Territori e resistenze. Spazi in divenire, forme del conflitto e politiche del quotidiano 8872859506, 9788872859506

Il volume analizza attraverso contributi teorici ed empirici i rapporti di coimplicazione che si stabiliscono tra i terr

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Territori e resistenze. Spazi in divenire, forme del conflitto e politiche del quotidiano
 8872859506, 9788872859506

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ESPLORAZIONI

© 2019 La Talpa srl – manifestolibri Via della Torricella 46 – Castel San Pietro Romano (RM) ISBN 978-88-7285-950-6 www.manifestolibri.it [email protected] Finito di stampare nel mese di settembre 2019 per conto di La talpa srl – manifestolibri presso LegoDigit, Lavis (Trento) Volume parzialmente finanziato dal Dipartimento FISPPA dell’Università degli Studi di Padova In copertina, opera di Lorenzo guen-dcn Scarabelli

TERRITORI E RESISTENZE Spazi in divenire, forme del conflitto e politiche del quotidiano a cura di Fabio Bertoni, Fulvio Biddau, Luca Sterchele

A tutt* le precarie e i precari della ricerca

INDICE Sterchele L., Bertoni F., Biddau F., Introduzione

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Castelli F., Spazi pubblici appassionati

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Giubilaro C., Resistenze Imperfette. Trasformazioni socio-spaziali a Ballarò (Palermo) 40 Biddau F., Questioni etiche e resistenze nella transizione energetica: quali sfide per le scienze sociali? 59 Senaldi A., “Effetti paradosso” della violenza dall’alto. Eccezionalità del caso valsusino o fallimento del dispositivo di gestione violenta del conflitto? 99 Consogno F., Un territorio da difendere. Geografie della resistenza nel Cauca colombiano 121 Turchetti A., L’arte dei margini: poetiche e politiche del confine Euro-Africano tra paesaggi di potere e spazi di resistenza 142 Bertoni F., Una questione di decoro. Territorializzazioni del controllo e pratiche di resistenza nelle arti di strada 163 Baselli V., Percorsi di resistenza artistica. Analisi di un progetto di educazione informale e popolare nei Quartieri Nord di Marsiglia 185 Stefani S., Baile de favela. Leggere le tensioni sociali di Rio de Janeiro attraverso la musica funk 201 Noia E., Pratiche di vita e di lavoro tra la dimensione individuale e la dimensione collettiva: il caso del WWOOF Italia 222 Guazzo C., Per scelta o per necessità? Il recupero alimentare al mercato tra stigma sociale, azione politica e vulnerabilità economica 239

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INTRODUZIONE Luca Sterchele, Fabio Bertoni, Fulvio Biddau In apertura alla seconda edizione francese di Storia della follia nell’età classica, Michel Foucault si interrogava criticamente circa le funzioni della Prefazione che stava scrivendo: egli notava infatti come, nel suo costituirsi come discorso ordinatore, l’introduzione al testo mettesse inevitabilmente in atto un’operazione violenta di confinamento dei significati, soggiogandone le possibili letture “selvagge” al dominio discorsivo dell’autore1. Questo rischio, che Foucault decise di evitare proprio attraverso la sua non-prefazione, si pone in maniera ancor più decisa nel nostro caso: l’eterogeneità dei testi che ci proponiamo qui di introdurre ci impone uno sforzo considerevole, non certo dovuto alla necessità di ricreare artificiosamente ed ex-post le condizioni per un dialogo tra di essi – la cui urgenza è invece il motivo stesso che ci ha portato a proporre questo volume – quanto piuttosto alla difficoltà di articolare un discorso che li riunisca senza ordinarli, che restituisca il senso delle associazioni senza annichilirlo in una narrazione unilineare e omogeneizzante. Il modo migliore per ridurre questo rischio, a nostro avviso, è quello di limitarci ad individuare e sviscerare quello che è il comune denominatore a tutti gli scritti presenti in questo libro: grazie alle differenti prospettive disciplinari delle autrici e degli autori, le riflessioni contenute nei testi qui riuniti cercano di indagare la relazione profonda che sussiste tra i territori e le forme di resistenza che si generano continuamente rispetto ad essi. L’operazione risulta comunque delicata, ma è forte del fatto che tutti i chiarimenti terminologici e concettuali che vengono qui sviluppati sono il frutto di intense giornate di discussione con le autrici e gli autori, le quali hanno permesso di illuminare con chiarezza i punti focali delle nostre ricerche. Muovendo quindi dalla coppia concettuale territori-resistenze, intendiamo spostarci in costante pendolarismo tra i due punti, con l’obiettivo fondamentale di farne emergere il rapporto di costitutiva co-implicazione. In altre parole, l’attenzione alternata che in quest’introduzione rivolgiamo all’uno o all’altro concetto non deve far pensare che tra questi sussista una sorta di 9

mutua indipendenza, ridotta da dei discorsi che si dipanano tra i due poli incrociandoli solo in maniera tangente. Il rapporto tra i due è al contrario fondamentale, ed è infatti proprio a partire da esso che i vari contributi trovano un punto di origine comune. Quest’introduzione intende quindi porsi principalmente come strumento di chiarificazione terminologica: se da un lato lasceremo che siano i singoli testi ad approfondire le configurazioni particolari che risultano dall’intreccio delle due dimensioni individuate, dall’altro riteniamo utile approfondire – prima singolarmente e poi delineando teoricamente quella che è la configurazione di massima risultante dal loro incrocio – quelli che sono i due elementi che compongono la coppia in esame. Entrambi i concetti infatti, pur essendo delle vecchie conoscenze per le scienze sociali, saranno sottoposti a degli usi che ne eccedono ampiamente il portato semantico “classico”, ben radicato nel senso comune, rendendo quindi necessario descrivere e tracciare le linee di travalicamento che rompono i confini di significato condivisi, evidenziandone l’angusta inadeguatezza. In queste pagine si troverà quindi un uso del concetto di “resistenze” che supera in maniera decisa le visioni di queste in chiave conservativa, come forme di opposizione ai mutamenti, favorendone piuttosto delle letture che ne evidenzino l’immanente portato produttivo2. In questo senso le resistenze devono necessariamente essere nominate al plurale, non tanto per un vezzo teorico postmoderno volto a rispondere alla frammentazione delle ontologie, né solo per descrivere la varietà e le differenze nelle pratiche e nei discorsi. Più profondamente, l’idea di resistenze risponde alla costitutiva molteplicità di un concetto che, così rimodellato, sfugge alla trappola della staticità sociale, e riporta il conflitto al centro del processo di trasformazione dell’esistente: la soggettività resistente, più che essere un solido masso posto a difesa del presente, è una scheggia che ne fende gli assetti, che se non sempre riesce ad intaccare il funzionamento del potere è in grado perlomeno di evidenziarne la costante presenza. I diversi contributi sono quindi accomunati dal definire e trattare la resistenza come una qualche forma di azione (sia essa verbale, cognitiva o fisica) che si configura in una relazione costante con il potere, con il quale si interseca in modi eterogenei. Tale concezione non ci deve indurre nell’errore di identificare il target della resistenza 10

in un referente specifico e riconoscibile in prima istanza, né a pensare che le resistenze e il loro portato siano necessariamente subordinate al potere con il quale si relazionano. Riconoscendo e mettendo alla prova una vasta gamma di pratiche di resistenza all’interno di molteplici sistemi socio-spaziali, i lavori qui presenti si interrogano sull’intersecarsi delle dinamiche di controllo sociale, di esercizio del potere, e le possibilità di agency e resistenza da parte di attori individuali e collettivi. Nel farlo, evidenziano come i sistemi sociali siano strutturati e strutturanti e, allo stesso tempo, aperti a varie pratiche interpretative e ri-configurative che, mostrando l’instabilità degli spazi e del potere, ne destabilizzano gli assetti3. La distinzione tra le differenti pratiche che verranno illustrate nei vari capitoli passa attraverso due chiavi di lettura che aprono a diverse interpretazioni e configurazioni delle resistenze: il modo in cui le pratiche sono rese visibili e riconoscibili ai diversi attori e il grado in cui queste possono essere considerate intenzionalmente consce del proprio portato politico. Il fatto che le dinamiche resistenziali assumano un carattere proattivo non deve infatti condurci a pensare che queste rispondano a delle strategie di azione precise e ben elaborate: più che di strategie è infatti opportuno parlare di tattiche, “astuti stratagemmi”4 messi in atto da parte di individui o gruppi che agiscono in un terreno per loro fuori controllo, che approfittano di occasioni istantanee e improvvise, aprendo o sfruttando le crepe nel controllo e provocando degli effetti di “sorpresa” nel potere5. Le forme di resistenza emergono infatti in siti sociali, al tempo stesso materiali e simbolici, di sottrazione alle forme dirette di sorveglianza, come ha ben mostrato Scott nel suo ormai classico “Domination and the Arts of Resistance”6 parlando di hidden transcripts. Un tema centrale di numerosi contributi qui presenti, nel dispiegare la narrazione e approfondire il rapporto tra resistenze e territori, è allora il continuo movimento di ridefinizione rispetto alla riconoscibilità e visibilità delle pratiche, tra sottrazione al controllo di un potere organizzato in regimi scopici7, e una richiesta di essere visti, come forma di riconoscimento e di espressione delle proprie soggettività, in cui proporre dei contro-discorsi agiti, prima ancora che parlati. Nel decostruire e interpretare tali pratiche, autori e autrici ne evidenziano la natura relazionale e socialmente costruita, non solo a partire dalla prospettiva e dal modo in cui queste sono riconosciute 11

e rese visibili da chi le agisce (nonché dagli osservatori esterni, in primis il ricercatore come soggetto attivo di tale costruzione), ma anche in virtù del riconoscimento e della reazione che suscitano all’interno della dialettica con le relazioni di potere. Di fatto, alcune pratiche di resistenza, come la mobilitazione collettiva quale esempio convenzionale, sono giocoforza pensate e agite per essere visibili e riconoscibili da parte degli attori che le producono, dal target della resistenza e da osservatori terzi. In contrasto, altre forme di resistenza sono meno ovvie e più ingannevoli, atte ad essere nascoste e offuscate, rendendole di fatto diversamente interpretabili, riconoscibili e visibili dai diversi attori, a seconda di quale sia l’obiettivo del soggetto resistente e il posizionamento di chi le osserva8. Indipendentemente da come autori e autrici decidano di utilizzare il concetto di resistenza e trattarla, questi quasi sempre finiscono per prendere (almeno implicitamente) una posizione sulla questione, mostrando una riflessività capace di decostruire e interpretare pratiche più o meno visibili, connotate o meno da una consapevole intenzionalità politica. Azione, reazione, riconoscimento e intenzionalità, sono chiavi di lettura comuni ai contributi, che ne fanno emergere la natura plurale, l’inerente complessità e in alcuni casi l’ambivalenza delle pratiche. Tutte queste azioni, accomunate dallo scontro con il potere, si differenziano enormemente al loro interno per una varietà di fattori, primo tra tutti il grado di intenzionalità politica che le caratterizza: in questo senso, per prendere degli esempi tratti da questo stesso libro, la distanza che separa l’attivista No Tav dal giocoliere che si esibisce ad un semaforo appare quasi incommensurabile. È però evidente altresì come entrambe le pratiche, analogamente a quelle analizzate negli altri contributi, siano investite dal potere e costantemente sottoposte a delle forme di controllo, per quanto questo si eserciti in maniera differenziale a seconda dei casi; ed è altrettanto evidente (e qui sta un nodo di interesse fondamentale) come tutte queste, seppur in forme diverse e peculiari, gli sfuggano senza posa. Per definire cosa sia la resistenza, non bisogna allora richiamarsi a una sorta di “immaginazione politica” esplicita e coerente, ma piuttosto a un prisma di frizioni che permette letture eterodosse della complessità del reale. Si pensi a come, attraverso il concetto di resistenze, sia possibile re-interpretare la partecipazione sommersa nelle economie informali: per quanto esterni a criteri 12

di organizzazione e strutturazione, in essa è possibile leggere un tentativo di “arrangiarsi” che è politicamente pregno9. In questo universo estremamente variegato e composito risulta quindi difficile tentare una presa analitica e politica decisa su di un oggetto tanto scivoloso: in primo luogo, l’interpretazione di una pluralità di pratiche come resistenza è connessa alla postura intellettuale e politica di chi la osserva10 e al suo posizionamento nei contesti, in relazione con i soggetti con cui costruisce il proprio sguardo nelle pratiche di ricerca. Inoltre, il concetto sfugge da ogni interpretazione a priori, essendo immerso nella specificità dei vissuti, dei corpi, delle esperienze e delle sensazioni. Al tempo stesso, è altrettanto vero che questa contestualità non risolve immediatamente il problema teorico e politico che ci si trova di fronte: è importante, anche per evitare facili romanticismi, riconoscere la profonda ambivalenza che caratterizza quelle che finora abbiamo chiamato resistenze. Michel Foucault ci insegna chiaramente che per quanto vi sia una continua istanza oppositiva nei confronti del potere, questa non si pone mai in una posizione di esteriorità nei suoi confronti11. Capita così che l’apertura di una via di fuga da una situazione percepita come particolarmente insopportabile riproduca a sua volta, lungo altre direttrici, delle situazioni altrettanto opprimenti e problematiche. Diversi contributi di questo lavoro verteranno allora sulla dinamica, mostrata già magistralmente nel lavoro di Philippe Bourgois12, in cui pratiche e spazi di resistenza da un lato offrono risorse materiali e simboliche a soggetti e gruppi marginalizzati, dall’altro riproducono ed esacerbano dinamiche di oppressione su altre linee, a partire da quella del genere. Non deve dunque sorprendere che si considerino forme di resistenza delle pratiche che si esprimono in un linguaggio totalmente estraneo alle categorie tradizionali del politico, che non frequentano né il lessico della rivendicazione né tantomeno quello del diritto (se non in quanto bersagli privilegiati della sua applicazione selettiva). E tantomeno deve sorprendere che questa eterogeneità di linguaggi si traduca poi in una corrispondente frammentazione degli spazi e dei luoghi che diventano teatro di queste pratiche: se è evidente la distanza di queste azioni rispetto ai palazzi del potere, anche il rapporto con i luoghi tradizionali dell’azione politica non sempre sussiste o si configura in maniera ambivalente. La piazza può rimanere 13

certamente un’arena privilegiata all’interno della quale soggettività non normative affermano collettivamente la propria esistenza e il proprio “diritto alla città”, ma la geografia delle resistenze è molto più dispersa e composita: altri percorsi si diramano in maniera più sottile e sotterranea nei vicoli, lungo le strade, nei parchi, in campagna e anche nelle zone limite dei campi e delle istituzioni totali. È in questo senso che diventa importante pensare ai territori delle resistenze, alle geografie in continua riconfigurazione che si producono e riproducono nel quotidiano, in un rapporto di sfida costante alle speculari geografie del potere13. Il territorio così svelato assume le connotazioni di un luogo fisico e simbolico, oggetto dei processi di rappresentazione, animazione e trasformazione dei luoghi, campo relazionale in cui differenti prospettive si incontrano, si coalizzano, o entrano in competizione e confliggono. I territori si configurano così non solo come gli spazi fisici entro i quali le pratiche finora descritte si svolgono, ma come veri e propri prodotti delle resistenze, che in esse e attraverso di esse prendono forma. Il riferimento al territorio, elemento centrale e presenza costante in tutti i lavori presenti in questo libro, non sarà dunque inteso come il richiamo ad una sorta di contenitore inerme, né sarà utilizzato come semplice feticcio per operare una contestualizzazione narrativa, ma piuttosto si svilupperà in senso pieno tenendo conto del fatto che il territorio è innanzitutto “un’impresa sociale”14, elemento continuamente costruito e ricostruito dagli attori che lo vivono e lo attraversano. La territorialità è dunque da considerarsi come definita dall’intersecato sistema di relazioni e scambi tra esteriorità fisica e alterità sociale15, in un processo che si costruisce storicamente, e in cui gli individui agiscono in funzione delle forme, degli assetti e dei contenuti del territorio che essi stessi contribuiscono a plasmare16. In questo senso la prospettiva qui adottata si contrappone in maniera netta non solo alla concezione del territorio per come è definito dalle scienze naturali, ma anche alla sua definizione politologica “classica” che lo riduce a mera estensione fisica del campo della sovranità (Weber docet). Il salto qui è chiaro e radicale, e passa attraverso una violenta sovversione analitica: lo spostamento si compie nel passaggio da un inquadramento che intende il territorio come entità amministrativa e costituita, ad una lettura che invece ne esalta il carattere associativo e costituente. 14

È proprio in questo ribaltamento che emerge con chiarezza l’intreccio essenziale che il territorio viene ad assumere con le soggettività resistenti che lo abitano, re-interpretano e agiscono, ridefinendone i confini e dinamizzandone le forme in un continuo divenire. Questo rapporto che si viene a creare è indice di un’intrinseca instabilità delle formazioni territoriali, strette nella continua dialettica tra le forme imposte dal potere e le continue riletture che ne scompaginano gli assetti. L’attrito tra queste diverse immaginazioni non si risolve però mai, in nessuno di questi casi, in uno scontro volto al dominio su di uno spazio, il che richiamerebbe una concezione classica del potere politico ed un’operazione verticistica e burocratica di ri-territorializzazione (la quale, come evidenziato in precedenza, non si addice ai casi qui presi in considerazione). L’esito naturale di questo attrito è piuttosto un conflitto, questo sì, che tiene costantemente aperto ad orizzonti molteplici il processo di territorializzazione, il quale viene a configurarsi in questo modo come sempre in atto, mai compiuto in sé stesso. Le caratteristiche di apertura e di chiusura dei territori sono così costantemente ripensate e ridefinite dalle pratiche quotidiane, attraverso le quali i confini sono resi porosi e gli spazi attraversabili: questa attività ininterrotta di invenzione del territorio retroagisce in maniera evidente sulle forme della vita associata, sulle dinamiche di cooperazione e di conflitto che si sviluppano al suo interno. Immerso in un flusso continuo di pratiche e discorsi eterogenei, il territorio si situa così in un rapporto circolare con le resistenze, facendosi plasmare e agire e al tempo stesso influendo sulla genesi e sull’evoluzione delle dinamiche sociali. Così tematizzate, le resistenze mettono in evidenza una continua ricerca di modalità alternative di configurarsi spazialmente e temporalmente, cercando di creare nuove relazioni tra soggettività e territori, modificandone significati, ritmi, atmosfere. In ognuno dei capitoli è evidenziata la creatività con cui prendono forma le resistenze, e ogni autore ha cercato nel proprio contributo di costruire interpretazioni proprio a partire dalla complessità, senza ridurla a confini conosciuti, ma cercando di sviluppare, teoreticamente e metodologicamente, un approccio sensibile alla messiness nella quale le pratiche si situano17. 15

Nel contributo di Federica Castelli, posto in apertura al presente volume, gli elementi fino a qui menzionati vengono articolati riflettendo sul rapporto costitutivo e trasformativo che sussiste tra la città e le soggettività che la attraversano. Nel suo rileggere l’urbano attraverso le pratiche quotidiane dei corpi che lo percorrono, l’autrice ci restituisce l’immagine di uno “spazio pubblico appassionato”, che ribalta le logiche di controllo e potere implicite nell’organizzazione spaziale della città: l’urbano è quindi immerso in un continuo processo di reinvenzione e riconfigurazione, saldamente radicato nei corpi di coloro che lo esercitano e orientato a paradigmi che eccedono le tradizionali tassonomie del politico. Nel capitolo successivo, il rischio sempre presente di fornire letture romantiche e consolatorie del concetto di resistenza viene nettamente scongiurato da Chiara Giubilaro, che invita a non cadere in una generalizzazione tanto rischiosa: muovendo da un caso di studio specifico, l’autrice affronta di petto la problematica ambiguità analitica e politica del concetto. Nell’analisi del processo di riqualificazione e riappropriazione che interessa la zona di Piazza Mediterraneo, a Palermo, Giubilaro fa emergere appieno l’ambivalenza intrinseca del concetto: cosa accade infatti quando la resistenza assume le sembianze particolaristiche, razzializzate e violente della gestione del territorio di stampo mafioso? Ad emergere è l’urgente necessità di ripensare il dualismo poteriresistenze attraverso un approccio trans-scalare che sia in grado di fronteggiare le numerose contraddizioni che coinvolgono i processi di trasformazione urbana: questo esercizio, lungi dal risolvere l’ambiguità, consente all’autrice di cartografare un paesaggio urbano irregolare, costantemente immerso in processi di trasformazione eterogenei e plurali. Fulvio Biddau introduce poi un’ulteriore problematizzazione del concetto di “resistenze”, qui applicato alla transizione verso sistemi energetici basati sulle rinnovabili e distribuiti sui territori. Se una cospicua produzione scientifica sul tema ci ha in qualche modo abituati a considerare le resistenze come pratiche che si sviluppano “dal basso” in opposizione allo sviluppo di progetti e infrastrutture (i cosiddetti ‘comitati del NO’ o ‘effetto/sindrome Nimby’), l’autore di questo capitolo ribalta lo sguardo e ci introduce a forme di resistenza messe in atto da molteplici attori sociali (esperti, decisori, attori economici e della società civile) mediante processi 16

di ri-significazione e riconfigurazione dei mutamenti normativi, dell’incontro e rapporto tra saperi, dei luoghi e delle geografie della transizione. Esplorando la dimensione cognitiva e relazionale delle resistenze nella loro pluralità, il capitolo tenta di decostruire la complessità sociale del conflitto prestando un’attenzione particolare al territorio, luogo fisico e simbolico della contesa sociale e frutto dell’intersecarsi e confrontarsi di interpretazioni, interessi e posizionamenti differenti. Utilizzando la teoria della giustizia energetica come strumento analitico-interpretativo e riferimento normativo per la ricerca, l’autore evidenzia il potenziale delle scienze sociali nel rendere visibili e riconoscibili le implicazioni etiche e sociali delle trasformazioni e le resistenze correlate al fine di suggerire e imprimere traiettorie percorribili di cambiamento che rispondano a istanze di riconoscimento, giustizia e sostenibilità. Se i primi tre capitoli aiutano a focalizzare la ricchezza teorica e la costitutiva molteplicità del concetto di resistenze, il libro si sviluppa poi attraverso una serie di contributi etnografici che intendono, guardando alle resistenze, svelare il funzionamento del potere e i suoi meccanismi di controllo. Così fa il lavoro di Alessandro Senaldi, che guarda al movimento No Tav e alle forme di resistenza sviluppatesi ormai da diversi anni in Val di Susa. Con questo contributo l’autore tenta non solo di restituire l’intensa trama di lotte e frizioni succedutesi in diverse occasioni tra i militanti e le forze dell’ordine, ma si spinge più in là, evidenziando l’effetto produttivo del potere e dando conto di come l’intervento muscolare e autoritario delle forze di polizia abbia esacerbato, piuttosto che smorzato, l’impeto oppositivo degli attivisti. La Val di Susa è così stretta in processi di semantizzazione contrastanti, sempre immersi nel conflitto: se da un lato la ridefinizione della Maddalena come “area di interesse strategico nazionale” ha portato a inediti livelli di militarizzazione del territorio, dall’altro il portato simbolico e culturale della resistenza No Tav si è esteso ben al di là dei confini fisici della valle, assurgendo ad un ruolo simbolico che mette in discussione e ridicolizza la stessa etichetta “Nimby” con la quale si cerca spesso di misconoscere le istanze della protesta e delegittimare il movimento. La natura contesa dello spazio si ritrova con uguale forza nel capitolo di Francesca Consogno, nel quale l’autrice indaga il complesso intersecarsi di diverse forme di resistenza/potere nel 17

territorio del Cauca colombiano: concentrando la sua osservazione sul resguardo indigeno di Toribío, l’autrice individua i diversi processi di “costruzione geografica” messi in atto dalla popolazione nasa che vive nel luogo. Anche in questo caso il territorio preso in considerazione è stato coinvolto in numerosi processi di contesa violenta: controllato militarmente e politicamente dal movimento guerrigliero delle FARC, il resguardo è stato al centro della lotta che ha visto il contrapporsi di queste con l’esercito colombiano. Il movimento di resistenza indigena, sorto nel corso della guerra, si inserisce appieno nelle dinamiche del conflitto, trasformando la lotta in un costante esercizio di negoziazione e simbolizzazione del territorio che riafferma e ricostruisce a più livelli l’“alterità indigena” della popolazione, concretizzantesi in specifiche forme artistico-culturali: il muralismo, particolarmente centrale nell’analisi dell’autrice, viene così a configurarsi come un elemento centrale nel continuo processo di ri-territorializzazione e indigenizzazione del territorio. Nel contributo successivo, Alessandra Turchetti propone una dettagliata riflessione sul concetto di confine, analizzandolo attraverso la lente dei critical border studies: attraverso quest’ottica l’autrice delinea in profondità le molteplici funzioni performative di un elemento che, lungi dall’essere semplice oggetto di studio, diventa anche strumento metodologico18, ottica prismatica attraverso la quale osservare la configurazione dei rapporti di dominio e sfruttamento che proprio nel confine trovano un punto privilegiato di materializzazione. Ma il confine – ci ricorda l’autrice – non riesce mai ad essere strumento infallibile del controllo della mobilità: la rigida austerità delle imponenti reti metalliche della frontera sur è infatti ripetutamente contestata e scavalcata da quelle soggettività ostinate che rivendicano continuamente la porosità di quel confine invalicabile. L’analisi del potere e dei dispositivi di controllo cambia parzialmente registro con il contributo di Fabio Bertoni: muovendo dal concetto sempre più sbandierato di “decoro”, l’autore tratteggia i contorni di un conflitto quotidiano, più sfumato rispetto a quello individuato nei capitoli precedenti, ma non per questo meno pregnante. Nel notare come il decoro si accompagni sempre al suo contrario, il degrado, Bertoni tenta di svelare la malleabilità politica e strategica dei due termini, applicati in maniera selettiva sulla base di interessi politici contingenti: lo studio delle arti di strada, qui inteso come esempio emblematico, svela da un lato i costanti tentativi di governo della 18

città che si sviluppano attraverso altrettanti tentativi di “governo della sensorialità urbana”; dall’altro mette in luce gli “astuti stratagemmi” che i giocolieri, in questo caso, mettono in atto per eludere queste istanze ordinatrici. Come già evidenziato da Bertoni dunque, le resistenze possono costituirsi intorno a pratiche e linguaggi artistici, che nelle voci, immagini e suoni si contrappongono a specifiche dinamiche di potere, sono in grado di creare nuovi territori. In questa direzione va il contributo di Vanessa Baselli, che parte da progetti legati all’espressione artistica nella Castellane, periferia marsigliese che l’autrice legge come margine, evidenziandone la struttura di esclusione urbana, sociale ed economica e al contempo evidenziando come possa essere territorio di novità, sperimentazione e resistenza. Attraverso il lavoro di ricerca svolto nell’ambito del progetto di educazione informale Baguette Magique, Baselli evidenzia la ridefinizione del quartiere, a partire da una produzione alternativa di immagini attraverso produzioni autorganizzate, che cercano di innestare una nuova “pratica di configurazione del visibile”19, in contrasto alle retoriche stigmatizzanti e assistenzialiste, e dando voce e colore al protagonismo di soggettività che vengono usualmente silenziate e offuscate. In un contesto differente, nella polarizzata città brasiliana di Rio de Janeiro, Silvia Stefani continua a evidenziare il contributo che i linguaggi artistici possono dare alla configurazione di resistenze. Nella lettura delle disuguaglianze sociali di Rio de Janeiro, la diffusione del funk viene presentata come uno spazio di ingovernabilità rispetto alla distinzione tra favela e asfalto, nella quale è sottointesa una matrice di oppressione che coinvolge razza, classe, segregazione urbana. In questo contesto il funk è spazio di resistenza sia in termini di produzione e circolazione del prodotto musicale, sia nelle feste che lo vedono protagonista. Queste diventano, in un clima di criminalizzazione, spazio fisico di confronto con la polizia, e più in generale, rappresentano un campo di produzione di immaginario e di discorsi sulla città e sulla nazione alternativo all’ordine egemone. Nel contributo, Stefani evidenzia come questo spazio riproduca disuguaglianze di genere e sessuali, in una pervasiva rappresentazione dell’inferiorità femminile, e ricostruisce il ruolo di alcune funkeiras, mostrandone i conflitti con la scena funk maschile, in un difficile bilanciamento tra spazi resistenziali e di assoggettazione. La creatività emerge quindi come una capacità di creare spazi 19

alternativi della rappresentazione, vissuti e abitati attraverso combinazioni di narrazioni, detourment pratiche e immaginari: sono, come definiti da Lefebvre20 al tempo stesso spazi reali e siti simbolici. La riarticolazione e pluralizzazione delle pratiche di trasformazione sociale, già evidenziata da Melucci21, porta ad una situazione in cui i meccanismi di cambiamento e riorganizzazione non si giocano più solamente sul piano della produzione, ma anche su quello ad essa opposto e complementare del consumo. Questo campo è particolarmente interessante perché, ancora più profondamente, permette di rileggere forme di resistenza che non solo si oppongono a specifici processi che prendono forma in entrambi i piani ma, come mostrato nei due contributi finali del volume, sono in grado di mettere in discussione anche la stessa distinzione, aprendo possibilità al di fuori di essi, oppure nei loro vuoti. Eleonora Noia, attraverso la sua ricerca nei nodi piemontesi della rete WWOOF (World Wide Opportunities on Organic Farms) – associazione internazionale che promuove l’agricoltura biologica su piccola scala attraverso lo scambio lavoro-ospitalità – prende in esame il cosiddetto processo di “back-to-land”, tra formazione di nuovi movimenti rurali, scelte di vita individuali e quadri valoriali condivisi, e capacità collettiva di agire attraverso il consumo e la produzione. Il contributo ha il merito di mettere in evidenza come, nelle narrazioni dei soggetti, questi elementi vengano tenuti insieme, e al contempo come le storie siano strettamente connesse al territorio e alla terra lavorata quotidianamente, senza rimanerne però confinati, sviluppandosi in una pluralità di spazi (compreso quello online) e di reti sociali e solidali. Nell’ultimo contributo di questo volume, invece, Costanza Guazzo incentra il suo lavoro su un aspetto, in parte presente anche in Noia, quale la sottrazione al consumo, o almeno, alle forme di consumo ammesse e incentivate dal sistema capitalistico dell’alimentazione e del food. Nella sua etnografia sul recupero alimentare svolta nei mercati di Torino, Guazzo mette in evidenza una pluralità di pratiche, realizzate per consapevolezza politica e/o per necessità e situazioni di povertà e marginalità, siano capaci di ricostruire reti di significato intorno al cibo e al suo consumo. L’elemento chiave del contributo è allora la definizione di resistenza come sottrazione. È infatti sottraendosi al consumo che le pratiche di resistenza riscrivono le grammatiche sociali del cibo: il recupero 20

diventa allora una pratica ambientalista ed animalista che si muove al di fuori dall’idea di “green”, l’insufficienza economica trova risorse al di fuori dall’assistenzialismo paternalista e marginalizzante, e il rapporto territoriale del commercio apre, ai suoi margini e nei suoi interstizi, possibilità di prossimità. È nel rapporto di continua circolarità tra resistenze e territori che si situano i lavori presenti in questo libro, i quali la percorrono utilizzando bagagli disciplinari diversi che, pur avendo origine nella sociologia, nell’antropologia o nella psicologia sociale, sono costantemente tesi all’ibridazione e refrattari ad un’univoca classificazione disciplinare, preferendo seguire, nelle diverse sensibilità metodologiche, una predisposizione alla sperimentazione e all’esplorazione, in un ecclettismo teorico ed empirico. Questo libro nasce proprio per soddisfare quest’istanza “selvaggia” di dialogo e di riflessione comune su un tema che abbiamo visto essere caro a molti. Questo volume cerca allora di essere non solo un testo, ma anche traccia materiale di una pratica di resistenza, per quanto è possibile. Senza peccare di superbia, abbiamo cercato di creare, in queste pagine, uno spazio altro, che attraversa diagonalmente le rigide e asfittiche compartimentazioni dei territori accademici, i cui confini sono tracciati da grammatiche disciplinari che rispondono a ragioni organizzative e presidiate dalla precarizzazione della ricerca e da criteri stringenti e limitanti di valutazione e competizione. Ci teniamo, dunque, a ringraziare tutte le autrici e gli autori dei contributi per lo splendido lavoro di confronto e collaborazione; i colleghi e le colleghe di dottorato, che con noi hanno contribuito ad organizzare la Conferenza Nazionale delle Dottorande e dei Dottorandi in Scienze Sociali da cui questo progetto ha potuto svilupparsi; e, infine, il Collegio del Dottorato in Scienze Sociali dell’Università di Padova per il supporto ricevuto. NOTE 1 Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1976. 2 Pietro Saitta, Resistenze: pratiche e margini del conflitto quotidiano, Ombre Corte, Verona, 2015. 3 Mitch Rose, The seductions of resistance: power, politics, and a performative style of systems, in «Environment and Planning D: Society and Space», n. 20(4), pp. 383-400, 2002.

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4 Michel De Certeau, L’invention du quotidien, Union General d’Editions, Paris, 1980. 5 P. Saitta, Resistenze, op. cit.; M. De Certeau, L’invention du quotidien, op. cit. 6 James C. Scott, Domination and the Arts of Resistance: Hidden Transcripts, Yale University Press, New Haven, 1990. 7 Martin Jay, Vision in context: reflections and refractions in M. Jay e T. Brennan (a cura di), Vision in context: Historical and contemporary perspectives on sight, London-New York: Routledge, pp.1-12, 1996. 8 Jocelyn A. Hollander e Rachel L. Einwohner, Conceptualizing resistance, in «Sociological Forum», n. 19(4), pp. 533-554, 2004. 9 Alessandro Dal Lago e Emilio Quadrelli, La città e le ombre: crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano, 2003. Pietro Saitta, Economie del sospetto: le comunità maghrebine in centro e sud Italia e gli italiani, Rubbettino, Catanzaro, 2006. Alvise Sbraccia, Migranti tra mobilità e carcere: storie di vita e processi di criminalizzazione, Franco Angeli, Milano, 2007. 10 P. Saitta, Resistenze, op. cit. 11 Michel Foucault, La volontà di sapere: storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano, 1984. 12 Philippe Bourgois, In Search of Respect: Selling Drug in El Barrio, Cambridge UP, Cambridge, 1995. 13 Claude Raffestin Pour une géographie du pouvoir, Librairies Techniques, Paris, 1980. 14 Andrea Mubi Brighenti, Teoria dei territori in «Scienza e Politica», n. XXV(48), pp. 175-183, 2013. 15 Claude Raffestin, Space, territory, and territoriality in «Environment and Planning D: Society and Space», 30(1), pp. 121-141, 2012. 16 Marco Maggioli, Dentro lo Spatial Turn: luogo e località, spazio e territorio in «Semestrale di studi e ricerche di Geografia» n.2, 2015. 17 John Law, After Method: Mess in Social Science Research, Taylor & Francis, Milton Park, 2004. 18 Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor, Duke University Press, Durham, 2013. 19 Jacques Ranciere, Le pertage du sensible. Esthétique et politique, Fabrique, Paris, 2000. 20 H. Lefebvre, Critique, op.cit., p.39 21 Alberto Melucci, Altri codici, Mulino, Bologna, 1982.

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SPAZI PUBBLICI APPASSIONATI Federica Castelli

“Viviamo nello spazio, in questi spazi, in queste città, in queste campagne, in questi corridoi, in questi giardini. Ci sembra evidente. Forse dovrebbe effettivamente essere evidente. Ma non è evidente, non è scontato. È reale, evidentemente, e probabilmente razionale, quindi. Si può toccare. Ci si può perfino lasciare andare a sognare”1 Georges Perec

1. Comprensione, ordinamento, disposizione. Una questione di approcci Prima di entrare nel merito della mia proposta di analisi, ritengo sia opportuno ed efficace collocarmi, situarmi, spiegare perché e quali urgenze hanno mosso i miei interessi di ricerca. Come ho imparato dai collettivi di donne femministe, situare la propria parola e partire da sé non è mai un male, ma anzi, rappresenta l’inizio necessario di un confronto aperto in cui è chiaro chi parla, perché parla, così come è chiaro che non si parla mai per altre, o per altri. Non pretendo dunque di proporre una teoria universale; la mia sarà una lettura parziale e intrisa di esperienza. Un punto da cui partire. Nella mia lettura, tento di tenere insieme approccio filosofico, teoria e pratiche femministe, le mie esperienze di piazza, e uno sguardo sulla città e sugli spazi urbani. Che tipo di interlocuzione potrà mai venire fuori da questo incontro, in cui parole e discorsi di discipline e ambiti diversi si intrecciano, così come le loro diverse regole, intenzioni e priorità? Da tempo provo a riflettere su questa strana commistione. So per certo che la filosofia, anche quando evita l’astrazione e si pone come 23

incarnata e sessuata, ha delle regole e dispone verso una certa modalità di comprensione della realtà. Esattamente come l’urbanistica, l’architettura, la geografia, anche l’approccio filosofico descrive e ordina l’esperienza, definisce orizzonti, apre e chiude gli spazi, ordina, colloca attraverso il pensiero, il discorso, le parole che usa. Allo stesso tempo, ci sono parole, come “spazio”, “posizione”, “movimento” che sono termini spaziali e relazionali assieme2. Queste parole possono descrivere il mondo e le sue relazioni, possono ordinare lo spazio, possono permettere di pensare una città. Ma se davvero queste dimensioni, apparentemente così lontane, riescono a trovare un punto di incontro, intrecciandosi contemporaneamente con il sapere prodotto dalle pratiche femministe e il portato dell’esperienza, è perché tutte queste dimensioni, nel loro essere così diverse, hanno un fondo comune. Un elemento originario a volte obliato, eppure resistente: il corpo. La materialità corporea che ci segna, che ci rende soggettività incarnate, esposte, sessuate, costituisce il luogo comune in cui città, riflessione politica, differenza sessuale, si ritrovano intrecciati. Questo perché, ed è proprio questo il nodo da cui si avvia la mia intera analisi, ogni corpo è politico. Dimensione del nostro stare al mondo, il corpo è la condizione del nostro essere sempre in relazione, esposti all’alterità e legati a un contesto fisico e spaziale. A partire da questa radice corporea, è possibile intrecciare, annodare e sciogliere i discorsi, giocare con le parole, far saltare le definizioni, così come le rigide distinzioni tra le discipline. La scommessa in questo gioco di prospettive è quella di una commistione che reinventa, che offre nuove angolature, nuove prospettive per pensare le vite, le differenze, lo spazio, il tessuto del nostro relazionarci quotidiano. 2. Spazi, corpi, politica Lo spazio urbano è intriso di politica. L’intreccio tra la dimensione politica e quella quotidiana esperita nello spazio urbano che ci circonda ci appare evidente, a volte al punto da divenire questione data, assodata, e da non essere più interrogata. In realtà, la relazione tra questi due orizzonti si dà su piani diversi e molteplici e, in ogni sua formulazione, questo intreccio produce effetti differenti sulle vite, aprendo o chiudendo spazi di libertà per i soggetti che lo attra24

versano. Un primo, immediato, livello di questo legame si riscontra nella percezione quotidiana dello spazio attorno a noi, nell’esperienza che facciamo di vie, strade, spazi. Che lo spazio urbano sia l’espressione e la risultante di diverse dinamiche di potere è cosa intuibile, ma altresì ampiamente discussa e dimostrata da diversi punti di vista3. Lo spazio urbano assume connotati e forme diverse a seconda del contesto storico e dei poteri che lo attraversano; la città è cultura, potere e politica divenute pietra, che si sono fatte edifici, piazze, vie (ma, diciamo oggi, anche muri, recinti, steccati)4. Allo stesso modo, la percezione che ne abbiamo cambia a seconda della nostra posizione rispetto alle dinamiche di potere che lo attraversano. Gli individui possono attraversare la stessa strada e avere percezioni e sensazioni differenti: possono identificarsi con essa o stabilire con gli spazi della città un rapporto di puro utilizzo. In altri casi, possono subirli5. Il legame tra politica e spazio è profondo, poiché si radica nel nesso tra politica e corpi. A partire da questo nesso si strutturano una serie di rapporti fondativi che intercorrono tra lo spazio della politica e lo spazio materiale che ci circonda in quanto esseri corporei e situati. Le interpretazioni tradizionali leggono solitamente il rapporto tra corpi e città seguendo due linee principali. La prima si radica in una visione esterna e causale del rapporto, profondamente umanistica, in base alla quale la città è una produzione o un riflesso delle attività umane, dunque dei corpi. La seconda, si radica nel parallelismo o isomorfismo tra corpi e città, sullo sfondo del parallelismo tra corpi e Stato ereditato dalla tradizione filosofico-politica moderna (da Hobbes, come da Rousseau e Locke, in una ripresa dell’impostazione platonica e dell’analogia tra anima e organizzazione della Repubblica)6. In queste visioni, l’immagine del corpo umano, implicitamente maschile, ma posto come neutro universale, giustifica attraverso un processo di naturalizzazione l’artificialità del corpo politico. Così facendo, ratifica la visione per cui la natura (che, fatta coincidere con l’ambito riproduttivo, viene assegnata al femminile) sia una dimensione passiva su cui la cultura (maschile) agisce, ordina, rende docile, rendendo possibile il progresso dell’umanità, così come lo Stato ordina il caotico e sregolato flusso del divenire e delle azioni umane. Al fondo di entrambe queste linee interpretative resta una visione del corpo e della politica radicata in opposizioni duali e artificiali: 25

mente/corpo, dentro/fuori, soggetto/oggetto, individuale/collettivo, natura/cultura e, sullo sfondo di ogni altra divisione, maschio/ femmina7. Il corpo è visto come supporto passivo e materiale di soggettività. Tale visione è stata ribaltata dalla prospettiva femminista, che ci ha parlato di soggettività incarnate, sessuate, in relazione costante con l’alterità, tra cura ed esposizione, e ha posto i corpi come elementi fondamentali della politica, dell’azione condivisa, del mutamento. Attraversati da dinamiche materiali, simboliche, culturali, sociali, i corpi sono nodi tra i diversi flussi di potere, i quali, a livelli diversi, secondo diverse dinamiche, plasmano i vissuti aprendo e chiudendo spazi di libertà. Per i femminismi, i corpi sono entità spaziali, situate e sessuate e l’esperienza individuale e collettiva sono legate al contesto in cui i corpi sono immersi in modo intimo e inaggirabile. Il corpo, sempre in situazione, non può prescindere dallo spazio fisico circostante, il quale influenza e determina il nostro orientamento e il nostro agire. I corpi sono iscritti in una serie di significazioni sociali che li attraversano, li codificano, li rendono leggibili, e contemporaneamente li ordinano, modificano, li includono o escludono rispetto all’ambito sociale. Ma, allo stesso tempo, i corpi sono l’elemento attraverso cui si opera la relazione e la con-divisione politica del mondo. Il corpo è immediatamente politico: colloca i soggetti in relazione al mondo fisico che li circonda e contemporaneamente è la dimensione prima ed immediata della relazione politica tra esseri umani. Il nostro essere soggettività incarnate implica una presenza nel mondo che porta sulla scena la dipendenza, l’esposizione all’alterità e la vulnerabilità8. La centralità data all’elemento corporeo è per le autrici femministe ciò che permette di tenere insieme la politica come dimensione dell’azione umana e lo spazio: spazio da condividere, da cambiare, e da curare9. Il nesso tra corpo, spazio e azione tesse le maglie della politica stessa. Le interpretazioni tradizionali propongono una gerarchia e una distanza tra le esperienze del corpo e la città, laddove tra corpi e città vi è invece relazione continua di scambio e ridefinizione. La città rappresenta, abbiamo visto, uno degli elementi centrali della produzione di soggettività, producendo il contesto e le coordinate di riferimento delle forme corporee. Come rete complessa di interazioni, tiene insieme un insieme disparato di attività, soggettività, relazioni, processi, così come flussi e reti di potere. La città fornisce il quadro e l’organizzazione sullo sfondo della quale avvengono le relazioni, gli 26

incontri, si dispiegano i vissuti. Nello spazio, e in particolare nello spazio urbano, si strutturano e si annodano tra loro le diverse forme della convivenza umana. Nella città prendono forma le esperienze, le biografie, le pratiche, si costruiscono alleanze, si dà vita a nuove forme dell’agire politico. «Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come insegnano i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi»10. La città orienta le nostre percezioni e informazioni sul mondo; produce in noi specifiche concezioni della spazialità; orienta e organizza le nostre relazioni, ad esempio secondo la distinzione tra spazi pubblici e privati; organizza la circolazione delle informazioni; regola il nostro accesso a beni e servizi; fornisce lo spazio in cui prendono vita le norme sociali che ci definiscono in quanto individui, collocandoci ai margini o al vertice delle strutture sociali di potere11. La relazione tra spazio e politica si modula in maniera differente nel tempo, rispecchiando processi e cambiamenti sociali ed economici. La città muta, rendendo questo legame più o meno esplicito. Ad esempio, se nell’epoca moderna la città si presentava come luogo intriso di politicità, in cui ogni spazio era disegnato e pensato in funzione della sovranità e delle forme relazionali ad essa collegate, oggi qualcosa è cambiato. Le trasformazioni sociali e lo spostamento delle linee di potere dallo spazio della politica alla sfera dell’economia hanno prodotto importanti mutamenti anche a livello urbano, portando alcuni a sostenere come nella città contemporanea sia visibile il divorzio tra sfera politica e spazio, che anzi si scontrano senza alcuna soluzione12. Io non sono di questo avviso13. A differenti articolazioni del potere corrispondono diverse modalità di produzione dello spazio urbano, il quale oggi sembrerebbe presentarsi come segnato dalla fioritura dell’offerta privata di spazi pubblici, o meglio, di spazi privati di uso pubblico, in cui il consumo è posto a veicolo di socialità e relazioni. In questo quadro, l’esclusione dalle pratiche di consumo si trasforma in esclusione dallo spazio pubblico14. Su questo stesso livello, si muovono contemporaneamente Judith Butler e Bonnie Honig quando sostengono la crescente rilevanza del nesso tra infrastrutture e agire politico, tra le public things e la democrazia15. Queste «cose pubbliche», l’accesso alle quali è oggi reso diseguale e precario, rappresentano di fatto le condizioni 27

dell’agire collettivo. La democrazia, sostiene in particolare Honig, si radica nel rapporto, conflittuale o di cura, con questa dimensione oggettuale comune che, per questo, è una dimensione politica16. 3.Spazio pubblico e spazi urbani oggi Oggi le città hanno assunto connotati inediti, prodotti dai ritmi accelerati di incessanti dinamiche socio-economiche complesse, che hanno portato alla proliferazione di usi e pratiche inedite di appropriazione e progettazione dello spazio urbano. Ci troviamo davanti a nuove modalità, nuove specie di spazi, per dirla con Perec17: non codificabili, fluidi, lontani dall’idea tradizionale di città, e in cui appare con chiarezza la radicale disgiunzione dalle categorie tradizionali della modernità politica che implicitamente informavano l’approccio allo spazio urbano – come ad esempio l’idea di società civile, e la visione della cittadinanza e del pubblico a essa collegate – spostandosi invece verso nuove figurazioni e soggettività politiche: inedite, precarie, mobili, che la città aggrega ora come consumatori e utenti in base a processi di soggettivazione passiva. Questa nuova città non ha una sua società di riferimento, omogenea e unitaria, bensì è segnata da una molteplicità di attraversamenti, spesso ricondotti al consumo. Per questa assenza di società/socialità attiva, alcuni descrivono gli spazi urbani contemporanei come privi di luoghi, non-luoghi18. Le città contemporanee sembrano staccarsi progressivamente dai propri territori divenendo parti di una rete sempre più fitta tra i vari contesti urbani che si vogliono senza frontiere, senza limiti. Contemporaneamente, al loro interno ritroviamo frontiere, confini e zone di esclusione che si moltiplicano a velocità inedite19. Se, da una parte, il capitalismo globale ha prodotto una crescente urbanizzazione del mondo e una trasformazione delle città, che danno l’illusione di includere al proprio interno le varie diversità etniche, culturali, religiose, sociali, economiche, dall’altra, è anche vero che questa nuova realtà, perennemente connessa e presa in uno scambio costante di informazioni e merci, è segnata di fatto dalla progressiva e crescente esclusione dei soggetti che rimangono fuori dai suoi flussi di consumo. Le nostre città sono funzionali e interconnesse, e al contempo scenario di nuove violenze, distruzioni, esclusioni e segregazioni. Come sappiamo, la crisi economica del 2008 ha dato il via a po28

litiche di austerità sempre più pressanti, dando vita a processi di esclusione e spossessamento e a retoriche e politiche governative escludenti, sessiste e razziste. Negli ultimi anni abbiamo assistito a dinamiche di espulsione sempre più coercitive e violente20, e in questo senso, la recente ondata globale di governi di destra, xenofobi, razzisti e sessisti non può che accendere le nostre preoccupazioni più cupe. La scomparsa di reali misure di welfare, il rigurgito di retoriche identitarie, populiste e demagogiche, si sono accompagnate alla produzione di nuove enclosures, spazi sottratti alla collettività l’accesso ai quali è legato innanzi tutto alle possibilità individuali di consumo. Come anticipato, l’espulsione da questi spazi, che aspirano ad essere i luoghi di un nuovo spazio pubblico, produce contestualmente l’espulsione dallo spazio politico. Queste espulsioni, di cui Saskia Sassen ci ha mostrato la pervasività e violenza, seguono logiche molteplici, la cui brutalità è direttamente proporzionale alla complessità delle dinamiche economiche, definendo margini sistemici, luoghi-soglia dell’esclusione e dell’inclusione21. Con Bourdieu, rileviamo come il neoliberismo sia produzione di miseria22 e come esso produca spazi fisici e sociali precari, degradati, marginalizzati, separati dall’azione politica, in cui si viene inseriti senza possibilità di fuga. La miseria, prodotta dal venir meno delle istituzioni sociali e del welfare state, dalla caduta dell’illusione della cosiddetta “società del benessere”, e dalla desertificazione sociale, si connota come assenza reale di possibilità, costrizione dei soggetti in posizioni di inefficacia, inesistenza e inutilità. Contemporaneamente, nuovi processi ristrutturano gli spazi urbani in nome di regole, standard, norme, dati, che portano la città alla frammentazione, alla crisi della coabitazione, all’isolamento, al tracciato difensivo dei confini. Come ci ricorda l’internazionale lettrista sulla scia delle suggestioni di Gilles Ivain, la divisione in isolotti chiusi, sorvegliati, abolisce la città stessa e porta all’impossibilità di incontro, così come di insurrezione23. Esistono però luoghi in cui la frammentazione si ricompone: gli spazi degli espulsi che, come sostiene Sassen, non sono luoghi di assenza bensì «potenzialmente i nuovi spazi in cui agire, in cui creare economie locali, nuove storie, nuovi modi di appartenenza»24. 4.Rivolte urbane e nuove modalità della politica L’incontro tra le logiche di governance neoliberali e il ritorno di 29

un approccio funzionalista agli spazi urbani ha di fatto portato alla produzione di nuove divisioni, ghetti, espulsioni; ha generato processi deurbanizzanti e contemporaneamente desoggettivanti, attraverso un approccio orientato da norme e regole, che isolano i soggetti, salvo poi offrire forme di socialità legate all’accesso ai consumi. Tuttavia, in risposta a queste dinamiche sono nate nuove forme di mobilitazione, radicate nelle pratiche urbane, nel quotidiano, nell’esperienza delle soggettività incarnate in alleanza25. Alleanze che si danno non sul piano di uno slancio ideale, in nome di lotte universali e astratte, ma che si radicano nei territori e in contesti sempre diversi e mutevoli, legandosi alla contingenza dei corpi che li attraversano. Attraverso l’occupazione di strade e piazze, attraverso nuove pratiche condivise, queste forme di resistenza hanno avanzato una critica e praticato alternative al neoliberismo, e contemporaneamente hanno messo in questione le dicotomie, le gerarchie, le esclusioni sulle quali lo spazio pubblico neoliberale si struttura. La risposta – mai riducibile alla mera reazione – alle dinamiche di spossessamento, violenza e distruzione dello spazio pubblico è stata ovunque collettiva, e ha posto al centro la questione dei corpi e del diritto alla città, portando alla formazione di nuove e impreviste alleanze tra soggettività. La risposta è stata radicale, imprevista, globale: scintille che attraversano mari, incendiano piazze, e rimbalzano in contesti culturali, sociali, economici diversi; esperienze nuove e radicalmente distanti sia dalle forme tradizionali del conflitto urbano sia dalle modalità di presa della piazza proprie delle destre; proteste eterogenee, contingenti e frammentarie; alleanze a volte solo temporanee di soggettività, senza capi, programmi, gerarchie definite. Queste pratiche accompagnano gli sviluppi degli spossessamenti neoliberisti da anni, ma hanno dato luogo a una vera e propria esplosione sul piano globale a partire dal 2011, il cosiddetto anno delle rivolte globali (chiamato da alcuni «l’anno sognato pericolosamente»26), raggiungendo una forte diffusione a livello mediatico, per poi proseguire in forme sempre diverse negli anni a seguire. Il 2011 ha portato sulla scena un movimento di proteste globali, che ha toccato quasi ogni continente, pur mantenendo la specificità dei contesti, delle pratiche e delle lotte. Proteste specifiche, contemporaneamente locali e globali, che hanno saputo diffondersi a prescindere da 30

parole d’ordine, programmi definiti, o direttive generali, come degli exemplar27, imprevedibili e contingenti, ma per questo ancora più potenti. Pur nell’assenza di programmi univoci e comuni e di un’identità politica omogenea, queste proteste si sono ritrovate attorno al comune rifiuto del capitalismo globale e delle sue contraddizioni, dei suoi effetti sulle vite individuali e sulle forme dell’agire comune, e attorno all’urgenza condivisa di riappropriazione degli spazi e della capacità di un agire collettivo al di là delle forme tradizionali della rappresentanza e delle prcedure della democrazia liberale. Pratiche e immaginari diversi hanno riempito e risignificato le strade, a partire da culture e genealogie di conflitto differenti, come nel caso dell’alleanza tra pratiche di piazza tradizionali e le pratiche del femminismo e delle lotte LGTBQI, che portano con sè saperi e pratiche specifici. Le differenti soggettività in rivolta hanno agito collettivamente, stabilendo alleanze e producendo nuove modalità, radicate nelle loro differenti esperienze e nella loro differenze corporeità. Sono nate forme di resistenza urbana, nuove pratiche e forme di mobilitazione, nuove alleanze che hanno legato assieme corpi, spazio e politica in una lotta ogni volta differente ma condivisa, volta alla ridefinizione dell’idea stessa di spazio pubblico, riportando al centro del dibattito politico la questione del potere collettivo dei corpi. Questa risposta è stata accompagnata da un recupero non solo teorico e accademico, ma anche pratico – portato avanti dai movimenti urbani per i beni comuni – dell’idea di diritto alla città28. La dimensione collettiva di queste pratiche ha ridisegnato i confini dello spazio pubblico, ripensato contemporaneamente come intimité ed extimité 29. In queste esperienze, gli spazi vengono aperti, resi collettivi, restituiti ai corpi che li attraversano, in un piano che guarda allo spazio pubblico non come a un luogo di consumo, ma come spazio appassionato30 e di desiderio, segnato da vissuti, da relazioni, insieme individuale e collettivo – con Arendt diremo plurale31 – in cui privato e pubblico si intrecciano indissolubilmente in dinamiche non più esclusive e oppositive. Non è possibile guardare a queste esperienze senza rintracciare nell’intreccio che esse dispongono tra spazio della politica – ridefinita in senso orizzontale, partecipativo, relazionale – e spazio della città – le piazze occupate, le strade, i teatri – l’espressione di quel nesso imprescindibile tra politica e spazio urbano che si radica nella politicità dei corpi che lo attraversano e che vi praticano – anche in modalità gioiosamente di festa – conflitti e resistenze. 31

6. Lo spazio del conflitto Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie più remote o più care memorie; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita come la propria città: propria, poiché dell’io e al tempo stesso degli “altri”; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città.32

Il conflitto non coincide necessariamente con l’agire violento, che ne rappresenta solo un piano possibile, ma si muove su diversi piani. Il conflitto può essere agito a livello simbolico, linguistico, al livello delle pratiche, e non necessariamente si dà come reattivo. La sua forza maggiore, infatti, risiede nell’espressione. Un conflitto può mirare alla presa di un potere istituito, come nel caso di una rivoluzione, o alla creazione di un potere altro, non sovrano, condiviso, radicato nelle pratiche, inattuale, contestuale, come nel caso di una rivolta33. Nessuna di queste esperienze va valutata a partire dai criteri classici di durata, entità e frequenza solitamente utilizzati per tracciare la distinzione tradizionale tra rivolta (letta come rivoluzione abortita) e rivoluzione (come lotta che ha avuto efficacia). Tale distinzione è inesatta e segnata da una prospettiva sul potere ben precisa e che, qui, come altrove, rifiuto fermamente34. Il conflitto agito da queste esperienze si muove su un livello politico diverso rispetto alle modalità tradizionali della contestazione o della rivoluzione, un livello che va oltre la dimensione statuale, fondando istituzionali alternative a quelle della sovranità; non c’è scontro frontale con le istituzioni, nè lotta per la presa di potere; il governo non è il nemico da combattere, nè colui a cui occorre sottrarre potere; non è il soggetto a cui rivolgere la propria domanda di giustizia, a cui chiedere di ottenere qual32

cosa. Gli obiettivi di queste esperienze sono spesso ampi e difficili da identificare in istanze specifiche. Per tutti questi motivi, queste pratiche vanno lette secondo parametri nuovi. Queste esperienze hanno cercato di creare un nuovo immaginario politico e nuove relazioni sociali al di là delle tradizionali configurazioni del potere. L’efficacia di una rivolta, e di una rivolta urbana, va rintracciata nella sua capacità di esprimere un ribaltamento dei valori, uno scompaginamento delle chiusure e dicotomie che costituiscono lo spazio pubblico contemporaneo, che ne regolano l’accesso e permettono ai soggetti di essere visibili in esso. Queste esperienze hanno portato alla deflagrazione dell’idea di uno spazio pubblico compatto, omogeneo, mostrandone la vera natura: smagliata, lacerata, relazionale, attraversata da conflitti e tensioni. Attraverso pratiche condivise, hanno mirato a una ricostituzione dello spazio pubblico a partire dalla messa in discussione delle sue categorie fondative e delle sue esclusioni strutturali, focalizzandosi sui corpi e sulle loro urgenze materiali, sociali, culturali e politiche. I corpi riuniti nelle piazze pongono infatti alla politica domande urgenti – hanno infatti bisogno di lavoro, riparo, cure, cibo – e contemporaneamente interrogano la nozione di “spazio pubblico”, mettendone alla prova dicotomie e gerarchie, sottolineandone la materialità, la contingenza, la radicalità. Se il conflitto si dà come dinamica e non come appropriazione, se la democrazia, o la cosiddetta “sovranità popolare” vengono fatte coincidere non con un’istituzione o un regime, bensì con un esercizio quotidiano e continuo di un potere costituente condiviso, allora la politica si darà anche come occupazione e organizzazione dello spazio che modifica il rapporto percettivo, affettivo e immaginario nei confronti della città. Lo spazio che si dà in questo conflitto è spazio relazionale, che appare e scompare, che non preesiste la lotta, o i soggetti che lo abitano. Nasce dall’interazione, dalla condivisione, dalla lotta comune. Spazio di relazione ed esperienza, che varia con il variare delle vicende delle relazioni che hanno luogo in esso e con esso. Uno spazio dell’evento, molto lontano dall’idea di spazio come forma data, misurabile, progettabile, che si può spartire, o chiudere. Il conflitto politico rovescia quello sguardo tecnico che progetta e dispone lo spazio come fosse materialità data, passiva, pura quantità.

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7. Corpi in rivolta Come accennato, queste pratiche assegnano una centralità inedita all’esperienza corporea e alla relazione tra soggettività incarnate. Tale centralità va a scardinare uno degli assunti chiave dell’immaginario politico tradizionale occidentale, nella cui costruzione il corpo viene escluso e reincluso, normato e privato di ogni consistenza fisica, materiale e sessuale35. Le pratiche urbane di rivolta mettono al centro l’esperienza incarnata e sessuata dei soggetti che attraversano lo spazio pubblico, schiudendo a un posizionamento che riconosce il valore delle relazioni, del corpo, delle passioni, ancora prima dei diritti36. I corpi vengono intesi come siti di resistenza, espressione, relazione e creazione politica, riannodando così nell’immaginario condiviso il legame tra corpi e politica. Queste esperienze sottolineano in modo forte e radicale il fatto essenziale che i corpi sono in sè stessi già politici, per via dell’esposizione e della relazione che segna la condizione umana; sono creatori di politica, creatori di spazio pubblico, e introducono nel mondo la possibilità di un cambiamento radicale. La vicinanza dei corpi, il contatto fisico che segna le esperienze di piazza, ci insegna Canetti, ha un fortissimo potenziale37. Non si tratta di un potere esclusivamente quantitativo. Queste esperienze si danno come azioni di concerto, in cui i soggetti emergono materialmente nello spazio pubblico, sempre più smaterializzato, anonimo, ed etereo, evocando il diritto di apparirvi in quanto attori politici. Questo gesto ribalta le dinamiche assoggettanti della profilazione in cui gli individui sono raggruppati in modo eteronomo e legato al consumo. È un gesto che produce soggettivazione e apre nuovi spazi di libertà. I corpi che entrano nella scena pubblica esercitano così il loro diritto all’apparire, ad essere visibili, in modalità plurali e di concerto che ribaltano le condizioni di precarietà, isolamento e spossessamento neoliberali. Il dissenso si incarna. Le soggettività incarnate, a partire dai loro corpi, bisogni materiali, sociali, culturali e politici, creano e performano nuove modalità dell’essere insieme, nuovi orizzonti della politica. Le dinamiche neoliberiste rendono i corpi precari e usa-e-getta, attraverso l’organizzazione economica delle vite e policies che intaccano materialmente le possibilità di vita e di relazione dei soggetti; producono una contrazione dello spazio pubblico e una neutralizza34

zione dell’agire collettivo; agiscono in modo materiale e significativo sui corpi attraverso controllo e pratiche di governance. In questo contesto, essere in presenza, esposti al contatto corporeo con gli altri, così come alla violenza repressiva delle forze dell’ordine, mettendo al centro la dipendenza, la vulnerabilità, la precarietà dei corpi, è a tutti gli effetti un atto di profonda sovversione, che afferma l’interdipendenza e la relazione in opposizione all’individualismo e l’autosufficienza al centro dell’ideologia neoliberale. Senza produrre identità collettive, queste esperienze si danno come insieme di pratiche di relazione, supporto, lotta e festa, incarnando forme plurali di resistenza e agency collettiva, segnate da relazioni di sostegno reciproco e azione di concerto. Inoltre, dichiarano a gran voce che la risposta alla precarietà delle vite non è la sicurezza, bensì le relazioni di eguaglianza nella dipendenza, di eguale possibilità di una vita vivibile38. Queste pratiche rendono i corpi l’epicentro di conflitti politici radicali, che ribaltano e scompaginano assunti e dicotomie su cui lo spazio politico contemporaneo viene a prodursi e riprodursi, mettendo alla prova i termini stessi del riconoscimento sociale. I corpi nelle strade pongono questioni ben precise alla politica istituzionale: a chi appartiene lo spazio pubblico? Chi ha il diritto ad accedervi? Quale idea di soggetto è presupposta dallo spazio pubblico neoliberista? Quali corpi sono visibili nello spazio pubblico? Ma ancora, in modo più radicale: di cosa ha bisogno un corpo? Cosa possono realizzare tanti corpi, assieme? Che tipo di politica si realizza a partire da un radicamento all’esperienza incarnata, relazionale e plurale dei soggetti?39 Domande di questo tipo interessano le dimensioni materiali del vivere individuale, come la sopravvivenza, la salute, le possibilità di vita, ma si estendono verso il piano più esteso di un mondo condiviso, in cui i soggetti sono concepiti come legati gli uni agli altri e lo spazio pubblico viene pensato come luogo di passioni, desideri, relazioni, cura. In breve, uno spazio ricco di tutte le passioni che ci rendono umani, e che ci uniscono in modo contingente e appassionato40. Nelle piazze in rivolta prende vita uno spazio plurale appassionato, laddove il desiderio, il sentimento e le passioni sono state da sempre – fin dai tempi della democrazia ateniese – escluse dal discorso politico ufficiale. I corpi sessuati irrompono nel discorso neutrale e astratto dello spazio politico moderno e lo ridisegnano in modo performativo, incarnato, plurale, sottolineando e facendo saltare le esclusioni, le demarcazioni, le norme di accesso e visibilità dell’agen35

cy politica, rendendo evidenti i dispositivi di esclusione e gli ideali normativi che giacciono alla base dell’idea di cittadinanza. 8. Una città nella città Non solo presenza plurale, protesta, resistenza. I corpi nelle piazze creano nuovi immaginari e nuove pratiche, aprono nuove possibilità politiche, istituiscono nuove modalità, nuove realtà. Le piazze e le occupazioni producono uno slittamento, un rovesciamento di prospettiva che sposta il piano della politica dalle istituzioni governative alle pratiche condivise. Per coglierne la specificità, dobbiamo spostarci dall’interpretazione della protesta come pura reazione o semplice resistenza. Si tratta invece di momenti creativi, espressivi, che si coniugano con la presa in carico e la cura dello spazio collettivo. Come anticipato, in queste piazze non si sta chiedendo qualcosa alle istituzioni. Piuttosto, si crea qualcosa: nuove istituzioni, fuori dalle logiche tradizionali della sovranità o del potere statuale, nuove realtà, nuove pratiche, nuove alleanze. Queste proteste non chiedono il cambiamento, lo agiscono, creando uno spazio non utopico, ma reale e vissuto, in cui i corpi cantano, saltano, dormono, mangiano, vivono assieme. Questa postura rivela un collegamento – politico, simbolico, linguistico – tra le pratiche dell’occupazione di piazze, strade, luoghi e la cura, materiale e politica, portata avanti in questi spazi. Occupare/occuparsi41. L’occupazione coincide con la presa in carico e la cura di uno spazio, sia a livello materiale, come spazio condiviso e comune, sia a livello politico, attraverso pratiche e relazioni. Occupare uno spazio non coincide con l’attacco alle autorità: facendo saltare i confini tra legale e illegale, pubblico e privato, personale e politico, la pratica dell’occupazione procede alla fondazione di una “città nella città”: spazio politico fondato su regole nuove, condivise, legate all’uso collettivo, nel rifiuto dell’organizzazione gerarchica e verticale, lontano dai partiti e dai governi, legato a pratiche orizzontali di decisione collettiva. L’occupazione schiva la dinamica dell’opposizione frontale, dello scontro dicotomico tra poteri antagonisti proprio della tradizione rivoluzionaria, ponendosi invece come atto creativo, che richiede azione e cura collettiva. Una piazza occupata incarna il prendersi cura dello spazio pubblico, 36

che gli occupanti costruiscono e di cui si occupano. “Riprendere” uno spazio, sia esso teatro, piazza, strada, è atto di rigenerazione e creazione, è atto fondativo che istituisce secondo linee diverse da quelle del potere sovrano. Questi momenti collettivi producono nei soggetti che vi prendono parte un senso nuovo della città, un’esperienza nuova di intimità. Saltano le divisioni che orientano e vincolano i nostri attraversamenti urbani quotidiani e trovano spazio nuove modalità di relazione alla città, profonde e radicate, che risignifica lo spazio urbano con la passione, il desiderio, le lotte politiche, trasformandone il tessuto in modo tangibile e potente.

NOTE 1 Georges Perec, Specie di Spazi, Bollati Boringhieri 2016, pp. 11 (ed. or., Espèces d’espaces, 1974). 2 Federica Giardini, Relazioni. Differenza sessuale e fenomenologia, Sossella, Roma 2004. 3Elio Piroddi, Uso sociale dello spazio pubblico nella città contemporanea, in Claudia Mattogno (a cura di), Idee di spazio, lo spazio nelle idee. Metropoli contemporanee e spazi pubblici, Francoangeli, Milano 2002, pp. 99-100. 4 Ibidem. 5 Ibidem. 6 Cfr. Cavarero, Corpo in figure, Feltrinelli, Milano 2003. 7 Elizabeth Grosz, Bodies-Cities, in Janet Price, Margrit Shildrick (a cura di), Feminist Theory and the Body. A Reader, Routledge, New York 1999, pp. 381-387. Cfr. anche Nicole Loraux, Il femminile e l’uomo greco, Laterza, Roma-Bari 1991 (ed. or., Les expériences de Tirésias. Le féminin et l’homme grec, Gallimard, Paris 1989); Françoise Héritier, Maschile e Femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma-Bari 1997 (ed. or., Masculin/féminin. La pensée de la difference, Odile Jacob, Paris 1996); Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 2009 (ed. or., La domination masculine, Seuil, Paris 1998); F. Castelli, Corpi in rivolta, cit. 8 Judith Butler, Fare e disfare il genere, Mimesis, Milano 2014 (ed. or., Undoing gender, 2004); EAD., L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017 (ed. or., Notes Toward a Performative Theory of Assembly, 2015);

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Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 1997; EAD., Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaello Cortina, 2014. 9 Cfr. Federica Castelli, Corpi in rivolta. Spazi urbani, conflitti e nuove forme della politica, Mimesis, Milano 2015; cfr. anche Rosi Braidotti, Per una politica affermativa. Itinerari etici, Mimesis, Milano 2017. 10 Italo Calvino, Presentazione a Le Città Invisibili, Mondadori, Milano 2016 (ed. or. 1972), p. X. 11 Grosz, Bodies-Cities, cit. p. 386. 12 Massimo Ilardi, Lo spazio della politica e la domanda di libertà, in Mattogno, op. cit., p. 183. 13 Federica Castelli, Spazio pubblico appassionato. Corpi e protesta tra esposizione, vulnerabilità e relazioni, in «Leussein», vol. IX, n. 1-2-3 (2016). Su questo tema si concentra anche il mio prossimo lavoro, Spazio Pubblico (Ediesse, Roma) di prossima pubblicazione. 14 Massimo Bruschi, Gli spazi per il consumo e il consumo degli spazi nella città contemporanea, in Mattogno, op. cit., pp. 202-203. 15 Cfr. Butler, L’alleanza dei corpi, cit; Athena Athanasiou, Judith Butler, Dispossession: the performative in the political, Polity Press, Cambridge 2013; Bonnie Honig, Public Things: Democracy in Disrepair, Fordham University Press, New York, 2017. 16 Ivi, p. 4 e p. 36. 17 Perec, Specie di spazi, cit. 18 Marc Augé, Tra i confini. Città, luoghi e integrazioni, Mondadori, Milano 2007. 19 Ivi. 20 Saskia Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Il Mulino, Bologna 2015 (ed. or., Expulsions. Brutality and Complexity in the Global Economy, 2014). 21 Sassen, op.cit. 22 Pierre Bourdieu, La miseria del mondo, Mimesis, Milano 2015 (ed. or., La misére du monde, 1993). 23 Potlatch, n. 5, luglio 1954; cfr. anche Gilles Ivain, Formulario per un nuovo urbanismo, Maldoror Press, 2013 (ed. or., Formulaire pour un urbanisme nouveau, 1953). 24 Sassen, op.cit., p. 238. 25 Ho in mente non solo piazza Tahrir nel 2011, gli Indignados a Madrid, il movimento Occupy americano e Occupy Gezi in Turchia, ma anche i vari movimenti legati ai commons urbani e al diritto alla città sorti in Italia, le occupazioni femministe degli ultimi anni, le slutwaks e le passeggiate

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notturne, e la molteplicità di pratiche che hanno ridisegnato la nostra esperienza urbana degli ultimi anni. Non da ultimo, penso a Non Una di Meno: esperienza sfaccettata, legata al territorio eppure globale, che tiene assieme una molteplicità di pratiche, usi dello spazio e modalità di interazione politica e che finalmente, dopo anni, ha riunito insieme una costellazione di collettivi e attiviste femministe, lesbiche, trans, cis, uomini, donne, in una lotta condivisa eppure non omogenea, in risonanza con la lotta argentina di Ni Una Menos e le mobilitazioni femministe globali. 26 Slavoj Žižek, Un anno sognato pericolosamente, Salani, Milano 2013 (ed. or., The year of Dreaming Dangerously, Verso, London 2012). 27 Augusto Illuminati, Tania Rispoli, Tumulti. Scene dal nuovo disordine planetario, DeriveApprodi, Roma 2011. 28 Henri Lefebvre, Il diritto alla città, Ombrecorte, Verona 2014 (ed. or., Le droit à la ville, 1967); David Harvey, Città Ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, Il Saggiatore, Milano 2013 (ed. or., Rebel Cities, Verso Books, London 2012). 29 Cristina Bianchetti, Spazi che contano. Il progetto urbanistico in epoca neo-liberale, Donzelli, Roma 2016, pp. 56-58. 30 Castelli, Spazio pubblico appassionato, cit. 31 Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1994 (ed. or. The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958). 32 Furio Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 25. 33 Castelli, Corpi in Rivolta, cit. 34 Ivi. 35 Cfr. Cavarero, Corpo in figure, cit.; Loraux, Il femminile e l’uomo greco, cit.; Castelli, Corpi in rivolta, cit. 36 Castelli, Spazio pubblico appassionato, cit. 37 Elias Canetti, Massa e Potere, Adelphi, Milano 1981 (ed. or., Masse und Macht, Claassen Verlag, Hamburg 1960). 38 Butler, L’alleanza dei corpi, cit. 39 Ivi. 40 Castelli, Spazio pubblico appassionato, cit. 41 Cfr. Federica Giardini, Politica dei beni comuni. Un aggiornamento, in «DWF- Saper fare comune 2», n. 94, 2012, pp. 49-59.

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Resistenze imperfette Trasformazioni socio-spaziali a Ballarò (Palermo) Chiara Giubilaro

1. Introduzione Il 16 settembre del 2015 viene dato alle fiamme un pub sito nel centro storico di Palermo, non lontano dal mercato rionale di Ballarò. Il pub, appartenuto al boss mafioso Gianni Nicchi, era stato sequestrato un anno prima e assegnato a “Insieme si può”, una cooperativa di imprenditori impegnati nell’antiracket. Ultimo di una serie di atti intimidatori verso uno spazio che nelle intenzioni dei suoi gestori sarebbe dovuto divenire simbolo della legalità, quel rogo segna il punto di inizio di un processo che avrebbe di lì a poco inciso profondamente sulle storie e le geografie dello storico quartiere dell’Albergheria1. All’indomani di questo evento, infatti, un gruppo di cittadini e attivisti decide di indire un’assemblea pubblica nei locali dell’Oratorio di Santa Chiara, uno dei principali presidi sociali per chi risiede nel quartiere. Nasce così SOS Ballarò (Storia Orgoglio Sostenibilità), l’assemblea pubblica che negli ultimi anni ha ridisegnato spazi e relazioni del quartiere e inaugurato un modello innovativo di trasformazione urbana partecipata e dal basso. Luogo di resistenza tanto alle economie e ai poteri di controllo mafioso del territorio quanto all’abbandono istituzionale e alle narrazioni mediatiche mainstream, SOS Ballarò ha cercato in questi anni di riaprire uno spazio di agency a partire dal coinvolgimento attivo di soggetti e gruppi troppo a lungo marginalizzati. L’obiettivo di questo contributo è di seguire le linee di resistenza disegnate da SOS Ballarò negli anni della sua attività nel quartiere e di rimettere in discussione lungo e attraverso questi processi la categoria di resistenza e quella correlata di potere. Il recente dibattito negli studi urbani, specie sul fronte della geografia radicale, sembra infatti restituire alle volte un’immagine sclerotizzata di questa dicotomia, una frattura netta fra le forme di governo neoliberale della città e la costellazione di pratiche trans-scalari che quotidianamente vi si oppongono: 40

un campo sul quale poteri e resistenze variamente si fronteggiano, ora ponendosi in posizione di reciproca esteriorità, ora intervenendo tatticamente le une sul terreno degli altri. Le linee – ricurve, intricate, spezzate – che raccontano i processi di resistenza messi in atto dall’assemblea pubblica SOS Ballarò nel quartiere scartano entrambe queste configurazioni e tracciano, come vedremo, una topografia instabile e contraddittoria, nella quale i differenti attori rinegoziano costantemente posizioni e assetti, relazioni e intrecci. Nelle pagine che seguono ripercorreremo dapprima il recente dibattito sulle pratiche di resistenza urbane prodotto in ambito geografico, verificandone limiti e potenzialità. Alla luce di questo cercheremo poi una ridefinizione della categoria di resistenza che ci permetta di rileggere il caso palermitano e di interrogarne criticamente l’assetto e i successivi sviluppi. Nella seconda parte del lavoro, proveremo poi a delineare una microgeografia del quartiere, su cui innestare l’analisi dei processi di resistenza messi in atto dall’assemblea pubblica SOS Ballarò dal 2015 al 2018, ripercorrendo le diverse fasi di questa esperienza e tentando di mappare i vari attori che a diverso titolo vi hanno preso parte. Il caso di Ballarò e dei processi di riqualificazione dal basso che lo costellano permetterà da un lato di cogliere alcune delle specificità delle trasformazioni urbane nel contesto del Sud Europa, dall’altro di interrogare le geografie della resistenza e di proporre nuove configurazioni teoriche a partire da esse. 2. Resistere, resistere, resistere? Topografie dell’imperfezione Nel 1985 lo studioso statunitense James C. Scott pubblica Weapons of the Weak, un volume dedicato alle diverse forme di everyday resistance delle classi rurali di un villaggio della Malesia nel quale l’autore aveva condotto un’osservazione sul campo durata due anni2. Il testo di Scott rappresenta per molti versi un momento cruciale nel dibattito sulla categoria di resistenza e sulle sue teorizzazioni in ambito geografico. È proprio in questi anni, infatti, che l’interesse nella costruzione delle politiche culturali e nelle loro mutevoli configurazioni spaziali promosso dalla New Cultural Geography3 si traduce in un’attenzione crescente verso la costellazione di pratiche quotidiane – materiali e simboliche – di resistenza alle diverse forme di potere, non più confinate alla sola dimensione della classe ma estese alle di41

namiche di oppressione di genere, sesso, razza e così via. Le micro-geografie della resistenza cominciano così ad attraversare pubblicazioni, conferenze e dibattiti, svelando le complesse dinamiche che tengono insieme produzione degli spazi e costruzione delle forme del dissenso4. All’interno di questo scenario, una questione viene a più riprese sollevata e rappresenta la lente attraverso la quale verrà ripercorsa l’esperienza di SOS Ballarò: quali immaginari spaziali sottendono le pratiche e le retoriche contro-egemoniche, specie su scala urbana? Hanno le resistenze una loro distinta forma spaziale, radicalmente alternativa a quelle dominanti? Come è opportuno spazializzare queste esperienze e con quali conseguenze? Questo set di interrogativi è stato messo al centro del volume curato da Steve Pile e Michael Keith Geographies of Resistance, che rappresenta ancora oggi un passaggio obbligato per chiunque si cimenti con le geografie della resistenza5. Come osserva Steve Pile nella sua introduzione, lo spazio non è solamente costitutivo delle relazioni di potere, ma anche delle azioni che in diverso modo vi si oppongono. Le resistenze hanno concretamente luogo, accadono in spazi e momenti non previsti, introducendo una frattura nelle trame di controllo, dominio e oppressione dei gruppi dominanti. Sebbene poteri e resistenze siano sempre in qualche modo interrelati – sostengono i due autori – le pratiche di resistenza sono capaci di occupare, dispiegare o creare spazi radicalmente alternativi rispetto a quelli contro cui si oppongono. Le tecnologie spaziali di dominio e di controllo – occupazioni militari, dispositivi di frontiera, pianificazione urbana – sarebbero così sfidate e sovvertite all’interno di questi spazi, aprendo a innumerevoli possibilità di posizioni e relazioni altrimenti precluse6. La riflessione sulle geografie che le pratiche di resistenza producono e riproducono nel loro farsi appare a mio avviso segnata da un immaginario spaziale ben radicato nella tradizione della geografia radicale e in qualche modo già prefigurato nel lavoro sopracitato di Pile e Keith. L’idea secondo cui i processi contro-egemonici, specie su scala urbana, articolino spazi autonomi e radicalmente contrapposti alle forme e ai modi dell’urbanizzazione neoliberista sembra essersi imposta negli ultimi anni al punto da avere in alcuni casi oscurato l’analisi delle concrete pratiche spaziali che di volta in volta accompagnano il prodursi di fenomeni di resistenza urbana. Città autonome7, esperienze e visioni alternative dell’urbano8, spazi indipendenti dove fuggire le chiusure di Stato e capitale e sperimentare 42

pratiche sociali alternative9, le resistenze urbane sembrano poggiare su un’immaginazione spaziale omogenea e coerente, una sorta di utopia incarnata, uno spazio altro capace di dimostrare non soltanto che un altro mo(n)do è possibile, ma che in alcuni casi è già in atto. Questo modo di spazializzare la resistenza, così diffuso nella letteratura geografica di matrice critica e radicale, si contraddistingue anzitutto per la sua radicale separazione dalle forme e dalle dinamiche di governo urbano di marca neoliberista. Relazioni sociali innovative, esperienze di democrazia diretta, attività no-profit ed economie di scambio permeano questi spazi e li isolano da quel che avviene al loro esterno, trasformandoli in veri e propri spazi di speranza, dove coltivare alternative concrete al neoliberismo urbano10. Se è vero che spazi reali e spazi immaginati si presuppongono gli uni gli altri in un rapporto di mutua performatività11, allora rimettere in discussione le immaginazioni spaziali che sostengono e sottendono le esperienze di resistenza urbana significa aprire non soltanto a nuovi orizzonti discorsivi ma anche, soprattutto, a nuove pratiche politiche12. L’ipotesi da cui muove questo contributo è che l’immaginario spaziale dominante nella letteratura geografica radicale sulle esperienze di lotta e di riappropriazione urbane rischia alle volte di compromettere la nostra comprensione di questi processi e delle contraddizioni interne che spesso li attraversano. Se continuiamo a pensare questi spazi come isole di possibilità alternative, laboratori in cui creare dal nulla un nuovo ordine urbano e sociale, difficilmente potremo comprendere e indagare le complesse articolazioni al loro interno e le delicate relazioni con l’esterno. È per queste ragioni che nelle pagine che seguono guiderà la ricognizione del caso-studio un’altra metafora spaziale, evocata a più riprese nel dibattito geografico con lo scopo di scartare immaginari dicotomici e oppositivi13. Le pratiche di resistenza nella loro quotidiana sfida alle linee del potere danno luogo a una miriade di grovigli (entanglements), intrecci irrisolti e alle volte indiscernibili, processi discontinui fatti di fratture e accelerazioni, all’interno dei quali oppressione e reazione, violenza e liberazione, costantemente si richiamano e si presuppongono14. Non tanto movimenti tattici nel campo del nemico15, quanto piuttosto un denso intreccio di mosse e contro-mosse che di continuo rinegoziano posizioni e assetti su entrambi i fronti. Sono grovigli imperfetti, spazi relazionali e aperti, sempre esposti a eventi e mutamenti impossibili da prevedere e difficili da ricomporre. 43

Nel paragrafo che segue proveremo dapprima a tracciare una microgeografia16 del quartiere e dei suoi cambiamenti per poi concentrarci sull’esperienza di SOS Ballarò e sulle pratiche di resistenza che ha saputo attivare in questi anni sul territorio. In particolare, seguendo la pista segnata da Leitner, Sheppard e Sziarto17, indagheremo gli spazi materiali e immaginari attraverso cui questa esperienza si è fino a oggi dispiegata. Le spazialità multiple, intrecciate e trans-scalari che hanno preso forma nelle diverse fasi di questo processo saranno oggetto di una ricognizione in chiave critica, allo scopo di comprendere come e perché lo spazio conta nella costruzione e nella gestione delle pratiche di resistenza urbana. Su quali scale e con quali diverse strategie ha operato l’assemblea pubblica SOS Ballarò? Quali reti trans-locali sono state attivate durante questi processi? Come sono state costruite le pratiche di riappropriazione degli spazi del quartiere e quali immaginazioni le hanno sostenute? Come sono stati rinegoziati nel tempo i diversi posizionamenti dentro e attraverso SOS Ballarò? Allo scopo di provare a suggerire delle risposte a questi interrogativi, ho condotto una ricerca sul campo dal maggio del 2016 ad oggi, pur avendo seguito il processo fin dai suoi esordi. Durante questi due anni ho partecipato ad alcune delle iniziative, realizzato interviste in profondità a componenti dell’assemblea, assessori comunali, dirigenti, mercatari18 e altri attori privilegiati. Accanto alle pratiche e alle interviste, ho analizzato documenti, report, locandine e altri materiali testuali e iconografici prodotti da SOS Ballarò dall’inizio delle sue attività a oggi. Dato il mio posizionamento all’interno del movimento, specie in alcune sue fasi, la metodologia di ricerca che ho scelto di adottare è consistita in una “partecipazione osservante”, in linea con i recenti approcci fenomenologici alla ricerca etnografica.19 Questo posizionamento interferisce con ciascuna delle linee di questa topografia. 3. Un metodo che arriva dal basso: il caso di SOS Ballarò Il mandamento Palazzo Reale o Albergheria, meglio noto col nome del suo mercato “Ballarò”20, è un’estensione di mezzo chilometro quadrato chiusa dai due principali assi viari dell’impianto seicentesco della città e dalle mura del suo centro storico. Fra alcune delle sue vie si snoda uno dei più antichi mercati alimentari di Paler44

mo, un tempo punto di riferimento non soltanto per i residenti del quartiere ma anche per il resto della città e oggi invece espressione di una crisi profonda che ha radici nelle trasformazioni economiche su scala locale e globale degli ultimi decenni. A poche decine di metri da qui si apre un altro mercato, informale e in espansione, che della crisi economica degli ultimi anni è certamente un sintomo: il cosiddetto mercato del baratto, una distesa di banchi e lenzuoli ricoperti di cellulari di vecchia generazione, scarpe e abiti usati, pezzi di ricambio e oggetti di seconda mano. Mercato del rubato per alcuni, ammortizzatore sociale per altri, il mercato dell’usato e del libero scambio dell’Albergheria racconta di una città in cui le percentuali sulla povertà assoluta continuano a crescere21 e costringono molti a rivendicare il proprio diritto alla sopravvivenza ricorrendo ad attività non legali e lavorando su quella capacità di arrangiarsi di cui scriveva già nel 1956 Danilo Dolci nella sua Inchiesta a Palermo22. Un altro luogo da cui una microgeografia del quartiere non può prescindere è l’Oratorio di Santa Chiara, da decenni punto di riferimento indiscusso per le persone che approdano a Palermo e che qui scelgono di fermarsi. L’Albergheria è storicamente uno dei quartieri dove si registra la maggiore presenza di stranieri, in parte per la sua centralità, in parte e specie fino alla metà degli anni Novanta per i processi di filtering down che ne hanno caratterizzato il mercato immobiliare23. Addentrandosi da qui verso le vie del mercato e le zone limitrofe il ritmo urbano appare scandito dal contrasto fra edifici di recente ristrutturazione e altri in avanzato stato di degrado: a partire dal 199324 e con intensità crescente sono stati realizzati interventi di recupero pubblici e privati, che hanno parzialmente modificato il tessuto edilizio del centro storico palermitano e la composizione sociale dei suoi abitanti, avviando un processo di soft gentrification25, che ha portato le fasce della popolazione a medio e alto reddito a investire nel centro storico e, in alcuni casi, a ripopolarlo. La presenza del mercato storico, il valore del patrimonio monumentale e gli interventi di riqualifica appena descritti hanno negli anni aumentato l’attrattività turistica del quartiere, accrescendo la densità e la complessità della sua geografia, al cui interno ci si può imbattere, per esempio, in una elegante piazzetta dove convivono un raffinato albergo a quattro stelle e uno dei principali punti di ritrovo per lo spaccio di crack. Questa microgeografia di Ballarò sarebbe incompleta senza una 45

delle sue piazze più recenti, l’epicentro simbolico e materiale di alcune delle trasformazioni che a partire dal 2010 hanno attraversato il quartiere e i suoi abitanti. È da Piazza Mediterraneo che il movimento dal basso di riappropriazione e di riqualifica degli spazi di cui ci occuperemo ha preso le mosse. Qui, quel che era stato fino a quel momento un parcheggio e una discarica, nel giugno del 2011 è stato trasformato in una piazza con aiuole e panchine, grazie all’intervento di una rete di attivisti e associazioni. A distanza di sette anni quella piazza è ancora lì, dopo un lungo percorso che ha portato nel 2016 al suo riconoscimento formale attraverso un protocollo d’intesa fra il Comune di Palermo e SOS Ballarò, l’assemblea pubblica che di questa e molte altre trasformazioni è la principale promotrice. Nonostante quanto è accaduto negli ultimi anni a Ballarò possa essere ascritto a un processo di rigenerazione urbana, ho scelto di scartare la semantica biologica della rigenerazione e di adottare qui un approccio trasformazionalista, che si concentri non tanto sugli esiti ma sulle contraddizioni interne al processo e sulle sue modalità di costruzione26. Nelle pagine che seguono proveremo a tracciare una topografia critica27 di queste trasformazioni e dei complessi intrecci che le diverse pratiche di resistenza hanno prodotto al suo interno. SOS Ballarò è anzitutto la storia di una reazione, anzi di un complesso di reazioni. Come abbiamo visto in apertura, è il rogo appiccato a uno dei pub della piazza centrale del quartiere e la reazione dei suoi abitanti a sancirne l’atto di nascita. Tuttavia, da alcune delle interviste condotte ai componenti dell’assemblea, emerge come nel configurarsi di questa reazione siano almeno due le forze di resistenza in gioco: da una parte, la condanna del gesto mafioso, “un atto intimidatorio di bassa lega”28, e della violenza con cui alcune persone esercitano il proprio controllo sul territorio. Dall’altra, affiora però anche un disagio rispetto alle “forme di azione repressiva nei confronti delle situazioni di illegalità presenti nel mercato da parte dello Stato”29. Le modalità e i tempi con cui si è deciso di assegnare il pub a una cooperativa sostanzialmente priva di qualunque legame con il territorio, prestando scarsa attenzione tanto alla centralità geografica di quello spazio quanto alla sua memoria storica, sono almeno in parte espressione di una strategia di controllo del quartiere e delle sue problematiche da parte dello Stato orientata alla repressione di tutte le forme di illegalità senza distinzioni al suo interno. Così, in un primo momento, è lungo queste due linee di resistenza che SOS Ballarò 46

comincia il proprio percorso, cercando di costruire un’alternativa tanto al controllo mafioso del territorio e delle sue attività quanto a quello repressivo esercitato dallo Stato attraverso blitz e sanzioni fra i banchi del mercato. SOS Ballarò decide fin dai suoi esordi di configurarsi come un’assemblea pubblica, scartando l’etichetta di comitato di quartiere che pure talvolta gli viene impropriamente attribuita. Prima ancora che un soggetto politico, SOS Ballarò si presenta come un metodo di lavoro che trova nella partecipazione e nel coinvolgimento la propria caratteristica fondativa. Un percorso di democrazia partecipata, come si legge in uno dei documenti prodotti, che aspira a includere tutti e non lasciare indietro nessuno30. Come abbiamo già sottolineato e come il nome stesso suggerisce, l’assemblea pubblica nasce come una richiesta di soccorso che prende le mosse non soltanto dalle geografie materiali del quartiere – la riqualificazione delle piazze, i percorsi di formalizzazione dei mercati, il recupero di strade ed edifici – ma che si concentra anche sulle sue geografie immateriali, sulle rappresentazioni e sulle retoriche che avvolgono il quartiere nello stigma e ne compromettono la possibilità di cambiamento. La costruzione del discorso mediatico intorno a Ballarò e l’insistenza su spaccio, abusivismo, violenze, blitz e arresti ha infatti inciso profondamente sull’immagine del quartiere, specie prima che si attivassero i recenti processi di trasformazione. Trasformare il quartiere significa intaccare l’immagine che gli viene attribuita e costruire una nuova narrazione: “Noi ce l’abbiamo un’idea di Ballarò. Una riqualificazione che comincia dalla bellezza di stare a Ballarò, perché c’è una realtà artistica e culturale che deve essere messa a sistema. Su questa bellezza, che è la cornice, il contenuto è il lavoro, l’investimento sull’attività pr oduttiva”31. La bellezza e il lavoro sono le due parole d’ordine del movimento, che insieme formano l’orizzonte per il recupero degli spazi materiali e simbolici del quartiere. L’una indica che esiste un altro modo di vivere e di pensare Ballarò e ne è testimonianza l’organizzazione di eventi culturali, performance musicali e festival delle arti di strada, l’altro permette di ricostruire il tessuto sociale del quartiere e, attraverso il rilancio del mercato storico e gli interventi di social housing, di lenire le sacche di povertà che oggi sono principale ostaggio dei poteri mafiosi. Nella sinergia delle due è contenuta la formula di SOS Ballarò per riscattare il quartiere senza generare processi di esclusione. 47

Tre sono gli assi lungo i quali si è fin qui articolato il metodo di lavoro dell’assemblea. Il primo, come abbiamo anticipato, trova nella partecipazione il proprio baricentro. L’imperativo è coinvolgere: gran parte degli sforzi del movimento si sono rivolti alla costruzione di condizioni e modalità attraverso cui aprire il percorso ai diversi attori che abitano e lavorano nel quartiere. Questo obiettivo è stato perseguito con maggiore successo, anche se non senza fatica, in presenza di interessi economici su cui far leva, come nel caso dei proprietari degli esercizi commerciali del mercato storico, mentre ha incontrato più difficoltà, per esempio, nel tentativo di coinvolgimento di molte delle comunità straniere. In ogni caso, la partecipazione rappresenta sempre una forma di conflitto: “Se tu non sei in grado di leggere la conflittualità che c’è sui territori non puoi ragionare sulla partecipazione. Per me la partecipazione è conflitto”32. Il secondo asse è il pragmatismo. L’assemblea non si limita a reclamare interventi o a denunciare problemi, ma programma da sé gli interventi di recupero, attraverso il coinvolgimento di volontari o la costruzione di reti con le associazioni del terzo settore. Le responsabilità, suggeriscono i suoi animatori, devono essere riportate all’interno del gruppo, ciascuno deve provare a farsene carico e ad agire di conseguenza. Questo si riflette sulla necessità di una “politica dei piccoli passi”33, capace di programmare interventi a breve, medio e lungo periodo e lavorare in forme differenziate sugli obiettivi preposti. Il terzo asse che insieme ai primi due garantisce il funzionamento della macchina SOS Ballarò è rappresentato dalla sua forza di mediazione rispetto all’amministrazione comunale. Come scrive Partha Chatterjee: “Com’è possibile tenere insieme in un quadro coerente le rivendicazioni particolari, e spesso fondate su violazioni della legge, di gruppi di popolazione marginali e l’affermazione di una uguale cittadinanza e della virtù civica? Per produrre una politica dei governati efficace e persuasiva è necessario un considerevole atto di mediazione. Chi è in grado di mediare?”34. Gli strumenti normativi che un’amministrazione ha a disposizione non sono di per sé sufficienti a governare porzioni di territorio come quella che queste pagine stanno provando a raccontare. Perché la relazione fra le due funzioni, occorre un soggetto che sia in grado di mediare fra norme e rivendicazioni, necessità di governo e diritto alla sopravvivenza. Questo significa da una parte allentare o estenuare le regole, limitare gli interventi repressivi o accelerare la costruzione di nuovi quadri 48

normativi; dall’altra distinguere fra forme di illegalità legittime e illegittime, formalizzare le prime e isolare le seconde. Questo denso gioco di bilanciamenti è probabilmente la principale sfida a cui SOS Ballarò ha dovuto finora fare fronte. Tracciati gli assi lungo i quali SOS Ballarò ha costruito il proprio progetto sul territorio e passati in rassegna gli interventi materiali che ha realizzato e le costruzioni discorsive che li hanno sostenuti, cercherò adesso di riportare l’esperienza di SOS Ballarò al dibattito sulle resistenze ricostruito nel precedente paragrafo, nel tentativo di rileggere le complesse geografie del quartiere e delle sue trasformazioni alla luce di quegli intrecci che regimi di potere e dinamiche di resistenza producono nel loro farsi. Groviglio I: con(tro) l’amministrazione Nel novembre del 2016, come altre volte prima di allora, il mercato storico di Ballarò è sede di un blitz delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa per verificare eventuali occupazioni abusive di suolo pubblico e altri illeciti. A differenza delle altre volte, stavolta il blitz viene sospeso in forza dell’intervento tempestivo di alcuni membri di SOS Ballarò, che frapponendosi fra mercatari da una parte e carabinieri, poliziotti e vigili urbani dall’altra riescono a trovare una mediazione e a impedire l’ennesima ondata sanzionatoria fra le attività del mercato. Questo evento ha rappresentato un decisivo momento di riconoscibilità per SOS Ballarò all’interno del quartiere. Come emerge dalle interviste ai suoi principali animatori, nella presa di posizione in difesa del mercato si è verificato una sorta di “click di legittimità”35 che ha in parte scartato alcuni pregiudizi sull’assemblea pubblica e rinsaldato il complesso rapporto con i mercatari. La storia delle relazioni fra SOS Ballarò e l’amministrazione comunale restituisce il senso di quell’intreccio fra poteri e resistenze richiamato in precedenza36. In un primo momento, l’interesse da parte dell’amministrazione per Ballarò si inscrive all’interno del processo che ha portato al riconoscimento del percorso arabo-normanno come “Patrimonio mondiale dell’umanità” da parte dell’UNESCO37. Come sottolinea la dirigente incaricata di coordinare sia la cosiddetta “task force Ballarò” sia le attività legate al riconoscimento del percorso arabo-normanno: “Queste azioni non erano soltanto relative 49

alla tutela dei beni monumentali ma erano azioni legate a rimuovere tutta la situazione di degrado del territorio circostante, interventi di pedonalizzazione, di pulizia, di decoro urbano”38. Così, a partire dal 30 novembre del 2015, giorno della prima assemblea indetta da SOS Ballarò con il sindaco e la giunta comunale, inizia una fase di positiva collaborazione con l’amministrazione, durante la quale vengono pianificati interventi di breve, medio e lungo periodo volti alla riqualificazione del quartiere. Piazze restituite alla città, strade ripavimentate, festival delle arti di strada, incontri e assemblee: fino all’ottobre del 2016 e all’inaugurazione del percorso arabo-normanno si registra probabilmente il periodo di maggiore sinergia fra SOS Ballarò e l’amministrazione comunale. Uno schema collaborativo che del resto è in linea con le nuove forme di governance neoliberale della città, che ridistribuiscono le responsabilità del governo urbano a numerosi attori non statali, quali aziende, associazioni del terzo settore o privati cittadini39. La costruzione condivisa di un progetto per il rilancio del quartiere e la fitta interlocuzione con l’amministrazione hanno sollevato e continuano a sollevare dei rischi per il movimento in termini di autonomia e riconoscibilità. In particolare, l’eccessiva istituzionalizzazione di alcuni dei processi e il crescente interesse dell’amministrazione verso il progetto nel suo complesso hanno in alcune fasi ridotto le distanze fra i due soggetti al punto da far apparire SOS Ballarò come il braccio operativo del Comune nella gestione del quartiere. Nella percezione di alcuni dei suoi componenti, per esempio, l’abbraccio eccessivo dell’amministrazione potrebbe compromettere quel necessario punto di equilibrio tra dialogo e indipendenza senza il quale l’assemblea si svuoterebbe di legittimità. È anche per queste ragioni che le geometrie dei rapporti fra SOS Ballarò e il Comune sono il prodotto di distanze e intrecci mutevoli, che ora legano gli attori entro schemi di comune resistenza ad altre forze presenti nel quartiere, ora li schierano su fronti di rivendicazione contrapposti. Queste geometrie hanno trovato un’importante momento di ricomposizione in occasione delle elezioni amministrative del 2017, che hanno portato Massimo Castiglia, principale animatore dell’assemblea, alla presidenza della I circoscrizione, comprendente Ballarò e gli altri quartieri del centro storico di Palermo. In questo caso, la manovra di avvicinamento politico40 è stata in parte compensata da quella che, riprendendo Neil Smith, potremmo definire una politica 50

della scala 41. Istituzionalizzando la propria posizione a una scala più locale rispetto a quella urbana, ha potuto mantenere un margine di differenziazione rispetto al Comune e alle sue politiche, preservando una distanza che come abbiamo visto è decisiva per la legittimazione del movimento rispetto agli abitanti di un quartiere come Ballarò. È lungo questo intreccio mobile di linee e posizioni che si è fin qui costruito il percorso politico di SOS Ballarò, un intreccio dentro al quale la tradizionale dicotomia fra potere e resistenza si disperde in una miriade di combinazioni ed esiti mobili e differenti. Groviglio II: annettere le contraddizioni Il 2 aprile del 2016, a sole due settimane dal riconoscimento di Piazza Mediterraneo come spazio pubblico, uno studente gambiano di ritorno dal campo sportivo che insieme ad altri membri di SOS Ballarò stava contribuendo a rimettere in sesto viene gravemente ferito alla testa da un colpo di pistola sparato da un giovane di Ballarò, che con il suo gesto avrebbe inteso riaffermare il proprio dominio sul territorio, secondo la ricostruzione del Questore. Il giorno seguente SOS Ballarò organizza un corteo che si snoda lungo le strade del quartiere per rispondere collettivamente a quel gesto di violenza, mostrando la propria decisa contrapposizione alle pratiche di controllo mafioso esercitate da alcune famiglie sugli abitanti e sugli spazi del quartiere. Le condizioni di disagio economico, sociale e abitativo in cui versa parte della popolazione storica residente a Ballarò42 hanno reso il quartiere e i suoi abitanti fortemente esposti alle pressioni di soggetti e interessi mafiosi, le cui attività prevalenti sono il pizzo e lo spaccio di droghe. All’interno di questo scenario, la resistenza portata avanti da SOS Ballarò si manifesta in almeno due differenti modalità. Da una parte, l’insistenza sul tema del lavoro e sulla sua importanza decisiva come antidoto alla presa della criminalità organizzata. È qui che si inquadra il rilancio del mercato storico e delle sue attività produttive, che l’assemblea pubblica ha cercato fin dai suoi esordi di portare avanti. Solo creando un’alternativa concreta ai traffici legati a cosa nostra e allargando così “l’orizzonte di aspirazioni”43 degli abitanti di Ballarò, specie delle generazioni più giovani, è possibile intaccare quelle sacche di aggregazione per i mafiosi del quartiere, 51

che trovano nella vulnerabilità socio-economica una promessa di ricattabilità44. La seconda modalità di resistenza alla presa mafiosa sul territorio consiste nella costruzione di un’immagine del quartiere capace di far leva sulla bellezza e di mostrare all’esterno ma soprattutto all’interno che un’alternativa è possibile. La creazione di spazi pubblici di cui prendersi cura collettivamente e il coinvolgimento attivo dei giovani di Ballarò in tali processi si inscrivono in questo orizzonte di senso. Anche in questo caso le linee di resistenza non sono prive di intrecci e curvature. Il progetto di riqualificazione urbana dal basso che SOS Ballarò sta cercando di portare avanti ruota intorno all’imperativo del “trasformare includendo”45. Il cambiamento di Ballarò – ripetono i membri della sua assemblea – passa attraverso la partecipazione e il coinvolgimento: nessuno deve essere lasciato indietro o, peggio, espulso. Il contraltare di questa esigenza di inclusione introduce la prima incrinatura nelle linee che stiamo provando a tracciare. Il rischio, infatti, è in questo caso di “annettere le contraddizioni”46, vale a dire di includere nel processo di cambiamento anche soggetti e dinamiche che sarebbe opportuno isolare. Nel percorso di formalizzazione del mercato e nell’intenzione di non lasciar fuori nessuna delle attività, anche abusive, che oggi ne fanno parte questo rischio si pone con particolare evidenza. La scelta di SOS Ballarò di posizionarsi all’interno di quel che accade nel quartiere e dalla parte dei soggetti marginalizzati che lo abitano porta inevitabilmente a fare i conti con intrecci e compromissioni dove non sempre è possibile separare le attività criminali dal resto. L’assenza di qualunque strumento di reddito e di occupazione alle volte costringe le persone a cercare nella mafia una possibilità di sopravvivenza altrove negata47. Così, lo spaccio può rappresentare un’opportunità di sostentamento per chi, con un basso livello di istruzione e nessuna garanzia di sostegno sociale, si trova senza occupazione. Come abbiamo avuto modo di vedere, ri(n)tracciare le linee lungo cui si snoda il percorso di resistenza di SOS Ballarò ai poteri mafiosi di controllo del quartiere significa imbattersi in dei punti di contrapposizione esplicita, come nel caso delle reazioni ai diversi episodi di violenza avvenuti a Ballarò negli ultimi anni, e in delle aree di intrecci assai complessi da dipanare, come nei processi di formalizzazione dei due mercati. Compito di una topografia critica è di soffermarsi su queste linee, seguirne gli alterni andamenti ed esplorare le relazioni sottese, specie 52

laddove i contorni si fanno meno nitidi e gli intrecci più fitti. Conclusioni Dal rogo del 2015 a oggi SOS Ballarò non ha smesso di costruire intorno al quartiere le proprie geografie materiali e simboliche. La sua azione si è nel tempo articolata lungo linee e fronti di resistenza differenti: l’opposizione alle forme di controllo mafioso del territorio, dalle pratiche di estorsione ai danni dei commercianti allo spaccio di droghe pesanti agli angoli delle strade; il rifiuto delle narrazioni mediatiche prevalenti, dello stigma che si abbatte su spazi e persone e blocca ogni possibilità di analisi sotto il peso della criminalizzazione; il contrasto alle politiche repressive del Comune e alle conseguenti ondate sanzionatorie, incapaci di operare distinzioni fra forme legittime e forme non legittime di illegalità; la lotta ai progetti di rigenerazione urbana che passano attraverso processi di esclusione o marginalizzazione sociale, fino a sfociare in casi di gentrification. Gli spazi, reali e immaginati, che sono stati recuperati da SOS Ballarò in questi anni rappresentano un tentativo di reagire a queste forze e di costruire una risposta politica e culturale a partire dalle trasformazioni in atto. Come abbiamo visto, tuttavia, nessuna di queste linee è al riparo da grovigli, compromissioni, storture. Le geometrie dentro alle quali attori e relazioni confluiscono sono il prodotto imperfetto di avvicinamenti, inclusioni, sovrapposizioni che frantumano la dicotomia fra poteri e resistenze in una miriade di composizioni mobili. Le sfide a cui oggi SOS Ballarò deve far fronte sono assai diverse da quelle dei primi anni, perché assai diverso è il quadro in cui le sue azioni si inseriscono. L’inclusione di Ballarò nel percorso arabo-normanno, la crescente airbnbfication del quartiere, l’aumento dei flussi turistici e la parziale ripresa del mercato immobiliare stanno già in parte attivando operazioni di neighborhood branding48 che rischiano di favorire processi di espulsione e di spossessamento49. Se non sarà in grado di adattare la propria agenda politica al mutato contesto, SOS Ballarò nei prossimi anni potrebbe, suo malgrado, scoprirsi parte di questi processi. Il dibattito sulla spazializzazione delle pratiche di resistenza urbana che è stato più su richiamato trova nell’esperienza di SOS Ballarò 53

alcuni spunti critici che meritano attenzione. Scartando qualunque chiusura o separazione spaziale, l’assemblea pubblica ha fatto del suo essere costitutivamente diffusa e mobile, immersa nel quartiere e a portata di ciascuno dei suoi abitanti, un indiscusso punto di forza. Pur avendo caricato alcuni spazi di un valore simbolico particolare, come nel caso di Piazza Mediterraneo, nessuno di questi ha quelle caratteristiche di separatezza e autonomia che marcano invece parte della riflessione sui commons nel dibattito geografico radicale. Questa immersione ha certamente anche contribuito a produrre delle contraddizioni dentro ai processi che SOS Ballarò ha tentato di portare avanti in questi anni, specie per quanto riguarda le complesse mediazioni per la formalizzazione dei mercati, e non sempre a questa apertura spaziale è corrisposta un’inclusione efficace di tutte le componenti del quartiere. Ma è proprio in queste imperfezioni, nelle sue aperture e curvature, che la topografia critica che abbiamo qui tentato di tracciare può trovare la propria chance politica.

NOTE 1 Il quartiere dell’Albergheria, per alcuni noto col nome del suo mercato “Ballarò”, è sito all’interno dell’Unità di Primo Livello “Palazzo Reale”, nella prima circoscrizione, ed è uno dei quattro “mandamenti” che compongono il centro storico della città di Palermo. 2 James Wesley Scott, Weapons of the weak, Yale University Press, New Haven 1985. 3 Per un’introduzione alla New Cultural Geography cfr. Denis Cosgrove e Peter Jackson, New directions in cultural geography, in «Area», n. 19(2), pp. 95–101, 1987. 4 Si vedano, tra i molti testi sulle geografie della resistenza: David Harvey, Class relations, social justice and the politics of difference, in Steve Pile e Michael Keith (a cura di), «Place and the Politics of Identity», Routledge, London 1993, pp. 41–65. Paul Routledge, Terrains of Resistance: Nonviolent Social Movements and the Contestation of Place in India, Praeger, Westport 1993. Gill Valentine, Creating Transgressive Space: The Music of kd lang, in«Transactions of the Institute of British Geographers», n. 20(4), 1995, pp. 474–485. Tim Cresswell, In Place/Out of Place: Geography, Ide-

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ology and Transgression, University of Minnesota Press, Minneapolis 1996. Paul Routledge, The imagineering of resistance: Pollok Free State and the practice of postmodern politics, in «Transactions of the Institute of British Geographers», n. 22(3), pp. 359–376, 1997. Melissa W. Wright, Crossing the Factory Frontier: gender, place, and power in the Mexican Maquiladora Antipode, in «Antipode», n. 29, pp. 278–302, 1997. Mitch Rose, The seductions of resistance: Power, politics, and a performative style of systems, in «Environment and Planning D: Society and Space», n. 20(4), pp. 383–400, 2002. Monica Degen, Urban Regeneration and “Resistance of Place”: Foregrounding Time and Experience, in «Space and Culture», n. 20(2), SAGE Publications, Los Angeles, pp. 141–155, 2017. 5 Michael Keith e Steve Pile (a cura di), Geographies of Resistance, Routledge, Londra 1997. 6 Steve Pile, Opposition, Political Identities and Resistance, in Michael Keith e Steve Pile (a cura di), «Geographies of Resistance», Routledge, London 1997, pp. 2-3. 7 Paul Chatterton e Jenny Pickerill, Notes towards autonomous geographies: creation, resistance and self-management as survival tactics, in «Progress in Human Geography», n. 30(6), pp. 730–46, 2006; Alexander Vasudevan, The autonomous city: Towards a critical geography of occupation, in «Progress in Human Geography», n. 39(3), 2014, pp. 316–37. 8 Efrat Eizenberg, Actually Existing Commons: Three Moments of Space of Community Gardens in New York City, in «Antipode», n. 44(3), pp. 764– 782, 2012. 9 Patrick Bresnihan e Michael Byrne, Escape into the City: Everyday Practices of Commoning and the Production of Urban Space in Dublin, in «Antipode», n. 47(1), pp. 36–54, 2015; Alex Jeffrey, Colin McFarlane e Alexander Vasudevan, Rethinking Enclosure: Space, Subjectivity and the Commons, in «Antipode», n. 44(4), pp. 1247–67, 2012. 10 David Harvey, Spaces of Hope, University of California Press, Berkeley 2000. Johannes Novy e Claire Colomb, Struggling for the Right to the (Creative) City in Berlin and Hamburg: New Urban Social Movements, New ‘Spaces of Hope’?, in «International Journal of Urban and Regional Research», n. 37(5), 2013, pp. 1816–38; Jason Luger, Singaporean ‘Spaces of Hope?’, in «City», n. 20(2), pp. 186–203, 2016. 11 Edward Soja e Barbara Hooper, The Spaces that Difference Makes. Some Notes on the Geographical Margins of the New Cultural Politics, in Michael Keith e Steve Pile (a cura di), Place and the Politics of Identity, Routledge, London and New York, pp. 183-205, 2009.

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12 Neil Smith e Cindi Katz, Grounding Metaphor. Towards a Spataialized Politics, in Michael Keith e Steve Pile (a cura di), Place and the Politics of Identity, cit., pp. 66–81. 13 Paul Routledge, Terrains of Resistance, cit.; Joanne P. Sharp, Paul Routledge, Chris Philo, e Ronan Paddison, Entanglements of Power: Geographies of domination / resistance. Entanglements of Power: Geographies of domination / resistance, Routledge, London and New York 2000. 14 Ivi, p.9. 15 Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2010. 16 L’espressione microgeografia rappresenta un tentativo di declinare la microfisica foucaultiana in chiave spaziale: l’espediente narrativo e analitico consiste qui nel partire dalla materialità di alcuni luoghi e di risalire a istituzioni, regimi e processi urbani che li hanno prodotti. 17 Helga Leitner, Eric Sheppard e Kristin M. Sziartot, The Spatialities of Contentious Politics, in «Transactions of the Institute of British Geographers», n. 33(2), pp. 157–172, 2016. 18 Con il termine “mercatari” si fa riferimento ai gestori delle attività commerciali dei mercati storici di Palermo. 19 Anne Honer e Ronald Hitzler, Life-World-Analytical Ethnography: A Phenomenology-Based Research Approach, in «Journal of Contemporary Ethnography», n. 44(5), pp. 544-546, 2015. 20 Nelle pagine che seguono utilizzerò il termine “Ballarò” per indicare il quartiere compreso fra corso Vittorio Emanuele, via Maqueda, corso Tukory e corso Re Ruggero, oggetto di questa analisi. Nonostante, infatti, sarebbe più corretto riferirsi a esso con gli altri toponimi citati, ho scelto di ricorrere al nome del suo mercato perché è soprattutto intorno a questo nome che l’operazione di rilancio del quartiere è stata portata avanti. 21 Secondo un report pubblicato ad aprile del 2017 dall’Ufficio del Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Comune di Palermo sono 20000 le famiglie che versano in condizioni di povertà assoluta. 22 Danilo Dolci, Inchiesta a Palermo, Einaudi, Torino 1956. 23 Giulia Bonafede e Grazia Napoli, Palermo multiculturale tra gentrification e crisi del mercato immobiliare nel centro storico, in «Archivio di Studi Urbani e Regionali», n. 113, pp. 123–150, 2015. 24 Il punto di avvio di questo processo è rappresentato dalla Legge Regionale 25/93 per il recupero degli immobili nel centro storico di Palermo: https://www.comune.palermo.it/js/server/uploads/_14092016145307.pdf. 25 Giovanni Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, Il

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Mulino, Bologna 2015. 26 Xabier Gainza, Culture-led neighbourhood transformations beyond the revitalisation/gentrification dichotomy, in «Urban Studies», 2016, p. 3. 27 Cindi Katz, On the Grounds of Globalization. A topography for feminist political engagement, in «Signs», 26(4), pp. 1213–1234, 2001. 28 Intervista a Don Enzo Volpe (15/2/2017), parroco della Chiesa di Santa Chiara e fra i principali promotori di SOS Ballarò. 29 Intervista a Fausto Melluso (5/3/2017), socio fondatore del circolo Arci Porco Rosso e componente di SOS Ballarò. 30 Il documento è consultabile sul sito di SOS Ballarò all’indirizzo: http://www.sosballaro.it/proposte/ 31 Intervista a Don Enzo Volpe (15/2/2017). 32 Intervista a Massimo Castiglia (3/12/2016), oggi Presidente della I Circoscrizione e principale animatore di SOS Ballarò. 33 Intervista a Marco Sorrentino (11/3/2017), cofondatore della cooperativa turistica Terradamare e componente di SOS Ballarò. 34 Partha Chatterjee, Oltre la cittadinanza. La politica dei governati, Meltemi, Roma 2006, p. 80. 35 Intervista a Fausto Melluso (5/3/2017), vd. sopra. 36 Joanne P. Sharp, Paul Routledge, Chris Philo, e Ronan Paddison, Entanglements of Power, cit. 37 http://arabonormannaunesco.it/ 38 Intervista a Licia Romano (18/4/2017), dirigente del Comune di Palermo e responsabile della gestione dei rapporti con SOS Ballarò. 39 Erik Swyngedouw, Governance Innovation and the Citizen: Face of Governance-beyond-the-State, in «Urban Studies», n. 42(11), pp. 1991– 2006, 2005; Rina Ghose e Margaret Pettygrove, Urban Community Gardens as Spaces of Citizenship, in «Antipode», n. 46(4), pp. 1092–1112, 2014; Harold A. Perkins, Green spaces of self-interest within shared urban governance, in «Geography Compass», n. 4(3), pp. 255–268, 2010. 40 Massimo Castiglia è stato eletto nella stessa lista che ha supportato la rielezione del sindaco Leoluca Orlando. 41 Neil Smith, Geography, difference and the politics of scale, in J. Doherty, M. Graham, e E. Malek (a cura di), Post- modernism and the social sciences, Macmillan, London, pp. 57–79, 1992. 42 Secondo i dati Istat del 2011 oltre il 55% della popolazione censita ha un livello di istruzione pari o inferiore alla licenza media (Fonte: Gistat. Il sistema informativo geografico dell’Istat) 43 Arjun Appadurai, Il futuro come fatto culturale, Raffaello Cortina

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Editore, Milano 2014. 44 Intervista a Massimo Castiglia (3/12/2016), vd. sopra. 45 Intervista a Massimo Castiglia (3/12/2016), vd. sopra. 46 Intervista a Massimo Castiglia (3/12/2016), vd. sopra. 47 Intervista a Fausto Melluso (5/3/2017), vd. sopra. 48 Jeffrey R. Masuda e Sonia Bookman, Neighbourhood branding and the right to the city, in «Progress in Human Geography» n. 42(2), pp. 165– 182, 2018. 49 Un esempio che va in questa direzione è rappresentato dal programma promosso dal Comune “Ballarò Significa Palermo”, un progetto di valorizzazione territoriale basato su una campagna di comunicazione pervasiva.

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QUESTIONI ETICHE E RESISTENZE NELLA TRANSIZIONE ENERGETICA: QUALI SFIDE PER LE SCIENZE SOCIALI? Fulvio Biddau 1. Una ‘lettura socio-politica e territoriale’ della transizione energetica La transizione energetica – ovvero la transizione dai combustibili fossili alle risorse rinnovabili – comporta una trasformazione e riorganizzazione dei sistemi energetici nelle relative modalità di approvvigionamento, distribuzione, e consumo, ed un ripensamento della consueta relazione energia-società. Tale sfida rimanda a cambiamenti di vasta portata, che devono avvenire lungo diverse scale e dimensioni che interagiscono e (potenzialmente) co-evolvono insieme: naturali, tecnologiche, politico-legislative, economiche e socio-culturali. Tuttavia, troppo spesso, la questione energetica viene ridotta a mero risultato e responsabilità delle discipline tecniche, quali ad esempio economia e ingegneria, lasciandone sullo sfondo la dimensione umana e le implicazioni e ripercussioni sociali che essa comporta. Da una prospettiva territoriale, i combustibili fossili su cui le società moderne hanno impostato il loro sviluppo hanno generato sistemi energetici organizzati in lunghe catene di approvvigionamento, con l’energia generalmente prodotta attraverso grandi impianti centralizzati e situati ad una distanza considerevole dai siti di consumo1. Questo paradigma ha rappresentato un modello deterritorializzato, in cui le attività energetiche sono state largamente distanti, invisibili e/o trascurate2. Al fine di rispondere alle sfide ambientali odierne si rende necessario un cambiamento di paradigma verso un modello decentralizzato per la generazione di energia rinnovabile distribuita sui territori. A questo corrisponde l’introduzione e materializzazione di infrastrutture e impianti a livello locale (es. turbine eoliche, centrali a biomasse, idroelettriche, reti di trasmissione, stazioni di stoccaggio) con conseguenti impatti ambientali e sociali. Tale 59

cambiamento di paradigma richiede pertanto una complessa riorganizzazione dei territori, e un’attenta valutazione della relazione tra società umane, fonti e tecnologie energetiche3, e il territorio o scala locale4. Concretamente, questo si traduce in azioni focalizzate, come l’identificazione di specifiche fonti e tecnologie che meglio si adattano alla conformazione e alle esigenze dei luoghi, la costruzione di infrastrutture per la produzione e l’approvvigionamento energetico su base locale e più vicine ai luoghi di consumo, l’implementazione di misure significative di risparmio e efficienza energetica nei processi produttivi o nell’edilizia5. Mentre l’innovazione tecno-scientifica è fondamentale per una transizione sostenibile, la (buona) governance è un elemento cruciale per promuovere e diffondere le innovazioni tecnologiche6, e come evidenziato da Sovacool, Stern e Dietz7, “le forze sociali – potere, cultura, meccanismi istituzionali – influenzano la portata, il contenuto, le tecniche, e le traiettorie di produzione, distribuzione e uso di beni e servizi associati all’energia”. Da una prospettiva sociopolitica, inoltre, la trasformazione dei sistemi energetici richiede azioni multi-scalari e politiche coordinate non solo tra i diversi livelli di governance, ma anche trasversalmente alle aree di policy8 – quali ad esempio agricoltura, trasporti, impresa, urbanistica e governo del territorio.

FIGURA 1. PROSPETTIVA MULTI-SCALARE DELLA GOVERNANCE ENERGETICA

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FIGURA 2. PROSPETTIVA MULTI-STAKEHOLDER DELLA GOVERNANCE ENERGETICA: ADATTATO DA SPÄTH E ROHRACHER (2010)

Ai fini di una governance adattiva9 delle trasformazioni dei sistemi energetici, si aggiunge la crescente difficoltà e necessità di considerare molteplici attori che operano e interagiscono su diverse scale (vedi Figura 1 e 2)10. Al fine di un’efficace pianificazione ed un’effettiva implementazione di politiche e progetti energetici, si rende necessario riconoscere e affrontare in maniera adeguata molteplici prospettive (forme di conoscenza, esperienza, interessi, preoccupazioni, valori) coinvolgendo i diversi attori e gruppi sociali potenzialmente interessati o affetti dalle decisioni11. Questo richiede il riconoscimento e l’inclusione di diverse soggettività nella pianificazione e implementazione territoriale di innovazioni tecnoscientifiche, normative e politiche, e, pertanto, un attento esame delle loro interazioni, relazioni e aspettative nel corso del tempo12. 61

Quanto delineato fino ad ora, non è nient’altro che una problematizzazione dei diversi aspetti in cui le scienze sociali possono e sono chiamate a dare un contributo per supportare la transizione verso società sostenibili, comprendendo come incoraggiare cambiamenti radicali, formare le capacità necessarie per la trasformazione, riconoscere e superarne gli ostacoli. 2. Etica e giustizia ambientale nella transizione energetica: spazi, relazioni, e territorialità delle energie rinnovabili Il concetto di giustizia ambientale emerge per la prima volta nel 1987, all’interno del report “Toxic Wastes and Race in the United States”, in cui i termini ‘razzismo ambientale’ e ‘giustizia ambientale’ vennero usati per evidenziare come alcune comunità fossero maggiormente esposte a rischi derivanti dall’ubicazione di strutture e rifiuti tossici e pericolosi, e come questo fosse collegato a disparità socio-economiche e razziali13. I primi contributi accademici si focalizzarono pertanto sull’iniqua distribuzione di rischi e impatti ambientali come un ulteriore esempio di ingiustizia sociale14. Negli anni il concetto di giustizia ambientale è stato utilizzato da diversi movimenti, che in termini sostanziali ne hanno esteso la portata, includendo oltre rischi e impatti, anche beni e benefici ambientali, quali ad esempio l’accesso ad aree verdi e naturali, la qualità e la distribuzione delle risorse idriche e alimentari, lo sviluppo energetico, i trasporti e così via15. In effetti, i discorsi dei movimenti per la giustizia ambientale sono sempre andati oltre l’equa distribuzione di costi, benefici, e responsabilità ambientali16. Le rivendicazioni hanno sempre incluso questioni inerenti l’equità delle procedure e della regolamentazione, l’inclusione nei processi decisionali e l’accesso all’informazione ambientale17. A partire da questa considerazione, Schlosberg18 ha sostenuto la necessità di espansione teorica del concetto per includere le dinamiche che producono e riproducono forme ed esperienze di ingiustizia distributiva. Basandosi sui lavori di Fraser19, Young20 e Honneth21, Schlosberg22 elabora la giustizia ambientale come determinata dall’intersezione tra giustizia distributiva, di riconoscimento e procedurale. In primis, la giustizia di riconoscimento intende il riconoscimento reciproco e intersoggettivo come un ulteriore elemento alla base della giustizia, come bisogno psicologico primario 62

cui individui e comunità fanno affidamento per riflettere sul proprio senso di integrità e dignità23. A questo proposito, Taylor24 distinse tra due tipi di riconoscimento: l’uguale dignità per tutti, e la politica della differenza, in cui ognuno viene riconosciuto per le proprie distintiva particolari. Il riconoscimento delle differenze, in termini di privilegi e oppressione, risulta pertanto criterio fondamentale per potere riconoscere e rispondere alle ingiustizie25. Schlosberg26 concepì dunque la giustizia di riconoscimento in termini di (mancato) riconoscimento sociale e politico. La giustizia di riconoscimento è in questo senso alla base della distribuzione iniqua dei costi e benefici ambientali, della giustizia procedurale o di partecipazione, riferibile alle procedure politiche e al modo in cui le decisioni sono prese, alla partecipazione e ai processi di esclusione e inclusione nei processi decisionali. Nell’ambito politico, Fraser27, fu la prima a richiamare l’attenzione sulla ‘parità partecipativa’ di tutte le parti interessate o affette quale elemento procedurale per alleviare le ingiustizie distributive e di riconoscimento, e l’importanza di esaminarne i fattori che impediscono il pieno riconoscimento di gruppi e individui quali membri accettati della comunità morale e politica. In tal senso, identificò tre forme principali di misconoscimento: dominio culturale, non riconoscimento, e mancanza di rispetto, aggiungendo che quando le pratiche di mancanza di rispetto e disistima sono istituzionalizzate, ad esempio nell’educazione pubblica, nelle normative, e/o nelle pratiche che costruiscono le interazioni quotidiane, queste impediscono la parità della partecipazione tanto quanto le iniquità distributive. La relazione tra giustizia di riconoscimento e distributiva è da inquadrarsi dunque all’interno delle dinamiche procedurali, laddove entrambe le forme di ingiustizia possono ostacolare la possibilità di individui e gruppi di partecipare, conducendo ad un circolo vizioso in cui mancato riconoscimento ed esclusione dai processi decisionali si rinforzano a vicenda. Le rivendicazioni per una autentica e allargata partecipazione pubblica di fatto sono spesso concepite come uno strumento per ottenere riconoscimento politico ed equità distributiva28. Le procedure politiche sono quindi indicate come strumento elettivo per affrontare l’esclusione istituzionalizzata, la cultura del misconoscimento e l’iniquità distributiva, e in cui la partecipazione rappresenta un elemento di, e condizione per, la giustizia sociale29. Partendo da una concezione distributiva di giustizia, la cornice 63

della giustizia ambientale è andata mano a mano a definirsi intorno ai tre pilastri delineati: distribuzione, procedure e riconoscimento (Vedi Tabella 1). Dimensioni di giustizia

Riconoscimento

Distributiva

Procedurale

Oggetto/focus di analisi

Attori/gruppi e luoghi/territori

Elementi di ingiustizia

Mancanza di rispetto; misconoscimento; mancato riconoscimento; dominio culturale; svalutazione

Accesso a beni, risorse e servizi ambientali; Costi e benefici distribuzione iniqua di rischi, impatti, vantaggi ambientali, e benefici ambientali, economici e sociali economici e sociali Esclusione; scarsa rappresentatività; manipolazione e persuasione; informazione, Processi decisionali trasparenza e accesso alla conoscenza limitati; limitata influenza e agency

Tabella 1. Schematizzazione della relazione tra dimensioni della giustizia ambientale, oggetto/focus d’analisi, e elementi di ingiustizia

La teoria ha avuto uno sviluppo esponenziale, estendendo i suoi confini geografici e spaziando dalle questioni locali a quelle transnazionali e globali, evidenziando gli aspetti spaziali di iniquità nel modo in cui gli impatti sono distribuiti e le decisioni prese, e le asimmetrie nelle relazioni di potere all’interno delle società e tra le società stesse30. Inoltre, è andata ad estendersi e ad applicarsi a svariate tematiche quali i cambiamenti climatici, l’energia, l’acqua, il cibo, i trasporti, approfondendo questioni inerenti al ruolo dell’expertise scientifica, della conoscenza locale, e della relazione tra scienza e giustizia ambientale31. Il concetto di giustizia energetica emerge negli ultimi anni nelle scienze sociali come strumento con valenza analitico-interpretativa, 64

valutativa-normativa, e applicabile a questioni di rilevanza sociale quali ad esempio le politiche, la diffusione di tecnologie/sistemi di produzione, il consumo e l’accesso al mercato dell’energia, l’attivismo e la partecipazione alle decisioni in materia energetica32. McCauley e colleghi33 evidenziano come la giustizia energetica rappresenti intrinsecamente un concetto analitico spaziale, che si interroga su come forme ed esperienze di ingiustizia distributiva, procedurale, e di riconoscimento si intersecano nelle trasformazioni dei sistemi energetici odierni. L’attenzione alternata alla componente spaziale/ territoriale, e alla componente sociale/relazionale delle questioni energetiche ben evidenzia la portata della teoria nell’analisi dei processi di trasformazione dei territori. Alcuni autori34 hanno proposto di considerare le decisioni energetiche come questioni etiche e di giustizia, e ripensare al modo in cui pericoli ed esternalità così come benefici e vantaggi del sistema energetico sono distribuite all’interno della società, e se la presa di decisione rispecchia criteri di equità, inclusione e rappresentatività. Secondo Jenkins e colleghi (vedi nota 32), la giustizia energetica fornisce un utile strumento a disposizione del ricercatore per analizzare (e riflettere su) dove le ingiustizie emergono, chi è affetto o ignorato, e quali processi esistono per rimediare in modo da rendere evidenti e ridurre tali ingiustizie. La giustizia distributiva rimanda in questo senso al modo in cui costi e benefici del cambiamento sono distribuiti non solo tra individui e gruppi sociali (tra gruppi e comunità) ma anche geograficamente (tra territori) e temporalmente (es. giustizia intergenerazionale). Riflettere sull’intero sistema energetico ci suggerisce e costringe ad analizzare il modo in cui costi e benefici del cambiamento sono distribuiti territorialmente e socialmente lungo tutto il ciclo dell’energia – dalla produzione e trasmissione, allo smaltimento dei rifiuti associati. La giustizia procedurale focalizza l’attenzione su fattori quali l’accesso all’informazione, la trasparenza, la legittimità, l’accesso, l’inclusività e rappresentatività dei differenti interessi in gioco nella presa di decisione e l’equità delle decisioni stesse. La giustizia procedurale rimanda quindi alla rivendicazione di eque procedure che coinvolgano tutti gli interessati in maniera non discriminatoria35. Questo richiede non solo che tutte le persone potenzialmente interessate possano prendere parte al dibattito che precede il processo decisionale e che le loro voci siano tenute seriamente in considerazione, ma anche appropriati meccanismi di 65

coinvolgimento, l’accesso all’expertise, e l’imparzialità e condivisione di informazioni da parte di industrie e governi36. Infine, la giustizia di riconoscimento rimanda al (mancato) riconoscimento o misconoscimento di gruppi sociali e aree geografiche, come “il processo di mancanza di rispetto, insulto e degradazione che svaluta alcune persone e alcune identità di luogo in confronto con altre”37. Il mancato riconoscimento può manifestarsi in varie forme di dominio culturale e politico, nell’ignorare alcuni gruppi sociali e settori della società affetti dalle decisioni, o nei processi di misconoscimento di individui e gruppi, in cui distorsioni del loro punto di vista e aspettative sul loro comportamento si associano a varie forme di non riconoscimento e svalutazione della conoscenza, influenzando il modo in cui le procedure sono seguite (se e come sono coinvolti, trattati e rappresentati nel processo decisionale), e gli impatti e costi del sistema energetico sono distribuiti (come le decisioni riflettono il riconoscimento delle preoccupazioni e opinioni dei diversi pubblici valutando e redistribuendo costi e benefici). Come brevemente presentato, la trasformazione dei sistemi energetici ci interroga sui confini geografici dei fenomeni studiati, nonché sui livelli di analisi e spiegazione adottati nei lavori di ricerca. Gli studi sociali sulla transizione energetica possono essere suddivisi sulla base del focus principale di analisi: societario, sociale, e individuale38. Nel livello societario, la prospettiva è solitamente nazionale o transnazionale, e l’analisi si focalizza sul ruolo delle strutture e della dimensione macro nel promuovere o al contrario ostacolare il cambiamento. Nel livello sociale il focus è su contesti comunitari e organizzativi, adottando una prospettiva relazionale, locale, e situata che analizza il modo in cui gruppi e comunità promuovono, si adattano o resistono al cambiamento. Il livello individuale coincide con un focus su cognizione, emozioni, comportamenti dei singoli individui, analizzandone le pratiche, la loro base cognitiva e valoriale, e i fattori individuali, sociali e materiali che promuovono il cambiamento o la stabilità in atteggiamenti e comportamenti rilevanti per l’ambiente39. Tali livelli di analisi, seppure possano rispecchiare differenti assunti epistemologici, non sono da considerare necessariamente come mutualmente escludenti. Al contrario, la ricerca sociale può adottare più livelli di analisi e spiegazione, ad esempio analizzando gli effetti di politiche e normative internazionali e nazionali nelle esperienze 66

locali e viceversa40. Un limite della ricerca sociale permane nella difficoltà di identificare i confini disciplinari, geografici e sociali, sempre più sfumati e interconnessi, della transizione energetica. Queste considerazioni portano a riflettere di volta in volta la dimensione spaziale e sociale degli oggetti di studio, i livelli di analisi e di spiegazione utilizzati, e le possibili interazioni non solo tra attori, ma anche tra scale e livelli di analisi. All’interno delle scienze sociali, la prospettiva geografica emerge sempre più come una prospettiva capace di inserirsi al confine tra discipline accademiche, permettendo un dialogo interdisciplinare41, fornendo un ulteriore sguardo/lente con cui leggere le sfide energetiche, cambiandone di conseguenza le domande e pratiche di ricerca. Diversi autori42 hanno messo in evidenza l’utilità di concetti derivanti dalla geografia – quali ad esempio luoghi, paesaggio, incorporazione spaziale, territorialità – per una maggiore e più profonda comprensione delle risposte e concettualizzazioni del pubblico in merito a tecnologie e infrastrutture energetiche, e della più vasta relazione tra ambiente e società e persone e luoghi. In questo senso, la sfida della generazione distribuita ci porta a considerare con attenzione la territorialità delle energie rinnovabili. Con territorialità si intende il complesso sistema di relazioni e scambi tra esteriorità fisica e alterità sociale, ovvero l’interazione tra attori individuali e collettivi con l’ambiente (es. paesaggio, infrastruttura) e l’altro (es. promotori e attori non locali)43. Il territorio assume dunque le connotazioni di un luogo fisico e simbolico, oggetto di processi rappresentazionali – combinazioni di significati –, di attività di trasformazione – contenitore o contesto d’uso e sfruttamento di risorse locali – e campo relazionale – luogo di incontro tra attori locali e non. Questa rinnovata ‘sensibilità territoriale’ ci porta a problematizzare le geografie della transizione, e la dimensione fisica e simbolica dei luoghi e dei territori chiamati in causa nei processi di trasformazione44. 4. Quali resistenze nella transizione energetica? Trascendendo la consueta dicotomia analitica, nonché concezione di cambiamento sociale, bottom-up/top-down, il presente paragrafo muove dal riconoscimento delle resistenze coinvolte nella transizione energetica come operanti su diversi livelli e dimensioni: individuale (intrapersonale), collettiva (interpersonale e intra-gruppi) e di 67

coalizione (inter-gruppi). Questa considerazione muove da una lettura psicosociale e sociologica del conflitto e delle resistenze nella transizione energetica – quale processo di cambiamento societario risultante dall’interazione della sfera politico-legale, tecnico-scientifica, e pubblica45 – tanto nei processi di significazione quanto negli effettivi comportamenti. Al fine di indagare e comprendere le resistenze insite nella trasformazione dei sistemi energetici, si rende necessario approfondire come le resistenze operano su più livelli e, in una prospettiva relazionale, come queste interagiscono tra loro a livello societario. Per meglio comprendere quanto appena riportato e per farne un sunto, lo studio del cambiamento dei sistemi energetici necessita di un’attenta analisi del cambiamento richiesto a livello di significati, azioni e strutture, e del conseguente livello di resistenza e conflitto a livello intrapersonale, interpersonale e inter-gruppi46. Appare necessario in primo luogo definire cosa qua si intende per resistenze. L’etimologia della parola richiama una staticità, un resistere in chiave conservativa, come contrapporsi, e opporsi a qualcosa o qualcuno. Tuttavia, come evidenziato da Foucault47 resistenza appare un termine ambiguo e scivoloso ad una presa analitica (e politica), poiché se da una parte si sviluppa dove c’è il potere, dall’altro non è mai in una posizione di esteriorità nei suoi confronti. Configurandosi come relazionali, i rapporti di potere sono dunque caratterizzati da una molteplicità di punti di resistenza, “dei (contro-)discorsi praticati, ancora prima che ‘parlati’, dagli osservatori e dagli attori in campo”48. Tali resistenze accompagnano il potenziale di cambiamento o al contrario possono promuoverne la stabilità. La prospettiva della psicologia societaria vede il cambiamento sociale come la risultante dell’incontro tra cambiamento pianificato solitamente dall’alto (sfera politica) e emergente dal basso (sfera pubblica), riconoscendo le possibili tensioni tra progetti e ambizioni di cambiamento, la non linearità e la molteplicità di fattori e prospettive in gioco nel resistere o supportare il cambiamento49. La prospettiva psicosociale concepisce in questo senso le resistenze come una possibilità contemporaneamente sociale e psicologica, al cuore delle pratiche di ri-significazione attraverso cui la conoscenza su un dato oggetto sociale viene costantemente re-interpretata, ripensata e ripresentata nelle pratiche. Le resistenze così intese possono dunque essere lette come discorsi e pratiche che possono o intendono modificare, così 68

come mantenere stabile, lo status quo e l’ordine sociale precostituito attraverso la costruzione e trasformazione dei significati. Le resistenze, in questa concezione pluralistica, possono riferirsi dunque a vari ambiti quali l’oppressione, l’esclusione, e le diseguaglianze50, l’innovazione tecnologica e scientifica51, o l’innovazione politico-legale52. In questo senso, la transizione energetica, e le questioni ambientali in generale, ben si prestano ad una lettura resistenziale intorno ai cambiamenti – individuali, sociali, organizzativi e societari – richiesti all’interno dei diversi processi e settori di innovazione, e come le innovazioni vengono recepite, significate e poste in essere dai diversi attori sociali. 4.1. Resistenze e opposizioni territoriali allo sviluppo delle energie rinnovabili Intorno alla questione energetica, il concetto di resistenza ha assunto una notevole rilevanza nello studio delle cosiddette resistenze/opposizioni locali allo sviluppo di impianti e infrastrutture energetiche, interrogandosi su quello che viene riconosciuto come il gap “nazionale-locale”53 o “atteggiamento-comportamento”54: la distanza tra la rilevazione – tramite sondaggi d’opinione – di un atteggiamento generalmente positivo verso la produzione di energia da fonti rinnovabili da parte dei cittadini di diverse nazioni, e, ciononostante, il crescendo di opposizioni locali all’avvicinarsi e materializzarsi di tali infrastrutture all’interno degli specifici territori. Tale filone di ricerca ha comportato un fiorire di studi che in prima istanza hanno etichettato, definito e spiegato tali resistenze con il termine NIMBY (Not in my backyard – Non nel mio giardino). Tale termine, oramai entrato a pieno titolo nel linguaggio comune, è stato perlopiù utilizzato per spiegare l’opposizione locale in termini di prossimità spaziale ai progetti infrastrutturali, e/o per spiegare tali resistenze in termini di interessi locali e particolaristici contrapposti ad un interesse generale. Non è un caso che il termine NIMBY venga spesso associato nel discorso pubblico ad un ‘effetto’ o ‘sindrome’, finendo per stigmatizzare e delegittimare le istanze oppositive, percepite e rappresentate come un freno allo sviluppo economico e infrastrutturale, e pertanto disfunzionali per il funzionamento/avanzamento della società. Le prime rassegne di 69

ricerca evidenziavano questo tipo di proteste come caratterizzate da sfiducia nei proponenti, insufficienti informazioni sulla localizzazione e sul funzionamento degli impianti, atteggiamenti parrocchiali e localistici, e orientamento emotivo al conflitto55. Il termine è stato utilizzato – sfortunatamente anche all’interno del linguaggio accademico – per etichettare e descrivere in maniera peggiorativa coloro che si opponevano allo sviluppo di progetti e infrastrutture, e attribuendone spesso le motivazioni ad ignoranza, egoismo e irrazionalità56. Mentre i primi studi erano maggiormente connotati da un livello di analisi individuale, con metodologia quantitativa e post-positivista, e con focus sull’atteggiamento degli individui nei confronti delle rinnovabili a livello astratto e concettuale, il focus di analisi è andato mano a mano ad allargarsi dal livello individuale, a quello gruppale e societario57. Le evidenze empiriche hanno nel tempo e sistematicamente dimostrato come l’ipotesi Nimby fosse tutt’altro che valida, e cominciato a proporre concetti alternativi per ripensare l’oggetto di indagine e l’area di ricerca, trovare nuovi modi di leggere e comprenderne le resistenze locali, e superarne la concezione deficitaria e peggiorativa del pubblico58. Tra questi, il filone di studi sull’“accettazione sociale delle innovazioni energetiche rinnovabili”59, quello sulle “risposte del pubblico alle tecnologie energetiche rinnovabili”60, e sul tipo di protesta e conflitto, definibile non più come Nimby, ma piuttosto come “LULU” (Locally Unwanted Land Use – utilizzo del territorio localmente non desiderato61). Le evidenze empiriche hanno cominciato a evidenziare come in diversi contesti geografici, i conflitti LULU possedevano spesso una base razionale62, che l’atteggiamento nei confronti dell’infrastruttura oggetto dell’opposizione non dipendeva necessariamente dalla (scarsa) conoscenza o dai dettagli del progetto63, né tantomeno dalla distanza tra l’impianto e gli insediamenti abitativi dove i residenti vivevano64. Piuttosto ne mettevano in evidenza i costi e le esternalità negative a carico delle comunità ospitanti progetti e infrastrutture. Molteplici studi hanno cominciato quindi a indagare come diversi fattori inerenti procedure istituzionali, fattori progettuali e ambientali influenzavano le risposte del pubblico verso tali impianti65, indicando come alla base delle resistenze locali e dei conflitti LULU vi erano differenti percezioni e valutazioni sul progetto, sul modo in cui costi e benefici venivano ripartiti66 – ad esempio tra residenti/comunità 70

locali e imprese/comunità di interessi67, sul modo in cui il processo decisionale, la progettazione e localizzazione degli impianti avveniva, o sul modo in cui il progetto si adattava alle condizioni dei luoghi68. Alcuni autori hanno proposto di ripensare le resistenze locali, come azioni protettive dei luoghi a seguito di minacce e rischi percepiti dall’introduzione e materializzazione di progetti energetici69, evidenziandone gli aspetti e la valenza simbolica, affettiva e identitaria dei luoghi. In effetti, come la psicologia sociale evidenzia, le persone prendono parte ad azioni collettive di protesta nel momento in cui una situazione percepita come problematica e condivisa (ingiustizia/deprivazione percepita) genera un’identità collettiva, e la credenza condivisa che il gruppo possa cambiare la situazione attraverso una mobilitazione collettiva70. I luoghi possono funzionare in questo senso come una categoria sociale che può fornire contenuto alle strutture identitarie71, e la condizione che lo rende possibile è che il luogo/territorio diventi soggettivamente saliente72. I legami affettivi e l’identificazione con i luoghi possono motivare le persone a partecipare al fine di proteggere e migliorare i luoghi che sono soggettivamente importanti per loro73. Inoltre, un coinvolgimento personale, o un’identificazione basata sul luogo e con l’ambiente minacciato può influenzare le percezioni del rischio in modi diversi: può aumentare la percezione del rischio e la prontezza ad adottare azioni protettive, o al contrario può aumentare la tendenza a negare il rischio74. La prospettiva di nuove installazioni può funzionare dunque come una scintilla che permette lo sviluppo di una minaccia percepita e condivisa, un’identità collettiva, e l’intenzione a mobilitarsi e opporsi dall’ospitare il progetto specifico75. Tuttavia, diverse proposte per comprendere le opposizioni locali hanno di fatto, e per un lungo periodo, relegato sullo sfondo il ruolo e l’interesse di altri attori rilevanti. Nonostante all’interno dei conflitti ci siano almeno due fronti, la maggior parte della ricerca si è focalizzata esclusivamente sugli opponenti e ‘raccontando solo metà della storia’76. Su questa scia, riflettendo la complessità delle risposte alle energie rinnovabili, Wüstenhagen, Wolsink e Burer77 proposero un framework concettuale con cui leggere l’accettabilità sociale riferita alle innovazioni per le energie rinnovabili. Questa è definita e composta da tre dimensioni interdipendenti e dinamiche: l’accettazione socio-politica, riguardante sia l’accettazione delle tecnologie in sé che le relative politiche (es. uso di suolo, paesaggio, 71

regolamentazione del mercato), e comprendendo pertanto le percezioni del pubblico, di portatori di interesse chiave, e decisori; l’accettazione di comunità, riferibile alle decisioni di localizzazione e progettazione del caso specifico, e collegata a questioni inerenti la giustizia procedurale, la giustizia distributiva e la fiducia; infine l’accettazione di mercato, o il processo di adozione nel mercato delle innovazioni tecnologiche, riferibile dunque a consumatori, investitori e aziende. L’attenzione degli studiosi è andata così a rivolgersi sul modo in cui diversi attori interagiscono a livello locale – tra questi imprese proponenti, decisori, tecnici e cittadini – impattando sul modo in cui il cambiamento proposto viene percepito, e di conseguenza osteggiato o meno. Riconoscendo il ruolo di molteplici identità e punti di vista, Walker e colleghi (vedi Figura 378) hanno proposto un framework che evidenzia l’importanza di esaminare le interazioni tra il pubblico e altri attori rilevanti (decisori, imprenditori, esperti) le diverse aspettative reciproche e relazioni nel corso del tempo, il ruolo del contesto in cui queste prendono forma, e la relazione che intercorre tra attori, territorio e tecnologie, tenendo conto delle diverse visioni e aspettative in merito al luogo e alla comunità, o di come il progetto, il processo di partecipazione e gli attori che propongono/promuovono il progetto vengono percepiti dai residenti locali.

Figura 3. Framework concettuale sul coinvolgimento del pubblico in merito alle energie rinnovabili (Fonte: 10, p.22)

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Infatti, quando i membri di una comunità si oppongono ad un progetto possono mettere in discussione diversi fattori del progetto in sé e relativi aspetti controversi (impatti e rischi percepiti, la localizzazione, la trasformazione dei luoghi, i cambiamenti d’uso delle risorse naturali locali), oppure possono mettere in discussione le procedure istituzionali seguite (ad es. una mancanza di/falso coinvolgimento nelle decisioni) e il trattamento loro riservato (ad es. etichettando l’opposizione come Nimby, misconoscendo le istanze dei cittadini, o semplicemente ignorando la popolazione locale), e questo può a sua volta influenzare la percezione e le risposte dei cittadini sul progetto e sugli attori coinvolti79. Pertanto, appare fondamentale interrogarsi sul ruolo del (mancato) riconoscimento o misconoscimento, nel plasmare le dinamiche e relazioni sociali, nel promuovere o vincolare la partecipazione di diversi attori e gruppi sociali, e la loro possibilità di agency e resistenza80. 4.2. Resistenze nella riconfigurazione del rapporto tra saperi A seguito di diversi trattati internazionali (vedi Convenzione di Aarhus), e normative sovranazionali e nazionali (vedi Valutazione di Impatto Ambientale e Valutazione Ambientale Strategica) stiamo assistendo ad un cambiamento di paradigma in merito alle politiche ambientali: da un modello pedagogico e informativo della partecipazione e delle decisioni, in cui ‘la scienza informa la politica’, e la comunicazione tra esperti e non esperti è unilaterale, volta ad informare i cittadini su decisioni già prese81, ad un modello dialogico e deliberativo caratterizzato da comunicazione bilaterale e partnership nella presa di decisione82, in cui i cittadini in qualità di non esperti sono attivamente coinvolti nel fornire la propria voce e input nella definizione dell’agenda, nella presa di decisione e formulazione delle politiche, nonché nella produzione di conoscenza83. Il tema della partecipazione pubblica in materia scientifica emerge con forza negli anni ‘90 in concomitanza con due fattori. Da una parte il clima di crescente sfiducia nei confronti della conoscenza scientifica applicata alla politica e alle questioni ambientali, percepita come uno strumento di legittimazione delle decisioni e dei “rischi accettabili”, al servizio di interessi politici ed economici a spese dei cittadini e dell’ambiente84. Dall’altra la crisi del cosiddetto ‘modello del deficit’ di comprensione pubblica della scienza85. Tale modello enfatizzava 73

l’incapacità del pubblico di poter comprendere e apprezzare appieno le scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche per via di un gap di informazione (alfabetizzazione scientifica), e che pertanto andasse educato mediante una maggiore comunicazione degli esperti (divulgazione scientifica) al fine di promuovere un atteggiamento positivo nei confronti della scienza e della tecnologia86. A questo corrisponde una crescente riscoperta e valorizzazione della conoscenza locale o profana, della necessità di includerla e affrontarla all’interno dei processi decisionali e di produzione di conoscenza al fine di orientare la pianificazione degli interventi e le politiche con gli assunti normativi, i valori e bisogni espressi dalla società87. Tale cambiamento evidenzia come la soluzione ai problemi pratici richieda l’inclusione di diversi tipi di conoscenza. Anche laddove l’evidenza scientifica sia valida e rilevante, le condizioni e gli effetti inerenti al caso specifico devono essere riconosciuti per tenere conto degli effetti e delle condizioni degli interventi nel contesto88. La conoscenza delle risorse disponibili, dei vincoli politici, economici, legali, sociali e ambientali, nonché delle barriere di implementazione sono elementi di conoscenza necessari per un’efficace pianificazione degli interventi, e per evitare effetti controproducenti, paradosso, o trade-off. A questo proposito, la letteratura identifica tre fondamenti motivazionali alla base della partecipazione pubblica: sostanziale, normativo e strumentale89. La motivazione sostanziale vede la partecipazione come un modo per migliorare la qualità delle decisioni e politiche, aiutando a riconoscere ed incorporare una ricca conoscenza del territorio, delle sue dinamiche e contingenze90. La motivazione normativa vede il coinvolgimento di tutte le parti interessate nei processi decisionali come la cosa giusta da fare nei sistemi politici democratici91. La motivazione strumentale vede la partecipazione come uno strumento per raggiungere un determinato obiettivo, come aumentare l’accettabilità sociale, o ripristinare la fiducia tra gli attori. Tali motivazioni, spesso taciute e implicite, possono condurre a diversi approcci partecipativi, e produrre tensioni e difficoltà laddove il coinvolgimento è caratterizzato, gestito e orientato da gruppi e organizzazioni con differenti motivazioni92. Come ormai noto a partire dal lavoro seminale di Arnstein 93, i metodi, gli strumenti e approcci partecipativi sono vari, e si differenziano sulla base dei diversi significati (e utilizzi) della partecipazione, del flusso 74

comunicativo tra le parti, e della sua significatività all’interno del processo decisionale94. La partecipazione ideale dovrebbe dunque migliorare la qualità delle valutazioni e delle decisioni, aumentarne la legittimità, e portare a una maggiore comprensione, conoscenza e capacità decisionale95. Come suggerito da Dietz e Stern96, i tre criteri di qualità, legittimità e capacità possono essere adottati per valutare i processi partecipativi: 1) Qualità: le preoccupazioni del pubblico sono affrontate, maggiori informazioni sono considerate, nuove idee e conoscenze generate, l’output riflette una vasta gamma di prospettive della situazione e le conclusioni riflettono la migliore evidenza disponibile; 2) Legittimità: la sfiducia tra i partecipanti è ridotta, i partecipanti accettano la decisione e il processo come equi, anche se non sono d’accordo con le raccomandazioni per l’azione; 3) Capacità: i partecipanti (inclusi gli esperti e i decisori) sono maggiormente informati sulla questione in oggetto e sulla prospettiva dell’altro, e organizzatori e partecipanti sviluppano competenze in merito ai processi decisionali partecipativi. Diversi autori sono concordi nel ritenere la partecipazione istituzionalizzata come la migliore soluzione poiché in grado di innalzare gli standard qualitativi della partecipazione e offrire al pubblico la possibilità di esercitare influenza nella presa di decisione e nella sfera politica. Al contrario, altri sostengono che la cooptazione delle iniziative partecipative potrebbe soffocare la spontaneità della partecipazione e offrire l’opportunità di manipolare i partecipanti, il processo e gli esiti97. La partecipazione istituzionalizzata è caratterizzata dunque dalla contraddizione di essere allo stesso tempo un’opportunità per i cittadini di far sentire la propria voce ed esprimere il proprio punto di vista, e dall’altra un vincolo su cosa e come questo si possa fare98. Detto questo, bisogna riconoscere l’esistenza di molteplici procedure di coinvolgimento del pubblico, a cui corrispondono delle differenze nel grado di potere e agency permesso ai cittadini nel discutere e orientare l’agenda politica. Ad un polo abbiamo una versione minimalista di coinvolgimento, l’informazione. Questo tipo di coinvolgimento e approccio di pianificazione rispecchia il modello Decidi-Annuncia-Difendi, in cui le persone sono informate sulla decisione e i suoi aspetti, ma non coinvolte nella discussione che precede la decisione99. Un’alternativa 75

di coinvolgimento è la consultazione pubblica, la quale riconosce un ruolo attivo ai cittadini. Tuttavia, nella consultazione gli spazi permessi e le opzioni presentate sono spesso limitate, costituendo dei confini alla partecipazione, caratterizzata dall’incertezza sull’utilizzo degli input da parte di chi ha maggiore potere decisionale100. Al contrario, nella deliberazione pubblica quale ideale di partecipazione pubblica, i cittadini sono riconosciuti come co-produttori nella formulazione delle decisioni e nella produzione di conoscenza, e pertanto coinvolti attivamente nello sviluppo delle strategie o di scelte progettuali e di localizzazione fin dalle fasi preliminari. L’approccio deliberativo appare particolarmente adatto alle questioni ambientali, che si caratterizzano per un alto grado di conflitto, alta rilevanza degli aspetti cognitivi e valoriali, alta complessità tecno-scientifica e la necessità di tener conto di una molteplicità di interessi e punti di vista101. Tuttavia, il risultato dei mutamenti normativi che promuovono l’ideale di deliberazione pubblica viene spesso descritto in termini di tensione tra expertise professionale e governance democratica102, tra apertura e chiusura del dibattito in merito alla formulazione di politiche e decisioni103. Come ogni innovazione, i mutamenti normativi che sollecitano il coinvolgimento dei cittadini e l’introduzione di pratiche deliberative non è immune da varie forme di resistenza al cambiamento, soprattutto da parte di coloro che precedentemente avevano maggiore legittimità e potere decisionale104. Di fatto, l’aspetto paradossale della partecipazione istituzionalizzata sta nel fatto che questa ‘richiede ai diversi attori di cooperare a prescindere dal loro potere, ruolo, interesse e posizione. Tuttavia, la cooperazione non è mai una condizione che può essere data per scontata o qualcosa che può essere raggiunto tramite innovazioni e/o prescrizioni legalinormative’105. Tali mutamenti hanno avviato – almeno retoricamente – una riconfigurazione dell’incontro e del rapporto tra saperi esperti (politico-normativi e tecnico-scientifici) e non esperti (o locali), minacciando le gerarchie e posizioni di potere consolidate, e alterando le forme di legittimazione dei sistemi di conoscenza106. Queste considerazioni, hanno condotto gli studiosi a interrogarsi criticamente sulla retorica crescente della democratizzazione della partecipazione, cominciando ad analizzare il modo in cui decisori, tecnici e imprenditori percepiscono e concepiscono i diversi 76

‘pubblici’ e ‘portatori di interesse’, la partecipazione dei cittadini, e quali aspettative nutrono in merito107. La ricerca sociale ha evidenziato come modelli impliciti e rappresentazioni del pubblico cui fanno riferimento responsabili politici, esperti, e imprenditori spesso hanno un effetto tanto sui processi di comunicazione e coinvolgimento approvati dalle autorità o messi in essere dai diversi soggetti, quanto sulla reale possibilità per i cittadini di prendere parte ai processi decisionali e alla produzione di conoscenza108. Tali ricerche hanno rivelato un modello di riferimento estremamente diffuso che vede il pubblico/i cittadini come un gruppo omogeneo, deficitario della consapevolezza, delle conoscenze e dell’agency che sono necessarie per poter essere coinvolti a pieno titolo109. La naturale conseguenza, è che i cittadini non vadano coinvolti, e che laddove coinvolti, saranno guidati da motivazioni egoistiche e credenze irrazionali110. Tali resistenze, da parte di coloro che si trovano a mediare la traduzione e applicazione di nuove norme, risulta spesso nell’escludere dai processi decisionali, manipolare o persuadere della bontà delle decisioni, gli “abitanti dei luoghi” e coloro potenzialmente interessati e affetti dalle decisioni, limitando le possibilità effettive di coinvolgimento e influenza111. Questo approccio è tuttora oggetto di critiche in quanto non farebbe altro che condurre a conflitti sociali, ritardi e cancellazioni di proposte progettuali, tuttavia si riscontra come la forma più frequentemente usata da autorità politiche e imprese per coinvolgere i cittadini112. 4.3. Resistenze, coalizioni e conflitti tra gruppi di interesse Tornando alla cornice dell’accettabilità sociale delle energie rinnovabili, la maggior parte della ricerca sviluppatasi negli ultimi 10 anni, si è focalizzata quasi sempre su una, o al massimo due, delle dimensioni proposte da Wüstenhagen e colleghi113, traducendosi in un proliferare di casi di studio locali, che potremmo definire studi di accettazione di comunità o pubblica, e perlopiù su singole tecnologie o infrastrutture. In alcuni casi gli studi di comunità sono stati integrati con un’analisi della dimensione socio-politica a livello nazionale114, trascurando però la dinamicità e l’interdipendenza delle tre dimensioni dell’accettabilità sociale e delle sfere di innovazione e cambiamento (tecnologico, politico-legale, e sfera pubblica). In ultimo, pochi studi hanno preso in considerazione, se non alcune 77

notevoli eccezioni115, il sistema energetico nel suo insieme, integrando le diverse componenti lungo il ciclo di vita energetico (produzione, trasmissione, accumulo, consumo) in approcci integrati (ad es. utilizzando scenari e mix energetici per un dato territorio). In secondo luogo, gli studi si sono eccessivamente focalizzati sull’accettazione/accettabilità – piuttosto che considerare altri tipi di risposte come apatia, intolleranza, supporto attivo – da parte di diversi attori e gruppi sociali, e così facendo hanno trascurato il ruolo che attori del livello meso – coloro che hanno sufficiente agency e capacità di influenza per agire su diverse scale – possono avere nel guidare o ostacolare il cambiamento del sistema energetico116. Partire da una prospettiva di ricerca che affronta la dinamica inter-gruppale dei conflitti ambientali, richiama l’attenzione sul modo in cui rappresentazioni conflittuali e/o consensuali di un dato oggetto e fenomeno possono stimolare identità collettive, posizionamenti e polarizzazioni nel contesto inter-gruppi117, e sul modo in cui gruppi e coalizioni diversamente equipaggiati riescono ad esercitare influenza mobilitando le forme di potere materiale e simbolico a loro disposizione. Affianco ad una lettura delle resistenze individuali e collettive si rende dunque necessaria un’analisi delle resistenze di coalizione, vale a dire le resistenze attuate tramite reti relazionali e alleanze tra gruppi. Come suggerito da Geels118, gruppi e coalizioni possono utilizzare forme di potere e resistenza di tipo strumentale, discorsivo, materiale e istituzionale. Le forme strumentali di potere (come posizioni di autorità, accesso ai media e risorse finanziarie) sono utilizzate nelle interazioni immediate con altri attori al fine di raggiungere i propri obiettivi e soddisfare i propri interessi. Un ulteriore forma di potere rimanda alle strategie discorsive, ovvero il modo in cui problemi e soluzioni vengono discorsivamente costruiti e rappresentati dai diversi attori119. Il discorso ambientale viene concepito come una continua lotta tra varie coalizioni di attori sociali che, percependo interessi e opinioni affini, si coalizzano al fine di sviluppare e sostenere particolari discorsi e promuovere un modo particolare di pensare e agire in merito alle sfide ambientali120. In questi termini, una cornice analitica discorsiva appare fondamentale per illuminare la base sociale e cognitiva del modo in cui problemi e soluzioni vengono socialmente costruiti e veicolati, e comprensioni comuni della situazione sono prodotte e trasformate121. Le strategie discorsive possono rappresentare un’efficace forma di potere e 78

resistenza, influenzando non solo l’agenda, ovvero cosa viene discusso, ma anche come questo viene discusso. Le forme materiali di potere e resistenza fanno riferimento alla disponibilità e all’utilizzo delle capacità tecniche e risorse finanziarie per esercitare influenza, mentre quelle di tipo istituzionale sono incorporate all’interno delle culture politiche, ideologie e strutture di governance. Geels122 evidenzia come la stabilità dei sistemi energetici possa essere concepita come la risultante di resistenze attive da parte di attori incombenti. L’argomentazione a supporto di questa tesi rimanda al fatto che gruppi economici e decisori tendono spesso a formare alleanze a causa di una dipendenza reciproca, poiché se da una parte le industrie dipendono dalle regolamentazioni predisposte dai governi, questi a loro volta dipendono dagli investimenti dei gruppi industriali per il raggiungimento di obiettivi quali ad esempio l’occupazione, lo sviluppo economico, e il raggiungimento dei target energetici e ambientali. Questo comporta che le autorità politiche tendano a consultare, tenere in considerazione, e interiorizzare gli interessi industriali nella formulazione delle politiche. Inoltre, all’interno dei processi decisionali, organizzazioni economiche e portatori d’interesse influenti tendono a trascurare e omettere alternative tecnologiche radicali, e favorire e promuovere quelle configurazioni (es. tecnologie e fonti energetiche, dimensione degli impianti, approvvigionamento di materie prime) che rispecchiano o meglio si adattano ai propri interessi e bisogni organizzativi123. Un’ulteriore chiave di lettura in merito alle resistenze di coalizione rimanda al ruolo degli esperti e dell’expertise tecnico-scientifica. L’expertise, è per definizione fornita nel contesto decisionale, ed è pertanto orientata al problema, alla formazione di opinioni e all’azione124. Oggi più che mai l’expertise rappresenta a tutti gli effetti un bene che può essere comprato e venduto125, una risorsa strategica, soprattutto quando gli esperti sono chiamati a dialogare con i cittadini sulla bontà delle decisioni o sulle tecnologie utilizzate per limitare o placare le possibili contestazioni126, così come informare e influenzare i processi decisionali. Ben lontana dall’essere neutrale, la conoscenza scientifica applicata alla politica è spesso soggetta a vincoli e limitazioni, dovendo rispondere a domande e priorità scelte da altri e che derivano da esigenze e obiettivi politici piuttosto che da problemi di ricerca127. Guardare agli scienziati in questo modo, come esperti pubblici, comporta il considerarli alla luce del loro possibile 79

ruolo come consulenti (di policy) e comunicatori pubblici, rappresentando dunque il complemento sociale di un cliente/ committente 128. A causa delle implicazioni pratiche dei consigli degli esperti, questi ultimi si trovano spesso ad essere intrecciati con interessi politici ed economici, e situazioni in cui il grado di fiducia nei loro confronti viene stabilito sulla base del tipo di committente (ipotizzato o reale) che rappresentano e a cui forniscono le proprie competenze. In questo contesto, organizzazioni e gruppi con interessi politici ed economici cercano infatti di governare la produzione e l’utilizzo della conoscenza tecnico-scientifica129. Non solo le istituzioni governative, ma anche portatori di interesse quali industrie e associazioni di categoria dispongono delle risorse finanziare e tecniche per avere accesso all’expertise e mobilitarla in maniera funzionale ai loro interessi e obiettivi130. Le differenze di potere materiale e simbolico, ovvero le risorse e l’agency per accedere e mobilitare la conoscenza giocano un ruolo chiave nelle controversie ambientali. Di fatto, la partecipazione istituzionalizzata in materia energetica in Italia, rappresenta una forte criticità in questo senso. La cosiddetta Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) per progetti energetici si è caratterizzata per un approccio prevalentemente tecnico, scientifico, e poco partecipativo, in cui il coinvolgimento pubblico avviene solitamente in una fase avanzata caratterizzata da spazi limitati per fornire input e scarsa apertura a modifiche progettuali a seguito di preoccupazioni espresse dal pubblico131. Dall’altra parte, le procedure di Valutazione Ambientale Strategica (VAS) in materia di piani e strategie energetiche si sono caratterizzate per un approccio maggiormente volto ad assicurare i diritti di accesso all’informazione e alla trasparenza, piuttosto che coinvolgere pienamente i diversi pubblici in momenti di incontro tra conoscenza esperta e conoscenza locale nel discutere opzioni e conseguenze di scenari alternativi132. Queste considerazioni forniscono ulteriore evidenza sulla necessità di trovare modalità partecipative per rivelare e fare incontrare la prospettiva di attori e gruppi sociali portatori di conoscenze diverse al fine di riflettere sulle condizioni di accettabilità, sia in termini di strategie e politiche che di progetti e infrastrutture energetiche, per il territorio in questione. Se i cittadini spesso si trovano in una condizione di scarso potere in termini di accesso e mobilitazione della conoscenza scientifica, in altri casi assistiamo sempre più a condizioni in cui l’attivismo ambientale si connota 80

come un vero e proprio ‘ambientalismo scientifico’, in cui le strategie di mobilitazione e argomentazione si basano su competenze certificate ed evidenze scientifiche133. Molte delle controversie ambientali si caratterizzano per il ricorso alla conoscenza tecnicoscientifica, in cui esperti prendono parte in entrambi i lati della controversia134. Il coinvolgimento di esperti rappresenta non di rado una strategia di advocacy – soprattutto da parte di organizzazioni ambientaliste, e in secondo luogo gruppi e movimenti locali – che per accedere e mobilitare expertise rilevante sviluppano infrastrutture di ricerca e network con esperti simpatizzanti che forniscono una contro-expertise al fine di criticare e smantellare l’autorità delle evidenze scientifiche proposte dalla controparte, sostenendo in questo modo le proprie affermazioni e proposte alternative. Le proteste sono così accomunate da un fattore comune. Esse sono il più delle volte promosse e organizzate da comitati di cittadini costituiti ad-hoc che si presentano come rappresentanti della comunità e apartitici, e che spesso cercano e trovano l’appoggio e il supporto di gruppi politici locali e associazioni ambientaliste pur rivendicandone una autonomia come espressione e voce delle istanze territoriali, di chi vive quei luoghi135. Gli esperti possono dunque essere affiliati con enti governativi, industrie, ONG ambientali, università e altre organizzazioni ed autorità scientifiche, giocando un ruolo chiave all’interno dei processi decisionali e nella sfera pubblica. Aldilà delle alleanze che si possono istaurare tra esperti, decisori, attori economici, cittadinanza, e associazioni ambientaliste, un ruolo rilevante viene giocato dai media tradizionali, in particolare TV e quotidiani. Questi ultimi infatti rappresentano tutt’ora la principale fonte di informazione ambientale. seguiti da internet e social media, e pertanto rappresentano importanti mediatori dell’expertise scientifica136. L’accesso ai mezzi di comunicazione tradizionali, e il modo in cui questi definiscono e forniscono rappresentazioni particolari della questione in oggetto, rappresentano un ulteriore (s)oggetto d’analisi all’interno del complesso quadro delineato. I media, infatti, provvedono a selezionare e privilegiare determinate prospettive, orientando l’attenzione dei fruitori verso particolari problemi all’ordine del giorno, e verso particolari aspetti e non altri137. Così facendo, possono plasmare, trasmettere e legittimare una certa visione della realtà, che a sua volta può influenzare i dibattiti politici, il contesto e le decisioni138. Inoltre, a livello 81

individuale, i media possono essere considerati a tutti gli effetti tra gli attori più importanti nell’influenzare la conoscenza comune139, fornendo un terreno di costruzione per l’elaborazione delle proprie interpretazioni della realtà140. Ancora di più, i media hanno un ruolo chiave all’interno dei conflitti ambientali, rappresentando sia il contesto in cui le controversie e i conflitti possono essere ricostruiti – in maniera più o meno equilibrata – che il contesto attraverso cui i conflitti possono essere posti in essere e agiti141. Infine, tra le coalizioni possibili troviamo quella tra politica locale e comitati locali, per cui il contesto italiano fornisce un esempio emblematico. Come rilevato dall’osservatorio NIMBY Forum142, nel 2017 quello energetico rappresenta il settore maggiormente contestato (56,7% dei conflitti censiti, di cui il 75,4% rappresentato dalle fonti rinnovabili), con la politica locale che sembra avere un ruolo centrale. Da una parte, le coalizioni tra enti locali, cittadini e comitati possono nascere da motivazioni di consenso politico, per cui la protesta e l’opposizione di cittadini e comitati locali vengono supportate o cooptate dalla politica locale. A questo proposito, anche per le autorità locali si sono prodotti degli acronimi (NIMTO – Not In My Term of Office – Non nel mio mandato elettorale) per descriverne il comportamento con connotazioni negative e delegittimanti143. Dall’altra però, la coalizione tra cittadini, comitati, e istituzioni politiche locali, può rappresentare un sintomo della crisi di legittimità, del conflitto sociale e istituzionale, e della carenza di coordinamento tra diversi livelli e settori di governance (sia orizzontale, ad esempio tra istituzioni regionali deputate alla protezione ambientale e Governo Regionale, che verticale, tra diversi livelli amministrativi – Governo Nazionale, Regioni, Comuni)144. Prendendo come esempio il caso italiano, le difficoltà burocratiche nel recepire in maniera efficace e tempestiva le Direttive Europee, l’assenza (fino al 2013) di una strategia energetica nazionale, e l’incerta distribuzione di competenze tra Stato e Regioni, hanno comportato una frammentazione del quadro normativo e differenti politiche energetiche all’interno del territorio nazionale145. A questo sono corrisposte ricorrenti dispute tra Stato e Regioni, Comuni e Regioni, o coinvolgendo altre istituzioni quali ad esempio autorità ambientali e sanitarie; dispute perlopiù rappresentate da procedimenti autorizzativi su progetti e infrastrutture energetiche146, e caratterizzate da carenze procedurali, scarso coinvolgimento e/o 82

riconoscimento istituzionale di cittadini e autorità locali nelle fasi preliminari di progettazione e localizzazione degli impianti147. Aldilà delle responsabilità politiche su diversi livelli, e delle rispettive intenzioni che non possono esser qui prese per date, dinamiche di mancato riconoscimento e misconoscimento sociale e politico di autorità locali, cittadini e comitati, e la mancanza di un’equa e reale partecipazione di tutti i portatori di interesse costituiscono gli elementi alla base della percezione di ingiustizie e della conseguente opposizione e resistenza territoriale allo sviluppo delle rinnovabili. Queste caratteristiche del contesto italiano ben evidenziano la necessità di ricerche in grado di combinare e connettere la sfera/ arena istituzionale e politica (ad es. partecipazione istituzionalizzata nelle procedure di VIA e SEA) con quella pubblica (ad es. protesta, advocacy e conflitti sociali), tenendo in considerazione più scale e livelli di analisi, per indagare la territorializzazione delle energie rinnovabili approcciando la questione dell’accettabilità sociale come un processo dinamico e complesso che si configura nell’interazione tra diverse sfere (sfera politico-legale, pubblica e tecno-scientifica) in cui molteplici attori (inter)agiscono. Se da un lato la ricerca sociale ha adottato il concetto e la cornice dell’accettazione sociale delle rinnovabili come oggetto privilegiato di studio, comprendendo “cosa ne favorisce” la penetrazione e diffusione territoriale, e “cosa placa e compensa” l’opposizione o malcontento locale, dall’altra rischia di spostare il focus lontano dalla complessità del processo, dall’eterogeneità di agenti coinvolti, e dal conflitto sociale quale motore di cambiamento e innovazione. In questo senso, la transizione energetica e l’accettabilità sociale si configurano come processi mai compiuti, ma continuamente prodotti nell’incontro e scontro tra significanti e posizionamenti che attori individuali e collettivi strategicamente usano al fine di partecipare pienamente alla definizione delle progettualità trasformative dei territori. Esaminando la storicità e territorializzazione delle tecnologie e politiche energetiche, delle relazioni tra queste ultime, i territori e gli attori che sono coinvolti nella loro implementazione, la ricerca sociale ha la capacità di rivelare la molteplicità di fattori e prospettive in gioco nel supportare o resistere al cambiamento148. Nel riconoscere questa eterogeneità di punti di vista all’interno dei contesti studio, con le relative differenze di potere, la ricerca sociale può stabilire quali interessi e prospettive sono dominanti 83

o al contrario non adeguatamente riconosciute e marginalizzate, mettendo così in discussione la segmentazione artificiale di gruppi sulla base di interessi, opinioni e valori assunti come convergenti, spesso operata tanto nella ricerca quanto nei processi decisionali (es. reclutamento di partecipanti, e partecipazione su invito con consultazioni separate per settori/categorie di interesse)149. É allora nella riscoperta e valorizzazione del conflitto che la ricerca applicata può impegnarsi pragmaticamente nella politica contestuale del cambiamento. Questa valorizzazione passa per il riconoscimento del conflitto non come qualcosa da minimizzare, risolvere o placare, ma piuttosto come l’essenza stessa delle relazioni dialogiche150, come un momento di produzione di conoscenza che permette l’emergere di nuovi significati, valori e interessi che concorrono alla valutazione delle innovazioni tecno-scientifiche e/o politiche-legali all’interno dei contesti territoriali151. Così concepito, il conflitto emerge come elemento funzionale, piuttosto che disfunzionale, nel portare alla luce valutazioni divergenti sulla questione oggetto della controversia, e per questo da considerare come avente valenza sostanziale (il conflitto può coincidere con un aumento di conoscenza, o una conoscenza più ricca e dettagliata sulla questione in oggetto), normativa (il conflitto incorpora e permette il pluralismo democratico aumentando la possibilità di riconoscimento e inclusione di voci e prospettive alternative/minoritarie nei processi decisionali) e strumentale (il conflitto fornisce momenti informali di valutazione delle tecnologie e politiche in riferimento al contesto, permettendo l’identificazione di problematicità nella loro implementazione e l’elaborazione di misure adeguate per affrontarle) per la transizione energetica152.

Conclusioni Il presente contributo ha voluto presentare una ‘lettura sociale e territoriale’ della transizione energetica, attingendo ad una letteratura multidisciplinare e utilizzando la cornice teorica della giustizia ambientale come strumento analitico-interpretativo e di supporto tanto nella ricerca quanto nei processi decisionali in materia. Alla luce di quanto formulato sino ad ora, appare chiaro come interrogarsi sulle resistenze coinvolte nella transizione energetica comporti tenere 84

conto di molteplici forme e processi resistenziali che operano e sono situati su più livelli di funzionamento della società. Tale lettura plurale e multi-livello implica giocoforza un ripensamento di cosa si possa intendere con il termine resistenze, e su come le resistenze possano operare a livello intrapersonale, interpersonale e inter-gruppi, tanto nei processi di significazione, quanto nelle pratiche e negli spazi che sono coinvolti nei processi di trasformazione. In questo scenario le scienze sociali possono – e sono chiamate a – offrire un notevole contributo per supportare la transizione verso società sostenibili. Concetti derivanti dall’etica e giustizia ambientale applicati alle questioni energetiche possono risultare strumenti fondamentali per informare i processi decisionali e la ricerca sulle implicazioni sociali e territoriali delle innovazioni – tecnologiche, economiche, politiche e normative – che intendono accompagnare la trasformazione dei sistemi energetici su diverse scale153. Quel che qui si è voluto richiamare con forza, è che un’adeguata integrazione di diverse prospettive teoriche e disciplinari che affrontino lo stesso problema in questo contesto non solo è desiderabile, ma strettamente necessaria. Lungi da ragionamenti naïf sulla pretesa integrazione di discipline e prospettive teoriche connotate da diverse epistemologie, tale esigenza nasce dalla consapevolezza che cornici teoriche e prospettive disciplinari possono espandere e allo stesso tempo porre un limite alla conoscenza. Pertanto, davanti alle sfide ambientali che ci si pongono davanti, abbiamo bisogno di approcci che analizzino la dimensione umana della transizione energetica, ovvero processi di significazione, pratiche, relazioni e interazioni sociali, ma che sappiano tenere in giusta considerazione le reti di strutture materiali e non in cui questi si inseriscono, da cui sono influenzate, e che allo stesso tempo contribuiscono a cambiare154. Per far questo abbiamo bisogno di trovare il modo di far dialogare e integrare tra loro (e insieme alle cosiddette “scienze dure”) discipline psicologiche, sociologiche politiche, geografiche, filosofiche, economiche, giuridiche e così via, consci che il tempo speso nel trovare e sperimentare codici comuni potrà comportare nuove intuizioni e domande di ricerca, e una migliore comprensione del fenomeno studiato. Tale sforzo tuttavia non può e non dovrebbe essere limitato alla sola decostruzione e interpretazione dei fenomeni in studio: una produzione di conoscenza che descrive e spiega il funzionamento dei meccanismi di agency e resistenza da parte dei 85

diversi attori, piuttosto che i meccanismi di funzionamento e influenza delle strutture sociali più ampie. Ed è qui che la cornice della giustizia ambientale può essere d’aiuto, offrendo una chiave interpretativa per indagare la dimensione spaziale e relazionale della transizione energetica, uno strumento normativo e riflessivo cui il ricercatore può fare affidamento per riflettere sul proprio posizionamento e sulle proprie pratiche di ricerca155, e, in un’ottica di ricerca-azione, per suggerire e imprimere traiettorie percorribili di cambiamento che tengano conto e sappiano rispondere alle molteplici forme di resistenza e ingiustizia nei percorsi di transizione dei territori verso la sostenibilità. Come auspicato da Bidwell156, le sfide energetiche odierne richiedono a tutti noi – che si tratti di cittadini, decisori, esperti, o imprenditori – di uscire dalle nostre rispettive zone di comfort (o posizioni privilegiate e situazioni e pratiche di cui si ha familiarità) per sperimentare e sviluppare modelli alternativi di partecipazione, dialogo e incontro. Per quanto questo possa comportare una posizione e un compito poco confortevole soprattutto per gli esperti – in cui il rischio di rimanere intrecciati con interessi politici ed economici ed esperienze di misconoscimento è alto – è solo attraverso un pieno coinvolgimento pubblico della ricerca scientifica che possiamo (se lo vogliamo) lavorare per migliorare il dialogo e i processi decisionali, incrementando la qualità e legittimità delle decisioni, nonché costruendo capacità e apprendimento reciproco negli attori coinvolti per supportarne il cambiamento. Quel che qui si auspica è dunque un maggiore coinvolgimento e impegno delle scienze sociali e il completamento del percorso che passa dal “public understanding of science”, al “public engagement with science”.

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handbook of social representations, Cambridge University Press, Cambridge 2015. 47 Michel Foucault, La volontà di sapere: storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano (1984) [1976], pp.84-85. 48 Pietro Saitta, Resistenze: Pratiche e margini del conflitto nel quotidiano, Ombre Corte, Verona 2015, p.15. 49 Caroline Howarth et al., Insights from societal psychology: a contextual politics of societal change, in «Journal of Social and Political Psychology», n. 1(1) pp. 364-384, 2013. 50 Caroline Howarth, A social representation is not a quiet thing: Exploring the critical potential of social representations theory, in  «British journal of social psychology», n. 45(1), pp. 65-86, 2006. 51 Martin. W. Bauer, Towards a functional analysis of resistance, in Martin. W. Bauer (a cura di) Resistance to New Technology: Nuclear Power, Information Technology and Biotechnology. Cambridge University Press, Cambridge 1995. 52 Susana Batel, e Patrick Devine-Wright, Towards a better understanding of people’s responses to renewable energy technologies, op. cit. 53 Derek Bell, Tim Gray e Claire Haggett, The ‘social gap’in wind farm siting decisions: explanations and policy responses, in «Environmental politics», n. 14(4), pp. 460-477, 2005. 54 Beatrix Futák-Campbell e Claire Haggett, Tilting at windmills? Using discourse analysis to understand the attitude-behaviour gap in renewable energy conflicts, in  «Mekhanizm Rehuluvannya Economiky», n. 1(5), pp. 207-220, 2011. 55 Michael E. Kraft, e Bruce B. Clary, Citizen participation and the NIMBY syndrome: Public response to radioactive waste disposal, in  «Western political quarterly», n. 44(2), pp. 299-328, 1991. Michael Dear, Understanding and overcoming the NIMBY syndrome, in «Journal of the American Planning Association», n. 58(3), pp. 288-300, 1992. 56 Kate Burningham, Using the language of NIMBY: a topic for research, not an activity for researchers, in «Local environment», n. 5(1), pp. 55-67, 2000. Maarten Wolsink, Invalid theory impedes our understanding: a critique on the persistence of the language of NIMBY, in «Transactions of the Institute of British Geographers», n. 31(1), pp. 85-91, 2006. 57 John Barry, Geraint Ellis, e Clive Robinson, Cool rationalities and hot air: a rhetorical approach to understanding debates on renewable energy,

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146 Stefano Fanetti, e Barbara Pozzo, Subnational resistance against renewable energy: The case of Italy, in (a cura di) Peeters, Thomas Schomerus, Renewable Energy Law in the EU: Legal Perspectives on Bottomup Approaches, Edwar Elgar Publishing, Chelthenam, 2014. 147 Stefano Fanetti, Renewable Energy in Italy: Incentives, Bureaucratic Obstacles and Nimby Syndrome, in Marco Tortora (a cura di), Sustainable Systems and Energy Management at the Regional Level: Comparative Approaches, IGI Global, Hershey 2012. 148 Paula Castro, Legal innovation for social change:... , op. cit. 149 Jason Chilvers, e Noel Longhurst, Participation in transition(s): reconceiving public engagements in energy transitions as co-produced, emergent and diverse, in «Journal of Environmental Policy & Planning», n. 18(5), pp. 585-607, 2016. Eefje Cuppen et al., Q methodology to select participants for a stakeholder dialogue on energy options from biomass in the Netherlands, in «Ecological Economics» 69(3), pp. 579-591, 2010. 150 Terri Mannarini, Riding paradox: Lessons learned from Italian participatory policy-making experiences, in «Revista Interamericana de Psicología/Interamerican Journal of Psychology», n. 48(1), 2014 151 Eefje Cuppen, The value of social conflicts. Critiquing invited participation in energy projects, in «Energy Research & Social Science», n.  38, pp. 28-32, 2018. 152 Ibidem 153 Gordon Walker, Beyond distribution and proximity: Exploring the multiple spatialities of environmental justice, op. cit. 154 Benjamin K. Sovacool, e David J. Hess, Ordering theories: Typologies and conceptual frameworks for sociotechnical change, in «Social studies of science», n. 47(5), pp. 703-750, 2017. 155 Capire se e come il proprio posizionamento e le proprie pratiche di ricerca rispecchiano una concezione strumentale del proprio oggetto di studio e/o riproducono relazioni e strutture di potere esistenti. Ad es. se il termine accettazione sociale, e il focus di attenzione sull’accettazione pubblica/di comunità a livello locale, rispecchiano una concezione strumentale in cui il pubblico viene implicitamente concepito come un ostacolo allo sviluppo delle rinnovabili, e un posizionamento orientato alla comprensione di come promuovere l’accettabilità dei cittadini, riproducendo e aderendo ad una logica di ricerca economico-strumentale. 156 David Bidwell, Thinking through participation in renewable energy decisions, in «Nature Energy», n. 1, 16051, 2016.

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“EFFETTI PARADOSSO” DELLA VIOLENZA DALL’ALTO. ECCEZIONALITÀ DEL CASO VALSUSINO O FALLIMENTO DEL DISPOSITIVO DI GESTIONE VIOLENTA DEL CONFLITTO? Alessandro Senaldi 1. Introduzione Secondo molti autori, nell’interazione tra movimenti sociali e controllo si assiste, dal G8 di Genova in poi, ad un mutato paradigma di contenimento della conflittualità sociale1. Con questo contributo mi propongo di indagare se le pratiche di polizia implementate all’interno di questo mutato paradigma siano efficaci o meno rispetto ai movimenti sociali. Per capire cosa comporta in termini effettivi l’azione delle forze dell’ordine e il loro portato spesso violento e muscolare, partirò da un caso di specie: la Val di Susa e il Movimento No Tav. Saranno così analizzati quei dispositivi di controllo poliziesco/militare che mirano in modo eterogeneo e non sempre distinguibile al «disciplinamento», alla «deterrenza» e alla «neutralizzazione» del movimento e dei suoi attivisti. Cercherò innanzitutto di riportare i termini del problema: descrivere il livello di militarizzazione presente in Val di Susa e il rapporto quotidiano di frizione tra movimento e FF.OO. In seconda battuta, tenterò di descrivere gli effetti che questa vicinanza produce, notando, infine, come questa costante contrapposizione tenda a comportare non un successo delle pratiche di controllo, bensì “effetti paradossali” rispetto alla radicalità, all’intensità e all’identità del movimento. L’obiettivo di questo contributo è fornire una visione di fallibilità, nella repressione del dissenso, delle pratiche di controllo sociale, a fronte di una lettura che spesso vede queste ultime come infallibili e insormontabili. 2. Questioni metodologiche Questo lavoro è frutto di una ricerca etnografica iniziata 99

nell’estate del 2013 e tuttora in corso. Senza addentrarci nel profondo dell’aspetto metodologico, occorre in questa sede evidenziare in modo conciso alcuni elementi, ovvero la rilevanza dei contesti spaziali in cui la ricerca si è svolta e la tipologia di soggetti “protagonisti”2 della stessa. Per quel che riguarda il primo dei due elementi, è necessario riconoscere l’importanza dei presidi. I “presidi No Tav”, nati a partire dal 2005 durante le fasi più dure dello scontro tra attivisti e Stato, sono strutture fisiche costruite sui terreni oggetto di esproprio e cantierizzazione come forma di resistenza collettiva. Tali strutture acquistano nel tempo una sempre maggiore rilevanza ai fini mobilitativi, arrivando a volte a strutturare intorno ad esse alti momenti di auto-organizzazione popolare, come nel caso della “Libera Repubblica della Maddalena”, presidiata nei momenti più intensi da migliaia di persone: A me piace dire sempre che i presidi sono per prima cosa ‘barricate viventi’, ma che in secondo luogo è come se fossero ‘casa’, cioè luoghi dove sperimentare nuovi modelli di vivere assieme, dove riscoprire i legami sociali. Dove ognuno riceve secondo i suoi bisogni e ognuno dà secondo le sue possibilità (Lupo, 1 gennaio 2018, Bussoleno).

I presidi sono spazi di aggregazione e socializzazione importante per i militanti, inoltre sono i luoghi dove si dà la quotidianità del movimento, dove le pratiche vengono studiate, organizzate e condivise, da dove si parte per cortei e azioni dirette, luoghi di scambio, costruzioni di legami sociali e di identità collettiva. È utile effettuare qualche considerazione anche per quel che riguarda i “protagonisti” di questa ricerca. L’ipotesi originaria era di lavorare sui soli “militanti di base”3 che aderivano a uno dei diversi comitati territoriali di opposizione all’opera. Tuttavia, tale piano ha subito modifiche proprio in virtù dell’importanza assunta, nel biennio 2011-2013, dai presidi; spazi ed eventi, cioè, che hanno contribuito a modificare le tradizionali divisioni e forme organizzative di partiti e formazioni politiche – al punto da rendere obsolete categorie come quelle di militante di base. Non essendoci più, in questo movimento, una demarcazione netta del militante di base ho dovuto riformulare il mio focus di interesse. La medesima sorte è toccata ai comitati e alla correlata nozione di appartenenza. Il contatto con il 100

movimento all’interno di spazi relazionali così fitti, le cui dinamiche e velocità sono scanditi da ritmiche battenti, comporta infatti una sorta di superamento di quella forma organizzativa, in quanto sono la quotidianità e la pratica della lotta a determinare l’effettivo contributo individuale nel movimento. La possibilità che all’interno dei luoghi in cui si è svolta la mia ricerca vi fossero individui che, pur militando quotidianamente, non appartenessero a nessun comitato, mi ha fatto considerare l’ipotesi di intervistare i “militanti di base” che durante i miei periodi di osservazione ho visto maggiormente attivi. In sostanza è lo stesso coinvolgimento con il movimento, al di là della gerarchia ricoperta nella sua organizzazione, ad avermi fornito il criterio di scelta dei miei intervistati. 3. La militarizzazione, l’azione delle forze dell’ordine e il rapporto quotidiano tra movimento e apparato poliziesco/militare. Il ruolo della polizia nella società è sempre stato di primaria importanza, lo diventa ancor di più al giorno d’oggi in quanto «incarna e assicura il potere sociale dei cittadini nei confronti dei non cittadini»4. A tal fine, gode dell’uso della forza e di una elevata discrezionalità nell’esercizio dei suoi poteri, ma in aggiunta deve, nelle zone a rischio, anche assicurarsi il controllo del territorio, attraverso un controllo di tipo militare. Anzi, è esattamente sotto quest’ultimo punto di vista che le operazioni delle FF.OO. in Valle rispecchiano l’attuale modalità di intervento delle polizie moderne, ovvero quella che Palidda chiama la «conversione militare delle forze di polizia»5. Si prenda ad esempio il livello di militarizzazione a cui è sottoposto il territorio valsusino, il quale, nei venticinque anni di contrapposizione tra la compagine statale e il movimento, è investito da tre distinte ondate di militarizzazione – nel triennio‘96-‘98, nel 2005 e nel triennio ‘11-‘13. Infatti, il tema della demilitarizzazione della valle è entrato nel piano rivendicativo del movimento già sul finire degli anni ‘90, per poi rinvigorirsi ulteriormente nel 2005, quando lo scontro è diventato più duro. Per comprendere meglio i livelli di saturazione di FF.OO. a cui la valle è arrivata nel 2013, sono importanti le considerazioni di Darigo: Così, con l’invio di altri 200 militari in Val Susa, deciso ieri in appoggio

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ai 215 già presenti, abbiamo un soldato ogni 289 abitanti della Valle, mentre in Afghanistan ce ne sono uno ogni 517 abitanti della provincia di Herat che è affidata al nostro controllo. Alle volte basta far caso ai numeri per scoprire inquietanti realtà inconsce che ci mostrano abissi e che le parole non dicono (Facebook di Darigo, 21 settembre 2013).

Luogo simbolo della militarizzazione è, secondo i valsusini, il cantiere della Maddalena, sito nel territorio comunale di Chiomonte – ironicamente rinominato dagli attivisti Kiomontistan. Il sentire collettivo nei confronti di questo luogo è caratterizzato da un profondo senso di espropriazione, che si fa tanto più forte quanto maggiore è l’attaccamento affettivo che i protagonisti di questa storia hanno verso di esso. Ad esempio, Ada e Lia, con parole cariche di amore, nostalgia e tristezza, riportano esattamente questo senso di espropriazione, il quale in casi estremi può indurre partecipazione alla lotta. La Clarea era un posto molto diverso da oggi. Era un bellissimo bosco di castagni antichissimi e di questo oggi non c’è più nulla. È diventata una zona desertificata [...] Intanto la zona del cantiere, non solo, l’intero paese di Chiomonte, che non c’entra niente col cantiere, e una parte della Val Clarea, è completamente militarizzata. Gli agricoltori che hanno il terreno faticano ad andare a lavoro e mantenere i loro terreni [...] i primi mesi della militarizzazione per esempio a chi entrava, a chi era concesso entrare, veniva sempre chiesto il foglio catastale, il documento, la partita IVA, eccetera, e si è sempre stati accompagnati (Ada, 18 luglio 2013, Venaus). [...] dall’anno scorso, con questa mia amica abbiamo iniziato sempre ad andarci a fare le passeggiate in Baita d’inverno, quindi con la neve... andavamo facevamo le passeggiate, portavamo il tabacco a chi era in Baita, che viveva da un mese in baita, stavamo lì ci prendevamo un caffè, guardavamo un po’ l’avanzamento dei lavori, che non erano lavori, c’era solo un recinto con degli sbirri. […] Mi ricordo che sono andata anche la sera prima che la sgomberassero e tutti sapevano che il giorno dopo ci sarebbe stato lo sgombero no!? [...] C’era un’atmosfera veramente tesissima. Di solito si andava, si giocava a carte piuttosto che si guardava un po’, si faceva una passeggiata, quel giorno lì invece silenzio assoluto per tutto il tempo. Siamo stati zitti tutto il tempo […] poi li è iniziata, diciamo, proprio a essere una cosa più attiva […] Forse perché andando così tanto

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proprio sul territorio, vivendo così tanto, non tutti i giorni, però almeno tre volte a settimana ero lì a vivere quel posto, mi sono proprio sentita toccata sul vivo […] quando hanno preso la Baita (Lia, 14 giugno 2013, Venaus).

In proposito Livio Pepino sostiene l’esistenza di un’«Enclave della Maddalena»6. Per dare la misura della reale militarizzazione del luogo basta citare – oltre alla presenza di centocinquanta alpini della Brigata Taurinense «con compiti di sorveglianza nel cantiere e nella zona circostante»7 – la L. n. 183/2011 (più nota come legge finanziaria del 2012) che introduce una sorta di diritto penale “speciale” per l’area del cantiere della Maddalena di Chiomonte, dichiarata “area di interesse strategico nazionale”, sanzionata ex art. 682 c.p.8: “chiunque si introduce abusivamente […] impedisce o ostacola l’accesso autorizzato alle aree medesime”. Questa norma poi è rafforzata successivamente dall’art. 7 del D.L. 93/2013 che inasprisce le pene per chi viola le zone di interesse strategico nazionale. Alla legge si affiancano una serie di ordinanze del Prefetto di Torino, il quale istituisce una “zona rossa” nelle immediate adiacenze del cantiere, in prossimità della quale è proibito (salvo casi particolari) accedere, stazionare e circolare. L’etnografia mostra come la modalità di azione degli agenti di pubblica sicurezza sia composta da un repertorio di pratiche abbastanza ampio, all’interno del quale si può notare una prevalenza dell’uso delle FF.OO. tipico delle strategie di «tolleranza zero»9. Il forte controllo territoriale e gli interventi prevalentemente repressivi sono orientati quindi ad effettuare operazioni selettive e di chirurgia sociale, ad accumulare sapere sulla società (attraverso una presenza e un controllo spasmodico di ogni ambito vitale dei No Tav) e ad effettuare interventi violenti che, puntando alla neutralizzazione, tendono all’esclusione dei non cittadini. Come vediamo, non vi è solo l’interesse a creare uno spazio di azione per dispositivi di controllo sociale volti al disciplinamento, ma vi è una guerra da vincere eliminando il nemico. Tutti i “personaggi” sostengono che, nell’ambito della discrezionalità tipica dell’operato degli agenti, ci sia un preciso sguardo selettivo volto alla costruzione di uno stigma – di volta in volta: “violento”, “terrorista”, “ragazzo dei centri sociali”, “black bloc” – necessario per dare inizio ad un processo di criminalizzazione. 103

Però, a parte qualcuno di noi, le forze dell’ordine stesse, cercano sempre di beccare proprio la gente di fuori. Io l’ho notato l’anno scorso, nel 2011, in piazzetta a Chiomonte […] se passava un italiano e passava un francese, tante volte al francese chiedevano il documento all’italiano no, e così via con qualsiasi altra nazionalità. Cercano proprio di fare apparire questi “anarchicoinsurrezionalistirivoluzionari” di stampo straniero (Ada, 18 luglio 2013, Venaus).

Ma questo non esaurisce i compiti a cui le FF.OO. sono deputate in valle, infatti, queste sono impegnate in una continua attività di accumulazione di sapere sulla società. Tale pratica di foucaultiana memoria si afferma nettamente come uno dei primi e più importanti aspetti del lavoro di polizia: «la stessa attività di controllo quotidiano serve innanzi tutto alla produzione e al rinnovamento del sapere sulla società»10. Molti attivisti hanno riportato vari episodi in cui l’intervento degli operatori non aveva carattere preventivo o repressivo tout court, ma aveva come unico scopo quello di accumulare sapere sulla società. Inutile dire che questo livello persistente di promiscuità tra FF.OO. e attivisti genera forti tensioni, in quanto è proprio in queste occasioni che l’atteggiamento degli operatori può portare senza un motivo apparente ad attimi di scontro anche duro. Uno dei soggetti che riporta più episodi del genere è Darigo: [...] per la cronaca: numerose pattuglie di acab hanno imperversato sulle statali, di fatto impedendo la normale circolazione, per circa 2 ore fermando, controllando e schedando a più non posso (si parla di circa 200 persone) tutti quelli che venivano su in Valle. Dico in Valle non campeggio, perché guarda caso, c’è anche gente che ci vive, in “Valle”!! Un totale DELIRIO!!!...A SARÁ DÜRA!!! (Facebook di Darigo, 2 agosto 2012).

Nelle parole dell’attivista vi è una sorta di esasperazione (se non un aperto odio) nei confronti delle FF.OO. – ben esemplificata dall’appellativo usato dalla quarantacinquenne valsusina («acab») – nel sentirsi sempre e in ogni luogo controllati, seguiti, spiati. Ed è proprio questa condizione a rendere il soggetto sempre più intransigente, conducendolo alle estreme conseguenze e producendo rilancio e nuova determinazione alla lotta: 104

[…] Passeggiare sui sentieri, chiacchierando mentre osservi il panorama, fare foto, in Clarea è reato. O quasi. Se incontri i “cacciatori di Sardegna” usciti dai recinti, scatta la richiesta dei documenti. Devono identificare chi passa. […] “NORMALI CONTROLLI”!!! Certo!! È la legge… PREPOTENZA, ARROGANZA, IGNORANZA queste sono le armi con cui difendono l’indifendibile […] Ritorno a casa con l’amaro in bocca. Con rabbia, tanta rabbia… La resa dei conti arriverà... Pagheranno tutto, pagheranno caro!!! “I popoli in rivolta scrivono la storia. NO TAV fino alla vittoria!! E VAFFANCULO agli sbirri!! (Facebook di Darigo, 22 aprile 2013).

Nelle parole di Darigo la polizia diviene il parafulmine dello Stato, in quanto, non esistendo altri mediatori, diventa suo rappresentante diretto nei confronti degli attivisti. Le parole qui riferite ad un generico “Loro” rappresentano un’alterità che si produce sia nei confronti delle FF.OO., sia rispetto all’intera compagine statale. Ma gli episodi che testimoniano dell’operato della polizia, volto all’accumulazione di sapere e al controllo, sono innumerevoli: ad esempio Duilia condivide tramite un post sul web l’esperienza di una sua amica alle prime armi con il movimento, grazie alla quale si comprende come la pratica dell’identificazione sia usata massicciamente in valle: Stavo volantinando con Nomefittizio in via Po, quando vedo scendere da una macchina due “ragazzi” [...] si avvicinano a noi, [e uno] alza la maglietta e fa vedere il distintivo attaccato ai pantaloni. Guardano Nomefittizio e gli dicono “lei la conosciamo già” ... poi guardano me… “lei no, documenti!”. “È la mia prima volta!” ridacchia il poliziotto che mi aveva chiesto le generalità, l’altro prende il mio documento e va in macchina... non so che fa... forse attacca la figurina sull’album (Facebook di Duilia, 6 giugno 2012).

Come si nota dall’identificazione immediata dell’attivista “sconosciuta”, le forze dell’ordine operano una schedatura e un’identificazione continua di tutti i militanti del movimento. Il controllo è tanto pervasivo e la sete di sapere dello Stato talmente forte che tale trattamento – fatto di fermi, identificazioni, foto segnaletiche e quant’altro – viene riservato anche alle persone anziane, come Fasulin, una minuta donna di 70 anni, e agli attivisti 105

minorenni, come narrato dalla giovane Mara: […] era sotto natale, ed eravamo andati ad appendere gli addobbi di natale alle reti [...] c’era un nastro che non riuscivo a metterlo su e gli ho detto a uno [agente] di dentro: “Puoi uscire a mettermi su quel nastro lì?”. Quello che è uscito era un capo [...] Mi fa: “Dove devo metterlo?”, “Lassù” dico io. Appunto me l’ha messo su e poi mi fa: “Documenti!”. Ho fatto: “Nessun problema!”. Gli do i documenti e ho detto: “Tanto, guardate, mi avete fatto la fotografia, la radiografia, l’ecografia. Quando devo andare in ospedale vengo da voi che avete già tutta la cartella”, lui si è messo a ridere e poi mi ha fatto aspettare un bel po’ no?!, prima di ridarmi i documenti […] Però ho fatto vedere che paura non ne abbiamo, “fate quello che volete”, tanto se mi arrestano, già fatto bon, nduma ndrinta11 (Fasulin, 15 agosto 2013, Chiomonte). Eravamo arrivati tutti tranquilli a fare questa azione, che comunque non aveva nessun fine terroristico o cose del genere. Dovevamo solo bloccare i mezzi e fare questa protesta davanti all’Itinera. Mah, che poi era finito tutto tranquillo. Era arrivata un bel po’ di polizia, però alla fine non era successo niente di rilevante, anzi poi a un certo punto se ne sono assolutamente andati. Poi noi siamo entrati nel centro di Salbertrand e[…] poi abbiamo deciso di andare in stazione. E alla stazione, mentre stavamo aspettando il treno, mancavano venti minuti al passaggio del treno, iniziano a arrivare – noi eravamo dentro la stazione, dove ci sono i posti da sedersi – degli agenti di polizia. Iniziano a dire: “dovete uscire, dovete andare verso i binari. Dovete uscire di qui”. E allora noi abbiam chiesto il motivo e nessuno sapeva dirci il motivo, “Dovete solo andare”. E allora ci siamo ritrovati proprio chiusi in questo posto dove hanno iniziato a fare le identificazioni. Identificazioni con le foto, sembrava proprio di essere assolutamente controllati... e poi non ci hanno fatto salire sul treno, perché si sono messi sui binari, di fianco ai binari, ostruendo lo spazio per salire. Ed era l’ultimo treno, quindi abbiamo perso questo treno e siamo dovuti tornare al campeggio con le macchine delle persone grandi, che ci sono venute a prendere dal presidio (Mara, 17 agosto, 2013, Chiomonte).

Come vediamo, non ci sono categorie di No Tav che non siano soggette a tali pratiche poliziesche, e non si tratta di un provvedimento riguardante solo gli attivisti più duri; durante la mia permanenza, ho avuto modo di dialogare con alcuni attivisti appartenenti al gruppo 106

«Cattolici della valle» che, ridendo, mi facevano notare come, essendo loro quelli che visitano più spesso il cantiere, andando a pregare lì ogni mattina, sono conseguentemente quelli più schedati e fermati dalle FF.OO. La terza modalità di azione delle forze di pubblica sicurezza è quella che più propriamente incarna l’intento neutralizzante, in questo gruppo rientrano le azioni che le FF.OO. effettuano spesso anche al di fuori delle stesse norme che regolano le loro organizzazioni. Non essendoci più un soggetto da disciplinare, ma esistendo solo un nemico da abbattere, tutti i mezzi divengono improvvisamente legittimi, la violenza diviene il comportamento classico attraverso cui le forze dell’ordine si interfacciano ai cittadini, e si produce una militarizzazione dell’agire poliziesco attraverso l’utilizzazione di strategie e tattiche di guerra. Questo tipo di azione istituzionale, che potremmo definire di «violenza dall’alto»12, è descritta da tutti i soggetti di questa etnografia. Questi, nei loro racconti, riportano in modo chiaro e continuativo uno stato di guerra – non simbolico, ma reale. Si prendano da esempio le parole della a sessantenne Ernestina: […] siam partiti siamo andati a Salbertrand, anche lì a bloccare l’autostrada. Un freddo quella notte […] Abbiamo acceso un fuoco in autostrada, siamo andati a tirar via tutto quello che trovavamo, legna, pietre e abbiam creato una bella barricata. Poi a un certo punto da lontano abbiamo visto una fila, ti giuro, interminabile, di cellulari. Interminabile. Non so quanti ne hanno mandati su, ‘na cinquantina, ‘na cosa... e davanti con gli idranti. Finché si è potuto si è rimasti lì... e poi siamo scappati, siamo dovuti indietreggiare, e siamo andati verso il paese... Questi ci hanno inseguiti nel paese, mi sembrava di essere in tempo di guerra. C’erano quelli di Salbertrand, ci hanno salvati […] mi sembrava veramente di essere in tempo di guerra, co’ ‘sta gente che ci rincorreva e loro che ci nascondevano nei cortili... cioè è stata un’esperienza veramente pazzesca (Ernestina, 14 giugno 2013, Venaus).

Anche Falco si riferisce in maniera diretta alla guerra, narrando dei passaggi che più lo hanno spinto verso un attivismo quotidiano: gli elementi che lo hanno convinto a mobilitarsi hanno fatto presa sul senso comunitario e sulla difesa del proprio popolo contro un invasore. Particolare interessante è anche la descrizione fortemente carica di 107

significato emotivo, per cui il popolo valsusino è rappresentato come Davide mentre l’invasore, lo Stato, è rappresentato come un Golia fortemente armato. Subito c’è stato quell’appello di andare al Seghino. L’appello era anche da parte dei sindaci che passavano addirittura come ai tempi di guerra. Questo mi ha fatto impressione! La macchina del comune girava con l’altoparlante: “Accorrete! Accorrete!” come se fossimo in guerra no?! E la gente ha seguito cosa succedeva “Bisogna andare a stare vicino al nostro sindaco, che sta su in montagna a difendere il nostro territorio”. Quindi è stato come un appello, sembrava un’invasione straniera. […] E lì quando sono arrivato, abbastanza presto, c’era già però tanta gente su un ponte, un posto stretto, che si spingevano con la polizia in assetto [antisommossa]. Quindi quando vedi una piccola popolazione di gente comune, che sta lottando con gente armata, a me è stato istintivo a mettermi dalla parte del più debole diciamo (Falco, 11 agosto 2013, Chiomonte).

Gli attivisti ricorrono a questo immaginario bellico, in quanto leggono la violenza poliziesca come unico, o per lo meno preponderante, modus operandi dele FF.OO. Si prendano ad esempio i seguenti stralci di interviste di Griscia e Duilia: Siamo arrivati sul sito […] insieme anche a persone direi anche over 50... comunque insomma un corteo veramente variegato. Ci siamo addentrati nella vigna […] e ci siamo messi di fronte al posto dove stava lavorando la trivella che era ovviamente sorvegliato da polizia, finanzieri e carabinieri. Comunque, niente, ci avviciniamo e cerchiamo di dare un po’ fastidio in qualche modo a questa trivella, finché non viene fatta quella che si chiama una “carica di alleggerimento” ... e dopo ritorna più o meno tutto in una situazione di stallo […] [poi] partono con una seconda carica: [una parte di noi] si disperdono nel boschetto, altri, tra cui io, ritornano dalle parti delle vigne dove, tra virgolette, ci sarebbero dovute essere le “persone più tranquille”. Mentre appunto cerchiamo di retrocedere, succede che da quella parte lì rompono la milza a Nomefittizio e da quest’altra parte qua […] i poliziotti inseguono i manifestanti e riescono innanzitutto a rompere la faccia a Nomefittizio2 (che è una signora della Valle […] una signora sulla cinquantina d’anni, adesso avrà qualcosina in più) e mentre succede questa cosa qua io sono impegnato a cercare di non far pestare altre persone, per

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esempio Nomefittizio3, un attivista ottantenne, che è il primo che raccolgo, dalle forze dell’ordine. Perché in quella situazione lì io, ovviamente, essendo più giovane di altre persone, sarei potuto scappare molto più velocemente di quello che ho fatto; invece mi sono attardato per aiutare persone a scappare, a tirarsi su perché in quel punto lì c’erano, evidentemente, dei fili delle vigne che facevano cadere delle persone. Allora per due volte di seguito mi sono, diciamo così, frapposto tra forze dell’ordine che cercavano di pestare appunto queste persone assolutamente innocue e, appunto, le persone che erano cadute, in modo da farle scappare. La seconda volta che è capitato questo episodio mi hanno proprio preso e mi hanno detto che “Avevo rotto i coglioni”, e comunque mi prendono di forza, strattonandomi e cercando di farmi reagire in modo da imputarmi anche una resistenza. Mi portano sotto il ponte, perché lì c’è il ponte dell’autostrada, dove c’erano tutta una fila di camionette, e ovviamente mi perquisiscono, trattandomi assolutamente da delinquente, si sono accorti che avevo una cosa nella tasca e mi hanno chiesto subito se era un coltello, mi han detto che dovevo tirarlo fuori, e invece alla fine era un mp3, il quale tra l’altro non mi è stato neanche riconsegnato... e sono rimasto in buona sostanza – ovviamente mi han chiesto i documenti – senza niente di mio, con le spalle alla camionetta e tre agenti in assetto antisommossa che mi guardavano così, a sessanta centimetri dal viso, cercando evidentemente di intimorirmi. Sono rimasto direi circa una mezz’ora, venti minuti lì sotto e allora lì ho cominciato […] a fare una specie di… monologo che descrivesse e facesse capire a chi mi stava ascoltando in quel momento che non eravamo dei pazzi furiosi, che eravamo lì perché credevamo in qualche cosa e non perché ci piaceva rompere il cazzo in giro per la Valle o a chi dovesse intervenire. E quindi ho incominciato a dire che: siamo persone che abbiamo anche noi dei figli […] fino a che uno, forse il più alto in grado di quelli lì che mi ascoltava, si permette di dirmi che: “Avevo rotto il cazzo, di stare zitto. Perché non gliene fregava una minchia di quello che stavo dicendo” […] Dopo che mi hanno lasciato sotto la neve, impedendomi di mettermi persino il cappuccio nonostante nevicasse, mi hanno lasciato andare (Griscia, 11 agosto 2013, Chiomonte). [...] io per esempio sono una che ha subito la violenza della polizia direttamente, nel blocco dell’autostrada che avevamo fatto nel 2012 dopo quello che era accaduto a Luca Abbà […] lì io ho subito un pestaggio da parte della polizia e quindi questa è una cosa che mi porto ancora dietro. Ho dovuto subire un intervento perché mi hanno rotto la caviglia. Non

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avrei mai pensato di trovarmi proprio faccia a faccia così con la violenza, con questo tipo di violenza anche fisica, perché comunque la violenza psicologica già te la fanno […] Quella volta […] arrivo sull’autostrada e insieme ad altri militanti, vedendo arrivare un nutrito numero di poliziotti, decidiamo di fare un sit-in; quindi ci sediamo dietro la barricata che è stata eretta sull’autostrada e non ci alziamo. Rimaniamo seduti per più di un’ora, dopodiché loro decidono che devono sgomberare, per cui ci prelevano uno alla volta ci prendono di forza, in quel caso senza farci male […] fanno il riconoscimento di tutti noi con i documenti, per cui a quel punto lì io non ho la possibilità neanche di andare via. Nel frattempo, arriva altra gente e si forma sullo svincolo, per uscire dall’autostrada, un blocco di poliziotti e carabinieri che è contrapposto a noi, che siamo tutte persone anche tra l’altro neanche giovanissime, nel senso per lo più siamo gente della mia età. Io ho 56 anni. Mentre aspettiamo che in qualche modo si risolva la cosa siamo tutti molto tranquilli, dall’altra parte non c’è nessuna... quasi niente che possa lasciar presagire che ci sarebbe stato un attacco. A un certo punto si spengono le luci sull’autostrada e in contemporanea arrivano le manganellate. Manganellate in testa, sulle braccia, sulle spalle, ovunque – loro non guardano dove le danno – manganellate, lacrimogeni e idranti con liquido urticante. Cerchiamo tutti di scappare e io rimango – sono un po’ penalizzata perché sono proprio in prima fila – quindi prima di riuscire a trovare il varco... è difficile, ho un muro di gente davanti a me e un muro di uomini che mi spingono con gli scudi, dietro di me. A un certo punto credo di aver perso i sensi, so che quando mi risveglio sono per terra, in un mare di nebbia – che sono i lacrimogeni – e un amico che fortunatamente è sopra di me e prende gran parte delle manganellate che sarebbero state destinate a me, le prende lui sulla schiena. A un certo punto mi ritrovo in piedi, non lo so come perché ho un vuoto nella memoria, e non riesco ad andare via perché probabilmente in quel momento devo avere già la caviglia rotta. Dopo mi verrà raccontato da un testimone oculare che, mentre ero in terra, un uomo delle forze dell’ordine mi ha schiacciato, col suo piede. Ha schiacciato la mia caviglia. Per cui è stato fatto in modo premeditato non è stato un incidente. Cerco di andar via, non posso andar via perché non posso camminare, mentre loro mi intimano di andare via, che non posso rimanere lì. Io son disperata e urlo – e questo lo vedo anche in alcuni filmati che ho potuto visionare – a un certo punto arriva un ragazzo che mi prende in braccio e mi porta via. Fanno a staffetta. Saranno in tre o quattro che fanno la staffetta per portarmi via. Questi ragazzi non hanno neanche niente davanti alla bocca per ripararsi dai lacrimogeni. Io non so

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come abbiano fatto, perché c’è voluta una forza incredibile. E arrivata alla rotonda di Chianocco […] una macchina privata mi porta fino in ospedale a Susa. Da lì poi si vedrà che ho una bruttissima frattura, che mi costringe a stare a casa otto mesi, che mi costringe a camminare con le stampelle per molto tempo e mi costringe a subire un secondo intervento, i “mezzi di sintesi” (Duilia, 16 agosto 2013, Chianocco).

In questi racconti emerge – tra diversi elementi, come la solidarietà tra attivisti – in modo rilevante l’operato delle FF.OO., il quale risulta violento nei confronti di manifestanti definiti inermi e anziani, dimostrando che non è la violenza da parte degli attivisti ad essere repressa, ma è la possibilità stessa di essere lì che viene punita attraverso l’azione delle forze dell’ordine. In questo senso le numerose concordanze dei racconti dei “protagonisti” ci inducono a pensare che l’uso spropositato della forza non sia una componente casuale, ma rappresenti un’espressa strategia avente come unico obiettivo quello di terrorizzare l’avversario: una violenza sistematica rispetto agli oppositori. Tuttavia, la violenza non è solo fisica e i sistemi di neutralizzazione polizieschi non hanno come unica espressione i muscolari reparti della celere. Sotto il punto di vista della violenza psicologica mi interessa riportare ciò che mi ha raccontato Don Dinamite: Mi ha colpito l’8 e il 9 [luglio 2011] che abbiamo organizzato la pulizia delle tende che [le FF.OO.] avevano distrutto. Mi ha colpito le cagate [le FF.OO.] che hanno fatto dentro le tende. Mi ha colpito che hanno cavato gli occhi ai peluches. C’era il Movimento 5 Stelle che, mi ricordo, che aveva una roulotte vicino alla baita della Clarea e dentro non c’era un peluches con un occhio, gli avevano tagliato la pancia ai peluches... cioè voglio dire! E mi ha colpito queste cose […] Non so se erano drogati o... La violenza, l’odio! Perché quelle cose li le fai con odio. Non c’è più la voglia di allontanare manifestanti perché ci devo fare un buco in quel posto, li c’era di più (Don Dinamite, 18 luglio 2013, Venaus).

Una volta delineate tali linee di intervento e il modo in cui sono orientate alla produzione di determinati effetti di controllo sociale (la neutralizzazione dei non cittadini, l’instillazione nella comunità di una paura diffusa, la marginalizzazione dei devianti e la richiesta di maggiore controllo da parte dei cittadini tutelati), possiamo provare 111

ad abbozzare dei ragionamenti sull’efficacia delle stesse. 4. Effetti dell’operato delle forze dell’ordine I risultati che la compagine statale vorrebbe ottenere in valle non sono quelli desiderati: frustrazione, conflitto e l’azione del movimento hanno determinato “effetti paradossali” che vanno in una direzione opposta. Analizzando infatti le differenti tendenze ed usi degli strumenti di controllo, si può notare come la neutralizzazione, il disciplinamento e la deterrenza non siano stati raggiunti. Infatti, questo tipo di azione istituzionale produce profonde conseguenze per i No Tav, come una sorta di disillusione circa alcuni punti di riferimento regolanti la vita degli individui – viene quindi minata la fiducia nello Stato, nella Democrazia e nelle FF.OO. Oltre tale disincanto, si genera conseguentemente una forza oppositiva, un’inimicizia e una radicalizzazione dei militanti, che porta ad un rafforzamento identitario e alla rivendicazione di un diritto alla resistenza. Di tale processo di radicalizzazione sembrano particolarmente investiti soprattutto gli attivisti più anziani e spoliticizzati, per i quali la scoperta dell’aggressività statale è stata un vero trauma. In particolare, Mondino, 78 anni, ha toccato espressamente l’argomento: Quando sono entrati alla Maddalena, dico la verità, il modo che si son comportati, se avessi avuto un’arma che sparasse bene che potevi farne fuori una ventina almeno avrei sparato fatto perché non è così che ci si comporta» (Mondino, 15 agosto 2013, Chiomonte).

Contributo altrettanto interessante è quello di Testa Visca, anche lui attivatosi in modo reattivo all’azione istituzionale: Allora io mi sono avvicinato al movimento visto un gran autogol che ha fatto, diciamo, l’istituzione (chiamiamola in questo modo). Lo Stato con i loro... Io li chiamo i “Bravi” (del Manzoni). Cioè quando ti arriva un plotone in tenuta antisommossa e viene a sbaraccare un presidio con la forza e con una violenza inaudita, e noi siamo... siamo le persone che l’hanno visto in prima battuta questa roba qui, questa violenza. Infatti, io quasi non lo conoscevo il movimento No Tav, un martedì mattina ero al mercato a Susa e gira la voce che avevano sbaraccato un nostro presidio a

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Venaus [nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2005] e dicevano come avevano conciato gli anziani […] Allora io, cioè sapere che hanno menato i “nostri vecchi”, i “nostri vecchi” sono i vecchi di tutti, cioè capisci?! Per cui me la sono presa proprio: “Ma come è possibile una roba del genere?!”. E allora ci siamo trovati qui in autostrada, perché si è fatto il blocco a Chianocco, e io reputo che lì quel giorno lì abbiamo perso una gran occasione, perché... perché li avevamo lì sul ponte, avevamo l’adrenalina giusta perché ci avevano massacrato i “nostri vecchi” – perché si può anche sbaraccare un presidio, ma c’è modo e modo […] li puoi anche prendere per i piedi e per le mani e portarli fuori, dio fa non li puoi dare quelle manganellate. Cioè capisci?! Per cui in quel momento lì c’era l’adrenalina giusta. Io reputo che forse abbiam perso una gran occasione perché li dovevamo ribaltare giù dall’autostrada, invece gli abbiam fatto solo pressione e loro sono arretrati e se ne sono andati via. Perché quel giorno lì avremmo avuto il consenso di tutta la popolazione (Testa Visca, 13 agosto 2013, Chianocco).

Qui il procedimento di attivazione è immediato e per giunta porta con sé una radicalizzazione istantanea. Questi effetti, considerando che sono stati maturati dal soggetto in poche ore, sono di centrale importanza ai fini di un’analisi criminologica. Ancora più interessante è analizzare i meccanismi attraverso cui tali effetti si sono prodotti. Sotto quest’ultimo punto di vista, per il soggetto l’attacco ai «nostri vecchi», ai «vecchi di tutti», rappresenta un attacco alla comunità e ai suoi rappresentanti più significativi – il “vecchio saggio” su cui diventa ingiusto esercitare violenza – quindi il suo agire è giustificato da un alto valore morale. Un altro “personaggio” ad aver subito tale radicalizzazione è Miscia, impiegato di banca, il quale parlando delle accuse di violenza al movimento e delle azioni poste in essere, sottolinea la sua più completa complicità. Il discorso che porta avanti è più generale e si inserisce in una questione più grande di disillusione nei confronti delle istituzioni: Il movimento No Tav non è violento... Se la connotazione di violenza, può essere vista da qualcuno nel fatto che ogni tanto ci sono degli episodi più forti, cioè episodi in cui alcuni tirano delle pietre, in cui alcuni fanno degli atti di danneggiamento, eccetera, beh io la vedo diversamente. È come quando “qualcuno” che di solito usa le buone maniere viene provocato. Se si cerca di abusare delle buone maniere di “qualcuno”, si cerca di

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abusare del fatto che uno è gentile per cercare di mettergli i piedi in testa, è perfettamente comprensibile se questo “qualcuno” ogni tanto sbatte i pugni sul tavolo per far capire: “Sono gentile, ma non fesso”. Per cui per me le azioni di lancio pietre, danneggiamenti, eccetera sono azioni perfettamente legittime come risposta a un’azione, a una politica veramente criminale, nel vero senso della parola, da parte delle forze politiche che cercano in modo criminale, in modo delinquenziale di realizzare quest’opera (Miscia, 16 agosto 2013, Chianocco).

È interessante osservare come questo processo di radicalizzazione sia “sfruttato” a pieno dal movimento, che proprio in virtù del conflitto in atto riesce a cristallizzare le sue posizioni, a dare ai militanti una narrazione che parla di partigianeria, di un popolo unito che combatte contro l’invasore, e propone una nuova cornice di valori e norme che crea alterità rispetto alla cultura dominante. A confermare questo quadro vi è un processo di torsione valoriale e normativa13 che partendo dalla considerazione delle FF.OO. arriva a mettere in dubbio i processi decisionali democratici e la stessa legittimità dello Stato. Sia Darigo che Miscia descrivono questa sua torsione come un vero shock esistenziale, dove i loro punti di riferimento da “normali” cittadini sono crollati. […] anche solo per quel che riguarda un’istituzione come la polizia. Che fino al giorno prima il poliziotto poteva essere quello che magari in casi di bisogno ti avrebbe potuto aiutare… cose di questo genere insomma. Adesso si è verificato tutto il contrario; anzi ho capito che quello è purtroppo, oggi qui in Valle, il nemico numero uno. Non siamo noi il nemico dello Stato ma è lo Stato il nostro nemico. Lo Stato in quanto istituzioni, quindi politica, in quanto forze dell’ordine in tutte le sue forme, dimensione e colore e quindi... per me è stato scioccante e anche a tratti devastante, perché comunque nei giorni seguenti [lo sgombero] io continuavo a rivedere i video, continuavo a rivedere queste scene bruttissime e non mi vergogno a dirlo spesso ho pianto (Darigo, 14 agosto 2013, Chiomonte). […] io fino a una quindicina di anni fa vedevo le forze dell’ordine come l’organo principale deputato alla difesa del cittadino. E quando per esempio vedevo o leggevo sui giornali di manifestazioni in cui loro erano fatti oggetto di insulti o attacchi da parte di “ragazzi dei centri sociali”, mi veniva da essere solidali con loro. Cioè li vedevo e mi veniva da pensare, “‘sti

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poveretti! Ma perché ce l’hanno con loro?! Ma perché?!”. Mi sembrava ci fosse una sorta di odio precostituito da parte di questi ragazzi nei confronti di queste persone, di questi soggetti, e li vedevo anch’io come lavoratori. E ora con l’esperienza diretta che ho avuto in questi anni mi sono reso conto che intanto sono diventati non il braccio del potere per reprimere il malaffare, reprimere la criminalità, ma addirittura il braccio principale di cui si serve il potere per mantenere i privilegi anche del potere corrotto, cioè i potenti che stanno al governo, che utilizzano il loro potere per saccheggiare la nazione, per derubare i cittadini. E laddove la popolazione non ci sta si servono di polizia e carabinieri per zittire e reprimere ogni manifestazione di malcontento sociale. Quindi... devo dire che nel migliore dei casi nei confronti delle forze dell’ordine non vedo più i tutori della legge, e nel peggiore dei casi li vedo proprio come complici e come coloro che si fanno utilizzare per supportare quella mafia – che magari non è mafia in senso tecnico-giuridico – infiltrata nelle cariche istituzionali. […] Quindi quando la polizia, le forze dell’ordine, i carabinieri si mettono al servizio di questi politici, mi sento di dire che si mettono al servizio della mafia (Miscia, 16 agosto 2013, Chianocco).

L’importanza a livello analitico di questo processo di torsione è data anche dai meccanismi di socializzazione interni al movimento. Molti infatti sembrano riferirsi a una “pedagogia dell’inimicizia”, nella misura in cui vi è una sorta di educazione delle nuove generazioni al conflitto. Tale effetto non è necessariamente voluto dal movimento, ma viene quasi a crearsi spontaneamente, in quanto da un lato vi è la crescita dell’individuo all’interno di una comunità fortemente coesa a livello culturale, in grado di riprodurre socialmente i militanti, e dall’altro vi è una quotidiana tensione dovuta alla vicinanza con le truppe del nemico e a ciò che sembra essere sempre più un’occupazione militare. Per comprendere meglio la quotidiana tensione in cui i giovani aspiranti No Tav crescono, sono utili le affermazioni di Falco, il quale espressamente si pone il problema educativo dei bambini in un contesto di alta conflittualità sociale: […] quando è passato il Giro d’Italia [23 maggio 2013], che noi facevamo solo vedere le bandiere, io ero con mia moglie, ci hanno circondato, sono venuti in assetto antisommossa un sacco di polizia, ma noi eravamo una decina a Bussoleno con la bandiera […] e c’erano i bambini delle scuole...

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dell’asilo e delle elementari, che quando so’ passati questi con la forza bruta prima sono rimasti impressionati a vedere questa armata che veniva in pieno paese così, e poi hanno cominciato a gridare contro di loro: “No Tav! No Tav!” Cioè mia moglie è rimasta proprio colpita: “Stiamo allevando bambini che dicono: ‘tu sei la forza bruta!’”. E diversi ragazzi che adesso hanno quindici, sedici anni, diciassette, vent’anni so’ diventati No Tav nel frattempo, sono cresciuti con un odio contro la polizia, contro il potere, contro il sopruso, cioè vedono in quello il sopruso. Abbiamo cresciuto dei ragazzi, sono cresciuti in un ambiente che non so se è un bene o un male, il futuro lo vedrà, però per me è un po’ preoccupante perché questa tensione dei loro genitori: da un momento all’altro arriva la perquisizione, da un momento all’altro vengo denunciato, da un momento all’altro vengo arrestato, da un momento all’altro prendo la manganellata... Son cresciuti in un’atmosfera di tensione così e quindi di odio verso le istituzioni (Falco, 11 agosto 2013, Chiomonte).

C’è un ultimo aspetto che merita di essere analizzato, connesso all’andamento proporzionale dell’attacco avversario con l’aumento di intensità della lotta, notato anche Della Porta e Piazza14 e Caruso15, i quali hanno ribadito a più riprese che l’imminenza dell’attacco, l’invasione e la violenza delle FF.OO. debbano considerarsi una spinta verso la mobilitazione e l’intensificarsi della stessa. L’effetto decisivo sta nella risposta organizzata che il movimento dà alla violenza dall’alto, colta qui nelle sue declinazioni individuali. Personaggi talvolta scioccati, rabbiosi, altre volte lucidi e disincantati che affermano il proprio diritto di resistenza contro la violenza dall’alto. Tutti gli intervistati a loro modo rifiutano l’etichetta di violenti e facendo riferimento alle «azioni di resistenza» e sabotaggio affermano la legittimità di queste pratiche. Si prendano ad esempio le parole di Butler e di Duilia: Noi abbiamo discusso abbastanza di questo discorso sulla violenza o meno... A un certo punto siamo arrivati a una definizione abbastanza diffusa e credo condivisa che violenza è colpire le persone; quindi diciamo che fatta salva la sacralità della vita, toccare le cose non è violenza. Quindi buttare giù una rete non è violenza, tirare una pietra in testa a un poliziotto è violenza, ecco. Stabilito questo, che io condivido personalmente già da prima, ed

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è stato condiviso diciamo nelle decisioni di movimento, ecco. Il fatto di avere degli scontri con la polizia non penso che faccia di noi un movimento violento […] Cioè non colpire non vuol dire cioè restare completamente inermi… C’è la situazione in cui puoi, come dire, fare scudo umano, ti siedi in terra eccetera. In altre qualche sasso, come dire, si può anche lanciare… Cioè dipende. Non dico che sia una deroga alla cosa, ma insomma se ne va di mezzo anche la salute tua e degli altri un po’ diventa difesa, non è più violenza… se quelli ti stanno correndo dietro e ti stanno menando, e allora voglio dire lì diventa una questione di difesa (Butler, 20 luglio 2013, Venaus). No! Sono loro che sono violenti. Noi ci difendiamo. […] Quando veniamo attaccati, il minimo è difendersi. Non puoi propri star fermo, anche per rallentare la loro avanzata. Verso le cose è un’altra cosa; gli atti di sabotaggio verso le cose io li rivendico. Li rivendichiamo come movimento, perché noi ce l’abbiamo con le cose non con le persone. Poi il difendersi è un altro conto. Un minimo di difesa dobbiamo averla. Quando è successo l’incidente a me non so che fine avrei fatto, non avrebbero avuto il tempo di prendermi in braccio e portarmi via se non ci fosse stata verso la fine una sassaiola per fermare un po’ la corsa di questi poliziotti che erano fuori di testa proprio, perché correvano all’impazzata cercando di colpire il più possibile chi gli capitava sotto. Senza proprio nessuna ragione, ma senza nessun motivo proprio! (Duilia, 16 agosto 2013, Chianocco).

Le parole dei “personaggi” di questa storia sarebbero vuote retoriche se non fossero accompagnate da un uso di pratiche di resistenza reali. Il movimento ha un vasto repertorio di azioni, tra le quali quelle tipiche che caratterizzano tutti i moti resistenti e di guerriglia, come i blitz notturni e la tattica “mordi e fuggi”. Inoltre, per quanto riguarda il livello organizzativo vi è un effettivo controllo territoriale, in quanto il movimento ha a sua disposizione, oltre ad un sistema di “vedette” in tutta la valle (formato dai suoi numerosi attivisti sparsi dalla cintura di Torino fino agli stabilimenti sciistici dell’alta valle), un veloce sistema di comunicazione “privato”, che si serve di telefonini, smartphone e internet. Questa organizzazione e questo controllo territoriale diventano ancora più evidenti nei luoghi di vita dei militanti, come presidi e campeggi. In questi luoghi il livello di partecipazione e di organizzazione sociale è così alto da dare realmente l’idea di una popolazione resistente asserragliata sulle montagne. 117

5. Conclusioni Provando ad isolare alcuni spunti emersi dalla ricerca, emerge un dato fondamentale: a fronte di un’applicazione eterogenea ed estesa dei dispositivi tipici del potere poliziale odierno, vi è un sostanziale insuccesso degli stessi. Attraverso il caso valsusino è possibile individuare, dal punto di vista scientifico e militante, efficaci tattiche per resistere ad un alto livello di violenza dall’alto. Tra le modalità di azione analizzate – esperite in un contesto di occupazione militare, segnato da forti livelli di militarizzazione e da una frizione quotidiana tra forze occupanti e valligiani – ci sono quelle (selettive) improntate a logiche di chirurgia sociale, miranti alla costruzione del mostro, quelle volte all’accumulazione di sapere sulla società e quelle improntate a logiche di guerra e di violenza (fisica e psicologica). Ognuna opera effetti sulla personale biografia dei singoli attivisti, ma soprattutto quelle miranti alla neutralizzazione, come ad esempio la violenza diretta da parte delle FF.OO., suscitano un serie di effetti “paradossali” che vanno in direzione opposta a quella ricercata. Infatti, è lampante come i tentativi di controllo operato dalle FF.OO. costituiscano piuttosto che un disincentivo, un incentivo alla partecipazione o all’ingresso nel movimento; piuttosto che produrre mansuetudine, disciplina e paura nel corpo sociale e militante, scatenano subitanei processi di radicalizzazione; invece che comportare una introiezione dell’identità, dei principi e dei valori del cittadino neoliberale, inducono rafforzamento identitario e una torsione valoriale e normativa. La causa di questi “effetti paradosso” non va tuttavia cercata nella scarsa forza ed incisività dell’apparato poliziale nel conseguire l’obiettivo, quanto piuttosto nella capacità del movimento di generare, a partire proprio dal conflitto e dall’inimicizia dei “due fronti in guerra”, un circolo virtuoso tra elementi di socializzazione (una sorta di “pedagogia dell’inimicizia”), di costruzione identitaria, di mutualismo e di radicalizzazione.

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NOTE

1 Massimiliano Andretta, Donatella Della Porta, Lorenzo Mosca, Herbert Reite, Global, noglobal, new global. La protesta contro il G8 a Genova, Laterza, Roma-Bari 2002; Donatella Della Porta, Herbert Reiter, Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla Liberazione ai «no global», Il Mulino, Bologna 2003; Prison Break Project, Costruire evasioni. Sguardi e sapere contro il diritto penale del nemico, Edizioni BePress, Lecce 2017. 2 A tal punto è bene precisare che le “voci” che comporranno questo lavoro rimarranno anonime e saranno sostituite da pseudonimi. Utilizzerò a tale scopo i nomi da battaglia dei partigiani delle Brigate Garibaldi attive in Piemonte e soprattutto in Val di Susa. 3 Chiaramente la nozione di “militante di base” è mutuata da altri lessici – soprattutto quello filosofico-politico, cfr. a riguardo Francesca Pozzi, Gigi Roggero, Guido Borio, Futuro anteriore. Dai “quaderni rossi” ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2002. 4 Salvatore Palidda, Come si studia il lavoro della polizia, in A. Dal Lago A., R. De Biasi (a cura di), Un certo sguardo. Introduzione all’etnografia sociale, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 222. 5 Salvatore Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000. 6 Livio Pepino, Marco Revelli, Non solo un treno... La democrazia alla prova della Val Susa, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2012, p. 92. 7 Ibidem. 8 Ingresso arbitrario in luoghi ove l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato. 9 In merito cfr. Löic Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello Stato penale nella società neoliberale, Feltrinelli Editore, Milano, 2000, oppure Alessandro De Giorgi, Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, Ombre Corte, Verona 2002. 10 S. Palidda, Come si studia il lavoro di polizia, op. cit., p. 223. 11 “Bene, andiamo dentro” in dialetto piemontese. 12 Vincenzo Ruggiero, La violenza politica. Un’analisi criminologica, Laterza, Roma-Bari 2006. 13 Tale moto di torsione, evidenziato anche da precedenti ricerche in merito – cfr. Donatella Della Porta, Giovanni Piazza, Le ragioni del no. Le

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campagne contro la TAV in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto, Feltrinelli, Milano, 2008, oppure Loris Caruso, Il territorio della politica. La nuova partecipazione di massa nei movimenti No Tav e o Dal Molin, Franco Angeli, Milano, 2010, o ancora Alessandro Senaldi, Cattivi e primitivi. Il movimento No Tav tra discorso pubblico, controllo e pratiche di sottrazione, Ombrecorte, Verona, 2016– coinvolge quegli elementi che Alain Touraine definisce, ne La produzione della società, Il Mulino, Bologna, 1975, come «storicità», ovvero un’insieme di modelli culturali, cognitivi, economici, etici, attraverso i quali una collettività costruisce le proprie relazioni con l’ambiente. 14 Donatella Della Porta, Giovanni Piazza, Le ragioni del no,op. cit, Feltrinelli, Milano 2008. 15 Loris Caruso, Il territorio della politica., op. cit., FrancoAngeli, Milano 2010.

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UN TERRITORIO DA DIFENDERE GEOGRAFIE DELLA RESISTENZA NEL CAUCA COLOMBIANO Francesca Consogno Il primo arrivo a Toribío è inevitabilmente accompagnato da avvertimenti e raccomandazioni che non fanno altro che alimentare le aspettative di ciò che si incontrerà nel “territorio”, espressione con cui la popolazione locale si riferisce alla zona nord del dipartimento del Cauca, in Colombia. Il “territorio”, sebbene geograficamente comprenda l’intera area del nord e sia amministrato istituzionalmente dall’ACIN1, Associazione Cabildos del Nord del Cauca, inizia in realtà qualche chilometro dopo Santander de Quilichao, nella località El Palo, situata nel municipio di Caloto. Durante il mio primo viaggio in macchina verso quelle terre ricordo ancora le parole della mia autista: «Siamo arrivate a El Palo, se hai bisogno di qualcosa compralo qui, dopo non ci saranno più negozi»; i ripidi pendii andini contribuiscono ad avvolgere Toribío in un’aura di mistero, proteggendolo e al contempo isolandolo dal resto della nazione. Rimasi nel municipio per tre mesi, dall’ottobre al dicembre 2015, e fu proprio durante le mie brevi e rapide visite al di fuori del “territorio” che mi resi conto di quanto questo luogo fosse culturalmente stereotipato dalla popolazione colombiana e, nello specifico, caucana.

1. Premessa teorica L’obiettivo di questo articolo è dimostrare che in che modo il movimento di resistenza si articoli all’interno di un determinato territorio, delimitato da confini politici e culturali. Partendo dalle primissime impressioni avute durante l’ingresso al campo l’intenzione è delineare il processo di ri-semantizzazione di una geografia in e della resistenza, mostrando come questa costruzione politica del territorio coniughi la concezione spaziale andina con l’esperienza di opposizione non violenta al conflitto armato. A questo proposito baserò la trattazione sui dati derivanti da interviste qualitative e dialoghi informali avvenuti durante il mio soggiorno e li analizzerò alla luce di diversi aspetti tematici: in primis contestualizzando il discorso politico all’interno del quadro interpretativo fornito 121

dall’antropologia andina, avvalendomi degli studi condotti dagli autori di riferimento sull’argomento tra i quali spicca la figura di Joanne Rappaport, antropologa e docente alla Georgetown University che ha svolto le sue ricerche nel vicino municipio di Tierradentro. Nella prima parte, mi concentrerò sull’analisi degli aspetti legati alla cultura nasa e la loro contestualizzazione storico-geografica, mentre nella seconda mi soffermerò sul processo di riappropriazione culturale e politica del murales e del rituale da parte degli esponenti del movimento di resistenza indigeno. Da questa analisi emergerà perciò la particolare corrispondenza tra due tipologie differenti di geografie: la prima la definirò “sacra” mentre la seconda sarà suddivisa a sua volta nelle due categorie “in” e “della” resistenza all’interno delle quali si coniugheranno sia gli aspetti legati al conflitto armato che le risposte indigene sorte per fronteggiarlo. Dalla relazione e dal dialogo tra queste due differenti geografie emerge perciò una ridefinizione fluida della storia e della memoria collettiva che si inserisce armonicamente nel paesaggio circostante.

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2. Contesto etnografico Toribío è composto per il 96% da una popolazione appartenente al gruppo indigeno nasa, uno dei principali della Colombia insieme agli arahuacos, i wayúu della Guajira e i kogui della Sierra Nevada di Santa Marta. La sua posizione strategica, in una piccola vallata posta sulla principale via di comunicazione tra i dipartimenti del Valle del Cauca e quelli interni di Huila e Tolima, ha contribuito a renderlo un corredor di armi e droga su cui il movimento guerrigliero delle FARC – EP ha imposto il proprio controllo militare2. Proprio la sua posizione lo ha reso facile bersaglio di gruppi di narcotrafficanti interessati al guadagno economico, i quali, favoriti dall’isolamento garantito dalle montagne circostanti, hanno imposto la presenza, in costante crescita3, di cultivos ilícitos, principalmente piantagioni di coca e marihuana. A fronte di questa situazione, il governo colombiano ha autorizzato l’installazione di varie basi militari dell’Esercito nazionale, che hanno contribuito ad aumentare l’instabilità nel paese. Dal punto di vista mediatico, le principali testate giornalistiche nazionali hanno avvalorato lo stereotipo negativo legato al paese attraverso epiteti come “Toribistan” o la “Bagdad del Cauca”4, considerando gli abitanti alleati sia dei guerriglieri che dei narcotrafficanti. Al contrario, la popolazione locale ha sempre rivendicato con orgoglio la paternità territoriale dei principali movimenti di resistenza indigena, tra cui il CRIC5, il Plan de Vida – Proyecto Nasa, la guardia indigena e il CECIDIC6, definendo pertanto il paese come “la piccola Grecia del Cauca”7. Toribío, che deriva dall’originale Tunibio in nasayuwe8, il cui significato è “cammino di viaggiatori”, è diventato, a seguito del conflitto, un luogo simbolico per i militanti della resistenza politica e comunitaria; al contrario di quanto è accaduto nel municipio di Tierradentro, il cui nome “la terra all’interno”, rappresenta il centro nevralgico della cosmovisione indigena e, come rileva Rappaport9, incarna la culla della civiltà Páez10. La relazione sussistente tra i due municipi mostra la sovrapposizione tra i differenti livelli di interpretazione e rielaborazione geografica, in cui resistenza e sacralità diventano parte integrante di una fitta trama narrativa che costituisce la base della rielaborazione storiografica nasa. Il comune è giuridicamente composto da tre resguardos indigeni di origine coloniale: Toribío, San Francisco e Tacueyó, ciascuno di essi amministrato dal proprio cabildo afferente al Plan de vida – Proyecto 123

Nasa e a loro volta amministrati dalla giunta comunale guidata dal sindaco Alcibiades Escué, leader della lista civica “Mais”, sostenuta sia dal CRIC che dal CECIDIC. Il resguardo rappresenta il punto di partenza imprescindibile per condurre l’analisi territoriale di questo contesto la cui riunificazione avvenne nel XVIII secolo ad opera di Juan Tama de la Estrella, personaggio storico la cui biografia si mescola ad elementi derivanti dal mito del Yu’Luucx, dal nasayuwe “figlio dell’acqua”. Con l’approvazione della Costituzione del 1991, il resguardo è stato riconosciuto come entità territoriale dal carattere indivisibile e inalienabile, sul quale vige il diritto alla proprietà collettiva delle terre e il riconoscimento all’autonomia governativa, educativa e sanitaria11. Il resguardo ha rappresentato la prima grande conquista del popolo nasa, basata sulla riappropriazione di un’istituzione repressiva e coloniale, successivamente inserita nel paradigma resistenziale, che trasforma il resguardo da mezzo di dominio a principale strumento difensivo dal quale far partire la riorganizzazione politica ed economica della comunità. In questo panorama, la figura di Juan Tama de la Estrella, a metà strada tra storia e leggenda, diventa parte integrante del processo di ri-semantizzazione, in cui la narrazione del mito, in linea con la definizione fornita da Lévi-Strauss12, gioca un ruolo fondamentale nell’elaborazione storiografica della memoria collettiva, presentificando la storia attraverso la creazione di una metanarrazione, che avvalora il processo di indigenizzazione delle istituzioni locali. La riattualizzazione del tempo mitico originario, del tempo cosmogonico13 durante il quale Juan Tama ha riunificato i tre resguardos, diventa perciò la condizione necessaria e sufficiente per la costruzione dell’identità culturale nasa come prodotto di un mutamento istituzionale il cui ruolo è connotato politicamente14. Si assiste pertanto ad uno sviluppo del concetto di “creatività culturale” ripreso da Adriano Favole e delineato come “il processo che scaturisce con particolare forza nell’incontro, nella relazione, nella situazione di compresenza o convivenza”15. L’incontro-scontro con l’alterità, in contesti di conflitto, permette di interpretare l’organizzazione territoriale indigena come frutto di una particolare “creatività geografica” che porta alla coesistenza di una geografia “sacra” e una “della resistenza”. In contrasto con quanto ho sostenuto in precedenti lavori16, l’introduzione di questa nuova categoria permetterebbe un’analisi completa dello spazio, che considera in 124

toto i vari aspetti che lo compongono facendoli dialogare tra loro. La distinzione proposta da Jimenez e Novoa17 tra “territorio come risorsa” e “territorio come abito” risulta di conseguenza essere insufficiente per il contesto in esame, dato che la dicotomia si trova già sintetizzata all’interno del termine indigeno kiwe thë, che intende il territorio come luogo in cui abitano espacios y formas de vida natural e in cui si articola la cultura. Il vocabolario nasa contiene almeno tre diversi termini con cui fare riferimento al territorio: uma kiwe, kiwe, yat wala, ognuno riferito ad una caratteristica dello spazio circostante. Sarà grazie all’analisi di questi termini che si approfondirà il modo in cui la geografia indigena sia stata ridisegnata sulla base di categorie interpretative andine e riutilizzata come strumento di resistenza non violenta. In questo senso, l’originalità del movimento di resistenza indigeno non deriverebbe solo dalla riappropriazione di antiche istituzioni coloniali o strumenti difensivi di “importazione”, quanto dalla loro rilettura e dal loro inserimento all’interno di una narrazione collettiva familiare alla popolazione e conciliabile con i precetti della cosmovisione originaria. A questo proposito, è bene porre alcune basi teoriche per poter inquadrare al loro interno il processo di “costruzione di geografie” elaborato dalla comunità nasa. 3. Costruzione politica dello spazio geografico Il processo costruzione e ri-semantizzazione territoriale trova la sua origine nell’interpretazione del ruolo che il singolo individuo ricopre all’interno della comunità e in particolare nel concetto indigeno di autoderminazione. In base a quanto emerso durante l’intervista realizzata con il thë wala18 mayor Bernardo esistono tre diversi termini per indicare la popolazione indigena: nasa, páez e nasanasa, ognuno di essi si riferisce a una diversa agency: Noi siamo nasa páez, páez significa che parliamo la nostra lingua materna, mentre nasa è l’essere inteso como individuo. Páez è il termine che utilizziamo per identificarci. Quando parliamo del nasa diciamo nasanasa che equivale a “gente gente”. Ci stiamo riferendo a una persona fedele alla tradizione, alla forma di vestire, di dormire, di camminare, di pensare, di lavorare, di danzare […] Questo significa essere nasanasa. Quando invece diciamo semplicemente nasa ci stiamo riferendo a persone

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che non rispettano la tradizione, che non possono comprendere quando parla un colibrì. Noi invece siamo capaci di comunicare con gli animali, con gli uccelli, con gli astri e le nubi. Il nasanasa tiene in considerazione tutto questo, dall’elemento più piccolo al più grande (mayor Bernardo, resguardo indigeno di San Francisco, municipio di Toribío, 28/11/2015).

Attraverso le parole del mayor Bernardo è possibile comprendere il processo in costante attuazione di costruzione dell’identità indigena. I condizionamenti politici, culturali e sociali ai quali questo meccanismo intellettuale è sottoposto contribuiscono a rendere il resguardo non soltanto una categoria istituzionale di amministrazione del territorio bensì lo scenario principale sul quale si colloca lo spazio relazionale in cui individui, spiriti e territorio interagiscono contribuendo a produrre la memoria storica e mitica della collettività e delineando il concetto stesso di “persona”. L’identità indigena nasa si inserisce perciò in un costante processo costruttivo volto a recuperare il sapere ancestrale legato alla cosmovisione e a tramandare la storia politica collettiva legata alla resistenza non violenta. In un’altra intervista realizzata con Yenni Zoraida Peteche, docente presso la Scuola di Agroecologia – Sek Ate Kiwe del Cecidic, ritroviamo lo stretto legame sussistente tra identità indigena nasa, coscienza politica e appartenenza territoriale: Questo è l’insieme di cose che identificano una persona come nasa19: avere un territorio, una lingua materna, una visione e una coscienza politica, rispettare l’organizzazione nasa. Comprendere le intenzioni del Cabildo, del CECIDIC, delle autorità indigene. È importante sentirsi nasa. Ci sono molte persone tra di noi che hanno i tratti tipici nostri però si definiscono meticci, non si identificano come nasa. È importante avere un pensiero critico, rispettare la comunità e agire nel territorio (Yenni Zoraida Peteche, CECIDIC, resguardo indigeno di San Francisco, municipio di Toribío, 27/11/2015).

L’importanza del territorio nell’intero processo politico in cui la comunità è coinvolta si manifesta nei termini indigeni utilizzati per denominarlo, in particolare yat wala, uma kiwe oppure kiwe thë. Riprendendo quanto riportato nell’introduzione, con il termine kiwe thë la comunità si riferisce in generale a quello che viene definito il luogo in cui si incontrano espacios y formas de vida natural, il cui 126

significato cela al suo interno la forte connotazione politica derivante dalle usurpazioni subite da parte di narcotrafficanti, guerriglieri e soldati dell’esercito. Come anticipato, il municipio di Toribío, così come la comunità che lo abita, ha vissuto a partire dalla Conquista un passato caratterizzato da violenza e repressione in cui il movimento di resistenza ha potuto nascere e svilupparsi. Il territorio quindi non ha mai rappresentato solo uno spazio naturale in cui collocare un insediamento abitato, al contrario è diventato la principale posta politica in gioco, trasformandolo in una delle zone più pericolose dell’intera nazione. Oggi, i processi di territorializzazione20 in atto da parte della comunità mirano da un lato a promuovere una ri-semantizzazione che possa modificare il valore intrinseco attribuito a questi territori e dall’altro alla costruzione di un modello politico interculturale dal basso. Uno dei termini più interessanti a questo proposito è yat wala, letteralmente tradotto come la “grande casa”, luogo in cui la famiglia abita, cresce ed educa i figli. Nonostante la deriva verso un modello nucleare, la famiglia nasa è estesa, basata su regole di affiliazione patrilineari e virilocali, comprende animali domestici, d’allevamento, l’orto o tul e gli spiriti della natura, il cui compito è proteggere l’abitazione. La casa familiare deve quindi avere lo spazio sufficiente ad ospitare al suo interno i vari componenti e la sua costruzione deve essere accompagnata da una serie specifica di rituali di armonizzazione officiati dal medico tradizionale. Senza entrare eccessivamente nello specifico, ci limitiamo in questa sede a considerare l’abitazione come una rappresentazione di un microcosmo21 la cui struttura comprende in primis il fogón, elemento attorno al quale si svolgono le principali attività conviviali come l’educazione dei figli, la preparazione dei pasti e la tessitura. Il focolare domestico è posizionato all’interno di un cerchio composto da tre pietre che rappresentano tay (il sole), uma (l’acqua) e ate (la luna) che, secondo il mito dell’origine, simboleggiano le tre pietre ancestrali modellate dal demiurgo Sxlapun, spirito del tuono, da cui ha avuto origine la vita umana. Il fuoco simbolizza la tulpa, la capanna cerimoniale usata per officiare riti sacri di armonizzazione con gli spiriti della natura, mentre il braciere corrisponde alle narici della terra attraverso cui essa può respirare. All’esterno si trova il tul, sistema agroecologico in cui vengono coltivati alberi da frutto, coltivazioni a ciclo corto e piante medicinali ed è protetto dal proprio 127

ksxa’w, spirito, che secondo alcuni thë walas si tratterebbe del duende, Kxulxum, un’entità soprannaturale che assume le sembianze di un nano dai piedi posizionati al rovescio, considerato protettore e padrone delle montagne, degli alvei dei fiumi e dei dirupi22. D’altra parte, il tul non è semplicemente un sistema agroecologico, ma un modello integrale del cosmo, uno spazio relazionale specificatamente nasa, generato e a sua volta generatore della cosmovisione indigena23. Il tul è inoltre il luogo privilegiato per favorire l’educazione dei bambini, i quali vengono introdotti dai genitori al lavoro agricolo a scopi principalmente pedagogici: attraverso la semina, accompagnata da una sequenza di rituali di armonizzazione, i bambini imparano ad intervenire nel territorio, a distinguere le varie semenze e soprattutto a rispettare gli esseri viventi e gli spiriti che lo abitano. Seminare, comunicare, tessere rappresentano il grado zero dell’apprendimento, poiché si tratta di azioni intimamente collegate con l’atto cosmogonico di costruzione del mondo24. La casa, e nello specifico il tul, si presenta perciò come una sorta di axis mundi25 la cui sacralità si istituisce principalmente con il rituale della semina del cordone ombelicale, chiamato in nasayuwe sxab wes pedaya. La tendenza a rendere “viva” l’abitazione e al tempo stesso a trasformare lo spazio circostante in abitazione ricalca quello che in sociologia si definisce come il modo in cui società, individuali e collettive, modellano lo spazio sociale. Le ricerche condotte da Herbert Gans26 offrono una prospettiva teorica utile a comprendere l’analisi condotta finora: la vita sociale si articola in un determinato spazio che diventa sociale proprio in base all’utilizzo che gli individui ne fanno. La prospettiva “dell’uso”, analizzata dall’autore, diventa perciò centrale nello studio del territorio, proprio perché dall’uso deriva un particolare valore attribuito alla terra. La prospettiva di Gans era già stata abbracciata da Tim Ingold il quale sfrutta il concetto di “abitare” per sottolineare la caratteristica di ogni organismo vivente imbrigliato nell’esperienza di essere un corpo specifico in un ambiente specifico27. Ingold prosegue sostenendo che l’ambiente non si trova mai in uno stato di datità assoluta, ma è sempre in costruzione e gli individui coinvolti devono perennemente agire, reiterando la modalità primaria di relazione con il mondo. Nel contesto di studio, in cui la costruzione dello spazio sociale si trova al centro di una relazione 128

triadica tra popolazione locale, FARC ed esercito, la prospettiva proposta dagli autori implica che gli attori coinvolti si trovino in condizione di dover costantemente negoziare il proprio ruolo nel territorio. Questa negoziazione dello spazio si articola su vari livelli di interazione e può essere pensata a forma di triangolo equilatero ai cui poli si trovano rispettivamente la comunità indigena, le FARC e l’esercito, mentre nel punto di incontro tra la linea mediana, bisettrice e dell’altezza si trova l’ambito controllo politico ed economico. Da questa relazione ne deriva l’inevitabile tentativo di ciascuna parte in causa di affermare il proprio dominio sulle altre ridisegnando una particolare geografia politica. Quindi, l’obiettivo della popolazione non è semplicemente quello di definire e reinterpretare il territorio secondo costrutti culturali, ma riaffermare la propria sovranità e la propria legittimità ad abitarlo. Grazie all’istituzionalizzazione del resguardo è stato possibile inserire la lotta al conflitto all’interno di confini precisi definendo un margine di azione che coinvolge anche le istituzioni educative, economiche e sanitarie. Questo processo politico-cognitivo si attua proprio perché non prevede semplicemente di interpretare il territorio circostante, ma di rielaborarlo sulla base delle nuove relazioni di potere introdotte dal conflitto armato. È proprio sulla base di queste riflessioni che l’atto di ridisegnare la geografia locale si configura come una delle principali strategie di resistenza adottate dalla comunità: autodefinirsi nasa implica pertanto un processo di costruzione identitaria intimamente legato al territorio abitato e agito. Riprendendo le parole dei miei interlocutori, il nasa prima di tutto è colui che tiene un territorio, una lengua y un pensamiento politico28, inoltre un indio sin tierra es un indio que no tiene nada29. Le azioni rituali assumono pertanto un carattere estremamente politico nella misura in cui esse trasformano il territorio nel reale protagonista della mediazione tra passato e presente. 4. Memoria storica e territorio Il territorio si configura perciò come un agente tutt’altro che passivo, nel quale le azioni umane assumono una propria specificità legata all’esercizio di potere che rinnova quotidianamente la sovranità legittima della popolazione indigena in contrasto con la coercizione esercitata da forze armate, guerriglia e narcotraffico. 129

Partendo dalla relazione esistente tra memoria storica e territorio, è possibile delineare i tratti che la nuova geografia della resistenza viene ad assumere e di come essa venga costruita attraverso la reinterpretazione in chiave politica delle principali azioni rituali, le quali si configurano come azioni politiche tout court. La politicità del rituale si esprime principalmente grazie alla formula pedir permiso, che diventa simultaneamente motivazione e obiettivo del rituale stesso. Come sottolinea Fernando Santos Granero30 è proprio attraverso questi atti performativi che le popolazioni indigene rivendicano la loro sovranità sul territorio e vi legano il compito di trasmettere la coscienza storico-collettiva, trasformando il paesaggio in uno strumento all’interno del quale incapsulare la memoria storica. Secondo Santos Granero31 questo sarebbe possibile teorizzando l’esistenza di particolari landmark o topogrammi, elementi territoriali che assumono il loro attuale valore in base a trasformazioni avvenute nel corso degli anni ad opera sia di esseri umani che soprannaturali, i quali hanno contribuito a riscriverne e modificarne la storia. Attraverso questi interventi, il paesaggio assume le caratteristiche di romanzo corale e polifonico in cui la voce narrante è composta dall’intera comunità, umana e soprannaturale, inoltre il concetto di costruzione di geografie renderebbe perciò plausibili le correzioni alla storia di cui fa menzione Joanne Rappaport nei suoi resoconti etnografici. Il carattere modificabile della storia è uno degli elementi più interessanti che permette di comprendere il motivo per il quale il paesaggio sia stato elevato al ruolo di testo in cui preservare la memoria comunitaria dato che, come afferma Rappaport, ad essere riscritti non sarebbero i fatti storici in sé e per sé, ma le condizioni che hanno portato ad un preciso processo storico32. Evidenziando la presenza di precisi landmark nel territorio, non ci si limita a definire fisicamente i confini del resguardo ma si istituiscono luoghi adibiti alla preservazione mnemonica della collettività. Uno dei più efficaci processi di riappropriazione e risemantizzazione del territorio è la trasposizione del muralismo, in quanto arte urbana al contesto rurale di Toribío: questa particolare corrente artistica è divenuta il manifesto della resistenza non violenta della popolazione nasa. Il murales in questi luoghi rappresenta l’azione non violenta par excellence adottata per fronteggiare l’ingente presenza guerrigliera resa evidente dalla presenza di scritte effettuate con bombolette spray riportanti la dicitura “FARC – EP” 130

(Forze Rivoluzionarie Armate della Colombia – Esercito Popolare).

La realizzazione della Minga Muralista dei Popoli nell’ottobre del 2013, possibile grazie alle forti pressioni del CECIDIC e della Scuola Artistica – Çxapik, ha sancito ufficialmente l’adozione di questa nuova strategia di lotta. L’evento ha accolto numerosi artisti, locali ed internazionali, e ha avuto lo scopo di promuovere, in maniera pacifica e non violenta, l’avversione sia al conflitto armato che all’intolleranza culturale che hanno portato i nasa ad aver paura del loro stesso territorio. Il murales, come sostiene Adrian Velasco, disegnatore grafico e attivista del progetto muralista del Movimento di Liberazione della Madre Terra, «è una forma d’arte diversa che non si trova nelle gallerie. È prodotta dalla gente per la gente […] è volta alla riappropriazione di spazi urbani in forma di protesta»33, in particolare: «la pratica dei murales è nata come pratica di resistenza non violenta contro le scritte sui muri fatte dalla guerriglia (corsivo mio)»34. Come sottolinea Breiner Ortiz Yule, coordinatore della scuola artistica Çxapik: 131

Ci siamo resi conto che venendo dal El Palo verso Toribío c’erano molti posti di blocco della polizia e dei gruppi armati, ma non c’era nulla che identificasse il territorio come nasa, a partire dalla nostra simbologia35.

Il tragitto che conduce a Toribío inizia da Santander de Quilichao, centro urbano più popolato della zona nord del Cauca. La prima parte è caratterizzata dalla presenza di numerosi murales del CRIC realizzati sui muri delle abitazioni private e dei piccoli negozi di alimentari. Una volta giunti alla vereda36 El Palo, considerata l’effettiva porta di accesso al “territorio”, lo scenario cambia radicalmente: i murales si diradano lasciando il posto alle “firme” riportanti la dicitura “FARC – EP”. Quello che potrebbe essere liquidato come un banale atto vandalico rappresenta una manifestazione di violenza simbolica che mira a riaffermare l’usurpazione territoriale da parte dei gruppi armati.

I murales realizzati in occasione della Minga muralista hanno il carattere esattamente opposto: anticipati da una serie di rituali di armonizzazione e seminari di approfondimento sulla cultura nasa, i disegni hanno l’obiettivo di trasmettere messaggi di pace e di armonia attraverso la raffigurazione di elementi simbolici legati alla tradizione, di parole scritte in nasayuwe, che ridonano valore a luoghi che 132

sembravano ormai destinati ad essere il rimando ad un passato fatto di tristezza, violenza, terrore e soprattutto morte. L’edificio divenuto il simbolo di questa esperienza di creatività culturale ed espressione principale del processo di invenzione geografica è un’abitazione situata in prossimità della base militare del paese, nell’angolo a sud ovest dell’unica piazza presente, gravemente danneggiata durante uno dei più cruenti attentati realizzati dalle FARC. La mattina del 9 luglio 2011 una chiva, autobus tradizionale utilizzato sulle Ande per il trasporto locale di passeggeri e merci, carica di esplosivo venne parcheggiata in prossimità dell’abitazione provocando quattro morti, centotré feriti e circa quattrocento case danneggiate37. Durante la Minga muralista la popolazione decise di decorarne le ferite riportate con un murales raffigurante una donna dai tratti indigeni, sorridente mentre cinge tra le mani i frutti del lavoro agricolo, riscattando così il ricordo drammatico a simbolo della resistenza non violenta. Lo scopo di risignificazione spaziale di arti urbane come il muralismo è proprio quello di individuare modi creativi ed originali per negoziare il city space, trasformando l’ostacolo in opportunità38; la resistenza diventa perciò più efficace se interpretata come esercizio di potere piuttosto che una lotta contro il potere39. Nel contesto rurale di Toribío, la comunità ha adottato la pratica urbana del murales proprio per ribadire visivamente la propria sovranità in un territorio conteso e minacciato dal conflitto armato. Riprendendo la definizione di identità resistenziale di Manuel Castells, i nasa si trovano in un contesto svantaggiato, stigmatizzato e in netta opposizione con le istituzioni della società dominante40. Il murales diviene perciò a tutti gli effetti una strategia di lotta politica e non violenta che mira a ristabilire le relazioni di potere interne al territorio ridisegnando i confini di questa nuova geografia in resistenza partendo dal recupero della simbologia legata sia alla lotta politica che alla cosmovisione. La comunità indigena, in qualità di classe subalterna, elabora forme di resistenza collettiva che mirano a distruggere politicamente la minoranza dominante rappresentata dalla guerriglia. La dialettica della violenza adottata dalle FARC ha comportato una frattura profonda della rete di significati e significanti su cui si basa la relazione tra esseri umani e territorio, fratturando i metri di valutazione applicabili a quello che dovrebbe essere considerato un mero atto vandalico. La presenza 133

di queste “firme” sui muri delle abitazioni viene imposta per ristabilire quella egemonia di potere di cui le varie organizzazioni politiche indigene hanno tentato di sbarazzarsi. Il murales, coprendo le firme e trasformandole in simboli della memoria, contribuisce a favorire quel processo di presentificazione della storia all’interno del paesaggio, trasformando il pueblo in un libro a cielo aperto, che preserva la narrazione storica e diviene un archivio disponibile per la memoria individuale e collettiva41. La trasformazione è un concetto fondamentale per la cosmovisione nasa: nulla muore nel territorio ed ogni singola goccia del sangue versato dai leader comuneros è servita a fertilizzare, a concimare il seme della resistenza di un popolo che ha deciso di non arrendersi di fronte al proprio destino, rielaborandolo per conferirgli un nuovo significato. Tutto si trasforma, nulla è uguale a ciò che era e a ciò che sarà e la morte diventa perciò un cambiamento di stato che non si riferisce solo alla semplice cessazione delle funzioni e delle attività cerebrali: lo spirito diventa farfalla e come una farfalla si trasforma per dare il via alla “metamorfosi della vita”42. Allo stesso modo, il murales trasforma le abitazioni, rivestendole di una nuova immagine, senza nasconderne le cicatrici ma risaltandole per non dimenticare la storia che tutt’ora si sta scrivendo a Toribío. Per queste ragioni, la richiesta del permesso agli spiriti che proteggono il territorio diventa espressione pragmatica e performante del principio di non-violenza e non-aggressione a cui il movimento di resistenza fa appello43. La rilevanza politica emerge soprattutto nella netta opposizione in cui si colloca l’azione rituale rispetto alle usurpazioni vissute dalla popolazione nell’arco di tutto il conflitto armato. È proprio grazie alla ritualizzazione politica della richiesta di permesso che la popolazione mette in atto il processo di “costruzione di geografie” in cui è coinvolto l’intero municipio. Come anticipato nell’introduzione di questo capitolo, l’importanza che il pueblo ha avuto nella definizione del modello di resistenza indigena lo ha elevato a punto nevralgico, una sorta di zenit in cui cosmovisione e politica si intersecano dando vita alla cosmoazione44. Il territorio, quindi, non si sostituisce a oggetto di ricerca, ma diventa la presentificazione fisica del racconto storico e mitico in cui il processo di resistenza si è articolato. I luoghi sacri, come le montagne, le lagune, i fiumi e i ripidi pendii sono stati teatro di sanguinosi scontri armati: il cerro Berlín, considerato la dimora degli spiriti della natura protettori 134

delle montagne, oggi è la sede di una delle tante basi militari presenti nel municipio. Nel 2012, a seguito di vari scontri a fuoco tra esercito e guerriglia, il movimento indigeno organizzò una manifestazione alla quale parteciparono un centinaio di persone allo scopo di espellere i militari in segno di protesta e rifiuto al conflitto45. La vereda il Manzano, sede di uno dei più importanti siti spirituali del municipio la casa de los mayores, un complesso di tre tulpas erette sulla riva del fiume, subì una sorte molto simile quando nel 2013 venne brutalmente colpita da uno scontro a fuoco che vide opporsi esercito e FARC utilizzando come trincea le abitazioni della popolazione locale46. Questi luoghi dimostrano come la geografia sacra del territorio si sia irrimediabilmente sovrapposta ad una geografia in e della resistenza, in cui il valore intrinseco attribuito ai landmark rimanda inevitabilmente ad episodi di violenza. Grazie alla formula del pedir permiso, il rituale diventa espressione massima dell’intero processo politico di ri-semantizzazione, ri-territorializzazione e ricostruzione storica attivo nel municipio, il cui obiettivo ultimo è quello di garantire il mantenimento di un’identità culturale indigena, nonostante le violazioni subite. Intendendo il concetto di territorializzazione nei termini in cui lo ha definito Pacheco47, la rielaborazione spaziale si configura come processo politico che implica lo sviluppo di una nuova unità socioculturale e una nuova identità etnica differenziante, la creazione di nuove istituzioni politiche, la ridefinizione del controllo sociale, in particolare per ciò che riguarda l’accesso alle risorse naturali e infine la rielaborazione di una cultura collettiva che stabilisca i termini di una rinnovata relazione con il passato. La geografia resistenziale del resguardo diventa quindi lo scenario essenziale dal quale ripartire per avviare l’intera riorganizzazione della comunità. L’inserzione del territorio all’interno del discorso storico e politico non è una caratteristica solo colombiana, numerosi esempi si trovano nei lavori di autori come Santos Granero, Venturoli, Arnold e così via; la cui bibliografia ci fornisce una base teorica fondamentale alla comprensione di questa particolare relazione specificamente andina. Il dato etnografico rileva la peculiarità del contesto in esame, nonché l’elemento distintivo rispetto ai precedenti studi di Rappaport, riguardante l’utilizzo di queste tecniche per condurre una resistenza politica non violenta al conflitto armato colombiano. Attraverso queste strategie interpretative la popolazione 135

non si è limitata ad autodefinirsi ma ha fornito la base teorica per la comprensione e l’attuazione di una precisa lotta politica per la sopravvivenza fisica e culturale in un territorio conteso da molti. Assistiamo perciò a un processo di indigenizzazione che coinvolge l’intero panorama politico attuale in Sud America, in cui la presenza dei earth-being48 garantisce una rottura con il modello egemone tramandato dalla concezione politica occidentale, in cui natura e cultura sono irrimediabilmente separate. La proposta alternativa portata avanti dalle comunità indigene e, nello specifico, da quella nasa ci pone di fronte a interrogativi teorici che pretendono di ridefinire i confini reali del dibattito sulla “cosa pubblica”: se infatti si avvalora la definizione di politica fornita da Marcos Yule, leader politico dell’ACIN, come “l’arte di armonizzare il corpo con la madre terra”49 questi confini razionalmente tracciati ci appaiono instabili e sfumati. Il processo di “costruzione geografica” messo in atto dalla comunità nasa non si limita ad avere ripercussioni solamente sull’interpretazione spaziale del territorio umanizzato, ma incide profondamente sul tipo di governamentalità che scegliamo di adottare, promuovendo invece quella che Astrid Ulloa chiama “ecogovernamentalità”50. Il movimento di resistenza sviluppatosi a partire dalla piattaforma di lotta che sancì la nascita del CRIC non può quindi essere ridotto a uno dei tanti discorsi politici sorti in Colombia nel corso di tutti questi anni e al contempo non può essere considerato solo per gli aspetti culturali legati alla tradizione andina. Gli anni della guerra hanno causato una profonda rottura del principio di equilibrio tanto caro alla popolazione, innescando un circolo vizioso di mandati non rispettati che ha portato alla grave e pericolosa condizione in cui versa la comunità di Toribío. La filosofia indigena, infatti, si basa sulla relazione armonica tra energie, suddivise nelle due categorie primordiali di caldo e freddo, una dicotomia che dà origine all’intera cosmovisione, basata sulla ricerca continua del principio di equilibrio; la gestione di queste energie è affidata ai thë walas, i medici tradizionali che, configurandosi come autorità spirituali, sono gli intermediari esclusivi tra esseri umani e spiriti che governano il territorio. Di conseguenza, la definizione indigena di politica citata in precedenza, traducibile in nasayuwe con la formula wët wët fxi’zenxi, mostra come il legame tra il singolo individuo e il suo 136

corpo, inteso come elemento primario della vita in comunità, sia legato in maniera imprescindibile al territorio. I numerosi studi condotti da Rappaport sottolineano come la conoscenza stessa del territorio sia possibile proprio grazie al corpo. La parola indigena kiwe, utilizzata per l’appunto per denominare il territorio, sarebbe, secondo l’antropologa, legata a tre azioni precise: vedere, seminare e camminare. Gli individui, recandosi sulle montagne più alte, possono grazie alla vista tracciare visivamente i confini fisici, e al contempo seminare, un’attività che è legata alla coltivazione del tul, e quindi all’utilizzo del territorio per la produzione di prodotti ortofrutticoli necessari a soddisfare il fabbisogno della popolazione; infine, il camminare che rimanda alla celebre impresa condotta da Juan Tama de la Estrella che ripercorse a piedi l’intero resguardo allo scopo di tracciarne definitivamente i confini. Come evidenziato nel “Piano ambientale, agricolo e zootecnico” del periodo 2011-2021, è proprio attraverso il corpo che il nasa, agendo mediante pratiche rituali, può umanizzare il contesto geografico, il landscape, e costruirlo allo scopo di reinterpretare il proprio passato. L’azione rituale diviene quindi lo strumento principale attraverso la quale gli individui intervengono politicamente e in maniera non violenta all’interno del territorio conteso. 5. Conclusione Ciò che si è voluto mostrare in questo articolo sono i metodi attraverso i quali il popolo nasa tenta di riscattare la propria memoria storica e collettiva da un passato legato al conflitto armato. Si tratta di un processo tutt’ora in definizione e, sebbene a livello nazionale il conflitto sia entrato nella fase risolutiva, la comunità continua a vivere in condizioni di estrema precarietà dato che i problemi strutturali che lo hanno causato non sono ancora stati risolti. Le coltivazioni illegali continuano ad essere la principale fonte economica del municipio e la loro completa estirpazione sembra ancora un miraggio, aprendo inevitabilmente una complicata questione culturale legata al valore spirituale attribuito alla pianta di coca. Ho volutamente deciso di non avventurarmi all’interno di questi aspetti proprio perché rappresentano motivo di forte frattura per il movimento di resistenza. Al contrario, ho preferito concentrare l’attenzione sugli 137

aspetti positivi sorti a seguito del conflitto armato, evidenziando in particolare lo stato di continua negoziazione del municipio. La geografia in resistenza diventa quindi una condizione vitale per il popolo nasa, l’unica attraverso la quale può esistere. Il termine resistenza può infatti essere considerato nella composizione totale: re-esistenza, resistere per tornare ad esistere, per tornare soprattutto ad esercitare la propria legittima autodeterminazione politica. Il movimento muralista rappresenta infine uno degli esempi più interessanti di quello che Adriano Favole definisce “creatività culturale”, una creatività che, come specificato nel testo, trova la sua sintesi nell’organizzazione geopolitica del territorio. Al tempo stesso, la metafora del paesaggio come testo51 è ormai diventata fondamentale nello studio delle comunità indigene andine che in questo contesto si manifesta anche dal punto di vista simbolico. La geografia della resistenza serve quindi a ridisegnare i confini “sacri” di questo territorio, a ristabilirne i luoghi di culto e gli spazi abitati dai nuovi spiriti protettori.

NOTE 1 Organizzazione zonale con sede a Santander de Quilichao. 2 A seguito della firma degli accordi di pace, le FARC – EP (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia – Esercito del Popolo) sono entrate nella fase di disarmo e reintegro degli ex-guerriglieri. 3 Per maggiori informazioni: http://www.eltiempo.com/archivo/documento/CMS-16639346 4 Ana Maria Saavedra, En Toribío, Cauca, por fin saben que es la paz, in «El País», url: http://www.elpais.com.co/judicial/en-toribio-caucapor-fin-saben-lo-que-es-la-paz.html (pagina consultata il 3/05/2017); Kevin Howlett, A ‘Colombian Bagdad’? Toribío, the FARC’s front-line, «Colombia Politics», url: http://www.colombia-politics.com/a-colombian-bagdad-toribio-the-farcs-front-line/ (pagina consultata il 3/05/2017). 5 CRIC, Consiglio Regionale Indigeno del Cauca, è l’organizzazione indigena più longeva e più importante della Colombia, sorto nel 1971 nella vereda La Susana, municipio di Toribío. Per maggiori informazioni si rimanda al volume Nuestra vida ha sido nuestra lucha. Memoria y resistencia

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en el Cauca indígena pubblicato dal Centro Nazionale di Memoria Storica e consultabile alla pagina web: http://www.centrodememoriahistorica.gov. co/informes/informes-2012/resistencia-en-el-cauca-indigena. 6 CECIDIC, Centro de Educación, Capacitación e Investigación para el Desarrollo Integral de la Comunidad. 7 Intervista a Don Reinaldo, Coordinatore Servizi Generali del CECIDIC. 8 La trascrizione del nasayuwe, lingua della comunità nasa, riprende le indicazioni fornite da Yule Marcos, Por los senderos de la memoria y el sentimiento Páez, Quebecor Impreandes, Bogotá, 1998. 9 Joanne Rappaport, Intercultural Utopias. Public Intellectuals, Cultural Experimentation and Ethnic Pluralism in Colombia, Duke University Press, Durham, 2005, p. 11-47. 10 Páez è la versione in castigliano del termine nasa, da questo nome deriva anche l’omonimo municipio nel dipartimento del Cauca. 11 Costituzione Politica della Colombia, 1991, articoli 63, 329 e 330, url: https://www.procuraduria.gov.co/guiamp/media/file/Macroproceso%20 Disciplinario/Constitucion_Politica_de_Colombia.htm (pagina consultata il 25/01/2017). 12 Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano, 2010. Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 2009. 13 Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, p. 55. 14 Stuart Hall, Question of Cultural Identity, Sage, London, 1994, p. 4. 15 Adriano Favole, Oceania. Isole di creatività culturale, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 36. 16 Francesca Consogno, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Torino. 17 Carolina Jiménez e Edgar Novoa, La producción social del espacio: el capital y las luchas sociales en la disputa territorial, Desde Abajo, Bogotá, 2014, p.13. 18 Termine in nasayuwe che significa medico tradizionale. 19 Il termine nasa è utilizzato con il significato di nasanasa. 20 João Pacheco de Oliveira, Uma Etnologia dos “Índios Misturados”? Situação Colonial, Territorialização e Fluxos Culturais, in «MANA», n.4(1), pp. 47-77, 1998. 21 Denise Y. Arnold, Hacia un Orden Andino de las Cosas. Tres pistas de los Andes meridionales, ILCA, La Paz, 2014, p. 32.

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22 Marcos Yule Yatacue, La metarmofosis de la vida. Pensar, mirar y vivir desde el corazón de la tierra, Grafitextos, Cali, 2012, p. 134. 23 A.A. V.V., Que pasaría si la escuela … ? 30 años de construcción de educación propia, PEBI, Consejo Regional Indígena del Cauca, Popayán, Colombia 2004, pp. 105-106. 24 Joanne Rappaport, History, Myth and the Dynamics of Territorial Maintenance in Tierradentro, Colombia, in «American Ethnologist», vol. 12, n. 1, pp. 27-45, American Anthropological Association, 1985, p. 33. 25 M. Eliade, Il sacro e il profano, op. cit., pp. 28-30. 26 Herbert Gans, The Sociology of Space: A Use-Centered View in «City and Community», 1(4). 27 Tim Ingold, Ecologia della Cultura, Meltemi Editore, Milano, 2016, p.13. 28 Intervista a Yenni Zoraida Peteche, coordinatrice scuola di Agroecologia. Trad.: ha un territorio, una lingua e una coscienza politica. 29 Intervista a Tomas Patu Paro, abitante del municipio di Toribío, 14/11/2015. Trad.: un indigeno senza terra è un indigeno che non ha nulla. 30 Fernando Santos Granero, Writing History into the Landscape: Space, Myth and Ritual in Contemporary Amzonia, in «American Ethnologist» n. 25 (2):128-148, American Anthropological Association, p. 131. 31 Ivi, p. 140. 32 Joanne Rappaport, Cumbe Reborn. An Andean Ethnography of History, The University of Chicago Press, Chicago, 1994, p. 52. 33 Dialogo informale con Adrian Velasco presso CECIDIC, 6/11/2015. 34 Dialogo informale con Don Reinaldo Opocué presso CECIDIC, 24/10/2015. 35 Intervista a Breiner Ortiz Yule, presso CECIDIC. 36 Con il termine vereda si fa riferimento alla suddivisione amministrativa dei muncipi. La vereda è amministrate dalla Giunta di Azione Comunale e per conformarla è necessaria la presenza di minimo 25 famiglie. 37 Per approfondimenti: “Ataque en Toribío: 46o viviendas afectadas y 480 familias damnificadas”, Semana, url: http://www.semana.com/nacion/ articulo/ataque-toribio-460-viviendas-afectadas-480-familias-damnificadas/242906-3 (pagina consultata il 3/05/2017). 38 Nathaniel Bavinton, From obstacle to opportunity: Parkour, leisure and the reinterpretation of constraints, in «Annals of Leisure Research», n.10 (3-4): 391-412, 2007, p. 403. 39 Ivi, p. 394. 40 Manuel Castells, Il potere delle identità, Egea, Milano, 2014, p. 8.

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41 Paul Ricoeur, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano, 2016, p.135. 42 M. Yule Yatacué, La metamorfosis de la vida, op.cit. 43 Emanuele Profumi, Colombia. La pace è nostra, Exorma, Roma, 2016, p. 190. 44 Marcos Yule Yatacué, Por los senderos de la memoria y el sentimiento Paez, PEBI, Bogotà, diciembre de 1998, p. 57. 45 El Espectador http://www.elespectador.com/notic i a s / j u d i c i a l / i n d i g e n a s - e x p u l s a n - 1 0 0 - s o l d a d o s - d e - b a s e - m i l itar-del-cau-articulo-360673, pagina consultata il 24/2/2017; Intervista ad Andres Popayán, presso CECIDIC. 46 Dialogo informale con William, presso vereda El Manzano. 47 Pacheco de Oliveira J., Uma Etnologia dos “Índios Misturados”?, op. cit. 48 De la Cadena M., Indigenous Cosmopolitics in the Andes: Conceptual Reflection beyond “Politics”, in «Cultural Anthropology», vol. 25, Issue 2, pp. 334–370, American Anthropological Association, 2010, pp. 336 e 342. 49 Nota di campo, dialogo informale con Marcos Yule, 31/10/2015. 50 Astrid Ulloa, La articulación de los pueblos indígenas en Colombia con los discursos ambientales, locales, nacionales y globales, in Marisol de la Cadena (a cura di), Formaciones de Indianidad, Envion, 2007, p. 281. 51 Sofia Venturoli, Il paesaggio come testo, Clueb, Bologna, 2004.

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L’ARTE DEI MARGINI: POETICHE E POLITICHE DEL CONFINE EURO-AFRICANO TRA PAESAGGI DI POTERE E SPAZI DI RESISTENZA Alessandra Turchetti 1. Mobilità, frontiere, disuguaglianze: note introduttive “Ormai si apprezzano la mobilità e il nomadismo (almeno finché non riguardano i poveri o i senzatetto)” D. Lyon “To survive in the Borderlands You must live sin fronteras Be a crossroads” G.Anzaldúa

Negli ultimi tempi, la questione della mobilità ha conquistato un posto di grande rilevanza all’interno delle scienze sociali così come nel campo artistico1: sono emersi nuovi paradigmi di ricerca, identificati spesso come “svolte” (spatial turn, mobility turn, etc)2 che mirano al superamento di un “nazionalismo metodologico”3 incapace di afferrare la sempre maggiore interconnessione globale e l’intreccio di differenti mobilità – territoriali, simboliche, immaginative – che caratterizzano le società contemporanee. In questa prospettiva, sono stati elaborati nuovi strumenti concettuali – “reti”, “flussi”, “diaspora”, etc – sicuramente più adatti a cogliere le dinamiche complesse e contraddittorie del fenomeno che chiamiamo comunemente “globalizzazione”4. Anche se alcune teorizzazioni e produzioni artistiche ispirate a tali concetti sono sfociate in un’apologia estetizzante dello sradicamento e del nomadismo postmoderno, gran parte delle riflessioni che riguardano la mobilità umana hanno messo in evidenza come essa sia strettamente legata a questioni di potere e disuguaglianza. Come afferma Bauman5, dunque, la mobilità si presenta oggi come uno dei principali fattori di stratificazione sociale. In tal senso, il controllo della mobilità genera profondi effetti di gerarchizzazione. Il mondo si trova, così, diviso in due blocchi6: da un lato, un’élite cosmopolita che non ha vincoli e può spostarsi a proprio piacimento 142

(i “turisti”), dall’altro, una sottoclasse di individui a cui, attraverso una capillare messa in campo di dispositivi di controllo e sorveglianza, viene impedito di viaggiare liberamente (i “vagabondi”)7. Questi ultimi si vedono costretti a restare prigionieri della loro località oppure a elaborare strategie di mobilità alternative, “illegali”, andando a costituire, secondo le retoriche securitarie che associano migrazioni, devianza e criminalità, una nuova “classe pericolosa”. Tale polarizzazione è sintomo di un’epoca, definita in termini di “postfordismo” e “neoliberismo”, caratterizzata da una frattura profonda tra economia e politica e dalla conseguente crisi dello Stato-nazione, della sovranità e del concetto vestfaliano classico di confine. Il capitale contemporaneo ha raggiunto un grado di “liquidità” pressoché totale: i flussi transnazionali sono sempre più sfuggenti, mutevoli, inafferrabili. Incapace di controllare questi movimenti e di incidere sulla sfera economica e produttiva, lo Stato è ridotto alla funzione poliziesca di garantire ordine e sicurezza. In quest’ottica, il ruolo principale dello “Stato-centauro”, in sinergia con altre istituzioni (internazionali, private, etc), diventa quello di governare e disciplinare le eccedenze, di gestire le “vite di scarto” del mercato globale8. Se ai capitali e alle élite che li detengono viene garantita massima libertà di azione e movimento, in modo speculare e complementare, così, gli strati “inferiori” della popolazione vengono sottoposti a misure di controllo e sorveglianza sempre più stringenti e restrittive. Tale configurazione di potere, connotata da quello che Wacquant ha definito “il passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale”, è sostenuta da un’ideologia che esalta la sicurezza e la “tolleranza zero” il cui obiettivo fondamentale è “punire i poveri”9. Il discorso securitario ha investito anche il campo delle politiche migratorie: dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e l’avvio della guerra globale al “terrorismo islamico”, si è assistito infatti a un processo di “securitarizzazione delle migrazioni” per il quale i movimenti migratori vengono letti attraverso un prisma securitario e interpretati come una minaccia, un pericolo di ordine pubblico10. Il controllo della mobilità, così, è un elemento centrale non solo in tema di sicurezza nazionale ma anche per la governance globale. Il confine svolge una funzione fondamentale nel nuovo governo della mobilità e delle migrazioni: non a caso si assiste a una moltiplicazione di confini e frontiere11 che si traduce, innanzitutto, nella loro “spettacolare” materializzazione e visibilizzazione. 143

La fortificazione delle frontiere e la creazione di nuove barriere costituiscono indubbiamente un fenomeno emblematico del nostro tempo. Il confine è, però, anche altro: è necessario, in tal senso, spingersi oltre la logica del muro ed “estrarre il confine dalle sue guaine nazionali”12. La sua funzione non è più unicamente quella di escludere o delimitare un territorio: esso si presenta, infatti, come un’istituzione performativa, complessa, mobile e flessibile che gioca un ruolo-chiave nell’articolazione del potere, nell’organizzazione del lavoro, nella produzione di soggettività, attraverso la predisposizione di meccanismi “diffusi” di filtraggio, selezione e circolazione differenziale. In tal senso, il confine, come dispositivo fluido e “a geometria variabile”, opera alle frontiere ma anche dentro e oltre lo Stato, fino a penetrare nei corpi e nei soggetti: il suo potere, infatti, si esercita nell’intersezione tra “razza”, genere e classe. Quando si parla di proliferazione dei confini, dunque, non si fa riferimento solamente all’erezione di nuovi muri ma si intende soprattutto il riemergere della “profonda eterogeneità semantica del confine, delle sue complesse implicazioni simboliche e materiali”13. I confini non sono più semplicemente linee di demarcazione territoriale e geopolitica, ma si presentano anche come delimitazioni simboliche, linguistiche, culturali, “razziali” e sociali che “si sovrappongono, si connettono e disconnettono in modi spesso imprevedibili, contribuendo a plasmare nuove forme di dominio e sfruttamento” 14. Il confine si è spostato, così, dai margini al centro dell’esperienza contemporanea, configurandosi come un terreno altamente conflittuale attorno al quale si articolano eterogenei processi di produzione e rappresentazione, tra dispositivi di potere e forme di resistenza. Per queste ragioni, negli ultimi anni, le scienze umane e sociali hanno manifestato un crescente interesse per il tema delle frontiere, tanto che è emerso un nuovo campo di studi interdisciplinare: i border studies. Nella prima parte del presente lavoro, cercherò, così, innanzitutto di ripercorrere il recente sviluppo di una prospettiva critica negli “studi di confine”. Successivamente, proporrò alcune riflessioni di carattere metodologico partendo dall’idea che il confine non sia solo un oggetto di studio ma anche un “metodo”, il quale, combinando attivismo, arte e ricerca, offre “un punto di vista epistemologico che consente un’approfondita analisi critica non solo di come i rapporti di dominio, spossessamento e sfruttamento vengono oggi ridefiniti, 144

ma anche delle lotte che prendono forma attorno al mutamento di tali rapporti”15. Se i confini sono ormai ovunque e assumono dimensioni molteplici, è pur sempre vero, come annota Balibar16, che le zone periferiche, le frontiere storiche, dove si incrociano e si confrontano culture diverse e dove si acuiscono e si innervano le differenze economiche e geopolitiche, costituiscono un terreno di studio privilegiato per i critical border studies. Nella seconda parte, mi focalizzerò così sulla frontiera euroafricana situata tra Spagna e Marocco, l’unica che, oltre ad essere marittima, presenta anche una dimensione terrestre (le enclaves di Ceuta e Melilla)17: si tratta di un complesso paesaggio di confine in cui alle dinamiche di una frontiera storica di grande spessore simbolico – per lungo tempo ha rappresentato il limite tra “Islam” e “Cristianità”, in epoca coloniale è stata una zona strategica e contesa, oggi separa l’“Europa” dall’“Africa” – si interseca e si sovrappone un nuovo scenario di mobilità globale e di costruzione di uno spazio postnazionale. La frontera sur costituisce, infatti, un luogo-chiave di produzione e rappresentazione dello spazio europeo: le barriere di Ceuta e Melilla, costruite in seguito all’ingresso della Spagna nella Ue e alla schengenizzazione del confine ispano-marocchino, sono diventate l’emblema della “Fortezza Europa”. Partendo da questo assunto, cercherò di mettere in discussione tale immaginario, facendo ricorso alle arti visive: nella parte finale, darò così spazio al lavoro di due attiviste e artiste contemporanee (la svizzera Ursula Biemann e la franco-marocchina Yto Barrada) che, intrecciando estetica e politica, hanno prodotto narrazioni e immagini alternative della frontera sur d’Europa. Il loro lavoro, che può essere letto come una forma di resistenza creativa, sfida le retoriche e le rappresentazioni dominanti e dà voce alle soggettività “impreviste” che attraversano questo territorio, ponendosi dal loro punto di vista pur mantenendo una prospettiva più vasta. Con un approccio quasi etnografico, i progetti visuali elaborati da Biemann e Barrada, frutto di vere e proprie ricerche sul terreno, sono in grado di combinare lo sguardo “dall’alto” e lo sguardo “dal basso”, mettendo in luce il carattere conflittuale e complesso della realtà di frontiera. Questa ricca produzione artistica – che comprende film, fotografie, mappe, installazioni artistiche, performances – si configura pertanto come un insieme di narrazioni e rappresentazioni 145

“alternative” di cruciale importanza per sviluppare una lettura densa e critica del confine. 2. Oltre la linea: il confine come dispositivo di sapere/potere e come spazio liminare di creatività e contestazione. Prospettive teoriche, epistemologiche e metodologiche “Borders cross everyone, including those who never cross borders” N. De Genova “Il mio è un invito deciso. Un messaggio da quello spazio al margine, che è un luogo di creatività e di potere [..] Marginalità come luogo di resistenza. Entrate in quello spazio. Incontriamoci lì” b. hooks

2.1. Critical Border Studies I border studies si presentano oggi come un campo di studi vasto, prolifico e multidisciplinare di cui è praticamente impossibile fornire una rassegna della letteratura completa ed esaustiva18. In questo paragrafo ci si limiterà dunque a trattare alcuni passaggi (processual/ critical shift) e concetti (bordering, borderland, borderscape) che hanno contraddistinto il recente sviluppo di una prospettiva critica negli “studi di confine”. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, la retorica della globalizzazione, legata all’idea di “economia interconnessa” e affermatasi in concomitanza con eventi storici dal forte impatto evocativo come la caduta del muro di Berlino e la creazione dell’area Schengen, prefigurava un “mondo senza confini” in cui nazioni e frontiere sarebbero diventate assolutamente irrilevanti19. L’utopia capitalista di un mondo “liscio” e privo di barriere20 si è, però, ben presto scontrata con la consapevolezza di trovarsi di fronte a uno scenario globale sempre più caratterizzato da un processo di moltiplicazione ed eterogeneizzazione dei confini, sia materiali che simbolici, “interni” ed “esterni”. 146

È in questo contesto che i border studies hanno conosciuto una vera e propria “rinascita”, caratterizzata da una svolta processuale, riflessiva e critica21. Per lungo tempo, gli studi di confine sono stati circoscritti all’ambito disciplinare della geografia e limitati quasi esclusivamente all’analisi descrittiva delle frontiere territoriali, “date per scontate”, naturalizzate. Solo a partire dalla fine degli anni Ottanta, sulla scia di alcuni studi pionieristici22, altri orientamenti e discipline (l’antropologia, la sociologia, la geografia critica, etc.) hanno iniziato a interessarsi all’argomento, mettendo radicalmente in discussione la concezione del confine come entità fissa, come linea di demarcazione territoriale. In tal senso, la nozione di confine è stata progressivamente ampliata e problematizzata: i confini vengono ora interpretati come processi discorsivi, politici e socio-culturali, realtà dense, complesse, multiformi. Sono emersi dunque approcci alternativi per pensare le frontiere, fondati sull’elaborazione di inedite agende programmatiche e nuovi strumenti concettuali che hanno segnato alcune tappe essenziali nell’evoluzione recente dei border studies. Negli anni Novanta, ad esempio, il passaggio dal concetto di border a quello di bordering è stato di cruciale importanza in quanto ha consentito che i confini fossero intesi non come entità statiche ma come processi in fieri e pratiche sociali di differenziazione spaziale che vanno “oltre la linea” di divisione territoriale tra stati-nazione. Oggi i confini non sono più esclusivamente margini territoriali ma sono “istituzioni sociali complesse”, dispositivi di controllo della mobilità, di filtro e di gerarchizzazione che si trovano ormai ovunque, disseminati nella società. Il concetto di bordering ha permesso, inoltre, di mettere l’accento sull’azione dinamica e produttiva del confine che si riconnette all’attività di ordering e othering23. In questa prospettiva, il confine si configura come un prodotto storico, politico, socio-culturale ma, al contempo, ha una funzione produttiva in quanto “costruisce” ordine e identità/alterità, operando una distinzione tra dentro/fuori e tra noi/loro. Tale dicotomia non è, però, rigida, fissa: il confine è un dispositivo molto più raffinato e flessibile, si apre (debordering) o si chiude (rebordering) a seconda dei casi e dei soggetti secondo una logica non di semplice esclusione ma di “inclusione differenziale”24. In tal senso, il bordering si presenta come una pratica dinamica, mobile, selettiva, mirata25. Anche la nozione di borderland, nata sulla frontiera tra Messico 147

e Stati Uniti con l’opera fondativa di Gloria Anzaldúa (1987), mette in discussione la distinzione dicotomica tra “interno” ed “esterno”, avanzando una teoria del confine come uno spazio in cui si può formare una cultura ibrida, un’identità mestiza, una “doppia coscienza”. La frontiera appare così come un sito di confluenze dove può nascere “un terzo paese – una cultura di confine” ma è anche “una ferita aperta”26, un luogo di contraddizioni e ingiustizia in cui è difficile vivere. Il concetto di borderland si è prestato a derive estetizzanti ma ha il merito di aver messo in risalto l’eterogeneità dei confini (Anzaldúa parla di frontiere fisiche, cognitive, sessuali, culturali, simboliche, etc.), la dimensione interculturale e intersezionale dell’esperienza della frontiera così come la sua natura bifronte, ambivalente, conflittuale: le terre di confine sono un laboratorio di scontro e convivenza, di connessione e divisione. Il concetto di borderland può essere, inoltre, utilizzato per porre l’accento sulla dialettica, nella stessa esperienza dei migranti, tra border crossing e border enforcing, tra meccanismi di controllo e pratiche soggettive di resistenza27. La nozione di borderscape, invece è apparsa in tempi più recenti nel solco delle numerose riflessioni scaturite in seguito alla pubblicazione del fortunato e influente libro “Modernità in polvere”28 in cui l’antropologo Arjun Appadurai teorizza la forma fluida e multiforme dei paesaggi della globalizzazione. In tale direzione, il concetto di borderscape, utilizzato per la prima volta dai due artisti chicanos Guillermo Gomez-Peña e Roberto Sifuentes29, sottolinea la dimensione plurale dell’esperienza e della rappresentazione del confine che non riguarda unicamente i processi geopolitici, ma coinvolge anche l’immaginario e la vita quotidiana delle persone. Il borderscape esprime la complessità spaziale e concettuale del confine come spazio fluido e stratificato, attraversato da una pluralità di corpi, discorsi, pratiche e relazioni.30. I confini sono, così, luoghi di incontro, scontro, negoziazione in cui coesistono narrazioni e vissuti diversi. È necessario, dunque, prestare attenzione ai molteplici modi di pensare e vivere la frontiera. In tale prospettiva, il borderscape offre l’opportunità di un’analisi critica a diversi livelli. Come scrive Brambilla31 infatti: Il concetto implica dapprima una riflessione sulla dimensione normativa del confine, vale a dire una valutazione critica delle premesse e degli argomenti etici, legali ed empirici che sono recati a giustificazione dei regimi cognitivi ed esperienziali sui quali le politiche frontaliere sono articolate (ciò

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che possiamo chiamare borderscapes egemonici). D’altro canto, il concetto di borderscape implica la considerazione del fatto che i confini sono anche abitati da lotte che consistono in strategie molteplici di resistenza contro i discorsi egemonici e le pratiche di controllo attraverso cui tali discorsi sono esercitati (ciò che possiamo chiamare borderscapes contro-egemonici).

La capacità della nozione di borderscape di tenere insieme esperienza e rappresentazione, livello macro e livello micro, dimensione spaziale e temporale, permette di sviluppare un approccio critico ai confini che è al contempo politico, performativo e partecipativo32. Politico in quanto, come scrivono Mezzadra e Neilson, “mobilitare il concetto di paesaggio di confine ci consente di evidenziare la determinazione conflittuale dei confini, la tensione e le lotte che giocano un ruolo decisivo nella loro costituzione”33. Tali lotte di confine (border struggles) producono soggettività inedite e aprono un “nuovo continente di possibilità politiche”34 da esplorare e mettere in risonanza con altri contesti e altre forme di mobilitazione. Performativo in quanto, da un lato, denaturalizza il confine, mettendo in evidenza come esso sia il prodotto di una relazione di potere continuamente rinegoziata e messa in scena. Dall’altro, in una prospettiva che combina politica ed estetica, la nozione di borderscape è stata utilizzata da attivisti, artisti e ricercatori per produrre scenari di frontiera alternativi. Partecipativo in quanto si propone di dar voce e visibilità alle esperienze di frontiera “vissute dal basso”. Tale approccio, che si avvale molto spesso di metodologie di tipo etnografico, permette di “umanizzare” i confini, dando spazio alla loro complessa dimensione fenomenologica. 2.2. In-Between: il “confine come metodo” tra attivismo, arte e ricerca Come abbiamo visto, il confine è un’istituzione di potere complessa e multiforme attorno alla quale si articolano dinamiche fondamentali della contemporaneità. Esso si configura, però, anche come un dispositivo epistemologico e cognitivo, che, in una prospettiva storica, ha svolto una funzione centrale nella fabbricazione del mondo moderno. Il confine, dunque, ha prodotto – e continua a produrre – sapere. Nel solco delle riflessioni elaborate da importanti studiosi come Foucault e Said, la “critica postcoloniale” ha messo in 149

evidenza l’intima relazione tra sapere e potere, il legame intrinseco tra produzione della conoscenza e logiche di dominio: la produzione di sapere non può mai essere avulsa dal contesto, ma è profondamente incastonata nelle relazioni di potere che caratterizzano una determinata congiuntura storica35 . Come evidenzia la critical cartography (che deve molto ai postcolonial studies), tracciare confini – materiali o simbolici – non è mai stato, dunque, un atto innocente. In quest’ottica, la mappa, lungi dall’essere una rappresentazione neutrale e scientifica della realtà, è l’espressione di un modo particolare e parziale di vedere e suddividere il mondo, è una costruzione sociale dietro alla quale si cela un progetto geopolitico36. In tal senso, vi è una stretta connessione tra la nascita della cartografia, il colonialismo europeo e il processo di accumulazione originaria che sta alla base del capitalismo moderno37. Anche dal punto di vista simbolico, il confine gioca un ruolo fondamentale in quanto contribuisce a creare un sistema-mondo costruito attorno a una serie di categorie dicotomiche (noi/loro, modernità/tradizione, Nord/Sud, etc) che confluiscono in una gerarchia razziale, geopolitica, economica, epistemologica. In tal modo, si va a consolidare e naturalizzare un quadro di potere e dominazione in cui l’Europa è posta al centro del mondo, come modello universale e unico, mentre gli altri continenti e popoli sono sottoposti a un processo di marginalizzazione, inferiorizzazione strutturale e “violenza epistemica”38. Il sapere moderno, su cui poggia il progetto coloniale, è così eurocentrico, territoriale e imperiale e si organizza attorno a un particolare soggetto (l’uomo bianco europeo) il cui punto di vista, però, viene fatto passare per universale e neutro. La modernità europea, al di là delle retoriche celebrative che la accompagnano, si configura come un progetto, funzionale agli interessi del capitale, di gerarchizzazione di saperi e corpi attraverso l’istituzione di molteplici frontiere geografiche, politiche, simboliche ed epistemiche. Il confine è, dunque, un prodotto della modernità ma, al tempo stesso, la produce in quanto opera come uno strumento di appropriazione e “invenzione” della realtà secondo “canoni moderni”. Il confine è, così, un dispositivo egemonico di sapere/potere ma, tenuto conto della sua polisemia e ambiguità semantica, può essere visto anche come un punto di partenza per elaborare discorsi alternativi e contro-egemonici. In risposta alla violenza dell’epistemologia moderna, Mignolo39, ad esempio, ha elaborato un “pensiero del 150

confine” concepito come un’opzione epistemica decoloniale e critica, contraddistinta da una radicale pluriversalità (che si contrappone all’universalità del pensiero moderno). Il pensiero del confine emerge dal basso, dall’esperienza di “doppia coscienza”40 e di lotta delle persone che sono state costruite, classificate e gerarchizzate dallo sguardo imperiale/coloniale/nazionale. In tale prospettiva, il confine si presenta come un in-between41, uno spazio liminare di contestazione e di resistenza, in grado di produrre narrazioni alternative ai discorsi ufficiali e istituzionali, dando voce alle soggettività “altre”. Da questa visuale, il confine può essere interpretato come un importante strumento epistemico in vista di un progetto di decolonizzazione della conoscenza e di superamento del nazionalismo metodologico42. “Vedere come il confine” (seeing like a border) significa sviluppare uno sguardo obliquo e critico in grado di decentrare la modernità occidentale e il corollario concettuale ad esso collegata. Partendo da queste riflessioni, Mezzadra e Neilson43 hanno proposto di considerare il confine non solo come un oggetto di studio ma come uno strumento metodologico che consente di portare avanti un’analisi critica dei processi di produzione e rappresentazione, strettamente legati a vecchie e nuove forme di dominio e sfruttamento. In tale direzione, la prospettiva del “confine come metodo” coniuga ricerca e militanza e presenta una forte connotazione politica in quanto ha l’ambizione non solo di dar voce alle “lotte di confine” ma anche di elaborare nuove strategie transnazionali, capaci di “tradurre il comune”, connettendo diverse forme di mobilitazione44. La prospettiva del “confine come metodo” si situa all’intersezione tra accademia e attivismo ma interessa anche il mondo dell’arte45: a partire dagli anni Ottanta, in primis nel borderland tra Usa e Messico, attorno ai territori (fisici e concettuali) della frontiera, si è sviluppata una ricca produzione artistica, culturale e visuale, in grado di mettere in luce la complessità e la plurivocità di questi luoghi46. La border art si configura come un corpus di narrazioni e rappresentazioni “alternative”, fondamentali per elaborare una lettura critica del confine. Essa, inoltre, si rivela spesso come una forma di resistenza creativa, di “artivismo” (attivismo attraverso l’arte) che sfida le narrative dominanti, mettendo in discussione l’ordine delle cose47. In un processo à rebours, la border art disfa i confini (dis-bordering), la loro rappresentazione lineare, “naturalizzata” e pacificata e ne fa emergere, per contro, la complessità, l’arbitrarietà, la conflittualità. 151

In questa prospettiva, la frontiera è un luogo complicato, ingiusto, violento ma è anche uno sito liminare di creatività e ripensamento critico, dotato di una sua “poetica”48. Gli artisti sono attori importanti negli scenari di frontiera in quanto, combinando estetica e politica, producono cartografie e spazi “altri”, aprono nuovi orizzonti e immaginari, danno vita a contro-narrazioni e contro-visualità, in opposizione al borderscape egemonico.

3. Performing border: rappresentazioni egemoniche e resistenze creative nello scenario ispano-marocchino “È probabile, allora, che non esista una frontiera europea così significativa come quella che divide Spagna e Marocco, dove le due sponde tra Europa e Africa quasi si toccano come poli di enormi calamite” S. Simoncini “We know that no one can close a border... The holes are everywere” Y. Barrada

3.1 Lo spettacolo della “Fortezza Europa” Come già accennato, la frontiera tra Messico e Stati Uniti ha rappresentato un punto di osservazione privilegiato e un borderscape paradigmatico per l’arte e gli studi critici di confine. Cionondimeno, la proliferazione dei border studies ha portato gli studiosi e gli artisti a confrontarsi con molteplici scenari di frontiera. In tale prospettiva, l’Europa si è rivelata un terreno particolarmente fecondo per riflettere sulla natura cangiante, complessa e conflittuale dei confini. Già in partenza, infatti, l’assetto postnazionale dell’Unione Europea mette in crisi il concetto vestfaliano classico di confine, caratterizzato da una netta distinzione tra interno ed esterno e dal monopolio dello Stato-nazione nella gestione delle frontiere. Il progetto UE si contraddistingue per una radicale ridefinizione dei confini fondata su due istanze apparentemente contraddittorie, in realtà complementari: l’abolizione dei controlli alle frontiere interne, da un lato, e la 152

creazione di una frontiera esterna comune, dall’altro. In quest’ottica, la nascita di uno spazio di libera circolazione deve essere associata a una strategia integrata di gestione e controllo dei confini esterni, per “garantire la libertà e la sicurezza dei cittadini europei”. Questo progetto ha avuto nella firma degli Accordi di Schengen (1985) il punto di partenza fondamentale e nella nascita di Frontex (2005) una tappa essenziale49. Per funzionare, tale regime necessita di molteplici e sofisticate strategie e tattiche di bordering basate su una complessa dialettica tra apertura e chiusura, fortificazione e flessibilità che tenta di conciliare, inoltre, le esigenze del capitale di espandere liberamente le proprie frontiere e le logiche securitarie post 11 settembre che premono per creare nuovi confini e rafforzare quelli già esistenti. Il confine euroafricano tra Spagna e Marocco si profila come un emblematico esempio dell’attuale processo di fronterizzazione europea50: non a caso, le imponenti barriere (vallas) costruite attorno alle due enclaves spagnole di Ceuta e Melilla sono diventate ben presto il simbolo della “Fortezza Europa”. Lo spettacolo “scenografico” della frontiera, infatti, si dispiega qui in tutta la sua potenza visiva ed evocativa. La militarizzazione del confine tra Europa e Africa risponde a un immaginario securitario costruito attorno al tema dell’invasione che genera paura e panico morale. Il regime confinario della UE comporta, dunque, una profonda riconfigurazione dello spazio frontaliero locale e dà luogo a un’immagine ben precisa, esemplificata perfettamente dalle vallas: una comunità assediata che, per garantire “libertà, giustizia e sicurezza” ai propri membri, deve essere protetta dai pericoli esterni che prendono le sembianze di soggetti “altri”. La rifronterizzazione euro-africana del confine ispano-marocchino ha, così, tracciato in questo borderscape nuovi elementi di discontinuità, atti a sottolineare materialmente e metaforicamente la differenza tra “noi” e “loro”. In questa prospettiva, la frontera sur si configura come una performance simbolica che rimarca i limiti dell’identità socio-spaziale secondo una logica binaria e gerarchica. La “comunità immaginata” europea ha, dunque, bisogno dell’“Altro” per differenziarsi, per costruire e delimitare la propria identità, il proprio spazio. La frontera sur si presta perfettamente allo scopo in quanto, come abbiamo accennato, sin dall’inizio dell’era moderna, costituisce un luogo emblematico di incontro/scontro tra “Europa” e “Africa”, “Islam” e “Cristianità”, “Nord” e “Sud”, etc. Essa si presenta, così, come una “fabbrica di alterità”51 attraverso cui si forma 153

l’identità collettiva della Spagna (≠ i mori) e dell’Europa (≠ Africa e mondo musulmano). La militarizzazione della frontera sur, che ricava legittimazione dalle retoriche securitarie connesse alla “guerra globale al terrorismo”, inoltre, ha riattivato e attualizzato un repertorio sedimentato di stereotipi negativi sull’Islam e il mondo arabo52. Un esempio recente: dopo gli attacchi terroristici a Barcellona (agosto 2017), attribuiti a un gruppo di giovani spagnoli di origine marocchina, una nuova ondata di islamofobia ha investito la Spagna e l’Europa: al grido di “fuera moros” (fuori gli arabi), un ritrovato spirito crociato percorre il continente, attingendo all’immaginario della Reconquista e rivendicando la fortificazione e la chiusura delle frontiere (fisiche, identitarie, simboliche). La metafora della “Fortezza Europa” presenta indubbiamente delle criticità in quanto si limita a evidenziare lo “spettacolo dell’esclusione” ma ignora quasi totalmente l’“osceno dell’inclusione”53. Ciononostante, rimane una rappresentazione potente che trova nelle barriere di Ceuta e Melilla la sua perfetta materializzazione iconografica. Le immagini delle vallas hanno assunto, infatti, una dimensione paradigmatica e vengono spesso utilizzate – anche in maniera totalmente decontestualizzata – per illustrare (in positivo o in negativo) il regime confinario europeo. A tal proposito, c’è un’immagine iconica che ha fatto il giro del mondo, scattata a Melilla dall’attivista e fotoreporter spagnolo José Palazon: la fotografia ritrae un verde e ordinato campo da golf all’interno del quale si muovono due figure vestite di bianco. Sullo fondo, si stagliano le alte barriere dell’enclave su cui è abbarbicato un gruppo di migranti subsahariani, nella speranza di “passare dall’altra parte”. Il contrasto è talmente stridente che di primo acchito l’immagine sembra un fotomontaggio. La fotografia è, però, autentica ed emblematica in quanto rispecchia la realtà e condensa in un solo scatto tutto ciò che abbiamo detto all’inizio riguardo i confini e la mobilità come fattore di stratificazione e gerarchizzazione sociale. Secondo le intenzioni dell’autore, l’immagine, infatti, rappresenta magistralmente l’ingiusto assetto del mondo, l’assurdo squilibrio di un’umanità divisa, ma racconta anche un’altra storia e mostra un tentativo di sovversione di quest’ordine: i ragazzi aggrappati alle recinzioni sono un simbolo di ribellione, protesta, lotta. La loro pervicace ostinazione nel “volere saltare la frontiera”, nonostante molto spesso il tentativo sia destinato a fallire è, infatti, una manifestazione “spon154

tanea” ma potente del rifiuto di accettare passivamente un sistema ingiusto e della volontà di esercitare la propria autonomia e libertà. La fotografia, però, non ci dice nient’altro di queste persone, che rimangono sullo sfondo, corpi sfocati, figure lontane. Riproponendo, anche se con intento critico, l’iconografia della Fortezza, in un certo senso la avvalla e ribadisce la distanza tra “noi” e “loro”. 3.2 Tra estetica e politica: contro-narrazioni e contro-visualità della frontera sur Come scrive Chiara Giubilaro la “nostra relazione con quel che sta accadendo alle frontiere meridionali d’Europa è costantemente mediata da pratiche visuali di vario genere: singoli scatti, fotoreportage, filmati, documentari, progetti artistici”54. Nello scenario ispano-marocchino, tali pratiche si concentrano quasi esclusivamente sulle barriere di Ceuta e Melilla e/o su ciò che si situa nelle vicinanze (le “giungle” nelle montagne circonstanti in cui si rifugiano i migranti in attesa di “saltare la frontiera”), come se fossero le uniche manifestazioni del confine. La riproposizione pervasiva e quasi ossessiva delle immagini della vallas, le mura della “Fortezza”, ha colonizzato l’immaginario. Ci sono, però, altri modi per narrare e rappresentare la frontera sur in grado di coglierne maggiormente la complessità, la polisemia. Ursula Biemann è un’artista di origine svizzera, ideatrice e curatrice di un ambizioso progetto di arte e ricerca, in cui esplora lo spazio migratorio tra Africa subsahariana e Nordafrica. “The Maghreb Connection” è un progetto collaborativo e itinerante che ha coinvolto diversi attori (artisti, curatori, accademici, operatori, migranti, etc), luoghi (Marocco, Senegal, Mali, Niger, Mauritania, etc) forme espressive (video, fotografie, installazioni, performance, etc)55. L’opera ha seguito le rotte dei migranti e ha dato vita a una “contro-geografia”, in cui lo spazio di frontiera diventa una realtà fluida e translocale56. La mappatura di questo scenario si trasforma così in uno strumento di critica, creatività, contestazione57. The “Maghreb Connection” allarga i confini del campo visivo, apre nuovi orizzonti, mettendo in evidenza la mobilità e la performatività della frontiera. La schengenizzazione del confine ispano-marocchino e la sua conversione in frontiera euro-africana hanno comportato, infatti, un duplice movimento in apparenza contradditorio, di fatto com155

plementare: da un lato, come abbiamo già detto, l’irrigidimento e la fortificazione della frontiera che si caratterizza per la presenza di barriere, dotate di una materialità e di una visibilità imponenti; dall’altro, la sua prismatica scomposizione, la sua liquefazione. Da questo punto di vista, la frontera sur non è più semplicemente una linea di demarcazione territoriale, ancorata a precise coordinate spaziali, ma si muove, si moltiplica, si estende in maniera fluida e reticolare sul territorio, sia quello europeo sia quello dei paesi vicini, spingendosi sempre più a sud e configurando un regime di governance complesso, flessibile, pervasivo58. In questo paesaggio di potere, i migranti non sono però attori passivi ma si ritagliano spazi di resistenza, ridisegnano il borderscape con i loro movimenti, danno luogo a una narrazione alternativa rispetto alle retoriche dominanti e ufficiali. La serie video “Sahara Chronicle”, parte di “The Maghreb Connection”, riporta il loro punto di vista, ne ripercorre le traiettorie, dà loro voce59. Le esperienze e i racconti dei migranti durante il loro “viaggio frammentato”60 vanno, così, a costituire un archivio alternativo, delineano un’altra cartografia. La frontera sur non è, dunque, solamente un apparato egemonico di sapere/potere ma è un borderland conflittuale, contraddistinto da una tensione costitutiva tra controllo e libertà, dominio e sovversione, uno spazio attraversato da molteplici lotte di confine (border struggles) in cui i meccanismi di controllo si scontrano con varie forme di resistenza, più o meno strutturate, che si ribellano all’“imbrigliamento” della mobilità. Se Ursula Biemann esplora la dimensione estesa del confine euroafricano nelle sue molteplici connessioni transnazionali, l’artista franco-maghrebina e attivista culturale Yto Barrada si concentra invece sullo spazio urbano di Tangeri, città di frontiera, sospesa tra Atlantico e Mediterraneo, Europa e Africa61. Nel progetto “A Life Full of Holes, The Strait Project” – un assemblage di video, fotografie e installazioni – Barrada rappresenta la vita quotidiana di Tangeri come un limboscape, in cui capita spesso di bere il tè “guardando l’Europa” che dista solo 14 chilometri ma che, dopo Schengen, è per molti irraggiungibile, come un miraggio evanescente. Questo paesaggio dell’attesa, nel quale la maggior parte dei marocchini è intrappolata, stride con la frenesia con cui i turisti occidentali sbarcano dai numerosi traghetti o navi da crociera che solcano lo Stretto di Giblterra, per visitare velocemente la città per poi ripartire in fretta 156

e furia. “Turisti” vs “vagabondi”. Tramite metafore allusive e associazioni visive, senza mai ricorrere a immagini “scontate”, Barrada mette in risalto, in modo critico e poetico, il carattere metonimico e paradigmatico dello Stretto62: si tratta di uno spazio – al contempo geopolitico, fisico, immaginario, intimo – connotato da una profonda e ingiusta asimmetria in termini di mobilità, potere, libertà. Come afferma Barrada, nella presentazione del progetto: “Even in its collapse, the colonial dream has left us the heritage of an iniquitous regime of managing and perceiving the mobility between the North and the South of the Mediterranean. In this bottleneck known as the Strait of Gibraltar, visiting rights are now unilateral”. Per quanto i dispositivi di governo e controllo possano essere raffinati e pervasivi, però, un confine non può essere mai completamente chiuso, è “pieno di buchi” come la vita di chi aspetta: nell’opera di Barrada emerge infatti anche ciò che ella definisce la “ostinata urgenza di partire” che permea l’atmosfera odierna della città, spingendo molti a “bruciare la frontiera”. Le conseguenze di questo atto sono spesso drammatiche, ma la volontà di trasgredire l’ordine iniquo delle cose è comunque una manifestazione potente di dissenso e ribellione63. La frontera sur non è, dunque, solo un paesaggio di potere, un emblema paradigmatico della “Fortezza Europa”, ma è anche un territorio-laboratorio di pratiche politiche ed estetiche di resistenza e creatività che danno vita a contro-rappresentazioni e contro-spazi in cui si mettono in discussione le retoriche ufficiali della frontiera e si producono narrazioni alternative. Al borderscape egemonico si contrappone e sovrappone, così, un borderscape contro-egemonico, che si presenta come un fronte dinamico ed eterogeneo di pratiche di ricerca ed espressione artistica, di attivismo politico, di varie forme di resistenza e solidarietà.

NOTE 1 Susanne Witzgall, Gerlinde Vogl, Sven Kesserling, New Mobilities Regimes in Art and Social Sciences, Ashgate, Farham, 2013. 2 Mimi Sheller, John Urry, The new mobilities paradigm, in «Environ-

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ment and Planning A», n. 38(2), pp.207-226, 2006. 3 Ulrich Beck, Disuguaglianza senza confini, Laterza, Roma-Bari, 2011. 4 Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma, 2001. Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma-Bari, 2001. Ulf Hannerz, Transnational Connections. Culture, People, Places, Routledge, London-New York, 1996. Saskia Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino, 2008. 5 Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, op.cit. 6 Ovviamente, la polarizzazione non è così netta, vi sono vari gradi di libertà di movimento in cui si intersecano diverse dimensioni (classe, genere, razza). 7 Ivi, p. 112. 8 Alessandro De Giorgi, Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, Ombre Corte, Verona, 2002. 9 Loïc Wacquant, Punire i poveri, DeriveApprodi, Roma, 2006. 10 Giuseppe Campesi, Polizia della frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo, Deriveapprodi, Roma, 2015. 11 Mezzadra e Neilson (2014:31-32) distinguono nettamente tra la nozione di confine e il concetto frontiera: il confine è una linea che divide il territorio in unità politiche e territoriali chiuse, mentre la frontiera è uno spazio aperto, un fronte mobile in continua espansione (basti pensare alla frontiera americana). In questa sede, pur essendo consapevole delle diverse sfumature di significato dei due termini, si è deciso di utilizzarli come sinonimi in quanto, come evidenzia Campesi e come paradossalmente mostra la riflessione stessa dei due autori sopracitati, questa distinzione sembra dissolversi visto che la funzione del confine non è più solo quella di identificare distinte comunità politiche. Il confine si presenta oggi come un’istituzione mobile e flessibile che funziona come uno strumento di segmentazione e stratificazione sociale che “passa attraverso il controllo e la distribuzione di differenti credenziali di mobilità” (Campesi 2015:9-10). 12 Saskia Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino, 2008. 13 Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna, 2014. 14 Ibidem. 15 Ivi, p.35. 16 Etienne Balibar, Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo Stato, il popolo, Manifestolibri, Roma, 2004. 17 Le mie riflessioni scaturiscono da una ricerca etnografica di carattere

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esplorativo da me condotta tra l’agosto e il settembre 2017 nelle zone di frontiera tra Spagna e Marocco. 18 Come mette in evidenza Sidaway (2015:218) nemmeno le due voluminose raccolte recentemente pubblicate, “The Ashgate Research Companion to Border Studies” (2011) e “A Companion to Border Studies” (2012) riescono nell’impresa di “coprire” il campo dei border studies nella sua interezza. 19 Kenichi Ohmae, The Borderless World. Power and Strategy in the Interlinked Economy, Harper Business, New York, 1990. 20 Michael Hardt e Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002. 21 Chiara Brambilla, Exploring the Critical Potential of the Borderscapes Concept, in «Geopolitics», n. 20(1), pp. 14-34, 2015. David Newman, Contemporary Research Agendas in Border Studies: An Overview in Doris Wastl-Walter (a cura di), The Ashgate Research Companion to Border Studies, Ashgate, Adelshot, 2011.Noel Parker, Nick Vaughan-Williams et al., Lines in the Sand: Towards an Agenda for Critical Border Studies, in «Geopolitics», n. 14(3), pp. 582-587, 2009. 22 Fredrik Barth, Ethnic Groups and Boundaries. The Social Organization of Cultural Difference, Universitetsvorlaget, Oslo, 1969. 23 Henk Van Houtum e Ton Van Naersen, Bordering, Ordering and Othering, in «Tijdschrift voor Economische en Sociale Geografie», n. 93(2), pp. 125-136, 2002. 24 Sandro Mezzadra, e Brett Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, Bologna, 2014. 25 Chris Rumford, Theorizing Borders, in «European Journal of Social Theory», n. 9(2), pp.155-169, 2006. 26 Gloria Anzaldúa, Borderlands/La frontera, Aunt Lute, San Francisco, 1987. 27 Sandro Mezzadra, Diritto di Fuga. Migrazioni, Cittadinanza, Globalizzazione, Ombre Corte, Verona, 2001. 28 A. Appadurai, Modernità in polvere, op.cit. 29 Elena dell’Agnese e Anne-Laure Amilhat Szary (2015), Borderscapes: From Border Landscapes to Border Aesthetics, in «Gepolitics», n. 20(1), pp. 4-13, 2015. 30 Chiara Brambilla, Exploring the Critical Potential of the Borderscapes Concept, in «Geopolitics», 20(1), pp. 14-34, 2015. 31 Chiara Brambilla, Il confine come borderscape, in “Rivista di Storia delle Idee”, 4,2, 2015, pp. 5-9.

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32 Ivi, p. 8 33 Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Confini e frontiere, op. cit. 34 Ibidem. 35 Michel Foucault, La volonté de savoir, Gallimard, Paris, 1976.Stuart Hall, Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali, Meltemi, Roma, 2006. Ania Loomba, Colonialismo/postcolonialismo, Meltemi, Roma, 2000. Edward Said, Orientalism, Pantheon, New York, 1978. 36 Denis Wood e John Krigier (2009), Critical cartography in Rob Kitchin e Nigel Thrift (a cura di), International Encyclopedia of Human Geography, Elsevier, Amsterdam, 2009. 37 Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Confini e frontiere, op.cit., p. 51. 38 Frantz Fanon, Les damnés de la terre, Maspéro, Paris, 1961.Gayatri Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma, 2004. 39 Walter Mignolo, Theorizing from the Borders. Shiftingto Geo- and Body-Politics of Knowledge, in «European Journal of Social Theory», n. 9(2), pp. 205-221, 2006. 40 Paul Gilroy, The Black Atlantic: Modernity and Double Consciousness, Harvard University, Cambridge, 1993. 41 Homi Bhabha, The Location of Culture, Routledge, London, 1994. 42 Ramon Grosfoguel, Rompere la colonialità. Razzismo, islamofobia, migrazioni nella prospettiva decoloniale, Mimesis, Milano, 2017. 43 Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Confini e frontiere, op. cit. 44 Nicholas De Genova, ‘We are of the Connections’: Migration, Methodological Nationalism, and ‘Militant Research’, in «Postcolonial Studies», n. 16(3), pp. 250-258, 2013. 45 Segnalo due interessanti progetti (uno francese, l’altro italiano) che intrecciano, in modo innovativo, ricerca, arte e attivismo in riferimento al tema della frontiera: l”antiAtlas des Frontières” (http://www.antiatlas.net/ antiatlas-of-borders/) e “Smurare il Mediterraneo” (https://smuraremediterraneo.wordpress.com/). 46 Anne-Laure Amilhat Szary, Walls and Border Art: The Politics of Art Display, in «Journal of Borderland Studies», n. 27(2), pp. 213-228, 2012. Christina Aushana, Transborder Art Activism and the U.S.-Mexico Border: Analyzing as Forms of Resistance and Cultural Production in the Frame of Globalization, in «The International Journal of Interdisciplinary Social Sciences», n. 6(7), pp. 127-141, 2012.Ila Nicole Sheren, Portable Borders: Performance Art and Politics on the U.S. Frontera since 1984, University of Texas Press, Austin, 2015.

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47 Cristina Giudice e Chiara Giubilaro, Re-Imagining the Border: Border Art as a Space of Critical Imagination and Creative Resistance in “Gepolitics”, n. 20(1), pp. 79-94, 2015. 48 Johan Schimanski e Stephen Wolfe, Cultural Production and Negotiation of Borders: Introduction to the Dossier, in «Journal of Borderlands Studies», n. 25(1), pp. 38-49, 2010. 49 Giuseppe Campesi, Polizia della frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo, Deriveapprodi, Roma, 2015. 50 Xavier Ferrer-Gallardo, The Spanish-Moroccan Border Complex: Processes of Geopolitical, Functional and Symbolic Rebordering, in «Political Geography», n. 27(3), pp. 301-321, 2008. 51 Ivi, p. 315 52 Hicham Aidi, The Interference of Al-Andalus. Spain, Islam and the West, in «Social Text 87», n. 4(2), pp. 67-88, 2006. 53 Nicholas De Genova, Spectacles of Migrant ‘Illegality’: the Scene of Exclusion, the Obscene of Inclusion, in «Ethnic and Racial Studies», n. 36(7), pp. 1180-1198, 2013. 54 Chiara Giubilaro, Shooting borders: per una geografia visuale delle migrazioni, in «Rivista Geografica Italiana», n. CXXXIV(4), pp. 315-336, 2017. 55 Ursula Biemann e Brian Holmes (a cura di), The Maghreb Connection: Movements of Life Across North Africa, Actar, Barcelona, 2006. T.J. Demos, The Migrant Image: The Art and Politics of Documentary during Global Crisis, Duke Press, Durham, 2013. 56 Keina Raquel Espiñeira Gonzales, Paisajes migrantes en la frontera estirada: la condición postcolonial de la frontera hispano-marroquí, Ph.D. Thesis, Universidad Complutense de Madrid, 2016, p. 234. 57 Sarah Mekdjan, Mapping Mobile Borders: Critical Cartographies of Borders Based on Migrations Experiences, in Anne-Laure Amilhat Szary e Frédéric Giraut (a cura di), Borderities and the Politics of Contemporary Mobile Borders, Palgrave McMillan, Basingstoke, 2015. 58 Ruben Andersson, Illegality, Inc. Clandestine Migration and the Business of Bordering Europe, University of California Press, Los Angeles, 2014. 59 Ursula Biemann, Dispersing the Viewpoint: Sahara Chronicle, in «Critical Interventions: Journal of African Art History and Visual Culture», n. 3(1), pp. 12-30, 2009. 60 Michael Collyer, In-Between Places: Trans-Saharan Transit Migrants in Morocco and the Fragmented Journey to Europe, in “Antipode. A Radical

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journal of Geography”, 39(4), pp. 668–690, 2007. 61 Nancy Demerdash, Bordering Nowhere: Migration and the Politics of Placelessness in Contemporary Art of the Maghrebi Diaspora, in «The Journal of North African Studies», n. 21(2), pp. 258-272, 2016. 62 Alice Buoli, BorderScaping. An Explorative Study on the North Moroccan/Spanish Border Landscapes, Ph.D thesis, Politecnico di Milano, 2015. 63 Évelyne Toussaint, Yto Barrada: figures de résistance à la domestication de l’espace, in «Itinéraires», n. 3, pp. 57-67, 2013.

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UNA QUESTIONE DI DECORO TERRITORIALIZZAZIONI DEL CONTROLLO E PRATICHE DI RESISTENZA NELLE ARTI DI STRADA Fabio Bertoni 1. Introduzione Il concetto di decoro è diventato centrale negli ultimi anni nei processi urbani e la sua “fortuna” sembra non terminare. Esso attraversa retoriche politiche e linguaggio giornalistico, ispira dapprima ordinanze sindacali e ultimamente decreti ministeriali ed entra nella quotidianità, plasmando nuove insicurezze e dando nuova veste a vecchie preoccupazioni, alle quali vengono fatte corrispondere richieste di controllo, sorveglianza e intervento. In questo contributo, procederò a tracciare brevemente una fenomenologia del concetto al fine di offrire, nel primo paragrafo, una lettura interpretativa. In seguito, proverò a rintracciare, partendo dalla sua applicazione su un caso al tempo stesso anomalo e paradigmatico come quello delle arti di strada, i dispositivi di funzionamento e, nel paragrafo successivo, le forme di resistenza che ad esso si oppongono. In particolare, cercherò di approfondire il rapporto, considerato qui centrale, tra decoro, territorio e sensorialità. Il concetto di decoro prende forma attraverso la contemporanea costruzione e contrapposizione al suo opposto, il degrado. Il decoro si configura come significante vuoto, costituito in un processo di nominazione, attraverso il quale si produce come unitario, a partire da elementi dissimili che lo compongono1: il decoro è un fenomeno performativo che continuamente rimanda alla produzione incessante della sua alterità. Emergendo come una rappresentazione completa, apparentemente a sé stante, la connessione con il suo concetto altro viene nascosta e negata la comune produzione. Nella costruzione definitoria del degrado, attraverso la quale viene data forma al suo contrario, rientra una vasta e variegata schiera di soggetti, identificati e connessi con contesti considerati “immorali”, quali l’alcoolismo, il consumo di sostanze, le culture giovanili e urbane (a partire da ultrà, writer e punk, giusto per citarne alcune), 163

la sottrazione al lavoro e i mondi del lavoro informale, il cosiddetto “disagio psichico”, i “disturbi dell’atteggiamento” e, più in generale, la malattia, il sex working, l’accattonaggio e il vivere senza fissa dimora o senza una dimora “usuale”, l’antagonismo politico, la movida, le feste e le diverse forme di socialità… L’elenco non intende essere conclusivo, non solo perché le attuali configurazioni del campo del degrado non si sono qui limitate, ma perché la produzione della definizione è in corso, attraverso una continua espansione. Questa serie di casi, ci permette di rintracciare come il decoro non sia una produzione del tutto originale, ma in un certo senso è una nuova veste per processi di più lunga formazione. Da un lato, è sovrapponibile al concetto classico di devianza. Come ha sottolineato Dal Lago2 presentando un elenco di casi molto simile a quello precedente, “non c’è comportamento per così dire non conforme (e non conformista) che non possa essere arruolato nella devianza”. L’altra eco costantemente richiamata dal decoro è quella della costruzione del concetto di sicurezza, rispetto al quale la preoccupazione per il degrado non pare altro che l’ennesimo ritorno della criticatissima, quanto ancora popolare, broken windows theory3 e alle politiche securitarie che si pongono come obiettivo comportamenti che, pur senza ledere nessuno, vengono indicati come cause di disorganizzazione e disordine. Pur essendo connesso a devianza e insicurezza, la coppia decoro/ degrado sembra esserne al contempo un’ulteriore evoluzione. L’attenzione è sempre più esplicitamente spostata dal comportamento al soggetto: ad essere indecoroso non è ciò che il soggetto fa, ma ciò che è. Di conseguenza, ad essere escluse non sono tanto le condotte, ma le stesse persone, in particolare nel momento in cui, svolgendo determinate attività, non possono (e/o non intendono) renderle funzionali alla messa in valore dello spazio pubblico4. La logica dell’emergenza alla base del discorso securitario, pur senza essere del tutto soppiantata, viene al contempo resa permanente e trasformata in una questione morale ed estetica. Nella sua costruzione sociale, il decoro si presenta come la “giusta forma” che devono avere lo spazio, le città e le nostre vite in pubblico. Un sistema di immagini, create su contrapposizioni dualistiche quali pulito-sporco, solido-vischioso, libero-invaso, salubre-contaminato, vengono estese metaforicamente allo spazio materiale e ai corpi che lo attraversano e ne strutturano socialmente le possibilità di accesso5. Il modello estetico del decoro 164

diventa così, contemporaneamente anche morale e sociale, diventando discorso teso all’eliminazione (o all’accantonamento fuori dall’area del visibile) degli inestetismi parassitari. Il costituente del significante vuoto è allora la produzione del degrado, attraverso l’identificazione e la colpevolizzazione dei soggetti e la loro immediata esclusione. Il loro aspetto, il loro apparire, i segni del loro corpo e l’interpretazione che di essi viene data, diventano di volta in volta le forme non corrette, incomparabili con la giusta forma di chi può attraversare lo spazio pubblico. Viene continuamente costruita una dimensione normativa, delle persone “per bene”, che prendono la forma e l’aspetto rispetto all’alterità, incorporata dalle persone escluse in quanto degradanti e indecorose. È proprio su questo punto che si innesta la capacità politica del concetto: il significante vuoto di decoro, con la sua rappresentazione ideale e morale, diventa meccanismo di esclusione dallo spazio pubblico che produce e riproduce assi di discriminazione di genere, razziali, classisti, agisti, sessuali, abilisti. La produzione del decoro attraverso l’esclusione dallo spazio pubblico dei soggetti degradanti è, contemporaneamente, produzione e riproduzione del privilegio sociale e del dominio, nascondendo in principi di generalità e di “buonsenso” una capillare guerra ai poveri, al dissenso, alle soggettività non egemoniche6. 2. Percezioni della città del decoro La città e lo spazio pubblico sono elementi centrali della significazione del decoro e del degrado, i quali producono una continua re-immaginazione, che ne modifica gli usi e le forme dell’incontro quotidiano. La città decorosa è una città immaginata pulita, prevedibile, governata dall’ordine. Possono essere decorosi solo gli usi leciti dello spazio urbano, laddove il concetto di liceità viene schiacciato su una dimensione legale e, successivamente, burocratica: perché un soggetto sia decoroso, non deve solo evitare di infrangere leggi, ma deve essere autorizzato e attenersi a quanto programmato per lo spazio che sta attraversando. Pur rivolgendosi esplicitamente allo spazio pubblico, il concetto di decoro lavora nel renderlo immediatamente “privato”7, inconciliabile con le caratteristiche di pluralità e di scarto produttivo rispetto alla pianificazione. 165

Gli spazi pubblici contemporanei sono per definizione aperti, popolati, diversificati, incompleti, improvvisati e difficilmente regolamentabili8. Formandosi attraverso le sovrapposizioni e le contrapposizioni di pratiche, ritmi, nella relazione tra differenti corpi, spazi e architetture, gli spazi pubblici creano una molteplicità situata, la cui vitalità eccede la somma delle parti che lo compongono. Il decoro, al contrario, richiude nella dimensione del privato, del conosciuto e del familiare lo spazio pubblico che produce: la sua logica sanificatoria e igienizzante cerca di addomesticare l’urbano attraverso una semplificazione della molteplicità caotica. La costruzione di questa immagine di città, dietro una retorica di miglioramento dell’estetica urbana, nasconde quel processo intuito da Zukin9 come “estetizzazione della paura”, consistente in un tentativo di anestetizzare la città, nel senso più etimologico del termine: insensibile, priva della capacità di offrire sensazioni, emozioni e di essere percepita attraverso i sensi10. In quanto il decoro è costituito come significante vuoto, la città del decoro non può che configurarsi in altri modi se non come città utopica (o distopica), necessariamente incompleta e non materializzabile, continuamente produttrice di scarto con il vissuto. Le città reali, gli spazi pubblici attraversati continuano a sembrare, comunque essi siano, sempre disordinati, sporchi, pericolosi. Questa percezione permette che venga continuamente prodotta una tassonomia di soggetti “per male”, che impediscono una impossibile convergenza con il modello normativo del decoro. Attraverso questa rincorsa di spazi immaginati, il decoro non si limita a ricostruire l’immaginario di città e spazio pubblico, ma il suo discorso mette in atto una serie di pratiche che trasformano materialmente e simbolicamente lo spazio urbano, riorganizzandone le sue soglie sociali, temporali e spaziali. Lo spazio urbano è frammentato, diviso attraverso confini, soglie e divieti di accesso, regole di comportamento e processi di identificazione e verifica: viene così costruita una territorializzazione, volta ad escludere i soggetti marginalizzati dalla possibilità di attraversare e abitare le strade e le piazze. La divisione di persone decorose e morali rispetto a quelle identificate e allontanate perché degradanti e immorali si rispecchia in una geografia del decoro e del degrado, agita sia su assi classici (quali ad esempio centro-periferia e produttiva-residenziale), sia in parcellizzazioni nuove del contesto urbano, 166

che possono riguardare ampie aree così come territorializzare una singola piazza in più spot, o differenziarla nella temporalità11. La geopolitica del quotidiano porta così a produrre esclusione, giustificandola a partire da elementi emozionali, creando una connessione tra scelte politiche e sensazioni di paura, insicurezza e insoddisfazione12. Come approfondiremo, i dispositivi di esclusione concretamente attuati in nome del decoro sono ben lontani dall’essere un meccanismo uniforme e coerente. Al contrario, in esso elementi differenti cooperano nella ricostruzione della vita urbana. Oltre alla città come spazio e come luogo, a essere ristrutturato e sussunto nella logica del decoro è anche il concetto di cittadinanza. Essa diventa parte in causa e promotrice attiva di meccanismi di esclusione, tanto nel suo fornire limiti e confini strutturali per la divisione tra decoroso e degradante, quanto nel ricostruire un senso alle pratiche di controllo e di mantenimento dei confini che vengono svolte capillarmente dai soggetti. La retorica del decoro invade e diventa centrale non solo per la politica e la governance, ma anche nei percorsi associativi per la partecipazione dei cittadini, la cittadinanza attiva, la cooperazione nel migliorare la qualità di vita della città/quartiere/strada, presentandosi ora con una veste grassroots e civica. Anche in questi casi, è in atto il meccanismo di produzione e di scarto della categoria del degrado come patologizzante e della contemporanea definizione, dal negativo, di un modello astratto di normale13: i corpi dei soggetti degradanti non sono più teorizzati come pericolosi, esplicitamente da escludere ma, dietro a retoriche di protezione e aiuto, intreccio di riformismo, paternalismo e assistenzialismo, continuano ad essere ipervisibilizzati e a risultare fuori posto e, perciò, da normalizzare (e colpevolizzare, quando resistono). Differenziandosi nelle sue retoriche, inoltre, il decoro da un lato rafforza la capacità evocativa, capace di attraversare ora ambienti e contesti che sembravano (almeno parzialmente) estranei alle paure dell’emergenza securitaria, dall’altro riconfigura ulteriormente le forme di territorializzazione, creandone nuove stratificazioni. La dimensione estetica del decoro e il suo svilupparsi nella città, intesa sia come luogo sia come territorio, mette al centro il tema della sensorialità nella città: il degrado è qualcosa che disturba i sensi e una persona “per bene” non può che esserne infastidita. In una continua lotta agli inestetismi, la produzione della categoria si costruisce quindi partendo dalla percezione di qualcosa di brutto da vedere, 167

rumoroso, maleodorante, viscido, urticante, disgustoso. La sensorialità non si limita però a un ruolo metaforico, attraverso il quale costituisce una grammatica dell’esclusione, fornendo le parole e le giustificazioni alle politiche discriminatorie con il cui i margini vengono espulsi. Il decoro diventa un modo per conoscere e interpretare, crea connessioni tra sensazioni ed emozioni, conferisce senso politico e chiavi interpretative alla complessità sensoriale14. I sensi diventano così strumento di controllo: attraverso di essi, e alla negazione della loro costruzione sociale15, il degrado è dunque percepito come immediatamente presente, in un “qui e ora” che viene naturalizzato, nascondendone i rapporti di potere che gli sottostanno. Il tentativo di dare forma a una città del decoro come sicura e confortevole viene declinato sensorialmente in assenze e contenimento di quei suoni, odori e immagini che possono creare disordine. Perpetuando la gerarchizzazione delle sensorialità, vengono posti i confini e i limiti di ciò che può essere percepito, rendendo i sensi metodo e strumento di controllo sociale. Questa interpretazione si radica in un lungo percorso nella teoria sociale, che si è sviluppato soprattutto intorno al vedere come forma di controllo: basti pensare da un lato al vasto campo di studi sulla sorveglianza, che a partire da Foucault16 hanno avuto enorme fortuna e diffusione17, o all’idea della “vista dello Stato”18. Anche se con un’attenzione minore, altri lavori hanno mostrato il rapporto tra sensorialità e potere, sia nei processi di territorializzazione19, sia in termini di forme di resistenza al controllo oculocentrico20. Partendo da un caso empirico, la costruzione del concetto di decoro nel meccanismo di espulsione e contenimento dell’arte di strada dalle vie del centro di Padova, proverò ora a individuare i differenti dispositivi attraverso cui il concetto viene concretizzato e messo all’opera, mostrando come esso costituisca un assemblage21. Gli elementi che compongono il decoro non presentano nessuna unità o connessione interna, ed ogni elemento componente è una linea a sé stante, con le sue fratture e le sue direzioni. Nonostante questo, essi funzionano congiuntamente, creando sistemi immanenti di diverse intensità22. Pur venendo utilizzato da Deleuze e Guattari in relazione a concetti quali nomade, corpo-senza-organi e smooth space, esso si presta ad interpretare anche il funzionamento del potere governamentale nel suo produrre ordine, territorializzazione, striature e scalarità, come è stato mostrato, in usi non pienamente 168

sovrapponibili, sia da Sassen23, sia da Legg24. Il decoro è allora un modo per cogliere i differenti processi in divenire e le loro topologie, che vengono radicate e situate attraverso pratiche, meccanismi legali, elementi discorsivi e reti sociotecniche25. La giocoleria e le arti di (o in) strada sono discipline interessanti in questo tentativo: attraversando diverse soglie della definizione di cosa sia degrado, possono essere quindi considerate un laboratorio privilegiato per la loro comprensione. Le pratiche effimere e giocose hanno infatti la capacità di mostrare i dispositivi altrimenti invisibili del potere nello spazio urbano, testando nel quotidiano modi di riappropriarsi dello spazio e del tempo o, per dirla con Lefebvre26, “di illuminare l’intersezione tra la città come arte e l’arte della vita”. Aggiungendo temporalità e significati alla città di tutti i giorni e rendendo possibile l’impossibile, tra trucchi, abilità e immaginazione, le performance scrivono e riscrivono i limiti e le distinzioni tra attività ordinarie e straordinarie, tra durevole ed effimero, tra produzione e gioco27. Pur nella varietà di arti, stili e approcci, alcuni elementi comuni, presenti in tutte le esibizioni “a cappello” sono sotto questo punto di vista interessanti: la scelta della strada come spazio per l’esibizione, l’efficacia e la perentorietà nei confronti dei suoi pubblici, nella sua doppia valenza tra imposizione e generosità28, lo spettacolo come creazione di “nuove spazialità possibili”29,tra ricostruzione di immaginari urbani e trasformazioni, più o meno temporanee, dello spazio materiale. Questi elementi aprono alla portata politica e alla capacità trasformativa, anche radicale, delle arti di strada attraverso la sospensione e l’effimero, anche quando questa capacità non esplicitata, e siano quasi eccezionali i casi in cui viene sistematizzata in forme organizzate. Anche storicamente, del resto, il portato politico dell’arte di strada emerge: il passato della giocoleria è del resto conosciuto attraverso una storia ricostruita attraverso documenti di bando, leggi e verbali polizieschi30. A partire da questo, gli artisti di strada che si esibiscono a cappello vengono considerati soggetti che causano degrado, e le politiche cercano di escluderli dallo spazio pubblico. Rispetto ad altri, inoltre, presentano una peculiarità: è il caso su cui meno le retoriche securitarie della pericolosità e dell’emergenza sicurezza riescono ad attecchire. Questa posizione particolare, permette di vedere meglio l’intreccio delle differenti componenti dell’assemblage, con le quali il meccanismo di esclusione viene messo in funzione. 169

Le distinzioni che si instaurano sulla valutazione morale della pratica portano a dividere i praticanti tra artisti ed elemosinanti, professionisti e improvvisati, autorizzati e illegali. Queste distinzioni sono funzionali alla produzione dello spazio urbano: attraverso queste concessioni, gli artisti vengono categorizzati e classificati, in modo da segnare delle differenze e dei confini su cui vengono instaurati i meccanismi di esclusione da un lato, di selezione e normalizzazione dall’altro. Le politiche del decoro, infatti, non si privano completamente dell’arte di strada: anzi, attraverso la retorica della riqualificazione, spesso ne prevedono uno spazio programmato e dedicato specificatamente alla giocoleria e agli artisti di strada, a patto che sia però de-potenziata dai suoi caratteri più creativi e critici, normalizzata in format preordinati e privatizzata nella fruizione. 3. Disciplinare l’arte, assemblare il decoro Padova è stata, fino a qualche anno fa, una città considerata aperta all’arte di strada, particolarmente attraente per un mix di elementi favorevoli, quali la posizione geografica (e la vicinanza con Venezia), la presenza di giovani e studenti, l’assenza di normative specifiche e la possibilità di “fare cappello” ovunque, una popolazione abituata agli spettacoli e abbastanza generosa. In pochi anni però, l’emergere di politiche del decoro hanno fatto sì che la città cambiasse, venisse vissuta come caotica, disordinata. Tra le altre operazioni condotte in nome del decoro, anche le arti di strada sono diventate bersaglio politico e sempre più limiti sono stati imposti alla pratica libera, fino ad avere uno dei regolamenti più restrittivi del Paese. Congiuntamente, è andata a incrinarsi anche l’apertura dei pubblici all’arte di strada, tra chiusura negli spazi privati, sospetti e insicurezze. Come detto, il decoro sarà preso qui in considerazione come un assemblage: non si cercherà di costruire modelli di causalità tra i differenti processi in atto, né i dispositivi di funzionamento possono essere gerarchizzati in base a qualche criterio di importanza. Al tempo stesso, non possono essere considerati a sé stanti, non fosse altro perché essi lavorano insieme e differenti sono i punti in cui le loro traiettorie si intercettano. La presentazione, necessariamente, lineare del testo non intende dunque sottintendere ordini di importanza, ma piuttosto segue una forma di cronologia dell’emersione dei temi 170

durante il lavoro di campo. Alcuni elementi che fanno funzionare le politiche del decoro agiscono sul piano normativo, a differenti livelli. Il più recente, di portata nazionale, è il decreto Minniti, tramutato poi in legge sia attraverso le modifiche ad articoli del codice penale precedenti, sia con l’introduzione di nuovi articoli. Alcuni articoli del decreto tematizzano, per la prima volta in maniera così sistematica, la lotta al degrado, che si configura esplicitamente in lotta ai poveri (sanzionando esplicitamente i comportamenti più evidenti, come l’elemosina e le forme informali di lavoro) e le forme di dissenso politico e culturale (l’enfasi sulle scritte sui muri). In particolare, esso introduce il meccanismo dell’allontanamento e del cosiddetto “daspo urbano progressivo” (al primo 48 ore, non appellabile, dal secondo periodi più ampi). Tra l’emanazione del decreto e la conversione in legge, in meno di un anno, l’uso delle sue potenzialità si è mostrato discontinuo, quasi “seriale” in alcune città, mai utilizzato in altre, seguendo geografie politiche ed elettorali che richiederebbero un’analisi che non può essere qui approfondita. Minniti è però interessante sia come istantanea del punto di arrivo (provvisorio) della costruzione di decoro e sulla sua incisività, tale da orientare un impianto normativo così importante, sia come strumento di ulteriore rafforzamento di un altro dispositivo normativo, che già godeva di ottima salute e grande diffusione: l’ordinanza sindacale. Dal 2008 (modifica dell’art.54 TUEL, c4), con il riconoscimento del sindaco come ufficiale di governo e l’ampliamento dei suoi poteri di intervento31. L’ordinanza sul piano locale, il ddl sul piano nazionale introducono entrambi un frame legislativo di necessità ed urgenza, interventi eccezionali che giustificano il superamento delle forme classiche della politica verso un intervento immediato con impostazione autoritaria nell’ordine pubblico32. Così come per molti altri soggetti, anche gli artisti di strada sono stati oggetto di ordinanze, sia direttamente, sia venendo coinvolti in maniera indiretta, da interventi che normano singoli aspetti specifici della pratica o che costruiscono un riferimento più ampio, in cui anche essi ricadono, come ad esempio i divieti nell’uso del fuoco, o la regolamentazione dei volumi delle amplificazioni. A Padova, a partire dalla giunta di centrosinistra Zanonato-Rossi, l’azione politica intorno alle arti di strada è andata a intensificarsi, sia attraverso ordinanze riguardanti singole vie e aree del centro (in particolare, intorno alla Basilica del Santo), sia con una estensione 171

del regolamento sulle attività rumorose. Il regolamento, che già prevedeva un articolo sugli spettacoli ma limitato nel caso in cui fossero usate amplificazioni, è stato esteso ad ogni forma di arte di strada, al fine di “evitare che creino disturbo alla quiete pubblica” e ulteriormente dettagliato, con forme di regolamentazione che vanno ben oltre il tipo di regolamento, in sé molto specifico e “tecnico”, in cui sono contenute. La giunta successiva, con sindaco Bitonci, in apertura di mandato esordisce con un pacchetto di ordinanze, usate con un chiaro intento politico, cercando di caratterizzare i primi periodi di mandato attraverso una priorità data ai temi di sicurezza e decoro. Dopo queste, l’assessore alla sicurezza Saia continuerà, nella sua dichiarata “guerra al degrado”, stilando un regolamento per l’arte di strada e una procedura di richieste burocratiche di permessi, vincolando così le esibizioni sia nella possibilità di svolgimento sia, una volta accordati i permessi, nelle modalità in cui essi possono avere luogo. Viene così creata una divisione per aree, indicando zone rosse per gli spettacoli di strada, zone con possibilità di esibirsi “in deroga” e zone più aperte, in cui comunque rimane necessaria la concessione del permesso. Queste aree non seguono le logiche degli spettacoli, ma si preoccupano soprattutto a segnare un confine tra centro e periferia, escludendo gli artisti dalle vie centrali della città ad eccezione di poche, ristrette vie, indicandone angoli prestabiliti, le “piazzole dell’arte”, per quegli artisti che ottengono le deroghe. Le rigidità burocratiche e le procedure e i costi nella modulistica (pur non vietando esplicitamente) impediscono poi gli spostamenti da una zona all’altra durante la settimana o nello stesso giorno. I termini generali del regolamento, i suoi scopi dichiarati e la descrizione degli aspetti che intende contenere richiamano in diversi punti la sensorialità, in termini di percezione dei suoni, volumi, intensità e durata, ma anche di ciò che è visibile, cosa possa essere mostrato e che limiti imporre. In particolare, il degrado viene ad essere identificato con rumore e visioni spiacevoli. Attraverso di esse, il decoro è costruito in termini di “quiete pubblica” e “offese al pudore”, che comportano disagi anche emotivi (con esplicito rimando al senso di timore, in particolare per i minori). La divisione in aree crea così una frattura che riguarda non solo la definizione di cosa sia ammesso in zone definite di prestigio rispetto al resto della città, ma crea una gerarchizzazione anche delle percezioni e delle emozioni in base 172

al trovarsi in un’area o in un’altra. La produzione del decoro come meccanismo di esclusione e normalizzazione dello spazio urbano diventa allora così stratificazione territoriale: i confini del regolamento sono al tempo stesso confini morali e cognitivi, che ridefiniscono il modo di comprendere e conoscere lo spazio. Una seconda linea che connette la costruzione concettuale del decoro alle arti di strada è la retorica della valorizzazione. L’enfasi retorica sulla tradizione centenaria, sulla protezione dei talenti, sulla produzione culturale, sull’impegno istituzionale e associativo nel far progredire le arti di strada viene trasformato, da un lato, nella diffusione di buskers festival, rassegne, giornate dell’arte, dall’altro in un rafforzamento delle politiche del decoro. Il legame tra i due aspetti si può notare dalla constatazione di come a Padova, così come in molte altre città, il festival è nato nello stesso anno del regolamento, ed è incluso in esso come un impegno programmatico per la tutela delle espressioni culturali. Il rapporto è però più profondo: attraverso i festival, viene creata una modalità di praticare la disciplina normalizzata. Pur eseguiti negli stessi spazi utilizzati da chi fa cappello, gli spettacoli sono ora rinchiusi in un evento: lo spazio e il tempo della performance, prima contesi e negoziati con la pluralità di altre pratiche che si svolgono in contemporanea, diventano stabiliti e circoscritti; gli incontri con i pubblici, prima casuali e sorprendenti, si trasformano in una partecipazione di un pubblico consapevole e preparato a cosa avrebbe trovato; gli spazi di improvvisazione sono ridotti a un format, più o meno rigido, dettato da un programma prestabilito. I festival, inoltre, modificano l’immaginario stesso delle arti di strada: gli spettacoli realizzati nel tempo ristretto del festival sono differenti rispetto a quelli a cappello, sotto gli aspetti dei ritmi, delle performance, ma anche nella loro presentazione e preparazione33. La congiunta diffusione dei festival e la regolamentazione e limitazione dell’arte di strada comporta l’abitudine da parte del pubblico a un tipo specifico di spettacolo, una richiesta di performance con specifiche forme e tempi, sempre più standardizzate, e una difficoltà nell’apprezzare tempi più lunghi, più diradati, routine più complesse e meno centrate sul numero che “attiri l’attenzione”, messe in scena accurate e preparate con scenografie. Scelte artistiche, che non si limitano la singola performance, ma riguardano in generale le modalità di concepire la propria disciplina e il proprio rapporto con lo 173

spazio, vengono categorizzate, in una costruzione di un “professionismo” che ha più a che fare con l’approccio scelto che con le abilità e le complessità dell’esibizione stessa34. Chi esce dal criterio estetico della festivalizzazione dell’arte allora diventa marginale, improvvisato, la sua opera sempre meno comprensibile e più dissonante con quanto ci si aspetta, rafforzando la connessione tra arti di strada e degrado. Le retoriche del decoro attraversano e caratterizzano anche il cosiddetto “dibattito pubblico”. Le arti di strada ciclicamente, per brevi periodi, diventano argomento di discussione, apparendo sui media locali a partire da elementi disparati, come la pubblicizzazione di eventi e festival, il dibattito politico intorno alle regolamentazioni, ritratti biografici o interviste ad artisti, cronache di multe e controlli. Questa produzione generalmente ridefinisce l’arte di strada polarizzandola: da un lato la messa a valore, anche giornalistico, di un’immagine di artista e di un modo di praticare la disciplina, dall’altro un disconoscimento di ogni altra forma d’arte (facendola rientrare nei campi semantici dell’elemosina o della movida confusionaria), con una connessione diretta all’idea di degrado delle città. I primi, sono benvenuti, apprezzati e reclamati nello spazio pubblico e nelle strade, ed in particolare, quelle strade indicate come il salotto buono della città, le aree che più meritano di essere impreziosite (non mancano mai, ad esempio, i riferimenti al caffè Pedrocchi). I secondi, da allontanare e rimuovere, inestetismi che causano problemi all’immagine e alla vita urbana e che causano scalpore e preoccupazione. Anche in questo caso, il richiamo alla dimensione sensoriale come discrimine e costruzione del confine definitorio ha un ruolo importante: da un lato abbiamo un racconto di una produzione artistica che arricchisce la città, che colpisce e migliora esteticamente le strade, con articoli che parlano della gradevolezza della musica, dell’atmosfera che viene creata, dell’incanto e dello stupore. Dall’altro, il registro utilizzato parla di rumore (il nuovo regolamento serve dunque per contrastare i “fracassoni”). Ancora più esplicitamente che attraverso i festival, diventano chiare le matrici di dominio che sottostanno questa differenza: ad essere riconosciuti e valorizzati sono sempre uomini, bianchi, di cittadinanza italiana, professionalizzati, con storie di (relativo) successo. Le loro esperienze sono raccontate attraverso episodi di vittoria individuale, la cui visione è gradevole, il loro ascolto piacevole. Gli altri e le altre diventano invece inadatti 174

e vengono raccontati solo come esempio di degrado, come oggetto di discussione, come termine negativo da cui differenziare i virtuosi. Mentre i territori urbani del decoro e del degrado vengono tracciati, essi devono continuamente essere mantenuti e ridefiniti. Soggetti del controllo di queste territorializzazioni sono, da un punto di vista istituzionale, le forze dell’ordine e gli agenti di polizia municipale. Il ruolo degli agenti nel produrre costantemente territorialità è stato da tempo indagato da studiosi dei processi urbani35. Pattugliare e presidiare una zona piuttosto che un’altra, controllare alcuni soggetti e ignorarne altri, concentrare le risorse per operazioni speciali o dotarsi di mezzi specifici, sono scelte, strategiche e procedurali, che producono una gerarchizzazione della città e ricostruiscono i confini e le soglie di accesso allo spazio pubblico. Il potere della polizia non è semplicemente situato nei contesti e nello spazio, ma agisce attraverso lo spazio, realizzando territori36. Gli artisti di strada si ritrovano sotto il controllo nel quotidiano degli agenti e devono muoversi nei territori costruiti dai loro controlli. Questi territori, inoltre, non sono omogenei per tutte e tutti: essi vengono differenziati in base a categorizzazioni del controllo operate in base ad assi intersezionali e a procedure (più o meno informali) di riconoscimento e segnalazione, discorsi pubblici e agenda setting politica, ma anche relazioni quotidiane e scambi avuti in precedenza, sulle quali viene costruita una casistica degli artisti e dei loro modi fare. Queste forme di controllo solo in parte hanno a che fare con la produzione di ordinanze e di regolamenti: da un lato, questi sono costruiti, come abbiamo visto, intorno a significanti vuoti e, al di là del formalismo della scrittura che richiama termini di generalità e di specificità, non possono fare altro che rimandare nella loro definizione alla valutazione soggettiva di chi dovrà metterle in atto; dall’altro lato, il rapporto viene invertito nella pratica quotidiana: è così più il controllo quotidiano che usa (o ignora, a seconda dei casi, dei contesti, delle posizioni) la regolamentazione nel costruire il territorio, piuttosto che il regolamento stesso che orienta le pratiche di polizia. Le forme del controllo non si limitano però all’azione delle forze dell’ordine, ma con esse interagiscono anche altre forme di controllo, più diffuse e minute, realizzate da abitanti delle zone in cui vengono realizzate le performance dei giocolieri, dei commercianti, dei passanti, degli attivisti di associazioni e di volontari del comune. Le loro intensità variano, andando dalla semplice disapprovazione e dal 175

mancato riconoscimento fino alla segnalazione alla polizia, a quel punto costretta a intervenire (almeno presentandosi, per poi decidere se e come intervenire). In queste forme di controllo gli elementi discorsivi prodotti dalle altre pratiche si incontrano e vengono messi in pratica, rimodellandosi e specificandosi ulteriormente. La retorica di moralità con cui viene posta la “lotta al degrado” implica che questa non si più delegata alle sole istituzioni, ma che ognuno che intende collocarsi tra le “persone per bene”, decorose e rispettose della città, partecipi nella pulizia e nella rimozione dello sporco e degli elementi infettanti e degradanti. La città del decoro viene così resa molteplice, ricostruita nelle percezioni dei soggetti che individuano e concretizzano le forme di degrado indicate nei discorsi, ridisegnando i confini e le dicotomie in base ai propri posizionamenti. Questa molteplicità non è da intendersi però come un’estensione delle possibilità, ma piuttosto come un dispositivo che moltiplica le percezioni di degrado, estendendole a sempre più categorie e pratiche. L’elemento sensoriale, che guida il carattere estetico-morale del concetto di decoro viene negoziato con il proprio riconoscimento e posizionamento, in base al quale le soglie si rafforzano e stratificano. Le politiche del decoro sdoganano l’avversione alle pratiche che non soddisfano il senso estetico dei singoli, legittimandone forme di controllo finalizzate a ridurre la caoticità dello spazio pubblico, riconducendolo a uno spazio addomesticato, ordinario nelle sensazioni visive, uditive e tattili. Questo controllo è esercitato anche dagli artisti stessi: giocolieri e musicisti da un lato si oppongono alle forme di limitazione della loro attività e al mancato riconoscimento del loro valore, dall’altro, nel farlo, replicano talvolta le stesse categorie di decoro e degrado, provando dall’interno a tracciarne i confini in direzioni differenti, oppure semplicemente accettando le categorie definitorie create dalla dicotomia decoro/degrado, per poi collocarsi nelle polarità virtuose. Le logiche del decoro portano così a una forma di assoggettamento, che ricostruisce le proprie definizioni intorno allo stesso lessico dell’esclusione che viene agita sulle loro pratiche. In questa ottica, al lamento per il mancato riconoscimento e la capacità di discernere, da parte delle istituzioni tra artisti e improvvisati, il ribadire come quello sia (o il desiderio che possa diventare) lavoro e non hobby o elemosina, essere professionali e originali e non “semplici esecutori” improvvisati, diventano così più tentativi di far rientrare le proprie 176

pratiche all’interno del tollerato. Il modo in cui vengono riprese queste categorie, anche in base alle differenti posizioni rispetto alla concettualizzazione del decoro e alla pervasività del controllo, oltre che alle sensibilità politiche e critiche, non semplicemente rafforza, riproducendo le divisioni funzionali alla produzione del degrado, ma orienta anche le solidarietà, le alleanze e le condivisioni delle tattiche di resistenza. 4. Oltre il controllo. Sensi e saperi dell’arte di strada Le traiettorie che compongono il decoro non sono, dunque, coincidenti e riassumibili, se non a partire dalla constatazione che esse lavorano congiuntamente, dando forma a un processo generativo attraverso il quale il concetto è in continua trasformazione ed adattamento, sviluppato anche rendendo produttive le incoerenze e le contraddizioni tra i diversi elementi. La logica del decoro, attraverso la produzione del degrado, realizza continuamente connessioni, tra campi, saperi e oggetti. Per quanto questa produzione sia poderosa, così come le dinamiche di potere che la sostengono, e per quanto invasiva, tanto da venir replicata dagli stessi artisti, essa non viene realizzata senza forme di contrasto. Le azioni che si contrappongono cercano di agire sui differenti meccanismi che ne fanno parte, cercando di diminuirne gli effetti. Tutta una serie di pratiche e di attività, realizzate dagli artisti, in maniera sistematica o estemporanea, con lo scopo di aggirare o di evadere dall’identificazione come degradanti, oppure tentativi di invertire il segno di queste produzioni discorsive, traendone vantaggio, cercando di aprire spazi (individuali o collettivi) di possibilità e agibilità, costituiscono quelle “forme di bracconaggio”37 che possono essere lette qui come resistenze38. Per quanto, sia nei discorsi del decoro in generale sia, seppure su scala minore, nelle arti di strada, ci siano stati esempi, anche importanti, di forme aperte di opposizione attraverso manifestazioni e azioni direttamente politiche, in questo contributo mi concentrerò su forme più minute e quotidiane, che non intendono creare esplicitamente un contro-discorso, ma che piuttosto indagano i vuoti e le contraddizioni del discorso, cercando di attraversarle e abitarle. Nel lavoro di ricerca, durante le interviste e soprattutto nelle con177

versazioni informali, un’ampia serie di racconti riguardano episodi in cui gli artisti sono riusciti ad eludere i controlli, a non farsi vedere o a scappare dagli agenti della municipale, oppure a “imbrogliarli”, tenendoseli buoni o promettendo cose non mantenute. La continua sottolineatura di come l’arte di strada, quando realizzata a cappello, possa essere degradante o comunque richieda regolamentazioni e norme per non essere dannosa, ha aumentato una consapevolezza da parte degli artisti stessi sul rapporto che intercorre tra le loro attività e lo spazio urbano, così come sul portato politico della loro stessa presenza. Ritrovandosi al centro di meccanismi di normalizzazione e messa a profitto delle attività, gli artisti si ritrovano infatti a dover elaborare stratagemmi per aver modo di continuare con la loro pratica. La sensorialità gioca un ruolo importante in queste resistenze, così come nella definizione delle forme di controllo. Se il decoro si configura dunque come una forma di governo dei sensi e delle emozioni nello spazio pubblico, le resistenze si muovono attraverso i sensi cercando di disinnescarne, almeno temporaneamente, i dispositivi che la logica del decoro mette in atto. Per mostrare le forme di resistenza cercherò ora di prendere alcuni esempi, modalità di realizzare l’attività, mettendone in mostra i collegamenti, sia antagonisti che produttivi, con i sensi. Questi esempi hanno in comune tra loro la sottrazione della pratica dall’unica modalità “decorosa”, non rispondendo alla visione pacificata e normalizzata dell’arte di strada come spettacolo autorizzato, ma che sfidano le forme di esclusione o creano altri territori in sostituzione a quelli da cui sono stati allontanati dalla produzione del degrado. La vista, all’interno della logica del decoro, diventa come abbiamo visto, forma di controllo al tempo stesso dello spazio urbano, delle azioni consentite e dei corpi che lo attraversano, in una corrispondenza tra modi di vedere, di pensare e di formare le soggettività39, a partire dalla quale interessi specifici e nascosti dietro la generalità e la vacuità dei concetti di decoro e degrado, vengono strutturate, in maniera escludente, le relazioni tra i soggetti. Di fronte a questa produzione di iper-visibilità40, in cui essere visti vuol dire poter essere controllati, identificati, allontanati, gli artisti di strada devono provare ad esplorare ed individuare forme di sottrazione a questo meccanismo, muovendosi in una invisibilità che, al tempo stesso, deve svilupparsi tenendo presente che una componente fondamen178

tale della pratica stessa è quella dello spettacolo, che implica l’essere visti da un pubblico. In questa direzione possono essere considerati, per esempio, i tentativi di essere visti senza essere riconosciuti, in un tentativo di prendere vantaggio dal contesto e di creare fraintendimenti che permettono di realizzare uno spettacolo che non sarebbe lecito. Un possibile esempio è costituito dagli spettacoli “off”: spettacoli a cappello, realizzati durante i festival e le serate di giocoleria istituzionalizzate e autorizzate, che hanno luogo in un punto più marginale della location, o in un momento di vuoto nel programma. Questo tipo di spettacolo viene realizzato sia dagli stessi artisti del festival, che cercano così di esibirsi più volte rispetto a quanto previsto dall’organizzazione, sia da artisti non invitati che cercano di aggregarsi e di prendersi uno spazio. Il tentativo è quello di sfruttare la situazione, recuperando la grande visibilità che è data dall’evento e confondendosi tra gli spettacoli autorizzati, approfittando della difficoltà del pubblico, ma anche degli agenti di polizia e dei volontari dell’organizzazione, nel distinguere, in situazioni caotiche e tempi veloci, tra “autorizzati” e “off”. Anche altre modalità di performance possono essere considerate come una forma tattica basata sul tentativo di sfruttare momenti di grande esposizione e al tempo stesso cercare di creare uno spazio invisibile al controllo. Gli spettacoli al semaforo, in cui l’artista, usualmente un giocoliere, aspetta che scatti il semaforo rosso per mettersi al centro della strada ad eseguire una routine con l’attrezzo che ha deciso di utilizzare, per poi, al momento del verde, passare tra le macchine e raccogliere il cappello, fino al prossimo rosso, in cui ripartire con la ripetizione del numero. Concentrandosi su grandi arterie di traffico, il pubblico è sempre numeroso e si ritrova, in un certo senso, “costretto” a osservare lo spettacolo. La sottrazione alla visibilità come controllo è data qui dalla fulmineità del singolo spettacolo, che si completa nell’arco di tre minuti e che può essere ripetuto se le condizioni lo permettono, o altrimenti velocemente il giocoliere può allontanarsi e spostarsi. Oltre a questo, si aggiunge l’impossibilità di aspettarsi in precedenza uno spettacolo da parte delle istituzioni (molto spesso deciso all’ultimo anche dagli stessi artisti, od eseguiti in “buchi di tempo”). Nonostante siano forme molto differenti, entrambe prevedono la costruzione di un territorio dello spettacolo dove sarebbe negato: ciò accade sia che siano 179

posti impensabili in termini di pianificazione e non formalizzabili da un punto di vista burocratico, sia, al contrario, spazi che sono stati autorizzati e formalizzati per le stesse pratiche, ma resi esclusivi da un format specifico che regola una politica degli accessi e una gerarchizzazione degli artisti. Il tentativo di essere visti senza essere riconosciuti, o altrimenti, di differenziare un astratto “pubblico” generale selezionando i pubblici specifici, nel tentativo di escludere esattamente chi, grazie alla gestione dello spazio, costruisce territori del decoro. Se questi due esempi richiamano una forma di contrapposizione in un certo senso diretta, che trova il modo per realizzare la pratica laddove esplicitamente vietato, altre forme di resistenza si muovono all’interno della regolamentazione e sotto il controllo, ma cercando contemporaneamente di aggirarlo. Tenere i volumi bassi, spostarsi di frequente, anche all’interno della stessa piazza o della stessa via, fare lunghe pause prima di riprendere, cercando al contempo di diminuire i rischi che commercianti o residenti possano essere infastiditi e chiedere controlli: attraverso questi comportamenti, se da un lato è in atto una forma di disciplinamento della propria stessa pratica, ridotta, controllata, parzialmente silenziata in modo che risulti poco pervasiva, e quindi anche meno di caratterizzare lo spazio urbano nel suo immaginario e nelle sue atmosfere, dall’altro, questo modo è finalizzato a esibirsi oltre i limiti di tempo imposti, rendendo più difficile stabilire e ricostruire da quanto tempo l’artista si stia esibendo, che spostamenti ha fatto. Il rapporto con lo spazio e con la città non si limita alla costruzione di territori dove sono negati o, al contrario, a tentativi di de-territorializzare la propria pratica all’interno di micro-geografie di una singola piazza o area: la dimensione situata delle discipline, e di conseguenza delle forme di resistenza che attraverso di esse sono agite, investe la spazialità, facendo sì che la conoscenza dei siti possa diventare una risorsa per aggirare i dispositivi creati in nome del decoro. Conoscere la città e le sue architetture permette, ad esempio, di sapere dove i portici creano un’eco, dove la piazza ha una conformazione che permette una diffusione della musica e delle voci migliori e dove invece rimane più “chiusa” e contenuta, dove i flussi di persone e mezzi impediscono il formarsi del cerchio o di capannelli di pubblico e dove invece il pubblico può bloccare questi flussi, ingrandendosi sempre di più. Lo spazio, vissuto quotidianamente dagli artisti, 180

diventa così elemento attivo nelle performance, e la sua conoscenza una risorsa da poter mobilitare nelle forme di resistenza alle normative restrittive imposte. Attraverso la scelta di posizionarsi in un posto piuttosto che un altro, sfruttando le conformazioni spaziali migliori, diventa possibile vedere due limiti del meccanismo normativo del decoro. Innanzitutto, il regolamento, disegnando i confini tra le diverse aree, immagina lo spazio come sostanzialmente piatto e uniforme, limitandosi, attraverso confini normativi e simbolici, a dividerlo in territori differenti, che ne gerarchizzano le sensazioni, mentre all’interno dello stesso territorio, ciò che viene percepito e ciò che è lecito percepire coincidono in ogni sito. Il secondo aspetto è che ciò che può essere esperito deve essere rimandato a criteri puramente quantitativi e misurabili, in potenza degli amplificatori, in voltaggio, oppure in termini di durata, in minuti e ore. La conoscenza e il controllo della varietà di modi in cui lo stesso suono può essere percepito, possa propagarsi diventa allora una possibilità di espandere e aumentare gli effetti e l’efficacia della propria pratica, andando oltre il contenimento imposto, rimanendo, formalmente e quantitativamente, nei limiti consentiti. Questa capacità riguarda specificamente l’artista e le sue azioni. Alcuni artisti hanno scelto così di cambiare il proprio spettacolo, interamente o in parte, in modo di rendere maggiormente partecipe il pubblico, con lo scopo di compensare, con uno spettacolo più dialogante, le limitazioni alla loro pratica. Il pubblico diventa così partecipe, si muove con l’artista, oppure risponde, urla, canta, batte le mani: venendo coinvolto, diventa esso stesso spettacolo, aumentando lo spazio che gli artisti possono prendersi, la loro visibilità e il loro impatto sul contesto, dandogli l’importanza e la centralità che le politiche del decoro cercano di sottrarre.

NOTE 1 Gayatri C. Spivak e Ranajit Guha, Selected Subaltern Studies, Oxford UP, Oxford, 1988. 2 Alessandro Dal Lago, La produzione della devianza: teoria sociale e meccanismi di controllo, Ombre Corte, Verona, 2000.

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donne, in Chiara Belingardi, e Federica Castelli (a cura di) Città. Politiche dello spazio urbano. IAPh Italia, Roma, 2016. 33 Michelle Duffy, The Emotional Ecologies of Festival in Andy Bennett, Jodie Taylor e Ian Woodward (a cura di) The Festivalization of Culture, Ashgate, Farnham, pp. 229-250, 2014. Maurice Roche, Festivalisation, cosmopolitanism and European Culture: on the Sociocultural Significance of Mega-events, in Liana Giorgi, Monica Sassatelli, Gerard Delanty (a cura di) Festivals and the Cultural Public Sphere, Routledge, Londra, pp. 124-141, 2011. 34 Cara Aitchison e Annette Pritchard. Festivals and Events: Culture and Identity in Leisure, Sport and Tourism, LSA, Eastbourne, 2007. 35 Didier Fassin, La force de l’ordre. Une anthropologie de la police des quartiers, Seuil, Paris, 2011. Egon Bittner, The Police on Skid-Row: A study of Peace Keeping in «American Sociological Review», n. 32(5), pp. 699-715, 1967. Harvey Sacks, Notes on the Police Assessment of Moral Character In David Sudnow (a cura di) Studies in Social Interaction, Free Press, New York, pp. 280-293, 1972. 36 Nicholas Fyfe, Images of the Street. Planning, Identity and Control in Public Space, Routledge, New York, 1998. Matthew Hannah, Space and Social Control in the Administration of the Oglala Sioux, «Journal of Historical Geography», n. 19, pp. 412-432, 1993. Steve Herbert, The Geopolitics of the Police. Foucault, Disciplinary Power and the Tactics of the Los Angeles Police Department, «Political Geography», n. 15, pp. 47-59, 1996. 37 Michel De Certeau, L’invention du quotidien, Gallimard, Paris, 1980. 38 Pietro Saitta, Resistenze. Pratiche e margini del conflitto nel quotidiano, Ombre Corte, Verona, 2015. 39 Mitchell Dean, Governmentality. Power and Rule in Modern Society, Sage, London, 1999. 40 Andrea Mubi Brighenti, Visibility in Social Theory and Social Research, Palgrave MacMillan Basingstoke, 2010.

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PERCORSI DI RESISTENZA ARTISTICA ANALISI DI UN PROGETTO DI EDUCAZIONE INFORMALE E POPOLARE NEI QUARTIERI NORD DI MARSIGLIA Vanessa Baselli Resistenza è una forma di esistenza (Sislej Xhafa, artista kosovaro e apolide) 1. Introduzione Il punto di partenza di questo studio1 vuole essere la visione della resistenza come percorso di autonomizzazione e presa di coscienza: un “viaggio” esperienziale nel quale l’arte possa divenire uno strumento non solo di espressione del sé ed esternazione di mondi interiori ma anche un mezzo di rivelazione e condivisione del dissenso, del disagio e di contrasto rispetto allo status quo; porre il processo immaginativo al centro del cambiamento sociale fa assumere alle rappresentazioni artistiche, all’uso delle immagini, una valenza politica fondamentale, soprattutto se utilizzato da coloro i quali vivono quotidianamente il “margine” e ne assumono le caratteristiche. Il caso di studio qui presentato, il progetto editoriale Baguette Magique, nato nel 2014 in un quartiere sensibile della città di Marsiglia (Castellane, “cité HLM2”), vuole essere un esempio di come l’arte e la sua sperimentazione possano avviare nel tempo un percorso di autonomizzazione, presa di coscienza del sé e dell’ambiente circostante tale da sviluppare processi resistenziali spontanei e “dal basso”, movimenti sotterranei che possono innescare tangibili cambiamenti nella quotidianità. Il gruppo di donne coinvolte nel progetto – circa quindici – ha origini etnico-culturali eterogenee, la maggior parte sbarcata a Marsiglia nella seconda metà degli anni cinquanta del Novecento a seguito di avvenimenti storici quali l’indipendenza dell’Algeria e la successiva persecuzione dell’etnia kabyle nel Paese o per ricongiungersi ai mariti immigrati per motivi economici in Francia; due partecipanti al progetto sono di origine comoriana, etnia particolarmente presente in città (a Marsiglia risiede la comunità oltremare più numerosa 185

al mondo); il resto del gruppo proviene dall’Arabia Saudita e dalla Cecenia. L’eterogeneità della componente etnico-culturale ha dato al progetto una significativa valenza aggregante, facendo convergere sensibilità e storie di vita diverse dentro un “incubatore” di istanze personali e collettive che hanno trovato nel giornale una valvola di sfogo delle problematiche quotidiane del quartiere Castellane. Quest’ultimo è infatti considerato uno dei quartieri più pericolosi di Francia, con alti tassi di disoccupazione (35 – 40%3) e la nomea di Supermarché de la drogue. Isolato dal centro-città, i suoi abitanti vivono nella disillusione chiudendosi nell’effimera sicurezza dei miseri appartamenti della citè. Proprio per la particolarità e criticità del contesto in cui si iscrive il progetto analizzato è interessante indagare la portata dell’utilizzo di strumenti di comunicazione ed espressione alternativi laddove la voce del “marginalizzato” sembra non avere suono. 2. Tattiche di resistenza dal basso All’interno del complesso discorso intorno alle forme e “pratiche” di resistenza delle classi subalterne e/o rispetto al potere, possiamo ritrovare nella letteratura sul tema una grande attenzione alle forme di resistenza “invisibili” o “dal basso”. In modo particolare Saitta4 articola le resistenze, citando De Certeau5, in forme militanti o di potere che possono assumere i contorni della “strategia” o della “tattica”: (…) il termine “strategia” denota il calcolo dei rapporti di forza resi possibili nel momento in cui un soggetto dotato di una propria volontà e di un proprio potere si isola in un “ambiente” che, pure condizionato dall’altro, è almeno temporaneamente irraggiungibile da questi. La strategia, insomma, presuppone un luogo che possa essere circoscritto come proprio e fungere, dunque, da base a una gestione dei rapporti con un’esteriorità distinta.

Mentre con “tattica” Saitta intende “quel calcolo privo di un luogo proprio, di una visione globalizzante, “cieca e perspicace come lo si è nei corpo a corpo senza distanza [...] La tattica è determinata dall’assenza di potere così come la strategia è organizzata dal po186

stulato di un potere [...] che deve pertanto giocare sul terreno che le è imposto così come lo organizza la legge di una forza estranea [...] è movimento “all’interno del campo visivo del nemico” [...] Si sviluppa di mossa in mossa. Approfitta delle “occasioni” dalle quali dipende, senza alcuna base da cui accumulare vantaggi, espandere il proprio spazio e prevedere sortite. Non riesce a tesaurizzare i suoi guadagni [...] È insomma astuzia, un’arte del più debole”6 La “tattica” assume dunque le caratteristiche tipiche di un movimento resistenziale nascosto, che nasce in maniera spontanea, non organizzato e contraddistinto dalla mancanza di un obiettivo politico specifico. Ciò che può essere interessante osservare in questo genere di manifestazione del dissenso è proprio questa componente istintiva, emozionale che può divenire lo stimolo propulsore dato da un processo di autonomizzazione e presa di coscienza laddove l’individuo crede di non avere alcuna possibilità di rovesciare lo status quo. Il contesto di questo processo, qui ed in altri studi sul campo, è il margine7 non tanto come una “zona d’ombra” a cui approcciarsi in senso assistenzialistico, ma come possibile fonte di novità, sperimentazione e ricchezza culturale. Tuttavia, secondo il sociologo francese Bruno Lautier8, molto spesso la marginalizzazione spaziale corrisponde a quella socioeconomica (egli cita il fenomeno della bidonvillisation9) e, sulla base delle riflessioni del filosofo Michel Foucault, il margine rende possibile la comprensione della società intera tramite l’osservazione e l’analisi delle periferie, delle loro problematiche, delle loro “follie” ma anche delle potenzialità celate. Il margine perde in questo senso la sua caratterizzazione “polverosa, solforosa, pericolosa10”: la creatività, il genio appaiono come componenti intrinseche del margine socio-spaziale e politico rendendo strumenti di espressione quali l’arte in tutte le sue declinazioni, forme, o meglio, tattiche di resistenza alle norme, alla legge dello stato, alla polizia. L’avvio di progetti legati all’espressione artistica in questi contesti e la portata degli stessi, cioè i cambiamenti che riescono ad innescare, possono dunque divenire un oggetto di studio preferenziale per meglio comprendere le pratiche di resistenza dal basso e le poste in gioco degli attori coinvolti. L’utilizzo dell’immagine appare fondamentale nel percorso di coscientizzazione degli attori coinvolti rispetto alle proprie condizioni psico-sociali e politiche e a quelle 187

dell’ambiente circostante. 3. L’importanza dell’immagine nel processo di presa di coscienza del sé Una creazione è sempre qualcosa che si aggiunge a qualcosa che già c’è, che lo sostituisce, che lo trasforma, che gli dà nuova forma11. La necessità di esteriorizzare il sé ed entrare attivamente all’interno delle dinamiche sociali e politiche ha potuto dunque trovare nell’arte un linguaggio preferenziale nei contesti di esclusione, oppressione e disagio socioeconomico ma ha anche rivelato le capacità di tutti quegli individui ritenuti, spesso erroneamente, come esclusi da quello stesso contesto sociale. L’immagine come “pratica di configurazione del sensibile” secondo il filosofo Jacques Rancière, acquista un carattere di emancipazione nel momento in cui assume una dinamica discordante rispetto allo status quo e tende all’uguaglianza, cioè alla non-gerarchizzazione di soggetti, atti, parole. È infatti possibile delineare un legame fra l’espressione artistica tramite immagini–creazioni e i processi rivoluzionari o di protesta nei confronti dell’ordine costituito: ne sono un esempio i movimenti artistici arabi durante le “rivoluzioni arabe ” del 2011 che hanno contribuito alla resistenza e nondimeno alla creazione di uno spazio pubblico rispetto alla domanda di democrazia e garanzia dei diritti; ne è un altro, seppur non contestualizzato, la street art, l’arte di strada, nata come naturale elaborazione della cultura pop, che grazie alla gratuità e alla facilità di fruizione si pone in contrasto rispetto al sistema istituzionalizzato dell’arte contemporanea. Questi due esempi pongono in primo piano l’importanza della strada come luogo di tutti, come spazio in cui dare voce alle proprie idee e come punto d’incontro e condivisione delle istanze individuali e comunitarie; la strada come spazio di partecipazione non controllato, non definito dalla politica, la quale tende a determinare chi può e chi non può far parte dello spazio comune, chi ha diritto di parola, chi di intervenire, chi di “fare” politica. È a questo punto che l’immagine, in quanto creazione, produce del nuovo, ma non del nuovo nel senso di qualcosa che non è mai 188

stato ma piuttosto nel senso di uno spostamento delle forme di visibilità, anche politica, delle forme di percezione (del contesto e del sé), rispetto alle nostre forme di percezione ordinarie. La rappresentazione tramite immagini di questi cambiamenti, di queste metamorfosi nel rapporto fra sensibile e il suo significato, fa sì che l’individuo trovi nell’espressione artistica uno strumento alternativo di condivisione del dissenso. L’arte diviene in questo modo la sfera o il nome che consente di dare una visibilità a questo insieme di metamorfosi che producono dissenso. Davanti alla proliferazione dell’arte nell’epoca della sua fine e alla concomitante disseminazione dell’esperienza estetica occorre allora chiedersi quale sia la loro rilevanza sociale e quali “politiche dell’estetica” contribuiscano a tracciare e regolare le nuove costellazioni di potere12. 4. Il progetto Baguette Magique La Baguette Magique, progetto di educazione informale fondato a Marsiglia nel 2012, è stato ideato all’interno di un gruppo di donne della Castellane13 grazie all’azione di coordinamento dell’Association 3.2.1., un’associazione socio-culturale che ha avviato dal 2007 diversi progetti di educazione popolare in quelle zone. Le fondatrici, Alice Rosa e Francesca Riva, sono riuscite ad operare non solo nella città di Marsiglia ma anche in vari Paesi fra cui Spagna, Italia, Messico, Brasile “in contesti molto diversi sviluppando dei percorsi d’azione e di ricerca multidisciplinare nelle quali si incontrano competenze artistiche, pedagogiche e sociali”14. Secondo le fondatrici, l’azione dell’associazione dovrebbe favorire la relazione attiva fra le persone e il contesto in cui vivono, fra locale e “l’ailleurs”, l’altro, l’esterno, cioè ciò che sta al di là della barriera del pregiudizio e della segregazione urbana particolarmente presente a Marsiglia; lo scambio intergenerazionale e interculturale sta alla base del processo di valorizzazione dell’individuo il quale si impegna nella “realizzazione di progetti collettivi che rappresentino delle occasioni di condivisione dei punti di vista, delle idee e dei sentimenti”15. I progetti dell’Association 3.2.1. si basano sull’applicazione delle tecniche e dei metodi della pedagogia attiva e interculturale16 in ambito artistico attraverso l’ausilio delle arti plastiche e visuali, l’espres189

sione corporea, la narrazione in tutte le sue forme, atelier di scoperta dell’ambiente naturale e urbano, la cucina e il gioco, il quale viene usato come strumento di esplorazione della realtà per trasformarla, sperimentando la possibilità di intervenire in maniera attiva sul contesto in modo creativo e soggettivo. L’Association 3.2.1. sbarca nel 2007 alla Castellane con le valigie piene di strumenti differenti: colori, pennelli, giochi di tutti i tipi, forchette e casseruole, diari di bordo, macchine fotografiche, lenti di ingrandimento e mappe di Marsiglia, vecchi libri, cereali, inchiostri... è grazie all’incontro con il Centro Sociale della Castellane che 3.2.1. ha potuto proporre le sue attività alle famiglie che abitano nel quartiere. Insieme alle mamme e ai loro bambini siamo partiti nell’esplorazione della Cité. È attraverso il gioco che noi abbiamo potuto trasformare e reinterpretare la realtà in modo soggettivo e creativo17.

Partendo da questi presupposti, l’associazione ha lanciato diversi progetti fra i quali troviamo il magazine della Baguette Magique, ma anche la struttura editoriale Awanäk Edizioni, l’Inventaire Belle de Mai (raccolta di racconti, dipinti e oggetti presso la sede dell’associazione), ABCD’Histoire (in collaborazione con la scuola Saint André Bernier del quartiere Castellane), e Faits man à la Casté (prodotti realizzati dalle “donne della redazione” della Baguette). Tutti i progetti sopraelencati vengono realizzati tramite il supporto di artisti e professionisti esterni all’associazione, i quali partecipano o animano gli atelier che si svolgono in varie zone della città focese e in collaborazione con i Centri Sociali dei Quartieri Nord. Nonostante la presenza di numerosi progetti, l’origine di un così complesso sistema programmatico è legata alla Baguette Magique: Nel 2012 ci siamo ritrovate fra donne intorno ad un tavolo con la domanda: “Ora a cosa giochiamo?” ed ecco l’idea del giornale. Senza fermare il gioco ma con la voglia di continuare a farlo seriamente, il nostro gruppo di donne che da tempo seguiva le attività di 3.2.1. ha deciso che eravamo pronte a farci coinvolgere in un progetto collettivo. Così è nato il progetto di creazione di un giornale per dare voce al gruppo, condividere il suo sguardo vivo e creativo, gioioso e critico allo stesso tempo e rappresentare un luogo di espressione e sperimentazione, uno strumento per agire nel proprio ambiente di vita. Grazie al centro sociale e ai suoi collaboratori ci

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siamo potute arricchire di nuove partecipanti appena arrivate nel quartiere dalle origini più disparate18.

Infatti, l’Association 3.2.1. era già presente alla Castellane prima dell’effettiva creazione della redazione e, tramite la volontà delle donne di continuare a lavorare insieme, è stata possibile la realizzazione del progetto. Esso si basa sulla creazione di un giornale interamente pensato dalle donne migranti che abitano con le loro famiglie nel quartiere della Castellane e che ne definiscono ad ogni numero temi e grafiche, capacità acquisite durante gli atelier creativi organizzati dall’associazione che hanno però anche rivelato le doti innate di ognuna di loro. La Baguette Magique (Bacchetta Magica) rappresenta uno strumento di espressione e una fonte di apprendimento importante per le partecipanti, le quali sfruttano le loro capacità di scrittura, pittura, disegno con l’obiettivo di informare i lettori su argomenti di vario tipo (cucina, tradizioni, storie di migrazione, brevi guide per la realizzazione di oggetti o prodotti di bellezza ecc.), nonché denunciare la situazione di disagio sociale nella quale esse stesse vivono insieme ai loro figli. Le “donne della redazione” hanno dunque deciso di esplorare il potenziale comunicativo ed espressivo delle immagini sotto diverse forme (il collage, la pittura, la ricerca di immagini d’archivio, il reportage fotografico, i disegni sulle foto, la creazione e l’utilizzo di pittogrammi, l’incisione artigianale) aggiungendovi diverse tipologie testuali come la poesia o l’intervista. A partire da ciò, il testo può esistere o no, può accompagnare le immagini, può evocarle e interpretarle. Esso può essere scritto in tutte le forme possibili e in lingue diverse; “la redazione ha scelto i temi e gli approfondimenti sulla base degli interessi e dei bisogni di ciascuna, abbiamo elaborato i contenuti e poi li abbiamo tradotti in immagini utilizzando le tecniche apprese19”. Infatti, nel primo numero della rivista, pubblicato nel 2014, le donne hanno potuto sperimentare liberamente varie tecniche artistiche e tipologie testuali con l’obiettivo di creare un giornale che rappresentasse un nuovo strumento di comunicazione e azione all’interno del contesto di appartenenza “per far incontrare diversi sguardi, voci, culture, immaginari, generazioni, storie di vita20”. Inoltre, il magazine ha rappresentato per le donne una speranza di cambiamento dell’immagine pubblica della Castellane, in particolare rispetto alla 191

visione generalista e negativa trasmessa dai media locali e nazionali, il cui effetto è quello della stigmatizzazione. Ad un primo numero particolarmente fondato sulla volontà di sperimentazione artistica al di là dell’azione di denuncia delle cittadine del quartiere, il secondo capitolo della Baguette Magique, pubblicato nel 2015, ha visto l’evoluzione del progetto verso una maggiore attenzione per le questioni sociali fortemente legate ai Quartieri Nord. La decisione di voler creare un giornale in formato affiche (poster) ha rappresentato il fulcro di questa nuova concezione collettiva con l’obiettivo di condividere il più possibile il risultato del lavoro del gruppo all’interno del quartiere. Il fatto di creare un giornale in formato affiche ha dunque lo scopo di rendere maggiormente fruibile il suo contenuto (il giornale è stato infatti affisso in alcuni locali cittadini come la libreria Artopass e nella scuola del quartiere), in questo caso legato a questioni particolarmente importanti per gli abitanti della Castellane come quella del rinnovamento urbano: Per il secondo numero del nostro giornale, ci siamo interessate al progetto di rinnovamento urbano. Per questo abbiamo assistito ad una riunione pubblica, intervistato un architetto che ci ha parlato della storia del nostro quartiere, abbiamo passeggiato a Plan d’Aou e alla Bricarde e abbiamo consultato i piani della Castellane di ieri e oggi21.

Il senso di questo lavoro di ricerca sulla storia del quartiere è quello di restituire ai suoi abitanti la consapevolezza e la conoscenza di ciò che è stato per poter affrontare e capire ciò che sta avvenendo in quei luoghi, consegnando nelle mani delle donne uno strumento di mediazione fra loro e gli operatori che lavorano al miglioramento delle condizioni di vita nei Quartieri Nord nella prospettiva di un futuro più sereno. Va inoltre sottolineata l’importanza che assume, in entrambi i numeri del giornale, il racconto delle esperienze di vita e migrazione delle “donne della redazione”: la quotidianità nelle bidonvilles, il trasferimento da esse ai nuovi quartieri popolari a nord della città (i Quartieri Nord), i rapporti con gli altri migranti nonché il ricordo del paese d’origine sono solo alcuni degli argomenti in essi trattati. La condivisione dell’esperienza di vita rappresenta dunque uno dei nuclei di narrazione principali all’interno del progetto. La vo192

lontà di compartecipazione e il superamento delle barriere virtuali del quartiere ha portato l’Association 3.2.1. ad organizzare eventi di presentazione del giornale in vari locali nella città di Marsiglia come le librerie, i cinema e i luoghi di ritrovo e intrattenimento. Il progetto è inoltre entrato in contatto con altre realtà associative e locali per la realizzazione di prodotti alternativi, come il programma radiofonico di presentazione del giornale a Radio Grenouille22 nell’aprile 2015 o la “Soirée Orientale” presso la libreria Artopass, nella quale le donne hanno parlato a lungo del significato del progetto accompagnate da cucina tradizionale kabyle, algerina, comoriana e dal suono dell’Oud. La continua evoluzione del progetto della Baguette Magique ha portato le “donne della redazione” a diventare sempre più autonome nonché alla pubblicazione di un terzo numero, uscito nel febbraio 2016, incentrato sul significato e sul ruolo dell’educazione, formale e informale, nella vita attuale e passata delle donne e dei loro figli. In modo particolare, esso è stato concepito in collaborazione con il Collège Henri Bernier con lo scopo di realizzare atelier pomeridiani a cadenza settimanale animati dalle donne e avvicinare i bambini a nuove forme espressive ed artistiche come la pittura murale, il collage o il ritratto. La redazione, motivata dal successo ottenuto e dall’interesse suscitato nei Quartieri Nord e nella città di Marsiglia, ha dunque deciso di impegnarsi verso una maggiore attenzione nella redazione degli articoli, esercitandosi anche al di fuori degli atelier e degli incontri settimanali presso la guardianeria della Castellane: Ciascuna nella sua casa scrive, prende appunti, disegna, cerca tracce delle proprie memorie, condivide con i parenti e gli amici le proprie idee, scopre e riscopre la passione per l’arte, la poesia, il fumetto. (…) La redazione, scegliendo il tema dell’educazione come urgenza comune, ha deciso di entrare direttamente nella scuola raccogliendo e facendo incontrare i punti di vista di coloro che la vivono quotidianamente come gli studenti, i genitori e i lavoratori (…) come fonte di riflessione per tutti23.

La collaborazione fra contesti educativi formali ed informali risulta essere particolarmente positiva per le “donne della redazione” in quanto tramite l’impegno e l’utilizzo delle competenze acquisite – o scoperte – sono riuscite ad avvicinare i bambini e i ragazzi del collège a nuove forme espressive e a porre l’attenzione sulla necessità 193

del cambiamento della realtà locale. Il quarto numero, pubblicato nel maggio 2017, ha visto la redazione cimentarsi nella scrittura e rappresentazione per immagini del tema “abbattere gli ostacoli”, assumendo un’impostazione politica più marcata e dando libero sfogo alle istanze personali e collettive delle donne coinvolte: la mancanza di un adeguato sistema di trasporti fra la cité e il centro città, le condizioni igieniche inadeguate, la condizione strutturale degli immobili, il senso di isolamento, gli elevati costi dei biglietti aerei per raggiungere i paesi d’origine, la depressione. Oggi la redazione continua a lavorare con passione e dedizione al giornale, organizzando sempre più atelier dentro e fuori il quartiere. Non sono mancate le tensioni all’interno del gruppo: tante le soddisfazioni, altrettante le frustrazioni. Se nella quotidianità i cambiamenti apportati dalla partecipazione al progetto sono stati importanti (il senso di appartenenza al gruppo, la certezza di poter condividere con l’altro le proprie insicurezze e istanze, la consapevolezza delle capacità e della possibilità di diffondere anche fuori dalla cage le criticità del quartiere) poche sono state le possibilità di interfacciarsi con le istituzioni. Il progetto della Baguette Magique è dunque un importante e significativo esempio di progetto di educazione informale-popolare nei Quartieri Nord di Marsiglia a favore delle donne migranti basato sull’apprendimento e la sperimentazione di tecniche artistiche. Il lavoro dell’associazione e delle madri della Castellane ha attratto l’attenzione dell’opinione pubblica e degli abitanti nelle Cités Nord, trasformandosi nel corso degli ultimi anni in un vero e proprio strumento di denuncia, lotta e “liberazione” non solo dall’anonimato e dall’emarginazione ma anche dei talenti, dunque un metodo di scoperta delle capacità di ciascuno. La crescita della consapevolezza delle donne rispetto alla loro situazione e alla possibilità di cambiare ciò che rende le loro vite difficili e meno serene ha rappresentato un vero e proprio mutamento delle poste in gioco del progetto, spostando il focus dello stesso dal “semplice” apprendimento di tecniche artistiche all’utilizzo delle stesse per esprimere i propri punti di vista e condividerli con gli altri in un processo di autonomizzazione e sviluppo della persona.

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5. La resistenza si può apprendere? Il progetto sopra descritto ha reso dunque possibile l’innescarsi di un processo di autonomizzazione delle donne della redazione della Baguette Magique, un cambiamento forse poco visibile dall’esterno ma che ha saputo apportare grandi miglioramenti nella quotidianità del quartiere Castellane. L’esperienza editoriale (e, successivamente di diffusione delle pratiche e nozioni acquisite in una prospettiva pedagogica) ha ispirato altri gruppi di individui nello scrivere, creare, “fare” arte: è il caso del gruppo della “Gazette de la Roug”24, formato da un insieme di abitanti di un altro quartiere periferico Marsigliese (La Rougière, Quartieri Nord) che ha avviato un progetto simile, chiamando le donne della Baguette Magique a collaborare e trasmettere le buone pratiche apprese nel corso degli anni. Un altro caso è quello del Le Petit Journal del quartiere Belsunce, quartiere centrale, a pochi passi dal porto che però registra alti tassi di disoccupazione e povertà. La trasmissibilità delle pratiche artistiche, il loro simbolismo e l’universalità del mezzo artistico rendono i percorsi di educazione e sperimentazione artistica, l’alfabetizzazione tramite immagini, uno strumento pedagogico largamente fruibile; l’arte si fa portatrice di istanze personali e pubbliche assumendo valenze politiche inaspettate 25. Si delinea dunque un collegamento fra percorsi educativi “alternativi”, informali e processi resistenziali dal basso nel momento in cui l’educazione aiuta l’individuo ad analizzare sé stesso e l’ambiente circostante. In questo senso si può parlare di una pedagogia della resistenza, in una prospettiva bi-direzionale: da un lato un percorso educativo che porti l’individuo a ricercare dentro di sé le motivazioni e le cause del disagio psico-sociale, trasformando le nozioni apprese in strumenti e pratiche della resistenza, dall’altro le conseguenze della resistenza, la presa di coscienza degli effetti politici delle proprie azioni; azioni che nella quotidianità di un quartiere periferico possono apportare reali cambiamenti26 . È l’azione di dire “no”27, di esprimere il contrasto rispetto allo status quo e alla quotidianità della “cage” 28 che fa del percorso di formazione e sperimentazione artistica qui descritto una pratica di resistenza, una resistenza appresa e rivelata. Citando Raffaele Mantegazza, studioso della pedagogia della resistenza, “non si può credere che 195

tutto sia finito, che non ci sia via d’uscita, che il potere o il dominio abbiano progettato e realizzato la perfetta ragnatela inattaccabile che a volte sembra trasparire da certe opere di Foucault”29 soprattutto laddove la marginalizzazione causa disillusione e mancanza (sociale, emotiva, economica). È inoltre interessante osservare come questi percorsi di formazione alternativi facciano breccia laddove vi è un deficit educativo, causato dal basso tasso di completamento della scuola dell’obbligo da parte dei giovani abitanti delle banlieues così come dei loro genitori: nell’esperienza vissuta sul campo ho potuto constatare come sia stato più semplice per molte delle donne della redazione approcciarsi ai corsi di lingua francese passando dalla rappresentazione della realtà e delle storie personali per immagini; è nata infatti in loro la voglia di trasmettere determinate emozioni e sensazioni all’altro scrivendo in buon francese. Una poesia, un breve saggio, una lettera. Effettivamente, anche l’acquisizione di una maggiore sicurezza in ambito linguistico30 ha reso ancora più contingente la necessità da parte delle donne della redazione di esternare i propri disagi e le problematiche del quartiere (criminalità, povertà, malessere sociale, isolamento), miglioramento che sarebbe stato frenato dalla mancanza di strutture preposte all’alfabetizzazione in francese nei quartieri periferici. La maggior parte degli attori coinvolti nel progetto ha potuto dunque dar luce alle capacità, scoprirle, prendere coscienza di poter dire e poter fare, il tutto in una prospettiva di riscatto ed emancipazione rispetto allo status quo. Facendo riferimento a Joseph Jacotot, l’importante nell’idea di emancipazione non è solo l’idea che sia necessario liberarsi da una costrizione, ma l’idea che sia possibile liberarsi della propria incapacità31. Si resiste soltanto perché si pensa che possa esserci un’utopia (… ) che non può essere ridotta a ideale regolativo coscientemente irraggiungibile che sollecita graduali miglioramenti, mentre deve essere intesa come qualcosa da realizzare interamente qui e ora, tutta e subito. Non si può lottare per niente altro se non per la completa realizzazione di un’utopia; certamente possiamo immaginarci che dopo la realizzazione sarà nostro compito individuarne i limiti e le zone d’ombra, ma non possiamo anticiparne la critica per procrastinare la ricerca di un’inedita dimensione dell’esistere. Non credo che abbia senso lottare per qualcosa di meno di questo, per

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qualcosa di inferiore al tutto, sapendo che anche nel tutto sarà necessario ripercorrere un nuovo itinerario32.

È dunque importante prestare attenzione alle forme di resistenza dal basso soprattutto in quei contesti marginali, separati, contesti pubblici dove queste pratiche si diffondono in modo nascosto, che possono “prendere forma di una critica comune della dominazione”33, permettendo inoltre di comprendere lo spazio del dissenso possibile. Le forme di resistenza travestite (dietro un giornale di quartiere) e nascoste (fra le mura domestiche) sono infatti le compagne silenziose, e spesso più creative e profonde, delle diverse forme sonore di resistenza pubblica. Questi e altri linguaggi sono parte di “una critica al potere nascosta dietro l’anonimato o dietro l’interpretazione innocua del proprio comportamento”34, dei “verbali segreti” nella quotidianità che possono essere il risultato di un percorso di autonomizzazione e presa di coscienza del sé e dell’ambiente circostante. L’arte ne può essere strumento, catalizzatore e propulsore. La Baguette Magique è un esempio tangibile e concreto della capacità dell’espressione artistica di essere “incubatrice” di tattiche di resistenza sotterranee che innescano il rovesciamento di prospettiva fra l’impossibilità, l’incapacità dell’individuo di modificare sé stesso e la sua dimensione socio-spaziale e le dinamiche di potere tipiche dello stato di polizia. Attraverso la creazione artistica l’individuo abbatte i limiti imposti dallo status quo: da spettatore, diviene attore capace di innescare cambiamenti importanti rilevabili nella quotidianità.

NOTE 1 Studio condotto a Marsiglia fra gennaio 2015 e agosto 2017 applicando il metodo della ricerca sociale di tipo qualitativo, indagando in particolare l’interconnessione con la storia, con il contesto che viene indagato e il vissuto degli individui che nel contesto si trovano a vivere ed operare. 2 Habitation à loyer modéré, organismo di abitazioni ad affitto “moderato” gestito da un ente pubblico, “case popolari” in Italia. 3 Fonte Insee, Censimento generale della popolazione, 2016. (http:// www.insee.fr/fr/themes/theme.asp?theme=2&sous_theme=1).

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4 Pietro Saitta, Resistenze. Pratiche e margini del conflitto nel quotidiano, Ombre Corte, Verona, 2015, p. 12. 5 Michel De Certeau, L’invention du quotidien, Gallimard, Paris, 1980. 6 Pietro Saitta, Resistenze. Pratiche e margini del conflitto nel quotidiano, Ombre Corte, Verona, 2015, p. 21. 7 Con “margine” voglio intendere non solo l’entità spaziale nel binomio geografico centro-periferia ma anche luogo o situazione in contrasto con il “centro” che porta all’esclusione dell’”emarginato” dal nucleo sociale, economico, politico e culturale a livello locale e nazionale. Questa definizione differenzia l’emarginato dall’escluso in quanto il primo è visto come un attore in contrasto con la società, un a-sociale mentre il secondo come una vittima della società stessa (Lautier, 2006, pp. 17-18). Entrambi vengono dunque comunemente ritenuti elementi negativi o passivi di un contesto sociale dominato dalla maggioranza. L’idea che l’arte possa restituire il giusto peso e la giusta considerazione al margine disegna un capovolgimento della visione assistenzialistica e passiva dello stesso che assume maggiore dignità e delinea una serie di possibilità imperdibili all’interno del processo di inclusione. 8 Bruno Lautier, Discussion (suite). Notes d’un sociologue sur l’usage de la notion de «marge» dans les sciences sociales du développement, in «TiersMonde», tomo 47, n. 185, 2006. 9 Il fenomeno della costruzione e proliferazione di bidonvilles o slum in tutto il mondo come forma di alloggio per la popolazione più povera (Lautier B., 2006). 10 Everett Stonequist, The Marginal Man, Russell and Russell, New York, 1937, p. 58. 11 Testo-intervista raccolto, trascritto e tradotto da Ilaria Bussoni e Fabrizio Ferraro, in occasione del Festival del Cinema Ritrovato, Cineteca di Bologna, 2015. 12 Ivan Bargna, Gli usi sociali e politici dell’arte contemporanea fra pratiche di partecipazione e di resistenza, in «Antropologia», n. 13, 2012, p. 45. 13 Quindicesimo arrondissement nella periferia nord marsigliese. 14 http://www.awanak.org/association-321/ 15 Ibidem 16 Con “pedagogia attiva” si intende il metodo educativo che ebbe origine alla fine del XIX secolo, prevalentemente ad opera del filosofo Americano John Dewey. L’Attivismo ha come scopo la creazione di una scuola non convenzionale, non impostata sul nozionismo e sull’ascolto passivo degli insegnanti o lo studio individuale. La nuova pedagogia, secondo Dewey,

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deve mirare al metodo e abbandonare ogni contenuto prefissato, puntando non solo allo studio dei fatti della storia passata ma anche e soprattutto all’analisi dell’azione futura. Le nozioni sono fini a sé stesse in quanto mutevoli, ciò che realmente conta è la ricerca e lo sviluppo delle capacità critiche. L’indagine tramite l’esperienza diretta è la sintesi di questo metodo (da Enciclopedia Treccani). Questo metodo è spesso accostato a quello Montessoriano. L’educazione interculturale si configura come un’insieme di azioni educative finalizzate a favorire l’integrazione fra le culture valorizzando il métissage visto come “un’occasione” e “una risorsa”. È in primis un progetto intenzionalmente formativo che si basa sull’incontro e sulla reciproca contaminazione volto a favorire il dialogo tra le culture. Con “pedagogia interculturale” intendiamo invece il modello educativo che intende individuere, all’interno di un progetto educativo, uno specifico percorso di interazioni fra soggetti appartenenti a diverse culture e mirante a favorire il superamento del monoculturalismo. Esso si pone in stretta collaborazione con le scienze sociali, in particolare con l’antropologia e la sociologia, ma anche con altri settori come quello economico o del diritto internazionale, che offrono contributi puntuali per fare chiarezza sugli aspetti cruciali della questione dei rapporti tra i popoli e le culture. Lo scopo dell’educazione interculturale è dato dai processi di apprendimento che portano l’individuo ad avvicinarsi altre culture e ad instaurare con esse rapporti di disponibilità, di apertura, di dialogo (Pedriali M., 2012). 17 http://www.awanak.org/association-321/ 18 Fatma Al-Ayub, intervista (Marsiglia, 25/05/2017). Trad. mia. 19 Ibidem 20 Ibidem 21 Ibidem 22 Le donne della redazione hanno realizzato una trasmissione radiofonica per Radio St Antoine/ Radio Grenouille andata in onda il 2 aprile 2015. È possibile ascoltare la registrazione sul sito della radio marsigliese al link http://www.radiogrenouille.com/programmes-radio/emissionsspeciales/radio-saint antoine/ 23 Fatma Al-Ayub, intervista (Marsiglia, 25/05/2017). Trad. mia. 24 https://www.csrouguiere.com/la-gazette-de-la-roug. 25 Jacques Rancière, Le Partage du Sensible, La Fabrique, Paris, 2000. 26 La partecipazione al progetto ha consentito alle donne non solo la condivisione dei problemi quotidiani con altre donne, ma ha reso possibile per molte di loro l’acquisizione di uno status diverso all’interno della

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famiglia, diventando degli esempi “educativi” per i figli e per i mariti; la componente culturale-religiosa assume in questo contento un’importanza tutt’altro che marginale: l’aggregazione di donne di origine e religione diversa ha rappresentato infatti un elemento di novità nel quartiere. La popolarità che il giornale ha raggiunto nel quartiere, nella città di Marsiglia e anche al di fuori ha portato vari cambiamenti come la maggiore attenzione (positiva) delle istituzioni coinvolte nel progetto alla situazione vissuta quotidianamente nei Quartieri Nord, la sensibilizzazione della popolazione in generale agli argomenti trattati nel giornale. 27 Theodor W. Adorno, Teoria dell’Halbbildung, Il Melangolo, Genova, 2010, p. 45. 28 “cage”, prigione in lingua francese, è la parola maggiormente utilizzata dagli abitanti della Castellane per definire il quartiere in cui vivono. 29 Filippo Trasatti, intervista a Raffaele Mantegazza, in «Rivista Anarchica Online», anno 34, n. 298, 2016. 30 Viene registrata all’interno del gruppo la presenza di un’analfabeta. All’inizio del progetto la donna si esprimeva esclusivamente tramite immagini (2014). Nel 2017 scrive in buon francese una lettera in cui racconta la sua storia e le difficoltà che vive nella quotidianità (Baguette Magique, n. 4). È lei che nel 2016 avvia il progetto Faits Man à la Casté, condividendo le sue capacità di sarta con le sue compagne. 31 Jacques Rancière, Il maestro ignorante, Mimesis, Milano, 2009, p. 38. 32 Raffaele Mantegazza, Tracce utopiche. Educare a resistere, Città Aperta, Siena, 2003, p. 25. 33 Ibidem 34 James C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza, Elèuthera, Milano, 2012, p. 11.

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BAILE DE FAVELA LEGGERE LE TENSIONI SOCIALI DI RIO DE JANEIRO ATTRAVERSO LA MUSICA FUNK Silvia Stefani 1. Parlare di funk Vivere a Rio de Janeiro significa essere accompagnati da una costante colonna sonora in cui si alternano pagode1, samba, canti di chiese evangeliche, ma soprattutto musica funk. I brani del momento si diffondono nello spazio urbano dai bar e dalle case private, dalle radio dei taxi e dei venditori ambulanti. Le trasmissioni ripetute imprimono nella memoria degli abitanti i ritornelli dei brani più in voga. Il funk è un elemento quotidiano e materiale della vita a Rio de Janeiro. Tuttavia, l’animosità dei dibattiti sul funk a cui mi è capitato di assistere ha acceso la mia curiosità etnografica. Il funk sembra essere qualcosa di più di un genere o un movimento musicale, è una questione sociale, che divide le opinioni degli abitanti della città. Durante i mesi sul campo, ho iniziato a pensare che ciò sia motivato dal fatto che i carioca, quando parlano di funk, parlano in realtà di altro: di se stessi e della città in cui vivono, degli intrecci di disuguaglianze che attraversano il contesto urbano modellando le loro vite. Rio de Janeiro, infatti, è contraddistinta da un insieme di profonde disuguaglianze che si intersecano in ciò che Patricia Collins2 ha definito “matrice di oppressione”. Il concetto elaborato da Collins è diventato uno strumento chiave della prospettiva intersezionale3, volta a cogliere gli intrecci e i rapporti di influenza tra i diversi assi di potere operanti in un determinato contesto. Nella matrice di oppressione carioca si intersecano, in particolare, la segregazione urbana, la “razza4”, la classe sociale e il genere, che, plasmando opportunità e limiti delle esperienze dei soggetti, contribuiscono all’emergere di gerarchie sociali e rapporti di potere. Adottando un approccio intersezionale, traccerò un disegno della complessa realtà sociale carioca, sulla base di dati e riflessioni prodotte nell’ambito di una ricerca etnografica che ho condotto nel corso del 2016. A tale fine, utilizzerò il funk come lente attraverso cui osservare le caratteristiche e i mutamenti propri della matrice di oppressione di Rio de Janeiro. Questo 201

genere musicale non solo rappresenta un fenomeno mediante il quale è possibile interrogare la realtà urbana brasiliana, ma è a sua volta un campo sociale e simbolico di lotta, in cui sono agite, riprodotte e poste in discussione le relazioni di potere e le narrazioni relative a identità, nazione, corpo e cultura5. Il capitolo si divide in tre parti. Nella prima, descriverò l’arrivo del funk nella città carioca e il suo progressivo radicamento nelle favelas e tra i gruppi sociali più poveri e discriminati. La seconda parte discuterà le trasformazioni che hanno interessato questo genere musicale a partire dagli anni Novanta, che lo hanno visto protagonista di una commistione graduale con il narcotraffico e, specularmente, di un processo di criminalizzazione e stigmatizzazione da parte del potere egemonico. Analizzerò inoltre come queste dinamiche giochino un ruolo nella più ampia discriminazione dei gruppi sociali subalterni, funzionale all’implementazione di varie politiche adottate negli anni passati nelle favelas. Infine, non si può non riconoscere al funk un carattere contro-egemonico fondamentale. Nell’ultimo paragrafo analizzerò come gli eventi e la produzione musicale rappresentino per i gruppi sociali subalterni un’opportunità per generare discorsi e modelli identitari resistenti. Considerando il caso emblematico del progetto Afrofunk, creato da tre donne nere delle classi popolari carioca, descriverò come queste artiste ribaltino il proprio posizionamento di multipla oppressione facendone una base da cui costruire identità insorgenti, che mobilitano in maniera contro-egemonica i temi della “razza” e del genere. 2. L’arrivo del funk in città Se il funk attraversa l’intera città carioca, non la percorre però in modo uniforme: le favelas rappresentano nell’immaginario locale le officine di produzione di questo genere musicale, che pure ad oggi si è diffuso a macchia d’olio a Rio come nel territorio nazionale. Fin dalle sue origini, questo genere musicale sincretico si è sviluppato in uno stretto rapporto con le zone più povere della città. Negli anni Sessanta, infatti, il funk e il soul nordamericano hanno iniziato a circolare sul territorio brasiliano, concentrandosi in particolare a Rio de Janeiro6. Se nei primi anni l’intera città ospitava i baile funk, se202

rate danzanti dedicate a tale genere, rapidamente questi eventi sono andati localizzandosi esclusivamente nelle parti popolari della metropoli: le favelas e la Zona Nord e Ovest7. Rio de Janeiro è spesso stata descritta e rappresentata come una città duale8: divisa tra favelas e asfalto, termine che a Rio indica, con una sineddoche, la parte di città che favela non è9. Di fatto la presenza/assenza dell’asfalto è un indicatore relativamente accurato dello status del quartiere stesso. Le strade sterrate delle favelas percorrono spazi urbani autocostruiti dagli stessi abitanti, che raggiungono dimensioni anche notevoli10 e sono caratterizzati da una drammatica carenza di infrastrutture e servizi e da un alto tasso di violenza urbana. Sospese tra informalità e illegalità, le favelas offrono a chi vi abita spazi di vita precari, costantemente esposti ai pericoli derivanti tanto dai fenomeni naturali, quali le piogge alluvionali e le conseguenti frane, quanto dal potere formale, che ripetutamente nella storia carioca ha impugnato l’illegittimità dell’occupazione del suolo per rimuovere forzatamente interi quartieri poveri11. Al dualismo strutturale della città corrisponde una profonda disuguaglianza tra le opportunità, gli stili di vita e i modelli di costruzione identitaria accessibili ai soggetti a seconda del luogo di residenza. La contrapposizione tra favelas e asfalto è enfatizzata nell’immaginario locale, tanto che le favelas vengono rappresentate come mondi altri, regolate da norme sociali, pratiche e assunti culturali differenti. La profonda disuguaglianza economica alla base della segregazione urbana è un dato che interessa l’intera società brasiliana. A differenza di altre metropoli, a Rio tale disuguaglianza si sviluppa in una dimensione particolare di prossimità: l’intreccio tra favelas e asfalto attraversa infatti l’intera geografia cittadina. Storicamente, le favelas sono sorte sulle colline della Zona Sud e del centro, i quartieri più ricchi della capitale carioca. Le colline, considerate impervie e poco interessanti per il mercato immobiliare di inizio Novecento, hanno offerto alla parte più povera e più discriminata della popolazione l’opportunità di costruirsi un’abitazione in una posizione centrale dell’area urbana, da cui fossero facilmente raggiungibili i quartieri benestanti in cui trovare impiego o, più spesso, lavoretti saltuari funzionali alla sopravvivenza12. Da allora le favelas rappresentano un bacino di manodopera a basso costo, che da più di un secolo fornisce alla città un esercito di domestiche, tate, manovali, portieri, autisti, venditori ambulanti (nonché prostitute, spacciatori e poliziotti), in203

dispensabili per la riproduzione dello stile di vita dell’élite locale. La disuguaglianza economica è strettamente intrecciata alla dimensione razziale nella matrice locale di oppressione. La suddivisione del reddito per “razza” contraddice la rappresentazione identitaria nazionale di paese “mescolato”, multirazziale: nel 201413, l’1% della popolazione nazionale con maggior reddito era composto per l’80% da bianchi, mentre il 76% del gruppo con minor reddito era costituito da persone che si identificavano come pretas o pardas14. Mentre l’élite politica, economica e culturale continua a essere composta principalmente da bianchi, la base della piramide sociale15 raccoglie la maggior parte della popolazione che si identifica come preta, india o parda. Se per anni la disuguaglianza razziale è stata interpretata come eredità della schiavitù destinata a scomparire nel tempo, oggi è invece chiaro quanto sia un frutto di scelte politiche, pratiche razziste e discriminazioni operanti nella contemporaneità, che contribuiscono a mantenerla in essere16. Radicandosi in questo tessuto sociale, il funk è diventato un prodotto culturale made in favela. Il genere musicale transnazionale è stato protagonista di un processo di glocalizzazione17, che ha comportato innanzitutto una sua semplificazione tecnica. La riduzione del funk all’accostamento del ritmo dei bassi e della base cantata/ parlata ne ha favorito la produzione “domestica”, con una strumentazione essenziale, fatto che ha permesso ai giovani delle favelas di creare e far circolare facilmente brani propri negli eventi funk diffusi in città. Ai suoi esordi, i temi di questa produzione musicale erano fortemente connessi proprio alla disuguaglianza e alla segregazione descritte. I primi testi, degli anni Settanta e Ottanta, si concentravano su temi politici, denunciando le ingiustizie e le difficoltà della vita in favela, auspicando una presa di coscienza collettiva rispetto alla violenza strutturale che attraversava la città. I funk antigos, come vengono chiamati oggi, hanno sviluppato una sorte di “poetica delle favelas”: ne tratteggiavano descrizioni alternative, mettendo in luce aspetti positivi spesso trascurati nelle rappresentazioni dominanti, quali la creatività diffusa, l’importanza della socialità e della solidarietà per far fronte alle difficili condizioni di vita18. Queste narrazioni non costituivano immagini ingenue e “romantiche” della povertà, ma erano accompagnate da una riflessione critica sulle disuguaglianze strutturali e sull’ingiustizia sociale che colpivano la popolazione favelada. 204

3. Funk proibito, criminalizzazione e stigma Gli anni Novanta hanno segnato una fase di profonda trasformazione del funk, tanto rispetto ai contenuti del genere musicale in sé, quanto in riferimento alla sua ricezione e rappresentazione nello spazio sociale. Ai contenuti più sociali e politici dei funk antigos si sono sostituiti testi erotici, focalizzati su una descrizione della sessualità, accompagnata da espressioni e termini provocatori. Anche il tipo di ballo associato a questa musica ha iniziato ad essere fortemente sessualizzato: negli eventi e nei video musicali le donne coinvolte agitano le natiche rivolte verso il pubblico o il pube del cantante, con movenze che alludono ad atti sessuali. A fianco del funk erotico è sorto un altro sottogenere, definito proibidão, ovvero “proibito”, riflesso di una profonda trasformazione in corso a Rio. É in quegli anni, infatti, che Rio de Janeiro ha iniziato ad occupare un ruolo centrale nel mercato globale di distribuzione della droga e le favelas sono diventate lo spazio di radicamento di fazioni contrapposte di narcotrafficanti, che da allora si contendono il dominio su questi territori. Il “potere parallelo” dei narcotrafficanti non si è limitato al controllo del commercio di armi e droga, ma progressivamente è arrivato a disciplinare la vita degli abitanti delle favelas: sono loro a stabilire i colori da non indossare perché legati a una fazione nemica, i comportamenti da non adottare perché “contrari alla morale” (le persone lgbt per esempio sono pericolosamente esposte a tale violenza regolatrice), i confini di legalità da non valicare per il benessere della collettività. Spesso sono le fazioni a facilitare gli allacciamenti abusivi all’energia elettrica e a gestire direttamente la vendita di droghe pesanti negli spazi pubblici delle favelas, ma non tollerano i furti commessi all’interno della comunità, arrivando a punirne i responsabili anche con la morte19. La risposta istituzionale adottata di fronte al radicamento del potere del narcotraffico è stata l’attuazione di una politica di tolleranza zero e di “guerra alle droghe”20. Dagli anni Novanta ad oggi, in questa cornice si inseriscono gli interventi violenti della polizia militare nelle favelas, l’incremento del sistema carcerario e l’inasprimento dell’opinione pubblica sul tema, tanto che in una ricerca realizzata nel 2008 dalla Secretaria dos Direitos Humanos della Presidenza della Repubblica il 43% degli intervistati si è dichiarato d’accordo con l’espressione popolare “bandido bom è bandido morto21”. La 205

guerra interna alle fazioni e con i corpi di polizia è responsabile di un tasso di mortalità paragonabile a quello di zone di conflitto. Solo nel 2016 –anno della mia ricerca sul campo- 1.909 persone sono state uccise a Rio de Janeiro, con un tasso di letalità violenta di 29.4 su 100.000 abitanti22. Il funk proibidão si concentra su queste tematiche e racconta, spesso con tono più celebrativo che critico, le azioni dei narcotrafficanti, la violenza esercitata e la guerra scatenata tra fazioni e polizia. Quando passa per le emittenti radiofoniche viene in parte edulcorato ed è appunto “proibito” perché considerato un’apologia della violenza e del narcotraffico. Il legame tra questo genere musicale e il narcotraffico si è consolidato, inoltre, anche attraverso l’organizzazione dei baile funk da parte delle fazioni locali. In ogni favela almeno una strada o una piazza fungono da sede del baile funk della zona. Spazi che durante il giorno sono scenario della normale routine degli abitanti, nelle notti dei fine settimana arrivano a ospitare file di casse musicali che riversano il ritmo ipnotico e ripetitivo dei bassi su una folla di giovani, di fronte a cui si esibiscono ballerine e cantanti conosciuti nel circuito locale. I baile funk rappresentano un elemento costitutivo della vita in favela: per i giovani sono una delle poche forme di svago accessibili in quanto gratuiti, essendo finanziate dai narcotrafficanti, che le utilizzano come piazze di spaccio. Sono elementi pregnanti anche per chi non vi prende parte: la folla di funkeiros che si riversa sul luogo dell’evento, il volume frastornante della musica e gli episodi di violenza che spesso scoppiano in tali occasioni sono elementi che inevitabilmente interessano la quotidianità di tutti gli abitanti della zona. Negli anni Novanta, come anticipato, non si è trasformato solo il contenuto del funk, ma anche la sua ricezione da parte dell’opinione pubblica. Nel 1992, per la prima volta i media locali hanno associato questo genere musicale alla criminalità. Erano in corso le elezioni municipali, che, situazione inedita per la capitale carioca, vedevano la candidatura di una donna nera di origine popolare, Benedicta da Silva23, con reali possibilità di vittoria. In concomitanza con la campagna elettorale, le spiagge di Copacabana e Ipanema furono colpite da una serie di arrastões24: masse di bambini e ragazzini provenienti dalle aree povere della città si riversarono nelle spiagge seminando il panico e derubando i bagnanti in fuga. La stampa locale diede una copertura intensiva alla notizia, scelta che probabilmente giocò un 206

ruolo nella vittoria del candidato di centro-destra. In questa occasione i media attribuirono le rapine a bande di giovani funkeiros delle favelas, inaugurando l’associazione tra questo genere musicale e il campo semantico del crimine25. Da allora il processo di criminalizzazione del funk ha assunto diverse forme. L’espressione più recente di questo fenomeno si rintraccia nel trattamento riservatogli nel programma di pacificazione delle favelas. Dal 2008, in vista dei grandi eventi che Rio ha ospitato nell’ultima decade26, i governi municipali e statali carioca hanno implementato in alcune favelas un programma di pacificazione volto a ridurre il tasso di violenza urbana e pericolosità27. La pacificazione è articolata secondo fasi standardizzate: a un massiccio intervento iniziale della polizia militare, spesso coadiuvata dall’esercito, volto a eradicare la presenza del narcotraffico nella favela beneficiaria, segue l’innesto sul territorio della presenza quotidiana e continua di un nuovo corpo di polizia, l’UPP, Unità di Polizia di Pacificazione, pensata sul modello della polizia di prossimità28. I media e i policy-makers, attingendo all’immaginario bellico, hanno descritto queste operazioni come un piano di riconquista territoriale di zone che erano state sottratte alla città dai narcotrafficanti. Le zone pacificate sono state oggetto di un processo di disciplinamento dell’intera organizzazione della vita sociale. Per far fronte alle difficili condizioni di vita, gli abitanti delle favelas spesso sviluppano un modo di produzione autonomo e informale della vita urbana29: dagli allacciamenti abusivi all’energia elettrica (definiti gato), al sistema di trasporto tramite mototaxi, dalla diffusione di negozietti informali che vendono varejo, ossia un pezzo alla volta (una sigaretta, un rotolo di carta igienica), sino all’autocostruzione abusiva delle abitazioni e del quartiere. Le unità di polizia pacificatrice hanno imposto sui territori riconquistati un intervento che è stato ribattezzato “shock di ordine” volto a regolarizzare gli elementi informali/illegali, che si è tradotto concretamente in una sorta di “shock di classe”, dato che la maggior parte degli abitanti vive dei proventi di queste attività e non ha i mezzi per adeguarsi agli standard della regolarizzazione prescritta30. Il disciplinamento della vita in favela ha interessato anche la musica funk. Le UPP hanno imposto infatti forme di controllo degli eventi organizzati nei territori di loro competenza. L’obbligo di dover ottenere un permesso dell’UPP per l’organizzazione di feste sul 207

suolo pubblico ha scatenato il malcontento dei residenti, da anni abituati a utilizzare le vie come spazio comune a disposizione, viste anche le dimensioni ridotte delle abitazioni31. Quest’obbligo spesso si è tradotto nella proibizione dell’organizzazione di eventi funk, in quanto, secondo le UPP, le favelas non sono preparate per questo tipo di iniziative32. La criminalizzazione33 e regolamentazione descritte sono parte di un più ampio processo di stigmatizzazione del genere musicale. Il funk è oggi oggetto di numerose critiche che sfociano in condanne morali, che ne attaccano la commistione con la violenza e il narcotraffico, il sessismo, l’espressione esplicita e volgare della sessualità, finanche la qualità musicale. Attribuire uno stigma non solo alle attività illecite tipiche della favela, ma anche alla sua produzione culturale rappresenta una strategia di alterizzazione e svalutazione dei gruppi sociali che la abitano. La musica, in questo caso, diventa un marcatore culturale manipolato per creare differenze all’interno della popolazione carioca e per riprodurre le gerarchie di prestigio e valore che attraversano la città e penalizzano i gruppi sociali neri, poveri e favelati. Alterizzare e svalutare questa parte della cittadinanza legittima l’adozione di diverse politiche che negli ultimi anni hanno interessato le favelas carioca: dagli interventi violenti della polizia militare che seminano morti, all’implementazione di programmi imposti dall’alto senza alcuno spazio di co-progettazione o negoziazione con gli abitanti del luogo, come nel caso delle UPP34. La negazione del funk come prodotto culturale delle favelas riflette dunque un più ampio disconoscimento della capacità di autodeterminazione dei suoi abitanti, a cui raramente viene concesso spazio decisionale o di azione nei progetti volti a risolvere le problematiche dei loro territori di appartenenza. La svalutazione descritta non ha tuttavia impedito al funk di raggiungere negli anni una crescente popolarità, anche oltre i confini in cui è sorto inizialmente. Come è avvenuto in passato per altri prodotti culturali originariamente diffusi tra i ceti più bassi della popolazione, come il samba e la capoeira, anche il funk è oggetto contemporaneamente di processi di stigmatizzazione e di riconoscimento. Se la pacificazione lo ha disciplinato nelle favelas, allo stesso tempo, nel 2009 l’Assemblea Legislativa dello Stato di Rio de Janeiro (ALERJ) lo ha dichiarato patrimonio culturale. Queste due tendenze contrad208

ditorie sono entrambe presenti nella realtà carioca attuale e rispecchiano la duplice funzione assunta dal funk: da una parte spazio e strumento di riproduzione delle gerarchie sociali esistenti, dall’altra arena di produzione di identità e narrazioni resistenti. I contenuti contro-egemonici presenti nel funk odierno differiscono, tuttavia, dalle denunce politiche dei testi degli anni Settanta e Ottanta, poiché mobilitano temi nuovi in relazione ai quali emergono identità insorgenti: nello specifico il genere e la “razza”. 4. “Pode vir que eu sou mulher, eu sou preta35”: identità resistenti nel funk Su un lato della piazzetta del Cantão, nella favela di Santa Marta, è stato montato un piccolo palco. Sopra il palco ci sono alcuni fili di lampadine che formano un tetto di luce sullo spiazzo circolare. I cavi si confondono con la ragnatela degli allacciamenti abusivi all’energia elettrica che ricopre la favela. A Quebrada, un gruppo musicale di giovani locali che ha raggiunto un discreto successo nella scena culturale di Rio, ha organizzato l’evento e, grazie ai contatti nel mondo della produzione, ha allestito la scenografia. Hanno organizzato un incontro a metà tra il ludico e il politico, per suonare e promuovere un dibattito rispetto alla violenza di genere e al sessismo, visti alcuni recenti episodi di cronaca che hanno scosso l’opinione pubblica. Pedro, chitarrista e compositore del gruppo, pensa sia importante organizzare serate gratuite di questo tipo, per rendere la favela uno spazio di produzione di cultura e pensiero politico indipendente. Al calare del sole, la piazza è gremita: abitanti di tutti i tipi e le età si sono radunati sotto il tetto di lampadine, dai giovani affiliati alle bande di narcotrafficanti, alle vecchie signore, ormai tra le più antiche residenti del morro36. C’è anche qualche faccia nuova, dell’asfalto, probabilmente amici dei musicisti, saliti in favela grazie agli spazi di attraversamento e ibridazione che la musica ha da sempre aperto in Brasile. Alcuni fortunati assistono dalle finestre delle loro case affacciate direttamente sulla piazza, salutando conoscenti dal loro posto d’onore. A un certo punto le lampadine si spengono, la tensione del pubblico si fa palpabile. Inizia a suonare una musica classica, inaspettata. Le luci si riaccendono, sul palco salgono tre ragazze con la pelle scura e con capigliature voluminose in diversi stili “afro”. Sono le Afrofunk, un gruppo di

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funkeiras della periferia di Rio de Janeiro che sta diventando popolare nella realtà carioca. Indossano dei tutù rosa ed entrano sul palco muovendosi con passi di danza leggiadri, un po’ caricaturali. A un certo punto, una tromba sintetizzata interrompe la musica classica. Le ragazze si immobilizzano e si guardano a vicenda ostentando espressioni di sorpresa. A quel punto inizia a suonare l’inconfondibile ritmo dei bassi del funk: tum-cia-cia tum-tumcia, tum-cia-cia tum-tum-cia. Le ragazze si strappano i tutù, assumono delle espressioni dure e iniziano a ballare il funk agitando fianchi e natiche. La cantante afferra il microfono e rivolta al pubblico scandisce sulla musica: «Não me chame de morena! Que eu fico boladona! Não me chame de morena, me chame de negona! Meu cabelo é black power, então chega de gracinha: eu sou negra, sou rainha!37» (Diario di campo, maggio 2016, Rio de Janeiro).

Il ruolo che le donne ricoprono nel funk rappresenta un elemento controverso, che, come anticipato, è un argomento spesso mobilitato dai suoi detrattori. Diverse ricerche accademiche discutono il posizionamento delle donne in questo movimento musicale per comprendere se costituisca uno spazio di resistenza o un ulteriore campo di assoggettamento femminile. Edineia Oliveira38, per esempio, ha esplorato la rappresentazione delle donne e delle relazioni di genere nei testi funk adottando l’approccio dell’analisi critica del discorso. Nell’esaminare 24 canzoni che hanno raggiunto il successo dopo il 2000, Oliveira ha rilevato una pervasiva rappresentazione dell’inferiorità femminile: le donne sono descritte come a disposizione del piacere sessuale maschile o ridotte a immagini utili per vendere il prodotto culturale funk. Altre ricerche hanno esplorato il ruolo che questa musica gioca nella socializzazione dei e delle adolescenti nelle periferie urbane. Jacira Bernardes et al.39 hanno svolto un’etnografia nelle periferie di Rio Grande do Sul, in progetti educativi che utilizzano il funk. I dati etnografici ne hanno evidenziato le potenzialità come strumento di coinvolgimento e attivazione di giovani e adolescenti, ma hanno anche messo in luce le dinamiche emergenti di riproduzione della disuguaglianza di genere nel protagonismo dei beneficiari di tali progetti, collegandola all’immaginario musicale mobilitato. Analogamente a quanto avviene sulla scena musicale funk, le ragazze coinvolte nei programmi educativi considerati occupavano ruoli secondari e avevano una minor capacità di voice rispetto ai loro coetanei maschi. Una ricerca di Karla Saraiva e Juliana Vargas40 condotta a Porto Ale210

gre ha inoltre individuato una correlazione tra la partecipazione di ragazze adolescenti al movimento funk e la loro introiezione di un immaginario patriarcale, in cui l’uomo è tenuto a mantenere economicamente la donna, a sua volta valutata unicamente su parametri di bellezza e attrattività sessuale. Complessivamente, le argomentazioni che accusano il funk di sessismo si focalizzano principalmente sull’immaginario e sulle pratiche diffuse nel movimento musicale che riproducono una svalutazione della sessualità femminile, una limitazione dell’agency delle donne e un sistema di relazioni patriarcali. Questa tendenza si riflette nelle perfomance realizzate sui palchi e nei video musicali, in cui le donne sono ipersessualizzate, ma prive di assertività rispetto alla controparte maschile. All’interno di questo dibattito, il caso delle Afrofunk offre la possibilità di introdurre elementi di riflessione alternativi. Le Afrofunk sono tre donne che si autoidentificano come negras41 provenienti dalle favelas della Zona Nord, che negli ultimi anni stanno raggiungendo una popolarità crescente realizzando performance di danza e musica funk in diversi luoghi della città, in cui spesso presentano canzoni inedite. Nei loro show si esibiscono in complesse coreografie, basate su un veloce e ritmico movimento del sedere, coordinato con il ritmo dei bassi della musica. Oltre a questi eventi, le tre artiste organizzano corsi di danza funk in diversi spazi di Rio, che ad oggi raggiungono un pubblico esclusivamente femminile, in buona parte proveniente dalla classe media e medio-alta. Le loro performance, tuttavia, si distanziano profondamente da quelle tipiche del movimento funk. Nell’evento organizzato a Santa Marta, le Afrofunk hanno scatenato principalmente l’entusiasmo del pubblico femminile. Se nel funk tradizionale la performance della donna è destinata alla fruizione da parte dell’universo maschile, le Afrofunk si rivolgono invece direttamente alle donne. Le loro parole, movenze, i testi delle canzoni sono una dichiarazione del potere del corpo femminile, in particolare quello nero e favelato, che, in quanto tale, segna un ulteriore distanziamento dall’immaginario classico della donna nel funk. Un mese dopo l’evento organizzato a Santa Marta, ho accompagnato la cantante del gruppo, Taìsa, a un evento in un centro culturale della Zona Nord, intitolato As mulheres no funk42. Gli organizzatori avevano invitato alcune tra le funkeiras più significative della scena 211

carioca del momento, tra cui Taìsa. Il mutamento in corso dell’ideale femminile valorizzato nella scena musicale era incorporato dalle relatrici dell’evento: di fronte al pubblico sedevano due modelli di donna completamente diversi. Il primo era incarnato dalla Mulher Filè, una delle icone del funk carioca nel decennio precedente. “Filè” in portoghese è il filetto, un tipo di carne pregiata e costosa. Le funkeiras di quegli anni adottavano spesso soprannomi del genere -Mulher Melancia, Mulher Jaca43- associati a nomi di pietanze. Questa pratica riprende l’associazione operante in Brasile tra il mangiare e la sessualità: il verbo comer significa infatti sia “mangiare” sia “fare sesso”; una donna sensuale è definita gostosa44. L’associazione cibo-sesso è spesso declinata in forma oggettivante per la donna: è la donna infatti ad essere gostosa ed è l’uomo che vai comer ela45. La Mulher Filè, inoltre, rappresentava anche fisicamente il modello estetico classico della funkeira: pelle chiara, capelli lisci e lunghi fino alla vita, corpo estremamente formoso. Dieci anni prima era diventata particolarmente famosa per una performance che svolgeva sul palco con Mc Catra: Catra le faceva passare tra le natiche una carta di credito che lei faceva scomparire. Questa performance esprimeva in maniera emblematica la narrativa ricorrente nel funk sulle relazioni di genere: il capitale femminile è quello sessuale ed erotico, di cui gli uomini si possono appropriare ostentando il proprio potere economico. Al lato della Mulher Filé, emozionate di trovarsi di fianco a una star, sedevano le nuove leve del funk: tre ragazze dalla pelle scura tra i diciotto e i trent’anni, che portavano i capelli in stile afro o raccolti in treccine. Il modello di donna resistente e assertiva impersonato da queste giovani artiste si distanzia dall’estetica razzializzata che impregna il funk classico e promuove un modello di donna radicato nell’identità nera e nell’appartenenza alla favela. Questa trasformazione dei modelli identitari è iscritta nei testi e nelle performance delle nuove funkeiras, a partire dallo stesso stile “afro” che sfoggiano. Taìsa, nella serata dell’evento, ha cantato il funk das pretas, una sua creazione: pode vir que eu sou mulher/ eu sou preta/ cabelo duro/ sangue quente/ experiencia com treta” [Puoi venire che sono donna/ sono nera/ capelli “duri”, sangue cal­ do/ esperienza con i problemi]. 212

Il modello femminile descritto nei testi di Taìsa valorizza quei caratteri biografici e corporei che sono tradizionalmente oggetto di discriminazione nella società brasiliana: i capelli “duri”, che da anni le donne brasiliane di colore lisciano chimicamente per conformarsi a ideali estetici che valorizzano la bianchezza; l’esperienza con tretas46 maturata nella difficile vita in favela, che forgia, secondo l’artista, donne coraggiose, dure e intraprendenti. A questo proposito, introducendo la canzone, Taìsa ha apostrofato il pubblico femminile dicendo: «Perché le favelas stanno in piedi grazie a noi, a noi donne! Non dimentichiamoci la forza delle donne che vedono ammazzare dalla polizia i propri mariti, figli e fratelli! Non dimentichiamo chi è che lotta per la giustizia di queste vittime47 e per sostenere chi tra questi finisce in prigione!». I testi delle Afrofunk valorizzano dunque un modello di donna resistente intersezionale, perché radicato nell’appartenenza alla favela e alla “razza” nera. Il tema razziale è un elemento ricorrente, come si evince nei due brani riportati. In particolare la canzone “não me chame de morena” sembra sintetizzare in maniera interessante la lotta culturale promossa attualmente dal Movimento Negro contemporaneo brasiliano. Il Brasile storicamente si è identificato come il paese della “democrazia razziale”, una nazione multirazziale senza razzismo, governata da un clima di armonia. In questo scenario il concetto di “razza” si è sviluppato come un continuum di colori tra poli diversi, in una mescolanza in cui i confini sono sfumati e le categorie sovrapposte. I brasiliani spesso rivendicano origini razziali miste e tendono a considerarsi un popolo mescolato e sincretico48. Questa configurazione del discorso razziale ha ostacolato storicamente la formazione di un movimento nero antirazzista, poiché da un lato ha impedito l’identificazione del razzismo come dispositivo operante di discriminazione, dall’altro ha minato il coinvolgimento dei singoli individui nel movimento49. Infatti, il continuum razziale offre la possibilità al soggetto di “sbiancarsi”, ossia di auto-rappresentarsi nella categoria più chiara a lui/lei accessibile50, evitando di identificarsi con la base della gerarchia razziale: la nerezza. Lo sbiancamento soggettivo compromette il coinvolgimento nel Movimento Negro, indebolendo l’identificazione con la causa del movimento per chi si considera morenos/as. Quest’ultimo termine, in particolare, è espressione massima dell’ambiguità “razziale” brasiliana, poiché traduce il più tecnico pardo usato nei censimenti, ma è anche utilizzato 213

per indicare una persona dalla pelle chiara e dai capelli e occhi scuri. Secondo Valeria Ribeiro Corossacz: “Moreno” più di qualsiasi termine esprime la continuità per non ricordare la frattura nel reale tra il bianco e il nero. Il fatto che moreno possa indicare persone di colori diversi suggerisce che in questa categoria sono negati i due poli del continuum e il loro rapporto oppositivo in termini di valore sociale51.

Nelle interazioni quotidiane a Rio, rivolgersi a una ragazza usando la parola morena è spesso un atto affettuoso, un complimento. Le Afrofunk rifiutano di essere chiamate morenas e, così facendo, svelano il meccanismo alla base di tale costume sociale: morena è un complimento perché separa il soggetto dalla nerezza, polo svalutato della gerarchia razziale. Distanziandosi dal termine respingono così, al tempo stesso, la stigmatizzazione della categoria razziale nera. Si autodefiniscono negras o pretas per riconoscere discorsivamente l’esistenza di rapporti asimmetrici razzializzati e situare in modo provocatorio se stesse e i propri interlocutori all’interno di queste gerarchie. Il messaggio veicolato dal testo funk è coerente con la lotta del Movimento Negro52 brasiliano contemporaneo. Nel paese della “democrazia razziale”, dunque, il contrasto al razzismo assume le sembianze del rifiuto delle ambivalenze e della promozione di un concetto di “razza” dualistico e oppositivo, che contrappone i due poli bianco/nero. In questo scenario, la dimensione razziale viene sempre più spesso problematizzata rispetto a una serie di questioni prima ricondotte unicamente alla disuguaglianza economica e alla segregazione urbana, come nel caso della violenza della polizia53. Nella lotta del Movimento Negro il funk gioca un ruolo particolare: si sta affermando, infatti, come strumento di costruzione e diffusione di un’identità nera popolare valorizzata, capace di valicare i confini della cerchia di persone direttamente impegnate nell’attivismo e formulare messaggi e modelli identitari accessibili al pubblico eterogeneo della popolazione nera e favelata. Il modello di donna intersezionale contro-egemonico plasmato dalle nuove funkeiras problematizza, inoltre, elementi riferiti in maniera più univoca alla dimensione del genere. Le Afrofunk adottano lo stile funk, tanto nel tipo di danza, quanto nel registro dei testi, ma modificano i rapporti di genere iscritti al suo interno. Il ballo diventa 214

uno strumento di valorizzazione di sé e della propria corporeità che si sottrae allo scrutinio del pubblico maschile. I testi, a fianco di canzoni sulla “razza” o sulla vita in favela, spaziano anche nell’ambito erotico, concentrandosi direttamente sulla sessualità. In occasione dell’evento culturale As mulheres no funk, Taisa ha chiuso il suo intervento con un brano erotico. Ammiccando agli organizzatori per chiedere il permesso di cantare qualcosa non propriamente “adatto” a un centro culturale, Taisa ha interpellato il pubblico, rivolgendosi questa volta ai giovani uomini presenti: «Perché i ragazzi oggi dicono che per andare con le tipe devi avere i soldi, devi avere questo, devi avere quello! Vi mando un messaggio, ragazzi, la questione è un po’ più semplice di così! E allora – iniziando a cantare sui bassi del funk – tu quer deixar a mina tega, tranquilona e na boa? Tem que ter piroca, -pode?- Tem que ter maconha boa! Se liga na minha visão, tem combinação perfeita: eu fumando um baziado, e tu chupando a minha boceta! Mas fica tranquilinho que depois a gente troca! Tu fuma um baziado e eu mamo a sua piroca!» 54. Il pezzo presentato da Taisa si inserisce perfettamente all’interno del registro del funk erotico classico: utilizza parole scurrili, parla di droga e di atti sessuali in maniera esplicita. Tuttavia la sessualità che racconta è completamente diversa. Diversamente dalla Mulher Filè, Taisa rivendica di fronte agli uomini del pubblico una sessualità femminile assertiva, che richiede al partner una relazione mossa non dall’asimmetria di potere economico, ma da uno scambio di piacere sessuale, in cui la donna esprime con decisione i propri desideri. Scambio che, diversamente da quello descritto dal funk erotico classico, non è inserito in una cornice di gerarchia e conflitto, ma di reciprocità, dove, come dice Taisa “dopo facciamo cambio”. 5. Riflessioni conclusive La società carioca è attraversata da una complessa matrice di oppressione che comprende diversi assi di disuguaglianza. In questo contributo, ho utilizzato il funk come strumento attraverso cui leggere l’intreccio tra questi assi, in particolare la segregazione urbana, la classe sociale, la “razza” e il genere. Nel contesto considerato, questa musica ha guadagnato una crescente popolarità e si è sviluppata in un rapporto di stretta connessione con la popolazione delle fave215

las, che comprende la quasi totalità della minoranza nera e la classe socioeconomica più bassa. Parallelamente alla crescente popolarità, questo genere musicale è andato incontro tuttavia anche a processi di stigmatizzazione e criminalizzazione. Sulla base di diverse argomentazioni, legate al portato sessista, alla connessione con il narcotraffico e alle caratteristiche musicali, il funk è stato costantemente denigrato e monitorato dal discorso egemonico. Tale dinamica si inserisce in un più ampio processo di svalutazione della classe popolare, nera e favelata. Lo stigma attribuito alla musica, infatti, si riflette sul gruppo sociale che ne è il principale produttore e fruitore. In questo senso, quindi, il funk rappresenta un elemento culturale che viene mobilitato dal discorso egemonico per riprodurre le gerarchie sociali asimmetriche di prestigio e valore, base imprescindibile di scelte politiche che criminalizzano le favelas e negano ai suoi abitanti ogni margine di autodeterminazione. Al tempo stesso, questa musica offre ai gruppi sociali subalterni uno spazio di produzione di narrazioni e modelli identitari resistenti. Se l’oppressione che il pubblico del funk vive si fonda sull’intreccio tra diversi assi di disuguaglianza, gli stessi discorsi resistenti modellati al suo interno partono da queste posizioni di multipla oppressione. La “razza” e il genere sembrano essere in particolare due elementi che assumono centralità nelle rappresentazioni contro-egemoniche: le donne nere funkeiras costituiscono i modelli più sovversivi e potenti in questo scenario. Adottando uno sguardo intersezionale, si coglie quanto queste figure trasformino il loro posizionamento sociale, in cui razzismo, sessismo, sfruttamento economico e segregazione urbana si intrecciano e rafforzano reciprocamente, in una base per la costruzione di identità sovversive, che si ribellano alle oppressioni subite. In questo contesto, le Afrofunk rappresentano un esempio di resistenza contemporanea, che problematizza il proprio posizionamento intersezionale e mobilità l’identità, la corporeità e la performance come strumenti di affermazione e di riconoscimento.

NOTE 1 Uno stile di musica brasiliana romantico molto diffuso soprattutto nel

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Nordest e considerato “popolare”. 2 Patricia Hill Collins, Black Feminist Thought: Knowledge, Consciousness, and the Politics of Empowerment, Routledge, New York 1990. 3 Per una discussione della prospettiva intersezionale si veda: Enzo Colombo e Paola Rebughini, Intersectionality and Beyond in «Rassegna Italiana di Sociologia», n. 57(3), pp. 439-460, 2016. 4 Pierre Bourdieu e Loic Wacquant (1999) mettono in guardia dall’utilizzare concetti sociologici, tra cui per esempio “race”, come se fossero termini neutri che assumono il medesimo significato in qualsiasi contesto e ambito di applicazione. Il termine “razza”, in particolare, è un concetto fortemente situato e storico, che assume valenze e connotazioni anche molto diverse a seconda del contesto in cui viene utilizzato. In Brasile, “raça” ha una storia e delle sfumature di significato che differiscono dal corrispondente termine italiano. In Italia, la comunità antropologica si sta interrogando rispetto alla legittimità e all’utilità di adottare tale termine o piuttosto di cancellarlo dal vocabolario disciplinare. Purtroppo, non è possibile approfondire il dibattito in questa sede. In questo capitolo ho scelto, tuttavia, di riportare la parola “razza” tra virgolette, per ricordare continuamente il suo carattere non neutro: da una parte in quanto traduzione imperfetta di “raça” che assume significato a partire dalla storia nazionale brasiliana; dall’altra poiché il cui utilizzo in Italia suscita interrogativi complessi a livello etico ed epistemologico.   5 Osmundo Pinho, Black Music and Politics in Brazil: from Samba to Funk, presentato al colloquium «(Re)Telling and (Re)Living: Heterogeneous Discourses in the Luso-Hispanic World», The Institute for Historical Studies, Austin, marzo 2014. 6 Marcia Amorim Fonseca, O discurso da e sobre a mulher no funk brasileiro de cunho érotico: uma proposta de ánalise do universo sexual feminino, Ph.D. thesis in Linguistic, Unicamp, Campinas 2009. 7 George Yudice, The Expediency of Culture. Uses of Culture in the Global Era, Duke University Press, Duke and London 2003. 8 Si veda per esempio il libro del giornalista Zuenir Ventura, Cidade Partida, Companhia das Letras, São Paulo 1994. 9 Esiste un interessante dibattito a questo proposito, che non è possibile analizzare in questa sede, che problematizza quanto tale dualismo sia più retorico che effettivo. Le caratteristiche e i confini sono in realtà profondamente sfumati tra favelas e asfalto: ci sono numerose aree di “città informale” nel cuore della città stessa (per esempio le numerose occupazioni in corso negli ultimi anni), così come zone di legittimità e formalità all’interno

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di spazi che vengono identificati come favelas. Per approfondire, si veda: Adair Rocha, Cidade cerzida. A costura da cidadania no morro de Santa Marta, Museo da Républica, Rio de Janeiro 2005. Inoltre all’interno delle stesse favelas vi è un’altissima eterogeneità di condizioni. Trovo tuttavia che la lettura dualistica, se da un lato rischia di ridurre la complessità della realtà sociale, dall’altro è stata utile allo sviluppo di analisi che hanno messo in luce i rapporti di sfruttamento e di dipendenza tra questi due ambiti della città. Per approfondire, si veda: Rafel Gonçalves Soares, Favelas do Rio de Janeiro: história e direito, Pallas Editora, Rio de Janeiro 2013; Janice Perlman, O mito da marginalidade. Favelas e política no Rio de Janeiro, Paz e Terra, Rio de Janeiro 1977. 10 La favela della Rocinha conta, per esempio, una popolazione di circa 70.000 abitanti. 11 R. Gonçalves Soares, Favelas do Rio de Janeiro. 12 Ivi. 13 IBGE, Síntese de indicadores sociais. Uma análise das condições de vida da população brasileira, Rio de Janeiro 2015. Disponibile al link: https://biblioteca.ibge.gov.br/visualizacao/livros/liv95011.pdf. 14 Presto/a [nero/a], pardo/a [scuro/a] sono categorie utilizzate nel censimento nazionale, insieme a branco/a e indio/a. 15 É da sottolineare che le classi popolari sono molto più eterogenee a livello “razziale” rispetto al vertice della piramide sociale. 16 Edward Telles, Race in Another America. The Significance of Skin Color in Brazil, Princeton University Press, Princeton 2004. 17 Amorim Fonseca, O discurso da e sobre a mulher. 18 Ivi. 19 Sebastian Saborio, Dalla normalizzazione al rifiuto: violenza come strumento di controllo territoriale nelle favelas pacificate In «Sociologia del diritto», n. 2, pp. 171-196, 2014. 20 Vera Malaguti, Dificeís ganhos fáceis. Droga e joventude pobre no Rio de Janeiro, Revan, Rio de Janeiro 2003. 21 “Bandito buono è bandito morto”. Amnesty International, Você matou meu filho. Homicídios cometidos pela Polícia Militar na Cidade de Rio de Janeiro, Amnesty International, Rio de Janeiro 2015. 22 Dati divulgati dall’ISP (Instituto de Segurança Pública), accessibili al link: http://www.ispdados.rj.gov.br/Arquivos/SeriesHistoricasLetalidadeViolenta.pdf. 23Benedicta da Silva è affiliata al Partido dos Trabalhadores (PT). 24 La pratica degli arrastões è ancora oggi frequente a Rio de Janeiro.

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Solitamente sono situazioni di minor violenza rispetto ad altri tipi di rapine a mano armata, ma è la dimensione collettiva a lasciare più scosso chi si trova coinvolto: i rapinatori corrono in gruppo, i bagnanti scappano dalla spiaggia raccogliendo le proprie cose, i negozi sul lungomare si affrettano a chiudere le serrande per evitare di diventare a loro volta vittime della rapina. 25 Adriana Facina, “Não me bate dotour”. Funk e criminalização da pobreza in «Quinto Encontro de Estudos Multidisciplinares em Cultura» UFBA, Salvador de Bahia 2009. Luciane Soares Silva, Agora abaixe o som: UPPS, ordem e música na cidade do Rio de Janeiro in «Cadernos CRH», n. 27(70), pp. 165-179 2014. 26 Nel 2014 i Mondiali di Calcio e nel 2016 le Olimpiadi. 27 La pacificazione non è stata implementata nelle favelas con il più alto tasso di violenza dell’area metropolitana, ma in quelle situate nelle zone turistiche della città o in corrispondenza dei cluster olimpici, come mostra il report Megaeventos e Violações dos Direitos Humanos no Rio de Janeiro, pubblicato nel 2015 dal Comitê Popular da Copa e das Olímpiadas do Rio de Janeiro. 28 Inacio Cano e Giuseppe Ricotta, Sicurezza urbana e grandi eventi: le Unità di Polizia di Pacificazione nelle favelas di Rio de Janeiro in «Sicurezza e scienze sociali», n. IV(1), pp. 163-179, 2016. 29 Nieva Vieira da Cunha e Marco Antonio Mello da Silva, Novos conflitos na cidade: a UPP e o processo de urbanização na favela in «DILEMAS», n. 4(3), pp. 371-401, 2011. 30 Leo Carvalho, Matteo Theubet Meirelles, Clarissa Naback Pires de Almeida, As favelas e as Upps: a re-existência dos moradores no outro cénario chamado pacificação, in L. Corsini e G. Silva (a cura di), Democracia x regimes de pacificação. A inexistente recusa do controle exercido em nome da segurança, Annablume, São Paulo 2015. 31 Organizzare un compleanno in favela significa spesso sistemare dei tavoli nella strada di fronte a casa e invitare i vicini a mangiare insieme; nel Complexo da Marè, durante i mesi più afosi, nelle vie della favela compaiono numerose piscine gonfiabili in cui giocano i bambini del quartiere. 32 Adriana Facina e Pamela Passos, “Baile modelo!”: reflexões sobre práticas funkeiras em contextos de pacificação in «VI Seminário Internacional de Políticas Culturais», Fundação Casa de Rui Barbosa, Rio de Janeiro 2015. 33 A questo si può aggiungere la promulgazione della Legge Álvaro Lins, nel 2008, che imponeva pesanti restrizioni all’organizzazione dei baile funk. La legge Álvaro Lins, è stata tuttavia abrogata l’anno seguente dall’As-

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semblea Legislativa dello Stato di Rio de Janeiro. 34 Per esempio, nella favela di Cidade de Deus, il programma di pacificazione non ha assolutamente considerato il “piano di sviluppo locale” elaborato in maniera partecipativa da un ente creato dai residenti della zona per rispondere alle problematiche locali. 35 “Puoi venire che sono donna, sono nera”. Pezzo della canzone Rap das Pretas, scritta da Thaisa, cantante del gruppo musicale Afrofunk. 36 Letteralmente “collina”, ma è anche usata come espressione per indicare le favelas. 37 «Non mi chiamare morena, che mi incazzo! Non mi chiamare morena, chiamami negona! I miei capelli sono black power, quindi piantala con queste cazzate, sono negra, sono una regina!» 38 Edineia Oliveira, A identidade feminina no gênero textual música funk in «Anais do CELSUL», pp. 1-21 2008. 39 Jacira Bernardes, Paula Pinhal de Carlos e Aline Accorsi, Funk: engajamento juvenil ou objetificação feminina? in «Inter-Ação», 40(2), pp. 353366, 2015. 40 Karla Saraiva e Juliana Vargas, Jovens mulheres de periferia e o funk ostentação in «Inter-Ação», 41(2), pp. 337-354, 2016. 41 Il termine “negro/a” viene assunto oggi dal movimento nero brasiliano in chiave rivendicava e affermativa. 42 “Le donne nel funk”. 43 “Melancia”: melone. “Jaca” è un frutto tropicale. 44 “Gustosa, saporita”. 45 “La mangerà”. 46 “Problemi” nello slang carioca. 47 Sono i famigliari, e in particolari le madri, delle vittime della violenza della Polizia Militare a Rio de Janeiro a lottare per ottenere giustizia a proposito degli omicidi dei propri parenti. È molto famoso, per esempio, il caso delle Madri di Acari che si sono mobilitate a seguito della sparizione per mano di un gruppo di uomini, successivamente identificati come poliziotti, di undici giovani abitanti della favela di Acari, tra cui sette minorenni. Alla sparizione dei giovani è seguita tre anni dopo anche quella di Edmeia da Silva, madre di una vittima, che aveva un ruolo centrale nell’organizzazione delle madri impegnate a rivendicare giustizia. 48 Valeria Ribeiro Corossacz, Bianchezza e mascolinità in Brasile: etnografia di un soggetto dominante, Udine, Mimesis 2015. 49 Amílcar Araujo Pereira, O mundo negro. Relações raciais e constituição do Movimento Negro contemporaneo no Brasil, FAPERJ, Rio de Janeiro

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2013. 50 Se tale dinamica è possibile a livello identitario soggettivo, spesso l’identificazione razziale dei soggetti non bianchi è blindata in diverse interazioni sociali in cui non viene lasciato alcun margine di “sbiancamento”, per esempio nella relazione tra i giovani non bianchi delle favelas e la polizia. 51 Valeria Ribeiro Corossacz, Razzismo, meticciato, democrazia razziale. Le politiche della razza in Brasile, Rubettino, Soveria Manelli 2006, pp. 108. 52 Non si fa riferimento a un movimento determinato e con una precisa identità e organizzazione, come può essere per esempio Non Una di Meno in Italia. Il termine Movimento Negro sta qui ad indicare l’insieme di associazioni, realtà e singoli soggetti attivi nel panorama pubblico brasiliano nella lotta antirazzista e per la valorizzazione della cultura negra. Questo complesso è caratterizzato da elementi di differenza ed eterogeneità, ma condivide al suo interno alcuni assunti di base, tra cui la tensione verso il superamento dell’ambiguità razziale qui discussa. Il termine negro, come già menzionato, è usato in tale ambito in chiave rivendicativa. 53 Geísa Mattos, Flagrante de racismo: imagens da violência polícial e as conexões entre o ativismo no Brasile e nos Estados Unidos in «Revista de Ciências Sociais (Fortaleza)», 48(2), pp. 185-217, 2017. 54 «Vuoi lasciare la tipa felice, tranquillona e presa bene? Devi avere un cazzo, - si può? - Devi avere della buona marijuana! Senti la mia visione, c’è la combinazione perfetta! Io fumo una canna e tu mi lecchi la figa. Ma stai tranquillo, che dopo facciamo cambio: tu fumi una canna e io ti succhio il cazzo».

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PRATICHE DI VITA E DI LAVORO TRA LA DIMENSIONE INDIVIDUALE E LA DIMENSIONE COLLETTIVA IL CASO DEL WWOOF ITALIA Eleonora Noia 1. Introduzione Il divenire della nostra società sempre più individualizzata ha portato, nel tempo, gli studiosi del cambiamento sociale a prestare crescente attenzione alla sfera delle scelte personali, delle pratiche e della vita quotidiana. I Nuovi Movimenti Sociali emersi durante gli anni ’60 e ’70 avevano portato alla ribalta il tema del corpo e della sessualità, dell’ambiente e della pace1. Temi legati da un filo conduttore costituito dall’individuo, e dalla sua capacità di agire nel mondo e nella società. È l’individuo, il suo corpo, lo spazio della vita quotidiana che acquista significato con i nuovi movimenti sociali. Le spinte di questa individualità hanno di fatto cambiato il significato e le forme dell’azione collettiva, a cui si partecipa, come sottolinea Melucci, solo se queste hanno senso all’interno della cornice della vita dell’attore2. Uno dei campi in cui questi fenomeni si manifestano in maniera lampante è quello dei consumi, i quali, nel tempo, proprio per quanto detto sopra, si sono ricoperti di significati valoriali, culturali e politici. Come sottolineato dalle ricerche sul consumo critico3, dai consumi passano istanze identitarie, politiche ed etiche. Attraverso i consumi, i luoghi in cui questi vengono esercitati, le reti costruite attorno all’acquisto, si costruisce la propria identità, il proprio io. Si delineano adesione e consenso a certi valori, si rimarca la propria estraneità rispetto ad altri. Questo a maggior ragione in un momento storico in cui è più facile informarsi, in cui circolano più elementi in maniera più veloce. Se il consumo critico delinea una delle nuove forme di azione collettiva, nello stesso momento in cui è il potere d’acquisto a politicizzarsi a fronte di una sempre più vasta disaffezione dalla politica istituzionale, è vero anche che uno dei settori principali in cui si esercita è quello del cibo4. Il che riassume bene sia l’esercizio di potere attraverso le proprie scelte d’acquisto, sia l’importanza del proprio 222

corpo nel gestire e trasmettere determinati significati e valori emersa con i nuovi movimenti sociali. La consapevolezza sempre maggiore da parte dei consumatori, legata al valore che sempre più viene attribuito al fattore esperienziale, ha favorito la nascita di nuove reti di riconoscimento legate al cibo, in cui si cerca una relazione e un contatto che la grande distribuzione non è in grado di offrire. La ricerca dell’autenticità nell’esperienza del cibo ha portato anche a una rivalutazione dello spazio rurale e del lavoro contadino, che nel contesto urbano si riversa nella nascita di mercati di produttori e in canali di acquisto in grado di garantire qualità e affidabilità. Altrettanto interessante è però il processo di cambiamento che investe lo spazio agricolo, che diventa attrattivo anche per i giovani con un alto capitale sociale e culturale, senza esperienze nella vita rurale. Questo fenomeno, in letteratura back-to-the-land, si definisce come la scelta della vita rurale e contadina da parte di chi non ha un background agricolo. Assume un’importanza particolare specialmente per il potenziale di innovazione che porta con sé, spingendo un settore tradizionalmente percepito come arretrato e restio al cambiamento a sperimentare nuovi metodi e tecnologie, integrando conoscenze e competenze anche diverse rispetto a quelle agricole, e a creare nuove reti, anche attraverso l’uso di internet e dei social network. Gli studi sul fenomeno back-to-the-land5 sottolineano spesso la ricerca, nel contesto rurale, di una via d’uscita da una società spersonalizzante, in cui i ritmi del lavoro urbano tolgono tempo alla vita, e spazio alle proprie passioni e alla propria individualità. La scelta della vita rurale rappresenta spesso anche il tentativo di bypassare il consumo attraverso l’autoproduzione, e di virare verso una vita più semplice, autosufficiente e indipendente da un sistema industriale e di produzione che rispecchia una visione del progresso distruttiva dell’ambiente e delle risorse. Tuttavia, l’allontanamento dalla città e l’obiettivo dell’autonomia non significano un allontanamento dalle reti sociali, anche urbane, e dalla dimensione economica: la vitalità dei piccoli mercati informali, la creazione di nuovi spazi per agire pratiche alternative al denaro come il baratto, le reti associative e informali che promuovono la produzione biologica su piccola scala riflettono da una parte l’esigenza, da parte di questi contadini, di partecipare al gioco, di stare sul mercato, dall’altra riflettono anche una negoziazione necessaria con l’obiettivo dell’indipendenza, ade223

rendo o collaborando con reti ritenute vicine alla propria visione non solamente dell’agricoltura, ma anche della società, di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Il fatto che queste reti travalichino i confini che separano città e campagna, agendo negli spazi dove produttore e consumatore si incontrano e, a volte, si sovrappongono, facendo circolare conoscenze e pratiche mediante il rapporto diretto, può a sua volta generare nuove conoscenze, nuove pratiche, nuove reti di relazione. Amory Starr, in Local food: a social movement?6, utilizza il riferimento ai nuovi movimenti sociali per comprendere in che modo il cibo locale costituisca la chiave di volta di un movimento sociale che parte da un cambiamento culturale nei confronti della produzione e del consumo alimentare. Starr utilizza come vettori principali di ricerca, all’interno del dibattito culturale sul benessere legato all’alimentazione e sulla produzione biologica, il tema del “noi” melucciano, ovvero la ricerca di un senso d’identità comune che si sviluppa sulla contrapposizione a idee o altri gruppi sociali, e quello della diffusione di nuove idee con cui i movimenti arricchiscono la società, attraverso i mezzi di informazione e le nuove tecnologie, e ne influenzano i processi di cambiamento7. La ricerca qui presentata8 riprende questa linea, e utilizza la chiave di lettura dei nuovi movimenti sociali per comprendere il significato collettivo delle azioni quotidiane individuali nel contesto rurale, in particolare all’interno di un’associazione di promozione dell’agricoltura organica, il WWOOF, che utilizza lo scambio lavoro-ospitalità per diffondere pratiche e saperi legati al rispetto del cibo, del lavoro e della terra, con la consapevolezza che un’associazione di per sé non possa costituire un movimento sociale, ma può esserne la base. Per questo motivo un’attenzione particolare è stata posta sul lavoro di rete, interno ed esterno all’associazione, attraverso cui si costruisce non solo un legame con il territorio, ma si sviluppa anche la possibilità di agire in sinergia per modificare lo stato esistente delle cose. 2. Metodologia 2.1 Il caso di studio: l’associazione WWOOF Per mettere alla prova l’idea di un’azione collettiva sulla base di idee comuni riguardo la sostenibilità, pratiche individuali che ren224

dono concreto un impegno quotidiano nell’opporsi a una certa idea di lavoro e di produzione – quale quella portata avanti dalla grande distribuzione –, una rete che permette la trasmissione di conoscenze e pratiche, il caso di studio su cui questa ricerca si focalizza è il WWOOF (World Wide Opportunities on Organic Farms)9. L’associazione nasce negli anni ’70 in Inghilterra, quando una segretaria di Londra, Sue Coppard, in cerca di week-end da trascorrere in campagna, lontana dalla città, invia un annuncio ad un giornale locale. Sue Coppard cerca un posto dove essere ospitata, ma anche dove partecipare alla vita della fattoria, la gestione dell’orto o del bestiame. Quarant’anni dopo è ancora questa la pratica su cui è basato il WWOOF, lo scambio di esperienze, lavoro e vita quotidiana attraverso la diffusione dei principi dell’agricoltura organica. Il WWOOF è diffuso ormai a livello internazionale, e ha superato la prima fase, in cui la regolazione tra le fattorie ospitanti (host) e i viaggiatori (WWOOFers) avveniva per posta tradizionale, per entrate nella fase 2.0, fatta di e-mail e qualche chiacchierata via Skype. In Italia il WWOOF comincia a prendere vita negli anni ’80, nel contesto toscano. Se inizialmente il tessuto associativo sul nostro territorio era composto per la maggior parte da host e WWOOFers stranieri, oggi l’associazione coinvolge sempre più italiani, contando più di 400 fattorie ospitanti e più di 3000 soci viaggiatori. Tra questi ultimi è possibile trovare persone di qualsiasi età, famiglie e giovani. Ciò che rende interessante ai fini dell’indagine questa associazione è l’incrociarsi al suo interno di istanze identitarie, da una parte, riscontrabili in primo luogo in una scelta di vita ben precisa, legata alla terra e che mira all’autoproduzione, e di una dimensione più collettiva, palpabile non solamente nel passaggio delle conoscenze e delle esperienze tra host e WWOOFers, ma anche nel confronto con le realtà urbane per mezzo dei mercati, e nel coinvolgimento delle comunità circostanti gli insediamenti attraverso attività di sensibilizzazione, socio-educative, culturali e, in alcuni casi, espressamente politiche. 2.2 Gli strumenti della ricerca La crescente individualizzazione della vita sociale contemporanea ha fatto sì che anche gli studi sull’azione collettiva, spostassero sempre più l’attenzione sulle scelte quotidiane degli attori, sulle loro mo225

tivazioni riguardo la partecipazione o le pratiche di ogni giorno, sulle narrazioni di scelte di vita e percorsi biografici. La vita quotidiana diventa lo spazio in cui gli individui costruiscono il senso delle proprie azioni, le reti di supporto che possono aiutare a sviluppare l’agire, in cui si sperimentano il limite e le difficoltà di una determinata scelta. In questa importanza della vita e delle pratiche quotidiane, e nel senso che le rappresentazioni e le narrazioni delle scelte individuali possono aiutarci a comprendere, risiede la decisione di intraprendere questa ricerca utilizzando una metodologia qualitativa. L’analisi dei documenti prodotti dall’associazione è stato il primo strumento utilizzato per comprende la struttura, le regole e le idee di riferimento attorno a cui si è costruito il WWOOF, prima a livello internazionale e poi nazionale. L’analisi secondaria è stata utile a mettere in luce gli obiettivi associativi, per poi confrontarli con le esperienze e le pratiche raccontate e vissute dagli intervistati. Lo strumento dell’intervista è stato ritenuto il più idoneo per questo lavoro, proprio perché in grado di mettere in luce narrazioni, sfumature di senso e strumenti retorici in grado di guidarci in una cosmologia che non è fatta solo di pratiche, ma di significati culturali, valoriali e politici. L’intervista, semi-struttrata, ha voluto indagare cinque dimensioni che definiscono le nuove modalità di costruzione dell’azione collettiva, considerando: 1. I fattori biografici e i loro nessi con la scelta di vita rurale; 2. la ricerca di un senso di identità comune e di significati condivisi all’interno dell’associazione WWOOF Italia; 3. le pratiche quotidiane, riguardanti sia i metodi di produzione sia la gestione della casa, nonché il loro legame con le narrazioni riguardanti i valori trasmessi dalle famiglie d’origine e quelli che hanno orientato la scelta di vita rurale; 4. le reti di relazioni tra gli host WWOOF dello stesso territorio e le reti di relazioni dei singoli host con i territori di insediamento; 5. l’uso delle nuove tecnologie per veicolare e costruire conoscenze. Il campione di riferimento è stato costruito considerando solamente la parte degli host, e la ragione di questa scelta è da attribuirsi al fatto che, on-line, non esiste una lista dei WWOOFers ma solamente delle fattorie ospitanti associate. Si è proceduto nella scelta del campione con la costruzione di una tipologia su due assi: la conduzione della fattoria, familiare o comunitaria, e la radicalità 226

della scelta di vita, definita sull’accettazione dei fumatori e sulla dieta alimentare proposta dagli host. Come spesso accade nella ricerca che impiega metodi qualitativi10, il campione finale diverge da quello ipotizzato per questioni da una parte legate all’ipotesi iniziale (le fattorie in cui erano accettati fumatori, ad esempio, si sono rivelate anche quelle più radicali nelle scelte quotidiane, oppure una fattoria definita inizialmente come comunitaria si è rivelata girare attorno a un nucleo familiare), e dall’altra dovute a questioni organizzative (le interviste sono state raccolte nel periodo invernale, ciò ha reso impossibile raggiungere alcune località). Hanno partecipato alla ricerca 24 host WWOOF di 17 fattorie organiche piemontesi. Pur essendo il WWOOF un’associazione diffusa su tutto il territorio italiano, la scelta di circoscrivere il campo alla regione del Piemonte ha avuto l’obiettivo di mettere in luce eventuali reti tra gli host di comunità e luoghi più vicini rispetto ad una verifica territorialmente più estesa, nonostante fosse comunque data una grande varietà di fattorie per località, attività produttive, metodi di produzione e abitudini quotidiane. Le interviste hanno avuto luogo nei mesi di Febbraio e Marzo del 2015. 3. Analisi 3.1 La scelta della vita rurale La letteratura sulle esperienze comunarde degli anni ’60 e ’70, mosse dalle rivendicazioni dei nuovi movimenti sociali emergenti, rappresenta la via agricola come un modo per sfuggire a società oppressive e allo spersonalizzante contesto urbano, per autodeterminarsi nell’indipendenza e nell’autonomia dai consumi della grande industria11. Il tema del “back-to-the-land” non è quindi nuovo, e ritorna negli ultimi anni assieme alle conseguenze della crisi finanziaria del 2008, tra cui il problema del lavoro e delle sue trasformazioni, e la necessità di reinventarsi. Uno dei temi emersi dalle narrazioni degli intervistati ci riporta appunto a questa visione della vita rurale come possibilità di ricominciare, cercando di condurre un’esistenza serena e lontana dalle angosce e dalle pressioni della città. Eppure, non è possibile parlare di un vagheggiamento della realtà, o di visioni stereotipate delle differenze tra città e campagna. Il campione vede 227

infatti per la gran parte (19 su 24) individui cresciuti in un contesto urbano senza un background agricolo, e, come sottolinea anche Antonietta Mazzette12, più che visioni negative della città, prevalgono considerazioni sugli aspetti negativi della città. Allo stesso modo la campagna non è un rifugio bucolico, ma una scelta consapevole che si ricopre di sensi e significati diversi: per il campione più adulto, tra i 50 e i 65 anni, la campagna è una scelta soprattutto politica, che vuole mettere in pratica una resistenza concreta. Sono le cascine più lontane dai centri, i cui abitanti hanno spesso intrapreso un percorso di studi universitari senza però concluderlo. […] Uno dei motivi per cui siamo qua, più che un motivo di tipo ambientalista eccetera, è un motivo politico, non tanto ambientalista. È una scelta proprio di pratica politica. Cioè dalla teoria siamo passati alla pratica. Dalle idee che avevamo quando siamo stati giovani, abbiam voluto smettere di far teoria, perché ormai eravamo arrivati a un punto fermo, che non serviva più a niente stare a parlare, bisognava iniziare a praticare. E noi abbiamo iniziato a praticare, scegliendo un lavoro manuale, appunto (Mario13, 65).

Per la parte di campione tra i 30 e 50 anni, cinque su sei hanno conseguito la Laurea, in un caso anche un Dottorato di Ricerca. Dalle narrazioni emerge come il ritorno in campagna avvenga attraverso traiettorie familiari, si recuperino terreni o strutture, e passi quindi da una tradizione. Tuttavia, anche tra coloro che non hanno potuto contare su una base preesistente e hanno acquistato o preso in affitto il terreno, non emerge in maniera così spiccata e diffusa un discorso politico improntato dall’idea della “rivoluzione con le mani”, sebbene i valori e i principi di riferimento siano legati comunque a una riflessione a una migliore gestione delle risorse a partire dalle azioni quotidiane. La scelta della campagna appare qui come un passo per l’autonomia, cominciando dal cibo e dal riscaldamento, ma comunque un percorso di crescita umana. Per me l’autoproduzione è importante. È una parte… secondo me è una parte fondamentale della mia vita e della mia esistenza. E sono convinto.. sai, io mi pongo come obiettivo nel corso degli anni di autoprodurmi sempre di più. Autoprodurre sempre più le cose di cui ho bisogno. O comunque cercarle, le cose che non riuscirò ad autoprodurre, a fare, a cercarle da

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chi se le autoproduce. Perché secondo me è un passo fondamentale, perché così si esce da tutte le logiche di lavoro industriale, ma si ricerca proprio il lavoro manuale delle persone, l’ingegno…(Alessio, 33).

In generale il campione evidenzia una fascia d’età più ampia e relativamente più giovane, tra i 30 e i 65, rispetto a quanto riportato negli studi condotti in ambito internazionale, tra 40 e 7014 . 3.2 Valori e pratiche Nelle narrazioni degli intervistati, in maniera quasi uniforme, i valori del WWOOF incentrati primariamente sul rispetto della terra e dell’ambiente, del lavoro e degli esseri umani, coincidono con quelli che hanno influenzato la scelta di vita rurale e che hanno spinto la produzione nella direzione organica, prima ancora che biologica, nonché con quelli che animano le abitudini alimentari ed energetiche. Il benessere, la consapevolezza che ciò che si mangia sia sano, sono discorsi centrali, che passano dalla ricerca di una vita più semplice ma attenta al proprio impatto. La raccolta differenziata, le pratiche di riciclo dei materiali, del cibo e dell’acqua, la pulizia dei boschi per riscaldare la casa, la manutenzione del territorio e la pulizia dei sentieri, l’autoproduzione del cibo e dei derivati, i metodi di coltivazione organici rappresentano alcune delle pratiche che gli intervistati esercitano quotidianamente. A partire anche solo dall’alimentazione, cioè non viene mai buttato niente. Anche gli scarti delle verdure vengono riutilizzati nell’orto, per cui anche quello è un modo per ridurre lo spreco. Però… sì, non riuscirei a dire esattamente quanto riusciamo a risparmiare, perché avendo sempre gente diversa in casa che si relaziona diversamente, anche con l’uso delle utenze, piuttosto che del cibo, non è facile. Però non siamo degli spreconi. Quindi non spendiamo tanto (Valentina, 30).

Dietro queste pratiche c’è anche un acceso desiderio di autonomia e indipendenza dal mercato industriale, e la consapevolezza che i grandi cambiamenti partono dalle azioni di ogni giorno. Per questo motivo, alla critica nei confronti dell’abbandono dell’ambiente, sia da parte delle istituzioni locali sia da parte di quelle nazionali e in229

ternazionali, si accompagna l’azione concreta di tutela e salvaguardia del territorio. Questi elementi compongono una cornice coerente tra azioni quotidiane, produzione di cibo e valori: permettono in alcuni casi l’autoproduzione della maggior parte dei generi di prima necessità e l’indipendenza energetica totale, descritta come una forma di libertà. È proprio perché lo riteniamo giusto comportarci in questo modo. E… noi non sprechiamo niente. Il cibo non va sprecato, e se ovviamente capita che mi avanzi va riciclato in qualche modo, nel senso che o ce lo mangiamo alla sera, o si fa un altro cibo con quel cibo avanzato, o… poi la penultima spiaggia è darlo agli animali, che loro devono anche mangiare, e l’ultimissima, proprio se capita, va nel compost, che ci serve e quindi ritorna alla terra. E quindi non va sprecato. Ma anche altri aspetti che non sono strettamente alimentari. Nell’agricoltura, nel lavoro, noi non buttiamo via niente. Quando buttiamo via è perché proprio non possiamo farne a meno, ma comunque va nel differenziato.. cioè, si differenziano tutti i rifiuti, ovviamente. Però, diciamo, prima di buttare via qualcosa, che sia legna, che sia… noi ricicliamo e riusiamo tutto, tanta roba vecchia, noi non l’andiamo a comprare perché abbiamo tanta roba vecchia che teniamo e che prima o poi ci serve (Beppe, 55).

Un ulteriore elemento che emerge dalla relazione tra pratiche e princìpi riguarda la circolazione di pratiche alternative come lo scambio o il baratto: in questi casi, la conoscenza diretta di vicini produttori non solamente funge da garanzia di qualità, al di là del sistema della certificazione, ma permette la circolazione di saperi e risorse sui territori di insediamento, generando nuove pratiche e nuove reti di supporto, sia lavorativo sia emotivo. […] Se riesco, buone cose, non mi interessa che abbiano il marchio bio, o di certificazione, ma comunque se conosco chi lo fa so che lavora in un determinato modo anche se non ha il marchio bio. Ad esempio non ho la certificazione biologica, ma se qualcun altro che fa le cose per bene, senza pasticci, uno magari è anche più propenso, perché so che non ha la certificazione perché non gli interessa la certificazione per determinati altri aspetti più politici. […] Per esempio i saponi, alcune… l’olio in parte, la farina, tutte cose che io non riesco a produrmi, però ci sono in alcuni casi i formaggi, il latte, quando capita, so che ci sono determinate persone che

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lo fanno in una determinata maniera, quindi tramite contatti o amicizie si riesce a fare uno scambio, perché in realtà magari quello che ho io loro non ce l’hanno, e allora facciamo scambi. […] Cerco il contatto diretto. Perché quello che io voglio, da chi viene a comprare da me, e quindi è quello che io mi aspetto, nel senso, chi fa i saponi… per dire, se te facessi i saponi, per dire, ci conosciamo, ah io faccio i saponi, va bene… e da lì nasce un contatto diretto, un’amicizia… cioè si va oltre… io cerco di andare oltre lo scambio dei prodotti, ma deve diventare un rapporto personale, di amicizia. E quindi se hai il tempo e fai le tue cose e ti piace farle, io faccio le mie cose e se tu ne hai di più si scambiano. (Alessio, 33)

3.3 L’adesione al WWOOF Dalla letteratura internazionale sappiamo che il momento in cui si sceglie di fare WWOOFing coincide spesso, soprattutto per quanto riguarda i viaggiatori più giovani, con un periodo di transizione della vita, ad esempio quello dopo la laurea15. In questo senso il WWOOF rappresenta sia l’occasione per viaggiare, sia per cominciare ad apprendere le pratiche agricole, sia per mettersi in gioco e ripensare criticamente alle proprie abitudini, a cominciare da quelle alimentari. Per quanto riguarda gli host, nonostante del campione facessero parte sia soggetti con dieci anni di anzianità nell’associazione, sia soggetti iscritti da poco più che qualche mese, è stato possibile riscontrare dai racconti degli intervistati letture comuni dell’esperienza nel WWOOF. Emerge così come siano i percorsi biografici e le scelte di vita a condurre all’associazione. Quindi per me, diciamo che era un percorso che era già iniziato prima. Non è che sono entrato nel WWOOF e ho detto, ah, mi metto in moto anch’io. Ero già in moto e il WWOOF è stato… ci siamo incrociati. Per dire, il WWOOF molte cose le stava facendo come le sto facendo io, quindi è un percorso che è giusto farlo insieme (Alberto, 32).

Queste motivazioni, che riguardano tanto la scelta di vita tanto la propria produzione, restano stabili e si rafforzano nella quotidianità, soprattutto attraverso la trasmissione e la condivisione della propria vita e della propria esperienza. Non è ancora solida un’identità legata all’associazione su tutti i 231

territori, riscontrabile flebilmente solo nei riferimenti agli incontri regionali e provinciali. Solo in una delle province toccate si rilevano degli sforzi più importanti al fine di implementare i legami tra gli host sul territorio dando un significato collaborativo all’esistenza dell’associazione: non solo scambio lavoro-ospitalità, ma anche collaborazione tra piccole realtà agricole e rurali per stimolare mutuo aiuto e circolazione di risorse e competenze. Non da ultimo, rafforzare i legami interni della rete WWOOF significa anche rendere evidente una vicinanza emotiva, ma anche fatta di pratiche comuni, che leghi realtà a sé stanti, spesso troppo lontane l’una dall’altra. È una questione particolarmente rilevante se si considera, come sottolinea Linda, che classicamente il contadino è colui che pensa al suo campo. Se da una parte, infatti, emerge nei racconti degli intervistati la sensazione di combattere da soli contro i mulini a vento, il WWOOF favorisce la consapevolezza di non essere soli. […] Inizialmente l’abbiamo preso proprio come scambio interculturale, a noi piace esser circondati da gente, ognuno ha un suo perché, ed è bello condividere la vita. Adesso nel farlo, nel conoscere i WWOOFers […] ed essendo andati anche alla riunione regionale che c’è stata, sto entrando un po’ di più nell’ottica, non solo della condivisione, ma… cioè non solo della vita in sé, ma proprio della vita rurale, dell’ecosostenibilità, nel condividere questa cosa. Cioè ci stiamo rendendo conto che nel WWOOF troviamo più persone che la pensano come noi, rispetto al mondo reale dove viviamo tutti i giorni. Questa cosa è molto bella (Antonella, 38).

3.4 Reti Sebbene, eccetto alcuni casi, non ci siano collaborazioni stabili tra gli host del territorio piemontese, è rivelabile una serie di collegamenti verso l’esterno dell’associazione che partono dai singoli intervistati, sia con altre reti rurali, come GenuinoClandestino o l’Associazione Rurale Italiana, sia con associazioni e onlus del territorio, sia con le istituzioni, nei casi di attività programmate con le scuole e le strutture sanitarie. L’adesione a queste reti è determinata da una valutazione che riguarda la vicinanza di idee e princìpi. 232

[Le collaborazioni] secondo me ci offrono sicuramente un modo per crescere, essere in continua e costante formazione, e per avere sempre un buono scambio con altre persone che si occupano magari anche di altro, e comunque condividono con noi delle idee e degli ideali. Quindi se ci troviamo a fare delle cose con altri è perché in realtà abbiamo in comune tante più cose di quelle che pensiamo. Adesso mercoledì andremo a fare una formazione al ******, per esempio, è un centro sociale, e loro si stanno occupando, comunque, come molti altri centri sociali, di agricoltura, di socialità, di autoproduzioni. Quindi argomenti e temi che per noi sono importanti e che anche loro stanno cominciando a intraprendere, a lavorarci su. È la bellezza dello scambio, sicuramente, anche lì (Carlo, 31).

Dalle attività organizzate dalle fattorie WWOOF, quindi, emerge come la scelta della vita rurale non coincide con un allontanamento tout-court dalla vita urbana e dall’impegno civile, ma è accompagnata da forme di partecipazione sociale, culturale e politica sui territori di insediamento. Per molti degli host intervistati, le attività che coinvolgono le comunità circostanti rappresentano l’occasione non solo di farsi conoscere, ma anche di creare legami e di incidere sul contesto. Nel campione tra i 30 e i 40 sono maggiormente evidenziabili reti con i contesti urbani e in qualche caso collegamenti con associazioni estere. L’Associazione WWOOF Italia, per implementare la rete interna che possa anche essere di supporto agli host, organizza incontri regionali e provinciali, rappresentati dagli intervistati come un momento in cui riconoscere che non si è da soli. L’anno scorso avevamo appena fatto la tessera come host WWOOF e il coordinamento piemontese ha scelto questo posto come luogo per ritrovarci… sul Piemonte. È stata una bella… io l’ho trovato un bello slancio, perché alla fine, trovi, incontri tante persone che condividono valori e temi comuni, coi quali altrimenti non… altrimenti non saresti entrato in contatto, e ogni tanto ci pensi, quando magari la nebbia è bassa, e fai fatica a vedere cento metri più in là, che c’è qualcun altro che sta facendo questo lavoro, a suo modo, con le proprie modalità, e… però c’è (Stefano, 52).

Per rafforzare, inoltre, questa consapevolezza, il progetto VieWWOOF mira a mappare i sentieri e le strade che collegano sul 233

territorio le fattorie associate. Questo progetto, se da una parte vuole aiutare i WWOOFers nei loro spostamenti, dall’altra mira a sviluppare i collegamenti tra i singoli host. Il tempo e gli impegni quotidiani risultano tuttavia il maggiore ostacolo all’organizzazione di incontri collettivi regionali, per questo molto rari. Nonostante questo, soprattutto in una delle province toccate, a livello locale attorno ad una città sono emersi i maggiori sforzi di rafforzamento dei legami tra le aziende attraverso il WWOOF. Oggi, a tre anni dalla realizzazione delle interviste, questi sforzi hanno consentito la nascita di collaborazioni che riguardano la vendita dei reciproci prodotti, ma anche la nascita di nuove amicizie. 3.5 Internet e uso della tecnologia Tutti gli intervistati, tranne due casi in cui l’informazione è passata da Internet, raccontano di essere entrati in contatto con il WWOOF attraverso canali personali, conoscenti o vicini. Questo mette in luce l’importanza centrale dell’investimento personale nelle relazioni, del contatto diretto. Nel caso di questa associazione, in particolare, la nascita e la sua diffusione indipendente dalla rete rafforza la sensazione che di Internet il WWOOF possa fare a meno e che, anzi, la mancanza di Internet abbia favorito relazioni più autentiche, rendendo necessario un coinvolgimento e una motivazione più profondi. Le impressioni legate al web quindi scontano, negli intervistati coinvolti da più tempo nell’associazione, un confronto con un tipo di richiesta legata ai nuovi trend del turismo sostenibile (green tourism, backpacker tourism, volounteer tourism), percepita come più interessata alla vacanza sotto-costo che alla terra e all’esperienza agricola. Quando abbiamo cominciato a essere nel mondo WWOOF, il computer non c’era, o era poco, poco utilizzato. Quindi i rapporti erano o per telefono, nel modo più spedito, o se no per lettera. Era meglio. Era meglio perché la gente era più costretta a meditare quello che chiedeva e che ascoltava. Invece con Internet è tutto più a un livello di superficie. Un po’ più superficiale. E i chiedono sempre di più… le domande che si fanno sempre più omogeneizzate, cioè sono sempre più le stesse per tutti. E quello che si chiede è sempre più la stessa roba. Uguale per tutti. Cioè è una roba…

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Internet ha aiutato moltissimo la superficialità. Secondo me. È cambiato in quel senso lì, ed è peggiorato in quel senso lì, secondo me (Paolo, 65).

L’uso di Internet è comunque diffuso tra tutti gli intervistati, soprattutto per quanto riguarda la routine quotidiana, la gestione dell’attività WWOOF e gli scambi di accordi e informazioni con i WWOOFers, come è anche riscontrabile dai forum on-line e dai gruppi Facebook dedicati all’associazione. È invece meno diffuso l’uso di Internet per pubblicizzare la propria attività attraverso i social network o pagine web. Nonostante questo, Internet non è visto come un ostacolo alla socialità, quanto uno strumento di semplificazione per la circolazione delle informazioni e per la gestione delle incombenze quotidiane. Allora, io sono veramente un po’ una somara, perché non abbiamo mai fatto neanche un sito Internet. Abbiamo un account Facebook col mio nome, e magari usiamo quello. Ma è più quello che gli altri hanno scritto di noi sul web, tipo blog, piuttosto che altri siti che si occupano di vino. Vabè poi… l’e-mail. Ormai si lavora tutto tramite e-mail. Tant’è che io non rispondo [ride]. Però sicuramente ci ha aiutato tanto. Anche alcune cose burocratiche che prima magari erano più lente perché dovevi prendere, andare nell’ufficio, portare il cartaceo, oggi è tutto anche facilitato da un sistema… da Internet. Oppure se ti serve un indirizzo, o vuoi cercare informazioni sui diversi tipi di sovescio… oggi Internet aiuta tanto anche in questo senso. Purtroppo, sì. Dico purtroppo sì perché a volte mi rendo conto che diventa un po’ un vizio. O diventa vizioso. No? Puoi cercare tutto, sempre, su Internet. A volte la vedo così (Noemi, 38).

4. Conclusioni In un articolo pubblicato da Marco Rosi sui Quaderni di Sociologia si utilizzava la chiave di lettura dei movimenti sociali per guardare al mondo del Commercio Equo e Solidale, con la conclusione che l’elemento mancante fosse un discorso politico condiviso e una rete coesa, in grado di fare da cornice ad azioni e pratiche condivise ma segmentate, isolate. Anche nel corso del lavoro di ricerca sono emersi elementi che falsificano la lettura del movimento sociale. Nel caso di studio qui presentato possiamo evidenziare che un discorso 16

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politico (nel suo senso più nobile) è formalizzato da uno statuto che è una dichiarazione d’intenti e di principi, ma la sua sostanza passa attraverso la scelta di vita e attraverso le pratiche quotidiane familiari e lavorative, orientate a limitare l’impatto dell’uomo sulla terra e sull’ambiente. Questo discorso è già parte della vita degli individui prima dell’ingresso nell’associazione, e questa condivisione di vedute influenza l’avvicinamento al WWOOF. Se nell’articolo citato si rileva come la rete sia lo strumento principe dell’azione programmata e collettiva, le aperture del WWOOF rispetto alla città e ai suoi mercati, ad altre realtà associative e ad altre reti rurali, ai contesti circostanti e alle comunità di insediamento, lasciano intendere sviluppi futuri nella costruzione di legami che partano dai territori e dall’azione locale. Infatti, sebbene le relazioni tra gli host che fanno parte dell’Associazione siano deboli, ognuno dei soggetti ha attorno una serie di contatti che ci permettono di considerare come la scelta della vita rurale non sia una strada di uscita dalla vita sociale e, in particolare, partecipativa, ma una declinazione differente della partecipazione e dell’agire civile, in cui le pratiche di resistenza, in primo luogo al mercato e alla grande distribuzione, si manifestano nel contatto umano, nella ricerca e nella costruzione di una comunità locale di supporto, nel tentativo di diffondere queste stesse pratiche che passano primariamente dalle scelte individuali: cosa mangiamo, come organizziamo la nostra vita e il nostro lavoro e con quali obiettivi, cosa scegliamo di comprare e cosa boicottare. La centralità di queste azioni quotidiane in serie, il loro significato tanto individuale quanto territoriale e collettivo ci permette di ripensare la domanda iniziale per formularne un’altra: “può una rete che nasce nel contesto associativo e rurale essere considerato un movimento sociale?” diventa “può una rete che nasce nel contesto associativo e rurale produrre un cambiamento all’interno della società?”. È a questa domanda che chi scrive riesce a rispondere affermativamente, poiché la rilevanza data alle esperienze, alla condivisione, alla reciprocità, allo scambio, può produrre reti trasversali in grado di influenzare cambiamenti culturali che partono dalle scelte quotidiane, e che diventeranno necessari con l’aggravarsi delle crisi energetiche e climatiche. Se le politiche internazionali per la tutela dell’ambiente fino ad ora si sono rivelate poco efficaci, la partecipazione che nasce nei tessuti associativi e nei territori può contribuire a produrre cambiamenti andando ad incidere primariamente sulle abitudini individuali e sulle pratiche quotidiane. 236

NOTE 1 Alberto Melucci, Nomads of the present: social movements & individual needs in contemporary society, Hutchinson, Londra 1989. Alberto Melucci, Challenging codes: collective action in the information age, Cambridge University Press 1996. Alain Touraine, Azione collettiva e soggetto personale nell’opera di Albero Melucci. In L. Leonini (a cura di), Identità e movimenti sociali in una società planetaria. Guerini Studio. Abbiategrasso (MI) 2003. 2 Letteralmente: “if It doesn’t make sense to me, I’m not participating”. Alberto Melucci, Challenging codes, op.cit., p.49. 3 Laura Bovone e Emanuela Mora, La spesa intelligente. Il consumo biologico e solidale, Donzelli, Roma 2007. Luisa Leonini & Roberta Sassatelli (a cura di), Il consumo critico, Laterza, Bari 2008. 4 Amory Starr, Local Food: A Social Movement?, in «Cultural Studies Critical Methodologies», XX(X), pp. 1-12, 2010. 5 Keith H. Halfacree, Back-to-the-land in the twenty-first century: Making Connections with Rurality, in «Tijdschrift voor Economische en Sociale Geografie», n.98(1), pp. 3–8, 2007. Andrew Wilbur, Growing a radical ruralism: Back-to-the-land as practice and ideal, in «Geography Compass», n.7(2), pp. 149–160, 2013. 6 Amory Starr, Local Food: A Social Movement? In «Cultural Studies Critical Methodologies», n.XX(X) 2010, pp. 1-12. 7 Ron Eyerman & Andrew Jamison, Social movements: a cognitive approach, Pennsylvania State University Press 1991. 8 Questo contributo al volume è basato sul lavoro di ricerca svolto durante il Corso di Laurea Magistrale in Sociologia, e discusso nel novembre 2015, presso l’Università degli Studi di Torino. 9 Angela Maycock, World Wide Opportunities on Organic Farms (WWOOF) (http://www.wwoof.org/), in «Journal of Agricultural & Food Information», n.9(4), pp. 282-288, 2008. 10 Mario Cardano, La ricerca qualitativa, Il Mulino Manuali, Bologna 2011. p. 175. 11 Steven Conn, Back to the Garden. Communes, the Environment, and Antiurban Pasotralism at the End of Sixties, in «Journal of Urban History», n. 36(6), pp. 831-848, 2010, p. 836. 12 Antonietta Mazzette, La città immaginaria. Sassari nelle esperienze dei suoi abitanti, FrancoAngeli, Milano 1997.

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13 Al fine di garantire la privacy degli intervistati, i nomi reali sono stati sostituiti da pseudonimi. 14 Alison McIntosh e Tamara Campbell, Willing Workers on Organic Farms (WWOOF): A Neglected Aspect of Farm Tourism in New Zealand, in «Journal of Sustainable Tourism», 9(2), pp. 111-127, 2010. Alison J. McIntosh e Susanne M. Bonnemann, Willing Workers on Organic Farms (WWOOF): The Alternative Farm Stay Experience?, in «Journal of Sustainable Tourism», 14(1), pp. 82-99, 2006. 15 Natalie Ooi e Jennifer H. Laing, Backpacker tourism: sustainable and purposeful? Investigating the overlap between backpacker tourism and volunteer tourism motivations. In «Journal of Sustainable Tourism», 18(2), pp. 191-206, 2010. 16 Marco Rosi, Etica e pratica: il modello di protesta del movimento del Commercio Equo e Solidale in Italia, in «Quaderni di Sociologia», 43(33), pp. 71-83, 2013.

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PER SCELTA O PER NECESSITÀ? IL RECUPERO ALIMENTARE AL MERCATO TRA STIGMA SOCIALE, AZIONE POLITICA E VULNERABILITÀ ECONOMICA Costanza Guazzo Il recupero alimentare nei mercati, conosciuto soprattutto poiché oggetto, negli ultimi anni, di diversi progetti e politiche di gestione degli sprechi edibili, verrà qui analizzato come pratica individuale di approvvigionamento alimentare da parte di coloro che raccolgono l’invenduto nei mercati di quartiere, in particolare frutta e verdura: prodotti molto deperibili e continuamente sostituiti dai venditori, presenti in grande quantità tra gli scarti quotidiani di ogni mercato ortofrutticolo. Il recupero viene svolto attraverso la ricerca, sul mercato, dei prodotti alimentari ancora edibili ma destinati allo smaltimento, talvolta anche di ottima qualità; attraverso la richiesta ai venditori mercatali di prodotti destinati all’eliminazione, oppure mediante la perlustrazione autonoma dell’area del mercato, nei cassonetti o direttamente a terra, sotto i banchi, mentre sono in corso le attività di sgombero da parte dei venditori a conclusione della giornata lavorativa. Questa forma di approvvigionamento alimentare, estranea agli scambi economici classici, presuppone lo sviluppo di forme di resistenza allo stigma generalmente associato al contatto con i rifiuti, attraverso una contronarrazione della pratica che si allontana dall’immagine del recupero come legato all’esclusione sociale ed alla marginalità: dai discorsi e nelle pratiche dei recuperatori emergono infatti motivazioni etiche e politiche, che accanto alle ragioni legate alle necessità economiche, appaiono reincorniciare il recupero in un’ottica nuova. L’articolo si svilupperà attraverso una panoramica dei contributi riguardanti il recupero alimentare, attraverso la lente della resistenza allo stigma, in particolare in relazione alla distinzione tra alimento e rifiuto. Dopo una presentazione della ricerca da cui prende le mosse questo articolo, la seconda parte discuterà il rapporto tra pratiche di recupero e rappresentazione di sé. 239

La sociologia delle pratiche di recupero alimentare Il recupero alimentare richiama per molti versi le pratiche freegan diffuse in altri Paesi occidentali, volte all’appropriazione di prodotti al di fuori dalla dinamica di acquisto1, in particolare attraverso il recupero dai rifiuti cittadini di alimenti e oggetti che verrebbero sprecati, per limitare il più possibile il proprio impatto ambientale e la propria partecipazione al consumismo. Allo stesso tempo, le pratiche freegan d’oltreoceano differiscono per alcune caratteristiche rispetto alla forma di recupero analizzata in questo testo, che si sviluppa prevalentemente sui mercati all’aperto, ancora molto diffusi in Italia ed in particolare a Torino, in cui è stata svolta la ricerca, ma molto più rari nella maggior parte dei Paesi occidentali. Inoltre, la maggior parte degli studi sulle pratiche freegan appaiono concentrarsi soprattutto su quanti vi si avvicinano motivati prevalentemente da ragioni politiche di anticonsumo, più che da condizioni di necessità economica. In questa ricerca, al contrario, si è data la priorità allo studio della pratica in toto, senza una preliminare distinzione riguardo alle motivazioni principali, al fine di notare affinità e differenze tra i diversi tipi di recuperatori. Negli studi che si sono occupati di recupero alimentare dai rifiuti da parte di attori in condizioni di vulnerabilità alimentare, un aspetto interessante è rappresentato dalle modalità con cui le motivazioni economiche vengono associate a ragioni etiche2, in cui viene spesso evidenziato come, per reazione allo stigma associato alla pratica, molti freegan, originariamente motivati da stringenti ragioni economiche, costruiscono in seguito un’immagine di sé come individuo resistente in una società di cui non condividono il sistema di produzione ed il consumismo. La sola motivazione economica viene esplicitata raramente. Anche tra i recuperatori torinesi è emersa questa tendenza ad evitare di motivare in maniera esclusivamente strumentale la propria attività di recupero: questa, viene sottolineato, rappresenta una scelta di approvvigionamento alimentare, e non l’unica possibilità di reperire quanto necessario; un’attività che potenzialmente potrebbe essere evitata, e che viene invece adottata volontariamente. Sebbene nella maggior parte dei casi sia possibile trovare alimenti ancora in buono o addirittura ottimo stato, recuperare da terra o dai cassonetti richiede infatti la capacità di rielaborare le norme sociali sulla commestibilità degli alimenti e gestire il significato simbolico 240

che può avere il fatto di scegliere e raccogliere il proprio cibo tra i rifiuti, poiché “non è sufficiente che [questo] venga considerato innocuo per l’organismo perché ottenga il consenso per la sua edibilità” 3. Rifiutare di attenersi alle regole sulla commestibilità di ciò che è visto come rifiuto può voler dire essere (o percepirsi) esclusi dalla società; dall’altro lato, recuperare quanto viene gettato può significare avere la possibilità di scegliere e di acquisire autonomamente ciò di cui si ha bisogno, utilizzando creativamente le proprie capacità di spesa senza dover chiedere aiuto ad altri passivamente. Eppure, nel contesto del mercato, la distinzione tra ciò che è commestibile e ciò che non lo è appare più simbolica che fattuale: i prodotti recuperati sono a tutti gli effetti edibili, talvolta anche di ottima qualità, ed il passaggio da alimento a rifiuto è avvenuto nel recentissimo passato del prodotto, nel momento in cui il venditore ha decretato la sua invendibilità. I rifiuti possono infatti essere visti come prodotti transitanti nelle fasi finali della propria “vita sociale”4 di cui l’ultima, quella di scarto, ne presuppone un allontanamento -dai prodotti non ancora scartati e dai fruitori- e una ridefinizione sociale5; tuttavia “la stessa idea che qualcosa sia da eliminare sottintende (…) valutazioni e classificazioni sempre a rischio di suscitare conflitto”6. Infatti, proprio perché è attraverso l’attribuzione agli alimenti di valori e qualità non meramente biologici che viene rappresentata l’appartenenza al mondo sociale7, il non conformarsi alle regole sulla commestibilità degli alimenti significa incorrere in sanzioni più o meno implicite, ben esemplificate dai commenti di pietà di venditori ed operatori ecologici riguardo alla pratica. Coloro che si rapportano con i rifiuti vengono in genere associati alla marginalità e all’esclusione sociale, e questa rappresentazione della propria identità può essere percepita come molto dolorosa, e stigmatizzante, da parte di alcuni recuperatori, nonostante la notevole competenza nella gestione creativa di ridotte capacità di spesa che questo tipo di pratiche rende evidente. Nella cornice interpretativa di Goffman, lo stigma è un attributo di devianza, un comportamento o una reputazione che produce discredito, e che porta a un rifiuto, un allontanamento, da parte degli attori che non lo condividono. Attraverso la distinzione tra in-group ed out-group, Goffman effettua una distinzione tra coloro che condividono lo stesso stigma e la società più ampia di coloro che non possiedono quell’attributo8. Diverse ricerche hanno mostrato come 241

le interazioni tra i pari che condividono lo stesso stigma e situazioni di organizzazione informale possano mitigare gli effetti di discredito dello stigma sulla rappresentazione di sé e possano costituire la base di forme di resistenza, influenzate da caratteristiche come classe sociale, età e competenze dell’attore9. Tra i recuperatori urbani, le interazioni sul mercato, gli scambi di prodotti e le discussioni riguardanti l’immoralità dello spreco alimentare sembrano infatti aiutare alla costruzione di una rappresentazione di sé più positiva proprio grazie alla condivisione; mentre caratteristiche personali come capitale sociale ed economico e motivazioni politiche sembrano influenzare positivamente le modalità di gestione dello stigma. Emergono quindi notevoli competenze nella negoziazione del consumo delle persone in condizioni di vulnerabilità economica, aspetti che di rado emergono negli studi sul consumo e la povertà: forse perché i consumi in genere sono associati soltanto alla disponibilità economica10, a coloro con una ridotta capacità di spesa viene raramente riconosciuta la capacità di elaborare e rielaborare pratiche che vadano oltre la sussistenza11: questo porta ad un invisibilità di tutte quelle pratiche che mettono in luce le complesse scelte dietro la composizione del paniere alimentare – e non solo – delle persone in situazioni di ridotte possibilità di acquisto. Tuttavia, va evidenziato come il fatto di vivere in condizioni di povertà non necessariamente implica l’assunzione di logiche di pura sussistenza e l’eclissi delle pratiche culturali: “le pratiche di consumo ‘ai margini’ della popolazione rivelano una continua negoziazione, la cui posta in gioco non è rappresentata unicamente dal valore nutrizionale del cibo ma anche dal suo valore simbolico”12. Se è vero che oggi le voci di spesa più impegnative per le famiglie in condizioni di vulnerabilità economica sono quelle relative alla casa, anche perché incomprimibili13, questo significa che le capacità di negoziazione si esplicitano proprio su quei beni su cui è necessario tagliare le spese, come l’alimentazione e il vestiario, per le quali è anche più facile trovare il sostegno della rete sociale o di enti assistenziali. La fruizione di queste forme di sostegno, tuttavia, implica l’accettazione di una rappresentazione di sé come vulnerabile od incapace di soddisfare le necessità proprie e della propria famiglia, che può stimolare la ricerca di altre fonti di approvvigionamento, come il recupero, o il baratto, che risultino meno distanti dalla propria immagine di sé. Infatti, “il fatto di trovarsi in condizioni socialmente ed economicamente marginali non com242

porta necessariamente l’assunzione di una logica strumentale legata esclusivamente alla soddisfazione di bisogni primari”14. La ricerca La ricerca è stata svolta grazie a tecniche qualitative, tra giugno e dicembre 2016: attraverso netnografia, interviste e osservazione partecipante in sei mercati di Torino, differenti per dimensione, ubicazione e tipo di utenza, è stato possibile approfondire le motivazioni alla base dell’avvicinamento alla pratica di recupero alimentare al mercato. Una preliminare mappatura dei trentacinque mercati torinesi all’aperto ha permesso la scelta di sei aree mercatali che potessero risultare rappresentative dell’eterogeneità della pratica nelle diverse zone della città: il centrale mercato di Porta Palazzo, uno dei più grandi d’Europa, in cui la presenza di recuperatori è risultata eccezionalmente alta; i mercati di piazza Foroni, piazza Barcellona, piazza Madama Cristina, di dimensioni ridotte; infine i mercati di corso Sebastopoli e corso Racconigi, di grandi dimensioni e situati in due quartieri della prima periferia, Santa Rita e San Paolo. La netnografia ha inoltre permesso di osservare lo svilupparsi di interazioni e discorsi all’interno di quattro gruppi online di recuperatori, tre su facebook e uno su whatsapp; in parallelo, sedici interviste discorsive a recuperatori, operatori di associazioni e venditori mercatali hanno consentito di approfondire in particolare punti di vista, modalità di recupero, motivazioni alla base dell’avvicinamento alla pratica e rapporto con le tematiche del consumo responsabile. Risultati Dai risultati è emerso come, attorno alla stessa pratica, convergono attori estremamente diversi per capitale economico e culturale, motivati nel loro avvicinamento al recupero da ragioni differenti. Sebbene sia emersa per tutti i recuperatori l’importanza della gratuità dei prodotti recuperati, anche a causa del capitale economico in generale non elevato, possiamo distinguere due differenti tipi di recuperatori soprattutto in funzione della necessità economica in cui è avvenuto l’avvicinamento al recupero mercatale: da un lato, vi 243

sono infatti attori per i quali l’avvicinamento alla pratica sembra essere motivato prevalentemente da ragioni politiche ed etiche, legate all’anticonsumismo, che hanno come fine primario la riduzione della propria necessità di acquistare e di diminuire, nel proprio piccolo, gli sprechi della grande distribuzione organizzata. In questi casi, si tratta di individui, giovani ed adulti, generalmente italiani, con un capitale culturale ed un livello di istruzione elevato, che inseriscono il recupero all’interno di una nebulosa di pratiche improntate ad una maggiore sobrietà dei consumi e alla sostenibilità ambientale e sociale. Emergono, tra questi recuperatori, anche posizioni critiche nei confronti dei consumi sostenibili certificati, di cui vengono messe in luce le contraddizioni, in favore di pratiche ecologiche meno istituzionalizzate, come il recupero, l’astensione dal consumo di alcuni prodotti, come la carne, e la ricerca di relazioni dirette con i produttori alimentari. La gratuità dei prodotti recuperati risulta in questi casi rilevante soprattutto per la possibilità di liberare le risorse economiche risparmiate per l’acquisto di altri alimenti e prodotti di alta qualità o sostenibili, che altrimenti risulterebbero inaccessibili. L’altro tipo di recuperatori, sia italiani sia stranieri, è invece caratterizzato da condizioni di vulnerabilità economica più gravi, e generalmente da un livello di istruzione meno elevato: per questi attori, il recupero appare in maniera più stringente una forma di approvvigionamento alimentare in contesti di ridotte capacità di spesa, sebbene emergano in maniera consistente anche in questo gruppo posizioni critiche riguardo alla quantità di sprechi prodotti dal sistema alimentare e non solo. In particolare, tra questi recuperatori viene messa in discussione la legittimità di un sistema che permette la coesistenza di situazioni di vulnerabilità alimentare e di enormi quantità di prodotti edibili sprecati. Emerge quindi anche da parte di questi recuperatori un interesse verso i temi della sostenibilità; sebbene le attitudini politiche alla raccolta risultino poco sistematizzate in una struttura ideologica, emerge anche in questo caso una sensibilità verso prodotti ecologici e “naturali”, come esternato da questa giovanissima recuperatrice italiana, disoccupata: Il trattamento ogm praticamente ci avvelena per cui a lungo andare li ingeriamo e sono dannosi per il nostro corpo anche perchè lo fanno per chi ha paura di trovarsi l’insettino o il verme nella mela, per me non è un problema, preferisco mangiare un prodotto naturale...Sono molto a favore

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del biologico (Intervista A., donna, 19 anni).

Tra questi recuperatori le risorse liberate da questa forma di approvvigionamento gratuita vengono utilizzate soprattutto per sostenere le spese fisse, come l’affitto, le utenze e le spese per la vita scolastica dei figli, più ingenti e difficili da sostenere. Allo stesso tempo, la scelta di recuperare permette di poter scegliere anche alcuni prodotti alimentari di qualità più alta, o particolarmente apprezzati. Emergono anche buone capacità di negoziazione nell’approvvigionamento di altri beni al di fuori della dinamica tradizionale di acquisto: vestiario, mobili, alimenti vengono infatti recuperati, acquistati nei mercatini di seconda mano, ottenuti in dono dalla rete sociale e da enti assistenziali; in alcuni casi, la pratica risulta perfino essere scelta proprio per la possibilità di evitare il ricorso all’assistenza sociale istituzionalizzata. Anticonsumismo ed astensione forzata dal consumismo risultano dunque convergere nella stessa pratica, il recupero al mercato, da parte di attori molto differenti. Tuttavia le modalità in cui esso viene portato avanti sembrano differire in funzione della libertà di scelta in cui è avvenuto l’avvicinamento alla pratica: da parte di quanti sono motivati da più stringenti condizioni di vulnerabilità economica, infatti, il recupero comporta generalmente l’evitamento dei contatti sociali con i venditori mercatali e con gli altri recuperatori, attraverso la perlustrazione e la raccolta direttamente nei cassonetti, a terra, o negli spazi sotto i banchi. Tra le persone che recuperano sole, in particolare, i comportamenti di evitamento e di imbarazzo sono costanti e portano spesso all’allontanamento degli altri recuperatori: [io ed un’amica incontrata sul mercato] abbiamo poi incrociato una signora romena che viene spesso, di mezz’età […] che però è molto chiusa e non voleva parlare; ci ha fatto un sorriso, dopo l’iniziale diffidenza. (...) Abbiamo poi incontrato una signora italiana imbarazzata, sola, cinquant’anni, che cercava sotto un banco, a cui abbiamo offerto una zucca” (Note di campo, Porta Palazzo, 17/7/16).

Praticare un’attività che coinvolge il contatto con i rifiuti, ovvero con quanto è considerato privo di valore, provoca imbarazzo e reazioni di evitamento e di protezione dal giudizio esterno, anche quando si tratta di altri recuperatori. La raccolta da un cassonetto 245

significherebbe per estensione non avere accesso a ciò che è dotato di valore, a causa delle proprie vulnerabili condizioni economiche, che possono essere vissute come un fallimento personale o una colpa: l’imbarazzo sarebbe quindi uno dei modi con cui si esplicita la percezione di stigma sociale legato all’attività di raccolta, a cui questi recuperatori reagiscono, sia scegliendo modalità di svolgimento della pratica che possano proteggere dal giudizio esterno, sia proponendo una ridefinizione discorsiva della situazione attraverso le proprie motivazioni: adducendo sempre, oltre alle ragioni economiche, anche motivazioni politiche ed etiche riguardanti lo spreco, e sottolineando la dimensione della scelta alla base dell’atto del recupero. Invece, i recuperatori caratterizzati da un più alto capitale economico e culturale prediligono maggiormente i contatti e le interazioni sociali sul mercato: con i venditori, a cui più frequentemente si avvicinano, percorrendo lo spazio tra i banchi, con l’esplicita richiesta di prodotti invenduti; e con gli altri recuperatori, con cui risultano più frequenti anche le interazioni e gli scambi degli eventuali prodotti in quantità eccedente i propri bisogni. Tra questi recuperatori, inoltre, è più comune la costruzione di relazioni strutturate nel tempo con alcuni venditori, i quali, in nome del rapporto di amicizia, selezionano tra i propri prodotti ogni settimana una cassetta da donare, come racconta questa donna, che lavora in proprio come insegnante di lingua e life coach: Siccome ho perso il lavoro, sono separata, da sola con le bambine, eccetera, lui mi dà una mano:(...) io vado il sabato quando stanno per chiudere il mercato e (...) le cose che dal sabato sera al lunedì mattina non sarebbero più belle me le regala. Mi dice che gli devo un caffè e sono sei anni che gli devo pagare questo caffè… poi non so se ho le melanzane gli porto un barattolo di melanzane e queste cose qua (Intervista Am., donna, 40 anni).

La dimensione dello stigma associato al contatto con i rifiuti sembra dunque avere effetti differenti sulle modalità di recupero dei diversi attori. Se da una parte infatti lo stigma appare quasi percepito in maniera ovattata, distante, da parte di coloro per i quali è soprattutto una forma di evitamento del consumo, praticata esclusivamente per scelta personale e come azione politica individualizzata15, dall’altra parte coloro che si trovano in condizioni di necessità economica più stringenti sembrano percepire come più violento lo sguardo esterno. 246

A livello pratico, questo emerge come una maggiore tendenza ad evitare i contatti con altri recuperatori e con i venditori sul mercato, in favore di forme di recupero basate sulla ricerca di prodotti a terra o nei cassonetti, che permettono però generalmente l’accesso ad alimenti di qualità peggiore. Contronarrazioni del recupero Tuttavia, i recuperatori non subiscono lo sguardo esterno sulla pratica in maniera puramente passiva. Lo stigma, ed il confine simbolico stesso che separa gli alimenti dai rifiuti, alla base della sanzione sociale negativa, vengono infatti messi in discussione da parte dei recuperatori in primo luogo a livello discorsivo, attraverso un distanziamento e l’assegnazione di un nuovo significato positivo alla pratica, grazie anche al ricorso a motivazioni politiche che giustificano il recupero e delegittimano la sovrapproduzione alimentare. L’adozione di motivazioni politiche sembra quindi risolvere la tensione tra la rappresentazione di sé e la rappresentazione della pratica come socialmente inaccettabile perché legata alla marginalità. Ma non solo le motivazioni etiche possono essere in parte ricondotte alla necessità di rappresentarsi positivamente come recuperatori: anche le attività di scambio e condivisione di prodotti scartati reperiti in grande quantità sul mercato, l’emergere di discorsi sulle ricette e sulla qualità degli alimenti ritrovati possono essere ricondotti, per alcuni aspetti, tra le modalità di gestione dello stigma, permettendo la costruzione di una rappresentazione più positiva dell’attività del recuperatore. L’ampia presenza di scambi di prodotti recuperati e di discussioni riguardanti le ricette sembra infatti esplicitare anche la volontà di sottolineare la valenza alimentare dei prodotti recuperati, di cui viene contestata la connotazione di rifiuto, permettendo così di ricondurre a una categoria culturale condivisa e accettata quanto recuperato16. Nelle conversazioni tra recuperatori viene messa in discussione la stessa validità dello stigma legato alla pratica, del confine simbolico che separa cibo e rifiuto, a cui viene contrapposta la legittimità etica dell’atto di recuperare. Anche la stessa modalità di socializzazione alla pratica, che è risultata avvenire soprattutto attraverso il contatto con gruppi, familiari o amici che già recuperavano, per imitazione o per condivisione 247

di prodotti raccolti sul mercato, potrebbe essere un esempio di come la devianza sociale percepita riguardo al recupero, in particolare rispetto all’edibilità degli alimenti, impedisca in molti casi il coinvolgimento nella pratica, a meno che vi sia la validazione di questa scelta da parte di altri membri della rete sociale, che permette la sua risignificazione all’interno di una cornice di accettabilità sociale. Avviene quindi da una parte una riassegnazione del significato sociale attribuito alla frutta e verdura raccolta, che tornano a essere considerate alimenti, valutati non più affidandosi alla distinzione tra alimento e rifiuto, quanto alla propria valutazione personale ed alle capacità degli organi di senso. Dall’altro lato, viene riassegnato un nuovo significato positivo alla pratica attraverso motivazioni politiche che la rendono moralmente difendibile e attraverso discorsi ed interazioni tra i recuperatori che rinforzano questa risignificazione. Conclusioni La pratica di recupero alimentare al mercato acquisisce dunque i tratti di una forma di resistenza ad una rappresentazione percepita come estranea, che vede nel recupero di scarti il simbolo della marginalità e della sussistenza. Si tratta di una resistenza, incorporata nelle pratiche, che ha il fine di gestire una situazione percepita come estranea e stigmatizzante, di riprenderne il controllo, di riacquisire il senso della propria realtà. Infatti, l’attribuzione di una valenza politica alla pratica permette di inserirla nella propria rappresentazione di sé in una cornice più positiva, nonostante gli attributi stigmatizzanti del recupero, causati dal contatto con ciò che è stato rifiutato. Nemmeno tanto una richiesta di visibilità, di acquisire rilevanza nel territorio istituzionalizzato, data la tendenza di molti recuperatori ad agire in modo defilato, spesso evitando i contatti con i venditori, ma piuttosto una volontà di contrastare discorsivamente, nelle interazioni con altri recuperatori o con la propria rete sociale, la diffusa immagine del recupero come attività legata esclusivamente alla marginalità sociale ed alla sussistenza, di manipolare e risignificare codici sociali, di contrapporre visioni altre, ed allo stesso tempo, in prima persona, di attivarsi per la negoziazione di capacità di spesa a volte davvero ridotte. 248

NOTE 1 Laura Portwood Stacer, Anti-consumption as tactical resistance: anarchists, subculture, and activist strategy, in «Journal of Consumer Culture», 12, p. 94, 2012; Ferne Edwards, David Mercer, Gleaning from gluttony. Australian youth subculture confronts the ethics of waste, in «Australian Geographer», 38(3): pp. 279-296, 2008. 2 Karen Fernandez. et Al., “Doing the duck”: negotiating the resistant-consumer identity, in «European Journal of Marketing», 45(11): pp. 1779-1788, 2011; Hieu Nguyen et Al., Reverse stigma in the freegan community, in «Journal of Business Research, 67(9): pp. 1877–1884, 2014; Gianmarco Savio, Organization and stigma management: a comparative study of dumpster divers in New York, in «Sociological Perspectives», 1(15): pp. 1-16, 2016; Russell Vinegar et Al., More than a response to food insecurity: demographics and social networks of urban dumpster divers, in «Local Environment», 21(2): pp. 241-253. 3 Mary Douglas, Baron Isherwood., Il mondo delle cose, Il Mulino, Bologna 1984, p. 38. 4 Arjun Appadurai, The social life of things: Commodities in cultural perspective, «Cambridge University Press», Cambridge 1988. 5 Edda Orlandi, Beyond dirt: an ethnographic study on the classification of waste in a co-cop hypermarket, in «Rassegna Italiana di Sociologia», n. 56(2), p. 183, 2015. 6 Ivi: p. 179. 7 Maurizio Bergamaschi e Pierluigi Musarò, Spazi di negoziazione. Povertà urbana e consumi alimentari, Franco Angeli, Milano, 2011, p.40. 8 Erving Goffman, Stigma, Penguin, London 1963, p. 115. 9 Gianmarco Savio, Organization and stigma management: a comparative study of dumpster divers in New York, in «Sociological Perspectives», n. 1(15): pp. 1-16, 2016; Catherine Riessman, Stigma and everyday resistance practices: Childless women in South India in «Gender & Society», 14(1), pp. 111-135, 2000. 10 Laura Bovone, Carla Lunghi, Consumi ai margini, Donzelli, Roma 2009. 11 Maurizio Bergamaschi, Pierluigi Musarò, Spazi di negoziazione. Povertà urbana e consumi alimentari, F. Angeli, Milano 2011, p. 27. 12 Ivi: p. 29.

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13 Laura Bovone, Carla Lunghi, Consumi ai margini, Donzelli, Roma 2009. 14 Maurizio Bergamaschi, Pierluigi Musarò, Spazi di negoziazione. Povertà urbana e consumi alimentari, F. Angeli, Milano 2011, p. 87. 15 Michele Micheletti, Dietlind Stolle, Politics, products, and markets: exploring political consumerism past and present, Transaction Publishers, New Brunswick 2004. 16 Mary Douglas, Baron Isherwood, Il mondo delle cose, Il Mulino, Bologna 1984.

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