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Italian Pages XII,168 [181] Year 2013
TEMPO DI FICTION Il racconto televisivo in divenire Documento acquistato da () il 2023/04/27.
a cura di Milly Buonanno
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Comparative Sociological Studies 3
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Tempo di fiction Documento acquistato da () il 2023/04/27.
Il racconto televisivo in divenire a cura di Milly Buonanno
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2. Immaginari, transmedia
I. Titolo
II. Collana
III. Serie
Aggiornamenti: ———————————————————————————————————————— 20 19 18 17 16 15 14 13 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
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Indice XI
Nota introduttiva
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PARTE PRIMA MAINSTREAM ITALIANO 1
Capitolo 1 Quando la fiction si chiamava sceneggiato di Giovambattista Fatelli 1.1. Pedagogismo e feticismo 1; 1.2. Festina lente 9; 1.3. La fine delle storie 14
17
Capitolo 2 Alle origini della “cult fiction” italiana di Giovanni Prattichizzo 2.1. Fiction e culto 17; 2.2. Erano cult e non lo sapevano! 20
27
Capitolo 3 Il senso del luogo. I protagonisti della fiction fra qui e altrove di Anna Lucia Natale 3.1. Sul senso del luogo nella fiction 27; 3.2. Sapore di casa: Il Maresciallo Rocca 31; 3.3. Entro e oltre: Il commissario Montalbano 34; 3.4. Identità lontane: Elisa di Rivombrosa e Come l’America 39
43
Capitolo 4 Gli eroi dei due mondi. Immaginari crime tra Italia e America di Silvia Leonzi 4.1. Due fiction ‘compensative’ 43; 4.2. Crime after crime 50; 4.3. Don Matteo vs. Dexter Morgan 52
57
Capitolo 5 Raccontare l’altro. La rappresentazione delle diversità di Fabio Corsini 5.1. Immaginare la diversità 57; 5.2. Il quadro delle differenze nel fictionscape italiano 60; 5.3. La diversità come pretesto narrativo 63; 5.4. Comprendere l’alterità 66
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INDICE
viii
69
Capitolo 6 La qualità della fiction fra tradizione nazionale e standards transnazionali di Milly Buonanno 6.1. Qualità come rituale strategico 69; 6.2. Un assunto condiviso 73; 6.3. L’invisibilità di tutto il resto 77; 6.4. La ‘tradizione di qualità’ della fiction italiana 78
PARTE SECONDA SCENARI IN MUTAMENTO
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87
Capitolo 7 La stagione dell’abbondanza. Pubblici, reti e paradossi dei nuovi tempi della fiction di Mihaela Gavrila 7.1. La fiction e i suoi mercati 87; 7.2. La fiction e i suoi pubblici: nuove forze in gioco. Dalla forza centripeta del mainstream, alla forza centrifuga della social television 90; 7.3. Tempo di fiction, tempo di paradossi 97
103
Capitolo 8 Tempo di fruizione e forme di socialità on line: come cambia il rapporto tra serialità e audience nella connected television di Romana Andò 8.1. Rileggere le pratiche di consumo 103; 8.2. Fandom e serialità televisiva 105; 8.3. Tempo di fiction: serialità, timeshifting e usi strutturali della televisione 108; 8.4. Fiction nella rete: serialità, social media e usi relazionali della televisione 112; 8.5.Conclusioni 115
117
Capitolo 9 Post-serialità. La fiction oltre i media di massa di Sergio Brancato 9.1. Serialità 117; 9.2. Post-serialità 119; 9.3. Serialità on line 120; 9.4. Le webseries come nuova frontiera della fiction? 122; 9.5. Considerazioni che dilazionano le conclusioni 125
127
Capitolo 10 Il fine delle “grandi narrazioni”: fiction, transmedia e storytelling di Gianni Ciofalo 10.1. Il fine e i principi 127; 10.2.Dai boschi ai labirinti narrativi 130; 10.3. In Italia… locura e frammenti? 136
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INDICE
141
ix Capitolo 11 Storie ingarbugliate. Dai mind-game film alle «fiction totali» di Guido Vitiello 11.1. Una «certa tendenza»: come studiare i mind-game film? 141; 11.2. Da Twin Peaks a Lost 144; 11.3. Il cinema oltre il cinema: esodo dal «cubo nero» 148; 11.4. L’opera mondo e l’interpretazione infinita 150
Bibliografia
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Gli Autori
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153
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Nota introduttiva I contributi raccolti in questo volume sono stati originariamente prodotti in occasione della terza edizione (2011) del ‘Fiction Day della Sapienza’: un appuntamento annuale organizzato dal Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università di Roma (CORIS) in collaborazione con l’Osservatorio della Fiction Italiana (OFI), con l’intento di alimentare riflessione e dibattito sullo storytelling televisivo fra studiosi e professionisti del settore (broadcasters, produttori, talenti creativi). Le versioni definitive degli interventi che qui si pubblicano hanno tratto vantaggio dalla discussione sviluppata in quella sede. Per quanto legata a/ e scaturita da/ una precisa occasione, la presente raccolta non riveste tuttavia il carattere occasionale – non per questo sminuito di merito o di interesse – che impronta d’abitudine la pubblicazione degli atti di un convegno. Vuole essere, piuttosto, espressione e testimonianza dell’esistenza di una ‘scuola’ di Television Drama Studies che si è formata presso il CORIS della Sapienza con l’apporto di studiosi di differenti generazioni (anagrafiche e accademiche), e che si ripromette di continuare a contribuire nel futuro alla ricerca e alla produzione di conoscenza e di letteratura sulla fiction televisiva, nazionale e internazionale. Il titolo e il sottotitolo del libro intendono evocare, insieme, il carattere di permanenza di una forma narrativa che accompagna la televisione fin dalle origini (sotto questo profilo, è sempre tempo di fiction), e la plastica mutevolezza con cui lo storytelling televisivo aderisce alle fasi e alle tendenze di cambiamento della televisione e del più vasto ambiente mediale (sotto questo profilo, il racconto televisivo al pari dello stesso medium è sempre in divenire). Questa duplice articolazione presiede anche alla struttura del volume, che si presenta suddiviso in due sezioni. La prima, Mainstream italiano, ripercorre nei sei capitoli che la compongono momenti fondativi e di svolta nella storia della fiction domestica, e mette selettivamente a fuoco personaggi, immaginari, rappresentazioni, tradizioni di qualità, che hanno contraddistinto fino ad oggi il racconto televisivo. Non c’è, e non potrebbe esserci, alcuna pretesa di ricostruzione storica o di mappatura esauriente del campo; l’intento è piuttosto quello di dispiegare in (piccola) parte la varietà dei punti di osservazione da cui la fiction italiana si presta ad essere riguardata, analizzata, e valutata. La seconda sezione, Scenari in mutamento, consta di cinque capitoli in cui si offre un quadro analiticamente dettagliato delle significative trasformazioni
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NOTA
INTRODUTTIVA
che, nel tempo presente della iper-citata ‘convergenza’ mediale, attraversano i territori della fiction, aprendo la strada a nuove forme di creatività e nuove modalità di offerta e di consumo: fruizione multi-channel e multi-screen, socialità on-line, web-series, transmedialità, complessità narrativa. La lettura dei capitoli di questo libro lo renderà evidente, ma egualmente mi preme sottolineare fin d’ora come nessuna linea di ‘pensiero sostitutivo’ – quello che, ad esempio, alimenta discorsi sulla fine del broadcasting o detta insensate dicotomie fra old media e new media – presieda alla bipartizione del nostro corpus testuale. Mainstream italiano e scenari in mutamento sono infatti da intendersi come i termini di una ‘distinzione inclusiva’, come suggerisce Ulrik Beck. Detto altrimenti, non crediamo affatto che i nuovi scenari sommergeranno il mainstream, e che quest’ultimo sia destinato all’ obsolescenza sotto l’incalzare della grande trasformazione del digitale. Più verosimilmente ci attende, e del resto già lo sperimentiamo, un fictionscape dilatato e composito (fors’anche eccedente e confusionale), abitato insieme da narrative mainstream e di nicchia, lineari e ingarbugliate, che si contenderanno l’accesso alla nostra attenzione e al nostro immaginario. Ma, innanzitutto, al nostro tempo. Il titolo del libro si presta a suggerire in filigrana questo ulteriore nesso fra tempo e racconto. M.B.
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PARTE PRIMA
Mainstream italiano
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1 Quando la fiction si chiamava sceneggiato di Giovambattista Fatelli
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Coraggio, il meglio è passato Ennio Flaiano
1.1. Pedagogismo e feticismo Alla metà del secolo scorso, nell’Italia agreste di Pane, amore e fantasia, la forma più importante di narrazione popolare era senza dubbio ancora il cinema. Un cinema che peraltro poteva giovarsi d’un mercato di storie che la prolungata invasione dei film americani dopo la guerra andava infiammando ormai da quasi un decennio. Anche il consumo cinematografico più occasionale e misero si era abituato a questi prodotti ben confezionati, a volte anche lussuosi (o almeno ben al di sopra delle prospettive reali offerte da una società arretrata come la nostra), alla stregua di distributori automatici d’avventura pensati per riempire ogni angolo delle menti semplici e perfino “garantiti” sul piano morale1, sebbene basti poi la semplice distanza fra i contesti esibiti sullo schermo e quelli concretamente vissuti dagli spettatori a rendere comunque problematico e spiazzante, quasi “osceno”, quel materiale visivo. Ma non c’era solo il cinema. Negli anni Cinquanta si era già consolidato2 il folgorante successo del fotoromanzo, l’originale formula nata in Italia nel 1946 per estorcere sospiri e lacrime copiose, in città come nelle campagne, e andavano forte anche i fumetti, che facevano trattenere il fiato agli adolescenti tra un’improbabile città popolata di topi (e cani, gatti, mucche, ecc.) e il west di carta del più famoso ranger giustiziere. Per il pubblico 1 Ancora furoreggia a Hollywood in quegli anni il famigerato codice Hays, redatto da un padre gesuita nel 1930 e gestito con pugno di ferro da un apposito ufficio governato dall’attivista cattolico Joseph Breen. 2 È del 1952 l’esperimento metanarrativo de Lo sceicco bianco in cui il quasi esordiente Fellini racconta le grottesche vicende scatenate dall’infatuazione di una giovane per uno dei nuovi “eroi di carta”.
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TEMPO
DI FICTION
più esigente c’erano anche, un po’ discosti dal mainstream ma non troppo, i radiodrammi e la letteratura, più o meno “grande”, che nel gennaio del 1949 cercava perfino di attingere un’inedita dimensione “di massa” grazie allo spirito d’iniziativa di un esperto di editoria libraria proveniente dalla Mondadori, Luigi Rusca, che propose a Rizzoli l’edizione economica di libri già noti al grande pubblico, sul modello dalla tedesca Reclam sulla piazza fin dal 1867, dando vita così alla mitica BUR: i piccoli volumi grigiastri con la copertina non rigida che uscivano a cadenza settimanale con un costo calcolato secondo il numero delle pagine, qualunque fosse il titolo dell’opera; e quale poteva essere il primo libro se non I Promessi Sposi? Per un paese in gran parte ancora fermo alla trasmissione orale di storie-archetipi, con un tasso di analfabetismo vicino al 13% e per il quale la lettura ancor oggi costituisce più un problema che una risorsa; per un paese cui era stata sequestrata per vent’anni la produzione culturale più aggiornata in cambio di un’imbottitura di storie ispirate all’eroismo e alla virilità, questo rigoglio dell’industria culturale – che appare modesto se misurato sulla scala astratta di una condizione ideale – assumeva l’entità di una vera e propria alluvione. Era tanta roba e, anche se il livello non era sempre eccezionale e straripavano gli ammiccamenti a un quietismo conformista e moraleggiante, la gran parte di ciò che usciva appariva comunque destinata a stimolare il profilo educativo della nazione, o quantomeno a non offenderlo troppo, ad accrescere la competenza alfabetica e la circolazione delle idee. Anche nel campo della scrittura e dell’illustrazione si conferma perciò l’assunto, tante volte riferito alla sola televisione, che in Italia quel barlume d’industria culturale che c’è riesce puntualmente a raggiungere le leve della riproduzione culturale prima che arrivino le solite istituzioni lente e farraginose. Più d’una volta questa semplice constatazione ha fornito lo spunto, previa un’indulgente celebrazione delle sue capacità suppletive, per conferire all’industria culturale un surplus di legittimità sociale a buon mercato; non altrettanto invece si è riflettuto sui potenziali guasti che uno sviluppo di tal genere virtualmente introduce nel sistema culturale, sia in termini di compressione della domanda in una fascia povera e sostanzialmente acritica, sia in termini di pesante ambiguità nella sagomatura dell’offerta e nell’impostazione delle politiche culturali. In questo contesto, alla metà degli anni Cinquanta, l’estesa affabulazione nazional-popolare del grande schermo si produceva nel suo canto del cigno, prima d’essere sopraffatta da circostanze avverse, e la seconda metà del decennio teneva a battesimo la televisione, il medium destinato ad egemonizzare gran parte dell’universo narrativo. Mentre il trend dei biglietti venduti nelle sale cinematografiche cominciava fatalmente a declinare, il
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QUANDO
LA FICTION SI CHIAMAVA SCENEGGIATO
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sisma infinito rappresentato dal lento avvicendamento mediatico provocava un conseguente riposizionamento del bagaglio narrativo. Il cinema, reso più combattivo dai venti di crisi, scopriva nuove vocazioni: al neorealismo “rosa” si sostituiva la commedia all’italiana, che proponeva una cronaca aggressiva, quasi giornalistica, della tragicomica epopea del boom e nel contempo si faceva largo quel pezzo di rivoluzione culturale che abbandonava i contenuti cari alle famiglie per addentrarsi, già a partire dagli anni Sessanta, in un mondo “adulto” che comprendeva la provocazione, l’exploitation, l’individualismo di massa, i comportamenti disinvolti e cinici della modernità. La televisione delle origini conquistava invece il suo spazio, sempre più largo, proponendosi come il tempio della cultura nazional-popolare, fagocitando con voracità gli stili degli altri media e ostentando una fortissima impronta cattolica e perbenista, sentendosi quasi obbligata ad affiancarsi alla scuola e ad implementarne alcuni tratti essenziali, soprattutto nell’opera di incivilimento delle masse, di addestramento alle convenzioni sociali, di strutturazione del comportamento morale che, per quanto attiene al nostro discorso, non potevano che tradursi nell’avvicinamento ai classici della letteratura3 entro una precoce e tenacissima vocazione tradizionalista e divulgativa. I primi due Amministratori Delegati della Rai (Filiberto Guala, dal 1954 al 1956, e Marcello Rodinò di Miglione, dal 1956 al 1965) erano infatti accomunati dall’idea che la funzione principale e la stessa ragion d’essere del mezzo televisivo fossero quelle di “educare il pubblico”; dal canto suo, Sergio Pugliese, il pioniere della tv italiana che guidò la fase sperimentale fino al 1954 per poi diventare Direttore centrale dei programmi, era un uomo di cultura, giornalista, critico teatrale e commediografo, che dalla televisione pretendeva con fermezza la stessa cosa: l’elevazione culturale del popolo italiano. È assolutamente normale che, in linea con il modo di pensare contegnoso proprio dell’epoca, il timbro di seriosità che connota l’intero percorso della televisione in Italia fino almeno alla riforma del 1975 si spanda fin dall’inizio sull’intera programmazione, sull’informazione e l’intrattenimento, ma anche sulla pubblicità (poca, per carità!) e sui telequiz, riverberandosi in modo massiccio sullo stile e sulle capacità espressive della televisione nascente. L’influenza dell’intento “formativo”, che suggellava con 3 Il connubio però può funzionare, e mai perfettamente, solo finché è forte la condivisione sociale delle mete culturali oppure il controllo dell’establishment politico sulle funzioni mediali. Quando questi equilibri si alterano, i difetti della mescolanza fra obiettivi pubblici e interessi privati, fra compiti istituzionali e target economici, fra interesse generale e progetti ideologici riemergono in forma ancor più grave, come ognuno può oggi constatare, anche semplicemente osservando le romantiche rovine dell’impero televisivo.
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DI FICTION
la sua impronta il primo patto comunicativo che il medium stabilì con gli italiani, non poteva certo “risparmiare” la fiction e anzi ne orientò sfrontatamente il cammino, sia nella sfera dei contenuti che in quella più propriamente “tecnica”. La canalizzazione nell’alveo della tradizione selezionava gli autori più prolifici, consolidava le professionalità specifiche e plasmava il manierismo tecnico solenne e ipnotico che strutturarono questa potente stagione narrativa. Tra i padri nobili del teleromanzo italiano il più rinomato è certamente Anton Giulio Majano, cui già dall’esordio con Piccole donne, nel 1955, arrise un successo tale da costringerlo a girare in fretta una quinta puntata fuori programma. Attivo anche nella prosa radiofonica, il quarantaseienne regista abruzzese, con alle spalle buone letture ed «esperienze cinematografiche non eccelse» si applicò subito nell’elaborazione di un adeguato linguaggio visuale, molto attingendo «dalle trascrizioni cinematografiche dei romanzi di vasto successo popolare realizzate soprattutto dal cinema hollywoodiano»4, adoperandosi a perfezionare per più di un trentennio una formula che produrrà le “grandi opere” che hanno fatto la storia della televisione italiana e lanciato nel firmamento delle star televisive attori come Alberto Lupo, Romolo Valli, Lea Massari, Giancarlo Giannini. Un altro nome significativo nella creazione di questa prestigiosa enciclopedia letteraria è quello di Sandro Bolchi, che nel 1956, con Frana allo scalo Nord di Ugo Betti, abbandonò un’avviata carriera teatrale per dedicarsi alla televisione. Non va infine dimenticato Daniele D’Anza, prematuramente scomparso nel 1984 a 62 anni, anch’egli proveniente dal teatro, con qualche spruzzata di cinema e radio, che risulta fra tutti l’autore più sensibile alle novità e alla sperimentazione di nuove strade. La vocazione dei registi più importanti, la loro impronta aziendalista, la loro formazione teatrale, il loro approccio alla cultura si applicavano perfettamente ai contenuti che la politica culturale dei massimi dirigenti aveva già preconfezionato. Ancor prima delle timide importazioni dal mercato statunitense5, e indipendentemente da esse, la produzione infatti si orientò subito decisamente verso lo “sceneggiato”, che assunse le due forme principali del «teleromanzo», cioè la riduzione televisiva di un’opera letteraria, e dell’«originale televisivo», cioè una storia appositamente pensata e confezionata per il piccolo schermo. La prima fiction italiana fu per l’appunto un teleromanzo, Il dottor 4
L. Castellani,La TV dall’anno zero, Roma, Edizioni Studium, 1995, p. 133. Il 5 aprile 1956 arrivano Le avventure di Rin Tin Tin e nel 1959 Alfred Hitchcock presenta e Perry Mason, uno dei più grandi successi televisivi di sempre. Nonostante la parsimonia con cui sono diffusi, questi prodotti lasciano il segno nell’immaginario collettivo italiano. 5
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LA FICTION SI CHIAMAVA SCENEGGIATO
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Antonio, tratto da un lavoro di ambientazione risorgimentale di Giovanni Ruffini, con la regia di Alberto Casella, un attempato commediografo morto soltanto tre anni dopo. Sgorgò così un profluvio di opere che illustrava la convinta associazione fra contenuti edificanti e patrimonio letterario classico, il quale intanto offriva forme di garanzia automatica sulla irreprensibilità di situazioni, temi ed espressioni e poi comunque costituiva, qualunque cosa fosse andata storta, una specie di assicurazione preventiva contro le critiche, in virtù della sua potente legittimazione culturale. Da questa sudditanza un po’ pigra nei confronti del testo letterario e dalla fiducia ferma e deferente nella sua autorevolezza traspare pienamente la convinzione che la tv fosse un mezzo “nuovo” per diffondere una cultura “antica”, niente più che un veicolo, una forma di diffusione più facile, ampia e “divertente” per il patrimonio artistico e letterario più tradizionale. Subito dopo le Piccole Donne andarono in scena le sorelle Brontë con Cime tempestose (Mario Landi, 1956) e Jane Eyre (ancora Majano, 1957), il sentimentalismo francese con Il romanzo di un giovane povero di Feuillet (Silverio Blasi, 1957), di nuovo i classici con Orgoglio e pregiudizio (Daniele D’Anza, 1957)e finalmente gli italiani Piccolo mondo antico (Silverio Blasi, 1957), Canne al vento (Gian Paolo Callegari, 1958) ecc. I titoli manifestano insomma le enormi difficoltà a staccarsi dalla grande letteratura del’Ottocento e perfino la timida apertura alle opere del Novecento ebbe in quel contesto un sapore di novità, così come il ricorso a sceneggiature originali – o le incursioni sempre più frequenti da un certo punto in poi nella letteratura poliziesca – apparvero di volta in volta come delle piccole“rivoluzioni”. Per quanto concerne infine le tecniche narrative, il riferimento degli sceneggiati non era affatto il cinema, come verrebbe facilmente da pensare, bensì il teatro, per ragioni economiche e produttive ma anche e soprattutto, ancora una volta, culturali. Sergio Pugliese considerava la tv come “teatro avvicinato all’occhio dello spettatore” e la sua cifra culturale più “alta” e prestigiosa appagava il palato poco sensibile della dirigenza. Così, la dizione degli attori era molto curata e le telecamere si muovevano appena, solo per evitare il rigor mortis, con passo felpato, saturate da un’orgia di primi piani. Inoltre gli sceneggiati erano all’inizio obbligatoriamente in presa diretta e anche le successive possibilità di registrazione videomagnetica furono usate dapprima solo per il differimento della messa in onda ma non ancora per la segmentazione delle riprese,tanto che occorrerà aspettare circa un decennio prima che si diffondano in ambito televisivo forme di montaggio di tipo cinematografico. Sfuggì perciò, o venne più o meno consapevolmente compressa o trascurata – e lo sarà a lungo – la consapevolezza del significato più autentico e aggiornato della dimensione “culturale” della tv, che stava
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TEMPO
DI FICTION
emergendo già allora nella cultura anglosassone: quella cioè che la definiva come un intermediario di simboli e miti, riti e pratiche, e nient’affatto il docile megafono per la diffusione della cultura “alta”. L’indirizzo pedagogico era quindi profondamente inscritto nello Zeitgeist della società italiana degli anni Cinquanta, contraddistinta sul piano politico da una forma tendenzialmente autoritaria e paternalistica di democrazia, rigidamente ostile a un interpretazione estensiva dei valori della libertà e del progresso; dominata sul piano morale dal magistero della Chiesa cattolica e comunque attaccata a un orientamento reazionario contrario alle novità; culturalmente legata alla contemplazione del passato, diffidente verso una modernità di cui amava vedere solo gli aspetti futili e, infine, assolutamente ignara dei travagli, già presenti altrove in Europa, che condurranno ben presto a una radicale rivalutazione, in senso anche antropologico, della collocazione e del valore da assegnare ai fenomeni culturali. Il legame simbiotico che il pedagogismo televisivo instaurò con il corredo sociale circostante rende comprensibili le ragioni della sua forza e del suo ostinato perdurare, oltre i limiti segnati dalle “rivoluzioni culturali” degli anni Sessanta, ma nello stesso tempo spiega i motivi della sua intima debolezza, che lo costrinse presto sulla difensiva, a barricarsi per sopravvivere nella fortezza Bastiani di un modello sociale antiquato non più in grado di dialogare con la parte più viva e interessante della società italiana. La televisione pedagogica ha avuto insomma la sfortuna d’incappare quasi subito nel boom economico che, all’affaccio sugli anni Sessanta, afferrava l’Italia rurale per scaraventarla in una dimensione industriale ansiosa di nuovi consumi e, pur tra mille squilibri e difficoltà, flagellarla con una ventata di ottimismo e di richieste di rinnovamento che non poteva risparmiare il territorio della cultura. È stato infatti proprio l’impressionante cambiamento della società italiana, a cavallo fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, a corrodere in un lampo le radici sociali di quella proposta televisiva e a minarne la credibilità, mentre le spinte allo scardinamento del fortilizio della narrazione convenzionale e delle espressioni castigate iniziavano a premere da tutte le parti. In primo luogo, giungevano dagli Stati Uniti serie di successo come Ai confini della realtà e Bonanza (1962), Dottor Kildare (1963) e La famiglia Addams (1966), per non dire del francese Belfagor – il fantasma del Louvre (1965), prodotti di buon livello che disegnavano il profilo di un’offerta dinamica e al passo con i tempi, sollecitando formati, argomenti e sensibilità anche molto distanti dal compassato scenario della nostra fiction teleromanzata. In secondo luogo, venne a modificarsi la domanda, con l’allontanamento (spirituale, prima che materiale, in un contesto di consumo indifferenziato, quasi “coatto” e senza
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Auditel) degli spettatori più vivaci ed evoluti. Da una parte i giovani, che si presentavano per la prima volta sulla scena delle identità sociali, promuovevano un forte rinnovamento delle abitudini, degli stili di vita e dei valori di riferimento che trovò nella televisione di allora più un tedioso ostacolo che un plausibile punto di riferimento; dall’altra, i lettori del Giorno, de l’Espresso e Panorama, gli appassionati della Nouvelle Vague, gli acquirenti dei primi Oscar (per non parlare di quelli di Urania, Segretissimo e Giallo Mondadori) e infine i patiti, peraltro sempre più numerosi, di Diabolik, Kriminal e Satanik, e per finire quelli di Isabella, duchessa dei diavoli, che nel 1966 apriva la strada alle procaci eroine del fumetto erotico, come potevano trovare un rifugio, se non distratto e annoiato, nella fiction televisiva del periodo? Bisogna dire che una congiuntura così complessa, stimolante sul piano commerciale per la crescita di una domanda sempre più estesa ancorché indisciplinata, risultava assai impari da gestire sul piano socioculturale per tutti i principali apparati dell’industria culturale italiana e proponeva riflessioni strutturali da cui ancora non sono state compiutamente tratte le conseguenze. Fatto sta che, a parte qualche settore elitario o di nicchia, l’impronta provinciale e antiquata della nostra cultura “di massa”, già esasperata dalla invalicabile diffidenza degli intellettuali e da una censura ristretta e occhiuta, la spinse a imboccare la corsia della modernizzazione con un attrezzatura misera, che veniva implementata solo esteriormente, copiando i modelli stranieri oppure “liberalizzando” i contenuti scurrili. Sul versante opposto, anche l’allargamento e la maturazione della domanda presentavano inevitabilmente caratteri ambigui e problematici. Divenne infatti subito prevalente nel pubblico italiano, che solo con difficoltà e dopo qualche decennio avrà accesso a consumi diversi e più sofisticati, un atteggiamento di apatica insofferenza, di puerile esterofilia e di frivolo entusiasmo per le cose “nuove” che cresceva in modo esponenzialmente più rapido dell’acquisizione delle competenze e dello sviluppo di una mentalità laica e razionale. Mentre alcuni settori, come la moda e la musica, riuscirono piuttosto facilmente a proporsi come vettori privilegiati dei nuovi consumi, assecondando gli orientamenti più à la page – e il cinema, nel pieno della sua più fortunata stagione espressiva, si calò addirittura nel doppio ruolo di narratore veloce e spigliato (a suon di forzutissimi semidei, diabolici pistoleri e avvenenti piratesse) e di critico tagliente, con la commedia all’italiana, di una modernità troppo epidermica e approssimativa – la televisione invece, pesantemente legata agli ancoraggi tradizionali, scontò enormi difficoltà nel fronteggiare l’emergere improvviso di un immaginario diversificato e più esigente e, come la radio, si ritrovò costretta a mediare fra spinte diverse. Da una parte cercava d’inseguire le tendenze giovanili, nei programmi musicali o nella pubblicità, ma dall’altra
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permaneva ben saldo lo stretto legame con l’establishment politico-culturale che, tanto per fare un esempio, costringeva l’informazione dentro un rigido controllo. I timori legati al primo scioccante contatto con la diffusione dei consumi e della cultura di massa indussero pertanto la produzione a virare su posizioni difensive, verso una miscela midcult che consentiva di mettere in salvo gran parte degli elementi tradizionali mediante più frequenti concessioni alla facilità, alla leggerezza e all’evasione. Alla luce di queste trasformazioni, si capisce meglio come il progetto pedagogico, inizialmente solido e coerente, sia invecchiato tutt’a un tratto allorché ha dovuto scontrarsi con un pubblico diventato in un amen diffidente e schizzinoso, che iniziava a trovarne indigesto il programma e imparava presto a contestarne le rigidità, interpretandone gli scrupoli morali come libidine censoria, la meticolosità come pedanteria, l’intento formativo come fastidiosa ortopedia sociale. E si capisce anche il carattere evasivo e contorto dell’interpretazione della modernità offerta dalla televisione, consapevole dell’improvviso gap con una parte importante della nuova società ma insensibile alle ragioni profonde della domanda di rinnovamento, timorosa di intervenire su meccanismi già collaudati per cedere a mode passeggere e ottimista sulla possibilità di assecondare i tempi con qualche superficiale aggiustamento. E così il teleromanzo di tipo “tradizionale” continuò a imperversare senza pietà, col conforto dei grandi numeri dell’ascolto e del gradimento che solo un’offerta esclusiva e bloccata riusciva a garantire. Le “grandi opere” continuarono a riempire gli anni Sessanta di letteratura audiovisiva. Dopo i libri per ragazzi (Capitan Fracassa, 1958, e L’isola del tesoro, 1959) e il risorgimento alla Salvator Gotta6, Majano approdò nel 1964, con La cittadella, alla formula vincente: un’orgia di buoni sentimenti costruita sulla scorta di un mediocre romanzo di Cronin che impose Alberto Lupo come il primo vero divo della tv e sarà riproposta con grande successo nel 1971 con E le stelle stanno a guardare…, un drammone strappalacrime sulla vita dei minatori ancora una volta girato prevalentemente in interni7. Bolchi si specializzò invece nella letteratura russa (Dostoevskij e Tolstoj)8 ma senza staccarsi dalla tradizione italiana9, di cui anzi diventò il massimo epigono nel 1967 con uno 6
Ottocento (1959), ma non mancano neppure il romanzo moderno (Il caso Maurizius, 1961 e Una tragedia americana, 1962) e l’immancabile Dostoevskij (Delitto e castigo, 1963). 7 Per avere qualche scena girata in “esterni” bisogna aspettare Il mulino del Po di Bolchi, nel 1963. 8 Sono suoi I fratelli Karamàzov (1969), I Demoni (1970) e Anna Karenina (1974). 9 Le mie prigioni di Silvio Pellico, La coscienza di Zeno di Svevo e Assunta Spina di Salvatore di Giacomo e Il mulino del Po (1963) di Riccardo Bacchelli, che partecipò anche alla riduzione televisiva.
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dei teleromanzi più celebri: I promessi sposi, che furono un evento culturale straordinario e un kolossal produttivo, la cui lavorazione venne costantemente seguita dai media. Ma con lo zenit del pedagogismo televisivo, sottolinea Aldo Grasso, si raggiunse anche il vertice assoluto della parabola dello sceneggiato, destinata da quel punto a scendere inesorabilmente, ormai orfana del modello compositivo teatrale e destinata a trasformarsi in qualcos’altro che già somigliava all’odierna fiction: l’impresa segnò anche il culmine della fase “politica” dell’Ente identificata con la gestione di Sergio Pugliese, in una concezione del mezzo televisivo come insostituibile strumento capace di interpretare, utilizzare e valorizzare in un progetto di cultura e spettacolo tutte le risorse che la società può offrire10. Toccherà ironicamente ancora a Bolchi l’ingrato compito di chiudere, con Anna Karenina nel 1974, la stagione dei grandi sceneggiati. L’attenzione produttiva ancora alta, la lavorazione lunga e laboriosa con complicate scene corali, la solida mano del regista testimoniano lo sforzo di appagare il pubblico degli aficionados ma anche l’evidente stanchezza di un genere in cui la Rai non credeva più11. Proprio l’immensa popolarità e i successi a ripetizione di questo tipo di fiction12 l’hanno condannata a una compiaciuta meccanicità di stili e di contenuti che ha scavato un solco sempre più profondo con i gusti di una gran parte del pubblico.
1.2. Festina lente Ma non sarebbe giusto rinchiudere la risposta televisiva all’insorgere della modernità negli stretti limiti di un ottuso prolungamento del romanzo sceneggiato poiché la programmazione Rai, mentre gli anni Sessanta travasavano disordinatamente nel decennio successivo, rifletteva anche, come già detto, esigenze di rinnovamento che, per quanto caute, riuscirono a scompigliare, forse in parte anche aggiornandolo, il pedagogismo libresco e a proporre, come vedremo, esempi di grandissima narrazione televisiva; tuttavia l’ossessione di evitare ogni tentazione rivoluzionaria non consentì mai (probabilmente anche per l’avvicendamento della vecchia dirigenza cattolica che portava idee nuove e confuse) di tradurle in un progetto complessivo preciso. Le istanze di cambiamento subirono così un processo di “colatura” che le condusse a incidere sulla fiction lungo almeno quattro percorsi principali. 10 11
Cfr. A. Grasso (a cura di), Storia della televisione italiana, Milano,Garzanti, 2004.
Cfr. A. Grasso (a cura di), Enciclopedia della televisione, Milano, Garzanti, 1996, p. 31. 12 Per ragioni di completezza, vanno menzionati almeno I miserabili (1964) di Bolchi, il David Copperfield (1965) di Majano, che consacrò Giancarlo Giannini, e infine Il conte di Montecristo, diretto da Edmo Fenoglio nel 1966.
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Il primo è un solido lavoro di make-up sullo sceneggiato tradizionale per consentirgli una vecchiaia attraente e senza catetere. Ma in questo campo la maturazione degli elementi innovativi, introdotti peraltro con poca voglia e molta lentezza, si rivelò estremamente farraginosa e dissonante rispetto all’evoluzione della mentalità degli spettatori, a partire dall’ambiguo tentativo, compiuto da Majano nel 1959 con I figli di Medea, di replicare la provocazione della Guerra dei mondi di Orson Welles, che restò sospeso nel vuoto e provocò più dubbi che entusiasmo. Senza seguito rimase anche la pista promettente che sembrò aprirsi nel 1964 con il capolavoro postumo del giovane regista Giacomo Vaccari, morto l’anno prima in un incidente d’auto: il Mastro don Gesualdo, girato su pellicola, che scardinava «le regole linguistiche che fino ad allora avevano informato i teleromanzi, consuetudini ereditate dalla tradizione teatrale e tradotte in norme televisive tese a facilitare la sicura comprensione da parte del pubblico della vicenda raccontata»13. Per il resto si scandagliarono le più diverse direzioni, cercando anche di “pescare” nuovi protagonisti nell’immaginario più giovanile ed è così che Rita Pavone, l’idolo delle ragazzine, finì per essere la protagonista de Il giornalino di Gian Burrasca, una specie di commedia musicale per ragazzi, diretta da Lina Wertmüller nel 1964, in cui naturalmente la vivacità della protagonista venne funzionalmente annullata in un paradigma di stampo assai convenzionale. Il secondo percorso consiste in una progressiva e vistosa intensificazione del genere poliziesco che rivela un’attenzione forse malmostosa ma sicuramente più intensa per il gusto popolare. Nel 1964 iniziarono le Inchieste del Commissario Maigret (concluse nel 1972 con un patrimonio di diciotto milioni e mezzo di telespettatori), che decretavano, insieme col Tenente Sheridan14, la supremazia della detective story nelle preferenze del pubblico italiano, sebbene la suspense e la violenza fossero molto “telefonate”, rese assolutamente sterili da un impianto narrativo fra i più consueti che si ricordino. Gran parte delle scene venivano ancora girate nei teatri di posa e negli studi televisivi, tranne poche sequenze, fra cui le sigle iniziali, filmate a Parigi in esterno,
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A. Grasso (a cura di), Enciclopedia della televisione, cit., p. 441. È palpabile nell’opera il drastico e improvviso ridimensionamento del “primato dell’attore” che, abituato a campeggiare in primo piano, appare ora ingoiato dalla profondità di campo, quasi dissolto nella vicenda, fino a diventare la semplice “comparsa” di una narrazione destinata a scolpire la solitudine del titano abbattuto. 14 A partire dal 1965, con La donna di fiori (di Alberto Ciambricco e Mario Casacci, per la regia di Anton Giulio Majano), le imprese del Tenente Sheridan assumono la forma di quattro miniserie in forma di sceneggiato, articolate in cinque/sei puntate, il cui titolo richiama le figure femminili di un mazzo di carte da gioco. Seguono nel 1968 La donna di quadri e l’anno successivo La donna di cuori, per chiudere nel 1972 con La donna di picche.
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con Maigret che guarda lontano appoggiato al Lungosenna oppure si siede in un bistrot, solo per dare un tocco di autenticità all’ambientazione; e altrettanto artificiale risultava la San Francisco di Ezechiele Sheridan, sebbene nel corso degli anni in entrambe le serie aumentassero timidamente le sequenze d’azione e le location all’aperto. Anche il celebre Nero Wolfe di Tino Buazzelli, trasmesso fra il 1969 e il 1971 (dieci telefilm di circa due ore) per la regia televisiva di Giuliana Berlinguer era girato quasi interamente in studio. Un terzo elemento di schiva modernità s’innestava sulla produzione di miniserie originali che proponevano un tipo di fiction più agile nel formato e più “leggera” nei contenuti, come Le avventure di Laura Storm15, del 1965, o I racconti di padre Tobia, una serie del 1968 caratterizzata da una figura di sacerdote “moderno” che, investigando alla buona, si proponeva come un solido punto di riferimento per i suoi ragazzi, o infine La famiglia Benvenuti, che si calava con brillantezza nel presente attraverso le vicende quotidiane della più amata tra le famiglie televisive. Il quarto percorso, infine, riassume le velleità di assecondare la sperimentazione nei territori a metà strada tra televisione e cinema, che trovò un folgorante esordio con l’approdo in tv di Roberto Rossellini: La Presa del potere da parte di Luigi XIV (1967) fu la prima di una serie di biografie che univano al progetto consapevolmente pedagogico del regista un impegno della Rai che avrebbe preso corpo in maniera più decisa negli ultimi anni del monopolio (forse giovandosi dei varchi aperti nell’imperante passatismo dalla fase di incertezza politica) con gli Atti degli Apostoli (1969), uno dei punti più alti della fiction sperimentale, e il magistrale Socrate (1971), gratificato da un buon successo di pubblico nonostante la programmazione penalizzante. Un punto di svolta per misurare il valore e i limiti degli esperimenti innovativi è proprio il 1967, allorché I promessi sposi stabilirono l’apice della fiction tradizionale e l’opera di Rossellini sul Re Sole prefigurava uno dei possibili futuri. Ma immediatamente irruppe la tempesta del ’68 che venne a incidere su tutti i percorsi di rinnovamento, ora enfatizzando vezzi passeggeri ora bloccando passaggi di lungo periodo, mentre il timone continuava a girare senza guida. La televisione sembrava finalmente consapevole di dover ridefinire dalle fondamenta la tipologia e la qualità delle storie narrate, così come la propria percezione della società italiana, ma l’istinto portava immediatamente il piede sul freno, poiché la realtà sapeva ora di rivolta (ben che vada, di cambiamento sociale) e faceva un po’ paura, mentre sulla satrapia democristiana si allunga15
Serie giallo-rosa diretto da Camillo Mastrocinque e interpretata da un cast di notevole livello che affianca alla protagonista Lauretta Masiero interpreti come Aldo Giuffré, Oreste Lionello, Ugo Pagliai e Vittorio Mezzogiorno.
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vano le ombre dello statuto dei lavoratori, della riforma del diritto di famiglia e dell’introduzione del divorzio. Sul piano contenutistico, perciò, ci si continuava ad aggrappare alla storia, alla letteratura e addirittura alla mitologia, per il riparo confortevole che offrivano. Non riuscendo a cambiare più di tanto lo spartito, si provava così ad agire sull’arrangiamento, sulla strumentazione e sul ritmo, abbandonando il modello teatrale ormai decomposto per abbracciare quello cinematografico, presentito come una forma espressiva più sciolta e dinamica, più adeguata ai tempi nuovi, proprio mentre il grande schermo si stava trasformando da mentore delle famiglie a imbonitore dei giovani e proprio sulla soglia della spaventosa crisi che negli anni Settanta avrebbe decretato per il cinema italiano qualcosa di molto simile alla morte civile. La fiction televisiva iniziava così a uscire all’aria aperta: calandosi nella quotidianità, aggirandosi nel medioevo boschivo della Freccia nera all’inseguimento delle avventure di una giovanissima Loretta Goggi, assecondando la “svolta” di Rossellini e soprattutto pigiando l’acceleratore sul genere poliziesco. Al plot “giallo” venne associato lo sceneggiato classico di taglio umoristico16, il thriller fu ibridato con l’horror gotico, come nel mitico Il segno del comando di Daniele D’Anza, si sconfinò nel giallo-rosa o nella fiction “minimalista”17, ma sopratutto si puntò con decisione su intrecci complessi e ambientazioni internazionali. Sulla scia del precursore Melissa vennero Coralba e Giocando a golf una mattina, Un certo Harry Brent con il consueto Alberto Lupo, il film-tv L’inchiesta (1971), in cui Gianni Amico proponeva un giallo con diversi piani di lettura, e perfino romanzi di Dürrenmatt come Il giudice e il suo boia e Il sospetto. Al medesimo obiettivo di raggiungere un’aura di glamour cosmopolita obbedivano il Jekyll di Albertazzi – che nel 1969 riscrisse, diresse e interpretò il celebre romanzo di Stevenson, destando scalpore per l’ambientazione contemporanea (e per il trucco impressionante), sebbene tutti i passaggi fondamentali dell’originale siano in fondo rispettati18 – la versione italiana de I Buddenbrook (sulla base di una sceneggiatura di Jack Pullman per la BBC) e un inconsueto sceneggiato di fantascienza diretto da Vittorio Cottafavi: A come Andromeda, di ambientazione britannica e direttamente ispirato a un’analoga storia prodotta qualche anno prima sempre dalla BBC. Il perseguimento di una migliore qualità televisiva stando sempre attenti a rimanere nel solco della tradizione e il confezionamento di surrogati di
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I racconti di padre Brown di Vittorio Cottafavi hanno per protagonista Renato Rascel. I giovedì della signora Giulia, scritto da Piero Chiara, e FBI, Francesco Bertolazzi Investigatore, interpretato da Ugo Tognazzi. 18 La sua versione vuol essere moderna ma risulta ostica e cerebrale quando subordina l’economia del racconto a un continuo filosofeggiare sulle implicazioni etiche della scienza. 17
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attualità a rimorchio della produzione straniera impallidiscono però di fronte a due opere che meritano più attenzione delle altre. La prima è l’Odissea, il kolossal diretto da Franco Rossi 1968, la cui mission pedagogica, disciolta nella concezione stessa dell’opera, veniva rivelata esplicitamente solo nelle epiche performances di Giuseppe Ungaretti, che recitava con passione i versi di Omero prima di ogni puntata. Questa coproduzione italo-franco-tedesca diede luogo a una fiction di grande spettacolarità che per filmare il celebre episodio della spelonca di Polifemo arruolò perfino Mario Bava. La seconda è il Pinocchio di Luigi Comencini, che resta, a quarant’anni dall’uscita (1972), un valore assoluto nella storia televisiva italiana, per il livello del cast, in cui compaiono Nino Manfredi, Gina Lollobrigida e Vittorio De Sica, e delle maestranze tecniche nonché per gli aspetti tecnici ed espressivi e per la particolare poesia che il regista riuscì a conferire alla storia. I due capolavori rappresentano il segnale di una svolta profonda che avvenne in quegli anni. La fiction televisiva rinnegava completamente il modello teatrale e abbracciava, con un entusiasmo che oggi appare patetico, quello cinematografico. Per oltre un decennio la fiction televisiva sarebbe stata caratterizzata dalla produzione di mini-serie sempre più ambiziose, assai poco fantasiose nei soggetti, ispirati di volta in volta alla letteratura per giovani (Sandokan, 1976), alla religione (Mosè, 1974, Gesù di Nazareth, 1977) o ai grandi personaggi storici (Marco Polo, 1982, Cristoforo Colombo, 1985) ma platealmente cinematografiche nei nomi che si alternarono alla regia: Sergio Sollima, Franco Zeffirelli, Giuliano Montaldo, Alberto Lattuada. La paleo-televisione e il paleo-cinema finirono così per incontrarsi in articulo mortis, dopo aver dissipato le loro energie giovanili in una contesa dispettosa che ha ciecamente esasperato le rigidità e le differenze. Una funzionale suddivisione dei compiti sarebbe potuta essere interessante al tempo giusto per stimolare una crescita omogenea del pubblico e allo stesso modo l’attivazione tempestiva delle opportune sinergie avrebbe consentito una sorveglianza più equilibrata dell’ambiente culturale, sfiancata invece in una squallida altalena fra terrorizzato tradizionalismo e becera permissività. La collaborazione tardiva e interessata fra una tv in cerca di verginità illusorie e idee nuove e un cinema ormai a corto di ossigeno è stata invece nervosa, venale e precaria e se ha permesso un supplemento di sopravvivenza per la fiction di ascendenza cinematografica e di grande impatto spettacolare, ha anche traghettato un bouquet narrativo enfatico e poco originale, pensato per un target che più generalista non si può, perfino troppo impegnativo e costoso per un pubblico sempre più distratto e stratificato, immerso in un mood che non ambisce a molto più che sbirciare nei décolletés o contare i fagioli nel barattolo.
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1.3. La fine delle storie In questo passaggio d’epoca, nell’autunno del 1981, va in onda su Canale 5 la prima serie di Dallas, il telefilm americano che diventa il fenomeno della stagione televisiva, e da quel momento in poi sarà tutta un’altra fiction. I format peculiari della tv commerciale, più brevi, più indifferenti e veloci, schiavi della pubblicità e privi di ogni sudditanza psicologica si spargono dappertutto con danarosa arroganza, soffocando ogni possibile alternativa e destrutturando col tempo la forma stessa del racconto, la struttura eroica del “romanzo”, invitando a seppellire la chiave pedagogica e riducendo ogni storia a un repertorio semplicistico, accomodante, frammentato e molteplice, complementare all’auditel e alla ripetitività seriale. L’universo intrinsecamente pedagogico della Rai, già da tempo in crisi, si sgretola nell’urto con l’iceberg dell’oligopolio privato e rivela tutta la sua senescente fragilità, incapace di aggiornare ai tempi l’apprezzabile attitudine educativa e perfino impotente a riconvertirla in un coerente progetto di servizio pubblico, preferendo affondare in un incomprensibile rincorsa all’ideologia dell’intrattenimento, mentre l’orchestra di bordo continuava a suonare brani di musica sinfonica. Molti osservatori salutarono allora quest’evento come il conseguimento di uno status migliore e più avanzato per l’industria culturale italiana, come una salutare sferzata di modernità, come l’auspicabile affermazione del benefico dinamismo privato sull’immobilismo dello scassato e corrotto carrozzone pubblico, come un forte incentivo, quasi un obbligo, a rinnovarsi. E bisogna dire, a onor del vero, che la sfortunata televisione pubblica ci ha anche provato, producendo nei primi anni Ottanta uno dei più stimolanti panorami sperimentali della cultura dell’intrattenimento in Italia, ma a distanza di trent’anni di tutti i miracoli “civici” avventatamente accreditati alla sopraggiunta vitalità della televisione commerciale (“quella” televisione commerciale) - spiace doverlo ammettere – non s’è vista traccia: forse sono stati inghiottiti da un’ondata anomala di tette o da un rigurgito di trivialità o dallo smottamento degli interessi di bottega, privati e per l’appunto molto “commerciali”. L’osservazione del panorama odierno, in conclusione, invita a rivedere l’atteggiamento di cinica sufficienza nei confronti di quella fiction conformista e retriva che usciva dagli sceneggiati; un atteggiamento che ci ha accompagnato a lungo finché è stata sorretta dall’illusione di poter realizzare una modernizzazione più decente ma che ha perso molta della sua plausibilità di fronte al disastroso presente, frutto di una strage di innocenti e di un’impudica alluvione di acqua sporca, di una visione completamente stravolta del ruolo sociale della narrazione televisione, accreditata spesso superficialmente
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di un’importanza straordinaria, fatta anche di meriti immaginari e di colpe solo sospettate. Soprattutto non può essere quell’acrimonioso rifiuto la guida per un giudizio in sede di sistemazione storica e critica; sarà semmai una rivisitazione sine ira ac studio ad offrire la migliore occasione per ridefinire il valore di quella stagione pedagogica che, fra alti e bassi, finì per lasciare in eredità al paese un immaginario ingenuo ma dignitoso, nel quale un posto d’onore spetta sicuramente alla fiction (anche se allora neppure si chiamava così) che è riuscita a formare un sistema coerente, chiaro nello stile e negli obiettivi; i suoi limiti strutturali, anche gravi, erano onorevolmente dichiarati e praticati e definivano perciò lo spazio di rappresentazione per un prodotto onestamente paternalistico e condiscendente, ma che anche a distanza di tempo rivela continuamente pregi e qualità notevoli. Né sarebbe giusto infine imputare il tracollo della fiction televisiva classica esclusivamente all’avvento delle tv commerciali. Le secchiate di telenovelas o di serial altrettanto assurdi e inutilmente lunghi non sarebbero bastate a distruggere una tradizione narrativa di qualità, consolidata e seguita dal pubblico, se la sua salute non fosse stata già gravemente minata da una serie convergente di debolezze strutturali, che ancor oggi contribuiscono a spiegare gran parte delle insufficienze “di sistema”. Quell’augusta tradizione infatti non poggiava sull’elaborazione di una matrice espressiva autonoma e, non riuscendo a immaginarne una, si è schiantata due volte nel tentativo d’imporsi un modello eteronomo, prima con il teatro e poi con il cinema; la sua macchina produttiva non è mai riuscita a stabilizzare una continuità che andasse al di là dello sfogliare con sussiego le pagine dei classici né un’intenzione progettuale massiva, stabile e in grado di rinnovarsi velocemente; l’impostazione di fondo è sempre rimasta troppo controllata, ostinatamente moralista e nazionalpopolare, mai abbastanza duttile sul piano culturale per affrontare i tempi nuovi con qualche speranza e, infine, così irrimediabilmente e insopportabilmente aulica da non avere, di fronte all’avanzare dell’egemonia sottoculturale, altra scelta che la collisione frontale. Una scelta “eroica” e autolesionista che ha lasciato poche speranze, tante memorie e qualche persistente sommesso rimpianto. Amen.
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2 Alle origini della “cult fiction” italiana di Giovanni Prattichizzo
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2.1. Fiction e culto «Come si può definire il cult televisivo?»; «Come si generano e si producono, in particolare, i culti seriali?» e ancora: «È possibile definire criticamente le caratteristiche salienti del culto e dimostrare che queste erano già presenti, ad esempio, in alcune fiction della televisione italiana negli anni ’80?». In primo luogo, è opportuno non tanto definire confini semantici più pertinenti del culto, quanto giungere ad una maggiore precisazione di quegli elementi che fanno parte del processo di costruzione del culto finzionale. In secondo luogo, si intende dimostrare che il cult seriale non è solo una caratteristica trans-mediale, una prerogativa dell’età della convergenza, ma riguarda egualmente prodotti televisivi del passato, italiani e stranieri, in grado di coinvolgere un pubblico “appassionato” in un universo immaginario. Nella società postmoderna viviamo una profanizzazione del sacro e una sacralizzazione del profano; dalla cultualità tradizionale, di natura essenzialmente religiosa, si è passati alla cultualità post-moderna, che eleva a culto oggetti propri della cultura profana, immateriale, come merci o prodotti mediali1, producendo quella che Marx ed altri (Benjamin, Adorno, Baudrillard) hanno definito “feticizzazione della merce”2, che sconfigge definitivamente l’utopia marxiana di un mondo liberato dai feticci3. L’attribuire il termine “culto” ad oggetti materiali diventa quindi pratica diffusa nel mondo del consumo produttivo4 anche se va sottolineato che non tutto il consumo assurge al culto, ma solo quello più marcato ed intenso. 1
U. Volli, Fascino. Feticismo e altre idolatrie, Milano, Feltrinelli, 1997. J. Baudrillard, Pour une critique de l’économie politique due signe, 1972, tr. it., Per una critica dell’economia politica del segno, Milano, Mazzotta, 1974. 3 K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1964, pp. 112-113. 4 M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2001. 2
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La prima riflessione sul fenomeno della testualità mediale di culto la si deve ad Umberto Eco che prende in esame, nel 1975, la “cultualità” del film Casablanca (variamente ripresa nella letteratura internazionale)5. La strada intrapresa da Eco viene definita testualista: in tal senso, è il pubblico, la collettività che, fruendo di un oggetto in modi particolari e con pratiche specifiche, genera il culto6. Secondo Hills, poi, il culto dipende da particolari strutture testuali, da forme paratestuali e da pratiche di fruizione dei devoti7. Se tale approccio rappresenta il punto di partenza per qualsiasi discorso sul culto mediale, nel corso del tempo si è affermata una prospettiva di tipo opposto: quella costruttivista. Punto di partenza è la definizione di Bourdieu sulle realtà sociali: queste sono contemporaneamente finzioni sociali, senza altra base che non sia una costruzione della società, ma, al tempo stesso, reali perché collettivamente riconosciute8. Pertanto, è di culto quello che determinati discorsi decretano come tale, e questi si legano a particolari strutturazioni del sistema sociale, culturale e del gusto9. Tale approccio, poi ripreso da Le Guern10, Jancovich e Hunt11, evidenzia la profonda variabilità semantica del termine e mette in primo piano il lavoro culturale delle istituzioni mediali e del pubblico, in particolare i fans. In effetti, il trovarsi di fronte ad una profonda eterogeneità ed ambiguità del termine non chiama in causa una metodologia inadeguata a proporre una definizione valida una volta per tutte del “culto”; è piuttosto un segnale della mutabilità del concetto che cambia a seconda della natura dei testi, dei contesti, dei discorsi esistenti e dei pubblici coinvolti12. Secondo quanto scrive Fausto Colombo, «è possibile stabilire l’appartenenza di un oggetto, testo o agente mediale all’universo del cult qualora il suo apprezzamento, gradimento, o affezione, da parte del pubblico, non sia una diretta funzione del suo livello qualitativo»13. 5 Umberto Eco nei saggi Casablanca: cult movie and intertextual collage e Casablanca, o la rinascita degli dei, contenuti nelle raccolte Faith in fakes. Travels in Hyper-reality, London, Secker & Warbug Ltd, 1986; e Dalla periferia dell’impero. Cronache da un nuovo medioevo, Milano, Bompiani, 1976. 6 U. Eco, Casablanca, o la rinascita degli dei, in Id., Dalla periferia dell’impero, Milano, Bompiani, 1977, p. 138. 7 M. Hills, Defining Cult Tv. Texts, Intertexts and Fan Audiences, in R. C Allen – A Hills (eds), The Television Studies Reader, London, Routledge, 2004. 8 P. Bordieu, Raisons pratiques. Sur la théorie de l’action, Paris, Seuil, 1994. 9 P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 1983. 10 P. Le Guern, Towards A Constructivist Approach to Media Cults, in S. G. Jones – J. Pearson, Cult Television, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2004. 11 M. Jancovich, N. Hunt, The Mainstream, Distinction, and Cult tv, in S. G. Jones – J. Pearson, Cult Television, cit. 12 P. Le Guern, Towards A Constructivist Approach to Media Cults, cit. 13 Ivi, p. 63.
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Al tempo stesso, oggi si segnala una certa invasività del concetto, che viene applicato a fenomeni disparati o utilizzato dall’industria culturale come strategia di promozione di alcuni prodotti o certe pratiche fruitive. Si tende a definire Cult qualsiasi programma televisivo, considerato anticonvenzionale o tagliente, che si rivolge ad un audience di nicchia, che ha un fascino nostalgico, emblematico di una peculiare subcultura, o qualsiasi serie televisiva all’ultima moda. Ad esempio, basta digitare le parole serie tv di culto nella stringa di un motore di ricerca per generare una infinità di risultati nei quali, il più delle volte, il concetto è dato per ovvio, senza bisogno di ulteriori precisazioni, oppure allude genericamente alla seduzione di un prodotto nei confronti di un pubblico particolare. L’uso indiscriminato del termine finisce inevitabilmente per banalizzarlo. Negli anni più recenti, tra l’altro, si è passati da forme spontanee e originali di generazione del culto ad una pianificazione a monte di prodotti a cui l’etichetta di culto viene applicata ancor prima che il pubblico vi abbia accesso, con evidente perdita di autenticità del fenomeno14. Eppure esiste un elemento imprescindibile e centrale nel processo di generazione del culto mediale: il forte e attivo coinvolgimento del pubblico. Ancora una volta, non si tratta di un fenomeno inedito, frutto della convergenza o della digitalizzazione. Ne ritroviamo infatti ampie tracce nel passaggio d’epoca della televisione italiana, che dalla fine degli anni Settanta vive la rapida transizione da una fase di scarsità a una fase di crescita15, dovuta all’avvento delle televisioni commerciali. Un’offerta estesa e variegata di programmi e canali si rende disponibile alla scelta degli spettatori e si accende la competizione per la conquista delle audience, che si ridistribuiscono in modo nuovo entro la più vasta articolazione del sistema distributivo16. Al tempo stesso, gli anni Ottanta mettono in atto una riorganizzazione del tempo quotidiano televisivo e introducono in misura massiva le formule e i generi della narrativa seriale. Per la prima volta, il pubblico italiano può immergersi in un grande flusso narrativo ed entrare in contatto con una pluralità di generi e formule che si riversa dagli schermi televisivi, producendo inedite competenze testual-televisive e nuovi desideri di fruizione e «offrendo per la prima volta i piaceri della serialità forte»17.
14
P. Le Guern, Towards A Constructivist Approach to Media Cults, cit., p. 15. J. Ellis, Seeing Things. Television in the Age of Uncertainty, London, Tauris, 2000. 16 Cfr: M. Buonanno, L’età della televisione, Roma-Bari, Laterza, 2006; C. Sartori, La grande sorella 2. La vendetta (della tv), Milano, Mondadori, 2009. 17 M. Buonanno, La fiction italiana. Narrazioni televisive e identità nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 40 (e-book). 15
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2.2. Erano cult e non lo sapevano! 10 settembre 1981: su Canale 5 va in onda la prima puntata del serial Dallas, già dal 1978 sulla CBS. Importato dalla Rai, Dallas mette in scena un mondo familiare e imprenditoriale fortemente conflittuale, nel quale domina la figura di un “cattivo”. Anche per questo, forse, la Rai si limita a trasmettere solo tredici puntate del serial, senza aver cura di promuoverlo adeguatamente e, a volte, stravolgendo la cronologia delle puntate e censurandone alcune. L’inevitabile risultato è che Dallas non decolla nel gradimento degli spettatori, facendo sì che i funzionari Rai abbandonino l’opzione sul prodotto. E così, nello stesso anno, il serial passa alla televisione commerciale18 che ne fa l’evento della stagione, costruendolo in appuntamento settimanale forte del prime time di Canale 5 e valorizzandolo con una campagna promozionale senza precedenti19. Secondo Carlo Freccero, allora direttore di Canale 5, «con Dallas la televisione italiana subisce la sua completa americanizzazione: a partire da questo appuntamento fisso viene costruito il palinsesto ed è un palinsesto all’americana»20. La messa in onda di Dallas da parte di Canale 5 introduce elementi di assoluta novità. Il serial funge da strumento di guerra televisiva21 e rafforza l’immagine e l’identità della rete grazie a strategie di marketing commerciale e liberista che la televisione pubblica non aveva mai adottato prima. Dallas scompiglia inoltre l’ordine dei valori, innalzando per la prima volta a protagonisti non i ristabilitori dell’ordine, ma i “cattivi ragazzi”, i mostri umani22. E il pubblico, sedotto e affascinato, fa del serial un prodotto di culto popolare. Dallas può rappresentare l’emblema del telefilm cult: un testo aperto, rispetto a cui gli spettatori, uomini e donne, possono attuare «meccanismi di proiezione e di riconoscimento riuscendo a soddisfare, contemporaneamente, sia i propri sogni di evasione che quelli di attraversamento ed esplorazione del mondo possibile ed immaginario»23. Un testo di culto perché smontabile 18 Nel 1978 nasce Telemilano, tv via cavo trasformata l’anno successivo in network. Il primo programma di successo è I sogni nel cassetto presentato da Mike Bongiorno. Nel 1980 Telemilano diventa Canale5 e assume il logo del “biscione” rimodellando il simbolo araldico dei Visconti di Milano. 19 M. Buonanno, La fiction italiana, cit., p. 43. 20 C. Freccero, Il palinsesto della televisione commerciale, in Barlozzatti G., (a cura di), Il palinsesto, Milano, Franco Angeli, 1986, pp. 136-145. 21 E. Menduni, Televisione e società italiana. 1975-2000, Milano, Bompiani, 2002. 22 C. Sartori, La fabbrica delle stelle- Divismo, mercato, mass media negli anni Ottanta, Milano, Mondadori, 1983. 23 G. Ciofalo, Infiniti anni Ottanta. Tv, cultura e società alle origini del nostro presente, Milano, Mondadori Università, 2012, p. 157.
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dal pubblico, vivo e coinvolgente. Si veda in proposito un articolo a firma di Beniamino Placido24, nel quale il critico televisivo sostiene che non ci si debba vergognare di aver ammirato, come pubblico, il cattivo gusto delle ville texane, senza alcun obbligo ma solo con la voglia e il desiderio di attraversare i mondi “congiuntivizzati” della finzione25. Senza dubbio, la diffusione delle televisioni commerciali in Italia stravolge i vecchi equilibri dell’offerta e del consumo, inondando l’etere con una quantità impressionante di storie appartenenti ai generi più diversi. Gli spettatori possono muoversi verso la nuova costellazione delle tv series, delle soap operas e delle telenovelas26. E così il pubblico italiano si appassiona alle vicende della famiglia Bauer di Sentieri27, agli artisti di ogni estrazione sociale ed etnia di Saranno Famosi28, alle sofferenze, agli affanni e agli intrighi di Mariana Villareal, protagonista di Anche i ricchi piangono29, e cosi via. La possibilità di vivere un rapporto assiduo con la serialità, attraverso le differenti ma funzionalmente reciproche dimensioni narrative della serie e del serial, si attua nel contesto di una trasformazione complessiva della cultura dei consumi televisivi. Gli anni Ottanta sono il periodo in cui la fiction è fruita in Italia essenzialmente sulla scorta delle politiche di importazione, che limitano gli spazi di sviluppo per la produzione nazionale, ma al tempo stesso rendono possibile un rimaneggiamento dei formati e un riallineamento tra culture locali e dinamiche globali della comunicazione30. Alcuni prodotti narrativi hanno, tra l’altro, esercitato una fortissima influenza sul costume e sono entrati di diritto nella storia della televisione. Si è in presenza di una efficienza seriale di produzione americana in grado, già allora, di accorpare pubblici dedicati, appassionati e fedeli (ovvero i fans) con fasce di pubblico più generaliste. Si tratta di offrire uno spettacolo dell’immaginario31di culto sia a livello di prodotto che come oggetto di discorso e di fruizione: si realizzano, attorno ad esso, numerosi paratesti, 24
B. Placido, Dallas per favore ritorna presto in “La Repubblica”, 15/04/1989, p. 29. J. Bruner, La fabbrica delle storie, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 56. 26 C. Lasagni, G. Richeri, La qualità della programmazione televisiva. Punti di vista e criteri di misurazione nel dibattito internazionale, Torino, VQPT/Nuova Eri, 1994. 27 Titolo originale Guiding Light. In onda negli Stati Uniti dal 1937 (prima in radio e poi dal 1952 in tv) debutta su Canale 5 il 25 gennaio 1982. 28 Titolo originale Fame. Nato da un fortunato film di Alan Parker del 1980 in Italia ha debuttato su Raidue il 1 gennaio 1982. 29 Prodotta nel 1979 da Televisa rappresenta la prima, grande esplosione di un nuovo genere: la telenovela sudamericana. Difficile ricostruirne la programmazione: 1982 su circuito locale, dal 1985 su ReteA, dal 4 gennaio 1993 su Retequattro. 30 S. Brancato, Senza fine. Immaginario e scrittura della fiction seriale in Italia, Napoli, Liguori, 2007. 31 S. Leonzi, Lo spettacolo dell’immaginario. I miti, le storie, i media, Latina, Tunué, 2010. 25
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commercialmente prodotti (riviste ufficiali, giochi, merchandise, magliette) e prodotti mediali di contorno (lettere da parte del pubblico, programmi tv di discussione e approfondimento sulle serie, etc.). Al tempo stesso, pur in maniera disorganica e frammentaria, anche la produzione nazionale (pubblica e privata) dà vita a storie in grado di attirare un pubblico ampio ed eterogeneo, mettendo a punto innovazioni narrative ed estetiche rispetto al passato. Si tratta di interi universi, mondi possibili da attraversare, più che da consumare; quella spettatoriale diventa così un’esperienza di immersione immaginata. La Rai crea il fenomeno forse più straordinario dell’intera storia della fiction italiana, per la sua ineguagliata popolarità e lo status da autentico media event32: La Piovra. Un cult senza precedenti in Italia. Gli spettatori della prima puntata, trasmessa su Raiuno l’11 marzo 1984, erano otto milioni. Alla sesta puntata la media è salita a quindici33. «La popolarità straordinaria e duratura della miniserie deve essere attribuita alla sua quintessenziale italianità, che ne ha fatto il “testo di identità” del dramma domestico»34. Ma quali sono le caratteristiche della Piovra, riconosciute ed apprezzate dal pubblico, che l’hanno resa cult fin da subito? Va sicuramente citata la tendenza ante-litteram all’ibridazione, l’eclettismo di stili e generi differenti – dal filone dell’impegno civile al poliziesco, all’action, al melodramma, alla love story…– che ne fa un postmoderno “pastiche” narrativo, un serial sui generis dalla peculiare formula open-ended35. Il carattere cultuale de La Piovra è inoltre legato alla capacità di suscitare l’interesse e il coinvolgimento degli spettatori istigandoli«all’esercizio della speculazione sugli indizi, gli enigmi e i sospetti disseminati o nascosti»36 lungo il cammino narrativo. La sua forza di attrazione risiede non solo nell’aver utilizzato gli intrecci mafiosi, ma nell’aver creato una narrativa epica e mitica del conflitto tra bene e male, tra legge e crimine, con continui rimandi alla realtà e alla cronaca, divenuti un fattore persistente di strutturazione delle aspettative, delle attese e dei piaceri del pubblico. La figura dell’eroe protagonista costituisce un ulteriore, e potente, dispositivo di generazione di culto. Senza dubbio il Commissario Cattani è 32
D. Dayan, E. Katz, Le grandi cerimonie dei media, Bologna, Baskerville, 1995 in M. Buonanno, La fiction italiana, cit., p. 63. 33 Sono state 10 le edizioni per un totale di 44 puntate prodotte e messe in onda a intervalli annuali o biennali nell’arco di 17 anni. L’ultima serie è andata in onda nel 2001. 34 M. Buonanno, La fiction italiana, cit., p. 45. 35 M. Buonanno, La Piovra. La carriera politica di una fiction popolare, Genova, Costa & Nolan, 1997. 36 M. Buonanno, La fiction italiana, cit., p. 52.
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l’eroe imperfetto che «raccoglie in sé i tratti peculiari di un’identità italiana con profonde radici nella tradizione della storia e della cultura nazionale»37. In Cattani il pubblico si riconosce e si identifica. Nei giorni precedenti l’ultima puntata della quarta stagione, l’Italia intera, dopo che il tragico destino del commissario era stato fatto presagire dai giornali, aveva cercato di salvargli la vita. Racconta Perelli al “Corriere della Sera” dell’8 giugno 1992: «La notizia trapelata della morte di Cattani aveva diffuso un’ atmosfera terribile: da giorni la gente tempestava la sede Rai e gli sceneggiatori con le telefonate, pregava, supplicava di non far morire il commissario. La sera del gran finale si avvertiva nell’aria una tensione agghiacciante»38. Il 20 marzo 1989, di fronte ad oltre 17 milioni di spettatori, il Commissario Cattani viene assassinato e “mezz’Italia” si ritrova orfana del suo fascinoso eroe, malinconico e perdente. Su un opposto versante dell’immaginario (umoristico, giovanile), anche la televisione commerciale crea i propri culti autoctoni: si pensi a I Ragazzi della Terza C (Italia 1, 1987)e Casa Vianello (Canale 5, 1988). Dalla seconda metà degli anni ’80 si attua una prima svolta nazionale, che vede le tv private cominciare a produrre fiction domestica (sia pure su scala ancora troppo ristretta e limitata per rappresentare un elemento propulsivo dell’avvio di una vera industria seriale39). Il prodotto importato, dopo un intenso periodo di acquisti massicci, sembra meno di prima in grado di soddisfare il mercato italiano dal punto di vista sia qualitativo che quantitativo40. Pertanto la televisione commerciale avvia la produzione, per molti aspetti innovativa, di serie giovanili e di sit-com; si tratta di commedie che ruotano intorno alle vicende di un piccolo gruppo familiare, o amicale, oppure mettono in scena un ambiente di lavoro, tratteggiando con una coloritura sempre comico-umoristica situazioni problematiche o equivoche destinate comunque a una rasserenante soluzione. Casa Vianello debutta nel 1987 su Canale 5, all’interno del contenitore domenicale La Giostra. I protagonisti sono Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, che riescono felicemente a ricreare in tv il microcosmo casalingosentimentale tipico della commedia teatrale, ispirato a un cliché di vita co-
37
Ivi, p. 58. M. Iossa, La Rai voleva salvare Cattani: troppo tardi, in “Il Corriere della Sera”, 8 giugno 1992, p. 38. 39 Cfr: F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. costume, società e politica, Venezia, Marsilio, 1995 e M. Morcellini, Il Mediaevo italiano. Industria culturale, Tv e nuove tecnologie tra XX secolo e XXI secolo, Roma, Carocci, 2005. 40 D. Cardini, La lunga serialità televisiva, Roma, Carocci, 2004. 38
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niugale di lunga tradizione41. Destinata a diventare la sitcom più longeva della televisione italiana42, Casa Vianello mette in scena battibecchi e piccoli equivoci nel cuore dell’appartamento; ossia il salotto con divano al centro43. Ogni episodio si conclude con il tormentone del piede di lei che scalcia insofferente contro il copriletto, ripetendo la frase (entrata rapidamente nel repertorio linguistico collettivo): «Che barba, che noia, che noia, che barba». La sit-com diventa presto un cult perché allestisce con grande piacevolezza il teatrino della vita quotidiana di una coppia matura, capitalizzando il consumato talento umoristico e la notorietà di lunga data dei protagonistiinterpreti: personaggi molto amati da un pubblico inter-generazionale, che si appassiona alla recita della loro vita coniugale. In questo caso sono gli interpreti, i protagonisti della storia, che funzionano da punto di coerenza e di continuità in relazione al mondo del culto mediale44. La presenza di figure storiche del panorama televisivo italiano, di cui gli spettatori si fidano, favorisce la familiarizzazione con il mondo narrativo rituale al quale l’appassionato “fa ritorno”, riconoscendolo e apprezzandolo come fosse il proprio spazio domestico e, al tempo stesso, uno spazio comunitario. Serie di culto, indubbiamente, anche I ragazzi della Terza C45. Più che personaggi, i giovani protagonisti liceali della fiction sono stereotipi da rotocalco rosa46, che esibiscono vizi, qualità, modi di parlare e di comportarsi di un mondo giovanile alquanto convenzionale47. Tra le produzioni italiane degli anni ’80, la serie di Italia 1 può vantare un clamoroso successo di pubblico, nonché un autentico ed esteso fenomeno di fandom, da intendersi come gioco immersivo in un «ambiente d’intrattenimento immaginario»48. Così al debutto scrive Beniamino Placido su “La Repubblica”: «Italia 1 propone (da martedì) una serie intitolata I ragazzi della Terza C, ambientata in un liceo romano. Non sarà finissima, non sarà elegantissima, non sarà 41
A. Grasso, Storia della televisione italiana, Milano, Garzanti, 2000. 16 serie e 364 episodi scritti da Giambattista Avellino, Alberto Consarino e Sandro Continenza. 43 F. Morici, D. Gulli, La SitCom. Come ideare e scrivere una serie televisiva di successo, Roma, Gremese, 2010. 44 M. Hills, Fan Culture, London, Routledge, 2003. 45 La serie, diretta da Claudio Risi, è andata in onda su Italia 1 dal 13 gennaio 1987. La sceneggiatura della serie è di Marco Cavaliere, Jean Ludwing e Cesare Frugoni. 46 Troviamo: il bel Chicco (Fabio Ferrari), esuberante trascinatore del gruppo, l’ingenuo “ciccione” Bruno (Fabrizio Bracconieri), il muscoloso Massimo (Renato Cestié), la corteggiata Chiara (Sharon Gusberti), Daniele e Rossella i teneri fidanzatini. 47 A. Grasso, Storia della televisione italiana, cit. 48 Mackay in Lancaster K., Interacting with Babylon 5. Fan Performance in a Media Universe, Austin, University of Texas Press, 2001. 42
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intelligentissima questa serie: ma Happy Days forse lo è?». Un cult, quello de I ragazzi della Terza C, che si fa nostalgico e prosegue ancora oggi spostandosi dall’off-line all’on-line: basta osservare i numerosi siti, le tante pagine web e i video di You-Tube che ricordano la serie, ne ripercorrono i momenti salienti e ne omaggiano i personaggi, all’epoca enormemente popolari. Il cult, quindi,si ritrova con forza e vitalità già negli anni Ottanta e l’industria televisiva italiana, oltre ad importare storie di terre lontane, riesce in alcuni casi a realizzare prodotti narrativi e creare universi immaginari complessi in grado di conquistare un pubblico fedele e di ottenere, spesso, grande visibilità e un intenso coinvolgimento degli spettatori. Molto prima della convergenza mediale, quando erano ancora lontane dal nascere le culture fandom legate ai nuovi media, e pur in assenza di una matura logica della serialità, la televisione italiana si è fatta terreno di inedite sperimentazioni e sorprendenti costruzioni narrative, dando vita non di rado ad una testualità seriale di culto. Gli anni Ottanta hanno rappresentato l’inizio del processo di scomposizione dell’ audience in pubblici settoriali, competenti e curiosi, in grado di muoversi con consapevolezza attraverso i palinsesti televisivi, alla ricerca di storie capaci di suscitare e alimentare la loro appassionata e laica devozione.
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3 Il senso del luogo. I protagonisti della fiction fra qui e altrove
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di Anna Lucia Natale
3.1. Sul senso del luogo nella fiction «Il mondo appare più piccolo: non più un’immensa distesa di territori sconosciuti, ma un globo interamente esplorato…»1. Con queste parole J. B. Thompson allude alle profonde trasformazioni nella percezione dello spazio e del tempo prodotte dallo sviluppo dei mezzi di trasporto e comunicazione. I nuovi media elettronici avrebbero consentito a individui comuni, e senza muoversi di casa, di sperimentare realtà altre e distanti dai contesti della vita quotidiana, di coltivare un senso di appartenenza esteso a comunità più ampie e simbolicamente costituite, di percepire come “vicino” ciò che è spazialmente e temporalmente lontano2. La crescente circolazione internazionale dei prodotti dei media ha favorito e accentuato questo processo, familiarizzando sempre più i pubblici locali con culture diverse da quelle di origine, rendendoli più sensibili al nuovo e all’altrove, in qualche modo più cosmopoliti e abitanti del mondo. Questa inedita apertura al mondo, o ai mondi di esperienza creati dai media, ha alimentato una riflessione scientifica sul significato del “luogo” – l’ambiente relazionale e geograficamente situato della vita sociale quotidiana – in una società globalizzata e multiculturale come quella di oggi. Se J. Meyrowitz è arrivato a teorizzare una perdita del senso del luogo, vale a dire una delocalizzazione dell’esperienza in virtù delle nuove condizioni di accessibilità a contesti locali e temporali remoti rispetto a quelli in cui si vive3, 1 J. B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 57; [The Media and Modernity. A Social Theory of the Media, Cambridge, Polity Press, 1995]. 2 Ivi, pp. 53-56. 3 J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Bologna, Baskerville, 1993; [No Sense of Place. The Impact of Electronic Media on Social Behaviour, New York, Oxford University Press, 1985].
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A. Giddens ha posto l’accento sulla dinamicità del rapporto tra dislocazione e riaggregazione, su come i meccanismi di disembedding delle esperienze sociali dai rispettivi contesti spazio-temporali portino con sé «nuove occasioni per il loro reinserimento»4. «Non è tanto – precisa Giddens – un fenomeno di estraniazione dal locale, quanto uno di integrazione entro ‘comunità’ globalizzate di esperienza condivisa»5. In sostanza, il senso del luogo, di ciò che è percepito come vicino, prossimo, familiare, non si è perso, ma si è ridefinito e – per così dire – pluralizzato. Non abbiamo perso il senso e il valore dei nostri incontri quotidiani e nei luoghi in cui abitiamo, ma ne abbiano trovati altri, altri «sensi di luoghi immaginati» – per usare le parole di M. Buonanno6 – che negli ambienti culturali globalizzati in cui siamo inseriti si uniscono e interagiscono con quelli quotidianamente sperimentati nei contesti dialogici e di compresenza. Ma quali sono le implicazioni di queste trasformazioni in termini di contenuti e di capacità di attrazione dei prodotti dei media per i pubblici locali? Meyrowitz sostiene che la capacità dei media di creare nuovi ambienti o «sistemi informativi» sia relativamente indipendente dai contenuti trasmessi, e che la presenza in sé della tecnologia, di un apparecchio televisivo acceso o di un microfono aperto, basti a dischiudere nuove possibilità di informazione e di esperienza sociale7. Non c’è dubbio tuttavia che gli stessi prodotti dei media, e le relative immagini del mondo messe in circolazione, siano rilevanti per i processi di pluralizzazione del senso del luogo. In particolare, un ruolo importante nei meccanismi di familiarizzazione con mondi altri e distanti è quotidianamente svolto da quella straordinaria riserva di narrazioni sulla realtà sociale che è la fiction televisiva. Ed è anche grazie alla capacità della fiction di parlare al mondo e sul mondo, che siamo in grado di coltivare nuovi e “immaginati” sensi del luogo. In questa prospettiva, si potrebbe dire che per effetto della globalizzazione e della riorganizzazione spazio-temporale della vita sociale si sia modificato, o si stia modificando, anche il modo in cui nei media, e nella fiction televisiva, si esprime il senso del luogo. Il modo cioè in cui vengono rappresentati il “noi” e l’“altro”, il vicino e il distante, il locale e il globale. 4 A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 140; [The Consequences of Modernity, Cambridge, Polity Press, 1990]. 5 Ivi, pp. 139-140. 6 M. Buonanno, L’età della televisione. Esperienze e teorie, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 143. In questo volume, l’autrice fa il punto e interviene criticamente in merito al dibattito sul senso del luogo: cfr., in part., pp. 11-15. 7 J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, cit.
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IL
SENSO DEL LUOGO.
I
PROTAGONISTI DELLA FICTION FRA QUI E ALTROVE
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Nelle storie di fiction, il senso del luogo è dato da quell’insieme di segnali che conferisce familiarità agli ambienti fisici e sociali di una storia, che è in grado di evocare «accenti, sapori, atmosfere, e risonanze riconoscibilmente tipiche della realtà vissuta e dell’immaginario mentale di un determinato luogo»8. Nel senso del luogo così inteso confluiscono elementi del contesto fisico (paesaggi, strade e piazze, monumenti), ma anche e soprattutto quei tratti dell’identità culturale di un Paese che si esprimono nel carattere di un personaggio, nella scelta dei temi, nell’enfasi su determinate idee e valori. Sono, in pratica, quegli stessi aspetti, di familiarità, riconoscibilità, identificabilità di uno specifico mondo sociale e culturale, che secondo alcune interpretazioni sarebbero alla base delle preferenze dei pubblici locali per il prodotto domestico9. La capacità di attrazione delle storie percepite come familiari ed evocative di un dato mondo di esperienza non è certo qui in discussione. Ma il punto è che è cambiata/sta cambiando – in ragione di quanto precedentemente detto – la percezione stessa di ciò che è familiare. Il familiare non coincide più, non soltanto, con ciò che è vicino in senso locale o culturale. Oggi possono risultare familiari, riconoscibili, identificabili eventi e luoghi, modi di vita, tipi umani messi in scena in altra parte del mondo o in un lontano passato, o comunque non appartenenti alle culture di origine e alle esperienze localmente situate dei pubblici. Nel caso particolare della fiction, non si tratta soltanto della ormai lunga consuetudine degli spettatori con prodotti – e con luoghi e culture – provenienti da altri paesi, o dell’incidenza degli influssi transculturali sui prodotti locali10. Si tratta anche della tendenza propria della fiction a raccontare ciò che “tiene insieme”, in senso locale e/o globale; a rappresentare credenze e valori, temi e personaggi di rilevanza universale, tali cioè che i pubblici locali possano percepire come propri e appartenenti ai rispettivi ambiti di esperienza, anche al di là dei confini spaziali, temporali e culturali. 8
M. Buonanno, “Considerazioni generali”, in M. Buonanno (a cura di), Il senso del luogo. La fiction italiana/L’Italia nella fiction, anno VIII, Roma, Rai-Eri, 1997, pp. 15-35, in part. p. 30. 9 Il riferimento è al principio della «prossimità culturale»: J. D. Straubhaar, “Beyond Media Imperialism: Asymmetrical Interdependence and Cultural Proximity”, «Critical Studies in Mass communication» 8, 1991/1, pp. 39-59. Citato in: M. Buonanno, L’età della televisione, cit., p. 124. 10 Ciò che appare vicino, afferma ancora Giddens, «è in realtà il prodotto di eventi distanti ‘calato’ nell’ambiente locale»: A. Giddens, Le conseguenze della modernità, cit., p.139. Il tema delle interrelazioni tra identità nazionale e influssi internazionali nella fiction televisiva è al centro delle riflessioni di M. Buonanno nel suo La fiction italiana. Narrazioni televisive e identità nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2012. Sulla capacità della fiction italiana di rielaborare contenuti e formati della tradizione culturale straniera, si veda inoltre: A.L. Natale, Reinventare la tradizione. Novità e ripetizione nella fiction TV in Italia, Roma, Mediascape, 2004.
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La fiction americana, per ragioni storiche e culturali, ha sempre avuto una vocazione transnazionale che ne ha favorito l’esportabilità nel mondo. Quella italiana, a parte alcune pregevoli eccezioni, resta molto lontana da livelli simili di universalismo e di capacità di attrazione. Nondimeno, è da questo punto di vista più variegata di quanto si creda, e ha lasciato emergere – soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta – una qualche inclinazione a diversificare, ad ampliare i propri orizzonti di riferimento. Accanto a prodotti dalla forte impronta identitaria locale, o che esprimono un senso del luogo specificamente situato, ha saputo raccontare anche storie e personaggi maggiormente suscettibili di piacere – e di essere riconosciuti come familiari – ad un pubblico internazionale. La fiction italiana, pur se in modo non ancora sistematico e finalizzato, ha dunque cominciato ad accogliere declinazioni diverse del senso del luogo. Un’angolazione particolare dalla quale osservare le eventuali mutazioni e le articolazioni del senso del luogo nella fiction italiana è nella costruzione dei personaggi protagonisti delle storie. Il protagonista, quale veicolo principale dei temi, i significati, gli orientamenti di valore di una storia, esprime ed incarna – in vari possibili modi – il senso del luogo di cui quella storia è permeata. I dispositivi narrativi che consentono l’individuazione del “luogo” attraverso il protagonista, possono ad esempio essere: la forte integrazione del personaggio in uno specifico e riconoscibile ambiente fisico e sociale; l’identificazione del personaggio con obiettivi, conflitti e valori universalmente condivisibili, al di là del contesto in cui è inserito; la specifica identità culturale del personaggio (carattere, credenze, modelli di vita), anche se calata in uno spazio e/o in un tempo lontani dalla cultura di appartenenza. Su queste basi, si proverà qui ad individuare le diverse declinazioni del senso del luogo in alcune figure emblematiche di personaggi “eroi” o “eroine” della fiction, vale a dire personaggi riusciti e/o popolari, che in qualche modo hanno lasciato un segno nell’immaginario televisivo. Si tratta di: Il maresciallo Rocca (Rai), l’eroe italiano per antonomasia; Il commissario Montalbano (Rai), un eroe atipico e controcorrente, ma di indubbia caratura internazionale; Elisa di Rivombrosa dell’omonimo serial Mediaset, e Antonia De Vito, della miniserie Rai Come l’America: donne del passato ma moderne e determinate quanto una donna di oggi, donne italiane ma dal profilo culturale universalmente riconoscibile. Lo scopo ultimo di questa sorta di rassegna è quello di riflettere sulle condizioni di possibilità affinché i personaggi della fiction italiana – e senza che questo precluda una loro specifica impronta identitaria – risultino familiari e attraenti agli occhi di un pubblico in trasformazione, locale o globale che sia, in ogni caso più maturo e sofisticato, e tendenzialmente più spettatore
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nel e del mondo. Personaggi, insomma, che nonostante o anche in virtù della loro italianità possano inserirsi nelle preferenze di un pubblico transculturale.
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3.2. Sapore di casa: Il Maresciallo Rocca Sei edizioni di successo dalla stagione 1995-96 al 2007-08, per un totale di 5 serie e 28 episodi, e con una miniserie finale in 2 puntate: è il percorso narrativo de Il Maresciallo Rocca, uno dei programmi più popolari della fiction italiana. Rocca ha assunto in sé, per più di un decennio, le caratteristiche tipiche dell’eroe seriale italiano: rappresentante delle istituzioni dell’ordine e della legalità; capacità professionali e determinazione nel conseguimento degli obiettivi; tensione morale e orientamento ai valori della famiglia e della solidarietà sociale. Molti elementi, in questo profilo, convergono nel restituire un senso del luogo decisamente impregnato di italianità. Innanzitutto, l’importanza della figura del carabiniere nella tradizione culturale italiana. Rocca non è semplice tutore dell’ordine ma è appunto un maresciallo dei carabinieri, l’Arma più diffusa e di maggior presa nell’immaginario nazionale. Basti ricordare che la figura del carabiniere ha alimentato un filone molto popolare della commedia cinematografica italiana, a partire dal maresciallo di Vittorio De Sica in Pane, amore e fantasia negli anni Cinquanta. Le storie del carabiniere televisivo Rocca, affidate ad un popolare interprete della commedia teatrale e cinematografica come Gigi Proietti, si ispirano proprio a questo filone, coniugandolo con il genere poliziesco. L’immaginario sociale della figura del carabiniere viene così ad intrecciarsi con l’innovazione tutta italiana di un racconto investigativo messo in scena entro la cornice, leggera e rassicurante, della commedia11. I toni della commedia attraversano l’intera narrazione de Il maresciallo Rocca, grazie anche al clima delle relazioni creato nella caserma dei carabinieri dalla simpatia del maresciallo e/o del suo interprete. Ma il genere trova attuazione soprattutto nella rappresentazione del retroscena privato del protagonista, che dando rilievo alla centralità del mondo della famiglia e degli affetti nella tradizione culturale italiana, fornisce al racconto un secondo, importante elemento identitario. Rocca è un carabiniere, ma anche un padre di famiglia: è vedovo 11
Nell’ambito dei rapporti annuali dell’Osservatorio sulla Fiction Italiana (OFI) editi dalla Eri, sono state prodotte numerose analisi sul maresciallo Rocca. Per gli aspetti qui considerati, si veda in particolare: M. Buonanno, “L’Italia nella fiction. Aria serena e brava gente. La provincia italiana nella dramedy dei carabinieri”, in M. Buonanno (a cura di), La posta in gioco. La fiction italiana/L’Italia nella fiction, anno XIX, Roma, Rai-Eri, 2008, pp. 51-72.
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e ha tre figli; si risposerà con la farmacista Margherita e insieme adotteranno un quarto figlio; infine, nuovamente vedovo e con i figli di primo letto ormai adulti, ritroverà l’amore e il matrimonio con la giovane maestra Francesca. È un padre tenero e un po’ ansioso, protettivo, a volte burbero, ma sempre profondamente coinvolto nelle vite dei figli, che intanto crescono, trovano lavoro e si fanno a loro volta una famiglia. La vita privata e familiare di Rocca è seguita nella sua evoluzione da una serie all’altra, ed è spesso messa in scena nella sua dimensione più quotidiana, dalle contese mattutine per il bagno, ai pasti consumati in famiglia, alle interazioni con i figli e con mogli o fidanzate… Procedendo parallelamente allo sviluppo dei casi di detection, contribuisce in maniera decisiva a delineare il profilo del personaggio. Rocca è sostanzialmente una figura paterna. L’attaccamento alla famiglia e la disposizione alla paternità costituiscono il tratto più forte e caratterizzante del personaggio, andando oltre la sfera familiare per estendersi all’ambiente di lavoro e al più ampio contesto sociale in cui vive, rispetto ai quali costituisce il centro e il punto di riferimento morale. Il maresciallo vive e lavora a Viterbo, una città di provincia rappresentata nella sua dimensione di comunità, raccolta intorno alle vestigia architettoniche del suo centro storico, e tenuta insieme dai legami intersoggettivi di conoscenza, solidarietà, affettività. Molti sono i segnali iconici che rinviano alla dimensione familiare e accogliente del luogo: la piazza su cui affacciano la caserma dei carabinieri e la farmacia, i vicoli privi di traffico o percorsi in motorino, perfino le ambientazioni notturne, che spesso fanno da tranquillo scenario alle conversazioni tra i personaggi. E altrettanto evidenti sono i tratti del personaggio sintonici con il “luogo”, in ciò ravvisandosi un ulteriore aspetto che informa di prossimità culturale le storie de Il maresciallo Rocca. Rocca è, infatti, una perfetta incarnazione del modello di vita comunitaria che il luogo rappresenta. È un investigatore capace e d’esperienza, possiede intuito, inclinazione al ragionamento e conoscenza dell’ambiente; ma sopra ogni altra cosa «ha cuore», come dice di lui un fedele collaboratore. In città, grazie anche alla divisa che indossa, è conosciuto e apprezzato da tutti, e non è raro che ci si rivolga a lui per consigli o confidenze. Con i suoi concittadini, che spesso ritrova nei casi investigativi in qualità di testimoni o indiziati, di vittime o persone ingiustamente accusate, il maresciallo tende a stabilire rapporti di rispetto e comprensione. Orientato a capire i sentimenti e i moventi dell’agire umano, non si ferma mai alle apparenze e si dispone alle indagini con attenzione e senza pregiudizi, salvo poi perseguire con determinazione il colpevole di turno. Con gli uomini della sua squadra, inoltre, Rocca ha creato una vera e propria comunità di lavoro, unita da obiettivi comuni, dal senso di appar-
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tenenza all’istituzione, dalla consuetudine di un mestiere rischioso vissuto a stretto contatto quotidiano. All’interno del gruppo vigono rapporti di stima e conoscenza, di affetto e amicizia, che sovente innescano dinamiche di coinvolgimento emotivo simili a quelle di una famiglia, di cui il maresciallo rappresenta la guida autorevole e protettiva. Sono numerose nel corso della serie le situazioni in cui la squadra intera si mobilita se qualcuno di loro è in pericolo, è stato ferito, o ha subito un qualche danneggiamento (in un caso è lo stesso Rocca a sperimentare il sostegno e la fiducia del gruppo di fronte a un’ingiusta accusa di corruzione). E significativa in questo senso è anche l’ultima miniserie: con la squadra e la comunità cittadina sconvolte per l’uccisione di un giovane benzinaio, troviamo un Rocca visibilmente turbato ma infaticabile nell’incitare i suoi a darsi da fare per trovare il colpevole, confortare il padre della vittima, sostenere il giovane carabiniere amico del ragazzo ucciso: «I sentimenti non sono mica vietati dal regolamento… I sentimenti sono gli anticorpi, che ci consentono di non abituarci alle cose che vediamo tutti i giorni. Così si rimane un po’ più umani, e non diventiamo delle macchine». Un episodio che, mentre richiama i legami di solidarietà interni ed esterni al gruppo di lavoro, enfatizza la disposizione di Rocca all’espressività delle relazioni, anche in ambito professionale. Nel succedersi delle edizioni, si fanno più complessi e a volte drammatici gli eventi narrati (dall’attentato a Margherita, la moglie di Rocca, alle connessioni extra-locali o del crimine organizzato nei casi delittuosi), e anche le atmosfere accoglienti del luogo inevitabilmente tendono a ridimensionarsi. Ma i legami di mutuo sostegno che uniscono il gruppo di lavoro e la carica di umanità e di autorevolezza del protagonista – che ne fa appunto una figura paterna, per la sua famiglia, la comunità professionale e la comunità cittadina – restano intatti nell’intero arco narrativo della serie. Ne Il maresciallo Rocca si dispiegano segnali visivi e simbolici che comunicano un profondo senso del luogo, il cui principale riferimento è nel sentimento italico della famiglia e nel valore riconosciuto al mondo degli affetti. Un marchio identitario forte, cui alcuni tratti tipicamente nazionali del carattere del personaggio (la simpatia, la generosità, la sbadataggine, l’insofferenza per la burocrazia) e certi richiami all’attualità del nostro paese (la perdurante richiesta di istituzioni più etiche e “umane”, che nella figura di Rocca trova accoglienza) aggiungono ulteriori elementi di identificabilità. Non è un caso del resto che il ricorso a figure di padri simbolici, che riconciliano con le istituzioni, si configuri come una più generale tendenza della fiction italiana tra gli anni Novanta e Duemila (dal medico Paolo Magri di Amico mio, del 1994, al prete-investigatore Don Matteo del 2000-11).
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Tutto converge nell’imprimere alle storie del maresciallo Rocca un inconfondibile “sapore di casa”, che nel determinare la straordinaria popolarità del personaggio tra il pubblico domestico, ne ha probabilmente lasciato in ombra – in termini di attrazione sui mercati internazionali – le potenzialità universalistiche del profilo etico (l’onestà, l’impegno nel lavoro, l’attaccamento stesso alla famiglia, non sono forse valori largamente condivisi?). Nuove diverse opportunità, in questo senso, sembravano emergere dall’ultimo Rocca (Il maresciallo Rocca e l’amico di infanzia), chiamato a risolvere un caso intricato e denso di implicazioni personali: l’autore di una serie di delitti sui quali il maresciallo indaga risulta essere proprio quel suo amico di infanzia che ha ritrovato dopo tanti anni, risvegliando in lui ricordi ormai sopiti. La miniserie del 2008 conferisce un nuovo spessore alla “umanità” del personaggio, portandolo a fare i conti con le certezze del suo passato, con il trascorrere del tempo («come si cambia col tempo!»), e in ultima analisi con la complessità dell’esperienza umana. Una dimensione esistenziale che avrebbe forse potuto preludere a un più incisivo profilo transculturale del personaggio. Ma la chiusura, ormai definitiva, del lungo ciclo de Il maresciallo Rocca lascia aperta la questione.
3.3. Entro e oltre: Il commissario Montalbano Il commissario Montalbano offre la più convincente esemplificazione di come si possano costruire personaggi profondamente radicati in un tessuto culturale locale e tuttavia egualmente in grado di circolare, e di risultare attraenti, in un contesto internazionale. Stanno del resto a dimostrarlo la vendita un po’ in tutto il mondo dei diritti del Montalbano televisivo e la dimensione ormai multimediale del personaggio, che dai libri di Andrea Camilleri e dalla serie tv da essi tratta è via via approdato alla fiction radiofonica, ai cartoni animati in Cd-rom, al fumetto, ai vari siti web12. Nel processo di adattamento al linguaggio televisivo, il Montalbano letterario è andato acquisendo caratteristiche in parte nuove e diverse, che hanno contribuito – pur dovendo moltissimo al modello originario – a creare un personaggio tra i più apprezzati e meglio disegnati della fiction italiana. Dal 1999 al 2011 sono stati trasmessi 8 cicli di film-tv, per un totale di 22 12
Su questo ed altri aspetti della figura di Montalbano, cfr.: G. Marrone, Montalbano. Affermazioni e trasformazioni di un eroe mediatico, Roma, Rai-Eri, 2003; G. Bechelloni, “Il programma dell’anno. Il commissario Montalbano. La vampa d’agosto. Un eroe mediatico tra letteratura e realtà”, in M. Buonanno (a cura di), Se vent’anni sembran pochi. La fiction italiana/L’Italia nella fiction, anni XX-XXI, Roma, Rai-Eri, 2010, pp. 203-219.
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film; cui vanno aggiunti una nona edizione prevista per la primavera 2013 e un prequel andato in onda nel 2012. Salvo Montalbano è un eroe atipico e controcorrente, che sembra sfuggire ad ogni classificazione. È un commissario di polizia, che ha in comune con il maresciallo Rocca il profilo di base dell’eroe istituzionale – eticità, capacità professionale e determinazione – e soprattutto la profonda integrazione con l’ambiente fisico e sociale che abita. Il senso del luogo in Montalbano è anzi perfino più pungente e pervasivo, identificandosi con i segni distintivi di una “sicilianità” cui ogni elemento del contesto narrativo – l’ariosità degli scenari, il parlato locale, le “macchiette” del luogo – è chiaramente riconducibile. Le storie sono ambientate nella cittadina immaginaria di Vigata, per certi aspetti identificabile con Porto Empedocle, vicino ad Agrigento. Ma gli scenari reali sono quelli di Ragusa e della sua provincia, tra le distese marine, le campagne, le architetture barocche. Un paesaggio tra i più suggestivi e luminosi, nonché ricco di richiami al passato, che Montalbano percorre in lungo e in largo per le esigenze della sua attività investigativa, e che in tal modo si dispiega agli occhi del telespettatore. Montalbano è parte di questo paesaggio, e in un certo senso vi è immerso dentro, come simbolicamente esprime la sua nuotata mattutina nel mare davanti casa (abita a Marinella, la località marina di Vigata). È inoltre in questi luoghi – passeggiando lungo il molo, riposando sotto l’ulivo saraceno, scrutando l’orizzonte dal suo terrazzo – che ama raccogliersi in meditazione e spesso trova illuminazione per le sue indagini. Un legame simbiotico tra il protagonista e il suo ambiente che si rivela anche in certi aspetti del carattere del personaggio. Montalbano è una personalità complessa, contrastata, polivalente, che in qualche modo assume in sé quel conflitto profondo tra il nuovo e l’antico, la modernità e la tradizione, di cui la cultura siciliana è intessuta. È fatto di tante sfaccettature di cui esibisce aspetti diversi in base alla situazione o all’interlocutore di turno: è tenero e irascibile, umano e sarcastico, intransigente e diplomatico, riflessivo e irruento… Possiede l’elevata tempra morale e la disposizione al ragionamento dell’investigatore di razza e il carattere schivo, impulsivo e passionale dell’uomo mediterraneo. Nell’attaccamento alla sua terra e nella riluttanza al cambiamento risiede la dimensione più “chiusa” e tradizionalista del personaggio. Vigata e Marinella sono i suoi ambienti naturali, sono il mare, il cibo e i paesaggi che ama tanto, e mai si allontanerebbe da lì. È anche per questo che rifiuta ogni prospettiva di carriera, che rinvia all’infinito il matrimonio con l’eterna fidanzata Livia, e che è restio perfino a spostarsi, come quest’ultima a volte vorrebbe, per una breve vacanza in barca, per festeggiare il Capodanno a Parigi, o semplicemente
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per raggiungerla un fine settimana a Genova (dove Livia vive e lavora). Come afferma G. Marrone, «tutto ciò che è in qualche modo lontano da lui, nello spazio ma anche nelle abitudini culturali, è quanto di peggio possa esserci»13. Ma Montalbano non è soltanto questo. Montalbano è anche e soprattutto uno spirito libero, autonomo, indipendente, e in ciò si intravede la mentalità di un uomo di oggi alle prese con un mondo in trasformazione – anche del suo mondo – e con le difficoltà della vita sociale. E se il suo essere “antico” è soprattutto un elemento del contesto, che contribuisce a dare forza e visibilità all’impronta identitaria del luogo, la sua contemporaneità – o se vogliamo modernità – attiene a livelli più profondi della struttura narrativa, riguardando i modi di vivere il rapporto con il privato e gli affetti, con il potere, con l’attività professionale. Il commissario di Vigata, contraddicendo uno stereotipo forte della fiction italiana, non ha una famiglia. Con la fidanzata, che ama e a cui è (sostanzialmente) fedele, preferisce intrattenere un rapporto a distanza, che non interferisca con la sua libertà di movimento, le sue abitudini quotidiane, la sua volontà di restare a Vigata. Ha anche un padre, al quale lo unisce un affetto profondo mischiato a un qualche rancore del passato. Il rapporto con il padre è raccontato nel terzo dei film-tv andati in onda, La forma dell’acqua (2000). Quanto basta per lasciar emergere la scarsa frequentazione tra i due e per mostrarci – in maniera qui particolarmente incisiva – il lato più tenero e fragile di Montalbano: per l’affetto con cui si rivolge al genitore, il pianto accorato alla notizia della sua malattia (ma nella scena successiva è già al lavoro), e poi il rammarico di non essere arrivato in tempo: «È morto solo». L’assenza di una famiglia, in Montalbano, non significa che non abbia affetti o non ne riconosca il valore. Semplicemente, non li vive come vincoli per le sue scelte di vita e di lavoro. Serve ad enfatizzare la sua natura di uomo libero, che si rivela egualmente nei rapporti con il potere. Montalbano è autonomo nei confronti del potere. In un duplice senso: lo disdegna per sé e lo combatte negli altri, laddove esso si traduca in comportamenti devianti, in tracotanza, o semplicemente in ostacoli alle indagini. Non ha ambizioni di carriera e non ha remore a «squietare il cane che dorme», anche se questo significa entrare in conflitto – come sistematicamente accade – con il giudice istruttore di turno, che vorrebbe orientarlo sulla pista più facile pur di chiudere l’indagine al più presto e non infastidire qualche potente del luogo. Con i diretti superiori tende spesso a fare il diplomatico, così da aggirare gli ostacoli burocratici e non essere intralciato nell’azione. E con i potenti coinvolti nelle indagini, che appaiano reticenti o provino 13
G. Marrone, Montalbano, cit., p. 217.
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a pressarlo, ricorre al mascheramento, fingendosi ingenuo e ossequioso, e perfino corrotto o corruttibile, per studiarne le reazioni. L’autonomia di pensiero e d’azione in Montalbano trova piena espressione nel modo di interpretare il lavoro investigativo. Il commissario opera in un contesto difficile, dove spesso il delitto privato si intreccia con quello politico o mafioso, i conflitti etici e sentimentali con quelli di interesse, le passioni di ieri (e di sempre) con i temi dell’oggi (immigrazione, pedofilia, corruzione, ecc.). Si muove al suo interno con astuzia, utilizzando la conoscenza degli ambienti sociali e dell’animo umano come risorsa per risalire ai moventi delle azioni delittuose, e da qui ai possibili colpevoli. Mette insieme dati e informazioni con l’aiuto dei suoi collaboratori, va di persona a visitare luoghi e sentire testimoni, è attento a cogliere anche le sfumature, gli umori, le dicerie dell’ambiente in cui il crimine è stato commesso. A guidarlo è soltanto il filo dei suoi ragionamenti, e quando è il momento di prendere iniziative agisce, senza attendere autorizzazioni e senza badare alle conseguenze. Un comportamento da spirito libero, insomma, che a volte si spinge fino a tacere ai magistrati sulle indagini in corso, ad occultare prove che ritiene fuorvianti rispetto alla sua linea investigativa, e perfino a non consegnare il colpevole alla giustizia. Un aspetto, questo, senz’altro controverso del poliziotto Montalbano. Che tuttavia, più che a una condotta da giustiziere solitario, appare riconducibile al forte orientamento etico e all’’idea “alta” di giustizia che muovono in profondità l’agire del personaggio. E tale da trascendere il suo ruolo istituzionale, il formalismo della legge, il rispetto delle regole. G. Bechelloni riconosce in Montalbano «la virtù per eccellenza, quella del libero cittadino che… agisce come un combattente in difesa del suo paese, per impedire l’imbarbarimento che deriverebbe dal prevalere… delle prepotenze e delle cattiverie dei criminali»14. G. Marrone parla di «una giustizia diversa, più personale, più attenta alle esigenze concrete, quotidiane delle persone, ai sentimenti della gente, mostrando più sensibilità verso gli altri che rispetto assoluto della legge e della autorità»15. E ancora: «Il suo obiettivo è semmai quello di difendere una giustizia più ampia e al tempo stesso più concreta, sostanziale più che formale, di tipo etico piuttosto che giuridico»16. 14 G. Bechelloni, “Il programma dell’anno. Il commissario Montalbano. La vampa d’agosto. Un eroe mediatico tra letteratura e realtà”, cit., p. 207. 15 G. Marrone, Montalbano, cit., pp. 284-285. 16 Ivi, pp. 287. L’autore offre peraltro ampia esemplificazione a sostegno dell’argomento, sulla base dei primi dieci film della serie (1999-2002). Ma conferme empiriche si trovano anche nelle successive edizioni (in particolare, nella stagione 2005-06).
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Una «giustizia sostanziale», che veda comunque sanzionato il comportamento criminale, e nello stesso tempo miri a restituire dignità e a difendere i deboli (gli innocenti, le vittime, i loro familiari) dalla prepotenza del crimine e dagli abusi del potere. Sarebbero molti gli esempi da richiamare, ma significativo per più di un aspetto è ancora il caso de La forma dell’acqua17, nel quale il commissario indaga sulla morte (infarto durante un rapporto sessuale) di un esponente politico locale, ritrovato inspiegabilmente nella sua macchina in una zona malfamata. Montalbano svelerà la messa in scena organizzata da un collega della vittima – l’avvocato Rizzo, che poi verrà ucciso – per gestire a suo vantaggio la successione alla guida del partito. E intanto dispiega i tratti principali della sua assiologia: si finge corrotto con lo stesso Rizzo, per far avere poi la “ricompensa” a un testimone che deve operare il figlio malato; fa sparire le finte prove orchestrate da Rizzo; infine tace a colleghi e superiori l’ultima verità, che rivela soltanto alla fidanzata Livia: ad uccidere Rizzo non è stata la mafia, come tutti credono, ma il giovane Giorgio, nipote e amante dell’uomo politico morto d’infarto. Giorgio era con lui al momento del decesso e aveva chiesto aiuto a Rizzo, che invece lo aveva usato per i suoi interessi. Livia non approva: «Perché?... E così ti sei autopromosso da commissario a dio. Un dio di quart’ordine, certo. Ma pur sempre un dio». Ma per Montalbano conta che i colpevoli abbiano avuto la loro punizione: Rizzo ormai è morto, e Giorgio, ragazzo fragile, tormentato e sofferente di nervi, vive comunque la sua pena. Più tardi, Giorgio muore e il commissario capirà che si è suicidato per il rimorso: «Livia aveva ragione. Avevo voluto agire come un dio. Però quel dio di quart’ordine ci aveva indovinato in pieno». Montalbano ha un modo molto personale di applicare la giustizia, ma «solo perché può far conto su una sua etica interiore fortissima»18. L’episodio è esemplificativo anche della tendenza delle storie di Montalbano a trattare aspetti controversi della condizione umana. Montalbano con le sue indagini sperimenta quotidianamente la complessità del mondo sociale, e in un certo senso la fa propria, trasformandola in una disposizione interiore, in un sentire profondo e problematizzato che struttura il profilo etico del personaggio e ne orienta l’agire investigativo. Si percepisce in quel suo «non farsi persuaso» dinanzi alle apparenze, nel voler guardare ai me-
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Il film-tv è tratto dal primo libro di Camilleri su Montalbano. Non è dunque un caso che siano qui definiti alcuni aspetti fondamentali del profilo del personaggio, dall’assenza di legami familiari al suo modo personale di intendere la giustizia. 18 Da un un’intervista all’interprete Zingaretti, riportata in: R. Volpi, “L’etica interiore di Montalbano e la riforma Alfano secondo Zingaretti”, «Il Foglio», 22/03/2011, p. 2.
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andri dell’animo umano, nell’affidarsi alla sua coscienza a fronte di conflitti etici. Questa dimensione di Montalbano, che avverte e rielabora il disagio del mondo che cambia, emerge con particolare evidenza nelle ultime edizioni della serie (2008 e 2011). E sta soprattutto in quell’aria del tempo che pervade L’età del dubbio, l’ultimo dei film andati in onda: nelle inquietudini, i dilemmi, i dubbi della realtà contemporanea, che si riflettono nella delicata fase di passaggio del personaggio (gli incubi sul suo funerale, il tempo che passa, le certezze affettive che si incrinano). Montalbano è un uomo di ieri e un uomo di oggi. Conserva i tratti più tradizionali del carattere latino – l’ancoraggio ai propri luoghi, ai sentimenti, all’eterna fidanzata – e nello stesso tempo assume in sé alcune qualità distintive della/necessarie ad affrontare la/ modernità: il carattere versatile e la capacità di adattamento; l’indipendenza da ogni forma di condizionamento, siano i vincoli affettivi, le pressioni del potere o i limiti della burocrazia; e la disposizione alla complessità, attraverso cui attiva i suoi meccanismi di comprensione e di azione nel mondo sociale. È probabilmente in questa riuscita mistura fra tradizione e modernità che risiede la ragione della popolarità di Montalbano in Italia e in altri paesi. È nella capacità di esprimere un senso del luogo che sta entro i confini culturali e geograficamente situati della “sicilianità”, e nello stesso tempo va oltre, esprimendo risorse di attrazione più universalmente riconoscibili e condivise, quale è il richiamo alla modernità. O, per meglio dire, alla comune condizione esistenziale nei tempi difficili della modernità.
3.4. Identità lontane: Elisa di Rivombrosa e Come l’America Un’ulteriore variazione dei modi in cui si articola il senso del luogo nella fiction si può osservare nei personaggi femminili. Nella fiction italiana – anche se qualcosa sta cambiando negli ultimi anni – le donne sono storicamente meno rappresentate dei maschi nei ruoli protagonistici, e lo sono ancor meno nelle narrative seriali. È dunque più difficile trovare figure di donna con le caratteristiche autentiche dell’eroina, in grado di distinguersi per capacità di presa e di permanenza nell’immaginario popolare. Eppure non c’è forse oggetto su cui varrebbe la pena lavorare di più e meglio per costruire storie a valenza interculturale. Se non altro per la familiarità e la riconoscibilità che nella cultura occidentale (e non solo) attiene alle tematiche della condizione femminile e a quell’insieme di risorse che alle donne maggiormente si richiedono per affermarsi nel mondo: l’orientamento
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TEMPO
DI FICTION
all’autorealizzazione, la determinazione nel conseguimento degli obiettivi, l’aspirazione alla mobilità sociale. Personaggi in questo senso significativi della fiction italiana sono Elisa Scalzi di Elisa di Rivombrosa (serial in 13 puntate del 2003-04, con un sequel nel 2005), e Antonia De Vito di Come l’America (miniserie in 2 parti del 2001). Sono state eroine per non più di una o due stagioni televisive, nonché protagoniste di storie ambientate nel passato, ma restano figure esemplari per lo spessore del loro profilo, la modernità dei comportamenti, e l’elevato grado di universalismo dei valori di cui sono portatrici. Sono donne italiane e di oggi, anche se “lontane”, calate in altri tempi o in altri luoghi: l’Italia del Settecento per Elisa, il Canada negli anni Cinquanta per Antonia19. La storia di Elisa inizia nel Piemonte del 1769, in un ambiente culturale rigidamente gerarchizzato e percorso dalle tensioni dell’aristocrazia contro i tentativi di modernizzare lo Stato di un sovrano illuminato. È una giovane di umili origini, sa leggere e scrivere, ha modi e animo nobili, lavora come dama di compagnia della contessa Ristori presso la tenuta di Rivombrosa. Si innamora del figlio della donna, Fabrizio Ristori, ufficiale dell’esercito francese, che la ricambia. Si innesca così una vicenda d’amore e d’avventura, che porterà i due giovani ad affermare il loro diritto ad amarsi contro le convenzioni sociali dell’epoca e a sventare una congiura di nobili reazionari contro il sovrano. Elisa è il vero motore della narrazione. Il suo sogno impossibile è quello della serva che sposa il nobile, per amore, e per affermare la sua dignità di donna che ha diritto ad essere felice. Un sogno che persegue con determinazione e senza accettare compromessi. Si oppone allo stesso Fabrizio, che prima tenta di sedurla con la forza e poi organizza per lei un matrimonio di facciata, fino a spingerlo a rendere pubblico il loro amore. Finirà in prigione, perderà il bambino che aspettava, dovrà arrendersi più volte all’ostracismo dei nobili contro le nozze... Ma alla fine sarà lei a conquistare per sé e Fabrizio il diritto a unirsi in matrimonio: salva l’amato da una condanna a morte, riesce a far avere al re la lista dei congiurati, e ottiene come ricompensa il titolo di contessa. Cade così anche l’ultimo ostacolo alla realizzazione del suo obiettivo d’amore. Il personaggio di Antonia, in Come l’America, deve invece affrontare un difficile percorso d’integrazione in terra straniera. Antonia è un’ostetrica che in seguito all’alluvione del Polesine nel 1951 si trasferisce in Canada, con la
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Su Elisa di Rivombrosa, cfr. F. Lucherini, “C’era una volta. La serialità in costume tra romanticismo e nostalgia”, in M. Buonanno (a cura di), Lontano nel tempo. La fiction italiana/L’Italia nella fiction, anno XVI, Roma, Rai-Eri, 2005, pp. 127-155; su Come l’America, cfr. M. Buonanno, “Il soffitto di cristallo. Note sui top ten della stagione”, in M. Buonanno (a cura di), Per voce sola e coro. La fiction italiana/L’Italia nella fiction, anno XIII, Roma, Rai-Eri, 2002, pp. 91-99.
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IL
SENSO DEL LUOGO.
I
PROTAGONISTI DELLA FICTION FRA QUI E ALTROVE
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sorella e due figli, alla ricerca del marito emigrato e di cui da tempo non ha notizie. Il suo ingresso nella nuova società, e in un ambiente già di per sé ostile dal punto di vista sociale e territoriale, è costellato di avversità: il marito ha un’altra famiglia, la sorella muore per un aborto clandestino, il figlio adolescente finisce in riformatorio, l’amico italiano Mario muore in un incidente... Ma lei, dando prova di una forza, una capacità di sopportazione, e uno spirito di iniziativa encomiabili, si getta tutto alle spalle e ogni volta prosegue nel suo progetto di vita. Il progetto di Antonia è quello di conquistare una posizione sociale per sé e i suoi figli, di fare di quella terra ostile la loro nuova terra. Al figlio, che non riesce ad adattarsi e la implora di tornare a casa, risponde quasi con durezza: «È questa ora la nostra casa». La dignità e l’ottimismo con cui affronta la vita nonostante tutto, la porteranno infine a realizzare i suoi obiettivi: riesce ad ottenere il diploma di infermiera, viene assunta in ospedale e si unisce ad un medico; la figlia si laurea; il figlio, che in prigione si è dedicato ad attività sportive, diventa campione di mezzofondo con la maglia della nazionale canadese. È l’espressione più forte di una integrazione ormai pienamente raggiunta. Elisa Scalzi e Antonia De Vito abitano mondi sociali diversi, e diversi sono anche gli ostacoli che devono affrontare. Ma sono entrambe donne che lottano per realizzare i loro sogni e affermare le loro individualità. Incarnano archetipi universali e duraturi nel tempo, come quello dell’amore che vince su tutto, del valore del coraggio contro la sorte avversa, dell’eroina forte e determinata che riesce a raggiungere un ideale di felicità e di successo. Nello stesso tempo, e senza troppo concedere agli stereotipi del sentimentalismo o dell’amore materno, hanno il carattere della donna mediterranea forte e appassionata, che di fronte alle difficoltà tira fuori gli artigli e difende con impeto le proprie idee o i propri affetti. L’aspetto identitario è particolarmente evidente in Antonia De Vito, figura incisiva e riconoscibile di donna italiana, anche se dislocata in un ambiente fisico e sociale diverso da quello di origine. La sua italianità risulta anzi esaltata da una cornice ambientale estranea e respingente (il clima durissimo, le difficoltà linguistiche, le precarie condizioni della vita quotidiana degli emigrati), che infine fa di questa eroina un emblema delle tante storie individuali passate attraverso l’esperienza della emigrazione italiana d’oltreoceano. Elisa di Rivombrosa e Come l’America esprimono un senso del luogo che, nel rievocare la memoria e l’identità del nostro paese, dà contestualmente risalto a figure di donne autorealizzative, acquisitive e moderne, che potrebbero abitare in ogni tempo e in ogni luogo.
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TEMPO
DI FICTION
Quest’ultimo rapido sguardo ai profili femminili della fiction italiana aggiunge al quadro complessivo un altro tassello utile a evidenziare la centralità del personaggio protagonista nel determinare il successo di una fiction e nel coltivare sensi del luogo immaginati. Dalla tipicità italiana del maresciallo Rocca, alla sapiente mescolanza di richiami identitari locali e transnazionali nel commissario Montalbano, fino alla dimensione – per così dire – universalistica di personaggi come Elisa Scalzi e Antonia De Vito: affinché una storia riesca ad incontrare il suo pubblico – locale o globale, vicino o lontano – ciò che soprattutto conta sono gli eroi e le eroine, con la loro capacità di esprimere sentimenti, emozioni e valori condivisi, o di incarnare le paure e le speranze, i sogni e le inquietudini, della condizione umana contemporanea. Conta la loro capacità di evocare un “sentire” comune nello spazio e nel tempo.
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4 Gli eroi dei due mondi. Immaginari crime tra Italia e America
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di Silvia Leonzi
4.1. Due fiction ‘compensative’ Pochi anni fa, Carlo Lucarelli sottolineava come oggi gli editori pubblicherebbero qualsiasi storia con protagonista un commissario e un morto. La provocazione dello scrittore sintetizza la situazione attuale della produzione editoriale di genere, rappresentata da quello che per convenzione chiameremo poliziesco, che negli ultimi tempi ha visto un forte incremento, sia sul versante della quantità di titoli pubblicati, sia su quello dei libri venduti. Secondo i dati dell’indagine Multiscopo condotta dall’Istat1, tra il 2000 e il 2006 l’aumento di consumo di libri gialli e noir è stata quasi del 7%: un trend confermato anche per il consumo di fiction di genere poliziesco e noir, che dal 2008 al 2010 ha visto crescere la propria presenza sui teleschermi televisivi italiani dal 19% al quasi 26%, occupando nel periodo 2009-2010 oltre il 40% delle serate dedicate alla fiction2. La rilevanza di questo fenomeno appare significativa non solo relativamente all’industria culturale tout court, ma anche in relazione all’espressione di bisogni che alimentano una domanda collegata allo spirito del tempo, suggerendo alcune riflessioni di carattere generale. La mia intenzione è quella di attuare un confronto tra il poliziesco Usa e quello di casa nostra. Per avventurarmi in questa analisi ho scelto di prendere in esame Don Matteo e Dexter, due prodotti di fiction molto diversi per logiche produttive, culture d’appartenenza, target di riferimento, ma certamente rappresentativi in termini di caratterizzazione di genere. Partendo da Don Matteo, fortunata fiction religiosa, giunta all’ottava edizione e prodotta dalla Lux Vide, si deve anzitutto annotare l’evidenza di 1 2
Rapporto Istat, lettura dei libri in Italia, 10 maggio 2007. Cfr. Geca Italia (a cura di) Annuario della televisione 2011, Roma, Guerini e Associati, 2011.
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TEMPO
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un notevole consenso di pubblico. Del resto, in Italia, caso unico al mondo, la fiction religiosa, che vede tra i suoi protagonisti papi, santi e sacerdoti virtuosi, è ormai garanzia di successo. Come afferma Milly Buonanno:
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Le storie che attingono, in un modo o nell’altro, all’ispirazione religiosa dell’immaginario collettivo nazionale alimentano da anni un filone nutrito della produzione di fiction domestica (…). In un mercato di beni culturali come quello televisivo, caratterizzato da una strutturale condizione di incertezza e dove, malgrado gli sforzi di previsione, molti programmi restano esposti a esiti aleatori, le fiction religiose hanno assicurato, in Italia, quanto di più prossimo si possa immaginare a una garanzia di successo3 .
Don Matteo va in onda per la prima volta dal 7 gennaio al 20 febbraio del 2000 (8 puntate da 2 episodi ciascuna) con una media di 8.286.000 spettatori e con il 30,84% di share. La fiction ha come protagonista don Matteo Bondini, parroco della città di Gubbio. Sin dalla prima puntata vengono chiariti i toni della narrazione e vengono disseminati gli indizi da cui nasceranno le dinamiche interne alla storia: Don Matteo non è un prete come gli altri, per varie ragioni. Egli infatti ha il dono dell’intuizione, una dote innata che lo assimila più a un acuto detective che a un mite pastore di anime. Don Matteo non si limita a pregare per i suoi parrocchiani, ma sente il bisogno, più umano che divino, di fare qualcosa di più; se non fosse tutelato dalla tonaca, si potrebbe quasi dire che egli tenda ad “impicciarsi” dei fatti che accadono attorno a lui, poiché, come nel caso di altri famosi personaggi delle fiction investigative, quali Jessica Fletcher (La signora in giallo) o Hercule Poirot, anche il sacerdote di Gubbio ha la capacità di trovarsi spesso al posto giusto nel momento giusto, ovvero in prossimità di un delitto. Il primo aspetto di Don Matteo di cui veniamo a conoscenza, dunque, è la sua natura curiosa e per molti versi “ribelle”. Infatti, più volte nel corso della narrazione egli ripete che, in quanto sacerdote, non è costretto ad attenersi alle leggi degli uomini e quindi è al di sopra delle regole e delle procedure, che invece il maresciallo dei carabinieri Nino Cecchini, interpretato da Nino Frassica, cui è affidata la linea comica della narrazione, deve rispettare. La tonaca che Don Matteo è costretto a indossare per volere del suo Vescovo, e che in teoria dovrebbe stemperare l’esuberanza del parroco, in realtà funge in alcuni momenti topici da passepartout. Inoltre, anche visivamente, se nei momenti di quiete il vestito talare conferisce all’atletico 3
M. Buonanno (a cura di), La bella stagione. La fiction italiana, l’Italia nella fiction vol. 5, Roma, Rai-Eri, 2007, pp. 89-90.
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GLI
EROI DEI DUE MONDI. IMMAGINARI CRIME TRA ITALIA E
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Terence Hill un aspetto più tradizionale e innocuo, nei momenti d’azione si trasforma quasi in un mantello da supereroe, lasciato svolazzare al vento mentre lui corre in bicicletta per battere in volata i carabinieri di zona. Passando al secondo caso di studio, Dexter, si tratta di una serie americana prodotta da Showtime, andata in onda per la prima volta nell’ottobre del 2006 negli Stati Uniti e approdata in Italia un anno dopo, l’11 ottobre 2007, sulle reti satellitari Fox Crime e Fx, riproposta in chiaro da Italia 1 e da Cielo. Il plot narrativo è mutuato da un romanzo di Jeff Lindsay, La mano sinistra di Dio4, da cui è stata tratta piuttosto fedelmente la prima stagione della fiction. La serie narra le vicende del comune cittadino Dexter Morgan, alle prese con la difficile coesistenza con il proprio spiccato lato d’ombra: Dexter si presenta al pubblico come un rispettato ematologo della polizia di Miami di giorno, capace di trasformarsi in uno spietato serial killer di notte. Le peculiarità che fanno di Dexter un esemplare unico, e dunque interessante per la nostra analisi, sono molte. In primo luogo, a differenza dei casi di schizofrenia e sdoppiamento della personalità di cui è ricca la letteratura di genere, da Dottor Jekyll e Mr Hyde in poi, egli vive il dramma quotidiano di un’esistenza divisa in due, essendone pienamente consapevole. Nel corso della serie seguiamo i suoi impossibili tentativi di mettere in atto strategie, affinate nel corso degli anni, allo scopo di normalizzare ciò che di irrazionale lo tormenta: l’impulso irrefrenabile ad uccidere, incarnato simbolicamente da quello che lui stesso definisce il passeggero oscuro che non lo abbandona mai. In Dexter, alla legge (o alla coscienza) si sostituisce il codice, ovvero un insieme di regole che gli sono state insegnate dal padre, Harry Morgan, poliziotto disilluso, che lo addestra a non nuocere, all’insegna di una morale del tutto personale, in cui tuttavia non è lecito fare del male alle persone comuni, ma solo ai “cattivi”. Harry è una sorta di Mentore che, salvato il piccolo Dexter dal lago di sangue in cui si ritrova immerso come un tragico Mosè postmoderno, in seguito al cruento omicidio della madre avvenuto in sua presenza, non lo censura per i suoi riprovevoli istinti di morte, ma lo istruisce su come incanalare l’energia libidica sprigionata da quell’evento. Dopo aver presentato i due casi di studio, la mia intenzione è quella di effettuare una sorta di accostamento, andando oltre il mero esercizio di stile (chi è il buono e chi è il cattivo). Suonano opportune in tal senso, applicate alla fiction televisiva, le parole di Kracauer quando sostiene che: «il film non è mai prodotto da un 4
J. Lindsay, Darkly Dreaming Dexter, London, Orion, 2004 (trad. it. La mano sinistra di Dio, Milano, Sonzogno, 2005).
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individuo, ma è un’opera collettiva e socialmente influenzata, in cui passato e presente si rincorrono continuamente e in cui si nascondono le tendenze, i modi di pensare, l’immaginario di una società»5. Se è vero, dunque, che i prodotti dell’ingegno sono da un lato lo specchio della società che li produce, e dall’altro contribuiscono a costruire un determinato habitus, per cercare di capire che tipo di rapporto intercorre tra un determinato paradigma culturale e alcuni grandi temi dell’esistenza (quali la colpa, l’espiazione e la redenzione, la morte) è utile un’esplorazione che tenga conto delle caratteristiche di un determinato immaginario. L’obiettivo è anzitutto quello di osservare le relazioni che si instaurano tra forme universali, archetipiche, comuni alle storie che hanno per oggetto queste grandi questioni e i contenuti prodotti da una particolare configurazione sociale e culturale in uno specifico periodo storico, prima e dopo essersi trasformati in stereotipi narrativi. Le condizioni che influenzano le trasformazioni della narrazione dunque sono strettamente connesse al contesto culturale e sociale in cui quel dato prodotto è stato realizzato: un gruppo vede ciò che gli è dato vedere e desiderare; la fiction televisiva, così come il cinema, mostra non il “reale”, ma quelle elaborazioni del reale che il pubblico è in grado di accettare e riconoscere. In questo caso, le narrazioni audiovisive svolgono una doppia funzione: sedimentano le immagini esistenti e allo stesso tempo ne creano di nuove, allargando i confini dell’immaginario. In sostanza, parlando di fiction televisiva si deve essere consapevoli che si ha a che fare con un prodotto che, al pari di altri oggetti culturali, richiede un accorto avvicinamento sul piano teorico e analitico, dal momento che alla sua concretizzazione culturale partecipa un multi-universo di soggetti in stretta connessione. Come già rilevato da Griswold6, per analizzare un qualsiasi artefatto (materiale o simbolico) è necessario adottare un modello in grado di collocare l’oggetto entro un più ampio sistema di relazioni. Tale prospettiva è già stata sviluppata da Bourdieu7, laddove si enfatizza il ruolo giocato dal campo, e quindi dalle posizioni e dalle prese di posizione degli agenti al suo interno, nella determinazione di un prodotto culturale. Questo approccio ha il merito di valutare relazionalmente i soggetti (ad es. il regista, gli sceneggiatori, le case di produzione, gli attori, il pubblico etc.) che, in genere, tendono ad essere considerati ben distinti e autonomi, in un’ottica di separazione tra il piano produttivo e quello della ricezione, perseguendo 5 S. Kracauer, Cinema tedesco. Dal “Gabinetto del dottor Caligari” a Hitler, Milano, Mondadori 1954, p. 233. 6 W. Griswold, Sociologia della cultura, Bologna, il Mulino, 1997. 7 P. Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Milano, il Saggiatore, 2005.
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l’obiettivo di de-naturalizzare quel processo di dissimulazione che, secondo Bourdieu, ha accompagnato lo studio dei grandi autori e dei grandi lavori. Declinando tale premessa in termini più prossimi al nostro caso di studio, la mia intenzione è quella di valutare quanto una fiction, se intesa come testo, sia il risultato di modelli narrativi e registri stilistici intrinseci ai generi cui si ispira, mentre se considerata come prodotto, sia il risultato dei valori culturali e sociali del contesto di creazione. In questo senso, ancora una volta richiamandomi a Bourdieu, ritengo che una fiction televisiva sia un oggetto strutturato e strutturante: in essa, infatti, convergono gli stilemi dei prodotti che l’hanno preceduta e delle strategie che nel passato si sono rivelate vincenti, che si riferiscono al medesimo campo simbolico di appartenenza; al tempo stesso, però, una fiction non si limita a riprodurre in forme già standardizzate e riconosciute, ma può offrire soluzioni sperimentali e innovative a molteplici livelli (tecnici, autoriali, produttivi etc.) che si riverberano con successo presso gli addetti ai lavori. Su quest’ultimo punto in particolare è necessario precisare che la dimensione strutturante non è ascrivibile esclusivamente a un processo di innovazione, anzi è più probabile che essa indichi una forma di riproduzione, una logica produttiva quanto mai essenziale all’interno di un campo culturale8. Occorre ricordare, inoltre, che l’universo costruito e rappresentato dalla fiction può essere considerato verosimile, né vero né falso, una cornice in cui la realtà è, in modi molto diversi messa in gioco, discussa, contestata, ma anche limitata, compressa, racchiusa entro un ordine simbolico9. Basandoci su considerazioni che attengono alla fiction come prodotto, cioè come portato dei valori culturali e sociali del contesto di creazione, possiamo tentare un primo accostamento tra le due fiction e i loro immaginari di riferimento. Iniziando a riflettere sugli elementi di contesto, osserviamo come in Don Matteo, il mondo ordinario appaia come dovrebbe essere e i valori che dominano la scena siano quelli rassicuranti, in grado di compensare le delusioni e la percezione di incertezza sperimentata dagli spettatori contem8
Per approfondire il discorso relativo al rapporto tra innovazione e qualità della fiction rimandiamo a M. Buonanno, La qualità della fiction. Dal prodotto all’ambiente produttivo, in M. Buonanno (a cura di), Realtà multiple. Concetti, generi e audience della fiction TV, Napoli, Liguori, 2004. È interessante però osservare come l’introduzione di aspetti innovativi non sempre si trasformano in pratiche standardizzate all’interno del campo produttivo. Si pensi, ad esempio, alla fiction americana Lost. Su questo argomento rimandiamo in S. Leonzi, Lost in Mithology. Dal naufragio con lo spettatore al naufragio dello spettatore, in R. Andò (a cura di), Lost. Analisi di un fenomeno (non solo) televisivo, Acireale-Roma, Bonanno editore, 2011, p. 50. 9 Cfr. M. Buonanno, Narrami o diva. Studi sull’immaginario televisivo, Napoli, Liguori, 1994; M. Buonanno, Leggere la fiction. Narrami o diva rivisitata, Napoli, Liguori, 1996; S. Leonzi, La fiction, Napoli, Ellissi, 2004.
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poranei. L’universo di Don Matteo è popolato da personaggi che, con le loro macchiette, rinviano – mettendo in piedi piccole narrazioni estemporanee – alle atmosfere della Commedia all’italiana e del Neorealismo rosa10. Il bene trionfa sempre sul male, la compassione vince sul cinismo e le guide morali/ spirituali (sia laiche che religiose) sono sempre degne di fiducia e rispetto. Lo stereotipo del prete-investigatore non è una novità nel panorama della fiction italiana; il suo ruolo è quello di stabilire un dialogo terreno tra religione e spettatori, esaltando la funzione sociale del divino11. Nel prete-investigatore è rintracciabile una “vocazione”, non solo religiosa ma piuttosto assimilabile al dovere professionale di cui parla Max Weber12, che chiarisce, più in generale, perché l’universo narrativo costruito da certe fiction televisive italiane (trasmesse soprattutto da Rai1) sia focalizzato su determinati ambiti istituzionali e su particolari professioni e perché, nel caso specifico di Don Matteo, un ruolo che dovrebbe assestarsi sul confine puramente spirituale sconfini verso i territori del crimine. È plausibile che la ragione per cui molte fiction assumono una connotazione professionale abbia a che fare con il fatto che queste figure, nella realtà quotidiana, non godono sempre di una buona reputazione. L’audience di tale fiction sembra abituata a narrazioni che, enfatizzando la dimensione eroica di un singolo individuo in divisa, nel ruolo dell’investigatore, offrono una storia di vita esemplare in una società sempre più cinica, anti-eroica, disillusa13. È evidente in quest’ottica la capacità del prodotto culturale di restituire un senso alla realtà e di stabilire un patto con i suoi spettatori (in quanto prodotto e in quanto testo) attraverso precise strategie che, nel caso di Don Matteo, evidenziano una sorta di laicismo debole, laddove i poliziotti appaiono, di fronte ai successi del prete-investigatore, figure secondarie proprio nel loro campo di pertinenza. Anche Dexter, esattamente come Don Matteo, sembra vivere il proprio lavoro come una vocazione, un Beruf, mettendo a disposizione da un lato le sue competenze scientifiche di ematologo nel compimento della sua missione di giustiziere solitario e dall’altro il “know-how” acquisito nella sua attività di serial killer. In questa fiction il senso del bene e del male risultano invertiti, 10 O. De Fornari, L’alchimia del chiaroscuro nella commedia all’italiana, in M. Morcellini, P. De Nardis (a cura di), Società e industria culturale in Italia, Roma, Meltemi, 1998. 11 La religione smette di soddisfare una funzione civica nel momento in cui non è in grado di dialogare con la comunità che la circonda. Si veda R. Wuthnow, Mobilizing Civic Engagement: The Changing Impact of Religious Involvement, in T. Skocpol, M.P. Fiorina (a cura di), Civic Engagement in American Democracy, Washington, Brookings Press, 1999. 12 M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Milano, Bur, 1997, p. 77. 13 M. Buonanno, Storie di vite esemplari. Le biografie, in M. Buonanno (a cura di), Se vent’anni sembran pochi. La fiction italiana, l’Italia nella fiction. Anni ventesimo e ventunesimo, Roma, Rai-Eri, 2010.
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coinvolgendo lo spettatore negli incubi e nelle contraddizioni dell’antieroe protagonista, con una strategia di seduzione che omicidio dopo omicidio, induce a sviluppare un sentimento di identificazione sempre più coinvolgente. Un’ulteriore riflessione riguarda la natura dei sentimenti che le vicende raccontate sono in grado di suscitare. Nonostante possa apparire paradossale, anche la fiction prodotta da Showtime propone un mondo rassicurante, offrendo una chiave di accesso al turbamento. Infatti, nel momento in cui l’altro, lo straniero, il cattivo, il serial killer è prima di tutto e di tutti Dexter stesso, ha luogo un processo di riconoscimento dell’Ombra, che ne attenua il lato più perturbante e la rende più abitabile. Non possiamo non tenere conto del fatto che Dexter nasce negli Stati Uniti dove strategie produttive e distributive di ampio respiro coincidono essenzialmente con lo sforzo di costruire una narrazione in cui sia possibile rintracciare tematiche di interesse universale, trame e personaggi dalla natura fortemente archetipica, basati su valori e ideali facilmente “esportabili”. Tale aspetto è strettamente connesso alle caratteristiche intrinseche della società americana, che in virtù della sua significativa differenziazione sociale, culturale, etnica richiede ai suoi produttori e creatori di fiction di recuperare l’idea di un anthropos universale14. Il modo migliore per conseguire un tale obiettivo, in un mercato interno che si presenta estremamente competitivo, è probabilmente quello di creare un personaggio innovativo o iconoclasta. La fascinazione del male tout court è un tema fortemente presente nell’industria culturale americana, in particolare in quella cinematografica, ma costituisce anche il preludio del racconto di una realtà altra: la costruzione di un tessuto connettivo orientato quasi archeologicamente alla ricerca del “seme del male”, l’Ombra primordiale da cui tutto deriva e da cui nessuno sfugge. In Dexter la colpa soggettiva e un destino personale già segnato danno vita a un personaggio complesso, eticamente orientato, che simula su un palcoscenico la vita che dovrebbe vivere, mentre nel retroscena15 oscilla tra il completo abbandono del sé all’ombra del serial killer e l’assoluta razionalizzazione di tempi, spazi, relazioni attraverso il maniacale rispetto del suo personale codice. In questo testo la società dello spettacolo dialoga con l’etica protestante, all’interno di una cornice sociale in cui ordine e controllo costituiscono i paradigmi di comportamento dominanti. Potremmo definire Don Matteo e Dexter, per certi versi, come due “fiction compensative” rispetto a determinati valori dell’ethos e dell’epos nazionale: la prima orientata a supplire alla percezione di inadeguatezza delle istituzioni consacrate all’ordine e al controllo sociale, 14 15
Cfr. E. Morin, Lo spirito del tempo, Roma, Meltemi, 2002. Cfr. E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, il Mulino, 1969.
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la seconda a colmare il senso di vuoto generato dalla razionalità e dalla solitudine (ancora una volta tipicamente protestante) di una cultura destinata da sempre a fare i conti con le proprie contraddizioni.
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4.2. Crime after crime Avendo ordinato le due fiction secondo l’asse che contrappone le macrocategorie di provinciale (Don Matteo) e cosmopolita (Dexter), vorrei ora azzardare altre riflessioni relative alla natura testuale delle fiction, intese cioè come il prodotto dei generi cui si ispirano. È esattamente in questa prospettiva che vorrei utilizzare per la mia analisi due principali categorie, che sono quella di giallo e quella di noir. Lasciando da parte, almeno per il momento, la complessa questione della definizione, possiamo far rientrare nel primo genere i racconti di fatti criminosi e misteriosi che prevedono una soluzione, un abile investigatore, che spesso agisce affiancando le forze dell’ordine, una vittima e un assassino. Soffermandoci sul piano dell’azione, osserviamo che nella maggior parte di queste storie il delitto è già stato commesso e dunque l’attenzione è rivolta alle fasi dell’indagine, alla scoperta di indizi, alle intuizioni investigative che conducono alla cattura del colpevole, o, in alcuni casi, al lato umano della vicenda, e dunque alle variabili psicologiche dei protagonisti dei crimini e al contesto sociale in cui il delitto viene commesso. Dall’altezzoso e stravagante Sherlock Holmes al burbero e introverso Maigret, all’esteta e amante della buona cucina Nero Wolf, allo stralunato Colombo, la lista di eroi positivi, che, usando metodi e filosofie di indagine completamente diverse tra loro, riescono a sciogliere l’enigma iniziale e ad assicurare il colpevole alla giustizia, è certamente lunga. Sul versante della produzione culturale di genere, nel nostro paese lo spazio riservato a questo tipo di letteratura è quello del romanzo d’appendice, almeno fino a quando, nel 1929, la Mondadori pubblica La strana morte del signor Benson di Van Dine. Da questo momento in poi in Italia il giallo identificherà quel genere che al di fuori dei nostri confini continuerà ad essere definito poliziesco, articolandosi in vari sottogeneri, il più importante dei quali è l’hard boiled, la cui origine va fatta risalire alla fine degli anni Venti in America. In queste storie il delitto in sé assume una collocazione marginale all’interno di vicende che si svolgono in ambienti degradati e corrotti e la cui efficacia narrativa è affidata ad accurate rappresentazioni psicologiche dei protagonisti. In un mondo di finzione tanto più realistico e crudo quanto più dominato dal caos e dalla violenza quotidiana, l’investigatore razionale, positivo e vincente subisce una decisa
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trasfigurazione e assume i tratti da “duro” di Sam Spade, creato da Dashiell Hammett o di Philip Marlowe, ideato da Raymond Chandler, segnando la transizione dal giallo classico verso il “giallo all’americana”. Il lato apollineo del detective raziocinante e dunque vincente si arricchisce di un lato oscuro fatto di disillusione, cinismo e smarrimento, in una cornice nihilista dominata dalla sconfitta e dalla perdizione in cui la lotta contro il male è sempre perdente, in quanto è anzitutto una lotta contro la propria ombra. È direttamente dall’hard boiled che discende il genere noir, la cui definizione è al centro di discussioni che finiscono per assestarsi su posizioni molto differenti. Storicamente il termine, coniato in Francia nel 1946 da Nino Frank e Jean-Pierre Chartier, viene utilizzato per identificare i film polizieschi prodotti dalla cinematografia americana, seppure gli autori di queste pellicole non abbiano ancora acquisito la consapevolezza di far parte di una corrente stilistica e culturale. Del resto, le numerose contaminazioni tra genere e sottogeneri rendono estremamente complesso qualunque sforzo di circoscrivere il campo di azione del noir, tanto che, da un lato potremmo parlare quasi di un metagenere o transgenere che attraversa epoche, media, paesi, stili, linguaggi, «un ‘filo nero’ che sembra dipanarsi da una pratica, da una movenza dello spirito, da un modo di guardare e di sentire il mondo e gli uomini che emerge e sparisce, balena e scotta, acutamente percepibile e, insieme, inafferrabile»16, dall’altro, addirittura abbandonare l’idea che si tratti di un genere specifico. La sua definizione non si basa su regole stilistiche precise, ma «sono l’alienazione, l’angoscia esistenziale, il dolore mentale più che fisico, la “morte che ti porti dentro” a costruire il noirceur, un’atmosfera di pessimismo e mancanza di speranza che avvolge tutti gli antieroi delle storie nere: le dark lady, i detective, i poliziotti, i gangster e i serial killer»17. Proprio queste caratteristiche hanno fatto sì che quello che, con un neologismo viene definito noirceur, a partire dal dopoguerra, in parallelo con la crisi della società moderna e con l’emergere di un universo dominato dall’opacità e dall’incertezza, divenisse il mood prevalente di molte narrazioni centrate su vicende criminose. È in questo contesto che il noir inizia a venare di pessimismo il giallo classico. Attraverso una forma di realismo visionario, la quotidianizzazione del male si svela nella miriade di piccole situazioni estreme che nascono dall’esasperazione delle ossessioni quotidiane. La semplice differenza cromatica che distingue il giallo, solare, apollineo, dal nero, oscuro e dionisiaco, 16
G. Cesareo, “Sulle tracce di un filo nero”, in Marina Fabbri, Elisa Resegotti (a cura di) I colori del nero, Milano, Ubulibri, 1989, p. 15. 17 G. Lucci, Noir, Milano, Mondadori Electa, 2006, p. 6.
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è espressione di due immaginari sostanzialmente diversi. Il pensiero positivista, su cui sono state costruite le fondamenta della società moderna, presuppone che a una causa segua un effetto, in un tempo lineare e amico, all’interno di uno spazio definito; analogamente, nelle storie gialle lo svelamento del colpevole avviene all’interno di un luogo chiuso, dopo aver radunato tutti i sospetti. La razionalità e i meccanismi logici costituiscono le chiavi privilegiate per entrare nella mente del criminale e neutralizzare i suoi tentativi di mettere in atto il delitto perfetto. Non ci si preoccupa di descrivere il crimine, che è già stato compiuto; al centro della trama sono piuttosto i ragionamenti logici, le capacità deduttive, e gli insight che conducono l’ispettore alla deduzione finale. Secondo un andamento lineare, al delitto segue l’indagine, che procede con l’individuazione del responsabile e con la sua cattura e solo alla fine il vero colpevole, che nei gialli più riusciti è spesso il più insospettabile, viene scoperto. Sulle orme del viaggio dell’eroe, l’investigatore, muovendosi tra nemici e alleati, alla fine raggiunge il suo scopo che è quello di sconfiggere il male, ripristinando l’equilibrio violato della comunità. Nel noir, al contrario, il protagonista è quasi un antieroe, la società rappresentata appare malata, decadente, e al suo interno il crimine non ha una natura esogena ma è diffuso come un virus in un ambiente degradato e corrotto. La percezione di un mondo fuori controllo, sfuggito ormai alle illusioni della modernità eroica, in cui l’uomo era artefice del proprio destino, è un dato costante. Il non razionale, l’immaginale, le zone oscure dell’animo umano popolano la quotidianità di individui sospesi in una terra di mezzo tra bene e male, salvezza e perdizione, dove quasi mai c’è speranza di redenzione. Il detective condivide con il resto della comunità questo non luogo al confine tra legalità e illegalità, che diventano sempre più difficili da distinguere, così come i buoni e i cattivi, l’eroe e l’antagonista, in un gioco di proiezioni psicologiche che restituisce uno scenario ambiguo, inquietante, contraddittorio. La crisi della modernità, con i suoi silenzi angoscianti sul destino dell’uomo, con la sua perdita di senso, con la paura per il futuro e l’incertezza del presente si riflette perfettamente nello specchio scuro del noir. Se ogni giallo che si rispetti si conclude con la soluzione dell’enigma e con il ritorno al mondo ordinario, nel noir il finale non coincide con il ripristino di un equilibrio turbato dal crimine e l’angoscia liberata dalla narrazione non si dissolve.
4.3. Don Matteo vs. Dexter Morgan Nella mia disamina iniziale avevo messo in evidenza alcune significative differenze tra Italia e Usa rispetto a questo genere. Vorrei ora tentare un
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ragionamento in merito alle caratteristiche più specifiche dei due contesti e delle due fiction prese in considerazione. In generale, se osserviamo la produzione dei due paesi degli ultimi dieci anni ci rendiamo immediatamente conto che mentre in Italia, a parte qualche timida escursione che perlopiù ha coinciso con la messa in onda su Sky (ad esempio Romanzo criminale, Il mostro di Firenze, Faccia d’angelo) e che in diversi casi ha avuto per oggetto fatti criminosi tratti dalle vicende storiche, la maggior parte delle trame che si rifanno al genere poliziesco sono più vicine alle caratteristiche del giallo che non a quelle del noir, mentre per quanto riguarda gli Usa, ovviamente tenendo conto delle differenze quali-quantitative derivanti dalle caratteristiche del mercato, il genere crime appare molto più variegato e non disdegna i toni crudi e realistici del noir. I due casi che ho scelto di considerare, non direttamente comparabili sul versante della produzione, del pubblico e della natura totalmente differente delle narrazioni, tuttavia, possono essere considerati in maniera emblematica come due esempi in cui emergono chiaramente le differenze tra giallo e noir. Sia nel giallo (Don Matteo) che nel noir (Dexter) il fulcro della narrazione è rappresentato dal tema del male, ma questo aspetto essenziale assume differenti manifestazioni e caratteristiche, permettendoci di intravedere in filigrana il modo in cui viene affrontato il tema dell’Ombra nel paradigma culturale italiano, cattolico e tradizionale, e in quello americano, laico (o protestante) e pragmatico. L’unico elemento che Don Matteo ha in comune con Dexter Morgan è il suo ruolo di investigatore “per caso”, derivante tuttavia da una stringente necessità. Il primo è al servizio di Dio e dei suoi fedeli, il secondo è al servizio del suo personale codice di sopravvivenza e vendetta. Il mondo descritto in Don Matteo è un mondo ordinario che vuole restare tale. La perturbazione (o il perturbante) che minaccia la quiete è solo passeggera e la certezza della risoluzione garantisce una sorta di catarsi che, a fine episodio, coinvolge sia i protagonisti delle vicende che lo spettatore. Il senso della comunità, l’equilibrio delle relazioni, le schermaglie apparenti, la tranquillizzante riconoscibilità del male e la distinzione tra buoni e cattivi sono gli ingredienti di un prodotto di successo. Nella fiction di Rai1 il male non necessita di alcuna forma di integrazione, al contrario viene oggettivato ed eliminato come un corpo estraneo alla comunità che, attraverso Don Matteo e i suoi aiutanti, è in grado di produrre efficaci anticorpi. Nel caso di Dexter, soprattutto nella prima serie, dove le caratteristiche del personaggio si mostrano in purezza, senza essere ancora contaminate dalle scelte obbligate che derivano da esigenze narrative di lunga serialità, il protagonista viene presentato come un personaggio alessitimico, ovvero incapace di provare emozioni e dunque costretto a ricreare artificialmen-
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te almeno i sentimenti più basilari, come l’amore, la rabbia, l’orrore e la compassione, allo scopo di condurre senza destare troppi sospetti, la metà socialmente accettabile della propria esistenza. Ed è proprio questa sua capacità di mimesi a renderlo tanto inquietante e al tempo stesso attraente: quella stessa parvenza di serenità borghese che nasconde il baratro, alla base di altre fiction di successo come Desperate Housewives o la più recente Breaking Bad, laddove il perturbante si introduce nella vita quotidiana dei personaggi esattamente sotto forma della più normale banalità. Per quanto riguarda la struttura narrativa, ogni singolo episodio segue due direttrici principali: una autoconclusiva che vede l’emergere di figure secondarie, in genere la preda di turno che Dexter identifica ed elimina nella stessa puntata, e l’altra trasversale, che abbraccia l’intera serie in cui si dipana il confronto/scontro con il vero antieroe/antagonista della stagione. Dexter diventa così una sorta di vendicatore metropolitano che interviene con determinazione laddove i cavilli burocratici e le briglie della legalità frenano le azioni della polizia ordinaria. A differenza dei supereroi classici, però, il fine principale che lo spinge a vagabondare nelle vie notturne di una Miami desolata e periferica, non è ristabilire l’ordine o riparare un torto, ma placare i turbamenti del proprio lato d’ombra. Quindi, se le varie sottotrame delittuose vengono aperte e chiuse con la stessa facilità con cui un qualsiasi impiegato archivierebbe una pratica nello svolgimento del proprio lavoro, l’architrave principale, il vero motore delle vicende, rimane in sospeso fino all’epilogo finale e, spesso, anche in quel caso non concede un finale rassicurante e catartico, ma anzi lascia lo spettatore orfano di ogni certezza. Ed è proprio per questo senso di ineluttabilità e vulnerabilità che Dexter può essere annoverato nella schiera dei prodotti noir che l’industria culturale americana ha copiosamente messo in cantiere negli ultimi dieci anni. Don Matteo, d’altra parte, è un perfetto esempio di “giallo all’italiana”. Se una peculiarità della “commedia all’italiana” è il riso amaro, la venatura drammatica che attraversa anche le trame più leggere, nelle fiction appartenenti al genere giallo il procedimento è inverso: la drammaticità degli eventi delittuosi è smorzata dalle atmosfere comunitarie del locus amoenus in cui è inserita la narrazione e dal folto numero di personaggi e sottotrame che, utilizzando il registro comico, contribuiscono a rendere meno seriose sia le indagini sia il profilo del detective classico. Del giallo di tradizione Don Matteo rispetta la prevedibilità della struttura narrativa, tipicamente ripartita in tre fasi riconoscibili: delitto-investigazionisoluzione, ed è proprio questa prevedibilità delle leve che muovono l’universo di Don Matteo a determinarne per certi versi il successo:
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Nella serie l’utente crede di godere della novità della storia mentre di fatto gode per il ricorrere di uno schema narrativo costante ed è soddisfatto dal ritrovare un personaggio noto, con i propri tic, le proprie frasi fatte, le proprie tecniche di soluzione dei problemi (…). La serie consola l’utente perché premia le sue capacità revisionali: l’utente è felice perché si scopre capace di indovinare ciò che accadrà, e perché gusta il ritorno dell’atteso18.
Un’altra caratteristica tipica del giallo all’italiana è la presenza costante della divisa, intorno a cui si dipanano le storie, dal camice del medico, alla toga dell’avvocato, fino all’abito talare del sacerdote. Don Matteo, con il suo aspetto bonario e rassicurante, rappresenta una figura totalmente positiva, apollinea, senza macchia, incapace di condanna morale, ma in grado di provare solo compassione verso i più deboli che si sono smarriti nell’ombra e che lui, grazie alla luce (divina) della ragione, riesce a illuminare e quindi rendere visibili, anche agli occhi della giustizia (terrena): «lui, Terence-Matteo, chiude ogni caso con un sermoncino alla piccola folla che immancabilmente si raduna. La telecamera va in primo piano sugli occhietti cerulei e sì, il punto di riferimento sale altissimo, diventando abbastanza divino»19. Dexter nella sua personalità schizofrenica, e pure cosciente, di vendicatore vive invece in due universi separati: in uno è un padre affettuoso, un fratello premuroso, uno scienziato scrupoloso, nell’altro è uno spietato serial killer, implacabile ed estremamente determinato. Denominatore comune del genere noir è la complessità del mondo interiore dell’eroe, in cui convivono l’ambiguità dei sentimenti e un continuo oscillare tra sogno e realtà, rimozione del ricordo e coscienza, tanto da giustificare la definizione del noir come “luogo dell’anima”. I personaggi che popolano il mondo di Dexter sono tutti, secondo diverse sfumature, all’insegna del noir: hanno vite spesso sconclusionate, un passato da nascondere, hanno subìto traumi, esclusioni, sconfitte. E naturalmente Dexter è il più noir di tutti: è individualista, conta solo sul proprio coraggio e sulle proprie risorse, è un abile conoscitore del territorio, è un segugio infallibile che riesce a identificarsi con l’avversario e a leggere nella sua anima. L’esistenza di Dexter è tragica, segnata da un destino fatale di cui, in una forma archetipica e primordiale, gli elementi dell’acqua e del sangue
18
U. Eco, L’innovazione nel seriale, in V. Innocenti, G. Pescatore, Le nuove forme della serialità televisiva. Storia, linguaggio e temi, cit., pp. 93-101, qui pp. 94-95. Da U. Eco, Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani, 1985, pp. 127-142. 19 A. Dipollina, Don Matteo, il trionfo della fiction canonica, in “la Repubblica”, 12 settembre 2009, p. 57.
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scandiscono le fasi principali20. Nella serie inoltre si fa ricorso ad alcuni espedienti registici tipici del genere noir. Anzitutto, il voice over, attraverso cui Dexter ci fa partecipi dei suoi piani ma anche delle sua vertigine interiore, che induce lo spettatore ad identificarsi con la sua personale prospettiva e quasi a parteggiare per lui. Altra strategia utilizzata è quella della soggettiva, che ancora una volta, interiorizzando il punto di vista della narrazione, dà a chi guarda la sensazione di trovarsi al posto del protagonista e di osservare la realtà attraverso i suoi occhi. Infine non manca il ricorso al flashback, che sottraendo il racconto a una tranquillizzante linearità, colloca l’intera vicenda nel quadro di un’opprimente fatalità e crea con lo spettatore una sorta di complicità fondata sulla pre-visione di un destino di sofferenza e sulla ineluttabilità del tragico succedersi degli avvenimenti. Al termine di questa breve disamina, è evidente che le due fiction considerate, costruite attorno a due protagonisti assimilabili sul versante del ruolo ricoperto e della personale vocazione a ristabilire l’ordine turbato dai criminali in cui s’imbattono, pur in una fase d’incertezza e contaminazione dei generi, sono attribuibili con una certa chiarezza rispettivamente al giallo e al noir. Per quanto riguarda la messa in onda delle due fiction in Italia, l’appartenenza al giallo piuttosto che al noir si sposa in modo del tutto speculare a una vocazione generalista nel caso di Don Matteo e a una collocazione sui canali tematici nel caso di Dexter. Resta da chiedersi se, al di là delle questioni relative agli investimenti economici, la scarsità di fiction nostrane rubricabili come noir, e comunque trasmesse soltanto dalla tv a pagamento, non sia il segnale di un patto comunicativo in cui la fiction, non solo religiosa, si arroga oggi la mission pedagogica che in passato era distribuita tra i vari generi. Un patto comunicativo che, almeno per quanto riguarda lo sguardo sul Male e la ricognizione dell’Ombra, preferendo racconti rassicuranti e consolatori, sembra rivolgersi a uno spettatore non adulto, da tenere religiosamente lontano dalla seduzione del male, nascondendo una concezione ancora pericolosamente e sotterraneamente incline alla concezione dei powerful media.
20 «L’elemento narrativo dell’acqua non presenta soltanto la connotazione esistenziale dell’illusione di serenità tramutata in tragedia, ma anche quella politica di mito sociale del benessere che si risolve invece in strumento di potere e di oppressione» S. Rulli, Roman Polanski. Il Castoro Cinema, Firenze, La Nuova Italia, 1975.
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5 Raccontare l’altro. La rappresentazione delle diversità
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di Fabio Corsini
5.1. Immaginare la diversità La diversità riguarda tutti. È un tratto fondamentale delle società contemporanee che chiede di essere preso in considerazione da ogni singolo individuo, così come dalle istituzioni politiche e culturali. A tutti noi, diversi e normali, sia in quanto singoli individui sia in quanto membri appartenenti ad una collettività, accade di entrare in contatto – diretto o mediato – con alcune tra le molteplici forme che la diversità assume. Nella consapevolezza che le narrative della televisione configurano una delle forme principali di mediazione dell’esperienza e della conoscenza nel mondo attuale, questo contributo si propone di osservare il modo in cui la diversità viene raccontata e declinata nella fiction italiana contemporanea. L’incontro con la diversità non è peraltro una novità della contemporaneità quanto, piuttosto, una costante dell’esperienza umana. A cambiare sono innanzitutto le definizioni, e cioè le parole che usiamo per esprimerla, così come le specifiche declinazioni in cui si articola: elementi dai quali dipendono i giudizi, positivi o negativi, che sulle diversità si esprimono, e di conseguenza le strategie che vengono adottate per confrontarsi e dunque convivere con essa. L’antropologia, che ha il merito di aver introdotto lo studio della diversità, sebbene l’abbia inizialmente coniugata come categoria collegata al selvaggio, all’esotico1 e a tutto ciò che più generalmente veniva percepito come ‘lontano da noi’ e dunque distante, in seguito alla «svolta interpretativa»2 promossa da Clifford Geertz ha spostato l’attenzione sul ‘noi’ piuttosto che 1 A questo proposito si vedano: P. Wood, Diversity. The invention of a concept, San Francisco, Encounter Books, 2003; E. Glissant, Poetica del diverso, Roma, Meltemi, 2004; V. Segalen, Saggio sull’esotismo. Per un estetica del diverso, Napoli, ESI, 2005. 2 C. Geertz, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1998.
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sul ‘loro’, guardando alla diversità come fenomeno interno ad una cultura e non più soltanto come fenomeno esterno. La diversità dunque non può essere pensata esclusivamente come categoria estranea al gruppo del ‘noi’, o quale concetto da relegare all’ambito dei comportamenti devianti3. Piuttosto deve essere immaginata come un’esperienza conoscitiva4 attraverso la quale individui ripensano sia se stessi, sia il loro modo di costituire società. A questo proposito Michel Wieviorka afferma: «la differenza culturale non è più oggi un’esclusiva di mondi più o meno lontani, esotici, strani. (…) Non è più esterna, ma compresa nel lavoro delle società occidentali su loro stesse»5. Ciò implica che la differenza culturale non si esaurisce con la differenza etnica, oppure con quella religiosa: perde i connotati essenzialistici e identitari, si trasforma in una «nozione a geometria variabile»6 che è in grado di prendere in considerazione, accanto a quegli elementi, anche gli aspetti legati al genere, così come l’orientamento sessuale, la dialettica tra abilità e disabilità e infine la vecchiaia in quanto differente prospettiva generazionale. Stranieri, immigrati, omosessuali, disabili, vecchi: sono queste alcune delle declinazioni della diversità che stanno acquistando sempre più significatività7. Si tratta di gruppi sociali tra loro molto diversi accumunati dal fatto che rivendicano diritti, spazi di libertà e partecipazione che rendono sempre più instabile la coesione, e complesso il mantenimento dell’ordine sociale. Inoltre, accanto alla ridefinizione del concetto di diversità, va poi ribadita l’importanza del modo in cui questa viene esperita, dove con esperienza si intende «sia ciò che si vive (solo in parte consapevolmente), sia il processo attraverso cui il soggetto si appropria del “vissuto” e lo sintetizza»8. Ciò vuol dire che il modo in cui noi facciamo esperienza della diversità, le reazioni che questa ci suscita, così come i comportamenti (sia individuali che collettivi) che adottiamo, dipendono dalle rappresentazioni sociali e quindi anche dalle definizioni che abbiamo a disposizione. La capacità di immaginare la 3 Sulla distinzione tra devianza e diversità si veda A. Santambrogio, Introduzione alla sociologia delle diversità, Roma, Carocci, 2003. 4 Sulla definizione di diversità come esperienza conoscitiva si veda F. Corsini, La diversità come esperienza conoscitiva: una prospettiva sociologica, in F. Monceri (a cura di), Percorsi nel sé. Identità, diversità, multiculturalismo, Pisa, ETS, 2011. 5 M. Wieviorka, La differenza culturale. Una prospettiva sociologica, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 13. 6 M. Wieviorka, La diversité. Rapport à la Ministre de l’Enseignement supérieur et de la Recherche, Paris, Robert Laffont, 2008, p. 19. 7 Sulle figure contemporanee della diversità si consulti, oltre ai lavori già citati di Wieviorka (2005 e 2008), Mayer H. 1995. I diversi. Milano: Garzanti. 8 P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza. Fra l’abitudine e il dubbio, Roma, Carocci, 2008, p. 61.
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RACCONTARE L’ALTRO. LA
RAPPRESENTAZIONE DELLE DIVERSITÀ
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diversità, nelle molteplici forme nelle quali questa viene declinata, rappresenta quindi la possibilità di riconoscimento fondamentale che aiuta tutti, diversi e normali, a conoscersi e riconoscersi. Nella società contemporanea, accanto alle esperienze dirette, quelle legate agli incontri faccia a faccia, le esperienze mediate relative alle rappresentazioni simboliche veicolate dai mezzi di comunicazione di massa «plasmano sempre di più sia la nostra conoscenza dell’universo che si trova al di là della sfera di ciò che sperimentiamo personalmente, sia le nostre idee sulla posizione che occupiamo in esso»9. In altre parole, le esperienze mediatiche, e fra queste le esperienze televisive10, rappresentano il tessuto connettivo fondamentale attraverso il quale comprendere le molteplici declinazioni della diversità mettendo in luce, contemporaneamente, tanto il suo aspetto seducente (o comunque capace di suscitare curiosità), quanto quello spaventoso ed inquietante che ci spinge a rifiutarla11. Infatti, è principalmente questa la funzione delle rappresentazioni sociali di cui le rappresentazioni mediatiche sono un caso particolare. A questo proposito Serge Moscovici afferma: «L’atto di rappresentazione è un mezzo per trasferire ciò che ci disturba, ciò che minaccia il nostro universo, dall’esterno all’interno, da un luogo lontano ad uno spazio prossimo (…) dove l’inconsueto diventa consueto, dove l’ignoto può essere incluso in una categoria riconosciuta»12. La minaccia è appunto sia esterna che interna: le forme della diversità da cui si è minacciati sono molteplici e c’è bisogno che queste vengano immaginate e rappresentate affinché possano essere tenute sotto controllo, depotenziate nel loro potenziale perturbativo e disgregativo. Disporre di rappresentazioni sociali «ci rassicura e ci conforta; restituisce un senso di continuità nel gruppo o nell’individuo minacciato dalla discontinuità e dall’insensatezza»13. Si può infatti osservare che la «discontinuità» e l’«insensatezza» cui Moscovici si riferisce sono due percezioni tipiche dell’esperienza della diversità che minacciano la «sicurezza ontologica»14 che 9
J. B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 54. 10 Sulla centralità delle esperienze televisive nell’epoca contemporanea si possono consultare M. Buonanno, L’età della televisione. Esperienze e teorie, Roma-Bari, Laterza, 2006; M. Scaglioni e A. Sfardini, Multitv. L’esperienza televisiva nell’età della convergenza, Roma, Carocci, 2008. 11 Sull’ambivalenza della diversità si consulti L. Fiedler, Freaks. Miti e immagini dell’io segreto, Milano, Il Saggiatore, 2009. 12 S. Moscovici, Il fenomeno delle rappresentazioni sociali, in R. M. Farr, S. Moscovici, Rappresentazioni sociali. Bologna, Il Mulino, 1989, p. 47. 13 Ivi, p. 49. 14 A. Giddens, Identità e società moderna, Napoli, Ipermedium, 1999.
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DI FICTION
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riguarda tanto l’equilibrio psicologico su cui si regge l’identità individuale, quanto l’organizzazione sociale sottesa al sistema culturale. In definitiva, le rappresentazioni sociali delle differenze hanno il compito di palesare la diversità, di declinarla in differenze specifiche che assumono una forma storica concreta (l’immigrato, l’omosessuale, il disabile etc.), e su cui poi si riversano tensioni individuali e sociali. Tra le molte rappresentazioni mediatiche messe a disposizione dai media, vecchi e nuovi, ci si sofferma qui sulle narrative televisive. È infatti in buona misura da queste ultime che dipendono la nostra conoscenza ed esperienza della diversità, le definizioni di cui disponiamo oltre che i nostri atteggiamenti nei confronti di essa.
5.2. Il quadro delle differenze nel fictionscape italiano Sulla scorta delle considerazioni finora svolte si può meglio comprendere l’interesse nell’osservare non tanto un’unica declinazione della diversità in maniera intensiva ed approfondita, quanto, piuttosto, quello di abbozzare il quadro complessivo delle differenze che hanno trovato cittadinanza nella fiction italiana. L’indagine quantitativa che è alla base di questo contributo è stata svolta a partire dall’analisi delle sinossi presenti all’interno dei rapporti annuali dell’Osservatorio sulla Fiction Italiana (OFI), in base al ricorrere di alcune parole chiave quali indicatori della presenza di protagonisti diversi o la descrizione di situazioni inerenti le tematiche della diversità, così come la si è declinata nel paragrafo precedente. Accanto alla differenza etnica, quella sessuale, la disabilità e la vecchiaia, è stata presa in considerazione anche la devianza: declinazione ambigua, e per questa ragione significativa, che ha però avuto una discreta popolarità nella televisione italiana, indice della persistenza del fraintendimento tra diversità e devianza. L’arco di tempo monitorato corrisponde al quindicennio che intercorre tra la stagione televisiva 1996-1997, e quella 2009-2010: periodo nel quale si può inscrivere la parabola della nascita, crescita, consolidamento e infine decrescita dell’industria televisiva italiana. Grazie a questa prima indagine si è potuto costruire un campione che risulta essere strutturato così come si può vedere nella Tabella 1.
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RACCONTARE L’ALTRO. LA
63
RAPPRESENTAZIONE DELLE DIVERSITÀ
Vol. Orario
N. Titoli
Diversità sessuale
Tema
100,6
14
Diversità etnica
65,1
6
60,6
5
Devianza
28,8
14
Disabilità
21,8
11
15
Mista/ plurima
Vecchiaia Tot.
20
6
296,9
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Tabella 1 – Distribuzione del volume orario e del numero di titoli del campione suddiviso per differenze. 15
Dalla rilevazione emerge come in ogni stagione televisiva vi siano stati mediamente circa 4 titoli che hanno messo a tema almeno una delle possibili declinazioni della diversità. Ciò assume una sua significatività poiché ci fornisce l’indicazione di una traccia sempre presente, sebbene altamente variabile (da 7 titoli ad 1 solo), all’interno di ogni stagione. Se al posto dei titoli prendiamo in considerazione i volumi orari, il quadro risulta però meno soddisfacente poiché in 15 anni di produzione televisiva l’entità complessiva delle narrative della diversità ammonta a a poco meno di 297 ore, a malapena il 3,5% della produzione dell’intero periodo. La ragione di questa disparità tra titoli e volume orario risiede nei formati produttivi, e nello specifico nella scelta dei formati brevi. Una caratteristica, questa, che esprime tanto un dato storico legato all’identità della televisione italiana quanto un trend produttivo confermato da i più recenti rapporti OFI. C’è però un ulteriore legame tra materia narrativa e formato produttivo che sembra trovare conferma nel fatto che 41 dei 56 titoli del corpus in esame sono film tv o miniserie. I film-tv sono caratterizzati da una «natura ibrida a cavallo tra informazione e dramma, fact e fiction»,16 che ben si presta alla messa in scena delle diversità, almeno nei modi in cui la televisione italiana l’ha immaginata e raccontata. Questo formato permette infatti di intrattenere e allo stesso tempo informare il pubblico su realtà generalmente considerate ‘marginali’ o ‘difficili’, in cui rientrano non soltanto la vasta area che abbiamo chiamato devianza, ma più da vicino anche tutte le altre declinazioni della diversità. 15 Con ‘Mista/Plurima’ si intendono quei titoli, spesso serie televisive, che al loro interno contemplano la rappresentazione di più di una differenza. 16 S. Vannuccini, Il figlio della luna: un movie of the week all’italiana, in M. Buonanno (a cura di), La posta in gioco. La fiction italiana, l’Italia nella fiction, anno XIX, Roma, Rai-Eri, 2008, p. 182.
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TEMPO
DI FICTION
Il primo dato sul quale merita soffermarsi riguarda la scarsa presenza di prodotti di fiction che trattano dell’alterità, nonostante quest’ultima si dispieghi nella realtà in una vasta e variegata fenomenologia. Tale marginalità – almeno in termini quantitativi – è il risultato di vari fattori che riguardano tanto il contesto culturale quanto l’assetto industriale della televisione italiana. Quest’ultima infatti lavora su un volume orario di fiction limitato, ben al di sotto delle convenzionali mille ore che qualificano un sistema televisivo come apparato industriale maturo. Per di più il sistema televisivo italiano, storicamente suddiviso tra Rai e Mediaset, produce fiction da distribuire su reti generaliste – e tra queste soprattutto le reti ammiraglie, Rai1 per la Rai e Canale5 per Mediaset, che si rivolgono ad un pubblico ampio ed eterogeneo. Si aggiunga che nell’ultimo decennio, e oltre, le politiche editoriali delle reti hanno prevalentemente puntato su filoni e generi narrativi – ad esempio il racconto dell’identità e della memoria17 – che si coniugano difficilmente con il tema della diversità. Le varie diversità tematizzate nella fiction rivestono inoltre pesi specifici differenti, come egualmente si evince dalla tabella 1. La rappresentazione della diversità sessuale (14 titoli, oltre 100 ore) è quella che più delle altre ha intrapreso un percorso di visibilità, in quanto è ormai rintracciabile in un numero crescente di prodotti di fiction. Il ragguardevole volume orario è indice del fatto che, al di là di miniserie e film-tv, l’omosessualità trova spazio di rappresentazione anche all’interno di produzioni seriali . Si può citare in proposito Il bello delle donne (Canale5, 2003 e 2004), Distretto di Polizia I (Canale5, 2001-2012), I liceali (Canale5, 2008-2011), per limitarsi a pochi esempi. Il caso della diversità etnica (6 titoli, oltre 65 ore) è soprattutto interessante per la fiction Butta la luna (Rai1, 2006 e 2009), in cui un personaggio (femminile) ‘diverso’ compare per la prima e a tutt’oggi unica volta nel ruolo di protagonista . Interpretata dalla sportiva Fiona May, Butta la luna si inscrive come una novità nel panorama delle fiction che di norma rappresentano gli stranieri come immigrati, clandestini o criminali18, proponendo invece una rappresentazione protagonistica della diversità focalizzata sulla figura positiva di una donna energica e determinata, pronta a sfidare uno ad uno proprio quegli stereotipi di cui è vittima in quanto straniera. Significativa anche la presenza della devianza (14 titoli, quasi 29 ore) che legge la diversità come forma generica di disagio sociale; il che, come si è già detto, è sintomatico oltre che di una confusione concettuale anche 17 Sulle linee editoriali della fiction italiana si veda M. Buonanno, La fiction italiana. Narrazioni televisive e identità nazionale, Roma-Bari, Laterza, 2012. 18 A questo proposito si consulti M. Maneri e A. Meli (a cura di), Un diverso parlare, Roma, Carocci, 2007.
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RACCONTARE L’ALTRO. LA
RAPPRESENTAZIONE DELLE DIVERSITÀ
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di un’impostazione editoriale che pensa alla diversità come ad un problema. Il ciclo Diversi (Rai2, 1997) – una collection di racconti televisivi che mettono in scena delinquenza, criminalità ed altre forme di disagio sociale – è emblematico di questa confusione concettuale, per la quale fenomeni sociali tra loro differenti vengono assimilati. La disabilità (11 titoli, quasi 22 ore), categoria nella quale è stata ricompresa anche la follia – al riguardo deve essere ricordata la miniserie C’era una volta la città dei matti (Rai1, 2010) – non risulta granché visibile, perlomeno in termini strettamente quantitativi, forse perché coinvolge tematiche estremamente sensibili e difficili da trasporre in racconto televisivo. Nonostante questo vi sono alcuni titoli, Correre Contro (Rai2, 1996), Più leggero non basta (Rai2, 1998) e Il figlio della luna (Rai1, 2007) che hanno proposto una descrizione forte e decisa della disabilità. Infine vi è il caso della vecchiaia (6 titoli, 20 ore circa), affrontata da un piccolo numero di film tv e miniserie tra cui Nuda proprietà vendesi (Rai1, 1998), Mio figlio ha settant’anni (Canale5, 2000), e Una storia qualunque (Rai1, 2001), caratterizzati tendenzialmente da una rappresentazione problematica della figura dell’anziano, spesso collegato alla solitudine e alla malattia. Non si tratta peraltro di un cliché dominante; basti pensare alla saggia, benevola, vitale figura del popolarissimo Nonno Libero interpretato da Lino Banfi nella serie Un medico in famiglia (Rai1, 1998 – in produzione), e ad altre presenze di vivaci anziani che pure popolano la fiction italiana.
5.3. La diversità come pretesto narrativo Come si è potuto osservare, le varie declinazioni della diversità sono collocabili su punti diversi all’interno di un percorso ideale che porta dall’invisibilità alla visibilità. Che cosa si può dire però a proposito delle soluzioni narrative adottate per raccontare l’alterità? Ciascuna declinazione della diversità meriterebbe un lavoro di approfondimento a sé stante, in grado di rendere giustizia alle specificità di cui è portatrice. In questa sede dobbiamo tuttavia accontentarci di individuare e mappare alcuni dei tratti distintivi con cui si costruisce e si dispiega il racconto televisivo italiano della diversità. Sulla base dell’approfondimento qualitativo svolto su un campione più ristretto19, si può osservare che la fiction italiana tende a concentrarsi sul 19
Per l’analisi qualitativa sono stati presi in esame 15 titoli (distribuiti secondo le quattro prevalenti declinazioni della diversità) selezionati sulla base della loro popolarità misurata sia attraverso i dati d’ascolto sia attraverso la loro capacità di far parlare di sé.
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conflitto che scaturisce dall’incontro tra normalità e diversità; e nella maggior parte dei casi lo fa mettendo in scena il punto di vista dei normali. Raramente, infatti, viene dato spazio all’investigazione psicologica dei diversi e alle possibilità narrative offerte da questi. La diversità, nella molteplicità delle sue accezioni, viene prevalentemente descritta come ‘problema sociale’ che necessita di policies e strategie culturali in grado di integrarla. Da ciò discende la frequente unidimensionalità nella rappresentazione dei diversi: essi esistono in funzione della loro diversità, e finiscono con l’essere schiacciati su una rappresentazione fortemente stereotipata che fa leva sulle rappresentazioni sociali più diffuse strutturate attorno ad un set di caratteristiche piuttosto limitato. Un esempio per tutti è la sedia a rotelle, sempre presente indipendentemente dalla forma di disabilità descritta. Lo spessore dei personaggi, così come la complessità delle vicende raccontate, trovano un limite sia nella narrazione fortemente stereotipata, sia nel riferimento quasi costante alla politically correcteness: un’«ipocrisia»20 che si manifesta, ad esempio, nell’uso di certi neologismi appositamente coniati per designare (etichettare) individui e gruppi che, di fatto, non sono o non del tutto socialmente accettati e integrati. Infatti, come ha dimostrato Federico Faloppa21, l’insistenza sul politicamente corretto porta a ricreare un «ghetto», una sorta di universo artificiale, che non è in grado di favorire la reale interazione tra normali e diversi, tra ‘noi’ e ‘loro’. Dunque, ciò che emerge con una certa evidenza è che nella maggior parte dei casi i protagonisti non sono i diversi: questi riescono ad essere comprimari, ma raramente assurgono al ruolo di protagonisti della narrazione. Le storie sulla diversità sembrano fatte per esaltare altre figure che della diversità conoscono però il carattere contagioso22. Sono essenzialmente padri e madri: personaggi autorevoli, forti, determinati, che sebbene inizialmente si dimostrino esitanti e si lascino attraversare da qualche debolezza, finiscono sempre per ‘fare la cosa giusta’. Piuttosto che coloro i quali vivono in prima persona le difficoltà dello stigma23 della diversità, ad essere esaltati dalla fiction italiana sono coloro che si assumono l’onore e l’onere di rappresentarli: famiglia, istituzioni, associazioni di volontariato oltre ad un piccolo esercito 20 E. Crisafulli, Igiene verbale. Il politicamente corretto e la libertà linguistica, Firenze, Vallecchi, 2004. 21 F. Faloppa, Parole contro. La rappresentazione del “diverso” nella lingua italiana e nei dialetti, Milano, Garzanti, 2004. 22 Sulla ‘natura’ contagiosa della diversità si vedano M. Gladwell, Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti, Milano, Rizzoli, 2010; W. Siti, Il contagio, Milano, Mondadori, 2008. 23 Su ciò si veda E. Goffman, Stigma. L’identità negata, Verona, Ombre Corte, 2003.
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RACCONTARE L’ALTRO. LA
RAPPRESENTAZIONE DELLE DIVERSITÀ
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di aiutanti, singoli individui che, a vario titolo, mossi da spirito civico, senso del giusto e grande bontà, si ergono a difensori dei diritti civili. Sopra ogni cosa la fiction italiana fa uno straordinario investimento nella famiglia come ‘luogo simbolico’ in grado di accogliere e dunque integrare le diversità. Ciò vale per la diversità sessuale, laddove fin dai titoli si può capire la rilevanza delle relazioni familiari, come nei casi di Mio figlio (Rai1, 2005), Il padre delle spose (Rai1, 2006), Un difetto di famiglia (Rai1, 2002). Nel caso della vecchiaia, egualmente – si pensi a Nuda proprietà vendesi (Rai1, 1998), Mio figlio ha settant’anni (Canale5, 2000) oppure Una storia qualunque (Rai1, 2001) – la famiglia diventa il luogo nel quale l’anziano precedentemente marginalizzato e isolato trova una sua collocazione oltre ad un suo ruolo, spesso e volentieri quello di nonno adottivo. Ancora nel caso della disabilità è la famiglia, stavolta accanto alle istituzioni quali gli ospedali e la scuola, che si trova a svolgere una funzione fondamentale di supporto ed integrazione della diversità. Non è un caso che, a parte un paio di eccezioni (Correre contro e Più leggero non basta), i racconti sulla disabilità ruotino attorno all’esperienza di ‘madri coraggio’ che si battono in maniera ostinata affinché i propri figli, quelli «venuti male» come dice Lunetta Savino interprete della straordinaria fiction Il figlio della luna, possano avere le stesse opportunità dei normali. Da questo schema si discosta, per la diversità etnica, il già citato caso di Butta la luna, sebbene vi siano altri esempi, tra cui Un nero per casa (Rai1, 1998) che invece vi rientrano pienamente. Si potrebbe dire che la fiction italiana concepisca e usi la diversità come un pretesto narrativo, per parlare di qualcos’altro che le è collegato. Ad essere rappresentati, infatti, sono soprattutto gli atteggiamenti nei confronti della diversità, e ciò avviene quasi sempre mettendo in scena una gamma di reazioni e di comportamenti che ricorda il modello di sensibilità interculturale proposto da Milton J. Bennett24: un modello che iscrive queste reazioni all’interno di un continuum, ai cui poli opposti vi sono da una parte la negazione e dall’altra l’integrazione25. È questa la cifra stilistica che accumuna buona parte del racconto televisivo italiano della diversità: mettere a tema come un padre prenderà la notizia dell’omosessualità del figlio o della figlia, monitorare quali sono gli atteggiamenti nei confronti degli stranieri e stigmatizzare in tutti i modi quelli razzisti, osservare lo sforzo delle fami24
M.J. Bennett (a cura di), Principi di comunicazione interculturale, Milano, Franco Angeli, 2002. Si veda oltre al lavoro di Bennett anche I. Castiglioni, La comunicazione interculturale: competenze e pratiche, Roma, Carocci, 2008. Le fasi intermedie contemplate dal modello di Bennett sono: difesa, la minimizzazione, l’accettazione e l’adattamento. 25
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glie, soprattutto delle madri, che si battono per dare una vita il più normale possibile ai propri figli disabili, e così via. Spesso e volentieri però, l’integrazione che come si è già detto avviene o all’interno o comunque grazie alla famiglia, si attua non in virtù di un reale riconoscimento della diversità, quanto, piuttosto, attraverso la sua normalizzazione. A questo proposito è emblematico il monologo finale di Nicola Gammarota, interpretato da Lino Banfi, che in Un difetto di famiglia, parlando dell’omosessualità del fratello Francesco afferma: « Mio fratello è … È diverso, come si dice oggi. Che poi credo sia un modo sbagliato per dire molto semplicemente che è omosessuale. Diversi, tutti siamo diversi (…), Francesco invece ne ha passate tante, solo per essere se stesso come ognuno di noi». In fondo, dire che siamo tutti diversi è come dire che siamo tutti uguali, negando, in questo modo, la specificità di cui ciascuna differenza è portatrice.
5.4. Comprendere l’alterità Una certa riluttanza a mettere in scena l’alterità; riduzione della diversità a problema sociale; scarso approfondimento del protagonismo dei diversi. Una tale configurazione di orientamenti è resa oggi più problematica dalla nuova e significativa ondata di prodotto estero, per la gran parte di provenienza USA, che si riversa nelle reti televisive italiane. Questo prodotto d’importazione non sopperisce soltanto ad un fabbisogno di tipo quantitativo, ma viene incontro e aderisce alla domanda, le aspettative e i gusti di un pubblico di nicchia sempre più esigente; caratterizzandosi, fra le altre cose, anche per la sua apertura alla narrazione della diversità e la sua capacità di declinarla in maniera plurale e complessa. La strategia che la fiction italiana impiega quando si cimenta con il racconto dell’alterità corrisponde ad un’operazione di mediazione nella mediazione. Scherma la differenza, la sua potenziale minaccia distruttiva, in parte limitandone il protagonismo, in parte costringendo la sua potenzialità narrativa nello spazio familiare, all’interno della dinamica tra marginalizzazione ed integrazione che legge la diversità appunto come problema sociale. Nondimeno, c’è qualcosa che le narrative televisive della diversità non possono evitare di fare. Infatti, nonostante i limiti di cui si è detto – in parte imputabili a fattori strutturali del sistema televisivo, in parte a motivazioni più profonde legate al sistema culturale –, la fiction italiana ha progressivamente introdotto all’interno del suo corpus narrativo alcune voci della
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RACCONTARE L’ALTRO. LA
RAPPRESENTAZIONE DELLE DIVERSITÀ
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diversità26, attraverso le quali i protagonisti normali finiscono comunque per rimettere in discussione se stessi e i molteplici altri con i quali si accorgono di convivere. Indipendentemente dal grado di intensità di queste trasformazioni, l’incontro con la diversità spinge sempre gli individui ad adottare un altro punto di vista, a guardare la realtà sotto una nuova prospettiva, generalmente più ampia e più complessa. Tutto ciò è ulteriormente ribadito nei casi invero eccezionali in cui la diversità e i diversi sono protagonisti indiscussi, come in Butta la luna o Più leggero non basta che affrontano nella maniera giusta, e non politicamente corretta, i problemi della convivenza tra diversità e normalità. La fiction, in quanto rappresentazione sociale, nel tentativo di fornire schemi interpretativi efficaci per la comprensione della realtà istituisce e intrattiene un delicato quanto instabile rapporto tra identità e alterità, tra normalità e diversità. In questo continuo movimento oscillatorio la fiction italiana riesce a comprendere le diversità e cioè ad includerle all’interno del suo sistema narrativo, sia pure da una prospettiva alquanto limitata e secondo un approccio più preoccupato di inglobare il diverso nel normale che di conferire autentica cittadinanza alla diversità in quanto tale. Ma non si può escludere che, malgrado questi limiti, la fiction riesca comunque a favorire una maggiore consapevolezza del fatto che, se non altro, le diversità esistono e in qualche misura ci riguardano e ci toccano tutti, sia pure attraverso la mediazione di storie immaginate.
26
Si veda il lavoro di M. Mannoia (a cura di), Il silenzio degli altri: discriminati, esclusi e invisibili, Roma, XL Edizioni, 2011.
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6 La qualità della fiction fra tradizione nazionale e standards transnazionali
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di Milly Buonanno
‘Qualità’ non indica la buona televisione in quanto tale, ma la cornice ideologica entro la quale vengono espressi i giudizi sulla buona televisione Simon Frith
6.1. Qualità come rituale strategico L’intento principale del presente capitolo, che chiude la sezione Mainstream italiano, non è quello di discutere e valutare la qualità della fiction che si produce in Italia – qualche considerazione al riguardo sarà tuttavia espressa più avanti – ma, in sintonia con la citazione posta in exergo, quello di indicare e problematizzare la cornice ideologica ovvero la pretesa universalizzante degli assunti, criteri e canoni in base ai quali nel dibattito accademico, e in buona misura anche nel conventional wisdom sulla televisione, si definisce e si identifica cosa sia o debba intendersi oggi per fiction di qualità. Non può essere motivo di sorpresa, poiché per l’appunto rientra e trova sostegno in un senso comune largamente diffuso, costatare che la fiction italiana contemporanea non gode di una positiva reputazione sotto il profilo della qualità, riconosciuta eventualmente solo a una manciata di eccezioni. Piuttosto che esserne il punto di partenza, il giudizio per la verità poco lusinghiero che da più parti si riversa sul prodotto nazionale sarà il punto di arrivo del mio discorso, inteso a ricostruire innanzitutto il contesto delle contingenze e il quadro comparativo internazionale entro cui tale giudizio si elabora e si esprime. È bene precisare che qui non si tratta in alcun modo di impegnarsi in una contesa valutativa, prendendo le difese di un sistema di storytelling imputato, a ragione o a torto (verosimilmente, l’una e l’altro), di scarso rendimento qualitativo, al di là o a dispetto di rese d’ascolto calanti ma ancora di qualche entità e qua e là punteggiate da veri successi.
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TEMPO
DI FICTION
Si tratta piuttosto di utilizzare il caso italiano, dal momento che de re nostra agitur, come un’occasione per tornare a riflettere (senza troppa reverenza) sulla inesauribile e irrisolta questione della qualità televisiva, e per ragionare sulle condizioni in cui, in un certo momento del tempo, prendono forma, maturano e si impongono determinati giudizi sulla buona e cattiva televisione, sulla fiction di buona o cattiva qualità. Dunque, partiamo dalla qualità, una parola ricolma di complessità e di contraddizioni. Il consenso pressoché universale che la circonda, quando avviene di dover riconoscere la sua importanza cruciale per la televisione, di reclamare l’innalzamento dei suoi standard, di lamentare il suo declino – «Quality is one of those things that it’s very hard to be against»1 – trapassa rapidamente in dissenso e controversia non appena si richiede di elaborare una chiara definizione del concetto e di individuare criteri condivisi di valutazione. La nozione di qualità televisiva risulta complessificata dai molteplici livelli di significati implicati in una parola che chiama in causa estetica ed etica, valori di produzione e piaceri del consumo, forme e contenuti, tecnologia e cultura. Ci si può illudere di trovare una via di fuga da questa scoraggiante complessità riposizionando l’intera questione sotto il regime soggettivo del gusto personale, notoriamente sottratto alla disputa (de gustibus…). Ma, come sociologi, siamo avvertiti del fatto che i gusti personali non sono né innocenti né neutrali, e pertanto una simile scappatoia di senso comune non preserva dal cadere nella brace di una disputa di schietta matrice bourdieusienne2 sulle determinanti sociali delle preferenze e dei gusti personali, strutturati secondo gerarchie di classe, capitale e potere culturale3. Negli ambienti dell’industria televisiva nazionale e internazionale, dove in anni recenti ha guadagnato largo corso nella comunicazione di marketing, la parola qualità funge convenientemente da brand, marchio di identità4, inteso a esibire e vantare la signature distintiva di reti, produttori5 o prodotti6. Nel contesto industriale lo stesso termine dispiega inoltre una plastica multifunzionalità. Nell’ambiente del narrowcasting, ad esempio, alla qualità
1
G. Mulgan (ed.), The question of quality, London, Bfi, 1990, p. 5. Cfr. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, il Mulino, 2001. 3 Si veda in proposito M. Z. Newman, E. Levine, Legitimating television, London, Routledge, 2011 4 «Quality television has became a label, a brand», afferma S. Frith in “The black box: the value of television and the future of television research”, «Screen» 41:1, 2000, pp. 41 5 Sul proprio sito, ad esempio, Taodue si definisce «la principale produttrice di fiction di qualità» (http://www.taodue.it/?page_id=704) 6 «Un prodotto di grande qualità» è definizione che ricorre spesso nelle tradizionali conferenze stampa di presentazione delle nuove fiction. 2
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QUALITÀ DELLA FICTION FRA TRADIZIONE NAZIONALE E STANDARDS TRANSNAZIONALI
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si accredita, e se ne apprezza, un elevato potenziale di attrazione nei confronti di pubblici di nicchia scolarizzati e affluenti (i molto ricercati ‘pubblici pregiati’). Alle reti generaliste, invece, accade di mettere sul conto della qualità sia effetti selettivi, ovvero esiti d’ascolto inferiori alle aspettative – il commento «un’operazione di qualità che il pubblico non ha apprezzato» accompagna non di rado un risultato deludente – sia i larghi e inclusivi successi di audience, attribuiti in questo caso alla ‘qualità vincente’ dei prodotti. Al riguardo, si potrebbe affermare che attraverso il ricorso frequente alla parola qualità l’industria televisiva contemporanea metta in atto un ‘rituale strategico’. L’espressione è stata coniata quarant’anni fa dalla sociologa Gay Tuchman7, per spiegare l’insistenza sulla ‘obbiettività’ che si poteva osservare all’epoca nei discorsi e nelle pratiche giornalistiche; secondo la Tuchman questa insistenza su un alto ed esigente ideale professionale serviva essenzialmente a legittimare la credibilità del giornalismo e dei giornalisti e a prevenire o smussare possibili critiche. Ponendo l’accento sulla qualità, l’industria televisiva si annette a sua volta un marchio ambizioso e prestigioso, e dispiega il rituale strategico inteso ad ottenere apprezzamento e legittimazione culturale. Nel campo dei television studies si possono trovare tracce di un dibattito intermittente sulla qualità. In realtà queste tracce appaiono più o meno profonde e continuative a seconda dei differenti contesti. Più di quanto non sia accaduto in Italia8, ad esempio, una intensa discussione sulla qualità televisiva ha avuto luogo in Gran Bretagna nei primi anni novanta, producendo analisi e riflessioni che configurano ancor oggi contributi autorevoli e imprescindibili al dibattito sull’argomento9. Ma non c’è dubbio che la discussione sulla qualità televisiva non sia mai stata così intensa e corale come negli anni 2000; lo attesta una profusione senza precedenti di lavori accademici – articoli su riviste, edited collections, monografie10 – che hanno affrontato la vexata quaestio della qualità televisiva 7 G. Tuchman, “Objectivity as strategic ritual: an examination of newsmen’s notions of objectivity”, «The American journal of sociology», 77:4, 1972, pp. 660-679. 8 Si veda: C. Sartori, La qualità televisiva, Milano, Bompiani, 1993; C. Lasagni, G. Richeri, Televisione e qualità, Roma, RAI-VQPT, 1996; A. De Marzo, Qualità televisiva, Milano, Franco Angeli, 2009 9 Mi limito a segnalare il citatissimo saggio di C. Brunsdon, “Problems with quality”, «Screen», 31:1, 1990, pp. 67-90, e lo smilzo ma prezioso volumetto a cura di G. Mulgan, già citato alla n. 1. 10 Per citare solo i più noti: M. Jancovich, J. Lyons (eds.), Quality popular television, London, British Film Institute, 2003; S. Gwenllian-Jones, R. E. Pearson (eds.), Cult television, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2004; J. McCabe, K. Akass (eds.), Quality TV, London, I.B. Tauris, 2007; E. Pujadas, La television de calidad, Barcelona, Aldea Global, 2011.
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TEMPO
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(anche se non necessariamente in questi termini). Per una analitica e illuminante rassegna storica del nuovo flusso di discorsi sulla qualità rimando ad alcuni scritti di Robin Nelson11. Come è ampiamente noto, questo nuovo flusso è stato attivato dall’avvento della cosiddetta second golden age della televisione americana12, che si è espressa in un ragguardevole numero di produzioni – nello specifico, serie del prime-time – sotto vari aspetti innovative, non di rado di eccellente fattura, rapidamente e diffusamente etichettate come quality tv. Sebbene il trend della quality tv fosse stato avviato già negli anni ottanta dai network generalisti (Hill Street Blues13, considerata la serie pioniera del nuovo corso, andava in onda sulla NBC), è stato l’ingresso delle agguerrite e competitive reti via cavo (HBO, Showtime, AMC etc.) nell’arena della produzione originale che ha grandemente contribuito, nell’ultimo decennio o poco più, a dilatare il fenomeno e ad amplificare la sua risonanza sulla scena nazionale e internazionale. Serie come The Sopranos, the Wire, Mad Men, Breaking bad, The Game of Thrones, hanno acquisito lo status di programmi di culto, guadagnato l’attenzione e il plauso della critica, ottenuto candidature e premi; e hanno cooperato assieme a Lost, CSI, Desperate Housewives e svariati altri titoli dei network, a ridare lustro all’immagine e nuovo slancio al consumo della fiction americana nel mondo14. E soprattutto hanno dimostrato «television’s capacity to produce art»15. Vale la pena sottolineare che, per la prima volta nella (in effetti ancor breve) storia dei television studies, qualcosa di simile alla ‘telefilia’ – la cui assenza era stata perspicuamente osservata da John Caughie un paio di decenni orsono – ha preso a emergere entro l’accademia, non più abitata solo da individui «who can see the seduction but are not seduced»16 dalla televisione. Oggi taluni studiosi non esitano perfino a riconoscersi nella figura dell’aca/fan, ibrido di accademico e di fan. 11 R. Nelson, “Quality television: the Sopranos is the best television drama ever… in my humble opinion”, «Critical studies in television», 1:1, 2006, pp. 58-71; R. Nelson, Quality tv drama: Estimations and influences through time and space, in J. McCabe, K. Akass (eds.) Quality TV, cit., pp.38-51 12 R. J. Thompson, Television’s second golden age, Syracuse, Syracuse University Press, 1997 13 Cfr. J. Feuer, P. Kerr, T. Vahimagi, MTM ‘Quality Television’, London, Bfi, 1984 14 Non si dimentichi che, anche in paesi come l’Italia dove si è importata e consumata negli anni moltissima fiction americana, quest’ultima veniva considerata tutt’al più un affidabile e ben collaudato prodotto industriale, non certo un modello di qualità – prerogativa che veniva riconosciuta se mai alla fiction inglese. 15 J. Jacobs, “The medium in crisis: Caughie, Brunsdon and the problem of US television”, «Screen», 52:4, 2011, pp. 503-511 16 J. Caughie, Playing at being American, in P. Mellecamp (ed.), Logics of television, Bloomington, Indiana University Press, 1990, pp. 44-58.
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QUALITÀ DELLA FICTION FRA TRADIZIONE NAZIONALE E STANDARDS TRANSNAZIONALI
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In ogni caso, nel corso degli anni 2000 gli studiosi di televisione si sono impegnati in un vibrante dibattito internazionale che, tra le altre cose: – ha affermato il valore della lungamente svalutata (anche nel mondo accademico) televisione, e contribuito a diffondere l’idea che gli studiosi non debbano astenersi dal valutarne i prodotti; – ha introdotto l’estetica nell’agenda accademica (ciò che da qualche parte è stato interpretato come il ritorno a una estetica ‘elitista’, in grado di placare finalmente l’ansia di legittimazione da cui la televisione e gli stessi studiosi di televisione sono stati lungamente ossessionati17); – ha favorito una pratica di sofisticata analisi multivocale dei testi televisivi, che ha consentito di raggiungere livelli profondi di comprensione di un considerevole insieme di serie contemporanee18. La inerente complessità e il carattere elusivo della qualità, unita alla inevitabile diversità fino al contrasto di interessi, posizioni, approcci fra i differenti studiosi impegnati in questo dibattito accademico ha – prevedibilmente – confermato che «quality is certainly the site of considerable contention»19, ancor più quando si tratta di definire gli indicatori appropriati per riconoscere i segni della sua presenza e stimarne il valore.
6.2. Un assunto condiviso E tuttavia sembra esserci un assunto condiviso, un elemento quasi assiomatico che impronta nettamente e identifica, pur nella pluralità delle sue differenziate espressioni e posizioni, il dibattito contemporaneo sulla qualità. Mi riferisco all’abbraccio pressoché universale della televisione americana, delle serie statunitensi per essere più precisi, considerate non soltanto il non plus ultra dell’eccellenza, ma di fatto l’unico e solo corpus di testi televisivi degno di interesse e investigazione accademica in quanto ‘quality tv’ per antonomasia. Robin Nelson rende perfettamente chiaro questo punto quando afferma che «critical discourse on quality TV drama has been dominated by the celebration of
17 M. Kackman, HBO Harkens The Return to Elitist Aesthetics?, flowtv.org/2010/03/flow-favorites-quality-television-melodrama-and-cultural-complexity-michael-kackman-universityof-texas-austin/. Si veda anche Newman e Levine, cit. alla nota 3, e il recente intervento di S. Dasgupta, “Policing the people: Television studies and the problem of quality”, «NECSUS. European Journal of Media Studies», Spring 2012, s.i.p. 18 Penso soprattutto alla collana “Reading contemporary television” della casa editrice londinese I.B. Tauris, dove sono state pubblicate (al dicembre 2012) 13 edited collections dedicate ad altrettante serie televisive (12 americane, 1 inglese). 19 P. Kerr, Never mind the quality…, in G. Mulgan (ed.), The question of quality, cit., pp. 43-55.
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American quality TV», per ribadire più avanti che «American quality is currently dominating the discourse»20. Basti pensare al profluvio di pubblicazioni su serie come CSI, The Sopranos, Lost. Sul saturante effetto di un interesse accademico egemonizzato da un certo tipo di testi ha espresso qualche insofferenza Stuart Hall, spingendosi fino a dichiarare – nel corso di una intervista che non riguardava peraltro la televisione ma lo stato presente dei cultural studies – «I really cannot read another cultural analysis of…The Sopranos»21. Intendo per l’appunto sollevare il problema che questa sorta di monopolio esercitato dalle serie Usa sull’agenda accademica non è per nulla benefico né per i television studies né per lo stesso dibattito sulla qualità. Di fatto, la focalizzazione pressoché esclusiva su un corpus testuale che è unico nella sua specificità – in quanto originato e modellato nelle peculiari condizioni di un mercato televisivo ad elevato tasso di frammentazione e di competizione, dove le reti cavo hanno scelto di puntare forte sugli alti valori produttivi, l’innovazione estetica, le tematiche controverse, per conquistare i pubblici ‘pregiati’ delle classi colte e affluenti – comporta per i television studies il rischio di contribuire a validare un’opposizione binaria: ovvero una dicotomia tra una relativamente ristretta selezione di serie statunitensi identificate con la quality tv, e tutto il resto, che viene automaticamente a ricadere nella categoria della non-quality. Questo duplice e correlato processo di selettiva inclusione e di massiccia esclusione appare problematico e contestabile, in qualunque accezione si voglia assumere l’espressione ‘quality tv’. Mi riferisco qui all’ambivalenza semantica di un termine che ha subìto negli anni uno slittamento – in realtà una commistione – di significati e di usi, vedendo la propria originaria valenza valutativa ritrarsi sullo sfondo a favore della accezione puramente descrittiva prevalsa più di recente nel lessico dei television studies. In altri termini, nel discorso accademico contemporaneo si conviene di usare l’espressione ‘quality tv’ non per esprimere un giudizio di valore, ispirato a un concetto di buona o eccellente televisione; ma piuttosto per richiamare una definizione di genere – come dire che una certa serie è un poliziesco, o un teen-drama – che si applica (in linea di principio senza intenti valutativi) ai prodotti nei quali sono riconoscibilmente presenti gli elementi costitutivi del genere stesso. In 20
R. Nelson, Quality tv drama: Estimations and influences through time and space, cit., pp. 41.42. C. MacCabe, “An interview with Stuart Hall”, «Critical Quarterly», 50:1-2, 2007, p. 29. Devo precisare che la critica di Hall aveva soprattutto come bersaglio non tanto l’eccesso quanto un certo tipo di analisi testuale, oggi per la verità prevalente, capace anche di attingere livelli profondi dei testi ma sostanzialmente incurante di indagarne le relazioni con più ampie formazioni sociali e tendenze culturali e politiche. Sull’analisi testuale come fine in sé si veda anche G. Turner, What’s became of cultural studies?, London, Sage, 2011, p. 173. 21
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proposito, Thompson ha stilato una lista di ben 12 requisiti che compongono il profilo della ‘quality television’ come genere vero e proprio22. Naturalmente l’uso descrittivo di un termine come qualità, fortemente connotato in senso valutativo, non è senza problemi e soprattutto senza ambiguità. Un grado maggiore o minore di conflazione fra una classificazione di genere e una valutazione critica incapsulate in una medesima parola è in effetti difficile da evitare, per quanto si voglia tener ferma la distinzione e ribadire che ‘quality tv’ non deve essere intesa come un equivalente o sinonimo di ‘buona televisione’. Ma in realtà proprio questa equivalenza è il presupposto implicito del maggior numero degli studi di caso dedicati alle serie americane contemporanee, da studiosi statunitensi e non. Sara Cardwell, che ha scritto in modo assai convincente sull’importanza di preservare la distinzione analitica e critica fra ‘quality tv’ e ‘good television’, riconosce come gli studiosi che si occupano delle serie USA appaiano di fatto poco turbati dalla questione, e siano «more willing to assume that American quality television is likely to warrant serious critical attention and that American quality television is also good television»23 (il corsivo è mio). Lo slittamento semantico (francamente improprio ed evitabile24) della parola qualità dal versante valutativo a quello descrittivo non smentisce dunque la diffusa tendenza dei television studies contemporanei a concentrare attenzione, esercizio analitico, produzione discorsiva su un corpus di testi a cui l’iscrizione entro un genere definito significativamente di qualità – e fiorente soprattutto nell’ambiente delle reti cavo americane – conferisce un alto grado di scholarly worthiness, candidandoli a una valutazione accademica non di rado consonante con l’apprezzamento della critica televisiva25, l’entusiasmo dei fan, la messe delle nominations e dei premi agli Emmy e ai Golden globe. La predilezione di tanti studiosi per la ‘quality tv’ americana è sotto molto aspetti comprensibile. Non occorre condividere quel poco o molto di populismo riecheggiante nelle (peraltro minoritarie) voci critiche verso l’avvento e la celebrazione di una ‘estetica elitista’ in televisione26, per riconoscere come un pubblico dotato di un consistente capitale culturale e di sensibilità estetica – quale è per l’appunto, anche se non esclusivamente, il caso di intellettuali e accademici – sia tra i più suscettibili di provare 22
R.J. Thompson, Television’s second golden age, cit., pp. 13-16. S. Cardwell, Is quality television any good?, in J. McCabe, K. Akass (eds.), Quality TV, cit., p.24. 24 Sarebbe in effetti preferibile elaborare una definizione diversa, invece di continuare a usarne una che impone uno sforzo costante di disambiguazione 25 La quality tv è la critics’ darling, la favorita della critica. 26 Rimando in proposito alla nota 17. 23
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attrazione, interesse, e coinvolgimento nei confronti delle artisticamente e culturalmente ambiziose espressioni della ‘quality tv’ contemporanea. Non si tratta evidentemente di mettere in discussione il diritto degli studiosi di occuparsi delle serie televisive delle quali riconoscono e ammirano (imprimendovi il loro sigillo accademico) l’eccellenza artistica o l’audacia innovativa. Le preferenze e i piaceri che strutturano le nostre relazioni con la televisione possono favorire approcci più profondi e illuminanti ai testi e farne oggetto di indagine e analisi appassionata. Nondimeno dovremmo essere cauti nell’adottare agende di ricerca e indicatori estetici e culturali troppo consonanti con i nostri gusti. Mi riferisco qui ai modelli di preferenza e di valorizzazione che una comunità accademica adotta in una determinato momento del tempo, e che in maggiore o minor misura possono essere dettati dall’air du temps. Gli studiosi sono, tra le altre cose, una selezionata taste community27 le cui gerarchie di valore non sono al riparo da una ricorrente fascinazione per il nuovo. Non sono al riparo, più di preciso, dalla «modernist obsession for innovation and novelty»28, che così spesso rende tanti di noi disponibili a condividere, e contribuire a diffondere, l’iperbolica celebrazione che accompagna fenomeni e processi di cambiamento – ai quali meglio si addicono posizioni più in equilibrio tra celebrazione e problematizzazione, tra adesione e critica. E mentre una fascinazione storicamente situata non è in alcun modo ‘naturale’, accade che i modelli accademici di preferenza e di valorizzazione contribuiscano dal canto loro a ‘naturalizzare’ gerarchie di rilevanza e di valore che fanno presto a cristallizzarsi in canoni indiscussi. Come ha affermato di recente Roberta Pearson «if such a process of canonization is inevitable… I’d like it to be driven by something other than the tastes of television scholars, who are overwhelmingly the white, middle class upmarket audience at which many of the programs in these series are directed by their producers and distributors»29.
6.3. L’invisibilità di tutto il resto Una volta che l’opposizione binaria tra ‘quality tv’ americana e tutto il resto è divenuta auto-evidente, una delle conseguenze è che tutto il resto recede 27 M. Hills, “Television aesthetics: a pre-structuralist danger?”, «Journal of British cinema and television», 8:1, 2011, pp. 99-117. 28 G. Mulgan (ed.), The question of quality, cit., p.18. 29 Dal position paper di Roberta Pearson per la tavola rotonda “The good, the bad and the cult: television studies sensibilities”, nel contesto della quarta Flow conference svoltasi ad Austin, Texas, a novembre del 2012 (http://flowtv.org/conference/schedule/).
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nell’invisibilità. Richiamo in proposito la utile nozione di invisible television che è stata avanzata ed esplorata in un recente numero della rivista «Critical studies in television»; l’espressione vuole cogliere e comunicare l’idea che una parte assai cospicua di contenuti televisivi non entra mai o quasi mai nella sfera di attenzione e di interesse degli studiosi dei media, e risulta pertanto letteralmente «invisibile all’interno dell’accademia»30. Matt Hills31, nello stesso numero della rivista, identifica in modo preciso e discute i principali requisiti del tipo di televisione che è oggi più suscettibile di attrarre l’attenzione degli accademici e divenire oggetto di studi di caso: novità immaginativa, temi controversi, complessità narrativa, ambizioni da cinema d’arte, visualità stupefacente, intertestualità, transmedialità, statuto cultuale, seguito di fan… tutti perfettamente ritagliati sulla misura delle ambiziose e doviziose produzioni della ‘quality tv’ americana, alla quale assicurano la massima visibilità nella vetrina degli studi accademici. Pertanto, essendo ben difficilmente in grado di esibire analoghi requisiti, la larghissima maggioranza delle serie contemporanee di ogni paese ha scarse chances di entrare nella sfera dell’interesse accademico ed è destinata a recedere nell’invisibilità (con l’ eccezione di qualche serie inglese) – rischiando in aggiunta la denigrazione per non essere all’altezza del normativo canone americano. È dunque necessario mettere in discussione l’apparentemente indiscussa naturalizzazione e universalizzazione, nei television studies contemporanei, di standard di qualità e di valutazione che – essendo calibrati su uno specifico genere di fiction americana – non sono estensibili e non sono in grado di rendere giustizia, in tutto o in parte, a ciò che qualità e valore può significare in società e culture al di là dei confini Usa. Di conseguenza, sarebbe opportuno che gli studiosi di televisione abbandonassero senza esitazioni il postulato che solo la qualità e l’ eccellenza di certe serie americane sono degne di attenzione accademica, e facessero spazio all’assunto che differenti concezioni e concretizzazioni di rilevanza estetica e culturale possono esistere e di fatto esistono nelle differenti culture televisive; e anche queste richiedono di essere prese in considerazione, interrogate e valutate nei loro propri termini e contesti.
30 B. Mills, “Invisible television: the programs no one talks about even though lots of people watch them”, «Critical studies in television», 5:1, 2010, p.1. 31 M. Hills, “When television doesn’t overflow beyond the box: the invisibility of momentary fandom”, «Critical studies in television», 5:1, 2010, pp.97-110
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6.4. La ‘tradizione di qualità’ della fiction italiana Il caso italiano può essere considerato emblematico del ruolo che ha assunto la televisione americana nel fornire la pietra di paragone sulla quale il valore della fiction nazionale viene saggiato, stimato, e posizionato nella gerarchia culturale delle forme mediali contemporanee. In Italia, al pari che altrove, le serie statunitensi dei tardi anni novanta e degli inizi del duemila hanno guadagnato pubblico e rinomanza, imponendosi come ‘televisione di qualità’ per eccellenza. E poiché una polarità positiva ha sempre bisogno di essere messa a confronto con un opposto affinché la sua bontà ne risulti meglio validata e intensificata, la celebrazione delle serie americane si è accompagnata alla diffusa tendenza a svalutare e denigrare più o meno in blocco la fiction italiana; la quale è divenuta oggetto costante di riprovazione e critica da parte di commentatori e intellettuali, ed è snobbata dai pubblici pregiati (giovani e giovani-adulti urbani e scolarizzati) per la sua inadeguatezza nel competere – sia pure a grande distanza – con l’audacia creativa e la stupefacente perfezione estetica delle serie a valenza trans-nazionale prodotte negli Stati Uniti. A loro volta, gli studiosi italiani di televisione32 condividono (salvo rare eccezioni) con i colleghi di altri paesi33 il bias a favore delle serie americane. Di certo, nessuno potrebbe negare che lo storytelling televisivo nazionale attraversi già da qualche anno una fase poco esaltante sotto il profilo delle proposte ideative, della scrittura drammaturgica, talora della stessa realizzazione tecnica. E non c’è alcun bisogno di stabilire confronti con le serie Usa (confronti metodologicamente scorretti, data la sostanziale incomparabilità dell’industria televisiva italiana con quella americana) per scorgere i difetti di ideazione, struttura narrativa, trattamento tematico – o altro – che inficiano 32
Aldo Grasso, ad esempio, ha sostenuto che l’eccellenza dei telefilm americani è riuscita a redimere la televisione dallo stigma pesantemente negativo che l’ha marcata dalle sue origini, esaltandone le doti e il ruolo da ‘buona maestra’ (A. Grasso, Buona maestra, Milano, Mondadori, 2007). È esattamente questo tipo di argomento che viene contestato da quanti (cfr. i già citati Newman e Levine) vedono nel fenomeno della ‘quality tv’ i segni di una svolta elitista, attuata dalle reti che hanno strategicamente scelto di sintonizzarsi sui gusti di selezionati, colti ed esigenti pubblici settoriali. La legittimazione culturale che ne discende dimostra come in realtà la televisione riesca ad accedere al rango delle arti legittime solo se rinuncia o viene sottratta allo statuto di arte popolare per le masse. 33 Mi limito a citare un solo esempio. Nel numero monografico che la rivista francese di studi di comunicazione «Réseaux» ha dedicato di recente (n. 1/2011) alla serialità televisiva, l’unica fiction di produzione locale presa in considerazione era la soap Plus belle la vie; per tutto il resto si trattava delle serie americane.
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con una certa assiduità la buona fattura della fiction domestica. Ma così come ‘quality tv’ non è necessariamente sinonimo di buona televisione, una qualità malferma o discontinua non attesta necessariamente la inconsistenza culturale e artistica di un intero corpus narrativo, giustificando il disinteresse degli studiosi, l’accanimento dei critici, il giudizio sommario enfatizzato dal conventional wisdom. Di fatto, alla domanda se possa darsi buona televisione e buona fiction anche al di fuori di esigenti standard di qualità la risposta è senza esitazioni positiva – e sembra ultimamente delinearsi all’interno dei television studies un orientamento in tal senso, che però attende ancora di ‘passare all’atto’. «Let us abandon quality television and embrace good television» ha esortato per prima Sara Cardwell34. Tuttavia, se si adottasse nei confronti della produzione domestica il medesimo approccio selettivo messo in atto per le serie americane – ovvero, restringere il campo a uno specifico genere e a un insieme di programmi che lo rappresentano al meglio – si arriverebbe facilmente a vedere come la fiction italiana abbia a sua volta costruito negli anni una propria ‘tradizione di qualità’, nella quale è possibile ravvisare sia la fisionomia di un genere sia un’idea, nonché esempi riusciti, di buona televisione. Introduco l’espressione ‘tradizione di qualità’ nel preciso intento di evocare quella corrente del cinema francese del secondo dopoguerra (così denominata, appunto) che François Truffaut, all’epoca giovane critico cinematografico, prese a bersaglio della sua acuminata polemica in un celebre articolo dei primi anni cinquanta, considerato il manifesto della nouvelle vague35. Alla tradizione di qualità – in cui si iscrivevano film e cineasti apprezzati e premiati a livello nazionale e internazionale – Truffaut imputava conformismo culturale e accademismo estetico, il ricorso iterato quanto infedele alle fonti letterarie, e una compiaciuta indulgenza per modi convenzionali e formulaici di narrazione e rappresentazione della realtà; e contro questo ‘cinema de papa’36 invocava l’audacia e lo sperimentalismo di un nuovo cinema d’autore, arrivando a sostenere l’impossibilità della coesistenza fra le due opposte tendenze. Trasposta sulla odierna scena televisiva, una analoga contestazione può essere vista all’opera in Italia, dove egualmente l’invocazione di una svolta innovativa (certo necessaria e opportuna) si accompagna volentieri a indiscriminati giudizi demolitori della arretrata e stagnante fiction domesti-
34
S. Cardwell, Is quality television any good?, cit., p. 34. F. Truffaut, “Une certaine tendance du cinéma français”, «Cahiers du cinéma», n°31, 1954, s.i.p. 36 L’espressione ‘cinema de papa’ viene comunemente attribuita a Truffaut, ma non si ritrova tuttavia nell’articolo citato. 35
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ca, e a un misto di derisione e insofferenza per il legame privilegiato che essa ha stabilito e intrattiene con i pubblici di età più avanzata37. La ‘tradizione di qualità’ della fiction italiana ha radici lontane, nella televisione delle origini. E, al di là di inevitabili aggiustamenti intervenuti nel corso del tempo, si è mantenuta nella sostanza coerente con una idea basilare di ambizione e riuscita qualitativa come prerogative costituite e definite primariamente dalla associazione privilegiata, una sorta di affinità elettiva, fra una certa forma narrativa e certi contenuti tematici. Nel nostro caso la forma coincide con la miniserie. Media hybrid38, formula liminale al confine tra cinema e televisione, la miniserie occupa un posto speciale nella storia della fiction italiana, in quanto incorpora la prolungata e duratura refrattarietà della cultura televisiva nazionale nei confronti della serialità. Da noi la reputazione dei formati produttivi e delle formule narrative sembra essere inversamente proporzionale alle ‘quantità’ che mobilitano, sul piano della estensione, segmentazione e durata, in base al convenzionale principio di contraddizione tra quantità e qualità. Il formato corto della miniserie, che in Italia viene realizzata preferibilmente nella versione in due parti, si ritrova pertanto a occupare una posizione privilegiata sulla polarità positiva dell’asse del prestigio culturale, a grande distanza da soap, telenovele e serie lunghe. S’intende che all’estremo opposto della serialità televisiva risiede il cinema. E non a caso – dopo una prima fase risalente alle origini della televisione, quando si presentava sotto specie di sceneggiato e ricercava nei modelli della rappresentazione teatrale i riferimenti alti della propria nobilitazione culturale – la miniserie italiana ha preso a guardare direttamente al cinema nell’intento di affrancarsi dalla condizione di ‘figlia di un medium minore’ (non diversamente peraltro dalla ‘quality tv’ statunitense che, secondo Thompson, vanta fra i suoi primari requisiti il pedigree cinematografico39). Gli elevati investimenti finanziari, le campagne promozionali, la ricchezza scenografica, le riprese in esterni e on location, il cast importante che include non di rado attori e autori del grande schermo, nazionale e internazionale: tutti questi elementi innalzano la miniserie al rango di un’opera cinematografica. E al cinema è invalso ultimamente l’uso di equipararla negli stessi titoli di testa che, specie quando i registi o gli sceneggiatori sono (come non
37
Ad esempio, intervenendo il 15 ottobre 2012 a una puntata di Tv talk, il regista Paolo Virzì ha definito la fiction italiana ‘camomilla per gli anziani’. 38 G. Edgerton, The American made-for-tv movie, in B. Rose (ed.), Tv Genres, Westport, Greenwood Press, 1985, pp. 151-180. 39 R. J. Thompson, Television’s second golden age, cit., p. 14.
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è infrequente) personalità rinomate e di formazione e pratica cinematografica, convertono la definizione di miniserie nella più lusinghiera attribuzione autoriale ‘un film di…’. Una piena consacrazione in tal senso si è avuta nel 2003, quando la miniserie in quattro puntate La meglio gioventù diretta dal regista Marco Tullio Giordana, rinomato esponente del cinema civile italiano, ha partecipato al 56° festival di Cannes ottenendo riconoscimenti e premi cinematografici (miglior ‘film’ nella sezione ‘un certain régard’) – e venendo successivamente inclusa dal «New York Times» nella lista dei migliori film distribuiti negli USA nel corso del 2005. La meglio gioventù ricostruiva 40 anni della più recente storia socio-politica del Paese. Il che conduce direttamente alla materia narrativa tradizionalmente associata alla miniserie, e di fatto sua parte integrante nella stretta interrelazione di forma e contenuti. Costruire narrative su temi e soggetti seri, rilevanti, ‘impegnati’, è per l’appunto ambizione e prerogativa della miniserie che trae largamente ispirazione da fonti storiche, biografiche, religiose, letterarie, nonché dai problemi dell’attualità sociale: vale a dire, un insieme di materia narrativa caratterizzata da un grado elevato di rispettabilità culturale. Risiede inoltre nella miniserie un potenziale di internazionalizzazione dotato di speciale attrattiva per un paese, come l’Italia, che non è finora riuscito a ritagliarsi un ruolo significativo nella esportazione del prodotto televisivo domestico. Si tratta di un potenziale suscettibile di essere dispiegato per il tramite delle co-produzioni, presenti in modo costante se pure quantitativamente rarefatto nell’ampio catalogo storico delle miniserie italiane40. E quand’anche la promessa o l’aspettativa della circolazione internazionale non vengano soddisfatte, una miniserie co-prodotta costituisce una risorsa di valore aggiunto, poiché attrae e lusinga il pubblico nazionale con l’offerta di fiction ad alto budget che compensa e riscatta le modeste economie e i mediocri valori di produzione di buona parte della fiction italiana corrente. Ma, qualunque sia la tipologia di produzione, la miniserie sembra possedere un inimitabile vantaggio esclusivo: quello che i broadcasters e gli operatori del marketing definiscono ‘illuminazione della rete’, ovvero un lusinghiero ritorno di immagine e un rilucente alone positivo che perdura nel tempo – 40 Per limitarsi a una selezione di titoli degli anni 2000: I miserabili (Canale 5, 2000); Il dottor Zhivago (Canale 5, 2002: candidatura del regista Giacomo Campiotti ai BAFTA awards del 2003; Papa Giovanni Paolo II (Raiuno, 2005: protagonista John Voight); Guerra e pace (Raiuno, 2007); Caravaggio (Raiuno, 2007); Coco Chanel (Raiuno, 2008: candidatura di Shirley MacLaine ai Golden Globe e Emmy awards del 2009); Pinocchio (Raiuno, 2009: protagonista Bob Hoskins); La principessa Sissi (Raiuno, 2010); Titanic (Raiuno, 2012: premio per la migliore co-produzione europea al Festival di Montecarlo del 2012).
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perfino indipendentemente dai risultati di ascolto, d’abitudine assai elevati come dimostra la sistematica collocazione delle miniserie al top dei successi stagionali. In proposito, vale la pena sottolineare come la considerazione e l’uso della miniserie in funzione di ‘faro’ delle reti41 sia tutt’altro che una pratica obsoleta in cui si attarda la televisione italiana. Se la televisione americana deve offrire un orizzonte di riferimento e un termine di confronto, non si può ignorare la rinascita sperimentata dalla miniserie nell’innovativo ambiente del narrowcasting statunitense, dove è migrata da tempo, e dove viene usata strategicamente dai canali di nicchia per costruire brand, status culturale, eventi di speciale richiamo42. Proprio HBO, alfiera della ‘quality tv’, ha aperto pionieristicamente la strada al ritorno della miniserie, ridando vita con i suoi progetti ambiziosi a una forma ormai abbandonata dai grandi network. Dotata di un alto grado di rispettabilità artistica in virtù della sua affinità con il cinema, e corredata da ulteriori prerogative che ne marcano la distinzione rispetto alla fiction ‘normale’ – così da venire spesso associata alla risonante nozione di ‘evento’ – la miniserie riverbera sulla propria materia narrativa il prestigio di un veicolo di prima classe, dai costi e valori produttivi all’altezza del rango. A sua volta beneficia del marchio nobilitante che le viene impresso da contenuti storici, biografici, letterari e sociali, dotati della legittimità culturale indiscutibilmente attribuita ai soggetti seri, colti e impegnati. Si realizza in tal modo, nella (costruita) affinità elettiva tra una forma quasi-cinematografica e una materia narrativa dotata di riconosciuta rilevanza, un mix suscettibile di passare per una condizione o una credenziale di qualità. Formula narrativa non (o debolmente) seriale, pedigree cinematografico, elevati valori di produzione, elementi e fattori di internazionalizzazione, carattere evenemenziale, selezione tematica di ispirazione letteraria (adattamenti) e soprattutto realistica (storia, biografie, società), strategia comunicativa orientata a un pubblico generalista: su questo insieme di caratteristiche si è costituita la ‘tradizione di qualità’ della fiction italiana, da assumere qui nella accezione definitoria di un profilo di genere. È interessante osservare come alcuni tratti del profilo, indubitabilmente ‘classico’ e in senso proprio tradizionale, appaiano sostanzialmente omologhi a quelli attribuiti
41
E. Copple Smith, A form in peril? The evolution of the made-for-television movie, in A. D. Lotz (ed.), Beyond prime time, London, Routledge, 2009, pp. 138-155. 42 Cfr. in proposito J. Mc Murria, Long-format Tv. Globalisation and network branding in a multichannel era, in M. Jancovich, J. Lyons (eds.), Quality Popular Television, cit., pp. 65-87; e E. Copple Smith, A form in peril? The evolution of the made-for-television movie, cit..
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alla ‘quality tv’ statunitense: ad esempio, l’ambizione di distinguersi dalla produzione televisiva corrente e se possibile dalla televisione tout-court, le aspirazioni realistiche, la predilezione per temi rilevanti o controversi, la tensione ad acquisire uno status da opera cinematografica. (A quest’ultimo proposito, sarebbe probabilmente il caso per i television studies di smettere di voler presidiare i confini della televisione43, e accettare le sue incursioni nei territori di altre forme culturali e artistiche come pratiche ibridatorie potenzialmente feconde, e comunque non stigmatizzabili per il solo fatto di perseguire intenti di legittimazione culturale). S’intende che le differenze sono altrettanto numerose, ma il principale fattore di discrimine è senza dubbio il pubblico di riferimento. Scrive Thompson che la ‘quality tv’ «attracts an audience with blue chip demographics. The upscale, well-educated, urban-dwelling, young viewers advertisers so desire to reach tend to make up a much larger percentage of the audience of these shows than of other kinds of programs»44. All’opposto, la ‘tradizione di qualità’ della fiction italiana, che si è costruita e rimane tuttora iscritta entro le logiche culturali e le strategie comunicative del broadcasting, si caratterizza per i suoi successi presso le estese e composite formazioni dei pubblici generalisti. Senza dover per questo aderire a un atteggiamento di populistica compiacenza per la ‘massa’ contro la ‘classe’, è plausibile sostenere che la postura generalista della ‘tradizione di qualità’ risulta oggi particolarmente invisa – quasi come un vizio d’origine o un fatal flaw da redimere – agli occhi della critica e di una opinione intellettuale e accademica tributarie entrambe, in maggiore o minor misura, di una infatuazione per i fenomeni di differenziazione e frammentazione in corso negli ambienti mediali contemporanei. Riguardata da una prospettiva valutativa, la ‘tradizione di qualità’ della fiction italiana appare innegabilmente vulnerabile a giudizi critici45 – più o meno motivati o pregiudiziali, a seconda dei casi – non dissimili, in parte, da quelli rivolti da François Truffaut al cinema francese del secondo dopoguerra. Resta tuttavia il fatto che questa stessa tradizione (criticabile al pari di ogni altra) ha generato negli anni numerosi esempi di buona televisione, che per apprezzabile livello di fattura, efficace trattamento drammaturgico dei soggetti, e non di rado utile contributo conoscitivo alla storia e alla so43 Raccolgo questa esortazione da S. Dasgupta, “Policing the people: Television studies and the problem of quality”, cit.. 44 R. J. Thompson, Television’s second golden age, cit., p. 14. 45 Riproporre iteratamente narrative formulaiche e convenzionali, voler compiacere tutti, rifuggire dalle controversie morali così come dalle sperimentazioni estetiche, peccare di didatticismo e semplicismo, cedere alle tentazioni agiografiche e buoniste, e altro ancora.
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cietà italiana, si annoverano tra i migliori prodotti di fiction realizzati fino a oggi: si pensi, a titolo meramente indicativo, a La piovra (Raino, 1984-2001), Un cane sciolto (Raiuno, 1990-91), Fantaghirò (Canale 5, 1991- 1994), Giuseppe (Raiuno 1995)46, Ultimo (Canale 5, 1998-1999), Padre Pio (Canale 5, 2000), Perlasca. Un eroe italiano (Raiuno, 2002), Papa Giovanni (Raiuno, 2002), La meglio gioventù (Raiuno, 2003), Il giudice Borsellino (Canale 5, 2004)47, Cefalonia (Raiuno, 2005), Il capo dei capi (Canale 5, 2007), C’era una volta la città dei matti (Raiuno, 2010)48. E molti altri. Non è possibile argomentare qui le ragioni dei risultati piuttosto modesti, sul piano qualitativo anche se non necessariamente degli ascolti, raggiunti da serie e serial italiani (con le dovute eccezioni49): frutti imperfetti di un’industria e cultura televisiva che solo tardi e con riluttanza mai del tutto superata si è arresa all’imperativo della produzione seriale. Basterà dire che – facendo eccezione in questo caso per le finora rare ma acclamate incursioni delle reti satellitari nel campo della produzione originale, ovvero Boris (Fox, 2007-2010) e Romanzo criminale (Sky, 2008-2010) – la fiction italiana contemporanea nel suo insieme, e massimamente la ‘tradizione di qualità’, riguardata dai suoi molti critici come esausta e superata, viene «repudiated within scholarship for a transatlantic romance (cors. mio) with US quality drama»: come ha scritto Charlotte Brunsdon constatando già qualche anno fa una analoga sindrome nel contesto britannico50. Può valere la pena annotare come la presa di distanza culturale dalla serialità, su cui è del resto fondata la preminenza della miniserie nella tradizione italiana, è stata per anni strettamente associata a una forte sospettosità (se non proprio rifiuto) nei confronti della televisione statunitense. Broadcasters, intellettuali, critici, talenti creativi, settori del pubblico nazionale, hanno lungamente considerato i programmi di origine americana alla stregua de ‘la cattiva televisione’ da tenere a distanza, ‘l’altro transatlantico’ di fronte a cui la fiction domestica si ergeva come un bastione di qualità. Un tempo ‘cattiva televisione’, la fiction americana si è ora convertita nell’epitome dell’eccellenza televisiva, da assumere come termine di confronto – in realtà atto a stimolare piuttosto la propensione al cultural cringe51 che una virtuosa emulazione –. 46
Giuseppe, uno dei capitoli del Progetto Bibbia, ha vinto l’edizione 2005 degli Emmy awards come miglior miniserie dell’anno. 47 Premio per la miglior miniserie al 45° Festival della televisione di Montecarlo. 48 Premio per la miglior miniserie al Festival della televisione di Montecarlo del 2010. 49 Il commissario Montalbano (Raiuno) e le prime stagioni di RIS. Delitti imperfetti (Canale 5) sono sicuramente da citare in proposito. 50 C. Brunsdon, “Is television studies history?”, «Cinema journal», 47:3, 2008, p. 133. 51 Il cultural cringe, che si dice affligga la cultura Australiana – ma non è per nulla estraneo
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Beninteso, non c’è assolutamente niente di male nel coltivare un ‘idillio transatlantico’, tanto più che le serie americane – e non solo quelle che ricadono nella categoria della ‘quality tv’ – possono essere realmente di gran pregio, e suscitare interesse, attaccamento e ammirazione sotto svariati profili. Allo stesso tempo, le tradizioni nazionali di qualità come quella italiana meritano a loro volta attenzione accademica e impegno di analisi e di valutazione critica, senza che ciò equivalga in alcun modo a privilegiare «a very municipal sense of the medium»52, né a fornire un endorsement allo storytelling domestico contro l’evidenza della sua mediocrità ovunque essa si manifesti. Il punto fondamentale è che, in quanto studiosi di televisione, siamo tenuti a essere pluralisti e a riconoscere e accogliere, invece che respingere, l’esistenza di un «range of different and often contradictory qualities»53. L’abbraccio romantico di nuove stupefacenti estetiche e di complessità narrative magistralmente dispiegate dalle migliori fiction americane non esige il nostro coinvolgimento esclusivo. Al contrario, può e deve coesistere con la presa in considerazione di altre fondative tradizioni di qualità: in specie quando queste dimostrino di continuare a svolgere54 rilevanti funzioni culturali offrendo i piaceri, i significati e i saperi propri della buona televisione all’esperienza di consumo condiviso delle (tuttora esistenti e consistenti) audience televisive nazionali.
a quella italiana – è una sorta di complesso di inferiorità culturale nei confronti di altri gruppi, popoli o paesi. 52 J, Jacobs, “The medium in crisis: Caughie, Brunsdon and the problem of US television”, «Screen», 52:4, 2011, pp. 503-511. Non è del resto meno municipale ovvero provinciale la celebrazione della fiction americana. 53 G. Mulgan (ed.), The question of quality, cit., p. 8. 54 Forse non indefinitamente, se è vero che la miniserie è a rischio di estinzione o comunque di netto ridimensionamento a causa dei suoi elevati costi di produzioni sempre meno compatibili con i bilanci ridotti delle reti.
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PARTE SECONDA
Scenari in mutamento
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7 La stagione dell’abbondanza. Pubblici, reti e paradossi dei nuovi tempi della fiction
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di Mihaela Gavrila
Tempo di fiction può voler dire anche tempo di riflessione sulle nuove dinamiche che fanno sì che le industrie creative riescano a dare risposte e a stimolare una società in continuo movimento. Al centro del ragionamento sviluppato nelle pagine che seguono si trova la sinergia fra le strategie della produzione e della distribuzione e i nuovi comportamenti dei pubblici nella galassia digitale. E la fiction si propone come contenuto pregiato e forma narrativa che si presta ad attraversamenti tra i media, andando oltre i media, nella vita quotidiana, nei consumi, negli stili di vita delle persone, nell’offrire modelli spesso transnazionali. Infine, la globalizzazione dei contenuti della narrazione mainstream sta diventando il singolare territorio di contesa e di coltivazione di nuove credenze e modelli culturali. Interessa, pertanto, non solo la distribuzione sociale della fiction restituitaci dai numeri e dai tabulati pubblicitari, ma soprattutto la capacità degli operatori dei media di dare risposte convincenti al cambiamento degli stili di vita, all’organizzazione della vita sociale, ai sogni e ai progetti dei fruitori.
7.1. La fiction e i suoi mercati Ancor oggi, a trent’anni di distanza, la fiction televisiva si rispecchia pienamente nella dicotomia della programmazione fornita da Umberto Eco nella prefazione al rapporto sull’intrattenimento televisivo curato da Mauro Wolf, all’inizio degli Anni Ottanta1. Descritta per opposizione rispetto ai programmi di informazione (la televisione fornisce enunciati circa eventi che 1
Cfr. M. Wolf (a cura di), Tra informazione ed evasione: i programmi televisivi di intrattenimento. Dati per la verifica dei programmi trasmessi. Contributi di studio,Torino, Rai-Eri, 1981.
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si verificano indipendentemente da essa, in forma orale, attraverso riprese dirette o differite, ricostruzioni filmate o in studio, che attivano nel pubblico attese di verità secondo criteri di rilevanza e proporzione, separando informazione e commento) la fiction rientra, secondo Eco, nei programmi di fantasia o di finzione (spettacoli, drammi, commedie, opere liriche, film, telefilm). Per questa seconda tipologia di programmazione, lo spettatore attua per consenso la sospensione dell’incredulità, ammettendo che i programmi di finzione veicolino una verità in forma parabolica. La fiction si svela ai propri pubblici in quanto tipologia di programmazione ibrida, che riesce a trasmettere contenuti attraverso parabole e strategie di coinvolgimento del telespettatore diverse da quelle dell’informazione (attua la sospensione dell’incredulità, appunto, generando una disponibilità diversa nel soggetto fruitore, riuscendo a incidere in alcuni casi più fortemente sull’immaginario collettivo rispetto alla classica programmazione informativa). Decontestualizzati e messi sotto la lente d’ingrandimento della narrazione, i personaggi, spesso reali e riconducibili alla storia sociale e politica del Paese, diventano persone comuni, con i loro difetti, passioni e qualità, in grado di persuadere e far identificare fasce piuttosto rilevanti di popolazione. Ma dove vanno a trovare cittadinanza le storie e il racconto nell’era in cui a la Tv si sostituiscono le Tv, nei tempi che vedono un progressivo intreccio tra le narrazioni che passano attraverso i canali tradizionali e le nuove piattaforme di fruizione free o a pagamento? Se nell’era del broadcasting, vedere la televisione equivaleva a sentirsi parte della collettività, il narrowcasting sposta l’esperienza televisiva nel perimetro di gruppi comunitari più ristretti e, allo stesso tempo, più omogenei al loro interno. Laddove la televisione generalista riunisce e tiene insieme, la televisione specializzata, con le sue tante reti dall’offerta mirata, scompone l’eterogeneo nell’omogeneo2, ritagliandosi piccoli segmenti di pubblico nell’insieme indifferenziato dell’audience. Un trend che prende il via in Italia soprattutto con l’effettivo ingresso della televisione satellitare, a carico di un operatore come Sky, per poi accreditarsi anche sul digitale terrestre. Basterebbe leggere con attenzione l’estensione graduale dei pubblici di Sky per comprendere la portata del cambiamento di questi scenari comunicativi. Ne emerge una foto di gruppo degli italiani, nel loro rapporto con i media, decisamente innovativa rispetto al passato. Finora la tv digitale satellitare è stata relegata entro quadri pregiudiziali – interdetta 2
M. Buonanno, F. Lucherini, La fiction nell’ambiente televisivo multicanale: il caso delle reti Fox, in M. Buonanno (a cura di), Le radici e le foglie. La fiction italiana, l’Italia nella fiction. Anno diciottesimo, Roma, RaiEri, 2006.
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perché a pagamento, una realtà poco attraente perché non in grado di incidere sull’opinione pubblica, data la sua limitata copertura sociale. Oggi la situazione è cambiata, al punto che Sky Italia è diventata un competitor interessante sia dal punto di vista delle preferenze dei fruitori che da quello degli investitori pubblicitari. Una volta superata la prima fase in cui hanno fatto da apripista killer application come il calcio ed il cinema, la pay tv inizia ad andare controcorrente svolgendo una funzione di acculturazione rispetto a contenuti spesso deboli nei palinsesti tradizionali. Sport e film mantengono il ruolo di prodotti trainanti, ma già da qualche anno ha iniziato a prendere piede il fenomeno di migrazione dei pubblici verso il resto dell’offerta inclusa nei bouquet. In un contesto di delegittimazione della televisione tradizionale e di progressivo spostamento dei giovani verso le piattaforme più innovative, il satellite si propone come una risposta di mediazione. Infrastruttura tecnologica e adattamento ai nuovi trend di consumo e stili di vita trovano riscontro in una programmazione che armonizza elementi di continuità e di rottura fra vecchie e nuove tv. A fronte della stanchezza della tv tradizionale si affacciano, anche nel mercato delle altre tv, contenuti più che mai aperti alla fruizione di un’ampia platea. Un nuovo mainstream, dunque, che si sviluppa soprattutto in orizzontale, nella navigazione tra le righe della multicanalità. È questa la chiave del successo della sat tv: pur aperta all’interattività e ai nuovi contenuti, si propone di garantire ai propri fruitori elementi di continuità con la tv tradizionale, con gli altri media (vedi la ricca offerta di film e telefilm, di canali musicali e radiofonici), con la società che cambia. Riesce a conciliare, cioè, il bisogno dell’individuo moderno di decidere personalmente le proprie opzioni comunicative, con la comodità di lasciarsi guidare tra i sentieri di un’offerta descritta attraverso codici numerici e parole chiave. Come in un grande videogame di caccia al tesoro, riconosciamo subito le scorciatoie attraverso i numeri attribuiti (ad es. 200, canali sportivi, 300, canali di cinema, 400, cultura, identità, scoperta, 500, informazione, anche a carattere internazionale, 600, programmazione per bambini e minori, 700, musica etc.). Si tratta di una prima convincente sperimentazione della moltiplicazione dell’offerta: utile come esercizio produttivo che ha preparato lo sviluppo di altre formule audiovisive digitali, nonché l’incremento dell’interattività come possibilità di integrazione con gli altri media. La strategia vincente in termini di contenuti è stata, almeno fino ad ora, la trasformazione e l’adattamento degli stessi ai nuovi comportamenti di fruizione, soluzione che ha garantito la possibilità di condividere – e a volte anche di sottrarre – quote di audience con/alla vecchia tv.
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La sintesi del rapporto tra le reti broadcasting e le reti narrowcasting viene restituita metaforicamente da Milly Buonanno, che associa alle televisioni generaliste terrestri l’immagine del supermarket in cui trovare prodotti a buon mercato adatti a tutti i palati e a tutte le tasche, mentre la televisione specializzata, prevalentemente satellitare, in Italia, si presenta come una boutique, luogo esclusivo in cui scegliere prodotti pregiati per palati fini3. Ma le strategie di programmazione arrivano ben oltre. Grazie alle tecnologie digitali i contenuti si liberano dalla rigidità temporale tipica del piccolo schermo e possono essere fruiti con maggiore flessibilità a seconda delle esigenze del telespettatore. Siamo sul territorio mobile del transmedia storytelling4. Le applicazioni più avanzate delle nuove (finora) tecnologie ci riconducono in tal modo a modalità di esperienza culturale e sociale preesistenti – e coesistenti: continuiamo a leggere libri in qualsiasi era della televisione, così come continuiamo a sperimentare la simultaneità despazializzata sulla larga scala del broadcasting o nelle più ristrette dimensioni del narrowcasting. Se è arduo far passare per rivoluzionarie trasformazioni di questo tipo, il loro ruolo nel favorire la pluralizzazione delle forme del consumo televisivo non può essere sottovalutato5.
7.2. La fiction e i suoi pubblici. Dalla forza centripeta del mainstream, alla forza centrifuga della social television Al di là delle opzioni di tipo economico, per attivare con successo i processi di estensione di possibilità narrative e commerciali, i players sono chiamati a monitorare con attenzione la navigazione dei pubblici tra una piattaforma e un’altra, sapere quello che accade nell’universo della fruizione: quanti sono, e soprattutto come si rapportano al prodotto fiction e perché; la quantità, ma ancor più la qualità del consumo e del rapporto che s’instaura con il 3
Ibid. Cfr. H. Jenkins, «Transmedia storytelling. Moving Characters from books to films to videogames can make them stronger and more compelling», in Technology Review, 10 dicembre 2008, http://www.technologyreview.com/biotech/13052. Si veda in proposito il contributo di Gianni Ciofalo più avanti nel volume. 5 Cfr. M. Buonanno, L’età della televisione. Esperienze e teorie, Roma-Bari: Laterza, 2006, p. 88. L’affascinante universo della fiction è diventato oggetto di studio del ventennale Osservatorio sulla Fiction Italiana, diretto dalla stessa Milly Buonanno. Tra gli output più importanti dell’OFI, si ricordano i rapporti Eurofiction, pubblicati da Rai-Eri, nella collana Vqpt, oltre ai numerosi rapporti annuali su «La fiction italiana/L’Italia nella fiction» pubblicati sempre dalla Rai-Eri – Vqpt. e, negli ultimi anni, nella collana ZONE. Cfr. http://www.campo-ofi.it. 4
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mezzo. Il mondo della fiction diventa, dunque, terreno di sperimentazione per lo studio delle nuove modalità con le quali l’utente moderno si relaziona a quel tipo di programmazione tv che più riesce a intrattenere informando ed educando. Proprio per questi motivi, ragionando anche in considerazione del ruolo della produzione di fiction quale contenuto pregiato della tv tradizionale e alternativa, risulta fondamentale aprire una riflessione su quelli che sono i punti deboli del patto comunicativo tra l’universo della produzione e quello della fruizione, in particolare quello dei pubblici giovani. In altre parole, il racconto televisivo storico e mitizzante deve mantenere al centro le persone, la loro sensibilità e la loro sceneggiatura per il passaggio al futuro. Ritorniamo ai giovani, i pubblici più interessanti da affrontare nelle sfide dei media. Osservando attentamente l’evoluzione delle audience delle principali reti televisive italiane, emerge con chiarezza un tendenziale invecchiamento delle platee della fiction (sia d’acquisto, sia di produzione). Già a partire dal 2000 il fenomeno è diventato evidente, segnalando un trend più accentuato per la produzione nostrana rispetto a quella di acquisto. Quello che accade nell’universo della fruizione della fiction rispecchia pienamente sia le difficoltà della tv tradizionale italiana di mantenere il patto comunicativo con i pubblici giovani, sia un evidente atteggiamento esplorativo, a tratti incomprensibile per il mondo adulto, da parte degli stessi giovani rispetto ai contenuti in ambienti multimediali6. Il pubblico, infatti, è cambiato radicalmente rispetto a qualche anno fa. Stando ai dati Censis, ad esempio, si è passati dal 20,1 % di fruitori di Internet, sul totale della popolazione italiana, nel 2001, al 62% del 2012. Quasi 42% di differenza in soli 11 anni, con una platea composta prevalentemente da giovani (90,8%) e giovani adulti (81,2%)7. Non è un caso, dunque, se i player e, con loro, vari altri soggetti editoriali, abbiano deciso di veicolare i propri prodotti anche online, oppure di sperimentare in rete contenuti che altrimenti avrebbero avuto con difficoltà spazio di espressione nei palinsesti televisivi. Stando ai dati Audiweb, l’attivismo degli internet users è sempre maggiore. Per quanto riguarda la fruizione dei contenuti video online (Audiweb Objects Video), nel mese di settembre 2012 risultano 5,5 milioni gli utenti che hanno visualizzato da PC almeno un contenuto video su uno dei siti
6
Per una riflessione più approfondita sulla perdita dei pubblici giovani da parte delle reti tradizionali, cfr. M. Gavrila, La crisi della tv. La tv della crisi. Televisione e Public service nell’eterna transizione italiana, Milano, FrancoAngeli, 2010. 7 Cfr. Censis-UCSI, Decimo rapporto sulla Comunicazione. I media siamo noi. L’inizio dell’era biomediatica, Milano, FrancoAngeli, 2012.
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degli editori iscritti al servizio, con 41 milioni di stream views (video fruiti) e una media di 25 minuti e 11 secondi di tempo speso per persona. Nel giorno medio risultano 1,4 milioni le stream views fruite da 591 mila utenti, che hanno dedicato alla visione dei contenuti video 7 minuti e 47 secondi in media per persona. È chiaro che facciamo i conti con una fruizione diversa rispetto a quella tradizionale, televisiva, come, d’altronde, con utenti almeno in parte differenti rispetto ai più stabili pubblici della tv di una volta. In effetti, da qui scaturiscono gli orientamenti e, soprattutto, gli disorientamenti dell’universo della produzione/distribuzione, che deve rimodulare il prodotto in funzione di una platea di fruizione sempre più sfuggente. Emerge nuovamente la necessità di far dialogare, entro un continuum, industria e pubblici di riferimento: nelle strategie di riposizionamento della fiction televisiva, stare dalla parte del telespettatore conviene sia ai produttori, sia ai broadcasters. Ma dalla parte di quale telespettatore? Quello tradizionale, che garantisce la pancia dell’ascolto attraverso processi di fidelizzazione e appuntamenti all’interno del palinsesto, oppure quello nuovo, diviso tra fruizione tradizionale e fandom, che non vuole vincoli, soprattutto temporali, seguendo le serie dalla linea narrativa orizzontale, mettendosi in gioco dal punto di vista cognitivo e tecnologico8. Il palinsesto, dunque, funziona come opportunità e come vincolo, nello stesso tempo. È un vincolo soprattutto per il fan. Il fandom è liquido, si estende dal prodotto al genere, si muove con facilità tra piattaforme diverse: dai riassunti/collage in 8 minuti (es. Lost trasmesso su Fox e RaiDue) al magazine ufficiale, i videogames, il merchandising, i racconti a partire da fatti e personaggi etc. La questione che si pone in questo contesto riguarda la tipologia di contenuto che si va a cercare online o altrove: le ricerche confermano che, tra i contenuti pregiati, l’audiovisivo mantiene una posizione dominante, il che ci conduce verso una riflessione che contrasta con la retorica della crisi della tv. Il mezzo televisivo va ripensato, senz’altro, anche alla luce delle evoluzioni tecnologiche e delle abitudini e stili di vita delle persone, ma il contenuto audiovisivo, a prescindere dal supporto che ne permetterà la fruizione, rimarrà ancora per molto un contenuto pregiato. Anche in quest’ottica la produzione, inclusa quella di fiction, va ripensata in funzione delle mission che si prospettano per la tv del futuro: immaginando una più 8
Lo spettatore di Lost non può perdere una puntata e per questo va a vederle attraverso la programmazione meno vincolata delle reti digitali, oppure scarica tutte le puntate attraverso il file sharing.
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solida sinergia tra mezzi tradizionali e innovativi, giochi di specchi e rimandi stimolanti per i pubblici, ma anche per le imprese ormai multimediali. I contenuti a utilità ripetuta, come i film e la fiction, sono effimeri nella cornice sottoposta alle logiche del palinsesto della tv, ma possono trovare spazi privilegiati nel più grande archivio dell’umanità che è Internet, oppure nel formato materiale dei DVD quali «televisione sganciata dalla televisione e posta su uno scaffale»9. Gli scenari presenti e futuri dunque, devono partire necessariamente da una diversa considerazione e rispetto per i fruitori. Il pubblico reale e soprattutto quello potenziale della fiction è più interessante di quello che il mondo della produzione e i network pensano: veloce, curioso, intelligente, multimediale, va catalizzato attraverso strategie moderne di marketing e di partecipazione, in modo da poter ricomporre le comunità di fruitori intorno a interessi, passioni, problemi e pratiche sociali condivise. La fiction fa community e necessita di un adeguato sviluppo di strategie di marketing che considerino il bisogno di raccogliere pubblici intorno a temi, colonne musicali, personaggi, interessi, collezioni, in altre parole, appartenenze. Nella fruizione della fiction, pur rimanendo centrale la funzione sociale della tradizionale visione rituale e condivisa con la comunità immaginata, è evidente il dilagare di nuove forme di visione in anteprima. Sempre più spesso il programma d’interesse viene visionato prima, secondo quella che è stata definita una temporalità anticipata rispetto all’effettiva messa in onda. Il caso più evidente è quello che riguarda le serie televisive americane, scaricate illegalmente e viste in lingua originale con mesi di anticipo rispetto ai tempi di trasmissione della televisione italiana. Questo fenomeno è cresciuto in modo esponenziale e in concomitanza con il sempre maggiore interesse per la fiction statunitense registrato nel corso del decennio. È una pratica, questa, che si applica in modo particolare alle cosiddette serie di culto, caratterizzate da una narrazione fortemente orizzontale: il giovane spettatore addicted non aspetta né rispetta più i tempi imposti dalle reti ufficiali di distribuzione ma va a caccia del contenuto in modo autonomo10. Spesso sono le stesse comunità in rete a dichiarare il successo o l’insuccesso di una serie; sottopongono il prodotto a modifiche, bricolage, adattamenti, sovrap9 D. Kompare, Rerun Nation, London, Routledge, 2005, p. 214, in M. Buonanno, L’età della televisione. Esperienze e teorie, cit. 10 Per rispondere a questo tipo di esigenze sono nati spontaneamente a partire dagli stessi fan moltissimi siti, forum, community dedicati a approfondimento, critica e analisi delle serie televisive. Essenziali al supporto della visione anticipata sono i siti dedicati alla creazione dei sottotitoli italiani; gestiti da appassionati volontari, siti come italiansubs.net, sono diventati punti di riferimento essenziali per ogni amante del genere.
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posizioni, lasciando impronte ma anche contribuendo alla disseminazione di gusti e alla ricomposizione di comunità intorno a “pillole di socialità”. Si tratta di comportamenti colti con una certa velocità dai grandi network o cable americani, che hanno cercato di rispondere a questa bulimia di contenuti rendendo disponibile sempre più spesso ogni sorta di anticipazione dell’episodio successivo come avviene ad esempio all’interno dei cosiddetti sneak peek. In questo modo, attraverso formule brevi di preview che saziano la curiosità dei fan, i produttori accrescono la visibilità dei contenuti aumentandone allo stesso tempo il potere di attrazione. Osservando lo scenario italiano, merita una considerazione particolare, la strategia adottata da Fox, canale presente all’interno del pacchetto intrattenimento nel bouquet Sky. Tradizionalmente ancorata alle prime visioni e alla serialità americana, Fox ha visto, negli ultimi anni, una lenta ma progressiva erosione degli ascolti di alcune tra le serie americane di maggiore successo provocata dalle pratiche di streaming e download illegale. Per arginare questo fenomeno si è ricorso così a un escamotage: la programmazione a 24 ore di distanza dalla messa in onda negli Stati Uniti. In questo modo l’episodio va in onda una prima volta in lingua originale con i sottotitoli, a un solo giorno dalla trasmissione oltreoceano, mentre la settimana successiva viene trasmesso in italiano11. Ma le nuove pratiche di fruizione non cannibalizzano, anzi, integrano quelle tradizionali. L’anticipazione della visione si accompagna nei comportamenti dei pubblici alla temporalità sincronizzata, ancora vincolata ai ritmi dei tradizionali palinsesti lineari, anche se a ben vedere emergono anche in questo caso sfumature inedite: se alla visione di un determinato programma live, infatti, si affiancano pratiche di condivisione e commento in tempo reale sui social network, certamente la relazione con il programma ne resta in qualche modo condizionata. Dai forum alle pagine di Facebook, dall’instant messaging al live-blogging fino ad arrivare ai più recenti social network dedicati alla televisione, sono molti gli spazi di condivisione resi disponibili dalla rete. L’idea di un appuntamento televisivo da seguire dal vivo viene generalmente associata ai reality show, più che a contenuti di fiction, mentre sono ormai numerosissime anche le comunità che nascono
11
Un primo caso di messa in onda in contemporanea con gli Stati Uniti è quello del finale di serie di Lost (24 maggio 2010), grazie agli accordi tra The Walt Disney Company Italia (Walt Disney Company è uno dei produttori della serie), Fox Channels Italy e Telecom Italia. Oltre che su Fox, inoltre, la diretta del finale di Lost fu trasmesso anche sulle piattaforme multimediali di Telecom Italia, via Iptv e WebTv all’indirizzo lost. cubovision. it..
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e si ritrovano online per commentare l’ultimo episodio di Dexter, Romanzo Criminale o Glee. Queste comunità continuano a rispettare tempi e modi di visione imposti dal palinsesto, ma attraverso la rete rendono la messa in onda un appuntamento atteso e socialmente significativo. E mentre la visione effettiva del programma online rimane circoscritta a una platea ancora piuttosto ridotta (il 9,3% degli italiani, con il 20,7% di giovani tra i 14 e i 29 anni, stando al Censis 2012), il confronto e la convocazione della community intorno ai contenuti tv caratterizza, nello stesso anno, il 59,8% degli italiani12. La funzione socializzante del contenuto televisivo si evince, d’altronde, anche dall’analisi dei dati AudiWeb View del 2011: l’86% degli utenti di Internet accede ai social network. Si tratta di persone generalmente multitasking, che affiancano alla fruizione televisiva l’attività on line. Il core target delle piattaforme social rivede online frammenti delle trasmissioni televisive preferite (32%), svolge attività di liveblogging (26%), visita i siti ufficiali (22%) e non ufficiali (20%) in cerca di approfondimenti. Tabella 1 – Le attività che accompagnano la fruizione televisiva degli internet users Rivede online frammenti delle trasmissioni preferite
32%
Liveblogging
26%
Visita i siti ufficiali in cerca di approfondimenti
22%
Approfondisce su siti non ufficiali
20%
Fonte: elaborazioni GroupM su dati Audiweb View 2011
Ma il rapporto dei nuovi e vecchi pubblici con i prodotti non si esaurisce con la messa in onda. S’innesca, infatti, quella che viene chiamata la temporalità ex post; si guarda cioè un programma dopo la trasmissione, in qualunque momento successivo: dopo la messa in onda, il contenuto viene sempre più spesso reso disponibile online o su supporti come DVR e DVD in modo da liberare il telespettatore dai vincoli del palinsesto. Tuttavia, in quest’ambito, quel che sembra più rilevante è la suddivisione del programma in frammenti più o meno indipendenti da parte degli utenti. Una volta isolate, queste pillole vengono caricate e condivise, su Youtube generalmente, assumono nuovi significati, attirano nuovi fan, diventano autonome rispetto al testo da cui sono tratte. Si presentano, infine, come nuovi testi, dalla narratività concentrata e proprio per questo, per certi versi più intensa. 12
Cfr. Censis-UCSI, Decimo rapporto sulla Comunicazione, cit.
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Eclatante in questo senso il successo online dei momenti musicali della serie Glee; una volta in rete questi brani, perfettamente fruibili anche da chi non conosce la serie, hanno generato un consistente eco sui social network, dimostrando tutto il potenziale virale del prodotto. Nuovi spazi, nuovi luoghi, nuovi modi di visione. L’emergere di nuove possibilità di fruizione ha liberato l’esperienza di visione dai limiti del flusso di programmazione stabilito nei palinsesti e sono affiorate nuove modalità di utilizzo del medium. Si va, dunque, verso la social television, che non sostituisce ma amplifica e trasforma in strumento di relazione e di ricomposizione il contenuto tradizionale. Quel che è certo è che a questi cambiamenti dinamici va affiancato anche un modo nuovo di considerare la tv, capace di comprenderne nuovi e inusuali attributi. We need to think of the medium not as Television but as televisions:13 lontana anni luce dalle passate sentenze di morte annunciata, la tv gode oggi di tutt’altro respiro ed è più viva che mai. Con la differenza che al culto del mezzo si sostituisce quello del contenuto o del brand e della sua credibilità e reputazione. È questo il principale regalo del digitale, che necessità di una intelligente interpretazione da parte degli editori e degli investitori pubblicitari. Tabella 2 – Le social tv Piattaforme di social tv
Caratteristiche
GETGLUE
Aiuta gli utenti a identificare i propri film preferiti sulla base dei gusti personali o degli “amici”. *Fox lo ha usato per lanciare la serie tv “Bob’s Burger”.
MISO
Registra i telefilm e i film che gli utenti stanno guardando e stimola la condivisione della fruizione con gli amici. Geolocalizza il fruitore.
TUNERFISH
Mette in contatto utenti appassionati di serie televisive attraverso i loro profili Facebook e Twitter per discutere e commentare gli episodi mentre si stanno guardando.
MOKI.TV
Ha schedato oltre 40.000 film e 60.000 puntate di serie televisive che l’utente può decidere di commentare, recensire o consigliare ai propri contatti.
QLIPSO
È una “media company” digitale che ha creato ambienti virtuali affinché gli amici possano condividere “flash-based media”. Questi ambienti sono integrati con Facebook e Twitter.
13
A. D. Lotz, The Television will be revolutionized, New York, New York University Press, 2007, p. 78.
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CLICKER. WAT’S ON ONLINE
È un “social search engine” concentrato sui contenuti televisivi disponibili in rete. Intercetta e suggerisce solo contenuti legali. Il database include oltre 750.000 episodi a partire da 12.000 programmi tv.
COUCHIN.COM
Piattaforma che si caratterizza per un’applicazione dedicata a commentare e votare in tempo reale il palinsesto televisivo. L’obiettivo dichiarato è creare un’Auditel 2.0 completamente rinnovato attraverso l’uso dei social network.
Fonte: nostra elaborazione sintetica su Isicult, Italia: a Media Creative Nation, 2011
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7.3. Tempo di fiction, tempo di paradossi Gli scenari che abbiamo delineato, è evidente, descrivono un mondo nuovo, basato sul continuo gioco di specchi tra la fiction tradizionale, quella che ha accompagnato le persone verso la modernità, attraverso lezioni di cultura nazional-popolare, e la cultura del frammento e della temporalità ristretta. Le storie evadono dalla gabbia ormai troppo stretta della televisione tradizionale, si trasformano e si lasciano trasformare per intercettare nuovi pubblici o rafforzare quelli già esistenti negli spazi delle altre piattaforme o media. S’innesca, in questo modo, un meccanismo sfruttato da qualche anno dal marketing delle grandi Company, che va oltre il semplice sviluppo della storia, per adattarla ai diversi media e linguaggi e sviluppare un vero e proprio stile narrativo multimodale. Il mercato, persino quello televisivo, inizia a fare i conti con una progressiva sostituzione del marketing tradizionale con un più interessante e inevitabile marketing che parta dalle persone e dalla società per arrivare alle persone e alla società: societing, appunto, per dirla con Giampaolo Fabris. Un marketing che si trasforma in societing perché i prodotti, le marche si dematerializzano e diventano segni e simboli, i mercati luoghi di conversazione e le responsabilità sociali di chi produce, anche nei confronti di sempre nuovi stakeholder, ormai indifferibili. Spostare l’enfasi dal mercato alla società – societing, appunto – significa non solo legittimazione sociale del marketing ma anche attribuirgli una centralità e un’efficacia, nell’agire dell’impresa, che andava smarrendo14.
A queste tendenze non può sfuggire la fiction, da sempre contenuto pregiato della televisione tradizionale, che si è adattato pienamente alla lo14
G. Fabris, Societing. Il marketing nella società postmoderna, Milano: Egea, 2008.
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gica delle nuove televisioni e persino del web. Un trend incoraggiato dalla necessità dei broadcasters di affrontare le situazioni di crisi economica, che inevitabilmente hanno coinvolto anche questo mercato15. Tuttavia, quello che si può sottolineare, in questo universo più dinamico e sperimentale che mai, è la nascita di una “fiction della crisi”, che va a soccorrere la “fiction in crisi”. Non a caso, questa età della fiction, e con essa della narrazione televisiva, vede la compresenza di prodotto nazionale, prodotto statunitense – fin troppo celebrato dagli opinion leader italiani – e, infine, prodotto di ultima generazione, le serie per il web, spesso nate nel “garage” dei genitori di una generazione che si sta riprendendo in mano il futuro attraverso l’unica sponda mediatica che restituisce loro cittadinanza e visibilità: il web. L’universo della produzione si arricchisce così delle web series, native digitali, che si presentano come vere e proprie palestre di creatività, sfruttando tutte le opportunità del digitale come terremoto mediatico, che fa saltare gli equilibri dell’economia dell’attenzione tradizionale, facendoci scoprire pratiche e relazioni prima insospettabili e che comunque sono esperienze cariche di vissuto e di progettualità; tutt’altro che “snack mediali”, privi di valore nutrizionale e altrettanto privi di valori e di cultura, dunque, una perdita di tempo. Affianco alle altre esperienze mediali, anche le nuove forme espressive della fiction si fanno “divorare”. In un suo saggio dal titolo “Se non si diffonde muore. Memi e viralità: metafore spuntate”, Henry Jenkins ricorda che … divoriamo la cultura pop allo stesso modo in cui ci piacciono le caramelle e le patatine – in pepite della grandezza di un morso, opportunamente confezionate, fatte per essere sgranocchiate facilmente con frequenza e velocità massime. Questa è la cultura dello snack, è piena di sapore e da pure assuefazione16. 15 Gli scenari di produzione e distribuzione, legati indispensabilmente anche alla questione delle risorse economiche in calo, potrebbero essere sintetizzati in tre ordini: 1) Scelte tattiche: vedono il posizionamento di serie americane in prime time, riuscendo così a convogliare nella fruizione il target commerciale a costi più contenuti. 2) Soluzioni innovative: sfruttano le opportunità della digitalizzazione, individuando nei nuovi canali, meno competitivi sul piano degli ascolti, veri laboratori creativi, volti a dare il tempo di crescere e sedimentare a programmi di non immediata popolarità. 3) Scelte strategiche: le quali prevedono il mantenimento della propria platea di fruitori e l’integrazione con altre community rintracciabili online o attraverso altre piattaforme, in modo da creare spazi di comunicazione inter- e trans-generazionali. Le prime due strategie sono state affrontate in profondità nel contributo di Ludovica Fonda per il numero 7 di Link. Idee per la televisione. Cfr. L. Fonda, L., “Fiction: crisi vera”, in MashUp Television. Link. Idee per la televisione, n°7, Bologna, RTI, 2009, p. 54. 16 Cfr. H. Jenkins, Se non si diffonde muore. Memi e viralità: metafore spuntate (trad. it. Luca Barra, 2012), in Link. Idee per la televisione. Ripartire da zero. Televisioni e culture del decennio, Bologna, RTI, 2012, p. 19.
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Ma le culture, come le scelte che facciamo online, non sono cose che capitano, indipendentemente dalle nostre impronte sociali e culturali, ma soluzioni e proiezioni che collettivamente contribuiamo a creare. Come, d’altronde, lo stesso universo per certi versi pieno di contraddizioni del nuovo rapporto tra il prodotto fiction e i suoi fruitori è il risultato di processi sociali, evoluzioni e involuzioni, rivoluzioni tecnologiche e di accesso al sapere e, dunque, al potere. E i processi si svelano come apparentemente discontinui, risultato di rotture e di giochi di potere tra reti e pubblici. In realtà, quello che sta accadendo segnala soprattutto una certa continuità tra vecchi e nuovi modelli di produzione e pratiche di consumo, da sintetizzare velocemente nei seguenti punti: 1.
Alla crisi di risorse, e dunque di investimenti, si affianca una progressiva espansione delle pratiche di consumo e delle piattaforme di fruizione. La tv come mezzo di socializzazione e di empowerment nella relazione e nella vita sociale degli individui viene affiancata e integrata dalla condivisione socializzante del contenuto televisivo. Al flusso si accompagna il flash mob, l’appuntamento organizzato dalle major intorno ai pilot delle fiction di successo. La serialità tradizionale e il tempo dell’attesa vengono anticipate e, a volte, annullate dal ricorso al “pacchetto” e al consumo concentrato (una serie in una notte). Alle audience in quanto soggetti in ascolto, pronti a “subire” le storie e farsi travolgere e inglobare nel racconto, si affiancano i pubblici, che mettono a disposizione degli altri e in primis dei network, il proprio “lavoro” di spettatore, attraverso l’elaborazione post-fruizione, commenti, suggerimenti, atteggiamenti positivi o negativi rispetto alla narrazione, ai personaggi, alle musiche.
2. 3. 4. 5.
Insomma, un mondo che cambia e che coinvolge inevitabilmente anche le nuove dinamiche della produzione, che si sta attrezzando per affrontare i propri pubblici creando dei veri e propri brand, spesso coltivati molto prima dell’uscita delle serie (attraverso i teaser, ad esempio, ovvero dei promo che sostanzialmente anticipano l’atmosfera della serie tv) e anche al di là del prodotto che viene lanciato sul mercato. La reputazione e il successo di un prodotto, infatti, vengono spesso gestiti e anticipati attraverso l’analisi dei comportamenti degli utenti all’interno dei social network, ambienti di condivisione di contenuti e soprattutto di emozioni e sentimenti17. 17
Un modello matematico di previsione del successo di un prodotto cinematografico o audiovisivo attraverso l’analisi dei Twitt viene elaborato da Sitaram Asur e Bernardo A.
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Accanto al business della produzione tradizionale si afferma quello delle piattaforme di fruizione, di distribuzione e di condivisione on line, che fanno sì che al centro delle dinamiche di fruizione si trovi non più il brand della rete, così come accade nel mainstream, ma quello del contenuto trasmesso. Alla forza centripeta della televisione tradizionale si aggiunge, paradossalmente, quella centrifuga delle nuove forme di consumo, che vede i pubblici disseminati nelle larghe e dispersive maglie della rete, per poi ricongiungerli all’interno delle community e delle piattaforme di social tv. Quel che appare evidente a questo punto è che, piuttosto che temere un’erosione del livello di attenzione dei pubblici a vantaggio dei social network, la televisione, intesa non come “schermo” ma come insieme di contenuti, scelga quotidianamente di ripensare se stessa, sviluppando interessanti sinergie di forme e linguaggi e sfruttando il continuum tra i diversi media che oggi consente possibilità di comunicazione inedite a fasce di pubblico molto più ampie ed eterogenee. In quest’ottica i social network non si limitano più a convivere pacificamente con la tv, ma rappresentano uno strumento estremamente potente, per coinvolgere e raggiungere in maniera più incisiva il telespettatore, non facendosi cercare ma ricercando i pubblici negli spazi interstiziali della rete. L’insieme di queste tendenze sta portando a un aumento del consumo di contenuti video televisivi e, nello stesso tempo, a una redistribuzione delle audience su piattaforme e dispositivi oltre i confini imposti dalle emittenti e dallo schermo televisivo tradizionale in genere. Questi sviluppi, nel complesso, comportano effetti considerevoli sugli assetti di mercato: aumenta, infatti, la competitività tra i broadcasters e le reti pay e tra essi e i nuovi player provenienti in larga parte dal web. Il ruolo finora preponderante delle emittenti televisive tradizionali viene insidiato da nuovi soggetti, spesso riconducibili a nuovi mercati (Arabia Saudita, Brasile, Hong Kong), nella maggior parte dei casi giovani e fiduciosi nelle opportunità di Internet; nello stesso tempo, l’industria del piccolo schermo si trova ad affrontare le sfide imposte dal digitale e dalla rete. E queste dinamiche hanno un indiscusso protagonista: il pubblico e la sua opinione. Si sta coltivando una platea sorprendentemente diversa rispetto ai pubblici tradizionali, che sollecita anche nei grandi broadcast un po’ di strategia in più, un pizzico di coraggio nell’investire in innovazione, dando il tempo ai singoli prodotti di accreditarsi presso i propri pubblici e, Huberman del Social Computing Lab - HP Labs, Palo Alto, California, nello studio Predicting the Future with Social Media, disponibile on line all’indirizzo: http://www.hpl.hp.com/research/ scl/papers/socialmedia/socialmedia.pdf.
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soprattutto, una maggior fiducia nei fruitori e nella loro capacità di essere interpreti attivi della società che cambia. La fiction, soprattutto quella nazionale o generazionale, a prescindere dalla piattaforma distributiva, infatti, potrebbe ancora svolgere una funzione di ricomposizione dei pubblici intorno ad argomenti d’interesse comune. Audience apparentemente liquide si potrebbero riaggregare, attraverso strategie lungimiranti, intorno a valori e contenuti della tradizione, della memoria condivisa, della vita quotidiana, dentro e fuori i tempi e gli spazi del racconto televisivo. Per fare questo, si dovrebbero abbandonare le “ricette” di produzione e distribuzione, a favore di una filosofia della “ricerca” e dell’osservazione continuativa dei pubblici e dei loro comportamenti. Solo così si potrà sperare di dare risposte adeguate a chi fruisce dei vecchi e dei nuovi prodotti, espressione di una società che cambia in profondità e che si autoproietta nelle modalità con le quali si avvicina a generi tradizionali del racconto televisivo. Una ricerca che deve passare per un’intelligente analisi dei dati di ascolto per arrivare persino all’analisi del fandom18, quale fenomeno apparentemente lontano dalle logiche televisive, in realtà fortemente orientato a rafforzare il senso di comunità tipico della fiction tradizionale e della sua espressione conservatrice. Conservare significa qui contribuire a tenere insieme la cultura, a garantire il riconoscimento in una più vasta novità, a contrastare in qualche misura, con la costruzione di un senso comune, le dinamiche di dispersione e di anomia19.
18
Vedi il contributo di Romana Andò più avanti nel volume. Cfr. M. Buonanno, “Come se. Realtà multiple e mondi possibili nell’immaginazione narrativa”, in M. Buonanno, Realtà multiple. Concetti, generi e audience della fiction tv, Napoli, Liguori, 2004, p. 24. 19
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8 Tempo di fruizione e forme di socialità on line: come cambia il rapporto tra serialità e audience nella connected television
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di Romana Andò
«While I’m eating a slice of pizza, my boyfriend is home taping my favorite TV show» « And to which boyfriend are we referring?» « My boyfriend, TiVo» Sex and The City 6x02 – Great Sexpectations
8.1. Rileggere le pratiche di consumo Le sorti di un mezzo di comunicazione, come è noto, sono spesso accompagnate da immaginari catastrofici legati alla sua sopravvivenza o da altrettanto pericolosi entusiasmi circa la sua mutazione in chiave tecnologica. La televisione è forse uno dei mezzi di comunicazione sul cui destino si sono rincorse prospettive contrastanti, ogni volta che sul mercato e nella società si sono affacciati potenziali – o supposti tali – competitors in grado di strapparle lo scettro di regina incontrastata del tempo libero. Tuttavia, decenni di stabilità, confermata sistematicamente dalla resistenza degli ascolti televisivi della tv tradizionale broadcast, hanno energicamente allontanato qualunque profezia negativa finora prodotta e dilatato significativamente i tempi per qualunque eccessivamente futuristica evoluzione. Negli ultimi due anni, la retorica giornalistica e l’osservazione scientifica intorno ai processi di trasformazione della tv1 hanno, però, subito una nuova accelerazione, che merita di essere presa in considerazione con rinnovata attenzione; anche perché l’attuale incertezza non si fonda dicotomicamente
1
G. Celata, A. Marinelli (a cura di), Connecting television. La televisione al tempo di Internet, Milano, Guerini e Associati, 2012
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sulle prospettive di scomparsa o evoluzione del mezzo, ma poggia sulla necessità di una ridefinizione dell’idea stessa di tv, a partire dalla verifica del suo valore d’uso nella vita quotidiana, nella esperienza delle sue audience e nella gestualità del mercato. Riprendendo un articolo di Wired del 2007, “The TV Is Dead. Long Live the TV”2, quella che sta progressivamente scomparendo è la nostra vecchia idea di televisione, ancorata a modelli teorici e di business prodotti a ridosso della broadcast television e costretta entro lo spazio di uno specifico device e delle sue regole d’uso, mentre l’esperienza di consumo televisivo è tutt’altro che morta e si espande ben oltre i confini prescritti dal mezzo, di fatto mettendo in discussione la stessa idea di medium3. Se riflettiamo, infatti, sulla televisione – intesa come l’insieme degli usi e significati sociali alla base del consumo culturale – oggi essa appare definitivamente proiettata in un contesto in cui le pratiche di fruizione delle audience, sostenute dalla spinta tecnologica e dalla maturazione delle competenze, ne ridisegnano costantemente i confini, addomesticandone le potenzialità e spingendone l’ibridazione anche con forme di consumo precedentemente non previste dal medium stesso. È evidente che queste trasformazioni si sono consumate a ridosso di quella progressiva contaminazione tra tv e internet che ha dato origine al fenomeno della cosiddetta connected television, sintesi di un percorso evolutivo del mezzo televisivo tanto dal punto di vista tecnologico, quanto dal punto di vista delle pratiche di consumo4. Meno scontata è, invece, l’osservazione che il terreno in cui queste trasformazioni sono state sperimentate e si sono sviluppate prioritariamente è quello del consumo di fiction. È proprio a ridosso della serialità, infatti, che la televisione ha sperimentato, per innesco delle audience più attive ed engaged, una nuova declinazione, anytime e anywhere, sempre più svincolata come esperienza di consumo dal medium stesso5. Le pratiche di fruizione delle audience, che si costruiscono intorno alle serie, stanno, infatti, liberando progressivamente la tv dalla linearità del palinsesto e dalle logiche di flusso, garantendo l’accesso ai contenuti in modalità asincrona rispetto alla programmazione on air(il cosiddetto timeshifting). Allo stesso tempo le nuove dinamiche di consumo e 2
http://www.wired.com/entertainment/hollywood/news/2007/04/tvhistory_0406 A. Marinelli, “La televisione dopo la televisione”, in G. Celata, A. Marinelli (a cura di), Connecting television , cit., pp. 9-32 4 G. Celata, A. Marinelli (a cura di), Connecting television , cit. 5 R. Andò, “Circumvent tv flow. Il consumo di Lost e la rivoluzione dei tempi e dei modi di vivere la fiction” in R. Andò, (a cura di), Lost. Analisi di un fenomeno (non solo) televisivo, Acireale, Bonanno Editore, 2011. 3
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le crescenti competenze d’uso delle tecnologie da parte dei pubblici stanno producendo un progressivo allentamento del legame con il tradizionale tv-set, gradualmente sostituito da diverse piattaforme (multi)mediali (il placeshifting), scelte appositamente dalle audience in base alle differenti esigenze di consumo. I cambiamenti registrati dalla tv nel passaggio dalla logica di flusso e dalla strutturazione temporale del palinsesto alla fruizione anytime anywhere pongono anche una questione importante rispetto alla gestione della dimensione social del consumo di fiction. Come ampiamente osservato rispetto alla evoluzione delle pratiche dei fan, con il passaggio dal web al web 2.0 sono stati infatti occupati diversi spazi della rete preposti alla discussione e alla condivisione di contenuti mediali, dai newsgroup, ai forum, ai social media; dunque, l’esplosione – quantitativa e qualitativa – delle conversazioni on line, che si producono a ridosso del consumo di serie tv negli spazi dei social media, impone di rileggere le pratiche delle audience all’interno della social tv, ben oltre l’esposizione al contenuto, sia in termini di pervasività sociale e relazionale dell’atto di consumo, sia in termini di strategie di fidelizzazione ed engagement da adottare per coltivare nicchie sempre più esigenti e dinamiche.
8.2. Fandom e serialità televisiva A sostegno dell’ipotesi che il consumo di fiction possa essere considerato un driver strategico per i processi di trasformazione del mezzo televisivo è necessario riferirsi al fenomeno del fandom. Scorrendo la ormai ampia letteratura sull’argomento appare evidente come la serialità televisiva sia uno degli ambiti più ricorrenti su cui si concentra l’attenzione dei fan: dagli studi di Jenkins6 e di Bacon Smith7 su Star Trek, a quelli di Hills8 e Baym9, rispettivamente su X-files e All my children, al più recente caso di Lost10, è evidente che per la sua stessa natura seriale e per i suoi meccanismi narrativi la fiction si presta perfettamente a pratiche di consumo fortemente engaged e durature nel tempo11.
6
H. Jenkins, Textual Poachers. Television fans e participatory culture, NY, Routledge, 1992. C. Bacon Smith, Enterprising women. Television fandom and the creation of popular mith, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1992 8 M. Hills, Fan Cultures, London, Routledge, 2002. 9 N. Baym, Tune in, log on. Soaps, fandom and on line community. Thousand Oaks, Sage, 2000 10 R. Andò (a cura di), Lost. Analisi di un fenomeno (non solo) televisivo, cit.; R. Pearson, Reading Lost, London, New York, I.B Tauris & Co, 2009. 11 M. Buonanno, Le formule del racconto televisivo: la sovversione del tempo nelle narrative seriali. Firenze, Sansoni, 2002. 7
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L’elevato livello di fidelizzazione nei confronti del prodotto, unitamente alla regolarità dell’offerta televisiva garantiscono, infatti, la continuità dell’esperienza di consumo ben oltre la semplice esposizione al contenuto, e la traduzione dei processi di visione in occasioni più ampie di condivisione di emozioni e riflessioni all’interno di comunità di appassionati. Osservare il percorso evolutivo del fandom12, dalle prime comunità pre-internet all’avvento del web 2.0, dunque, può essere interessante per un duplice motivo: da una parte perché parallelamente all’evolversi delle pratiche di fandom a ridosso degli ambienti web sono cambiate le dimensioni relazionali del consumo di fiction, sia rispetto al rapporto tra audience, prodotto e produttori, sia rispetto alla relazione tra fan di uno stesso prodotto. In secondo luogo, l’evoluzione tecnologica e culturale della rete e delle audience partecipative, efficacemente sintetizzata nell’idea di cultura convergente13, ha prodotto cambiamenti anche nella gestualità del consumo di fiction, che si è progressivamente sganciato dallo schermo televisivo e dalla linearità del palinsesto per migrare su altre piattaforme, in un regime di autonomia temporale assolutamente inedito. Le prime comunità di fan nate intorno a prodotti seriali si caratterizzavano, infatti, per l’elevato investimento nei confronti di un contenuto e per la contemporanea ricerca di una dimensione relazionale connessa al consumo, che agisse da legittimatore sociale per comunità subculturali fortemente stigmatizzate al loro esterno. La partecipazione ad eventi e raduni, il collezionismo eccessivo di oggetti collegati al programma di culto, la produzione di testi e forme artistiche ispirate ai personaggi o agli attori della serie, avevano la funzione di rafforzare i legami sociali con gli altri fan e allo stesso tempo gestire il proprio attaccamento al prodotto, anche nei periodi di latenza della distribuzione televisiva. Come argomenta Jenkins14 si diventa ‘fan’ non seguendo regolarmente un particolare programma, ma traducendone la visione in un qualche tipo di attività culturale, condividendo con gli amici sentimenti e riflessioni sul contenuto, entrando in una comunità di altri fan con interessi comuni. Per gli appassionati, il consumo dà natural12
R. Andò, A. Marinelli, “Dal textual poachers al Like/Dislike. Quale valore dare all’engagement delle audience 2.0?” in «Comunicazioni sociali», n. 2, 2012, Milano,Vita & Pensiero. 13 H. Jenkins 2006, Convergence Culture. Where Old and New Media Collide, New York, New York University Press, 2006; [trad. it. Cultura convergente. Dove collidono i vecchi e i nuovi media, Milano, Apogeo, 2007]. 14 H. Jenkins, Fans, bloggers and gamers. Exploring participatory culture, New York, London, New York University Press, 2006. [trad. it. Fan, blogger e videogamers. L’emergere delle culture partecipative nell’era digitale, Milano, FrancoAngeli, 2008, p. 38]
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mente origine alla produzione: leggere spinge a scrivere, fino al punto che i vari termini appaiono inseparabili a livello logico.
Fino all’avvento di internet, dunque, i fan gestivano a livello microcomunitario il proprio engagement nei confronti del prodotto, producendo testi scritti e audiovisivi, che andassero a riempire i vuoti della produzione seriale – per es. il passaggio da una stagione all’altra – o a colmare lacune a livello narrativo – per es. filoni non particolarmente approfonditi e personaggi minori – o a riscrivere interi passaggi, piegando personaggi e storie al gusto e alle aspettative condivise a livello comunitario – si pensi alla versione slash di molti prodotti finzionali, da Star Trek in poi. L’ingresso di internet nell’esperienza di consumo dei fan ha, di fatto, aumentato le potenzialità espressive e relazionali del fandom appena descritte e aperto inedite prospettive a livello di pratiche: i primi ambienti on line colonizzati dai fan, come i newsgroup e i bullettin board descritti da Baym15 e Hills16, garantivano, infatti, un allargamento del bacino di riferimento e dei confini della comunità di appartenenza, in virtù delle potenzialità di connessione garantite dalla comunicazione mediata al computer. La scelta di appartenenza elettiva al gruppo poteva così superare i limiti geografici e locali della cultura di origine e si alimentava in pratiche discorsive capaci di cementare la coesione del gruppo e rendere tracciabili le relazioni tra fan all’interno di newsgroup e forum. Non solo. L’utilizzo dei forum a ridosso della programmazione televisiva cominciava a rendere evidente quello che oggi è uno dei tratti più caratterizzanti la social tv, ovvero la fruizione condivisa a distanza, mediata dalle piattaforme di comunicazione on line. Parte del piacere di essere fan on line risiedeva cioè nella possibilità di condividere just in time – o nel tempo immediatamente successivo la messa in onda – la propria esperienza di consumo con altri fan appartenenti alla propria comunità allargata, ovvero la possibilità di commentare, cercare informazioni, criticare in tempo reale il prodotto, senza aspettare raduni e senza la necessità di organizzare visioni collettive. Ma l’aumentata socialità e relazionalità tra fan sostenuta dal passaggio dal web al web 2.0 ha prodotto un’ulteriore trasformazione a livello di pratiche di consumo: la prossimità di interesse, mediata tecnologicamente, tra fan di uno stesso prodotto e la conseguente contrazione delle distanze tra un mercato ed un altro, tra audience nazionali prima inevitabilmente separate, 15 16
N. Baym, Tune in, log on, cit. M. Hills, Fan Cultures, cit.
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unitamente all’evoluzione della logica della condivisione,continuamente rielaborata nel contesto della cultura della convergenza e abilitata dalla interattività delle tecnologie di connessione ha, di fatto, prodotto una straordinaria e inaspettata circolazione di contenuti video un tempo altrimenti gestibili solo via tv set e dal lato broadcaster; ciò ha, allo stesso tempo, svincolato il momento di fruizione dalle logiche di distribuzione e programmazione delle emittenti televisive, ovvero dal palinsesto, e affrancato lo spettatore dallo stesso dispositivo di fruizione (non più solo apparecchio tv, ma pc, prima, e successivamente tablet). Riprendendo la felice intuizione di Lull17 sugli usi sociali della tv, possiamo dire che la cosiddetta anytime, anywhere television prodotta a ridosso del lavoro delle audience sui testi finzionali, sta di fatto riscrivendo le regole alla base tanto degli usi strutturali che degli usi relazionali del mezzo.
8.3. Tempo di fiction: serialità, timeshifting e usi strutturali della televisione Dal punto di vista delle audience, la fiction televisiva è sempre stata una questione di tempi: dal tempo del racconto televisivo, al tempo strutturato della programmazione, al tempo della fruizione, laddove fino all’avvento del VCR il tempo dell’offerta e quello del consumo coincidevano e si sovrapponevano nelle pratiche dei pubblici. La situazione che osserviamo oggi, tuttavia, segnala forti discontinuità rispetto ai modelli di consumo televisivo tradizionali e impone una serie di riflessioni, tanto rispetto all’esperienza dei broadcaster, che a quella dei consumatori. L’introduzione di internet all’interno delle pratiche delle comunità fan, come già anticipato, ha infatti prodotto una serie di cambiamenti importanti nel rapporto tra pubblici e prodotto anche dal punto di vista della gestione del tempo. In primo luogo, la rete a maglie larghe della comunità di appassionati on line ha, di fatto, messo in connessione realtà di consumo differenti, spingendo la curiosità e l’interesse dei fan, oltre il confine della programmazione dei broadcaster nazionali. In altre parole se da Dallas in poi il regime temporale della fruizione di fiction era scandito dal palinsesto televisivo locale, con i suoi appuntamenti settimanali, fortemente riconoscibili e ancorati nella memoria dello spettatore, dall’avvento del web in poi 17
J. Lull, Inside Family Viewing. Ethnographic Research on Television’s Audience, New York, Routledge, 1990 [trad. it. In famiglia davanti alla tv, Roma, Meltemi, 2003]
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le audience hanno acquisito maggiore consapevolezza dell’esistenza di altri mercati (prevalentemente quello statunitense, rispetto alla produzione e distribuzione di fiction), con finestre di rilascio dei programmi sensibilmente diverse. In secondo luogo, la logica dello scambio peer to peer, la pratica del download di contenuti e la cultura del file sharing hanno prodotto una circolazione – prima sotterranea poi sempre più visibile – dei prodotti seriali, svincolata dalla messa in onda del network, possessore dei diritti di trasmissione per acquisto (è evidente che questo aspetto riguarda prevalentemente i contesti televisivi basati sull’acquisizione di prodotti internazionali), producendo, di fatto, un disallineamento tra tempo della fruizione e tempo dell’offerta. Un disallineamento che opera a due differenti livelli: da una parte si manifesta come forma di contrazione temporale tra una finestra di rilascio del prodotto e l’altra, sdoganando di fatto fan e audience fortemente engaged dal dover attendere la trasmissione locale di un prodotto internazionale, già in onda nel paese di produzione, e dando vita a fenomeni come il fansubbing, che proprio a ridosso di serie ad elevata fidelizzazione sono emersi e hanno costruito la propria expertise e visibilità18. Dall’altra, la circolazione di contenuti seriali sul web ha svincolato il momento dell’accesso al prodotto, da parte delle audience, rispetto alla messa in onda, di fatto scardinando la logica per appuntamento propria del palinsesto televisivo. La disponibilità on line dei contenuti consente, infatti, di cominciare la fruizione di una serie in qualsiasi momento, sia a ridosso della programmazione televisiva – per es. nelle 24h successive alla messa in onda –, che in anticipo rispetto al rilascio per il mercato locale – per es. a ridosso della stagionalità americana –, che in ritardo rispetto alla stessa distribuzione del prodotto, dando vita a pratiche di fruizione inedite rispetto al passato – per es. le cosiddette maratone per il recupero di intere stagioni in poco tempo e in attesa della premiere. Una prima risposta dal lato broadcaster a queste mutate condizioni di fruizione è il timeshifting, recentemente incorporato nelle logiche di distribuzione dei contenuti: le tecnologie timeshifting (il PVR in testa) consentono, infatti, agli spettatori della tv broadcast di registrare, immagazzinare e recuperare i programmi quando è per loro più opportuno, e rendere quindi sistematicamente l’offerta tv adeguata al proprio budget time. Le audience, cioè, possono gestire sul piano temporale una relazione personalizzata con 18
A. Vellar, “La rete di fan come proselytization commons e il suo ruolo nella creazione di un culto testuale: il caso Lost”, in R. Andò, (a cura di), Lost. Analisi di un fenomeno (non solo) televisivo, cit.
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il prodotto, «conformano la programmazione alle loro esigenze di orario e la espongono ai momentanei desideri dei loro click, poiché sono in grado di passare rapidamente dai programmi live a quelli registrati. In questo modo, aggirano il flusso commerciale accuratamente pianificato in cui i network statunitensi inseriscono i loro prodotti televisivi»19. Non solo. Le tecnologie timeshifting offrono una risposta alle audience anche rispetto alle esigenze di indagine sul testo, di scavo, di ricerca di indizi o particolari sfuggiti durante la visione: in questo caso, infatti, la pausa, il fermo immagine, il rewind producono una dilatazione del tempo di fruizione anche rispetto ad ogni singola puntata e una sua ulteriore immediata traduzione direttamente sul web, negli spazi preposti alla discussione approfondita o alla ermeneutica dei contenuti (forum tematici, “Lostpedia”). In altre parole, le innovazioni tecnologiche fin qui descritte,una volta integrate nelle funzionalità dello schermo tv consentono di adattare quella che è ormai una pratica diffusa a livello di fan e audience engaged alle esigenze commerciali del broadcaster, in uno scenario affatto penalizzante per questi ultimi. Mentre il timeshifting opera ancora all’interno dello schermo televisivo più tradizionale, la questione del tempo di fruizione viene oggi affrontata anche dai modelli di catch up television, in cui l’ibridazione tv e internet trova una strategica traduzione: alla base della catch up tv c’è ancora una volta lo scardinamento della tradizionale tv di flusso, laddove si propone un servizio di distribuzione via internet (su piattaforma IP) di contenuti contemporaneamente in onda (streaming) o già trasmessi attraverso lo schermo tradizionale, rendendo di fatto possibile alle audience un accesso alle libraries televisive, indipendente dal palinsesto. La catch up tv, cioè, sfrutta le logiche del timeshifting introducendo la dimensione del placeschifting, «a new media term that refers to the ability of viewers to shift programming off their television sets and onto hard drives and mobile devices»20: ovvero la moltiplicazione dei device di fruizione per un medesimo contenuto. Operativamente questo si traduce – dal lato broadcaster – in uno scenario di distribuzione dei contenuti multipiattaforma in cui ogni dispositivo dovrebbe avere la funzione di attrarre coerentemente rispetto allo stesso contenuto pubblici differenti e non necessariamente televisivi in senso stretto, che vadano ad ampliare la platea complessiva, magari ritornando al prodotto on air, come destinazione finale. 19 20
J. Gillian, Television and New Media, New York, Routledge. 2011, p. 76 (tr. nostra). Ivi, p. 135.
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Lo scenario fin qui descritto riguarda nel panorama italiano ancora una realtà limitata dal punto di vista anagrafico e delle competenze mediali, il target giovanile, presso il quale sembrano convivere armonicamente l’elevata attenzione nei confronti della serialità e le pratiche più innovative sul fronte del consumo; d’altra parte i dati internazionali lasciano immaginare una significativa accelerazione dei processi anche per i target per ora meno in sintonia con l’ibridazione tra tv e web. Osservando a titolo esemplificativo i dati Nielsen sulle audience crosspiattaforma, scopriamo che accanto al consumo televisivo tradizionale oggi si affermano diverse opzioni di gestione dei contenuti video: 283 milioni di americani (su un campione di 298 milioni di età sopra i 2 anni) continuano ad utilizzare la tv tradizionale, ma 145 milioni vedono anche la tv in modalità timeshifted, e 211 milioni su pc via web, senza contare le audience (162 milioni) che già fruiscono di contenuti video via web (non necessariamente televisivi) e quei 233 milioni che utilizzano dispositivi mobili21. E anche i dati sul consumo di fiction negli USA indicano come il consumo differito sia ormai una prassi nelle abitudini delle audience, e come questa pratica generi spesso un significativo incremento della platea sia nello stesso giorno di programmazione (ovvero entro 24 h dalla messa in onda) che nei 7 giorni successivi. Seppur parziale, dunque, il quadro delineato sollecita quanto meno una riflessione sul rapporto tra fiction, tv e rituali di consumo: tanto il timeshiting quanto il placeshifting spezzano, infatti, la ritualità legata all’appuntamento televisivo con la fiction (oggi sempre più spesso riconosciuta solo agli eventi sportivi, ai grandi show o ai programmi di informazione e attualità politica), mettendo in discussione l’idea stessa di un uso strutturale regolativo della tv22; in altre parole quello che entra in crisi è qualunque uso del mezzo gestito dal punto di vista del mezzo stesso, peraltro già attaccato, oltre che dall’introduzione del VCR, anche dalla proposizione di canali tematici con prodotti a rotazione e dai canali cosiddetti +1 e +24 (con programmazione differita di un’ora o di 24 ore), ma di fatto poi recuperato indipendentemente dalle audience stesse, nella gestione di personali cerimonie di consumo23. E forzando ulteriormente l’interpretazione, neppure i grandi eventi della programmazione di fiction quali premiere o finali di stagione possono fino
21
The Nielsen Company, The cross-platform report, Quarter I, 2012 J. Lull, Inside Family Viewing, cit. 23 R. Andò, G. Gianturco, “Lost in research: racconti da spettatore tra competenze, engagement, nuovi riti e autoriflessività”, in R. Andò (a cura di), Lost. Analisi di un fenomeno (non solo) televisivo, cit. 22
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in fondo essere letti come una forma di strutturazione dall’alto (broadcaster) del budget time delle audience, perché anche in quel caso il tempo di fruizione del singolo si adatta al tempo del palinsesto, ma in quanto consente di recuperare il tempo collettivamente condiviso del consumo: «One of the appeal of watching a show on air as-it-airs is that those who watch in realtime can partecipate in immediate interaction with other fans on the web»24.
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8.4. Fiction nella rete: serialità, social media e usi relazionali della televisione L’idea, cioè, è che alla base della ri-definizione delle pratiche di consumo ci sia evidentemente una forte spinta dal basso che, in larga parte, è riconducibile alle esigenze di relazionalità di fan e audience. Come anticipato, la dimensione della relazionalità è un tratto fortemente caratterizzante la cultura fandom, per quanto nel corso degli anni essa sia stata declinata secondo obiettivi e modalità diverse. Se in una prima fase, pre-internet, il fan costruiva relazioni sociali per sostenere la propria stessa identità di fan, contro la stigmatizzazione proveniente dalla società più ampia, in un secondo momento, grazie alla maggiore visibilità del fenomeno garantita dal web e l’allargamento dei confini della comunità on line, l’essere fan diventava piuttosto l’innesco per costruire relazioni sociali a partire da affinità elettive connesse al consumo di media25. Sul piano pratico, nella prima fase la relazionalità veniva gestita in modalità asincrona rispetto alla visione del prodotto di culto, in occasioni costruite ad hoc in cui condividere faccia a faccia quel comune attaccamento e investimento nei confronti dei contenuti, altrimenti non esperibili collettivamente durante la fruizione. Di fatto, cioè, le pratiche dei fan andavano a compensare l’isolamento derivante dall’esposizione al mezzo televisivo all’interno del contesto domestico, attraverso raduni, visioni pubbliche o circolazione di testi creati ad hoc per la comunità. L’introduzione di internet e lo spostamento della dimensione relazionale on line garantiva, invece, un recupero della sincronicità del rapporto tra prodotto e consumatore e tra audience dislocate. In altre parole all’interno di ambienti come bulletin board, newsgroup e, successivamente, forum i fan 24
J. Gillian, Television and New Media, cit. p. 87. R. Andò, A. Marinelli, “Fare ricerca sul fandom on line. Fan italiani e serie televisive” in S. Monaci, B. Scifo, Sociologia 2.0. Pratiche sociali e metodologie di ricerca sui media partecipativi. Napoli, Scriptaweb, 2009. 25
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potevano sperimentare just in time la propria identità in quanto comunità di audience fidelizzate di un determinato prodotto e avvantaggiarsi della prossimità relazionale garantita dal web. Allo stato attuale, il relativo abbattimento delle barriere d’accesso alla comunità fan, garantito tanto dalla connettività online, quanto dall’abbassamento del livello di competenze richieste per esercitare lo stesso ruolo di fan26, ha prodotto un significativo ampiamento della platea interessata dalle pratiche di fandom, ormai sempre più ricomprese tra le normali attività che quotidianamente vengono gestite dai soggetti attraverso i social network. E questo processo di normalizzazione del fenomeno si traduce oggi in una gestione della relazionalità meno esigente dal punto di vista dell’impegno reciproco tra fan e in una ulteriore diversificazione del rapporto temporale con il prodotto. In questa, che potremmo definire la terza fase degli studi sui fan, registriamo la pervasività dei social media nella vita quotidiana e il loro uso sempre più frequente a ridosso dei prodotti televisivi attraverso schermi addizionali,che hanno di fatto ulteriormente rafforzato tanto la percezione di essere audience just in time quanto quella di riconoscersi reciprocamente come audience. E i dati delle più recenti ricerche parlano chiaro circa la diffusione di pratiche di social tv finora inedite. Secondo una recente indagine di Ericsson Consumerlab27, condotta nel maggio 2012 attraverso 12,000 interviste online (1,000 per paese in US, UK, Cina, Spagna, Svezia, Brasile, Taiwan, South Korea, Germania, Messico, Cile, Italia) e 14 interviste in profondità (10 a Chicago, 4 in Svezia), più del 60% degli intervistati usa i social media durante il consumo di tv e più del 40% usa sistemi di chat e istant messaging. I risultati confermano anche che dispositivi mobilie laptop sono i più comunemente usati per discutere sui contenuti televisivi e stanno diventando ormai parte integrante del setup televisivo domestico. Non solo favoriscono l’interazione sociale ma consentono anche attività multitasking in rete durante la fruizione e questo fenomeno non è limitato solo ai target più giovani, come dimostra il dato che il 30% dei 45-59enni è coinvolto in pratiche di social tv ogni settimana. Tra i drivers principali della social tv, la ricerca Ericsson include il non sentirsi solo davanti alla tv e, dunque, la percezione di una comunità di appartenenza allargata, così come la validazione di sé nei confronti delle altre audience, cercare informazioni addizionali stimolate dal 26
R. Andò, A. Marinelli, “Dal textual poachers al Like/Dislike. Quale valore dare all’engagement delle audience 2.0?”, cit. 27 Consumer Lab – Ericsson, Tv and video. An analysis of evolving consumer habits, 2012
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contenuto tv, desiderio di influenzare o interagire con i contenuti, curiosità circa le opinioni degli altri, gratificazione derivante dall’essere riconosciuto dagli altri in quanto fan/audience competente e bisogno di analizzare e discutere collettivamente i testi. D’altra parte, però, le innovazioni tecnologiche descritte precedentemente a ridosso della connected television e in particolare, la fruizione differenziata e diluita del prodotto rispetto alle logiche broadcast, sembrano confinare le audience in una condizione di isolamento spaziale (rispetto alla famiglia o agli amici, ma anche rispetto alla propria comunità territoriale coperta da un segnale televisivo geograficamente comune) e temporale (il tempo dell’utente vs il tempo del broadcaster, vs quello degli altri utenti)28. In altre parole, ci troviamo da una parte di fronte all’esplosione della social tv come forma di consumo e discorsivizzazione del consumo in tempo reale attraverso piattaforme come Twitter, Zeebox, Intonow, Getglue, Gomiso; si pensi per es. all’uso di Twitter a ridosso delle season premiere negli Stati Uniti29, laddove quel che conta è soprattutto l’essere parte dell’evento, i primi a conoscere gli sviluppi della nuova storia, avere la possibilità di placare l’ansia dell’attesa tra una stagione e l’altra e commentare in maniera forse più empatica che erudita, seppur sempre competente. Dall’altra, se le potenzialità del timeshiftinge della catch up tv, rispetto alla possibilità di una fruizione differita, rompono la simultaneità dell’esperienza delle audience e creano un evidente disagio per i fan più coinvolti, che pure aspirerebbero a una visione del prodotto di culto in perfetto sincrono con la rete (anche per evitare fastidiosi spoiler), la moltiplicazione di spazi di discussione differenziati per stato di avanzamento della visione del programma, abilità e competenze maturate e tipologia di comunità aggregate restituiscono l’ancoraggio emotivo e cognitivo tanto al prodotto, quanto alle sue audience. Fino alla ultima frontiera di applicazioni come Sidecastr che consente all’utente di agganciare la propria visione ritardata del programma alla conversazione in ambiente social – per es. su Twitter – avvenuta nel momento della prima messa in onda. È evidente, dunque, che le trasformazioni dell’ambiente televisivo mediate dalla contaminazione con la rete e con la sua cultura hanno di fatto riscritto l’uso relazionale dei contenuti televisivi. Se già i processi di domesticazione 28 W. Brooker, “Television out of time: watching cult shows on download” in R. Pearson, Reading Lost, cit. 29 R. Andò, “Come i social network cambiano il fandom. Il caso Twitter”, paper presentato al convegno Le reti socievoli. Fare ricerca ne/sul web sociale organizzato dalla sezione Processi e Istituzioni Culturali dell’Associazione Italiana di Sociologia (PIC AIS) presso l’Università di Urbino. Paper in corso di stampa.
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del mezzo avevano prodotto una moltiplicazione di apparecchi all’interno dell’ambiente familiare e la affermazione della cosiddetta bedroom culture soprattutto a favore dei target più giovani, riscrivendo in parte gli usi relazionali all’interno del contesto famiglia, lo step successivo è quello della differenziazione e moltiplicazione degli schermi durante la esposizione ai contenuti e il conseguente ancoraggio a comunità elettive lontane dal punto di vista della presenza fisica, ma vicine dal punto di vista della prossimità culturale. O vicine, ma sganciate da un contesto domestico fisso, laddove la portabilità degli ultimi dispositivi consente la fruizione dei prodotti in spazi e contesti relazionali negoziabili di volta in volta.
8.5. Conclusioni Difficile individuare delle conclusioni opportune quando si osservano processi in divenire come quelli fin qui descritti. Ma volendo sintetizzare in due idee chiave quanto finora descritto, possiamo dire che le serie tv «hanno liberato la televisione dalla linearità del palinsesto […] e hanno indicato il principio di movimento e le opportunità della ‘social tv’ »30. Ciò non significa che, rispetto alla questione del tempo, la strategia di rispecchiamento tra offerta e consumo della tv tradizionale abbia definitivamente lasciato il posto all’asincronicità del consumo31, né che quei processi finora descritti di social tv oggi non siano patrimonio anche di altri generi televisivi, che in alcuni casi si sono appropriati di quanto sperimentato a ridosso della serialità e hanno prodotto ulteriori inediti percorsi (si pensi ai programmi di attualità e informazione in cui la gestione via social media dei contenuti da parte degli utenti può trovare forme di contaminazione con più ampie dimensioni di impegno civico32), mentre in altri galleggiano tuttora senza aver ancora individuato una opportuna strategia. Ma quello che è innegabile è che la fiction, genere per antonomasia preposto alla fidelizzazione e per il quale è richiesto un elevato livello di
30 A. Marinelli, “Dal pubblico ai pubblici. Dalla televisione alle televisioni”. Intervento presentato nell’ambito del convegno Come le serie stanno cambiando la tv. Fiction Fest, 28 settembre 2011. 31 A. D. Lotz, The television will be revolutionized, New York and London, New York University Press, 2007 32 Su questo punto si vedano R. Andò, A. Marinelli, “Dal textual poachers al Like/Dislike. Quale valore dare all’engagement delle audience 2.0?”, cit.; R. Andò, F. Comunello, “Vieni via con me. Consumo televisivo, social media e civic engagement”, in R. Bartoletti, R. Paltrinieri (a cura di), «Sociologia della Comunicazione», n. 43, 2012.
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coinvolgimento,tanto per la notevole dilatazione nel tempo della fruizione, quanto per la ricchezza delle trame proposte e per la complessità dei meccanismi narrativi, sia stato il terreno di coltura di un nuovo modello di televisione. Verosimilmente, ampliando la provocazione proposta dalla Gillian su Lost, dobbiamo credere che ormai la produzione contemporanea di fiction è significativamente più «ill-suited to the broadcast platform»33 di quanto non si potesse immaginare solo fino a qualche anno fa.
33
J. Gillian, Television and New Media, cit., p. 143.
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9 Post-serialità. La fiction oltre i media di massa di Sergio Brancato
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9.1. Serialità I processi costitutivi delle narrazioni seriali (dal feuilleton alle declinazioni più recenti del telefilm) si sono realizzati storicamente nell’azione di media dalle caratteristiche tecnologiche e culturali tra loro assai diverse, sebbene sempre all’interno dell’orizzonte industriale e di massa del sistema della comunicazione. In questi anni, tuttavia, assistiamo al superamento dei nessi tradizionali tra società, media ed estetiche della serialità narrativa: nell’epoca della rete, fondata (proliferata) su una logica che non contempla più al proprio centro il paradigma delle masse metropolitane, i meccanismi che hanno contribuito a definire nel tempo le forme costantemente mutevoli e cicliche dell’industria culturale si trasformano radicalmente, confrontandosi coi nuovi assetti di potere tra apparati produttivi, culture dei consumi e testualità. Nei media post-televisivi, dunque, cambiano le regole del gioco narrativo. Una dinamica già pienamente visibile negli anni Novanta del secolo scorso, quando gli “spasmi” del modello televisivo generalista operarono forzature anche sulle tradizionali architetture del telefilm dando vita a inedite concezioni della serialità, e che oggi vede l’emergere sempre più evidente di nuovi formati, pratiche di fruizione, testi, strategie del loisir, interazioni comunicative. In particolare, la nuova territorialità mediatica del web disgrega le consuete griglie operative della fiction e le traduce in qualcosa di nuovo, in processi narrativi dai caratteri inediti che sottendono trasformazioni profonde della società legate a nuove pratiche sociali di affabulazione. L’incontro tra fiction e rete, dunque, pone il problema del superamento della serialità intesa come cuore della cultura di massa1 e di conseguenza l’approdo a nuovi modelli teorici della ricerca sulle forme narrative della vita quotidiana2. 1
A. Abruzzese, (a cura di), Ai confini della serialità, Napoli, SEN, 1984. M. Buonanno, Sulla scena del rimosso. Il dramma televisivo e il senso della storia, Napoli, Ipermedium, 2007. 2
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La missione della televisione generalista era stata quella di mettere a punto gli standard produttivi ed estetici in grado di intercettare le sensibilità (e quindi il gradimento) del pubblico di massa che sperimentava la prima formalizzazione sociale del medium catodico. Questo vale soprattutto per l’affermazione delle narrazioni di fiction a partire dagli anni ’50: si era allora ancora in un contesto mediatico che tendeva a organizzare il consumo di comunicazione e immaginario sulla base dei grandi numeri del paradigma metropolitano. La logica produttiva era perciò intimamente industriale, e votata al conseguimento di precisi criteri che rendessero praticabile una politica di massa della tv-fiction. Si assiste, qui, all’epocale spostamento di prospettiva dalla irreggimentazione del pubblico intorno alle modalità di fruizione del cinema, apice della società dello spettacolo vissuto sul territorio fisico nell’ambito di eventi collettivi, alla nuova dislocazione della tv, che sposta i rituali industriali del comunicare dall’esterno dei luoghi pubblici (depositari dei mezzi del comunicare e del loro esercizio) all’interno di quelli privati, dunque in una dimora che si attrezza sempre più a essere nucleo terminale di un’avanzata concezione di rete comunicativa3. In questo nuovo modello di distribuzione dei racconti audiovisivi si concretizza una serialità – già sperimentata in radio – che tende a frantumare il corpo sacrale del cinema (così come del teatro di intrattenimento e di tutta una serie di piattaforme espressive dell’arte) in una catena di testualità che sposta il fulcro del consumo dallo spazio al tempo, intervenendo sulla disponibilità dei soggetti a interagire con l’industria culturale non più recandosi verso i suoi luoghi, ma accettandola nella propria sfera privata attraverso la tempistica del palinsesto, all’interno della casa e nel quadro delle sue relazioni sociali, facendone l’elemento organizzativo del tempo libero nella sua dimensione sempre più domestica. L’estetica delle narrazioni televisive verrà condizionata a lungo da queste dinamiche originarie, in cui la televisione comincia a erodere la centralità del cinema nell’economia politica dei consumi. Ma è evidente che tale modello si “flette” ad ogni spostamento della società, mutando costantemente per adeguarsi alle sue trasformazioni. Tutti questi mutamenti avvengono all’interno di un sistema delle comunicazioni di massa, di cui la televisione generalista costituisce il coronamento, fino a quando emerge un differente modello mediale che rimette tutto in discussione.
3
A. Abruzzese Lo splendore della tv. Origini e destino del linguaggio audiovisivo, Genova, Costa & Nolan, 1995.
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POST-SERIALITÀ. LA
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9.2. Post-serialità I racconti televisivi di finzione si sono sviluppati sulla base della necessità del medium catodico di individuare, nella sua fase aurorale, un praticabile terreno di competizione con il cinema e, sia pure in maniera più organica, con la radio. La fiction fa dunque storicamente parte di un conflitto di potere tra tecnologie e culture, apparati produttivi e pratiche sociali dell’avvento televisivo. Se osserviamo in una prospettiva ampia le estetiche telefilmiche, troveremo che esse mutano costantemente nel tempo, adeguandosi alle trasformazioni che intervengono nel sistema televisivo e nella rete delle relazioni interumane che in questo si attivano. Le grammatiche del telefilm si mantengono, tuttavia, compatte nel loro insieme finché la tv si trasforma rimanendo nel solco delle comunicazioni di massa, rispondendo alle regole generali dell’industrializzazione della cultura. Ma già alla fine degli anni ’80 il modello televisivo si confronta con l’emergere sempre più destabilizzante di nuove tecnologie e inquiete soggettività storiche, che non riescono più ad essere “contenute” nel quadro tradizionale dei media di massa. Le pratiche della comunicazione si riscrivono intorno ai dispositivi informatici, che innescano un ampio movimento di convergenza tecnologica e culturale: un processo che nel giro di pochi anni ridefinirà il rapporto tra media e soggetto, spostando il fulcro della comunicazione dal paradigma industriale della fabbrica a quello della rete, dal broadcasting al web4. Negli snodi di questo passaggio di regime, la tradizionale forma televisiva ridefinisce i propri dispositivi fondamentali5. Tra questi, anche la produzione delle narrazioni di fiction. I criteri messi a punto per realizzare un virtuoso principio di standardizzazione fra strategie estetiche e strategie produttive si rivelano sempre più inefficaci, sagomati come sono sul modello della tv commerciale e sulla centralità pubblicitaria. La serialità sincopata del vecchio telefilm comincia a registrare la concorrenza di prodotti realizzati per un’altra idea di tv, basata su modalità distributive alternative e destinata a tipi di pubblico non più definibili “di massa”. Tra satellite e cavo, il broadcasting perde di efficacia, mentre si intravedono i primi segnali di una architettura narrativa che è possibile definire post-seriale.
4
H. Jenkins, Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2007; L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2000. 5 A. Marinelli, G. Celata (a cura di), Connecting television. La televisione al tempo di Internet, Milano, Guerini, 2012; M. Scaglioni, A. Sfardini (a cura di), MultiTV. L’esperienza televisiva nell’età della convergenza, Roma, Carocci, 2009.
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Espressione di un mutamento ancora in atto, la post-serialità è la definizione che si può applicare a un insieme di tendenze che investono la scrittura e la stessa macchina produttiva della fiction. In tale processo possiamo inscrivere serie come I Soprano, che negano radicalmente la sudditanza della sceneggiatura alla pubblicità e ai suoi tempi di frammentazione del testo audiovisivo6. Prodotta dalla HBO, questa serie costituisce lo spartiacque tra un modello di fiction fortemente standardizzato e le emergenze culturali che si manifestano nella frammentazione dei pubblici e nell’avvento del narrowcasting, che vede la tv generalista – anche quando si attrezzi e digitalizzi, come accade in Italia – perdere terreno in maniera crescente rispetto alle nuove piattaforme mediali7. Cominciando a far intravedere, in maniera assai concreta, la possibilità del proprio superamento e quella dei propri dispositivi storici8 .
9.3. Serialità on line Nella dissoluzione tecnologica e culturale della tv generalista si affermano, così, nuove strategie produttive e inedite logiche fruitive, dotate di un carattere decisamente più partecipativo. Tutto ciò viene percepito socialmente nel generale spostamento d’asse dei consumi, ormai proteso verso le nuove accezioni dell’interazione corpo/tecnologia prospettata dalla digitalizzazione. Dalla meccanica pesantezza stanziale del totem domestico all’interfaccia nomade e individuale della tecnologia mobile, l’inquietudine che investe il convenzionale dispositivo dello schermo rimanda, per quanto ci interessa nell’ambito del presente contributo, a mutazioni fisiologiche della fiction. Ovvero del modo di raccontare storie, di definirne la forma e le funzioni nell’ambito della nuova ecologia dei mezzi di comunicazione. Con l’avvento dei media post-televisivi, i tradizionali modelli maturati nell’esperienza dell’industria culturale non rispondono più ai rinnovati bisogni collettivi. Il pubblico di massa s’è ormai ipersegmentato in una costellazione complessa di interazioni operative, estetiche postmoderne, corpi mutanti ai confini del cyborg e oltre. Lo spazio dello schermo si è moltiplicato in una esperienza sensoriale disseminata su dispositivi che, pur condividendo la medesima base tecnologica, in realtà frantumano lo sguardo in molteplici 6
S. Brancato (a cura di), Post-serialità. Per una sociologia delle tv-series, Napoli, Liguori, 2011. S. Brancato, La forma fluida del mondo. Sociologia delle narrazioni audiovisive tra film e telefilm, Napoli, Ipermedium, 2010. 8 J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini, 2002. 7
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direzioni sempre più individuali, private, erranti. I contenuti video, affrancati dalla centralità televisiva, si riversano negli scambi simbolici della rete, nelle operazioni di consumo rinegoziate all’interno dell’habitat immateriale di Internet. L’idea spaziotemporale del testo audiovisivo industriale si scompone e ricompone nelle pratiche di piattaforme comunicative come Youtube o Facebook, in cui si generano nuove aggregazioni comunitarie che operano in profondità sull’idea stessa di linguaggio. Attraversata da un fermento post-alfabetico, la trasformazione linguistica in atto nell’utenza dei media digitali registra effetti importanti che investono la produzione dei contenuti così come la grande questione del diritto d’autore, poiché il punto nevralgico di questo processo di trasformazione è la messa in discussione del concetto di “opera” come inteso nella modernità industriale. Le innovazioni maturate nella rete, in particolar modo la fase propulsiva attualmente attraversata dai cosiddetti social media, operano sul corpo delle testualità audiovisive, trasformandole in maniera imprevista e radicale. Il web contamina e riplasma le forme televisive del comunicare, diventando una polarità decisiva nel processo di costruzione sociale del principio di realtà, un “punto di vista” sul mondo caratterizzato da una maggiore propensione partecipativa del pubblico o, meglio, dell’utenza9 . Se quanto affermato sin qui risulta particolarmente evidente qualora si rammenti, quale semplice esempio, la dimensione mediatica meta-territoriale della primavera araba o del movimento internazionale degli indignados, è tuttavia da considerare condizione operativa anche nella produzione di fiction. In altri termini, la produzione di fiction televisiva si confronta, a partire dagli anni ’90, con l’emergere di una nuova cultura della comunicazione che rinegozia le regole del gioco narrativo in accordo con il mutare del sistema dei media. Cogliamo questo dato nelle trasformazioni che, come sostenuto, investono le forme ed i generi storici del telefilm apportando mutamenti sostanziali all’idea di serialità che li informa; ma lo reperiamo anche nelle nuove relazioni che si instaurano tra tv e web sul piano del racconto, nell’ambito di un diffuso processo di convergenza tecno-culturale. In questa prospettiva, alcune tv-series di successo partono sul web, sperimentando il proprio appeal sul piano dell’immaginario in quella sede prima di approdare produttivamente ai consumi televisivi. È il caso esemplare di Sanctuary, una serie televisiva canadese (il Canada è una delle realtà emergenti dell’orizzonte post-seriale) ideata da Damian Kindler, un autore televisivo specializzato in serie di genere fantascientifico, andata in onda sul canale SyFy per quattro stagioni tra il 2008 e il 2011. Il dato che ci interes9
P. Gaffuri, Web Land. Dalla televisione alla metarealtà, Milano, Lupetti, 2011.
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sa di più è che la serie televisiva è stata dapprima sperimentata attraverso otto webisodes resi visionabili sul sito di SyFy tra maggio e agosto 2007. Il gradimento riscosso dalla web-serie ha quindi funzionato come orientatore strategico della produzione, al pari di quanto accaduto poi con altre serie. In Gran Bretagna, ad esempio, il processo di scrittura della serie Being Human, creata da Toby Withouse nel 2009, nasce nelle dinamiche di scambio partecipativo della rete. In altre circostanze, invece, il web diventa completamento informativo e territorio di una narrazione dai caratteri paratattici: è il caso della celebre serie True Blood, creata da Alan Ball nel 2008, ispirata ai romanzi di Charlaine Harris. Per promuovere la terza stagione di questo fortunato telefilm, la HBO ha messo in rete sei minisode intitolati A Drop of True Blood e dedicati ai diversi protagonisti della serie. Vere e proprie “pillole” narrative della durata di pochi minuti, questi minisode hanno funzionato sia come promo che come trait d’union fra la seconda e la terza stagione. Se pensiamo anche all’uso del web realizzato nella costruzione multiplanare di Lost, la pop-series creata da J.J. Abrams nel 2004 (un oggetto mediatico che supera le ormai antiquate definizioni di genere televisivo per approdare a una architettura mediale complessa dei testi audiovisivi di fiction1 0 ), allora appare chiaro quanto le serie di cui stiamo parlando non appartengano più all’orizzonte televisivo ma a quello post-televisivo dei social media e delle loro dinamiche di convergenza verso un nuovo mondo della comunicazione che non si riconosce più nelle forme e perfino nelle ideologie dell’industria culturale. Nascono proposte nuove che non sono più riconducibili alla storia della televisione e alle vecchie tv-series. Cambia anche lo schermo, la modalità di fruizione, il rapporto con il testo. Siamo a un punto di svolta che si identifica con le web-series.
9.4. Le web-series come nuova frontiera della fiction? Negli ultimi anni il fenomeno delle web-series è in continua evoluzione e in costante crescita grazie soprattutto a tre ordini di fattori. Proviamo a inquadrarli in maniera schematica. Il primo è costituito dalla tecnologia: l’evoluzione tecnologica dei device digitali utili a produrle e a distribuirle (migliore risoluzione delle videocamere HD, ottimizzazione dei protocolli e dei codici informatici di fissazione e di riproduzione), sviluppo continuo dei software di postproduzione e motion graphic. 10
C. Dellonte, G. Glaviano, Lost e i suoi segreti. Come funziona una serie innovativa, Roma, Dino Audino Editore, 2007
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Il secondo ordine di fattori è di matrice culturale: i pubblici, in virtù della loro accresciuta competenza testuale, sono disposti ad accogliere tra le proprie pratiche di consumo forme estetiche sperimentali, post-seriali, innovative rispetto ai linguaggi audiovisivi tradizionali e generalisti. Dal punto di vista testuale tutto questo si traduce, ad esempio, in una generale contrazione dei formati, nella scelta di minutaggi atipici rispetto al linguaggio televisivo, nel citazionismo spinto che rimanda ad archetipi mainstream e/o a fenomeni sociali dilaganti. Un caso esemplare di questa tendenza è la webserie italiana Lost in Google, creata da Francesco Capaldo, Simone Russo e Alfredo Felaco nel 2011. Nell’ambito di episodi molto brevi (pochi minuti, la durata è comunque variabile e non più vincolante poiché ormai estranea alle logiche di palinsesto) si narra la vicenda paradossale di uno “smarrimento” nella rete. Al di là della relativa novità dell’idea, il vero elemento di innovazione è costituito dall’interazione programmatica fra produzione e utenti. Questi ultimi partecipano alla fase di scrittura attraverso le idee postate su Youtube o sul sito ufficiale, affermando una pratica che va oltre il sondaggio sul gradimento, elemento tipico dell’industria culturale, e si configura invece una sorta di doxa creativa. Oltre e accanto alla dimensione partecipativa, l’aspetto delle pratiche di scambio è altrettanto decisivo. I social media (come YouTube, acquisito da Google, o Vimeo) ed i social network (Facebook e Twitter in special modo) hanno decisamente facilitato e incoraggiato la circolazione di queste nuove forme espressive. Da notare che sempre di meno gli utenti sono portati a “possedere” e ad archiviare i loro testi audiovisivi preferiti: le forme di condivisione, infatti, consistono spesso in scambi di link (che avvengono, appunto, sulle piattaforme social) ai quali si associa una fruizione in streaming del materiale. Si tratta di un transito non da poco, poiché finalmente si afferma l’idea che gli oggetti mediatici non siano cose ma processi, ovvero testualità fluide che il digitale differenzia in maniera decisiva rispetto alle vecchie tecnologie dell’oralità e della scrittura. Se la circolazione sulla rete delle serie televisive canoniche (quelle concepite per i canali tematici della tv) ha subito un lieve ridimensionamento dovuto ai provvedimenti antipirateria promossi da franchisor come Fox e HBO (si consideri per esempio la chiusura del portale Megavideo, vero e proprio punto di riferimento per i consumatori di audiovisivo), per quanto riguarda le serie concepite direttamente per il web i player del mercato audiovisivo assumono solitamente un diverso atteggiamento. Non solo, infatti, quest’ultimo tipo di prodotto non si configura come strettamente concorrenziale rispetto alle serie televisive convenzionali, ma non di rado
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può rappresentare un ricco serbatoio di topoi narrativi, soluzioni estetiche e figure professionali cui attingere per aggiornare e rilanciare i contenuti testuali delle emittenti. Infine, il terzo ordine di fattori ruota intorno alle tematiche della produzione. Tra i fattori produttivi da considerare in questo contesto va annoverata la crisi con i suoi effetti. Soprattutto nel nostro paese, la crisi generalizzata dell’economia sta incidendo pesantemente sulle attività produttive concernenti l’audiovisivo. Le produzioni, a volte anche quelle che hanno già superato la fase di preparazione o pre-produzione, faticano ad arrivare al momento delle riprese. Questo accade naturalmente perché la disponibilità ad investire da parte degli inserzionisti è calata, dunque sia i centri media che le concessionarie di pubblicità hanno più difficoltà a vendere gli spazi pubblicitari, e quindi a finanziare persino i prodotti seriali che nelle stagioni passate hanno avuto successo. In un andamento a catena, le pretese economiche dei professionisti del settore (dagli attori alle maestranze) stanno subendo un processo di ridimensionamento. Le figure professionali interessate sono spesso disposte a partecipare a produzioni low cost, e nel prossimo periodo potremmo assistere in Italia a una “web invasion” di artisti e figure di produzione che per evitare emorragie di notorietà accettano la sfida del linguaggio di nicchia. In questo contesto dai tratti critici, in cui è difficile varare nuove produzioni per la televisione, una società come Magnolia Fiction individua nella webserie la dimensione adatta per continuare a sperimentare e produrre, lasciando spazio soprattutto a quei giovani autori in grado di prospettare operativamente innovazione. Sul finire del 2012, così, viene varato per il web il progetto di miniserie (tre puntate per quaranta minuti complessivi) Kubrick. Una storia porno, ideata e diretta da Ludovico Bessegato. Così come accade per un’altra serie molto importante e innovativa nel quadro nazionale della fiction, Boris, le vicende narrate in Kubrick ci portano nello spazio dei conflitti culturali in atto sul piano di definizione delle culture cinematografiche e televisive: la storia, infatti, è una commedia metanarrativa degli equivoci, nella quale un gruppo di giovani e appassionati cineasti accettano di girare un porno per poter finanziare i loro progetti autoriali. Questa serie ha la particolarità di essere stata concepita e realizzata da professionisti di rilievo ma tutti molto giovani (l’età media è di 30 anni), dunque generazionalmente dentro lo spirito della rete e delle sue culture. Si tratta di un prodotto che non sfigurerebbe affatto nel quadro della consueta offerta televisiva, dimostrando come la web-fiction costituisca non una realtà antagonista quanto uno degli step laboratoriali in cui si vanno definendo le ultime forme dell’affabulazione audiovisiva.
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Questa prospettiva viene confermata anche da altre web-serie, realizzate a basso costo da imprese fondate per lo più da giovani videomaker che utilizzano creativamente le opzioni della rete. Tra le molte iniziative si possono ricordare Freaks!, Fiori neri e Youtuber$. La prima, Freaks!, è una webserie del 2011 creata da Claudio Di Biagio e composta da sette episodi, realizzata low cost da un gruppo di giovani per lo più dilettanti. Ispirata a una serie britannica di successo, Misfits, la serie è approdata da Youtube a Deejay Tv, che dovrebbe ospitare anche la seconda stagione. La seconda, Fiori neri, prodotta dalla Cutre nel 2012, mette in scena la realtà camorristica del mezzogiorno d’Italia contaminandola con una surreale storia di licantropi. La terza, infine, Youtuber$, creata nel 2012 da Daniele Barbiero, Damiano Ciano, Gianmarco Delli Veneri e Luigi Tilelli, racconta di un paranormale gioco di società che coinvolge un gruppo di giovani attivisti dell’audiovisione on line. Sono tutte serie che promuovono una creatività libera e irriverente, dominata dall’ironia e da una immaginazione affrancata dalle regole dell’industria culturale nazionale. In esse possiamo intravedere l’emergere di nuove generazioni di autori in grado di riscrivere, in prospettiva, l’immaginario posttelevisivo attraverso sensibilità aderenti ai nuovi modelli estetici e comunicativi della rete, ovvero a una sintonia – forse impraticabile per le generazioni meno giovani – con le nuove culture del consumo. Ma è comunque certo, poiché il futuro non è dato conoscere, che queste produzioni sperimentali costituiscano oggi gli unici tentativi di spingere il sistema italiano della fiction al di fuori della palude di conformismo e impotenza progettuale in cui s’è attualmente arenato.
9.5. Considerazioni che dilazionano le conclusioni Tra i fattori produttivi che influenzano positivamente la proliferazione delle web-series c’è senz’altro quello del buon tasso di misurabilità dei contatti web rispetto all’audience televisiva. Ciò ovviamente si traduce in una maggiore possibilità da parte degli investitori pubblicitari di valutare il proprio ritorno sull’investimento. In questo senso sono ormai lontani i tempi di Ien Ang e del suo Cercasi audience disperatamente: il web infatti permette una tracciabilità dei destinatari incomparabilmente migliore rispetto a quella televisiva11. Non solo il numero di contatti prodotti da un testo web può essere immediatamente e automaticamente individuabile, ma anche la loro profilatura risulta decisamente più agevole rispetto al passato, perché in 11
I. Ang, Cercasi audience disperatamente, Bologna, Il Mulino, 1999.
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un’ottica di fruizione personale (che si pone agli antipodi rispetto alla logica di broadcasting) generalmente l’utente che ha scelto di consumare un dato prodotto audiovisivo, e che quindi raggiunge la pagina web in cui esso è ospitato, risulta di per sé in target relativamente al prodotto o al servizio pubblicizzato dall’inserzionista che sponsorizza il contenuto. Crolla dunque la quantità dei consumatori raggiunti dai brand in ogni singola azione di visibilità, ma aumenta sensibilmente la qualità del contatto, vale a dire la possibilità che l’utente sia interessato alla merce pubblicizzata12. Questo è senz’altro uno dei motivi che spinge, oggi, anche le star del cinema e della televisione a praticare i sentieri innovativi della web-fiction. Il caso più eclatante è quello di The Confession, serie per la rete ideata da Kiefer Sutherland e pubblicata sul portale web Hulu nel 2011. Dieci webisodes da cinque minuti l’uno interpretati da Sutherland, John Hurt e altri caratteristi statunitensi di valore. Un investimento cospicuo e inusuale, per il momento, ma che lascia intuire il potenziale di sviluppo di questo nuovo mercato della fiction audiovisiva.
12
V. Bernabei, Shared identities. Processi culturali e nuove forme del sé, Napoli, Ipermedium, 2012.
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10 Il fine delle “grandi narrazioni”: fiction, transmedia e storytelling
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di Giovanni Ciofalo
10.1. Il fine e i principi Non è soltanto un gioco di parole. La scelta del titolo per questo contributo nasce dalla volontà di sottolineare gli effetti prodotti dal profondo cambiamento che, nell’arco degli ultimi trent’anni, ha avuto luogo sia rispetto alle dinamiche di produzione industriale della cultura, che riguardo la ridefinizione delle sue modalità di consumo da parte degli individui. Sul piano teorico, un primo, e fondamentale, punto di partenza può essere individuato nella lettura critica della società elaborata, negli anni Settanta, da Lyotard: il tramonto di un preciso tipo di modernità, basato su una serie di certezze e ancorato ad un complesso di valori sociali e culturali, indotto dall’accelerazione incessante dei ritmi di mutamento, dall’affermazione della conoscenza come risorsa primaria, dal sostanziale avvicendamento tra la relativa affidabilità di un passato appena compiuto e l’eterea imperscrutabilità del nuovo presente, segna la fine delle “grandi narrazioni”. Si tratta di un passaggio epocale: l’ingresso nell’inedita condizione della postmodernità, al cui interno le ideologie e le storie, fino a quel momento in grado di fornire senso al mondo, garantire l’ordine sociale e produrre un elevato livello di coesione e partecipazione degli individui, si indeboliscono fino ad andare irreversibilmente in crisi. Una crisi che, in quanto strutturale e non congiunturale, provoca un’ulteriore conseguenza, individuando, proprio nella fine, un nuovo fine delle stesse narrazioni:«La narrazione non è più un lapsus della legittimazione. Questo esplicito ricorso alla narrazione nella problematica del sapere coincide con l’emancipazione delle borghesie dalle autorità tradizionali»1. Anche se l’interpretazione di Lyotard è legata principalmente alla trasformazione di valore della grande narrazione, non più orientata alla for1
J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 56.
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mazione di ideali ma all’acquisizione di competenze, è comunque possibile tentare di estenderne la validità euristica, a patto di non rimanere intrappolati all’interno di una pura suggestione teorica, anche rispetto ad altre forme narrative, segnate dall’ibridazione, talvolta perfino dal ribaltamento, tra la necessità d’informazione e la richiesta d’intrattenimento, oppure tra il vero ed il verosimile. Sulla base di questi presupposti, infatti, nuove narrazioni si moltiplicano, fino ai giorni nostri, attraverso i canali mediali, in modo seriale e standardizzato, grazie ad una produzione industriale su larga scala, incassando un’attenzione crescente da parte di un pubblico sempre più vasto. Sul piano pratico, il ruolo giocato dai mezzi di comunicazione appare decisivo: la loro crescente pervasività, unita ad un’implacabile necessità di disporre di un numero sempre più elevato di contenuti, amplifica gli effetti derivanti dal definitivo approdo della narrazione all’interno di una dimensione mediata. In particolare, è la televisione, forte di una soglia di diffusione senza precedenti, a modificare l’equilibrio che prima aveva caratterizzato il rapporto individuo-media-società, affermandosi come duraturo central storytelling system. La successiva, e incessante, evoluzione delle tecnologie comunicative concorre ad ultimare questo processo di metamorfosi culturale, le cui ripercussioni, tuttavia, hanno luogo anche sul piano sociale. Lungo questo percorso di evoluzione, qui semplicemente tratteggiato, un punto di svolta fondamentale è rappresentato da un fenomeno particolarmente interessante, e ancora relativamente recente, che, in egual misura, investe sia le strategie di produzione, che quelle di fruizione culturale: il transmedia storytelling (Tst). In ambito accademico, questa definizione compare per la prima volta nel 1999, nel volume Playing with Power in Movies, Television, and Video Games. From Muppet Babies to Teenage Mutant Ninja Turtles2, al cui interno si fa esplicito riferimento alle modalità attraverso cui alcuni personaggi dell’immaginario giovanile riescono a passare da una piattaforma mediale all’altra, dando origine a macrosistemi di intrattenimento (veri e propri network intertestuali), capaci di amplificare a dismisura l’offerta di consumo costruita intorno ad alcune aree della cultura popolare3. 2 M. Kinder, Playing with Power in Movies, Television, and Video Games. From Muppet Babies to Teenage Mutant Ninja Turtles, Berkeley, University of California Press, 1991. 3 Attraverso la creazione di connessioni tra film, fiction, videogiochi, toys, e quant’altro, a parere di Kinder, si avvia e si alimenta una socializzazione al consumo nei confronti di minori, adolescenti e giovani, sorretta dall’utilizzo calibrato di strumenti di pubblicità e marketing, tali da garantire ed estendere il successo di uno o più prodotti. Questo processo complessivo, in realtà, va riferito più propriamente al concetto di transmedia branding, ovvero alle diversificate modalità attraverso cui ad un prodotto principale vengono affiancati, attraverso il ricorso ad una specifica logica di marketing, prodotti satellite a scopo puramente
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In realtà, la definizione di transmedia storytelling risente, persino nella sua prima elaborazione4, di una profonda ambiguità semantica, determinata dall’impossibilità di fissare dal punto di vista teorico e pratico un suo campo di applicazione ben delimitato. Un effetto collaterale causato, anzitutto, dall’abbinamento tra il termine “narrazione”, che evoca immediatamente una pluralità di forme di rappresentazione e di racconto, e quello di “transmedia”, la cui connotazione, strettamente legata al costante processo di innovazione del nostro sistema mediale, appare congenitamente dinamica. Del resto, la stessa velocità con cui, nel corso del tempo, si sono affermate, e avvicendate, numerose formule descrittive – Media Mix5, Crossmedialità6, Deep Media7, Intermedialità8, etc. – testimonia la difficoltà di riuscire a rimanere al passo con i tempi accelerati che, invece, contraddistinguono questo fenomeno. Più che soffermarsi sull’enunciazione delle specifiche prerogative odei fondamentali principi del transmedia storytelling9, che, seppure individuati e descritti, sembrano talvolta risentire di un eccesso di categorizzazione, in questa sede è interessante avviare una riflessione rispetto alla fiction televisiva, citando alcuni casi esemplari, riferibili tanto al contesto straniero, quanto a quello italiano, pur senza sottovalutare l’implicita complessità del fenomeno in esame. Un ecosistema certamente complesso, ma che deve divenire oggetto di studio proprio in funzione della sua capacità di avviare processi di rideficommerciale. Nella maggior parte dei casi si tratta di riproposizioni di singoli elementi che, oltre a non aggiungere nulla alla storia complessiva, non possono neppure essere considerati come unità narrative autosufficienti. 4 Scrive al proposito Jenkins: «We might also draw a distinction between transmedia storytelling and transmedia branding, though these can also be closely intertwined. So, we can see something like Dark Lord: The Rise of Darth Vader as an extension of the transmedia narrative that has grown up around Star Wars because it provides back story and insights into a central character in that saga. By comparison, a Star Wars breakfast cereal may enhance the franchise’s branding but it may have a limited contribution to make to our understanding of the narrative or the world of the story.», in H. Jenkins, “Transmedia Storytelling and Entertainment: An annotated syllabus”, in «Continuum: Journal of Media & Cultural Studies» Vol. 24, No. 6, December 2010, p.944. 5 M. Ito, “Technologies of the childhood imagination: Media mixes, hypersociality, and recombinant culturalform” in «Journal of Popular Culture», 38, 456-475, 2001. 6 M. Giovagnoli, Cross-media. Le nuove narrazioni, Milano, Apogeo, 2009. 7 F. Rose, The Art of Immersion: How the Digital Generation Is Remaking Hollywood, Madison Avenue, and the Way We Tell Stories, New York, W. W. Norton & Company, 2011. 8 M. Bittanti, Intermedialità.Videogiochi, cinema, televisione, fumetti, Roma, Unicopli, 2007. 9 In particolare, i sette principi fondamentali del transmedia storytelling, elaborati da Herny Jenkins, sono: spreadability vs drillability; continuity vs multiplicity; immersion vs extractability; wordbuilding; seriality; subjectivity; performance. Al proposito, cfr.: http://henryjenkins.org/2009/12/ the_revenge_of_the_origami_uni.html
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nizione rispetto alle routine produttive di media e di contenuti tradizionali (basti pensare alla suggestiva idea di una connected television10 o all’approdo ad una post-serialità11) e di riconfigurare l’obiettivo stesso delle narrazioni (il fine) riuscendo a svincolarle, almeno in parte, dalla precedente ed insuperabile importanza del loro effettivo compimento (la fine).
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10.2. Dai boschi ai labirinti narrativi La costante implementazione delle architetture narrative ha prodotto una dilatazione esponenziale degli universi immaginari: per gli individui tutto ciò ha coinciso con un radicale cambiamento delle loro esperienze di fruizione. L’immersione e il coinvolgimento in un testo, che prima potevano comportare una sensazione simile a quella di procedere lungo un percorso all’interno di un mondo altro, come in un viaggio o, per usare una celebre metafora, come nel corso di una passeggiata in un bosco narrativo12, sembrano aver acquisito, oggi, un significato decisamente diverso. La logica della scoperta che, al di là dello specifico genere letterario, riusciva ad accomunare gran parte delle storie, oggi è stata affiancata, talvolta persino sostituita, da una logica dello smarrimento. Non si tratta semplicemente della moltiplicazione dei canali attraverso cui un certo contenuto può essere veicolato o delle piattaforme di supporto su cui, infranta la sua unicità, esso può venire disseminato. La duplice necessità di sorprendere un pubblico sempre più smaliziato e selettivo (ed altrettanto annoiato e assuefatto), e di rispettare i criteri di una così ricercata multidimensionalità creativa, ha come effetto (collaterale o principale) quello di rendere, sempre più spesso, il minimo comun denominatore di molte narrazioni un generale senso di disorientamento. Una sensazione simile a quella che si può provare perdendosi, ancora una volta metaforicamente, all’interno di un labirinto narrativo. Scrive, a proposito di LOST, Silvia Leonzi: 10
A. Marinelli, G. Celata (a cura di), Connecting television. La Televisione al tempo di Internet, Milano, Guerini e Associati, 2012. 11 Un concetto ascrivibile ad un particolare processo che, secondo Sergio Brancato, può essere definito come: «[…] uno sviluppo dei modelli seriali che parte dalla traduzione della narrativa cinematografica in brevi formati televisivi (telefilm), sosta a lungo in una progressiva strutturazione formale che il broadcasting impone al rapporto tra fiction e mercato degli spazi pubblicitari, infine registra una destrutturazione dei formati della serialità classica in un sistema articolato di territori residui e di nuove isole (nicchie)», in S. Brancato (a cura di), Post-serialità. Per una sociologia delle tv-series. Dinamiche di trasformazione della fiction televisiva, Napoli, Liguori Editore, p.2. 12 U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi. Harvard University, Norton Lectures, 1992-1993, Milano, Bompiani, 1994.
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Questo racconto corale, che pone quesiti filosofici utilizzando dinamiche da videogame, suscita un senso di vertigine e spaesamento da un lato, e una sensazione di familiarità ed empatia, dall’altro […] Per noi, orfani delle Grandi narrazioni (Lyotard, 1979), il naufragio che dà avvio alla storia rappresenta l’inizio di un viaggio senza andata e senza ritorno, una sorta di implosione in una quarta dimensione, in cui il tempo non è quello lineare della modernità, e lo spazio, che non si definisce per estensione, può subire dislocazioni destabilizzanti13.
Ecco, dunque, un altro fondamentale elemento: la centralità del gioco. Rispetto alle precedenti forme di racconto, che comunque continuano ancora ad essere disponibili, il fruitore, quando si imbatte in testi di carattere transmediale, è necessariamente costretto a trasformarsi in spett-attore: la sua lettura, infatti, diviene rincorsa, ricerca, esplorazione (concretamente, come nel caso della serie TV Alcatraz) di quell’universo finzionale di cui entra a far parte, non più come semplice osservatore, ma come diretto partecipante. In questo modo, si viene a compiere un passaggio fondamentale da un sistema (precedente) caratterizzato da architetture che, seppure grandiose, appaiono comunque fondate sulla potenza del racconto, ad un nuovo ecosistema (più recente e sempre più diffuso), che si pone appunto come ambiente. Uno spazio da attraversare, secondo un tempo non necessariamente lineare e con modalità connesse al livello d’immersività che tale esperienza è in grado di offrire o che il singolo individuo è capace di sostenere. Del resto, la logica transmediale si differenzia dalle forme tradizionali di racconto essendo orientata principalmente a disperdere, più che a replicare14, i segmenti di una stessa narrazione, dal momento che, come scrive Jenkins: «a transmedia story unfolds across multiple media platforms with each new text making a distinctive and valuable contribution to the whole»15. Un simile processo di trasformazione, che va contestualizzato sia sul versante dell’audience che su quello dei produttori, viene ovviamente sostenuto da una nuova ed accresciuta disponibilità tecnologica e, allo stesso
13
S. Leonzi “Lost in Mithology. Dal naufragio con lo spettatore al naufragio dello spettatore”, in Romana Andò (a cura di), Lost. Analisi di un fenomeno (non solo) televisivo, Roma, Bonanno Editore, 2011, p. 50. 14 Questo tipo di strategia basata sull’utilizzo di media diversi in tempi diversi, rientra più propriamente nell’ambito dei processi di adattamento o trasposizione, la cui valenza, pur se utile ad aumentare la visibilità di uno specifico prodotto, come ad esempio nel caso del passaggio da un romanzo a un film, non contribuisce ad arricchire l’impianto della narrazione generale. 15 H. Jenkins, Convergence Culture: Where Old and New Media Collide. New York, New York University Press, 2006 , p. 96.
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tempo, sfrutta il progressivo dissolvimento del confine che separa narrazione e gioco, appunto, secondo una dinamica che, come sostiene Milly Buonanno, è definibile nei termini di Ludic Transmedia Storytelling16. Questa sorta di ludicizzazione (gamification), basata sull’esportazione delle tecniche tipiche del gioco, e soprattutto del videogioco, all’interno di contesti diversi, produce anche una nuova coincidenza tra pratiche di fruizione e capacità di interazione. In questo modo il testo, divenuto con-testo, oltre a coinvolgere individualmente, è in grado di produrre senso di comunità e appartenenza, spingendo alla condivisione dei contenuti con altri fruitori. Non si tratta di un generico processo di arricchimento del mainstream televisivo principale, ma, come avviene nella maggior parte dei casi, dello specifico ricorso ad una impostazione inedita che offre al ricevente opportunità di partecipazione più elevate, secondo una logica della ricompensa. Ovviamente, tutto ciò è reso possibile dall’elevato livello di convergenza che, grazie ai traguardi raggiunti dalle tecnologie comunicative più recenti, è divenuto un tratto fondamentale dell’esperienza del pubblico. È, dunque, possibile considerare la narrazione transmediale17 come quel sistema creativo per mezzo di cui elementi narrativi diversi, sulla base dell’incrocio tra pratiche culturali e tecnologiche, riescono a generare un’esperienza unificata e coordinata, che garantisce al fruitore un’inedita capacità di scelta, azione ed interazione: laddove la formula produttiva dominante nell’era analogica era l’adattamento – per cui i medesimi contenuti venivano trasferiti da un medium all’altro per mezzo di un processo di rimodellamento – oggi si producono matrici di narrazioni che si sviluppano in modo (relativamente) autonomo su più piattaforme. Detto altrimenti, nell’era digitale, la produzione di nuove direzioni narrative all’interno della stessa cosmologia ha sostituito la prassi di ridistribuire i medesimi contenuti. Questo cambio di paradigma prevede a sua volta un nuovo tipo di fruitore dotato di competenze trans-mediali18.
Gli effetti di questo cambiamento paradigmatico incidono, anzitutto, sulle tradizionali strategie degli apparati di produzione culturale: il punto di partenza, infatti, non è più uno specifico mezzo (device driven), ma una storia (story driven), che diventa centrale nella progettazione delle possibili declinazioni attraverso i vari media, secondo un principio intersistemico, 16
Il riferimento è all’intervista rilasciata da Milly Buonanno, disponibile sul sito www. crossmediapeppers.com 17 H. Jenkins “Transmedia storytelling”, in «Technology Review», 15 January, 2003. 18 M. Bittanti, “Benvenuti nel deserto del virtuale. The Matrix tra cinema e videogame”, in G. Pescatore (a cura di), Matrix. Uno studio di caso, Bologna, Hybris, 2006, p. 133.
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coordinato e sinergico tra i diversi settori dell’industria culturale, e non più semplicemente sequenziale. In questo senso, allora, un prodotto può rivelarsi transmediale a priori19, quando, alla base della strutturazione narrativa, esiste una precisa volontà di differenziare l’esperienza di fruizione, oppure a posteriori20, quando, invece, la transmedialità si concretizza in funzione del successo già acquisito da un particolare testo. Creatività, marketing, serialità, furbizia o intelligenza produttiva, quindi, si fondono senza soluzione di continuità nel tentativo di dare origine a nuovi contesti narrativi, in cui è possibile attivare forme di sperimentazione ed ibridazione senza precedenti. All’interno di questo scenario, ovviamente, la fiction televisiva, veicolata dal più diffuso mezzo di comunicazione di massa, la Tv, e, allo stesso tempo, dal nuovo mezzo globalmente più accessibile, Internet, acquisisce la particolare valenza di vera e propria unitas complex: insieme contenente, e a sua volta contenuto da, altri insiemi. Concentrandosi sulla dimensione del gioco, sempre nell’ambito della transmedialità gli esempi che caratterizzano le produzioni straniere, e soprattutto quelle statunitensi, sono molto numerosi. Ancora una volta Lost, paradossalmente un inimitabile modello da imitare, vera e propria macchina celibe21, costituisce un punto di partenza obbligato. Nel periodo di intervallo compreso tra la fine della seconda stagione televisiva e il lancio della terza, infatti, viene messo a punto l’ARG The Lost Experience: non si tratta soltanto di un efficace strumento per mantenere alta l’attenzione dei fan, ma di una forma complementare di racconto che prevede la raccolta di indizi e la risoluzione di enigmi, anche al fine di ottenere anticipazioni sulle successive puntate messe in onda. Lo stesso principio ispira il videogame riconducibile alla serie televisiva 22 24 (24: The Game) che, diffuso strategicamente prima dell’inizio della terza 19
A questa tipologia possono essere ricondotti casi celebri quali Matrix Reloaded, Tron Legacy, The Dark Knight, Avatar, etc. 20 Tale modalità attinge ad un enorme bacino di narrazioni pre-esistenti, avendo certamente il vantaggio di poter sfruttare il successo e la notorietà già acquisiti da un determinato prodotto, ma dovendo, al contempo, rispettare precisi vincoli progettuali al fine di non dare origine ad una semplice operazione di sfruttamento commerciale di un particolare testo. 21 L’espressione, utilizzata da Milly Buonanno, nel corso di un incontro seminariale incentrato su LOST, realizzato presso la Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione della Sapienza Università di Roma, nasceva in contrapposizione all’idea che LOST potesse rappresentare una sorta di formula narrativa replicabile; al proposito cfr.: http://asaudience. wordpress.com/2010/04/21/lost-day-gli-interventi-1/ 22 La struttura peculiare delle serie 24 è tale per cui ogni stagione equivale al racconto di un giorno composto da 24 ore ed ogni ora, quindi, è narrata all’interno di una singola
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stagione, consente al fruitore di vivere in prima persona un giorno all’interno dell’universo finzionale, vestendo i panni di uno deisuoi personaggi preferiti (Jack Bauer - Kiefer Sutherland, Kim Bauer - Elisha Cuthbert, Tony Almeida - Carlos Bernard, etc.). Il prodotto non è soltanto un videogioco, perché nel corso delle diverse missioni da compiere è possibile acquisire informazioni aggiuntive e rivelazioni su fatti che gli episodi televisivi non hanno (volutamente) chiarito, e neppure soltanto un’integrazione meta-mediale, perché la cura dei dettagli, sia dal punto di vista contenutistico (le sceneggiature approvate da Joel Surnow, creatore di 24), che da quello grafico (la riproposizione accurata dello stile della serie, ottenuta attraverso la collaborazione dell’ideatore delle riprese televisive), lo rendono un titolo ad elevata giocabilità. Dexter Interactive Investigation, infine,originale per la piattaforma di fruizione (YouTube), semplice nella modalità di interazione, costituisce un ulteriore esempio particolarmente significativo di come poter coinvolgere sia lo spettatore più fidelizzato, che riconosce in questo gioco, grazie al recupero ed al riutilizzo di alcuni spezzoni televisivi, l’atmosfera della sua serie favorita, sia il giocatore occasionale che, in ogni caso, sfruttando questo accesso alternativo, può essere invogliato ad esplorare in un secondo tempo l’universo di Dexter. Le inedite modalità di storytelling, quindi, che debordano oltre i confini del singolo medium, estendono il proprio potenziale ai più disparati settori dell’industria culturale, dando origine ad un nuovo concetto di serialità, diffusa e multidimensionale, sia dal punto di vista dell’offerta che della domanda. Sostanzialmente, ad un’attestata strategia dell’anthology plot, ovvero il ricorso ad un intreccio autoconclusivo nell’ambito del singolo episodio, si affianca, e in parte si sostituisce, la tattica del running plot, basata sulla definizione di una cornice narrativa molto più ampia, capace di accomunare una o più stagioni. L’eccedenza contenutistica che ne deriva non consente semplicemente di attivare un processo di fidelizzazione molto più coinvolgente rispetto alla platea dei fruitori, ma permette di aumentare esponenzialmente le possibilità narrative a disposizione degli autori, con il conseguente effetto di una moltiplicazione dei riferimenti intra-testuali, e soprattutto meta-testuali. Un’opportunità creativa e produttiva per un verso, ma anche un’eventuale criticità, se si considera il rischio di eccessivi sovraccarichi della storia o la necessità, per la platea dei fruitori, di possedere competenze innegabilmente più articolate. Una condizione, apparentemente, ineluttabile di molte narrazioni di natura transmediale, causata dalla consapevole rinuncia da parte puntata. Per un approfondimento relativo alle strutture temporali in 24, cfr: L. Valeriani “24, Lost”, in F. Della Rocca, A. Malagamba, V. Susca (a cura di), Eroi del quotidiano. Figure della serialità televisiva, Roma, Bevivino, 2010.
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degli ideatori a mantenere un pieno controllo della loro stessa creazione, la cui progressiva, e talvolta imprevista, estensione produce una riconfigurazione del rapporto testo-lettore. In questa nuova ottica, il testo, da sempre afflitto da un certo grado di pigrizia semantica23, assume una struttura ancora più caratterizzata da spazi vuoti, il cui riempimento viene demandato all’immaginazione del fruitore o a future e non meglio precisate occasioni. Come nella dinamica che qualifica lo spazio fisico reale, con l’unione-opposizione tra materia e antimateria, in qualche modo, si può registrare una sorta di simile compenetrazione fra ciò che viene mostrato, esplicitato e descritto (testo, appunto) e ciò che, invece, pur sulla base di una precisa funzione narrativa, viene nascosto, omesso e taciuto (anti-testo). Una prerogativa della logica primaria del transmedia storytelling, che si rivela quindi anche sotto le sembianze di macchina per creare vuoti (narrativi), da riempire mediante spin-off, ARG, flashback, prequel, sequel, etc., sfruttando una sorta di negative capability24. È esattamente all’interno di questi spazi bianchi che emerge, e può essere colta, la natura della comunicazione contemporanea: la sua «attitudine a violare gli statuti originari dei media lungo direttrici centrifughe e sostanzialmente ingovernabili, dispersive, dionisiache»25 costituisce la base su cui poggia il nuovo immaginario connettivo26. Uno sconfinato altroquando narrativo che, tuttavia, attraverso il ricorso a figure archetipiche e alla loro stereotipizzazione, per mezzo di un’accurata manipolazione delle strutture universali di senso e di significazione, restituisce al fruitore che lo attraversa, grazie a supporti tecnologici diversi, la sensazione di immergersi in un contesto situazionale comunque coerente. Il fatto che sia ancora possibile distinguervi all’interno, in modo relativamente netto, differenti forme di narrazione può essere spiegato in funzione di 23 Scrive al proposito Umberto Eco: «il testo è una macchina pigra che esige dal lettore un fiero lavoro cooperativo per riempire spazi di non-detto o di già detto rimasti per così dire in bianco [...] un testo è sempre in qualche modo reticente.», in U. ECO, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 2000, p. 25. 24 Citato per la prima volta dal poeta inglese John Keats nel 1817, il concetto di negative capability viene poi compiutamente elaborato da Lanzara nei termini di «[...] un particolare tipo di agire: un agire che, per così dire, nasce dal vuoto, dalla perdita di senso e di ordine, ma che è orientato all’attivazione di contesti e alla generazione di mondi possibili […]»; G. F. Lanzara, Capacità negativa. Competenza progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 13. 25 S. Brancato, “Prefazione”, in M. Giovagnoli, Fare Cross-media, Roma, Dino Audino, 2005, p.5. 26 Sul ruolo dell’immaginario e i media cfr. S.Leonzi, Lo spettacolo dell’immaginario. I miti le storie, i media, Latina, Tunué, 2010.
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precise variabili, come ad esempio l’età o il livello di alfabetizzazione mediale del fruitore o, ancora, il non completo allineamento che, talvolta, sembra caratterizzare l’attuale transmedialità. Probabilmente, in un futuro neanche troppo prossimo, abbattuti i confini tra i diversi supporti, che pure oggi continuano a sgretolarsi, e grazie al raggiungimento di superiori standard di media literacy da parte di tutti gli strati sociali, come in un gigantesco mosaico sarà l’immagine complessiva a dominare sulle singole tessere che la compongono.
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10.3. In Italia… locura e frammenti? Nell’ultimo episodio della serie Boris uno sceneggiatore (Aprea - Valerio Aprea) per descrivere al regista (Renè Ferretti - Francesco Pannofino) di una soap ormai in declino (Occhi del cuore) quale sarà il futuro delle produzioni televisive italiane utilizza il termine “locura”. La follia, o l’impazzimento che questa parola evoca tuttavia sono solo apparenti, formali ed esteriori: il significato reale che emerge, dalla feroce e ghignante critica di Boris al sistema produttivo italiano, si riferisce all’idea di un costante rimescolamento degli stessi ingredienti, alla perenne riproposizione delle stesse strutture narrative, ormai superate, all’estenuante mascheramento, attraverso innovazioni solo marginali ed estetiche, degli identici contenuti. Una simile provocazione, al di fuori del contesto specifico di una tra le più divertenti ed irriverenti metafiction mai realizzate, restituisce una visione eccessivamente generalizzata e troppo netta di una realtà televisiva come la nostra, rispetto a cui è necessario, invece, valutare più aspetti. Accanto alle diverse criticità e ai limiti certamente ascrivibili nel complesso all’offerta di fiction italiana, infatti, è opportuno tenere in considerazione anche le numerose differenze connesse alla portata del mercato, al volume degli investimenti e alle possibilità di esportazione che contraddistinguono il sistema italiano, rendendo, di fatto, particolarmente difficile qualsiasi tipo di comparazione con contesti più estesi ed evoluti, come ad esempio gli USA. La transmedialità, poi, costituisce una dimensione ulteriormente critica, rappresentando un fenomeno produttivo relativamente recente, che tende a contrapporsi a logiche di trasmissione, produzione e fruizione ormai sedimentate, ma capaci di generare una serie di conseguenze impreviste. La persistenza di criteri tradizionali nella scelta di cosa trasmettere, unitamente alla contemporanea perseveranza di comportamenti di consumo, fondati sull’assoluta centralità del mezzo televisivo, da parte di quote di pubblico ancora consistenti, tendono a limitare notevolmente il margine dell’innovazione.
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In sostanza, tanto sul versante dei broadcaster quanto su quello delle audience, si può rilevare un’analoga predisposizione ad interpretare i prodotti di fiction come “essenzialmente televisivi”, riuscendo di rado a cogliere l’utilità narrativa dell’insieme dei contenuti veicolato attraverso piattaforme alternative. Esistono, poi, anche problematiche di tipo strutturale: sempre rispetto alle fiction statunitensi importate in Italia, va considerato sia il potenziale scarto temporale tra la messa in onda originale e quella italiana27, sia la questione linguistica, che per un verso incide sul ritardo nelle trasmissioni, rendendo necessario il processo di doppiaggio, per l’altro sull’impossibilità, o almeno sulla riduzione delle possibilità, di accedere ai contenuti aggiuntivi realizzati in lingua originale. In questo modo spesso accade che i prodotti stranieri, una volta approdati sui nostri schermi, tornino ad assumere la valenza di unità narrative tradizionali, venendo distaccati dall’impianto transmediale al cui interno erano stati concepiti. Dal punto di vista della produzione, nell’ambito del contesto italiano da un lato appare ancora poco praticata l’opzione più radicalmente transmediale, quella che cioè si fonda sulla basilare volontà di progettazione e pianificazione della storia stessa e, dunque, nell’atto di creazione di un unico, ma articolato ed esteso, universo narrativo; dall’altro iniziano ad essere percepibili alcune forme di ibridazione tra strategie produttive tradizionali e processi di integrazione narrativa, mediante il ricorso ad un pluralità di strumenti comunicativi. A titolo di esempio, in quest’ultima parte, si farà esplicito riferimento a tre casi diversi (Un posto al Sole, Romanzo Criminale, Frammenti), le cui caratteristiche sembrano descrivere in modo sufficientemente appropriato, e secondo un’ideale progressione, il lento, ma inarrestabile, processo di cambiamento che interessa la fiction italiana. In onda su Rai3 dal 1996 e superata ormai la sedicesima stagione, Un posto al Sole è stato caratterizzato da un tentativo di espansione del suo universo narrativo, avvenuto in due differenti fasi, il cui risultato, ancor più che riconducibile ad una reale impostazione transmediale, va considerato più propriamente come l’abbinamento tra forme seriali tradizionali e prodotti culturali accessori. Tra il 2006 e il 2009, infatti, durante il periodo di sospensione estiva delle trasmissioni, viene messa in onda la serie parallela, 27 Sempre rimanendo sul caso di LOST, in Italia la prima apparizione su un canale pubblico risale al 22 gennaio 2006 –negli Stati Uniti il 23 settembre 2004 – e sulla tv a pagamento il 22 marzo 2005. Il gap è stato parzialmente colmato fino ad arrivare ad una quasi contemporanea messa in onda verso la fine della serie, con uno scarto di circa una settimana.
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Un posto al Sole estate. All’interno delle puntate di questo spin-off, sono narrate le vicende dei protagonisti della serie originale, dei personaggi secondari o persino di quelli usciti di scena. Ancora nel 2006, inoltre, è stato messo in vendita il primo album musicale realizzato da una delle attrici del cast, le cui canzoni sono state poi utilizzate all’interno della serie. Anche nel caso di Romanzo Criminale possono essere distinte, in modo abbastanza netto, due modalità principali nel processo di trasformazione del testo originale in chiave transmediale. Rispetto alla prima, in realtà, è più corretto parlare di un ricorso graduale a meccanismi di trasposizione tradizionali: la grande capacità seduttiva dell’immaginario di riferimento, la tipologia di protagonismo prettamente corale e l’estensione dell’arco temporale che ripercorre quasi un ventennio della recente storia del nostro paese, infatti, sono stati gli ingredienti che hanno decretato prima il successo del romanzo scritto da Giancarlo De Cataldo, quindi del film diretto da Michele Placido e, infine, della serie prodotta da SKY Cinema e Cattleya. La realizzazione sequenziale delle versioni successive al libro si è basata su una serie di variazioni, riconducibili da un lato a precise scelte stilistiche, come nel caso del film, e, dall’altro alla possibilità di sfruttare una durata temporale superiore, com’è avvenuto con la fiction. La conseguenza che ne è derivata è stata una sorta di illusione narrativa che, a quanti non avevano fruito di ognuna delle tre componenti, ha dato la sensazione di un progressivo arricchimento del testo originale. In realtà, soltanto la recente pubblicazione di un nuovo romanzo, Io sono il Libanese, ancora ad opera di De Cataldo ed incentrato sulle vicende precedenti a quanto descritto nel primo volume, ha consentito un reale ampliamento dell’universo finzionale di Romanzo Criminale, attivando, seppure secondo una strategia (ex post) fondata sul successo complessivamente ottenuto dal testo, una seconda fase più propriamente transmediale. Il caso che, invece, a differenza dei due già citati, costituisce un esempio effettivo del ricorso ad una nuova ingegneria narrativa è senz’altro quello della serie Frammenti 28, prodotta nel 2009, trasmessa sul canale satellitare Current Tv (Sky) e costituita da 12 puntate di circa 30 minuti e da una serie di specifici contenuti, diffusi attraverso social network, riviste, ma anche all’interno spazi fisici concreti (le città di Roma, Milano, Trieste). 28
In sintesi, la trama si concentra sulla figura del protagonista, il giornalista Lorenzo Soare, e sulle vicende in cui incorre dopo aver scoperto che una potente multinazionale ha messo in vendita un farmaco capace di cancellare in modo mirato alcuni ricordi.
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La narrazione complessiva, che nasce come una sorta di widedrama, si compone, infatti, di una web series interattiva, un ARG e una community, attraverso cui i fan hanno la possibilità di cimentarsi con prove da superare, ed infine uno show televisivo, cui prende parte l’utente che è riuscito a risolvere l’enigma della settimana. Lo spettatore, addirittura, già prima della messa in onda dell’episodio iniziale, è invitato ad entrare, attraverso accessi diversi, all’interno dell’universo immaginativo della serie, per aiutare il protagonista a raggiungere il suo principale obiettivo (ricomporre i frammenti della sua memoria). In questo prodotto, quindi, emerge incontestabilmente quello stretto legame con la dimensione ludica, precedentemente citato: gli elementi della narrazione e dell’interattività sono stati ideati in modo tale da integrarsi fino a costituire un ambiente immersivo ed avvolgente per il fruitore, che viene messo al centro della storia. I risultati ottenuti, anche al di là del successo di pubblico, in alcuni casi sono stati persino sorprendenti29. Accanto ad un’apparente situazione d’immobilità, come quella che sembra identificare la nostra realtà televisiva, dunque, è possibile osservare la graduale emersione, pure secondo dinamiche e ritmi variabili, di nuovi fermenti creativi. Il fatto che, come avvenuto in altri contesti, questi possano condurre ad una nuovo e più complesso panorama narrativo, probabilmente, dipende da un insieme di variabili che, ad oggi, ancora non è possibile definire con estrema certezza. Certamente, la strategia della rassicurazione, ovvero il ricorso alla riproposizione di formule collaudate, va interpretata in funzione delle caratteristiche di uno scenario televisivo per lungo tempo strutturato nell’opposizione tra blocchi concorrenti, che aspiravano a contendersi e coltivare le medesime audience. I diversi cambiamenti indotti dalle innovazioni tecnologiche, come ad esempio il passaggio al digitale terrestre, o dalla definizione di nuove tipologie di fruizione, tese a ricercare nuovi tempi e spazi di intrattenimento, fanno presumere, tuttavia, che non appena i frammenti transmediali, appena emersi, si moltiplicheranno fino a configurare un nuovo continente comunicativo, anche il sistema produttivo italiano potrà guarire dalla locura di cui sembra soffrire. 29 Uno spot del finto farmaco ideato nella serie, andato in onda su Sky, è stato poi erroneamente ripreso da un articolo de “Il fatto quotidiano” del 3 ottobre 2009, e scambiato per reale: «uno spot pubblicitario (in onda sul canale Current della piattaforma Sky) e un sito Internet che promette, per il 22 gennaio prossimo, il miraggio dell’oblio. Del suo principio attivo – l’UR 147 – poche tracce, anche on line. Come della casa farmaceutica che lo dovrebbe distribuire. Così, intrappolata nella rete insieme a un piccolo mistero, resta l’eco di quella promessa: eliminare un dolore. Quale male può venire dal cancellare un male?».
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11 Storie ingarbugliate. Dai mind-game film alle «fiction totali»
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di Guido Vitiello
Ogni opera è una Bibbia e ogni pubblico una chiesa invisibile F. Schlegel
11.1. Una «certa tendenza»: come studiare i mind-game film? Ancora una decina d’anni fa, quando uscì Mulholland Drive (Mulholland Dr., David Lynch, 2001) c’era una frase che capitava spesso d’intraudire, alla fine delle proiezioni, in mezzo al brusio degli spettatori sconcertati o interdetti. E questa frase era la bandiera con cui l’opinione più filistea ha sempre accolto le «stravaganze» dell’avanguardia: «Mi sento preso in giro». Certo, l’ipotesi che una produzione potesse investire milioni di dollari e un regista impiegare anni di lavoro al solo scopo di far sentire stupido lo spettatore comune era, per dire il meno, piuttosto antieconomica. Ma la frase rivelava il sentimento di offesa per il tradimento di un patto narrativo implicito tra il film e il suo pubblico: passi per il finale aperto, per una narrazione fitta di ambiguità e rimandi simbolici, per lo scialo di lirismo e di onirismo, ma lo spettatore deve uscire dalla sala con l’impressione di aver compreso quanto meno l’asse portante del film, la linea narrativa principale, quel tanto da poter rispondere all’immancabile domanda di amici e parenti: «Scusa, ma di che parlava?». Nel 2010, in coda alle proiezioni di Inception (Christopher Nolan), che quanto a illusionismi narrativi e giochi delle tre carte non era poi così da meno, la frase incriminata non risuonava quasi più. Che cos’era successo tra l’uno e l’altro film? Che cosa rendeva accettabili i garbugli di Nolan e irritanti le scatole cinesi di Lynch? È semplice: in quel decennio lo spettatore si è addestrato ad andare al cinema anche per farsi prendere in giro, perché gli si intessano enigmi e inganni davanti agli occhi, perché si mettano alla prova la sua ingenuità e la sua fiducia, in una parola per farsi
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deliberatamente disorientare. E c’è tutta una famiglia di film, sempre più numerosa, che viene incontro a questa aspettativa di spaesamento. Li si è chiamati, secondo i casi, mind-game film o puzzle film, e attorno ad essi si è formata negli ultimi anni una considerevole letteratura critica. Definirli non è facile. I puzzle film, ha scritto Warren Buckland, «includono narrazioni non-lineari, loop temporali e una realtà spazio-temporale frammentata. Questi film confondono i confini tra diversi livelli di realtà, sono disseminati di lacune, inganni, strutture labirintiche, ambiguità e aperte coincidenze. Sono popolati da personaggi che sono schizofrenici, hanno perso la memoria, sono narratori inaffidabili o sono morti (ma senza che questo sia noto a noi – o a loro)»1. Ne deriva che allo spettatore è richiesto di rimettere insieme i pezzi, che a volte combaciano felicemente come in un puzzle, altre volte ricordano i frantumi irregolari di uno specchio, altre volte ancora fanno pensare a un kit di fai-da-te o di bricolage dove c’è più d’una combinazione di montaggio possibile. In tutti questi casi, si dovrebbe scrivere come avvertimento sulle locandine o sulle copertine dei dvd: «Film: some assembly required». Tra i puzzle film più noti degli ultimi anni possiamo menzionare Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997), Essere John Malkovich (Being John Malkovich, Spike Jonze, 1999), Fight Club (David Fincher, 1999), Memento (Christopher Nolan, 2000), Donnie Darko (Richard Kelly, 2001), L’uomo senza sonno (El Maquinista, Brad Anderson, 2004), The Butterfly Effect (Eric Bress e J. Mackye Gruber, 2004) e Shutter Island (Martin Scorsese, 2010). Non si tratta, propriamente, di un «genere» cinematografico. Thomas Elsaesser preferisce parlare, in omaggio a Truffaut, di una «certa tendenza» presente nel cinema contemporaneo2. È una tendenza che attraversa i generi (pur avendo come patrie elettive il thriller psicologico, l’horror e la fantascienza speculativa); che attraversa le gerarchie cinematografiche consolidate: mainstream commerciale, blockbuster, cinema indipendente, cinema d’autore o d’avanguardia (il caso di Christopher Nolan, passato dall’indipendente Memento alla produzione Warner Bros. di Inception è, in questo senso, esemplare); che attraversa almeno tre continenti (Nordamerica, Europa e Asia); che, infine, attraversa e mette in discussione la gerarchia dei discorsi critici sul film, rendendo più sottile il confine tra l’analisi accademica e la vernacular theory coltivata dalle comunità dei fan e dagli spettatori sui forum in rete, spesso di finezza e competenza sbalorditive3.
1
W. Buckland, “Introduction: Puzzle Plots”, in Id. (a cura di), Puzzle Films: Complex Storytelling in Contemporary Cinema, Oxford, Wiley-Blackwell, 2009, p. 6. 2 T. Elsaesser, “The Mind-Game Film”, in Puzzle films, cit., pp. 13-41. 3 Cfr. T. McLaughlin, Street Smarts and Critical Theory: Listening to the Vernacular, Madison, University of Wisconsin Press, 1996.
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STORIE
INGARBUGLIATE.
DAI
MIND-GAME FILM ALLE
«FICTION
TOTALI»
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Una genealogia dei puzzle film è anch’essa difficile da comporre, perché prima di tutto è difficile accordarsi su che cosa essi siano esattamente, e dove siano da fissare i confini del loro regno. Se prendiamo alla lettera la definizione di «film rompicapo», dobbiamo risalire ai Preisrätselfilm ideati a metà degli anni Dieci dal regista austriaco attivo in Germania Joe May, che ebbero una seppur breve fortuna: film polizieschi a enigma dove allo spettatore era chiesto di identificare degli indizi nascosti, con in palio dei premi a fine proiezione4. Se vogliamo invece riferirci alla complessità diegetica, ai nessi narrativi «aperti» e all’architettura straniante dei punti di vista, dovremo ricomprendere nella nostra genealogia buona parte del cinema d’arte europeo e asiatico degli anni Cinquanta e Sessanta, da Rashomon (Akira Kurosawa, 1950) a L’anno scorso a Marienbad (L’année dernière à Marienbad, Alain Resnais, 1961) a Persona (Ingmar Bergman, 1966). Ma la genealogia di una tendenza in atto è impresa per lo più esasperante: se e quando il mind-game film avrà preso una fisionomia stabile e riconoscibile, o sarà consacrato come genere vero e proprio, sarà più facile capire a quale dei molti potenziali genitori somiglia di più. Il fenomeno dei puzzle film può essere osservato da molti punti di vista. Il primo, che in questa sede ci interessa di meno, è quello, più ristretto, della teoria della narrazione. Una disputa di grande rilievo ha impegnato, in anni recenti, Norman Bordwell ed Edward Branigan per stabilire se la complessità narrativa dei puzzle film possa essere ricompresa nell’alveo della teoria classica della narrazione di derivazione aristotelica o se invece richieda la messa a punto di nuovi modelli interpretativi, capaci di render conto di strutture ben più complesse, paradossali e anamorfiche di quelle che poteva immaginare Aristotele con le sue agnizioni e i suoi rovesciamenti5. Un secondo punto di vista, di più vasto interesse sociologico-filosofico, pone l’accento sulle ricorrenze tematiche dei mind-game film, e sul significato, per l’immaginario sociale, di narrazioni che hanno per motivi abituali la perdita di memoria, la confusione tra livelli di realtà, lo sdoppiamento identitario, l’insicurezza ontologica o la reazione a shock traumatici6. Un terzo punto di 4
A rammentarne la storia è T. Elsaesser, “The Mind-Game Film”, cit., p. 16. D. Bordwell, “Film Futures”, «SubStance», Vol. 31, No. 1, Issue 97, 2002, pp. 88-104; E. Branigan, “Nearly True: Forking Plots, Forking Interpretations: A Response to David Bordwell’s ‘Film Futures’”, «SubStance», Vol. 31, No. 1, Issue 97, 2002, pp. 105-114. 6 Segnalo due recenti interventi italiani di taglio filosofico: C. Piazzesi, “La verità come fiducia, ovvero: perché al cinema ci spaventa scoprire di non aver dubitato”, in G. Invitto (a cura di), Il reale falso. Filosofia e psicoanalisi leggono il cinema, Lecce: Manni ed., 2007, p. 33-45; A. Minuz, “Guardare i film (e le cose) da capo: come imparammo qualcosa di profondamente cinematografico sulla filosofia”, in «Imago. Studi di cinema e media», Vol. 2, 2010, Roma, Bulzoni, pp. 161-174. 5
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vista, per noi più interessante, riguarda la definizione di un nuovo modello di pubblico cinematografico, che non trae i suoi piaceri spettatoriali dalla willing suspension of disbelief del cinema narrativo classico ma, al contrario, fa della sfiducia nell’istanza narrante uno dei moventi principali della fruizione. Infine, un quarto punto di vista che potremmo definire «ecologico», strettamente connesso al terzo, considera i mind-game film all’interno di un più vasto panorama mediale dove la complessità narrativa – dalla serialità televisiva all’universo in rapidissima evoluzione dei videogame – è ormai un paradigma dominante che si adatta a piattaforme differenziate7. Tutti questi aspetti si chiariscono un poco se torniamo a quel lontano 8 aprile 1990 in cui il network americano Abc manda in onda l’episodio pilota di Twin Peaks, la serie televisiva creata da David Lynch e Mark Frost.
11.2. Da Twin Peaks a Lost Ci sono avanguardisti e retroguardisti, e non sempre è facile distinguerli. È curioso che Elsaesser abbia scelto di introdurre il suo saggio The Mind-Game Film con un aneddoto che riguarda il lancio de Il grande capo (Direktøren for det hele, 2006), commedia di Lars von Trier. Il regista danese infatti, tra i molti talenti, ne ha due che ci paiono sinistramente invidiabili: il primo è quello di spacciar per nuove cose vecchie senza che quasi nessuno se ne accorga (un caso di scuola è quella sorta di Nouvelle Vague di modernariato, scolastica e intristita, che fu il Manifesto Dogma95, che qualcuno splendidamente definì un «austero collettivo di registi dediti alla parodia di se stessi»8); il secondo è l’abilità d’immettersi nella coda di alcune tendenze imperanti fingendo in tutta naturalezza di esserne alla testa, vessillo in mano. Con Il grande capo, von Trier volle proporre una sorta di gioco, che definì un basic mind game played with movies, un elementare gioco d’intelligenza fatto con i film: c’erano nel suo film tra i cinque e i sette oggetti o dettagli fuori contesto – lui li battezzò lookeys – che lo spettatore attento era chiamato a scovare e interpretare. Il vincitore sarebbe stato premiato con trentamila corone danesi (pari a circa quattromila euro) e con un ruolo di comparsa nel film 7 Cfr., a titolo d’esempio, J. Mittell, “Narrative Complexity in Contemporary American Television”, «The Velvet Light Trap», no. 58, 2006, 29-40; M.-L. Ryan, “Will New Media Produce New Narratives?”, in Id. (a cura di), Narrative across Media: The Language of Storytelling, Lincoln, University of Nebraska Press, 2004, pp. 337-359; H. Jenkins, “Game Design as Narrative Architecture”, in N. Wardrip-Fruin e P. Harrigan (a cura di), First person: New media as story, performance, and game, Cambridge, Mit Press, 2004, pp. 118-130. 8 D. Kamp e L. Levi, Dizionario Snob del Cinema, Palermo, Sellerio, 2006, p. 58.
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successivo. Non sappiamo come la storia sia andata a finire, ma Von Trier ci teneva a precisare la paternità della trovata: «Il primo film a mettere in pratica questo progetto è la mia commedia danese Il grande capo, ma è un invito aperto a tutti i filmmaker». Sarà la passione per i paradossi spazio-temporali, ma anche senza tornare ai Preisrätselfilm di May, qualcuno aveva raccolto l’invito avanguardistico di von Trier cinque anni prima che fosse formulato, e ne aveva fatto qualcosa di ben più interessante. Questo qualcuno è David Lynch, che all’epoca in cui uscì Mulholland Drive aveva inviato all’Observer una lista di dieci indizi in forma di domanda, ciascuno legato a un elemento del film da osservare con attenzione, e aveva offerto, in palio per la migliore interpretazione, un viaggio per due persone a Los Angeles, a visitare la vera Mulholland Drive9. Ma a ben vedere, i suoi enigmi lanciati allo spettatore erano cominciati molti anni prima, con i misteriosi indovinelli che la Log Lady – la Signora Ceppo, nell’edizione italiana – lanciava in esergo a ogni puntata di Twin Peaks. Che cos’era, che cos’è stato Twin Peaks?10 A prima vista, uno strano whodunit, un giallo a enigma basato sull’individuazione di un colpevole. La domanda a cui si doveva rispondere, e che mentre la serie era in onda divenne negli Stati Uniti un inarrestabile «tormentone» nazionale, era: «Chi ha ucciso Laura Palmer?». Certo, i metodi dell’agente Dale Cooper dell’Fbi, chiamato nella placida cittadina montana di Twin Peaks, al confine con il Canada, perché indagasse sullo stupro e l’omicidio della misteriosa adolescente, non erano proprio ortodossi secondo i canoni della detective story classica. L’ottava delle venti regole di S.S. Van Dine, grande legislatore del giallo all’inglese dell’epoca d’oro tra le due guerre, metteva al bando come mezzi illeciti d’indagine le scritture medianiche, le sedute spiritiche, la lettura del pensiero e le sfere di cristallo11. Inutile dire che Cooper ricorreva a tutti questi metodi, con una particolare predilezione per i sogni condivisi, le premonizioni, le visioni e le arti divinatorie del buddhismo tibetano. Bisogna dire che Twin Peaks rivisitava al suo modo tutto surreale una vecchia convenzione del giallo, praticata soprattutto da Ellery Queen, la cosiddetta challenge to the reader, la sfida rituale al lettore perché risolvesse il mistero in anticipo sul detective. Ma l’interesse della trama gialla si esaurì presto, e già 9 “Follow David Lynch’s clues and win a trip to the real Mulholland Drive”, «The Observer», 20 gennaio 2002. 10 Cfr. il recente K. Thompson, Storytelling. Forme del racconto tra cinema e televisione, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012. Il quarto capitolo è in larga parte dedicato a una riconsiderazione di Twin Peaks. 11 S.S. Van Dine, “Twenty Rules for Writing Detective Stories” [1928], ora in H. Haycraft (a cura di), The Art of the Mystery Story, New York, Carroll & Graf, 1983, pp. 189-193.
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nel novembre del 1990 il settimanale Newsweek poteva chiedere: Does anyone still care who killed Laura Palmer? («A qualcuno importa ancora sapere chi ha ucciso Laura Palmer?», proprio come Edmund Wilson, nel 1945, aveva scritto il celebre articolo contro la letteratura poliziesca Who cares who killed Roger Ackroyd?12 La serie di Lynch e Frost perse allora per strada una parte del suo pubblico, ma conquistò ancor più una fandom ossessionata e agguerrita. Il giallo di provincia fu risolto a metà della seconda stagione con l’arresto e la morte del colpevole, ma nel frattempo la narrazione si era dilatata in un grandioso dramma cosmico-allegorico, in un’oscura battaglia alchemica tra gli elementi – il legno contro il fuoco divoratore – e in un’avventura dalle risonanze sciamaniche e iniziatiche che culminava in un luogo misterioso «ai confini della realtà», la Loggia Nera. Che Lynch – in questo, allievo modello del suo maestro Alfred Hitchcock – avesse in mente un tipo di pubblico con una disposizione e una ritualità diverse rispetto alle più comuni forme della ricezione televisiva era chiaro fin dall’origine, a giudicare da certe sue dichiarazioni: aveva sperato che Twin Peaks «gettasse un incantesimo» sugli spettatori, e che questi «sedessero diversamente nelle loro poltrone»13. Ma in che cosa consisteva questa diversità, e in che modo era connessa con l’aspetto «misterico» della serie? Henry Jenkins analizzò i commenti degli utenti di un gruppo di discussione online, alt.tv.twinpeaks, scritti nell’autunno del 1990, mentre era in corso la seconda stagione. Ne evidenziò, tra gli altri aspetti, alcune pratiche di lettura e strategie interpretative ricorrenti: «La fissazione sul risolvere enigmi narrativi, l’elaborazione di molteplici versioni alternative della trama centrale, la loro complessa relazione con Lynch come autore, il loro richiamo a discorsi extratestuali e connessioni intertestuali»14. Intervenendo nel gruppo di discussione, un fan sottolineò l’elemento determinante, la condizione necessaria: «Immaginate se Twin Peaks fosse uscito prima dei videoregistratori o senza le rete? Sarebbe stato un inferno!»; un altro spiegò che «la videoregistrazione ha reso possibile trattare un film come un manoscritto, da studiare assiduamente e da decifrare». In effetti, Twin Peaks suggeriva allo spettatore almeno due tipi diversi di visione: una visione immersiva e sequenziale, snodata sull’asse temporale, capace di apprezzare i mille colpi di scena da soap opera o da poliziesco decisamente anomalo; e una seconda visione 12 E. Wilson, “Who Cares Who Killed Roger Ackroyd?” [1945], ora in Id., Classics and Commercials. A Literary Chronicle of the Forties, New York, Farrar-Straus, 1950, pp. 103-110. 13 Entrambe le dichiarazioni sono citate in D. Lavery (a cura di), Full of Secrets. Critical Approaches to Twin Peaks, Detroit, Wayne State University Press, 1995, p. 4. 14 H. Jenkins, “‘Do You Enjoy Making the Rest of Us Feel Stupid?’: alt.tv.twinpeaks, the Trickster Author, and Viewer Mastery”, in Full of Secrets, cit., p. 53
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analitica e «spazializzata», più prossima alla lettura e alla decifrazione di un manoscritto, dove il mondo narrativo si offre, docile, a essere esplorato in ogni direzione, si lascia percorrere in avanti e indietro o immortalare nel fermo immagine a caccia di dettagli nascosti. Questo secondo tipo di visione fu coltivata da quanti, alla domanda «Chi ha ucciso Laura Palmer?» ne preferivano altre: che cos’è la Loggia Nera? Chi è il nano ballerino che la abita, e perché sembra parlare al contrario? E qual è il ruolo cosmico dei gufi? Angela Hague ha parlato di una derationalization dell’indagine, ma a ben vedere ad allontanarsi dalla ragione era l’oggetto stesso della detection – sempre più simile a un enigma della Sfinge o a un koan zen – rispetto al quale i metodi di Cooper erano tutto sommato più che adeguati15. La caccia al mistero, oltretutto, portava gli spettatori a spasso per boschi narrativi fuori dalla «casa madre» del testo. Gli indizi mistico-enigmistici, infatti, erano disseminati anche in tutto un merchandising che portava il sigillo di autenticità di Lynch e Frost: i diari segreti di Laura Palmer (scritti dalla figlia adolescente del regista), i nastri registrati dell’agente Cooper, la deliziosa guida turistica dell’immaginaria cittadina di Twin Peaks. I prodotti di queste «prove tecniche di transmedialità» andarono a formare un canone parallelo ma non apocrifo su cui esercitare a fondo la passione interpretativa. Era in fin dei conti la creazione di un mondo, non solo di una storia. E un mondo, per definizione (o per nostro pregiudizio tomista), ha un Creatore, di cui si cercano d’indovinare i disegni, da cui si attendono rivelazioni e illuminazioni, coltivando a intermittenza il terribile sospetto che sia tutta una burla. Nei commenti analizzati da Jenkins c’è anche traccia di questo rapporto quasi religioso con il grande trickster, David Lynch, i segreti della cui mente si cercano di strappare con ogni fatica ermeneutica. Inutile dire che non stiamo inventando nulla, o se piace stiamo scoprendo l’acqua calda: queste caratteristiche (autorialità, narrazione basata su un differimento costante che genera un’ermeneutica perpetuata, iper-diegesi come creazione di testi-mondo) sono le stessi individuate da Matt Hills per descrivere il meta-genere del culto mediale16. Se ci siamo soffermati così a lungo su Twin Peaks, è perché la serie di Lynch e Frost è stata la «prova generale» di uno schema che si è ripetuto, quindici anni dopo, con la madre di tutte le narrazioni complesse contemporanee, anch’essa trasmessa dal network Abc: Lost (2004-2010). Gli 15 A. Hague, “Infinite Games: The Derationalization of Detection in Twin Peaks”, in Full of Secrets, cit., pp. 130-143. 16 Cfr. M. Scaglioni, Tv di culto. La serialità televisiva americana e il suo fandom, Milano, Vita & Pensiero, 2011, pp. 51-57.
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elementi, fatte le debite distinzioni e proporzioni, sono gli stessi: un segreto misterico differito (la natura dell’isola e il significato del disastro aereo), un mondo narrativo complesso che interseca o stratifica diverse dimensioni spazio-temporali e diversi piani di realtà (sogno, allucinazione, premonizione); una comunità di fan che affianca alla visione immersiva e sequenziale l’analisi «spaziale» del testo, potendo contare su mezzi più avanzati del videoregistratore, e che si dedica nei forum in rete a un’esegesi parossistica e devota; un trickster, un dio burlone, in questo caso J.J. Abrams, di cui si cercano d’indovinare le mirabolanti architetture mentali, e di cui si teme fino all’ultima puntata (dubbio teologico atroce) che proceda a braccio senza saper bene dove va a parare; un mondo narrativo «straripante», che si riversa in una varietà di testi minori e paralleli (videogame, contenuti speciali dei dvd, siti internet), tutti con i crismi dell’autenticità, che vanno a comporre un canone entro il quale è lecita l’interpretazione più sfrenata. Il risultato è una narrazione colta e popolare, enciclopedica ed esoterica, avventurosa e simbolica per la quale non è forse fuori misura ricorrere alla categoria dell’epica17. Ma a questo arriveremo dopo.
11.3. Il cinema oltre il cinema: esodo dal «cubo nero» In che modo le narrazioni complesse della serialità televisiva sono legate alle «storie ingarbugliate» dei mind-game film? Quale rapporto di rivalità mimetica s’instaura tra le due forme espressive, o più banalmente tra i due formati? Si potrebbe suggerire che, se fino a pochi anni fa erano le serie tv a fornire una versione per così dire diluita o dilatata della forma dominante della narrazione cinematografica, oggi ci sono film che cercano di avvicinarsi a delle serie tv in forma ipercompressa. I fallimenti di X-Files – Il film (The X-Files, Rob Bowman, 1998) e dello stesso Fuoco cammina con me (Twin Peaks: Fire Walk With Me, David Lynch, 1992) hanno forse qualcosa da insegnare sulla intraducibilità cinematografica delle serie di culto; e d’altro canto la ricchezza pressoché inesauribile di Mulholland Drive deriva anche dal fatto che esso nasce come episodio pilota di una serie tv ispirata alla vita di Marilyn Monroe, che Lynch dovette trasformare in film per il cinema quando Abc bocciò il suo progetto. In altri termini: se consideriamo i film rompicapo tenendoci all’interno dell’ambito cinematografico, essi ci appariranno come 17
Cfr. G. Vitiello, “Una genealogia di Lost. Appunti sparsi sull’epica moderna, il feuilleton, l’opera d’arte totale e il sacro da baraccone”, in R. Andò (a cura di), Lost. Analisi di un fenomeno (non solo) televisivo, Roma, Bonanno editore, 2011, pp. 35-46.
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la punta più avanzata e avanguardistica di una nuova tendenza alla complessità narrativa, e come inclusione nel mainstream delle invenzioni più raffinate del cinema d’arte delle Nouvelle Vague europee o del cinema sperimentale americano; se invece allarghiamo lo sguardo, possiamo considerare il puzzle film come una sorta di reazione adattativa a un ecosistema narrativo mutato, nel quale ad avere in mano la fiaccola sono le narrazioni labirintiche della serialità televisiva, rispetto alle quali il cinema non può che arrancare: sia per le modalità classiche della sua ricezione (il «cubo nero» della sala cinematografica), sia per i tempi incomparabilmente più brevi che ha a disposizione per dipanare le sue storie. È fatale, allora, che il passaggio in sala sia diventato, per alcuni film, quasi una finestra promozionale in previsione dell’uscita nei formati dell’home video. I mind-game film, sotto questo aspetto, sono cinema che si sforza di uscire dal cinema, di abbandonare il cubo nero e di prepararsi al rito delle visioni e re-visioni domestiche. Esemplare, in questo senso, è il caso di Inception, che ha segnato la piena consacrazione del «film rompicapo» nel mainstream. Il film di Nolan è un prolungato gioco sui diversi livelli di realtà, come d’altronde è tipico dei mind-game film: il gioco, in questo caso, si sviluppa attorno alle possibilità offerte da un fantascientifico apparecchio a timer che dà la possibilità di accedere alla mente altrui per innestarvi o estrarne idee. Nulla di troppo nuovo – fantasie del genere si erano già viste in tanto cinema di fantascienza cyberpunk dei primi anni Novanta – se non fosse che, più dei suoi predecessori, Inception guarda oltre il cinema in molti sensi. Il più banale è quello metacinematografico in senso stretto, di riflessione sul dispositivo stesso del film: in questo caso, si stabilisce l’equiparazione tra la visione cinematografica e i «sogni guidati» della tradizione tibetana o tolteca, così come tra gli universi diegetici, chiusi e perfetti, della finzione filmica e i «mondi possibili» che la moderna narratologia ha preso in prestito dalla logica modale. Ma il secondo livello è più interessante. Oltre a recuperare una dozzina di generi e di stili, e magari collocarne ciascuno in un diverso «mondo possibile» esplorato dal protagonista – fantascienza, noir, spy story, action movie, thriller psicologico – Inception dialoga incessantemente con altre forme espressive. Occhieggia, soprattutto, al mondo del videogame – fatto di «vite» e di livelli, ciascuno dei quali ha i suoi nemici e i suoi talismani – come già avevano già fatto, in modi più rudimentali (e in tempi in cui i videogame erano essi stessi più rudimentali), eXistenZ (David Cronenberg, 1999) e prima ancora Il quinto elemento (Le cinquième élément, Luc Besson, 1997)18. Infine, il 18
Cfr. T. Elsaesser e W. Buckland, Teoria e analisi del film americano contemporaneo, Milano, Bietti, 2010, pp. 174-197.
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film di Nolan guarda oltre lo spettatore cinematografico e le sue abitudini di visione, perfino oltre lo spettatore ludico e smagato della Terza Hollywood, imponendo la duplice visione, sequenziale e spazializzata. Dopo l’immersione in sala, si tratta di ricomporre i frammenti sparsi attraverso una seconda visione (e ruminazione) su altri supporti che la consentono. Il cinema vuole dunque uscire dal cinema. La sacralità del cubo nero, che ha suscitato nel corso dei decenni le più varie analogie filosofico-religiose (dall’antro misterico alla caverna platonica) è costantemente messa a rischio, non abolita ma di certo indebolita: i film, come gli spettatori, sembrano non aspettare altro che di tornare alla luce19. Ma questo, lungi dal promuovere soltanto una ricezione distratta, feriale, «laicizzata», sta ingenerando in una parte consistente del pubblico quello che potremmo chiamare un reincanto della visione, un reincanto che si lega strettamente alla vocazione misticoenigmistica di tante narrazioni complesse contemporanee. O almeno, è una «certa tendenza», una delle tendenze in atto, sulla quale vogliamo concludere queste brevi annotazioni.
11.4. L’opera mondo e l’interpretazione infinita Per comprendere la logica profonda che sembra attraversare le propaggini più avanzate della narrazione contemporanea, dal mind-game film alle serie tv più ambiziose e labirintiche, lo strumento migliore, crediamo, è un libro che forse non contiene neppure le parole «cinema» e «tv», se non in qualche frase incidentale o in una nota a piè di pagina. Si tratta di Opere mondo del comparatista Franco Moretti, un saggio quasi tutto incentrato sull’analisi di testi letterari, in cui l’unica – e quanto rivelatrice – deviazione verso i territori dello «spettacolo» è il Gesamtkunstwerk wagneriano20. Nelle prime pagine Moretti racconta che l’idea del libro gli venne quando trovò in un dattiloscritto di Fredric Jameson dedicato ad alcuni classici del modernismo l’espressione «sacred text». Possibile che i Cantos di Ezra Pound o La terra desolata di T.S. Eliot fossero, prima e più che invenzioni avanguardistiche, tentativi di restaurare la potenza di un testo sacro secolare? Che la loro ambizione fosse quella di fondare, sulle ceneri del romanzo, un’epica moderna? Un’epica enciclopedica, capace di mettere insieme tutte le conoscenze, le
19 Sulla metafora del cubo nero e l’evoluzione dello spettatore cinematografico, cfr. G. Pedullà, In piena luce. I nuovi spettatori e il sistema delle arti, Milano, Bompiani, 2008. 20 F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi, 1994.
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forme, i generi e gli stili di una civiltà, e di suscitare un’attività esegetica interminabile come quella che si dedica ai libri sacri? Moretti ripesca quello che sembrerebbe un ferrovecchio teorico, l’evoluzionismo darwiniano applicato alla storia dei generi letterari (metodo legato al genio stravagante dell’ottocentesco Ferdinand Brunetière, che pure non sembra essere tra le sue fonti), e vede nelle opere mondo moderne – come il Faust di Goethe o l’Ulysses di Joyce – l’evoluzione novecentesca della formaromanzo nel momento in cui essa deve adattarsi al nuovo contesto della civiltà metropolitana. L’espressione «testo sacro» non deve far pensare però alla fondazione di una qualche nuova religione, almeno non nel senso ovvio: l’epica moderna prende le distanze dalla sua stessa solennità monumentale, si mette tra virgolette, si prende in giro, gioca con la propria grandeur e con la propria dismisura. Ma è proprio questo a consentirle di sopravvivere: «Anziché congedare la “visione unitaria del mondo”, l’ironia sembra dunque la strategia ideale per mantenerla in vita: è un formidabile meccanismo di difesa, che (…) permette all’epica di sopravvivere nel mondo nuovo»21. Solo grazie a questo doppio movimento – creare un testo sacro e metterlo in ridicolo – l’epica può essere accolta da un’epoca che, si dice, ha ripudiato i grands récits. E se ripetessimo la mossa intellettuale di Moretti con le narrazioni complesse cinematografiche e televisive? Se scorgessimo nel gigantismo delle loro architetture un’ambizione a creare qualcosa di simile a un testo sacro secolare, sia pur straniato dall’ironia e dal gioco? La nostra ipotesi è appunto questa: che le narrazioni complesse, la creazione di mondi diegetici vasti ed esplorabili in lungo e in largo, il loro imperialismo transmediale debbano esser letti con strumenti e intendimenti affini a quelli di Moretti. Se non proprio l’idea del testo sacro, inseguono la chimera dell’opera infinita e infinitamente onnicomprensiva cara ai romantici o a Mallarmé22, un’opera che sia – per usare la bella formula di Maurice Blanchot su Moby Dick – un corrispettivo scritto dell’universo. A volerne estrarre una formula matematica, potremmo dire che l’opera mondo sta al romanzo ottocentesco come le narrazioni complesse della contemporaneità stanno al cinema narrativo classico, e che l’una sta alle città tentacolari come le altre stanno ai labirinti digitali della rete. E il lettore ideale invocato da Joyce, affetto da un’insonnia ideale, trova forse il suo erede nello spettatore che rumina senza posa sui rimandi testuali ed intertestuali della finzione cinematografica o televisiva, e che si perde beatamente nelle sue foreste di simboli. 21
Ivi, p. 36. Cfr. P.C. Bori, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Bologna: Il Mulino, 1987. 22
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Allo spettatore della Terza Hollywood, disincantato, giocherellone e con la testa affollata di echi cinematografici, si affianca – con qualche chance di soppiantarlo – uno spettatore di tipo nuovo, malfidato, guardingo certo, ma anche profondamente devoto, che dedica alle nuove opere mondo la fatica di un’esegesi interminabile, forse perché cerca in esse qualcosa di più del mero intrattenimento, e qualcosa di meno del testo sacro. Per questo «qualcosa» la vecchia categoria dell’epica ci sembra, per il momento, la più adeguata. Che sia, il nostro, lo spettatore dell’«opera d’arte dell’avvenire», l’eroe della Quarta Hollywood? Il wagnerismo non è di moda nella teoria, Ricciotto Canudo non lo ricorda quasi più nessuno, ma qualche azzardo di tanto in tanto vale la pena tentarlo.
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Bibliografia Abruzzese A. (a cura di), 1984, Ai confini della serialità, Napoli, SEN. Abruzzese A., 1995, Lo splendore della tv. Origini e destino del linguaggio audiovisivo, Genova, Costa & Nolan. Andò R. (a cura di), 2011, Lost. Analisi di un fenomeno (non solo) televisivo, AcirealeRoma, Bonanno Editore. Andò R., Comunello F., 2012, “Vieni via con me. Consumo televisivo, social media e civic engagement”, in R. Bartoletti, R. Paltrinieri (a cura di), Consumo e Prosumerismo in Rete, «Sociologia della Comunicazione», n. 43. Andò R., Marinelli A., 2009, “Fare ricerca sul fandom on line. Fan italiani e serie televisive” in S. Monaci, B. Scifo, Sociologia 2.0. Pratiche sociali e metodologie di ricerca sui media partecipativi, Napoli, Scriptaweb. Andò R., Marinelli A., 2012, “Dal textual Poachers al Like/Dislike. Quale valore dare all’engagement delle audience 2.0?”, in «Comunicazioni sociali», 2012/2. Ang I., 1998, Cercasi audience disperatamente, Bologna, Il Mulino. Asur S., Huberman, B. A., 2011, Predicting the Future with Social Media, http://www. scribd.com/doc/29333985/Predicting-the-Future-With-Social-Media#. Bacon Smith C., 1992, Enterprising Women. Television Fandom and the Creation of Popular Myth, Philadelphia, University of Pennsylvania Press. Baym N., 2000, Tune in, log on. Soaps, Fandom and Online Community, Thousand Oaks, Sage. Bechelloni G., 2010, “Il programma dell’anno. Il commissario Montalbano. La vampa d’agosto. Un eroe mediatico tra letteratura e realtà”, in M. Buonanno (a cura di), Se vent’anni sembran pochi. La fiction italiana/L’Italia nella fiction, Anni XX-XXI, Roma, Rai-Eri, 2010, pp. 203-219. Bennett M. J. (a cura di), 2002, Principi di comunicazione interculturale, Milano, Franco Angeli. Bernabei V., 2011, Shared Identities. Processi culturali e nuove forme del sé, Napoli, Ipermedium. Bittanti M., 2007, Intermedialità. Videogiochi, cinema, televisione, fumetti, Roma, Unicopli. Bolter J.D., Grusin R., 2002, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini. Bordwell D., 2002, “Film Futures”, «SubStance», Vol. 31, No. 1, Issue 97, pp. 88-104. Bori P.C., 1987, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Bologna, Il Mulino. Bourdieu P., 1983, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino.
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Gli Autori
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Romana Andò è professore aggregato presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma, dove insegna Teoria e analisi delle audience e Laboratorio di analisi etnografica applicata ai media. Svolge attività di ricerca nell’ambito degli audience studies, con particolare riferimento al fandom, alle competenze mediali, alla sentiment analysis applicata all’ambiente on line e ai social network. Sugli stessi temi ha scritto numerosi saggi e articoli. Tra le sue pubblicazioni Audience Reader. L’esperienza di essere audience, (Guerini, 2007) e Lost. Analisi di un fenomeno (non solo) televisivo (Bonanno, 2011). Sergio Brancato è professore associato e insegna Sociologia della comunicazione presso le Università di Salerno e Napoli “Federico II”. Studioso dell’industria culturale, ha pubblicato numerosi saggi su storia e teoria dei media. Sui temi della fiction televisiva ha pubblicato per Liguori Editore Senza fine. Immaginario e scrittura della fiction seriale in Italia (2007) e Post-serialità. Per una sociologia delle tv-series (2011). Milly Buonanno è professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma, dove tiene corsi afferenti all’area dei Television Studies. Dirige l’Osservatorio sulla Fiction Italiana ed è autrice e curatrice di oltre 50 volumi, pubblicati in Italia e all’estero, su televisione, fiction, genere e media, giornalismo. Il suo ultimo libro La fiction italiana. Narrazioni televisive e identità nazionale (Laterza, 2012) è uscito in edizione inglese con il titolo Italian Tv Drama and Beyond (Intellectbooks), mentre è in corso la traduzione francese (l’Harmattan). Giovanni Ciofalo è professore aggregato presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma, dove insegna Processi culturali e comunicativi, Media e studi culturali. Svolge attività di ricerca sulla comunicazione, i consumi culturali e la memoria. Tra le sue pubblicazioni Comunicazione e vita quotidiana (Carocci, 2007), Elihu Katz. I Media Studies tra passato e futuro (Armando Editore, 2009), Infiniti anni ottanta. Tv, cultura e società alle origini del nostro presente (Mondadori, 2011) e diversi articoli in opere collettanee. Fabio Corsini è dottore di ricerca in Sociologia e Ricerca Sociale, e docente di Comparative Media e Intercultural Communication presso la Kent State University (Firenze). Collabora inoltre ad attività didattiche e di ricerca presso la Sapienza Università di Roma e l’Università degli Studi del Molise, occupandosi di temi legati alla diversità e al genere con particolare attenzione alla loro rappresentazione mediatica. Ha curato insieme a F. Monceri Schegge di genere. Dagli Stereotipi alla cittadinanza (ETS, 2013). Giovambattista Fatelli è professore associato presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma. Si occupa di sociologia della comunicazione e di storia e analisi dell’industria culturale. Dopo il volume Sociologia dell’industria culturale (Carocci, 2007), ha pubblicato di recente in un’opera collettanea un saggio sulla rappresentazione della criminalità nel cinema italiano, La legge (del taglione) è uguale per tutti (Rubettino, 2013). Un altro scritto sul genere ‘poliziottesco’ è in corso di stampa. Mihaela Gavrila è professore aggregato presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma, dove insegna Processi culturali e comunicativi, Formati e stili del giornalismo radiotelevisivo e Formati e generi televisivi. Ha pubblicato
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GLI AUTORI
monografie e saggi su televisione, tecnologie, comunicazione ambientale, consumi e comportamenti culturali, stili di vita. Tra le sue ultime pubblicazioni La crisi della TV. La TV della crisi. Televisione e Public Service nell’eterna transizione italiana (Franco Angeli, 2010).
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Silvia Leonzi è professore associato presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma, dove insegna Media e studi culturali, Industria culturale e media studies. Si occupa di comunicazione, consumi culturali, immaginario audiovisivo, memoria. Tra le sue pubblicazioni La Fiction (2005), Michel Maffesoli. Fenomenologie dell’immaginario (2009), Lo spettacolo dell’immaginario. I miti, le storie, i media (2010) e diversi articoli in opere collettanee. Anna Lucia Natale è professore associato presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma dove insegna Storia della radio e della televisione. Si occupa di radio e di generi televisivi, con particolare riferimento alla fiction. Tra le sue ultime pubblicazioni: Umani troppo umani. Gli eroi dell’immaginario, in M. Buonanno (a cura di), Se vent’anni sembran pochi (Rai-Eri, 2010); Sulle onde sonore. Strategie e usi sociali della musica alla radio (1924-1940), in A. I. De Benedictis e F. Monteleone, La musica alla radio: 1924-1954 (Bulzoni, 2013). Giovanni Prattichizzo è dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione e delle Relazioni Pubbliche presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale, della Sapienza Università di Roma. Si occupa di scrittura per i media, fiction e autorialità. Tra le sue pubblicazioni: Narrami o fiction. Racconti mediali tra memoria e identità (Zona per l’Università, 2010); Soli, a due o separatamente insieme? Come cambia la vita personale nell’età della saggezza (con R. Caccamo, Edizioni Kappa, 2012) e Realtà e Finzioni dell’Università. Narrazioni, immaginario e vita quotidiana degli studenti (ScriptaWeb, 2013). Guido Vitiello è professore aggregato presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma. Collabora con varie testate giornalistiche fra cui il «Corriere della Sera», «Il Foglio», «Internazionale». Ha pubblicato, tra le altre cose, La commedia dell’innocenza. Una congettura sulla detective story (Luca Sossella, 2008), Il testimone immaginario. Auschwitz, il cinema e la cultura pop (Ipermedium, 2011) e In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano (Rubbettino, 2013). Cura il blog UnPopperUno.
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COMPASS Comparative Sociological Studies
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M. Bracci, Radici di ferro e futuro d’acciaio. Uno sguardo comunicativo sull’identità di Piombino A. Pannocchia, La comunicazione deviante. Viaggio alla scoperta di un sociologo borderline: la teoria della violentizzazione di Lonnie Athens Tempo di fiction. Il racconto televisivo in divenire, a cura di M. Buonanno
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M
illy Buonanno insegna nell’Università di Roma La Sapienza e dirige l’Osservatorio sulla Fiction Italiana. Ha pubblicato molto nel campo dei media e cultural studies, e i suoi lavori godono di una larga circolazione internazionale. Il suo libro più recente, Italian TV Drama and Beyond. Stories from the Soil, Stories from the Sea (Intellect, 2012), affronta la storia della fiction italiana da una prospettiva trans-nazionale. In copertina: John William Waterhouse, Windswept (1902).
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ISSN 1973-1507
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ella varietà delle formule, dei generi e delle estetiche in cui si rende disponibile alla fruizione dei pubblici – dallo sceneggiato degli anni cinquanta alle web-series degli anni duemila – il racconto televisivo continua a intrigare, appassionare, a far vibrare corde emotive. È sempre tempo di fiction. Il segreto di questa continuità è nella capacità metamorfica delle forme narrative, nella plastica mutevolezza con cui linguaggi e immaginari seriali si rimodellano interagendo con le tendenze di cambiamento proprie di ogni fase evolutiva della televisione e del più vasto ambiente mediale. Oggi, nel tempo della convergenza digitale, trasformazioni significative attraversano il campo della fiction tv, aprendo la strada a nuove forme di creatività e nuove modalità di offerta e di consumo. I saggi contenuti nel volume si propongono di cogliere e di restituire analiticamente, riflessivamente, questa doppia articolazione del racconto televisivo: sempre presente e sempre in divenire.