di nazione, di casa e di comunità, per far emergere le continue tensioni tra il qui e il là, tra continuità e cambiamento (Fortier, 2000)13. Il volume vuole porsi come luogo di analisi di specifiche dinamiche – quelle che hanno interessato la comunità italiana di Vancouver a partire dal secondo dopoguerra – che, seppur provviste di caratteri propri, possono gettare luce su alcune problematiche sottese da qualsiasi processo migratorio; problematiche a cui le politiche dei singoli Stati in precise congiunture storiche possono scegliere di rispondere in maniere molto differenti14. Tali aspetti sono, per citare i più importanti: il dialogo interculturale, la tutela dei diritti degli stranieri e di alcune peculiarità culturali dei gruppi migranti, i rapporti economici-culturali e sociali tra Stati etc.15. Scripta manent, la carta e il suo tratto fissano, mentre la narrazione vola, è libera di svelarci la complessità del reale e la molteplicità delle forme che può assumere la cultura, attraverso lo spazio, oltre i confini. La geografia, come ci ricorda Minca nella sua lettura critica della ragione cartografica (Minca e Bialasiewicz, 2004), può incatenarci alle sue geometrie, ma può anche mostrarci da prospettive differenti nuovi mondi e nuove modalità di pensare, progettare e abitare il mondo (Dematteis, 1985). Può allenare lo sguardo e la mente, aiutandoci a ragionare in termini complessi e più aperti di quanto comunemente non si faccia, anche sul rapporto tra noi e gli altri. Il primo grazie al mio maestro, Bruno Vecchio, perché con i suoi insegnamenti mi ha mostrato tanti anni fa, a partire da un’aula universitaria, innumerevoli mondi e modalità di pensare e abitare il mondo di cui non riesco (e non voglio) più fare a
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un modello stringente di connessione tra la terra e le persone, non spezzato dalle migrazioni (Nash, 2005). Per quanto attiene alle pratiche (reti e usi linguistici) e alle narrazioni identitarie in diaspora, si è cercato di cogliere il ruolo giocato non solo dall’Italia nel suo complesso, ma anche dalle regioni di provenienza dei migranti. La scala regionale è stata scelta in considerazione del ruolo preponderante assunto dalle regioni all’interno delle politiche emigratorie a partire dalla loro costituzione; tali politiche si sono espletate nel finanziamento sistematico di club e associazioni regionali all’estero, contesti in cui si stabiliscono (o rinsaldano) identità a tale scala territoriale (cap. I, par. 4). Non è facile far dialogare la dimensione storica e quella dell’attualità; non è un caso che l’ampia letteratura che si occupa di migrazioni odierne e passate mostri una totale separazione dei due aspetti (cfr. Rinauro, 2010; Masotti, 2010). Esitono delle indubbie problematicità nella comparazione, difficili da superare, che nello stesso tempo possono svelare però delle forti potenzialità analitiche. Il primo aspetto è senz’altro la necessità di un approccio alla problematica di tipo interdisciplinare. È necessario infatti “[…] mettere a confronto tra loro numeri e persone o, per dirla in termini meno aulici, fattori oggettivi di carattere demografico, economico, di razionalità utilitaria con altri fattori soggettivi, di natura culturale, emotiva, identitaria, allo scopo di restituire più completamente lo spessore di una scelta mai facile, sempre traumatica e dolorosa come quella migratoria” (Gozzini, 2005, p. 7). “Oggi per i paesi ricchi la scelta realistica non è tra sì o no all’immigrazione, bensì tra quale tipo di immigrazione scegliere: una composta da immigrati solitari e temporanei, più vulnerabili al richiamo di attività criminose, oppure una fondata sulla riunificazione dei nuclei familiari, maggiormente stabile e portata a cercare protezione nella legge. Ma questa seconda scelta, con ogni evenienza più convincente, implica il superamento di una visione meramente poliziesca del problema immigrazione” (Gozzini, 2005, p. 141).
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meno; per la sua presenza costante in tutto il mio percorso formativo, per il tempo che ha dedicato alla revisione del mio lavoro e per l’opportunità di pubblicarlo nella collana da lui curata. Desidero esprimere la mia profonda gratitudine a Mirella Loda e a Manfred Hinz per le correzioni e i suggerimenti fondamentali durante la preparazione del manoscritto; ringrazio inoltre la referee anonima che ha permesso ulteriori e preziosi miglioramenti del testo. Rivolgo un sentito ringraziamento a Gianfranco Battisti, relatore della tesi di dottorato da cui è tratta l’opera, per la disponibilità e i consigli costanti durante gli anni del dottorato, a Trevor Barnes per avermi accolta, ospitata e fatta sentire “a casa” al Dipartimento di Geografia della UBC (University of British Columbia) e a Claudio Minca per l’aiuto indispensabile nella fase di preparazione della trasferta accademica a Vancouver. Un particolare ringraziamento va inoltre a Niccolò Mancini perché non dimentico, oggi come ieri, le parole, la pazienza e l’affetto con cui mi ha introdotto nel mondo della ricerca empirica; il suo supporto e i suoi consigli sono stati essenziali per iniziare e concludere il lavoro. Al gruppo Lages (Laboratorio di Geografia Sociale, Università degli Studi di Firenze), in particolare ai “magnifici tre”, Stefano Bartolini, Diego Cariani e Cristina Lo Presti, per aver condiviso in questi anni il lavoro quotidiano. Alla Regione Sardegna che ha finanziato il percorso di dottorato e attualmente l’assegno di ricerca all’Università di Cagliari; grazie perché è attraverso questi finanziamenti che molti ricercatori possono continuare a confidare nel valore del loro lavoro e a credere alla fattibilità dei loro sogni. Per lo stesso motivo, un sincero grazie alla Fondazione Banco di Sardegna che ha finanziato la pubblicazione e al Dipartimento di Studi Storici e Geografici dell’Università di Firenze che l’ha patrocinata. Desidero inoltre ringraziare il Direttore, i docenti, i borsisti e il personale amministrativo del Dipartimento di Studi Storici, Geografici e Artistici dell’Università di Cagliari presso il quale attualmente svolgo attività di ricerca come assegnista; un grazie di cuore per il tempo concessomi va alla sezione di Geografia: ad Antonio Loi, Clara Incani, Fabio Parascandolo e Marcello Tanca. A Gianluca Scroccu, anche se i ringraziamenti non sarebbero mai abbastanza: per il supporto morale durante i mesi dell’elaborazione del manoscritto, per l’aiuto nella ricerca di finanziamenti, per le ore spese via mail e di persona nell’insegnarmi costantemente, attraverso la sua esperienza, quanto forte possa essere la sinergia tra desiderio, impegno e riuscita. A Ferdinando Adorno, Giovanna Cubeddu, Valeria Deplano, Maris Matteucci, Stefania Murgia, Raffaele Pilia, Antonella Rondinone, Rosa Smurra e Francesca Zanda, per esserci sempre nonostante tutto cambi. Il ringraziamento più grande lo devo alla mia famiglia, senza il cui supporto incondizionato non sarebbe possibile percorrere la tortuosa strada della ricerca. Non sarebbe stato invece possibile percorrere le vie di Vancouver senza la comunità italiana; pertanto grazie a tutti. A Camilla, Carmelo, Joe, Toni, Rino, Franca, Vito, Rocco, Giusi, Valentino, Mike, Enza, Ashley, Anna Maria, Damiano, Simon, alle famiglie Carta, Frau, Fronteddu e Salaris, a Cristina e alla sua dolcissima nonna: grazie per l’aiuto, la disponibilità e l’affetto che mi avete concesso lungo l’arco del mio lavoro… questo libro è dedicato a voi.
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SEZIONE I
IL QUADRO TEORICO
Capitolo I. Identità diasporiche 1. Introduzione Gli studi sulle migrazioni hanno conosciuto in questi ultimi venti anni un ampliamento in termini numerici e un arricchimento in termini qualitativi. Negli anni ’70 i testi di geografia presentavano innumerevoli riferimenti al movimento, alla mobilità e alla migrazione1 (Cresswell, 2008). L’interazione spaziale era definita come tutte le forme di movimento tra due o più luoghi, e veniva analizzata a partire da concetti come complementarietà tra luoghi e trasferibilità. Nel tempo, accanto a un’analisi siffatta, hanno preso forma differenti e avvincenti prospettive di ricerca, riconducibili a quella svolta culturale degli anni ’90 ricordata come Mobility Turn2 (Blunt, 2007; Cresswell, 2011). All’interno dei nuovi paradigmi disciplinari emergenti, la mobilità ha assunto una connotazione d’interesse più ampia vista, in un mondo sempre più in movimento, come in antitesi concettuale con la fissità, il non movimento, termini associati alla dominazione di un mondo diviso in confini. Il dialogo transnazionale prodotto da questa mobilità di idee e contenuti ha una prima e centrale conseguenza. Se fino a quel momento l’indagine dei singoli flussi migratori era scissa tra i luoghi di partenza e quelli di arrivo, tra il prima della partenza e il dopo l’arrivo, è solamente in questo nuovo clima culturale che la migrazione, e con essa la figura del migrante, vengono restituite alla loro complessità3 (Tirabassi, 2006). Studi sulle comunità italiane emigrate in ambito italiano e studi sugli italiani immigrati negli USA, in Canada, in Brasile etc., iniziano a comunicare e ad arricchirsi vicendevolmente; e così accadrà anche per gli studi di settore sulle altre comunità migranti. Indagare la vita del migrante significa, sempre più, studiare la sua natura plurisituata, i motivi alla base dello spostamento, le ragioni che delineano un determinato percorso e non un altro; comporta l’analisi delle tappe dell’inserimento nel contesto d’arrivo, e quelle della creazione di link di connessione con il contesto di provenienza4.
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Gli anni ’70 sono stati a livello mondiale anni di grandi cambiamenti sociali ed economici (cfr. cap. III) ma anche anni di rielaborazione di nuovi concetti e idee. Questo periodo ha assistito al Cultural Turn (Bonnell e Hunt, 1999; Wieviorka, 2002) e ha dato il via alle prime discussioni sistematiche sulle molteplici dimensioni (materiali, sociali e psicologiche) delle differenti forme di mobilità. Con tale termine si identifica la crescente attenzione accademica alla mobilità, vista come aspetto centrale (e ineludibile) della condizione umana contemporanea. Gli studi sulla mobilità hanno incluso specifiche analisi, alle varie scale territoriali, sulle comunicazioni e dei media, delle infrastrutture e delle differenti reti transnazionali (economiche, sociali, culturali), del turismo e della dimensione del viaggio. Tale svolta si è inoltre tradotta in linfa vitale per i Migration studies, lavori interdisciplinari il cui oggetto specifico sono le migrazioni. Il campo delle ricerche sulla mobilità ha avuto, come conseguenza diretta, il nascere in ambito internazionale di una rivista a partire dal 2006 (Mobilities) e, in ambito italiano, nuovi momenti di dibattito e interesse che hanno coinvolto, naturalmente, anche la disciplina geografica (Bonifazi, 2004). Come ci ricorda Cresswell, infatti (2011, p. 577): “Human mobility is practised. Mobility does not just happen – the act of moving is not simply a line on map – but it is actively taken up in experience. Mobility involves all five senses and a more general kinaesthetic sense”. In questi vent’anni sono state utilizzate in ambito geografico varie metodologie d’indagine nello studio delle migrazioni (Sheller e Urry, 2006). Il materiale analizzato spazia dalle ricerche etno-
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La parabola concettuale compiuta dal termine diaspora (così come da quello di transnazionale5) è emblematica dell’ampliamento della base analitica e degli interessi dei migration studies dopo il Mobility Turn6. Parola chiave e “ingannevolmente trasparente” (Pozzi, in Franzina, 2005, p. 101), la diaspora storicamente ha rimandato a particolari forme di mobilità forzata. All’interno della nuova cornice essa si trova invece associata – già ricordato – a processi più articolati. È dall’incontro tra gli studi sulle migrazioni e quelli costruttivisti sull’identità che si può cogliere infatti un attacco concettuale all’idea di un’identità nazionale certa, immutabile e geneticamente trasmettibile7. Il concetto di diaspora rappresenta dunque un trait d’union tra gli studi sulle migrazioni e quelli di matrice costruttivista sulle identità (fig. 1).
Migration studies Paradigma della Mobilità
Diaspora
Identità come “costrutto sociale”
Fig. 1. Matrice teorica di riferimento.
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grafiche, alle interviste qualitative, passando per le analisi delle cartoline e delle lettere scritte dai migranti e delle foto che li ritraggono, fino ad arrivare all’analisi della musica, delle performance artistiche e di altre pratiche culturali da essi realizzate (Blunt, 2007); tra queste le memorie personali, le storie e le esperienze della migrazione. Alcuni studiosi hanno analizzato le vicende dei singoli migranti, altri hanno compiuto studi di tipo archivistico. Cfr. Signorelli, 2009. “The term ‘new mobilities paradigm’ is ambiguous. It could refer to ‘new mobilities’ in opposition of ‘old mobilities’ or it could refer to ‘new mobilities’ in contrast to old ‘immobilities’. The former suggests that there are empirically new mobilities in the world that demand a new way of thinking. It could also suggest that there is a new way of thinking that sees mobility differently from the ‘old mobilities paradigm’ represented by, say, transport geography and migration studies. The latter suggests that both the world and our ways of thinking about it were more ‘sedentarist’ – fixated on permanence, rootedness and boundedness at the expense of dynamism and flow – and that these ways of thinking (a sedentarist metaphysics) are no longer appropriate” (Cresswell, 2011, p. 575). Così come da numerosi altri studi: “Spatial concepts such as ‘deterritorialization’ and ‘borderland’ (including related ideas of ‘hybridity’ and ‘marginality’) provide a framework, then, upon which to move beyond our assumptions about culture as spacially localized or fixed with clear boundaries and territory” (Gupta e Ferguson, 2008, p. 60).
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All’interno di questo framework teorico Si tratta essenzialmente di osservare l’emigrante non come parte di un continuum storico che lo trasformerà inevitabilmente da “paesano” in canadese, bensì di porlo al centro di relazioni locali, nazionali e transnazionali in continuo sviluppo e che agiscono puntualmente sui processi identitari (Ramirez, 2005, p. 94).
Tale concetto permette dunque di mettere a fuoco aspetti delle migrazioni che non sempre sono stati adeguatamente tenuti in conto e analizzati. Esso permette infatti di individuare pratiche, narrazioni e problematiche identitarie inerenti a tutti i flussi migratori, anche se specifici caso per caso. Prima di analizzare nel dettaglio la storia e l’attuale uso del concetto di diaspora, è necessaria una breve disamina degli studi costruttivisti sull’identità, visto che la prima idea da decostruire è quella che singole identità siano collocate in luoghi particolari e dentro confini definiti una volta per tutti (Cresswell, 2008). 2. L’identità come costrutto sociale […] la questione se la cultura sia comportamento strutturato o forma mentale, o anche le due cose mescolate, non ha più senso. Quello che si deve chiedere su un ammiccamento derisorio o una finta razzia di un gregge di pecore non è quale sia il loro status ontologico. È lo stesso di quello delle rocce da una parte e dei sogni dall’altra: sono fatti di questo mondo. La cosa da chiedersi è quale sia il loro significato: cosa quindi […] venga detto quando avvengono e attraverso la loro azione. (Geertz, 1987, p. 47)
L’identità, parola chiave sia in ambito accademico che nell’uso comune, racchiude una molteplicità di significati e di usi (Aru, 2008). Il termine, con tutte le sue varie declinazioni – personale, di gruppo e, nello specifico, sociale, culturale, nazionale, politica – muta repentinamente significato in base al contesto e al punto di vista di coloro che la utilizzano. L’identità, prodotto di una serie di processi complessi difficilmente tracciabili, è definita non a caso da Bauman come un “grappolo di problemi” (Bauman, 2003, p. 7). Nel mondo d’oggi il termine assume almeno tre differenti sfumature di significato8. Esso è prima di tutto un concetto logico (espresso nella forma A=A) che asserisce l’identità di una cosa con se stessa e ne esclude l’identità con altro. è inoltre l’insieme dei caratteri peculiari che rendono qualcosa o qualcuno quello che è, diverso da altri referenti. In ultimo, la parola identità rimanda alla consapevolezza di sé, personale o di gruppo, come un insieme stabile e strutturato, al di là di caratteristiche concrete esperibili in maniera oggettiva9.
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Il termine, derivante dal latino tardo identitas, -atis (1385), fu coniato quale traduzione della parola greca ταυτός radice di tautologia, dell’identità perfetta, ma senza alcun interesse perché la spiegazione rimanda allo stesso concetto, è cioè circolare (Raffestin, 2001). Nel XIII sec. essa rimanda al “segno di ciò che permane” (ibidem, p. 3). Le tre sfumature di significato del termine sono presenti in tutti i dizionari della lingua italiana. Laplantin (2004) per definire l’identità come consapevolezza del sé utilizza il concetto di identità ipse; tale definizione si oppone al concetto dell’identico, ovvero all’identità idem.
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A partire dalle tre declinazioni generali, sono state elaborate nel senso comune, e soprattutto in ambito accademico, almeno due teorizzazioni antitetiche sulla natura del concetto di identità collettiva e, in particolare, dato l’oggetto della ricerca, di identità nazionale. L’una – che parte dai primi due significati appena esposti – la legge come una caratteristica organica del gruppo, alle volte biologicamente fondata; l’altra, ritenendola diretta conseguenza degli studi sulla soggettività, analizza le singole identità come pratiche di autoriconoscimento, che nascono a partire da un percepito senso di appartenenza di gruppo sviluppato da determinati individui. Entrambi i significati ritornano spesso in maniera intrecciata all’interno dei discorsi legati a questo termine polisemico. Le idee sottese dalla prima concezione di identità come “dato di fatto” legano l’appartenenza a connessioni ancestrali, discendenze di sangue e parentele primordiali. A un’idea processuale fa dunque da contraltare una di tipo sostanzialista; la scuola che si riconosce in tale impostazione prende il nome, non a caso, di “primordialista”10. La presenza delle idee da essa veicolate nella teoria culturale e, più in generale, all’interno della cultura pubblica è alquanto contraddittoria; anche se in ambito accademico (soprattutto a partire dalla svolta culturale degli anni ’70), si è imposta un’idea processuale dell’identità11. L’impostazione costruttivista qui accolta pone la luce sul contesto in cui “sentimenti” d’appartenenza vivificano e sulle pratiche a essi connesse. Tale scuola di pensiero, che tra i suoi massimi rappresentanti annovera Eric Hobsbawm12 e Benedict Anderson, considera il senso di appartenenza e il nazionalismo quali costrutti sociali e politici, non definibili, in maniera primordialista, come elementi innati presenti nei geni o nel cuore dell’uomo (Minca e Bialasiewicz, 2004). L’identità, perdendo i suoi ancoraggi biologici, viene dunque letta come costrutto sociale, come processo in atto e in continuo divenire che nasce e dialoga incessantemente in rapporto all’esterno. L’esterno è rappresentato da un lato dagli attori sociali “Altri” rispetto al “Noi” (Remotti, 2001; Aime, 2004; Fabietti, 2004), dall’altro dalla contingenza storica, ovvero dal contesto socio-economico che anima la questione stessa (Harvey, 2002; Bauman, 2003). Qualunque identità nasce e prospera dunque all’interno di questa dinamica relazionale (Hobsbawm e Ranger, 2002) che è relazione tra uomini, tra gruppi, ma è anche relazione tra luoghi e tra le politiche in essi adottate. Il fatto che l’identità non sia qualcosa di inscritto nella “natura” dell’uomo non solo non svilisce la problematica, ma la arricchisce di nuove e interessanti domande.
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Gli studiosi che si riconoscono nella scuola primordialista sono accomunati dal credo che l’appartenenza del singolo al luogo di nascita e alla cultura di cui quest’ultimo è culla, parta da legami “naturali” che gli permettono di riscontrare le affinità con altre persone accomunate da legami simili; tali forme di appartenenza rappresentano i givens, ovvero le caratteristiche date, proprie della condizione umana. Tale ragionamento, portato all’estremo da alcuni studiosi, definisce la natura di tali legami come biologica e genetica: il senso di appartenenza a una nazione ben precisa si baserebbe essenzialmente sulla discendenza. Dato l’ampio dibattito scaturito intorno alla problematica in esame, si sono avute anche in quest’ultimo caso varie declinazioni teoriche: a partire dal costruttivismo, fino a giungere al poststrutturalismo e all’approccio postmoderno (Minca, 2001). Cfr. Hobsbawm e Ranger (2002).
identità diasporiche
L’identità, qui presentata come un processo che si basa su operazioni definite costruzioni o da alcuni autori finzioni13, ha pur sempre una propria “ragione” e come tale merita di essere oggetto di studio. Il fatto che l’etnicità [e dunque l’identità ad essa associata, nda.] sia un artefatto, un modello, una “finzione” o un criterio di classificazione non significa che le categorie che definisce siano caselle vuote. Al contrario, sono categorie investite di una grande carica affettiva ed emotiva, e percepite come dati reali da coloro che in esse si riconoscono (Rivera, cit. in Aime, 2004, p. 101).
In tal caso il termine oggetto non rinvia alla materia nella sua fisicità, ma alla forte carica pragmatica14 di quella che prende il nome di “pratica dell’identità”: il riconoscersi parte di un gruppo, l’assumere questa e non quella identità, il negoziare identità e appartenenze plurime, fa sì che i singoli progettino “azioni comuni in vista di uno scopo politico”. Non si può pertanto ignorare il fatto che “non è ciò che è, ma ciò che le persone percepiscono a influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti” (Connor, in Minca e Bialasiewicz, 2004, p. 99). In ambito geografico, Don Mitchell (2000), partendo anch’egli dal concetto di “comunità immaginata”15 afferma l’importanza di uno studio che trascenda la semplice presa d’atto dell’identità come processo per porsi il problema non solo di come avvenga l’immaginazione e la narrazione identitaria, ma su quali siano le pratiche e gli esercizi di “potere” attraverso cui questi legami sono prodotti e riprodotti16, anche perché “Immaginare è incominciare il processo che trasforma la realtà” (Bell Hooks17, in Chambers, 1996, p. 14). In questo senso, è riduttivo leggere le identità come semplici “comunità immaginate”, in quanto esse sono anche comunità costituite attraverso l’istituzionalizzazione di pratiche di cittadinanza e riproduzione sociale. “[N]ations and national identities are produced” – scrive Mitchell (2000, p. 271) – in a specific historical and geographical context as means of producing a certain kind of loyalty, of sense of belonging, between people (a certain identification)”. Che cos’è dunque l’identità? È un processo che, per usare le calzanti parole di Malkki (2008), rimane per definizione mobile, inconcluso, in parte auto-costruito dal gruppo, in parte frutto di una categorizzazione attuata dall’esterno del gruppo stesso18, in parte una con-
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Lo stesso termine finzione è da ricondursi all’etimo latino, fictio, esso non è traducibile come “falsità”, ma come “costruzione”: l’identità è fabbricata, costruita, ma non finta (Geertz, 1987). A tale proposito Raffestin afferma: “Anche l’identità più logora può sopravvivere se le immagini sono l’occasione di una gestualità collettiva che metta in scena progetti” (Raffestin, 2001, p. 10). Concetto che rimanda al titolo emblematico di un’opera di Anderson (1996). Dello stesso parere anche il sociologo Manuel Castells: “Quale che sia il fascino dell’influente concetto di “comunità immaginate”, esso appare banale o empiricamente inadeguato. Banale, per uno studioso di scienze sociali, se esso significa che tutti i sentimenti di appartenenza e le forme di iconolatria sono culturalmente costruiti. Le nazioni non farebbero eccezione. L’antitesi tra comunità “reali” e “immaginate” è di scarsa utilità analitica […]” (Castells, 2002, p. 31). Bell Hooks è lo pseudonimo di Gloria Jean Watkins, (1952 - vivente) insegnante universitaria, femminista e scrittrice statunitense. La categorizzazione è quel processo che, secondo Fabietti, si presenta come una vera e propria “imposizione identitaria dall’esterno” (Fabietti, 2004, p. 136). Sono dei soggetti estranei che, tra-
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dizione, uno status, un’etichetta, un riparo, un capitale di memorie19. Come accennato in precedenza, tali letture non statiche, ma processuali della tematica identitaria, sono rese ancora più interessanti quando si studiano gruppi che, partendo dall’esperienza migratoria, possono sviluppare appartenenze multiple rispetto a differenti contesti territoriali e/o pratiche culturali e linguistiche. Se ogni identità nasce e prospera rispetto al contesto, l’esterno, nel caso dei gruppi che si costituiscono a partire dall’esperienza migratoria, sarà rappresentato nello specifico non solo dagli altri abitanti della società d’accoglienza, ma anche, a una scala più estesa, dai rapporti (politici, economici, culturali) che si instaurano tra i contesti d’origine (nel nostro caso, l’Italia) e i contesti d’arrivo (nel nostro caso, il Canada). È all’interno dello studio delle identità in ambito migratorio che, come accennato in precedenza, subentra la riconcettualizzazione del termine diaspora. 3. I volti della diaspora L’uso della parola “diaspora” è completamente mutato nell’ambito dei nuovi sviluppi disciplinari ed ha assunto una molteplicità di significati che trovano nel campo degli studi sulla migrazione il terreno più fertile. Il termine dal Seicento fino agli anni ’70 del Novecento si riferiva alla situazione degli ebrei che vivevano lontano da Gerusalemme. La spiegazione di questo uso circoscritto è probabilmente da ricondurre al fatto che la parola diaspora si sia diffusa attraverso la descrizione biblica dell’esilio ebraico, pertanto come sinonimo di deportazione e sofferenza (Gabaccia, 2005). Tale accezione cancellò quasi del tutto l’antico uso estensivo del termine che, prima di venir utilizzato dallo storico greco Tucidide
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mite delle etichette, definiscono un gruppo come tale senza tener conto di un reale e percepito senso di appartenenza: i criteri di omologazione interni al gruppo non sono decisi nel suo seno, ma imposti dall’esterno. La categorizzazione, ad esempio, si ritrova fortemente anche rispetto alla problematica migratoria: molti migranti non si percepiscono come gruppo, ma lo sono nella percezione della società d’accoglienza; oppure la si trova nel momento in cui le caratteristiche di identificazione vengono decise dall’esterno e non accettate dal gruppo che subisce questo processo di etichettamento (italiani mafiosi…). L’identificazione si presenta come processo opposto alla categorizzazione; sono i membri del gruppo che sviluppano una coesione interna che porta alla definizione di un “Noi”. Capita sovente che il processo d’identificazione sia una sorta di difesa elaborata dal “gruppo categorizzato”. Sembra di grande attinenza la distinzione operata da Manuell Castells. Nel testo, il cui titolo è non a caso Il potere delle identità, l’autore propone di distinguere tra identità “legittimante”, “resistenziale”, “progettuale”. L’identità legittimante è quella introdotta dalle istituzioni dominanti per estendere il proprio controllo e dominio sugli attori sociali; l’identità resistenziale è quella che si oppone a precedenti categorizzazioni ed è dunque generata da quegli attori che si trovano in condizioni svalutate dalla logica del dominio, e dunque tendono a costruire trincee per la resistenza e la sopravvivenza; l’identità progettuale prende corpo quando gli attori sociali costruiscono una nuova identità il cui scopo è una ridefinizione della loro posizione nella società e, per far ciò, mirano a trasformare la struttura sociale nel suo complesso. Naturalmente le identità così delineate non sono universi chiusi e dati una volta per sempre, infatti “le identità nate come resistenza possono comportare progetti e persino assumere, nel corso della storia, una posizione dominante nelle istituzioni della società, trasformandosi quindi in identità legittimanti per razionalizzare il proprio dominio” (Castells, 2003, p. 8). “Identity is always mobile and processual, partly self- construction, partly categorization by others, partly a condition, a status, a label, a weapon, a shield, a fund of memories […]” (Malkki, 2008, p. 281).
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per narrare le vicissitudini degli esuli della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), faceva riferimento alla dispersione dei greci per tutto il Mediterraneo e all’interno dell’Asia minore (ibidem, 2005). Lungi dall’essere esuli e rifugiati, i greci in queste aree erano principalmente mercanti e colonizzatori. L’etimo del termine rinvia non a caso alla parola “seme”20 perché, come semi, i coloni facevano germogliare nuovi insediamenti greci in terre straniere; nessun riferimento etimologico dunque alla sofferenza o alla natura forzata di tale mobilità. A partire dagli anni ’70 del secolo scorso si può notare la comparsa di vari lavori inglesi e americani che utilizzano “diaspora” in maniera traslata per descrivere le migrazioni degli irlandesi, cinesi e ucraini. Tale processo avrebbe aperto ben presto, in maniera sistematica con l’avvento degli anni ’9021, la via per l’utilizzazione del termine per descrivere una serie sempre più ampia di mobilità (da quelle dei filippini a quelle dei tedeschi etc.). Lo studioso figiano Sudesh Mishra nel suo volume Diaspora Criticism definisce le tre principali “poetiche della diaspora” (Diaspoetics); ovvero i più importanti filoni tematici che si sono sviluppati nel tempo attorno a questo concetto (Mishra, 2006) (tab. 1). Il primo racchiude gli studi che hanno sottolineato come l’esperienza diasporica corrispondesse per i soggetti migranti a un’identità scissa, problematica e conflittuale perché basata su differenti entità territoriali: la terra di residenza e quella d’arrivo22 (cfr. i lavori di Sheffer, Conner, Safran e Cohen). L’immigrato è atopos, senza luogo, fuori luogo, inclassificabile: Né cittadino, né straniero, né veramente dalla parte dello Stesso, né totalmente dalla parte dell’Altro, l’immigrato si situa in quel luogo ‘bastardo’ di cui parla anche Platone, alla frontiera dell’essere e del non essere sociali. (Bourdieu, in Marsiglia, 2002, p. 6).
Per prendere in prestito l’espressione di Sayad, l’emigrato sarebbe portatore di una “doppia assenza”: La contraddizione fondamentale del “provvisorio che dura” (dell’emigrazione-immigrazione che non è uno stato passeggero né uno stato permanente) si trasferisce dall’ordine temporale all’ordine spaziale, secondo un’‘ubiquità impossibile’: la sorte dell’emigrato è quella di continuare
Il verbo greco σπεíρω indicava l’atto del seminare; il verbo composto δια-σπεíρω significava distribuire e, in forma passiva, essere distribuito. 21 È sorprendente notare come, da un rapido sguardo al catalogo on-line di Harvard (HOLLIS), si noti una lista che conta più di 1.200 monografie alla voce “diaspora” o “diaspore”, di cui i 2/3 pubblicate dopo gli anni Novanta. Inoltre tra il 1949 e il 1979, la maggior parte dei titoli erano rivolti alla diaspora ebraica e, in minor misura, greca. Una tale considerazione rende ben conto dei mutamenti avvenuti nell’uso di questo termine (Gabaccia, 2005). 22 Si vedano le parole emblematiche di un emigrato riportate da Sayad: Dj: - Non so cosa sono, ma so cosa non sono: non sono francese, pur essendo di nazionalità francese e sono ancora meno algerino. - E questo cosa vuol dire? Sei apolide? È un nuovo modo di essere apolide? Dj: […] non siamo apolidi. Forse ci sono persino troppe patrie, una sovrabbondanza di patrie, due patrie nello stesso tempo sono troppe… Qual è di troppo?… Ma forse non rappresentano nessuna patria! È questo l’apolide forse? Ci sono due patrie possibili, ma sono esteriori… Come dire? Sono intorno a noi, è l’ambiente (Sayad, 2002, pp. 364-365). 20
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a essere presente sebbene assente e là dove si è assenti [nel paese d’origine, nda.]; al tempo stesso il paradosso dell’immigrato è di non essere totalmente presente là dove si è presenti [nel paese d’arrivo, nda.], il che significa essere parzialmente assenti (Sayad, 2002, p. 46).
Il secondo filone, il più nutrito e all’avanguardia (cfr. i lavori di Gilroy, Mercer, Clifford e Brah), definisce la diaspora in termini di identità girovaghe e multiterritoriali che si differenziano da quelle lineari, fisse perché legate a un unico riferimento territoriale che si considera immutabile. Il moderno paradigma, che vedeva il migrante come lacerato “tra due culture” e intrappolato nella dicotomia assimilazione/esclusione, è stato affiancato dalla figura del migrante come espressione di un meticciato, se non di un cosmopolitismo progressista, dal basso, il quale, lungi dal vincolarsi a un singolo progetto nazionale o culturale, attinge da fonti spazialmente e culturalmente plurali. Centrali nei processi identitari emergono quindi i percorsi di adattamento e negoziazione23 che simboli, idee, tratti culturali e senso di appartenenza attraversano nel corso della dispersione e rilocalizzazione, fenomeno che implica un incessante lavorio di mediazione tra affiliazioni complesse e appartenenze multiple (Salih, 2005, p. 165).
Questa lettura fa decadere, come si può evincere dai lavori di Clifford (1994, 1999), l’idea di una contrapposizione tra i riferimenti a due (o più) Stati-Nazione, insieme alla conseguente lettura della lacerazione e della teleologia della partenza e del ritorno. All’interno di tale interpretazione la questione dell’identità viene letta come una situazione specifica in divenire, piuttosto che una tensione perpetua tra differenti contesti territoriali fissi. Il sociologo inglese Paul Gilroy, ad esempio, legge il processo diasporico come subnazionale, transnazionale, non territoriale; una vera e propria sfida a ciò che l’autore descrive come “sedentary poetics of either soil or blood” (Gilroy, 2007, p. 286), poetica all’interno della quale la terra, l’anima, i geni, il sangue, la cultura, la resistenza e l’affiliazione politica coincidono idealmente, come visto, con i confini dello Stato-Nazione. Anche per i sostenitori di tale lettura, la diaspora non si traduce nell’approdo a identità totalmente indeterminate. La costruzione identitaria in diaspora è modellata, per usare una metafora cara a questi studiosi, dai due concetti di roots e routes, ovvero da radici e rotte di viaggio, emblemi rispettivamente di fissità e cambiamento. Piuttosto che produrre un’opposizione tra radici e percorsi, la diaspora per Gilroy significa una nuova relazione tra i due concetti24 (Gilroy, 1992). Si fanno strada concetti come quello di borderlands. Quest’ultimo non rimanda a un
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Secondo Audenino (1999) i processi di integrazione degli emigrati italiani avrebbero avuto esiti differenti nei vari contesti. Per l’autrice si possono individuare tre casistiche precise: i paesi latini, i paesi anglosassoni e quelli di lingua tedesca. Nei paesi latini l’integrazione degli italiani avrebbe avuto esiti meno traumatici; in quelli anglosassoni l’inserimento degli immigrati sarebbe avvenuto solo “nell’ambito di uno dei molti segmenti etnici che frantumano questa società, dando luogo a identità sdoppiate rappresentate semanticamente dall’espressione ortografica consistente nel tratto o barra che delimita gli individui euro-americani” (Ibidem, p. 177). Infine, nei paesi di lingua tedesca, l’integrazione sarebbe stata fortemente avversata dalle politiche di scoraggiamento attuate. In ambito geografico si vedano le parole di Jacqueline Nassy: “[…] not solely constructed through mobility and identification with a distant place of origin but through a special localness that contains the globe in all its cosmopolitan dockside diversity. This local internationalism suggests […] that diaspora is not solely a transnational relation (Nassy, in Nash, 2007, p. 359).
identità diasporiche
luogo di confine topograficamente situato e fisso che si colloca geograficamente sulla retta tracciata dalla distanza di due località altrettanto stabilite. Esso è una zona interstiziale di dislocazione e deterritorializzazione che forgia l’identità di soggetti spesso definiti “ibridi” (Gupta e Ferguson, 2008), oppure, in maniera più articolata, “soggetti con appartenenze molteplici”25. Le culture di diaspora sono dunque quelle che mediano “in una tensione vissuta, le esperienze di separazione e di intreccio, del vivere qui e ricordare/desiderare un altro luogo” (Clifford, 1999, p. 313). Concetto di diaspora
Studiosi maggiormente rappresentativi
I
Identità diasporica scissa, problematica e conflittuale.
Sheffer, Conner, Safran e Cohen.
II
Identità diasporica girovaga, multiterritoriale e non necessariamente conflittuale.
Gilroy, Mercer, Clifford e Brah.
III
Studi relativi a casi specifici (si evitano le grandi costruzioni teoriche).
Gabaccia, Manalasan, Edward.
Filone tematico
Tab. 1. Filoni teorici riconducibili al concetto di diaspora.
Tale secondo filone analitico pone dunque l’accento sul modo in cui le identità sono costantemente rimodellate attraverso la mobilità e le connessioni con molteplici luoghi e altrettanto molteplici riferimenti culturali, non necessariamente in conflitto tra loro (Bergnach e Komac, 1993). Genealogical identities are both commodified and ‘true’ […]. Genealogy involves social networks of amateur genealogists; local, national, and international organizations; professional bodies; family gatherings; web-searching; conferences; research tours; searches for distant living relatives or for a village, street, farm, or cottage that can be claimed as a point of origin or family location. It has a material culture of magazines, books, websites, video guides, commercially produced family trees, crests, and ancestral or heraldic charts, and specific ways of imagining the past, the family, and the meaning of genetic, biological, and cultural inheritance. […] Genealogy is about significant places – family homes and ‘origins’ – and complex global networks of travel, desire, and imagination (Nash, 2002, p. 29, sottolineatura mia).
Le identità dei migranti sono state e continuano a essere infatti dei processi modellati da legami materiali e simbolici tra le varie località di partenza e di arrivo. Le identità diasporiche più che essere legate alla domanda Da dove vieni?, sembrano rispondere a quella, che l’autore definisce “domanda dell’identità interculturale” (Clifford, 1992, p. 109), ovvero, Tra cosa sei? I costrutti teorici sulla diaspora sono tanti, problematici e giocati in un campo di forze dal carattere squisitamente interdisciplinare; ma anche i soggetti di studio, i migranti, non possono essere omologati semplicisticamente all’interno di un unico
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Il concetto di “ibridità” poco si attaglia, all’interno della presente trattazione, all’idea che non esista un’identità pura a cui una teorica ibridità potrebbe concettualmente rimandare per antitesi.
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processo diasporico. Il periodo in cui ha avuto luogo l’emigrazione, la collocazione sociale, il profilo lavorativo, le aspettative legate alla mobilità, il sesso, il livello d’istruzione, sono alcuni degli elementi che hanno permesso differenti elaborazioni del senso identitario26 (Audenino, 1999). I processi identitari in ambito diasporico e le problematiche relative all’integrazione sono dunque fortemente connessi al periodo in cui la migrazione ha avuto luogo e, soprattutto, al profilo socio-culturale e lavorativo del migrante giunto in terra estera (Cresswell, 2008). Physical location and physical territory, for so long the only grid on which cultural difference could be mapped, need to be replaced by multiple grids that enable us to see that connection and contiguity – more general, the representation of territory – vary considerably by factors such as class, gender, race and sexuality and are differentially available to those in different locations in the field of power (Gupta e Ferguson, 2008, p. 67).
Attraverso queste lenti analitiche, potremmo analizzare i vari processi che coinvolgono migranti dal differente profilo, come ad esempio i professionisti, che sembrano appunto sviluppare coscienze di tipo “cosmopolita”. L’emigrazione è differente dalla semplice migrazione nella misura in cui “la tradizione millenaria, senza tempo” è interrotta dalla emigrazione. Da un fenomeno naturale, la migrazione si trasforma in e-migrazione in quanto obbligo socioeconomico (Fortier, 2000). Al proposito sembrano amare quanto vere le parole usate da Hannerz: Most ordinary labour migrants do not become cosmopolitans either. For them going away may be, ideally, home plus higher income; often the involvement with another culture is not a fridge benefit but a necessary cost, to be kept a low as possible. A surrogate home is again created with the help of compatriots, in whose circle one becomes encapsulated (Hannerz, in Segrott, 2001, p. 287).
Le vecchie comunità emigrate e le nuove mobilità transnazionali sono accumulate, come avremo modo di vedere per il caso specifico della comunità di Vancouver, da identità forgiate entrambe da riferimenti alle varie scale territoriali, identità diasporiche che vivificano all’interno di vite vissute tra e/o contemporaneamente in vari Stati-Nazione. Nonostante si possa identificare in entrambi i casi una matrice identitaria multipla e complessa, le due esperienze migratorie e le spinte alla base dei processi identitari e d’integrazione rimangono fortemente differenti per i gruppi individuati27 (cfr. capp. V-VI). È proprio a partire dall’importanza che assume l’analisi storica di specifiche migrazioni e l’analisi geografica di particolari contesti, che si coglie il cuore del terzo filone ravvisato da Mishra (2006). Esso è costituito da quegli studi sulla diaspora che
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“Ogni studio sui fenomeni migratori che dimentichi le condizioni d’origine degli emigrati si condanna a offrire del fenomeno migratorio solo una visione al contempo parziale ed etnocentrica […]” (Sayad, 2002, p. 44). Jana Evans Braziel, nel suo testo dedicato alla diaspora (2008), analizza nel dettaglio le seguenti categorie: i migranti lavoratori (che a loro volta si distinguono in regolari e irregolari), i richiedenti asilo politico, gli esiliati, i rifugiati, gli émigrés postcoloniali e quelli che prendono il nome di economic migrants, ovvero i manager o professionisti che spesso mantengono la residenza nel paese di provenienza e viaggiano in maniera sistematica tra le varie località.
identità diasporiche
evitano le grandi costruzioni teoriche in favore di singoli casi di studio; esempi in questo senso sono le opere di Martin Manalasan sui filippini queer di New York, e quelli di Brent Hayes Edward sulla diaspora africana. Questi sono i tre “pilastri” degli studi sulle diaspore che nel tempo hanno dato vita a un oggetto di studio vastissimo e indefinito. È necessario chiarire che tali “anime” della diaspora dialogano tra loro. Il terzo filone, ad esempio, analizzando migrazioni specifiche, potrà riscontrare, e dunque far emergere in base ai casi sotto esame, sia dinamiche di forte conflittualità e scissione all’interno dei processi identitari dei migranti (sottolineati dal primo filone), sia dinamiche di tipo non conflittuale (rinvianti all’analisi del secondo). Il presente lavoro, incentrandosi sulla comunità italiana di Vancouver, non può che riferirsi in maniera privilegiata a quest’ultimo. L’emigrazione italiana, che rientra oggi come tema cardine per una molteplicità di aspetti politici (il ruolo delle Regioni, voto per gli italiani all’estero etc.) e socioeconomici, raramente è stata associata al termine diaspora all’interno dei confini nazionali, al contrario di quanto accaduto per la stessa all’estero. È a partire dagli anni ’90 che il termine viene utilizzato per le emigrazioni italiane, dapprima, non a caso, a opera di ricercatori italo-americani come Verdicchio (1997), Gabaccia (2000), Strohm (2001) (Pozzetta e Ramirez, 1992) e solo in una seconda fase da storici italiani (Ostuni, 1995; Trincia, 1997; Franzina, 2005). Anche nel nostro Paese si nota dunque, all’interno degli studi sulla mobilità e sulle migrazioni, un’importanza crescente assunta da “vecchi” termini, seppur in contesto nostrano l’ampliamento del concetto di diaspora non sia stato semplice, come mostra la discussione che si è avuta nell’ambito del convegno di Torino del 2004 “Emigrazione italiana: percorsi interpretativi tra diaspora, transnazionalismo e generazioni” 28. La storica americana Donna Gabaccia, notando quanto il termine sia poco diffuso in Italia, ha sollevato ampio dibattito, difendendo, in maniera strenua le sue posizioni e la validità dell’uso di tale termine anche per le emigrazioni italiane. Naturalmente nella letteratura scientifica italiana non mancano, come afferma l’autrice, ricerche sistematiche sull’emigrazione, ma comunque sembrano essere preferite per la sua trattazione espressioni quali “italiani all’estero”, “italiani fuori d’Italia” o “italiani nel mondo”29. Negli ultimi dieci anni il nuovo termine sembra aver superato alcune delle remore iniziali. Nella geografia italiana, ad esempio, un autore come Carlo Brusa – noto esperto dei processi migratori italiani (con particolare riguardo alle problematiche immigratorie) – utilizza il termine “cultura della diaspora” per descrivere la presenza di fenomeni di ibridazione, di sincretismo culturale e di nascita di “spazi effimeri” italiani nella città di Chicago (Brusa, 2003). Nel recente testo a cura di E. Casti (2010) il termine sembra ormai sdoganato da ogni difficoltà di utilizzo; per quanto ancora sembri mancare un lavoro che, al di là del suo uso, ne sfrutti a pieno le potenzialità analitiche.
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Il convegno, tenutosi dal 29 al 30 marzo del 2004, ha dato il via alle considerazioni di natura teorica e applicativa contenute nel volume curato dalla Tirabassi (2005). Uno dei principali obiettivi dell’evento è stato quello di indagare l’effettiva funzionalità del nuovo lessico. Le spiegazioni che rendono conto del non utilizzo del termine possono essere varie, prima fra tutte una possibile avversione verso l’egemonia dell’inglese in ambito accademico su scala mondiale.
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4. Il ruolo del territorio nei processi identitari All’interno della cornice concettuale della diaspora, come visto, il ruolo del territorio non si riduce alla semplice relazione transnazionale tra due luoghi più o meno vicini, né si esaurisce all’interno dei processi di identificazione tra un gruppo e un luogo distante, la “madrepatria” (Nash, 2007). L’analisi territoriale non per questo assume un aspetto secondario; anzi, si aprono nuovi scenari in cui il concetto di “spazio relazionale” entra con veemenza come concetto cardine30. Brah, proprio per l’importanza assunta da questo aspetto per le dinamiche identitarie che coinvolgono i migranti, preferisce parlare di “spazio della diaspora” piuttosto che semplicemente di diaspora (Brah, 1996, p. 209). Tale spazio si colloca tra il localismo e il transnazionalismo, porta con sé l’idea dell’identità come di un luogo “[…] itself between localism and transnationalism and proposes a conception of identity as a positionality that is not of processes of absolute othering, but rather of entangled tension” (Clifford, 1994, p. 307). Si fa strada il concetto di uno spazio che si colloca tra, e oltre, i singoli contesti territoriali, terra di mezzo, betweenness (Fortier, 2000) fortemente legato alla posizionalità di coloro che in esso agiscono. Questo è un universo delineato contemporaneamente dalla risposte alle tre domande: “da dove vieni?”, “dove sei?” e “dove stai andando?” che in questo terzo spazio31 vengono riconfigurate entro nuove reti di significato (ibidem; Clifford, 1994). Le geografie culturali della diaspora includono le connessioni materiali e simboliche tra un gruppo di migranti e i differenti contesti territoriali. Tale impostazione geografica, fortemente incentrata su concetti di tipo relazionale, si colloca in seno ai nuovi sviluppi della geografia culturale che non a caso ha, tra i suoi scopi principali, quello di comprendere “[…] the dialectic between constant change, the ever-present
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“Quando si parla di spazio come elemento costitutivo dell’azione, e quindi come spazio fondante l’azione stessa, si fa riferimento in effetti a una molteplicità di ambiti. Il primo, di più immediata comprensione, indica lo spazio fisico, concreto, in cui si localizzano i comportamenti e le azioni, che rende possibili i movimenti degli attori lungo il territorio da essi esperito e lungo il quale si vengono a tracciare le traiettorie che uniscono i punti (stazioni) successivamente toccati. È, in altre parole, lo spazio descritto da Hägerstrand e dalla Time Geography. Un soggetto si trova tuttavia al centro di molteplici rapporti spaziali, altri piani spaziali non immediatamente rappresentabili, e non sempre direttamente percorsi. Uno di questi, ad esempio, è il piano degli spazi di comunicazione, spazi a cui i soggetti fanno riferimento nell’agire abituale e con cui si possono mettere in contatto attraverso varie forme di comunicazione […] (invio oggetti, lettere, ma anche scambio info). Un altro di questi piani spaziali […] è quello cognitivo. I soggetti infatti sono partecipi, oltre che degli spazi con cui sono direttamente in relazione, sia fisici sia comunicativi, anche degli spazi di cui hanno una qualche conoscenza, indipendentemente dalle modalità con cui questa si è formata: esperienza pregressa, nozioni acquisite da informatori e da letture etc. Infine c’è una dimensione dello spazio legata al complesso delle relazioni e dei significati, delle norme e del potere, gravitanti sulle singole localizzazioni, intese come scenario dell’interazione ed elementi fondanti la contestualità, di cui parla Giddens. In questi termini lo spazio non può essere inteso come un tutto unico, ma come una localizzazione che include varie regionalizzazioni spazio-temporali di pratiche sociali routinizzate. Un attore si troverebbe dunque a realizzare comportamenti e ancora più azioni che si sviluppano all’interno di contesti temporali e spaziali che ne costituiscono gli orizzonti di riferimento” (Belloni e Rampazi, 1989, pp. 264-265). Cfr. anche Crang e Thrift, 2000. Cfr. Bhabha, 1990.
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flux of social relationship, and the relative permanence of reified ways of knowing, standardized ‘maps of meaning’, and solidified cultural production […]” (Mitchell, 2000, p. 294). Accanto a una lettura dello stato dell’arte, sembra interessante e necessario, nel momento in cui si sviscera l’importanza che gli aspetti prettamente geografici giocano all’interno dello studio delle formazioni identitarie, comprendere in che modo l’analisi geografica stessa offra un valido apporto all’esame della tematica. L’approccio geografico è imprescindibile, e si avrà modo di ribadirlo anche per l’analisi del dato linguistico, in due momenti essenziali dello studio delle identità diasporiche: durante l’analisi del ruolo giocato dal riferimento al luogo all’interno della costruzione identitaria e nell’ambito della contestualizzazione della problematica identitaria32. Partendo dal primo spunto, di estremo interesse geografico è l’importanza assunta, all’interno delle differenti identità, dal luogo, ovvero dal riferimento – interno alla maggior parte delle identità nazionali – a un contesto territoriale ben preciso. Esiste infatti un profondo bisogno umano di sentirsi radicati nei luoghi. Non è un caso che, soprattutto nel mondo moderno occidentale, siano prosperate metafore di stampo botanico proprio per esplicare una tale congiunzione: radici, radicamento (e all’opposto sradicamento33), semi, albero (genealogico), quest’ultimo rinviante alla nazione vista come un grande arbusto radicato in un territorio che lo alimenta34. Come un albero35, la nazione evoca sia un’essenza con continuità temporale che un radicamento di tipo territoriale (Malkki, 2008). Le persone sono spesso pensate, o si pensano, attraverso tali lenti metaforiche come incapsulate in un luogo e considerano la loro stessa identità come espressione del luogo stesso. Esso rappresenta per i vari gruppi un ancoraggio spaziale su cui strutturare i concetti di identità e differenza (Minca, 2001) e su cui erigere, in base all’equazione vista “luogo certo = identità certa”, la propria esistenza (dell’Agnese, 2001, p. IX). Le concezioni metaforiche dell’avere radici implicano un solido e stretto legame tra persone e luoghi. Queste metafore diventano fortemente complesse nel momento in cui molte persone identificano se stesse o vengono identificate in termini di “patrie”, “culture” e “origini” deterritorializzati, come nel caso dei migranti stanziali. Al giorno d’oggi, i nuovi sviluppi disciplinari legati al tema della mobilità hanno reso non solo possibile ma auspicabile ripensare alle “radici” 36, così come esse
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Nella contestualizzazione rientrano i rapporti transcalari tra differenti aree, le analisi delle politiche che forgiano nei differenti contesti le stesse costruzioni identitarie. Interessante notare che in lingua sarda la parola “emigrato” è resa col termine “disterrau” ovvero, letteralmente, “tolto dalla terra”. L’“Oriente”, hanno osservato Deleuze e Guattari, invece è da sempre “rhizomatico” (Deleuze e Guattari, 1980, p. 28). Una conseguenza spesso diretta di certe metafore utilizzate o sentite come naturali è l’impossibilità di “far parte di più alberi”; impostazione che, come vedremo, naturalizzando relazioni complesse all’interno di una visione sedentaria, fa sorgere in alcuni casi problematiche in seno a comunità emigrate, tra differenti generazioni. All’interno della seconda scuola di pensiero che si occupa della diaspora (cfr. cap. I), le identità sono paragonabili – per rimanere all’interno di un campo metaforico di stampo botanico – a dei rizomi che non possono essere studiati come semplici approssimazioni o distorsioni di ideali “radici vere”. Tracciare semplicemente i luoghi di nascita e dare titolo all’essere nato in un luogo significa “[…] to blind oneself to the multiplicity of attachments that people form to place through living in, remembering, and imagining them” (Malkki, 2008, p. 282).
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vengono esperite, in relazione all’identità e alle sue forme di territorializzazione. Un aspetto importante che va tenuto in conto è il valore che il territorio assume solitamente, in termini identificativi, per le persone: valore che in ambito estero risulta non a caso spesso di natura problematica (Mc Crone, 2002). Inoltre, proprio all’interno dell’importanza assunta dal riferimento al luogo nei processi identitari, si deve menzionare il concetto di attivazione simbolica degli spazi, utilizzato da Minca in riferimento alle nazioni (Minca e Bialasiewicz, 2004, p. 130). Si pensi ai siti storici, alle piazze, ai musei, a tutte quelle marche di identità territoriale che non solo sono collocate nel territorio come oggetti puntiformi, ma che investiti di una forte valenza simbolica da parte della popolazione creano il territorio (Guarrasi, 1994). Queste evidenze materiali, la cui concretezza è utilizzata per confermare la veridicità della narrazione, in quanto spazi simbolici vengono in realtà reinterpretate costantemente (Minca e Bialasiewicz, 2004) all’interno di differenti pratiche discorsive (Barnes e Duncan, 1992). La stessa immaginazione legata a luoghi distanti non può però essere avulsa dal contesto entro il quale essa prende corpo (Morley e Robins, 2008). Una sfida sembra dunque profilarsi: lo studio delle modalità entro cui lo spazio è immaginato (ma non immaginario!) (Minca e Bialasiewicz, 2004), ovvero i meccanismi attraverso i quali i processi di costruzione dei luoghi incontrano determinate condizioni economiche e politiche che definiscono lo spazio entro cui sono immaginati (Baily, 2005). Ed è a questo punto che si coglie il secondo aspetto squisitamente geografico: la contestualizzazione della problematica, che fa sì che un discorso di geografia culturale come quello legato all’identità e al ruolo giocato dal luogo all’interno della sua elaborazione, diventi uno studio che – assommando su di sé disquisizioni di natura economica, politica e sociale – sia definibile tout court come uno studio di geografia umana. Ora sembra utile sottolineare non tanto la lettura storica, affidata alla trattazione successiva (cap. III), quanto il ruolo giocato dalle differenti scale territoriali all’interno dei processi identitari. Numerosi studi non lasciano dubbi sull’importanza del ruolo delle nazioni (di partenza e di arrivo) nella creazione di link tra differenti luoghi e persone (Nash, 2005; Ramirez, 2005). Ciò che sembra funzionale alla politica dei singoli Stati è il nesso esistente tra le dinamiche identitarie (nello specifico il senso di appartenenza rispetto a un contesto territoriale) e l’integrazione (di natura anche economica) che si viene a creare con esso. [L]’appartenenza è un sentimento attivo di legame, che implica attaccamento (emozionale), e quindi sviluppa una lealtà ad un qualcosa cui si [ritiene di appartenere, nda], il che produce integrazione oggettiva prima ancora che soggettiva (Gasparini, 2000, p. 143).
All’interno di politiche siffatte vengono spesso costruite e/o mantenute discorsivamente rappresentazioni mitizzate della nazione da parte dello Stato d’origine37; e tali rappresentazioni possono trovare un terreno più o meno fertile di espressione anche in relazione alla politica adottata dagli Stati di immigrazione.
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Quest’ultimo discorso è di grande interesse soprattutto quando le nazioni dialogano con emigrati dal differente profilo socio-economico o, allo stesso modo, con la seconda o terza generazione.
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Rispetto a quest’ultimo punto, si può affermare che, all’interno di certi processi, la politica adottata dal Canada a partire dal 1971 abbia orientato i fenomeni di “etnicizzazione” in modalità del tutto peculiari, strutturando organici rapporti tra minoranze immigrate e società canadese. Sul fronte italiano, invece, appare in maniera sempre più forte e sistematica la base regionale della gestione dell’emigrazione, ovvero dei rapporti con le comunità estere (cfr. capp. III e IV). Tra gli elementi contestuali che hanno avuto un ruolo di primo piano nelle pratiche identitarie vi è, infatti, il ruolo crescente ricoperto dai governi regionali all’interno dell’assetto politico- istituzionale dell’Italia, a partire soprattutto dal 1970 (Ramirez, 2005). Il dettato costituzionale che negli anni ’70 istituiva le Regioni attribuiva, infatti, progressivamente a esse la maggior parte delle competenze relative alla politica emigratoria e agli italiani all’estero (Colucci, 2009). L’attenzione posta ai rapporti intessuti con le collettività all’estero fu trasversale alle varie Giunte regionali, al di là del colore partitico. Ciò si è concretizzato in un crescente numero di iniziative in pianta stabile e pluriennale. [S]arebbe da ingenui non vedere dietro a questo interesse una precisa razionalità economica che vede le comunità all’estero come potenziali ‘consumatori regionali’ di prodotti e servizi. Non a caso, nella maggior parte dei casi, queste iniziative sono di natura commerciale e privilegiano settori dell’economia regionale come l’agroalimentare e il turismo38 (Ramirez, 2005, p. 95).
Esistono naturalmente anche iniziative di carattere culturale, seppur secondarie, che costituiscono momenti privilegiati per rafforzare o far nascere il sentimento di appartenenza regionale39. L’impatto all’estero più visibile di una tale politica è stato da un punto di vista associativo la nascita, accanto alle vecchie associazioni di natura spontanea, di associazioni regionali finanziate (le “federazioni regionali”; ibidem, p. 96). La tendenza alla regionalizzazione dell’associazionismo e delle organizzazioni, conseguenza di questa nuova situazione, diventa dunque dominante e contribuisce alla marginalizzazione numerica delle associazioni più legate ai partiti e, soprattutto, al mutuo soccorso. Le regioni, perseguendo politiche di incoraggiamento nei contatti coi corregionali all’estero, favorirono e favoriscono tuttora una forma di “regionalismo della diaspora” (Gabaccia, 2005, p. 158).
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“In un mondo caratterizzato dalla ristrutturazione economica globale, infatti, gli investimenti delle diaspore divengono essenziali alla sopravvivenza delle economie dei paesi di origine” (Gabaccia, 2005, p. 156). “Il discorso regionalistico è un discorso performativo che mira a imporre come legittimauna nuova definizione dei confini e a far conoscere e riconoscere la regione così delimitata contro la definizione dominante che l’ignora, e che esso disconosce e, dunque, riconosce e legittima. L’atto di categorizzazione, nel momento in cui è riconosciuto o è esercitato da un’autorità riconosciuta, esercita da sé solo un potere; le categorie “etniche” o “regionali”, come le categorie di parentela, istituiscono una realtà servendosi del potere di rivelazione e di costruzione esercitato attraverso l’oggettivazione nel discorso. […] L’effettualità del discorso performativo, che pretende di far avverare ciò che enuncia nell’atto stesso di enunciarlo, è proporzionale all’autorità di colui che lo proferisce: la formula “Vi autorizzo a partire” non è, eo ipso, un’autorizzazione se colui che lo dice non è autorizzato ad autorizzare, se cioè egli non ha l’autorità per autorizzare” (Bourdieu, 1988, pp. 112-113). “Sappiamo quanto il discorso sull’identità sia un discorso performativo che produce anche l’effetto, se gli vengono dati i mezzi, di far esistere ciò che enuncia e quinti annuncia” (Sayad, 2002, p. 288).
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Tra le varie cause che motivano il revival regionalistico in fatto di associazionismo e di processi identitari all’estero ci sono, dunque, le strategie di intervento e la politica di tutela adottate dalle Regioni italiane rispetto ai propri emigrati, spesso attraverso lo stanziamento di importanti finanziamenti per la creazione di collettività all’estero su base regionale. Un tale fenomeno sembra aver riattivato quelle che sono sempre state lette come forti tendenze campanilistiche delle comunità all’estero, adattate però alla scala regionale (differente da quella paesana40 che solitamente fungeva da regola). La storia delle migrazioni italiane mostra quanto attivamente Stato e assemblee regionali possano incoraggiare, foraggiare e riprodurre una coscienza della diaspora tra i propri migranti (ibidem). In questo senso si è parlato di “cittadini extraterritoriali e di Stati-Nazione deterritorializzati” (Salih, 2005, p. 156). Questi ultimi, estendono le loro frontiere oltre il loro spazio geografico-territoriale, hanno inglobato coloro che possono definirsi italiani per nazionalità come parte integrante dello Stato (si veda a tal proposito l’estensione del voto e l’accettazione della doppia cittadinanza: cfr. cap. III). Anche rispetto a questo aspetto possiamo dunque ribadire l’importanza della scala nazionale41 nel creare rapporti e nell’interagire con appartenenze “soggettive e percepite” dei connazionali all’estero. I migranti (sia gli emigrati che i “cosmopoliti”) forgiano sfere transnazionali che, pur ponendosi in relazione dialettica con lo Stato e la Nazione, sono tuttavia inscritte nei “discorsi” egemonici dei processi di nation-building dei loro paesi di residenza e di origine. Effettivamente gli Stati di origine palesano, in maniera più o meno esplicita, l’interesse affinché i propri cittadini all’estero non cessino di identificarsi parzialmente con la nazione o con la regione di origine. Il cruciale ruolo economico dei migranti rende la loro permanenza “via da casa” essenziale per l’accrescimento delle economie nazionali e/o regionali (ibidem, p. 157). Non è dunque un caso se uno dei problemi più sentiti è legato alla necessità di rafforzare i legami con quelle che vengono definite seconde e terze generazioni; uno sforzo in tale senso è stata la “Conferenza mondiale dei giovani italiani nel mondo” che si è svolta a Roma nel dicembre del 200842.
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Non è un caso che le stesse catene migratorie del passato siano il risultato di dinamiche municipali piuttosto che regionali (Audenino, 1999). E della sua promanazione regionale. Durante la conferenza, che ha visto la partecipazione di 416 giovani italiani (tra i 18 e i 35 anni) provenienti dall’estero, sono state discusse le principali proposte avanzate dai gruppi di lavoro che si erano precedentemente costituiti nelle varie sedi estere. I nuclei tematici discussi sono stati (Ricciardi, 2009): - L’informazione: si è palesata la necessità di un flusso costante di informazioni sull’Italia e sui principali fatti di cronaca ma, soprattutto, la possibilità per le giovani generazioni di raccontarsi all’Italia; - L’identità italiana e il multiculturalismo: i giovani ribadiscono l’importanza di sentirsi parte di uno Stato che dovrebbe proporsi come una nazione globale e aperta alla diversità e alla sua valorizzazione; - La lingua italiana: essa viene considerata la vera “calamita” che può avvicinare ciò che la distanza geografica allontana, per questo si sottolinea la necessità di valorizzare l’insegnamento dell’italiano all’estero; - La partecipazione e la rappresentanza: ovvero le forme associative del futuro che vengono ricercate più che nei vecchi club dal carattere regionale in nuove associazioni trasnazionali che colleghino non solo i discendenti italiani, ma anche gli amanti del paese e/o della sua lingua al di là della loro origine o cittadinanza;
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Domande salienti che vengono suscitate sono, a questo punto, quelle relative al dialogo o alla rielaborazione tra identità regionali – villageois e nazionali. Sembra poco efficace ipotizzare, come fece a suo tempo Harney, la nascita del regional man (Ramirez, 2005, p. 96), figura identitaria emergente che si collocherebbe, contrapponendosi, sia al paesano periferico che all’italiano metropolitano. Ciò che invece sembra profilarsi è un superamento della logica di integrazione nazionale (Salih, 2005), che si può appunto porre come difficoltà conflittuale di definirsi totalmente italiano o totalmente straniero, oppure come identificazione plurima che trascende le categorie fisse legate a un’unica nazionalità, creando un’originale sintesi delle stesse. Rudy Vecoli, attraverso gli strumenti concettuali offerti da Sollors (1989) nel testo dal titolo emblematico The invention of ethnicity, utilizza per gli italiani in Nord America il concetto di invenzione e di negoziazione dell’etnicità, intendendo con ciò la “creazione di simboli, di rituali, di immagini da parte delle comunità italiane, allo scopo di ritagliarsi un posto più onorevole nell’opinione come nella storiografia” (Audenino, 1999, p. 176). Importantissimo è dunque anche lo sguardo esterno che degli italiani sviluppano nei differenti contesti migratori: viene infatti indicata da più parti l’importanza “[del] lo spessore e [del]la densità di riflesso dello sguardo altrui nell’elaborazione del senso di appartenenza nazionale” (Ibidem, p. 168).
- Il mondo del lavoro: la preoccupazione, in tal caso, è legata alle poche possibilità di inserimento lavorativo in Italia.
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Cap II. Lingue migranti 1. Introduzione The story of linguistic geography begins with the story of geography itself (Wagner, 1967, p. 220).
La relazione esistente tra i differenti codici linguistici italiani e i loro ambiti spaziali e temporali di utilizzo in situazioni di migrazione non ha goduto di grande attenzione all’interno degli studi geografici. Nonostante questa carenza, l’utilizzo delle lingue in ambito migratorio e l’importanza a esse attribuita sono aspetti centrali nell’analisi delle identità diasporiche. L’analisi spaziale incapsula infatti lo studio dei due aspetti all’interno dei processi scalari: [M]ovements across space involve movements across scales of social structure having indexical value and thus providing meaning to individual, situated acts (Blommaert, Collins e Slembrouck, 2005, p. 200).
Il peso assunto dalla lingua nella costruzione identitaria alle varie scale territoriali è stato ben documentato da vari studiosi (Raffestin, 1981; Breton, 1984; Zanetto, 1984, 1987; Barbina, 1993; Desforges e Jones, 2001; Segrott, 2001; Fabietti, 2004) ed è indubbiamente cresciuto grazie al proficuo dialogo instaurato con gli studi riguardanti il mondo delle migrazioni (Pauwels, 2007). La lingua, che riveste un ruolo cardine nella strutturazione di un forte senso di appartenenza di gruppo (Tullio-Altan, 1995), non è solo veicolo di comunicazione, ma fattore di comunione, ovvero identificante di specifici gruppi umani (Banini, 1999; Russo Krauss, 2010). Non è dunque un caso che l’Unesco abbia incluso tale aspetto tra il patrimonio immateriale come elemento da preservare in quanto testimonianza della ricchezza culturale mondiale43. La lingua è un modo di sentirsi a casa, un veicolo di appartenenza, è un sistema simbolico che permette di distinguersi dallo “straniero” (Tessarolo, 1990, p. 29), da quell’individuo che nella Grecia antica s’identificava non a caso anche come barbaro, termine il cui etimo deriva proprio dal suono incomprensibile, e quindi assimilabile a una balbuzie (bar bar), della lingua da esso parlata. Tra i vari elementi della cultura, la lingua è infatti percepita come elemento fondante e caratterizzante i vari gruppi; per usare le parole di Raffestin, essa è “uno dei più potenti mezzi d’identità di cui una popolazione dispone” (1981, p. 107). Quest’ultima è definita non a caso da molti studiosi “gruppo di lingua madre” (Breton, 1984): la divisione tra etnofoni e allofoni serve sovente a delineare con più forza la distanza che separa il Noi dall’Altro, come testimonia l’etimo del termine greco.
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Si veda in particolar modo l’articolo 2.2 della Convenzione internazionale per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, approvata il 17 ottobre 2003 dalla XXXII Assemblea generale Unesco e ratificata dall’Italia con legge 167 del 27 settembre 2007.
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2. Le frontiere della Geografia delle lingue Il convegno “Per una nuova geografia delle lingue nel mondo contemporaneo”, tenutosi a Roma nel 2007, ha palesato il desiderio di alcuni geografi di un nuovo slancio teorico e metodologico che possa ridare lustro a una branca della disciplina che ha conosciuto un periodo prospero durante gli anni ’70, per poi essere poco studiata (in particolare in Italia dopo la scomparsa di Langella, Valussi, Barbina), anche se sempre attentamente seguita dal geografo francese Roland Breton44. Attualmente, nuovi studi sulla lingua in ambito geografico si devono a Dionisia Russo Krauss (2010; 2011). Nonostante l’immenso campo d’indagine aperto dalla problematica linguistica, il suo studio non sembra trovare al giorno d’oggi una diffusa attenzione nel mondo geografico italiano, a differenza di quanto accade in altre prestigiose sedi disciplinari45. In ambito linguistico, ad esempio, è centrale l’analisi della dimensione “spaziale” delle lingue: Part of the socio in sociolinguistics should address spatial aspects and dimensions of language and communication, assuming that every instance of human communication always has an intrinsic spatiality to it as well as an intrinsic temporality. Every communication event develops in some time-frame and in some space, and both, as we know, have effects on what happens and can happen. Space is part of what we understand by context46, and context (as Gumperz,1982, and others have argued), is not a passive decor but an active, agentive aspect of communication. Context (including space) does something to people when it comes to communicating. It organizes and defines sociolinguistic regimes in which spaces are characterized by sets of norms and expectations about communicative behaviour orders of indexicality. Entering such spaces involves the imposition of the sets of norms and rules as well as the invoking of potentially meaningful relations between one scale and another (e.g., the local versus the national or the global) (Blommaert, Collina e Slembrouck, 2005, p. 203; sottolineatura mia).
L’analisi territoriale (più che spaziale47) dei fatti linguistici, così come definita in ambito nazionale e internazionale da altre discipline, si ritrova inoltre in toto anche negli scritti geografici esteri:
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Roland Breton è autore di numerosi manuali e saggi; cfr. una delle sue ultime opere Atlas des langues du monde (2004). Seppur l’analisi spaziale e geopolitica siano imprescindibili per lo studio dei processi linguistici, esse sono ormai, quasi in tutti i casi, relegate all’interno di studi di linguisti, di sociologi o di antropologi. Tale perdita di legittimità è tanto più evidente nel confronto interdisciplinare. La geografia umana non trova collocazione, ad esempio, nello schema di sintesi, complesso e articolato, delle varie branche disciplinari che si occupano dello studio dei fatti linguistici presentato nel testo del noto sociolinguista Berruto (2006, p. 14). “Context”, il contesto, è infatti una delle sei funzioni communicative fondamentali nel celebre schema della comunicazione confezionato dal linguista Roman Jakobson (1974). Sussite infatti un’importante distinzione tra l’arealità e la territorialità di una lingua, ovvero, tra la sua diffusione spaziale da un lato e la sua funzione politico-amministrativa in un certo territorio dall’altra. I due aspetti, pur distinti, non sono in contraddizione se li si legge all’interno di uno stesso (complesso) quadro conoscitivo: “[…] l’interazione tra ‘area’ e ‘territorio’ non è solo un potente motore di dinamica linguistica; essa è anche di grande importanza per capire l’orientamento dello storiografia linguistica, che spesso è sembrata, e sembra ancora, svolgere un programma di storia nazionale, come se la formazione del territorio della lingua comune legittimasse l’esistenza della nazione” (Krefeld, 2008, p. 35).
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By focusing on ‘geography of language’ we signal our interest in the manifold ways in which geographers have examinated the spaces and places of various languages, […] a focus on the geographies of language can act as a springboard to help geographers engage in a novel and alternative manner in broader debates about the constitution of various key socio-spatial formations (Desforges e Jones, 2001, p. 262).
Per riprendere una definizione di un geografo italiano, […] la distribuzione sul territorio dei linguaggi e dei gruppi che li parlano è di interesse geografico. Poiché il linguaggio determina in grande misura chi parla, e a chi costui parla, può esercitare un’influenza decisiva sui fenomeni politici, sociali ed economici. La distribuzione sul territorio di tipi di economia e di forme di culto è spesso strettamente in relazione ai modelli linguistici, così come lo sono l’estensione degli stati e delle province (Scaramellini, 1984, p. 141).
Sembra possibile superare l’impasse italiano di questa branca disciplinare ribaltando l’ordine e l’importanza dei termini considerati, così come indicati nel precedente brano. L’interesse del geografo dovrebbe essere infatti focalizzato non tanto sul dato distributivo del fattore lingua, ma sulle cause dal carattere squisitamente politico, sociale e culturale che rendono conto di tale distribuzione48, che si profila come contingente perché connessa a rapporti spaziali che difficilmente sono racchiudibili una volta per tutte entro isoglosse49 a maglia più o meno larga50. Berruto, noto linguista, ha proposto uno schema di sintesi sulle differenti branche disciplinari che si occupano della lingua, in cui non figura l’approccio geografico (Berruto, 2006). Partendo da tale schema – opportunamente rielaborato in tre
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Come ben documenta il prezioso e recente volume di Limes (2010), rivista italiana di geopolitica, dedicato alla relazione tra lingua e potere. Molti hanno parlato, contestandolo apertamente, di “accanimento isoglottico”, ovvero dell’uso della carta geografica in maniera poco problematizzata. Una delle difficoltà che si riscontra nel cartografare il dato linguistico è legata alla multidimensionalità dello spazio che esso disegna: “Ci sono dunque confini e confini. Confini che sono riconosciuti e confini che sono ben esaltati, confini inesistenti o forzati, infine confini che vengono ignorati” (Lörinczi, 2001, p. 98). Inoltre, per riprendere la problematica così come espressa in ambito geografico all’interno della rivista Social & Cultural Geography, uno dei problemi che rende difficile la resa cartografica su un piano bidimensionale è la compresenza in uno stesso spazio fisico di più codici linguistici, che hanno però tempi e modalità difficilmente rappresentabili (Iannaccaro e Dell’Aquila, 2001). Interessante a riguardo lo spunto offerto dalle parole del noto linguista Krefeld: “A prima vista sembra che la moltiplicazione delle dimensioni variazionali abbia relativizzato il ruolo della spazialità. In verità ha reso manifesta la sua inevitabilità, perché tutte le dimensioni sono legate a specifici contesti spaziali. Di conseguenza, la mera diatopia non basta per contraddistinguere un luogo linguistico: dal punto di vista semplicemente diatopico si deve passare alla diatopia pluridimensionale del punto” (Krefeld, 2008, p. 37). Sul ruolo assunto dalla geografia come disciplina che entra nel merito dei fenomeni indagati, occupandosi delle loro proprietà sostanziali e non della mera collocazione degli stessi nello spazio si veda il saggio di B. Vecchio (2011) che, per quanto dedicato alla ricerca sulla sfera pubblica, presenta dei passaggi illuminanti su una questione disciplinare annosa quanto spinosa. Affidando alle altre discipline l’analisi dei fenomeni “[…] il ruolo della geografia sarà poco interessante: non volendo o non potendo sottoporre a discussione il concetto che è alla base della problematica, questa versione della geografia dovrà infatti limitarsi a una funzione di enumerazione e misurazione di entità […] sulla definizione delle quali è stato appunto lasciato campo libero a fonti normative” (Vecchio, 2011, p. 40).
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dimensioni – potremmo ipotizzare una geografia delle lingue (resa graficamente con un piano grigio), posta in maniera trasversale alle varie discipline (fig. 2).
Fig. 2. Inserimento della Geografia delle Lingue all’interno dello schema del Berruto (2006) (Nostra elaborazione).
La nostra disciplina è infatti chiamata in causa all’interno dell’analisi linguistica in tre momenti irrinunciabili (e questo vale sia all’interno dei singoli Stati che in ambito diasporico): – Nello studio dei luoghi di utilizzo di una lingua (e, nell’ambito di una lettura diacronica, della loro contrazione o del loro ampliamento); – Nella spiegazione (storica, sociale, culturale e/o economica) della diffusione spaziale di un dato uso linguistico; – Nell’analisi dell’importanza assunta dalla variabile lingua all’interno dei processi identitari. L’approccio geografico è dunque un utile strumento di individuazione e spiegazione dei mutamenti che, nel tempo e nello spazio, interessano le lingue di una società. Ma, si è detto, la lingua è un indice che ci offre la possibilità di analizzare dinamiche territoriali più ampie (Breton, 1984; Zanetto, 1987). Gli aspetti citati risentono infatti fortemente delle relazioni sociali, culturali, economiche etc., che sono alla base dello studio della geografia culturale (Mitchell, 2000), così come della geografia politica. Si pensi alle modalità con cui luoghi e momenti di utilizzo delle varietà sono fortemente condizionati non solo dai fattori culturali, ma anche da quelli politici;
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come ad esempio l’ufficialità di una lingua, la sua tutela, ciò che, semplificando, legittima certe forme di comportamento, mentre delegittima o contrasta altre forme qualificando le differenti spendibilità dei codici linguistici. 3. Italiano, dialetto e lingue minoritarie: tempi, luoghi, funzioni Lo studio della spazialità di una lingua (varietà diatopica)51 è indissolubilmente connesso all’analisi dei suoi cambiamenti nel corso del tempo (varietà diacronica), dei momenti di uso della stessa (varietà diafasica o situazionale), del profilo socioculturale dei parlanti (varietà diastratica) (Chaika, 1982) e del canale attraverso cui viene utilizzata (varietà diamesica). L’importanza dell’aspetto diatopico, diastratico, diacronico e diamesico non fa che ribadire una considerazione che si staglia allo sfondo di questi stessi termini: la vitalità delle lingue è determinata dalle reti di interazione in cui effettivamente le lingue vengono parlate. È soprattutto dopo gli studi di Bourdieu che gli spazi delle comunicazioni vengono sempre più presentati come un mercato linguistico in cui gli scambi, i valori, i poteri sono paragonabili a quelli del mondo commerciale52 (Blanchet, 1998). La competenza linguistica può infatti funzionare come “capitale culturale” (Bourdieu) nell’ottica di un campo di interazione linguistica assimilato a un vero e proprio mercato53 (Rossi- Landi, 1973). “I parlanti [dunque] non sono parlanti astratti” (Tessarolo, 1990, p. 12), ma sono inseriti in un sistema di relazioni con determinati indici e strumenti di identificazione, mutevoli nel tempo e nello spazio54. Particolare enfasi viene posta sulla realtà dell’interazione linguistica, ovvero su quella serie di aspetti politici (ufficialità delle lingue), sociali (prestigio e usi linguistici dei differenti idiomi) che si
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Leghiamo a questo aspetto la pregnante questione posta da Blommaert, Collins e Slembrouck (2005): “Can space be seen as constitutive and agentive in organizing patterns of multilingualism?” (p. 198). In occasione di ogni scambio sociale, l’uso di una lingua può dunque porsi per i locutori come un profitto: “[I]l profitto di distinzione dipende dal fatto che l’offerta di prodotti (o di locutori), corrispondente a un livello determinato di qualificazione linguistica (o più in generale culturale), è inferiore a quella che sarebbe, se tutti i locutori avessero beneficiato delle condizioni di acquisizione della competenza linguistica allo stesso livello dei detentori della competenza più rara, esso è logicamente distribuito in funzione delle possibilità di accesso a queste condizioni, cioè in funzione della posizione occupata nella struttura sociale” (Bourdieu, 1988, p. 35). A tal proposito sembra utile ricordare il parallelismo compiuto da Blommaert, Collins e Slembrouck (2005) tra il valore di scambio delle singole lingue e la teoria del sistema-mondo (WSA) di Wallerstein; il valore dei beni del centro, in questo caso la lingua, è sistematicamente più elevato di quello della (semi-) periferia. Il modello centro-periferia può essere in quest’ottica usato sia tra oggetti reali (città) che in termini simbolici. La nozione di scala enfatizza dunque l’idea che gli spazi siano organizzati in relazione l’uno con l’altro, influenzandosi a vicenda. Partendo dal rapporto lingue centrali / lingue periferiche sono stati creati nuovi modelli di analisi tra cui meritano menzione quello di Grant Mc Conne; e quello di Abraam de Swaan e di Louis-Jean Calvet (Arcangeli, 2007). Non è un caso che anche in ambito economico si stia sviluppando un interesse senza precedenti proprio sui rapporti di forza che si instaurano, all’interno delle società contemporanee, tra differenti codici linguistici (Gazzola, 2003). In ambito geografico, la trasposizione di concetti economici quali quello di valore di uso e di scambio nell’analisi delle lingue è stata proficuamente utilizzata da Raffestin (1981) e ripresa in un articolo della Banini apparso nella Rivista geografica italiana (Banini, 1999).
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concretizzano nella pratica, cioè “[…] sotto forma di habitus linguistici parzialmente organizzati e di produzioni orali di tali habitus” (Bourdieu, 1988, p. 23). È a partire dall’importanza attribuita alla contestualizzazione dei vari usi linguistici che si coglie, come accennato nel precedente paragrafo, una delle frontiere d’analisi più interessanti anche per la nostra disciplina. Context (including space) does something to people when it comes to communicating. It organizes and defines sociolinguistic regimes in which spaces are characterized by sets of norms and expectations about communicative behavior – orders of indexicality. Entering such spaces involves the imposition of the sets of norms and rules as well as the invoking of potentially meaningful relations between one scale and another (e.g., the local versus the national or the global) (Blommaert, Collins e Slembrouck, 2005, p. 203, sottolineatura mia).
Le situazioni comunicative, i loro tempi e i loro luoghi, sono inoltre fortemente condizionati dall’atteggiamento che i parlanti assumono di fronte alla lingua o alle lingue che conoscono (Francescano, in Tessarolo, 1990). Tra gli innumerevoli motivi di mantenimento linguistico, l’uso e l’immagine55 della lingua, per quanto non coincidano, sono dunque in relazione ed è per questo che entrambi gli aspetti ricadono nella nostra indagine. L’assunzione di molteplici ruoli linguistici pone l’individuo di fronte alla scelta di più alternative, ma il problema non risiede tanto nel numero elevato di possibilità linguistiche, quanto nel fatto di attribuire un sentimento di sicurezza e di prestigio a una lingua piuttosto che a un’altra, o a più lingue in misura diversa (Tessarolo, 1990). L’uso della lingua con un prestigio maggiore è solitamente associato al desiderio di un avanzamento sociale; in tale aspirazione, connessa a processi di tipo psicologico, sociale (Orletti, 2000), culturale, risiede il motivo principale per il cambio linguistico. Le lingue possiedono dunque un valore simbolico per coloro che le usano e rimandano a delle funzioni sociali di esse che non sono stabilite una volta per tutte, ma mutano nel tempo e in base al contesto (da qui l’importanza delle letture diacroniche e generazionali). All’interno del mercato linguistico italiano, lo scarso prestigio della maggior parte delle parlate locali56 (dialetto e lingue minoritarie) sembra legato in massima parte alla politica di omologazione linguistica condotta fin dal suo nascere dallo Stato. A partire dal secondo dopoguerra si è potuto assistere inoltre a un’azione sempre più determinata della scuola e delle istituzioni per attuare una politica contro l’uso del dialetto, letto come prodotto della subcultura e della marginalità socio-economica
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Parlare delle lingue come produzioni simboliche, infatti, non significa condurre un discorso astratto o totalmente scisso dal reale: l’effettualità simbolica dei mercati linguistici è infatti legata al “[…] loro potere di agire sul reale agendo sulla rappresentazione del reale” (Bourdieu, 1988, p. 99). Il termine “lingua locale” rimanda a un codice linguistico il cui uso presenta un’arealità circoscritta rispetto al più vasto contesto statale; in questa sede con tale concetto si intendono pertanto sia i dialetti che le lingue minoritarie presenti sul territorio italiano. Nel nostro Paese la legge di riferimento in favore delle minoranze storiche, la n. 482 del 1999. L’art. 2 di tale legge stabilisce: “In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i princípi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”.
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(Banini, 1999). Al prestigio dell’italiano, lingua di cultura, deve essere collegato il prestigio socio-culturale dei parlanti perché le ragioni del prestigio “sono intrinseche ai parlanti le varietà e non viceversa” (Fishman, 1975, in Tessarolo, 1990, p. 136). Tullio De Mauro scrisse a tal proposito, proprio alla fine degli anni ’7057, periodo in cui si stava esaurendo l’impeto dell’ultima grande ondata migratoria italiana: […] la scuola italiana58 ha alfabetizzato abbastanza per creare una larga vergogna delle parlate locali; abbastanza per insegnare l’italiano a una parte di contadini e operai del Nord; non abbastanza per dare a tutti il possesso della stessa lingua italiana; e non abbastanza perché questo possesso non si accompagni al disprezzo del dialetto (De Mauro, 1977, p. 49).
Il dialetto, veicolato come lingua di secondo ordine, rappresentativo delle classi meno abbienti, è dunque stato considerato storicamente come etichetta di appartenenza sociale (De Agostini, 1977) e, relegato allo status di gergo dialettale volgare, ha subito una vera e propria “svalutazione simbolica” (Bourdieu, 1988, p. 33), che ha agevolato una sostanziale dismissione di tale codice anche in ambito domestico e in situazioni informali59 (Leoni, 1980). Al di là delle molteplici idee che sono state articolate nel tempo sul dialetto, sul suo ruolo comunicativo e sul suo valore identitario, esso sembra ricoprire, quando contrae la sua forza comunicativa, funzioni particolari che – com’è stato notato da Birken Silverman (2001) per la lingua dei giovani siciliani in Germania – possono identificarsi come: funzione criptica, funzione ludica, funzione espressiva (in particolar modo valutazioni negative o volgarismi). In altre parole, la lingua locale è utilizzata soprattutto in momenti specifici dipendenti non solo dal contesto (l’ambito domestico), ma anche a determinate situazioni comunicative, come ad esempio le occasioni in cui si vuole utilizzare un codice poco comprensibile agli altri (funzione criptica), o quelle in cui si adoperano espressioni dialettali per battute ironiche o volgari (funzione ludica o “espressiva”). Se il prestigio linguistico motiva la diffusione di una lingua a scapito di un’altra, non si deve dimenticare che può capitare anche (e questo lo si vede in particolar modo in ambito italiano60) che si sviluppino dei sentimenti di superiorità frustrati, che
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È solamente a partire da questo periodo che l’Italia divenne una delle sedi principali di studi sociologici sulle minoranze autoctone, sulla scia delle analisi prevalentemente politologiche e socio-linguisiche sviluppate in centri quali Vienna, Bruxelles, Parigi. Tra gli avvenimenti più importanti del periodo si ricorda la creazione dell’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia e la Conferenza internazionale sulle Minoranze di Trieste del 1974 (Bergnach e Sussi, 1993). “Il ruolo che il sistema di insegnamento attribuisce alle diverse lingue (o ai diversi contenitori culturali), è una posta in gioco così importante, perché questa istituzione ha il monopolio della produzione massiccia dei produttori-consumatori, dunque della riproduzione del mercato da cui dipende il valore sociale della competenza linguistica e la sua capacità di funzionare come capitale linguistico” (Bourdieu, 1988, p. 37). Contesti in cui la lingua dialettale (e quella minoritaria) primeggiavano rispetto all’italiano soprattutto nelle famiglie con un basso profilo socio-culturale. Il caso più emblematico di questi ultimi anni è sicuramente il peso crescente che nel discorso identitario leghista assumono i dialetti del Nord. Interessante notare che il cambiamento di atteggiamento nei confronti dei codici locali si sia subito tradotto nella richiesta di un sistematico insegnamento delle varietà dialettali nelle scuole, luoghi di sistematica (e pianificata) omologazione linguistica a favore dell’italiano dal secondo dopoguerra. Dopo aver proposto di istituire un test di dialetto per i docenti reclutati nelle scuole del Nord (2009), l’ultima battaglia intrapresa dalla Lega Nord è a favore della diffusione della messa in dialetto (2011).
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possono generare in un gruppo una forte fedeltà a un idioma minoritario61. Sotto la spinta dei processi di simbolizzazione linguistica messi in atto in seno alle comunità si può rafforzare il criterio personale, che può procedere indipendentemente dalle altre qualità esterne della lingua (come, ad esempio, l’importanza o la sua diffusione): È ragionevole supporre che chi ha un’opinione positiva del dialetto tenda ad avere un comportamento improntato quanto meno a una larga disponibilità all’uso di forme dialettali, e viceversa chi ha un’opinione negativa tenda a rifiutarlo o a farne un uso ridotto (Grassi, Sobrero e Telmon, 2007, p. 262).
Si può così comprendere l’interdipendenza che esiste tra l’uso effettivo che di una lingua si fa e l’importanza a essa attribuita; è per questo motivo che entrambi gli aspetti rientrano all’interno della nostra indagine. 4. Dinamiche linguistiche in ambito diasporico Ecco allora nel “nuovo mondo” nuovi confini linguistici tra quella che era la propria lingua e quella che si è andata strutturando rispetto ad altri usi, tra la lingua portata e la lingua ‘trovata’, tra la ‘parlata dei nonni’ e la propria, tra la nuova koinè e i dialetti originari62, tra questa koinè e la varietà ufficiale del paese in cui si è diventati a pieno titolo cittadini, la nuova koinè italiana e l’italiano standard. (Marcato, 2001, p. 8)
La vitalità delle lingue in ambito estero dipende dal numero dei parlanti di una certa comunità, dalla codificazione o meno della lingua, dalla sua autonomia, dai legami storici e culturali tra i differenti contesti territoriali in gioco, dalle politiche statali italiane e regionali in materia di tutela e promozione delle varietà di lingua all’estero, dalle politiche interculturali dei paesi esteri, dall’importanza socio-culturale delle varietà linguistiche. Nel caso specifico di Vancouver, i codici linguistici in gioco sono: la lingua italiana, quella locale di provenienza e quella inglese. Il fenomeno in analisi, dunque, è definito dal contatto tra almeno tre lingue differenti. Anche in tal caso sarà volta per volta importante adottare delle distinzioni in base al profilo dei migranti. La maggior parte di coloro che si stanziarono in Canada nel secondo dopoguerra, ad esempio, possedevano la competenza di entrambi i codici d’origine (italiano e locale)63 seppu-
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Anche se non per forza tradursi in rivendicazioni nazionaliste (Weinreich, 1974). “Dove passano i confini del dialetto? O, meglio, quali sono i confini del dialetto? La domanda, resa intenzionalmente ambigua dall’imprecisione che il termine ‘confine’ nella sua assolutezza genera, stimola interessanti riflessioni. Sono essi confini di tipo geografico? E allora quale valore dare ai dialetti emigrati […] in terre lontane? Sono confini di tipo sociale, o generazionale? […] Oppure sono confini che riguardano le strutture linguistiche, e in quanto tali sono permeabilissimi, al di là delle apparenti rigidità di ogni singolo sistema? Sono confini tra scritto e parlato? Tra modello standard e uso informale?” (Marcato, 2001, p. 3). A differenza di coloro che si spostarono durante la prima ondata migratoria tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e che erano prevalentemente dialettofoni a causa di un maggior analfabetismo interno allo Stato italiano. La percentuale di dialettofonia negli anni ’50 in Italia era ancora molto alta; De Mauro stima che circa i due terzi della popolazione non avesse competenze in lingua italiana (De Mauro, 2010).
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re con differenza marcata da un individuo, con una padronanza dell’italiano almeno in una varietà popolare o “popolareggiante” (Gobbi, 1994). La lingua inglese che, seguendo i ritmi dell’integrazione, vedrà, in base al tempo di stanziamento del migrante e in relazione alla sua situazione linguistica di partenza, un ampio diffondersi, per quanto di interesse, non sarà oggetto, in questa sede, di una trattazione specifica. Ci concentreremo pertanto sul rapporto tra lingua statale (italiano) e lingue locali64. In seguito al soggiorno all’estero le lingue d’origine hanno naturalmente subito nel corso degli anni della vita del migrante veri e propri processi di mutamento che, seppur analizzabili in maniera specifica caso per caso, consentono di ipotizzare alcune traiettorie prevalenti. A partire dal secondo dopoguerra identifichiamo almeno due macroperiodi: quello che giunge fino alla fine degli anni ’70 e quello che dagli anni ’80 va fino ai giorni nostri. Le differenze tra questi due periodi consistono non solo nel numero di espatri – che raggiunge il culmine nella prima fase per ridimensionarsi a partire dagli anni ’80 – ma soprattutto, nella tipologia dell’emigrazione stessa, connessa alle differenti motivazioni, alle prospettive, alla durata e alla qualità del lavoro alla base delle dinamiche migratorie (Dittmar e Sobrero, 1990). Anche in tal caso, per determinare l’uso e l’importanza dei fattori linguistici ha un ruolo di rilievo la variabile “di classe”, così come ravvisata per i più generali processi identitari in ambito diasporico (cfr. cap. I). La tipologia di emigrante prevalente nel secondo periodo possiede maggiori risorse socio-culturali e sicuramente un livello d’istruzione più elevato. Tali emigranti si presentano in effetti in posizioni lavorative più qualificate, spesso associate alla fortuna del Made in Italy o ad attività manageriali e di ricerca; inoltre, il soggiorno all’estero è più che altro di tipo temporaneo: la sua durata può variare da qualche mese a qualche anno. Queste differenze tra migranti della prima e della seconda fase comportano al momento del trasferimento e ancora al giorno d’oggi, significative variazioni nelle situazioni di utilizzo e di contatto tra le lingue. Il migrante tradizionale, principalmente dialettofono o meglio diglottico65, si inseriva in una realtà totalmente differente per lingua e cultura rispetto al migrante “cosmopolita”: Ha frequentato qualche anno di scuola, e ha il mestiere del contadino o dell’artigiano. È scoraggiato per la mancanza di lavoro o di speranza in un futuro migliore, ma non patisce la fame. Può volere evitare il servizio militare, ma non teme il lavoro. Sa che all’estero si può guadagnare bene e raggiunge qualche parente o compaesano partito prima di lui. Quando è chiaro che conviene rassegnarsi a rimanere, con tipica emigrazione a catena segue la fidanzata o la moglie (Bettoni, 2007, p. 415).
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Si rimanda, in ambito linguistico, agli attenti studi della Bettoni (2007, 2008). Per diglossia s’intende la compresenza di più lingue (o varietà dialettali) utilizzate dalla comunità parlante per funzioni differenti (e spesso complementari). Una è usata in ambito formale e l’altra in quello informale. Coloro che sono disposti a compiere un’esperienza migratoria sembrano essere più permeabili all’italiano perché più predisposti verso l’altro e l’esterno. Per questo Bettoni (2007) conclude che anche tra gli emigrati diretti all’estero il bilinguismo dialetto-italiano dovrebbe essere più diffuso di quanto non suggeriscano le cifre globali relative al monolinguismo dialettale dell’Italia negli anni ’50-’60.
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Il nuovo migrante ha lasciato il paese quando, dopo lo sviluppo economico del secondo dopoguerra, la lingua italiana era ormai subentrata nella maggior parte degli ambiti d’uso e dei contesti come lingua di socializzazione primaria a scapito del dialetto (Sobrero, 2007). Inoltre, dato il profilo socio-culturale posseduto, si può ipotizzare una competenza, quanto meno di base, della lingua straniera già prima della partenza. Un grado di istruzione più elevato e incarichi lavorativi più qualificati facilitano ieri come oggi l’apprendimento della nuova lingua e fanno passare in secondo piano quella che un tempo era una necessità primaria, ovvero quella di entrare in contatto con i compaesani, corregionali e/o connazionali per creare quella rete di solidarietà che poteva garantire il lento inserimento sociale, ma anche linguistico, nel nuovo contesto di vita. Vediamo ora quali processi hanno luogo da un punto di vista del mutamento linguistico all’interno dei gruppi di italiani stanziati all’estero. Prima di tutto, da una lettura diacronica, si noterà facilmente come a una crescente integrazione col contesto d’origine corrisponda un comprensibile ampliamento delle competenze linguistiche nella lingua di nuova acquisizione. Quest’ultima è necessaria per integrarsi nella nuova società nella quale egli vive la maggior parte dei rapporti sociali. Il soggetto che, per difficoltà personali o per netto rifiuto, non arriva a utilizzare la nuova lingua, si colloca in posizione di emarginazione strutturale66. In Canada si è profilata nel tempo, con dinamiche più o meno lunghe in base alle competenze dei singoli individui, una contrazione d’uso della/e lingua/e d’origine a favore dell’inglese ( Jansen, 1997). Data l’età dei migranti – per lo più giovani e in età lavorativa (circa 20 anni) al momento della partenza – un fattore di inserimento nel contesto sociale d’arrivo fu costituito nel tempo dalla nascita di figli che, soprattutto durante il periodo della scolarizzazione, costituivano elemento di necessaria e sistematica relazione con la nuova società. Accanto al processo di contrazione degli idiomi d’origine a favore dell’inglese67, nelle comunità italiane all’estero si assiste alla diffusione della lingua statale a scapito delle parlate locali (tab. 2).
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Con il termine di emarginazione strutturale si designa da un lato la relativa difficoltà per il singolo di accedere a una mobilità verticale nel nuovo contesto sociale, dall’altro l’isolamento culturale. Quest’ultimo si traduce in un’interazione sociale che ha luogo, per l’emigrato, solamente all’interno di una miriade di piccoli gruppi (tra compaesani, tra parlanti una stessa varietà di lingua; all’interno dei rapporti familiari etc.) (Ghionda Allemann, 1977). Come ci ricorda lo studio della Bettoni sulle comunità italiane emigrate in Australia: “[…] la storia del contatto linguistico tra l’italiano e l’inglese è la storia di una progressiva anglicizzazione e perdita dell’italiano” (Bettoni, 2008, p. 18).
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FATTORI DI MUTAMENTO LINGUISTICO DEI CODICI ITALIANI ALL’ESTERO: 1) Contrazione della/e lingua/e del paese d’origine a favore della lingua inglese • Processo di integrazione 2) Rapporto italiano-lingua locale (Periodo dal secondo dopoguerra: processo di italianizzazione) • Differenza in termini di prestigio linguistico. • Maggiore funzionalità dell’italiano (rapporti con connazionali di altre regioni e con le varie rappresentanze degli italiani all’estero: consolato, centri di cultura, sindacati). • Presenza di scuole italiane all’estero. • Uso dell’italiano nei mezzi di comunicazione di massa (radio, giornale e ora Rai international e internet). Tab. 2. Elementi alla base del mutamento linguistico dei codici all’interno delle comunità italiane all’estero.
Il primo elemento che ha attivato un processo di italianizzazione è il differente prestigio attribuito alla lingua statale e a quelle locali in ambito italiano. È noto come queste ultime siano associate solitamente a un minor numero di parlanti con un profilo socio-culturale solitamente medio-basso68; il che fa considerare tali varietà come “difettose”69. L’istruzione monolingue in Italia ha ovviamente accentuato la rappresentazione delle lingue locali come sottospecie di linguaggio usato dalle classi meno abbienti (De Agostini, 1977). Il desiderio di promozione sociale diventa così il motivo principale per il cambiamento linguistico70. La mobilità sociale verso l’alto ha fatto sì che il dialetto si contraesse anche in ambito domestico, per “il bene dei figli” (Bettoni, 2007; Grassi, Sobrero e Telmon, 2007) anche nel caso in cui i coniugi erano corregionali (Marchiaro, 2001). Col tempo, in Italia come all’estero, la lingua di Stato si è diffusa conquistando
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Il prestigio dell’italiano (come oggi a scala internazionale quello dell’inglese) è legato a quello che Bourdieu definisce profitto di distinzione: “Poiché il profitto di distinzione dipende dal fatto che l’offerta di prodotti (o di locutori), corrispondente a un livello determinato di qualificazione linguistica (o più in generale culturale), è inferiore a quella che sarebbe, se tutti i locutori avessero beneficiato delle condizioni di acquisizione della competenza linguistica allo stesso livello dei detentori della competenza più rara, esso è logicamente distribuito in funzione delle possibilità di accesso a queste condizioni, cioè in funzione della posizione occupata nella struttura sociale” (Bourdieu, 1988, p. 35). Nell’analisi dell’uso linguistico dunque avranno un peso notevole le caratteristiche d’origine sociale dei parlanti. Le persone che appartengono a classi sociali privilegiate tendono solitamente a intrattenersi con persone con caratteristiche sociali similari all’interno della nuova società o a ricoprire ruoli da leader all’interno della comunità. La distanza sociale rispetto al gruppo verrà inoltre accentuata quando nella società ospitante esistono precisi stereotipi rispetto al gruppo e alla sua collocazione sociale (ad esempio, a Vancouver lo stereotipo principale è stato quello dell’italiano muratore) (Jansen, 1981). Naturalmente il comportamento linguistico è un’azione sociale che, come tale, non è mai completamente predicibile, in quanto dipendente da dinamiche psicologiche, sociali, culturali che, se prese in considerazione, fugano il rischio di semplificazioni deterministe.
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domini che prima appartenevano a quella locale, assumendone le funzioni71, come l’uso in ambito familiare e in situazioni informali tra amici72 (Gobbi, 1994). Anche in contesto estero pertanto “[…] parlanti principalmente dialettofoni trovarono nell’emigrazione le condizioni per passare a un uso molto più frequente dell’italiano” (Berruto, in Gobbi, 1994, p. 180). In contesto migratorio l’italiano non si sarebbe semplicemente rafforzato ma, parallelamente ai processi linguistici in atto nella penisola, si sarebbe creato a partire dai processi di italianizzazione dei dialetti e/o di dialettizzazione e regionalizzazione dell’italiano (Gobbi, 1994). Il prestigio linguistico non è però l’unico elemento che motiva il processo di diffusione della lingua italiana all’estero. Parlare dello scambio linguistico come di un mercato, comporta che il valore sia determinato anche dalla spendibilità della lingua: “[…] l’utilità che il consumatore trae dall’utilizzo di un bene cresce quanto più grande è il numero di persone che utilizzano quel bene” (Gazzola, 2003, p. 4); trasferendo il discorso sul piano linguistico, “[…] tutti coloro che imparano una lingua beneficiano della rete di comunicazione che tale lingua offre, e questo beneficio è tanto più grande quanto cresce la rete” (ibidem, p. 9). L’italiano si è diffuso dunque anche perché rappresentava rispetto alle lingue locali un codice di comprensione trasversale, una sorta di “lingua franca” tra le varie provenienze regionali (Marchiaro, 2001)73. L’inserimento in un contesto d’amicizie e di solidarietà italiano causa dunque la predilezione di tale lingua rispetto a quella locale; anche i numerosi matrimoni misti (nel senso di interregionale) all’interno della più ampia cerchia di italiani hanno agevolato la sua affermazione nel dominio familiare (Loi Corvetto, 1992). La funzionalità dell’italiano inoltre è spendibile anche all’interno delle reti che uniscono le varie comunità alle rappresentanze italiane all’estero (si vedano, ad esempio, i consolati e i patronati); la sua diffusione rispetto al dialetto/lingua minoritaria è inoltre spiegabile con una presenza sistematica di tale codice all’interno dei mezzi di comunicazione di massa quali stampa, televisione e, recentemente, internet74. L’importanza numerica e la compattezza della presenza italiana nelle vari sedi estere si sono tradotte non solo in un processo di italianizzazione dei parlanti ma, per lo stesso principio, anche in una maggiore conservazione75 della lingua italiana
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Una lingua ha una funzione quando vi sono domini che ne richiedono l’uso (Gobbi, 1994). La teoria del mercato linguistico, con la quale si spiega l’uso prediletto dell’italiano nell’ambito dei centri di cultura italiani e nei circoli regionali all’estero, non è tuttavia smentita dall’utilizzo che alcuni possono fare delle lingue locali in ambiti ristretti come quello familiare: “[…] in questi scambi privati tra partners omogenei, i prodotti linguistici “illegittimi” sono commisurati a criteri che, adattati ai loro principi di produzione, li liberano dalla logica, necessariamente comparativa, della distinzione e del valore” (Bourdieu, 1988, p. 61). Da un punto di vista prettamente linguistico, naturalmente, l’italiano che si diffuse, soprattutto in un primo momento, era fortemente frammisto di regionalismi e non aderente a quello che viene definito come italiano standard. In un’epoca come la nostra, caratterizzata da uno sviluppo senza precedenti dei mezzi di comunicazione, primo tra tutti internet, lo stesso mantenimento delle lingue del paese d’origine da parte delle varie comunità stanziate in varie parti del mondo ha goduto di crescente attenzione (Pauwels, Winter e Lo Bianco, 2007). Tale conservazione si traduce sia in termini di trasmissione intergenerazionale, sia in termini di momenti di utilizzo.
lingue migranti
in rapporto a quella estera là dove essa poteva godere di un’ampia rete d’utilizzo (Bettoni, 2007). Non si può infine dimenticare il ruolo giocato all’interno dei Centri e Istituti di cultura italiani dai corsi di lingua italiana che aiutano a forgiare le competenze linguistiche sia dei migranti giunti dall’Italia con competenze dialettofone, sia, sempre più, a diffondere la lingua all’interno delle generazioni d’origine italiana. Le politiche linguistiche a favore della lingua di Stato, attuate grazie a fondi ministeriali, dialogano naturalmente con la politica seguita dallo Stato ospitante. Nel determinare la conservazione delle lingue d’origine uno dei fattori cardine è infatti l’apertura del paese d’immigrazione rispetto ai nuovi arrivati. Le politiche adottate in ambito migratorio definiscono in maniera sostanziale la reale possibilità della tutela e/o della promozione delle lingue e delle culture degli immigrati all’interno di un altro Stato (Gobbi, 1994). Esse sono tutte veicoli attraverso cui si possono rafforzare vitalismo e lealismo rispetto a lingue e culture d’origine. Le condizioni per il passaggio da un uso prevalentemente dialettale all’uso dell’italiano sono dunque spiegabili sia in termini di efficacia linguistica che di prestigio linguistico delle due varietà, entrambe da leggersi nell’ambito di un determinato mercato linguistico. Accanto a una diffusione dell’italiano (soprattutto all’interno dei processi che coinvolsero la prima generazione di migranti giunti nell’immediato secondo dopoguerra), si è assistito – a Vancouver così come in molti altri contesti esteri – il formarsi di quella che gli stessi emigrati definiscono “terza lingua” e che in linguistica prende il nome tecnico di code-switching76 o, nel caso specifico della nostra lingua, di italiano pidginizzato (Di Sparti, 1993; Pasquandrea, 2008). La terza lingua è quella che si trova tra la nuova lingua (nel caso specifico l’inglese) e i codici d’origine (italiano e dialetto/lingua minoritaria). L’uso di tale varietà, caratterizzata da una mescolanza dei codici (Bettoni, 2007), è attuato soprattutto dalle fasce della popolazione con livelli d’istruzione medio-bassi o, in molti casi, anche dalle generazioni successive alla prima che, non possedendo in maniera completa l’italiano, tendono durante l’atto linguistico a utilizzare frasi mistilingui. Nella letteratura specialistica e non, oltre che nell’uso di alcune comunità italiane all’estero, si è fatto strada il termine italiese per indicare questa commistione tra alcuni termini (inglesi) nelle strutture grammaticali e sintattiche dell’italiano o dei differenti idiomi locali (Farnocchia, 1981). Un altro aspetto rilevante di questa “terza lingua” è il fatto che alcuni emigrati mostrano una qualche difficoltà a comprendere la differenza tra italiano e dialetto, in virtù del fatto che la lingua da loro parlata è spesso un mix dei vari codici77.
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“Si intende per code-switching (in italiano, cambio o commutazione di codice) il passaggio da una lingua all’altra o da una varietà di lingua all’altra all’interno del medesimo scambio comunicativo” (Morgana, 2003, p. 281). Come esempio di ibridazione tra differenti codici, si veda anche il caso della stampa italiana in Canada, all’interno dei cui testi si possono notare, oltre all’inserimento di numerosi neologismi, forti interferenze di termini inglesi e francesi (Milani, 1990; Dilani, 1991).
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CAP III. Emigrare: flussi italiani e politiche canadesi 1. Introduzione Termini come migrazione o mobilità racchiudono in sé una gamma infinita di situazioni e di storie di vita, in cui l’esperienza del singolo si intreccia con le dinamiche storiche, politiche, culturali ed economiche dei territori che definiscono la scena del suo agire. Trasferimenti non necessariamente conclusi, spostamenti provvisori, barriere e canali di flussi, ritorni, permanenze, identità territoriali “semplici”, multiple, contese o inesistenti, chiariscono quanto l’esperienza di mobilità dei differenti individui possa essere letta come parte di processi complessi di cui difficilmente si può tracciare un quadro esaustivo (Dal Lago, 1999). Com’è noto, l’Italia è stata terra di movimenti dal carattere sia centrifugo che centripeto, in funzione della sua capacità di attrazione o viceversa di repulsione a seconda dei momenti o dei luoghi (Montanari e Staniscia, 2003). A partire dall’anno della costituzione dello Stato nazionale, il 1861, l’andamento dei flussi migratori in entrata e in uscita non è stato costante. Si è assistito infatti a due fasi di intenso sviluppo del fenomeno emigratorio all’inizio del XX secolo e nell’immediato secondo dopoguerra, momenti in cui si sono raggiunte punte massime rispettivamente di 873.000 emigrati (nel 1913) e di 387.123 (nel 1961)78 (Verzelli, 1990). Tali frangenti di intensa mobilità, così come indicano le nuove impostazioni storiografiche non vanno interpretati come cesure, in cui la migrazione altera una normale situazione di sedentarietà. Ci si discosta pertanto, in quanto a presupposti teorici, dal modello “espulsivo”79 utilizzato dagli storici fino allo scorso decennio. Le analisi recenti disegnano infatti la mobilità geografica come un processo endemico della vita sociale, già a partire dalla prima delle due grandi ondate: La reale novità, in sostanza, è costituita dall’emergere della lunga distanza nella mobilità e non dalla mobilità in quanto tale, perché i movimenti in uno spazio sempre più dilatato che si manifestano a partire dalla seconda metà dell’Ottocento nelle varie aree del paese si sviluppano in modo esponenziale nelle maglie di quei tessuti sociali che la prevedono e la utilizzano da tempo e che quindi ne consentono e ne favoriscono la generalizzazione (Ramella, 2003, p. 28).
Il termine ondata dunque, che troverà largo uso anche in questo studio, non rimanda a un “‘ictus demografico’ fuori dall’ordinario” (Franzina, 1999, p. 34) che
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Tra gli elementi che differenziano le due fasi di intenso espatrio vi è innanzitutto una preferenza, durante il Secondo dopoguerra, per le destinazioni intraeuropee a scapito di quelle transoceaniche. Tale scelta, sempre più praticata a partire dagli anni ’50, va ricondotta a vari moventi: prima di tutto alla favorevole situazione economica attraversata da molti paesi europei, inoltre alla vicinanza e alla relativa facilità di rimpatrio offerta dagli stessi, alle difficoltà economiche dell’America del Sud e, in ultimo, alle restrizioni all’immigrazione introdotte da alcuni paesi d’oltreoceano. Tale modello assumeva come fondamento esplicativo del fenomeno migratorio italiano a cavallo tra i secoli XIX e XX la crisi agraria. “In sostanza, l’emigrazione era vista come il fenomeno rivelatore del modo specifico in cui in un paese arretrato come l’Italia si era venuto realizzando nelle sue aree rurali il classico processo di liberazione di forze di lavoro per l’industria” (Ramella, 2003, p. 26).
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avrebbe causato movimenti migratori anomali, ma a una fase di impennata di una mobilità letta comunque come fatto sociale fisiologico. La storia, che per comodità dividiamo in momenti che si dipanano a partire da date emblematiche, è anch’essa un movimento di processi in continuo dialogo tra loro; per questo motivo si cercherà, seppur in forma concisa, di porre in luce tali aspetti di interrelazione tra politiche, congiunture storiche e mobilità geografiche. 2. Note sulle migrazioni italiane dal secondo dopoguerra La conclusione dell’ultimo conflitto mondiale aprì quanto alle migrazioni un delicato scenario non solo a scala nazionale, ma anche internazionale. Correnti migratorie di portata mai vista dilagarono infatti per tutto il vecchio continente; fughe e migrazioni forzate di milioni di profughi, diretta conseguenza della ridefinizione dei confini politici, e il rimpatrio di milioni di europei dagli imperi coloniali asiatici e africani causarono un vero e proprio trauma del tessuto sociale continentale (Bevilacqua, De Clementi e Franzina, 2001). In Italia, paese come altri devastato dalla guerra e da un’economia nazionale in crisi, prese il via una stagione di grandi trasformazioni. All’interno di questo ampio contesto di mobilità internazionale e crisi nazionale, riprendeva con nuovo vigore l’emigrazione italiana all’estero80 a cui si accompagnò, aumentando progressivamente nel tempo, la mobilità interna al paese stesso81, motivata da uno sviluppo squilibrato del centro-nord del paese rispetto al Sud (Primavera, 2002; Magli, 2009). La distribuzione demografica dell’Italia subì un netto e rapido cambiamento, il più importante vissuto dallo Stato unitario. In questa fase si raggiunsero gli stessi tassi di emigrazione dei primi decenni del XX secolo; ogni anno abbandonarono il paese tra i 200.000 e i 300.000 emigranti. Gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, forti della vittoria ottenuta durante l’ultima guerra mondiale, presentavano un’economia in forte sviluppo; ma se gli U.S.A. mantennero le precedenti quote restrittive in fatto d’immigrazione fino al 196582, paesi come il Canada e l’Australia (insieme al Brasile
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Sul fronte migratorio si assistette a un’ondata di espatri che raggiunse, nell’arco di trent’anni, sette milioni di unità. Per un’analisi approfondita delle dinamiche in gioco, delle motivazioni al movimento e delle componenti delle migrazioni interne nella congiuntura storica postbellica si rimanda al testo della Rocco (2002) che, come le indagini storiche e geografiche più accreditate, lega la forte mobilità interna ai mutamenti socio-economici del periodo. Sul fronte emigratorio, sembra inoltre utile richiamare la distinzione analitica compiuta dalla storica statunitense Gabaccia (2000) che, nel suo attento studio sulla mobilità italiana individua, per il secondo dopoguerra, tre differenti periodi. Il primo, che abbraccia il primo decennio post-bellico (dal 1945 al 1955), è stato caratterizzato da una imponente ondata migratoria; il secondo, quello coincidente con il boom economico (tra la fine degli anni ’50 e la fine degli anni ’60), da un’ulteriore impennata della mobilità italiana; l’ultimo periodo, a partire dalla metà degli anni ’70, corrisponde a una drastica riduzione dei flussi in uscita e all’incremento di quelli in entrata. Negli U.S.A. le prime proposte esplicitamente pensate per limitare l’immigrazione iniziarono nel 1880 e si concretizzarono nel Chinese Exclusion Act di due anni più tardi. Inoltre, sempre alla fine dell’Ottocento, si deve datare la nascita di due gruppi statunitensi l’American Protective Association (1887) e l’American Restriction League (1894) che si proponevano, tra i vari scopi, di esercitare una pressione politica affinché venissero posti severi limiti e dure selezioni all’immigra-
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e all’Argentina) iniziarono invece a incoraggiare l’arrivo di nuovi migranti, predisponendo politiche di assistenza volte alla loro integrazione nel tessuto socio-economico dei rispettivi territori. In questo quadro storico si inscrive un forte impegno dello Stato italiano rivolto, da un lato, a concretizzare accordi con vari paesi interessati a ricevere mano d’opera83 e, dall’altro, a tutelare i connazionali durante il viaggio e la permanenza all’estero, stanziando contributi per le spese di viaggio per coloro che affrontavano la traversata transatlantica (Tonizzi, 1999). È necessario sottolineare come le emigrazioni verso i paesi europei in questa fase fossero principalmente di tipo temporaneo. Gli stessi trattati degli anni Cinquanta, infatti, lasciavano intuire che i paesi firmatari condividessero il presupposto che i lavoratori italiani sarebbero prima o poi rimpatriati. È inoltre da notare una differenza per quel che concerne le aree di provenienza regionale dei migranti italiani: il centro-nord, che durante la prima ondata aveva contribuito per circa il 50% ad alimentare la mobilità verso l’estero, ridurrà fortemente il suo contributo in questa fase (Pittau e Ulivi, 1986). I flussi, infatti, manifesteranno nel tempo una meridionalizzazione sempre più marcata, nonostante il persistente apporto di uomini provenienti da alcune regioni nord-orientali con tradizioni d’esodo come il Friuli-Venezia Giulia. Tra il 1946 e la fine degli anni ’60 lasciarono l’Italia milioni di cittadini: un computo esteso fino al 1975 dà come risultato 7,3 milioni, di cui il 31% (poco più di 2 milioni) si diresse verso paesi extraeuropei, in particolar modo l’America meridionale (il 41%), l’America settentrionale (il 40%), l’Oceania (il 15%) (tab. 3). DESTINAZIONI
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RIMPATRI
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Nord America
918.720
131.959
- 786.761
Sud America
939.811
307.918
- 631.893
Oceania
358.069
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- 305.981
Tab. 3. Movimento migratorio dall’Italia verso i principali paesi extraeuropei divisi per destinazione (19461975) (Fonte: Ascoli, 1979).
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zione. Nel 1911 venne pubblicato il rapporto della Dillingham Commission, quarantadue volumi il cui fine era quello di dimostrare che molte comunità immigrate presenti negli U.S.A. erano difficilmente integrabili nella società americana. Nel 1921 venne approvato l’Emergency Quota Act grazie al quale veniva ammesso annualmente dal complesso dei paesi europei solamente il 3% della popolazione totale degli USA; tale norma venne resa ancora più aspra nel 1924 attraverso il Johnson-Reed Act, che ridusse al 2% le quote degli ingressi a partire dal 1927. La legge venne modificata successivamente, nel 1929, inserendo nuove quote distinte per singole nazionalità. A causa di tali politiche gli ingressi permessi agli italiani vennero ridotti drasticamente, dai 5.735.811 del decennio 1911-1920 ai 528.431 del 1931-1941 (Audenino e Tirabassi, 2008). Si vedano tra i più importanti l’accordo stipulato col Belgio nel 1946, col quale lo Stato del Nord Europa si impegnava a vendere all’Italia 200 kg di carbone al giorno a prezzi convenienti a fronte di ogni italiano giunto in Belgio per lavorare nelle miniere belghe. Analoghi trattati vennero conclusi tra il 1946 e il 1948 con la Francia, la Svezia, i Paesi Bassi e la Gran Bretagna, a cui fecero seguito quelli stipulati con l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay e l’Australia.
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Le migrazioni con destinazione il Nord America mostrano, seppure nella differenza delle politiche adottate tra Canada e U.S.A, alcuni elementi comuni. Prima di tutto le donne rappresentarono ben il 40% degli emigrati in quest’area. Se si considera che la presenza di donne viene ritenuta, per il caso italiano e per il periodo, un utile indicatore di trasferimento familiare, si può comprendere che l’emigrazione nel Nord America assumeva le caratteristiche di uno spostamento permanente. Una conferma di questa lettura ci viene dall’analisi dei tassi di rientro che, se rispetto ai paesi europei aumentarono fino a toccare i due terzi dei migranti, nel caso delle Americhe del Nord e del Sud calarono in maniera vistosa fino a giungere, rispettivamente, al 14% e al 33% (tab. 3). L’emigrazione verso i paesi d’oltreoceano era dunque un’esperienza relativamente definitiva. Tale migrazione differisce anche per l’entità numerica delle persone coinvolte nell’esodo, entità sostanzialmente più esigua, ma caratterizzata dalla partenza di tutto il nucleo familiare; mentre in Europa risultava preponderante la quota di uomini che giungevano all’estero da soli e con la speranza di tornare in Italia dopo un periodo più o meno lungo di espatrio (Tonizzi, 1999). La metà degli anni ’70 vide un assottigliarsi delle partenze dall’Italia e, contemporaneamente, un aumento speculare degli ingressi (sia di emigrati italiani di ritorno che di stranieri). La drastica riduzione del flusso in uscita, se visto dalla prospettiva delle comunità italiane residenti all’estero, ha comportato a partire da tale periodo incrementi quantitativi assai modesti in linea col trend migratorio. Nonostante questo, continua a essere di estrema importanza sia la presenza degli italiani all’estero84, sia il costante, seppur esiguo rispetto al passato, flusso emigratorio; come dimostra la creazione, nel 2009, del Museo nazionale dell’emigrazione italiana (MEI) di Roma85. Se l’emigrazione tradizionale rappresenta, in questo universo di riferimento, ancora una quota consistente, è da valutare il peso che in tali processi di mobilità rivestono diplomati e laureati (Tirabassi, 2005). Tra i nuovi emigranti troviamo infatti un numero crescente di tecnici e operai specializzati, imprenditori e ricercatori86 (Montanari e Staniscia, 2003). Cambiando il profilo dei migranti, cambiano in parte esigenze e problematiche. Non è un caso che una delle differenze che disegnano la nuova emigrazione dei giorni nostri, rispetto alle precedenti emigrazioni extracontinentali, sia il fatto – già accennato – che circa il 50% degli emigrati non supera l’anno di residenza all’estero87 (Verzelli, 1990). Tra il 1996 e il 2005, 59.756 laureati hanno lasciato l’Italia88.
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L’Italia presenta tra i paesi dell’Unione Europea il più alto quantitativo assoluto di emigrati, seguita da Portogallo, Spagna e Grecia (ibidem). Il Museo, inaugurato il 23 ottobre 2009, ripercorre la storia dell’emigrazione italiana a partire dalla nascita dello Stato fino ai giorni nostri. Vengono presentate le diverse esperienze migratorie su scala regionale e locale (Nicosia e Principe, 2009). A causa dei continui tagli ai bilanci e al personale delle università e degli enti di ricerca, si è avuto negli ultimi anni un forte incremento della “fuga dei ricercatori” all’estero. Per quanto riguarda i motivi alla base di questo fenomeno e la sua entità si rimanda a Brandi, 2010. Paesi come la Svizzera e la Germania, a partire dagli anni ’70, hanno condotto politiche ispirate al modello Gastarbeiter (lavoratori-ospiti) che prevedeva brevi soggiorni nei paesi d’arrivo e considerevoli flussi di ritorno (Montanari e Staniscia, 2003). Da un’indagine Almalaurea (2007), le ragioni alla base dell’emigrazione dei laureati sono da ricercare nelle difficili condizioni del lavoro in Italia e, soprattutto, nelle opportunità di occupazione offerte da grandi aziende estere. Le mete principali sono: il Regno Unito (19,2%), la Francia (12,6%), la Spagna (11,4%) e gli USA (9,8%).
Emigrare: flussi italiani e politiche canadesi
Le emigrazioni italiane sono dunque presenti, seppur fortemente ridimensionate nel numero e mutate in tipologia; ciò che non tende invece a diminuire è l’entità numerica della presenza di italiani all’estero, se con questo termine si indicano gli oriundi italiani. Alle soglie del nuovo millennio è stato calcolato dal Ministero degli Affari Esteri che la popolazione di origine italiana all’estero consta di circa 60-70 milioni di individui. Il numero più alto di presenze si trova in Argentina, Stati Uniti, Brasile, Canada e Australia. Gli italiani all’estero, anche coloro che sono partiti nell’immediato secondo dopoguerra, godono al giorno d’oggi di una posizione privilegiata rispetto al passato; essi beneficiano infatti di una certa anzianità di arrivo nei confronti di altri gruppi immigrati; inoltre il progresso economico compiuto dall’Italia negli anni della ricostruzione postbellica la avvicina sempre più ai paesi che ospitano i suoi emigrati; quando a volte non ne determina il sorpasso, come nel caso dell’Argentina. Le emigrazioni, pur godendo di minore attenzione rispetto alle immigrazioni, al giorno d’oggi sembrano ritagliare uno spazio all’interno dei discorsi pubblici e politici mai avuto in precedenza89. Tra gli elementi che hanno contribuito a catalizzare negli ultimi anni l’interesse del paese sulla presenza degli italiani all’estero è stato senz’altro il dibattito relativo al loro diritto al voto. Nel 2001 è stata approvata, dopo un dibattito parlamentare che risaliva nelle sue prime formulazioni al 1908, la legge sul voto degli italiani all’estero, ovvero di coloro che sono in possesso della cittadinanza italiana90. L’attuale legge sul voto, voluta da un governo di centro-destra, è stata oggetto di ampi dibattiti trasversali ai vari schieramenti politici i cui contenuti esulano, per complessità e attinenza specifica, dalla presente trattazione91. Ciò che è utile sottolineare in questa sede è quanto una siffatta legge implichi inevitabilmente un rafforzamento delle interconnessioni (per lo meno politiche, ma non solo) tra l’Italia e parte dei cittadini italiani emigrati. Il diritto al voto e ciò che esso comporta, le varie consulte regionali e le politiche da esse attuate, i COMITES92, il CGIE93, i consolati,
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Non è un caso che la maggior parte degli studi sui fenomeni emigratori inizi a fiorire proprio a partire dalla metà degli anni ’70, in un clima di inversione di tendenza in termini di flussi e di ridefinizione delle competenze amministrative (cfr. cap. I) in relazione ai fenomeni emigratori (Colucci, 2009). Per ragioni prettamente politiche, dal 1955 al 2001, si susseguirono ben 143 progetti di legge sul voto degli emigrati residenti all’estero (Audenino e Tirabassi, 2008). Le prime esperienze alle urne si sono concretizzate con le consultazioni referendarie del 2003 e del 2005, ma è con le elezioni politiche del 2006 che il voto all’estero si pose all’attenzione avendo determinato in buona parte il risultato elettorale. La partecipazione al voto ha raggiunto alti tassi nei paesi di più recente emigrazione, nell’ordine, l’Europa, l’America meridionale seguita da quella settentrionale; a seguire Asia, Africa, Oceania. Si rimanda, come esempio di dibattito relativo a tale problematica, al sito della testata giornalistica La Repubblica: http://www.repubblica.it/forum/votoestero/x980807151021.html. I COMITES (Comitati degli Italiani all’Estero) sono organi consultivi istituiti con la legge n. 205 del 1985, modificata successivamente dalla legge n. 172 del 1990. Essi sono eletti solitamente direttamente dagli italiani residenti all’estero in alcuni casi sono designati dalle autorità consolari. Hanno il compito di affiancare l’attività dei consolati nella promozione di iniziative attinenti la vita sociale e culturale della collettività italiana; esprimono in sostanza pareri consultivi sulle richieste di contributi voluti dalle varie associazioni (Olivieri, 1999). Il CGIE (Consiglio generale degli italiani all’estero) è stato istituito dalla legge n. 368 del 1989 (poi modificata) con la n. 198 del 1998) per agevolare il processo di collaborazione, nato nel 1985 con i COMITES, tra gli italiani all’estero e l’Italia. Presieduto dal Ministro degli Affari Esteri, il
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gli Istituti e i Centri di cultura italiani implicano una intensa maglia di relazioni che a più livelli e in maniera articolata modella i rapporti materiali e simbolici tra l’Italia e le comunità all’estero. 3. Migrazioni e problematiche generazionali Quando si parla di migrazioni e di integrazione di comunità che da tempo si sono stanziate in un luogo differente dal loro Stato di nascita, non si può non toccare la questione dei figli degli emigrati. Ponte tra passato e futuro, essi possono essere considerati metaforicamente come trait d’union in numerosi sensi; linee che uniscono storie e culture di terre lontane integrandole in un nuovo tessuto sociale94 (Winter e Pauwels, 2007). Le seconde e terze generazioni non solo possono essere paragonate a un ponte che unisce contesti temporali e territoriali differenti; ma, in base alla prospettiva dell’identità scissa (cfr. cap. I), possono essere considerate l’emblema del limbo della migrazione. Non più italiani, non potendo vantare ricordi o esperienze di vita in Italia, ma neanche totalmente australiani o canadesi o altro, data la forte educazione imperniata su modelli culturali e linguistici spesso molto differenti (soprattutto in passato) rispetto ai contesti d’arrivo. Riconsiderare lo spazio occupato dalla “seconda generazione di migranti/prima generazione locale” è stato legato, nell’analisi delle esperienze diasporiche, al concetto di “terzo spazio” di Brah (1996) – ripreso da Bhabha – o di ibridità (Hall, in Fortier, 2000), proprio perché tale generazione sembra incarnare più di ogni altra la doppia presenza di input culturali e linguistici. Lo stesso termine che li identifica come emigrati di seconda (o terza) generazione è stato spesso messo in discussione dato che, nell’uso della progressione numerica, lascia invariato il termine emigrato, che in realtà non sembra potersi applicare con tanta disinvoltura a coloro che in altri contesti sono nati e cresciuti, invece che arrivati95. Al di là del giusto riserbo che l’uso di un tale termine ispira, è da notare che all’interno degli studi sulla migrazione esso è fortemente presente, perché storicamente ha retto il mito dell’integrazione lineare del migrante (Tirabassi, 2006). Utile dal punto di vista esplicativo, il termine di “generazione” è dunque anch’esso sede di accurate formulazioni concettuali per nulla scontate96. La definizione più conosciuta è quella di “terza generazione” data dallo studioso Marcus Lee Hansen nel 1938 alla Augustana Historical Society, associazione per lo
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CGIE ha una funzione consultiva nei confronti del Governo sui temi legati all’emigrazione italiana, esaminando le problematiche a essa attinenti e proponendo atti di carattere legislativo o amministrativo di competenza di Stato e Regioni (ibidem). “They are invited to act as a mediator to link past and present in the construction of the future. In other words, the land of origin constitutes a ‘detour through the past’ enabling the future generation to ‘produce themselves anew and differently” (Hall, in Fortier, 2000, p. 362). La problematica delle seconde generazioni in Italia è affrontata nell’antologia, divertente quanto dolorosa, a cura di Giuseppe Caliceti (2010), insegnante elementare che ha raccolto alcune espressioni dei bambini stranieri in relazione alle problematiche dell’integrazione in Italia. Non è un caso che in alcune sedi si prediliga, per identificare anche le seconde, terze, quarte generazioni, il termine onnicomprensivo, non privo di ambiguità, di “italiani nel mondo” (Signorelli, 2009).
Emigrare: flussi italiani e politiche canadesi
studio dell’immigrazione svedese negli Stati Uniti. L’unica caratteristica che lo studioso riteneva potesse collocarsi al di là della cultura e persino della storia è la tendenza dimostrata dalle seconde generazioni a ciò che era stato definito da Higginson “una graduale degenerazione” degli usi e dei costumi dei padri, che per Hansen equivaleva a un loro totale tradimento. Secondo Hansen, dunque, la seconda generazione desiderava semplicemente dimenticare tutto: lingua, abitudini familiari, religione. Se la prima generazione venne assolta dallo studioso che ne ricorda gli sforzi e le difficoltà di inserimento, per le colpe della seconda non ci può essere rimedio, dato che nulla “[…] può assolvere i traditori della seconda generazione che disfecero deliberatamente ciò che era stato preservato nelle loro case” (cit. in Sollors, 2005, p. 237). Esiste però una possibile redenzione affidata alla terza generazione: Non tutto è perso. Dopo la seconda generazione viene la terza e con la terza fanno la loro comparsa una nuova forza e una nuova opportunità che, se avvertite in tempo, non solo possono compiere un buon lavoro di recupero, ma probabilmente realizzare più di quanto sia la prima sia la seconda avrebbero potuto mai ottenere (Hansen, in Sollors, 2005, p. 237).
Questo lo indusse a formulare quell’affermazione che oggi è a tal punto nota e diffusa da essere ricordata proprio come legge di Hansen “Ciò che i figli desiderano dimenticare i nipoti desiderano ricordare”. Le critiche a tale teoria sono state molte e ben argomentate. Una delle più importanti, a opera di Nahirny e Fishman (Sollors, 2005), sottolineava come la prima generazione tessesse dei legami con un luogo del “vecchio mondo” che la seconda generazione non poteva condividere. La terza generazione invece avrebbe potuto approntare semplicemente un legame generico nei confronti di una cultura astratta, scevra da riferimenti a specifici localismi. Il melodramma della numerazione delle generazioni può oscurare la tensione, nell’umano desiderio, tra l’aspirazione a fuggire dagli antenati e l’anelito a soddisfare le loro aspettative. Un modo di gestire tale ambivalenza è di dividerla in comportamenti contrastanti, che possono essere classificati mediante un numero generazionale (e, in alcuni casi, “seconda generazione” equivale a “degenerazione” o “tradimento”, mentre “terza generazione” significa “speranza di un ‘ritorno’ alle origini”) (ibidem, p. 240).
Se la legge di Hansen sembrò realizzarsi puntualmente all’interno di alcune comunità degli anni ’50, ciò è dovuto con tutta probabilità a dei conflitti genitori-figli che venivano amplificati dalla distanza culturale che i genitori mostravano rispetto al contesto di nuovo inserimento. Il problema, lungi dal potersi risolvere semplicemente con un computo di generazioni (per cui tutti i figli degli emigrati risulterebbero allontanarsi dagli influssi culturali della terra dei genitori e i nipoti invece si riavvicinerebbero) è dunque da legarsi ai differenti tipi di relazioni che possono avere luogo nelle dinamiche familiari. Problemi generazionali forti subentrano solitamente quando l’integrazione della seconda generazione non è né guidata né accompagnata da cambiamenti nella prima generazione (Portes e Rumbaut, in Sollors, 2005)97.
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Al contempo la consonanza generazionale ha luogo quando: 1) Entrambi, genitori e figli, permangono non acculturati; 2) Entrambi si acculturano con la stessa progressione; 3) La comunità immigrata incoraggia un’acculturazione selettiva della seconda generazione.
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Ed è all’interno di tale conflittualità che si può cogliere in tutta la sua importanza il già ricordato nodo identitario, soprattutto il peso dell’ipotesi di un’identità fissista e considerata come “biologicamente fondata”. Dare una definizione, attribuire un’identità equivale, più o meno esplicitamente, anche a disegnare dei confini, delimitazioni di un’essenza sociale, che richiama in qualche modo il Ta heautou prattein di Platone, ovvero il Fare ciò che è nella propria natura fare, un discorso che spesso per la seconda generazione si traduce in un “Diventa ciò che sei” (Bourdieu, 1988) – in questo caso “un italiano” – come se l’identità fosse diretta e unica conseguenza di un’origine scritta tra le righe delle vicende familiari passate del soggetto. La richiesta di sapere con certezza chi si è e da dove si viene attraverso la conoscenza dei propri avi e delle proprie radici culturali, suggerisce un’identità collettiva di tipo primordialista (cfr. cap. I) e predeterminata, che può essere semplicemente svelata, non costruita o modificata (Nash, 2002). L’identità, per riprendere un termine utilizzato da Michael Billig, può essere definita in questi casi “banale”, ovvero data per scontata (Mc Crone, 2002, p. 317). Molto spesso i giovani non trovano attraente la modalità identitaria fossilizzata all’interno delle comunità di prima generazione (Smolicz, 1980). In questi casi, il loro non sentirsi parte del gruppo può essere letto proprio come reazione e risposta ai vecchi miti e alle immagini identitarie costruite dalle generazioni precedenti (Gry, 2002): “Molti giovani italiani all’estero vivono solo i cliché e gli stereotipi dell’italianità, elementi spesso folcloristici e imposti dall’esterno”98 (Principe, 2007, pp. 170-171). Le identità diasporiche, così come tutti i tipi di identità collettive (Gry, 2002), possono dunque essere viste come un ancoraggio di sicurezza per parte della comunità, ma possono anche rappresentare un limite da cui i giovani desiderano liberarsi. Intensi conflitti generazionali sorsero nelle varie comunità italiane soprattutto durante il dispiegarsi della prima ondata migratoria che ebbe luogo a cavallo tra XIX e XX secolo (Orsi, 1990), quando negli Stati Uniti duri contrasti opposero i principi dei genitori, fortemente incentrati su modelli educativi “italiani”, e l’atteggiamento dei figli, incolpati spesso di non seguire il mos maiorum a favore dell’atteggiamento americano; i genitori desiderano educare i loro figli partendo dalle regole, spesso idealizzate e irrigidite, di un altro luogo. Una tale conflittualità di codici culturali, che tende ad aggravare in linea teorica naturali processi di conflittualità generazionale tra genitori e figli, sembra persistere, seppur mitigata nelle forme, anche all’interno delle famiglie italiane emigrate a ridosso del secondo dopoguerra.
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Riguardo al desiderio di continuità generazionale padri-figli, spesso ci sono segni di reciproco rammarico (Floriani, 2004). Da parte dei genitori, per tutte le volte che i figli hanno disatteso le aspettative nelle quali i genitori stessi avevano proiettato il disagio e il malessere della propria condizione esistenziale, e per ogni volta in cui i figli non hanno accolto la richiesta di continuità rispetto a tradizioni e usi che sentivano estranei quando non artificiali. Da parte dei figli, che nati e socializzati in un contesto differente, crescono in famiglie in cui alcuni disagi e chiusure legate all’emigrazione incidono sulla pienezza e serenità della loro vita nel loro contesto. Spesso i figli rimproverano ai genitori di aver condizionato negativamente il rapporto con l’Italia, soprattutto quando la terra di provenienza è stata associata a un’immagine statica e mitizzata. Il rammarico dei figli non sembra peraltro profilarsi come un atto di chiusura netto; si coniuga infatti con la gratitudine per il sacrificio e la sofferenza dei genitori migrati.
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A essere tacciati di essere “strani italiani” sono anche, e spesso, i nuovi migranti; coloro che, giunti all’estero soprattutto a partire dagli anni ’80 e con un diverso bagaglio culturale, hanno portato comportamenti non coincidenti con l’immagine fossilizzata e idealizzata di quanto lasciato dai vecchi migranti. Non è un caso inoltre che anche coloro che, tra questi ultimi, tornarono a vivere in Italia percepivano (e riportavano) spesso la stessa reazione di estraneità nello scoprire che vecchie consuetudini avevano lasciato il passo ad altre, nuove e diverse. Lo stesso ritorno dunque si può porre come un “brusco risveglio”, ovvero una sensazione di estraneità che più volte viene riferita dai vecchi immigrati di prima generazione: Returnees painfully recognized that they no longer had a place that they could call their own. Their were aliens both in the United States and Italy (Cinel, in Orsi, 1990, p. 142).
In effetti l’Italia ha conosciuto grandi trasformazioni non solo economiche, ma anche sociali e culturali a partire dagli anni ’50; molto spesso dunque si è impressa nella mente del migrante l’immagine di un’Italia (e delle sue “regole sociali”) che non esiste più e che perdura solamente in un’idea mitizzata e fossilizzata del contesto di provenienza. È utile sottolineare pertanto il ruolo cardine che all’interno dei processi e delle pratiche identitarie diasporiche è ricoperto dalla memoria; memoria, in questo caso, territoriale: The recreation of a place in memory is subject to all the pressures and forces that shape any exercise of memory: the distortions and displacements of desire, repression, fear, and denial (ibidem, p. 140).
Un altro aspetto fondamentale per comprendere alcuni richiami alle “origini”, che Hansen disse svilupparsi all’interno della terza generazione, è l’importanza quasi esotica assunta a partire dagli anni ’60 dalle differenze culturali, in un’epoca che non a caso è stata definita dei Revivals etnici (Harvey, 2002; Bauman, 2003; Castells, 2003). A partire da questa congiuntura storica, in molti contesti, soprattutto in Canada e negli U.S.A., emerge una tale seduzione estetica da parte dell’Italia (Sollors, 2005) che le stesse “origini italiane” divengono un vero e proprio elemento di Culture appeal (Signorelli, 2009). La legge di Hansen a partire dagli anni ’70 potrebbe quindi recitare così: […] ciò che il figlio dell’immigrato desidera dimenticare, il nipote della società di accoglienza non solo desidera ricordare, ma diventare (Sollors, 2005, pp. 246-247).
Come è naturale che sia, le costruzioni identitarie sono collegate a una gamma di opzioni che possono essere comunque comprese in una casistica definita. Così come schematizzato da Ianni (1962) le opzioni più comuni, vissute dalla maggior parte degli immigrati soprattutto nei primi anni del secondo dopoguerra (prima ancora che si sviluppassero i Revivals etnici menzionati) furono le seguenti: rigetto dell’identità italo-canadese in favore di una totale integrazione; riconferma dell’identità italo-canadese; ricerca dell’integrazione con la cultura canadese, ma ricerca, allo stesso tempo, dei contatti con la famiglia in Italia. La seconda e terza opzione vengo-
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no indicate come quelle più seguite ed è per questa via che si può approdare a una terza generazione che in qualche modo continui a tessere e a mantenere legami con la terra d’origine dei propri parenti. Sembra attagliarsi alle terze e quarte generazioni quella che viene definita la ricerca delle proprie “radici”: Una tale ricerca può avere manifestazioni limitate, come la curiosità sull’etimologia del proprio cognome; o già più notevoli come il desiderio di un viaggio in Italia, anche per vedere il paese da cui sono partiti gli antenati. Ma in molti casi sta sbocciando nella volontà di una più ampia riappropriazione, per sé e per i propri figli, del mondo da cui sono tratte le origini; e quindi anche nel desiderio sempre più vivo (anche se di diffusione abbastanza limitata) di apprendere la lingua italiana (Bertini Malgari, 1987, p. 35).
I fattori di attaccamento alla cultura italiana, così come si evince anche dal brano di Bertini Malgari, hanno naturalmente ripercussione anche nell’uso linguistico (cfr. cap. II). Le competenze comunicative della seconda e della terza generazione possono essere le più disparate. Se da un punto di vista interno alle strutture linguistiche, le varietà apprese dai genitori sono già in vario modo intaccate da un forte influsso della lingua d’arrivo, dal punto di vista dell’importanza attribuita ai codici (italianolingua locale), si devono considerare i fattori di attaccamento alla cultura italiana99 e il grado di immersione nel contesto d’arrivo. La seconda generazione rispetto alla prima sembra aver acquisito principalmente l’italiano e non la lingua locale (Haller, in Gobbi, 1994), ma anche questa tendenza è fortemente legata al contesto familiare. Come è facilmente intuibile, un ruolo di primaria importanza nell’apprendimento delle differenti lingue è la composizione familiare. Coloro che hanno un genitore italiano e uno non italofono tendono ad abbandonare l’italiano in maniera più sistematica e repentina (Bettoni, 2007). Rispetto alla lingua del paese di immigrazione la seconda generazione in passato è stata essenziale, proprio in quanto – ritorna la metafora – “generazione ponte”, per lo stesso inserimento linguistico dei genitori. In alcuni casi dunque, sviluppando una maggiore integrazione anche linguistica rispetto alla nuova comunità di appartenenza, i figli, soprattutto in passato, finivano con l’essere: […] “i padroni della lingua” dei membri più anziani ai quali garantiscono possibilità di contatti comunicativi e sociali. Essi possono avere una posizione in parte dominante nei confronti dei genitori e questi ultimi possono essere, in determinate situazioni, linguisticamente ‘interdetti’ dai figli, come se fossero loro i bambini (Dittmar e Sobrero, 1990, p. 200).
Le voci discorsive articolate dalla seconda generazione di uomini e donne bilingue riflettono dunque, per usare le parole di Goffman (1987), le loro posizio-
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Tosi (Gobbi, 1994), all’interno del suo studio sugli emigrati italiani a Bedford, individua, all’interno della seconda generazione, tre gruppi di parlanti che si differenziano in relazione al rapporto con le loro “origini” italiane. 1) Apathetic reaction: coloro che sono ansiosi di dissimulare le proprie origini e che tendono dunque al monolinguismo inglese. 2) Ingroup reaction: coloro che, avendo sviluppato un forte attaccamento familiare e alla lingua-dialetto d’origine, usano preferibilmente tale lingua e l’inglese in funzione puramente strumentale. 3) Rebel reaction: sono coloro che rifiutano di vivere in maniera conflittuale il rapporto tra l’origine dei genitori e il nuovo contesto d’arrivo e dunque hanno una buona competenza sia dell’italiano che dell’inglese. Si vedano al proposito anche Ianni (1962) e Orsi (1990).
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ni rispetto all’importanza del mantenimento linguistico nel contesto migratorio. Le esperienze dei rispettivi genitori rimangono rilevanti per la decisione di imparare o meno la lingua italiana (o dialettale/minoritaria). In paesi di recente immigrazione italiana, che hanno adottato politiche multiculturali, come il Canada e l’Australia, si può constatare una maggiore difesa della lingua italiana. Nelle generazioni successive alla seconda, se da un lato si può notare una scarsissima competenza linguistica italiana acquisita in famiglia, si è però spesso in presenza di giovani che, seppur ormai totalmente integrati nel loro contesto di vita, sono spinti dalle proprie “origini” a seguire corsi di lingua italiana ai Centri di cultura o a scuola o all’università. Accanto a tali contatti, in un mondo sempre più globale e interconnesso, un ruolo di spicco è ormai assolto dai viaggi di interscambio attuati da College o università estere e italiane100. 4. Modelli d’integrazione a confronto: le politiche multiculturali canadesi A questo punto conviene ricordare che ne va dell’immigrazione e dell’integrazione (degli immigrati), di tanti altri fenomeni sociali e soprattutto di quegli stati mentali in cui si inizia a “volere ciò che non si può volere”, secondo una bella formula di Jon Ester. Sarebbe come voler dimenticare, o voler essere spontanei, o voler dormire. Basta voler dimenticare per non poterlo fare. Basta voler essere spontanei per non sembrarlo e per dare l’impressione che si stia cercando di esserlo. Anche l’integrazione appartiene a questo ordine di cose: per inseguire un’integrazione che per l’esattezza non dipende oggettivamente dalla volontà dei soggetti, si rischia di far fallire tutto. Come per tutti gli altri stati, l’integrazione che inseguiamo ha la caratteristica di potersi realizzare solo come effetto secondario di azioni intraprese con altri scopi. Anche se non si considera l’integrazione come una semplice forma di promozione sociale, essa sta alla fine di azioni e di sforzi che non hanno bisogno di porsi l’integrazione come obiettivo. (Sayad, 2002, p. 297)
Le politiche perseguite dagli Stati di emigrazione in tema di flussi in uscita dialogano necessariamente con le politiche migratorie dei paesi d’accoglienza (Blunt, 2007). Occorre convogliare l’attenzione sulle politiche migratorie focalizzandosi non solo sulle norme e sui provvedimenti giuridici volta per volta approvati, ma sulle teorie alla base degli atti stessi, ovvero sulle idee che nei vari momenti storici sono emerse definendo le legislature dei vari Stati e con esse la reale possibilità di movimento e/o di integrazione dei migranti italiani (e non solo). Lo stesso sistema di riferimento identitario del singolo può essere fortemente influenzato dal sistema valoriale del paese ospitante; ed è in quest’ottica che tale aspetto non può esulare dalla presente trattazione, che vede nello studio dei processi identitari la sua ragion d’essere (Smolicz, 1980).
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Tra i progetti finalizzati all’interscambio culturale con i giovani d’origine italiana si ricorda il “Programma ponte” avviato con gli Stati Uniti grazie alla creazione nel 1997 dell’Association of Italian American Educators (AIAE). Tra le attività svolte vi è inoltre il corso estivo di istituzioni e cultura italiana contemporanea che si svolge ogni anno per giovani e qualificati esponenti della comunità italiana d’America (Troiani, 2010). Cfr. Conway e Potter, 2009.
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A scala internazionale quando si discute di modelli di integrazione dei migranti si comparano sovente le politiche migratorie adottate da due paesi che, seppur confinanti, sono divenuti emblema di modi antitetici di agire, gli Stati Uniti e il Canada. In uno spot molto popolare in Canada101 tra le caratteristiche distintive dell’identità del paese che vengono elencate in antitesi a quelle statunitensi, viene enfatizzato il diverso approccio nei confronti delle differenze culturali interne ai due grandi paesi d’oltreoceano. Il protagonista canadese dello sketch pubblicitario afferma a riguardo: “I believe in […] diversity not assimilation”. Si è soliti affermare infatti che i due paesi siano stati storicamente la culla di due modelli d’integrazione definiti l’uno, statunitense, del melting pot e l’altro, canadese, del salad bowl. La teoria del melting pot, ovvero dell’amalgamazione culturale, deve il suo nome al titolo di una commedia di Israel Zangwill del 1909. Il termine rimanderebbe alla composizione demografica di un paese in cui le differenti culture perdono le loro caratteristiche per dare forma, omogenea, a un’unica popolazione americana. Tale impostazione, diffusasi a cavallo tra il XIX e XX secolo, faceva seguito negli U.S.A. al modello Ottocentesco dell’Anglo-conformity, ovvero la fiducia di un facile inserimento dei migranti nella società d’accoglienza. Tale integrazione veniva letta come frutto di un processo spontaneo che avrebbe condotto gli stranieri a una condivisione del paradigma culturale anglosassone, quel E pluribus unum che per lungo tempo è stato il motto statunitense (Cohen, 2005). Nella successiva età progressista si svilupparono nuove teorie antropologiche; all’interno del nuovo spirito venne introdotto il concetto di pluralismo culturale, adottato per la prima volta in un articolo di Horace Kallen nel 1914, proprio in polemica con le teorie assimilazioniste imperanti e a favore del mantenimento e della tutela della cultura dei differenti gruppi immigrati. Una tale visione, seppur nata nel clima dei primi decenni del Novecento, dovette attendere la fine degli anni Sessanta per trovare maggiore visibilità e soprattutto un numero crescente di consensi. Ed è in questo clima che prende corpo la metafora del salad bowl, ovvero dell’insalatiera in cui trovano spazio i vari sapori che, pur rimanendo distinguibili, riescono a “insaporirsi a vicenda”. Come un’insalata, così la società che forgia una nazione trova la propria ricchezza e la stessa unità dalla mescolanza culturale plurisfaccettata in cui le culture si avvicinano, ma non si fondono. Il modello del salad bowl, dunque, pur avendo trovato nel Canada uno dei paesi più attenti e pronti a recepire e tutelare le diversità, è figlio di un’epoca, la fine degli anni Sessanta, che ha inaugurato in varie parti del mondo, Stati Uniti compresi, un nuovo interesse per le storie e le culture dei diversi migranti, tanto da essere nota – lo abbiamo già ricordato – come l’epoca dei Revival etnici (Audenino e Tirabassi, 2008). In realtà quindi, piuttosto che vedere i due modelli come dominanti ancora oggi in due contesti territoriali differenti, sarebbe più corretto storicizzarne l’uso stesso. Diversi paesi nelle differenti parti del mondo hanno adottato, spesso alternandole in base alla bandiera politica del momento, le due visioni. Non è semplice prendere posizione a favore dell’una o dell’altra, come si potrebbe semplicisticamente dedurre dall’affermazione che una teoria è “contraria all’altrui cultura” e l’altra è “rispettosa delle differenze”. Lo stesso multiculturalismo ha svelato spesso la sua doppia natu-
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Il sito internet in cui è possibile prenderne visione è http://it.youtube.com/watch?v=BRI-A3vakVg.
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ra, inevitabile dal momento che non esistono scelte puramente giuste o sbagliate, ma esistono strumenti più o meno validi e soprattutto usi e fini più o meno efficaci di medesimi strumenti. Va ricordato a tal proposito che, in opposizione a quella che per molti sembrava una nuova moda (il multiculturalismo appunto), nel 1965 uscì proprio in Canada un testo di John Porter dal titolo emblematico The vertical Mosaic che, come si evince dal titolo stesso, associa la distribuzione in classi all’appartenenza culturale. Per l’autore, l’unico modo per ovviare a questo inconveniente è l’assimilazione, in modo da evitare che le affiliazioni comunitarie, figlie artificiali della divisione in classe, perpetuino lo status quo. Alle numerose critiche formulate al multiculturalismo102 cercò di rispondere l’opera del filosofo Will Kymlicka, Finding Our Way: Rethinking Ethnocultural Relations in Canada (1998) che, dati alla mano, mirò ad affermare che le politiche canadesi non solo non hanno eretto barriere di classe e divisioni tra i differenti gruppi, ma hanno invece agito contro i razzismi imperanti in un passato non troppo lontano. La questione è aperta e controversa (Cesareo, 2006); certamente uno Stato che aspira, nei principi fondamentali, al rispetto della e nella differenza si pone, almeno sulla carta, come più liberale e rispettoso dei diritti civili e umani e dovrebbe essere visto come modello esemplare delle stesse politiche migratorie. È però doveroso ricordare ancora una volta che, quando si analizza o si studia “la cultura”, tale analisi non può essere svincolata dalla complessità socio-economica del contesto studiato. È necessario ribadire che differenti prospettive e differenti usi di medesimi modelli in contesti altrettanto vari possono mutare gli intenti e soprattutto l’efficacia delle politiche realmente perseguite. Il Canada, emblema per molti della società multiculturale per eccellenza, nell’arco della sua storia ha adottato politiche migratorie che hanno scandito, in un climax crescente di attenzione verso la problematica, la tutela della diversità e la lotta contro il razzismo. Il secondo conflitto mondiale, si concluse inaugurando quello che sarebbe stato l’iter delle successive politiche migratorie di una società sempre più multiculturale103.
Oltre a Porter (1965), si veda Bissoondath (1994); o le critiche alle conseguenze di alcuni aspetti della politica multiculturale, contenute in opere quali quelle di Gwyn (1995) e di Granatstein (1998). 103 L’espressione “società multiculturale” può assumere, in rapporto al contesto nel quale è utilizzata, quattro differenti accezioni. Da un punto di vista descrittivo, la multiculturalità è un fatto sociologico; in senso prescrittivo, l’espressione rinvia a un’ideologia; da una prospettiva politica, rimanda alle normative attuate da uno Stato; in ultimo, la multiculturalità può essere intesa come un set di dinamiche di intergruppo e dunque in questo caso il termine si lega a dei processi culturali in atto. Come dato di fatto, il multiculturalismo canadese descrive la presenza di differenti culture all’interno della società che definiscono se stesse (e/o vengono definite) a partire da una unicità che è fonte di una forte identificazione di gruppo. Dal punto di vista ideologico, il multiculturalismo si struttura a partire da idee relativamente coerenti che traggono la loro linfa vitale dal celebrare la diversità culturale interna come uno degli emblemi stessi di un’identità canadese complessiva. Le politiche che si possono ricondurre all’aggettivo sono legate invece alle iniziative e alle norme formulate ai vari livelli governativi (federale, provinciale e municipale) per gestire i diversi tratti culturali. Infine, il multiculturalismo è un processo attraverso cui minoranze immigrate cercano il supporto delle autorità centrali col fine di ottenere qualche beneficio economico o sociale. 102
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Although there are two official languages, there is no official culture, nor does any ethnic group takes precedence over any other104.
Con queste parole il Primo ministro canadese Pierre Elliott Trudeau inaugurò nel 1971 la politica ufficiale sul multiculturalismo. Tale atto politico sanciva in maniera chiara l’importanza del mantenimento dell’eredità culturale di tutte le nazionalità presenti nello Stato federale e la parità di diritti tra tutti i membri dei gruppi minoritari. Gli studiosi che si occupano del modello multiculturale canadese individuano tre fasi all’interno delle politiche adottate dal paese federale attraverso cui si è forgiata la politica multiculturale: il momento demografico, quello simbolico e, da ultimo, il momento strutturale. Il “momento demografico” (Kobayashi, 1992, p. 212) o “incipiente”105 portò con sé i germogli e le spinte di quella che si sarebbe profilata come la svolta multiculturale del periodo successivo. Durante questo periodo, che si colloca tra il secondo dopoguerra e il 1971, la situazione di varietà culturale – aumentata fortemente a partire dai forti flussi migratori degli anni ’50 – non era affiancata a nessuna politica ufficiale coerente e l’immigrazione rimase fermamente legata, come in ambito statunitense, alla nozione di assimilazione. Tale migrazione, dal carattere spiccatamente urbano, ebbe comunque tra le conseguenze più visibili la forte concentrazione spaziale di alcuni gruppi di nostri connazionali nelle grandi aree metropolitane (si veda il caso di Toronto), a cui farà seguito l’istituirsi in maniera più o meno ufficiosa di organizzazioni su base nazionale. Questo periodo, inoltre, coincide con lo svilupparsi in ambito internazionale di quella che è stata definita la “Rivoluzione mondiale” dei diritti umani (tab. 4). I principi legati ai diritti fondamentali dell’uomo, che diverranno poi norme, presero corpo proprio a partire dagli anni ’70; anni che, come accennato, possono essere letti a buon diritto come cruciali per l’elaborazione di una crescente attenzione alle diversità culturali. 1948 1948 1958 1965 1966 1966
POLITICHE INTERNAZIONALI Convenzione internazionale sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio Dichiarazione universale dei diritti umani Convenzione internazionale riguardante la discriminazione nel rispetto dell’impiego e dell’occupazione Convenzione internazionale per l’eliminazione di tutte le forme della discriminazione razziale (ratificata dal Canada nel 1969) Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ratificata dal Canada nel 1976) Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (ratificata dal Canada nel 1976)
Tab. 4. Politiche internazionali sui diritti fondamentali dell’uomo106.
È possibile leggere il discorso completo, da cui è tratto il brano citato, sul sito: http://www.canadahistory.com/sections/documents/Primeministers/trudeau/docs-onmulticulturalism.htm. Il termine incipiente è tratto dal sito: http://www.canadianheritage.gc.ca/progs/multi/policy/ framework_e.cfm. 106 Fonte: http://www.canadianheritage.gc.ca/progs/multi/policy/framework_e.cfm (traduzione dell’autrice). 104 105
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Oltre che dalle richieste sempre più coerenti delle minoranze, forti spinte al cambiamento provenivano anche dalle popolazioni aborigene e da quell’area, il Quebec, che ha dato prova più volte nella storia dello Stato federale del suo nazionalismo e di quanto questo potesse essere destabilizzante per la sorte unitaria del paese. La necessità che la diversità venisse presa in considerazione nelle sue varie articolazioni portò per la prima volta all’adozione di un’idea di “canadesità” (Canadian-ness) basata proprio sulla molteplicità culturale. È dunque in questa congiuntura che in maniera crescente si sviluppò un fortissimo senso identitario canadese, che trovava nella figura della varietà culturale e nella sua esaltazione una delle sue caratteristiche fondanti: caratteristica progressista che si stagliava in palese antitesi con lo stereotipo di una società statunitense non rispettosa, col suo modello del melting pot, delle diversità culturali. Nel 1963, come risultato della Commissione voluta dal governo Pearson su “Bilinguismo e biculturalismo”, si decretò che la società canadese era basata su due lingue e due culture, quella inglese e quella francese. La commissione produsse anche un testo, noto come Book IV, in cui si dette una grande attenzione agli “altri gruppi etnici” presenti nel vasto territorio federale. Il rapporto del gruppo di studio ravvisò che, a fronte del declino numerico della popolazione di origini britanniche, la loro dominanza politica ed economica era ancora forte, soprattutto all’interno delle aree dei servizi militari e civili controllate dal Governo, dove i canadesi britannici ottenevano stipendi molto più alti. La commissione, preso atto dei dati emersi, annunciò pubblicamente lo stato di subordinazione economica e sociale dei gruppi minoritari e la conseguente necessità di un dialogo sistematico tra il Governo e i gruppi stessi. Tale impostazione dette il via alla partecipazione sistematica delle minoranze immigrate nell’arena politica canadese. A partire dal 1967, il governo federale condusse inoltre una politica migratoria race-blind (ibidem, p. 212), ovvero non curante delle differenze razziali. Potevano entrare dunque nel paese coloro che possedevano determinati requisiti individuali, che venivano valutati sulla base di nove criteri, tra cui appunto non figurava la provenienza geografica107. Durante la seconda fase (1971-1988), definita “momento simbolico” (ibidem), lo Stato promosse ufficialmente il multiculturalismo. La politica annunciata nel 1971 stabiliva infatti quattro propositi principali. Prima di tutto, il Governo si premurava, risorse permettendo, di assistere tutti i gruppi culturali canadesi che avessero dimostrato il desiderio di impegnarsi dando il loro contributo alla crescita del Canada e questo valeva sia per i gruppi piccoli e deboli così come per i gruppi forti e altamente organizzati. Lo Stato si poneva inoltre l’obiettivo primario di assistere i membri di quei gruppi che mostravano difficoltà, a causa di barriere culturali, a inserirsi appieno nella società canadese. A tale scopo vennero promossi incontri e interscambi tra tutti i gruppi culturali canadesi nell’interesse dell’unità nazionale e vennero assegnati numerosi finanziamenti per agevolare l’acquisizione, da parte degli immigrati, di almeno una delle due lingue ufficiali del Canada. Il percorso di integrazione linguistica si profilava dunque come indispensabile passo per una piena partecipazione alla vita
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Questo sistema abolì, almeno inizialmente, le barriere poste in passato all’immigrazione da alcuni paesi, e autorizzò il Canada a rispondere positivamente a movimenti improvvisi di persone provenienti da nuovi paesi d’emigrazione, come l’Uganda a partire dal 1971.
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sociale dello Stato. Venne inoltre creato un Ministero apposito per il multiculturalismo il cui budget includeva sussidi per le comunità, un programma “Identità Canadesi” (Canadian Identities) per supportare le arti, i festival folk e progetti a favore della storia dei migranti (inclusi una serie di volumi sulle principali comunità straniere presenti in Canada) e un Concilio canadese consultivo sul multiculturalismo. La lettura di tale politica data da molti studiosi è stata fortemente critica. Si affermò infatti da più parti che, nonostante i buoni intenti dichiarati, si continuasse a perpetrare in questa fase una politica del “noi e loro” in cui gli immigrati permanevano relegati a cittadini di serie B. Le voci critiche sottolinearono inoltre il proliferare di associazioni su base nazionale piuttosto che una politica integrata e fattiva. Nel 1980 venne fondato il Canadian Ethnocultural Council (CEC) come organizzazione di sintesi di 38 differenti organizzazioni internazionali e oltre 2.000 associazioni locali e provinciali; esso è, a tutt’oggi, uno degli effetti più importanti della politica multiculturale, ma allo stesso tempo l’oggetto delle più aspre critiche politiche. Questa organizzazione è infatti considerata uno dei gruppi di forza emersi nella negoziazione dell’identità canadese durante gli anni ’80. La CEC, nonostante le critiche di cui è stata oggetto, ha svolto un ruolo importantissimo nel produrre uno slittamento da un tipo di politica legato alla conservazione del patrimonio dei vari gruppi a una diretta all’eguaglianza dei diritti dei cittadini in collaborazione con un vasto panorama di organizzazioni per i diritti umani. L’ultima fase, il “momento strutturale”, iniziò con il 1988, anno in cui venne adottato dal Parlamento il Multiculturalism Act. Tale legge rese il Canada il primo paese al mondo ad adottare una norma giuridica riguardante il multiculturalismo. La legge disciplina, a livello federale, la tutela della cultura e della lingua, la lotta contro le discriminazioni e la promozione del dialogo interculturale108. Alla ricerca di un equilibrio tra peculiarità culturali ed equità dei diritti, la norma sancisce il diritto fondamentale all’identificazione con quella che si ritiene la propria eredità culturale, salvaguardando allo stesso tempo la piena ed equa partecipazione alla vita sociale canadese. In effect, the Act sought to preserve, enhance and incorporate cultural differences into the functioning of Canadian society, while ensuring equal access and full participation for all Canadians in the social, political, and economic spheres. It also focused on the eradication of racism and removal of discriminatory barriers as being incompatible with Canada’s commitment to human rights (ibidem, p. 218).
La nuova politica garantisce dunque più l’equità dei diritti che la conservazione dell’eredità culturale; veicolando dunque un multiculturalismo che, rispetto al passato, ha come obiettivo sempre più chiaro l’integrazione sociale109.
La British Columbia adottò il Multiculturalism Act nel 1993, ovvero cinque anni dopo la sua proclamazione a scala federale. Ogni anno, da tale data, viene stilata da ogni ministro provinciale una relazione in cui si dichiarano gli sforzi compiuti nella promozione del multiculturalismo; il Ministero responsabile del multiculturalismo a sua volta appronta un resoconto generale il Report on Multiculturalism: Government of British Columbia. Tale Ministero è informato dal Multicultural Advisory Council, organismo composto da persone provenienti dalle varie aree della British Columbia, che rende noti al Ministero gli obiettivi anti-razzisti e multiculturali da perseguire. 109 “Come la nozione di cultura, a cui all’inizio era collegata, la nozione di integrazione è essenzialmente polisemica: in particolare ogni senso che essa acquista da un contesto nuovo non cancella 108
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Emigrare: flussi italiani e politiche canadesi
POLITICHE CANADESI 1947
Approvazione del primo Canadian Citizenship Act
1960
Approvazione del Canadian Bill of Rights
1963
Istituzione della Commissione sul bilinguismo e biculturalismo
1969
Book IV del report della Commissione sul bilinguismo e biculturalismo che enfatizza la natura bilingue e multiculturale del Canada
1969
Entrata in vigore dell’Official Languages Act
1971
Entrata in vigore della politica multiculturale
1977
Approvazione del Canadian Human Rights Act
1982
Adozione del Canadian Charter of Rights and Freedoms
1984
Pubblicazione del Report della commissione parlamentare speciale, Equality Now. Creazione di un Istituto nazionale di ricerca sul multiculturalismo e le relazioni interetniche
1986
Approvazione parlamentare dell’ Employment Equity Act
1988
Approvazione del Canadian Multiculturalism Act
1996
Il Governo costituisce la fondazione Canadian Race Relations sulle relazioni interetniche
1997
Rinnovamento del programma multiculturale precedentemente annunciato
Tab. 5. Atti che hanno scandito le tappe della politica multiculturale canadese110.
Nel novembre del 2002, il Governo stabilì il 27 giugno come data in cui, ogni anno, si sarebbe festeggiato il giorno del multiculturalismo canadese. Nel febbraio
del tutto il senso precedente. Si produce così una specie di sedimentazione di senso, uno strato semantico che recupera una parte di significato depositato negli strati semantici che lo hanno preceduto. La parola integrazione, come la intendiamo oggi, ha ereditato i sensi di altre nozioni concomitanti, come per esempio quelli di adattamento e di assimilazione. […] Dovendo dare un nome allo stesso processo in contesti sociali e anche mentali diversi, sembra che ogni epoca abbia avuto bisogno di darsi una propria tassonomia” (Sayad, 2002, p. 289). Il concetto di integrazione si staglia agli antipodi rispetto a quello di assimilazione, in quanto quest’ultimo “[…] costituisce il punto di vista dominante (o dei dominanti) in base a cui definiamo ciò che si verifica e ciò che è opportuno si verifichi presso gli altri, gli adattabili e gli “adattati”, gli assimilabili e gli “assimilati” (qui il punto di vista descrittivo è il punto di vista prescrittivo). Il punto di vista dell’osservatore esterno, un osservatore sicuro di sé e della propria visione del mondo, conferisce un ruolo totalmente passivo agli individui di cui constata l’adattamento o il non-adattamento, l’assimilazione o la non-assimilazione. […] E non intendiamo dire che nel momento stesso in cui assimila gli altri, essa sia assimilata da costoro proprio per poterli assimilare. Ci si ricorda di questi altri solo per criticarli duramente quando il processo di assimilazione fallisce. Allora la colpa ricade su di essi, mentre se l’assimilazione riesce il merito e il credito vanno alla società che assimila” (ibidem, pp. 291-292). 110 Fonte: http://www.canadianheritage.gc.ca/progs/multi/policy/framework_e.cfm (traduzione dell’autrice).
65
territori e lingue in diaspora. italiani a vancouver
del 2005, inoltre, vennero stanziati 56 milioni di dollari per un programma contro la xenofobia da svilupparsi nell’arco di cinque anni. Uno dei risultati più significativi è stato l’approvazione del piano d’azione A Canada for All: Canada’s Action Plan Against Racism, che condivide, come i provvedimenti passati, azioni volte alla coesione sociale, ai diritti umani, alla lotta contro i razzismi vecchi e nuovi. Tra l’agosto e il novembre del 2005, come parte fondamentale di questo programma, vennero annunciati accordi con la comunità ucraina, italiana e cinese. Sempre durante lo stesso anno, il Governo adottò la convenzione UNESCO sulla salvaguardia e promozione delle espressioni delle peculiarità culturali (Convention on the Protection and Promotion of the Diversity of Cultural Expressions). La convenzione ribadisce il diritto dei singoli paesi a incoraggiare al loro interno le differenti espressioni culturali. 5. Migrare in Canada Partendo dai dati statistici, è facile notare come il Canada abbia aumentato progressivamente la sua forza attrattiva nei confronti dei lavoratori italiani fino agli anni ’70 del Novecento, scrivendo capitoli sempre più importanti all’interno della storia migratoria del nostro Paese (Ramirez, 1989). Lo Stato federale divenne meta di immigrazione per gli italiani in maniera più sistematica a partire dal 1895. Durante tutto il XIX secolo infatti gli arrivi furono non solo di entità numericamente irrisoria, ma costituiti prevalentemente da singoli individui impegnati in attività commerciali, e dunque in cerca di nuove opportunità di mercato, o da artisti itineranti (Perin e Sturino, 1989). La fase a cavallo tra gli ultimi anni del XIX secolo e la prima decade del successivo fu caratterizzata da una presenza limitata di italiani nel paese, che contrastava apertamente con i tassi ben più elevati raggiunti dall’immigrazione italiana nei vicini Stati Uniti; paese in cui, proprio in tale periodo, gli italiani superarono i due milioni (ibidem; Harney, 1978). Inoltre la presenza italiana in Canada, in questa congiuntura storica, era principalmente legata a lavori stagionali e vedeva una forte concentrazione degli immigrati nelle aree minerarie di Sydney, Nova Scotia, British Columbia così come lungo la via tracciata dalla ferrovia transcontinentale, alla cui costruzione erano impiegati numerosi lavoratori provenienti principalmente dall’Abruzzo, dal Friuli e dalla Basilicata. Il Commissariato dell’Emigrazione italiano in questa fase sottolineò più volte la difficile e dura situazione vissuta dai lavoratori stagionali in Canada. Nel 1909, il capitano Dante Viola fu inviato come osservatore delle condizioni dei minatori italiani della cittadina di Cobalt, in Ontario. Il report dell’inviato, che faceva seguito a una serie di articoli del Corriere della sera sulla situazione lavorativa degli emigrati in Canada, non lasciò dubbi sulla difficile condizione di vita in cui versavano gli italiani; lavori più duri, paghe più basse, mansioni più pericolose rispetto ai cittadini canadesi, alloggi fatiscenti111. Non è un caso dunque che tale fase abbia segnato la nascita anche in Canada, ovunque ci fosse una nutrita presenza di italiani, delle prime società di mutuo soc-
111
66
Solitamente nei paesi d’arrivo venivano riservate agli italiani emigrati i lavori più duri, quelli rifiutati dall’offerta di lavoro locale perché erano il più delle volte lavori che, per ricordare il termine inglese che li identificava, ovvero “3- D”, risultavano dirty, dengerous e demanding (sporchi, rischiosi e faticosi) (Gozzini, 2005).
Emigrare: flussi italiani e politiche canadesi
corso. A fine Ottocento nacque a Montreal la Fratellanza Italiana e a Toronto la Società Umberto I col fine di proteggere i propri membri dalle gravi difficoltà in cui versavano. Col tempo, e soprattutto con l’avvio da parte del Canada di politiche di welfare diffuse a tutti i cittadini, immigrati compresi, tali società di soccorso assunsero sempre più importanza sociale e politica. Queste società, inoltre, erano trasversali alle varie appartenenze locali e dunque a quel campanilismo che è sempre stato letto come caratteristica fortemente presente soprattutto all’interno della prima e della seconda ondata migratoria (cfr. cap. I). Dunque l’immigrazione in sé e tali società in particolare, non si ponevano solamente come momenti di integrazione con la nuova società d’accoglienza, ma anche come focolai di italianizzazione rispetto alle differenti provenienze locali degli emigrati (Harney, 1978). La creazione di un patriottismo a scala nazionale è da ravvisarsi anche nell’aumento numerico di associazioni come le varie Sons of Italy112, e le Italo-Canadians Societies. Il primo conflitto mondiale creò nuovi vincoli di solidarietà tra Italia e Canada, schierati dal 1915 sullo stesso fronte di guerra. Tale rapporto sembrò subire un arresto improvviso con gli avvenimenti che seguirono la fine del conflitto. La crisi economica a partire dalla fine degli anni ’20, le conseguenti leggi restrittive adottate in molti paesi, tra cui il Canada e la stessa Italia113, le battaglie interne ai vari gruppi italiani tra fascisti e anti-fascisti ebbero come effetto una drastica riduzione degli arrivi che, se nel 1923 si attestavano a 6.000 unità l’anno, nel 1929 scesero a 2.000. Dopo il 1929 vennero ammessi in Canada solamente agricoltori, che trovarono impiego soprattutto nelle aree del paese in cui un clima più mite permetteva la coltura di frutta e ortaggi, come la penisola del Niagara e la valle dell’Okanagan nella British Columbia114. Con l’avvento della politica imperialista fascista, soprattutto dopo l’aggressione dell’Etiopia (1935), i rapporti tra i due paesi si fecero sempre più tesi e, di conseguenza, divenne più difficile per gli immigrati conciliare una doppia appartenenza, dal momento che l’opinione pubblica canadese iniziò ad assumere atteggiamenti nettamente avversi all’Italia, alla sua politica e spesso, per estensione, anche agli italiani in quanto tali115. Rispetto ad altri paesi, come gli Stati Uniti, il Canada è divenuta dunque terra di arrivo degli italiani in tempi più recenti; solamente 60.000 persone si diressero nello Stato federale durante il primo grande esodo italiano (1900-1913) (Farnocchia, 1981). Si calcola che allo scoppio della grande guerra gli italiani stanziati fossero 45.000 contro gli 11.000 dell’inizio del secolo, distribuiti in Nova Scotia, in Ontario, nel Quebec e, in misura ridotta, in British Columbia. Dal dopoguerra l’emigrazione italiana assunse inoltre in terra canadese una nuova veste: a partire non furono infatti solamente, come in una prima fase, singoli lavoratori (prevalentemente uomini), ma, sempre più,
La prima Sons of Italy venne costruita nel 1915 a Sault S. Marie. A partire dagli anni Venti si aprì una congiuntura storica fortemente avversa alle migrazioni, in cui politiche immigratorie dei principali paesi d’arrivo degli italiani e politiche dello Stato sembravano limitare da tutti i punti di vista la mobilità italiana. 114 Per una trattazione del ruolo degli italiani all’interno delle aziende agricole canadesi, si rimanda all’opera di Sturino, 1989. 115 Cfr. Collotti, 2000. La seconda guerra mondiale e il diverso fronte di lotta dei due paesi sembrò comunque accentuare (come accadde anche nel caso statunitense) la disponibilità di gran parte della comunità italiana a lavorare sul fronte canadese. Furono dunque numerosi i volontari italiani e italo-canadesi, impiegati come soldati o nelle fabbriche belliche. 112 113
67
territori e lingue in diaspora. italiani a vancouver
interi nuclei familiari. I nuovi immigrati giunsero soprattutto nelle aree urbane; nei centri maggiori come Toronto e Montreal crearono delle vere e proprie zone interne alla città, note come Little Italy, che andarono a sommarsi e a interagire con i nuclei comunitari che si erano venuti a creare durante la prima ondata migratoria. A partire dal 1951 il flusso migratorio verso il Canada aumentò a causa sia della difficile situazione in cui versava il nostro Paese, sia della politica migratoria attuata dal governo canadese, che fino al 1967 favorì l’ingresso degli europei a scapito degli abitanti di paesi economicamente meno sviluppati116. La situazione socio-economica dell’Italia devastata dal conflitto si sommò dunque alla necessità canadese di manodopera nel delineare, con un’intensità mai sperimentata in precedenza da questo paese117, nuove rotte che condussero numerosi italiani nelle varie province canadesi. Dal 1961 la popolazione italiana residente in Canada è progressivamente aumentata; tale trend è legato per il 62,5% all’incremento naturale e per il 37,5% al saldo migratorio. Anche in Canada, così come capita sovente durante i processi di mobilità, possono essere individuate delle vere e proprie catene migratorie che legano determinate città o paesi italiani con aree poste dall’altro lato dell’Atlantico. Tali catene sono state create a partire dai legami di parentela e di amicizia che hanno spinto molti migranti a partire in gruppo e/o a raggiungere persone conosciute che già avevano affrontato l’esperienza migratoria (Reyneri, 1979). Le regioni italiane che hanno maggiormente contribuito alla presenza italiana nello Stato nord-americano sono state quelle del Sud (a eccezione della Sardegna); il Lazio e le Marche al centro e, al Nord, FriuliVenezia Giulia e Veneto. Dall’inizio del secolo scorso fino al 1971 gli italiani giunti nel paese furono 1.870.000, anche se da un punto di vista statistico (censimenti) il numero degli italiani nel paese aumentò, fino a tale data, solamente di 140.000 unità nonostante l’alto tasso di natalità interno alla comunità. La spiegazione data da Kosinski (1978) chiama in causa da un lato il considerevole flusso di ritorno e, dall’altro, il fatto che gran parte degli italo-canadesi di seconda e terza generazione tendevano a non dichiarare le proprie origini118. Gli italiani in Canada in questa fase trovano occupazione principalmente nel settore ferroviario, nelle miniere, nell’industria e nel commercio, molto più raramente in agricoltura, settore lavorativo in cui era occupata la maggior parte dei migranti in Italia prima della partenza. Il profilo dell’emigrato, così come durante il primo flusso di fine secolo XIX, è caratterizzato da un basso status socio-economico che si ripercuote inevitabilmente anche sulla tipologia del lavoro. In questa fase “There is little doubt that Canada’s Italian immigrants came from very low-level education backgrounds” (Jansen, 1981, p. 25).
A partire dal 1950, gli emigrati italiani che partirono per il Canada superarono per numero annuo di partenze quelli diretti negli Stati Uniti. È del 1966 la guida Il lavoratore italiano in Canada che forniva tutte le notizie di base sul paese (caratteristiche socio-culturali della popolazione) e soprattutto sul mercato economico del lavoro e sulle leggi migratorie. 117 Stime ufficiali hanno calcolato che se nel 1951 gli italiani in Canada e i loro discendenti erano 150.000, dieci anni dopo, nel 1961, si arrivò a toccare quota 450.000 (Harney, 1978). 118 Si ricordi che l’Italia ha reso legalmente riconosciuta la doppia cittadinanza solo a partire dal 1992 (legge n. 124). 116
68
Emigrare: flussi italiani e politiche canadesi
L’arresto dell’impennata degli arrivi, collocabile alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, può essere letto come risultato di varie concause. Prima di tutto, la politica race-blind adottata dal governo federale nel 1967 colpì fortemente gli italiani, dato il basso profilo socio-culturale dei migranti e visto che tra le caratteristiche richieste vi era un livello di istruzione medio, la conoscenza dell’inglese o del francese e specifiche competenze professionali (ibidem). Così, dopo i picchi di arrivi raggiunti nella metà degli anni ’60, il flusso dei migranti italiani in terra canadese si è ridotto a 3.000-4.000 ingressi annui all’inizio degli anni ’70. Oltre che dalle politiche canadesi il calo viene indotto dalla nuova situazione economica italiana, che fornisce sempre meno motivi di spinta all’emigrazione. Conseguenza congiunta della nuova politica canadese e della situazione socio-economica italiana è inoltre l’aumento, sempre a partire dal 1969, dei tassi di rientro dal Canada verso il nostro Paese. Durante i vent’anni di forti flussi, e nonostante l’alta percentuale dei ritorni registrata a partire dalla fine degli anni ’60, la presenza degli italiani è comunque un dato assodato all’interno della società canadese. Da una sommaria analisi dei dati censuari canadesi, si potrà notare come gli italiani nel 1971 fossero il secondo gruppo per entità numerica dopo i tedeschi e, sul fronte del mantenimento delle lingue, divengono nel 1976 il terzo gruppo linguistico per numero di parlanti dopo inglese e francese (Jansen, 1987). Questo indice varia comunque fortemente in base alle province del grande Stato federale. Pur essendo inferiore il numero di parlanti italiano rispetto a coloro che hanno origini italiane, in questo periodo si nota rispetto ad altri gruppi una maggiore resistenza all’abbandono linguistico. Immigrazione IN Canada Province Newfoundland Prince Edward Island
n. presenze
%
Immigrazione italiana n. presenze
% sul totale dei migranti
% sul totale dei migranti italiani
13.600
0,4
0
0
0
3.200
0,1
0
0
0
Nova Scotia
37.900
1,2
1.100
2,9
0,3
New Brunswich
25.100
0,8
600
2,3
0,2
Quebec
606.500
19,1
89.100
14,7
25,1
Ontario
1.686.100
53,2
228.300
13,5
64,2
Manitoba Saskatchewan
117.400
3,7
6.300
5,4
1,8
46.700
1,5
1.300
2,6
0,4
Alberta
216.100
6,8
10.800
5,0
3,0
British Columbia
414.000
13,1
17.600
4,3
5,0
3.800
0,1
200
4,8
0
3.172.500
100
355.400
11,2
100
Territori Totale
Tab. 6. Percentuale della presenza degli italiani rispetto al resto dell’immigrazione nelle varie province canadesi (Fonte: Kosinski, 1978).
69
territori e lingue in diaspora. italiani a vancouver
Gli italiani, anche rispetto agli altri gruppi immigrati in Canada sembrano aver preferito in percentuale più alta l’Ontario e il Quebec, rispetto, per esempio, alla lontana British Columbia (tab. 6). Alla fine degli anni ’70, così come agli albori degli ’80, dunque, le presenze italiane si concentravano in Ontario e in Quebec, presentando inoltre, a un’analisi più dettagliata, una forte preferenza per le aree urbane: negli anni ’80 circa il 95% degli italiani viveva nei centri urbani. Tale dato è interessante se si considera che la maggior parte delle persone partiva da contesti prevalentemente rurali o di piccoli centri, ma è facilmente comprensibile se si associa alla situazione del mercato del lavoro canadese che offriva maggiori opportunità lavorative in aree urbane come Toronto, Montreal, Vancouver. Fino agli anni ’70 gli italiani trovano impiego nelle aree metropolitane più che altro nell’industria edile, nella manifattura e nei servizi (in particolar modo nel commercio). Osservando gli ultimi dati censuari canadesi disponibili (2006) (tab. 7)119 noteremo che la situazione, da un punto di vista puramente distributivo, non sembra essere cambiata in maniera determinante rispetto a quella fotografata quasi trent’anni prima dalla Kosinski (tab. 6).
CANADESI CON ORIGINI ITALIANE (totale)
CANADESI CON ORIGINI TOTALMENTE ITALIANE
CANADESI CON ORIGINI “MISTE” (di cui una italiana)
Ontario
867.980
485.680
382.300
Quebec
299.660
173.490
126.170
British Columbia
143.155
45.680
97.475
Alberta
82.015
22.995
59.020
Tab. 7. Distribuzione dei canadesi con origini italiane nelle principali province dello Stato federale (Fonte: censimento canadese 2006).
Da alcuni anni si palesano forti discrepanze fra le fonti sulla presenza numerica degli italiani all’estero. Accanto alle due rilevazioni italiane disponibili (l’Anagrafe consolare e l’Anagrafe degli italiani residenti all’Estero-Aire) ha goduto recentemente di grande attenzione anche l’uso dei dati statistici dei singoli paesi di immigrazione italiana. A seconda dei criteri che si utilizzano per stimare le persone di origine italiana (se nati in Italia, con genitori italiani, parlanti italiano etc.), l’aggregato avrà dimensioni più o meno vaste (Strozza, 2009). I dati dei censimenti canadesi sono tratti dal sito ufficiale del centro statistico canadese: http:// www.statcan.gc.ca/start-debut-eng.html
119
70
Emigrare: flussi italiani e politiche canadesi
CANADESI CON ORIGINI ITALIANE (totale)
CANADESI CON ORIGINI TOTALMENTE ITALIANE
CANADESI CON ORIGINI “MISTE” (di cui una italiana)
Toronto
466.155
312.925
153.225
Montreal
260.350
161.910
98.435
Vancouver
76.345
29.035
47.310
Tab. 8. Distribuzione dei canadesi con origini italiane nei principali centri urbani canadesi (Fonte: censimento canadese 2006).
Se consideriamo che l’arrivo degli italiani si è ridotto drasticamente proprio a partire dalla fine degli anni ’70, non sarà difficile comprendere il perché di questa tendenza. Si possono compiere comunque interessanti raffronti che in questi ventotto anni disegnano alle volte assonanze, altre volte mutamenti in atto, soprattutto per quando riguarda non tanto la distribuzione meramente spaziale, quanto le origini italiane dei cittadini canadesi. A partire dai dati del censimento del 1981, è stato possibile per i canadesi rispondere con più opzioni alla domanda concernente l’origine personale. Tale possibilità ha diviso il campione, come si può osservare nelle tabelle (tabb. 7-8), in due gruppi: coloro che possiedono un’unica discendenza (single-origin) e coloro che hanno segnalato avi di differenti origini (multiple-origin)120. La presenza di persone con “origini miste” viene considerata un ottimo indicatore di integrazione sociale dei gruppi migranti (Jansen, 1997). L’aumento del numero totale di coloro che hanno origini italiane si deve principalmente all’incremento naturale della popolazione con origini italiane piuttosto che all’aumento del saldo migratorio che, tra il 1981 e il 1991, si era ormai attestato a circa 979 nuovi arrivi l’anno (Jansen, 1997, tab. 9). Tale considerazione è corroborata dall’analisi dei periodi di arrivo in Canada di coloro che indicano l’Italia come luogo di nascita: l’80% indica infatti, negli anni ’90, come periodo d’arrivo quello compreso tra il 1951 e il 1970 (ibidem).
1951-1961
1961-1971
1971-1981
1981-1991
25.081
19.076
4.082
979
Tab. 9. Arrivi annui di cittadini italiani in Canada (Fonte: Jansen, 1997).
120
“Single-origin simply means that ones ethnic ancestor are all from the same group, while multipleorigin, means that at least one ancestor is from that particular group” (Jansen, 1997, p. 1).
71
territori e lingue in diaspora. italiani a vancouver
Questo fenomeno è facilmente ravvisabile anche per il fatto che la maggior parte dell’incremento numerico delle comunità (per province e aree metropolitane) è da attribuirsi a coloro che presentano “origini miste”. Per quando concerne invece la distribuzione della popolazione con origini italiane si nota, rispetto ai dati del passato, una stessa polarizzazione areale. Così come nel 1981, la provincia che in assoluto vede una maggior presenza di italiani rimane, nel 2006, l’Ontario e, nello specifico, la città di Toronto, che risulta l’area urbana con la maggior concentrazione di italiani di tutto il Canada. È inoltre interessante notare come la maggior concentrazione di presenze italiane in Ontario, così come in Quebec, coincida, sia nel 1981121 che nel 2006, con una percentuale più alta di persone con la sola origine italiana rispetto a quanto invece capita in aree come la British Columbia o l’Alberta, dove a un minor numero di persone emigrate fa riscontro una più alta percentuale di persone con origini miste. È opportuno concludere con alcune note che rinviano alle caratteristiche dell’integrazione, ovvero a quel processo che, col tempo, permette sempre meno di identificare i migranti come un gruppo distinto dal totale della popolazione, soprattutto in termini socio-economici. Gli italiani che giunsero a partire dal secondo dopoguerra erano un gruppo distinto e facilmente riconoscibile a partire dalla loro religione cattolica, dalla loro lingua e dal basso livello educativo ( Jansen, 1997). Questi fattori giocarono naturalmente un ruolo centrale nel determinare le modalità d’ingresso di tali persone nella società canadese, che inizialmente si caratterizzò per il basso status lavorativo e i bassi salari dei lavoratori italiani. Nonostante la difficoltà sperimentata dalla prima generazione di immigrati nel migliorare il proprio status all’interno della gerarchia sociale122, già nel 1991 la situazione descritta da Jansen (1997) sembra mutata in maniera irreversibile palesando, accanto a un incremento dei tassi di istruzione della seconda generazione123, un miglioramento della situazione lavorativa e retributiva. Anche la conoscenza delle lingue ufficiali canadesi (inglese e/o francese) nel tempo ha conosciuto una forte diffusione eliminando – inevitabilmente spesso a scapito della lingua italiana e dei dialetti – le barriere che inizialmente si opponevano a una piena partecipazione alla vita canadese. Per quanto attiene la situazione lavorativa perdura in Canada lo stereotipo dell’italiano muratore; questo ricorda – lo si è visto – il largo impiego che molti italiani negli anni passati trovarono nel settore edile, ma sembra contrastare con l’attuale profilo lavorativo. Concludiamo con i dati che ci giungono sul fronte del mantenimento linguistico.
Nel 1981 L’Ontario e il Quebec raccoglievano rispettivamente il 65% e il 22% di persone di origine esclusivamente italiana di tutto il Canada (e, nell’ordine, il 59% e il 9% di origini miste); la British Columbia presentava rispettivamente il 7% e il 17%; l’Alberta il 2% e il 7%. 122 Si veda la descrizione fornita da Perin e Sturino (1989) in un’opera dal titolo emblematico: Arrangiarsi. The Italian Immigration Experience in Canada. 123 Ciò vale soprattutto tra coloro che dichiarano di avere origini italiane “multiple” (ovvero possiedono l’origine italiana per via materna o paterna). Se si considera inoltre, che anche i nuovi immigrati italiani, giunti a partire dagli anni ’80, possiedono un livello d’istruzione di base molto più elevato rispetto agli immigrati delle decadi precedenti, si coglie il miglioramento socio-economico della popolazione d’origine italiana in Canada. 121
72
Emigrare: flussi italiani e politiche canadesi
Ontario
Quebec
British Columbia
Alberta
282.750
124.820
27.020
13.095
Tab. 10. Italiano come lingua materna nelle principali province canadesi (Fonte: censimento canadese 2006).
Dal censimento del 2006 risultano avere come lingua madre l’italiano più di 450.000 persone; questo dato fa sì che tale lingua sia oggi la quarta lingua per numero di parlanti dopo inglese, francese e cinese124 (ovvero la seconda lingua non ufficiale per importanza). La distribuzione di coloro che hanno come lingua madre l’italiano corrisponde prevedibilmente alla localizzazione di coloro che presentano origini italiane; per esempio, vi è una forte concentrazione nelle aree urbane – in particolar modo nelle città di Toronto e Montreal – e forte sembra essere il rapporto tra conservazione linguistica e presenza di un cospicuo gruppo di persone che presentano unicamente origini italiane (tabb. 8, 9, 10 e 11). Sono dunque da associarsi la maggiore endogamia interna al gruppo di italiani della parte orientale del Canada (diretta conseguenza del numero maggiore di presenze; ibidem) e il mantenimento della lingua italiana. Toronto
Montreal
Vancouver
185.765
17.675
12.140
Tab. 11. Italiano come lingua materna nelle principali città canadesi (Fonte: censimento 2006).
A una maggiore presenza numerica di italiani fa riscontro dunque una più lenta dismissione delle lingue d’origine (nazionale e locali), il che motiva la più alta percentuale in termini assoluti, ma anche relativi (rapporto origini/conservazione linguistica) dei parlanti italiano nella zona est del Canada, nello specifico a Toronto e Montreal. Origini miste e usura linguistica rimandano a una dinamica naturale che ha tempi più veloci in un’area come il Canada occidentale, in cui gli italiani sono in minor numero e presentano un maggior tasso di “origini multiple”125. L’usura linguistica quindi può essere spiegata sia in termini di integrazione rispetto al nuovo contesto e alla sua lingua (inglese e/o francese), sia collegandola al forte calo che ha conosciuto l’immigrazione italiana in questo paese (Jansen, 1981).
Rispetto dunque ai dati del 1976, il cinese ha superato l’italiano come prima lingua non ufficiale parlata in territorio canadese. Questo dato è da riferirsi al calo dell’immigrazione italiana e al crescente arrivo di cinesi da oltreoceano. 125 Il rapporto tra coloro che hanno origini italiane e coloro che hanno come lingua madre la lingua italiana nel tempo è andato fortemente riducendosi: negli anni ’90 “solamente” il 55% di persone con origini italiane dichiarava l’italiano come lingua madre (Jansen, 1997). 124
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SEZIONE II
gli italiani a vancouver
Cap IV. il Contesto di indagine 1. La rete dell’associazionismo italiano a Vancouver Il rapporto tra le nostre due grandi nazioni [Canada-Italia, nda] non sarebbe lo stesso senza il contributo delle Vostre Società e Clubs, espressione di una riuscita integrazione e testimonianza di un forte attaccamento all’identità di origine (Marco Colombo, ambasciatore d’Italia, 2001126).
Le parole dell’ambasciatore d’Italia Marco Colombo che incorniciano l’introduzione di un’opera del 2001 sulle associazioni italiane in British Columbia, al di là delle molteplici letture che di esse si possono compiere, affermano un concetto chiaro e abbastanza assodato: il rapporto tra le due realtà, canadese e italiana, è stato fortemente forgiato dalla presenza della rete di club e organizzazioni italiane dislocati oltreoceano (Zampieri Pan, 2007). Prima di inoltrarci nel variegato panorama associazionistico italiano di Vancouver, è utile ricordare che la città canadese è una delle 90 sedi di un Istituto italiano di Cultura, ente che svolge attività di supporto per le Ambasciate e i Consolati, ai fini della promozione dell’immagine dell’Italia quale “centro di produzione, conservazione e diffusione culturale dall’epoca classica sino ai nostri giorni”127. L’Istituto italiano di Cultura, che divide la prestigiosa sede, lo Standard Building, col Consolato italiano, dialoga fattivamente con il Centro Culturale Italiano (Italian Cultural Centre- ICC)128, diretta espressione dell’associazionismo italiano presente in loco. L’ICC è un nodo della maglia di associazioni prodotta dai rapporti tra italiani dislocati oltreoceano e gli altri nodi di una rete mondiale che vede in Italia la fonte da cui si dipanano finanziamenti, input gestionali, rapporti socio-economici e culturali verso i “luoghi dell’italianità”, che segnano sul planisfero parte della storia dell’emigrazione del nostro Paese. Il Centro italiano, che nel 2010 ha festeggiato i suoi 33 anni di attività, è una possente struttura (foto 1, fig. 4) situata in West Hasting Street, in un’area urbana che storicamente è stata, e in parte continua a essere, un luogo di concentrazione residenziale di buona parte degli italiani presenti in città.
In Consolato generale d’Italia a Vancouver (2001), p. 2. Sito dell’Istituto italiano di Cultura di Vancouver: http://www.iicvancouver.esteri.it/IIC_Vancouver 128 Sito dell’ICC di Vancouver: http://www.italianculturalcentre.ca/ 126 127
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Foto 1. Ingresso dell’Italian Cultural Centre di Vancouver.
A Vancouver, sede dell’associazionismo italiano fin dagli albori del secolo scorso, il 1977 ha sancito l’apertura del grande Centro comunitario, la cui edificazione avvenne dopo numerose difficoltà. Si manifestarono da subito problematiche legate sia alla gestione del progetto interna alla comunità stessa, sia ai rapporti con i canadesi residenti nell’area prescelta per l’edificazione. I dissidi che sorsero a partire dai primi anni ’70 (ovvero prima ancora della sua costruzione) riguardavano il significato di un Centro comunitario italiano a Vancouver, il ruolo nella sua costituzione del governo italiano, di quello canadese e degli stessi italiani ivi stanziati. Giornali, reports, e un libro scritto dall’ex console italiano di Vancouver, Giovanni Germano (figura cardine all’interno della disputa), sono alcune delle testimonianze alle quali possiamo accedere per comprendere il clima incandescente di quegli anni. Prima della costruzione dell’Italian Cultural Centre, la più importante organizzazione italo-canadese esistente a Vancouver era la “Confratellanza Italo-Canadese”. Come ci racconta Jansen (1981), l’organizzazione nacque nel 1966 dall’unione di tre tra le più antiche società italiane della città: The Sons of Italy (1905), The Veneta Benevolent Society (1911), e l’Italian Canadian Society (circa 1930). La Confratellanza divenne presto sinonimo di “Comunità italiana” e chiunque volesse relazionarsi con gli italiani a Vancouver era di fatto indotto a contattare i membri di tale associazione. All’epoca non esistevano sedi comunitarie ufficiali e in città erano sorte nel tempo differenti associazioni regionali e locali, coesistenti con la Confratellanza in un mosaico cittadino che trovava in Commercial Drive la sua Little Italy, ovvero il punto che accoglieva la maggior parte degli emigrati italiani. La decisione di creare una rete ufficializzata di associazioni non fu il frutto di una decisione dal basso, ma coincise con una legge votata dal governo italiano nel
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1971 (Legge 153)129. Questa legge, tra l’altro, autorizzava il Ministro italiano degli Affari Esteri a promuovere, finanziando specifici progetti, la lingua e la cultura italiana all’estero. Il finanziamento a tali progetti venne presentato nei discorsi ufficiali in Italia e all’estero come l’emblema dell’impegno che lo Stato si assumeva nei confronti dei connazionali residenti oltre i confini. In Canada tale idea incontrò invece grandi resistenze. La maggior parte degli italo-canadesi che, secondo Jansen, all’epoca iniziavano a percepirsi più come canadesi che come italiani130 giudicarono l’atto come una vera e propria intrusione dello Stato italiano nelle questioni di un paese straniero. Come conseguenza più o meno diretta delle decisioni statali, nel novembre del 1972 venne comunque eletto in Italia un console per le province canadesi della B.C., dell’Alberta e del Saskatchewan; come sede principale dell’autorità fu scelta Vancouver. La presenza del console in città, che si protrasse dal novembre del 1972 al giugno del 1977, acutizzò alcune divisioni interne al gruppo degli immigrati. Nel 1973, sotto l’egida del console, venne fondato un Committee for Italian Educational and Cultural Activities (CO.A.S.C.I.T.), il cui scopo dichiarato era il coordinamento dell’assistenza consolare all’istruzione prevista nel quadro della legge italiana del 1971, la promozione delle attività folkloristiche e culturali presso gli italiani e la collaborazione con le autorità canadesi per promuovere programmi comuni oltre che l’insegnamento dell’italiano nella scuola secondaria. Nel gennaio del 1974 venne fondato inoltre il C.A.I.V., Comitato consolare per la promozione e l’organizzazione delle attività italiane, con competenza sul distretto di Vancouver. Nello stesso periodo, marzo 1974, il premier della British Columbia, David Barrett, suggerì al console la creazione di una federazione sotto la cui ala sarebbero potute convergere tutte le varie associazioni italo-canadesi già esistenti, esprimendogli ufficialmente il desiderio di vedere realizzato da parte della comunità italiana di Vancouver un grande centro comunitario; egli si disse inoltre disponibile, a nome della provincia della British Columbia, a destinare per la realizzazione dell’opera una somma pari a 333.333 dollari, finanziabili grazie al Community Recreation Facilities Fund Act del ministero per la ricreazione e il turismo. L’iniziativa aveva come scopo quella di creare una federazione delle associazioni italiane su base giuridica canadese, in vista dell’istituzione del I.F.S (Italian Folk Society). I governi canadese e italiano approvarono il progetto in quanto, fin dal suo nascere, sembrava rispondere ad alcuni bisogni di primaria importanza; tra questi l’assistenza agli anziani, le attività di ricreazione ed educative per bambini, l’organizzazione del tempo libero per lavoratori e giovani e, infine, la promozione della cultura italiana, funzionale allo stesso interesse canadese per il multiculturalismo.
Per seguire l’iter della politica statale italiana in materia di tutela linguistica e culturale all’estero, dagli anni ’70 a oggi, si veda il sito del ministero degli esteri: http://www.esteri.it/MAE/IT/Ministero/NormativaOnline/Normativa_consolare/AttivitaCulturali/Pro . 130 L’autore riporta i seguenti dati: nel 1971 più del 70% degli italiani immigrati era divenuto cittadino canadese, in British Columbia la percentuale era del 79%. Personalmente riterrei alquanto problematico avvallare in toto l’analisi di Jansen che correla in maniera univoca la decisione della cittadinanza al senso identitario. Anche perché bisogna ricordare che fino agli anni ’90, in Italia non è stata legalmente riconosciuta la doppia cittadinanza, quindi i casi di “naturalizzazione” all’estero spesso rispondevano più che altro a criteri di utilità piuttosto che a sentimenti di identificazione con lo Stato di residenza. 129
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Nel passato si erano avuti altri tentativi federativi interni alla stessa comunità, ma non avevano sortito il successo sperato. Sicuramente ciò che mutò, rispetto al passato, fu la compresenza in questa congiuntura storica di una forte spinta politica sia italiana che canadese. La nascita del centro italiano di Vancouver è dunque emblematica di quanto esposto riguardo alla contestualizzazione storico-politica della problematica dei migranti (cfr. cap. III). Questi anni coincidevano in effetti – proprio nel momento in cui sembrava ridursi drasticamente il flusso in uscita dall’Italia – con un rinato interesse della madrepatria per le comunità all’estero e con una ridefinizione del ruolo delle regioni in materia di emigrazione. Sul fronte canadese la sponsorizzazione e i sussidi di cui sopra sono da inscriversi all’interno di quella politica multiculturale perseguita dallo Stato federale, e definita a suo tempo come la “fase simbolica”, ricordata polemicamente da molti studiosi canadesi come il periodo del proliferare delle associazioni di migranti a causa della politica di finanziamenti attuata (cfr. cap. III, par. 4). Il caso studiato è dunque esemplificativo di come determinate politiche abbiano effetto nel plasmare associazioni in cui si producono, perpetuano e riproducono lealismi territoriali e culturali. Come risposta a questi input provenienti dal fronte italiano e canadese si tenne una riunione che, il 12 maggio 1974, diede vita all’Italian Folk Society of B.C. (IFC). La Confratellanza decise di non prendere parte alla federazione e anzi di porsi in netta opposizione con il progetto di un Centro comunitario. Le motivazioni principali addotte per giustificare tale posizioni furono diverse, ma primariamente ruotavano intorno all’assunto che l’iniziativa non partiva dal basso, ovvero dal volere della comunità, ma sembrava essere frutto della longa manus del governo italiano che agiva per puri interessi interni; ovvero per aumentare la propria sfera di influenza in un paese straniero. Veniva inoltre avversata dal club di lunga tradizione l’idea che fosse il governo canadese a dare un contributo così importante da un punto di vista finanziario alla “causa italiana” (Jansen, 1981). È a questo punto che si profilò una netta divisione tra le due principali organizzazioni federali: la ormai veterana Confratellanza e la neonata Italian Folk Society of B.C., che si vantava di rappresentare più di 50 associazioni italo-canadesi nella provincia e di essere il diretto risultato del volere governativo italiano e canadese. Le cronache dell’epoca riportano tali controversie in maniere differenti; la polemica infatti investì anche la stampa, che si trovò schierata apertamente o con l’una o con l’altra fazione: L’Eco d’Italia e Il Marco Polo, le due testate giornalistiche più importanti della comunità, divennero portavoce, rispettivamente, della Confratellanza e della Italian Folk Society of B.C (IFC). Ma come veniva spiegata tale polemica ai lettori e, più in generale, agli emigrati italiani? Un giornale riteneva che gli appartenenti alla Confratellanza si percepissero più come canadesi che come italiani (dunque la problematica identitaria – il sentirsi più o meno italiani – veniva addotta come una delle principali cause di divisione interna); una seconda rivista affermava che la differenza tra chi aveva acquisito la cittadinanza canadese e chi no fosse di natura esclusivamente legale, ma che di fatto non avesse creato divisioni interne al gruppo di italiani. Coloro che sostenevano L’IFS vedevano l’associazione come un nuovo gruppo emergente, molto più vasto e rappresentativo della Confratellanza. Il governo canadese, non comprendendo parte di queste polemiche, incontrò grande difficoltà nel gestire i rapporti con una comunità così divisa e agguerrita (ibidem).
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In un articolo apparso nell’agosto del 1978, il Marco Polo (che in quell’anno chiuderà provvisoriamente i battenti) parlò espressamente del “silenzio della maggioranza”, sottolineando con tale espressione fortemente icastica il fatto che la disputa avesse riguardato semplicemente due fazioni che rappresentavano un esiguo numero di connazionali; la maggioranza degli italiani venne descritta come attonita e in silenzio dinnanzi alle liti che coinvolgevano una minima parte degli emigrati. In questo contesto polemico, parte della comunità italiana di Vancouver (che negli anni ’70 ammontava a circa 40.000 persone immigrate soprattutto a partire dagli anni ’50), iniziò ad attivarsi nei confronti delle autorità municipali per la costruzione del Centro comunitario, in un’area all’epoca destinata a discarica di rifiuti. Nonostante la marginalità dell’area, gli abitanti delle zone circostanti iniziarono una raccolta di firme per impedire, attraverso una petizione, l’edificazione del Centro in prossimità delle loro abitazioni. La motivazione, così come ci riporta il resoconto della scrittrice Anna Foschi, era quella di volere evitare che la zona divenisse covo di “forestieri, bevitori di vino, chiassosi e indisciplinati turbatori della quiete”131. La comunità italiana, con le sue 40.000 presenze, era all’epoca uno dei gruppi immigrati più consistente e più “esotico”, con tutto ciò che questo termine sembra contenere di negativo. Nonostante la reazione degli abitanti della zona, e nonostante le polemiche interne appena descritte, la costruzione del luogo d’incontro comunitario, forte dell’avallo politico, ebbe inizio nel 1976. L’attività del Centro poteva a quel punto prendere corpo a partire dalle associazioni che costituivano l’IFS e sostenendo quelle che si sarebbero formate nell’arco dei 21 anni di attività132. Il principale obiettivo dichiarato della Federazione fu quello di fungere da ponte tra i vari club e di gestire il corpus associazionistico nel suo complesso (Germano, 1978). L’Italian Cultural Centre di Vancouver racchiude attualmente al suo interno 20 associazioni rappresentative di differenti regioni o località italiane. A eccezione di Piemonte, Lombardia, Liguria, Marche, Umbria e Sardegna133, tutte le altre regioni italiane sono rappresentate da gruppi e associazioni legalmente riconosciuti: dal Veneto alla Calabria, dal Trentino-Alto Adige alla Puglia, dal Friuli-Venezia Giulia all’Emilia Romagna, dalla Toscana al Lazio, e ancora l’Abruzzo, la Basilicata, la Campania, la Sicilia e il Molise. È interessante notare come alcune di queste regioni siano rappresentate da più di un’associazione; il che implica la presenza di gruppi a un raggio ancora più ridotto rispetto a quello regionale. È il caso del Molise, che a Vancouver è rappresentato dalla Molisana Society, dalla Società Civitanovese, dalla Famiglia Bagnolese Society, dal Gruppo Sannitico Molisano Lupi del Matese e dagli Amici di Casacalenda del Molise. Lo stesso discorso vale per il Veneto e per la Calabria. La governo del nord-est conta in città ben cinque associazioni: i Bellunesi, i Trevisani, i Vicentini, gli abitanti di Selva del Montello e la Gioventù Veneta. Accanto all’Asso-
Articolo tratto dal sito: http://www.bibliosofia.net/files/Foschi___Mosaico_Canadese.htm Le associazioni fondatrici del Centro furono 13: Associazione Nazionale Alpini, Circolo Abruzzese, Coro Italiano della British Columbia, Famee Furlane, Famiglia Bagnolese, Italian Canadian Rod & Gun Club, Italian Mutual Aid Society, Molisana Society, Selva del Montello, Sicilian Club, Societa` Culturale Vicentini, St. Jude Italian Society e Società culturale Toscana. 133 L’associazione sarda, come avremo modo di vedere (cfr. cap. V, par. 5), risulta inattiva da cinque anni per problemi di natura gestionale. 131 132
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ciazione culturale calabrese operano il Cosenza Social Club, il Grimaldi Club e la Mammola S. Nicodemo Cultural Association134. Le organizzazioni italiane all’estero sono nate in epoche diverse, che richiamano contesti spesso altrettanto differenti. Le più antiche associazioni, quelle che sorsero in varie aree del mondo in cui è attestata una cospicua presenza italiana, avevano infatti per lo più scopi di tipo assistenziale, erano principalmente società di mutuo soccorso135; le più recenti, già a partire dal secondo dopoguerra, hanno affiancato agli scopi assistenziali (cfr. cap. III, par. 5) – sempre meno importanti – finalità di tipo ricreativo, sportivo e si sono connotate spesso per il loro carattere regionale (ibidem). Abbiamo ricordato nel cap. I che proprio a partire dagli anni ’60-’70, grazie alla ridefinizione dei ruoli istituzionali delle regioni italiane, vennero accentuati i rapporti economici e politici con il mondo associativo italiano all’estero, che a tutt’oggi è un punto di riferimento privilegiato per le politiche regionali (Principe, 2007). Le attuali associazioni nascono dunque sia come risposta a spinte endogene sia, molto più spesso, come risultato di espressi input inviati oltreoceano da alcune regioni italiane. L’ottica è sì quella di “mantenere i legami con i luoghi d’origine”, ma anche, e sempre più, quella di far sì che le associazioni diventino vetrine e promotrici di contatti di vario tipo (dallo sponsorizzare prodotti locali d’origine in terra d’emigrazione, all’incentivare il turismo verso l’Italia etc.) tra le due realtà territoriali: Italia e Canada (cfr. cap. I, par. 4). Ampliando la scala d’analisi ci possiamo rendere conto di come il Centro rappresenti uno snodo importante all’interno della rete delle circa 100 associazioni italiane della British Columbia. La provincia canadese, così come documentato dalla Zampieri Pan (2007, 2009), accoglie associazioni italiane nelle regioni di Port Alberni (1953), Kitimat (1955), Victoria (1955), Trail (1957), Prince Rupert (1959), Prince George (1964), Kelowna (1966), Nelson (1972), Penticton (1981), di nuovo Victoria (1989). Gli italiani giunti a Kitimat e Trail hanno trovato impiego principalmente nell’industria mineraria e di trasformazione, coloro che si sono diretti a Port Alberni in quella della carta; coloro che si sono stanziati nelle aree urbane, come Vancouver, hanno mansioni principalmente di tipo commerciale ed edile (Jansen, 1987).
Oltre ai circoli prettamente legati ad alcune realtà locali italiane, definiscono il profilo dell’Italian Cultural Centre: l’Associazione Nazionale Bersaglieri, l’Associazione Nazionale Alpini, l’Associazione Nazionale Carabinieri, il CIPBA, il Club Femminile Italiano, la Confratellanza Italo-Canadese, il Grimaldi Club, l’Italian Canadian Bocce Club, l’Italian Canadian Sports Federation, l’Italian Canadian Winemakers Club, l’Italian Choir of BC, l’Italian Rod and Gun Club, il National Congress of Italian Canadian, la N.W. Italian Mutual Aid Society, il Seniors Over 50 Club, il Vancouver Italian Folk Chorus. 135 In British Columbia si ricordano la Felice Cavallotti di Nanaimo fondata nel 1900, la Figli d’Italia di Vancouver del 1904, la Cristoforo Colombo di Trail del 1905, la Società Veneta di Vancouver nel 1911, la Cristoforo Colombo di Kamloops del 1914. Inoltre, durante l’ondata migratoria che si verificò tra la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo sorse un secondo gruppo di associazioni, come le prime finalizzate alla reciproca solidarietà: la Colombo Lodge di Cranbrook nel 1927, l’IMAS di New Westminster nel 1929, l’Italo-Canadese di Vancouver nel 1934, contemporanea a un’altra Italo-Canadese di Trail e il Club Italo Canadese di Powell River nato nel 1937 (Zampieri Pan, ibidem). 134
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2. L’attività dell’Italian Cultural Centre Le associazioni, al di là del nome, del luogo di riferimento e del gruppo rappresentato, non si limitano a trovare nell’ICC un luogo fisico di incontro, ma costituiscono l’anima stessa del Centro. La sede di Vancouver dunque non ospita semplicemente i vari circoli, ma la sua vita è forgiata dall’attività che in essa si compie.
Fig. 3. Mappa dell’Italian Cultural Centre Society di Vancouver136.
Ogni gruppo presente usufruisce solitamente degli spazi del Centro per riunioni a scadenza settimanale e/o mensile. Le varie associazioni inoltre strutturano, con gli eventi da loro organizzati, il calendario delle attività svolte al Centro e dirette a tutti: corregionali, altri italiani e non solo. Esistono naturalmente degli avvenimenti comuni organizzati dal Centro e offerti a tutta la comunità, la gestione dei quali è affidata a un manager team articolato in tre aree: il dipartimento amministrativo, il servizio catering, e il settore culturale (che comprende anche la scuola di lingua italiana che si trova all’interno dell’edificio).
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Tratto dal sito: http://www.italianculturalcentre.ca/
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L’ICC, sede e collegamento tra le associazioni, è un punto di riferimento importantissimo in città per tutti coloro che desiderano avvicinarsi e/o perfezionare la lingua italiana. La scuola di italiano, diretta dal 2008 da Edda Onesti, accanto ai “classici” corsi per adulti e per bambini, sta sperimentando nuove tipologie di insegnamento che puntano a far avvicinare alla lingua italiana nuove fasce di utenti137 (cfr. cap. V). Un’importantissima occasione di conoscenza della realtà italiana è inoltre offerta dalle proiezioni cinematografiche in lingua originale (solitamente con sottotitoli in inglese) trasmesse nella grande sala centrale durante l’anno con cadenza variabile, generalmente almeno una volta al mese. Tali proiezioni sono considerate sia un buon modo per tenere aggiornati gli utenti sulle produzioni cinematografiche italiane (classiche e recenti), sia un valido strumento di appoggio della scuola che può offrire, a coloro che hanno raggiunto un upper level di conoscenza dell’italiano, un ulteriore momento di “immersione” nella lingua. La sala in cui si svolge la serata cinematografica rappresenta il luogo per eccellenza – accanto all’aula magna presente all’Istituto di Cultura Italiano – delle occasioni solenni della comunità italiana in città. Sala conferenze, cinema e spettacolo (grazie alla presenza di un gran palco), sala che accoglie le cene della comunità e non solo. Tra le principali attività che finanziano l’ICC c’è infatti il servizio catering aperto a tutta la cittadinanza canadese, senza, naturalmente, distinguere tra attività legate ai club italiani e alla comunità (che rimangono comunque prevalenti) e non. Il servizio catering genera gli introiti che sostengono le attività didattiche e culturali, in concorso coi finanziamenti ricevuti dallo Stato italiano. La grande struttura, con annessa cucina, ospita sovente le cene dei vari gruppi che, seppur affiliati all’ICC, devono naturalmente pagare tutti i servizi da esso offerti. La sala, in tali occasioni, arriva a ospitare centinaia di persone. L’impegno con cui le varie associazioni organizzano e sponsorizzano i differenti avvenimenti sembra spinto dal naturale desiderio di eguagliare (o meglio superare) le feste organizzate dagli altri circoli, in una sorta di benevola gara alla serata meglio riuscita e più frequentata. Oltre che occasioni in cui celebrare le varie realtà locali, le cene costituiscono dunque un momento in cui gli appartenenti a un singolo gruppo hanno modo di creare e/o fortificare le relazioni con coloro che non fanno strettamente parte del gruppo stesso. Tali rapporti trasversali interregionali sono rinsaldati inoltre dalla presenza, nella confederazione del Centro, delle associazioni che non riflettono specifiche aree di origine (come la presenza dei due cori o il gruppo dei bersaglieri). La sede comunitaria, data la vastità dell’edificio (fig. 3), contempla al suo interno anche luoghi di incontro non scanditi dalle tempistiche ingessate delle riunioni o delle cene programmatiche; tra questi: la biblioteca, il ristorante Dario, il bar e l’annesso campo di bocce. La biblioteca ospita numerosi volumi relativi alla comunità di Vancouver, ma anche i classici della letteratura italiana, che possono essere così di facile accesso per gli italiani qui residenti e per coloro che desiderano, al di là della nazionalità,
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Si rimanda all’analisi di alcuni brani tratti dall’intervista svolta a Edda Onesti (cfr. cap. VI). I corsi vanno da quelli destinati ai bambini delle fasce d’età prescolare (dai tre anni), fino a quelli per adulti (corsi di varia tipologia: da quelli di conversazione, a quelli di grammatica, ai nuovi corsi come Let’s go Italy il cui fine è quello di fornire strumenti linguistici per una competenza rudimentale utile per un viaggio nel nostro Paese.
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accedere a tale patrimonio librario. La sede della biblioteca è stata trasferita nel 2008 in un’altra area del Centro, per far posto a un museo dell’emigrazione italiana inaugurato il 21 ottobre dello stesso anno. Annesso al Centro di Cultura Italiano si trova un ristorante, Da Dario, conosciuto in città appunto per essere diretta espressione di quel Made in Italy che si è ricavato un ruolo sempre più importante (da un punto di vista culinario, ma non solo) nell’immaginario canadese. A differenza del ristorante – che per ovvie finalità è aperto alla più disparata clientela (italiana e non, giovane o anziana) e che non a caso è posto proprio accanto al parcheggio in modo da essere usufruibile direttamente al resto della città – il bar è parte integrante della struttura ed è di quasi assoluto dominio, in quanto a utilizzo, della comunità italiana tradizionale. Esso è infatti un illuminante esempio di riproduzione di dinamiche comunitarie in una città come Vancouver non avvezza ad avere, almeno nei circuiti cittadini più battuti, tipologie di cafè siffatti. Rispetto ai locali analoghi che caratterizzano la città – e rispetto anche a quelli che si possono trovare in Italia nei contesti urbani – il bar, luogo per eccellenza di ritrovo della fascia maschile e anziana della comunità, è lo spazio pubblico, la “piazza” del Centro138. Ambito di incontro più che entità “commerciale”, esso è uno spazio che tende a ricreare nella sua semplicità ed essenzialità di arredamento (che contrasta apertamente con la magnificenza di altre aree del Centro, di uso meno quotidiano e teatro di attività ben più formali) i bar dei nostri centri italiani minori, attivi in aree periferiche. Lo spazio, appena varcata la porta d’ingresso, ospita una decina di tavolini adibiti nel pomeriggio ad accogliere numerose partite di carte; tale zona si contrappone spazialmente all’area in cui è collocata la tv, altro polo – soprattutto grazie agli avvenimenti sportivi – di interesse di parte della comunità italiana. Naturalmente il bar tende a trarre beneficio dalle altre attività presenti nella struttura: non è raro trovare gruppi che, conclusa l’abituale riunione settimanale o mensile, vanno poi a rifocillarsi in quest’area. Ad aumentare la funzione relazionale di questo luogo è la sua adiacenza al campo di bocce. Il gioco delle bocce, come avremo modo di verificare successivamente (cfr. cap. V), sembra essere per gli anziani della comunità una pratica fondamentale, tanto da costituire uno degli emblemi dell’italianità in città. 3. L’area di indagine: i motivi di una scelta Il Canada, e nello specifico Vancouver, presenta delle caratteristiche peculiari che sono state alla base della scelta di tale paese e città come contesto d’indagine. Richiamiamo le principali. Prima di tutto l’emigrazione italiana in Canada ha conosciuto un fortissimo incremento proprio a partire dal secondo dopoguerra; inoltre, il grande Stato federale ha adottato, primo paese al mondo, una politica volutamente ed esplicitamente multiculturale. Abbiamo ricordato (cap. III) quanto questo aspetto –
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Sulla funzione giocata da luoghi come i bar nelle dinamiche di socializzazione urbana si rimanda a Montgomery (1997).
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ovvero la politica migratoria adottata dai singoli Stati – sia di primaria importanza per comprendere i processi di integrazione e le pratiche identitarie in atto. La British Columbia, provincia in cui si situa Vancouver, è la “frontiera” più distante dello Stato canadese e dunque, come in parte apparirà dal lavoro sul campo, gli italiani ivi stanziati sembrano essere, data la lontananza dall’Italia, “doppiamente emigrati” rispetto ai connazionali residenti in Ontario o in Quebec. In secondo luogo Vancouver, così come la British Columbia nella sua interezza, mostra una presenza italiana molto più esigua rispetto a quella del Canada orientale; si attesta infatti a poco più di 22.000 persone (12.317 cittadini con cittadinanza italiana o italo-canadese ai quali vanno sommati circa 10.000 cittadini italiani con cittadinanza canadese). La consistenza della comunità è un elemento fondamentale che incide sulle modalità di integrazione nel contesto d’arrivo. Come si avrà modo di verificare, minore è il numero di presenze, maggiore è la necessità della comunità emigrata di inserirsi nel nuovo paese sia da un punto di vista culturale che linguistico (cfr. cap. III). In terzo luogo, Vancouver, nonostante non presenti i tassi di presenza italiana registrati a Toronto o Montreal, ha un grande Centro di Cultura Italiano (ICC), luogo che fornisce un ottimo contesto d’indagine per un’inchiesta. Infine, la presenza, in seno all’ICC, di una molteplicità di circoli dal carattere squisitamente regionale, permette di compiere una micro indagine comparata sul ruolo della scala regionale all’interno delle pratiche e delle narrazioni diasporiche (cfr. nota 13, p. 10 e cap. I, par. 4). 4. La metodologia applicata La ricerca sul campo si è basata sull’osservazione e sui colloqui condotti con i frequentatori dell’ICC di Vancouver. Tale struttura rappresenta il cuore dell’italianità ufficialmente riconosciuta dal Canada e dall’Italia; essa è pertanto una sede privilegiata di attività per la comunità stessa, ovvero per coloro che vivono pubblicamente i legami con la loro terra d’origine. Qualsiasi progetto che coinvolga gli italiani residenti a Vancouver (sia in rapporto allo Stato canadese, sia all’Italia) trova nell’ICC un punto di riferimento imprescindibile; dunque uno studio accurato sulla realtà comunitaria italiana che si focalizzi su tale luogo sembra in linea con il ruolo rappresentativo che esso ricopre rispetto alla presenza italiana in città. Benché lo studio, come capita sovente in lavori similari139 (Segrott, 2001; Silverman, 2006), sia strutturato su un corpus di dati relativamente piccolo rispetto a un ipotetico campione statistico tratto in maniera casuale dalla comunità italiana presente a Vancouver nella sua interezza, esso ha consentito di costruire un quadro abbastanza variegato. Durante tre mesi (tanto è durata la ricerca sul campo) sono state approfondite le problematiche di interesse con immigrati sia di prima che di seconda generazione; la ricerca, basata sull’osservazione e su oltre un centinaio di interviste semi-
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Anche l’indagine sul campo realizzata dalla fondazione Migrantes nel 2010 in Canada, Francia, Regno Unito, Romania e Spagna, ha riguardato, complessivamente, un numero esiguo di emigrati, ovvero 649 in totale (Licata e Pittau, 2010).
il Contesto di indagine
strutturate140, ha permesso inoltre di sistematizzare alcune informazioni in maniera tabellare141 (cfr. capp. V e VI). Nelle interviste, tra le tecniche di natura qualitativa più utilizzate in ambiente geografico (Crang, 2002; 2005), sono stati forniti agli intervistati alcuni input di discussione, a partire dagli aspetti cardine individuati in fase teorica. Uno degli obiettivi affidati alle interviste è stato quello indurre a ricostruire alcuni aspetti relativi all’esperienza migratoria della comunità: i flussi in arrivo dei migranti italiani in quest’area del Canada, i luoghi di stanziamento del gruppo all’interno della città, la mobilità che si è dispiegata negli ultimi cinquant’anni e le differenze, là dove avvertite, tra la situazione della comunità italiana in quest’area e quelle della parte est del grande Stato federale, i luoghi e i momenti di incontro, istituzionali e non, degli italiani in città. Le due dimensioni fondamentali di ogni processo identitario (pratiche e narrazioni) in ambito diasporico possono essere studiate a partire dall’individuazione e dall’analisi di quattro nuclei tematici: l’esperienza migratoria; i rapporti tra i membri della comunità e il contesto di provenienza (l’Italia e, nello specifico, la regione); gli usi linguistici e, infine, i discorsi attraverso cui si tessono le narrazioni identitarie dei singoli e della comunità (tab. 12).
Pratiche identitarie
Esperienza migratoria
- Rapporti tra comunità italiana e Italia/Regione; Reti relazionali - Visione di programmi tv italiani e lettura dei giornali; tra la comunità - Flussi di rientro temporanei (frequenza e motivazioni); e l’Italia/Regione - Interesse per la vita politica italiana. Usi linguistici
Narrazioni identitarie
- Movimenti degli immigrati intervistati (arrivo a Vancouver e aree urbane di stanziamento); - Elementi distintivi della migrazione a Vancouver rispetto ad altre mete canadesi; - Luoghi di incontro istituzionali e non; - Luoghi di forte valenza simbolica per la storia comunitaria italiana a Vancouver.
Problematiche identitarie
- Tempi e modi di utilizzo delle lingue (inglese, italiana e locale); - Importanza attribuita agli idiomi d’origine; - Trasmissione intergenerazionale delle competenze linguistiche d’origine. - Riferimenti all’Italia e alla regione di provenienza (rapporto scala nazionale – scala regionale); - Identificazione con l’Italia e il Canada (rapporto contesto d’origine – contesto d’immigrazione); - Aspetti generazionali.
Tab. 12. Nuclei tematici affrontati durante le interviste.
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Sono state svolte circa 166 interviste, 11 delle quali ad attori privilegiati. Le ricerche di questo tipo, pur non presentando un campione di tipo rappresentativo, hanno pur sempre una loro utilità date anche le notevoli difficoltà incontrate dai ricercatori nel reperire dati statistici certi e accurati. Le ricerche empiriche aiutano infatti a individuare aspetti problematici non autoevidenti del fenomeno emigratorio italiano (Licati e Pittau, 2010).
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territori e lingue in diaspora. italiani a vancouver
Come accennato nell’introduzione, i primi tre aspetti verranno vagliati nel capitolo V, mentre all’elaborazione narrativa dei sentimenti di appartenenze territoriali dei migranti sarà dedicato il capitolo VI. Alle interviste svolte in maniera casuale all’interno dell’ICC, sono state affiancate quelle destinate ad attori privilegiati, scelti tra coloro che ricoprono (o hanno ricoperto in passato) un ruolo di spicco all’interno della comunità142; queste ultime hanno permesso di approfondire determinati temi presenti nella tab. 12, in base al ruolo specifico ricoperto dall’intervistato. Quanto emerso verrà esposto nei prossimi capitoli cercando di cogliere gli elementi ricorrenti e quelli contrastanti; la finalità è di comprendere quali siano i terreni di appartenenza che si configurano in questo contesto diasporico, come essi interagiscano con la terra d’origine e con quella di residenza, infine che ruolo giochi, al loro interno, l’uso e la simbolizzazione della lingua. I testi delle trascrizioni saranno analizzati seguendo l’organizzazione degli argomenti trattati durante l’intervista stessa, considerandoli sia come documento che racconta la “storia della comunità”, sia come narrazioni che sono in parte specchio (e a loro volta atti performativi) della comunità stessa. L’analisi del corpus testuale così ricavato risponde dunque sia a esigenze di tipo descrittivo che di tipo esplicativo (Cardano, 2003). L’esperienza sul campo è stata costantemente accompagnata da uno strumento d’analisi onnipresente: l’osservazione partecipata o, per utilizzare un termine più pertinente, la “partecipazione osservante” (Marengo, 2004). I tre mesi di lavoro sul campo sono stati efficaci per entrare in stretto contatto con la realtà studiata. 5. L’accesso alla comunità e la problematica del consenso Fieldwork is a discursive process in which the research encounter is structured by the researcher and the researched. (England, in Crang, 2003, p. 494).
Le note di natura autobiografica, che appaiono inappropriate per lo studioso che presuma un approccio “oggettivo” e passivo di fenomeni sociali, hanno acquistato
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Durante la ricerca sono state compiute undici interviste ad attori privilegiati. Tra gli intervistati figurano Rocco Di Trollio, direttore del patronato INCA-CGIL, nonché presidente del Circolo dei Campani e – ruolo non certo secondario – membro del COMITES di Vancouver; Mike Lombardi, anch’egli membro COMITES, oltre che presidente del circolo dei lucani; Rino Vultaggio, giornalista ed editore del più importante giornale italiano della zona, Il Marco Polo; la giovane Cristina Fogale, presidentessa dell’Italian Club presso la UBC e rappresentante giovani del COMITES. Presso l’Italian Cultural Centre sono state tenute due interviste, l’una ad Ashley De Lucio, coordinatrice dei programmi culturali e sociali del Centro, l’altra a Edda Onesti, direttrice della scuola d’italiano che lì ha sede. Sono stati intervistati, inoltre, il direttore dell’Ital-UIL, Valentino Serviziati, e Vito Bruno, presidente del circolo pugliese nonché personaggio noto all’interno della comunità in quanto storico volto e voce di programmi televisivi e radiofonici in lingua italiana. Le ultime tre interviste sono state dedicate a rappresentanti dei circoli friulano e sardo. La prima ha permesso di approfondire la situazione del circolo friulano grazie al confronto con Joe Toso, presidente attuale della Famee Furlane. Come rappresentanti del circolo sardo – la cui storia conclusasi cinque anni fa è stata indubbiamente tormentata – sono state intervistate la prima e l’ultima presidentessa del circolo, Lucia Fronteddu ed Enza Uda.
il Contesto di indagine
nell’ultimo quindicennio una collocazione sempre più rilevante nell’ambito di una crescente prassi riflessiva comune ai Social Studies, (Fortier, 1996). L’importanza delle problematiche legate al complesso rapporto che lega il ricercatore al suo campo di ricerca ha coinvolto anche la nostra disciplina, in ambito internazionale e anche italiano143. I dibattiti su tale rapporto procedono in concomitanza con lo sviluppo di teorie anti-essenzialiste sull’identità e sull’“Io”. Tali teorie, che ben si attagliano con l’idea di identità come processo, che dunque si modifica nel tempo, hanno investito anche l’Io del ricercatore e il rapporto contingente e contestuale che lega quest’ultimo ai soggetti di studio. Identità del ricercatore e rapporto che sono appunto contestuali, ovvero legati al momento in cui prendono corpo, destinati durante i mesi di ricerca a mutare e modificare al ritmo degli eventi e dell’accesso sempre più profondo nel campo di ricerca. L’esperienza che il ricercatore vive nei mesi del lavoro sul campo e le tappe che gli consentono di entrare nel cuore dei luoghi in analisi rappresentano in questo quadro tappe fondamentali per la comprensione del lavoro stesso. Le problematiche dell’accesso e del consenso sono, ad esempio, due aspetti fortemente interrelati e strutturali nel rapporto che il ricercatore stabilisce con i soggetti d’indagine e sono per questo elementi centrali per comprendere alcune caratteristiche salienti della ricerca empirica stessa e della sua riuscita. Il geografo Mike Crang, in un articolo di natura squisitamente metodologica (Crang, 2003) ricorda che il corpo del ricercatore, attraverso la fisionomia, le eventuali disabilità e il genere, è un vero e proprio strumento di ricerca, accanto agli altri strumenti utilizzati nel campo. Tra questi anzi ricopre un ruolo importantissimo, pur non essendo molto spesso tenuto in conto, proprio perché incarna la conditio sine qua non della metodologia di ricerca stessa. Il sociologo David Silverman, da parte sua, afferma che oltre al genere – spesso sopravvalutato in quanto “di moda” – caratterizzano il ricercatore e dunque il rapporto che quest’ultimo instaura con l’universo di studio, elementi quali l’età e la classe sociale (Silverman, 2006). È stato possibile testare tali teorie durante i mesi trascorsi a contatto con la comunità di Vancouver. Vista la tipologia della ricerca, il luogo scelto per condurla e le tecniche utilizzate, l’accesso al campo è stato, per usare la terminologia accademica, di tipo “palese” (Walsh, 2006; Silverman, 2006). L’accesso palese comporta che il ruolo del ricercatore sia da subito ben chiaro per i soggetti implicati nello studio144; inoltre, nel caso specifico, si è volutamente impostato un rapporto basato sul consenso informato, chiarendo agli intervistati le caratteristiche principali della ricerca.
Una tavola rotonda della conferenza internazionale “La città cosmopolita. Geografie del contatto culturale”, organizzata dal Dipartimento di Beni Culturali dell’Università degli studi di Palermo nel settembre del 2007, è stata dedicata a questo complesso e avvincente aspetto proprio di ogni indagine empirica. 144 L’accesso palese in una situazione chiusa come quella rappresentata dall’ICC necessita molto spesso della presenza di “custodi”, ovvero di personaggi interni alla comunità che introducano il ricercatore nel contesto di analisi. Il custode è colui che permette di accedere a un dato ambiente ma naturalmente non è di per sé sufficiente avere il suo consenso: bisogna cercare, dopo l’accesso, di tessere il maggior numero di rapporti possibile per avere un’ampia base d’approvazione che non faccia scricchiolare la torre della propria ricerca. 143
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territori e lingue in diaspora. italiani a vancouver
Vari aspetti della mia persona hanno giocato un ruolo basilare nel definire il rapporto con la comunità145 e le modalità dell’accesso in essa; tra questi, in primo luogo, il mio essere italiana (ovvero la mia appartenenza culturale) e la mia giovane età (rispetto all’età media dei frequentatori dell’ICC) associata al genere. Il mio essere italiana e la competenza linguistica in italiano sono stati fattori decisivi per il mio ingresso nella comunità: in un certo senso, ho fatto da sempre parte, in quanto italiana a Vancouver, della comunità stessa e non ho mai dovuto giustificare la mia presenza all’interno dell’ICC. Il fatto di aver ricevuto attraverso la scuola e il catechismo l’insegnamento cattolico, non mi ha inoltre reso impreparata rispetto ad alcune pratiche, come ad esempio la preghiera che scandiva ogni cena del Centro. Attraverso la lingua, la provenienza italiana, e la religione ho palesato aspetti/competenze della mia persona, prima ancora che di ricercatrice, comuni alla maggior parte degli italiani di prima generazione. Tale condivisione è stata essenziale per agevolare i primi approcci alla comunità e per definire i termini del mio ingresso e della mia permanenza lungo l’arco dei tre mesi. La mia identità riconosciuta, declinata nei vari aspetti sopra elencati, ha potuto far sì che potessi essere considerata come un membro “liminale” (Segrott, 2001) della comunità, nonostante il mio ruolo di ricercatrice fosse stato fin da subito palesato. Inserendomi nella vita della comunità in quanto italiana, in molteplici occasioni mi sono trovata ad accedere all’osservazione partecipata in maniera dissimulata, ovvero senza che i soggetti percepissero come atto di studio il mio sguardo calato sulla loro realtà. La mia presenza all’interno della Comunità dunque, per usare un concetto di Hammersley e Atkinson, è stata simultaneamente di insider-outsider (in Segrott, 2001, p. 286). La condizione di outsider, di persona al di fuori della comunità italiana di Vancouver, è stata d’altro canto definita da fattori altrettanto vari. Prima di tutto dal fatto di aver posto da subito, presentandomi come ricercatrice interessata a studiare l’emigrazione italiana, una distanza tra me e loro, tra ricercatore e “oggetto” di studio che certamente non si sarebbe avuta se io mi fossi semplicemente introdotta come italiana appena giunta in città. Il fatto dunque di non essere un’emigrata, ma di studiare l’esperienza migratoria, ha fatto sì che non si creasse quella totale condivisione di gruppo che rende un individuo insider al gruppo stesso. L’aver vissuto l’esperienza migratoria, oggi come ieri, è naturalmente un elemento cardine nello strutturare una comunità italiana all’estero. Allo stesso modo, il fatto di essere una ricercatrice ha creato in alcuni soggetti una diffidenza iniziale comprensibile; poi in parte attenuata dalle caratteristiche comuni, quali lingua e provenienza. Il tempo è un fattore essenziale all’interno della bilancia che sposta la figura del ricercatore lungo i due assi outsider-insider. La durata protratta del contatto si spiega con le iniziali problematiche di accesso e di consenso e con la necessità di calarsi nella realtà analizzata per meglio comprenderla146. I mesi di familiarità tra il ricercatore e la comunità non modificano solamente la distanza che quest’ultima percepisce rispetto allo studioso: anche quest’ultimo, attraverso il contatto stretto e quotidiano con la comunità, articola meglio la propria identità.
È possibile un confronto calzante della mia esperienza con quella vissuta da Anne-Marie Fortier, e analizzata in un articolo dal titolo emblematico: “The use of personal experiences as sources of knowledge” (Fortier, 1996). 146 Non è dunque un caso se il primo mese e mezzo è stato speso per creare i contatti con la realtà di studio e per accedere alla comunità, solo successivamente ho iniziato realizzare le interviste. 145
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il Contesto di indagine
I tre mesi vissuti a Vancouver mi hanno dunque permesso di prendere parte alla vita comunitaria italiana sia come ricercatrice, nel momento in cui si palesava al massimo grado la mia natura di studiosa (ovvero durante le interviste); sia, dopo le prime settimane, come italiana residente in città che partecipava alle attività del Centro (come proiezioni cinematografiche, feste etc.). Alla fase iniziale dunque – in cui il confine tra me e loro, tra ricercatrice e universo di studio, si poneva come netto – è subentrata una seconda fase in cui, nonostante la differenza di ruoli e il fine di studio sempre presente come priorità, l’integrazione con la vita comunitaria ha smussato l’iniziale divisione ben definita. L’osservazione partecipata è infatti una locuzione che col progredire della pratica presuppone una maggiore enfasi sul secondo termine, quello di partecipazione: non è solo lo sguardo, ma il ricercatore come persona a essere sempre più presenza attiva all’interno del contesto in analisi. Contemporaneamente prende corpo il processo di conoscenza della comunità nei confronti dello studioso. Come capita sovente, varie persone hanno sviluppato sguardi differenti nei miei confronti nonostante a tutti avessi spiegato in prima istanza il mio ruolo e compito a Vancouver; qualcuno mi vedeva come persona interessata a scrivere un libro sulla sua esperienza migratoria, altri come una studentessa che faceva un lavoro come “compito a casa”. Ciò che invece è parso essere abbastanza costante è stata la modalità di rapporto che hanno strutturato; che può essere interpretata in relazione alla mia giovane età rispetto al contesto stesso. L’ICC, nonostante attiri i giovani in particolari occasioni, solitamente è un luogo di incontro della prima generazione di emigrati; l’età media di coloro che partecipano alle riunioni si aggira dunque intorno ai 5570 anni. I miei 27 anni al momento della ricerca e il mio essere sola in città hanno fatto sì che gran parte delle persone con cui ho interagito durante la permanenza a Vancouver non solo abbia risposto positivamente all’indagine, ma si sia sentita quasi in dovere di aiutarmi nei miei intenti di studio e di tutelarmi al di là di essi. Tali attenzioni si sono sviluppate in svariati modi: qualcuno si è offerto come cicerone, accompagnandomi in escursioni in città per conoscere zone di Vancouver non facilmente raggiungibili con l’autobus (mezzo da me utilizzato solitamente); con svariati inviti a pranzo e a cena etc.147. La gentilezza e l’affetto dimostrate da gran parte della comunità successivi alle difficili fasi d’accesso, mi hanno reso, alla conclusione dei tre mesi, una presenza fissa e ormai riconosciuta all’interno del Centro. La conclusione del lavoro sul campo ha costituito un momento ulteriore, qualcosa come un ritrovare la distanza tra me e l’universo di studio, un rientrare in quel “confine” che nel corso dell’inchiesta non si era posto più come linea divisoria tra due mondi separati: “[i]l confine si era infatti modificato divenendo una “zona di frontiera”, una rete di significati filati dalle conversazioni con lei/lui/loro” (Fortier, 1996, p. 309148).
Anne-Marie Fortier, nella sua ricerca sulla comunità italiana di Londra, attribuisce questo atteggiamento protettivo scattato anche nei suoi confronti come connesso al suo essere donna, legando dunque la lettura di tale atteggiamento alle problematiche di genere (Fortier, 1996). Le costanti richieste di parte dei membri della comunità, come ad esempio “Oggi hai chiamato mamma e papà?”, sono state legate dalla studiosa al processo di Infantilization, quel processo attraverso cui la donna viene vista come essere indifeso, innocente e debole da proteggere come un bambino. 148 Traduzione dell’autrice. 147
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Cap V. Pratiche identitarie: reti, SIMBOLI, LINGUe I migranti non solo non si adeguano al paradigma della cittadinanza come forma di assimilazione ad un territorio, Stato, comunità o nazione ma, attraverso intensi movimenti, pratiche politiche, così come tramite il fluire di oggetti, di denaro e di idee che rendono possibile il mantenimento di diverse e molteplici appartenenze e lealtà, essi propongono e impongono un superamento della logica dell’integrazione nazionale. (Salih, 2005, pp. 164-165)
1. L’esperienza migratoria L’arco cronologico in cui si collocano le partenze della prima generazione è ampio e si situa tra il 1950 e il 2008; il periodo di maggior picco è quello dal 1965 al 1971. A partire da quest’ultima data, in sintonia con il decrescere delle partenze dal nostro Paese, non si notano flussi significativi da un punto di vista numerico. La maggioranza degli intervistati di prima generazione è giunta in città direttamente dall’Italia senza effettuare tappe intermedie, mentre coloro che hanno lasciato l’Italia con altre destinazioni si sono diretti principalmente in un’altra zona del Canada, preferendo, nell’ordine: un’altra località della provincia della British Columbia; l’Ontario; il Quebec; l’Alberta; il Manitoba; la Nova Scotia. Anche per il caso specifico, possiamo dunque affermare che la mobilità si sia verificata soprattutto fino agli anni Settanta. Per la maggior parte dei soggetti indagati, Vancouver rappresenta l’ultima tappa del viaggio, non avendo essi espresso il desiderio di migrazioni future; possiamo dunque convenire che la stanzialità del gruppo nella città sia forte e che Vancouver non rappresenti per la maggior parte delle persone una delle fasi di un viaggio, quanto la meta dello stesso e il luogo di vita scelto. Esistono naturalmente anche nel caso indicato numerose caratteristiche interne alle varie tipologie di migrazione (motivazioni, fattori di spinta, fattori d’attrazione etc.) che hanno ripercussioni sul profilo dello stesso migrante (età partenza, situazione lavorativa, profilo socio- culturale) e in ultimo, dunque, sui processi diasporici oggetto della nostra attenzione. Utilizzando il 1980 come data simbolo che segna il crinale tra una “vecchia” tipologia di migrazione e una “nuova” (capp. I-II-III), si potrà inserire la stragrande maggioranza degli intervistati di prima generazione all’interno della prima categoria. Tale distinzione, adottata unanimemente all’interno degli studi sulle migrazioni, qui risulta confermata dall’analisi del livello d’istruzione che, se nei casi più ricorrenti, è elementare e medio, per coloro che sono giunti dopo il 1980 è soprattutto superiore, universitario e, in maniera cospicua, post-universitario. Considerando all’interno dei dati generali l’età dei migranti al momento dell’arrivo a Vancouver desumiamo che il ventaglio parte dai 3 mesi fino a giungere ai 57 anni. È tra i 20 e i 21 anni di età che si registra il picco degli arrivi nella città canadese; questo dato è naturalmente in sintonia con la motivazione principale della migrazione, legata, ieri più che oggi, soprattutto a impellenti necessità lavorative. Se la stragrande maggioranza dell’universo intervistato è attualmente in pensione – come si può facilmente dedurre anche solo partendo dell’età media che si aggira intorno ai settant’anni – gli intervistati che ancora svolgono un’attività lavorativa sono
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territori e lingue in diaspora. italiani a vancouver
impegnati principalmente nei servizi, in secondo luogo, nel settore industriale, e non sembrano ricoprire, al di là dell’ambito occupazionale, ruoli di tipo dirigenziale. Compiendo anche in questo caso una comparazione a partire dalle età d’arrivo, a una prima analisi non sussiste, al di là della diversa formazione, un grande gap da un punto di vista occupazionale tra prima e seconda tipologia di migranti. Se però si svolge un’ulteriore analisi delle risposte fornite dagli intervistati giunti nella “prima ondata” prima dell’età lavorativa (15 anni), si potrà notare che coloro che sono cresciuti prevalentemente all’estero presentano un profilo scolastico medio-alto e un impiego legato essenzialmente al settore terziario, settore che, nelle società occidentale, ha ampliato nel tempo la sua capacità occupazionale. I “vecchi” migranti di prima generazione sono impiegati in maniera preponderante in ambito industriale, mentre la seconda generazione segue, da un punto di vista lavorativo, il trend tracciato dei migranti giunti a partire dagli anni ’80. La maggioranza dei lavori svolti da “vecchi” e “nuovi” migranti non ha nessuna attinenza con l’Italia; solamente l’attività di tredici intervistati si può porre, in qualche modo, in relazione con il paese d’origine, o perché la denominazione dell’attività è in lingua italiana, o perché la stessa è legata a importazioni dallo stivale, o a prodotti tipicamente italiani (pasta, pizza etc.), o perché i rispondenti sono insegnanti di discipline legate all’Italia. Le differenti epoche delle migrazioni sembrano aver avuto una diretta conseguenza anche nella collocazione interna dei migranti nelle differenti aree della città. Gli emigrati degli anni a ridosso del II dopoguerra scelsero di preferenza come luogo di primo stanziamento – come risulta anche dall’attento studio condotto da Jansen (1981) – l’area intorno a Commercial Drive; la zona a nord-est della città conosciuta, non a caso, come la Little Italy di Vancouver. Attualmente tale area, pur rimanendo un luogo carico di una forte presa emotiva per buona parte della comunità, non presenta più i tassi di concentrazione di italiani del passato. La maggior parte degli intervistati individua non a caso un doppio processo che ha coinvolto la scelta abitativa degli italiani lungo l’arco di cinquant’anni. Da un lato, i nuovi migranti giunti dagli anni ’80 hanno preferito, data la maggiore capacità di spesa, aree di pregio. Int: Quelli che sono venuti con i soldi e sono andati a vivere già nella casa di lusso, nella zona più lussuosa di Vancouver. […] questa è la gente che è arrivata ultimamente […] non sono emigrati, cioè quelli sono venuti qua, è stata una loro scelta149.
Dalle parole dell’intervistato emerge come anche nella percezione di alcuni emigrati vi sia una notevole differenza concettuale tra la mobilità in quanto tale e l’emigrazione che, per sussistere, deve rimandare inevitabilmente alla natura forzata (in termini economici) dello spostamento. Chi è giunto dopo una certa data e presenta un differente profilo socio-economico non può essere considerato dunque a buon diritto un emigrato. Tra le caratteristiche alla base della dinamica identitaria del gruppo, la migrazione come scelta obbligata (e quasi sempre sofferta) ha dunque un ruolo di primo piano. Inoltre, la contiguità abitativa, lungi dall’essere un mero
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Ritorna dunque, in maniera implicita anche nelle parole degli intervistati, la distinzione tra migrazione ed e-migrazione, quest’ultima caratterizzata dalla natura obbligata dello spostamento (cfr. p. 22; E? CORRETTO??).
Pratiche identitarie: reti, SIMBOLI, LINGUe
parametro locazionale, ha il potere di attivare processi identitari basati su rapporti di tipo solidaristico tra coloro che sono giunti in città nell’immediato secondo dopoguerra. La sistematica collocazione dei primi migranti a Commercial Drive non può infatti essere associata semplicemente al diverso valore dei terreni e all’indigenza economica: un profilo culturale medio basso, una scarsa (e a volte nulla) competenza comunicativa in lingua inglese, la necessità di inserirsi in tempi rapidi all’interno del mondo del lavoro motivano la necessità di ancorarsi, anche spazialmente, alla rete sociale offerta dai connazionali ivi stanziati. In una prima fase della migrazione, si assiste spesso a una fossilizzazione della rete amicale, costituita prevalentemente da italiani; rete che si configura come “[…] un legame di comunanza di natura strumentale” dato dal comune disagio di un’esistenza deprivata del senso di dimora e di certezza (Floriani, 2004, p. 83)150. Tramite il reciproco aiuto, coloro che vivono una stessa condizione esistenziale “di frantumazione” cercano di conquistare una qualche sicurezza socioeconomica, e, più in generale, di appartenenza comunitaria. [L]o spazio familiare e comunitario sarà utilizzato come luogo di ricostruzione dei valori e dei modelli culturali lasciati in partenza. […] Il confronto con la civiltà delle grandi industrie, anziché consumare, rese più duraturo il legame alle “radici”, ne fece una sorta di sopravvivenza collettiva. […] L’organizzazione dell’esistenza nel nuovo mondo per questi “americani”, non ebbe soltanto il segno nostalgico delle cose perdute, ma servì come “ritorno” alla propria origine e al proprio paese (Bianco e Angiuli, 1980, p. 9).
Non è un caso che la maggior parte degli intervistati abbia affermato di conoscere qualche altro italiano residente in città prima della partenza. Questo dato deve ritenersi lo specchio di quanto emerso in fase di lettura storica della problematica151, è una conferma, infatti, dell’esistenza di vere e proprie catene migratorie: l’esperienza di mobilità di qualche familiare, amico e/o conoscente risulta spesso una motivazione più che sufficiente per comprendere la singola scelta migratoria152 (Gozzini, 2005) e abitativa. Int: Non c’è più la concentrazione come erano una volta, perché una volta magari uno potrebbe avevano bisogno di appoggiarsi uno con l’altro, quindi erano tutti su Commercial Drive.
La Little Italy di oggi pur non presentando più una concentrazione di italiani paragonabile a quella del passato, permane come simbolo – o forse è più corretto affermare che è diventata il simbolo – degli italiani in città. La storia di Commercial
“[L]’idea di identità è nata dalla crisi della appartenenza e dallo sforzo che essa ha innescato per colmare il divario tra ‘ciò che dovrebbe essere’ e ‘ciò che è’, ed elevare la realtà ai parametri fissati dall’idea, per rifare la realtà a somiglianza dell’idea” (Bauman, 2003, p. 19). 151 La presenza di amici, parenti e compaesani è uno dei primi motivi che spiega la scelta del luogo in cui immigrare (Reyneri, 1979). 152 “A una concezione dello spazio in cui le distanze venivano misurate metricamente, si è venuta sostituendo […] una nuova concezione dello spazio non euclidea, basata sull’esistenza di trame relazionali che, dal punto di vista degli attori sociali, delineano le mappe dei percorsi, definiscono lo spettro delle opzioni possibili tra cui scegliere, orientano i movimenti, cioè la scelta delle destinazioni” (Ramella, 2003, p. 29). 150
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territori e lingue in diaspora. italiani a vancouver
Drive153, sembra testimoniare infatti la vicenda di una comunità che dal suo primo stanziamento si è poi diffusa nel tempo verso altre aree, conservando però, in questo luogo di primo approdo momenti di incontro, tra cui spiccano le partite di calcio trasmesse alla televisione in molti dei locali della via. Successivamente la presenza italiana avrebbe conosciuto dei processi (anche questi comuni ad altri gruppi migranti) di dispersione territoriale scandita dai tempi dell’integrazione culturale e sociale154. Int.: So che negli anni ’50 ’60 sono andati più verso la zona est di Vancouver, c’è una zona che si chiama Commercial Drive, […] però Est Vancouver è considerata come una zona povera di quello magari di Nord Vancouver, e allora negli anni ’80 o ’90 si sono traslocati nella zona di Nord Burnaby, dove abito io, dove ci sono tanti italiani, che si sono distaccati con la zona di Vancouver Est perché adesso sono più ricchi, hanno una vita migliore insomma.
Se si confrontano i processi di mobilità dei primi arrivati con le scelte abitative dei migranti giunti a partire dagli anni ’80, si comprendono le principali motivazioni di questi processi di dislocazione. La comunità italiana di Vancouver, da un punto di vista numerico e di dispersione territoriale, è molto differente da quella delle aree orientali del Canada, caratterizzate da una presenza di immigrati più consistente (Jansen, 1981). Tale aspetto ha importanti ripercussioni sulla conservazione di tratti culturali e linguistici, oltre che sulla frequenza di contatti con l’Italia155: V. Serviziati: A Toronto ci sono statisticamente mezzo milione di italiani. [A Vancouver] la densità è molto inferiore di conseguenza anche il mantenimento di certe tradizioni, dei luoghi d’incontro o la facilità di organizzare qualcosa insieme è ridotta. R.Vultaggio: Siamo più integrati per il numero […]. In tutto l’Ontario c’erano due milioni di Italiani e quindi tu non hai bisogno neanche di parlare in inglese.
Commercial Drive viene vista come il luogo “ghetto” o, per alcuni, con declinazione nostalgica, come la “casa protettiva”. Si vedano a riguardo le parole di Vito Bruno: V. Bruno: “Commercial era pieno pieno di tutti di italiani, negozi, ristoranti, ma non è rimasto non c’è più, è rimasto sì, si ricorda quella piccola Italia si va solo a celebrare quando ci sono un grande evento come i mondiali di calcio, si va per festeggiare. […] Sono rimasti solo cinque, sei ristoranti, ma è finito, non c’è più. […] C’è solo il nome come simbolo La piccola Italia, ma non c’è niente”. 154 Sulla relazione esistente tra le scelte localizzative e i processi di integrazione socio-ecomica delle comunità immigrate si rimanda al testo di David Ley (1983). 155 I problemi della distanza si traducono in una serie di difficoltà che la parte ovest del Canada sembra affrontare rispetto a quella est. R. Di Trollio, a tale proposito, afferma: “Per esempio, mentre a Toronto o a New York, il Corriere della Sera o la Repubblica arriva lo stesso giorno, a noi ci arriva dopo una settimana e quindi non tutti hanno accesso, vabbè che oggi con internet uno può informarsi in tempo reale, ma non tutti hanno l’accesso al computer, non tutti sanno usare il computer, la differenza e poi ripeto viviamo, siamo sommersi, come tu hai visto in giro per la British Columbia, noi siamo pieni di Asiatici, quindi mentre a Montreal ti senti un po’ più in Europa qui invece:, a volte, spesso ti sembra di stare ad Hong Kong invece di stare a Vancouver, quindi questa è la differenza, la grande distanza, il fuso orario che è diverso da Montreal e Toronto e il collegamento con l’Italia non c’è dal punto di vista di aerei, noi dobbiamo per forza fare gli scali, non c’è un volo diretto che va in Italia, quindi dobbiamo fare per forza Londra o Amsterdam o Francoforte mentre tu da Toronto, New York vai direttamente in Italia, quindi queste sono le differenze”. 153
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Naturalmente, nonostante la minore concentrazione spaziale e il numero più esiguo di italiani o di persone di origine italiana, anche la città di Vancouver presenta aree in cui è possibile ravvisare dei siti, se non di insediamento, di maggiore frequentazione di parte della comunità. Posti di fronte alla domanda relativa alle forme di aggregazione di gruppi di italiani in città, gli intervistati hanno risposto facendo riferimento a luoghi istituzionalizzati (come le associazioni), a quelli che potremmo definire “spontanei” (come parchi e bar) e a eventi come feste o cerimonie ospitati in vari luoghi, primo tra tutti l’Italian Cultural Centre. All’interno dei due piani qui considerati (forme spontanee e istituzionalizzate d’incontro), si può riscontrare, lungo il dispiegarsi degli anni, un decremento delle forme di aggregazione spontanea a favore di una gestione maggiormente pianificata e istituzionalizzata affidata a quella trama di associazioni dal carattere regionale (e non) che trova nel Centro il luogo di sintesi e di incontro. È difficile non leggere un nesso tra tale aspetto e il precedente: il dispiegarsi, nell’arco di tre decenni, di forti processi di integrazione ha reso meno necessarie forme spontanee di supporto reciproco, che si ponevano come indispensabili durante la prima fase di insediamento dei nuovi arrivati. Infine, la necessità di una rete di supporto di connazionali sembra esser stata meno avvertita da coloro che hanno compiuto l’esperienza migratoria a partire dagli anni ’80 e il cui processo d’integrazione nella vita sociale della città sembra aver seguito percorsi differenti e più agili. Non stupirà dunque che gli intervistati citino come primo luogo d’incontro degli italiani in città il grande centro comunitario. L’Italian Cultural Centre, definito come “il grande ombrello” che abbraccia le varie associazioni (Vultaggio, Bruno, De Lucio), prevede all’interno delle sue mura varie occasioni di incontro (cfr. cap. IV); tra queste spiccano per importanza le celebrazioni del 2 giugno per la festa della Repubblica e gli eventi organizzati a scadenza regolare dai circoli regionali che fanno a esso capo. A essi si affianca la settimana italiana, che si festeggia a scadenza annuale a giugno (Lombardi, Bruno). Il processo di istituzionalizzazione dei momenti d’incontro, risulta un fatto recente, sconosciuto nell’immediato secondo dopoguerra, un esempio significativo è costituito dalla settimana italiana: M. Lombardi: When I was a young boy, there was not ICC, everybody just going to different places, you go meet your friends, you go to the coffeeshops, was more informal, but now […] once the ICC got built many people have the place where can organize themselves so its started with 3 clubs and now it are 33 clubs and then clubs organize themselves creating a group like Basilicata Association and now they do think in a structured and organized way.
Per comprendere il quadro entro cui si è svolto tale processo di istituzionalizzazione, dobbiamo ricordare quanto detto in precedenza sul ruolo svolto in Italia a partire dagli anni ’70 dalle Regioni, che hanno accompagnato e alimentato il processo di istituzionalizzazione su base regionale di club e associazioni all’estero (cfr. cap. I), e sulla politica multiculturale canadese che, durante lo stesso trentennio, ha perseguito una politica di supporto all’istituzionalizzazione di associazioni di migranti su base nazionale (cfr. cap. III). Anche se gli incontri coincidono sempre più con le attività organizzate dalle istituzioni – accanto al Centro e alle associazioni regionali, l’Istituto italiano di Cultura, il consolato, i COMITES (Di Trollio), i patronati (Serviziati) – sono ancora documen-
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tabili forme spontanee di aggregazione in luoghi come Confederation Park (indicato da Lombardi) e Victoria Park (indicato da De Lucio). L’utilizzo non pianificato di aree dei parchi per il gioco delle bocce è, ad esempio, ricordato come un elemento caratterizzante, che esplicita la presenza a Vancouver degli italiani156 (il gioco delle bocce è peraltro ampliamente praticato, come già ricordato, anche all’interno del Centro). La spontaneità di tale luogo d’incontro trova riscontro nella natura improvvisata del campo di bocce. V. Serviziati: Gli anziani amano giocare a bocce, e quindi loro spesso (ride), adesso io scherzo, ma in un certo senso si appropriano di parte di un campo pubblico e ne fanno un campo da bocce e lì si incontrano tutte le mattine.
Il campo da bocce diventa dunque una marca di identità territoriale (Minca, 2001) italiana nel nuovo contesto. Attraverso l’atto di appropriazione territoriale, descritto con malcelata approvazione da V. Serviziati, si negozia infatti la propria identità in contesto migratorio e lo si fa non creando dinamiche conflittuali con la popolazione ivi stanziata (che non sono documentabili per i casi specifici), ma trasferendo un’attività ludica conosciuta in Italia in un nuovo territorio, rendendola nel tempo parte di esso e della sua storia. Altri luoghi attraverso cui la comunità ha costruito le quinte della propria esperienza migratoria cambiando la fisionomia di Vancouver sono le aree residenziali di Burnaby, di Coquitlam e alcuni bar di Commercial Drive che ancora oggi, seppur con una frequenza minore rispetto al passato, rivestono una funzione di comunione per parte degli italiani (rappresentati soprattutto da uomini pensionati che spesso si attardano nei bar per guardare insieme gli avvenimenti sportivi italiani). Tali luoghi sono in qualche modo considerati dalla comunità (e spesso anche dalla società d’accoglienza stessa) parte integrante della sua storia in città. Per tale motivo, durante l’intervista è stato chiesto di indicare i “luoghi dell’italianità” presenti nella città di Vancouver. Con il termine sono stati identificati i siti che nella storia della comunità rappresentano oggi (e spesso anche in passato) delle vere e proprie emergenze spaziali attraverso cui il gruppo di emigrati si è radicato nel territorio di nuovo stanziamento. Tali emergenze sono dunque sia luoghi di spazio vissuto della comunità che, contemporaneamente, simbolo dell’identità del gruppo stesso (Caldo e Guarrasi, 1994). Attraverso essi, infatti, il gruppo palesa la propria presenza all’interno di un contesto inizialmente straniero. L’importanza di questi luoghi si comprende se si calcola che: “[l’Italia] non è più [solamente] memoria dell’altrove, ma storia di “noi in questo posto”, del passato recente nel quale si è costruito ciò che qui e ora si è e si ha” (Signorelli, 2009, pp. 97-98). Tali spazi fisici, riconosciuti come “luoghi italiani”, sono pertanto beni della comunità che in essi si riconosce e attraverso essi si manifesta e alimenta un senso collettivo di appartenenza al gruppo (Fortier, 2001). Gli intervistati individuano tre aree simbolo della propria storia a Vancouver; nell’ordine: l’ICC, Commercial Drive, l’Istituto italiano di Cultura/Consolato (fig. 4).
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Il gioco delle bocce è appannaggio soprattutto della fascia anziana della popolazione italiana maschile, di quella giunta in particolar modo prima degli anni ’80.
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Fig. 4. Vancouver. I luoghi della comunità italiana.
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Non è certo inaspettato il dato che vede come risposta maggioritaria l’ICC. Il Centro, sede principale in cui è stata svolta la ricerca, è sicuramente il sito che – data l’ufficialità della sua presenza in città, le attività che in esso prosperano e la grandezza della sua struttura – concretizza la presenza italiana a Vancouver. Non è un caso che gli altri due luoghi di rappresentanza, il Consolato e l’Istituto italiano di Cultura, abbiano ottenuto un ragguardevole numero di risposte a tale quesito. È però necessario soffermarsi sul secondo luogo scelto, Commercial Drive, l’unico della lista che non rimanda a un edificio unico né, tanto meno, a un luogo investito di una qualche ufficialità istituzionale.
Foto 2. e 3. Due immagini della “Little Italy” di Vancouver: Commercial Drive.
Attraversare ancora oggi Commercial Drive senza accorgersi del palese richiamo dell’area all’Italia è impossibile (foto 2 e 3). La zona, lo si è detto, ha visto storicamente la presenza dei migranti italiani soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, divenendo nota proprio per la forte concentrazione degli italiani nell’area (Jansen, 1981). Durante i primi anni dell’esperienza migratoria, la zona assicurava ai lavoratori italiani quella solidarietà e facilità di comunicazione che poteva fornire un luogo con un’alta concentrazione di connazionali. La presenza di attività commerciali come bar e, inizialmente, supermercati, dava inoltre la possibilità ai migranti di continuare a mantenere legami col proprio contesto d’origine sia per quanto riguardava gli usi culinari che le abitudini di vita (per esempio la frequentazione del bar come luogo di incontro maschile). Commercial Drive rientra in molti discorsi degli italiani della comunità, soprattutto dei lavoratori della prima fase della migrazione, quelli che sembrano esprimere un forte rammarico perché l’area non è più quel luogo “dell’italianità” che era un tempo. In riferimento a un tempo che viene genericamente individuato negli anni ’70 o “quando sono arrivato all’inizio”, l’area di Commercial Drive è descritta come il
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fulcro della presenza e della vita sociale della comunità italiana (intesa in senso lato a prescindere dalla presenza di circoli istituzionalizzati che, per altro, come detto, all’epoca scarseggiavano). I racconti ravvisano una delle cause della “decadenza” della presenza degli italiani nell’area nel trasferimento di questi ultimi in aree residenziali della città, soprattutto nell’area di Burnaby157, per motivi che sono principalmente legati alla migliore qualità della vita in questi quartieri. L’area comunque, rimanendo l’emblema in parte anche commerciale del Made in Italy a Vancouver, presenta ciò che Papotti (2004) denominerebbe un ethnoscape ben definito. In questo senso, Commercial Drive è un “varco di visibilità” della comunità stessa all’interno della società di insediamento e, per questo stesso motivo, diventa un luogo simbolico che materializza all’interno del tessuto urbano la presenza del gruppo in questione. Quest’area di Vancouver, sebbene oggi non sia più area di primo approdo dei nuovi arrivati, e nonostante anzi abbia visto un’ondata di trasferimenti degli italiani verso altre aree di Vancouver, può essere fatta rientrare, comunque, nel ben noto fenomeno dell’ethnic business, cioè delle aree commerciali esplicitamente connotate in termini etnici (ibidem). La presenza di insegne in lingua italiana, di prodotti Made in Italy e di bandiere italiane lungo la via resiste nel tempo a dispetto della stessa gestione delle attività che nel tempo sono passate di mano spesso a titolari senza alcuna origine italiana. Per un osservatore esterno, al di là dell’uso per fini commerciali dell’“italianità” dell’area, permangono dunque evidenti elementi di rimando all’Italia e ad alcune sue regioni. I bar presenti nella strada ancora oggi, seppur probabilmente con una frequenza non paragonabile al passato, ospitano televisori sintonizzati su avvenimenti sportivi italiani e risultano ancora luoghi di incontro comunitari; come ho avuto modo di riscontrare durante l’osservazione partecipata, udendo più volte in tali contesti l’utilizzo della lingua italiana. 2. Contatti tra la comunità e l’Italia Forti e chiare risultano, da un punto di vista istituzionale, le interconnessioni tra l’Italia, soprattutto alla scala regionale, e l’associazionismo all’estero. La maggiore istituzionalizzazione dei momenti d’incontro comunitari e l’incremento di eventi e progetti sono da collegarsi a quanto riferito nel capitolo I sul ruolo sempre più forte delle Regioni nella gestione dei rapporti con i propri corregionali all’estero. I motivi alla base di questo rinato interesse sono compositi. È però degno di attenzione in questa sede il fatto che a partire da questa gestione regionalista non si dispiega senza problemi (Garavini, 2007). Soprattutto i giovani di seconda generazione, che sembrano non aver sviluppato forme identitarie di tipo regionalistico data anche la lontananza dal contesto italiano, si mostrano spesso contrariati per le differenti opportunità offerte ai cittadini italiani in base all’origine regionale.
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La città di Burnaby – che con i suoi 216.336 abitanti è la terza città più popolosa della British Columbia, dopo Vancouver e Surrey – si trova immediatamente a est di Vancouver.
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R. Di Trollio: Spesso noi vedevamo che per esempio la Sardegna faceva delle cose che non faceva la Campania, allora i ragazzi Campani si sentivano discriminati, loro non capivano la differenza tra Lombardia e Sardegna, loro dicono io sono italiano come sei italiano tu. Quindi noi per superare il regionalismo […] spingiamo affinché le Regioni, attraverso gli organi di rappresentanza, CGIE oppure Ministero degli Esteri, facciano progetti comuni per far accedere tutti gli Italiani non solo i loro corregionali di origine.
Le Regioni, che a partire dagli anni ’70 ricercano fortemente un legame solido con gli emigrati all’estero (non è un caso che molte associazioni nascano non dal basso, ma da precisi input provenienti dall’Italia), suscitano con il loro agire differenti reazioni, spesso antitetiche. In molti casi, il rapporto tra le Regioni e le associazioni non viene visto come lesivo della trasparenza dei rapporti tra la comunità all’estero e l’Italia, ma anzi come motivo di orgoglio per l’emigrato e come base per rinsaldare i legami tra contesto di nascita e contesto d’arrivo. In altri casi si palesa una lucida analisi su come spesso, dietro discorsi di tipo identitario, si celino rapporti di interesse squisitamente economico, all’interno dei quali le associazioni compaiono principalmente come una vetrina pubblicitaria a basso costo di prodotti locali (Gertler, 2008) (cap. I, par. 4). Int.: Oh! It’s good for Sardinian business, you know? It’s good for Sardinian business. Sardinian products to Vancouver… la bottarga, l’oliva” […] This is how they sell giving us the right to vote! We are Italy’s big resorts, we speak english, we work out in the world, we are considerated a financial interest because we have an advance, […] we doing a business outside Italy.
Impostazioni così divergenti denotano vari approcci da parte delle singole associazioni, e insieme differenti atteggiamenti dei singoli rispetto alla prospettiva di essere un “ambasciatore” del contesto d’origine. Il fatto che l’ultima intervistata sia una giovane di seconda generazione non è casuale e la dice lunga su uno degli elementi che possono scoraggiare la frequentazione di questi centri di attività: risulta spesso rifiutata la promozione regionale per un giovane d’origine italiana che la maggior parte delle volte nulla sa di tale articolazione amministrativa e che potrebbe domandarsi perché “l’amore per il contesto d’origine” debba esplicitarsi in pratiche commerciali o di sponsorizzazione turistica158. Le relazioni intessute tra contesto d’origine da una parte e luogo di vita dall’altro non sono costituite solamente dai rapporti più o meno istituzionalizzati tra le associazioni e il contesto d’origine, ma anche attraverso reti di contatto quali la visione di programmi televisivi italiani e la lettura dei giornali, e dall’uso che di essi viene fatto dalla comunità. Si è cercato di comprendere in che modo questi strumenti avessero un peso nel mantenere, rinsaldare o creare, relazioni con i contesti d’origine. La maggior parte degli intervistati consulta con una certa regolarità le riviste e i programmi televisivi italiani. Per quanto riguarda i format televisivi, se a partire dal 1984 vanno in onda, in alcune fasce orarie, spettacoli in lingua italiana all’interno di Telelatino159, da più di cinque anni Rai International è giunta anche in quest’area del
La presenza di conflittualità tra nuova e vecchia generazione nella gestione dei circoli è attestata in maniera trasversale in molti contesti, non solamente a Vancouver; cfr. Callia, 2009. 159 La stazione televisiva Telelatino desidera porsi come uno strumento di connessione tra prime, seconde e terze generazioni italiane e ispaniche, due delle principali comunità immigrate in Canada 158
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paese, dopo una lotta che ha coinvolto in prima linea la stessa comunità italiana160. La presenza della programmazione Rai, ventiquattro ore su ventiquattro, ha sicuramente avuto una grande ripercussione nell’agevolare un legame più frequente con il contesto d’origine e con la lingua italiana, permettendo a un numero maggiore di persone di entrare in contatto con le problematiche di cronaca politica e non solo. Inoltre, una rete di informazioni sistematica è stata senz’altro utile in un momento in cui anche all’estero si è ormai decretato il diritto al voto (cfr. cap. III)161. Circa metà degli intervistati ha votato alle elezioni del 2006 e una percentuale leggermente più alta contava di farlo alle successive162. La ricerca si è svolta inaspettatamente, data la caduta del governo Prodi, durante il periodo di campagna elettorale prossimo alle elezioni del 14-15 aprile 2008. La reazione emersa in maniera più netta, all’interno della popolazione d’età medio alta presente al Centro di cultura, è stata di forte avversione alla possibilità di votare, che sembrava più che altro un problema, un’imposizione più che un diritto, fonte di forti turbamenti. Aspetto segnalato è stata l’incomprensione, espressa da alcuni, circa i motivi per cui coloro che abitano in un altro Stato debbano (o possano) votare per un altro di cui non conoscono direttamente le dinamiche politiche interne (al di là di motivi di cittadinanza, che non sembrano in quest’ottica, sufficienti)163. Il diritto al voto avrebbe inoltre creato dei processi disgreganti all’interno del gruppo a causa di rinate divisioni di tipo partitico: R. Vultaggio: Prima di ciò gli italiani all’estero non sentivano la politica, capisci? Non la sentivano perché non gliene fregava niente, non gliene frega niente, cioè tanto noi non viviamo in Italia […]. Ora hanno risposto bene come voto però il male è stato che i candidati si sono
(http://www.coruscustomnetworks.ca/telelatino.php). Telelatino, con sede a Toronto, trasmette programmi della tv italiana (Rai, Mediaset e Sky), ma anche spagnola e tedesca, con un 25% di programmazione in lingua inglese. L’emittente è gestita dalla Corus Entertainment, in mano a tre italiani Italo Rosati socio di maggioranza, Romeo Di Battista e Giuseppe Vitale. Il ruolo di presidente è ricoperto da Aldo Di Felice. 160 Rai International trasmette in tutto il mondo una selezione dei programmi della Rai Radiotelevisione Italiana. L’emittente è nata nel 1995 prendendo le mosse dalla precedente esperienza Direzione Esteri della Rai. Da tale data, in convenzione con la Presidenza del Consiglio, si prefigge di sviluppare la presenza del Servizio Pubblico nella distribuzione radiotelevisiva internazionale sia come ponte tra le collettività italiane all’estero sia come canale di diffusione internazionale dei programmi italiani (http://www.international.rai.it/aree/americhe/index.shtml). La lingua della programmazione di Rai International è l’italiano; per alcune trasmissioni vengono offerti i sottotitoli in inglese. Due flash informativi pomeridiani sono in lingua spagnola e altrettanti in inglese e francese nella fascia serale durante il “Notturno italiano”. Rai International ha tre canali televisivi RaItalia 1 e 2 destinati rispettivamente alle Americhe e all’Australia e RaItalia 3 che trasmette in Oceania, Asia e Africa. Si ricorda inoltre che in tutti gli Stati in cui vi è la presenza di una comunità italiana sono presenti emittenti radiofoniche e televisive che trasmettono anche in lingua italiana; il Ministro degli Affari Esteri ha censito 495 radio e 275 televisioni (Milana, 2009). 161 Le vicende italiane, politiche e non, trovano un canale di diffusione, anche se secondario rispetto alla Rai, nei due giornali comunitari: il Marco Polo e il Campanile. Questi giornali presentano articoli relativi ai principali fatti di cronaca italiani e a quelli della comunità italiana di Vancouver. 162 Il dato è altamente positivo se si valuta che solamente 75 persone, tra le 166 intervistate, possono espletare il diritto al voto in quanto possiedono la cittadinanza esclusivamente italiana (15 persone) o italo-canadese (60 persone). 163 Qui si colgono le diverse anime del diritto alla cittadinanza; ricordiamo che l’Italia riconosce lo jus sanguinis ovvero la cittadinanza ottenuta attraverso la discendenza familiare (Legge 5 febbraio 1992, n. 91, Nuove norme sulla cittadinanza).
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presentati in partiti diversi dove hanno diviso in un certo senso gli italiani all’estero che prima erano uniti, capito?
La possibilità di prendere parte alle elezioni politiche o ai referendum, che ho visto fortemente avversata da buona parte delle persone della comunità164 (eccezion fatta per coloro che ricoprono un ruolo in qualche modo di leadership all’interno della stessa), sembra aver costituito comunque, nel bene e/o nel male, un ulteriore canale di collegamento tra il qui e il là. Le interviste hanno evidenziato anche l’esistenza di reti create da flussi di rientro verso l’Italia, sia di natura momentanea (viaggi) che permanenti (migrazioni di ritorno). Anche gli attori privilegiati riscontrano notevoli flussi di mobilità temporanea verso l’Italia (Di Trollio, Lombardi, Fogale, De Lucio); tale fenomeno è indubbiamente agevolato dai mezzi di trasporto sempre più veloci e meno cari che un tempo come l’aereo165 (Vultaggio). Data la distanza tra il nostro Paese e la sponda pacifica del Canada e il profilo socio-economico (oltre che l’età media) degli intervistati, è facilmente comprensibile la scarsa frequenza dei ritorni che, per la maggior parte, è inferiore a una volta all’anno. È in ogni caso significativa la presenza di un buon numero di intervistati che rientra da una a due volte l’anno. Il tempo di permanenza in Italia è quasi per tutti di lungo periodo, ovvero più di un mese; la durata del soggiorno tende dunque a compensare la non altissima frequenza e il costo (in termini economici e di tempo) dello spostamento. I motivi alla base del ritorno, sia esso sporadico o più frequente, sono vari; quello più ricorrente è il desiderio di rivedere la famiglia166 e non è dunque un caso se il luogo di vacanza prescelto è, nella stragrande maggioranza dei casi, la città/il paese di provenienza. Molto spesso accanto a essi viene indicata la località d’origine del partner, che per la maggior parte delle persone è italiano167. Oltre ai motivi familiari del viaggio compaiono quelli turistici, mentre quelli lavorativi vengono individuati raramente; in molti casi i motivi familiari e turistici sono chiaramente compresenti; ovvero l’emigrato, pur giungendo in Italia per riabbracciare la famiglia, approfitta dell’occasione per visitare anche altre aree del paese168.
Nonostante questo, dalle interviste è emersa un’ampia partecipazione al voto. Anche se più volte sono emerse le lamentele di varie persone per la mancanza di un volo diretto che colleghi la città di Vancouver all’Italia. 166 I contatti con i familiari sembrano essere essenziali per la maggior parte degli intervistati; vengono conservati infatti costanti rapporti con i parenti rimasti in Italia, principalmente via telefono. Ma è interessante rilevare che internet si attesta come secondo mezzo di contatto prescelto, superando di gran lunga, ad esempio, la posta. 167 I soggetti presentano un altissimo tasso di endogamia di gruppo, ovvero di matrimoni tra connazionali, soprattutto coloro che sono giunti in città in età adulta. Tale elemento è importante per la comprensione del mantenimento di alcune peculiarità culturali, prima fra tutte la lingua. Una tale differenza è facilmente comprensibile se si considera che coloro che sono giunti a Vancouver in tenera età hanno avuto modo di tracciare una propria rete amicale e di conoscenze in maniera più ampia nel contesto sociale di nuovo inserimento. 168 C. Fogale: “Direi che è piuttosto per i parenti […] però anche è impossibile non scoprire le bellezze d’Italia, quindi siamo andati a Roma, Firenze, poi i miei con i miei fratelli sono andati a Sorrento, a Capri […] io sono andata dappertutto e mi piace un sacco vedere tutto quello che c’è”. 164 165
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Naturalmente le frequenze dei viaggi variano da caso a caso, ma si possono comunque identificare almeno due comportamenti tra i migranti: coloro che tornano mediamente ogni due tre anni e quelli che hanno trascorso la maggior parte della vita senza più tornare in Italia. Int.: Ci stanno quelli come me che tornano tutti gli anni e quindi mantengono nel limite del possibile un rapporto aggiornato con la propria città, gli amici, i parenti, eccetera. E poi ci sono quelli che tornano ogni 20 anni, ogni 30 anni e logicamente è una grande festa quando tornano per loro e per chi li accoglie in Italia. Però logicamente hanno un’idea dell’Italia molto vaga, perché loro sono rimasti appunto al momento in cui sono arrivati qui, però la nazione logicamente come tutte va avanti quindi queste sono le due categorie insomma.
Gli intervistati, soprattutto gli attori privilegiati, sembrano rispondere meglio alla prima tipologia, ma durante l’osservazione partecipata è stato possibile conoscere direttamente anche persone che ormai da decenni non facevano più ritorno in Italia. Si tratta soprattutto di persone di età avanzata (circa 80 anni), giunti prima degli anni ’80. È difficile comprendere i motivi di una tale cesura; essi sono spesso molteplici e tra loro interrelati. Sicuramente le difficili condizioni economiche iniziali non hanno permesso negli anni frequenti ritorni; ci sono stati inoltre motivi di natura psicologica, che vengono qui riportati così come sono stati raccontati perché, nella loro drammaticità, rendono conto della difficoltà in cui spesso versa l’emigrato. Ci sono coloro che nel momento in cui hanno lasciato l’Italia, vista come un genitore che non dava sostentamento al figlio, si sono sentiti traditi, hanno sofferto le pene che può sentire un figlio rinnegato o abbandonato da una madre che è più che altro una matrigna. Alcuni, nel momento in cui hanno girato le spalle al proprio paese, hanno quasi giurato, in un atto di stizza, che esso non li avrebbe più rivisti. Ed è così, per mantenere tale promessa – che in realtà si pone come catarsi da un dolore troppo forte che verrebbe risvegliato dall’atto del ritorno – che alcuni hanno vissuto “la nuova vita” cercando di cancellare il ricordo di un luogo lasciato in maniera forzata, un luogo che avrebbe dovuto rispondere alle esigenze dei propri figli e che si è reso colpevole di non averlo fatto. Ritorna qui in scena la natura obbligata della migrazione e l’idea dello sradicamento come sofferenza insanabile. Si annoverano varie storie che evocano un contesto molto simile a quello appena esposto. L’atteggiamento di ostilità verso la propria terra d’origine si è spesso tradotto in una chiusura anche rispetto ai propri connazionali e a tutto ciò che potesse in qualche modo ricordare il passato169.
V. Serviziati: “Io credo che ci sono due tipi di italiani con un sentimento diverso nei confronti dell’Italia. C’è quello che ogni volta che si parla di Italia gli vengono le lacrime agli occhi, no? perché gli manca tantissimo per tanti motivi, però non ce può tornare. Poi c’è l’italiano che, non so o per motivi burocratici o per motivi politici, per tanti motivi, e ha deciso di lasciare l’Italia con un senso di rabbia e in un certo senso di disgusto, e poi non ha più voluto avere rapporti né attraverso il consolato, per dire a livello formale con l’Italia e a volte addirittura nemmeno con gli altri italiani. […] Queste persone qui hanno anche un senso di risentimento nei confronti dell’Italia perché hanno la sensazione di essere stati constretti a venir a lasciare l’Italia […]. Forse dietro c’è la spiegazione che anche loro vogliono bene all’Italia e allora si sentono come figli un po’ negletti, un po’ abbandonati, fondamentalmente ci sono questi due tipi di atteggiamento”.
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Non sarebbe corretto però appiattire semplicisticamente coloro che hanno trascorso una vita senza far ritorno in Italia sulla categoria di coloro che hanno sviluppato una qualche forma di ostilità nei suoi confronti. Molti sentivano il ritorno come doloroso anche a prescindere da un sentimento di rabbia; anzi, molto spesso il sentimento strutturato nei confronti delle proprie origini dai vecchi migranti è stato di tipo nostalgico, riguardo alla mamma “lasciata a casa”, abbandonata. Da notare come la metafora della terra d’origine come matrigna o madre, come fonte di rabbia o di dolore nostalgico, sembri fortemente presente nei migranti italiani giunti nei più disparati contesti (Floriani, 2004). Anche la presenza, all’interno di una stessa intervista, di entrambi i sentimenti contrastanti, serve a rimarcare quanto la diaspora medi in una continua tensione le differenti esperienze di separazione e di intreccio tra il luogo di residenza e quello d’origine (cfr. p. 20 E’ CORRETTO??). All’interno di una tale cornice emotiva, la paura del ritorno può avere vari motivi; una signora racconta, ad esempio, che suo marito non vuole più tornare in Italia perché si vergogna dei tratti americani impressi nel suo parlare (i più frequenti dei quali vi sono “ya”, “you know?”) o che teme traspaiano dal suo comportamento. La paura di non essere più adeguati nel contesto di partenza – molto spesso idealizzato – il terrore di essere scherniti o peggio ancora esclusi, di apparire “stranieri in patria” o, all’opposto, la paura di non ritrovarla più, spesso sono motivi altrettanto presenti quanto la rabbia, per comprendere queste lunghe assenze. Queste persone inoltre, molte delle quali sembrano ancora esitanti nella scelta di una visita o meno in Italia, sono anziane e con difficoltà affronterebbero un viaggio che, tra tempistica dei voli e cambi necessari, dura quasi ventiquattro ore. Inoltre, dato che il motivo principale addotto da coloro che tornano è il ricongiungimento con la famiglia, per alcune persone oggi anziane, la morte di parenti prossimi (come i genitori o i fratelli), ha comportato un progressivo diradarsi dei ritorni. Sul fronte dei rientri permanenti – quelli che gli studiosi della mobilità definiscono “migrazioni di ritorno” – la maggior parte è concorde nel ritenerli molto scarsi, quasi inesistenti (Bruno, De Lucio, Di Trollio, Fogale) sottolineando che il Canada, e in particolar modo Vancouver, rappresenta un luogo di vita ideale, che difficilmente può invogliare a progetti di rimpatrio170. Viene inoltre segnalata da più voci, così come spiega egregiamente Vultaggio, la presenza di trasferimenti in Italia non andati a buon fine, seguiti pertanto da una nuova migrazione a Vancouver. R. Vultaggio: È difficile [ri]abituarsi […] l’Italia non è quella che tu pensi che sia, è quella che è quando la trovi, quando ci vai, quando ritorni, quella è l’Italia che non è la stessa di quella che tu sogni. […] È la stessa cosa quando due si innamorano e non vivono insieme, allora uno tende ad idealizzarla questa persona, a farla più bella di com’è, poi quando ci vivi sotto lo stesso tetto diventa tutta un’altra storia (ride).
Questo brano, ricco di numerosi spunti d’analisi anche grazie all’uso metaforico costante nel parlato del giornalista siciliano, introduce un tema frequente: l’idealizzazione del contesto d’origine. Tale tema sembra di intensità inversamente
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Ricordiamo che il rapporto 2010 della Mercer Human Resource Consulting ritiene Vancouver la città con la più alta qualità della vita al mondo.
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proporzionale alla frequenza dei ritorni, elemento a sua volta fortemente legato al profilo del migrante (come abbiamo argomentato nella parte teorica; cap. I). L’idealizzazione sembra in effetti corroborata dal non ritorno nella realtà d’origine. Il fatto di avere un certo tipo di Italia nel cuore e nella mente, e di non confrontare le immagini mentali con immagini e situazioni di vita reali, sembra elemento che motiva la delusione che ha colpito alcuni emigrati di ritorno171. Un’espressione concisa, ma efficace in proposito è la definizione di questa tipologia di persone come “doppiamente emigrate”. Tale definizione richiama sia una delle affermazioni più ricorrenti degli emigrati di Vancouver “Non siamo italiani, ma non siamo ancora Canadesi”, sia il titolo dell’opera di Sayad “La doppia assenza” (Sayad, 2002) (cfr. p. 20 E’ CORRETTO??). L. Fronteddu: La difficoltà di un emigrato è che non si è capiti nel paese che ci ospita e non si è capiti nel paese d’origine. Nel paese che ci ospita ci sono tante tradizioni così diverse che ci vuole veramente tempo per abituarsi per conoscerle e ci vuole tanta forza e tanta buona volontà, e nel paese d’origine si pensa all’emigrato sempre nel modo migliore “Oh! è partito, sta bene, ci hanno tanti soldi” come se i soldi crescessero negli alberi. E non sanno che è frutto anche il nostro viaggio fatto di ritorno a casa che poi è una necessità, non è una vacanza è una necessità il viaggio fatto di ritorno […] è fatto con tanti tanti sacrifici.
E questo dramma sembra delinearsi in tutta la sua forza con la ricerca del ritorno; ritorno che si vuole porre come ricucitura dello strappo della migrazione, ma che palesa l’idealizzazione di una realtà che nel frattempo è cambiata (sempre che sia mai esistita con i profili disegnati dall’immagine mentale nostalgica): “[…] l’Italia non è quella che tu pensi che sia, è quella che è quando la trovi, quando ci vai, quando ritorni, quella è l’Italia che non è la stessa di quella che tu sogni” (Vultaggio). Si è parlato di memoria territoriale e di come essa venga elaborata a partire dai sentimenti di nostalgia, paura, desiderio, rimorso etc., che si sviluppano durante le differenti esperienze migratorie (cfr. p. 51 E’ CORRETTO??). L’unico tra gli attori privilegiati che ha mostrato di percepire un importante flusso di rientro è V. Serviziati172. Coloro che hanno consumato l’esperienza migratoria in breve tempo, tornando in Italia dopo qualche anno, non sono rimasti molto impressi all’interno della storia comunitaria, e forse questo fatto motiva la percezione degli
E. Onesti: “Sei mai stata all’osteria qua? dovresti passarci perché è cioè, è completamente… non sono più italiani né sono canadesi, capito? perché […] sono venuti qui quarant’anni fa e non sono mai tornati in Italia, per cui la loro idea dell’Italia è l’Italia di cinquant’anni fa, hai capito? E quindi, non so! È come fermare una cultura che in un certo senso non esiste più nemmeno in Italia… non esiste quindi più”. 172 V. Serviziati: “Sì, dunque diciamo che ci sono varie fasi, dunque, c’è quello che viene qui cerca di resistere, dopo un anno due anni scappa. […] Poi sono quelli che fanno avanti e indietro no? stanno qui anche 5 anni, magari fanno anche, diciamo, abbastanza successo però c’è sempre diciamo, mamma Italia, e allora tornano in Italia, poi in Italia non ci si ritrovano più e ritornano qui e sono capaci di farlo tre, quattro volte nell’arco di una vita, poi c’è quello che è in Canada, e ha comprato casa, ha una vita abbastanza, diciamo tranquilla, anche serena, no? però c’è sempre questa voglia dell’Italia, però non può tornare perché i figli nati qui non vogliono seguirlo e quindi aspetta pazientemente che questi figli diventino grandi che lui se n’è andato in pensione e ha finito diciamo di lavorare, si vende qualcosa e torna in Italia e dice ai figli ‘amore mio, se mi vuoi bene (ride) io sto al paese, mi vieni a trovare ogni tanto vengo a trovare ogni tanto io te, ma io qui non ci voglio più stare’”. 171
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intervistati dell’inesistenza di flussi di ritorno definitivo (peraltro statisticamente documentati soprattutto a partire dagli anni ’70; Kosinski, 1978; Farnocchia, 1981). Anche Serviziati racconta i percorsi di andata e ritorno come la prova del “non sentirsi a casa in nessun posto”; il migrante come atopos, che però desidera trovare un luogo in cui sentirsi a casa (cfr. cap. I). Infine, ci sono coloro che tornano in Italia all’età della pensione; la presenza di figli e nipoti nei contesti di immigrazione non rende comunque scontata la scelta. 3. Le lingue tra funzione simbolica e uso Durante le interviste è stato dedicato uno spazio ragguardevole alle problematiche linguistiche173 perché – lo si ricorderà – la diaspora assume la sua fisionomia anche attraverso le competenze del singolo migrante e la lingua, in questo quadro, assume un ruolo centrale nel delineare pratiche e narrazioni identitarie (cap. II). Sono stati indagati i tre codici di riferimento per gli emigrati: i due di provenienza (lingua italiana e locale) e la lingua della città canadese, ovvero l’inglese. L’analisi ha investito in maniera differente i tre codici. Per quanto riguarda quelli d’origine – il cui esame è essenziale per comprendere le maglie di contatto attualmente esistenti con l’Italia- sono stati oggetto di esame il grado di utilizzo, la competenza degli intervistati (scritta, letta e parlata) e il valore a essi attribuito174. L’indagine meno sistematica sull’utilizzo dell’inglese aveva invece l’obiettivo di valutare l’integrazione linguistica con il contesto d’arrivo, aspetto non secondario all’interno dello studio della conservazione e dell’utilizzo degli stessi codici d’origine (cfr. cap. II). La lingua inglese è parlata in maniera regolare pressoché da tutti gli intervistati e non vi è neanche un rispondente che non la utilizzi mai; questo primo dato è da interpretarsi come prova della forte integrazione linguistica della comunità nel contesto di vita. Anche la lingua italiana gode, nonostante ciò, di forte vitalità; il che ci porta a definire i rispondenti come principalmente bilingui, ovvero in possesso di entrambi i veicoli linguistici, anche se, come si avrà modo di ribadire più volte, le competenze, le frequenze e i momenti di utilizzo delle singole parlate possono differire sensibilmente. Sembra necessario procedere tratteggiando un quadro più completo dell’uso e dell’importanza attribuita ai codici d’origine: lingua italiana e lingue locali. Da una lettura più articolata delle risposte ottenute, si possono trarre alcune considerazioni sull’utilizzo della lingua italiana (fig. 5).
In particolar modo l’intervista rivolta a Edda Onesti – direttrice della scuola di italiano che opera all’interno del Centro di cultura Italiano – è stata interamente dedicata al ruolo svolto dalla scuola nella promozione della lingua italiana a Vancouver. 174 Quest’ultimo dato è stato definito a partire dall’importanza attribuita all’insegnamento dell’italiano e della lingua locale ai figli, sia in ambito familiare che attraverso corsi istituzionalizzati. 173
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Fig. 5. Utilizzo della lingua italiana fra gli intervistati.
La stragrande maggioranza degli intervistati è in grado di usarla. Naturalmente le competenze dei singoli sono fortemente differenti l’una dall’altra, in rapporto a parametri come il grado di scolarità raggiunto prima della partenza o – se si tratta di generazioni successive alla prima – il livello di apprendimento linguistico. Data la natura dello studio, non si è ritenuto opportuno, perché esula dall’area d’interesse della ricerca, compiere un’analisi dettagliata sulla tipologia di italiano padroneggiata dagli intervistati (italiano standard, italiano regionale etc.). Ciò che invece è sembrato interessante è stato verificare il grado di uso delle singole varietà e, per ognuna, la presenza di una competenza scritta, letta e parlata, perché è grazie a esse che il parlante può mantenere rapporti più o meno intensi con il contesto d’origine. In questo modo, si possono riscontrare delle grandi differenze in termini di usi linguistici. Se la quasi totalità delle persone dichiara infatti di saper parlare l’italiano, poco più dei due terzi lo sa leggere e, una percentuale ancora più bassa, scrivere. Tali differenze in termini di competenze – che, lo abbiamo ricordato, vengono definite diamesiche (cfr. cap. II, par. 3) – rinviano al grado di istruzione degli intervistati di prima generazione. Mentre, per quanto riguarda l’uso della lingua parlata, la competenza è piena per tutti coloro che la praticano175, coloro che presentano un profilo d’istruzione medio-basso dichiarano le maggiori difficoltà nel leggerla e nello scriverla. Se nel complesso la lingua sembra mantenere un’importante vitalità, gli ambiti spaziali e temporali di utilizzo giornalieri sembrano disegnare luoghi e momenti ben distinti quanto all’uso della lingua inglese o di quella d’origine (italiana o locale che sia). Essere allofoni o multilingui in una società prevalentemente monolingue restrin-
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Naturalmente è importante ribadire che ci sono differenze tra l’italiano popolare e quello standard e che, in base al livello socio-culturale, la stessa competenza linguistica italiana varia. Nonostante tale premessa, in questa sede, è utile ribadirlo, si cerca di definire la competenza orale nella lingua, al di là dell’utilizzo più o meno corretto della stessa.
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gerà i campi di utilizzo delle varietà in possesso del parlante in base alla situazione comunicativa, come abbiamo anticipato in sede teorica (cfr. cap. II). Si noterà pertanto l’uso prevalente della lingua italiana in situazioni per lo più informali (dato che negli ambiti formali la lingua usata è, naturalmente, l’inglese, ovvero il codice ufficiale del luogo di inserimento). La varietà diafasica, dunque, vede come principale ambito di utilizzo dell’italiano la sfera domestica. Con l’aggettivo domestico ci si riferisce in questo caso sia agli interlocutori, per lo più familiari e amici, sia al contesto in cui avviene lo scambio locutorio, la casa. Coloro che hanno indicato l’ambito lavorativo, e che hanno come interlocutori clienti e colleghi, sono coloro che svolgono attività legate in qualche modo all’Italia e che, dato tale rapporto e contesto di lavoro, hanno l’occasione e l’utilità di usare la lingua d’origine. Quasi tutti gli intervistati dichiarano di usare accanto alla lingua italiana anche quella locale. Rispetto all’italiano, si nota un uso ancora più spiccatamente orale che rimanda, all’estero come in ambito italiano, a quelle differenze tra i due codici che abbiamo definito, a suo tempo, in termini di “status” (cfr. p. 36 E’ CORRETTO??). I dati raccolti attraverso le interviste sono stati di natura sincronica; il fine era quello di fotografare la competenza linguistica attuale senza investigare le modificazioni nell’uso delle lingue nel corso del tempo. Nonostante la carenza di dati puntuali sul mutamento linguistico diacronico, è stato però possibile, soprattutto attraverso le interviste agli attori privilegiati, ricordare che coloro che giunsero a Vancouver tra il secondo dopoguerra e gli anni ’70 presentavano uno spiccato bilinguismo italiano-lingua locale, mentre coloro che lasciarono l’Italia a partire dagli anni ’80 vissero l’esperienza migratoria in una fase in cui in Italia l’uso della lingua locale si era già fortemente contratto; e ciò soprattutto tra i ceti medi che sembrano aver maggiormente contribuito a definire il profilo dei nuovi migranti (cfr. capp. II e III). Gli stessi intervistati, in maniera del tutto spontanea, ravvisano a partire dalla loro esperienza una duplice dinamica linguistica: una interna alla comunità, relativa al rapporto tra lingua italiana e lingue locali, l’altra tra gli usi linguistici della comunità e i processi di integrazione con la società ospite, che vede una forte diffusione, col trascorrere del tempo, della lingua inglese (cfr. cap. II). Quest’ultima risulta essere quella prediletta nello scambio intergenerazionale, erodendo dunque anche in ambito familiare le competenze nelle lingue d’origine e la loro trasmissione. Dalle interviste emerge infatti una sistematica contrazione nel tempo della lingua italiana a vantaggio della lingua inglese; ma ancor più di quelle locali a vantaggio di quella italiana, nonostante queste vengano più volte descritte come l’idioma materno dall’emigrato del secondo dopoguerra176. Tra i moventi della diffusione dell’italiano a scapito del dialetto, abbiamo già ricordato in sede teorica; il maggior prestigio dell’italiano:
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I dati relativi all’uso delle lingue locali devono dunque essere affiancati da osservazioni per singoli gruppi, così come delineati dai differenti livelli d’istruzione e momenti di partenza dall’Italia. Sul fronte del rapporto lingua italiana-lingua locale, coloro che sono partiti dall’Italia nel periodo compreso tra gli anni ’50 e gli anni ’80 erano principalmente bilingui (italiano-lingua locale), venendo da contesti in cui forte era l’uso di varietà locali, e possedendo, attraverso la licenza elementare, almeno le competenze di base in lingua italiana.
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Int.: [G]li emigrati che sono arrivati alla fine degli anni ’60 inizio anni ’70 fondamentalmente parlavano il dialetto e hanno evitato di insegnarlo ai figli, […] perché per loro era considerato una vergogna parlare il dialetto e non la lingua italiana. […] Come idea si viveva in Italia a quell’epoca, no? […] loro lo vivevano così e pensavano di insegnare qualcosa di sbagliato ai figli.
Si conferma anche l’uso dell’italiano come lingua di comunicazione trasversale alle varie lingue locali italiane parlate all’interno della comunità. Al Centro di Cultura italiano, come ho avuto modo di verificare durante le assidue frequentazioni del luogo, la lingua più utilizzata è senz’altro l’italiano. L’idioma nazionale, fin dal primo approdo dei migranti nella città di Vancouver, è stato un veicolo per quella rete di solidarietà, che in tale fase era necessaria per la permanenza e la sopravvivenza del singolo nel luogo d’arrivo (cfr. cap. V, par. 1). V. Bruno: ricordo che c’erano tante scritte nelle banche, nei negozi, nelle poste, nelle farmacie “Si parla italiano” ora si tentava di andare in quei posti […]. Quando sono arrivato io [anni ’70, nda] ricordo che si parlava italiano e tutti andavamo lì dove c’era l’italiano impiegato in banca, ricordo che c’era alla banca questa italiana, la ricordo molto bene, ed era la nostra banca, la farmacia dove c’era questo, il negozio di abbigliamento… questo c’era, e poi man mano è scomparso. R. Vultaggio: Noi per comunicare tra di noi dovevamo per forza usare la lingua italiana. Perché erano misti, se erano tutti di una stessa regione no, dico?, ecco perché ti dico io il dialetto all’est dura di più, perché le comunità erano più grandi177, la comunità siciliana è talmente grossa che si sono tenuti il dialetto tra di loro, capisce?, ma anche là prima o poi sparirà […].
Sia la rete dei connazionali italiani, sia la necessità di interagire frequentemente con istituzioni quali consolati e patronati, hanno inoltre spinto a un maggior utilizzo dell’italiano rispetto alle varietà locali, meno spendibili anche all’interno della cerchia ristretta dei migranti italiani. Fra i tre idiomi quello meno utilizzato è dunque quello locale. Mentre possiamo affermare che la stragrande maggioranza degli intervistati utilizza regolarmente, in ordine di importanza, l’inglese e l’italiano, per quanto attiene l’idioma locale esiste una situazione più variegata: si passa da chi non lo utilizza mai, a coloro che lo utilizzano sempre (fig. 6). Il gruppo di intervistati sembra presentare pertanto una forte variabilità interna, che può essere spiegata a partire dalla competenza di base.
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Tale interpretazione coincide con quanto verificato dai linguisti: le dimensioni della rete entro cui la lingua può essere effettivamente usata – divenendo dunque “spendibile” – ne determinano il valore d’uso e dunque la vitalità e la conservazione (cfr. cap. III).
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Fig. 6. Utilizzo della lingua locale fra gli intervistati.
Le risposte fornite dagli individui di prima generazione confermano ancora una volta che un’importante discriminante è costituita dal periodo dell’espatrio: se nell’immediato dopoguerra, ovvero a partire dalle soglie degli anni ’80 (fig. 7).
Fig. 7. Utilizzo della lingua locale fra gli intervistati (Confronto in rapporto al periodo di migrazione).
Focalizzando l’attenzione su coloro che utilizzano la lingua locale si possono poi formulare ulteriori distinzioni: coloro che presentano un profilo educativo medioalto tendono, ad esempio, a usarla meno. Inoltre, considerando l’ambito di utilizzo di tale lingua si rileva che essa è adoperata, come quella italiana, prevalentemente in ambito domestico e, in misura ridotta rispetto all’italiano, con gli amici. La lingua locale dunque, non solo trova un utilizzo minore in termini di tempo e di numero di parlanti, ma anche ulteriori specificità in termini di luoghi e di tipologia di interlocutori. La lingua italiana sembra più atta a essere – anche per coloro che hanno una competenza in lingua locale – il veicolo di comunicazione con italiani provenienti
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da altre regioni. Per quanto riguarda l’importanza attribuita rispettivamente alla lingua italiana e agli idiomi locali, emerge il grande valore attribuito alla prima. La totalità degli intervistati (comprensivi di prima e seconda generazione) è d’accordo e del suo insegnamento; sull’importanza del suo finanziamento da parte delle istituzioni italiane e/o canadesi178. Il valore di risposte positive più alto l’ottiene l’insegnamento della lingua italiana dentro le mura domestiche. La rilevanza attribuita alla lingua locale è nettamente inferiore a quella data alla lingua nazionale. Al di là dei sentimenti dichiarati spesso positivi, non si profila infatti un impegno a perpetuare il suo uso neanche in casa. Anzi, come visto, là dove in ambito familiare si sia conservato l’uso di una lingua d’origine nella conversazione con i figli, la scelta, ponderata e non casuale, è ricaduta sull’italiano nonostante la competenza spesso prevalentemente dialettofona degli intervistati di prima generazione giunti nei primi decenni del dopoguerra. L’importanza attribuita ai codici può spiegare il maggiore o minor uso degli stessi (Grassi, Sobrero e Telmon, 2007): la maggior parte di coloro che ritengono la lingua italiana importante, la utilizzano in maniera apprezzabile. L’italiano, dato il suo prestigio e la maggiore spendibilità in Italia e all’interno della cerchia comunitaria, ha goduto dunque di una più sistematica trasmissione intergenerazionale, innescando un processo di dismissione sistematico della lingua locale. Anche nella città canadese, i processi di italianizzazione e di ibridazione con i codici del luogo sembrano aver consacrato, così come in moltissimi contesti esteri, il forte arretramento delle parlate locali, che sono risultate deboli e “poco produttive” sia nel mercato linguistico esterno (rappresentato dalla lingua inglese), che in quello interno, ovvero comunitario (rappresentato dalla lingua italiana). Anche per le generazioni successive alla prima, dialetto e lingue minoritarie arretrano rispetto alla competenza in lingua italiana; questo non solo per le scelte linguistiche interne all’ambito familiare, ma per le possibilità che vi sono di accedere allo studio della lingua italiana, lingua ufficiale, che viene capillarmente insegnata nei Centri di Cultura o negli Istituti italiani. Inoltre i processi di identificazione dei giovani, là dove si strutturino rispetto al contesto d’origine dei genitori, si rivolgono principalmente all’ambito più conosciuto, ovvero quello nazionale. R. Vultaggio: I dialetti saranno quelli che forse verranno sacrificati col tempo. L’italiano no, l’italiano rimane, perché se un ragazzo o una ragazza figli di italiani che vuole sapere qualcosa sulle loro radici e che vuole tornare in Italia per vedere dove sono nati i suoi, cioè non è che si imbarca nella lingua dialettale si imbarca nella lingua italiana, capisce?
Se i vari idiomi dialettali sembrano condannati a contrarsi sempre più (sia in relazione ai momenti di utilizzo che al numero di parlanti) e tale sorte è vista come ineluttabile, la contrazione della lingua italiana – dovuta soprattutto alla diffusione generazionale dell’inglese – sembra profilarsi invece come uno dei grandi problemi della comunità a cui si cerca di porre rimedio.
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Molti hanno palesato l’avversione all’idea che fosse lo Stato canadese a poter sostenere finanziariamente un corso di lingua italiana; dunque la risposta negativa di alcuni a tale quesito riguarda la presenza di tale opzione piuttosto che l’ostilità per il finanziamento dei corsi in quanto tale.
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Introdurremo la questione partendo dal considerare il ruolo essenziale svolto dai figli all’interno dei processi di integrazione (linguistica, ma non solo) delle famiglie giunte a Vancouver. I bambini, grazie alla loro maggiore capacità di acquisizione di nuovi codici linguistici, e soprattutto attraverso l’istruzione pubblica canadese, hanno svolto spesso il ruolo di traduttori tra la lingua d’origine (italiana o dialettale, a seconda delle famiglie) e l’inglese179 (cfr. p. 52 E’ CORRETTO???). V. Bruno: In quei tempi [anni ’70, nda.] ricordo io andavano i genitori in giro con i figli di dieci dodici anni parlavano inglese e facevano da traduttore, questo ho visto, questo fenomeno ho notato io.
Inoltre i figli, attraverso la scuola, rendevano necessaria una maggiore apertura delle famiglie alla realtà canadese (come avremo modo di ribadire in dettaglio nel paragrafo dedicato alla problematica generazionale). La competenza linguistica inglese e la sua maggiore funzionalità e spendibilità nel contesto di vita hanno reso meno necessaria l’acquisizione della lingua italiana, causando di fatto uno scarso conseguimento di competenze comunicative di base in tale idioma180. Il rischio di perdere col tempo la lingua italiana è stato più volte sottolineato durante le interviste181. Nonostante queste dinamiche ormai in atto, la lingua statale d’origine, attraverso il suo valore d’identificazione positivo, grazie alla presenza di Rai International e dei corsi di lingua italiana182 sembra attenuare la tendenza – di per sé inevitabile – alla contrazione d’uso. Spesso l’avvicinamento delle seconde generazioni rispetto alla lingua italiana avviene in età adulta, come spinta personale a riconsiderare alcuni aspetti delle proprie “origini”. V. Serviziati: Ho visto che poi le seconde e terze generazioni arrivate diciamo intorno ai trent’anni spesso per curiosità, per tanti motivi si riavvicinano per imparare la lingua italiana… qualcosa nel fondo della memoria, no?
Il ritorno “identitario” dei giovani di seconda e terza generazione, da un punto di vista linguistico, si configura spesso – dato che i parenti parlavano il dialetto – piut-
Da una lettura diacronica si constata dunque, anche all’interno della comunità di Vancouver, il ruolo essenziale rivestito dai bambini nell’inserimento linguistico dei genitori (Dittmar e Sobrero, 1990) (cfr. cap. II). 180 Spesso i bambini, sia per i dialetti che per l’italiano – codici che in base ai contesti familiari erano comunque “di casa” – hanno sviluppato quella che viene definita “competenza passiva”, ovvero la capacità di comprendere la lingua senza accedere a una “competenza attiva”, ovvero alla facoltà di elaborare frasi e concetti nella stessa. 181 Si vedano le parole di C. Fogale: “Beh sì, ormai sembra che questo [la perdita della lingua italiana, nda] è un rischio evidente, è triste però dobbiamo, i giovani dobbiamo fare lo sforzo di mantenere questa cultura che abbiamo”. 182 In altre parole ciò è stato possibile grazie alla volontà interna alla comunità e a quella esterna, ovvero sia dello Stato italiano, desideroso di conservare la sua lingua, sia dello Stato canadese disposto a favorire la nascita del Centro culturale all’interno di una politica volta alla tutela delle espressioni culturali e linguistiche delle varie minoranze presenti sul proprio territorio (cfr. cap. III). 179
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tosto come “un’andata”, in quanto non chiude metaforicamente un movimento ciclico di riacquisizione del codice linguistico di competenza parentale183. Se all’interno della seconda generazione troviamo varie declinazioni d’uso della lingua italiana (per quanto la lingua madre, quella principale, sembri per tutti l’inglese), la terza generazione sembra indubbiamente quella meno competente rispetto alle lingue d’origine dei genitori. A. De Lucio: [I bambini parlano] inglese, purtroppo, tranne quelli che magari vengono da famiglie di prima generazione.
è attualmente in atto uno sforzo dell’Italian Cultural Centre, a cui si aggiunge il lavoro dell’Istituto italiano di Cultura, per offrire alle terze generazioni (una cui quota importante è attualmente in età infantile) lezioni di lingua italiana. I molteplici corsi proposti dalla scuola sono pensati per rispondere alle esigenze di un gruppo variegato, composto in prevalenza da persone italiane o con origini italiane, e vanno da quelli per la primissima età fino ai corsi per adulti184. Il sabato mattina è il giorno in cui il Centro accoglie, contemporaneamente, le lezioni degli adulti e dei bambini. Soprattutto la terza generazione sembra ben rappresentata fra gli utenti delle lezioni a cadenza settimanale: E. Onesti: Abbiamo trecento bambini che vengono. […] In genere sono i nonni che li portano a scuola qui il sabato mattina e per i bambini abbiamo la classe il sabato mattina e abbiamo tutti i livelli.
Accanto ai corsi di vario livello proposti all’interno del Centro, la scuola offre la competenza dei propri insegnanti che svolgono, per le scuole e i bambini che lo richiedono, attività didattica d’italiano all’interno delle strutture scolastiche canadesi, per una volta alla settimana, dopo la fine delle lezioni. La direttrice sottolinea un aspetto di grande interesse per ciò che riguarda il ruolo del luogo di apprendimento: E. Onesti: I bambini che vengono al Centro il sabato mattina imparano molto prima l’italiano dei bambini di queste scuole outreach185. Perché secondo me i bambini che vengono qua al Cen-
Tale dinamica, legata all’uso della lingua italiana e locale nelle nuove generazioni, è ravvisabile in maniera lampante dalle parole di C. Fogale, che così racconta la sua esperienza personale: C. Fogale: “Sì, ormai mi sento più italiana che mai, perché sì, ho genitori italiani che parlano italiano oppure parlano il dialetto però non hanno mai parlato a casa con me in italiano, e quindi sono un po’ arrabbiata per questo fatto, per questo fatto, però ahm: sono andata al secondo anno [d’Università, nda] in Italia per conoscere le zie, i nonni, così, la nonna. […] Però tre anni fa sono andata in Italia per imparare la lingua e secondo me è il punto in più, il punto più importante la lingua che apre le porte alla cultura, se non parli la lingua italiana non riesci mai a capire cosa è essere italiano”. C. Fogale, durante il suo percorso di studi universitario, si è riavvicinata alla lingua italiana, idioma che non aveva imparato a casa; in tale contesto infatti, data anche la presenza della nonna, il secondo idioma, dopo l’inglese, è più che altro il dialetto; lingua di cui la giovane ha sviluppato quella che prende il nome di “competenza passiva” che sicuramente ha agevolato l’acquisizione della stessa lingua italiana. 184 È stato ideato il corso “Le filastrocche della nonna”, un corso per bambini da uno a tre anni che, come si evince dal nome, si struttura a partire dalle letture per l’infanzia svolte dagli insegnanti. 185 Il termine outreach indica le attività di educazione e animazione su larga scala (in questo caso l’insegnamento dell’italiano) che vengono portate “a domicilio” nelle varie scuole di Vancouver e hinterland. 183
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tro […] immediatamente si mettono nella testa che entrano al Centro e devono parlare l’italiano, tutti i genitori che vengono, che accompagnano questi bambini fanno proprio lo sforzo, anche se poi non vanno dentro le classi, di rispondere all’insegnante e di dire “Buongiorno signora maestra” quindi proprio immediatamente l’idea è che questi bambini, è come dire cioè “Entro in questo building e quindi devo parlare l’italiano”.
Dunque i bambini che seguono le lezioni nella grande struttura di Hastings street sembrano essere agevolati nel processo di acquisizione linguistica proprio dal luogo in cui tutto “parla in italiano”. La stessa direttrice, che sottolinea in maniera netta questo aspetto, lo lega proprio al luogo e a quella che noi, in ambito geografico, definiremmo performatività dei luoghi (Dematteis e Ferlaino, 2001; Nash, 2000). Il parlante che possiede vari codici linguisti lega le sue competenze a particolari luoghi (e/o a particolari situazioni comunicative): “People with highly developed multilingual skills can feel, and be, communicatively incapacitated when they are ‘out of place’” (Blommaert, Collins e Slembrouck, 2005, p. 198). All’interno di una tale visione delle relazioni tra luogo e usi linguistici, alcune lacune di competenza comunicativa si potranno dunque considerare riferibili non già a mancanze dell’individuo, ma alla connessione tra le potenzialità comunicative individuali e le esigenze prodotte dall’ambiente. I corsi sono frequentati principalmente da ragazzi e da bambini che, nel seguire un certo percorso di studio, sembrano rispondere a un desiderio di continuità culturale; desiderio espresso in ambito familiare da genitori e, molto più spesso, nonni186. Questo fenomeno ribadisce il forte nesso che unisce dinamiche identitarie e atti concreti (come ad esempio imparare una lingua), nesso che ha ripercussioni tangibili nei collegamenti che si strutturano tra contesti territoriali differenti, ovvero nella capacità di una lingua di diffondersi in ambiti stranieri. Tutto questo – ed è solo un piccolo esempio tra i molti che si possono addurre – chiarisce l’importanza rivestita dalla tematica identitaria, al di là delle elaborazioni puramente teoriche. Quando si parla di diffusione dell’italiano all’estero è bene ricordare nuovamente che si intende un idioma molto spesso fortemente distante dallo standard e dalla sua correttezza formale o grammaticale. La varietà che si è diffusa presenta alle volte forti interferenze dialettali e anglofone in costrutti italiani. Si crea in alcuni casi un idioma che, se da un punto di vista linguistico è definibili in termini di switchcode, dagli stessi emigrati a Vancouver è chiamato, come ricordato (cfr. p. 42 E’ CORRETTO??), “terza lingua” o italiese187:
E. Onesti: “Onestamente c’è gente che vive qui e non è necessario per loro l’italiano, no? L’italiano non è necessario a questi bambini per, non so, domani trovare un lavoro così, è una cosa proprio un pochettino di cultura, anche perché l’italiano è ormai una lingua morta, è inutile dirlo. Fuori dall’Italia dov’è che si usa l’italiano? Da nessuna altra parte, no? Per cui io ammiro i genitori e i nonni che vengono qui al sabato mattina e portano questi bambini che tante volte sono assonnati, non avrebbero proprio voglia di venire, però hanno questa cosa che il loro bimbo deve parlare l’italiano e capire qualcosa della cultura italiana”. 187 R. Di Trollio: “I vecchi nostri, cioè le prime generazioni degli emigrati, si sono inventati l’“italiese”, una nuova lingua, cioè mischiano l’italiano con l’inglese dove le persone ti dicono l’assegno, o il check, loro dicono la checca […] Oppure, per esempio, guidare, guidare la macchina, guidare la macchina, i vecchi però la vecchia generazione “Ho draviato tre chilometri”, la cassetta, la macchina, il carro, il trocco, cioè quindi hanno creato, ma questa è la vecchia generazione, la prima immigrazione, poi pian piano i figli si sono integrati e parlano un inglese perfetto e non parlano 186
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V. Serviziati: L’italiese è l’uso dell’inglese italianizzato, cioè l’assegno, il check diventa la cecca. Ce ne stanno mille d’esempi: parcheggiare siccome si dice to park qui, diventa parcare “ho parcato la macchina”, anzi “ho parcato la car”, no? (ride) quindi nasce una lingua che non è veramente inglese che però fa riferimento all’inglese e diventa internazionale per i dialetti (ride).
Anche in tal caso, l’uso di tale varietà sembra maggiore per coloro che possiedono un livello d’istruzione medio-basso e per le seconde generazioni. L’utilizzo di tale idioma è associabile alla difficoltà di adoperare un unico codice linguistico in tutte le funzioni complesse. Le seconde generazioni spesso commutano i codici per acquisizione parziale della varietà d’origine (sia essa la lingua italiana o quella locale); l’uso di parole inglesi, dialettali e italiane all’interno di una stessa frase rimanda dunque a tale difficoltà. 4. Usi linguistici in divenire: una lettura generazionale La seconda generazione di intervistati188 presenta un’età compresa tra i ventuno e i settantuno anni e un profilo educativo prevalentemente alto, differente dunque da quello di massima medio-basso della prima generazione. La maggioranza possiede entrambi i genitori con origini italiane; questo aspetto, come abbiamo visto, agevola il mantenimento di un codice d’origine all’interno delle mura domestiche, codice che risulta la norma almeno fino all’ingresso dei figli nel percorso scolastico, quando si ha un incremento di utilizzo della lingua inglese e dell’integrazione con il contesto di stanziamento. [L]anguage is a link with the past, through which younger generations can get in touch with the lives and experiences of their forebears. […] [L]earning Italian is a gesture of remembrance that traces lines of continuity between generations (Fortier, 2000, p. 149).
l’italiano perché hanno paura di sbagliare: però ci sono città realtà come Toronto o soprattutto Montreal dove l’italiano è stato mantenuto alla grande, quindi i nostri figli, le nuove generazioni parlano anche l’italiano”. 188 Come noto, gli intervistati sono individui di prima e di seconda generazione (nell’indagine nessuno può essere definito di terza generazione). Abbiamo avuto modo in fase teorica di problematizzare l’uso del temine “generazione” (cfr. cap. III, par. III); si profila la necessità di ribadire, anche all’interno dell’analisi delle interviste, che l’uso di tale definizione, utile ai fini esplicativi, non rimanda però – come accadeva all’interno di studi passati – a una semplicistica visione lineare dell’integrazione che aumenterebbe in maniera direttamente proporzionale alla durata dell’esperienza migratoria. In altre parole, non è affatto detto che un “migrante cosmopolita” di prima generazione abbia più difficoltà a integrarsi nel contesto di arrivo rispetto a un figlio (seconda generazione) i cui genitori emigrati presentano uno status socio-culturale non elevato.
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Fig. 8. Utilizzo della lingua inglese fra gli intervistati (Confronto generazionale).
Fig. 9. Utilizzo della lingua italiana fra gli intervistati (Confronto generazionale).
A un prevedibile ampliamento generazionale delle capacità comunicative in lingua inglese (fig. 8) fa riscontro un assottigliamento della competenza e dell’utilizzo della lingua italiana (fig. 9). Infatti, mentre tutti gli intervistati di prima generazione parlano l’idioma nazionale (anche se con differente assiduità da un caso all’altro), alcuni intervistati di seconda generazione affermano di non parlarlo neanche in rare occasioni. Questi ultimi presentano inoltre una differenza ancora più netta in termini di competenza letta, scritta e parlata in tale lingua. Anche in tal caso, la capacità orale supera di gran lunga quella di lettura e di scrittura e gli interlocutori privilegiati sono parenti e amici. Ciò che risulta degno di nota è che l’ambito di utilizzo principale per la seconda generazione è costituito dai luoghi di aggregazione, primi tra tutti i circoli regionali o, meglio, l’ICC. Sembra di poter leggere in tale risposta una riprova della contrazione in ambito domestico dell’idioma italiano. Se la prima generazione lo parla principalmente con il partner (che come visto per gli intervistati è quasi sempre italiano), la lingua per comunicare con i figli è prevalentemente l’inglese. Per tale ragione, per la seconda generazione il luogo di utilizzo principale dell’italiano non
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è tanto quello domestico – sempre più caratterizzato dalla lingua inglese – quanto quello dei luoghi d’aggregazione comunitari. Circa la metà dei rispondenti di seconda generazione dichiara inoltre di conservare l’uso (prevalentemente orale) della lingua locale (fig. 10). Essa è parlata principalmente in ambito domestico con familiari piuttosto che con gli amici; questi ultimi risultano invece tra gli interlocutori privilegiati nel caso della prima generazione. Tale diversità è facilmente comprensibile se la si analizza alla luce dell’estensione della rete amicale della seconda generazione, fortemente ampliata rispetto a quella comunità italiana, che della prima risulta spesso il contesto di vita sociale di riferimento. L’importanza attribuita ai codici d’origine dalle seconde generazioni differisce a seconda delle relazioni (materiali e affettive) che i singoli intessono con il contesto d’origine materno e/o paterno. La frequentazione dei circoli, sia di quelli regionali che di quello italiano, è meno assidua rispetto a quella riscontrata per la prima generazione; un discorso parallelo si può compiere per la lettura di riviste italiane e per la visione di canali televisivi come Rai international. Le domande su queste pratiche ottengono un maggior numero di risposte dal basso profilo; tali strumenti di contatto con l’Italia e la regione non sembrano dunque legare in maniera salda le seconde generazioni con il contesto d’origine dei genitori. I rapporti con i parenti rimasti in Italia invece sembrano perdurare; gli intervistati affermano infatti di mantenere costanti contatti che si esplicano principalmente via telefono e via email. I ritorni in Italia, frequenti anche per tale gruppo, sono finalizzati all’incontro con i parenti, ma non mancano, anche in tal caso, i motivi turistici. Inoltre, è significativo notare che diciotto persone affermano di aver seguito corsi di lingua italiana e che l’idioma statale viene considerato per la stragrande maggioranza della seconda generazione “molto importante”. Anche la lingua locale, seppur con una percentuale quasi dimezzata rispetto a quella raggiunta dall’italiano, ottiene un ragguardevole consenso che ne attesta il valore.
Fig. 10. Utilizzo della lingua locale fra gli intervistati (Confronto generazionale).
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5. La lingua sarda e friulana a Vancouver Nell’ambito della ricerca è stato compiuto un approfondimento sulle problematiche linguistiche dei sardi e dei friulani a Vancouver. I due gruppi hanno sviluppato in ambito italiano un forte senso identitario attraverso le loro lingue – sardo e friulano – tutelate dalla legge 15 dicembre 1999, n. 482189 (Salvi, 1975; Murru Corriga, 1977; Strassoldo, 1996; Argiolas e Serra, 2001; Lilliu, 2001; Altin, 2004; Cisilino, 2004; Barbina, 1996). Esistono naturalmente studi specifici che hanno indagato il rapporto tra usi e importanza attribuita ai due idiomi anche in ambito italiano, prima e dopo la data fatidica del 1999. Soprattutto negli ultimi anni, si è cercato di vagliare attentamente la reale sopravvivenza in termini d’uso delle lingue minoritarie, che come i dialetti sembrano destinate, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra (cfr. cap. II), a un’erosione sistematica a causa dell’incedere dell’italiano in tutti gli ambiti comunicativi. A fronte della nuova normativa, si è avviato in Italia un processo di revisione dall’alto della valutazione sociolinguistica delle lingue friulana190 e sarda191, che fa sì che tali varietà siano sempre più considerate (anche dalla popolazione) dei “vessilli identitari”, ovvero elementi di orgoglio da preservare. L’uso incrementato di tali idiomi negli atti delle amministrazioni regionali, con il conseguente innalzamento di status, motiva in parte il diffondersi di opinioni sempre più positive. Nonostante questo, in ambito italiano, sembra che la reale spendibilità dei due codici linguistici
Legge 15 Dicembre 1999, n. 482, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” (cfr. nota 56, p. 38). Per un’analisi della normativa statale e, nello specifico, della Regione Friuli Venezia Giulia si rimanda a Cisilino, 2001. 190 Indagini specifiche evidenziano nel tempo la diffusione dell’italiano anche in ambito familiare, e soprattutto l’incremento dell’uso della lingua nazionale con i figli. Una prima conseguenza è che l’utilizzo della lingua minoritaria risulta in relazione con le differenti fasce d’età; al decrescere di quest’ultima si assiste dunque a una diminuzione delle competenze (e dei momenti di utilizzo). Un fattore ancora più incisivo nel decretare una prevalenza d’uso del friulano è il livello di scolarizzazione del parlante: a un crescere di tale parametro l’abbandono diventa maggiormente sistematico. Anche in Friuli emergono giudizi positivi rispetto alla lingua minoritaria e all’ipotesi di una sua tutela sistematica ma, nonostante questo, gli “atteggiamenti favorevoli all’uso del friulano sono più diffusi dei comportamenti di fatto” (Strassoldo, 1996, p. 17). 191 In Sardegna alcuni studiosi hanno lamentato un’incidenza superficiale della nuova normativa sulla salvaguardia delle varianti sarde (Lupinu, 2008). L’indagine sociolinguistica voluta dalla Regione (Oppo, 2007) ha evidenziato che vi è una maggiore conservatività della lingua sarda nei Comuni al di sotto dei duemila abitanti; essa si mantiene lingua di comunicazione in ambito familiare con le persone adulte o anziane, ma vi è una netta predilezione dell’italiano nello scambio locutorio con i figli. Nell’ordine, l’ambito familiare e quello amicale sono quelli in cui ancora resistono forme di mantenimento della lingua minoritaria. Negli altri ambiti si assiste a una maggiore pervasività dell’italiano o, al massimo, di un uso misto delle due lingue (colleghi, vicini di casa etc.). Un aspetto linguistico importante è l’attaccamento al codice. Dall’indagine svolta in Sardegna si evince quanto questo aspetto risulti preponderante nei confronti della lingua sarda rispetto a quella italiana (il 68,3%), ma tale dato presenta un’altissima flessione in rapporto alle differenti classi d’età. I più giovani, coloro che spesso hanno avuto la prima socializzazione in lingua italiana, dichiarano infatti un maggior attaccamento alla lingua nazionale. Valori altissimi, e trasversali alle differenti fasce d’età, si registrano invece per quanto attiene la necessità della tutela del sardo (90%) e l’importanza dell’insegnamento scolastico di tale lingua ai bambini (81,8%) (Oppo, 2007). 189
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in termini di avanzamento sociale sia rimasta quella di sempre, ovvero nulla; e tale dato spiega il perché a un atteggiamento più che positivo non faccia riscontro un uso più sistematico degli stessi (Lupinu, 2008). Il fine specifico di questo focus è quello di vagliare il ruolo giocato dal fattore lingua all’interno dell’ambito diasporico192. La ricerca empirica ha previsto pertanto un’attenta e costante frequentazione sia del circolo friulano presente in città, la Famee Furlane, sia di alcuni membri dell’ex circolo sardo di Vancouver, circolo la cui esperienza si è conclusa nel 2006, come ricordano le interviste rivolte alla fondatrice del circolo, Lucia Fronteddu, e all’ultima presidentessa, Enza Uda. L’associazione friulana, presso cui si sono svolte le interviste, è un grande stabile, noto a coloro che frequentano il Centro comunitario italiano e non solo, sito in Pender Street East. L’antico edificio, completamente ristrutturato per opera della comunità che gravita intorno alla sede, ospita le attività delle duecentocinquanta famiglie friulane iscritte. Il Circolo è molto attivo, ospita differenti eventi e occasioni di incontro durante l’anno e ha da poco festeggiato i suoi primi cinquanta anni d’attività, riconoscendosi come uno dei circoli italiani più antichi di Vancouver e uno dei pochi che può vantare una sede a sé stante rispetto all’Italian Cultural Centre. Durante la nostra intervista il testimone privilegiato, il presidente Joe Toso, tocca i punti salienti dell’esperienza friulana in Canada, ricordando dapprima le ondate d’arrivi principali e ribadendo che, pur essendo nutrita, la comunità di Vancouver è lungi dal potersi paragonare, da un punto di vista numerico, alle comunità friulane nell’est del Canada193. La prima generazione di friulani giunse in questa terra, così come la maggior parte degli italiani, per svolgere mansioni nelle miniere, ferrovie, industrie edili ivi disseminate. Non possedevano dunque un elevato tasso di istruzione e la lingua materna era sicuramente, dato tale profilo educativo, prevalentemente quella friulana. Anche nel caso dei sardi e dei friulani, la lingua inglese è ormai utilizzata diffusamente, così come quella italiana. Lo switch code è fortemente presente nel parlato friulano, mentre i sardi risultano maggiormente in linea col trend tracciato dagli altri intervistati. La lingua italiana è attestata principalmente in ambito domestico, familiare e amicale. Mentre i friulani indicano negli altri italiani degli interlocutori privilegiati, i sardi forniscono come opzione maggiormente scelta l’ambito familiare; tale dato lo si può legare a quella che è sembrata (e più volte dichiarata dai sardi e non) un’assenza di tale gruppo all’interno della più vasta rete associativa – e cerchia di frequentazione – italiana. L’utilizzo delle lingue sarda e friulana può essere posto a raffronto con quanto emerso nelle interviste al resto degli italiani. Come si può dedurre da un rapida comparazione dei grafici a torta (figg. 11-12), sardi e friulani mostrano un utilizzo
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Si vedano sulla contrazione dei dialetti in Italia i dati ISTAT (http://istat.it). Le varie associazioni friulane, sedici in tutto, situate nelle varie parti dello Stato, formano una federazione che organizza, a turno nelle differenti città, un meeting generale a scadenza biennale. In tali occasioni hanno dunque modo di incontrarsi persone di una stessa località che vivono in aree differenti del vasto Stato.
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inferiore della lingua minoritaria rispetto al resto degli intervistati, in particolar modo i sardi. Mentre i friulani dichiarano un utilizzo comunque frequente194 – seguendo quanto detto dagli intervistati delle altre regioni d’Italia rispetto ai dialetti – i sardi non solo affermano in pochissimi casi di utilizzare la lingua minoritaria, ma una buona parte dei rispondenti sostiene di non farne uso.
Fig. 11. Utilizzo della lingua locale fra gli intervistati (esclusi i sardi e i friulani).
Fig. 12. Utilizzo della lingua minoritaria fra gli intervistati sardi e friulani.
Anche nel caso dei sardi e dei friulani la lingua minoritaria è usata principalmente in ambito domestico, con le percentuali più alte raggiunte, come per l’italiano, nei confronti dei familiari e – nel caso dei friulani – per gli amici. Ma il dato che merita senz’altro più attenzione è quello legato agli ambiti di utilizzo. I sardi utilizzano la lingua quasi esclusivamente in Italia. Tale risposta lascia intuire una scarsissima
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J. Toso: “L’hanno imparato qua però è un po’ misto con parole inglese parole friulane […], uso popolare insomma della lingua italiana. Parecchi giovani hanno mantenuto le loro famiglie hanno spinto i giovani a parlare friulano a casa, nati qua ce ne abbiamo parecchi nel club qui”.
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conservazione del codice linguistico sardo in ambito diasporico, che persiste come strumento di contatto con i parenti rimasti in Italia o, in ambito sardo, con gli altri corregionali. I friulani indicano come luogo di interlocuzione del friulano anche “gli eventi”, ovvero le occasioni organizzate dalla vasta rete di friulani che si incontra all’interno del grande circolo sito in Pender Street195. I sardi, in connessione evidente con il frequente utilizzo della lingua italiana di cui abbiamo parlato, attribuiscono a tale idioma un grande valore. La lingua sarda, considerata non importante da metà degli intervistati, presenta prevedibilmente i minimi d’utilizzo tra coloro che non le attribuiscono rilevanza e il valore massimo tra coloro che glielo assegnano. Si può desumere che l’elemento linguistico minoritario non riveste un grande ruolo, soprattutto per quanto riguarda i rispondenti sardi. Ciò che emerge in relazione a questi ultimi, anche in forza del confronto con il resto degli intervistati, è una chiara simbolizzazione e identificazione linguistica con la scala statale e con la lingua che la rappresenta, l’italiano. Insomma, quella che è la tutela e la relativa simbolizzazione in ambito sardo della lingua minoritaria non si riscontra in ambito diasporico: la lingua sarda gode infatti di minor prestigio e utilizzo rispetto ad altri idiomi locali, anche di quelli definibili dialetti. I sardi risultano poco integrati con il resto della comunità italiana. La difficoltà che ho dovuto affrontare per rintracciarli nonostante una costante frequentazione del Circolo culturale italiano è rivelatrice in proposito. La stessa L. Fronteddu rintraccia questa “specificità” nella sua intervista: L. Fronteddu: [U]no dei signori consoli nel ’75 ha detto che c’era uno studio fatto sull’emigrazione e hanno rilevato che con l’emigrazione sarda molti non si sono mai integrati, poi rimangono da soli e in qualche modo poi si ammalano e si isolano sempre di più […] I sardi nello specifico […] Mi risulta vero perché anche adesso i sardi purtroppo due di loro sono morti da soli e sono stati ritrovati dopo due, tre giorni.
Bisogna innanzitutto ricordare che i sardi nell’area di Vancouver sono veramente in numero esiguo se li si paragona ai gruppi di altre regioni d’Italia, in tutta la British Columbia sono infatti nell’ordine di un centinaio di persone disseminate in un’area di 400 km2. Questo contesto di isolamento meriterebbe uno studio attento; qui è sembrato necessario citarlo, perché è emerso in maniera chiara e da più voci durante il lavoro sul campo. L’esperienza del circolo Sardegna-Vancouver – che è sembrata una parentesi di aggregazione anche per i sardi rispetto all’individualismo più volte considerato
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Si veda quanto scritto da Barbina sull’uso del friulano in Canada: “In questa comunità distribuita su tutti i livelli sociali, la lingua friulana è oggi normale solo fra persone nate in Friuli e nell’ambito della cerchia familiare o in occasione di incontri tra friulani, mentre la lingua di relazione normale è quella della nazione dominante. I genitori immigrati usano spesso con i loro figli il friulano (che questi riescono a comprendere), ma i figli parlano ai genitori in inglese (o francese) e usano questa lingua (o il francese) in tutti i momenti di relazione. I nipoti parlano con i genitori e coi nonni solamente nelle lingue nazionali. L’uso dell’italiano è in lieve aumento rispetto al friulano, in quanto le occasioni di parlare questa lingua sono oggi maggiori che in passato (stampa e canali televisivi in italiano, relazioni con altri immigrati italiani non friulani, frequentazione di corsi di lingua e cultura italiana sono oggi certamente più disponibili di qualche anno fa), ma è ancora limitatissimo per la seconda generazione, che dell’italiano ha una conoscenza scolastica e parziale, che diventa quasi nulla nella terza” (Barbina, 1996, pp. 16-17).
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un tratto culturale dei migranti dell’isola – nacque nel 1992 grazie a una esplicita richiesta arrivata alla famiglia Fronteddu da parte della Regione Sardegna196. La conclusione dell’esperienza del Circolo è stata conseguente alla difficoltà gestionale, aggravata dal numero ridotto di persone che partecipavano agli eventi. Anche in tal caso, dunque, l’aspetto quantitativo è essenziale: la scarsità di persone coinvolte nella gestione dell’associazione fa sì che non sia agevole trovare chi organizza e partecipa agli avvenimenti di volta in volta in programma. Anche L. Fronteddu ribadisce come cruciale, per il gruppo sardo, la più elevata concentrazione di migranti in città come Montreal o Toronto che – non a caso – riescono a radunare attorno alle iniziative dei circoli un considerevole numero di persone. Le gravi condizioni in cui versava l’isola all’indomani della seconda guerra mondiale spiegano anche per il caso sardo la mobilità migratoria197; il profilo dei migranti e il periodo di migrazione influiscono anche in questo caso sugli usi linguistici. L. Fronteddu: Noi parliamo in sardo con tutti e non importa se è al nord se al sud se nel mezzo, al centro della Sardegna, poi dipende dalla risposta. Di solito i campidanesi tendono a parlare meno il sardo quindi con loro parliamo in italiano […], noi personalmente abbiamo mantenuto in casa il sardo tutti i giorni tra me e mio marito si parla solo il sardo invece con i figli si parla solo l’italiano mentre tra di loro parlano inglese quindi le tre lingue sono state usate tutte tutti i giorni!
Nella descrizione di L. Fronteddu sono emblematicamente riportate tutte le varietà di lingua e di interlocutori. Marito e moglie parlano tra loro il sardo e usano tale lingua anche con i corregionali, ma soprattutto con quelli che vengono dalla loro zona, il nuorese. Con i figli si è scelto di adottare la lingua italiana e, anche se ilmotivo non è specificato, si può agevolmente ipotizzare che tale scelta risenta dei discorsi svolti in precedenza sul diverso status delle due lingue (italiana e sarda) e sulla maggiore spendibilità della prima rispetto alla seconda. I figli tra loro parlano inglese, adottano quella che è la loro lingua di formazione. La lingua inglese, all’interno del Circolo sardo, era idioma veicolare nel momento in cui la presidentessa è divenuta E. Uda (seconda generazione). E. Uda: Quando ero presidentessa io gli altri usavano l’inglese e italiano, però lingua sarda poco, pochissimo.
Nelle parole dell’ultima presidentessa troviamo confermato quanto detto da L. Fronteddu: l’uso della lingua sarda vigente solamente tra coloro che provengono da aree limitrofe della Sardegna (soprattutto del nuorese o logudorese) ed emigrate entro gli anni ’80; per il resto si evince un disuso costante.
La legge di riferimento che regola i rapporti tra la Regione Autonoma della Sardegna e i migranti sardi è la Legge regionale 15 gennaio 1991, n. 7 il cui fine (art. 1) è quello di “rafforzare i legami con le comunità sarde situate fuori dall’isola”. All’interno di tale “patto”, la realtà associazionistica, nata con finalità inizialmente di tipo assistenziale, si configura sempre più, anche in questo caso, come una vera e propria vetrina dell’isola (e dei suoi prodotti) nel resto d’Italia e all’estero. 197 L. Fronteddu: “Nel ’51 erano solamente cinque anni dopo la guerra, cinque sei anni dopo la guerra e il paese non si stava riprendendo con la velocità naturalmente desiderata, quelli che sono partiti sono stati giovani dai ventitre, ventisei, ventisette anni e perché non vedevano un futuro e le famiglie erano numerose quindi c’era la necessità con desiderio di aiutare le famiglie, di aiutare se stessi, infatti i primi emigrati hanno sempre mandato una parte della loro busta paga a casa”. 196
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Lo stesso non si può dire per i friulani che presentano ancora un uso vivo, seppur secondario rispetto alla lingua italiana, della lingua minoritaria. Pure in tal caso però non si assiste a un uso maggiore di tale varietà rispetto ai dialetti, come si potrebbe supporre in virtù del suo status giuridico di lingua (e non di dialetto). I motivi alla base di tale dato possono essere molteplici. Abbiamo visto che le esigenze di una rete linguistica condivisa tra connazionali ha portato a prediligere anche nell’insegnamento con i figli e all’interno dell’intreccio amicale la lingua italiana. Ciò che però sembra emergere nuovamente, e in maniera palese nel caso dei sardi, è il diverso valore attribuito ai due codici linguistici di riferimento. La tutela e la relativa simbolizzazione del dato linguistico, che nell’isola ha preso le mosse dalle battaglie per il bilinguismo degli anni ’70 (Aru, 2008), in realtà si è concretizzata solamente a partire dagli anni ’90, con la legge dello Stato più volte menzionata, la n. 482, e a partire da un’imponente mobilitazione del mondo intellettuale isolano. Quest’ultimo aspetto non è certamente secondario; il piano intellettuale è infatti il primo che sancisce certe pratiche culturali (tra cui gli usi linguistici) come un valore o un disvalore. La ripresa delle lingue minoritarie è spesso compiuta da coloro che non corrono il rischio di essere giudicati appartenenti a un ceto sociale medio-basso: perché, in questo caso, l’uso di una lingua minoritaria non richiama un’etichetta di status negativa. Calzano a riguardo le parole di Bourdieu: Se il bearnese (o, d’altronde, il creolo) arriverà un giorno ad essere parlato in occasioni ufficiali, ciò accadrà grazie a un colpo di mano dei locutori della lingua dominante, che sono in possesso di tali titoli di legittimità linguistica (almeno agli occhi dei loro interlocutori), da essere scevri dal sospetto di ricorrere alla lingua stigmatizzata “in mancanza di meglio” (Bourdieu, 1988, p. 50).
All’interno del mercato linguistico estero dunque le lingue sarda e friulana seguono la stessa sorte dei dialetti. I parlanti, che soprattutto all’interno della prima generazione avevano una competenza linguistica maggiore degli idiomi in esame, in ambito diasporico trovano nell’italiano e nell’inglese le due varietà di riferimento, la prima in seno alla comunità di connazionali, la seconda nel nuovo contesto di vita. Sono interessanti e ci aiutano a corroborare tale analisi, gli studi di Francescano (2007) e di Masini, Morgana e Piotti (2003). Il sardo e il friulano, in quanto lingue minoritarie, si trovano linguisticamente in una situazione mediana tra lingua italiana e i dialetti, anche se tendono a mostrare caratteristiche dialettologiche e sociolinguistiche differenti rispetto alla lingua statale (Francescano, 2007). Essi rientrano nelle lingue di minoranza, anche se ne divergono per il rapporto privilegiato con la lingua nazionale: il richiamo linguistico e culturale verso l’italiano come espressione diafasica alta, che per un altoatesino sarà in direzione della lingua tedesca, rende sotto questo profilo sardi198 e friulani analoghi agli altri dialettofoni della penisola (Masini, Morgana e Piotti, 2003, p. 26).
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Per i sardi si vedano anche le parole di Rindler Schjerve (1986, p. 76): “The shift to Italian in Sardinia can be largely explained by the social status and prestige this language enjoys as a concomitant of social mobility in the dominant culture. Pursuit of prestige thus becomes an important motivating force in the process of language shift. On the other hand, it must not be overlooked the increasing identification with the ethnic dimension of Sardinian clearly began at a time when the national prospects for participation in this social mobility could no longer be guaranteed”.
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Cap. VI. Narrazioni identitarie in diaspora 1. Introduzione La consapevolezza della natura complessa e costruita delle nostre identità ci dà la chiave per arrivare ad altre possibilità: riconoscere nella nostra storia altre storie, scoprire nell’apparente completezza dell’individuo moderno l’incoerenza, l’estraniazione, lo strappo causato dallo straniero, che sovverte e ci costringe a riconoscere la questione: lo straniero è in noi. Dunque l’identità si forma in movimento. […] In quel passaggio, e nel senso del luogo e appartenenza che ci costruiamo, le nostre storie individuali, i nostri impulsi e desideri inconsci, assumono una forma che è sempre contingente, in transito, senza scopo e senza fine. (Chambers, 1996, p. 30).
Per cercare di chiudere il cerchio aperto col primo capitolo, con l’analisi teorica, e mettere a frutto quanto esposto nei capitoli successivi e nella ricerca sul campo giungono nuovamente in aiuto le parole di Malkki (2008) utilizzate proprio per introdurre il tema (p. 19). L’identità, per definizione “oggetto mutevole”, in parte è auto – costruita dal gruppo, in parte è frutto di categorizzazione attuata dall’esterno; essa può essere vista come uno status, alle volte un’etichetta, un riparo, un “capitale di memorie”. Dopo aver analizzato le prassi, sembra ora arrivato il momento di focalizzare l’attenzione sui discorsi identitari così come espressi dagli emigrati. Parlare della strutturazione delle identità diasporiche così come narrata dagli intervistati porta inevitabilmente, anche in questo caso, a riscontrare differenze interne ai vari gruppi (vecchi-nuovi migranti; prima-seconda generazione), differenze che interagiscono con essa disegnando storie e percorsi molteplici. Gli intervistati riescono con grande accuratezza a descrivere sentimenti d’appartenenza e problematiche a essi interrelate. Per facilità espositiva, tali aspetti possono essere analizzati a partire dai nuclei tematici precedentemente individuati (tab. 12, p. 79 E’ CORRETTO??): - Riferimenti all’Italia e alla regione di provenienza all’interno dei discorsi identitari (rapporto scala nazionale- regionale); - Identificazione con l’Italia e con il Canada (rapporto contesto d’origine-contesto di immigrazione); - Aspetti generazionali. 2. Riferimenti all’Italia e alla regione di provenienza L’Italia è nota ancora oggi per i grandi movimenti dal carattere regionalistico o locale, che hanno fatto sì che lo stivale venisse spesso descritto come il luogo “dei campanilismi”, sede di importanti processi di identificazione della propria popolazione a una scala differente da quella statale (Ciuffoletti, 1994). Anche all’estero molte realtà associative di fine ’800 – inizio ’900 mostravano caratteristiche prettamente locali, riunendo attorno ad attività di mutuo soccorso soprattutto persone provenienti da una stessa area territoriale circoscritta, molto spesso a una scala più grande di quella regionale. Le associazioni dell’ICC, nate a partire dalla fine degli anni ’70, sono
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soprattutto a carattere regionale e sicuramente influiscono, con le loro attività, sullo sviluppo di una rilevante identificazione regionale, come racconta la responsabile delle attività culturali del Centro di Cultura italiano: A. De Lucio: Quando si tratta di attività dell’associazione sono decisamente più siciliani o pugliesi che italiani; però quando abbiamo proiettato la finale del mondiale di calcio nel 2006 ti dico che c’erano italiani che non erano nati in Italia e tutti diventati Italiani tutti insieme!
Il riferimento regionalista esiste, ma non appare in antitesi con l’unità del gruppo. Esso infatti risulta principalmente legato a dinamiche interne alla comunità, ma se si pensa che l’alterità era (e in alcuni casi è ancora) strutturata a partire dalle dinamiche che contrapponevano il gruppo all’esterno (ovvero alla società ospite), si comprenderà come le divisioni regionali non siano mai state tali da precludere un più forte riferimento alla scala nazionale, rinsaldando dunque sistematicamente il senso di appartenenza italiano. Se ogni identità nasce e prospera in rapporto all’alterità, è infatti indubbio che anche nel caso di Vancouver un processo di unione interno alla comunità sia stato implementato nel tempo da una parte dalle dure lotte contro alcuni stereotipi negativi subiti in terra d’arrivo dagli “italiani” (visti come gruppo omogeneo); e, dall’altra, dal confronto coi differenti nazionalismi ivi presenti. Il console Ruggiero Romano connette il processo di coesione di gruppo a quelli che abbiamo definito processi di categorizzazione (nota 32, p. 18 E’ CORRETTO??): L’acquisizione di un senso di appartenenza nazionale per questa via, ovvero in negativo e per necessità evidenti di autodifesa, non elimina, anzi, piuttosto precisa (ma poi anche confina e circoscrive in ambiti speciali e per lo più “privati”) i sentimenti preesistenti o “primari” di attaccamento a (o di dipendenza da) una forte identità locale e regionale […] (Franzina, 1999, p. 39).
Sembra di grande valore a riguardo lo studio condotto da Gasparini (2000). L’autore, focalizzandosi sul grado di manifestazione di un gruppo, afferma che esso è fortemente legato all’esistenza di sfide esterne, come – nel nostro caso – il processo di integrazione e le difficoltà iniziali legate all’accettazione in una società altra, e la presenza di sentimenti identitari forti espressi da differenti gruppi immigrati che innescano – congiuntamente con altri fattori – una risposta di gruppo similare. In Canada quest’ultimo processo sembra inoltre favorito dalla legislazione federale che, a partire soprattutto dagli anni ’70, ha incoraggiato la creazione e la presenza di associazioni e iniziative dei vari gruppi d’immigrati presenti nel territorio (cfr. cap. III). All’interno delle dinamiche di forte unione della comunità, accanto a un processo linguistico di italianizzazione, si accresce dunque il riferimento identitario alla scala nazionale. I riferimenti alla scala regionale e a quella nazionale sono pertanto assolutamente compresenti: un’identità regionale forte non è in conflitto con quella italiana, anzi, sembra costituire la via di accesso per essa. Rispetto alla comunità italiana ha una forte valenza l’attività delle varie associazioni e dunque il riferimento alla scala regionale, ma l’attaccamento territoriale si palesa in maniera più sistematica nei confronti della scala nazionale dell’Italia nel suo complesso e, da un punto di vista linguistico, della lingua che di essa è espressione, l’italiano (cfr. cap. V).
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Una spiccata appartenenza italiana si è dunque creata proprio a partire dall’esperienza migratoria; attivando processi di forte identificazione alla scala nazionale, che hanno esiti naturalmente differenti rispetto a quelli che il singolo individuo può sviluppare nel proprio contesto di nascita: V. Serviziati: L’attaccamento che abbiamo qui in Italia non [c’]è assolutamente, non è vissuto in Italia. Qui quasi quasi diventiamo nazionalisti, forse è un po’ esagerato, ma è un qualcosa di sentito, di spontaneo, cioè qualcosa che non è che te lo chieda qualcuno, ti viene. Io ho sempre avuto un po’ il brivido quando c’era la bandiera italiana e l’inno nostro, ma qui (ride) che dire, proprio è qualcosa di incredibile!
L’intervista prevedeva due domande sugli elementi considerati caratterizzanti il contesto d’origine: l’Italia nella sua completezza e, nello specifico, la regione199.
Fig. 13. Rappresentatività attribuita dagli intervistati ad alcuni fattori sia rispetto allo Stato che alla regione di provenienza.
Come si può notare dalla figura 13, nonostante la regione presenti un minor numero di risposte per i singoli attributi indicati dagli intervistati, la relazione tra i vari fattori identificativi non diverge sensibilmente tra il piano statale e quello regionale.
199
È stato attribuito un valore identificativo nullo allo 0 e massimo al 5.
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Per quanto riguarda gli elementi che vengono considerati più caratteristici dell’Italia nel suo complesso, troviamo nell’ordine il cibo, l’arte, il paesaggio e la lingua. Tutti i fattori individuati durante le interviste sono storicamente associati all’Italia, a partire dalla cucina – sempre più conosciuta e dunque fonte di lustro anche all’estero – all’arte, al paesaggio fino ad arrivare alla lingua (cfr. cap. II). Il territorio, richiamato dal termine paesaggio, e la lingua, risultano dunque due caratteristiche che, non a caso, rivestono una grande importanza in termini identificativi. Al capo opposto ricevono i minori consensi il riferimento alla mafia e al Welfare. Coloro che sono giunti dopo gli anni ’80 – periodo in cui si stava smorzando lo stereotipo dell’italiano mafioso – reputano nella maggior parte dei casi la mafia come elemento caratterizzante l’Italia, mentre la regione di provenienza ottiene, per entrambi i gruppi, l’associazione meno forte con tale tratto. All’interno dei processi identitari capita sovente che vengano attribuiti alti gradi di identificazione a fattori positivi (Fabietti, 2004). La mafia non solo sarebbe una caratteristica negativa qualora la si associasse allo Stato, ma inoltre richiama uno dei luoghi comuni più sofferti dagli emigrati, soprattutto in passato, stereotipo che veicola(va) l’equazione “Italia = mafia”200 e, in maniera traslata, “italiani = mafiosi”201. Il fatto che coloro che sono emigrati dopo gli anni ’80 abbiamo indicato la mafia, a dispetto dei precedenti, come un aspetto in parte caratterizzante l’Italia può essere letto in vario modo. A partire dalla fine degli anni ’70, con il cessare della grande ondata di emigrazione italiana, con i processi di integrazione delle comunità italiane e, soprattutto, con il subentrare in vari contesti di una forte immigrazione da contesti non occidentali, si riscontrò all’estero una sorta di ricollocamento dell’italiano in una posizione meno svalutativa rispetto al passato. Secondo questa ipotesi, la differente reazione alla parola mafia per i nuovi arrivati si spiega col fatto che non tocca la nota dolente di uno stereotipo subito202.
Per comprendere quanto tale associazione sia attualmente presente all’estero, si veda l’applicazione What Country per iPhone, iPad e iPod touch, in cui ogni Stato è identificato da alcune caratteristiche. Gli elementi scelti per l’Italia sono stati la pizza, la mafia e lo scooter. Si legge nella presentazione dell’applicazione alla voce “mafia”: “La mafia in Italia è grande. Nessuna sorpresa! È nota come Cosa Nostra. Le altre sono la camorra e la ‘ndrangheta. La mafia italiana forse è meglio conosciuta per le sue tradizionali attività criminali, come l’estorsione e il racket della prostituzione. La mafia oggi in Italia, tuttavia, è diventata molto più sofisticata e ha diversificato il suo portafoglio di attività criminali. La mafia in Italia costituisce una formidabile forza economica che rappresenta circa il 10% del PIL. Il fatturato annuo della mafia italiana è stimato intorno a 10 miliardi di euro”. Proprio riguardo alla selezione della criminalità organizzata come aspetto identitario di distinzione, il capogruppo Pd in Commissione Antimafia, Laura Garavini ha presentato un’interrogazione parlamentare al Ministro dell’Interno (Licata, 2010). 201 I media nord americani (statunitensi e anche canadesi) tendono a diffondere, soprattutto attraverso le immagini e le storie cinematografiche, lo stereotipo dell’italiano mafioso. Uno dei film che ha contribuito maggiormente alla diffusione nel tempo di tale visione è il film Il Padrino; non a caso si parla del Godfather paradox proprio per identificare l’incisività di tale visione (L’Orfano, 2009, p. 142). Lo straordinario successo statunitense (ma anche canadese) della serie Sopranos rende conto dell’attrazione che ancora oggi tale visione suscita nei nord americani. “Il critico Richard Gambino faceva notare quasi trent’anni fa che ‘il mafioso compete con il cowboy per il ruolo più importante nel folklore americano, e la Mafia compete con la vecchia frontiera americana come fonte di intrattenimento popolare’” (Gardaphè, 2009, p. 302). 202 Per le ripercussioni che tale stereotipo ha comportato nel tempo si rimanda anche al noto testo di Stella (2003). 200
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Ma è anche da considerare il più volte menzionato profilo dei migranti; questi ultimi, si è detto, a partire dagli anni ’80 presentano uno status socio-culturale più elevato. Questo ha comportato una minore discriminazione, felicemente coniugata con una fase storica meno problematica per la presenza italiana all’estero. In una sorta di circolo virtuoso, l’arrivo di migranti dal profilo differente ha sicuramente agevolato la cessazione di certi stereotipi che, in un mondo come il nostro, tendono a ricadere sui migranti lavoratori, occultando dietro “approcci etnici” di stampo discriminatorio problematiche squisitamente di classe (Stella, 2003). Inoltre la minor durata dell’esperienza migratoria e la già ricordata maggior frequenza dei ritorni portano i giovani migranti a costruire uno sguardo meno idealizzato sul contesto d’origine, il che induce una maggior attitudine a scorgere aspetti non lusinghieri di tale contesto. I vecchi migranti, la maggior parte dei quali ha sviluppato un forte senso nostalgico rispetto all’Italia e alla regione, hanno dunque palesato in vario modo la loro avversione per la presenza di tale opzione all’interno della griglia mostrata durante l’intervista. Alcuni hanno seccamente affermato di non conoscere il significato della parola o, in maniera ancora più forte, hanno esclamato: “La mafia? Non esiste” o, in ultimo, “Io non sono mafioso”. Tale contrarietà è assolutamente assente tra i giovani e tra coloro che presentano un livello d’istruzione medio-alto. I giudizi sulla regione che, come accennato, mostrano un andamento simile a quelli rivolti allo Stato, vedono tra le caratteristiche considerate più rappresentative il cibo, il paesaggio e la lingua. In termini relativi dunque l’idioma locale supera per importanza identificativa l’arte che – insieme a tutti gli altri fattori della cultura “alta” come storia, letteratura, cinema e scoperte scientifiche – si attesta per la scala regionale come fattore identificativo di gran lunga meno importante che per quella statale. La “tradizione”, che sembra incarnata fortemente dal “mondo regionale”, si esplica nel valore attribuito ai balli; solo per questo aspetto il dato riferito alla regione supera quello statale. Altro elemento degno di nota, è il valore in termini identificativi attribuito alla mafia, che per la regione è ancora più nettamente negativo rispetto a quanto indicato per lo Stato. Anche in tal caso, quanto emerge può essere interpretato come un modo per sottolineare la propria estraneità (e quella del proprio contesto regionale d’origine) rispetto a un aspetto scomodo (in termini identificativi, ma non solo) come quello della mafia. 3. Identificazione con l’Italia e con il Canada Una parola cardine che ritorna in molti discorsi degli emigrati di prima generazione – soprattutto i più anziani – rispetto all’Italia è “nostalgia”. La sofferenza per la condizione di sradicamento ha un ruolo centrale nell’elaborazione, nella concettualizzazione e nella narrazione di alcune identità diasporiche (Papalia, 2007) (cap. I). Il dolore, la lacerazione di stili di vita e di abitudini, la mancanza, sono infatti sentimenti attraverso cui alcuni migranti sviluppano e rinsaldano un forte attaccamento al luogo, che viene spesso idealizzato come la “casa” ormai perduta. Con la nostalgia si può eludere una situazione di difficoltà grazie all’idea di un’epoca d’oro in cui il discorso identitario appariva stabile e “naturale” (cfr. cap. I). Questo ha però comportato spesso una sostanzializzazione e cristallizzazione identitaria, con annessa difficoltà a integrarsi nel contesto di immigrazione. Luogo e tempo ormai andati si
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possono infatti confondere in una visione idealizzata dai confini spesso fortemente sbiaditi del contesto lasciato. Soprattutto in passato, le differenze, in termini di abitudini, di “globalizzazione” dei gusti e di difficoltà d’integrazione, hanno sicuramente alimentato un sentimento nostalgico e un attaccamento alla rete di connazionali203. Int.: [L’emigrazione è vissuta] con tanta nostalgia, tanta tanta nostalgia avevano bisogno dei loro canti, avevano bisogno del loro cibo, cosa che era difficile a trovare […].
Con il trascorrere del tempo e col delinearsi del processo d’integrazione, gli stili di vita e i gusti si sono in parte modificati assorbendo – spesso proprio attraverso le esperienze delle seconde generazioni – alcuni tratti delle abitudini e usi del contesto d’arrivo. Si considerino due episodi emblematici raccontati da L. Fronteddu, che descrive il processo di integrazione come lento e graduale, fortemente agevolato dall’inserimento dei figli, che fungono da ponte tra realtà domestica e nuovo contesto di vita. L. Fronteddu: È stato naturalmente un inizio graduale […]. Si faceva quello che conoscevamo le altre cose “Non so bene il significato, ma va bene lo stesso” […]. Come i figli crescono che vanno a scuola allora inizia l’integrazione perché la scuola canadese vuole che la famiglia partecipi, i figli nostri sono andati alla scuola cattolica allora è sovvenzionata per un tanto dallo Stato un tot per cento e l’altro deve venire dalla famiglia e questo sovvenzionamento può venire e deve venire sia finanziariamente sia in aiuto proprio aiuto aiuto, bisogna spendere tante ore a scuola aiutare in tanti modi allora è in quel momento che uno inizia ad integrarsi perché dopo ci sono le altre mamme e si è portati sia ad imparare di più la lingua e sia a vedere quello che fanno gli altri e a vivere come vivono gli altri. L. Fronteddu: Qui c’è la festa del ringraziamento che è una grande festa come il Natale il Thanks giving! […] Allora è ritornata mia figlia [da scuola] il giorno dopo in lacrime… mi ha detto che non sarebbe mai più andata a scuola il giorno dopo del Thanks giving e perché? “perché la maestra ha chiesto chi ha mangiato il tacchino e tutti hanno alzato la mano e io non ho potuto alzare la mano, perché, perché io non ho mangiato il tacchino”. Da quel giorno io ho fatto una promessa a me stessa al paese che mi ospita ai miei figli che da quel giorno avrei celebrato il Thanks giving come canadese e infatti adesso ogni anno si mangia il tacchino.
Ritorna spesso, nei racconti delle persone con cui ho avuto modo di parlare, questa adozione di abitudini nuove, legate al luogo di residenza, che scandiscono nel tempo le tappe di un’integrazione non solo possibile, ma che per la maggior parte si è ormai compiuta (per quanto non senza sofferenze). Durante la ricerca empirica, nonostante siano emerse impostazioni differenti nei confronti dell’Italia (che sfuma-
203
“Il disoccupato pugliese o napoletano, sbarcato in America, si ritrova fra uomini di lingue, di leggi, di costumi diversi, si sente più solo e debole che mai. Allora si rifugia tra i connazionali, tra i quali ha quasi sempre un parente, un amico o un recapito, e tra i connazionali rimane anche se talvolta ne riceve inganni ed è costretto a una vita difficile. Se lo ha spinto la necessità, l’abitudine lo mantiene. E quel che fa l’uno fanno gli altri che sopraggiungono. E così nelle grandi città americane dell’Atlantico si sono venute formando in poco tempo delle immense agglomerazioni di italiani, i quali pur vivendo a contatto della civiltà, e pur prestando i più nudi e umili servizi, le restano quasi sempre estranei, e non riescono, se non raramente, ad appropriarsi di qualche parte” (Bianco e Angiuli, 1980, p. 8).
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vano dalla rabbia alla nostalgia), rispetto al Canada – “patria d’adozione” – i discorsi della maggior parte delle persone hanno manifestato un segno positivo. L’impressione che si può trarre dalle interviste e dall’osservazione partecipante è che, oltre alle difficoltà più o meno grandi incontrate dai singoli, al di là della malinconia o della rabbia sviluppate rispetto al contesto d’origine, il Canada non sia mai stata una scelta rimpianta. Si è cercato insomma di far convivere, là dove si sono sviluppate, differenti appartenenze territoriali. L’esperienza migratoria è infatti per gli intervistati alla base di una spiccata identificazione con il contesto di nuovo insediamento (fig. 14).
Fig. 14. Identificazioni a confronto: prima e seconda generazione di intervistati.
Il fatto che la risposta prevalentemente fornita rispetto all’identificazione sia stata quella di “italo-canadese”, ci porta a interrogarci sul valore assunto dal trattino posto tra le due nazionalità. Il doppio riferimento è alla base di quella particolare forma di identità che prende il nome di diasporica, e che evoca una compresenza (anche narrativa) di riferimenti a vari contesti territoriali e culturali (cfr. cap. I). Identità coma zona interstiziale, betweennes per usare il calzante termine anglofono, in cui vengono mediate, in un gioco di tensioni molteplici, le esperienze dei migranti fatte di separazioni, di intrecci, di ricordi e desideri (Clifford, 1999). Identità multiple che, nel momento in cui aprono la strada a concetti come quello di “ibridità” (Gupta e Ferguson, 2008), non possono che svelare la loro natura problematica. L’identità diasporica può presentarsi infatti (cfr. cap. I) sotto le spoglie di un’identità molteplice che riesce a far convivere il doppio riferimento territoriale, o come doppia appartenenza monca, in quanto letta e vissuta come una assenza di unità “primigenia”. Nel primo caso, il trattino che unisce i due riferimenti culturali e territoriali nel termine “italo-canadesi”, è un trattino d’unione che assomma su di sé questa doppia presenza:
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R. Vultaggio: Quando io diventai cittadino canadese il giudice mi disse “Ti faccio una domanda stupida però voglio una risposta intelligente: in caso di guerra con chi ti schieri?” e io dissi […] “Lei cosa farebbe se stasera torna a casa e vede sua moglie che litiga con sua madre? Con chi si schiera?” e lui “No, va bene va bene” dice “ok, mi basta così!”, ecco non ha detto quindi con chi si schierava, e io non gli ho detto con chi mi schieravo, no? cioè l’Italia è la madre e naturalmente per me il Canada è mia moglie, capisce? L’ho adottata, mi sono sposato con un’altra, un’altra patria, no? però la mia patria è quella, capisce, no? e questa è adottiva quindi c’è una bella differenza (tossisce) però non vuol dire che tu un figlio adottivo lo devi maltrattare il tuo figlio legittimo lo tratti bene, tutti e due ti stanno vicino in ogni caso, no? so, così me la sono cavata bene.
La metafora usata dal giornalista ed editore è fortemente icastica e ci permette di trovare nuovamente il paragone tra contesto d’origine e madre (cfr. cap. V), a cui si affianca l’altro parallelismo tra contesto d’origine-figlio legittimo. La madre non si sceglie, è una delle figure più importanti per la vita di ogni essere umano, e metaforicamente rimanda al luogo di nascita. La terra d’arrivo è invece, rimanendo su un piano metaforico, rappresentata dalla moglie e, in un secondo momento, dal figlio adottivo. Sia la moglie che il figlio adottivo sono scelte, ma non per questo meno volute o meno importanti di un genitore o di un figlio naturale. Se l’identità, per riecheggiare parole di tipo primordialista, è iscritta nei geni (la madre), l’identità diasporica pur non rinnegando la madre (l’origine) si definisce a partire da nuove “dinamiche” di affiliazione, da nuovi universi familiari. Terra d’arrivo (madre) e terra di residenza (moglie) hanno semplicemente ruoli differenti, ma non in conflitto tra loro; una persona non deve per forza preferire l’una all’altra in un gioco di priorità forzate; ovvero scegliere, in maniera traslata, tra essere “italiano” o essere “canadese”. Nel caso in cui tale decisione si ponga in tutta la sua drammaticità per il singolo, il trattino del termine italo-canadese, più che rinviare a un’identità molteplice vissuta in maniera inclusiva dei diversi riferimenti territoriali, riporta invece a una lacerazione perenne che rende compresenti, ma senza riuscire a riunirle del tutto, le due appartenenze: R. Di Trollio: Purtroppo tantissimi nostri connazionali, nonostante che abbiamo fatto passi da giganti non sono diventati mai Canadesi e non sono più neanche Italiani, perché l’Italia di oggi non è più quella di ieri, di quando l’hanno lasciata e stando qua non sono diventati mai al 100% Canadesi.
Questa dinamica dell’identità lacerata sembra maggiormente presente fra coloro che giunsero tra gli anni ’50 e gli anni ’70. L’esperienza migratoria come momento di frattura che non ha mai fine è fortemente presente all’interno dei tanti studi esistenti sul tema ed è stata confermata dalle parole degli italiani di Vancouver. Abbiamo anche avuto modo di notare nel precedente capitolo (cfr. cap. V) quanto il viaggio si ponesse spesso come cesura, ovvero momento di non ritorno, che si conferma come tale nel momento in cui si tenta di ristabilirsi in Italia senza però riuscire ad adattarsi. A questo proposito si possono raffrontare tre citazioni, che richiamano le principali dinamiche emotive che hanno coinvolto soprattutto le prime generazioni di migranti lavoratori:
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La migrazione è un viaggio di sola andata. Non c’è una “casa” a cui fare ritorno (Hall, in Chambers, 1996, p. 14). … Non puoi più tornare a casa. Perché? Perché sei a casa… (Garber, in Chambers, 1996, p. 48). The question, “When are you going home?” can be responded to in the following manner: home is here, in my migranthood (Chow, in Fortier, 2000, p. 157).
Questa similitudine tra i luoghi di appartenenza e la Casa con la C maiuscola è presente non solo negli studi accademici, ma nelle parole degli stessi migranti. La difficoltà nel definire che cosa sia casa e che cosa non lo sia è dunque spesso presente nel momento in cui si hanno due riferimenti territoriali. Da una casa che non esiste più, a una nuova che spesso non viene vista perché si anela a un ritorno che non può avere luogo. E non può avere luogo perché a casa si è già, nel proprio migranthood, nella propria condizione di migrante. È però necessario ribadire che quella betweeness che si pone come problematica per molti, non è quasi mai, all’interno della comunità di Vancouver, detonatore di conflitto. Tale aspetto si evince chiaramente dalle narrazioni identitarie così come esposte dagli intervistati non solo nel confronto tra le appartenenze strutturate sui contesti d’origine (locale e nazionale), ma anche in rapporto alla relazione tra Italia e Canada. Non è un caso che la risposta principalmente fornita alla domanda sull’identificazione sia stata riferita sia all’Italia che al Canada, come non è casuale il fatto che il Canada sia uno Stato che, lungo l’arco della sua storia, ha sempre permesso che identità di gruppo forti rinsaldassero l’identità generale del paese, facendo della multiculturalità e della diversità uno dei suoi tratti identificativi principali (cfr. cap. III). Il sentimento di nostalgia e di sradicamento, che è stato notato ampiamente all’interno della “vecchia” comunità di Vancouver di prima generazione, sembra totalmente stemperato nei processi identitari delle generazioni successive e dei nuovi migranti. Solamente due persone hanno esplicitamente scelto di non legare la propria identità a un luogo particolare, definendosi, anche se con due termini in parte antitetici, “cittadino del mondo” e “apolide”. La maggior parte delle persone ha dunque optato, al di là del profilo socio-culturale, per il doppio riferimento territoriale. Si può dunque ipotizzare, per i motivi analizzati in sede teorica e per quanto emerso durante interviste e osservazione partecipata, che le identità strutturate dai nuovi migranti siano meno lacerate delle precedenti, perché manca quello strappo che per i primi emigranti è legato all’atto quasi forzato della migrazione. Il processo di integrazione per i migranti di nuova generazione sembra, grazie agli strumenti socio-culturali in possesso, molto meno sofferto. Le situazioni di incomprensione tra vecchi e nuovi migranti e di non riconoscimento, da parte dei primi, dei tratti e abitudini considerati fondanti dell’italianità, sono un tema presente anche all’interno della letteratura specialistica sul tema (cfr. cap. I) (Orsi, 1990). Durante l’osservazione partecipata non è emersa questa forte divergenza, benché la si ritrovi all’interno dei discorsi degli intervistati. Tale mancanza è dovuta prima di tutto al processo di adattamento dei vecchi migranti, che hanno dovuto comunque confrontarsi con modi di pensare, usi e costumi differenti dall’immagine cristallizzata da essi conservata. Inoltre, il luogo in cui è stata svolta l’inda-
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gine, il Centro culturale, seleziona gli italiani di “nuova generazione” più disposti a entrare in contatto con i “vecchi” migranti. V. Serviziati, data la sua attività all’interno dell’Ital-UIL, ha potuto invece notare dinamiche che si esprimono fuori dalla comunità come da me indagata in questa sede. Interessante a tal proposito l’incontro avuto, al di fuori dell’ambito delle associazioni, con una ricercatrice italiana Cristina M. di Milano, che ormai da anni vive a Vancouver. Lei non ha mai frequentato associazioni italiane, né ha mai sentito la necessità o il desiderio di farlo. La spiegazione è presto data: l’intervistata afferma di sentire costantemente i genitori e gli amici in Italia e questo contatto costituisce per lei il vero “circolo italiano”. Non conosce o frequenta altri italiani a Vancouver (il suo italiano è comunque perfetto e fluente, si vede che l’ha sempre mantenuto vivo nei contatti con l’Italia). Non guarda i programmi italiani e non è informata dei fatti politici; afferma che per via degli impegni familiari e lavorativi non ha il tempo di occuparsi della politica italiana. La ricerca di un’idea di identità non essenzialista, ma plurale e cangiante, è stata perseguita anche all’interno del raffronto che abbiamo condotto nel capitolo precedente; ovvero quello tra l’insieme della comunità e quella parte di essa che è costituita dai sardi e dai friulani. I due gruppi si sono rivelati di grande interesse. Il richiamo identificativo alla terra d’origine sembra per sardi e friulani, al di là del dato linguistico, molto forte alla scala regionale-locale, che quasi eguaglia il riferimento a quella statale (fig. 15). In entrambi i casi però viene indicato un duplice riferimento territoriale (italo- canadese; sardo-canadese; friulano-canadese). Il fattore del topos, ovvero del luogo – per riprendere il termine utilizzato da Tullio Altan (1995) (cfr. nota 7, p. 8 E’ CORRETTO??) – per sardi e friulani sembra dunque più forte rispetto al logos, alla lingua, nello strutturare identità legate a una scala subnazionale.
Fig. 15. Identificazioni a confronto: sardi e friulani rispetto al resto degli intervistati.
Come visto, infatti, a una forte identificazione territoriale alla scala regionale- locale, fa da contraltare un bassissimo grado di uso e simbolizzazione linguistica per i sardi e un grado più elevato di essi per i fruilani (cfr. cap. V). All’interno dei discorsi
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identitari formulati dai sardi, a un valore elevato attribuito all’origine territoriale (il provenire dalla Sardegna), non fa dunque riscontro una forte simbolizzazione del dato linguistico (il sardo come lingua di comunione). È d’obbligo ricordare però che la “dispersione” territoriale dei sardi e la loro presenza irrisoria sul territorio indagato non permettono che esista quella maglia sociale di spendibilità linguistica che è uno dei motivi principali del mantenimento linguistico (cfr. cap. II). Specularmente, sono avvantaggiati i friulani che, seguendo il trend tracciato dagli altri intervistati, usano la lingua minoritaria – anche se in maniera meno netta di quella italiana – a partire proprio da una rete di frequentazioni che trova nella Famee Furlane luoghi e momenti di incontro. 4. Aspetti generazionali: Italian Canadian Generations I figli degli emigrati sviluppano e narrano differenti sensi di appartenenza rispetto alle origini dei genitori. Questi processi identitari sono anch’essi di natura complessa e dipendenti da vari elementi, tra cui la velocità di integrazione nel nuovo contesto e l’educazione impartita in casa (cfr. cap. I). Illuminante in proposito l’analisi compiuta da L. Fronteddu dei processi identitari trasversali a tre generazioni, prima, seconda e terza: L. Fronteddu: La migrazione divide la gente in tre diverse categorie. C’è l’emigrato diretto che arriva e porta con sé un bagaglio di tutto quello che ha lasciato, quella che è stata la sua vita, la sua educazione e tutto cerca di integrarsi se è fortunato ci riesce. […] Poi c’è la generazione dei figli nati dagli emigrati diretti che sentono il papà e la mamma sempre con questi ricordi con questa nostalgia, “tu non fai quello perché da noi non si fa”, “quello non lo puoi fare perché quello è superstizione”, “quello vuol dire questo, quello vuol dire quest’altro”. [I figli] sono tirati tra l’educazione che noi diamo in casa e quella che ricevono a scuola e la vita poi normale con i loro coetanei e con la vita sociale che loro fanno. Allora la prima generazione sta male e vive di nostalgia, la seconda (tossisce) vuole accontentare papà e mamma però vuole anche vivere la sua vita e accontentare li amici e qui dov’è nato, la terza generazione è quella che si scuote tutto di dosso e dice “io sono quello che sono qua, e finito, sono solo canadese nel nostro caso, va bene italiani erano mio nonno e mia nonna e i miei genitori” e sono felici e sono orgogliosi però non c’è più questo tira e molla.
La seconda generazione, a partire dall’esperienza dell’intervistata, è quella che maggiormente incarna il limbo della doppia origine. Difficilmente si può omettere di legare tali parole a quanto affermato nel capitolo II. Senza cadere nella lettura generazionale lineare così come espressa da Hansen, si può evidenziare che, quasi per certo, i riferimenti conflittuali che potevano opporre in passato i vecchi precetti familiari ai nuovi usi “americani”, con il passare del tempo vengono meno. Ma vengono meno non perché – come nella lettura triadica di Hansen – la terza generazione redime l’oblio sviluppato dalla seconda nei confronti delle proprie origini culturali; bensì perché la terza, non vivendo in parte quei conflitti generazionali che hanno caratterizzato in passato le dinamiche di molte famiglie italiane emigrate, possono sviluppare nei confronti delle proprie origini, volendo, un attaccamento più superficiale e generico che non mette in dubbio la loro presenza attiva all’interno della nuova società (Nahirny e Fishman, in Martellone, 2005).
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L’orgoglio è una delle parole più presenti nei discorsi degli intervistati di seconda generazione che, al di là di tutto, affermano di sentire fortemente le proprie origini italiane204. La figura 14 mostra la presenza, anche in seno a tale gruppo, della doppia identificazione, italiana e canadese. Il riferimento alla regione di provenienza dei genitori è meno forte, come raro è il rimando alla sola identificazione italiana. Al decrescere di quest’ultima, con la seconda generazione, aumenta in maniera ragguardevole (e quasi speculare) il riferimento alla sola appartenenza canadese. Tali dati naturalmente non stupiscono. Prima di tutto il riferimento meno forte alla scala regionale è da inscriversi all’interno di quella minore conoscenza dell’ambito d’origine di cui abbiamo avuto modo di discutere (cfr. cap. III). Inoltre, la prevalenza del riferimento al solo Canada è frutto diretto dei processi di integrazione e soprattutto dell’esperienza di vita di persone che, nate in un luogo, strutturano sentimenti di lealtà territoriale nei confronti del contesto di nascita e di residenza. Le seconde generazioni, soprattutto i giovani intorno ai venti-trent’anni, non sembrano pronte a recepire un testimone che la “vecchia comunità” pare voler dare loro. La scarsa presenza dei giovani durante le attività della comunità è un dato di fatto, a eccezione di quanto accade durante alcuni eventi sporadici, come Miss Calabria, che riescono a catturare l’interesse e la partecipazione delle giovani generazioni. Tale mancanza si è potuta riscontrare negli incontri avvenuti all’interno della federazione delle associazioni italiane canadesi. L’unica rappresentante di Vancouver è stata, negli eventi di Edmonton del 6 ottobre del 2007 e dell’11 gennaio del 2008, C. Fogale: C. Fogale: Ad ottobre c’erano 40 ragazzi di Montreal, 40, io ero l’unica di Vancouver e 40 di Montreal! […] Ah, come parlavano! Parlavano italiano, francese e in inglese, e inglese, parlavano tutte tre correntemente, è proprio, è proprio una meraviglia! Io sono rimasta con la bocca aperta.
Proprio per radunare altri giovani italiani o italo-canadesi si è svolta a Vancouver il 5 aprile del 2008 una riunione a cui hanno partecipato una trentina di giovani. La “mancanza di continuità”, così come viene definita questa latitanza dei giovani dalle attività dell’Italian Cultural Centre, causa in molti un forte rammarico, per quanto velato di comprensione205. C. Fogale è, caso raro come da lei stesso riferito, una giovane di seconda generazione che desidera assumere un ruolo attivo all’interno del Centro di Cultura italiano,
M. Lombardi: “Per noi la Basilicata è un paese del sud e allora ci sono molti delle membri del nostro associazione di prima generazione sono tutti lavoratori, allora non sono educato, mio padre è andato grade two, come si dice? […] seconda elementare e mia madre il quarto, allora c’è una generazione che non sono stati a scuola per un bel po’ di tempo, ma adesso la seconda generazione è cambiato tutto, you know? per me la seconda generazione ci ha un altro degree, mio fratello ci ha il master degree allora cosa si cambiano adesso? Per noi è più cosa di pride mantenere qualcosa del nostro… when we were young”. 205 V. Bruno: “Il giovane non viene il giovane non si interessa perché non sente quello che noi, quello che è nato e cresciuto in Italia sa benissimo. […] Il futuro allora io la vedo così, fin quando ci saranno persone come me che credono ancora nell’associazionismo, nel mantenere la nostra tradizione”. 204
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portando il bagaglio delle sue “origini” italiane e della sua identità rafforzata dall’acquisita competenza linguistica in italiano. E. Uda, giovane di seconda generazione, sembra presentare l’altra faccia della medaglia: E. Uda: [Mio padre, nda.] mi ha insegnato di apprezzare la mia cultura sarda però il legame non c’è con la Sardegna perché io non ho vissuto lì, non so e mi immagino che altri figli di sardi non ce l’ha questo rapporto così stretto con la regione […] I’m not giving a judge. Imagine us, stiamo guardando gli stessi programmi, stiamo guardando gli stessi internet sites questo legame con la cultura sarda, con questi costumi sardi, con questi dolci sardi è bello, però è un anacronismo questo non esiste più nella vita moderna, noi siamo diversi ai nostri genitori anche i giovani in Sardegna immagino non ci hanno più questo legame così forte non è così importante adesso che tutti i giovani stanno viaggiando, anche gli italiani stanno uscendo e: provando altre cose, non so, there has to be more than just balli sardi per avere questi circoli.
Questo brano tocca uno dei nodi più spinosi della questione identitaria e lo fa in maniera chiara e comprensibile. L’intervistata pone problemi di natura generazionale e storica insieme. Il mondo attuale, sempre più globalizzato e interconnesso, renderebbe anacronistici certi riferimenti a quelli che lei definisce “nazionalismi”; inoltre le nuove generazioni, non avendo vissuto nei contesti di nascita dei genitori, non possono strutturare un attaccamento alla realtà paragonabile a quella di coloro che hanno vissuto l’esperienza migratoria. La giovane richiama dunque, inconsapevolmente, quella che è stata la spiegazione al non coinvolgimento dei giovani nelle attività dei circoli così come espressa da V. Bruno: “Il giovane non sente quello che noi, quello che è nato e cresciuto in Italia sa benissimo”. Emerge un altro aspetto da rilevare; il fatto che la Sardegna venga associata durante l’intervista all’immagine spesso “stereotipata” dei balli, dei costumi, dei dolci, del pecorino, fa trasparire una specifica riluttanza a un modello ben preciso di identità, di tipo “sostanzialista”, con determinate caratteristiche che sono o da accogliere o da rigettare. Abbiamo infatti avuto modo di notare (cfr. cap. I) come spesso i giovani si ribellino a una identità collettiva così come descritta dalle generazioni precedenti; un’identità primordiale e predeterminata che può essere semplicemente accolta, ma mai modificata (Nash, 2002). E tale difficoltà di “comunicazione” è ben esemplificata dalla conclusione del discorso: E. Uda: I don’t know, I don’t know I don’t have idea to what he aspected us to pass on.
Esistono naturalmente degli avvenimenti che rinsaldano in maniera collettiva vecchie e nuove generazioni. L’avvenimento più citato è stata la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio del 2006. R. Vultaggio: C’erano circa 15.000 giovani di origine italiana, ti parlo adesso di bambine, bambini dai sei anni ai vent’anni che non hanno niente a che fare con l’Italia, ma che in quel periodo si sentivano più italiani che mai perché il nonno, il bisnonno erano italiani, capisce, no? quando vedo tutti questi bambini con le maglie azzurre che gridavano “Viva l’Italia”, no? Ed è stato molto bello, cioè abbiamo italianizzato un’altra volta la gioventù grazie alla coppa del mondo. Il calcio fa tanto, tanto, promuove tanto l’Italia il calcio.
Tali avvenimenti sono però rari e associati ad avvenimenti eccezionali e popolari come la vittoria a un mondiale di calcio.
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[I]l grande evento sportivo – fruito per il tramite della costruzione televisiva – opera come luogo drammaturgico del riconoscimento, in cui la continuità della rappresentazione di sé attraverso la squadra nazionale assolve una funzione essenziale […]. Il calcio ha rappresentato spesso un formidabile terreno di rivincita simbolica e di riscatto psicologico per gli italiani (Porro, 1995, pp. 77-78).
Possiamo pertanto ritenere tali occasioni, soprattutto quando lette in termini di coinvolgimento intergenerazionale, di natura transitoria ed estemporanea, simboli sì, ma di una “comunione” che raramente si può trovare nel quotidiano.
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CONCLUSIONI Community, here, is nothing but imagined, political and contingent. But it is imagined in terms that objectify particular values as foundational and guarantors of continuity. […] The definition of the local includes the construction of a terrain of belonging which is configured around notions of migration, settlement, alienation, sacrifice […] (Fortier, 2000, p. 64).
La comunità di Vancouver, per riprendere le parole di A.M. Fortier (2000), è “immaginata”, ma lo è attraverso particolari valori e (aggiungeremo) pratiche e narrazioni che le permettono da un lato di mantenere contatti e ancoraggi con il contesto di provenienza, dall’altro di avere visibilità e di “ritagliarsi” una propria storia nel proprio migranthood, il territorio canadese. Le elaborazioni della diaspora italiana a Vancouver sono state caratterizzate da una forte variabilità, che si è potuta ravvisare a partire dai mutamenti linguistici e culturali che hanno coinvolto prima di tutto i migranti stessi – giunti in questo parte di mondo nei vari momenti e con il proprio bagaglio materiale e immateriale – e in seguito i loro figli, disegnando percorsi specifici di negoziazione delle stesse identità a opera dei soggetti. Il periodo in cui ha avuto luogo l’anno di emigrazione, la collocazione sociale, il profilo lavorativo, il livello d’istruzione, sono alcuni degli elementi che hanno prodotto differenti percorsi identitari (Audenino, 1999) che si specchiano in pratiche e narrazioni altrettanto varie. I processi di identificazione che portano alla creazione del gruppo “italo-canadese”, e che dal gruppo procedono per inglobare nuovi soggetti, sono fortemente strutturati a partire proprio dall’esperienza migratoria, che è incarnata dal trattino di congiunzione tra i due riferimenti territoriali all’Italia e al Canada206 (cfr. cap. VI). Il lavoro ha permesso di individuare una pluralità di legami dal carattere sia materiale che simbolico, che uniscono gli intervistati, alle differenti scale, a più ambiti territoriali e linguistici. L’esperienza migratoria, sia in campo linguistico che da un punto di vista delle appartenenze territoriali, si è manifestata come momento di spiccata italianizzazione rispetto a quelle identità locali che paiono essere, soprattutto nell’immediato secondo dopoguerra, il principale riferimento per i migranti lavoratori (Gozzini, 2005). Per quanto riguarda invece l’identificazione alla scala regionale, essa – pur presente grazie al ruolo delle associazioni regionali che rinsaldano lealismi alla scala subnazionale – non lede l’identificazione alla scala nazionale; quest’ultima appartenenza abbraccia infatti la prima, ma non viene affatto depotenziata da essa.
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“Quando sono in Italia mi dicono ‘L’americano è arrivato’; quando sono in America, negli Stati Uniti dicono ‘Il canadese è arrivato’; quando sono nell’Ontario dicono ‘Il quebecchese sta qua’; quando sono in Quebec: ‘L’italiano è qua’… Allora, praticamente, non so neanche io cosa sono; a seconda di dove sono, sono di differente natura. […] Io potrei dire che sono di origine italiana, ma canadese” (intervista a Teodoro, Floriani, 2004, p. 135, sottolineatura mia). “Il senso di sradicamento, di vivere a cavallo tra mondi diversi, fra un passato perduto e un presente non integrato, tipico del migrante, è forse la metafora più calzante di questa condizione (post) moderna” (Chambers, 1996, p. 33).
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Ciò che è emerso dall’indagine non è pertanto la nascita del regional man (cfr. p. 29 E’ CORRETTO??), quanto il superamento di una logica di integrazione nazionale. Tale superamento si è tradotto in alcuni casi come difficoltà nel definirsi totalmente italiano o canadese207, oppure, in altri casi, come identificazione plurima che riesce a scavalcare le categorie statiche di identità nazionali territorialmente ascritte (cfr. capp. V-VI). Le reti che tessono rapporti e identità sono più forti e stringenti nel caso della prima generazione, ma risultano altrettanto presenti per la seconda, soprattutto se si considerano i rapporti che vengono mantenuti tra quest’ultima e i familiari residenti in Italia. Sul piano linguistico, pur permanendo ancora l’uso delle lingue locali, si osserva una progressiva diffusione dell’italiano all’interno del gruppo e, in maniera ancora più netta, della lingua inglese rispetto a entrambi i codici d’origine. Nonostante questo processo inevitabile e naturale di diffusione della lingua inglese, la lingua italiana rappresenta per gli intervistati un fattore identitario importantissimo; non è un caso che a un ampio valore a essa attribuito faccia riscontro un desiderio marcato di tutela e conservazione (cfr. cap. V).
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Le due visioni, presenti simultaneamente all’interno delle narrazioni comunitarie, richiamano rispettivamente una concezione essenzialista e una pluralista dell’identità.
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Finito di stampare nel mese di Novembre 2011 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • Pisa Telefono 050 313011 • Telefax 050 3130300 www.pacinieditore.it