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Italian Pages 397 [398] Year 2019
Storia sacra e profana nei volgarizzamenti medioevali
Beihefte zur Zeitschrift für romanische Philologie
Herausgegeben von Claudia Polzin-Haumann und Wolfgang Schweickard
Band 436
Storia sacra e profana nei volgarizzamenti medioevali Rilievi di lingua e di cultura A cura di Michele Colombo, Paolo Pellegrini e Simone Pregnolato
La pubblicazione di questo volume ha ricevuto nel 2019 il contributo finanziario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore sulla base d’una valutazione dei risultati della ricerca in essa espressa e il contributo del Dottorato di Ricerca in Filologia, Letteratura e Scienze dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Verona.
ISBN 978-3-11-060857-1 e-ISBN (PDF) 978-3-11-061111-3 e-ISBN (EPUB) 978-3-11-060864-9 ISSN 0084-5396 Library of Congress Control Number: 2019947689 Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.dnb.de abrufbar. © 2019 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Satz: Integra Software Services Pvt. Ltd. Druck und Bindung: CPI books GmbH, Leck www.degruyter.com
Sommario Prefazione
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I. Storia sacra Nicolangelo D’Acunto L’ascesi narrata. Varia fortuna delle Vite dei Padri del deserto fra imitazione monastica e penitenza istituzionalizzata 3 Raymund Wilhelm Bonvesin da la Riva agiografo e volgarizzatore. Dagli exempla della Vita scholastica ai miracoli in volgare 19 Elisa De Roberto Raccontare il miracolo nel Medioevo italiano. Aspetti pragmatici e testuali della letteratura miracolistica in volgare 41 Massimo Zaggia Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Paolo Pellegrini «Sul cavoge» / «sui cavegi». Nota sul pronome enclitico in italiano antico Michele Colombo Lettera e voce nella «Passione Mai» in veneziano antico
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II. Storia profana Roberta Cella L’epistola dei palermitani ai messinesi (13 aprile 1282) e il suo volgarizzamento 173 Simona Brambilla Note sul volgarizzamento della Fam. xii 2 di Francesco Petrarca
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Chiara De Caprio Figure dell’autore nei volgarizzamenti e nelle cronache in volgare. Aspetti teorici e linee di una ricerca storico-linguistica nei testi medioevali 211
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Sommario
Enrico Faini Vegezio e Orosio: storia, cavalleria e politica nella Firenze del tardo Duecento 237 Cristiano Lorenzi Tradurre la storia romana. Il caso delle due redazioni del volgarizzamento della prima Catilinaria fra Due- e Trecento 255 Giulio Vaccaro Storia e geografia di un centone di volgarizzamenti: il Libro dell’Aquila Luca Barbieri Materia troiana e materia ovidiana nel ms. Gaddi 71 della Biblioteca Laurenziana di Firenze 299 Simone Pregnolato La «verace ystoria». Avviamento allo studio del volgarizzamento troiano di Mazzeo Bellebuoni 319
Indici
1 Indice dei nomi 375 2 Indice dei manoscritti e dei documenti d’archivio
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Prefazione Dopo il tramonto delle ideologie che hanno caratterizzato il XX secolo, la società europea del tempo in cui viviamo è segnata da divisioni che non contrappongono più anzitutto progetti politici radicalmente diversi, bensì, in ogni Paese a suo modo, un’élite connotata da superiorità economica e culturale e una massa che ragiona secondo categorie spesso avulse dal sapere umanistico e scientifico elaborato dalla tradizione. A tale separazione si accompagna spesso un disprezzo reciproco: di chi sospetta la cultura tradizionale di essere un mero instrumentum regni e di chi rubrica sotto l’etichetta di ignoranti coloro che non accettano con deferenza le convenzioni che si potevano dire condivise fino a pochi anni fa. Una simile frattura si lega, più strettamente di quanto molti pensino, alla disarticolazione tra il sapere scientifico – sia in campo naturale sia in campo umanistico – e una prospettiva lato sensu religiosa, che proponga cioè un’ipotesi di significato valida per il singolo e la collettività. Se alla scienza della natura e dell’uomo è assegnata in maniera esclusiva l’ultima parola in qualsiasi aspetto del vivere, e d’altro canto essa non sa né può dire nulla su ciò che più preme agli uomini, lo spazio resta libero per le ipotesi più irragionevoli. È a partire da simili riflessioni che è parso utile riunire contributi riguardanti la divulgazione del sapere storico e politico nel Basso Medio Evo attraverso i volgarizzamenti: si tratta infatti di una pratica che da un lato testimonia il superamento della barriera tra cultura elitaria e cultura popolare, e dall’altro mostra una concezione in cui la storia cosiddetta profana (ivi compresi i miti classici) e la storia sacra sono concepite come parte d’un tutto unitario. Non si tratta qui di proporre, è ovvio, un nostalgico medioevalismo d’accatto, ma di osservare che una simile prospettiva, pur inficiata da un’ingenuità ingannevole, era latrice di una potenza di pensiero che costituisce un valore da preservare. Per indagare il tema si è pensato di riunire studiosi di materie diverse, dalla storia della lingua alla filologia italiana e romanza alla storia medioevale tout court, in un Convegno Internazionale (Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 25–26 ottobre 2017) di cui questo volume, recante il medesimo titolo di quell’iniziativa, costituisce lo sviluppo: ai contributi presentati in quella sede se ne sono aggiunti altri, sia di chi ha dato un apporto essenziale alle discussioni, sia di chi è stato contattato in un secondo momento per arricchire un’idea editoriale che si è definita appunto durante i lavori congressuali. Sul problema del rapporto tra laici illitterati e religiosi litterati si appunta in maniera esplicita il saggio di Nicolangelo D’Acunto, che si domanda perché nel Tre- e Quattrocento figurino tra i primi testi agiografici volgarizzati le Vite dei Padri del deserto. La risposta si lega per un verso al segno lasciato da peste e carestie nel XIV secolo, eventi che spinsero la sensibilità del laicato verso l’ascesi https://doi.org/10.1515/9783110611113-201
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Prefazione
e l’espiazione, per l’altro alla diffusione degli ordini mendicanti, che proposero i Padri come modello alto di penitenza, il quale tuttavia non doveva essere imitato alla lettera – esemplare il caso dell’astinenza dal vino, ammirata ma non praticata – bensì inteso come sprone ad accostarsi alle pratiche di penitenza istituzionali, primo fra tutti il sacramento della confessione. Del tutto particolare è il caso del rapporto tra latino e volgare nel caso di Bonvesin da la Riva analizzato da Raymund Wilhelm: ci sono infatti buone ragioni per ipotizzare che il maestro milanese sia l’autore sia degli otto racconti di miracoli mariani redatti in latino e contenuti nella Vita scholastica, sia del volgarizzamento di tre di essi nelle Laudes de Virgine Maria e nelle Rationes quare Virgo tenetur diligere peccatores. Oltre a portare ragioni a favore di tale tesi, Wilhelm mostra che, a livello linguistico, sia i racconti latini sia quelli in volgare ricorrono a procedimenti testuali simili, che pertengono alla narrazione agiografica di stampo popolare e di orientamento «mitologico», la quale, a differenza di quanto avviene per le vite di santi della storia recente, tende a prescindere dalla verosimiglianza tipica della storiografia. Ciò nonostante, anche questo tipo di agiografia atemporale mostra significativi contatti con le narrazioni storiche, alle quali non può essere troppo nettamente contrapposta, come risulta dallo studio della letteratura miracolistica condotto da Elisa De Roberto analizzando tre volgarizzamenti trecenteschi dei Dialogi di Gregorio Magno e tre sillogi di prodigi mariani dei secoli XIV–XVI. In esse il miracolo è narrato sottolineando, attraverso specifiche formule testuali, come esso sia riferito da testimonianze affidabili, scritte o orali, sia avvenuto (spesso) alla presenza di una comunità che ne garantisce l’autenticità e abbia avuto un senso preciso, per esempio mostrare il premio accordato ai santi e il castigo dei malvagi. È significativo che le medesime procedure linguistiche si ritrovino nelle narrazioni di miracoli della Cronica di Giovanni Villani, che condivide con la letteratura miracolistica lo stesso orizzonte epistemico. L’origine di quell’intervento di Dio nel mondo che i racconti agiografici si propongono di documentare va rintracciato nella materia biblica, di cui si occupano i tre studi successivi. Massimo Zaggia offre un saggio d’edizione di una pericope del Genesi in volgare, libro di cui si contano quattro versioni, due tramandate da otto manoscritti e altre due a stampa (nelle traduzioni di Malerbi e della cosiddetta «Bibbia d’ottobre»). L’analisi dei testimoni mostra come da un’iniziale circolazione dei volgarizzamenti biblici in àmbiti confraternali si passi nel Quattrocento a manufatti che appartennero a biblioteche nobiliari. Dal punto di vista della restitutio textus, per l’impossibilità di costruire uno stemma a causa della natura rielaborativa della tradizione dei volgarizzamenti biblici, si opta per un’edizione sinottica che possa rendere pienamente conto delle varianti. Dall’Antico al Nuovo Testamento, anzi alle Passioni di Cristo armonizzate, che fondono i racconti dei quattro vangeli: Paolo Pellegrini, editore qualche anno
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fa di una di esse, la Passione veronese, torna sul testo per indagare un episodio di storia degli studi linguistici che lo riguarda, cioè la corrispondenza tra Adolfo Mussafia e Giovan Battista Giuliari a proposito dell’espressione sul cavoge ‘sul capo a lui’, che presenta una rara enclisi con un sintagma preposizionale: un fenomeno non sconosciuto agli studiosi e che tuttavia meriterebbe nuova attenzione. Ancora su una Passione armonizzata tramandata da un codice del XIV secolo verte lo studio di Michele Colombo, che colloca il testo su basi linguistiche in area veneziana e ne illustra la destinazione alla lettura comunitaria, forse in àmbito confraternale: un modo di fruizione essenziale per il passaggio del sapere storico e religioso anche al vasto pubblico degli analfabeti, cui era proposto un vernacolo marezzato di latinismi. Trascorrendo dalla storia sacra a quella profana, lo stretto nesso tra le due è patente nello studio di Roberta Cella, che, nel considerare alcune raccolte di epistole politiche, si concentra sulla versione volgare di quella indirizzata il 13 aprile 1282 dal comune di Palermo ai cittadini di Messina per esortarli a unirsi alla rivolta del Vespro contro Carlo d’Angiò scoppiata alla fine di marzo. Di essa si offre un’edizione basata sui due testimoni noti. Nell’analizzarne l’argomentazione, tesa a sostenere la liceità della rivolta contro il malgoverno francese, la studiosa mostra poi come il testo sfrutti a piene mani i riferimenti biblici per rafforzare la propria efficacia persuasiva, proponendo soprattutto l’identificazione di Carlo d’Angiò con il faraone oppressore e la cittadinanza messinese come il popolo ebraico oppresso, così da potersi avvalere di conserva dei testi profetici che annunziano la liberazione come volontà divina. Su un testo legato alla storia recente e gli avvenimenti politici coevi si incentra pure lo studio di Simona Brambilla, che si occupa del volgarizzamento della Familiare xii 2 indirizzata dal Petrarca a Niccolò Acciaiuoli, Gran Siniscalco di Napoli, per esortarlo a sostenere Luigi di Taranto in vista della sua incoronazione (1352). Il testo latino è in realtà uno speculum principis più che una lettera, e la sua trasposizione in volgare ha una buona fortuna, in specie nella Toscana del Quattrocento, venendo tramandata da centocinque codici. Si tratta spesso di «miscellanee retorico-civili» che comprendono in genere la consolatoria di Boccaccio e Pino de’ Rossi, testi di temperie umanistica e volgarizzamenti dai classici, come quelli della Pro Marcello e della Pro Ligario. Simona Brambilla mostra la necessità di studiare il volgarizzamento petrarchesco da un lato in relazione ai testi che più di frequente lo accompagnano, dall’altro in nesso con la tradizione del testo latino, da cui non può mai essere separato. Connettendo i volgarizzamenti di materia storica e i testi storici e cronachistici composti in volgare, Chiara De Caprio indaga i caratteri linguistici con i quali sono presentate la figura dello storico o cronista e la sua testimonianza. Il parallelo istituito permette di cogliere come negli uni e negli altri testi siano rintracciabili i
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temi della scrittura storica come registrazione a distanza di tempo di ciò che si è visto e udito, dello storico come «raccontatore di storie» (nel volgarizzamento di Bono Giamboni da Orosio) e dell’attività cronachistica come composizione di fonti disparate (nella Cronaca di Partenope), che non può essere nettamente separata dalla pratica del volgarizzamento. Anche Enrico Faini studia il volgarizzamento delle Historiae adversus paganos di Paolo Orosio realizzato da Bono Giamboni, poc’anzi menzionato, mostrando come, con buona probabilità, l’attualizzazione delle realtà politiche, per esempio attraverso la resa di «plebs» con «popolo» (contrapposto a «cavalieri» per «patres») e «tribunus plebis» con «capitano del popolo», abbia un preciso aggancio alla proposta di una visione politico-sociale: nel contrasto tra nobiltà e popolo che caratterizza i comuni medioevali centrosettentrionali nel XIII secolo, Giamboni parteggiava verosimilmente per il secondo e, presentando la storia romana in chiave attualizzata, intese offrire una giustificazione alle posizioni politiche di stampo popolare. L’analisi dei processi d’attualizzazione di termini legati alle istituzioni del mondo romano torna nel saggio di Cristiano Lorenzi, che considera le due versioni in volgare della prima Catilinaria di Cicerone. Nella prima parte del lavoro si conferma, sulla base di una disamina aggiornata, l’ipotesi tradizionale secondo cui una delle due redazioni, quella caratterizzata da una resa piuttosto libera dell’originale, dipenda dalla prima, della quale costituisce una rielaborazione allestita però a partire anche dal testo latino. Proseguendo, Lorenzi mostra da un lato l’intenzione attualizzante di entrambi i volgarizzatori, come nella resa di «tribunus plebis» con «signor del popolo», dall’altro le loro difficoltà nell’intendere alcuni termini della vita politica romana, come «comitium», che viene omesso o travisato. Un filone peculiare delle scritture storiche, di nuovo caratterizzato dalla continuità tra passato e presente, è indagato da Giulio Vaccaro, che si occupa del Libro dell’Aquila, anonimo centone di volgarizzamenti scritto con l’intendimento di attribuire origini antiche e mitiche a due famiglie nobiliari del Basso Lazio, i Da Ceccano e i Prefetti di Vico. Del testo si discutono: la datazione, certo anteriore al 1417, probabilmente da situare verso la metà del Trecento; lo scopo, vale a dire accrescere il prestigio delle famiglie nobiliari di cui si tracciava la genealogia; e la buona fortuna, soprattutto a stampa: facendo leva sull’interesse per il mondo romano, per la narrazione di storie e per le genealogie che spiegano il presente, infatti, testi come il Libro dell’Aquila contribuirono nella prima età della stampa a legare il pubblico incolto alla storia antica, alla mitologia e ai classici (compresa la Commedia). Si tratta di campi strettamente connessi: nella concezione medioevale, infatti, della storia antica fa parte pure la materia troiana, sulla quale si concentrano i due ultimi contributi. In quello di Luca Barbieri si analizzano i volgarizzamenti fiorentini delle Eroidi e dell’Istorietta troiana tramandati dal ms. Gaddi 71 della
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Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, redatto nella prima metà del XIV secolo, concentrandosi in particolar modo sulle glosse che accompagnano il testo ovidiano. In esse tra i classici commenti di tipo morale, misogino, etc. si trovano anche veri e propri exempla che costituiscono storie aggiunte a storie, e si legano al medesimo humus da cui spunta il Novellino. Non è d’altronde impossibile che lo stesso Boccaccio abbia avuto tra mano il codice Gaddiano, da cui potrebbe aver derivato la concezione della gelosia come malattia che si ritrova nel Filocolo e nel Teseida. Chiude il volume il lavoro di Simone Pregnolato, che si occupa del volgarizzamento dell’Historia destructionis Troiae di Guido da Messina realizzato nel 1333 dal notaio pistoiese Mazzeo Bellebuoni, di cui analizza la tradizione manoscritta inserendo il testo sia nel quadro degli altri volgarizzamenti italiani dell’Historia, sia in quello della fortuna dell’originale latino, opera capitale della cultura medioevale nella quale Guido intese proporre le vicende legate alla caduta d’Ilio come parte del sapere storico, sottraendole all’àmbito della narrazione epica. Milano/Verona, febbraio 2019
Michele Colombo, Paolo Pellegrini e Simone Pregnolato
I. Storia sacra
Nicolangelo D’Acunto
L’ascesi narrata Varia fortuna delle Vite dei Padri del deserto fra imitazione monastica e penitenza istituzionalizzata Abstract: The essay illustrates some episodes of the reception of the Vitae Patrum in Franciscan and Dominican hagiography. The founders of the two orders were given perfect conformity to the model of the ascetic life of the desert Fathers, to whom the friars of the religiones novae did not conform. As for Francis and Dominic, so for the desert Fathers there was no longer imitation but only veneration by the religious. This hermeneutical key allowed to present the stories of the ancient Egyptian monks to the laity illiterated through vulgarisations and preaching. While in the early Middle Ages the imitation of monastic life was indicated to the faithful desirous of a more intense religious experience, starting from the 13th century they had to draw from the model of the desert Fathers only an invitation to conversion, which involved the individual confession of sins and participation in the Eucharist. The ascetic ideal of the ancient hermitages was now only the object of veneration by the faithful and indicated the holiness of the religious who practiced it. Keywords: imitation of monastic life; pastoral care of the laity; eremitism; mendicant orders in the Middle Ages
1 Un pubblico «stratificato» Lo scopo del presente contributo non è certamente quello d’offrire materiali nuovi o interpretazioni innovative di un fenomeno, quello del riuso medievale delle vite dei santi tardo-antichi e medievali. Non sono infatti in grado di aggiornare in nessun modo le ricerche di Carlo Delcorno sui volgarizzamenti di materiale agiografico più o meno risalente.1 Uno storico del Medioevo – come si usa dire – 1 Utile l’elenco della sua produzione scientifica all’indirizzo di rete ‹http://opac.regesta-imperii. de/lang_en/autoren.php?name=Delcorno%2C+Carlo› (ultimo accesso: 09.12.2018). Indirizzo di corrispondenza: Prof. Dr. Nicolangelo D’Acunto, Dipartimento di Studi medioevali, umanistici e rinascimentali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Via Trieste 17, I-25121 Brescia. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-001
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«senza aggettivi» può invece contribuire a contestualizzare questi processi all’interno di dinamiche più generali che affondano le proprie radici nell’ecclesiologia e nelle sue evoluzioni, oltre che negli sviluppi effettivi dei tentativi di trasformare questa riflessione alta in concreta prassi pastorale di governo delle anime. Per essere più esplicito: vorrei chiedermi in questa sede perché nei secoli XIV e XV tra i primi testi a tema religioso tradotti dal latino in volgare vi fossero le storie di santi che avevano incarnato forme di ascesi estrema come, per l’appunto, i Padri del deserto. In altri termini, non risulta del tutto scontato che la pastorale dei laici nel Pieno e Basso Medioevo dovesse riproporre come ideale di perfezione cristiana lo stesso modello che per secoli aveva innervato la spiritualità monastica. Questo presuppone tuttavia che i fruitori dei volgarizzamenti fossero esclusivamente o prioritariamente laici, ma una ormai consolidata tradizione di studi ha acquisito che i volgarizzamenti non erano destinati soltanto a lettori laici. Al contrario, essi avevano larga circolazione anche all’interno dei conventi mendicanti e dei monasteri, a riprova di una stratificazione abbastanza accentuata nel variegato gruppo dei teorici litterati, non tutti e non sempre in grado di usufruire direttamente in lingua latina dei testi ereditati dalla tradizione, o comunque indotti a usare i volgarizzamenti per comodità e per accedere a un vocabolario della santità in volgare utile per la predicazione.
2 Dalla monacalizzazione del laicato ai movimenti religiosi del XII secolo Se pensiamo a quelle comunità, sorprende solo parzialmente la messa in circolazione di modelli di vita cristiana improntati all’ascesi più estrema. Sui motivi che mi spingono a stemperare tale ultima affermazione tornerò tra poco, poiché ora mi preme sottolineare che il tentativo di diffondere presso i laici siffatti modelli di vita cristiana risulta a prima vista ancor più paradossale, in un’epoca che viene di solito dipinta come caratterizzata da un nuovo vigore della spiritualità laicale fortemente influenzata dagli ordini Mendicanti, in teoria lontani dall’ascesi dei Padri del deserto e araldi di un cristianesimo aperto al mondo e ai suoi valori. In realtà le cose sono un po’ più complicate e la diffusione delle Vite de’ santi padri del deserto va compresa all’interno di una serie di fenomeni di lunga durata che connotano l’atteggiamento della gerarchia ecclesiastica verso il laicato, la cui monacalizzazione aveva per secoli costituito il principale obbiettivo della pastorale più impegnata e avvertita. Quando parlo di monacalizzazione dei laici come risultato atteso dalla diffusione delle storie dei Padri del deserto mi riferisco ai tentativi ricorrenti di fornire ai laici un modello di vita cristiana
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esemplato sulla vita monastica e sui suoi valori, in primis sull’ascesi e la penitenza. Così per esempio Oddone di Cluny nel X secolo, attraverso la Vita Sancti Geraldi Auriliacensis comitis, aveva proposto un ritratto del laico ideale che non solo era generoso nelle elemosine, ma partecipava assiduamente alla Messa, recitava il salterio, digiunava spesso e osservava la castità.2 A un secolo di distanza Pier Damiani, nella fase giovanile della sua riflessione ecclesiologica improntata all’ideale del totum mundum in heremum convertere, consigliava ai laici la lettura quotidiana del salterio. I laici dovevano pregare come i monaci quando erano in viaggio o nei campi, ma se erano analfabeti potevano limitarsi a ripetere la orationem dominicam, cioè il Padre Nostro.3 Analogamente il biografo di Guglielmo da Volpiano riferisce che quest’ultimo proponeva a coloro i quali non potevano recitare il salterio perché simplices et idiotae la ripetizione di una breve invocazione quindici volte per dieci giorni.4 Si trattava però di iniziative isolate e dalla incerta fortuna nel prosieguo del Medioevo. Infatti la Chiesa che lentamente prese forma nel XII secolo dopo gli anni concitati della lotta per le investiture è sicuramente caratterizzata da forti spinte verso l’emarginazione del laicato al di fuori dallo spazio ecclesiale, o – per meglio dire – determinò l’estromissione dei saeculares dalla gestione diretta delle istituzioni ecclesiastiche, il cui controllo fu rivendicato in maniera esclusiva dalla componente sacerdotale. Nei decenni che seguirono immediatamente la riforma ecclesiastica, i laici vissero una stagione di notevole vivacità spirituale, a cui la gerarchia non sempre negò il suo avallo. Tutta l’Europa fu infatti percorsa da fermenti religiosi che assunsero le forme più diverse. La diffusione di ideali pauperistici, il letteralismo evangelico e la critica verso le istituzioni ecclesiastiche e verso i chierici,5 insieme con i rivolgimenti economici e sociali che mutarono il volto dell’Occidente ridando vita alla civiltà urbana, produssero una generale trasformazione della vita dei fedeli. Tali istanze di rinnovamento religioso e sociale, che nell’XI secolo erano state in diverso modo vissute dialetticamente all’interno stesso della gerarchia ecclesia2 Cf. Fumagalli (1964); Baker (1972); Poulain (1975). 3 Cf. D’Acunto (1999). 4 Cf. Vita sancti Guillelmi, vol. 1, cap. 34, 63: «Instituit quoque simplicioribus, vel idiotis, e saeculo ad se confugientibus fratribus orandi formam quinque modulis mystice constantem, ut videlicet quot sensibus humani corporis Deus offenditur, totidem vocum clausulis ad misericordiam rogaretur. Erat autem hujusmodi: Domine, Jesu, Rex pie, Rex clemens, pie Deus. Subjungebatur vero singulis Miserere. Supputabantur namque taliter ut si verbi gratia in decemnovennalibus articulorum juncturis ter et quinquies itentidem revolvendo devote diceretur, psalterii tota series mutata persolveretur. Unde etiam pro psalterio apud illos habebatur, ut Pater docuit, et cognominabatur». 5 Cf. Chenu (1983, 253–281).
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stica, nel secolo seguente furono incarnate da movimenti perennemente in bilico fra ereticità e ortodossia.6 Estremamente significativo degli orientamenti scaturiti da questa nuova temperie spirituale è il fenomeno dei cosiddetti santi del lavoro e della carità.7 Si tratta di alcuni laici di estrazione sociale borghese oppure appartenenti a famiglie di piccoli artigiani, che divennero oggetto di un culto locale nel corso del Due-Trecento. Il pellegrinaggio, l’eremitismo e la carità furono i valori tipici di questa nuova spiritualità laicale, che, se da un lato metteva in evidenza i segni della gerarchizzazione in atto (per es. il monopolio della predicazione restava in mano ai chierici), dall’altro mostrava come i laici venissero indirizzati verso l’operosità nelle città, campo privilegiato dell’azione caritativa. Dalle fonti agiografiche si evince che questi modelli di santità in Italia restavano appannaggio dei maschi come Omobono di Cremona, Alluccio da Pescia o Ranieri da Pisa, ma in altre regioni d’Europa (Fiandre, Francia e Germania) proprio nei secoli XII e XIII si ebbe una grande fioritura del cosiddetto movimento religioso femminile, di cui erano protagoniste le beghine, donne pie che si proponevano di vivere il Vangelo mediante la pratica della castità e della povertà assoluta.8 Per comprendere l’evoluzione istituzionale di questi fenomeni è necessario fare riferimento all’opera di catalizzazione che di queste esperienze svolse il papa Innocenzo III. Durante il suo pontificato i movimenti religiosi furono in qualche modo distinti in gruppi segnatamente ereticali (catari e valdesi, per esempio), che furono duramente perseguitati, e gruppi che furono invece assorbiti all’interno della Chiesa. Il desiderio di molti laici di un contatto non mediato con la Sacra Scrittura e la loro naturale propensione al proselitismo costituirono per la gerarchia ecclesiastica uno dei principali problemi.9 La secolare diffidenza verso qualsiasi forma di ingerenza dei laici illitterati nell’ambito teologico e dottrinale costituì il principale ostacolo sulla strada dell’approvazione di questi gruppi di devoti. Non di rado le fonti mostrano come presso la curia romana quegli spiriti semplici divenissero oggetto di scherno da parte di esperti teologi che tendevano ai malcapitati veri e propri tranelli dialettici.10 Sarebbe antistorico giudicare questi atteggiamenti senza tenere conto della difficoltà per un chierico del XIII secolo di accettare l’intromissione laicale in una sua specifica area di competenza. Per
6 Cf. Grundmann (1974, 15–61); per i fenomeni ereticali cf. Merlo (1989). 7 Cf. Vauchez (1981). 8 Cf. Grundmann (1974, 147–302). 9 Cf. Zerfass (1974). 10 Celebre l’episodio a danno dei Valdesi raccontato nel De nugis curialium; cf. per comodità Map (1990, vol. 1, 178–183).
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intenderci, sarebbe come se un cittadino qualsiasi pretendesse di effettuare interventi chirurgici senza avere studiato medicina. Innocenzo III tuttavia non negò in assoluto ai laici il diritto di predicare. Nel caso degli Umiliati concedette che nei giorni di festa alcuni laici, di provata fede e di sperimentata dottrina, col permesso del vescovo locale predicassero in luoghi chiusi ai loro confratelli ma solo «ammonendo e spingendo i convenuti verso i comportamenti onesti e le opere di pietà, così da non parlare dei fondamenti della fede e dei sacramenti della Chiesa».11
3 Papato, Ordini Mendicanti e istituzionalizzazione della penitenza L’aver abbandonato la pace del monastero per impegnarsi nella predicazione nel secolo non favorì automaticamente una riconsiderazione in termini positivi delle realtà terrene di per sé stesse all’interno del mondo dei Mendicanti. Nel Cantico di frate Sole troviamo un’esaltazione del creato, ma in altri scritti di Francesco d’Assisi ricorrono accenti tanto pessimistici sulle realtà terrene che potrebbero agevolmente confondersi con quelli usati dai più severi eremiti dell’XI secolo.12 Ciò non toglie che la predicazione penitenziale dei Mendicanti aprisse di fatto orizzonti nuovi alla spiritualità laicale. L’Anonimo perugino riferisce che alcuni fedeli rivolgevano a Francesco e ai suoi frati questa domanda: «Abbiamo una moglie, che non possiamo lasciare. Insegnateci dunque quale strada di salvezza possiamo prendere».13 Per far fronte a questa richiesta sarebbe stato istituito il Terz’Ordine, sempre secondo questo agiografo, ma nell’immediato la vera risposta di Francesco a questa domanda è quella riportata dalla Leggenda dei tre compagni: i laici erano invitati ad abbracciare «una più stretta penitenza nelle loro case».14 Si trattava di una soluzione sostanzialmente in linea con l’orientamento tradizionale, secondo il quale l’unica via di santificazione dei laici era l’imitazione monastica, di un genere di vita che apparteneva a un altro ordo, del quale implicitamente si affermava la superiorità. La novità risiedeva però nel fatto che, mentre nell’XI secolo l’imitazione monastica era prospettata soltanto a poche persone eminenti 11 Tiraboschi (1767, vol. 2, 133ss.). Per i rapporti fra Innocenzo III e gli Umiliati cf. Grundmann (1974, 85–95). 12 Si prenda per es. la Lettera ai fedeli, di cui si indica, per comodità del lettore, la traduzione italiana in Caroli (2004, 134–142). 13 Anonimo perugino, 41 (Caroli 2004, 868). 14 Leggenda dei tre compagni, 60 (Caroli 2004, 832).
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e vicine agli ambienti dei religiosi, nel secolo XII si verificò un processo di democratizzazione di queste pratiche e quello dei penitenti divenne nel Duecento un movimento, se non proprio di massa, quantomeno molto diffuso, che ben presto assunse quadri istituzionali stabili nelle confraternite e nei Terzi ordini.15 Nel frattempo la penitenza aveva subito un processo di istituzionalizzazione. Mentre nel XII secolo essa era stata proposta come via per vivere in maniera più profonda la forma del Santo Vangelo, con l’inizio del Duecento la Sede Apostolica incanalò tale domanda di una più profonda vita religiosa che proveniva dalla società entro un modello di spiritualità «media» (non mediocre!) perché facilmente replicabile su vasta scala attraverso una rinnovata pastorale dei sacramenti, fondata in primis sulla confessione e sull’Eucarestia. Già nel 1239 il capitolo generale di Roma aveva praticamente escluso i laici dalla religio fondata da Francesco, in linea con il processo di sacerdotalizzazione e di monacalizzazione dell’ordine.16 Tale metamorfosi era stata determinata dalla convergenza di spinte provenienti dall’ordine stesso, in cui l’assunzione del sacerdozio da parte dei frati veniva interpretata come uno strumento indispensabile per «contare» nella Chiesa, con i disegni pontifici che miravano a trasformare proprio gli ordini Mendicanti negli agenti di un rinnovato impegno pastorale della Chiesa stessa. Si creavano così le premesse per stabilizzare lo svolgimento delle funzioni pastorali dei frati Minori, che insieme con gli altri ordini Mendicanti realizzarono la campagna di evangelizzazione dell’Occidente progettata e guidata dal Papato. Essa si incentrava sul trinomio predicazione/penitenza/ Eucarestia. Le fonti francescane insistono infatti sulla capacità dei frati di indurre con la loro predicazione grandi masse di fedeli a confessarsi e a comunicarsi. Così, per esempio, Tommaso di Eccleston nel suo De adventu fratrum Minorum in Angliam narra che Aimone di Faversham «predicò in modo così commovente che molti decisero di rimandare la comunione finché non avessero l’opportunità di confessarsi da lui. Si fermò, dunque, in quella chiesa per tre giorni, ascoltando le confessioni e consolando tutto il popolo».17 La valorizzazione della penitenza individuale operata dal Concilio Lateranense IV18 gettò le basi di questa pastorale dei sacramenti che si sarebbe legata in maniera inscindibile alla produzione di volgarizzamenti di scritti di edificazione spirituale fiorita nel Basso Medioevo. Infatti tali scritti avevano una circolazione interna agli ordini poiché dovevano 15 Costituisce un caposaldo della ricerca in questo àmbito Meersseman (1977), ma la bibliografia sull’argomento è costantemente in crescita: cf. almeno Gazzini (2009). 16 Cf. Merlo (2003, 134–187). 17 Tommaso da Eccleston, L’insediamento dei frati Minori in Inghilterra, conversazione 6 (Caroli 2004, 1583). 18 Cf. Rusconi (2013).
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servire alla formazione religiosa dei frati a livello individuale, ma anche con riferimento alla loro predicazione, che doveva nutrirsi degli esempi dei Padri del deserto ma anche trovare le parole nuove in volgare per raccontare quella santità alle folle che accorrevano per assistere allo spettacolo dei loro sermoni. La maggiore alfabetizzazione dei laici, legata in special modo allo sviluppo dell’economia mercantile, creò di fatto un pubblico nuovo per la letteratura religiosa. Assai significativo è lo sforzo profuso dai Mendicanti per tradurre in volgare i testi più significativi della tradizione agiografica e spirituale,19 per rafforzare l’educazione religiosa dei fedeli laici illitterati, cioè di quelli che non sapevano il latino. Questi volgarizzamenti coinvolsero il ricco laicato mercantile e borghese, contribuendo, insieme con la predicazione dal pulpito e al rapporto personale col singolo penitente, alla creazione di una nuova civiltà della parola, che sta alla base della fioritura letteraria in lingua volgare dei secoli XIII e XIV.20
4 Un pubblico nuovo: dall’imitazione dell’anacoresi alla venerazione La letteratura italiana del Trecento offre indicazioni che fanno pensare a una sensibilità religiosa tutt’altro che appiattita nei contenuti sulla predicazione dei Mendicanti. In Dante troviamo una forte critica ai costumi di chierici, monaci e frati del suo tempo. Lo stesso accade nelle esilaranti novelle del Boccaccio. Non dobbiamo esagerare l’importanza di questi segnali e considerarli sintomatici di una presunta e precoce crisi delle religiones novae a meno di un secolo dalla loro nascita. Le opere letterarie parlavano comunque a un pubblico cólto, il quale aveva categorie di giudizio che non possiamo usare indiscriminatamente per descrivere la percezione dei religiosi da parte della generalità dei fedeli. Al netto di queste letture pregiudiziali e fortemente ideologiche, la presenza dei Mendicanti nel Trecento non aveva affatto esaurito il suo slancio iniziale, ma ciò non di meno richiedeva continui interventi disciplinari vòlti a legittimare gli appartenenti alle religiones novae e a renderli credibili agli occhi dei fedeli. Alla luce di questa esigenza, i volgarizzamenti delle vite dei Padri del deserto dovevano assolvere alla duplice funzione di presentare ai laici un modello di vita 19 Ottimo punto di partenza era stata la raccolta di queste opere curata da don De Luca (1977), ma si consideri questo stesso volume Storia sacra e profana nei volgarizzamenti medioevali. Rilievi di lingua e di cultura con le sue tante suggestioni e le relative indicazioni bibliografiche al riguardo (in part. i saggi di Raymund Wilhelm, pp. 19–40, e di Elisa De Roberto, pp. 41–84). 20 Cf. Le Goff/Schmitt (1985).
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cristiana altissimo su cui far convergere la loro venerazione, ma che al contempo aumentasse il prestigio dei predicatori Mendicanti, i quali apparivano agli occhi del pubblico dei devoti come gli eredi e, almeno in linea di principio, i più fedeli imitatori degli antichi asceti del monachesimo orientale. La possibilità per i laici di accedere in prima persona alla conoscenza delle Vite dei Santi Padri influì certamente sulla qualità della loro privata devozione, eliminando il filtro che nei secoli passati aveva reso indispensabile la mediazione che pure i saeculares più eminenti avevano dovuto chiedere ai chierici e ai monaci che popolavano le loro corti. Ciò nonostante è assurdo pensare che il filtro chiericale fosse completamente sparito. Quella mediazione, a partire dal Duecento, si concretizzava infatti in una gamma più diversificata di strumenti, che integravano e superavano la comunicazione collettiva attraverso la predicazione e attingevano direttamente alla sfera individuale attraverso la confessione e il conseguente accostamento all’Eucarestia da parte del singolo devoto. La vera novità consisteva inoltre nella democratizzazione di questo itinerario di perfezione cristiana, finalmente disponibile per le masse di fedeli edificati dalla spiritualità penitenziale, ma funzionale al contempo alla legittimazione dei religiosi a cui era affidata l’attività pastorale. La critica al costume ecclesiastico e monastico in larga parte mirava a destrutturare proprio questa strategia di autorappresentazione. Non per caso Dante e in maniera ancor più evidente Boccaccio molto confidano nell’effetto comico generato dal contrasto tra il modello di ascesi predicato da preti e frati e i loro comportamenti,21 a riprova del fatto che le storie dei Padri del deserto (e il modello di perfezione cristiana che esse veicolavano) nel Trecento incontravano e al contempo condizionavano la sensibilità religiosa di un pubblico assetato di un’ascesi penitenziale ed eremitica adatta a interpretare la brusca inversione di tendenza prodotta dalla peste nera e dal repentino cambiamento climatico, con l’annesso circolo vizioso tra cattivi raccolti, prezzi alti, carestia e mortalità che già avevano reso precaria l’esistenza dell’uomo altomedievale. La natura lanciava la sua sfida all’uomo, costretto dal terrore del castigo divino a rifugiarsi nuovamente nell’ascesi, per usare il dolore fisico quale strumento di espiazione. Tutti i ceti sociali invocarono un’arte più intensamente religiosa, i cui legami con la predicazione sono stati splendidamente messi in rilievo da Millard Meiss.22 Anche le agiografie, abbandonata – specie in Italia – la linea dei nuovi santi laici della carità efficace del XII secolo, miravano a consolidare il modello ascetico e penitenziale, deprivandolo però dei suoi risvolti potenzialmente eversivi. Si trattava infatti di una santità eremitica, che occorreva comunque tenere sotto controllo perché
21 Cf. Pasquini (1987). 22 Cf. Meiss (1951).
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pericolosa e foriera di esperienze individuali o collettive difficilmente disciplinabili, come attestavano numerosi esempi di eremiti che nell’area appenninica, da soli o in piccoli gruppi, rischiavano di costituire dei focolai di dissenso scarsamente dominabili, giacché vivevano le pratiche ascetiche in maniera estrema e da esse traevano legittimità e credibilità presso i fedeli, fuori da qualsiasi inquadramento ecclesiastico.23 Rispondere ai laici desiderosi di una superiore forma di vita cristiana con la proposta del modello ascetico-eremitico significava rischiare di aprire nuovi varchi a siffatte iniziative spontanee. La riproposizione di quegli antichi modelli fu possibile solo grazie a una chiave ermeneutica che si era affermata all’interno del mondo francescano nel corso del Duecento, quando Bonaventura da Bagnoregio mise a tema l’inimitabilità di san Francesco e disegnò nella sua Legenda maior un «santo da venerare ma irraggiungibile perché unico e risultato tale per un imperscrutabile disegno divino».24 In buona sostanza la riproposizione di un modello di santità non necessariamente doveva spingere alla sua traduzione in termini esistenziali, ma anzi poteva (e nel caso di Francesco quasi doveva!) limitarsi all’indicazione di un universo valoriale a cui riferirsi in maniera molto vaga, senza che esso comportasse conseguenze istituzionali concrete e definite. Al contempo però san Francesco, proprio in virtù della sua eccezionalità, fungeva da potente fattore di legittimazione dell’ordine dei frati Minori. Allo stesso modo la riproposizione delle storie dei Padri del deserto da parte dei Mendicanti doveva ingenerare nei fedeli, lettori o ascoltatori che fossero, non tanto il desiderio di emulazione dell’ascesi estrema di stampo eremitico, quanto piuttosto una sentita venerazione che li inducesse a pratiche di pietà compatibili con lo stato di vita laicale, ma comunque in grado di avviarli a una vita di penitenza e alla confessione intesa come sacramento propedeutico e indispensabile per accostarsi all’Eucarestia.
5 Tra il leggere e il fare: l’astinenza dal vino L’esempio della ricezione medievale del rifiuto del vino da parte dei Padri del deserto può contribuire a descrivere il processo pluridirezionale seguito da questo paradigma fondamentale dell’ascetismo orientale. Domenico Cavalca traduceva dalla Vita Antonii che il santo «beveva un poco d’acqua; di carne, o di vino non è bisogno ch’io ne faccia menzione, perocché appo i monaci di quella contrada
23 Un quadro d’insieme in Vauchez (2003). 24 Merlo (2003, 173).
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cotali vivande né si usano né si truovano».25 Analogamente nella Vita di Ilarione aveva trovato la notizia che «bevea dell’acqua».26 Tale modello di astinenza dal vino aveva attraversato i secoli tra ripetizioni ai limiti della formularità, tentativi di imitazione e forti resistenze da parte dei religiosi in Occidente. Benedetto da Norcia si era rassegnato a un compromesso, pur consapevole della incompatibilità «costituzionale» tra il vino e i monaci: «per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci d’accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà».27 L’incompatibilità del vino con la vita monastica derivava a Benedetto dalle Vitae patrum e dalla regola di Basilio: le stesse fonti normative che nell’XI secolo facevano da sfondo al monachesimo riformatore di Vallombrosani e Camaldolesi. Come ha giustamente osservato Carlo Delcorno: «nasceva, proprio dalla lettura dei libri che illustravano le più significative e varie esperienze del monachesimo orientale, l’idea di una nuova forma di vita religiosa, aggressivamente polemica nei confronti del vecchio cenobitismo benedettino».28 Così, per esempio, nella Vita Romualdi Pier Damiani nel 1042 ricordava che nell’eremo di Sitria, alle pendici del Monte Catria, divenuto un novello deserto di Nitria, nessuno conosceva il vino nemmeno in caso di gravi malattie («vinum ibi nemo noverat ne si etiam gravissimam quis aegritudinem pateretur»).29 La precisazione conclusiva si spiega alla luce della concezione medicinale del vino che al Medioevo giungeva per il tramite della Prima lettera a Timoteo, esortato da Paolo a smettere di bere soltanto acqua e a prendere anche un po’ di vino per favorire la digestione, dato che spesso era ammalato (1 Tim 5, 23). Il modello della santità anacoretica e il tema dell’astinenza dal vino ebbero larga diffusione nell’agiografia latina. A questo vasto deposito di narrazioni di esperienze religiose che diventano veri e propri marcatori della santità cristiana attinsero pure le religiones novae del XIII secolo. L’eco del paradigma anacoretico dell’astinenza si accompagna a richiami al Nuovo Testamento che ne attenuano il rigore, senza sminuire la misura delle privazioni sopportate dai fondatori dei due maggiori ordini mendicanti. Bonaventura, per esempio, trattando dei digiuni di Francesco, affermava che non si deve nemmeno parlare di vino, visto che il santo «a malapena, quando si sentiva bruciare dalla sete, osava dissetarsi 25 Vita di Antonio (Delcorno 1992, 101). 26 Vita di Ilarione (ibid., 157). 27 Regola di san Benedetto, cap. 39 (Pricoco 1995, 210–213). 28 Delcorno (1992, 13). 29 Tabacco (1957, cap. 64, 105). Altri riferimenti all’astinenza dal vino in ibid., capp. 27, 57; capp. 67, 110.
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con l’acqua»,30 salvo poi riprendere un brano del Tractatus de miraculis in cui Tommaso da Celano narra che il Poverello, ammalatosi nell’eremo di Sant’Urbano, presso Narni, trasformò l’acqua in «ottimo vino» per guarire all’istante.31 Lo stesso accadde a Domenico di Calaruega, che, secondo Giordano da Pisa, si era astenuto per dieci anni dal vino ma, ammalatosi, ricevette da un vescovo l’ordine di berne per salvarsi la vita.32 Chiaro esempio di intertestualità agiografica è poi la pericope del miracolo della vigna di S. Fabiano, riferito dalla Compilatio Assisiensis. Francesco era ospite di un prete nei pressi di Rieti, che si allarmava per le continue sottrazioni di uva che pativa dai molti visitatori del santo. Sentite le sue lamentele, Francesco gli assicurò che lo avrebbe risarcito del danno e la vigna, per quanto devastata, produsse uva in abbondanza.33 La pericope richiama molto da vicino un episodio della vita di Ilarione, che aveva visitato un monaco avaro. Questi, per evitare che gli accompagnatori di Ilarione gli devastassero la vigna, vi mise dei guardiani. Allora Ilarione rifiutò quell’ospitalità e si recò da un altro monaco, più generoso, che naturalmente ebbe un raccolto assai più abbondante di quello dell’avaro, il cui poco vino si sarebbe tramutato addirittura in aceto.34 Tali paralleli erano ben presenti sia agli agiografi Mendicanti sia agli autori dei volgarizzamenti delle Vitae patrum che si servivano con grande maestria di questi incroci tra intertestualità biblica e intertestualità agiografica. Proprio l’esempio dell’astinenza dal vino dimostra che il modello dei Padri del deserto riflesso in Francesco e Domenico contribuiva a consolidare il meccanismo ermeneutico secondo il quale i santi, sia quelli antichi sia quelli moderni, andavano venerati e non imitati. Le pratiche ascetiche dei Padri del deserto erano state ben presenti anche ai frati che condividevano di persona l’esperienza di Francesco. L’Anonimo perugino riferisce per esempio che «tra i frati che convenivano a capitolo, nessuno osava discutere i problemi di questo mondo; non parlavano tra loro che delle vite dei santi padri, o della perfezione di qualche frate».35 Francesco a sua volta era costretto a frenare quella imitazione: «Li rimproverava inoltre dell’eccessiva durezza con cui trattavano il loro corpo. A quei tempi i frati si davano eccessivamente ai digiuni, alle veglie, al lavoro fisico, per reprimere interamente i richiami
30 Bonaventura, Leggenda maggiore, 1086 (Caroli 2004, 631). 31 Tommaso Da Celano, Vita prima, 21, 61 (ibid., 291); Bonaventura, Leggenda maggiore, 1086 (ibid., 637). 32 Giordano da Pisa, Esempi, 28: L’astinenza dal vino (Varanini/Baldassarri 1993, 104). 33 Compilazione di Assisi, 67 (Caroli 2004, 930). 34 Vita Hilarionis, 17, 1 (Bastiansen/Smit 1975, 110); cf. Delcorno (1992, 15). 35 Anonimo Perugino, 39 (Caroli 2004, 866).
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della carnalità. Talmente si maltrattavano, che alcuni parevano avere in odio se stessi. Ma udendo e vedendo tali cose, Francesco li sgridava, come s’è detto, e comandava che si moderassero. Ed era tanto pieno della grazia e sapienza del Salvatore, che faceva l’ammonizione benevolmente, la riprensione con buon senso, l’ingiunzione con dolcezza».36 «A quei tempi», dice l’agiografo, per sottolineare la distanza tra la prima generazione francescana e le successive, che evidentemente non coltivavano l’ascesi con altrettanto entusiasmo. Nell’agiografia francescana si registra comunque qualche imbarazzo nel riconoscere che i Minori bevevano vino, a segno del fatto che la distanza tra Francesco e i suoi frati non poteva essere eccessiva almeno in linea di principio. Di questo genere di riserve non troviamo traccia alcuna già nell’opera del frate Minore inglese Tommaso di Eccleston, che intorno alla metà del Duecento, in un testo libero dai vincoli imposti dal genere agiografico, raccontava divertito un aneddoto: Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln e grande filosofo, riteneva che «tre cose fossero necessarie alla salute del corpo: il cibo, il sonno e il buon umore». Una volta ordinò a un frate domenicano malinconico di bere una coppa del vino migliore. Questi recalcitrava, ma, quando ebbe bevuto, il vescovo gli disse: «Carissimo fratello, se tu facessi più spesso questa penitenza, avresti anche una coscienza migliore».37 L’ascetismo dietetico dei Padri del deserto continuava ad avere ancora un certo ascendente su qualche frate, ma il fatto che il francescano Tommaso condividesse lo spirito del suggerimento di Roberto Grossatesta dimostra quanto lontano fosse da quel modello il clero secolare, rappresentato dal vescovo, e insieme con esso molti frati che da quel mondo provenivano e che avevano inoculato nell’universo valoriale dei Mendicanti ideali e stili di vita cristiana diversi – se non radicalmente alternativi – rispetto a quelli richiamati nell’agiografia. Così, per esempio, il francescano Salimbene de Adam, vent’anni dopo Tommaso di Eccleston, nei suoi Cronica riferiva che il ministro generale Giovanni da Parma, uomo assai «cortese», quando visitava un convento e si accorgeva che alla sua mensa c’era un vino migliore degli altri, «ne faceva mescere ugualmente a tutti oppure lo versava in una brocca perché tutti ne bevessero. E questa era ritenuta cortesia e carità grandissima».38 Per il cronista di Parma il dilemma non verteva più sull’opportunità di astenersi o meno dal vino, quanto piuttosto di usarne con liberalità per mostrare la curialitas che dall’ethos aristocratico aveva originato quella che Cinzio Violante chiamava la cortesia chiericale e borghese di 36 Ibid. 37 Tommaso da Eccleston, L’insediamento dei frati Minori in Inghilterra, conversazione 15 (ibid., 1618–1619). 38 Scalia (1998, vol. 1, 470).
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cui Salimbene stesso era imbevuto.39 Non per caso il cronista rimproverava a frate Elia da Cortona, il suo principale obiettivo polemico, non di avere un cuoco personale che gli preparava cibos delicatissimos, ma che preferisse mangiare da solo in camera, non condividendo con gli altri frati tali pietanze deliziose, e questo era indizio della sua rusticitas maxima!40 Anche presso i frati Predicatori si può riscontrare questa divaricazione fra testi agiografici, ancora dominati dall’intertestualità di genere e quindi inclini a usare i marcatori della santità ereditati dalle vite dei Padri del deserto, e le fonti di natura diversa riferibili al genere di vita dei Mendicanti. I Domenicani nelle Vitae fratrum di Gerardo di Frachet si presentano ancora come i nuovi padri del deserto insistendo sullo zelo pastorale degli antichi monaci orientali.41 Non appena usciamo dal perimetro dell’agiografia, troviamo però un dibattito molto più articolato. Giordano da Pisa negli Esempi contrappone Antonio e Maccario, veri modelli di penitenza, a sant’Agostino, il quale invece «mangiò e carne e pane e bevve vino». Dei due modelli Giordano preferisce il secondo, perché mentre i primi «con ciò sia cosa che fossero così perfetti, non predicavano però, non amaestravano, se non che salvavano loro medesimi». Chi fu maggiore? Certamente Agostino e i pastori come lui, perché «tanta gente salvarono».42
6 Epilogo Insomma i Mendicanti usarono le Vite patrum traducendole in volgare per colpire l’immaginario dei laici senza incitarli all’imitazione monastica, ma formulando soltanto un generico richiamo alla lotta col maligno e alla necessità della penitenza. Essi stessi non si sentivano in dovere di imitare l’astinenza dei padri del deserto e si limitavano ad ammirarla. Il modello di ascesi degli antichi anacoreti, ancorché efficace per la predicazione, era, proprio per la sua grande elevatezza, distante e non riproducibile. Non lo potevano imitare i laici, che però dovevano trarne il motivo per praticare la penitenza istituzionalizzata, confessando i loro peccati per accostarsi all’Eucarestia. Analogamente per i frati quell’antico modello di perfezione cristiana andava diffuso attraverso la predicazione, ma non era obbligatorio e vincolante. Non per caso proprio la distanza che separava l’ideale che predicavano dai loro comportamenti scatenava l’ironia dei letterati.
39 Cf. Violante (1995). 40 Scalia (1998, 243–244). 41 Per l’agiografia domenicana delle origini cf. almeno Canetti (1996). 42 Giordano da Pisa, Esempi, 27: L’astinenza dal vino (Varanini/Baldassarri 1993, 104).
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Tuttavia quel sarcasmo non riusciva a scalfire la fiducia dei fedeli laici che, avidi di edificazione, affollavano le piazze italiane col desiderio di ascoltare le storie degli antichi anacoreti.
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Bonvesin da la Riva agiografo e volgarizzatore
Dagli exempla della Vita scholastica ai miracoli in volgare Abstract: This essay confronts three vernacular miracles of Bonvesin – De castellano, De pirrata and De agricola desperato (Volgari L and M) – with their presumed Latin models, which are contained as short prose exempla in the tradition of the Vita scholastica. The philological question as to whether the exempla belonged ab initio to the Vita scholastica remains open; however, it is shown that the arguments for their attribution to Bonvesin da la Riva are more weighty than the arguments which seem to identify them as later additions. In the perspective of history of Italian language, the particular proximity between the vernacular miracles in verse and the Latin prose narratives in the area of transphrastic structures is emphasized here: in the discourse tradition of the popular hagiographic narrative, specific syntactic and textual procedures are maintained across language borders and regardless of the opposition verse/prose. Keywords: discourse traditions; hagiography; narrative; verse/prose; «Volgarizzamenti»
1 Agiografia e volgarizzamenti: due premesse Bonvesin da la Riva è innanzitutto un grande narratore. Possiamo ammirare gli esiti più felici della sua arte nelle due Vite, la Vita di sant’Alessio (P) e la Vita di Giobbe (O), e ancora di più nei dieci racconti miracolistici contenuti nelle Laudes de Virgine Maria (L), nelle Rationes quare Virgo tenetur diligere peccatores (M) e nel Vulgare de elymosinis (B). Non c’è dubbio, infatti, che la maestria del poeta milanese si mostri in primo luogo nella forma breve del miracolo.1 Di séguito mi concentrerò sui tre miracoli comuni alla Vita scholastica e ai volgari L e M, su 1 Così anche Contini (1960, vol. 1, 669–670): «il narratore ha migliori qualità del descrittore; […] la poesia appartiene piuttosto a quei miracula o exempla che fregiano sommarie esposizioni dottrinali». E prima ancora il Levi (1917, xlvi–l) rileva la «garbata finezza» del «mirabile novelIndirizzo di corrispondenza: Prof. Dr. Raymund Wilhelm, Alpen-Adria Universität, Institut für Romanistik, A-9020 Klagenfurt. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-002
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quegli aneddoti quindi che sono conservati nella duplice veste della prosa latina e della quartina monorima in volgare milanese. Vorrei premettere però due riflessioni di carattere più generale, l’una dedicata alla produzione agiografica, in particolare a quella in volgare lombardo, l’altra a proposito della categoria discorsiva dei volgarizzamenti. L’opposizione, o «tensione», fra agiografia e storia è stata indagata spesso: basti pensare allo stimolante capitolo dedicato all’«édification hagio-graphique» in L’écriture de l’histoire di Michel de Certeau (2002, 316–335). Tale opposizione si è rivelata utile anche per una classificazione dello stesso discorso agiografico, all’interno del quale possiamo distinguere due grandi tipi, che ho proposto di chiamare racconti «storici» e racconti «mitologici» (cf. Wilhelm 2016, 215–216). In un contributo recente Françoise Laurent ha applicato una simile distinzione all’agiografia anglo-normanna. La Vie de saint Thomas Becket di Guernes de Pont-Sainte-Maxence, che ha come protagonista un personaggio della storia recente, trasmette un’interpretazione ben precisa della storia politica contemporanea. Ma una tale interazione fra i generi dell’agiografia e della storiografia si verifica solo per una parte della produzione anglo-normanna. Accanto alle vite «storiche» circolano numerose vite dedicate a santi di altro tipo – santi che rivestono «un statut atemporel et universel» (Laurent 2016, 28) –, come san Lorenzo e santa Margherita, sant’Alessio e santa Caterina d’Alessandria: si tratta di figure lontane dall’esperienza quotidiana, appartenenti a regioni e a tempi remoti e che vivono esperienze del tutto eccezionali e favolose. Possiamo parlare di santi «mitologici», le cui narrazioni presentano, come pure i numerosi miracoli della Vergine, una sostanziale «sovratemporalità» (Segre 2001, 204). La distinzione fra santi storici e santi mitologici ha una diretta rilevanza sociale già nella produzione in lingua latina. André Vauchez ha più volte insistito sul fatto che la maggior parte dei «consumatori» di testi agiografici sono poco attratti da narrazioni su santi vicini nel tempo e nello spazio. Lo storico francese condensa il suo ragionamento nell’efficace formula: «plus le public visé par l’hagiographe est populaire, plus les saints sont présentés comme des personnages lointains, distants et étrangers à la condition humaine» (Vauchez 1991, 169–170).2 E si deve aggiungere che il «potere di fascinazione» delle vite popolari latore milanese», che racconta «con arte di sommo poeta». Per gli exempla inseriti nel Vulgare de elymosinis cf. anche Wilhelm (2008). 2 E cf. ancora: «on conçoit sans peine que la majorité des ‹consommateurs› de textes hagiographiques ne se soient pas intéressés à certains textes très proches d’eux dans le temps et dans l’espace […], auxquels manquait le pouvoir de fascination qui s’attachait à des figures intemporelles comme celles de saint Antoine ou de sainte Agnès» (ibid., 169).
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di cui parla Vauchez non si basa soltanto sulla scelta di un eroe eccezionale, ma deriva, più precisamente, dalla costruzione di una storia accattivante e dunque da un certo tipo di narrazione.3 A questo proposito è rilevante constatare che nella situazione lombarda tale opposizione – Vauchez (1989, 253) parla anche di un «divorce entre une hagiographie savante, à dominante historique, et une hagiographie populaire de plus en plus légendaire» – si rifletta proprio nelle scelte linguistiche: la produzione agiografica in volgare lombardo, dai testi di Bonvesin ai poemetti contenuti nella miscellanea tardo-quattrocentesca di Giovanni de’ Dazi (Trivulziano 92), è dedicata esclusivamente a santi mitologici come Margherita e Alessio, Maria Egiziaca e Cristoforo, e ai numerosi miracoli attribuiti alla Vergine e ad altri santi; di santi storici, d’altro canto, anche dei santi milanesi, trattano solo testi latini, come il Liber notitiae sanctorum Mediolani di Goffredo da Bussero, un contemporaneo di Bonvesin (cf. Chittolini 2013, 477). È significativa, in questo senso, l’alternanza fra testi latini e testi volgari nel codice Trivulziano 93 (che è forse ancora trecentesco), come ha ricordato recentemente Zeno Verlato (2017, 113): «il latino e la prosa per la Vita sancti Calixti […], dedicata a un rappresentante ‹storico› della gerarchia ecclesiastica; il volgare e i versi per santi di ampia devozione popolare, diciamo pure ‹mitologici›, come Alessio e Margherita».4 Ciò non significa, beninteso, che l’agiografia volgare sia da concepire in rigida opposizione alla tradizione latina. Racconti popolari nel senso di Vauchez si trovano pure nelle sillogi in latino: basti pensare alla Legenda aurea. È da mettere in rilievo, però, la quasi completa assenza di un’agiografia «storica» in volgare lombardo di epoca medievale: il carattere originale della produzione volgare sta nel fatto che le vite e i miracoli in lingua vernacolare continuino un particolare filone dell’agiografia latina, quello che è rivolto a un pubblico possibilmente ampio e che si compiace di un modo di narrare lontano dalla veridicità o anche solo dalla verosimiglianza tipica delle opere storiografiche.5 È implicito in quanto detto che i componimenti agiografici in lingua vernacolare, anche quelli di carattere più mitologico e popolare, sono nella maggioranza dei casi dei volgarizzamenti. E ciò vale in modo particolare per le vite e i miracoli di Bonvesin da la Riva. È ben nota l’affermazione di Contini (1960, vol. 1, 667) secondo cui «quale autore in volgare Bonvesin è eminentemente un traduttore». 3 Adotto qui l’espressione pouvoir de fascination nel senso tutto intuitivo con cui lo usa Vauchez e che, come mostra De Roberto (2016, 8–9), non ha più nulla in comune con il concetto di Faszinationstyp, da cui deriva. 4 E cf. già Wilhelm (2006, 14–16). 5 Per la categoria della «scrittura popolare», soprattutto in riferimento ai testi agiografici, cf. anche Wilhelm (2016, in part. 251–254).
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Il fatto non ha nulla di sorprendente: è inevitabile che i primi poeti volgari milanesi si orientino sul modello latino e, in minor misura, su quello della già fiorente produzione in lingua francese. Il secondo quesito da porre in via preliminare è quello, appunto, della specificità dei volgarizzamenti. In un recente contributo Elisa De Roberto (2017, 231) ha proposto un’importante riflessione sulla «liceità della categoria di volgarizzamento». In primo luogo la studiosa mette in rilievo il fatto che il termine volgarizzamento non rimanda a un genere o a una tipologia testuale ma a una «pratica culturale» (ibid., 232), e, direi più specificamente, ad una prassi discorsiva per cui si producono o meglio si trasmettono testi di varia natura. Se alla base del volgarizzare si trova un «contatto culturale», ciò vale anche, «seppure in termini variabili, per qualsiasi testo romanzo» (ibid., 234), e un simile contatto culturale segna pure non pochi testi latini del Medioevo. E la De Roberto giunge a questa prima conclusione: non esiste, o per lo meno «risulta difficile […] individuare una lingua dei volgarizzamenti» (ibid., 235). Strettamente legate a questo primo ordine di riflessioni sono le considerazioni intorno al testo di partenza della traduzione, al suo avatar. Si tratta fondamentalmente di un problema filologico, la questione delle fonti: la De Roberto evoca molto opportunamente il «pericolo di attribuire al volgarizzatore innovazioni (ma anche errori, fraintendimenti o particolari strategie di traduzione) contenute già nella fonte», cioè nello specifico modello latino che volgarizza (ibid., 241).6 Nel Medioevo il tradurre è situato in una rete di pratiche discorsive apparentate, con cui si sovrappone e talvolta si confonde: tra queste un ruolo particolare spetta al trascrivere.7 Il problema dell’avatar del volgarizzatore è paragonabile, infatti, a quello dell’antigrafo da cui copia un amanuense: tranne in pochi casi fortunati vi ci possiamo solo avvicinare ipoteticamente. Nell’analisi dei volgarizzamenti occorre evitare, quindi, due rischi: quello di attribuire alla «lingua dei volgarizzatori» ciò che appartiene all’italiano medievale in generale; e quello di attribuire ai volgarizzatori ciò che si trova già nel loro modello latino. Materiali utili in tal senso sono stati messi a disposizione per le due grandi Vite composte da Bonvesin da la Riva, la Vita di sant’Alessio
6 E cf. ibid., 243, dove si discute un esempio significativo tratto dal volgarizzamento D dell’Ars amatoria di Ovidio e confrontato con due redazioni del testo latino stesso. Per un’efficace illustrazione della «difficoltà di discernere tra fenomeni di copia e strategie traduttive» (ibid., 243), De Roberto rimanda pure a Casapullo (2011), che studia tale fenomeno sulla base del volgarizzamento del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico ad opera di Vivaldo Belcalzer. 7 Per la riflessione intorno ai poli transcrire/traduire cf. anche i lavori raccolti in Wilhelm (2013b).
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e il Vulgare de passione sancti Iob, analizzate in quanto volgarizzamenti rispettivamente nell’introduzione all’edizione dell’Alessio (Wilhelm 2006, 2–11) e in uno studio di Carlo Beretta (2013). Da tali lavori risulta il profilo di un volgarizzatore che segue fedelmente il suo modello, che è poco innovativo a livello del contenuto, ma che opera una profonda rielaborazione stilistica, una riscrittura sul piano testuale e discorsivo. È fuor di dubbio che una valutazione di Bonvesin come traduttore debba partire da un accertamento delle sue fonti e che, anzi, la ricerca delle fonti e l’analisi delle tecniche di traduzione si illuminino a vicenda.8
2 Un problema di attribuzione: gli exempla in prosa latina del De vita scholastica I tre racconti del Castellano, del Pirata e del Contadino disperato, che sono inseriti in latino nella Vita scholastica e tradotti nei volgari L e M,9 presentano una peculiarità rilevante: non solo le versioni latine e volgari sono molto vicine fra loro, ma entrambe le redazioni potrebbero risalire, secondo un’ipotesi non priva di verosimiglianza, alla penna dello stesso Bonvesin da la Riva. Non è escluso, infatti, che i tre miracoli in volgare siano frutto di un auto-volgarizzamento, come, del resto, si ipotizza pure per la Disputatio mensium (T). La questione se gli otto exempla annessi alla Vita scholastica risalgano a Bonvesin è a tutt’oggi aperta. Mentre Contini – come anche Franceschini (1943) al momento della sua edizione critica – considerava autentici gli exempla in prosa,10 in tempi più recenti, a partire dall’edizione Teubneriana della Vidmanová-Schmidtová, generalmente li si ritiene aggiunte posteriori, che
8 Gli studi di Segre sul De quindecim miraculis que debent apparere ante diem iudicij (C) e di Stefanini sul De cruce (X) sono orientati in primo luogo all’individuazione della fonte usata dal poeta milanese: Segre (1968, 267–273) mostra che Bonvesin si basa, come già aveva visto Contini (1941, xl, lxvi–lxvii n. 65), su Pietro Comestore, ma mediato da un Ritmo latino in tetrastici rimati; Stefanini (1982) è del parere che i tre miracoli contenuti in forma frammentaria nella terza parte del De cruce non derivino, come credeva Silvia Isella Brusamolino (1979, 9, 11), dai Dialogi di san Gregorio ma dalla Legenda aurea. 9 Colgo l’occasione per correggere una svista in Wilhelm (2006, 3), dove, sulle tracce di Rossi (21987, 497), si indica erroneamente il De Maria egyptiaca come terzo degli exempla comuni alla Vita scholastica e alla produzione volgare di Bonvesin. 10 Cf. Contini (1935–2007, 356); Franceschini (1943, vii); Contini (1960, vol. 1, 667); Rossi (21987, 497).
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sarebbero quindi da escludere dal corpus delle opere bonvesiniane.11 Eppure una decina di anni fa Tino Licht (2009, 103–104) è tornato alla vecchia posizione di Franceschini del ’43, dichiarando gli otto exempla parte integrante della Vita scholastica. Il problema è tutt’altro che secondario per un’adeguata valutazione del nostro autore. Ricordo che da una voce autorevole gli exempla in prosa sono stati definiti «la parte certamente più bella della Vita scholastica, redatti come sono in un latino semplice e schietto, molto vicino al volgare italiano» (Franceschini 1972a, 49).12 Nel 1972 Franceschini fa sua l’opinione della Vidmanová13 e fornisce sostanzialmente due argomenti contro l’autenticità degli otto exempla. Innanzitutto osserva che i miracoli in prosa sono conservati in un solo codice, l’Ambrosiano Q 36 sup., e in alcuni incunaboli, ma mancano nella restante tradizione (cf. Franceschini 1972a, 47).14 L’argomento, che è sicuramente di peso, non è però decisivo. Secondo Licht il ms. Ambrosiano riveste una particolare autorità: il codice sembra confezionato a Milano a metà del Trecento; il copista, che sa male il latino, presumibilmente è molto fedele al suo modello; è da escludere che abbia aggiunto gli exempla di sua iniziativa, perché non sarebbe stato in grado né di ricercarli né di riformularli. Il codice Ambrosiano Q 36 sup., che – secondo l’ipotesi di Licht – contiene anche un ritratto di Bonvesin da la Riva, deve risalire a un modello vicino all’autore (Licht 2009, 103–104). In mancanza di uno stemma capace di razionalizzare la tradizione del testo è impossibile, d’altra parte, pronunciarsi sulla rilevanza da attribuire al fatto che alcuni incunaboli contengono gli otto exempla. Contro l’attribuzione degli aneddoti latini al poeta milanese parla pure, sempre secondo Franceschini (1972a, 47), la «diversità notevole fra lo stile latino delle opere in prosa di Bonvesin» – e si deve pensare ovviamente al De magna-
11 Cf. Vidmanová-Schmidtová (1969, xxiv); Orlandi (1978, 124–125 n. 39); Diehl/Stefanini (1987, 274 n. 274); Garbini (1990, 706 n. 5). 12 Altrove Franceschini (1972b, 892) parla del «latino delizioso» di tali exempla. Nella sua edizione il grande latinista aveva stimato che nei «racconti in prosa inseriti fra i distici del poemetto […] il latino stesso è pervaso, pur nelle vecchie e nodose giunture, da una fresca grazia e quasi dall’ingenuo incanto di una semplicità primitiva» (Franceschini 1943, x). 13 Stupisce che l’edizione critica della Vidmanová-Schmidtová, che è stata accolta con critiche particolarmente severe, abbia potuto influenzare le posizioni fino a tempi recenti: Franceschini (1972a, 44) deplora, infatti, «gli errori molti e gravi» di tale lavoro, cui ha dedicato una lunga recensione; Garbini (1990, 707) lo considera «una occasione perduta». 14 La Vidmanová ha esaminato una buona ventina di codici; Diehl/Stefanini (1987, 230) conoscono una trentina di manoscritti e 22 edizioni del XV e del XVI secolo; Licht (2009, 101) registra non meno di 15 incunaboli.
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libus urbis Mediolani – e lo stile degli exempla inseriti nella Vita scholastica.15 Possiamo chiederci però se tale differenza di stile non sia da ricondurre piuttosto al fatto che ci troviamo di fronte a generi diversi.16 La divergenza fra il De magnalibus e gli otto exempla sembra essere quella, appunto, fra un testo erudito, storiografico, encomiastico, e dei racconti leggendari e «popolari» nel senso che abbiamo visto prima.17 Oltre alla relativa debolezza degli argomenti contro l’autenticità degli otto exempla, stupisce il fatto che Franceschini, pur sottoscrivendo in linea di massima la conclusione della Vidmanová,18 abbozzi delle argomentazioni che in realtà parlano piuttosto a favore di un’attribuzione a Bonvesin. Innanzitutto è da mettere in conto che «quegli exempla appaiono così strettamente legati alla Vita scholastica che senza di essi il testo sembra difficilmente comprensibile» (Franceschini 1972a, 48). Vediamo i versi in cui si allude ai nostri miracoli. Dopo alcune considerazioni generali sulla Vergine Maria che soccorre gli orfani e le vedove e che accoglie i peccatori, si giunge a tre casi particolari: (1) hec castellani servans a demone corpus ac animam, salvum denique fecit eum. hec quoque piratam, quod eam reverenter amavit, eterna vetuit perdicione mori. hec desperatum pro nati crimine patrem corporis ac anime mortis ab ore tulit. (VS 473–478)19
15 E cf. Franceschini (1972a, 49 n. 32): «Certamente più compassato e dignitoso e molto diverso è il latino, per esempio del De magnalibus urbis Mediolani, di Bonvesin da la Riva». E cf. nello stesso senso Orlandi (1978, 124–125 n. 39): «il latino di quegli exempla appare lontano dalla lingua di Bonvesin prosatore quale risulta dal De magnalibus». 16 Lo suggerisce già Contini (1960, vol. 1, 668) quando parla della «cultura dettatoria del maestro di scuola, quale si palesa […] entro la prosa elogiastica, dunque nobile, del De magnalibus (di contro ai miracoli inseriti nella Vita)». 17 Due ulteriori argomenti sembrano meno calzanti: il fatto che quattro degli exempla della Vita scholastica si ritrovano «identici, salvo poche varianti grafiche» in un manoscritto di Bergamo datato al 1371, e le «differenze fra gli exempla latini della Vita scholastica e i medesimi exempla che sono nelle opere in volgare di Bonvesin» (Franceschini 1972a, 47) sono spiegabilissimi anche se gli exempla sono autentici. E aggiungiamo che i tre exempla che qui ci interessano si trovano pure, come rileva la Manzi (1949, 24), nel manoscritto Grumelo del commento dantesco di Alberico da Rosciate. 18 Franceschini (1972a, 48): «Di qui le conclusioni della Vidmanová che essi non sono di Bonvesin da la Riva: ciò pare indiscutibile». 19 Cito il De vita scholastica con la sigla VS dall’edizione Vidmanová-Schmidtová (1969).
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Di fronte a questi versi sembra difficile affermare che il testo della Vita scholastica sia «perfettamente autosufficiente».20 Non dobbiamo dimenticare che ci troviamo di fronte a un libro didattico – un «libro di testo» (Franceschini 1972a, 49), un «manuale per la scuola» (Garbini 1990, 705) –, ed è poco probabile che Bonvesin si sia accontentato di allusioni che i suoi giovani allievi non sarebbero stati in grado di apprezzare. In realtà Franceschini (1972a, 49) giunge quindi a una posizione piuttosto mitigata: ripete che «gli exempla in prosa […] non sono di Bonvesin», precisando però subito che l’autore della Vita scholastica «tuttavia doveva averne una raccolta, coeva, dalla quale li leggeva» e, aggiungerei, dalla quale li attingeva per utilizzarli nel suo insegnamento. E «da questa stessa raccolta», così prosegue Franceschini, gli exempla «furono ben presto inseriti nel testo». Ricordo un ulteriore rilievo sui racconti in prosa latina che a ben guardare parla piuttosto a favore della paternità bonvesiniana: «l’autore degli otto exempla», così ancora Franceschini (ibid., 48 n. 29), «doveva essere unico: lo dice lo stile assolutamente identico in tutti». Anche la compattezza stilistica degli otto exempla, le cui rispettive tradizioni aveva già analizzato Adele Manzi (1949), ci porta in realtà molto vicini al nostro autore. Dobbiamo chiederci, infatti, che intendiamo quando diciamo che questi esempi «sono» o «non sono» di Bonvesin da la Riva. È da escludere, ovviamente, che Bonvesin abbia inventato gli aneddoti. E ciò non solo perché una tale inventività non corrisponde all’indole divulgativa – da «traduttore», come dice Contini – del nostro autore, ma, molto semplicemente, perché la maggior parte degli otto exempla inseriti nella Vita scholastica sono ampiamente documentati nelle raccolte latine e volgari del Medioevo. L’eventuale paternità di Bonvesin riguarda unicamente la resa stilistica, la redazione o la riscrittura, di racconti che circolavano anche indipendentemente dal poeta milanese. Ricordiamo che Cesare Segre (2001, 205), a proposito di autori di miracoli più o meno contemporanei a Bonvesin, come Gautier de Coinci, Gonzalo de Berceo e Alfonso el Sabio, insiste proprio sul fatto che bisogna «distinguere l’apprezzamento per la leggenda, che giunge di solito al poeta dopo numerose rielaborazioni (e rispetto alla quale egli interviene solo su particolari), dal giudizio critico, che deve far leva sulla strategia narrativa, sui dettagli e sulla loro connessione e funzionalità». Ed è questo secondo aspetto – l’analisi più propriamente testuale e discorsiva – cui dobbiamo interessarci principalmente quando 20 Diehl/Stefanini (1987, 232–233): «with respect to its original audience the text of the poem can be considered perfectly self-sufficient»; un parere simile si ritrova in Garbini (1990, 706 n. 5): «essi [sc. gli exempla] dovevano far parte del patrimonio comune dei lettori cui la Vita scolastica era indirizzata».
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confrontiamo gli exempla latini con i miracoli in volgare milanese. Va pure precisato che la discussione non si può limitare alla questione attributiva: la lettura in parallelo degli exempla latini e dei racconti vernacolari serve in primo luogo a mettere in risalto, in una prospettiva più storico-linguistica che filologica, la sorprendente vicinanza fra i testi latini e i testi volgari nell’àmbito dell’agiografia a destinazione popolare.
3 Dal latino al volgare: il caso del De agricola desperato Il caso di maggior vicinanza fra uno degli otto exempla e un componimento in volgare è costituito dal De agricola desperato, che è l’ottavo exemplum della Vita scholastica e che è narrato nel volgare M nelle solite quartine monorime. Per Adele Manzi (1949, 24), cui dobbiamo lo studio più approfondito degli exempla, non sussistono dubbi: la versione volgare del Contadino disperato è «una vera e propria volgarizzazione che mantiene il medesimo ordine di concetti, talvolta il medesimo ordine di parole» dell’exemplum latino. Per mostrare la vicinanza fra testo latino e testo vernacolare e per illustrare, nello stesso tempo, gli interventi del volgarizzatore vorrei concentrarmi su alcuni tipi di amplificazione. In numerosi casi il testo volgare espande il testo latino prima di fornirne una traduzione fedele. Riconosciamo la tecnica dell’expolitio, già ampiamente discussa da Beretta (2013, 134–139) per il Giobbe: (2) cum diabolus levaret eum in area (Exemplum viii, 173) Illora l’olcellato, quel Satanax antigo, / co le grampe trazeva suso lo desperao inigo. / Ello lo trazeva in airo (M, 103–105)21 Solo nel testo volgare si dice che il diavolo in forma di uccello tira su il contadino suicida co le grampe: il particolare aggiunto serve a rendere più concreto, e quasi più corporeo, l’accaduto. Un procedimento simile si nota quando si narra la fuga del maligno in seguito al pentimento in extremis del contadino:
21 Cito gli otto exempla da Vidmanová-Schmidtová (1969, 103–113) con la sola indicazione dell’Exemplum e del rigo, e i testi volgari di Bonvesin da la Riva dall’edizione Gökçen (1996), tralasciando però i puntini sottoscritti e altri segni prosodici, e intervenendo talvolta sull’uso delle maiuscole. I corsivi sono miei.
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(3) diabolus dimisit eum et fugit (Exemplum viii, 175) Lo Satanax illora se’n parte a mal so grao: / un grand squasso dé in terra lo miser mal guidhao (M, 110–111) Invece del più astratto ‘il diavolo lo lasciò’ che leggiamo nel testo latino, in volgare Bonvesin immagina più concretamente come il contadino, già sollevato da terra e lasciato cadere dal diavolo, piombi giù con un tonfo.22 È pur vero, d’altra parte, che la tendenza al concreto che osserviamo nell’opera del volgarizzatore non è estranea allo stesso testo latino. Lo si vede nel passo in cui si narra come il contadino si prepara ad andare in città: (4) qui cum multis pullis et aliis bonis venit ad civitatem (Exemplum viii, 162–163) Soi pulli e zo k’el vosse el ha apparegiao / e ven là o è lo so fiio (M, 67–68) Il particolare che il contadino si porta dietro dei polli e altri viveri suggerisce la simpatica bonarietà del personaggio. In questo modo è pure già introdotto il motivo del cibo e quindi del mangiare, motivo che riaffiora in séguito nel testo volgare: (5) quam cito potuit, fecit patrem reverti ad domum (Exemplum viii, 164–165) El amonisce illoga lo patre benestrudho / k’el mange, po torne a casa […] / El fa tornar a casa lo patre incontinente (M, 71–73) Il racconto volgare aggiunge la circostanza che il figlio fa mangiare il padre prima di mandarlo a casa: il particolare così quotidiano e domestico fa risaltare ancora più nettamente la crudeltà del prete novello che si vergogna del proprio padre. A livello delle tecniche di volgarizzazione possiamo osservare come un elemento già presente nella fonte alimenta l’immaginazione del poeta, che lo sfrutta per legare più strettamente le varie parti del racconto e per conferirgli una maggiore coerenza. Specialmente nel discorso diretto dei personaggi il volgarizzatore tende ad amplificare il dettato più scarno e più secco del suo modello:
22 Il significato del termine resta da precisare; il TLIO s.v. squasso definisce ‘scossa violenta che fa vacillare e cadere; crollo’; Marri (2005, 218), in modo forse più appropriato, propone ‘colpo, botta per la caduta a terra’.
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(6) et dixit agricole: «Quid vis? ecce hic sum.» (Exemplum viii, 169–170) «Eo sont venudho a ti – zo dise lo Satanax –. / Tu m’[h]e giamao quiloga. Di’ que tu voi, que te plax». (M, 93–94) (7) «Ducas corrigiam tuam et noli nominare nomen matris Dei.» (Exemplum viii, 171–172) «Mete la correza in collo se tu voi esse aiao, / e lo nom dra matre de Criste no fia pur anomadho. / Se tu così voi far, tost he esse desbregao» (M, 98–100) In volgare il diavolo non solo è più ridondante ma, si direbbe, è anche più cortese. Gli elementi aggiunti servono ad agganciare più strettamente il discorso riportato alla situazione: essi hanno una funzione pragmatica. In alcuni casi non è da escludere comunque che la ridondanza sia pure dovuta a esigenze metriche: specialmente al v. 98, l’informazione centrale è contenuta nel primo emistichio, mentre la seconda parte del verso costituisce un’espansione, secondo un procedimento già osservato in altri testi simili (cf. Wilhelm 2016, 225, 229). In un caso, al contrario, è il testo volgare ad accorciare: (8) «Volo, ut suspendas me per gulam, quia tedet me vivere.» (Exemplum viii, 170–171) «Eo voio ke tu me appendi, ke’l viver me desplax.» (M, 96) Il volgarizzatore omette qui il particolare concreto, corporeo, visibilmente per far stare la frase intera in un verso. L’omissione è comunque compensata subito dopo, nella risposta del diavolo che abbiamo visto al n° (7) (Ducas corrigiam tuam > Mete la correza in collo). Una sorprendente vicinanza fra testo latino e testo volgare si osserva anche a livello delle strutture transfrastiche. Ricordo che per l’Alessio si constata una differenziazione netta: mentre la Vita latina23 affida il raccordo di frase soprattutto a connettivi come deinde, tunc, autem, etc., il poemetto in volgare usa sistematicamente la temporale anteposta introdotta da quando. Nel caso studiato qui, invece, si deve rilevare il ricorso a procedimenti sostanzialmente identici sia nell’exemplum latino sia nel miracolo vernacolare. Non insisto sui numerosi autem, tamen, et sic del testo latino e sull’ancora più frequente illora, in prima o in seconda posizione della frase, nel racconto volgare. L’impiego ostinato di tali elementi coesivi 23 Il testo latino più vicino al poemetto bonvesiniano è quello contenuto nel ms. Admont. 664, databile al secolo XI (cf. Wilhelm 2006, 39–40).
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illustra ciò che Blumenthal (1990, 32) ha chiamato la «Kohäsionsbesessenheit», la mania di coesione, che segna molti testi medievali, in volgare e, come si vuole sottolineare qui, anche in latino. Un particolare interesse merita la temporale anteposta, cui corrispondono nel testo latino strutture funzionalmente simili: (9) qui [sc. agricola] […] venit ad civitatem […]. quem videns filius dolens adventu patris, quam cito potuit, fecit […] (Exemplum viii, 162–165) E ven là o è lo so fiio […] / Quand lo prevedhe novello lo so patre have vezudho, / El fo gramo ke so patre illoga era venudho: / el amonisce illoga […] (M, 68–71) Il raccordo con la coniunctio relativa (quem videns) viene sostituito da una temporale (quand… ave vezudho). Nei due casi l’uso di un verbo di percezione (fisica e psicologica) permette di spostare il focus da un attante narrativo all’altro. Il cambiamento di soggetto – qui il passaggio dal padre al figlio – tramite il verbo vedere è già più volte stato descritto come un tipico modulo della testualità medievale.24 Notiamo però che tale struttura, che nelle lingue vernacolari è tipicamente affidata alla temporale anteposta introdotta da quando, in latino funziona in modo analogo con la coniunctio relativa. In altre parole: la formula quem videns/quand ave vezudho è impiegata, in latino come in volgare, non per il suo eventuale valore semantico o contenutistico (‘il figlio vede qualcosa’), ma come comodo raccordo di frase, come elemento di coesione. Per il De agricola desperato possiamo formulare la conclusione seguente. Innanzitutto è da rilevare la grande vicinanza fra testo latino e testo volgare, come già osservato dalla Manzi. Le amplificazioni, che talvolta potrebbero pure essere dettate da esigenze metriche, generalmente partono da elementi e procedimenti già presenti nel testo latino.25 Ciò implica, al di là del divario fra verso e prosa, una sostanziale similarità nella strutturazione del testo narrativo. Pensiamo specialmente ai raccordi di frase: tenendo presenti le ovvie differenze fra latino e volgare, constatiamo comunque il ricorso a procedure simili. Non c’è dubbio che a livello delle strutture transfrastiche esista una vicinanza fra l’exemplum della Vita scholastica e il miracolo del volgare M molto maggiore di quanto abbiamo potuto osservare per la Vita latina di sant’Alessio e il suo volgarizzamento bonvesiniano.
24 Cf. Wilhelm (2013a, 228) e gli studi ivi citati. 25 A livello più generale Bertolucci (1963, 13) ha osservato che, nella letteratura miracolistica, «proprio alle fonti latine risale quanto meno l’impostazione di situazioni ‹realistiche›».
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Se non possono sussistere dubbi, quindi, che il raccontino di M sia il volgarizzamento diretto dell’Exemplum viii, tale constatazione non permette conclusioni sicure, ovviamente, circa l’autenticità di quest’ultimo. La straordinaria somiglianza fra i due racconti, quello in prosa latina e quello in quartine monorime milanesi, è comunque un dato di cui tener conto. Se aggiungiamo, poi, il fatto che dell’Agricola desperato finora non è stato possibile trovare «né una fonte, né una qualsiasi traccia in raccolte di miracoli posteriori» (Manzi 1949, 21),26 l’attribuzione dell’Exemplum viii, e di conseguenza di tutta la serie, a Bonvesin da la Riva acquista perlomeno una certa plausibilità.27
4 Trasformazioni di un racconto fra latino e volgare: il De castellano Nel caso del Castellano ci troviamo di fronte a una situazione assai diversa. Come rileva Adele Manzi (1949, 12), il miracolo del Castellano conosce un’«enorme diffusione», che è tangibile in «innumerevoli redazioni»; sulle tracce di Contini (2007, 356) la studiosa distingue «due principali versioni della leggenda, quella cioè del brigante e quella del pio cavaliere». Bonvesin ci ha lasciato volgarizzamenti di entrambe: la leggenda del brigante è narrata nel volgare L (De castellano), quella del pio cavaliere nel volgare B (De milite). È fuor di dubbio, quindi, che il poeta milanese fosse a conoscenza di più versioni dell’aneddoto. Di conseguenza, nel caso del Castellano l’individuazione della fonte del testo volgare non ha nessuna rilevanza per un’eventuale «autenticità» del corrispondente Exemplum della Vita scholastica: già il confronto fra il De castellano e il De milite mostra come Bonvesin racconti talvolta versioni diverse dello stesso aneddoto, basate su modelli differenti.28 26 E il rilievo è stato ribadito da Vidmanová-Schmidtová (1969, 112): «fons fabulae adhuc latet». 27 Per il miracolo del Pirata conosciamo alcuni testi che mostrano qualche punto di contatto con il nostro aneddoto, specialmente quello di Jean le Conte (ed. Kunstmann/Duong 1998) e quello contenuto nel Libro del Cavaliere (ed. Misciatelli 1929). Va rilevato però che tutti e due questi testi sono in prosa e posteriori all’opera bonvesiniana, e, soprattutto, che l’exemplum trasmesso insieme alla Vita scholastica è il testo di gran lunga più vicino al racconto contenuto nel volgare L. Anche nel caso del Pirata l’aneddoto del De vita scholastica è l’unica possibile fonte finora nota del miracolo in milanese (cf. Manzi 1949, 18–20 per alcuni altri testi paralleli). 28 L’argomento si trova già abbozzato in Levi (1917, xliii), che è fra i primi ad aver espresso il «dubbio se essi [sc. gli otto miracoli in prosa latina] siano opera diretta di Bonvesin o se non siano invece opera d’un commentatore»: Levi (ibid., xliv n. 1) valuta infatti come segue, in base a un ragionamento che rimane però implicito, la doppia redazione della leggenda del castellano
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Per alcuni tratti il De castellano del volgare L sembra infatti più vicino all’Exemplum vi, per altri più vicino alla Legenda aurea.29 Se Contini (2007, 356 n. 85) ritiene probabile che in questo caso «Bonvesin tradusse dal suo proprio latino», Manzi (1949, 14), come Novati (1905, 199–200 nn. 4, 46) prima di lei, rileva soprattutto la vicinanza alla versione contenuta nella Legenda aurea. Notiamo in primo luogo che i tre testi qui in causa – l’Exemplum vi della Vita scholastica, l’aneddoto contenuto nel capitolo l (De annuntiatione dominica, §§125–149) della Legenda aurea e le 23 quartine del De castellano (volgare L, 101–192) – meritano soprattutto una considerazione a livello testuale e discorsivo: essi permettono, infatti, di osservare come le stesse strategie di amplificazione reperibili nei volgarizzamenti siano pure in atto all’interno dei testi latini. Ci troviamo di fronte a un fondo comune di procedimenti, legati a una tradizione discorsiva, il racconto agiografico a destinazione popolare, e proprio per questo difficilmente attribuibili a un singolo autore. Del tutto tradizionali sono le strutture transfrastiche, e in particolare il raccordo di frase con una forma del verbo vedere, spesso in una temporale anteposta introdotta da quando, già rilevate prima. La struttura è usata in modo ricorrente nel testo volgare. In un brano con un rapido susseguirsi di attanti diversi la formula apre quasi ogni strofa: (10) Quand vidhe lo sancto patron k’el no pò far niente, / d’un oltro fagio el prega lo castellan poente (L, 125–126) Vezando lo castellan ke de leve el pò fà zo, / tuta la soa fameia el fa venir illò (L, 129–130) E quand vide lo patron tuta questa masnadha, / el vidhe per Spirito Sancto ke pur un ghe’n mancava (L, 133–134) Quand l’ave vezudho lo fra, ello l’à ben cognoscudho (L, 141) Generalmente la struttura «Quand + una forma del verbo vedere» o, in un caso, la forma con il gerundio, indica un cambiamento di soggetto. È vero che la frase con Quand non è l’unica struttura a poter svolgere tale funzione: altrove il cambiamento
e del milite nei volgari B e L: «questo è un buon argomento per ritenere bonvesiniani anche gli otto miracoli in prosa della V.S.». 29 Vediamo solo la presentazione dei due protagonisti umani: quidam castellanus (Exemplum vi, 104) e un castellan (L, 101) a fronte di quidam miles (LA, 125); ma quidam religiosus (LA, 126) e un hom de religion (L, 111) a fronte di beatus Bernardus (Exemplum vi, 111). Cito il capitolo l della Legenda aurea (ed. Maggioni 2007, 374–383) con la sigla LA seguita dal rispettivo comma.
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di soggetto è indicato dal connettivo illora.30 Colpisce comunque l’alta frequenza del costrutto con il verbo vedere, la cui semantica negli usi descritti è in larga misura sbiadita, trattandosi di un semplice elemento di raccordo. Ora è rilevante notare le stesse strutture transfrastiche qui sommariamente indicate nelle due potenziali fonti latine, l’Exemplum vi della Vita scholastica e il rispettivo capitoletto della Legenda aurea. Talvolta si osserva una particolare vicinanza delle due versioni latine, contro il volgarizzamento: (11) […] rogauit militem ut omnes de familia sua et castro congregari faceret ut eis uerbum domini predicaret. Cum autem congregati fuissent […]. (LA, 128–129) […] precatus est, ut saltem totam familiam suam et omnes habitantes in castello congregaret, ut coram omnibus dicat quedam utilia. quo facto cum omnes congregati essent […]. (Exemplum vi, 115–118) […] d’un oltro fagio el prega lo castellan poente, / ke tuta soa fameia faza venir presente, / azò k’illi olzan tugi zo k’el vol esse dicente. […] Davanzo lo sancto patron tugi i oltri el congregò […] / E quand vide lo patron tuta questa masnadha […] (L, 126–133) Il raccordo di frase con la temporale anteposta che riprende materiale lessicale già enunciato in precedenza qui è realizzato in modo più netto, non nel volgarizzamento, ma nelle versioni latine, con le due subordinate preposte introdotte da cum. Nel miracolo in volgare invece Bonvesin rinuncia alla ripetizione del verbo congregare, che pure mantiene una volta, e affida il legame con la frase precedente al solito costrutto con il verbo di percezione vedere. Lo specifico tipo di raccordo di frase – la temporale anteposta –, che è spesso stato descritto per i volgari antichi e specialmente per i volgarizzamenti (cf. Giovanardi/De Roberto 2015, 127), è pure diffusissimo, almeno all’interno di alcune tradizioni discorsive, in latino: va precisato comunque che la congiunzione cum del latino medievale è meno precisa di quando, potendo introdurre oltre a una subordinata temporale anche una causale e talvolta una condizionale o una concessiva; ciò che conta qui è però la funzione testuale, di raccordo di frase, sostanzialmente identica.31 Anche in altri casi si osservano procedimenti sostanzialmente analoghi nel volgare L e nell’exemplum della Vita scholastica: 30 Cf. nello stesso passo qui in esame: Lo castellan illora per tuto lo fa querir (L, 139); Illora lo canever vorrave esse affantao (L, 147). 31 Sarebbe facile moltiplicare gli esempi provenienti dalla Legenda aurea. Per un’ampia casistica del tipo «cum + congiuntivo» nei volgarizzamenti di «classici» cf. De Roberto (2017, 256–260).
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(12) Vir autem sanctus dixit ei: «Adiuro te per nomen domini nostri Ihesu Christi […].» (LA, 138–139) quem videns beatus Bernardus, cognoscens eum esse demonem, adiuravit eum per nomen Cristi […]. (Exemplum vi, 122–123) Quand l’ave vezudho lo fra, ello l’à ben cognoscudho, / ben sa k’el è un demonio in specia d’omo metudho: / incontinente sconzura quel servo malastrudho (L, 141–143) Mentre la Legenda aurea sceglie qui il collegamento di frase con il connettivo autem, l’Exemplum vi e il miracolo in volgare milanese ricorrono alla solita formula con vedere. Ciò che preme sottolineare è il fatto che la scelta fra procedure diverse – il raccordo di frase con un connettivo o con una subordinata anteposta che contiene il verbo vedere – non marca il divario fra latino e volgare, e neanche la differenza fra prosa e versi: tutte e due le tecniche transfrastiche sono comuni sia in latino sia in volgare. L’esempio (12) permette ancora di osservare una divergenza nella rappresentazione del discorso: il discorso diretto nella Legenda aurea (dixit ei: Adiuro te) si oppone al discorso indiretto nell’Exemplum vi e nel volgare L (adiuravit eum, sconzura quel servo). Merita una particolare attenzione, infatti, nelle tre redazioni del nostro miracolo, il diverso trattamento delle scene e specialmente dei dialoghi. Vediamo la scena in cui il sant’uomo, che ha fatto riunire tutta la familia del castellano, si accorge della mancanza del suo antagonista: (13) Cum autem congregati fuissent, ille ait: «Nequaquam hic omnes estis, sed aliquis adhuc deest.» Cui cum se omnes ibidem esse assererent, aiebat: «Diligenter perquirite et aliquem inuenietis abesse.» Tunc unus exclamans dixit quoniam solus camerarius illuc non uenisset. Ille autem dixit: «Vere ipse est qui solus deest.» (LA, 129–135) cum omnes congregati essent excepto canepario castellani latente, tunc beatus Bernardus dicens se nihil posse facere sine illo (Exemplum vi, 117–119) E quand vide lo patron tuta questa masnadha, / el vidhe per Spirito Sancto ke pur un ghe’n mancava, / zo era lo canever lo qual el demandava (L, 133–135) Ci troviamo di fronte a tre soluzioni diverse. Iacopo da Varazze drammatizza l’accaduto in un dialogo che mette sapientemente in scena l’autorità del religiosus vir sanctus: mentre il sant’uomo ha il diritto a citazioni letterali in tre enunciati in discorso diretto, le parole dei servi (attribuite a istanze anonime: omnes o
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unus) passano in secondo piano e vengono riportate in modo indiretto. Più stringato e neutro è il dettato dell’Exemplum vi, che si limita a registrare, in forma tanto oggettiva quanto laconica, il fatto (canepario… latente). In modo appena più espanso, il miracolo volgare attribuisce l’osservazione al buono patron e ne indica pure la motivazione (el vidhe per Spirito Sancto…). Anche nella scena seguente, all’arrivo del falso servo, la Legenda aurea mostra una particolare predilezione per il dettaglio «drammatico»: (14) Cum autem uirum dei uidisset, reuolutis terribiliter oculis caput instar insani agitabat nec propius accedere audebat. Vir autem sanctus dixit ei (LA, 137–138) erat autem caneparius demon, qui formam hominis assumpserat. quem videns beatus Bernardus, cognoscens eum esse demonem, adiuravit eum (Exemplum vi, 120–123) lo qual era un demonio k’in specia d’omo piacava. […] Quand l’ave vezudho lo fra, ello l’à ben cognoscudho, / ben sa k’el è un demonio in specia d’omo metudho: / incontinente sconzura quel servo malastrudho (L, 136; 141–143) Laddove l’Exemplum vi e il miracolo di L affermano, in modo ridondante e fin troppo diretto, che il servo è un demonio e che il sant’uomo lo riconosce come tale, Iacopo da Varazze ci mette davanti agli occhi le reazioni corporee del falso servo (reuolutis terribiliter oculis caput instar insani agitabat), mentre il riconoscimento è reso esplicito solo nella confessione cui lo costringe il frate (Ego enim non sum homo, sed demon qui formam hominis accepi; LA, 142). Una simile drammatizzazione pervade anche altri passi del racconto nella Legenda aurea: osserviamo il forte peso dato alla dialogicità, e insieme una messa in scena cosciente, da narratore esperto e sicuro dei suoi mezzi espressivi, che lascia grande spazio all’implicito e alla suspense; in confronto le redazioni della Vita scholastica e delle Laudes de Virgine Maria sono decisamente più piane, più esplicite e più ridondanti. Non c’è dubbio, del resto, che abbia visto bene Contini: il Bonvesin volgare segue anche in questo caso l’aneddoto della Vita scholastica, non quello ben più elaborato e più elegante della Legenda aurea. Ma ciò che importa mettere in risalto è innanzitutto il fatto che la drammatizzazione, il ricorso al concreto e al corporeo, non è opera di un volgarizzatore, bensì di un abile narratore latino.32
32 Cf. anche i rilievi esposti da Speranza Cerullo (2017, 107 n. 56, 108): se da un lato potremmo essere tentati di interpretare il «passaggio da discorso indiretto a discorso diretto nei volgarizza-
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5 La convergenza di latino e volgare nell’agiografia popolare Cerco di formulare qualche conclusione provvisoria. La mia argomentazione si è svolta su due piani: a livello più propriamente filologico ho discusso l’attribuzione degli otto exempla annessi al De vita scholastica a Bonvesin da la Riva; a livello storico-linguistico mi sono concentrato su alcune strategie testuali e discorsive fra latino e volgare. Sebbene la questione attributiva, in attesa di un’analisi più approfondita della tradizione testuale della Vita scholastica, debba rimanere aperta, ho comunque cercato di mostrare che gli indizi a favore di una paternità di Bonvesin non sono meno forti di quelli, riaffermati soprattutto a partire dall’edizione della Vidmanová-Schmidtová, che tendono a negargliela. Ribadisco che il diverso comportamento nella volgarizzazione dei tre exempla non esclude che i testi latini siano di Bonvesin.33 Innanzitutto non va dimenticato che il miracolo contraddistinto da una particolare vicinanza al rispettivo exemplum della Vita scholastica è quello contenuto nel volgare M. Nulla vieta di ipotizzare che i volgari L e M appartengano ad anni diversi. Da quello che abbiamo visto c’è una buona probabilità che M sia stato redatto a ridosso della Vita scholastica. Del resto, un problema abbastanza urgente negli studi su Bonvesin da la Riva è, senza dubbio, proprio la questione della cronologia delle sue opere, sulla quale sappiamo pochissimo. Al livello storico-linguistico notiamo innanzitutto la sostanziale similarità delle strutture transfrastiche e delle tecniche di amplificazione in latino e in volgare, all’interno della tradizione discorsiva del racconto agiografico di orientamento popolare. Per i procedimenti qui descritti l’opposizione latino/volgare – come pure l’opposizione prosa/verso – sembra di poca rilevanza rispetto a un fondo comune di opzioni testuali e discorsive.34 Se possiamo senz’altro constatare
menti come strategia discorsiva», dobbiamo pure «tenere conto […] della frequenza di procedimenti inversi: talvolta la traduzione tende a compendiare un segmento esteso di discorso diretto facendo appunto ricorso all’indiretto»; cf. pure De Roberto (2017, 248). 33 Sono arbitrarie le conclusioni di Diehl/Stefanini (1987, 274 n. 274) che ritengono «extremly unlikely that an author, when retelling in the vernacular stories he has already told in Latin some years earlier (or vice versa), will in one case (no. viii) be so faithful to his first version that his second is little more than a translation, in another (no. vii) will depart from it here and there, and in a third (no. vi) will diverge from it almost completely and follow another source instead». 34 Trova conferma anche qui l’ipotesi di Peter Koch (1993, 41) secondo cui gli autori medievali «concevaient leur texte en premier lieu comme l’exemplaire d’une tradition discursive
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un influsso del latino sul volgare, non dobbiamo escludere un influsso del volgare sul latino: ciò vale, come già rilevato da Franceschini, per gli otto exempla attribuiti a Bonvesin, ma anche, soprattutto a livello sintattico e testuale, per la Legenda aurea.35 Abbiamo visto in particolare che il raccordo di frase con la temporale anteposta si trova in una forma simile e con un’alta frequenza pure in latino; la drammatizzazione e la creazione di scene che indugiano su particolari concreti e corporei caratterizzano poi proprio il modo di narrare della Legenda aurea. Se in linea di principio la vicinanza delle strategie testuali non è quindi un argomento a favore dell’autenticità degli exempla latini, nei nostri testi troviamo pure alcune spie lessicali che sembrano confermare una particolare vicinanza fra l’autore degli otto aneddoti latini e il Bonvesin che conosciamo dai testi volgari. Penso in particolare alla parola usata per ‘cintura’ nell’Exemplum viii, 172 e in M, 98, già citata al n° (7) (corrigiam/correza);36 e penso pure alla qualifica del demonio in forma umana nell’Exemplum vi, 121 e nel volgare L, 138 (caneparius / canever), che abbiamo visto al n° (13):37 è rilevante notare che non solo alcuni testimoni della Vita scholastica sostituiscono caneparius con camerarius,38 ma che anche la Legenda aurea (LA, 133) legge camerarius. Il caneparius dell’Exemplum vi ci porta, quindi, di nuovo molto vicino a Bonvesin. Possiamo certo supporre, con Franceschini (1972a, 48–49 n. 30), che il nostro autore abbia attinto gli otto exempla da un «qualche ignoto manoscritto del secolo XIII, che doveva esistere a Milano o nelle sue vicinanze». Ma ciò significa che, se non vogliamo attribuire la paternità dei deliziosi miracoli in prosa latina a Bonvesin da la Riva, dobbiamo supporre l’esistenza di un suo sosia: di un altro grande narratore attivo nella Milano tardo-duecentesca.
donnée – le sermon, le testament, la poésie des troubadours etc. –» e che, di conseguenza, «ce n’est que par rapport à cette tradition discursive qu’[ils] choisissaient, en second lieu, leur idiome à caractère plus ou moins local ou même hybride». 35 Per De Roberto (2017, 292), la Legenda aurea può essere qualificata addirittura, specialmente «nell’architettura complessiva e interfrasale», come «un testo volgare anche se scritto in latino»; cf. pure Cerullo (2017, 95). 36 Cf. TLIO s.v. correggia1. Notiamo che nell’Alessio le due occorrenze della parola corrispondono a lessemi diversi nella fonte latina: coreze dorade (v. 6) < zonis… aureis (Vita, §2); ’l mazo de la coreza (54) < rendam, id est caput baltei (Vita, §15) (cf. Wilhelm 2006). 37 Cf. TLIO s.v. canovaio: le attestazioni più antiche della parola risalgono a Pietro da Barsegapè (canavé) e, appunto, a Bonvesin; la sua diffusione lombarda e milanese è documentata da Marri (1977, 60–61). E cf. pure la voce canabārius del LEI, vol. 10, 546–548, che mostra una diffusione essenzialmente settentrionale e mediana della voce. 38 Cf. le varianti nell’apparato della Vidmanová-Schmidtová (1969).
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Elisa De Roberto
Raccontare il miracolo nel Medioevo italiano Aspetti pragmatici e testuali della letteratura miracolistica in volgare
Abstract: Starting from a corpus of miraculous stories in the vernacular, the present study aims to identify the linguistic specificities of medieval miraculous literature, paying particular attention to the pragmatic and textual strategies that contribute to the discursive construction of the miracle. The comparison between different texts and the analysis of Latin sources allows us to identify a series of recurrent features of the medieval miraculous tale, which is established as a solid and enduring tradition of discourse. Keywords: miraculous literature; narrative structures; historical pragmatics; discursive traditions
1 Il miracolo: genere o motivo? In un articolo intitolato Contributo allo studio della letteratura miracolistica, Valeria Bertolucci (1963) appuntava la propria attenzione sugli innegabili caratteri comuni che la letteratura miracolistica medievale presenta nel suo insieme e che ne denunciano l’appartenenza a una tradizione narrativa solida e duratura. Ricorrendo alla categoria di «letteratura tradizionale scritta» formulata da Menendez Pidal (1968, 11–58),1 la studiosa osservava come lo studio stilistico ed estetico delle opere di grandi narratori di miracoli della letteratura romanza medievale, come Gautier de Coinci, Gonzalo de Berceo e Alfonso el Sabio, dovesse necessariamente basarsi sulla valutazione complessiva dello sfondo comune, o «tradizionalità» del
1 Il concetto di tradizionalità consente di cogliere l’interazione di atti creativi individuali in un corpo sociale comune, grazie al quale si costruisce un sistema complessivo che supera la somma delle singole parti. Per un’analisi della categoria pindaliana cf. Lebsanft/Schrott (2015, 25–27), che ne evidenzia anche le implicazioni rispetto al cambiamento linguistico. Indirizzo di corrispondenza: Prof. Dr. Elisa De Roberto, Dipartimento di Studi Umanistici – Area Italianistica, Università Roma Tre, Via Ostiense 234, I-00146 Roma. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-003
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racconto miracolistico,2 e soltanto in un secondo momento rivolgersi all’analisi degli scarti individuali. Con l’espressione «sfondo comune» la studiosa non si riferiva soltanto alla ripresa di materiale narrativo, motivi e topoi esistenti, ma anche al ricorso a un tessuto retorico, vale a dire a «un piccolo sistema di artifici» linguistici e stilistici (Bertolucci 1963, 34), in cui rientrano le ripetizioni, l’iterazione sinonimica, gli strumenti della brevitas, l’uso di particolari coesivi interproposizionali. In àmbito letterario una riflessione sullo statuto del miracolo3 era già stata inaugurata da Jolles (1980) nel suo studio sulle forme semplici: nella visione dello studioso olandese il miracolo è considerato un ingrediente o un momento della leggenda.4 Studi successivi hanno invece individuato nel racconto miracolistico medievale un vero e proprio genere. Fondamentale in tal senso lo studio di Ebel (1965), che affronta direttamente la questione del rapporto tra miracolo e leggenda, confrontando il racconto di uno stesso evento miracoloso in due diversi testi in antico francese, la Vie de saint Edmond e il miracolo De l’enfant qui mist l’anel ou doit l’ymage (entrambi in versi e pressoché coevi). L’analisi di Ebel si sofferma in particolare sul diverso «innesco» del miracoloso: nella leggenda è il santo il protagonista della narrazione, mentre nel racconto miracolistico vero e proprio acquisiscono un maggior peso i beneficiari del miracolo, cioè il peccatore o il fedele devoto. In altre parole, secondo Ebel, la differenza tra i due generi è nella designazione dell’eroe, che nel miracolo non è tanto rappresentato dal santo quanto dall’uomo qualunque (per lo più anonimo), e nell’oggetto che si esorta a imitare (la vita del santo nella leggenda, la fede del devoto o la conversione del peccatore nel miracolo).5 A livello testuale queste differenze determinano la necessaria inserzione nel racconto miracolistico di sequenze descrittive, rivolte a fornire dettagli sul beneficiario del miracolo e a giustificare l’evento e la sua esemplarità.6
2 «Il tema stesso del miracolo, nella sua primitiva impostazione, contiene spesso istanze realistiche, delle quali alcune esplicite e molte latenti, che gli autori volgari ricevono nell’atto stesso in cui lo adottano e che sviluppano in modo più o meno ampio, inserendosi così legittimamente in quella tradizione narrativa e non già opponendosi ad essa, come si suole sottolineare, con insistenza ma a torto, in lavori di comparazione anche assai pregevoli» (Bertolucci 1963, 15). 3 La questione ha una sua rilevanza anche in àmbito teologico: a partire dai primi del Novecento infatti la teoria dei generi letterari diviene uno strumento d’analisi ricorrente nell’esegesi biblica. 4 Gioverà ricordare che la leggenda per Jolles coincide in larga parte con il racconto agiografico, o più in generale, con storie caratterizzate da una «forte individualizzazione e insistenza sul personaggio-modello» (Fonio 2016, 156). 5 L’imitazione può avvenire per antitesi: nei miracoli di punizione, per esempio, si individua un comportamento o una condizione da evitare. In tal senso il peccatore toccato dal miracolo costituisce un anti-modello. 6 Cf. Krömer (1979); Montoya (1981); Brea/Fidalgo (2000). Anche i contributi contenuti nel volume miscellaneo di Biaggini/Milland-Bove (2012), una delle più recenti pubblicazioni dedicate al
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Le analogie strutturali e tematiche che emergono dalle raccolte di miracoli medievali in area romanza sono molte, specialmente se ci si rivolge ai già citati grandi autori della letteratura gallo- e iberoromanza e alle loro sillogi di miracoli in versi, che rientrano peraltro nella categoria dei miracoli mariani, caratterizzati, come vedremo più avanti (cf. infra, §2.2), da una propria specificità performativa e anche narrativa. Tuttavia, la letteratura miracolistica si presenta in un ampio ventaglio di forme e contenitori, senza contare che la tipologia stessa del miracolo in molti casi influisce sulla struttura testuale e sulle strategie linguistiche impiegate per narrarlo. Va detto inoltre che la definizione del miracolo come genere letterario coinvolge la stessa concezione di genere e la minore o maggiore flessibilità con cui si intende tale nozione. In ogni caso, che si propenda nel vedere nel miraculum un vero e proprio genere o tipo discorsivo, o piuttosto nel considerarlo una sorta di tema o motivo, che può attualizzarsi tanto nella leggenda agiografica quanto in altri generi discorsivi, come gli atti di canonizzazione, i trattati dottrinali o – per arrivare ai giorni nostri – l’articolo di un rotocalco, è difficile non riconoscere l’esistenza di una quidditas del miracolo che ne condiziona il recit. Il tentativo di rintracciare uno schema comune ai racconti di miracoli è stato condotto soprattutto in una prospettiva strutturalista. Goodich (1996), per esempio, seguendo il modello offerto dall’analisi dei racconti folklorici, applica le categorie proppiane, osservando gli elementi di continuità e discontinuità che si innestano al livello delle strutture narrative. Lo studioso individua una struttura di base delle storie miracolistiche per poi soffermarsi sugli elementi di «degenerazione» dell’originale forma narrativa (come avviene per esempio quando nel tardo Medioevo il processo di canonizzazione influisce sulla struttura di altri testi). Secondo lo studioso questi sarebbero gli ingredienti del racconto miracolistico: (a) il connubio di mondano e divino come fondazione del miracolo espresso nel tema agiografico; (b) i personaggi (martiri, santi…) che interagiscono con un pubblico implicito o dichiarato; (c) la trama, che include un problema e una soluzione; (d) motivi agiografici «standard». Una tale struttura può accogliere eventi miracolosi anche molto diversi tra loro. Prescindendo dalla fondamentale distinzione tra miracolo in vita e post mortem, una tipologia del miracolo potrebbe infatti racchiudere almeno i seguenti tipi:7 miracolo nella letteratura medievale, si basano sul presupposto che il récit du miracle costituisca un genere capace di esercitare un potere modellizzante, come ben dimostrano le dinamiche di travaso, di riscrittura e rovesciamento in altri generi, cui può essere soggetto. 7 Cf. Boesch Gajano (1983).
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guarigioni (e miracoli accrescitivi, come la ricrescita di un arto amputato); punizioni; resurrezioni; esorcismi; potere su animali e agenti naturali; visioni; assunzione dei segni della Passione.
Naturalmente ognuna di queste fattispecie presenta ulteriori elementi di variazione. Un primo discrimine è rappresentato dalla personalità del santo o della divinità che compie il miracolo; allo stesso modo possiamo immaginare che raccontare un miracolo ex prece, cioè determinatosi grazie alla preghiera e alla conseguente intercessione della divinità, implichi il coinvolgimento di sequenze diverse rispetto alla narrazione di un miracolo ex potestate, che invece prevede che il miracolo scaturisca direttamente da qualcuno che ha la facoltà di compierlo. A prescindere dalla forma e dal genere del racconto, dalla tipologia del miracolo, dall’effetto che consegue e dalla sua risonanza, esiste un’essenza dell’evento miracoloso che consente di coglierne la specificità come oggetto discorsivo. Sostanzialmente il miracolo è un fatto inafferrabile per il comune raziocinio, in grado di sovvertire le leggi naturali e provvisto, presso un gruppo più o meno ampio di persone, del carattere di segno del divino.8 In quanto manifestazione controversa dell’esperienza, il miracolo pone alla collettività il problema della sua autenticità. Una tale definizione non si allontana troppo dalla concezione del miracolo che doveva avere l’uomo medievale. Già nell’opposizione tra mirabilia e miracula enunciata da Gervasio da Tilbury negli Otia imperalia il criterio distintivo è individuato proprio nel carattere divino del miracolo:9 Porro miracula dicimus usitatius que preter naturam divina virtuti ascribimus, ut cum virgo parit, cum Lazarus resurgit, cum lapsa membra reintegrantur. Mirabilia vero dicimus, quae nostrae cognitioni non subiacent, etiam cum sint naturalia (Gervasio da Tilbury, Otia imperalia, cit. in: Bartlett 2008, 17n).10
8 Proprio a quest’ultima componente dà rilievo Dierkens (1995, 11), secondo cui il miracolo andrebbe definito come «surgissement inopiné du divin dans le monde des hommes, ou comme intrusion du numineux, du numen, sur terre». 9 Sulle posizioni dell’autore degli Otia imperalia cf. Schmitt (1995, 109–110); Duchesne (1995). 10 Sulla differenziazione terminologica tra miracoloso, mirabile e magico (termine quest’ultimo collegato al diabolico) cf. Le Goff (1985, 17–39). Sulle teorie medievali del miracoloso cf. Sigal (1985); Vauchez (1989); Ward (1992), che considera i miracoli nella mentalità medievale; Rothmann (2002).
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Se la costante di ogni riflessione sul miracoloso è la ridefinizione del rapporto tra verità e realtà, sembra cogliere nel segno Gilbert Dragon quando afferma che le miracle est affaire de croyance et de foi, mais aussi de verité: signe, il est porteur d’un sens; trouble momentané de la trame temporelle, intervention imprévisibile d’une volonté divine, il défie l’ordre supposé des causes et des effets (Dragon 2011, 139).
Il miracolo è dunque qualcosa che emana direttamente da Dio, manifestazione della potenza divina, ma è anche un segno che sostituisce qualcos’altro ed è latore di un senso. Il miracolo-segno è anche una costruzione sociale e culturale che, come afferma Boesch Gajano (2000, 224), si realizza attraverso tre processi: l’esperienza, la memoria e il riconoscimento. Questi tre elementi si lasciano compiutamente rintracciare nel discorso, nel racconto. Si potrebbe dire che il miracolo (come referente extralinguistico) si basa sull’indissolubile legame tra dimensione evenemenziale (quindi l’evento) e la dimensione narrativa (il racconto) o, per essere più precisi, la dimensione enunciativa: il miracolo deve essere costruito discorsivamente, altrimenti rimane un semplice fatto. E il discorso si concretizza, anche, attraverso la lingua. Questo fondamento discorsivo accomuna il miracolo ai fatti storici: [le miracle] prend place dans l’espace et dans le temps, n’a pas d’autre langage que celui du récit et du constat. Celui qui traite du miracle ne peut jamais que raconter où, comment et pourquoi s’est produit un phénomène extraordinaire où l’on doit reconnaitre une volonté de Dieu (Dragon 2011, 140).
In tal senso il miracolo non è solo un fatto di credenza e fede, ma pone un problema epistemologico all’intera comunità, perché prospetta l’esistenza di un’altra dimensione del reale, di un altro ordine, di un’altra legge. È in tale radicamento del miracolo nella società che la letteratura sui miracoli si oppone al discorso mistico o teologico, più orientati a sottolineare la trascendenza del divino. In quanto segni che devono essere riconosciuti e ricordati, i miracoli sono sì elementi che partecipano alla costruzione di un discorso, tipicamente quello agiografico, ma a loro volta sono fenomeni discorsivamente costruiti: per usare le parole di Canetti (2004, 120), «un miracolo è sempre un miracolo raccontato». Attraverso la sua rappresentazione verbale passa anche l’affermazione del suo status di avvenimento che emana dalla volontà divina. In tal senso possiamo considerare il miracolo come una forma prototipica di narrazione: l’intrusione del divino diventa signum se è inserita in un intreccio umano e dunque se è calata in una storia. Di particolare interesse, per il linguista, è dunque capire in che modo si realizzano linguisticamente quella memoria e quel riconoscimento che fondano il miracoloso, individuando in particolare le strategie linguistiche coinvolte nella
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costruzione discorsiva del miracolo. Tra queste operazioni, come si spiegherà meglio infra (§3), rientrano le strategie di designazione e di categorizzazione (in che modo il miracolo è prospettato come tale?), le formule evidenziali (qual è la base del racconto e di ogni sua singola asserzione, quali le fonti da cui è tratto?), alla dimensione patemica (quali sono le emozioni associate al miracolo), ma importante è anche l’analisi della dimensione spazio-temporale e l’eventuale presenza di movenze che esulano dalla pura narrazione per persuadere il destinatario o per veicolare un determinato messaggio dottrinale. L’analisi che si propone di séguito è anche il tentativo di individuare a livello linguistico – o meglio a livello delle strategie linguistiche che sono il riflesso di determinate operazioni discorsivo-cognitive –11 quegli aspetti comuni la cui coerente fisionomia concorre a definire la letteratura miracolistica medievale come una tradizione discorsiva solida e duratura.
2 Il corpus Uno studio formale della letteratura miracolistica in volgare di epoca medievale deve confrontarsi in primo luogo con la pratica del volgarizzare: proprio i volgarizzamenti hanno infatti avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo di una letteratura miracolistica italiana ed europea, basata su un patrimonio miracolistico comune che inizia a definirsi intorno al VI secolo nella letteratura mediolatina. Nell’allestimento del corpus più adatto a un’analisi linguistica delle narrazioni miracolistiche si è cercato di selezionare i testi in cui il miracolo rappresentasse la parte centrale, il «protagonista» dell’opera: nell’àmbito delle varie macro-tipologie in cui si articola la letteratura agiografica (vitae, miracula e translationes)12 un’attenzione particolare è stata rivolta quindi alle raccolte di miracoli. La scelta è dunque caduta sui volgarizzamenti dei Dialogi di Gregorio Magno e sulle raccolte dei miracoli della Vergine: sillogi in cui il racconto miracolistico è innanzi tutto unità autonoma, e in seconda battuta parte di un disegno testuale
11 Per operazioni discorsivo-cognitive si intende qui l’insieme dei processi che permette all’individuo di pensare innanzitutto all’evento miracolo, di concepirlo come tale, di porlo in relazione con altri aspetti dell’esperienza e infine di comunicarlo, non soltanto attraverso l’impiego di determinate abilità linguistiche, ma anche mediante il ricorso a determinate forme di discorso. Sul concetto di operazione cognitivo-discorsiva e sulla cognitive discourse analysis (quadro teorico in cui il concetto appare ampiamente sfruttato), cf. Kintsch/van Dijk (1978). 12 Sui macrogeneri della letteratura agiografica cf. Delehaye (1983); Leonardi (1993).
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complessivo, il cui grado di elaborazione (e di complessità dottrinale) varia a seconda dell’opera considerata. Non sono stati considerati in questa occasione la Legenda aurea e i miracoli presenti nella tradizione delle Vitae Patrum: in entrambi i casi le singole unità narrative sono più orientate alla biografia agiografica nel suo complesso (e dunque riconducibili al genere della vita). Allo stesso modo si sono tralasciati i racconti miracolistici impiegati nel genere omiletico con funzione di exemplum, che per altro costituiscono un materiale quantitativamente molto ingente. Infine, non è stato possibile considerare i testi relativi a processi di canonizzazione, produzione in cui il latino mantiene un primato indiscusso rispetto al volgare: solo dal XVI secolo in poi infatti assumono una qualche consistenza gli atti processuali in volgare. In quanto «ubiquitous feature of medieval Christian culture» e «shared experience» (Yarrow 2006, 1, 3), la memoria di eventi miracolosi travalica la letteratura agiografica e religiosa divenendo oggetto di riflessione e di narrazione anche in testi di natura «profana» o non primariamente orientati al trattamento di questioni religiose. Sarebbe opportuno dunque estendere l’analisi non solo alle tipologie testuali appena ricordate, ma anche ad altre tradizioni discorsive. Ne sono la riprova i primi risultati emersi da una breve incursione nelle narrazioni miracolistiche presenti in due cronache in volgare «originali» (§7): quella di Dino Compagni e di Giovanni Villani.
2.1 I Dialogi gregoriani e i volgarizzamenti italoromanzi All’origine della letteratura miracolistica vi è un processo di progressivo affrancamento del miracolo dalla vita del santo. Come osservato da Brea/Fidalgo (2000), con l’affermarsi del modello del santo confessore e del santo eremita, i segni della virtus cambiano fisionomia: se i martiri esprimevano la loro santità subendo torture di ogni tipo e votandosi alla morte in nome del Dio cristiano, dopo l’editto di Milano non è più la morte cruenta a «fare il santo», ma l’intero corso della sua vita. La trasformazione dei modelli di santità si ripercuote sui generi testuali: accanto agli atti della passione si diffondono le vitae. Contestualmente assumono un peso sempre maggiore le azioni straordinarie e inspiegabili compiute dal santo, in vita e dopo la sua morte, chiari segni del suo stato di grazia e della sua funzione di intermediario divino. Dal VI secolo d.C. il miracolo inizia ad assumere una propria autonomia: Venanzio Fortunato articola la Vita di s. Ilario di Poiters in due parti, la prima di taglio biografico, la seconda riservata alla relazione dei suoi miracoli, mentre Gregorio di Tours elabora i Liber miraculorum, inaugurando un genere (la silloge di miracoli) che riscuoterà ampio successo in
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epoca medievale.13 Nel solco di tale tradizione si collocano anche i Dialogorum libri iv di Gregorio Magno (593–594; in sigla: DGM), un’opera che alterna narrazioni e un fitto dialogo tra Gregorio stesso e il segretario Pietro.14 Gregorio Magno sfrutta le narrazioni di miracoli a fine esemplare, intendendo non solo costruire un canone di santi italiani, ma anche sottolineare l’importanza della santità interiore (la virtù intima), che non necessariamente si compie attraverso prodigi. Nel capitolo xii del libro i Gregorio chiarisce la sua visione, affermando che è miracolo più grande convertire un peccatore con la parola della predicazione e con la forza della preghiera, che resuscitare il corpo di un morto. Alla fine del libro i a Pietro che chiede ragguagli sulla scarsità di santi «moderni», Gregorio risponde che sono molti gli uomini santi loro contemporanei, ma che non sempre se ne vedono i segni, perché: Vitae namque vera aestimatio in virtute est operum, non in ostensione signorum. Nam sunt plerique, qui etsi signa non faciunt, signa tamen facientibus dispares non sunt (DGM, i, xii).15
Di fronte allo stupore di Pietro, Gregorio ricorre all’esempio di Pietro e Paolo, entrambi di pari virtù e valore nel regno dei cieli, anche se solo uno dei due (Pietro) riuscì miracolosamente, camminando sulle acque, a varcare il mare, mentre la nave di Paolo naufragò. A questo punto l’interlocutore di Gregorio Magno è convinto, ma comunque domanda di poter ascoltare altri racconti di miracoli perché, se è vero che bisogna chiedere una santa condotta di vita e non «segni», tuttavia i miracoli sono testimonianza di santità: Placet, fateor, omnino quod dicis: ecce enim aperte novi, quia vita et non signa quaerenda sunt. Sed quoniam ipsa signa quae fiunt, bonae vitae testimonium ferunt, quaeso te adhuc si qua sunt referas, ut esurientem me per exempla bonorum pascas (DGM i, xii; corsivo mio, qui e oltre).
La narrazione gregoriana è funzionale alla trasmissione degli insegnamenti cristiani e alla testimonianza della potenza divina. Le tante figure di santi che attraversano il libro spiccano più per la loro funzione intercessoria che non nella loro individualità; un’eccezione è rappresentata da personalità illustri come san Benedetto (cui è dedicato l’intero libro ii). L’interesse di Gregorio non è mai però 13 Si pensi ai numerosi libelli prodotti per promuovere determinati luoghi di culto o a compilazioni come il Dialogus magnus visionum et miraculorum e i Libri viii miraculorum di Cesario di Heisterbach. Sui libelli miraculorum altomedievali cf. Delehaye (1910; 1925). 14 Le motivazioni dell’opera sono esplicitate da Gregorio Magno in una lettera del luglio del 593 indirizzata a Massimiano, vescovo di Siracusa. 15 Cit. dall’ed. Moricca (1924).
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la connotazione biografica, come rileva Boesch Gajano (2000), ma l’esposizione di singole virtù, singole azioni, singoli miracoli.16 Da questa grande opera, che ebbe una diffusione paneuropea, discendono diversi volgarizzamenti in volgari italoromanzi, la maggior parte dei quali noti grazie alla ricognizione di Dufner (1958).17 Risultano editi il volgarizzamento siciliano, il Libru de lu Dialagu de sanctu Gregoriu del minorita Giovanni Campulu, databile tra il 1302 e il 1321;18 la traduzione di Domenico Cavalca,19 probabilmente elaborata tra il 1320 e il 1330; il ligure Dialogo de Sam Gregorio composito in vorgà. Altri volgarizzamenti, tuttora inediti, dimostrano l’ampia circolazione dei Dialogi in diverse aree: esiste infatti una versione padovana del XV secolo, una versione toscana databile al 1390 e una versione veronese della seconda metà del Trecento. Ai volgarizzamenti segnalati dal Dufner e indicati nella BAI, possiamo aggiungere il volgarizzamento di area mediana conservato nel codice I.V.28 della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, descritto da Cerullo (2016). Siamo di fronte a una tradizione piuttosto complessa in cui traduzione verticale e traduzione orizzontale si intersecano,20 tanto da rendere difficile dire con sicurezza quante siano le traduzioni del testo gregoriano: il testo ligure è di fatto una copia del volgarizzamento del Cavalca, anche se dal punto di vista linguistico «rifonda una propria autonomia» (Porro 1979, 13). Va sicuramente considerata copia del volgarizzamento di Cavalca la versione umbra dei Dialogi (Antonelli, 2011–2015) risalente al 1468, mentre poco si può dire, in assenza di studi specifici, sulle versioni toscana, veronese e padovana. Indipendente per forma e contenuto dal testo cavalchiano (anche perché precedente probabilmente sul piano temporale) è invece il volgarizzamento siciliano di Giovanni Campolo, che opta per una riscrittura del testo latino programmaticamente volta ad appianarne la complessità e a chiarirne il significato. L’opera, sostenuta da un preciso orientamento didattico, è rivolta alla regina Eleonora d’Angiò, al tempo stesso dedicataria e
16 Ulteriori considerazioni sull’opera sono svolte da Vitale Brovarone (1974; 1975). 17 Per la tradizione in volgare dei Dialogi rimando al volume curato da Chiesa (2006), e in particolare al saggio di Cremascoli (2006). Cf. poi il contributo di Verlato (2017) per quel che riguarda le traduzioni italiane. 18 Per la datazione, che potrebbe anche essere ristretta al 1310–1315, cf. Bruni (1980, 286); Barcellona (2013, 20). 19 In mancanza di un’edizione critica, ci si è avvalsi dell’edizione ottocentesca curata da Baudi di Vesme (cf. infra, n. 27). Sulla figura di Cavalca traduttore cf. Delcorno (2017) e, per quanto riguarda la traduzione cavalchiana dei Dialogi, Verlato (2017, 208–218). 20 Sulla distinzione cf. Folena (21991, 12–13).
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committente.21 Il volgarizzamento del Campolo sarebbe infatti una risposta alle sollecitazioni che Arnaldo da Villanova, proprio in quegli anni caratterizzati da una decisa apertura della corte di Federico III d’Aragona alle idee riformistiche e pauperistiche del predicatore catalano, aveva indirizzato a Eleonora, esortandola a organizzare «riunioni, quasi cenacoli di formazione-informazione religiosa, nella propria casa durante le domeniche e nei giorni di festa, con le figlie e la sua cerchia, per proporre la lettura comune di libri sacri in volgare, in sostituzione dei testi profani e di ogni altra fonte di vanità» (Barcellona 2013, 53). La traduzione del Campolo sarebbe per l’appunto uno di questi libri sacri da leggersi a edificazione della corte siciliana.
2.2 Le sillogi mariane L’altra grande produzione miracolistica che si è deciso di considerare ai fini del presente studio sono i «miracoli della Vergine», categoria che comprende numerose sillogi, caratterizzate da una tradizione intricatissima, che sarebbe arduo riassumere e sistematizzare. Siamo in presenza infatti di raccolte diffuse in tutte le letterature europee, in latino e negli altri volgari, e sottoposte a un’incessante opera di riscrittura (in prosa e in versi) e a una costante attualizzazione.22 Il fiorire delle collezioni di miracoli, particolarmente intenso tra XII e XIII sec. nella società occidentale,23 è il risultato dell’inclusione della Vergine nel canone agiografico, ma anche dell’affermarsi della figura di Maria come Mater Dolorosa e Mater Misericordiae,24 non solo madre di Cristo dunque, ma anche dell’intera umanità (González Martínez 2014). Rimandando agli studi di Mussafia (1886–1898), alle panoramiche di Levi (1917) e di Ward (1992) sulla diffusione dei racconti di miracoli mariani, mette conto qui evidenziare come racconti miracolistici mariani di origine occidentale si diffondano soprattutto a partire dal IX secolo, specialmente in relazione all’emergere di nuovi luoghi di culto. Nella pro21 Sul lavoro di integrazione-interpretazione del testo svolto dal Campolo cf. Barcellona (2013, 17) e la bibliografia ivi citata. 22 Il Mariale magnum deriverebbe da un Ur Mariale proveniente da Clairvaux, che sarebbe anche la fonte dello Speculum historiale. Un altro testo fondativo del genere sembra essere anche il Liber beate Marie de Prato (da Beaupré). 23 A prescindere dalla produzione italiana, si pensi ai già citati Milagros de Nuestra Señora di Gonzalo de Berceo, ai Miracles de Nostre Dame di Gautier de Coinci e alle Cantigas de Santa Maria di Alfonso el Sabio. Per le raccolte di miracoli mariani nelle lingue romanze cf. Spangenberg (1987). 24 Più antica e consolidata è la tradizione dei miracoli mariani nella cristianità bizantina, che del resto circolano precocemente in tutti i territori cristiani. Cf. Beaussart (2005).
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mozione, nella diffusione e nella volgarizzazione di questi racconti, fondamentale fu l’opera degli ordini monastici (cluniacense e cistercense, in particolare) e più tardi degli ordini mendicanti, che ne curarono in particolare la traduzione negli idiomi volgari. Nel corso di un tale processo i racconti miracolistici mariani sembrano progressivamente sottrarsi alla leggenda per farsi unità letteraria dotata di uno schema abbastanza prevedibile. Secondo Kunstmann (1981) tale schema sarebbe costituito da cinque tappe: (a) situazione iniziale di equilibrio; (b) un’azione contro l’ordine stabilito (per infrazione, per un patto con il diavolo, per un grave peccato); (c) condizione di debolezza spirituale o fisica; (d) intervento di Maria per aiutare un peccatore o un devoto; (e) ritorno all’equilibrio e rafforzamento dell’alleanza iniziale. Il miracolo mariano sembra dunque presentare una propria fisionomia, dovuta anche al predominio della funzione laudatio sulla funzione imitatio (che sarebbe invece tipica dei miracoli riferiti a santi). Per quel che riguarda i miracoli in prosa, il Levi individuò in area italiana all’incirca una settantina di codici manoscritti e a stampa. Ogni silloge riporta racconti miracolistici attestati nelle grandi raccolte di exempla e di miracula latini, che a loro volta raccoglierebbero spunti narrativi già presenti in quel Mariale magnum prodotto a Clairvaux, il testo più antico e autorevole di questo genere (oggi disperso). Ma i mariali italiani risentirebbero anche di altri modelli latini come il codice Thott 128 conservato presso la Biblioteca Reale di Copenaghen (cf. Carrera de la Red/Carrera de la Red 2000), i Libri miraculorum di Gregorio di Tours, il De laude Sanctae Mariae di Guibert de Nogent, il Libellus de miraculis Beatae Mariae Virginis in urbe Suessionensi di Hugo Farsitus, i Miraculi di Nigel di Canterbury, il Tractatus de diversi materiis predicabilibus di Stefano di Borbone, lo Speculum historiale di Vincent de Beauvais (cf. Tarayre 1999).25 Tra i più significativi esemplari italiani di raccolta di miracoli, il Libro dei cinquanta miracoli della Vergine – edito dal Levi secondo il codice conservato alla Biblioteca Nazionale Francese, lat., n.a., 503 – presenta un prologo e distribuisce le cinquanta novelle in cinque parti, ognuna delle quali prende avvio da una lettera del nome di Maria e dagli epiteti a lei associati (Memoraris, Aydatrix, Remuneratrix, Illuminatrix, Advocata): 25 Molto utile per individuare la diffusione di un miracolo nelle maggiori raccolte di exempla e miracoli è la banca dati Thesaurus Exemplorum Medii Aevi (ThEMA), concepita ed elaborata nell’àmbito del Gahom (Groupe d’Anthropologie Historique de l’Occident Médiéval), consultabile all’indirizzo di rete ‹http://gahom.huma-num.fr/thema/›.
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La prima parte de questo libro à començamento da la biada virgine Maria, unde chi vol parlare d’essa comença dal so glorioso nome, in lo qual sono cinque letre. La prima sì è .M., la segonda .a., la terza .r., la quarta .i., la quinta .a.; per le qual cinque letre nuy posemo intender cinque prerogative, le qual ave in sì la biada vergene Maria (Cinquanta, p. 1).
I cinquanta racconti sono caratterizzati da un’istanza agiografica piuttosto ridotta: la Vergine infatti compare come colei che interviene a punire un peccatore, a ricompensare un fedele o a convertire un miscredente. L’evento miracoloso è in genere istantaneo e immediato. Il tutto appare molto meccanico: i vari personaggi si succedono come in uno di quei carillon à figures posti sui campanili delle chiese. Nel corpus sono stati considerati altri due prodotti piuttosto simili. Uno è il cosiddetto Libro del cavaliere, edito da Misciattelli secondo l’edizione del 1524 (Venezia, Ioanne Tacuino da Trino), anche se si contano vari incunaboli (a partire da quello pubblicato da Filippo Lavagna a Milano nel 1474). Il testo cinquecentesco, di area veneta, costituisce la vulgata dei miracoli. L’altra silloge inclusa nel corpus è un mariale del XV secolo, tràdito da un incunabolo stampato a Cosenza nel 1478 per i tipi di Ottaviano Salomonio di Manfredonia. L’opera reca nell’incipit il riferimento a un committente milanese: i miracoli infatti sarebbero stati «scritti e radunati per lo beato san Bernardo ad contemplacioni et instancia de uno gentilomo milanesi devotu de la Virgine Maria». Secondo l’editrice il gentiluomo milanese sarebbe da identificare con Francesco Simonetta (detto Cicco, 1410–1480 ca.), originario di Caccuri e amministratore dei territori sforzeschi in Calabria. Dal 1449 in poi il Simonetta, autore anche di un manuale di decrittografia (Regule ad extrahendum litteras ziferatas sine exemplo), si trasferisce al Nord per assumere la carica nel 1477 di primo ministro del Ducato di Milano. Non sarebbe errato pensare che l’opera sia stata fatta tradurre da un testo latino o assemblare, secondo il ben rodato processo di cucitura che caratterizza la letteratura miracolistica mariana,26 proprio dal Simonetta, che l’avrebbe poi fatta giungere ai conterranei calabresi.27
26 Emblematica è la sottoscrizione del ms. Barberiniano latino 4032, altra importante silloge di miracoli mariani confezionata dal pisano Duccio Gano nel XIV secolo: «Qui cominciano alquanti miracoli della gloriosa vergine Maria, gli quali Duccio di Gano da Pisa ha tratto di più volumi e messoli insieme in questo libro in più tempo nella ciptà di Firenze a sua laude e a sua riverentia» (Levi 1917, lxxix). 27 Si fornisce di séguito l’elenco dei testi compresi nel corpus, con l’indicazione delle sigle e dell’edizione di riferimento: Cavaliere = Miracoli della gloriosa Vergine Maria, ed. Misciatelli, Piero, Milano, Treves, 1924 [per Ioanne Tacuino da Trino, Venezia, 1524]; Cinquanta = Il libro dei cinquanta miracoli della Vergine, ed. Levi, Ezio, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1917 [Parigi, BNF, lat., n.a., 503]; Compagni = Dino Compagni, Cronica. Introduzione e commento
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3 Designazione e categorizzazione dell’evento Il primo aspetto rilevante nelle narrazioni miracolistiche riguarda un fenomeno lessicale, che concerne la struttura del testo e più precisamente la costruzione della referenza, cioè di quel fenomeno con cui si mettono in relazione i referenti extralinguistici con i segni linguistici. Tale operazione si compone di due operazioni: la categorizzazione e la designazione lessicale.28 Si tratta dunque di capire come avviene la referenziazione e in quale punto del testo.29 Com’è naturale aspettarsi, frequentissimo è l’uso del nome miracolo30 e dei lessemi collegati miracoloso e miracolosamente (circa un centinaio le occorrenze trovate nei Dialoghi di s. Gregorio volgarizzati dal Cavalca). Molto frequenti sono anche i termini virtù, meraviglia, segno, prodigi, grazie, tutti termini assestatisi nel vocabolario cristiano come sinonimi di miracolo. Pare interessante in particolare l’evoluzione semantica toccata al campo lessicale della parola virtù/virtus, che inizialmente indicava i poteri della salma del santo (l’incorruttibilità, l’effusio, l’effetto taumaturgico) e che ha poi ampliato il proprio significato sino a comprendere «l’insieme dei poteri e dei doni straordinari che Dio aveva graziosamente elargito fin da questa vita terrena ai suoi servi» (Vauchez 1989, 435–436). Non è raro, nella fonte come nei volgarizzamenti, che i termini sinora visti ricorrano in coppia: «Mirabil cosa e gran virtù fu questa» (DiaCavalca, iii, xxxvii, p. 210), «signi e miraculi» (DiaCampu, i, ii, p. 10), «gram segni e gram proa» (DiaLigure, iii, ii, p. 171), «tanti segni e miracoli» (DiaCavalca, i, ii, p. 17; ii, xxxiv, p. 110; iv, xiv, p. 245). A livello sintattico la costruzione della referenza e la categorizzazione lessicale sfruttano i lessemi appena elencati in funzione anaforica riassuntiva. Nei
di Davide Cappi, Roma, Carocci, 2013; DiaCampu = Iohanni Campulu, Libru de lu dialagu di sanctu Gregoriu. Volgarizzamento siciliano del sec. XIV. Edizione critica con Introduzione e Glossario, ed. Panvini, Bruno, 21989 [11984]; DiaCavalca = Domenico Cavalca, Dialogo di Santo Gregorio. Testo di lingua ridotto alla vera lezione da Carlo Baudi di Vesme, Torino, Stamperia Reale, 1851; DiaLigure = Dialogo de Sam Gregorio composito in vorgà, ed. Porro, Marzio, Firenze, Accademia della Crusca, 1979; Mariale = Le miracoli de la biata Virgine Maria. Un Mariale del secolo XV, ed. Andricciola, Enza, Catanzaro, Rubbettino, 2005 [ed. secondo l’incunabolo edito da Ottaviano Salominio di Manfredonia a Cosenza nel 1478]; Villani, NC = Giovanni Villani, Nuova Cronica, ed. Porta, Giovanni, Fondazione Pietro Bembo/Guanda, Parma, 1991. 28 La categorizzazione consiste nel riferirsi a oggetti ed eventi eterogenei come a una classe; la designazione nel riferire a tale categoria o classe un nome: «la categorizzazione è condizione della nominabilità del parlare» (Formigari 2001, 70). 29 Sembra opportuno precisare che l’analisi si concentrerà in un primo momento sui Dialogi di Gregorio e sui suoi volgarizzamenti, per poi stabilire similarità e scarti rispetto alle raccolte di miracoli mariani. 30 Dal latino miracŭlum ‘meraviglia, prodigio’, da mirāri ‘meravigliarsi’. Cf. GDLI s.v. miracolo.
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volgarizzamenti dei Dialogi appare particolarmente impiegata la coniunctio relativa31 (o la sequenza di dimostrativo + nome): (1) Quo viso miraculo cumpuncta mater, ipsa jam coepit agere ut daret, qui sic celeriter posset quae petiisset accipere (DGM, i, ix). Il quale miracolo vedendo la madre molto compunta cominciollo a sollecitare, che largamente dovesse dare per Dio (DiaCavalca, i, ix, p. 46). Lo quar miracolo vegando, la maire conpunita començàlo a solicitar che largamenti devese dar per Dee (DiaLigure, i, ix, p. 99). Videndu la matrj chistu miraculu, ringraciu Deu, et dede licencia allu figlu de darj allj poverj zo chi li plachissj (DiaCampu, i, ix, p. 27). (2) in virtute scilicet miraculi exemplum tenens Magistri, qui invitatus ad filium reguli, eum solo verbo restituit saluti (DGM, i, iv). Nel qual miracolo Equizio tenne l’esemplo del suo maestro Cristo, il quale invitato al figliolo del regolo, con la sola parola gli rendette sanitade (DiaCavalca, i, iv, p. 21). In lo qua miracolo Equicio tene exemplo da lo so maistro Cristo, lo qua demandao a lo figlo de Regulo, cum xura la parola li rendé sanitae (DiaLigure, i, iv, p. 84). e [il monaco] trovao la monaca sana e salva […] Et mecte uno exemplo sancto Gregorio, che secundo che nostro Signore Jhesu Xristo disse ad unu regulu che suo fillo era sanato stando lontano da jpso, in tale maynera chisto sancto patre annunciau como chella monaca era sanata (DiaCampu, i, iv, 23, p. 25). Notevoli sono le strutture cataforiche, che anticipano la natura miracolosa di quel che si sta per raccontare: (3) Quidam namque in eadem provincia, Martyrius nomine, devotus valde omnipotentis Dei famulus exstitit, qui hoc de virtutis suae testimonio signum dedit (DGM, i, xi). In quella provincia di Valeria fu un divoto servo di Dio, ch’ ebbe nome Martirio, lo quale diede, e mostrò questo segno della sua virtù (DiaCavalca, i, xi, p. 55).
31 In ogni esempio relativo alla tradizione dei Dialogi di Gregorio Magno, qui e di séguito, si riporta l’originale latino e i passi corrispondenti nei tre testi in volgare che fanno parte del corpus.
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In quela provincia de Valeria fu un servo de Dee chi ave nome Martim (per), lo qua demostrà questo segno de la sua vertue (DiaLigure, i, xi, 1, p. 105). Ricunta ancora sanctu Gregoriu chi in kylla provincia de Vaaleria unu sirvituri e divotu de Deu, ky avìa nome Martinu, sì dedi tali testimoniu de sua virtuti (DiaCampu, i, xi, 1, p. 62). Come si vede, anche il Campolo adotta la stessa strategia, optando però per il lessema testimonio. In (4) la designazione cataforica si lega all’uso di una dichiarativa (o costrutto epesegetico):32 (4) Vir quoque vitae venerabilis Cerbonius Populonii episcopus, magnam diebus nostris sanctitatis suae probationem dedit. Nam cum hospitalitatis studio valde esset intentus (DGM, iii, i). Lo venerabile Cerbone vescovo di Populonía diede e mostrò gran segno, e gran prova della sua santità, ch’essendo egli molto inteso e sollecito allo studio dell’ospitalide […] un giorno ricevette ad albergo (DiaCavalca, iii, xi, p. 156). Lo verenaber Cerbum vesco de Populogna a li soi dì mostrà gram segni e gram proa de la sua santitae. Ché, seando ello monte inteiso a lo studio de l’ospitalitae […] un iorno recevé ad albergo (DiaLigure, iii, xi, p. 171). Ricunta ancora sanctu Gregoriu ki fo unu episcupu de una terra ki se chamava Populoni – et è kista terra in Tuscana appressu Chumbinu –; lu episcopu se chamava Cerboniu, e Deu monstrau unu grande miraculu per prova de sua sanctitate. Kistu episcupu sì era multu studiosu de allibergare pirsuni strayneri ki passavanu (DiaCampu, iii, xi, p. 87). Si osserva qui un piccolo elemento di variazione nel testo del Cavalca rispetto alla fonte. Il connettivo dimostrativo/consecutivo/esplicativo nam ‘infatti’ è reso con un che, il quale rinforza il rapporto tra il nome gran segno e l’episodio narrato, realizzando una struttura a dittico correlativo «reggente + dichiarativa». Il testo ligure segue il volgarizzamento cavalchiano: sarebbe dunque opportuno sostituire al ché messo a testo nell’edizione del volgarizzamento ligure il semplice che, optando per un segno di interpunzione debole in luogo del punto fermo (in linea con la scelta operata dall’editore in un altro passo: cf. il passo n° 6). Il volgarizzamento
32 Per tale costrutto cf. De Roberto (2010) e la bibliografia ivi citata.
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siciliano slega invece la designazione cataforica dal racconto del miracolo, giustapponendo le due proposizioni. Analoga la dinamica traduttiva che troviamo nel caso riportato al n° (5): il connettivo esplicativo/dimostrativo del latino (nam) è sostituito da una sequenza di «reggente + dichiarativa» nel volgarizzamento cavalchiano e in quello ligure, mentre il testo siciliano ricorre nuovamente a una strategia giustappositiva. Va evidenziato inoltre il comune impiego del complemento partitivo fra gli altri miracoli, assente nell’originale latino: l’innovazione potrebbe essersi originata nella tradizione del testo gregoriano, ma potrebbe anche trattarsi di un intervento autonomo dei volgarizzatori, dal momento che si tratta di una semplice ripresa lessicale di un sintagma dell’enunciato precedente: (5) Ibi itaque prophetiae spiritu magnisque miraculis cunctis longe lateque habitantibus vita ejus inclaruit. Nam die quadam ad vesperum in hortum monasterii fecit jactari ferramenta, quae usitato nos nomine vangas vocamus (DGM, iii, xiv). egli [Isaac] avea spirito di profezia e faceva molti miracoli. E fra gli altri miracoli fece questo bellissimo: che una sera chiamò li suoi discepoli, e comandò a loro che (DiaCavalca, iii, 14, p. 150). elo avea spirito de prophecia e fava monti miracoli. E infra li atri miracoli fé questo belissimo: che una seria iamà li soi discepoli (DiaLigure, iii, xiv, p. 175). accomençau chistu ysaac ad essere famuso per fine a llontane parti, de spiritu de proficia e de multi altri miraculi. Jntra li autri miraculi, uno junro comandao chisto patre sancto (DiaCampu, iii, xiv, p. 92). In altri casi l’uso di costruzioni dichiarative o epesegetiche si riscontra già nei Dialogi di Gregorio Magno ed è riproposto dal Cavalca e dall’anonimo ligure (che del resto proprio dal volgarizzamento cavalchiano copiava). In (6), per esempio, il costrutto dichiarativo ricalca la soluzione adottata dal testo fonte, in cui la dichiarativa dipende da mira res contingit. Le sequenze «N + verbo di evento + dichiarativa» si caratterizzano come «formule di regia narrativa», tipiche anche delle fiabe33 e delle narrazioni orali: da una parte hanno una funzione designante, dall’altra preannunciano che si sta per narrare un miracolo, un fatto importante, attirando così l’attenzione del destinatario. Occorre notare che il costrutto non introduce – come ci aspetteremmo – il miracolo vero e proprio, ma piuttosto avvia la narrazione riportando l’antefatto del miracolo: la presenza di un monaco 33 Cf. per esempio Lavinio (1993, 217).
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che non voleva sopravvivere ad Anastasio più di una settimana (nel prosieguo del racconto si spiega che il settimo giorno anche il monaco così affezionato ad Anastasio passa a miglior vita). Il passo è formulato altrimenti da Campolo, che elimina l’annuncio del miracolo, esponendo semplicemente il fatto: (6) Sed mira res contigit, quia venerabilis vir Anastasius dum de corpore exiret, erat quidam frater in monasterio qui super cum vivere nolebat (DGM, i, viii). Ma grande maraviglia avvenne, che uscendo l’anima del venerabile Anastagio del corpo, era nel monastero un frate che non voleva rimanere dopo di lui (DiaCavalca, i, viii, p. 39). Ma gram maravegla adevene che insando lo venerabel Anastaxio de lo corpo, era un frai in lo monester chi non volea remanei’ depoi a ello (DiaLigure, i, viii, p. 93). Venendo a morti chillu patri sanctu Anastasiu, unu fratri era in lu monasteriu, ky non vulia vivere, poy ky Anastasiu moria (DiaCampu, i, viii, p. 21). Finora si sono riportati esempi in cui l’atto di referenziazione e di designazione lessicale avviene nel discorso di Gregorio, autore, narratore e io narrante al tempo stesso. Significativa è anche la tendenza a costruire dialogicamente la referenza. In vari casi è Pietro a qualificare quel che ha appena sentito come un miracolo: (7) Petrus: Quidnam hoc esse dicimus? virtutem tanti miraculi Honorati egit meritum, an petitio Libertini? Gregorius: In ostensione tam admirabilis signi cum fide feminae virtus convenit utrorumque (DGM, i, ii). Pietro – Questa virtù di sì gran miracolo chi ti pare, che la facesse o il merito di Onorato, o l’orazione di Libertino? Gregorio – In questo così gran miracolo con la Fede della femmina credo, che convenisse insieme la virtù di ciascuno (DiaCavalca, i, ii, p. 17). Pero: Questa vertue de così gram miraco chi te par che feise, o lo merito de Honorao, o l’oratium de Libertim? Gregorius: In questo così gran miraco cum la fe’ de la femena creo che se convenise inseme a la vertue de cascun (DiaLigure, i, ii, 25, p. 79). Pietro sì fa una questione ad sancto Gregorio, et è la questione se chisto miraculo de resuscitare chisto iovene fo facto per li meriti de sancto Unurato, però ca la sua caucza fo misa sopra lo morto el quale resuscitao, oy se fo facto chisto miraculo per la peticione che fo facta ad chillo sancto patre chi se clamava Libertino (DiaCampu, i, ii, 20–21, p. 18).
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Nella versione di Campolo i discorsi diretti sono assorbiti nel livello diegetico e presentati come discorsi indiretti; tuttavia la prima referenziazione dell’evento in termini di miracolo compare nello stesso punto (cioè nel discorso riportato attribuito a Pietro). Occorre però notare come il diverso contesto sintattico e testuale, come anche l’uso del dimostrativo di vicinanza chisto, rendano più complessa la dinamica enunciativa: chi sta definendo miracolo il racconto? Pietro o colui che espone? Sembrerebbe di trovarsi di fronte a un classico esempio di uso empatico del dimostrativo: il discorso riportato di Pietro è assunto dall’espositoreenunciatore. Se dunque l’istanza dialogica è ridotta al livello sintattico per via del ricorso alle completive, essa è recuperata a livello testuale e pragmatico: possiamo infatti interpretare il dimostrativo come segnale di discorso indiretto libero o, considerando la problematicità della categoria di discorso indiretto libero nelle varietà italoromanze antiche,34 una spia enunciativa che rivela l’assunzione del discorso di Pietro da parte del volgarizzatore/espositore. Anche nell’esempio seguente la referenziazione si costruisce nel dialogo, attraverso un’asserzione di Pietro, costruita mediante frase identificativa e dimostrativo: (8) sicque aqua arsit in lampadibus ac si oleum fuisset. Perpende igitur, Petre, cujus meriti vir iste fuerit, qui necessitate compulsus, elementi naturam mutavit. Petrus: Mirum est valde quod audio; sed nosse vellem cujus humilitatis apud se esse intus potuit iste, qui tantae excellentiae foris fuit (DGM, i, v). mutò la natura dello elemento di fare ardere l’acqua come olio. Pietro – Mirabile cosa è questa, che mi dici, ma volentieri vorrei sapere di che, e quanta umiltade era costui dentro, lo qual di tanta eccellenza era di fuori (DiaCavalca, i, v, p. 32). muà la natura de l’alimento façando arde’ l’aigua como olio. Pero: Questa è maraveiosa cosa (è) questa che tu me di’. Vorentera vorea savei’ de che e quanta humilitae era questo dentro […] Pero: Posia che tu m’ài dito de ello così gram miracoli, resta che de la sua vita me digi (DiaLigure, i, v, 7, p. 89). mutau la natura de la aqua in virtute de l’ogllo per la necessitate chi appe. Petru adimanda a sanctu Gregoriu et diche: “o sanctu Gregoriu, eu vorrìa sapiri chi humilitati appe intra la consciencia sua chistu sanctu patre” (DiaCampu, i, v, 6, p. 32).
34 Cf. Ferraresi/Goldbach (2010); Colella (2012).
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In questo caso il Campolo conserva il discorso diretto, inserendo però una didascalia che contiene un verbum dicendi (Petru adimanda). Si noti però che nella versione siciliana Pietro tralascia di qualificare enfaticamente l’evento come miracoloso. Come vedremo, la tendenza del Campolo sembrerebbe quella di limitare gli interventi esornativi, per concentrarsi invece sulle parti informative e narrative. Una volta designato l’evento come miracoloso, i Dialogi di Gregorio Magno procedono a un’altra operazione discorsiva, vale a dire l’assimilazione di quell’evento ai miracoli compiuti dai Padri della Chiesa, dai martiri o dai protagonisti dell’Antico Testamento. Per Gregorio non è sufficiente narrare i miracoli compiuti da un santo: è necessario che queste azioni siano ricondotte nell’alveo dei miracoli già riconosciuti e sanciti. Il discorso miracolistico è in un certo senso intrinsecamente intertestuale. Ancora una volta è all’interlocutore che viene lasciato il compito di dedurre ed esplicitare un contenuto di particolare rilevanza: l’idea di una continuità tra passato e presente è infatti affermata da Pietro: (9) Sicque in duobus miraculis duorum Patrum virtutes imitatus est: in mole scilicet saxi, factum Gregorii qui montem movit; in reparatione vero lampadis, virtutem Donati, qui fractum calicem pristinae incolumitati restituit. Petrus: Habemus, ut video, de exemplis veteribus nova miracula (DGM, i, vii). E così in due miracoli seguitò la virtù di due santi padri, cioè nel muovere del sasso seguitò lo miracolo d’uno santo padre, ch’ebbe nome Gregorio, che per sua orazione mosse un monte da un luogo a un altro; e per lo miracolo della lampana fu simigliante ad uno santo padre ch’ ebbe nome Donato lo quale per virtù di orazione risaldò un calice rotto, e spezzato. Pietro: Abbiamo, secondo che mi pare, da gli esempli antichi nuovi miracoli (DiaCavalca, i, vii, p. 37). E così in doi miracoli seguità la vertue de doi santi pairi: çoè in mover la prea seguitò lo faito de Gregorio, chi mové lo monte, e in la lampa la vertue de Donao, lo qua orando reduse un calice roto a la pristina integritate. Pero: E’ odo, segundo che me par, de li exempli antigi novi miracoli (DiaLigure, i, vii, 11–13, p. 92). Concludi sanctu Gregoriu et diche a Petru: “vidi, Petru, ky chistu sanctu patri Nonnosu in chisti dui miraculi sì assimilla ad doy sancti patri: per lo primo miraculo de smoviri chilla petra sì grandi de soy locu sì se assimigla ad unu patri sanctu chi ssi clamava Gregoriu […] per lu secundu miraculu de insuldari la lampa ructa sì fu simili de unu autru patri sanctu che ssi clamava Dunatu […] Petru sì diche a sanctu Gregorii: “bene avimu novi miraculi antiqui” (DiaCampu, i, vii, 12–13, p. 38).
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Nell’esempio appena visto non è solo la referenziazione a realizzarsi dialogicamente, ma anche il processo di qualificazione dei miracoli descritti da Gregorio. Da rilevare, al livello degli esiti traduttivi, il fatto che Campolo condensi il passo dell’originale nell’espressione novi miraculi antiqui, che sembra rendere in maniera ancora più icastica la duplice natura del miracolo, un evento che, pur nella sua straordinarietà, si iscrive nel solco di una linea di accadimenti passati riconosciuti e legittimati da una tradizione che rimonta alle origini della Chiesa. Sinora si sono presentati casi in cui la referenziazione e la designazione lessicale avvengono mediante l’uso di sintagmi nominali con funzione coesiva. Nei volgarizzamenti la designazione può essere realizzata però anche attraverso l’impiego di modificatori verbali: non è raro infatti che nel racconto del miracolo il prodigio sia accompagnato dall’avverbio miracolosamente, che ne sottolinea il carattere inspiegabile ma anche la provenienza divina. Come si vede dai passi in (10), è possibile che l’avverbio, assente nel testo originale (Ø), sia aggiunto nel corso della trasmissione del testo: (10) Quam cum venientem desuper vir sanctus vidisset, frequenti voce nomen Christi invocans, extensa mox dextera signum ei crucis opposuit, eamque in ipso devexi montis latere cadentem fixit, sicut religiosus vir Laurentius perhibet. Et quia locus ei non fuerat quo inhaerere potuisset, aspicitur ita ut hucusque montem cernentibus, Ø casura pendere videatur (DGM, i, i). il quale vedendo il predetto Onorato così venire, invocando spesso il nome di Cristo, fece il segno della Croce contro il sasso, ed incontinente fu fitto e non potè più discendere, secondo che mi disse un sant’ uomo, che debavea nome Lorenzo. E perchè in quella scesa del monte non avea luogo piano, dove quello sasso si potesse riposare, miracolosamente si ristette cadendo (DiaCavalca, i, i, p. 12). La qual lo dito Onorao vegando cossì venir, invocando spesso lo nome de Criste, fè lo segno de la croxe incontra la roca e incontenente fu ficà e astalà e no poea pu descende, segundo che me dise un santo omo chi avea nome Lorenço. E inperò che en quela desceisa de lo monte non era logo piam unde quela roca se poese reçe’, miracolosamenti se astalà caçando; e ancoi adì chi ge guarda sta semper par che vogla caçaer (DiaLigure, i, i, p. 77). Chisto sancto patre ch’avìa nomo Unurato, videndo la rocca venire ad basso [– et poteva nocere a le sue celle et anco a li frati –], adcomenciao ad clamare lo nomo de Cristo et faresi lo signo de la sancta cruce; et incontinente ch’illo appe clamato lo nomo de Cristo et factunce lo signo de la sancta
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cruce, la rocca, chi si nde veneva ad basso, sì stette e non se mosse plu; et ancora pare tanto fora de lo monte, che mostra sempre de volere cadire (DiaCampu, i, i, 12, p. 14). L’introduzione di un modificatore verbale o di un complemento modale incaricato di ricollegare l’evento alla sfera del miracoloso non è un’innovazione del Cavalca: nell’esempio seguente infatti è il volgarizzamento siciliano a trasformare la determinazione modale miro modo nel sintagma per divinu miraculu, mentre gli altri due testi optano per la più letterale traduzione maravigliosamente: (11) Coepit autem miro modo in semetipsum incendium retorqueri, ac si reflexione sui impetus exclamaret se episcopum transire non posse (DGM, i, vi). e incontanente maravigliosamente cominciò la fiamma a ritornare in se medesima, e ritornandoa dietro e ben parea, che dicesse, che non era ardita di passare lo vescovo (DiaCavalca, i, vi, p. 35). E incontenente, maglaverosamenti, comença la fiama a retornar inseme, e, retornando inderé, bem parea che dixese che no era ardio de pasar lo vesco (DiaLig, i, vi, 6, p. 91). Subitamenti lu focu per divinu miraculu si acomenzau ad astutare intra sì medemi, quasi per virtuti de Deu non potissi lu focu passari chillu locu duvi era lu episcupu (DiaCampu, i, iv, 4, p. 36). Passiamo ora a confrontare le strategie di referenziazione sinora viste con quelle impiegate nei miracoli mariani, dove non troviamo differenze di rilievo. Nei Cinquanta miracoli si sono trovati pochi esempi di designazione e di categorizzazione lessicale dell’evento. Troviamo certamente strategie anaforiche: (12) La matina per tempo lo frar dise ogna cossa al so abado e a li monaci, mostrando lo miracoloso indicio de la faça sua (Cinquanta, ix, p. 22). (13) Lo iudice vedendo tanto miraculo, sì la fece trar fuori (Cavaliere, iv, p. 12). (14) Allora li monachi, fugendo forti, tornaro a lo monasterio et contaro lo presenti miraculo (Mariale, 54, p. 71). Presenti sono anche gli annunci cataforici e i modificatori avverbiali: (15) Unde subita e meraveiosa cosa aparse (Cinquanta, v, p. 18).
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(16) La quali [sc. l’immagine della Vergine nella lastra di marmo] fini a lo dì presente mirabilmente persevera (Mariale, 29, p. 55). La categorizzazione dell’evento in termini di miracolo può essere codificata in inserti parentetici, costituiti da complementi causali. Tale strategia ricorre soprattutto nel Cavaliere (ma cf. anche infra, §7): (17)
comanda al Demonio per li meriti, e da parte della Vergine Maria (Cavaliere, ii, p. 8).
(18) Sopra la sua sepoltura, per miraculo de Dio, e per la sua purità e divozione e della vergine Maria, nacque un giglio (Cavaliere, iii, pp. 9–10). In questo caso la costruzione della referenza è attuata in maniera implicita: non si afferma che l’evento è un miracolo, ma che la causa/l’origine è miracolosa o riconducibile alla divinità. Il fatto che sia la Vergine a compiere i miracoli direttamente o per tramite di un santo rende di fatto piuttosto automatica e scontata la designazione. Può accadere che alcuni miracoli non siano designati come tali, probabilmente perché la coerenza tematica delle sillogi di miracoli mariani e la ripetitività di alcune scene rendono superflua la referenziazione.
4 Dimensione patemica ed evidenziale Contravvenendo alle aspettative dell’intelletto umano, il miracolo deve definitoriamente generare stupore: è questo un Leitmotiv che risale alla narrazione evangelica. Nelle narrazioni miracolistiche medievali la descrizione dello stupor di chi vede in presa diretta il miracolo o lo sente raccontare si riflette a livello linguistico nel ricorso ad alcune strutture che si configurano come inserti patemici, funzionali alla rappresentazione di emozioni legate alla meraviglia e all’incredulità. Un tratto che ricorre con una certa costanza nell’opera di Gregorio Magno è rappresentato per esempio dalle frequenti formule esclamative, le quali spesso interrompono il racconto proprio al raggiungimento dell’acme della tensione narrativa: (19) coeperunt saevientes Libertinum quaerere, Libertinum clamare, ubi in oratione ille prostratus jacebat. Mira valde res: quaerentes, saevientesque Franci, ingredientes in ipso impingebant, et ipsum videre non poterant; sicque sua caecitate frustrati, a monasterio sunt vacui regressi (DGM, i, ii).
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ed entrando nella chiesa, incominciarono con grida e con furore a chiamare Libertino. Mirabile cosa! Libertino era quivi in orazione, e tacea (DiaCavalca, i, ii, p. 15). e intrando in la çexia començem cum crì e cum furor a iamar Libertim. Odi’ maraveiosa cosa! Libertim era lì davanti in oratium e taxea (DiaLigure, i, ii, 14, p. 79). Intrandu chisti in lo monasterio, adcomenciaro a dimandare lo tresauro e ad cercare chisto sancto patre Libertinu cum grande furia. Chisto sancto padre sì se mise in oracione et videte che grande gracia li fece Dio (DiaCampu, i, ii, 12–13, p. 17). I tre testi in volgare divergono in questo punto: il Cavalca traduce alla lettera, interpretando la sequenza mira valde res come un sintagma nominale, mentre il volgarizzamento ligure inserisce un imperativo odi’, aumentando così la componente conativa del passo e avvicinandosi alle classiche formule giullarescocanterine – come udite alor gran miracolo – tipicamente impiegate in funzione di segnale discorsivo e di segnale demarcativo, per attirare l’attenzione del destinatario e al tempo stesso segnalare l’incipiente intervento del prodigio (in modo simile alle formule di regia che abbiamo visto nel paragrafo precedente).35 Il volgarizzamento siciliano, invece, si allontana dalla fonte. Come abbiamo detto, Campolo opera sul testo, trasformando i discorsi diretti di Pietro e Gregorio in un’oratio obliqua: in questo modo riduce il grado di drammatizzazione del discorso, dando l’impressione di voler perseguire un progetto essenzialmente e integralmente narrativo e didattico.36 L’aggettivo mira è convertito nell’imperativo vedete, indirizzato però non tanto al personaggio Pietro o alla sola dedicataria dell’opera (Eleonora d’Angiò, come si ricorderà), ma al pubblico dei lettori. Anche in (20) possiamo osservare la stessa tendenza di Campolo a limitare gli inserti esclamativi: (20) Res mira et vehementer stupenda! mox ut aqua benedicta Gothi coxam contigit, ita omnis fractura solidata est, et saluti pristinae coxa restituta (DGM, i, x).
35 Formule demarcative simili sono impiegate anche da Bonvesin da la Riva nella Vita di sant’Alessio, dove spesso costituiscono un’innovazione rispetto alla fonte latina: cf. Wilhelm (2006, 9–10). 36 Si tratta di una tendenza che riscontriamo anche nel volgarizzamento dei Verba seniorum di Domenico Cavalca: cf. Delcorno (2017, 12–13).
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Andò lo diacono, e entrando al Goto che giaceva asperse le sue membra di quella acqua benedetta. Mirabile cosa e stupenda! (DiaCavalca, i, x, p. 53). Maraiosa cosa e stupenda! Incontenente che quella aigua tocà la coxa inferma, ogni rotura, fu perfetamenti soda (DiaLigure, i, x, 52, p. 103). Andau lo iaconu e gectau la aqua supra de lo Gochu: incontinenti chi lla aqua benedicta tuccau la cossa chi era speczata, mantanenti fu cussì solica (DiaCampu, i, 10, 53, p. 59). Altre strategie linguistiche del riconoscimento passano per l’uso di formule evidenziali, che permettono di indicare la fonte del contenuto proposizionale, cioè la prova o l’evidenza della propria asserzione.37 La dimensione dell’evidenzialità si articola in vari tipi: quel che si afferma può essere legittimato sulla base di una diretta percezione («lo affermo perché l’ho visto»), sulla base del sentito dire («lo affermo perché me l’hanno detto/l’ho sentito»), e dunque grazie al discorso altrui, oppure sulla base di un processo logico-inferenziale («lo affermo perché lo deduco»). Le narrazioni miracolistiche sono tipicamente sostenute da un’evidenzialità riportiva e testimoniale, già individuata da Bremond (1982, 120–124) come uno dei tratti più peculiari dell’exemplum.38 Che la dimensione testimoniale sia fondante del discorso miracolistico è suggerito, oltre che dalla frequenza di formule evidenziali, anche dalla presenza del miracolo nei trattati medievali sulla testimonianza (cf. Quaglioni 2011). Nel suo Tractatus testimoniorum, Bartolo da Sassoferrato (1357) affronta la questione della prova del miracolo, definito secondo la concezione esposta da Tommaso d’Aquino nella Summa theologiae: il tema è discusso in particolare nell’àmbito della qualità come necessario predicato della sostanza (incorporea nel caso della sostanza divina). Il miracolo è «id cuius effectus manifestus est, causa autem eius omnibus simpliciter est occulta» (Bartolo da Sassoferrato, Tractatus testimoniurum, p. 272). Ne consegue che l’atto percettivo del testimone può orientarsi sull’effetto del miracolo: anche in questo caso, dunque, la testimonianza si basa sulla dichiarazione della percezione (de visu) di un fatto.
37 Per una discussione del concetto di evidenzialità cf. Greco (2012) e la bibliografia ivi discussa. L’italiano non codifica l’evidenzialità attraverso la grammatica (ha pochi morfemi dedicati), ma per via discorsiva attraverso locuzioni ed espressioni formulari. Cf., per l’italiano antico, De Roberto (2015a; 2015b). 38 Lo studioso parla in particolare di «mention du canal» attraverso cui si propaga la notizia del miracolo (Bremond 1982, 120), riferendosi per l’appunto a una serie di strutture sintagmatiche ricorrenti, che coinvolgono in primo luogo i verbi di percezione e di dire.
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Il ricorso a formule evidenziali è tipico dei Dialogi di Gregorio Magno. Già nel prologo l’autore dichiara di servirsi di fonti autorevoli e degne di fede o di parlare sulla base della propria esperienza diretta: Si sola, Petre, referam, quae de perfectis probatisque viris unus ego homuncio, vel bonis ac fidelibus viris attestantibus, agnovi, vel per memetipsum didici; dies, ut opinor, ante quam sermo, cessabit […] Ea quae mihi sunt virorum venerabilium narratione comperta, incunctanter narro sacrae auctoritatis exemplo, cum mihi luce clarius constet quia Marcus et Lucas Evangelium quod scripserunt, non visu, sed auditu didicerunt (DGM, Prologo).39
Quasi in ogni capitolo dei Dialogi sono frequenti i richiami a informatori attendibili,40 e dunque a fonti orali. Le formule evidenziali ricevono un diverso trattamento nei volgarizzamenti: (21) ne tamen vitae ejus cognitione frauderis, bene hunc reverentissimus vir Albinus Reatinae antistes Ecclesiae cognovit, et adhuc supersunt multi qui scire potuerunt (DGM, i, iv). Ma acciocchè non sii fraudato del cognoscimento della vita di questo santo padre Equizio, dirottela secondo che io udii dal reverendissimo Albino vescovo di Rieti, il quale molto bene lo conobbe (DiaCavalca, i, iv, p. 25). diròtela segundo che e’ l’ò odia da lo reverentissimo Albin vesco de Roti; lo qua moto bem lo conoscea (DiaLigure, i, iv, p. 85). Dice che unu episcopu de Rieti – Rieti è una città appresso Roma, inverso Toscana – che avia nome Albinu et era homo de grande reverencia, che ssapi bene la vita de chisto sancto patre (DiaCampu, i, iv, p. 14). Gregorio comunica a Pietro che gli racconterà la vita di Equizio secondo quanto gli è stato riportato dal vescovo Albino (e da altri). Cavalca traduce impiegando una classica costruzione evidenziale «secondo + N» e sottolineando la familiarità del testimone con il santo in una relativa (il quale molto bene…). Diversa la 39 Appellandosi all’esempio degli evangelisti, «Gregorio giustifica il fatto di raccontare vicende relative a santi italiani per la maggior parte apprese da altri. Per allontanare qualsiasi dubbio sulla veridicità del suo racconto, si impegna ad indicare sistematicamente i suoi informatori, talvolta riassumendo le loro testimonianze, talaltra riportandone fedelmente le parole» (Laghezza 2009, 267). 40 Questa la classificazione degli informatori proposta da Laghezza (2009): informatori noti (a. abati, priori e monaci; b. laici; c. rappresentanti della gerarchia ecclesiastica) e informatori anonimi (singoli e gruppi, appartenenti a diverse categorie sociali). La studiosa nega l’esistenza di una correlazione fra tipo di informatore e tipo di miracolo.
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formulazione di Campolo, che converte il discorso diretto di Gregorio in un’oratio obliqua. Anche nella resa degli inserti evidenziali la traduzione di Campolo appare meno legata al modello: i riferimenti alle fonti privi di rilevanza narrativa sono omessi, come accade in (22); in (23), invece, dove alla figura di Lorenzo sembra attribuita una maggiore salienza, Campolo si mantiene più vicino all’originale latino, allineandosi dunque al volgarizzamento cavalchiano: (22) eamque in ipso devexi montis latere cadentem fixit, sicut religiosus vir Laurentius perhibet (DGM, i, i). e non potè più discendere, secondo che mi disse un sant’ uomo, che avea nome Lorenzo (DiaCavalca, i, i, p. 12). e no poea pu descende’, segundo che me dise un santo omo chi avea nome Lorenço (DiaLigure, i, i, p. 76). se stecte e non se mosse plu (DiaCampu, i, i, p. 7). (23) e quo quamvis virtutes multas plurimorum narratio certa vulgaverit, praedictus tamen Laurentius religiosus vir, qui nunc superest, et ei ipso in tempore familiarissimus fuit, multa mihi dicere de illo consuevit (DGM, i, ii). del quale [Libertino], avvegnaché si narrino molte virtù comunemente da molti a specialmente il predetto Lorenzo uomo religioso e degno di fede, il quale ancora è vivo, e fu molto suo famigliare, in questo tempo, molte cose me ne sòlea dire, della quali te ne dirò alcune delle quali mi ricordo (DiaCavalca, i, ii, p. 14). De lo qua, avegna che non naremo monte vertue continuamenti da monti speciarmenti Lorenço omo religioso e degno de Fe’, lo quar ancora è vivo e fo monto so famiglià in quelo tempo, monte cose me ne sorea dir (DiaLigure, i, ii, p. 78). Et ià sia ço che de chisto monaco e sancto patre che avia nomo Libertinu multi virtuti comunemente si nde contavano, tamen unu suo compagnone et multo familiare, che aveva nomo Laurencio, homo religiuso, et vivea tanto, recuntao multe virtute (DiaCampu, i, ii, p. 19). Nei Dialogi e nei loro volgarizzamenti sono ampiamente sfruttate formule evidenziali di tipo riportivo: Gregorio riporta per iscritto notizie e informazioni che gli sono state riferite. Ma a queste formule, per lo più realizzate da verbi di percezione uditiva o da verba dicendi, segue quasi sempre un movimento di veridizione e autenticazione: si sottolinea cioè che il testimone è degno di fede e che il
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fondamento della sua testimonianza è la diretta percezione visiva del miracolo. Si potrebbe dire, dunque, che i racconti di miracoli nei Dialogi sono costruiti su una dimensione evidenziale dalla duplice articolazione, la prima relativa all’enunciazione di Gregorio, la seconda relativa agli atti enunciativi in absentia dei testimoni di cui Gregorio riporta le parole. La legittimazione della figura dei testimoni è realizzata attraverso un armamentario formulare molto simile a quello riscontrato da Canetti (2004, 126) nella tradizione agiografica dei miracoli di san Domenico (XIII–XIV secolo). Nel dossier domenicano le formule verbali di autenticazione, generalmente usate dai confratelli del santo, sono costituite da vidi, interfui, conversatus fui cum eo, espressioni che vogliono simboleggiare «un’assoluta preminenza dello sguardo interno dell’ordine come comunità testuale, dotata a sua volta di una cruciale funzione autenticante». Rilevante a tal proposito è anche il profondo valore attribuito alla diretta conoscenza e alla familiarità del testimone con la figura del santo, spesso raggiunta attraverso la confessione o la conversatio (cf. ancora ibid., 127). Di diverso segno sono le formule evidenziali che ricorrono nelle raccolte di miracoli mariani. Qui l’autenticazione del racconto può passare anche per il richiamo alla scrittura. Nei Cinquanta miracoli ognuno dei racconti è avviato dalla formula el se leçe (se ne contano 51 occorrenze): (24) El se leçe in una cronica, che […] (Cinquanta, i, p. 4). (25) El se leçe ke lo biado Çoane bocadoro, patriarca de Constantinopoli, siando iniustamente descacado del patriarcado (Cinquanta, i, p. 18). È interessante notare che l’ampio impiego del verbo leggere è in controtendenza rispetto a quanto avviene nelle raccolte di exempla, dove generalmente si registra una più netta preferenza per strategie evidenziali in grado di legare l’aneddoto se non al presente immediato, al passato più prossimo (Bremond 1982, 124). Non stupisce dunque che nelle altre due raccolte di miracoli mariani i riferimenti a fonti scritte siano molto sporadici; in taluni casi inoltre l’enunciazione narrativa non poggia su fonti dichiarate. Una dimensione evidenziale può anche prodursi all’interno alla narrazione. Nei Dialogi molti dei miracoli raccontati si realizzano di fronte a un pubblico, che è spesso la comunità monastica. Questa strategia è funzionale alla particolare proposta agiografica di Gregorio: come ha osservato Boesch Gajano (2004, 188–189), «se non mancano i laici, la santità appare nei Dialogi prerogativa, per non dire monopolio di persone che hanno una specificità, una professionalità di vita religiosa, ecclesiastica o monastica, anche in forme non codificate, come quella di solitario, intorno al quale notiamo tuttavia che si costituisce spesso una
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comunità». Ecco quindi che la narrazione si riempie di piccole folle o gruppi di monaci, di volta in volta spaventati, esultanti o attoniti di fronte ai prodigi di cui sono testimoni. Anche queste annotazioni sono accolte in maniera sistematica dai volgarizzatori, che ricorrono a un manipolo di formule abitualmente impiegate anche in altri testi narrativi:41 (26) quod in Constantinopolitana urbe ad portam quae vocatur Aurea, veniens, populorum turbis sibi occurrentibus, in conspectu omnium roganti caeco lumen reddidit (DGM, iii, ii). giungendo egli in Costantinopoli a quella porta che si chiama Aurea, nel cospetto di tutta la turba che gli era venuta incontra rendette lo lume ad un cieco (DiaCavalca, iii, ii, p. 131). çuncando ello in Constantinopoli a quella porta chi se iama Auera, in conspecto de tuta la turba chi li era vegnua incontra rendé la vista a un orbo (DiaLigure, iii, ii, p. 162). Venendu kistu papa Johanne a Costantinopuli, duve era lu imperature, et intrandu alla chitate pir una porta [ke si chiama Aurea], et exendu grande gente ad ascuntrareli, in là sì nche era unu checu, e prigandu a lu papa, tuccandli li ochi cum la sua manu, mantinente arrecuperaru la vista (DiaCampu, iii, ii, p. 80). (27) Quo peracto, ab altari exiens, claudi manum tenuit, atque assistente et aspiciente populo, eum mox a terra in propriis gressibus erexit […] Mirati omnes flere prae gaudio coeperunt, eorumque mentes illico metus et reverentia invasit (DGM, iii, iii). E detta la messa partissi dall’altare; e preso quell’infermo per mano e presente tutto il popolo lo rizzò e fecelo stare saldo, ritto e sano […] Della qual cosa tutti maravigliandosi cominciarono qusi a piangere di letizia (DiaCavalca, iii, iii, p. 131). E dita la mesa partìsse da l’autar e piglà quelo infermo per man e, presente tuto lo povo, lo driçà e fé-lo star drito e fermo e san […] De la qua cosa tuti maraveglandose, incomenzàm quasi a piançe’ d’alegreça (DiaLigure, iii, iii, p. 163).
41 Sulle costruzioni al gerundio e al participio con valore evidenziale cf., oltre al già citato De Roberto (2015b, 283–284), anche le osservazioni in De Roberto (2012, 150–152).
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dicta la messa, davanti tuctu lu populu cumunicau a lu malatu, e factu zo, lu prise pir la manu e rèsellu […] La gente ki stavanu là, videndu zo, accomenczau tucti a plangere pir l’alegricza (DiaCampu, iii, iii, p. 80). Al di là delle diverse rese traduttive, più o meno orientate verso l’asindeto e l’uso di forme nominali del verbo, le espressioni che attestano la presenza di un pubblico (e dunque di testimoni) sono conservate nei volgarizzamenti. Questo tipo di evidenzialità, che potremmo chiamare «intradiegetica», è molto sfruttata anche dalle raccolte di miracoli mariani. Qui la conclusione del racconto è «abitata» dalla collettività. Se non il miracolo in sé e per sé, sono i suoi effetti a essere visibili e a manifestarsi davanti a un pubblico: (28) Et quelli che erano quivi presenti vedendo così grande miraculo rendettero molte grazie a Dio (Cavaliere, xviii, p. 55). (29) Per lu quale miraculo, tanto ipso quanto tutti li altri videnti, magnificamente laudaru la Matre de Dio (Mariale, 16, p. 44). (30) Et ditte questi paroli, lu dimoniu, ad modo di uno fumo nigrissimo, tutti videnti, desparse (Mariale, 32, p. 57). (31)
Et questo videndo, tutta quilla gente, maravigliandosi, ad alti voci laudavano Dio et alla sua Matre, la quale cussì dui gran miraculi demostrau per amore de soi devoti (Mariale, 10, p. 40).
A ben vedere la dimensione testimoniale, codificata mediante proposizioni al gerundio e al participio (anche in uso assoluto), si incrocia qui con la dimensione patemica: chi narra o riporta il miracolo non può esimersi dal sottolineare la meraviglia e lo stupore che il prodigio suscita fra gli astanti. Il riferimento allo stupor diviene cliché e formula stereotipata, che in qualche caso determina una Spannung narrativa, ma è finalizzato anche a suscitare nel lettore, attraverso il rispecchiamento col personaggio, un medesimo sentimento di meraviglia: (32)
Vedendo el prete che il fanciullo non aveva se non un mese, stette tutto spaventato de tanto miraculo, e fu commosso a gran misericordia et pietà (Cavaliere, vi, p. 17).
(33)
La domane lo celebrà la messa, ogn’omo meraveiandose (Cinquanta, x, p. 11).
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(34) Unde, essendu tutti stuppefattti, se maravigliavano (Mariale, 19, p. 46). (35)
Et lu senato, tutti meravigliati, laudavano Dio (Mariale, 35, p. 58).
Il processo di stereotipizzazione a cui vanno incontro tali sequenze è dimostrato anche dal loro ricorrere in costruzioni formate da un gerundio e un participio controllati da un soggetto indefinito indicante totalità (che agisce come un intensificatore). A livello lessicale osserviamo qui il ricorso a verbi come meravigliare, spaventare, sbigottire, etc. Un vero e proprio topos narrativo è quello della processione finale davanti al papa o al vescovo che rende noto a tutti il miracolo, sancendone così il carattere autentico e investendolo dei crismi dell’ufficialità. Questo motivo ricorre specialmente nelle raccolte dal tono più leggendario, dove sembra connotare alcuni tipi di miracoli più di altri: l’annuncio del miracolo da parte di un prelato fornisce infatti una patente di autenticità a quegli eventi miracolosi che si realizzano in una dimensione intima (come le visioni e le guarigioni che intervengono di notte quando il beneficiario è solo): (36) Et lu episcopo, andando et videndo sincomu la Virgine Maria li avia dicto, ordinao tutto lu populo et, fatta una bella processione, portao la bona donna quelle virgelle fiorite alla ecclesia (Mariale, 23, p. 49). (37)
Et meraviandosi tucti, portaro, cum gran reverencia et sollennissimo honore, quillo corpo alla ecclesia (Mariale, 45, p. 64).
(38) Poi el papa facendo congregare el populo, manifestò a tutti il miraculo della matre de Dio (Cavaliere, xx, p. 58).
5 L’ancoraggio spazio-temporale Un altro aspetto ricorrente nelle narrazioni miracolistiche è rappresentato dalla fisionomia della cornice narrativa, evidente soprattutto negli attacchi. Michel de Certeau (1975, 333) ha rintracciato nella letteratura agiografica una tendenza all’imprecisione cronologica, cui farebbe da contraltare una certa attenzione a specificare il luogo degli eventi. Il santo e le sue azioni sono legate a uno spazio, mentre la connotazione temporale non sembra detenere una particolare importanza. In effetti un tale assunto sembra valere anche per il nostro corpus. Il fenomeno caratterizza già i Dialogi di Gregorio Magno e si innesta del resto in una tendenza tipica
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anche della letteratura esemplare,42 ma una preferenza per l’indeterminatezza cronologica si riscontra pure nella documentazione relativa ai processi di canonizzazione e in particolare nelle deposizioni dei testimoni, che il più delle volte non sanno indicare date e momenti precisi del verificarsi del miracolo.43 I volgarizzamenti dei Dialogi, sulla scorta del loro modello, impiegano compattamente espressioni temporali molto vaghe come: – Un altro dì (DiaLigure, i, iv, 24, p. 84); Uno autro iorno (DiaCampu, i, iv, 27, p. 26). – Una atra volta (DiaLigure, i, x, 16, p. 101); una autra fiata (DiaCampu, i, x, 15, p. 54). – Al tempo di + carica/istituzione politica: in lo tempo de lo rei Totila (DiaLigure, i, ii, 1, p. 78); allo tempo de uno re che avìa nomo Totila et signoreiava Ytalia (DiaCampu, i, ii, 3, p. 16); A lo tempo de lo dito imperaor Iustinian (DiaLigure, iii, iv, 1, p. 163); A lo tempo de li Gotti (DiaLigure, iii, ii, 1, p. 162). – Al tempo + dimostrativo/indefinito: In quelo tempo mêsmo (DiaLigure, i, ii, 12, p. 78); In chillo tempo medesmo (DiaCampu, i, ii, 11, p. 17); Ad un atro tempo (DiaLigure, i, ii, 16, p. 79); Uno autro tempo (DiaCampu, i, ii, 15, p. 17). Ancora più accentuata risulta l’indeterminatezza temporale nei casi (numerosissimi) in cui manca qualsiasi riferimento anche solo all’epoca in cui collocare l’evento: (39) Juxta eam namque civitatem ecclesia beati martyris Stephani sita est, in qua vir vitae venerabilis, Constantius nomine, mansionarii functus officio deserviebat (DGM, i, v) Dissemi, che appresso alla detta città d’Ancona era una chiesa di s. Stefano martire, nella quale era un sant’uomo, che avea nome Costanzio (DiaCavalca, i, v, p. 32). Diseme che preso a la dita citae d’Ancunna era una gesia de San Stefano martir, in la qua era un santo omo chi avea nome Costantio (DiaLigure, i, v, 3, p. 89). 42 Cf. quanto affermato da Tartaro (1984, 625): «Essenziale è che di là della denunzia, del resto non obbligatoria, dei propri antecedenti l’exemplum si collochi in un continuum temporale: così da essere autorizzato dal passato, ma in un’ottica che abolisce le distanze dal presente esaltandosi, in definitiva, nella dimensione metastorica di una perenne attualità». 43 Cf. Bartolomei Romagnoli (2004, 220).
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Appresso la citate de Ancona sì era una ecclesia de sancto Stefano, in la quale sì nci stava ad servire uno homo de grande veneracione chi avìa nomo Costancio (DiaCampu, i, v, 2, p. 33). Come si vede, i volgarizzatori non eliminano questa vaghezza temporale che, come ha puntualmente osservato Boesch Gajano (2004, 296), evidenzia già nell’opera di Gregorio Magno un tempo «che si può riconoscere come quello della storia della salvezza; e insieme come quello della fiaba». Anche il volgarizzamento dall’intento più didascalico ed espositivo – quello di Giovanni Campolo – pur inserendo glosse esplicative (di natura essenzialmente enciclopedica), non giunge a precisare il riferimento cronologico. Nelle raccolte di miracoli mariani l’indefinitezza investe anche le coordinate spaziali. Il luogo in cui si manifesta il miracolo è per lo più omesso: (40) Uno homo devoto a la Vergine Maria, comperau una cona dov’era depinta la immagine de la Vergine Maria. Et tornando ad casa, passando per uno bosco se incontrao co’ uno leone et uno urso, li quali assaltandolo per divorarilo, quisto, monstrando loro la immagine de la Vergine Maria et loro resguardandola, tam tostu fugero. E quilo, sanso et salvo, tornao a casa (Mariale, 40, p. 61). (41)
Una poverella assai devota alla Vergine Maria, questa avia uno suo figlio et, essendo questo suo figliolo, una notte, venuto a l’ultimo de la sua vita […] (Mariale, 11, p. 40).
(42) Era una giovene vergine la quale salutava ogni dì centocinquanta volte la madre de Cristo Iesu (Cavaliere, vii, p. 18). Come si vede, in questi miracoli l’attacco è di tipo eventivo (si riporta cioè un’azione abituale o uno stato del protagonista) o presentativo (al n° 42 l’incipit è infatti rappresentato da una proposizione esistenziale). Quando presenti le localizzazioni sono generiche: (43) In uno castello de Quintania dui cavaleri segnoriavano (Mariale, 11, p. 40). A fronte di una generale tendenza a collocare gli eventi miracolosi in uno spazio-tempo dai contorni fluidi e piuttosto indeterminati, paiono particolarmente significativi i casi in cui il miracolo è introdotto da una data precisa. Nel Mariale il miracolo del fanciullo ebreo liberato da una fornace è localizzato in Bretagna e datato al 327: si tratta probabilmente dell’episodio che nel Liber miraculorum
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Gregorio di Tour colloca a Costantinopoli e che altre fonti invece dicono essersi prodotto a Bourges. Del resto la tendenza ad adattare il luogo dell’evento alle necessità del copista o compilatore è fatto piuttosto usuale: (44) In una citate de Birtagna, nello anno cccxxvii de la incarnacione, communicandosi li christiani nello dì de la Pascha, uno fanzullo iudeo […] (Mariale, 4, p. 36).
6 Strutture dell’argomentazione Il miracolo non è costruito solo attraverso la referenziazione e la narrazione, ma è definito anche da strategie argomentative. A prescindere da forma, livello e genere del racconto, si rintracciano nelle narrazioni miracolistiche sequenze deputate a chiarire cause e finalità del miracolo, ma anche a esplicitarne la portata simbolica. Anche in questo caso l’esame della loro posizione permette di individuare differenze fra una tradizione e l’altra. Nei Dialogi e nei loro volgarizzamenti i miracoli sono spesso accompagnati da inserti esplicativi: viene cioè chiarito il loro significato e la verità ultima a cui rimandano. Si tende dunque a esplicitare il senso del segno. Basti un esempio su tutti: il miracolo della volpe e della gallina, forse uno dei più banali, e agli occhi di un lettore moderno del tutto insignificante. Una volpe ruba abitualmente le galline della madre di Bonifacio; il santo prega Dio e dopo la preghiera la volpe torna indietro con il maltolto per poi cadere morta. Finito il racconto, Pietro osserva come Dio esaudisca le preghiere dei santi anche nelle cose più vili. Gregorio integra tale osservazione affermando che attraverso questi piccoli miracoli è possibile avere un assaggio della misericordia divina. Si sfrutta dunque un argomento logico (basato sulla relazione di scopo o fine), su cui si innesta poi un argomento di paragone che crea un confronto e un invito a un approccio induttivo tra entità di valore diverso (i piccoli miracoli consentono al limitato ingegno umano di concepire la grandezza dei miracoli maggiori): (45) Hoc, Petre, ex magna Conditoris nostri dispensatione agitur, ut per minima quae percipimus, sperare majora debeamus; exauditus namque est in rebus vilibus puer sanctus et simplex, ut in parvis disceret quantum de Deo praesumere in magnis petitionibus deberet (DGM, i, ix). Questo, Pietro, non si fa senza gran consiglio di Dio, acciocché per le minime cose, che riceviamo, abbiamo speranza delle maggiori; onde questo santo e semplice fanciullo fu esaudito nelle cose vili, acciocché nelle cose piccole
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imparasse quanto potè presumere della bontà di Dio nelle grandi petizioni (DiaCavalca, i, ix, pp. 48–49). Pero, questo no se fa sença grande conseglo de Dee, aço che per le minime cosse ch’eli r’veim abbiam speranca de le maor. Unde questo santo e semplice garçum fu exaudio in le cose vil, aço che in le cosse piçene inpredese quanto poea presumer de la buntae de Dee in le grande peticium (DiaLigure, i, ix, 65–66, p. 99). Sanctu Gregoriu rispundi et dichi: “o Petru, zo intraveni de grande dispensatione et curtisia de Deu, chi illu exaudissi li pirsuni eciamdeu de cosi piczuli; zo pirtanto a czo chi nuy digiamo aviri speranza a Deu in le peticioni grandi” (DiaCampu, i, ix, 77, p. 52). Sul piano sintattico la sequenza argomentativa si avvale di subordinate finali e di un connettivo consecutivo (onde o pirtanto). Nel volgarizzamento siciliano il discorso di Gregorio è leggermente abbreviato, ma la struttura argomentativa non cambia. Consideriamo un’altra movenza esplicativa. Questa volta l’approfondimento dottrinale riguarda la «paternità» del miracolo: un giovane è infatti resuscitato grazie alla calza di sant’Onorato che Libertino pone sulla salma. Pietro si chiede a chi vada riconosciuto il merito, se a Onorato o a Libertino. La risposta di Gregorio è una riflessione sul tema delle cause e delle concause del miracolo, corroborata dall’esempio veterotestamentario di Eliseo ed Elia. L’analogia tra la calza di Onorato e il mantello di Elia consente di spiegare il tema del passaggio dell’autorità divina da un santo/profeta all’altro. A livello sintattico l’argomentazione è svolta mediante un movimento causale e un movimento comparativo di analogia (diversamente realizzato nei diversi volgarizzamenti): (46) Gregorius: In ostensione tam admirabilis signi cum fide feminae virtus convenit utrorumque; atque ideo Libertinum existimo ista potuisse, quia plus didicerat de magistri, quam de sua virtute confidere. Cujus enim caligulam in pectore exstincti corpusculi posuit, ejus nimirum animam obtinere quod petebat aestimavit. Nam Elisaeus quoque magistri pallium ferens (DGM, i, ii). In questo così gran miracolo con la Fede della femmina credo, che convenisse insieme la virtù di ciascuno. E sì credo, che perciò potesse Libertino fare questa maraviglia, perchè più confidava della virtù del suo maestro, che della sua. Che in ciò, che la calza del suo maestro pose sopra il corpo del fanciullo morto, dimostrò, che credeva, che l’anima sua potesse da Dio ottenere, ed impetrare la virtù a ch’ egli per lui dimandava. Così Eliseo portando il pallio del maestro suo Elia (DiaCavalca, i, ii, p. 17).
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In questo ccosì gram miracolo cum la fe’ de la femena credo che se convenise inseme a la vertue de cascum. E creo che Libertim però se poese far questo miracolo, però che pu se confiava de la vertue de lo so maistro che de la soa. Ché in çò ch’elo mise lo caçà su lo peto de lo garçum morto demostrà ch’elo crêa che l’anima si poese da De’ inpetrà la vertue che elo per le demandava. Così Eliseo portando lo pario de lo so maistro Elia (DiaLigure, i, ii, 26–29, p. 79). Respose sancto Gregorio che chisto miraculo fo facto e per devocione et fide de chilla femina, chi era matre de lo morto, e per la virtute de chilli dui patri sancti, tanto per la calça de sancto Unurato, la quale fo posta sopra morto el quale resuscitao, quanto per la humilitate de chillo patre sancto Libertino. Et mecte sancto Gregorio uno exemplo de lo Vecchio Testamento, che uno propheta che ssi chiamava Heliseu, venne allo flume Iordano et avea con sico lo vestimento de uno autro propheta, che era stato suo maestro et avì a avuto nomo Helya (DiaCampu, i, ii, 21–22, p. 18). Il confronto tra i diversi volgarizzamenti evidenzia anche il più esplicito orientamento didattico del testo siciliano. Giovanni Campolo infatti sente l’esigenza di richiamare brevemente il fatto biblico e di precisare chi fossero Eliseo ed Elia. Si potrebbero riportare molti altri casi simili. Basti però qui osservare come le sequenze argomentative introducano e affrontino il problema della causalità secondaria del miracolo: l’origine e il motore primo dell’evento miracoloso rimonta al potere divino, quel che deve essere chiarito è perché il miracolo avvenga solo sporadicamente e di quale messaggio sia il signum. Le raccolte di miracoli mariani non presentano, com’è normale attendersi, molte sequenze argomentative esplicite: finalizzati a intrattenere e a delineare la figura del buon fedele (meritevole dell’intercessione mariana), questi racconti assumono essi stessi lo status di argomenti, in quanto exempla narrativi, in modo tale da non necessitare di ulteriori approfondimenti. Significativo è l’esordio dei Cinquanta miracoli, in cui lo scioglimento dell’acrostico M.A.R.I.A. orienta la lettura del prosieguo: (47) Per la prima letra, çoe M, dese entender che la vergene gloriosa si è memoraris, çoe recordaris de li soi devoti (Cinquanta, p. 1). Ricordando gli epiteti della Vergine, l’opera indica esplicitamente come i miracoli mariani siano indirizzati ai devoti di Maria e ai peccatori pentiti. È così chiaro sin dall’inizio in che modo i vari racconti debbano essere recepiti e interpretati. Se la maggior parte dei racconti di miracoli mariani si limitano alla narrazione del fatto, un appena abbozzato nucleo argomentativo si riscontra nei
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miracoli «esornativi», che non sembrano avere un’immediata utilità materiale. Nel Libro del Cavaliere, per esempio, si legge che dalla salma di un uomo, che nella sua vita non aveva fatto che ripetere incessantemente le parole «Ave Maria», nasce un giglio.44 Alla fine del racconto leggiamo: (48) Et per tanto, Iddio vuole mostrare questo tal miraculo, dimostrando quanto gli piace chi con bon cuore saluta la sua gloriossisima matre, la quale sia sempre laudata. Amen (Cavaliere, iii, p. 10). Negli altri casi si tratta di definire i requisiti che consentono al fedele di poter ambire al ruolo di miracolato. Accade così che l’incipit del racconto si apra con una veloce menzione del protagonista del racconto, molto spesso anonimo ma indicato mediante stereotipiche caratterizzazioni (molto devoto o peccatore). Si evidenzia così il carattere didattico-moraleggiante di queste raccolte, che mescolando materiali leggendari e miracoli rivelano la loro funzione di catechesi «leggera» per il popolo. Le vicende narrate prendono avvio da un merito o un demerito che innescano la grazia o la punizione divina: (49) Uno cavaleri multo devoto de la Vergine Maria, andando uno dì ad uno torniamento, vedi per lo camino uno bellissimo monasterio (Mariale, 20, p. 46). (50) Una poverella assai devota alla Vergine Maria, questa avia uno suo figlio, et, essendo questo suo figliolo, una notte, venuto a l’ultimo della sua vita, […] comenzao ad acclamere fortemente alla Vergine Maria (Mariale, 11, p. 40).
7 Miracoli e cronache Come si è già ricordato, gli eventi miracolosi sono fatti che si pongono all’attenzione di un’intera collettività. Se nella dimensione agiografica è centrale il problema del loro riconoscimento, nei testi profani (cioè in quei testi non concepiti su un’istanza religiosa) si aggiunge anche la questione della loro interpretazione. Per questo, senza pretese di esaustività, sembra importante concludere il
44 Non è questa l’unica mise en texte del miracolo: il racconto si legge infatti anche nel Vulgare de elymosinis di Bonvesin da la Riva (si tratta del De quodam monaco qui vocabatur frater Ave Maria). Sui miracoli della lingua (che riguardano cioè la potenza della preghiera, spesso declinata in sequenze glossolaliche o in enunciazioni molto elementari) cf. De Roberto (2018).
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percorso sinora delineato esaminando l’atteggiamento di due cronisti medievali rispetto al miracolo. Il primo è Dino Compagni. Nella Cronica delle cose occorrenti a’ tempi suoi, il Compagni piega il miracolo alla sua concezione militante, come evidenzia il racconto della croce vermiglia apparsa sopra il palazzo dei priori, l’unico evento miracoloso sul quale il cronista fiorentino si sofferma più distesamente: (51) La sera apparì in cielo un segno maraviglioso; il qual fu una croce vermiglia, sopra il palagio de’ priori. Fu la sua lista ampia più che palmi uno e mezo; e l’una linea era di lungheza braccia xx in apparenza, quella attraverso un poco minore; la qual durò per tanto spazio, quanto penasse un cavallo a correre due aringhi. Onde la gente che la vide, e io che chiaramente la vidi, potemo comprendere che Iddio era fortemente contro alla nostra città crucciato (Compagni, ii, xix, p. 69). I pochi riferimenti ai miracoli che incontriamo nelle pagine del Compagni sembrano concepire l’intervento divino nel flusso delle azioni umane soprattutto in termini di castigo45 o, come nel caso appena visto, di ammonimento. Molto più numerosi e rispondenti a diverse finalità sono i miracoli ricordati da Giovanni Villani, nella sua lunghissima cronaca. L’atteggiamento dell’autore nei confronti del miracoloso è vario: nelle parti dedicate alle epoche più remote abbondano i miracoli di fondazione, grazie ai quali si evidenziano le origini divine di una città, di un culto o di un patronato. Si veda il passo relativo alla fondazione di Lucca: (52) La città di Lucca ebbe in prima nome Fridia, e chi dice Aringa; ma perché prima si convertì a la vera fede di Cristo che città di Toscana, e prima ricevette vescovo, ciò fu santo Fridiano, che per miracolo di Dio rivolse il Serchio, fiume presso a la detta città, e diegli termine, che prima era molto pericoloso e guastava la contrada, e per lo detto santo prima fu luce di fede, sì fu rimosso il primo nome e chiamata Luce, e oggi per lo corrotto volgare si chiama Lucca (Villani, NC, ii, xii, p. 59). Numerosi sono i miracoli che esibiscono una chiara valenza «storiografica»: l’intervento divino motiva le ragioni di vittorie, sconfitte e fatti politici, restituendo a tratti l’immagine di un Dio che parteggia e si schiera per l’una o per l’altra fazione: 45 Significativo il passo seguente: «La giustizia di Dio quanto fa laudare la sua maestà, quando per nuovi miracoli dimostra a’ minuti popoli, che Iddio le loro ingiurie non dimentica!» (Compagni, iii, xxxvii, p. 142).
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(53) Questi [Zenobi] fu cittadino di Firenze, e fue santissimo uomo, e molti miracoli fece Idio per lui, e risucitò morti, e si crede che per gli suoi meriti la città nostra fosse libera da’ Gotti, e dopo la sua vita santa molti miracoli fece (Villani, NC, i, xxiv, p. 72). Il miracolo è dunque funzionale all’interpretazione storica. Il suo sfruttamento da parte del Villani appare ideologicamente caratterizzato a un duplice livello: a un livello generale, il miracolo rientra in una visione della storia che realizza l’ordine e la volontà divini; al livello delle specifiche realizzazioni, il racconto del miracolo introduce un’implicita valutazione dei fatti e dei personaggi narrati (solo chi ne è degno può essere infatti beneficiario di un miracolo). Diverso è il caso di quei miracoli cui sono dedicati interi paragrafi e che sono preceduti da rubriche. Si tratta di accadimenti recenti, spesso coevi o di poco anteriori: fatti che dovevano avere un’ampia risonanza e di cui il Villani riporta la straordinarietà, tentando anche di precisarne i dettagli. Vi troviamo i miracoli medievali più famosi, come il miracolo eucaristico avvenuto a Firenze nel 1229: (54) Nel detto anno mccxxviiii, il dì di san Firenze, dì xxx di dicembre, uno prete della chiesa di Santo Ambruogio di Firenze ch’avea nome prete Uguiccione, avendo detta la messa e celebrato il sacrificio, e per vecchiezza non asciugò bene il calice; per la qual cosa il dì appresso prendendo il detto calice, trovovvi dentro vivo sangue appreso e incarnato, e ciò fu manifesto a tutte le donne di quello munistero (Villani, NC, vii, vii, p. 226). Ma si potrebbero ancora citare un altro miracolo eucaristico accaduto a Parigi nel 1257, l’apparizione di un’anima del Purgatorio avvenuta ad Alesto in Francia, il terremoto di Borgogna del 1239, e altri prodigi molto famosi ai tempi del Villani. Nella cronaca del Villani il racconto miracolistico è dunque diversamente declinato e può svolgere di volta in volta una funzione argomentativa – intervenendo cioè nel discorso come parte della riflessione intorno alla causalità degli eventi – o informativo/espositiva, come avviene nei miracoli riportati per la loro celebrità e per assolvere a un intento propriamente cronachistico. Anche il Villani si avvale però di espressioni formulari per conseguire quegli stessi meccanismi di categorizzazione visti nei paragrafi precedenti. Tra queste, sono di particolare interesse per la loro frequenza: – l’uso del sintagma preposizionale con valore causale per miracolo di Cristo / Dio (sette occorrenze, variamente dislocate nel testo: cf. Villani, NC, i, xii, p. 59; i, xxiv, p. 71; iii, iii, p. 91);
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la formula e molti miracoli fece Idio per lui con valore abbreviativoconclusivo (cf. Villani, NC, i, xxiv, p. 72; xiii, xxxvi, p. 1496, etc.); la formula introduttiva e miracolo avenne, eventualmente arricchita da aggettivi e altre determinazioni.
In alcuni casi lo sguardo di Villani sull’evento miracoloso si fa più profondo, più critico, e il riferimento a un altro ordine da quello terreno sembra suscitare il bisogno di una riflessione più ampia. Tra i miracoli cui Villani attribuisce maggiore spazio rientra il diluvio del 1333 che colpì la Toscana e in particolare Firenze (xii libro, ii capitolo). Come evidenziano Moulinier e la Redon, Villani interpreta l’evento come un miracolo di punizione, ma non rinuncia a battere altre piste, riportando le spiegazioni naturali e astrologiche che dovevano circolare al suo tempo; le pagine del cronista fiorentino ci permettono così di attingere a «quel fervore intorno alle indagini del mondo che anima un ambiente laico onestamente colto a metà del XIV secolo» (Moulinier/Redon 2000, 147). Dopo aver riportato le opinioni di astrologi e uomini di chiesa riguardo alle catastrofi naturali, Villani si sofferma anche su uno spunto narrativo che sembra uscito da una raccolta popolare: (55) E nota ancora, lettore, che, la notte che cominciò il detto diluvio, uno santo eremita ch’era nel suo solitario romitoro di sopra a la badia di Valombrosa stando in orazione sentì e visibilmente udì un fracasso di demonia di sembianza di schiere di cavalieri armati, che cavalcassero a furore. E ciò sentendo il detto romito fecesi il segno della croce, e si fece al suo sportello, e vide la moltitudine de’ detti cavalieri terribili e neri; e scongiurando alcuno da la parte di Dio che·lli dicesse che ciò significava, e li disse: «Noi andiamo a somergere la città di Firenze per li loro peccati, se Idio il concederà». E questo io autore per saperne il vero ebbi da l’abate di Valombrosa, uomo religioso e degno di fede, che disaminando l’ebbe dal detto suo romito (Villani, NC, xii, 2, p. 1217). Le procedure linguistiche sono simili a quelle esaminate nei paragrafi precedenti. Certo, troviamo in Villani una maggiore attenzione ai dati spaziali e cronologici, ma il miracolo non cambia la sua essenza: un evento che si pone di fronte a una collettività, che diviene oggetto di testimonianza e che dietro la contingenza rivela un altro messaggio. La specificità delle cronache sembra piuttosto risiedere nel tipo di miracoli riportati: miracoli relativi al corpo di Cristo, segni atmosferici e metereologici inusitati, profezie. Insomma eventi che coinvolgono l’umanità nel suo complesso e che oltrepassano l’esperienza dell’individuo.
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8 Conclusioni Proprio il confronto con i testi cronachistici consente di evidenziare un aspetto comune alle diverse declinazioni del recit du miracle nel Medioevo, vale a dire il carattere pienamente fattuale della dimensione narrativa. Nei diversi testi che sono stati considerati non c’è spazio per la modalizzazione epistemica: i predicati eventivi che introducono i miracoli o le espressioni esistenziali con cui si presentano i personaggi sono codificati all’indicativo, modo della realtà e dell’attualizzazione, mentre sporadico è l’uso del modo condizionale o di altri segnali di mitigazione epistemica (come l’avverbio forse o i verbi parentetici credo, penso, etc.). In base ai dati raccolti da questo primo sondaggio, il ruolo marginale svolto della modalizzazione epistemica nelle narrazioni miracolistiche medievali può essere spiegato come l’indizio linguistico di una tendenza ad accogliere il divino nelle questioni terrene e a sfidare i limiti della comprensione umana. Il miracolo è infatti assunto immediatamente come evento. Nell’attesa di svolgere ulteriori approfondimenti sulle varie testualizzazioni del miracolo in prospettiva sincronica e diacronica, possiamo trarre alcuni istruzioni a livello metodologico. L’individuazione e l’analisi delle specificità cognitivo-discorsive coinvolte nelle narrazioni miracolistiche e delle strategie linguistiche che esse determinano sembra infatti costituire il metodo più idoneo per dipanare il complesso intreccio che lega un oggetto di discorso al genere testuale in cui è realizzato e alle componenti discorsive e linguistiche che inevitabilmente vediamo interagire nel singolo testo.
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Massimo Zaggia
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano Abstract: The article studies the first Italian translations of the Book of Genesis. It stems from the recently published catalogue of Medieval Bible translations in Italian (2018). It begins by looking at a Tuscan version (early 14th century; preserved in seven witnesses, including UL, Cambridge, ms. Add. 6685 and BC, Siena, ms. F.iii.4) and a later Tuscan rewriting affected by Napolitan linguistic influences (BA, Rome, ms. 1552 and BNF, Paris, ms. It. 1). The article then looks at two printed translations (by Nicolò Malerbi, August 1471; by an anonymous, October 1471) and ends with a broader survey into further – either later or less widely circulated – versions. In an appendix the article gives a synoptic edition of all studied versions and witnesses (compared with the corresponding passages from the Vulgate). Keywords: Italian Bibles; Book of Genesis; Italian Vernacular; medieval Bible translations; Malerbi, Nicolò
1 La Bibbia in volgare italiano nel Medioevo: dal censimento dei manoscritti ai progetti per un’edizione Nel 1954, aprendo una fondamentale antologia – tuttora insostituita, come quadro d’insieme – degli Scrittori di religione del Trecento, e in particolare l’ampia, preponderante sezione dedicata ai Volgarizzamenti, don Giuseppe De Luca riteneva opportuno, anzi doveroso, dedicare la prima sezione alla Bibbia, s’intende la Bibbia in volgare. Ma nella premessa al brano selezionato enunciava queste lapidarie osservazioni: Le traduzioni della Bibbia nei primi volgari italiani non sono molte, ma nemmeno poche, e pongono problemi di una arduità singolare, perché impegnano tre filologie: la biblica, la medievale, la neolatina. I soli cenni concreti in proposito sono quelli forniti, come per Indirizzo di corrispondenza: Prof. Dr. Massimo Zaggia, Dipartimento di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Bergamo, Via Pignolo 123, I-24129 Bergamo. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-004
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caso, da Alberto Vaccari, in Enciclopedia Italiana, vol. vi (1930), 899–902. La raccolta e la disamina dei codici è di là da venire. Ai nostri fini, volevo dare qualche brano di sui manoscritti toscani, oppure di su quello della Biblioteca Angelica di Roma; da quest’ultimo avevo preso anche a trascrivere l’episodio di Giuseppe nel Genesi; se non che ho desistito: quanto il testo era glorioso, mirabile, tanto la versione era oscura, miserabile.1
Perciò, rinunciando a dare un saggio del Genesi, don De Luca con buon fiuto editoriale ripiegava sul libro di Tobia, ricavando il testo non direttamente da qualche manoscritto, ma da un’edizione stampata nel 1799 da Gaetano Poggiali.2 Di lì a qualche decennio, l’incoraggiamento alla raccolta e alla disamina dei codici è stato raccolto e proseguito, e ora, dopo diverse tappe intermedie, e contributi anche rilevanti di diversi, è giunto finalmente a stampa un esaustivo censimento dei molti testimoni manoscritti della Bibbia (o parti di essa) in volgare italiano, a cura di un gruppo di studiosi coordinato da Lino Leonardi (fra i quali lo scrivente): ben 134 i testimoni censiti entro il limite approssimativo dell’anno 1500.3 Ora che è disponibile una completa ricognizione dei testimoni, è opportuno procedere verso il passo successivo, che è quello dell’edizione dei testi; e già uno dei libri dell’Antico Testamento, l’Ecclesiaste, ha beneficiato di una risolutiva edizione, che individua e pubblica quattro versioni fra Tre- e Quattrocento.4 Pare giunto il momento, ora, di affrontare il Genesi. È utile far tesoro, ovviamente, delle chiare indicazioni di ricerca e di ordinamento del materiale offerte già da molti studiosi, fin dall’Ottocento (Samuel Berger anzitutto), e poi nel Novecento (Alberto Vaccari, poi Giuliano Gasca Queirazza, Anna Cornagliotti e altri), fino ai contributi più recenti (particolarmente quelli di Lino Leonardi, Caterina Menichetti, Sara Natale, Laura Ramello e Fabio Zinelli). Ma in questa sede si è preferito ridurre al minimo la discussione sui metodi e sui procedimenti, bastando il rinvio generale all’ultima bibliografia (dalla quale è agevole risalire agli studi pregressi).5 Si è scelto, piuttosto, di puntare direttamente a una proposta editoriale, limitata a un breve tratto, ma almeno fondata su un esame completo della tradizione nota: in un certo senso, il brano che si arriverà a proporre – l’avvio del
1 De Luca (1954, 361). 2 L’ingarbugliata vicenda editoriale del libro di Tobia in volgare italiano fra Sette- e Ottocento è ricostruita da Rossi (2014). Se ne ricava, fra l’altro, che la fonte dell’ed. Poggiali si riconosce oggi nell’attuale ms. Palatino 1 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. 3 Leonardi/Menichetti/Natale (2018). 4 Natale (2017). 5 La vasta bibliografia sull’argomento è registrata nel volume di Leonardi/Menichetti/Natale (2018, lvii–lxii), e ampiamente utilizzata e discussa in tutto il volume. Per il Genesi il contributo più importante è quello di Cornagliotti (1997a, 134–138).
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Genesi in volgare, col suo timbro grave e solenne – sarebbe stato ritenuto, forse (a parte ogni valutazione sulla scelta ecdotica), da don De Luca come il più adatto ad aprire quell’antologia degli Scrittori di religione del Trecento, quantomeno per la sezione dei Volgarizzamenti.
2 La versione toscana primo-trecentesca: tradizione manoscritta L’esame della tradizione manoscritta del Genesi in volgare porta alla luce l’esistenza, anzitutto, di una versione toscana, piuttosto letterale: essa si trova in apertura delle principali raccolte organiche dell’Antico Testamento (AT1 secondo il sistema di siglature ultimamente adottato da Leonardi e Natale), prodotte e circolanti in Toscana fra Tre- e Quattrocento. Tre di esse sono di origine fiorentina: la silloge con l’Antico Testamento (incompleto, e pur con alcuni inserti non canonici) ora ms. Conv. Soppr. C.3.626 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, che proviene dall’antica biblioteca domenicana di Santa Maria Novella, ma non risulta essere stato prodotto all’interno del convento; esso si presenta privo di data o di altre indicazioni di luogo o di ambiente, ma la scrittura – con sottoscrizione di un «Ghozzo di Nuccino Ghozzi» (non frate, comunque) – è una mercantesca databile nella seconda metà del XIV secolo (d’ora in avanti il testimone verrà siglato come AntTestGozzi). Segue, in ordine cronologico, il grande Antico Testamento – ma in origine un secondo tomo col Nuovo Testamento completava una Bibbia intera – ora ms. Add. 6685 della University Library di Cambridge (AntTestCantabr), con data 1396, e nessun’altra indicazione topica sull’origine: membranaceo di una certa eleganza, esso presenta fra l’altro una notevole miniatura iniziale a tutta pagina rappresentante Adamo ed Eva, e sei bei riquadri miniati inframmezzati al testo per rappresentare i giorni della Creazione. Il terzo grande Antico Testamento (non completo) di area fiorentina (benché con leggere screziature toscano-orientali, dovute verosimilmente all’origine del copista) è il ms. Laurenziano Ashburnham 1102 (AntTestAshb), nel Seicento appartenuto a Francesco Redi, e perciò noto anche come «Bibbia del Redi», già utilizzato per gli spogli lessicali di Crusca: esso risulta datato 1466, benché si presenti in una littera textualis assai arcaica per l’epoca.6 6 Cf. Leonardi/Menichetti/Natale (2018, xv–xvii, 5–14, 43–48, 90–94, Tavv. A, xii). Non presentano il Genesi, per ragioni accidentali, cioè per la perdita della parte iniziale, le altre due grandi Bibbie manoscritte di origine fiorentina: il ms. Riccardiano 1252, che parte dall’Ecclesiastico (perduto è il primo tomo, con la metà precedente), e i mss. 1367–1368 della Biblioteca Municipale di
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La medesima versione, che nei tre testimoni citati si presenta in veste fiorentina, si trova anche in due manoscritti senesi: il grande Antico Testamento ora ms. F.iii.4 della Biblioteca Comunale di Siena (AntTestSen), collocabile per la scrittura a inizio Quattrocento, il quale fin dall’origine risulta appartenuto alla Compagnia dei Disciplinati di Santa Maria della Scala di Siena; e l’attuale ms. I.v.5 della Biblioteca Comunale di Siena, che oculatamente offre soltanto alcuni libri dell’Antico Testamento, cioè quelli storici (LibriStorATSen), e pure risulta provenire ab antiquo dalla Compagnia dei Disciplinati di Santa Maria della Scala, ma rispetto all’altro mostra una scrittura che pare risalire più addietro, alla seconda metà del Trecento. Nell’uno e nell’altro codice la veste linguistica presenta una leggera patina senese, in misura però non sistematica.7 Al di fuori delle grandi sillogi vetero-testamentarie, il Genesi risulta aver avuto una circolazione molto limitata: diversamente da altri libri dell’Antico Testamento, come quello di Giobbe o di Tobia, o per altro verso il Salterio, i Proverbi o il Cantico dei Cantici, che hanno conosciuto anche una cospicua diffusione autonoma, il Genesi era evidentemente percepito anzitutto come il grandioso avvio di una storia sacra, che poteva circolare solo come solenne apertura della Bibbia. Va però ricordato, anzitutto per la precocità cronologica, un codice, oggi gravemente mutilo, ora all’Archivio di Stato di Prato (Spedali 2607), che in varie scritture mercantesche collocabili nel secondo quarto del Trecento raccoglie, in veste linguistica fiorentina, i primi tre libri della Bibbia, quindi un’Armonia evangelica e altri minori scritti religiosi; purtroppo, per l’acefalia di quanto resta, è andato perduto tutto il tratto iniziale del Genesi, fino a 18,25, e quindi il manoscritto non è utilizzabile per il brano che qui si considera.8 È invece molto più tardo, di metà del Quattrocento o poco oltre, il ms. Magliabechiano xxxix.49, miscellaneo che raccoglie, in due o tre scritture diverse, vari testi devoti, fra i quali una significativa Vita del gesuato senese Giovanni Colombini scritta da Feo Belcari nel 1449 (e perciò pare adatta una sigla quale MaglMiscColombini): esso presenta fra l’altro, pur nella perdita e scompaginazione di fogli e fascicoli, uno spezzone mutilo, ai ff. 60r–68r, con l’inizio del Genesi (fino a 10,14), sempre in veste fiorentina (non senese), nella stessa scrittura (una textualis assai attardata)
Lione (anche qui è perduto il primo dei tre tomi), ormai di età e ambiente pienamente mediceo, 1470 ca. (questi ultimi per l’aspetto esteriore di gran lusso contrastano singolarmente col ms. AntTestAshb, più o meno coevo): cf. ibid., 116–124, 168–176, Tavv. C, xvii. 7 Cf. ibid., 258–267, 273–274, Tavv. xxvii–xxviii. 8 Cf. ibid., 241–243. Allo stato attuale della documentazione, questo risulta essere il più antico testimone del Genesi in volgare toscano.
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della Vita del Colombini datata 1449 a f. 29v (mentre il frammento del libro di Tobia ai ff. 17 e 21r è di altra mano).9 I sette testimoni toscani (due frammentari) riportano sostanzialmente la stessa versione senza alcuna indicazione esplicita di un responsabile. Dovendo comunque avanzare un’ipotesi di datazione, sembra prudente situarla poco a monte dei testimoni più antichi, ossia nella prima metà del Trecento. Quanto all’ambiente di produzione e di immediata destinazione, gli unici testimoni per i quali si hanno informazioni primarie sono i due senesi, entrambi provenienti, fin dal Quattrocento, dalla Compagnia dei Disciplinati di Santa Maria della Scala di Siena.10 Non sussiste invece alcuna indicazione sicura sugli ambienti di origine dei codici fiorentini. Ma a questo punto, estrapolando dai dati certi un’illazione più generale, è possibile avanzare una congettura: quelle prime prove di traduzione dalla Bibbia, o da parti di essa, e principalmente le grandi sillogi con l’Antico Testamento, furono promosse, con tutta verosimiglianza, da alcune confraternite religiose di laici, e da lì presero a circolare anzitutto lungo la rete di rapporti fra confraternite vicine, e anche al di fuori, presso privati più o meno collegati (come fu, probabilmente, il caso del Gozzi).11 C’è ragione di credere, insomma, che l’assemblamento dei vari libri dell’Antico Testamento fu curato, con pie intenzioni, all’interno di qualcuna di quelle confraternite, anche come lavoro collettivo: magari inglobando, con adattamenti, alcune versioni già prima autonomamente prodotte per alcuni libri (per esempio per il Salterio o i Proverbi), e provvedendo però a completare il canone biblico con versioni condotte ex novo su tutti gli altri libri, ciascuno da collocare nella posizione dovuta (e questo fu forse il caso anzitutto del Genesi). Ciò spiegherebbe anche l’aspetto materialmente imponente ma esteriormente sobrio o dimesso dei manoscritti principali (a parte l’eccezione dell’AntTestCantabr), e l’anonimato che in genere li caratterizza. Colpisce infatti la differenza tipologica fra questo tipo di tradizione e quelle coeve, sempre in Toscana, dei volgarizzamenti dai classici latini (Ovidio e Livio anzitutto, ma anche Virgilio, Lucano, Valerio Massimo, e anche Boezio): queste ultime tanto più rigogliose, e puntellate da manoscritti di pregio, e con presenze – esplicitate o meno – di precise personalità di volgarizzatori (per lo più notai) e di committenti e destinatari di alto livello sociale (per lo più ricchi borghesi). Anche le ambizioni stilistiche di quei volgarizzamenti dai classici sono, in genere, più alte e individualmente caratterizzate rispetto ai più umili intenti di versione letterale, o comunque il più 9 Cf. ibid., 97–99. 10 Entrambi sono registrati nell’inventario quattrocentesco dei libri della confraternita, datato 1492: cf. Manetti/Savino (1990, 159, 190–192). 11 Utili spunti in questa direzione presso Corbellini (2011).
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possibile fedele, perseguiti dai devoti volgarizzatori dalla Bibbia. Per altro verso, certi altri volgarizzamenti da testi religiosi, per esempio dalle Vite dei Santi Padri, o da un testo come i Documenta antiquorum (Ammaestramenti dagli antichi) del domenicano Bartolomeo da San Concordio, venivano prodotti e poi circolavano in primo luogo all’interno degli Ordini religiosi, i Domenicani anzitutto (un cui rappresentante trecentesco, Iacopo Passavanti, in un noto passo dello Specchio di vera penitenza esprime diffidenza contro i volgarizzamenti biblici): essi si trovavano a beneficiare così di veicoli di trasmissione tanto più prestigiosi. Gli ambienti di prima circolazione delle Bibbie toscane, invece, dovettero essere diversi, ossia principalmente la rete delle confraternite laiche (dove anche si producevano e si diffondevano, per altro verso, i laudari).
3 La versione tosco-meridionale: tradizione manoscritta Una distinta versione è quella offerta all’interno – o meglio all’inizio – di un’altra serie di raccolte coi libri dell’Antico Testamento, etichettata ultimamente come AT2 da Leonardi e Natale: la serie è rappresentata anzitutto dai due omogenei mss. 1552–1553 della Biblioteca Angelica di Roma (AntTestAng), senza indicazioni esplicite di data e luogo di confezione, ma databili per la scrittura e la decorazione tra fine Trecento e inizio Quattrocento; quindi dal ms. Parigino It. 1, il quale col gemello Parigino It. 2 costituisce la grande Bibbia intera confezionata per gli Aragonesi di Napoli nel terzo quarto del Quattrocento (e perciò etichettabile come BibbiaNap).12 Già nel primo testimone – un membranaceo di grande formato, alquanto decorato e di aspetto ragguardevole – questa versione si presenta in una veste linguistica certo sempre di base toscana, ma con una patina – marcata all’inizio, poi sempre meno – decisamente meridionale, o più precisamente napoletana:13 sembra perciò lecito etichettarla come «versione tosco-meridionale», per
12 Cf. Leonardi/Menichetti/Natale (2018, xvi–xvii, 200–201, 244–252, Tavv. xxii, xxv). Invece, il Genesi non è presente nell’altra grande Bibbia meridionale, ora mss. Par. Itt. 3–4, pure proveniente dalla biblioteca dei re di Napoli, ma più addietro risalente alla raccolta di Angilberto Del Balzo, conte di Ugento e duca di Nardò, sottoscritta fra 1466 e 1472 dal domenicano Nicola di Nardò, poiché essa parte dal libro di Esdra, giungendo poi fino all’Apocalisse: cf. ibid., xvii, 217–232. 13 I tratti linguistici extra-toscani che emergono soprattutto nei primi fogli riconducono con buona sicurezza verso l’area meridionale e napoletana in particolare, quali (a parte la grafia ‹cz› per ‹z›, pure geograficamente significativa) i tipi quillo, dubituso, la facze, l’articolo lu, i passati
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distinguerla da quella toscana. Certo, non è da escludere che il testimone più antico, AntTestAng, non faccia altro che aggiungere una patina dialettale a un antigrafo pure toscano, e in tal caso quell’etichetta risulterebbe impropria, ossia rispecchierebbe solo una linea di diffusione; ma allo stato attuale della documentazione, in assenza di nuovi ritrovamenti, si può considerare quella versione (e forse tutto AT2) come il risultato di un’operazione – anche solo di parziale adattamento, di acclimatazione – condotta in area meridionale, magari nell’àmbito culturale tardo-angioino (dove peraltro non mancano altri episodi paralleli di adattamento di prototipi letterari toscani), e poi in quello aragonese. Quanto alle caratteristiche generali di questa nuova versione del Genesi, essa evidentemente presuppone la precedente toscana, che sovente riprende, ma su di essa introduce numerosi interventi, ora per semplici divergenze lessicali, ora per una qualche volontà di maggiore aderenza al latino della Vulgata, ora per l’aggiunta di qualche esplicazione (cf. per esempio, già nel capitolo i, il versetto 20). Va inoltre segnalato il fatto rilevante che, all’altezza del terzo quarto del Quattrocento, spicca nella tradizione dei volgarizzamenti dalla Bibbia un manufatto monumentale (per quanto cartaceo, e senza particolare lusso esteriore) quale la Bibbia napoletana fatta per i re d’Aragona (attuali mss. Parigini Itt. 1 e 2), cui pure si affianca quella prodotta per la piccola corte salentina di Angilberto Del Balzo (attuali mss. Parigini Itt. 3 e 4). Peraltro, in quegli stessi anni, 1470, anche la versione toscana viene riportata su un livello di alto prestigio quale appare attorno al 1470 dall’aspetto esteriore dei due tomi ora alla Bibliothèque Municipale di Lione (mss. 1367 e 1368, con perdita del tomo iniziale), di lussuosa confezione medicea. Evidentemente, a quell’altezza cronologica la Bibbia in volgare entra a far parte dei testi accreditati anche al livello delle raccolte librarie signorili.
4 Le prime Bibbie a stampa in volgare italiano: le due edizioni del 1471, dell’agosto (Malerbi) e dell’ottobre Il quadro delle versioni tre-quattrocentesche dall’Antico Testamento si conclude nel 1471 con la Bibbia in due grossi tomi in-folio curata dal camaldolese Nicolò Malerbi e portata alla stampa a Venezia da Vindelino da Spira con la data del
remoti creào, mostrào, caczào, disti, facisti, mangiassevo, e altri. Si ringrazia Vittorio Formentin per la disponibilità offerta a confermare la caratterizzazione dialettale della patina.
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primo agosto (IncMalerbi):14 essa, com’è in parte noto, si fonda su un rinnovato ricorso alla Vulgata, ma presuppone a monte anche un’utilizzazione di precedenti versioni, quelle toscane in primo luogo (mentre sembrano di scarso rilievo gli apporti locali, cioè veneti).15 Di lì a qualche mese, usciva a stampa, senza note tipografiche, ma con data 1o ottobre 1471, un’altra traduzione, pure in due grossi tomi in-folio (IncOtt1471): essa si rivela in parte indipendente da quella del Malerbi, ossia fondata su altri filoni di tradizione manoscritta, in parte desunta da essa (particolarmente nella seconda parte), e pure con nuovi rifacimenti, più o meno pesanti, da analizzare caso per caso.16 La stampa del Malerbi venne sovente ripresa negli anni successivi, con ritocchi e piccole aggiunte, e anche con buone silografie, nel corso dello stesso secolo (1477–’78, 1478, 1481, 1484, 1487, 1490, 1492, 1493, 1494), e poi nel successivo (1502, 1507, 1517, 1525, 1532, 1541, 1544–’46, 1553, 1556, 1556–’67, 1558, 1567).17
5 Altre versioni cinquecentesche La tappa successiva, per l’Antico Testamento, è costituita dalla versione curata da Antonio Brucioli e messa a stampa nel 1532: questa però si presenta come condotta direttamente sul testo ebraico, e dunque mette in atto una strumentazione linguistica e una progettualità completamente diverse. Seguirono le prove di Sante Marmochino (dal 1538, poi con revisioni dal 1545) e di Francesco Rustici (dal 1562). Ma con la versione del Brucioli, prima versione in volgare italiano
14 Cf. ISTC, scheda ib00640000: 21 le copie censite (qui si utilizza quella alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Pal. D.7.1.6), di cui sei su pergamena, e più d’una lussuosamente miniata a mano; cf. Alexander (1994, 166–170). È una conferma del fatto che nel terzo quarto del Quattrocento la Bibbia in volgare fa il suo ingresso, con altri testi volgari, nelle grandi biblioteche signorili e nobiliari. 15 Si tratta della prima traduzione della Bibbia in un volgare neolatino messa a stampa (in altro àmbito, la precede solo la Bibbia in tedesco stampata a Strasburgo nel 1466). Ammirevole e imponente il lavoro filologico compiuto dall’editore (con collaboratori), il quale poi nel 1475 dava fuori presso Nicolas Jenson un’altra grande opera, la Legenda aurea in volgare: cf. Barbieri (2007). 16 Cf. ISTC, scheda ib00639000: 21 le copie censite (qui si utilizza quella alla Biblioteca Nazionale di Firenze, Banco Rari 8). Fra i volgarizzamenti biblici del Tre-Quattrocento, questo è il solo che dispone di una riedizione moderna: Negroni (1882–1887). Priva del nome dello stampatore, essa era un tempo attribuita alla stamperia di Nicolas Jenson, ed era perciò detta «Bibbia Jensoniana»; ma ora si tende ad attribuire la stampa alla tipografia di Adam von Ammergau. 17 Cf. Barbieri (1992, vol. 1, 15–106, 187–372).
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condotta sull’originale ebraico, si apre un’altra stagione della fortuna o sfortuna italiana del Genesi e dell’Antico Testamento, che segue tutto un altro percorso filologico e linguistico, ancora più tormentato e controverso, anche perché fortemente intrecciato col travaglio religioso del Cinquecento.18
6 Versioni individuali Tornando alla tradizione manoscritta tre-quattrocentesca, andranno ricordati separatamente altri due codici, ciascuno dei quali riporta una versione a suo modo individuale del primo libro biblico, s’intende discendente sempre dalla Vulgata. Il ms. Riccardiano 1655 è una sorta di zibaldone copiato da più membri della famiglia fiorentina dei Ricci fra Tre- e Quattrocento, in primo luogo da Ardingo di Corso, morto nel 1408, e dal figlio Romigi di Ardingo; quest’ultimo ai ff. 7v–43r copia una sua versione del Genesi, che apre con un personale prologo e chiude con una lunga sottoscrizione datata 1399:19 tale versione è il risultato di un personale impegno da parte dell’autore-copista, che sembra presupporre la versione toscana vulgata, ma si permette, pur con discontinuità, molte libertà d’intervento, e anche diversi errori (è difficile dire se solo nella copiatura o più a monte nell’interpretazione); in ogni caso essa non risulta aver avuto diffusione oltre quel testimone, e dev’essere considerata alla stregua di una rielaborazione pressoché solo personale. Un’altra versione individuale è quella preparata a Napoli da Ghinazzone da Siena, detto Oriente Senese, per Iñigo de Guevara, gran siniscalco di Alfonso V d’Aragona, morto nel 1462 (utile termine ante quem per la composizione): essa è conservata – in veste linguistica toscana – nell’attuale ms. Parigino It. 85, che raccoglie il volgarizzamento dal Pentateuco e dal libro di Giosuè dedicato appunto dal senese al potentato aragonese; le frequenti minute correzioni fanno credere che si tratti di un testimone autografo, ma in ogni caso non risulta che questa versione abbia avuto séguito oltre il testimone unico.20
18 Cf. Fragnito (1997). Utili sondaggi per i rapporti linguistici e anche editoriali fra le versioni a stampa sono quelli di Pierno (2000) e di D’Aguanno (2012). 19 Cf. Leonardi/Menichetti/Natale (2018, 145–149). 20 Cf. ibid., 232–234 e, soprattutto, Cornagliotti (1997b). Secondo la Cornagliotti, il volgarizzamento – che nel codice, verosimilmente autografo, si presenta in veste toscana – si fonda sulla Bibbia aragonese, attuale ms. It. 1 della Bibliothèque nationale de France.
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7 Altre ramificazioni Richiederebbero, o meglio richiederanno, una considerazione a parte altri manoscritti che del Genesi offrono compendi, specie entro un più ampio Fiore della Bibbia o dell’Antico Testamento, talvolta pure con espositioni, sempre in volgare.21 Anche le trasposizioni in versi dovranno essere valutate a parte.22 Un’area di qualche interesse anche per il Genesi, dalla Bibbia istoriata padovana tardotrecentesca in poi, è il Veneto, dove però non risultano prodursi volgarizzamenti completi dal primo libro biblico.23 Un altro settore meritevole di un esame a sé stante è poi quello delle versioni giudeo-italiane.24 E in un discorso anche
21 Per questa ricerca, sono stati visionati molti Fiori o Fioretti della Bibbia o dell’Antico Testamento come possibili testimoni di un Genesi o un Antico Testamento in volgare (e in passato qualcuno in effetti è stato presentato appunto come latore di una versione biblica); ma l’esame diretto ha portato ad escluderli da un censimento mirato ai veri e propri volgarizzamenti dal libro biblico, poiché almeno del Genesi essi dànno solo estratti o citazioni, inseriti in trattazioni più larghe. Si dà qui il nudo elenco dei codici esaminati e scartati: alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze il ms. Acquisti e Doni 785; alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze i mss. II.iv.107, Palatini 126 (datato 1444) e 576, Panciatichi 41 e 51 (datato 1415), e Nuovi Acquisti 1045 (veneto, con spazi intercalati al testo per vignette, non eseguite); alla Riccardiana i mss. 1265, 1279, 1380, 1628, 1672; alla Biblioteca Angelica di Roma il ms. 1554; alla Corsiniana il ms. 43.D.9 (1827); alla Biblioteca Apostolica Vaticana i mss. Vat. lat. 7208 (silloge ben organizzata, per cui cf. la scheda presso Leonardi/Menichetti/Natale 2018, xvi, 33–38) e Vat. Barb. lat. 3665, datato 1463; alla Biblioteca Comunale di Bologna il ms. A 252; alla Biblioteca Estense e Universitaria di Modena i mss. Alpha G.5.10 (Ital. 382), datato 1413, e Alpha H.3.6 (Ital. 437); alla Trivulziana di Milano il ms. 545; alla Marciana di Venezia i mss. Itt. ii, 13 (= 4937), vi, 52 (= 6029; con vignette intercalate), vi, 81 (= 5975; che è piuttosto una versione dall’Histoire ancienne per la materia biblica), e vi, 285 (= 6192); alla Bodleian Library di Oxford i mss. Canonici Itt. 94 e 126; alla Österreichische Nationalbibliothek di Vienna il ms. 3314, datato 1466; e il ms. C 805 della Universitetsbiblioteket di Uppsala, datato 1474. Ciascuno di questi manoscritti, peraltro, attende uno studio approfondito, entro un esame della produzione e diffusione dei compendi o fioretti biblici; e qualche dato di tradizione indiretta potrebbe essere sicuramente ricavato: per esempio, il codice ora ad Uppsala testé citato – che sembra vicino al Bodl. Canonici It. 94 – ai ff. 1r–2r dà una versione veneta pressoché completa del primo capitolo del Genesi, ma intercalata entro un’esposizione più estesa. 22 Per esempio, il ms. Parigino It. 109, datato 1463, contiene un Genesi in ottave di un Pietro da Napoli, di area aragonese: cf. la scheda stesa nel 2010 da Cristina Scarpini entro il sito Internet CASVI (‹http://casvi.sns.it›). Un altro caso interessante è costituito dal curioso poema biblico dato dal ms. Vat. lat. 4821 come prodotto fra 1395 e 1402 da un Ciriaco marchigiano: cf. Lattès (1932, 189–192). 23 Le testimonianze di area veneta, pur rilevanti, ma isolate (tanto che non da esse presero le mosse le edizioni veneziane del 1471), saranno illustrate dallo scrivente in un breve lavoro a parte, Esercizi di volgarizzazione dal «Genesi» in area veneta fra Tre e Quattrocento (in preparazione). 24 Cf. Ferretti Cuomo (1995).
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culturalmente più ampio andrebbero considerati pure gli interventi esegetici in volgare, eventualmente utili anche come parziali testimoni indiretti, come le prediche sul Genesi di Giordano da Pisa.25 Nessuno di questi episodi, comunque, si configura come vero e proprio volgarizzamento completo dal Genesi, e dunque essi possono essere lasciati ai margini di questo primo progetto di edizione.
8 Per un saggio di edizione del primo capitolo del Genesi in volgare italiano Dopo questa ricognizione dei testimoni, rapida ma esaustiva (relativamente alla documentazione nota), conviene cominciare a pensare a un’ipotesi di edizione dei testi, principiando appunto dalla parte iniziale del Genesi, e anzitutto dalla prima versione individuata, quella toscana trecentesca. Che i sette testimoni toscani (sei per la parte iniziale) risalgano a una medesima versione, non pare dubbio. Tuttavia, allo stato attuale delle indagini sembra arduo e prematuro formulare un’ipotesi lachmanniana di rapporti verticali. Certo, risultano evidenti alcuni legami più stretti, anzitutto fra i due codici senesi, accomunati macroscopicamente da una divisione in brevi paragrafi, con appositi titoletti (omogenei però solo per il tratto iniziale), i quali mancano dai codici fiorentini (a parte però il tardo MaglMiscColombini). Tuttavia, a parte gli errori incidentali, ma a quanto pare sempre singulares, o pure poligenetici (non indicatori, dunque, di sicuri rapporti diretti), affiorano nei singoli testimoni continue varianti individuali che si configurano prevalentemente come micro-varianti formali (pur interessanti), e spesso anche come distinte scelte lessicali o sintattiche, oppure senz’altro di sostanza, foss’anche per un’omissione – difficile dire se intenzionale o meno –, o per una breve aggiunta esplicativa. Del resto, è un fatto in parte noto, e del resto prevedibile, che la tradizione dei volgarizzamenti biblici si presenta come particolarmente attiva, o meglio ancora rielaborativa, o evolutiva. Più che per altri testi, il copista di un volgarizzamento biblico – o qualcun altro alle sue spalle, a guidarlo – deve essersi sentito legittimato a intervenire sul testo volgare da trascrivere (non provvisto ai suoi occhi di particolare intangibi-
25 Risulta che il domenicano pisano abbia tenuto tre cicli di prediche volgari sui primi tre capitoli del Genesi – primo intervento esegetico in volgare sul libro biblico – negli anni 1307, 1308 e 1309, ma solo il secondo e il terzo sono stati conservati e modernamente editi: Giordano da Pisa (1992; 1999). A ogni buon conto, i versetti biblici posti all’inizio di ogni predica sono riportati in latino.
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lità autoriale) anzitutto sulla base di reiterati controlli sul latino della Vulgata, o per diversi intenti di «miglioramento» o adattamento o maggiore esplicitazione. La presenza di una selva di piccole innovazioni in ciascun testimone sembra scoraggiare la scelta di procedere verso l’edizione di un testo comune, con la registrazione di tutte le varianti dei singoli testimoni in un apparato: quest’ultimo verrebbe necessariamente a configurarsi come ipertrofico, di difficile lettura, e con evidente sacrificio dell’organica individualità dei testimoni. Tuttavia, anche un orientamento bédieriano, mirato all’individuazione di un bon manuscrit, scelto come base esclusiva o privilegiata per un’edizione, si presta a dubbi e discussioni (peraltro, già nel 1894 Samuel Berger aveva promosso il ms. AntTestSen come «notre meilleur manuscrit»). Alla fin fine, la scelta di un’edizione sinottica – così praticata nella tradizione editoriale biblica, pur con diverse applicazioni – potrebbe essere, provvisoriamente, un’ipotesi sostenibile.26 Si presenta qui, dunque, una sorta di edizione sinottica della varia lectio offerta dai sei testimoni della versione toscana. Sulla controfacciata destra, per motivazioni analoghe, si presentano anzitutto i passi corrispondenti della versione successiva, qui etichettata come tosco-meridionale, secondo l’AntTestAng e la BibbiaNap, ossia i due testimoni noti (non sempre concordi, anche perché distanziati di mezzo secolo). Infine, a completare la documentazione trequattrocentesca, si presentano i versetti corrispondenti secondo la versione messa a stampa nell’agosto 1471, ossia quella del Malerbi, e quella dell’ottobre dello stesso anno. Si può così, finalmente, dare un saggio di lettura del Genesi in antico volgare italiano, pur limitato al capitolo iniziale, relativo alla Creazione. Restano molti dubbi se, in prospettiva futura, converrà portare avanti con quest’impostazione tipograficamente laboriosa l’edizione di tutto il libro. Ma almeno, questo esperimento di edizione avrà il vantaggio di fornire una documentazione distesa delle lezioni di ciascun testimone, e anche della mutevolezza delle forme, utili per uno studio linguistico; ancora, con un opportuno commento delle varianti, esso potrà fornire un supporto per esercitazioni filologiche, e per una discussione fra studiosi.27
26 Per l’impostazione editoriale il modello più vicino, utilizzato comunque per la tradizione esegetica, è la mirabile edizione del Genesi (1986) a cura di Umberto Neri. Per altri aspetti è utile il confronto con l’ed. di Genesi (2015), a cura di Roberto Reggi entro la collana La Bibbia quadriforme. 27 A questo fine, può essere opportuno dare qui qualche indicazione. I passi nei quali più interessante è il confronto fra le diverse lezioni sono i versetti 3, 5, 7, 14, 16, 18, 19, 20, 21, 23, 25, 26. Varianti individuali più o meno rilevanti si hanno in AntTestGozzi ai versetti 12, 18 e 20; in AntTestCantabr: 8, 10, 12, 13, 14, 25; in AntTestAshb: 6, 14, 17–18 [om.], 21, 22, 24, 27, 30, 31; in AntTestSen: 7, 18, 21, 23
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8.1 Regesto delle grafie Puntando a una lettura distesa delle singole versioni, si è deciso di presentare una trascrizione non strettamente diplomatica, bensì interpretativa. Fermo restando il più rigoroso rispetto di tutte le varianti formali, si è scelto però anche di non seguire la mutevolezza dei più correnti usi grafici (anche all’interno di uno stesso ms., per esempio nell’AntTestGozzi chosì ~ così, sechondo ~ secondo, legnio ~ legnio e così via, spessissimo), e di instaurare una certa regolarità nelle grafie; d’altra parte, è parso corretto rendere ragione di tutti i (lievissimi) ritocchi grafici in uno specifico regesto. Solo due particolarità sono state conservate, in quanto ritenute di qualche interesse storico-culturale: la grafia ‹cz› per la normale ‹z› (anche doppia, o anche post-consonantica), che è specifica e frequente nel solo ms. AntTestAng, e fornisce un indizio per l’àmbito geografico dello scrivente (meridionale); inoltre, nel ms. della BibbiaNap sono state rispettate le due occorrenze della t cedigliata (a 1,12 e 1,21). Per quanto riguarda la congiunzione coordinativa, si rispetta l’alternanza fra e ed et, quest’ultima preferita dai codici quando si trova a inizio di frase; ma la nota tironiana è stata sciolta come e, e così & in IncOtt1471. In AntTestGozzi: 1,1: chominciamento; 1,1, poi 1,4, 1,5, 1,18: lucie; 1,7: fermmamento; 1,8, poi 1,11, 1,12, 1,24: sechondo; 1,9: raghunisi; 1,9: luogho; 1,9: aparescha; 1,9, poi 1,11, 1,24, 1,30: chosì; 1,11: giermini; 1,11, poi 1,12: facciendo; 1,11, poi 1,12: legnio; 1,11, poi 1,12, 1,21, 1,24, 1,29: gienerazione; 1,11: senpiterno; 1,12: virzichante; 1,12, poi 1,24, 1,26, 1,29: ciaschuno; 1,14, poi 1,16, 1,20, 1,24, 1,26: anchora; 1,14: tenpi; 1,16, poi 1,25: fecie; 1,17: luciessero; 1,22, poi 1,28: diciendo; 1,22, poi 1,28: cresciete; 1,22, poi 1,28: rienpiete; 1,22, poi 1,26, 1,28, 1,30: uccielli; 1,24: producha; 1,24: picchole; 1,25: gienero; 1,28: multiplichate; 1,28: signioregiate; 1,28, poi 1,30: chose; 1,29: eccho; 1,29: facciente. In AntTestCantabr: 1,6: meçço; 1,9: chosì; 1,11, poi 1,12: legnio; 1,12: verçicante. In AntTestAshb: 1,6: meçço; 1,9: aparischa; 1,11, poi 1,12: facciendo; 1,11, poi 1,12: legnio; 1,11, poi 1,25: gienerazione; 1,16, poi 1,25: fecie; 1,21: ongni; 1,22, poi 1,28: cresciete; 1,24: producha; 1,28: signioreggiate; 1,29, poi 1,30: escha; 1,31: sexsto.
[om.], 25, 27, 30, 31; in LibriStorATSen: 5, 10, 12, 13, 15, 24; in MaglMiscColombini: 7 [om.], 9, 13, 18 [om.]; in AntTestAng: 2, 6, 20, 31; in BibbiaNap: 3 [om.], 8, 12, 25, 28 [om.], 30 [om.]; in IncMalerbi: 4, 6, 18, 21, 26, 27; in IncOtt1471: 9, 11, 14 (forse errore), 18, 29. Si segnalano inoltre le lezioni dei singoli testimoni che sembrano da doversi interpretare più facilmente come errori del copista che come fraintendimenti del traduttore: in AntTestGozzi ai versetti 1, 20, 26; in AntTestCantabr: 7, 12, 21, 29 (qui per un’omissione che si ritrova anche in AntTestAshb, indizio forse di un rapporto); in AntTestAshb: 5, 7, 29; in AntTestSen: 23; in LibriStorATSen: 2, 3, 9, 14, 20, 21 (2 volte), 27; in MaglMiscColombini: 5, 11; in BibbiaNap (dove un’autocorrezione è al versetto 27: e cossì la femina è anticipato dopo la prima ymagine, ma poi espunto con puntini posti sotto le singole lettere): 3 (se l’omissione non è intenzionale); e in IncOtt1471: 26 (banale errore di stampa).
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In AntTestSen: 1,3, poi 1,4, 1,5, 1, 18: lucie; 1,6: meçço; 1,7, poi 1,9, 1,11, 1,15, 1,24, 1,30: chosì; 1,8: sechondo; 1,9: raghuegliamento; 1,9: giermuglio; 1,9: luogho; 1,9: aparischa; 1,10: chongreghaçioni; 1,11: giermini; 1,11, poi 1,12: faciendo; 1,11, poi 1,12, 1,21, 1, 24: sichondo; 1,11, poi 1,12, 1,21, 1,24, 1,25, 1,26, 1,29: gieneraçione; 1,12: verçichante; 1,12, poi 1,29: lengno; 1,12, poi 1,21: speçie; 1,13: terço; 1,14, poi 1,16, 1, 20, 1,26: anchora; 1,14: sengni; 1,14: luchano; 1,16, poi 1,25: fecie; 1,17: luciessero; 1,20: feruchole; 1,20, poi 1,22, 1,26, 1,28, 1,30: ucielli; 1,21, poi 1,29, 1,30: ongni; 1,21, poi 1,28, 1,30, 1,31: chosa; 1,22, poi 1,28: diciendo; 1,22, poi 1,28: cresciete; 1,22, poi 1,28: moltiplichate; 1,28: rienpite; 1,24: producha; 1,24, poi 1,26, 1,29: ciaschuno; 1,24: pichole; 1,28: singnoregiate; 1,29: eccho; 1,29: faciente; 1,29: semença; 1,29: escha. In LibriStorATSen: 1,1, poi 1,3, 1,4: lucie; 1,6: meçço; 1,9: aparischa; 1,11, poi 1,12, 1,29: lengno; 1,11: generaçione; 1,11, poi 1,15: chosì; 1,12: verçicante; 1,12: faciendo e facendo; 1,12, poi 1,21, 1,24, 1,29: ciaschuno; 1,13: terço; 1,14, poi 1,26: anchora; 1,14: sengni; 1,15: luchano; 1,19: merchurdì; 1,21, poi 1,29: omgni, omgne; 1,22, poi 1,28: cresciete; 1,22: rinpiete; 1,26: feruchule; 1,28: singnoregiate; 1,29: eccho; 1,29: faciente; 1,29: escha. In MaglMiscColombini: 1,1: Gienesis; 1,1: chominciamento; 1,3, poi 1,4, 1,5, 1,18: lucie; 1,6, poi 1,8, 1,11, 1,12, 1,21, 1,24, 1,25: sechondo; 1,6: meçço; 1,9: giermuglio; 1,9, poi 1,13: terço; 1,9: luogho; 1,9: aparischa; 1,10: chongreghatione; 1,11: giermini; 1,11, poi 1,12: facciendo; 1,11, poi 1,12: legnio; 1,11, poi 1,12, 1,21, 1,24, 1,29: gieneraçione; 1,11, poi 1,30: chosì; 1,12: verçichante; 1,12, poi 1,24, 1,26, 1,29: ciaschuno; 1,12, poi 1,21, 1,24: speçie; 1,14, poi 1,16, 1,20, 1,26: anchora; 1,15: luchano; 1,16, poi 1,25: fecie; 1,17: luciessono; 1,19: mercholedì; 1,20, poi 1,26: feruchole; 1,20, poi 1,30: ucciegli; 1,20, poi 1,21, 1,28, 1,30, 1,31: chose; 1,22: diciendo; 1,22, poi 1,28: cresciete; 1,22: multiprichate; 1,22, poi 1,26, 1,28: uccielli; 1,24, poi 1,26: creaçione; 1,24: pichole; 1,25: gienere; 1,28: multiplichate; 1,28: signioreggiate; 1,29: echo; 1,29: facciente; 1,29: esch a. In AntTestAng: 1,8, poi 1,9, 1,20: celo; 1,9: germilglio; 1,12, poi 1,24 (con zascuno), 1,26: zaschuno; 1,21: ciaschuno; 1,22: inplite; 1,29: escha. In BibbiaNap: 1,1, poi 1,9, 1,20, 1,24: chome; 1,6: meço; 1,9: terço; 1,9: luogho; 1,11: faciendo; 1,12: facciendo; 1,12: verçicante; 1,12, poi 1,21, 1,24: ciaschuno; 1,20 (2 volte): anchora; 1,21, poi 1,24: speçie; 1,21: chosa; 1,29: escha. In IncMalerbi: 1,12: faciente (2 volte). In IncOtt1471: 1,9: apparischa; 1,12: verçitante; 1,16: magori; 1,21: adumque; 1,22: uccielli; 1,29: escha.
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Genesi, 1, 1–5 Versione toscana Lezione del ms. AntTestGozzi 1
Nel cominciamento creò Dio lo gielo [Err] e·lla terra. 2 Ma·lla terra era vana e vota, e·lle tenebre erano sopra la faccia dell’abisso, e lo spirito di Dio era portato sopra l’aque. 3 Disse Iddio: «Sia fatta la luce»; e fatta fu la luce; 4 e Dio vide che·lla luce era buona, sì divise la luce dalle tenebre, 5 e apellò la luce dì e·lle tenebre notte; e fatto è tra ’l vespro e·lla mattina lo dì primo uno.
Lezione del ms. AntTestCantabr 1
Nel cominciamento creòe Iddio lo cielo e la terra. 2 Ma la terra era vana e vota, e le tenebre erano sopra la faccia dell’abisso, e lo spirito di Dio era portato sopra l’acque. 3 Disse Iddio: «Sia fatta la luce»; et fue facta la luce; 4 e Iddio vidde che la luce era buona, sì divise la luce dalle tenebre, 5 e appellòe la luce dìe e le tenebre nocte; e tra vespro e la mattina lo dì uno e prima.
Lezione del ms. AntTestAshb 1
Nel cominciamento creò Iddio il cielo e la terra. 2 Ma la terra si era vana e vota, e·lle tenebre erano sopra alla faccia dello abisso, e·llo spirito di Dio era portato sopra a l’acque. 3 Disse Iddio: «Sia facta la luce»; e facta è la luce; 4 et Iddio vidde che la luce era buona, e divise la luce dalle tenebre, 5 e apresso la luce appellò la luce dì e·lle tenebre appellò nocte; era [Err] vespro e·lla mactina fu facto il primo dì.
Lezione del ms. AntTestSen i. Diremo del cominciamento de la divisione de le tenebre da la luna. Capitolo primo 1
Nel cominciamento creò Iddio lo cielo e la terra. 2 Ma la terra era vana e vota, e le tenebre erano sopra a la faccia dello abisso, e lo spirito di Dio era portato sopra all’aque. 3 Disse Iddio: «Sia fatta la luce»; e fatta fu la luce; 4 e Idio vidde che la
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Versione tosco-meridionale Lezione del ms. AntTestAng i. Come nel primo giorno Idio creào la luce spartendola dalle tenebre, appellando la luce dì e le tenebre nocte. Capitulo primo 1
Nel comenczamento creào Dio lo cielo e la terra. 2 La terra era vana e vota, e le tenebre erano sopra la facze de la terra e de lo abysu, et lo spiritu de Dio era portato sopra l’acque. 3 Et dixi Dio: «Sia facta la luce»; et facta foe la luce; 4 et vedendo Dio che la luce era bona, sì la divise da le tenebre, 5 et appellàose la luce dì e le tenebre nocte; et facto è tra ’l vespero e la matina lo dì prima.
Lezione del ms. BibbiaNap i. Come nel primo giorno Iddio creò la luce spartendola dalle tenebre, appellando la luce dì e·lle tenebre nocte. Capitolo primo 1
[N]el chominciamento creò Idio il cielo e·lla terra. 2 La terra era vana et vota, e le tenebre erano sopra la faccia de l’abysso, e lo spirito di Dio era portato sopra l’acque. 3 E disse Idio: «Sia facta la luce»; [Err: om.] 4 et vedendo Idio che la luce era buona, sì la divise dalle tenebre, 5 et appellò la luce dì e le tenebre nocte; e facto è tra ’l vespro e la matina lo dì primo.
Versioni a stampa nel 1471 Versione dell’IncMalerbi [Capitulo. i.] 1
Nel principio Dio creò il cielo et la terra, 2 et la terra era infructuosa et vacua, et le tenebre erano sopra la faccia de l’abisso, et il spirito del Signore era menato sopra le acque. 3 Disse Dio: «Sia facta la luce»; et facta è la luce; 4 et vide Dio la luce esser buona, et divise la luce dalle tenebre, 5 et appellò la luce dì et le tenebre nocte; et facto è la sera et matina uno dì.
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Massimo Zaggia
luce era buona, sì divise la luce da le tenebre, 5 e apellò la luce dì e le tenebre notte; e fatto è tra ’l vespero e la mattina lo primo giorno.
Lezione del ms. LibriStorATSen i. Del cominciamento della luce e de la divisione de le tene[bre] alla luce e da lo dìe. Capitolo i 1
Nel cominciamento creò Dio lo cielo e la terra. 2 Ma la ra [Err] era vana e vota, e le tenebre erano sopra la faccia dell’abisso, e lo spirito di Dio era portato sopra l’acque. 3 Disse Iddio: «Sia facta luce»; [Err: om.] 4 et Dio vidde che la luce era buona, sì divise la luce delle tenebre, 5 e chiamò la luce dii e le tenebre nocte; e facto è tra lo vespero e la mactina lo dì uno e primo.
Lezione del ms. MaglMiscColombini i. Capitolo primo del Genesis, primo libro 1
Nel cominciamento creò Iddio lo cielo e la terra. 2 Ma la terra era vana e vota, e·lle tenebre erano sopra la faccia dello abisso, e·llo spirito d’Iddio era portato sopra l’acque. 3 Disse Iddio: «Fatta sia la luce»; e fatta fu la luce; 4 e Iddio vidde che la luce era buona, e divise la luce dalle tenebre, 5 e appellato [Err] la luce dì e la notte tenebre; e fatto è tra il vespro e la mattina lo dì uno e primo.
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione dell’IncOtt1471 C. i. 1
Nel principio creò Idio lo cielo e la terra. 2 Ma la terra era vana e vota, et le tenebre erano sopra la faccia dell’abisso, e lo spirito di Dio era portato sopra l’acque. 3 Disse Idio: «Sia fatta la luce»; e fata è la luce; 4 e Idio vide che la luce era buona, e sì divise la luce dalle tenebre, 5 et appellòe la luce dìe e le tenebre nocte; e tra il vespro e la matina lo dì uno e primo.
Vulgata 1 1 In principio creavit Deus caelum et terram. 2 Terra autem erat inanis et vacua, et tenebrae super faciem abyssi, et spiritus Dei ferebatur super aquas; 3 dixitque Deus: «Fiat lux»; et facta est lux; 4 et vidit Deus lucem quod esset bona et divisit lucem ac tenebras; 5 appellavitque lucem diem et tenebras noctem; factumque est vespere et mane dies unus.
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Massimo Zaggia
Genesi, 1, 6–8 Versione toscana Lezione del ms. AntTestGozzi 6
In verità Idio disse: «Sia fatto il fermamento nel mezzo dell’aque, e dividansi l’aque dall’aque»; 7 e fatto è il fermamento, e Dio divise l’aque, le quali erano sotto il fermamento, da quelle ch’erano sopra fermamento; 8 sì chiamò Idio lo fermamento cielo; e fatto è tra ’l vespro e·lla mattina lo dì secondo.
Lezione del ms. AntTestCantabr 6
In verità Iddio disse: «Sia facto lo fermamento nel mezzo dell’acque, e dividansi l’acque dall’acque»; 7 e facto è il fermamento; Dio divise l’acque, le quali erano se non [Err?] il fermamento, da quelle ch’erano sopra il fermamento; 8 che chiamòe Idio lo fermamento cielo; e facto è tra lo vespro e la mattina.
Lezione del ms. AntTestAshb 6
In verità Iddio disse: «Sia facto il fermamento nel mezzo dell’acque, e divisonsi l’acque da l’acque»; 7 e facto è il fermamento, Iddio divise l’acque, le quali erano e sono [Err?] il fermamento, da quelle ch’erano sopra il fermamento; 8 sì che chiamò Iddio il fermamento cielo; e facto è tra ’l vespro e·lla mactina lo dì secondo.
Lezione del ms. AntTestSen ii. De la divisione dell’aque e fermamento tra·lloro fatto. Capitolo ii 6
In verità disse Iddio: «Sia fatto il fermamento in mezzo dell’aqua, e dividansi e l’aque dall’aque»; 7 e fatto è il fermamento, e Iddio divise l’aque, le quali erano sotto il fermamento, da quelle ch’erano di sopra il fermamento; e così fu fatto; 8 e chiamò Iddio lo fermamento cielo; e fatto è tra ’l vesparo e la mattina lo dì secondo.
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione tosco-meridionale Lezione del ms. AntTestAng ii. Del secondo dì de la divisione de l’acque et del fermamento facto intra loro. 6
In veritate Dio dixe: «Sia facto lo firmamento nel meczo dell’acque»; e divise l’acque dall’acque; 7 et facto fo lo firmamento, et Dio divise l’acque, le quale erano socta lo firmamento, da quelle ch’erano sopra lo firmamento; et facto questo, 8 chiamò lo firmamento cielo; et facto è tra ’l vespero e la matina lo dì secondo.
Lezione del ms. BibbiaNap ii. Del secondo dì de la divisione dell’acque e del fermamento facto intra loro. 6
In verità Idio disse: «Sia facto il fermamento in mezo dell’acque, e dividansi l’acque dall’acque»; 7 e facto foe il fermamento, et Idio divise l’acque, le quali erano sotto il fermamento, da quelle ch’erano sopra al fermamento; et facto questo, 8 Idio chiamò il fermamento cielo; et facto è tra ’l vespero e la mattina il dì secondo.
Versioni a stampa nel 1471 Versione dell’IncMalerbi 6
Etiam disse Dio: «Sia facto il firmamento in mezo de le acque, il quale divida le acque da le acque»; 7 et fece Dio il firmamento, et divise le acque, che erano sopto il firmamento, da quelle che erano sopra il firmamento; et facto è così; 8 et chiamò Dio il firmamento cielo; et facto è sera et matina il secondo dì.
Versione dell’IncOtt1471 6
In verità Idio disse: «Sia fatto lo fermamento nel mezzo de l’acque, e dividanse l’acque da l’acque»; 7 e facto è il firmamento, e Dio divise l’acque, le quali erano
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Lezione del ms. LibriStorATSen ii. Della divisione dell’acque e il fermamento intra·lloro fatto. Capitolo ii 6
In verità Iddio disse: «Sia facto el fermamento nel mezzo dell’acque, e dividansi l’acque dall’acque»; 7 et facto è ’l fermamento, et Dio divise l’acque, che erano socto el fermamento, da quelle che erano sopra il fermamento; 8 et sì chiamò Dio lo fermamento cielo; et facto è tra lo vesparo e la mactina lo dì secondo.
Lezione del ms. MaglMiscColombini ii. Della divisione dell’acque e del fermamento facto intra loro. Capitolo secondo 6
In verità Iddio disse: «Sia facto il fermamento nel mezzo dell’acque, e dividansi l’acque dall’acque»; 7 e fatto è il fermamento, e Dio divise l’acque, le quali erano sotto il fermamento, da quelle ch’erano sopra il fermamento; [om.]8 e sì chiamò Iddio lo fermamento cielo; e fatto è tra il vespro e·lla mattina lo dì secondo.
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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sotto il firmamento, da quelle ch’erano sopra il firmamento; e fatto è così; 8 et chiamò Idio lo firmamento cielo; e facto è tra lo vespro e la matina lo dì secondo.
Vulgata 6
Dixit quoque Deus: «Fiat firmamentum in medio aquarum et dividat aquas ab aquis»; 7 et fecit Deus firmamentum divisitque aquas quae erant sub firmamento ab his quae erant super firmamentum; et factum est ita; 8 vocavitque Deus firmamentum caelum; et factum est vespere et mane dies secundus.
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Genesi, 1, 9–11 Versione toscana Lezione del ms. AntTestGozzi 9
Disse in verità Idio: «Ragùnisi l’aque le quali sono sotto lo cielo in uno luogo e aparesca la terra»; e fatto è così; 10 e sì chiamò Idio la terra arrida e le congrecazione dell’aque chiamò mare; e questo vidde Idio ch’era buono 11 e sì disse: «Germini la terra erba verde faccendo seme e i·legno pomifero faccendo frutti secondo la generazione sua,
Lezione del ms. AntTestCantabr 9
Disse in verità Idio: «Ragùnisi l’acque le quali sono sotto lo cielo in uno luogo e apparisca la terra»; e facto è così; 10 e sì chiamòe Idio la terra arida et le congregationi dell’acque chiamò mari; e questo vide Iddio ch’era buono; 11 sì disse: «Germini la terra herba verde faccendo seme e i·legno pomifero faccendo fructo secondo la generatione sua,
Lezione del ms. AntTestAshb 9
In verità disse Iddio: «Ragùnisi l’acque le quali sono socto il cielo in uno luogo e aparisca la terra»; e facto è così; 10 e sì chiamò Iddio la terra arida e·lle congregazioni dell’acque chiamò mare; et questo vidde Iddio che era buono 11 et sì disse Iddio: «Germini la terra erba verde faccendo seme e ’l legno pomifero faccendo fructo secondo la generazione sua,
Lezione del ms. AntTestSen iii. Dello raguegliamento dell’aque sotto lo cielo e germuglio de la terra. Capitolo 3 9
Disse in verità Iddio: «Ragùnisi l’aque le quali sono sotto lo cielo in uno luogo e aparisca la terra»; e fatto fu così; 10 e·ssì chiamò Iddio la terra arida e le congregazioni dell’aque chiamò mare; e questo vide Idio ch’era buono 11 e·ssì disse: «Germini la terra erba verde facendo seme e il legno pomifero facendo frutto sicondo la generazione sua,
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione tosco-meridionale Lezione del ms. AntTestAng iii. Del terczo dì del radunamento de l’acque e del fermamento facto intra loro socto il cielo et germiglio de la terra. 9
In veritate dixi Dio: «Reiùnsi l’acque le quale socta lo cielo sono in uno luoco et apparisca la terra»; et cussì foy facto como Dio dixe; 10 et poi chiamò Dio la terra arida e le congregacione de l’acque chiamò mari; et vedendo Dio chi questo era buono, 11 sì dixe: «Germina la terra herba verde facendo semente et lu suo legno pomifero facza fructo zascuno secondo la generacione sua,
Lezione del ms. BibbiaNap iii. Del terzo dì del raunamento dell’acque e del fermamento facto intra loro sotto il cielo et germiglio la terra. 9
In verità disse Dio: «Raùninsi l’acque le quali sotto il cielo sono in uno luogho et apparisca la terra»; e così fue facto come Idio disse; 10 e poi chiamò Idio la terra arida e le congregationi dell’acque chiamò mari; et veggendo Idio che questo era buono, 11 sì disse: «Germini la terra l’erba verde facendo seme e ’l suo ligno pomifero faccia fructo ciascheduno secondo la generatione sua,
Versioni a stampa nel 1471 Versione dell’IncMalerbi 9
Etiam disse Dio: «Le acque che sono sopto il cielo siano congregate in uno luoco et apparga la arrida terra»; et facto è così; 10 et chiamò Dio la arrida terra et le congregationi de le acque appellò mare; et vide Idio esser buono 11 et disse: «Germine la terra la herba virente et facia il seme et il legno pomifero che faci il fructo secondo la sua generatione,
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Lezione del ms. LibriStorATSen iii. Dello raunamento dell’acque sotto lo cielo e germigli de la terra. Capitolo iii 9
In verità disse Dio: «Raùnisi l’acque che sono socto lo cielo in uno luogo e aparisca la terra»; e facto così et facto [Err]; 10 et sì chiamò Dio la terra arida e le concregationi dell’acque chiamò mari; et questo vidde Dio che era buono; 11 sì disse: «Germini la terra erba verde facendo seme e legno pomifero facendo fructo secondo la generazione sua,
Lezione del ms. MaglMiscColombini iii. Dello raunamento dell’acque sotto il cielo e germuglio della terra. Capitolo terzo 9
Disse in verità Iddio: «Raùninsi l’acque le quali sono sotto lo cielo inn-uno luogo e aparisca la terra arida»; e fatto è; 10 e sì chiamò Iddio la terra arida e·lla congregatione dell’acque chiamò mari; e questo vide Iddio che era buono 11 e disse Iddio: «Germini la terra erba verde faccendo seme e il legno pomifero faccendo frutto secondo la generazione sua,
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione dell’IncOtt1471 9
Disse in verità Idio: «Ragùnisi l’acque le quali sono sotto lo cielo in uno loco e apparisca la arida»; e fatto è così; 10 et sì chiamòe Idio l’arida terra et le congregationi dell’acque chiamò mari; e questo vide Idio ch’era buono 11 e sì disse: «Germini la terra herba verde facendo lo seme e il legno pomifero facendo fructo secondo la generatione sua,
Vulgata 9
Dixit vero Deus: «Congregentur aquae quae sub caelo sunt in locum unum et appareat arida»; factumque est ita; 10 et vocavit Deus aridam terram congregationesque aquarum appellavit maria; et vidit Deus quod esset bonum 11 et ait: «Germinet terra herbam virentem et facientem semen et lignum pomiferum faciens fructum iuxta genus suum,
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Massimo Zaggia
Genesi, 1, 11–13 Versione toscana Lezione del ms. AntTestGozzi il seme del quale sempiterno sia sopra la terra»; e fatto è così; 12 e la terra menò l’erbe virzicante e faccendo seme secondo la sua generazione e i·legno faccendo frutti e avendo ciascuno il seme secondo le spezie sua; vide Idio ch’era questo buono; 13 e fatto è tra ’l vespro e la mattina lo dì terzo.
Lezione del ms. AntTestCantabr il seme del quale sempiterno sia sopra la terra»; e facto è così; 12 e la terra menòe herba verzicante e faccendo seme secondo secondo [Err: rip.] la sua generatione et il legno faccendo fructo e avendo ciascuno il seme secondo la spetie sua; vide Idio che questo era buono; 13 e fatto è tra il vespro e la mattina.
Lezione del ms. AntTestAshb e ’l seme dall’acque sempiterno sia sopra alla terra»; e facto è così; 12 e·lla terra menòe erba verzicante faccendo seme secondo la sua generazione et il legnio facciendo suo fructo secondo la spezie sua; vidde Iddio che questo era buono; 13 e facto è tra ’l vespro e·lla mactina il terzo dì.
Lezione del ms. AntTestSen il seme del quale in sempiterno sia sopra a la terra»; e fatto è così; 12 e la terra menò erba verzicante facendo seme sicondo la sua generazione e il legno facendo frutti e avendo ciascheduno il seme sicondo la spezie sua; vidde Iddio che questo era buono; 13 e fatto è tra ’l vespero e la mattina il terzo dì.
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione tosco-meridionale Lezione del ms. AntTestAng et lo loro semente sia sempiternale sopra la terra»; et facto fo como Dio dixe, 12 menando la terra herba verzicante et facendo semente zascuno secondo la sua generacione e lo legno facendo fructo, avendo zascuno per sé lo semente secondo la sua specia; per la qual cosa videndo Dio che questo era bono, 13 sì fo facto intra ’l vespero e la matina lo dì terczo.
Lezione del ms. BibbiaNap e lo loro seme sempiternale sia sopra la terra»; et facto foe così come Idio disse, 12 menando la terra herba verzicante e facendo seme ciascuno secondo la sua generaţione e lo legno faccendo fructo, ciascuno per sé il seme secondo la sua spetie; per la quale chosa veggendo Dio che questo era buono, 13 sì fue facto intra ’l vespero e la mattina lo dì terzo.
Versioni a stampa nel 1471 Versione dell’IncMalerbi la semenza del quale sia in sí medesimo sopra la terra»; et così facto è; 12 et la terra produsse la herba virente et facente il seme secondo la sua generatione et il legno facente il fructo et havendo ciaschedun il semente secondo la sua spetie; et vide Dio esser buono, 13 et facto è sera et matina il terzo dì.
Versione dell’IncOtt 1471 in sé isteso il seme dil quale in sempiterno sia sopra la terra»; e fatto è così; 12 et la terra menòe herba verçitante e facendo seme secondo la sua generatione et il
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Lezione del ms. LibriStorATSen el seme de l’acque se[m]piterno sia sopra [corr. su sempre] la terra»; e facto è così; e la terra menò herba verzicante et facendo seme secondo la sua genaratione et legno facendo fructo e dando ciascuno il seme sicondo la spetie sua; vidde Dio che questo era buono; 13 et facto è tra ’l vesparo e la matina lo terzo dì, martedì. 12
Lezione del ms. MaglMiscColombini il seme del quale sempiterno [Err: om.]»; e fatto è così; 12 e la terra menò l’erba verzicante e faccendo seme secondo la sua generazione e il legno faccendo frutto e avendo ciascuno il seme secondo la spezie sua; vidde Iddio ch’era questo buono; 13 è fatto tra il vespro e la mattina lo dì terzo, martedì.
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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legno facendo fructo e avendo zascuno el seme secondo la spetie sua; vide Idio che questo era buono; 13 et fatto è tra il vespro et la matina lo dì terzo.
Vulgata cuius semen in semet ipso sit super terram»; et factum est ita; 12 et protulit terra herbam virentem et adferentem semen iuxta genus suum lignumque faciens fructum et habens unumquodque sementem secundum speciem suam; et vidit Deus quod esset bonum; 13 factumque est vespere et mane dies tertius.
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Massimo Zaggia
Genesi, 1, 14–16 Versione toscana Lezione del ms. AntTestGozzi 14
Disse ancora Iddio: «Sieno fatti i lumi e pianete e fermamento di cielo, e dividano il dì dalla notte e sieno i segni e tempi e dì e anni, 15 acciò che lucino nel fermamento del cielo e alumino la terra»; e fatto è così; 16 fece ancora Dio due grandi luminari magiori acciò che soprastesse al dì, cioè il magiore è ’l sole,
Lezione del ms. AntTestCantabr 14
Disse ancora Iddio: «Facto i lumi nel fermamento del cielo, e dividano il dì da la nocte; sieno i segni e tempi e gli anni, 15 acciò che lucano nel fermamento del cielo e alluminino la terra»; e facto è così; 16 fece Iddio due grandi luminari maggiori, acciò che soprastesse il dì uno maggiore luminare, cioè il dì sole,
Lezione del ms. AntTestAshb 14
In verità disse Iddio ancora: «Facto sia i lumi nel fermamento del cielo, e dividasi il dì dalla nocte e sieno i segni e i tempi e dì e gli anni, 15 acciò che luchino nel fermamento del cielo e allumino la terra»; 16 e fece Iddio due grandi maggiori luminari, acciò che soprastesse el dì un maggiore, cioè il sole,
Lezione del ms. AntTestSen iv. De li luminari del cielo e divisione del dì e de la notte. Capitolo 4 14
Disse ancora Iddio: «Sia fatto il lume e le pianete nel fermamento del cielo, e dividano el dì da la notte e·ssieno i segni e tempi e dì e anni, 15 acciò che·llucano nel fermamento del cielo e alluminino la terra»; e fatto è così; 16 fece ancora Iddio due grandi luminari, cioè uno luminare maggiore acciò che soprastesse al dì, e questo si è il sole,
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione tosco-meridionale Lezione del ms. AntTestAng iv. Del quarto dì de le luminaria del cielo e la divisione del dì e de la nocte. 14
Dapoi queste cose, dixe Dio: «Siano facti li lumi nel firmamento del cielo, li quali dividano lo dì di la nocte et sì siano in signi et tempi et dì et anni, 15 aczò che relucano li dicti lumi nel firmamento del cielo et alluminano la terra»; et facto fo como dixe Dio; 16 et ancora Dio fece doy grandi luminarii maiore degli altri, aczò che soprastesse lo maiore lumi lo dì, zò è lo sole,
Lezione del ms. BibbiaNap iv. Del quarto dì de le luminaria del cielo et della divisione del dì e della nocte. 14
Dopo queste cose, disse Dio: «Sieno facti li lumi nel fermamento del cielo, li quali dividano il dì da la nocte e sì sieno in segni e tempi et dì et anni, 15 a ciò che rilucano i detti lumi nel fermamento del cielo et alluminini la terra»; et facto fue come disse Dio; 16 et ancora Idi’ fece due grandi luminari maggiori degli altri, acciò che soprastesse il maggiore luminare al dì, ciò è il sole,
Versioni a stampa nel 1471 Versione dell’IncMalerbi 14
Etiam disse Dio: «Siano facte e luminarie nel firmamento del cielo, et seperino il dì et la nocte e siano in signi et tempi et dì et anni, 15 perché resplendino nel firmamento del cielo et illumineno la terra»; et così facto è; 16 et fece Dio duo grandi luminarii: il luminare maiore che soprastessi al dì,
Versione dell’IncOtt1471 14
Disse ancora Idio: «Sia fatto illuminari [Err?] nel firmamento del cielo, e dividano il dì da la nocte, sieno in segni e tempi et dì e gli anni, 15 acciò che lucano nel
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Massimo Zaggia
Lezione del ms. LibriStorATSen iv. Dell’aluminare dello cielo e della divisione dal dìe e la notte. Capitolo iiii 14
Disse ancora Idio: «Sieno facti i lumi lel [Err] fermamento del cielo, et dividano el dì da la nocte et sieno segni e tempi e dì e anni, 15 acciò che lucano nel fermamento del cielo e l’aluminano la terra»; e facto così; 16 fece ancora Dio due grandi luminari maggiori, acciò che soprastesse al dì il maggiore luminare, cioè il sole,
Lezione del ms. MaglMiscColombini iv. Delli luminari del cielo e divisione del dì e della notte. Capitolo quarto 14
Disse ancora Iddio: «Sieno fatti i luminari, cioè i pianeti nel fermamento del cielo, e dividano il dì dalla notte e sieno i segni e tempi e i dì e anni, 15 acciò che lucano nel fermamento del cielo e alluminino la terra»; e fatto è così; 16 fece ancora Iddio due grandi luminari maggiori, acciò che soprastesse al dì, cioè il sole, il maggiore,
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firmamento del cielo e illuminano la terra»; et fatto è così; 16 fece Idio dui grandi luminari mag[i]ori, acciò che soprastesse il dì uno magiore luminare, cioè il sole,
Vulgata 14
Dixit autem Deus: «Fiant luminaria in firmamento caeli, ut dividant diem ac noctem, et sint in signa et tempora et dies et annos, 15 ut luceant in firmamento caeli et inluminent terram»; et factum est ita; 16 fecitque Deus duo magna luminaria, luminare maius ut praeesset diei,
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Massimo Zaggia
Genesi, 1, 16–19 Versione toscana Lezione del ms. AntTestGozzi e·luminare minore, la luna, soprastesse a la notte e alle stelle, 17 e sì·lle puose nel fermamento del cielo, acciò che lucessero sopra la terra 18 e dividessono la luce dalle tenebre; e vide Idio ch’era buono; 19 questo lo dì quarto mercoledì.
Lezione del ms. AntTestCantabr e luminare minore, cioè la luna, che soprastesse a la notte e alle stelle, 17 e sì le puose nel fermamento del cielo, acciò che lucessero sopra la terra 18 e dividessero la luce da le tenebre; et vide Iddio ch’era buono questo; 19 e questo fue lo dìe quarto.
Lezione del ms. AntTestAshb e uno luminare minore, cioè la luna, che lucesse la nocte, e·lle stelle 17 sì·lle pose nel fermamento del cielo, 18 e alluminòe la terra e divise sono la luna dalle tenebre; e vidde Iddio che era buono questo; 19 e fu dal vespro alla mactina il dì quarto.
Lezione del ms. AntTestSen e il luminare minore si è la luna, che soprastà a la notte, e le stelle, 17 e sì·lle pose nel fermamento del cielo, acciò che lucessero sopra a la terra 18 e alluminino la terra e dividessero la luce da la tenebre; e vidde Iddio che era buono; 19 e fatto è lo quarto dì.
Lezione del ms. LibriStorATSen il luminare minore, cioè la luna, che soprastesse a la nocte e a le stelle, 17 e sì le pose dal fermamento dal cielo, acciò che lucessero sopra la terra 18 e dividessero la luce da la tenebre; et vidde Dio che era buono questo; 19 e questo era, fu lo quarto dìe, mercurdì.
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Versione tosco-meridionale Lezione del ms. AntTestAng et la lume minore, zò è la luna, soprastesse a la nocte; et fece le stelle, 17 li quali luminarii posse nel firmamento del cielo, aczò che relucessoro sopra la terra 18 et soprastessoro a lo dì et a la nocte et dividessoro la luce dalla nocte; onde Dio vide che questo era buono; 19 et facto foy lo dì quarto.
Lezione del ms. BibbiaNap et lo luminare minore, ciò è la luna, soprastesse a la nocte; et fece le stelle, 17 i quali luminari puose nel fermamento del cielo, acciò che rilucessero sopra la terra 18 et soprastesse al dì et a la nocte et dividessero la luce dalle tenebre; onde Idio vide che questo era buono; 19 et facto fue il dì quarto.
Versioni a stampa nel 1471 Versione dell’IncMalerbi et il luminare minore che soprastessi a la nocte, et etiam fece Dio le stelle 17 et puose quelle nel firmamento del cielo, perché lucessono sopra la terra 18 et signorizasseno al dì et a la nocte et dividesseno la luce et le tenebre; et vide Dio esser buono; 19 et facto è sera et matina il quarto dì.
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Lezione del ms. MaglMiscColombini e il luminare minore, cioè la luna, soprastesse alla notte e alle stelle, 17 e sì li puose nel fermamento del cielo, acciò che lucessono sopra la terra 18 e dividessono la luce dalle tenebre; e vide Iddio ch’era buono; 19 e questo fue lo dì quarto, mercoledì.
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione dell’IncOtt1471 et el luminare minore, cioè la luna, che soprastesse a la nocte, e alle stelle, 17 et sì le puose nel firmamento del cielo, a ciò che lucessero sopra la terra 18 et dividesse la luce da le tenebre, et divisero la luce dalle tenebre; e vide Idio ch’era buono questo; 19 e fatto è tra il vespro et la matina lo dì quarto.
Vulgata et luminare minus ut praeesset nocti, et stellas, 17 et posuit eas in firmamento caeli, ut lucerent super terram 18 et praeessent diei ac nocti et dividerent lucem ac tenebras; et vidit Deus quod esset bonum; 19 et factum est vespere et mane dies quartus.
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Massimo Zaggia
Genesi, 1, 20–21 Versione toscana Lezione del ms. AntTestGozzi 20
Disse ancora Iddio: «Menino l’aque le retilie dell’anima vivente e·lle cose che vogliono [Err] sopra la terra sotto il fermamento del cielo»; 21 e creò Idio le balene grandissime e ogni anima vivente e mutevele,
Lezione del ms. AntTestCantabr 20
Disse ancora Iddio: «Menino l’acque le reptile de l’anime viventi e le cose che volino sopra la terra sotto il fermamento del cielo»; 21 e creòe Iddio le balene grandissime e ogni anima vivente, mutevole,
Lezione del ms. AntTestAshb 20
In verità disse Iddio: «Menino l’acque le retile dell’anime viventi e·lli uccelli che volino sopra alla terra e socto il fermamento del cielo»; 21 et creò Iddio le balene grandissime e ogni anima vivente, mutevole,
Lezione del ms. AntTestSen v. De le ferucole e ucelli. Capitolo 5 20
Disse ancora Iddio: «Menino l’aque le retilie dell’anima vivente e gl’ucelli che volano sopra la terra sotto il fermamento»; 21 e creò Idio le balene grandisime e ogni animale vivente e mutevole,
Lezione del ms. LibriStorATSen v. Dell’aluminare dello cielo e de la visione del dìe e della notte. Capitolo v
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione tosco-meridionale Lezione del ms. AntTestAng v. Del dì quinto come fuorono facte le ferucole e li ucelli. 20
Dixe ancora Dio: «Menino l’acque le reptilie – reptilie zò è a dire menino l’acque firucole, como sono serpi, ramarri, topi et vermini et tucte l’altri simili a queste, zascuna in sua generacione, le quale vadano col corpo per terra –, anima vivente, et ancora le cose che volano sopra la terra et socta lo firmamento del cielo»; 21 et creò Idio le balene grandisseme e ogne animale vivente e mutavole,
Lezione del ms. BibbiaNap v. Del dì quinto come furono fatte le firucole e gli ucelli. 20
Disse ancora Idio: «Meneno l’acque le reptilie – reptilie ciò è a dire meneno l’acque firucole, como sono serpi, ramarri, topi e vermini e tucte l’altre simile a·cqueste, ciascuna in sua generatione, le quali vadano col corpo per terra – de l’anima vivente, et ancora le cose che volano sopra la terra et sotto il fermamento del cielo»; 21 et creò Idio le balene grandissime et ogni animale vivente et mutevole,
Versioni a stampa nel 1471 Versione dell’IncMalerbi 20
Etiam disse Dio: «Producano le acque il reptile de l’anima vivente et volatile sopra la terra sopto il firmamento del cielo»; 21 et creò Idio le balene grande et ogni anima vivente et motabile,
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Massimo Zaggia
20
Disse ancora Dio: «L’acque [Err: om.] le rettile de l’anime vivente e le cose che volino sopra la tera sotto el fermamento del cielo»; 21 et Dio [Err: om.] le balene grandissime et ogni anima vivente e mutevole,
Lezione del ms. MaglMiscColombini v. Delle ferucole e uccegli. Capitolo quinto 20
Disse ancora Iddio: «Menino l’acque le rettilie dell’anime viventi e·lle cose che volano sopra la terra sotto il fermamento del cielo»; 21 e creò Iddio le balene grandissime e ogni anima vivente e mutevole,
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione dell’IncOtt 1471 20
Disse ancora Idio: «Menino l’acque le reptile de l’anime viventi e le cose che volino sopra la terra sotto al firmamento del cielo»; 21 e creòe Idio le ballene grandissime e ogne anima vivente, mutevole,
Vulgata 20
Dixit etiam Deus: «Producant aquae reptile animae viventis et volatile super terram sub firmamento caeli»; 21 creavitque Deus cete grandia et omnem animam viventem atque motabilem,
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Massimo Zaggia
Genesi, 1, 21–23 Versione toscana Lezione del ms. AntTestGozzi la quale avieno prodotte l’aque a·ssé di suo essere nelle spezie sue e ogni cosa volevole secondo suo essere e sua generatione; adunque vide Dio ch’era buono; 22 sì benedisse loro dicendo: «Crescete e multiplicate e riempiete l’aque del mare, e l’uccelli moltiplichino sopra la terra». 23 Il giovedì.
Lezione del ms. AntTestCantabr la quale [Err: om.] prodocto l’acque nelle spetie sue di ciascuna di per sé e ogni cosa volevole secondo il suo essere e sua generatione; adunque vidde Idio ch’era buono; 22 sì benedisse loro dicendo: «Crescete e multiplicate e riempiete l’acqua del mare, ma gli uccelli multiplichino sopra la terra»; 23 e questo fue lo dì quarto.
Lezione del ms. AntTestAshb le quali avevono prodocte l’acque nelle spezie loro ciascuna di per sé et ogni cosa che volasse secondo suo essere et sua generazione; adunque vidde Iddio che era buono; 22 sì benedisse loro dicendo: «Crescete e multiplicate e riempiete l’acque del mare»; e agli uccelli: «Multiplicate sopra la terra»; 23 e questo fu tra ’l vespro e la mactina il dì quinto.
Lezione del ms. AntTestSen la quale avevano prodotte l’aque a·ssé di suo essare ne le spezie sue e ogni cosa volante sicondo suo essare e sua generazione; adunque vidde Iddio ch’era buono; 22 e·ssì benedisse loro dicendo: «Crescete e moltiplicate e riempite l’aque del mare e gli ucelli moltiprichino sopra la terra». [Err: om.]
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione tosco-meridionale Lezione del ms. AntTestAng la quale l’acque aveano producto ciascuno di suo essere ne la sua specia et ogne cosa volevole secondo suo essere e sua generacione; per la quale cosa videndo Dio cha era buono, 22 sì glie benedixi dicendo loro: «Cressite e multiplicate et implite l’acque del mare et gli aucelli multiplicano sopra la terra»; 23 et fo facto questo lo dì quinto.
Lezione del ms. BibbiaNap la quale l’acque aveano producto ciascuno di suo essere ne la sua spezie et ogni cosa volevole secondo suo essere e sua generaţione; per la quale cosa vedendo Idio che era buono, 22 sì gli benedisse dicendo loro: «Crescite e multiplicate et riempite l’acque del mare e gli ucelli multiplicheno sopra la terra»; 23 et fue facto questo lo dì quinto.
Versioni a stampa nel 1471 Versione dell’IncMalerbi la quale le acque havevano producte nelle suoe spetie, et ogni volatile secondo la sua generatione; et vide Dio esser buono; 22 et benedisse essi dicendo: «Crescete et multiplicate et rempiete le acque del mare, et multiplicheno li ocelli sopra la terra»; 23 et facto è sera et matina il quinto dì.
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Massimo Zaggia
Lezione del ms. LibriStorATSen la quale avevano producto l’acque ne le spetie sue di ciascuna di per sé, e ogne cosa volevano [Err] secondo suo essere et sua generatione; adunqua vidde Dio che era buono; 22 sì benedisse loro dicendo: «Crescete e multipricate et rimpiete l’acque del mare, ma li ucelli multiprichino sopra la terra»; 23 e questo fu lo dì quinto.
Lezione del ms. MaglMiscColombini le quali avevano prodotte l’acque ciascheduna di suo essere quali avevano nelle spezie sue e ogni cosa volatile secondo suo essere e sua generazione; adunque vide Iddio ch’era buono; 22 e sì benedisse loro dicendo: «Crescete e multipricate e riempiete l’acque del mare e li uccelli multiprichino sopra la terra»; 23 e questo fu lo dì quinto, giovedì.
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione dell’IncOtt1471 la quale avea produto l’acque ne le specie sue di ciascuna di per sé, e ogni cosa vollatile secondo il suo essere e sua generatione; adunque vidde Idio ch’era buono; 22 e sì benedisse loro dicendo: «Crescite e multiplicate e rempiete l’acque del mare, ma gli uccelli multiplicono sopra la terra»; 23 et fatto è tra lo vesporo e la matina lo dì quinto.
Vulgata quam produxerant aquae in species suas et omne volatile secundum genus suum; et vidit Deus quod esset bonum; 22 benedixitque eis dicens: «Crescite et multiplicamini et replete aquas maris avesque multiplicentur super terram»; 23 et factum est vespere et mane dies quintus.
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Massimo Zaggia
Genesi, 1, 24–25 Versione toscana Lezione del ms. AntTestGozzi 24
Disse in verità Idio: «Produca la terra anima vivente nella sua generazione ciascuno, le bestie grandi e·lle piccole e le bestie della terra secondo le spezie loro»; e fatto è così; 25 fece Idio le bestie della terra secondo la qualità loro e le bestie e tutte le retilie della terra nel genero sue.
Lezione del ms. AntTestCantabr 24
Disse in verità Idio: «Produchi la terra anima vivente nella sua generatione ciascuno, le bestie grandi e le piccole e le bestie della terra secondo le spetie loro»; facto è così; 25 fece Idio le bestie della terra secondo la qualità loro e tutte le retile della terra nel genere suo.
Lezione del ms. AntTestAshb 24
In verità disse Iddio: «Produca la terra anima vivente nella sua generazione, cioè bestie grandi e piccole e le bestie della terra secondo la spezie loro»; e così fu facto; 25 così fece Iddio le bestie della terra secondo la qualità loro e·lle bestie e tucte le retile della terra nella generazione sua.
Lezione del ms. AntTestSen vi. Delli animali e bestie de la terra e de la creatione dell’uomo. Capitolo 6 24
Disse in verità Iddio: «Produca la terra anima vivente ne la sua generazione ciascuno, le bestie grandi e le picole e le bestie de la terra sicondo le spezie loro»; e fatto è così; 25 fece Iddio le bestie de la terra ne le generazioni sue.
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione tosco-meridionale Lezione del ms. AntTestAng vi. Del dì sexto delli animali e bestie de la terra e de la creacione de l’homo, ciò fue Adam, et come nel septimo giorno se reposò. 24
Nel sexto dì in verità dixe Dio: «Produca la terra anima vivente zascuno nel genere suo, e le bestie grande e le piczole e tucte l’altre de la terra zascuno secondo la specia loro»; et sì como Dio lo dixe, cossì fo facto, 25 facendo le bestii de la terra secondo la qualitate loro et iomente et ogne reptilie de la terra nel genere suo; et poi questo videndo Dio ca era buono,
Lezione del ms. BibbiaNap vi. Del dì sexto degli animali et bestie de la terra et de la creatione dell’uomo, ciò fue Adam, et come nel septimo dì si riposò. 24
Nel sexto dì in verità disse Idio: «Produca la terra anima vivente ciascuno nel genere suo, e le bestie grande e piccole e tucte altre de la terra ciascuno secondo la spezie loro»; et sì come Idio lo disse, così fue facto, 25 faccendo le bestie de la terra secondo la qualità loro e giomenti, reptilie de la terra nel genere suo; et ciò fosse cosa dopo questo vedendo Idio che era buono,
Versioni a stampa nel 1471 Versione dell’IncMalerbi 24
Disse etiam Dio: «Produca la terra l’anima vivente nella suo generazione e iumenti et li reptili et le bestie de la terra secondo le suoe qualitati»; et facto è così; 25 et fece Dio le bestie de la terra secondo le suoe spetie, li iumenti et ogni reptile de la terra nella sua generatione.
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Massimo Zaggia
Lezione del ms. LibriStorATSen vi. Delli animali e bestie de la terra, creatione dello homo. 24
Disse Dio in verità: «Produchi anima vivente ne la sua generatione ciascuno, le bestie et grandi e le picciole et le bestie de la terra secondo le spetie loro»; e facto fue così; 25 fece Dio le bestie de la terra secondo la qualità loro et le bestie e tucte le rectile de la terra nel genere suo.
Lezione del ms. MaglMiscColombini vi. Delli animali e bestie della terra e della creazione dell’uomo. Capitolo sesto 24
Disse in verità Iddio: «Produchi la terra anima vivente nella sua generazione ciascuno, le bestie grandi e le picole e·lle bestie della terra secondo le spezie loro»; e fatto è così; 25 fece Iddio le bestie della terra secondo la qualità loro, e·lle bestie e tutte le rettilie della terra nel genere suo.
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione dell’IncOtt1471 24
Disse in verità Idio: «Produchi la terra l’anima vivente ne la sua generatione ciascuno, le bestie grande e le piccole e le bestie de la terra secondo le spetie loro»; e fatto è così; 25 fece Idio le bestie de la terra secondo la qualità loro e i iumenti e tutte le reptile de la terra ne la generacione sua.
Vulgata 24
Dixit quoque Deus: «Producat terra animam viventem in genere suo, iumenta et reptilia et bestias terrae secundum species suas»; factumque est ita; 25 et fecit Deus bestias terrae iuxta species suas et iumenta et omne reptile terrae in genere suo; et vidit Deus quod esset bonum;
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Massimo Zaggia
Genesi, 1, 26–27 Versione toscana Lezione del ms. AntTestGozzi 26
Ancora disse Idio: «Facciamo l’uomo a l’imagine e similitudine nostra e sopra i pesci del mare e agli uccelli del cielo volevoli, e a tutte le bestie di ciascuna creatura e tutte le retilie che·ssi muono [Err?] nella terra». 27 E creò Idio l’uomo alla imagine sua e alla ’magine di Dio creò lo maschio e·lla femina;
Lezione del ms. AntTestCantabr 26
Ancora disse Idio: «Facciamo l’uomo alla immagine e similitudine nostra e soprastea a’ pesci del mare e ad gli uccelli del cielo volevoli, e ad tutte le bestie e di ciascuna creatura ad tutte le reptile ferucole che si muovono nella terra». 27 Et creòe Idio l’uomo alla ymagine sua e alla ymagine di Dio creò lo maschio e la femina;
Lezione del ms. AntTestAshb 26
Ancora disse Iddio: «Facciamo l’uomo a inmagine e similitudine nostra e soprastia a’ pesci del mare e agli uccelli del cielo volanti, e a tucte le bestie di ciascuna nazione e a tucte le ferucole che si muovono sopra la terra». 27 Et creò Iddio l’uomo alla inmagine sua et creò il maschio e·lla femina;
Lezione del ms. AntTestSen 26
Ancora disse Iddio: «Facciamo l’uomo a inmagine e similitudine nostra e sopra i pesci del mare e gli ucelli del cielo volatili, e a tutte le bestie di ciascuna generazione e tutte le retilie che·ssi muovono ne la terra». 27 Creò Iddio l’uomo a la inmagine sua e la inmagine di Dio creò lo maschio e la femmina;
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione tosco-meridionale Lezione del ms. AntTestAng 26
dixe: «Faczamo l’omo a la ymagine et similitudine nostra, lo quale sia signore e soprastea alli pisci del mare et alli ucelli del cielo et a tucte le bestie de la terra et zaschuna criatura e a tucte le reptilie che se moveno nella terra». 27 Per la quale cosa Dio creào l’omo a la sua ymagine et similitudine, a la sua ymagine lo creào e cussì la femina;
Lezione del ms. BibbiaNap 26
disse: «Facciamo l’uomo a la ymagine et a la similitudine nostra, il quale sia signore et soprastea a’ pesci del mare et a li uccelli del cielo et a tucte le bestie della terra e ad ciascuna creatura et a tucte le reptilie che·ssi muovono nella terra». 27 Per la quale cosa Idio creò l’omo alla sua ymagine e similitudine, alla sua ymagine lo creò e cossì la femina;
Versioni a stampa nel 1471 Versione dell’IncMalerbi 26
Et vide Dio che era buono et disse: «Faciamo l’homo a la ymagine et similitudine nostra, il quale sia sopra li pesci del mare et li ocelli del cielo et a le bestie de tutta la terra et ogni reptile che si muove in terra». 27 Et creò Dio l’huomo a la ymagine et similitudine sua, a la ymagine de Dio creò quello mascolo et femina: creò essi;
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Massimo Zaggia
Lezione del ms. LibriStorATSen 26
Ancora disse Dio: «Facciamo lo homo a immagine e similitudine nostra et soprastia a’ pesci del mare e alli ucelli volevoli, e tucte le bestie e da ciascheuna creatura e a tutte le rictile ferucule che si moveno ne la terra». 27 Et creò Dio alla immagine sua et l’amigine [Err] di Dio creò lo maschio e la femmina;
Lezione del MaglMiscColombini 26
Ancora disse Iddio: «Facciamo l’uomo alla inmagine e similitudine nostra che soprastae a’ pesci del mare e agli uccelli del cielo volevoli, e a tutte le bestie e ferucole di ciascuna creazione e a tutte le ferucole che·ssi muovono nella terra». 27 E creò Iddio l’uomo alla inmagine sua e alla inmagine d’Iddio creò il maschio e·lla femmina;
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione dell’IncOtt1471 26
Ancora vide Idio che era buono e disse: «Facciamo lu homo a la imagine e a la sim[i]litudine nostra, e soprastea a’ pesci del mare e ad gli uccelli del cielo vollatili, e ad tutte le bestie e di ciascuna creatura ad tutte le reptile ferucole che se muoveno ne la terra». 27 Et creò Idio lu homo a la imagine sua, e a la imagine di Dio creò lo maschio e femina;
Vulgata 26
et ait: «Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram, et praesit piscibus maris et volatilibus caeli et bestiis universaeque terrae omnique reptili quod movetur in terra»; 27 et creavit Deus hominem ad imaginem suam, ad imaginem Dei creavit illum, masculum et feminam creavit eos;
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Massimo Zaggia
Genesi, 1, 28–29 Versione toscana Lezione del ms. AntTestGozzi 28
e benedisse loro Dio dicendo: «Crescete e multiplicate e riempiete la terra e soprastate lei e signoregiate i pesci dell’aque e l’uccelli del cielo e tutte le cose che àno anima le quali si muovono sopra la terra»; 29 e disse: «Ecco ch’ò dato a voi ogni erba faccente seme sopra la terra e tutti quanti i legni i quali ànno in sé midesimi semente ciascuno di sua generazione, acciò che a voi sieno esca;
Lezione del ms. AntTestCantabr 28
e benedisse loro Idio dicendo: «Crescete e multiplicate e riempiete la terra e soprastate a·llei e segnoreggiate i pesci dell’acque e gli uccelli del cielo e tutte le cose che ànno anima le quali si muovo sopra la terra»; 29 [Err.: om.] e tutti quanti i legni i quali ànno in sé medesimo semente ciascuno di sua generatione, acciò che ad voi siano esca;
Lezione del ms. AntTestAshb 28
et benedisse loro Iddio dicendo: «Crescete e multiplicate e riempiete la terra e soprastate a·llei e signoreggiate i pesci dell’acque e·lli uccelli del cielo e tucte le cose che ànno anima le quali si muovono sopra alla terra»; 29 [Err: om.] e tucti quanti i legni che fanno fructo in loro generazioni, acciò che a voi sia esca;
Lezione del ms. AntTestSen 28
e benedisse loro Iddio dicendo: «Crescete e moltiplicate e rientite la terra e soprastate a·llei e signoregiate i pesci dell’aque e gl’ucelli dell’aire e tutte le cose che ànno anima le quali si muovono sopra la terra»; 29 e disse: «Ecco che ò dato ad voi ogni erba facente seme sopra la terra e tutti quanti i legni che ànno in sé medesimo semenza ciascuno di sua generazione, acciò che a voi sieno esca;
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione tosco-meridionale Lezione del ms. AntTestAng 28
et creati che foro, sì le benedixe Idio dicendo: «Cressiti et multiplicati et impliti la terra et soprastate la terra et signoriczati li pisci del mare e gli ucelli del cielo et tucte le cose le quale àeno anima, le quale se moveno sopra la terra»; 29 poi dixe Idio: «Ecco che io ò dato a·vvoy ogne herba che produce semente sopra la terra et ancora tucti i ligni li quali ànno in loro medesimo semente zascuno nel genere suo, aczò che tucte queste cose siano a vuy in esca;
Lezione del ms. BibbiaNap 28
et creati che fuorono, sì li benedisse Idio dicendo: «Crescete et multiplicate e riempite la terra et signoriggiate i pesci del mare e li uccelli del cielo e tucte le cose le quali ànno anima, le quali si muoveno sopra la terra»; 29 poi disse Idio: «Ecco ch’i’ ò dato a voi ogni herba che produce seme sopra la terra et ancora tucti i legni i quali ànno in loro medesimi sementa ciascuno nel genere suo, acciò che tucte queste cose sieno a voi in esca;
Versioni a stampa nel 1471 Versione dell’IncMalerbi 28
et Dio benedisse quelli et disse: «Crescete et multiplicate et rempiete la terra et subiugate quella et signorizate a li pesci del mare et a li ocelli del cielo et ad tutti li animanti che si muoveno sopra la terra»; 29 et disse Dio: «Ecco ch’io ho dato a voi ogni herba portante il seme sopra la terra et tutti e legni che ànno in sé medesmo il seme de la sua generatione, perché a voi siano in cibo;
Versione dell’IncOtt1471 28
e benedisse loro Idio dicendo: «Crescete e multiplicate e rempieti la terra e soprastate a·llei e signorizate i pesci dell’acque e gli uccelli del cielo et tutte le cose
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Massimo Zaggia
Lezione del ms. LibriStorATSen 28
e benedisse loro Dio dicendo: «Crescete e moltiplicate e rempiete la terra et soprastatele et signoregiate e pesci de l’acque e·lli ucelli del cielo et tucte le cose che ànno anima le quali si muovano sopra la terra»; 29 e sì disse: «Ecco che t’òe dato ogne erba facente seme sopra la tera et tucti quanti i legni i quali ànno in sé medesimo semente ciascuno di sua generatione, acciò che a voi sieno esca;
Lezione del ms. MaglMiscColombini 28
e benedisse loro Iddio dicendo: «Crescete e multiplicate e riempiete la terra e soprastate lei e signoreggiate i pesci dell’acque e gli uccelli del cielo e tutte le cose che ànno anima le quali si muovono sopra la terra»; 29 e·ssì disse: «Eco ch’io ò donato a voi ogni erba faccente seme sopra la terra e tutti quanti e legni i quali ànno in loro medesimi semente ciascuno di sua generazione, acciò che a voi sieno esca;
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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che ànno anima le quale se muove sopra la terra»; 29 disse ancora Idio: «Ecco io ve ò dato tutte le herbe producente el seme sopra la terra, et tutti quanti i legni ànno in sí medisimo semente ciascuno de sua generatione, acciò che a voi siano esca;
Vulgata 28
benedixitque illis Deus et ait: «Crescite et multiplicamini et replete terram et subicite eam et dominamini piscibus maris et volatilibus caeli et universis animantibus quae moventur super terras»; 29 dixitque Deus: «Ecce dedi vobis omnem herbam adferentem semen super terram et universa ligna quae habent in semet ipsis sementem generis sui, ut sint vobis in escam;
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Massimo Zaggia
Genesi, 1, 30–31 Versione toscana Lezione del ms. AntTestGozzi e a tutti gli animali della terra e a ogni uccello del cielo e a tutte quelle cose che·ssi movono nella terra e nelle quali è anima movente, acciò ch’ell’abiano che vivere»; e fatto è così; 31 vide Idio tutte quelle cose ch’erano molte buone; e fatto è fra ’l vespro e·lla mattina lo dì sesto, cioè il venerdì. 30
Lezione del ms. AntTestCantabr 30
e ad tutti gli animali della terra e in ogni uccelli del cielo e ad tutte quelle cose che·ssi muovono nella terra e nelle quali è anima vivente, acciò ch’ell’abbiano di che vivere»; et facto è così; 31 et vidde Iddio tutte quelle cose ch’erano molto buone; et facto è tra il vespro e la mattina lo dìe sesto, cioè lo venerdì.
Lezione del ms. AntTestAshb 30
e a tucti gli animali della terra e a ogni uccello del cielo e a tucte quelle cose che si muovono nella terra e nelle anime viventi, acciò che abbino esca da vivere»; e facto è così; 31 e vidde Iddio che tucte le cose erano buone; e facto è tra ’l vespro e la mactina il dì sesto, cioè il venerdì.
Lezione del ms. AntTestSen 30
e a tutti gli animali de la terra e a ogni ucello del cielo e a tutte quelle cose che·ssi muovono ne la terra e ne le quali è anima vivente, acciò che abiano che vivere»; e così fu fatto; 31 e vidde Iddio che tutte le cose che aveva fatte erano molto buone; e fatto è intra la mattina e ’l vesparo lo venardì nel dì sesto.
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione tosco-meridionale Lezione del ms. AntTestAng 30
et a tucti le anime della terra e ad ogne ucelli del cielo e a tucte quelle cose che se moveno ne la terra, ne l’acque, ne le quale è anima vivente, aczò chi abiano de che vivano»; et essendo cossì facto ogne cosa, 31 et Idio vedendo che tucte erano bone, sì che le benedixe.
Lezione del ms. BibbiaNap 30
et a tucti li animi de la terra et ad ogni ucello del cielo et a tucte quelle cose che se muovono nella terra, nelli quali è anima vivente, acciò ch’elli abbiano di che vivano»; et essendo così facto ogni cosa, 31 et Idio vedendo che tucte erano bone, sì le benedisse.
Versioni a stampa nel 1471 Versione dell’IncMalerbi 30
et a tutti li animanti de la terra et ogni ocello del cielo et a tutte quelle cose che si muovono in terra et in le quale è l’anima vivente, perché habbiano ad usarle per suo vivere»; et facto è così; 31 e vide Dio tutte le cose che lui haveva facte et erano multo buone; et facto è sera et matina il sexto dì.
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Massimo Zaggia
Lezione del ms. LibriStorATSen 30
e a tucti li animali de la tera e ne le quali è anima vivente, acciò ch’ell’abbiano di che vivare»; e facto è così; 31 et vidde Dio tucte quelle cose che erano molto buone; et facto è tra vespero e la mactina lo dì sexto, cioè lo venardì.
Lezione del ms. MaglMiscColombini 30
e a tutti gli animali della terra e a tutti gli uccegli del cielo e a tutte le cose che·ssi muovono nella terra e nelle quali è anima vivente, acciò ch’elle abbiano di che vivere»; e fatto è così; 31 e vide Iddio tutte quelle cose ch’erano molte buone; e fatto è tra il vespro e·lla mattina lo dì sesto, cioè il venerdì.
Alle origini della storia sacra: l’avvio del Genesi in volgare italiano
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Versione dell’IncOtt1471 30
e a tutti gli animali de la terra e in ogni uccello del cielo e a tutte le cose che·ssi muoveno ne la terra e ne le quali è anima vivente, acciò ch’ell’abbiano de che vivere»; et fatto è così; 31 e vidde Idio tutte quelle cose le quale avea fatto ch’erano molto buone; e fatto è tra ’l vespro et la matina lo dì sesto, cioè lo venere dì.
Vulgata 30
et cunctis animantibus terrae omnique volucri caeli et universis quae moventur in terra et in quibus est anima vivens, ut habeant ad vescendum»; et factum est ita; 31 viditque Deus cuncta quae fecit et erant valde bona; et factum est vespere et mane dies sextus.
Paolo Pellegrini
«Sul cavoge» / «sui cavegi»
Nota sul pronome enclitico in italiano antico Abstract: In an old northern Italian text, the Passione veronese, a textual misunderstanding was due to the non-recognition of an enclitic pronoun after a prepositional adverb. It is an uncommon sequence which was clearly described by Carlo Salvioni in 1903. Keywords: Carlo Salvioni; Adolfo Mussafia; clitic pronouns
1 Un caso di pronome enclitico nella Passione veronese La Passione veronese costituisce un volgarizzamento trecentesco del noto Diatessàron, una fusione dei quattro vangeli canonici («unum ex quatuor») presumibilmente redatta da Taziano di Siria nel II secolo e diffusasi presto in Oriente e soprattutto in Occidente, qui prima in versione latina e poi per tramite dei volgari di varie regioni d’Europa. Il testo del Diatessàron attinge ai quattro Vangeli attraverso un assemblaggio delle rispettive pericopi, cercando di configurare una versione quanto più esaustiva possibile, che renda conto al lettore di tutti i particolari che ciascun Vangelo singolarmente trasmette. L’opera è stata ed è oggetto appassionato di studio soprattutto per l’antichità di alcuni testimoni, il più venerando dei quali è rappresentato dal codice di Fulda, Bonifatianushandschrift 1, commissionato da San Vittore da Capua e confezionato nel 546. L’ipotesi fondamentale che alimenta tale interesse si fonda sulla possibilità che il Diatessàron possa conservare antiche vestigia del testo evangelico originario e possa aiutare a sceverare autorevoli e venerande lezioni, più vicine alla redazione originaria di quelle trasmesse dai testimoni manoscritti dei Vangeli canonici. Tali tracce, secondo alcuni studiosi, potrebbero nascondersi anche in alcuni dei più antichi volgarizzamenti, che mostrano consonanze interessanti con parte della tradizione manoscritta orientale. La Passione ripropone solo la porzione finale della vita di Cristo, e tuttavia, sebbene in versione scorciata, alcuni elementi del
Indirizzo di corrispondenza: Prof. Dr. Paolo Pellegrini, Dipartimento di Culture e Civiltà, Università degli Studi di Verona, Viale dell’Università 4, I-37129 Verona. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-005
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testo e soprattutto la disposizione delle pericopi fanno intravedere la possibilità che esso discenda da una versione cronologicamente alta e non distante dalle consorelle redazioni orientali.1 Il testo della Passione aveva suscitato il precoce interesse del linguista e filologo Adolfo Mussafia. Nel 1864 Mussafia aveva dato alle stampe i celeberrimi Monumenti antichi di dialetti italiani; si tratta di una scelta di testi in antico veronese estratti dal testimone Marciano italiano Zanetti 13 (4744), i più noti fra i quali corrono sotto il nome di frate Giacomino da Verona: il De Babilonia civitate infernali e il De Ierusalem celesti. I Monumenti di Mussafia sono importanti non solo perché costituiscono la prima consistente testimonianza dell’antico volgare veronese, ma anche e soprattutto perché di quel volgare offrono una illustrazione scientifica lucida e rigorosa, condotta secondo le tecniche della linguistica storica allora più avanzate. Tanto nel corso della propria illustrazione linguistica quanto nel glossario finale, Mussafia ebbe più volte occasione di rinviare al testo della Passione «che si conserva nella biblioteca comunale di Verona».2 All’indomani della stampa dei Monumenti il filologo dalmata ne inviò un estratto al canonico veronese Giovan Battista Carlo Giuliari. Come si apprende dalla lettera accompagnatoria, datata 17 dicembre 1864, Giuliari lo aveva assistito nei brevi soggiorni veronesi durante i quali Mussafia era riuscito a consultare il manoscritto della Passione. Nella lettera Mussafia invitava il canonico a riprenderne in mano il testo: «Non voglio lasciar passare quest’occasione senza pregarla a volere cooperare perchè più sollecitamente che sia possibile venga pubblicata la narrazione della Passione, che si conserva in cotesta Biblioteca Comunale e ch’io ebbi talvolta occasione di citare nel Glossario».3 Negli anni a venire Giuliari entrò nell’orbita della bolognese Commissione dei Testi di Lingua, coinvolto da Francesco Zambrini nella pubblicazione di testi che, sebbene non direttamente impegnati nella promozione di una lingua unitaria per la neonata nazione italiana, si mostravano però utili a testimoniare la profondità delle sue radici e a tenerne insieme le membra linguisticamente più periferiche. Per la commissione Giuliari pubblicò il Trattato dei ritmi volgari di Gidino da Sommacampagna e Il libro di Theodolo o vero la visione di Tantolo. I lavori furono puntualmente recensiti da Mussafia che, anche in questo caso, accompagnò l’invio a Giuliari della recensione con una lettera in cui sollecitava l’impegno sulla Passione: «Continuando a pubblicare testi antichi veronesi, non dimentichi una Descrizione della Passione che è nella Comunale. Otto o nove 1 Per una introduzione rimando a Pellegrini (2012a; 2012b); da ultimo, cf. Colombo (2016). 2 Mussafia (1864, 120). 3 Pellegrini (2012a, xvii–xviii). Il codice latore della Passione è oggi segnato Verona, Biblioteca Civica, 753.
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anni fa io ne copiai un brano; e potei servirmene nel Glossario ai miei Monumenti antichi di dialetti italiani».4 L’anno successivo Giuliari ne dava finalmente alle stampe il testo su «Il Propugnatore». I limiti scientifici già esibiti nei due lavori su Gidino e sul Theodolo, e rimarcati da Mussafia nella propria recensione, riemersero in tutta la loro evidenza nell’edizione della Passione. Questa volta però Mussafia non volle intervenire e affidò le proprie osservazioni – sempre e comunque molto garbate – a una lunga lettera privata del novembre 1873. Pubblicata qualche anno fa da Alfredo Stussi (1994), la lettera di Mussafia si appoggia a una puntuale collazione del manoscritto per cui il filologo dovette servirsi della trascrizione condotta durante il suo soggiorno veronese cui si è appena accennato.5 La collazione si appoggiava a una serie di precise osservazioni morfosintattiche che possono costituire ancora oggi un impareggiabile modello descrittivo dell’antico volgare veronese. Giuliari recepì solo alcuni tra i suggerimenti di Mussafia e nel 1874 fece uscire, sempre su «Il Propugnatore», delle Emendazioni all’antico testo volgare della Passione di N. S. Gesú Cristo, nelle quali imputava la responsabilità degli errori a una approssimativa revisione affidata a terzi.6 Come si è anticipato, la lettera di Mussafia è stata debitamente illustrata da Alfredo Stussi e non mette conto tornarvi su. Mi limito a riprenderne un solo punto che ho avuto modo di discutere qualche anno fa cimentandomi nell’edizione critica della Passione. Il punto in questione cade al principio del testo, laddove si descrive l’episodio della cosiddetta cena di Betania. Ne ripropongo il breve passaggio:7 E fo fato una çena a Iesú Cristo en casa de un, lo qualo avea nomo Symon, el qual era sta levroso; e Marta ministrava. [3] Santa Maria Madalena tollo una livra d’onguento precioso e sí unsi li pei de Iesú Cristo staganto a tavola e cum i soi cavigi g’i forbí; e l’altro che avançà a unçro li pei, sí ’l spandè sul cavoge: e tuta la casa fo plena de l’odor de l’onguento.
Secondo il racconto del Vangelo, la peccatrice – nella letteratura sacra presto identificata con la Maddalena – versò l’unguento sul capo di Gesù. Il latino della Vulgata offre per Mt xxvi 7: «effudit super caput»; per Mc xiv 3: «effudit super caput eius»; per Lc vii 37–38: «lacrimis coepit rigare pedes eius, et capillis capitis sui tergebat, et osculabatur pedes eius, et unguento ungebat»; e per Gv xii 3: «unxit pedes Iesu, et extersit pedes eius capillis suis, et domus impleta est ex odore unguenti». Il Giuliari invece aveva reso il testo con «E l’altro che avanza
4 Ibid., xviii. 5 Ibid., xvii. 6 Giuliari (1874). 7 Pellegrini (2012a, 3–4).
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a unzro li pei sil spande sui cavegi».8 Mussafia rilevò puntualmente lo svarione nella sua lettera: «320, 8 sil spande (o come a me pare spandè) sui cavegi. Io lessi sul cavoge. Ella forse emendò; io spiego ‘sul capo a lui’, come chi dicesse in italiano ‘sul cápogli’».9 La lettera di Mussafia reca delle notazioni di commento del Giuliari che nella propria edizione Stussi ha reso tra parentesi quadrate subito dopo il termine cui sono soprascritte.10 In questo caso dopo spandè Giuliari glossò: «è preciso così»; dopo sui cavegi: «è preciso così». Sarà forse questa la ragione per cui, pubblicando le citate Emendazioni, oltre a replicare ad alcune osservazioni di Mussafia con una ingenuità ancora maggiore di quanta aveva esibito nell’edizione vera e propria, Giuliari non tenne minimamente conto di questo addebito. Ora, poiché il manoscritto (f. 21v, l. 12) reca la lezione «sul cauoge» senza possibilità di equivocare, viene da pensare che nel controllo Giuliari si sia fermato, per errore, a leggere il «soi | cavigi» collocato due righe più in alto (ll. 9–10). Comunque sia, il rilievo di Mussafia era ineccepibile, presentando il testo un classico caso di pronome in enclisi rispetto a un sostantivo.
2 Il contributo di Carlo Salvioni Rilevando la forma pronominale nel mio commento linguistico al testo, riconoscevo di non essere riuscito a trovare «altri casi di -ge […] enclitico se non a forme verbali».11 Non è svista da poco, perché a occuparsi in modo specifico della questione era stato niente meno che Carlo Salvioni in una nota del 1903 affidata ai « Rendiconti dell’Istituto Lombardo». Si tratta di un fenomeno per cui «un avverbio preposizionale (di quelli cioè che posson assurgere a far da preposizione, purché si combinino con una vera e propria preposizione: addosso a, dentro di, etc.) può avere alla sua diretta dipendenza un pronome congiuntivo, nello stesso modo e nelle stesse condizioni come possono averlo, secondo il più comune uso, il gerundio, un participio, un infinito».12 Salvioni notava come tale costrutto fosse poco vitale e poco vitale fosse stato anche in epoca antica, e tuttavia allegava un buon manipolo di esempi tratti sia dalla lingua sia dal dialetto. Accanto ai più scontati addossogli (-le, -mi, etc.), controgli, dietrogli collocava in corpogli del
8 Giuliari (1872, 320). 9 Stussi (1994, 140). 10 Ibid., 139. 11 Pellegrini (2012a, 111). 12 Salvioni (1903, 96).
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Tristano Riccardiano, spiegando bene come «in corpo a» fosse «trattato a guisa d’una unità avverbio-preposizionale come fosse un ‹addosso a›».13 La trattazione venne brevemente ripresa da Rohlfs nella sua Grammatica storica, ma senza citare il contributo di Salvioni e rimandando solo al celebre intervento di Mussafia del 1886, nella Miscellanea Caix-Canello.14 L’articolo di Salvioni non passò invece inosservato al vaglio attento di Bruno Migliorini, che nel 1975 arricchì la serie di esempi con due nuove occorrenze tratte da Alberti (in bràccioli) e Davanzati (in grèmbogli).15 Finalmente l’intera questione venne ripresa da Edward Fowler Tuttle con particolare riferimento all’enclisi su sintagma verbale, ma dedicando una densa nota anche a quella dopo avverbi.16 Un ultimo rapido cenno vi ha riservato Paola Benincà nel Convegno di Bellinzona su Carlo Salvioni e la dialettologia in Svizzera e in Italia.17 Non pare invece che il fenomeno abbia attratto l’interesse della più recente manualistica, anche di linguistica storica.18
Riferimenti bibliografici Benincà, Paola, Carlo Salvioni e gli studi di sintassi storica, in: Loporcaro, Michele/Lurà, Franco/Pfister, Max (edd.), Carlo Salvioni e la dialettologia in Svizzera e in Italia, Bellinzona, Centro di Dialettologia e di Etnografia, 2010, 79–94. Colombo, Michele (ed.), Passione Trivulziana. Armonia evangelica armonizzata in milanese antico. Edizione critica e commentata, analisi linguistica e glossario, Berlin/Boston, De Gruyter, 2016. Giuliari, Giovan Battista Carlo, Proposta di una bibliografia de’ dialetti italiani con un documento aneddoto in dialetto veronese, Il Propugnatore 5/2 (1872), 305–339. Giuliari, Giovan Battista Carlo, Emendazioni all’antico testo volgare della Passione di N.S. Gesù Cristo, Il Propugnatore 7/1 (1874), 257–259. Lubello, Sergio (ed.), Manuale di linguistica italiana, Berlin/Boston, De Gruyter, 2016. Migliorini, Bruno, In bràccioli, in grèmbogli, Lingua Nostra 36 (1975), 43–44. Mussafia, Adolfo, Monumenti antichi di dialetti italiani, Sitzungsberichte der Wiener Akademie der Wissenschaften Philosophisch- historische Klasse 46 (1864), 113–235.
13 Ibid., 104. 14 Rohlfs (1968, §471). 15 Migliorini (1975). 16 Tuttle (1992, in part. 16 n. 4). 17 Benincà (2010, 86–88), che però non registra il contributo, pur rilevante, di Tuttle. 18 Non vi si accenna nel recente Manuale di linguistica italiana curato da Sergio Lubello (2016) ma nemmeno, il che sorprende un po’ di più, tenuto conto della particolarità del fenomeno, nella Grammatica dell’italiano antico (Salvi/Renzi 2010).
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Pellegrini, Paolo (ed.), Passione veronese. Presentazione di Gian Paolo Marchi, Roma/Padova, Antenore, 2012 (= 2012a). Pellegrini, Paolo, Un antico «Diatessaron» in volgare: la «Passione veronese». (Tra filologia italiana e filologia neotestamentaria), Studi di Erudizione e di Filologia Italiana 1 (2012), 53–92 (= 2012b). Rohlfs, Gerhard, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, vol. 2: Morfologia, Torino, Einaudi, 1968. Salvi, Gianpaolo/Renzi, Lorenzo (edd.), Grammatica dell’italiano antico, 2 vol., Bologna, il Mulino, 2010. Salvioni, Carlo, Del pronome enclitico oggetto suffisso ad altri elementi che non sieno la voce verbale, Rendiconti dell’Istituto Lombardo 36 (1903), 1012–1021 [poi in: id., Scritti linguistici, edd. Loporcaro, Michele et al., vol. 2, Bellinzona, Edizioni dello Stato del Cantone Ticino, 96–105]. Stussi, Alfredo, Mussafia e Giuliari, in: Lingua et Traditio. Geschichte der Sprachwissenschaft und der neueren Philologien. Festschrift für Hans Helmut Christmann zum 65. Geburtstag, edd. Baum, Richard et al., Tübingen, Narr, 1994, 367–374 [poi in: Stussi, Alfredo, Tra filologia e storia. Studi e testimonianze, Firenze, Olschki, 1999, 131–143]. Tuttle, Edward Fowler, Del pronome d’oggetto suffisso al sintagma verbale. In calce ad una nota salvioniana del 1903, L’Italia Dialettale 55 (1992), 13–63.
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Lettera e voce nella «Passione Mai» in veneziano antico Abstract: The «Passione Mai» is a Passion narrative which harmonizes the four Gospels. The text is preserved in a fourteenth-century manuscript of the Angelo Mai Library in Bergamo (Italy), and its prologue clearly shows that it was intended for reading aloud on Good Friday, perhaps in a brotherhood of laymen. The study argues that the «Passione Mai» is a translation from Latin and analyses its language, identifying it as ancient Venetian. Nonetheless, the language shows a few non-Venetian features, together with a Latin influence. Keywords: Gospel harmonies; vernacular translations of the Bible; ancient Venetian; reading aloud
1 Scrittura e oralità nel Basso Medioevo Nel 1987, il filologo e critico letterario ginevrino Paul Zumthor pubblicò un libro intitolato La lettre et la voix: de la «littérature» médiévale, affermatosi come un caposaldo negli studi letterari sul Medioevo. La sua tesi centrale è che «l’insieme dei testi che ci sono pervenuti del X, XI, XII secolo e, in misura forse minore, del XIII e del XIV, è passato attraverso la voce non in modo casuale, ma in virtù di una situazione storica che ha fatto di questo transito vocale l’unico modo possibile di realizzazione ‒ di socializzazione ‒ di questi testi» (Zumthor 1990, 29). L’assunto è argomentato elencando gli indizi di oralità presenti nelle opere, soprattutto in versi, dell’intera Europa occidentale; si va dalla prova più palmare, cioè la presenza di una notazione musicale che accompagni un componimento, a tracce meno vincolanti come i documenti aneddotici sull’esecuzione di un testo, oppure la presenza all’interno di un’opera di verbi che indicano gli atti di dire e ascoltare riferiti all’opera stessa, o ancora l’accentuata presenza di varianti nella tradizione manoscritta ‒ indizio questo da consi-
Nota: Ringrazio Nello Bertoletti, Mirella Ferrari, Vittorio Formentin, Maria Antonietta Marogna, Paolo Pellegrini, Gabriella Pomaro, Raymund Wilhelm e Massimo Zaggia per i loro suggerimenti. Indirizzo di corrispondenza: Prof. Dr. Michele Colombo, Romanska och klassiska institutionen, Stockholms Universitet, SE-106 91 Stockholm. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-006
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derare con speciale cautela. L’esecuzione orale di un testo poteva assumere diverse forme: il canto, cui si è già accennato, ma anche la recitazione o la lettura ad alta voce; quest’ultima tuttavia, secondo Zumthor, spesso confluiva nella recitazione, perché chi leggeva in pubblico si affidava di frequente alla memoria oltre che agli occhi. In particolare nel caso dei giullari, perciò, è piuttosto elevata la possibilità che l’esecutore, pur avendo davanti a sé un libro dispiegato, lo impiegasse più come accessorio per drammatizzare il discorso che come guida da seguire fedelmente (cf. Zumthor 1990, 82–83, 140). Ne segue un’incertezza di fondo sul testo effettivamente comunicato attraverso l’esecuzione orale, che è certo imparentato con lo scritto giunto fino a noi, ma ad esso non può essere completamente ricondotto, perché «in ogni momento la bocca del lettore, di professione o no, era pronta ad alterarlo, a rimaneggiarlo, a rifarlo» (Zumthor 1999, 134). Un corollario di grande momento di questa tesi riguarda il rapporto tra cultura popolare e cultura dotta nel Medioevo: opponendosi alle idee di Bachtin (1979) e Gurevič (2007) sull’originalità della cultura popolare e sulla tensione tra essa e la cultura dotta, Zumthor (1990, 39) afferma che, prima del XV secolo, l’aggettivo popolare «non designa ancora quello che si oppone alla ‹scienza›, alla lettrure, ma si riferisce a quello che appartiene a un orizzonte comune a tutti ‒ da cui si distinguono alcune costruzioni astratte proprie di una piccolissima minoranza intellettuale».1 È cioè necessario respingere l’associazione tra orale e popolare da un lato, e scritto e colto dall’altro, così come l’erezione di inesistenti paratie stagne tra le diverse classi sociali. Come ha notato, relativamente alla Francia bassomedioevale, Robert Muchembled (1991, 465), molti nobili «vivevano nei paesi e da paesani: la loro era un’esistenza non sempre molto diversa da quella dei contadini abbienti. Infatti prendevano volentieri parte alle feste, indulgevano alle superstizioni e si palesavano in sintonia con la cultura popolare». Lo stesso si può dire con certezza anche del clero e dei religiosi, in particolare degli ordini mendicanti del XIII secolo, ben lontani dal costituire quella casta separata e dedita all’esercizio del potere che a volte è stata ideologicamente tratteggiata. Con ciò siamo condotti alla considerazione della letteratura religiosa, di cui Zumthor si occupa solo parzialmente, ma che di certo vide una massiccia circolazione orale. Il riferimento non è qui soltanto alla pratica della predicazione, della quale l’oralità costituisce, in certo modo, un carattere connaturale.2 Com’è noto, le vite dei santi occupavano una posizione di rilievo nel repertorio non solo dei chierici, ma anche dei giullari, e nella Francia settentrionale del XII secolo è ben documentata la lettura ad alta voce in volgare di testi religiosi (cf. Burgio 2003, 61–62). 1 E cf. anche ibid., 158–159; Barbato (2019, xiii). 2 Se infatti è possibile additare sermoni pensati e stesi solo per l’occhio, essi costituiscono certo un’eccezione che conferma la regola della recitazione a voce (cf. Colombo 2014, 262).
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2 La Passione del ms. Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Mai, MA 460 Per l’area italoromanza, sulla quale riguardo a questo aspetto gli studi sembrano meno numerosi, è emersa di recente una nuova testimonianza, recata dal manoscritto MA 460 della Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo. Si tratta di un codicetto membranaceo di soli 23 fogli, più due di guardia, mutilo del foglio originariamente collocato tra il nono e il decimo; le dimensioni, poco più di 20 centimetri in altezza e quindici in larghezza, sono piuttosto ridotte, e nel complesso le caratteristiche indicano un manufatto di uso corrente, senza pretese di lusso. La scrittura ‒ una littera textualis di unica mano ed esecuzione veloce e semplificata, con iniziali rosse e blu, è databile alla seconda metà, probabilmente verso la fine, del XIV secolo, secondo le perizie paleografiche di Mirella Ferrari e Gabriella Pomaro. L’unico testo tramandato dal manoscritto è un racconto della Passione di Cristo che armonizza in un’unica narrazione i quattro vangeli canonici, interpolandoli con inserti esegetici che possono essere ricondotti alla temperie scolastica, dato l’impiego di distinctiones che vi si riscontra, come nel seguente passo, tratto dal f. 20r–v: Quando elo disse «Sitio», el fo a dire ch’elo aveva sede, e sì disse miser Iesù Cristo per tre rason ch’elo aveva sede. La prima fo natural, che verasiamente elo aveva sede [...]. L’altra rason fo spiritual, a mostrar che tuto çò ch’elo sostigniva, elo lo sostegniva per sede, çò è per desiderio de la salvacion de la humana generacione [...]. La terça rason sì fo açò ch’elo sostegnisse pena in la lenga et in lo gosto sì como in tuti li altri sensi et in tute le altre menbre.3 ‘Quando disse «Sitio», significò che aveva sete, e il signore Gesù Cristo disse che aveva sete per tre ragioni. La prima fu naturale, che aveva effettivamente sete. L’altra ragione fu spirituale, per mostrare che tutto ciò che sopportava, lo sopportava per sete, cioè per desiderio della salvezza del genere umano. La terza ragione fu acciocché penasse nella lingua e nel gusto come in tutti gli altri sensi e in tutte le altre membra’.
Il testo del manoscritto bergamasco ‒ che d’ora in poi chiamerò «Passione Mai» ‒ è da intendere probabilmente come un volgarizzamento dal latino, per la medesima ragione che, in altra sede, ho addotto a proposito di una Passione armonizzata in milanese antico imparentata con quella di cui qui ci si occupa (Colombo 2016, 4–8): dal momento che nel XIV secolo erano disponibili numerose armonie evangeliche in latino (cf. Vaccari 1931, 330–331), è inverosimile, 3 Si sciolgono le abbreviazioni in corsivo, si separano e si uniscono graficamente le parole secondo le norme comunemente in uso per gli antichi testi in volgare, si segnalano tra parentesi uncinate le integrazioni, si distinguono u e v, si modificano punteggiatura e maiuscole e si introducono apostrofi e accenti (per la loro qualità ci si riferisce a Gambino 2007; si distinguono à ‘ha’ e a preposizione).
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benché naturalmente possibile, che l’estensore del testo l’abbia non solo volgarizzato, ma anche allestito intrecciando ex novo i passi dei Vangeli. Soprattutto se si pensa al grado di perizia con cui i singoli particolari delle narrazioni evangeliche sono fusi tra loro, come nel caso della predizione del rinnegamento di Pietro: «Fiioli mei, elo devignirà cusì de vui como fa de le pegore quando lo pastor è morto, le qual tute se desparte. Quando eo serai piiado, vu ve scandaliçerì tuti e tuti scanperì e perderì la mia fe’ e lo mio amor, e sì me laxerì solo in man de li pecatori». Quando san Pero aldì questa parola, elo se spaurì tuto e disse: «Signor mio, quando tuti li altri se scandaliçasse en ti, e no me scandaliçerai mai eo»,4 et ancora disse: «O Iesù Cristo, mo que è questo che tu dis? Che se tuto lo mondo t’abandonasse, eo no t’abandonerai mai, anço sonto aprestado de vegnir cum ti in carcere et in morte». Disse lo Signor: «Pero, Pero, no te mostrar cusì fervente, ch’io te digo in veritade che in questa note, anançi che lo gallo cante doe fiade, tu me negeras tre fiade». Disse santo Pero: «Miser, que è quelo che tu dis, ch’io te negerai? Mo eo me laxerave ananti morire!». E tuti li altri disipoli disse: «Nui no t’abandoneremo mai, miser, anço semo aprestadi de conbatre per ti, s’elo serà bisogno. Echo che nu avemo chialogo dui gladii, cum li qual nu te defenderemo». E lo Signor disse: «Sufficit» (f. 2v). ‘«Figli miei, avverrà di voi come delle pecore che, quando il pastore è ucciso, si disperdono tutte. Quando sarò catturato, vi scandalizzerete tutti e scapperete tutti e perderete la mia fede e il mio amore, e mi lascerete solo in mano dei peccatori». Quando san Pietro sentì questo discorso, si turbò tutto e disse: «Signore mio, quandanche tutti gli altri si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai», e inoltre disse: «O Gesù Cristo, che cosa dici? Che se tutti ti abbandonassero, io non ti abbandonerò mai, anzi sono pronto a venire con te in carcere e alla morte». Disse il Signore: «Pietro, Pietro, non ti mostrare così acceso, che ti dico in verità che questa notte, prima che il gallo canti due volte, tu mi rinnegherai tre volte». Disse san Pietro: «Signore che cosa dici, che ti rinnegherò? Ma io mi lascerei piuttosto uccidere!». E tutti gli altri discepoli dissero: «Noi non ti abbandoneremo mai, Signore, anzi siamo pronti a combattere per te, se occorrerà. Ecco che abbiamo qui due spade, con le quali ti difenderemo». E il Signore disse: «Sufficit»’.
Il passo segue nella sostanza la narrazione di Matteo (26, 31–35) e Marco (14, 27–31), che corrono paralleli, sebbene si possa notare che «vu ve scandaliçerì tuti» è tratto da Marco (14, 27: «omnes scandalizabimini in nocte ista»)5 piuttosto che da Matteo (26, 31: «omnes vos scandalum patiemini in me in ista nocte»), e all’inverso «quando tuti li altri se scandaliçasse en ti, e no me scandaliçerai mai eo» risale a Matteo (26, 33: «et si omnes scandalizati fuerint in te, ego numquam scandalizabor») invece che a Marco (14, 29: «et si omnes scandalizati fuerint, sed non ego»). Si attingono però da Giovanni (16, 32) la pericope «tuti scanperì [...], 4 Sebbene non si sia condotto uno spoglio sistematico, la forma del pronome di 1a persona e’ pare assente dal testo; sembra perciò consigliabile vedere qui un caso di paraipotassi. 5 Si cita dalla Vulgata, introducendo la punteggiatura.
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e sì me laxerì solo in man de li pecatori», da Luca la risposta «sonto aprestado de vegnir cum ti in carcere et in morte» (22, 33), da Marco (contro Matteo e Luca) il dettaglio del doppio canto del gallo, di nuovo da Luca (22, 38) l’affermazione dei discepoli «Echo che nu avemo chialogo dui gladii», legata senza soluzione di continuità al loro accodarsi alla spavalderia di Pietro. Che il testo sottostante la Passione Mai sia latino e non, per esempio, in francese antico, è suggerito per un verso dall’assenza di armonie evangeliche di area galloromanza (Hoogvliet 2013, 293), per l’altro dagli inserti latini nel dettato, come mostrano per esempio i passi citati sopra («Quando elo disse ‹Sitio›», « E lo Signor disse: ‹Sufficit›»).
3 La «Passione Mai» e la lettura ad alta voce Una delle caratteristiche che rendono la Passione Mai specialmente degna di attenzione è il lungo prologo che precede la narrazione evangelica vera e propria, dal quale si apprende innanzitutto che il codice era impiegato per la lettura ad alta voce nel venerdì della Settimana Santa: La passione de miser Iesù Cristo çaschadun fedel cristiano la dé venerar e plançere cum gran devocione e cum gran contricion de core e dé sparçer lagreme devotissime per quelo dolce Cristo, lo qual ancoy sparse lo so sangue glorioso su lo legno de la croxe per nui miseri pecatori, çò fo lo venerdì santo. In quello dì propriamente se leçe e se predica questa gloriosa passione e sì comença questa passione su modo de predication (f. 1r). ‘La passione del signore Gesù Cristo ciascun fedele cristiano la deve venerare e piangere con grande devozione e grande contrizione di cuore, e deve spargere lacrime devotissime per quel dolce Cristo che effuse il suo sangue glorioso sul legno della croce per noi miseri peccatori oggi, cioè il venerdì santo. In quel giorno propriamente si legge e si predica questa gloriosa passione, e comincia questa passione al modo di una predica’.
Già queste poche righe iniziali presentano un indizio di oralità eccezionalmente esplicito, certo assai più delle pur convincenti prove addotte da Zumthor (1990, 309–313) per dimostrare la pratica della lettura ad alta voce. Riprendendo i risultati di un’indagine di Verlato (2017, 105 n. 30), infatti, si può notare come di solito la destinazione di un codice volgare alla lettura comunitaria sia solo intuibile «sulla base della qualità dei testi [da esso tramandati], e della loro più o meno evidente funzione divulgativa», piuttosto che apertamente asseribile, come capita invece nel caso della Passione Mai. Fanno eccezione tuttavia i libri delle confraternite (in specie di battuti), i quali spesso suppongono, oltre al canto comune delle laudi, una voce guida per le preghiere, della quale possono essere specificate anche le parole da proferire
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per introdurre le orazioni, come accade per esempio nel quattrocentesco codice dei battuti bresciani di San Cristoforo: Preces dicende per ministrum aut subministrum in fine processionis antequam fiat confessio generalis. Carissem frathey me e seror mii, pregé De digant cum e dirò mi devotament. O Yhesu Christ, el qual nascest de la beatha virgen madona sancta Maria, e che e’ veras De e veras hom... (Bonelli/Contini 1935, 119‒120).
Anche la Passione Mai propone, in forma più ampia, una sorta di copione, come si può notare proseguendo la lettura del prologo: Dise e parla quelui che dé predicare de questo dì santissimo e recitare la passion de miser Iesù Cristo: «Signori eo no sai çò che sia ancoy meio fare, o plançere o predicare,6 che quando eo inpenso como miser Iesù Cristo, lo nostro Signor, lo nostro salvador, lo nostro pare, lo nostro fradelo, è ancoy morto e crucificado, certo el non è alguna criatura che no debia ancoy plançere, perché è ancoy morto lo fiiol de Dio.7 Mo quando eo vego cotanta bona çente esere assenblada per aldire la passione de lo Salvadore, a mi par eser covegnivele cosa no solamente plançere, may eciandio predicare.8 Unde nui faremo cusì, che nu plançeremo cum lo core e cum li ogli, se Dio ven darà la gracia, e cum le oregle aldiremo e cum la bocha predicheremo la passione de lo nostro Salvadore» (f. 1r–v).9 ‘Dice e proclama colui che deve predicare a proposito di questo giorno santissimo e recitare la passione del signore Gesù Cristo: «Signori io non so ciò che oggi sia meglio fare, piangere o predicare, che quando penso a come il signore Gesù Cristo, nostro signore, nostro salvatore, nostro padre, nostro fratello, è oggi morto e crocifisso, certo non c’è nessuna creatura che oggi non debba piangere, perché oggi è morto il figlio di Dio. Ma quando vedo tanta buona gente essere riunita per udire la passione del Salvatore, mi sembra essere buona cosa non solo piangere, ma anche predicare. Dunque faremo così, che piangeremo con il cuore e con gli occhi, se Dio ve ne darà la grazia, e con le orecchie udremo e con la bocca predicheremo la passione del nostro Salvatore»’.
Si tratta, come si vede, di parole letteralmente messe in bocca al lettore perché si rivolga al suo pubblico, suggerendo l’atteggiamento da assumere nei confronti del testo che sta per essere ascoltato.10 Prima però di giungere al racconto vero e
6 Con le lettere Signori eo e o predicare ripassate in inchiostro nero da altra mano. 7 Con la n di plançere, la p e l’abbreviazione di per e le lettere e ancoy morto ripassate in inchiostro nero da altra mano. 8 Con cosa no solamente plançere, may (tranne sol-) ripassati in inchiostro nero da altra mano. 9 Con le lettere uen darà la gracia. e ripassate in inchiostro nero da altra mano. 10 Si noti di sfuggita che il riferimento alla predicazione non implica che il lettore fosse necessariamente un chierico. Nelle confraternite infatti anche ai laici era possibile predicare, come mostra l’esempio di Albertano da Brescia (cf. Powell 1992, 90–120). Si tratterebbe in tale evenienza di un caso simile a quello per cui, in alcune compagnie di disciplinati, un confratello era chiamato a tenere un sermone in occasione di ricorrenze particolari, e in specie nella Setti-
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proprio della passione di Cristo, ci si affida alla protezione della Vergine, senza la cui grazia non si potrebbe convenientemente ascoltare la narrazione evangelica, e si propone una preghiera comune: Unde inprima nu demanderemo la soa gracia e sì la saluderemo cusì digando: «Ave Maria, gracia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui. Sancta Maria ora pro nobis» (f. 1v).
Un siffatto procedere richiama alla mente di nuovo i libri confraternali con le loro preghiere, specialmente incipitarie, come quelle del laudario dei battuti di Modena (Elsheikh 2001, 9–10), dove si legge ai ff. 14v–15r: Tut’ i sancti e le sancte de Deo [...] sì sianno anchoi a prego cum la madre nostra de vita eterna madonna sancta Maria, [...] açoché quinoga nu possemo desponere gi nostri chori, le mente, le effecto e la voluntae a fare penitencia di nostri peccae [...]. Et açoe che questa nostra madre più voluntera nostra advocata sia, façemoie tuti reverentia digando: Ave Maria gratia plena. ‘Tutti i santi e le sante di Dio siano oggi in preghiera con la nostra madre di vita eterna madonna santa Maria, acciocché qui noi possiamo disporre i nostri cuori, le menti, le inclinazioni dell’animo e la volontà a fare penitenza dei nostri peccati. E acciocché questa nostra madre più volentieri sia nostra avvocata, facciamole tutti onore dicendo: Ave Maria gratia plena’.
Proprio nei codici confraternali, non sorprendentemente, si può trovare il racconto della Passione, in verso o in prosa, sia in forma relativamente ridotta, come nel quattrocentesco laudario dei battuti di Novara (Longo 1986, 346‒352), sia in forma più estesa, come nel libro dei battuti di Lodi (Agnelli 1902, 57‒99; cf. Andreose 2008, 43‒45). Non è insomma impossibile che la Passione Mai fosse un testo da impiegare in ambito confraternale, benché tale nesso si riduca semplicemente a una ipotesi che occorre lasciare in sospeso per insufficienza di prove: resta il fatto che essa pare presupporre una esecuzione che si attenga molto da vicino alla lettera del codice. Quel divario che sempre intercorre tra lo scritto giunto fino a noi e la sua trasmissione orale, mai colmabile completamente e con assoluta certezza, sembra perciò nel caso che qui si discute particolarmente sottile.
mana Santa; per esempio, relativamente al XV secolo, si hanno notizie riguardanti i battuti del Duomo di Padova e di S. Domenico a Firenze, i cui statuti prescrivevano che uno dei confratelli tenesse un sermone in una o più delle adunanze previste per la settimana santa (Meersseman 1977, 1274–1275).
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4 Localizzazione linguistica della «Passione Mai» È dunque interessante dedicarsi all’esame della lingua del testo, a partire dal tentativo di localizzarlo dal punto di vista geografico. Per ragioni di spazio, si proporrà qui una descrizione non esaustiva, sia per i fenomeni citati sia per lo spoglio, condotto solo parzialmente. La convergenza di alcuni indizi suggerisce che si abbia a che fare con un testo di area veneta: in tal senso orientano il buono stato di conservazione delle vocali atone finali diverse da -a, su cui si tornerà a breve, il dileguo dell’occlusiva dentale in posizione intersonantica, che si riscontra in mare ‘madre’ 1v, 2r (2 occ.), etc., pare ‘padre’ 1r, 2r, etc. o Pero ‘Pietro’ 2r (3 occ.), etc. e l’esito assimilato e poi scempiato del nesso intervocalico ct, riconoscibile in dretamente ‘drittamente’ 2r, fato ‘fatto’ 1r (2 occ.), note ‘notte’ 2v, pato ‘patto’ 1v, trata ‘tratta’ 1r, etc. (cf. Arcangeli 1990, 16–17; Marcato 2002, 299; Loporcaro 2009, 102–104). All’interno del dominio linguistico veneto, diversi fenomeni parlano in favore del veneziano: per il vocalismo tonico, si può notare che il passaggio metafonetico di e a i e di o a u per influsso di una originaria -i finale si restringe a poche forme pronominali. Esemplificando dai due primi fogli del codice, si trovano ili 1v, 2r, illi 2r (2 occ.), quisti 1v per la vocale palatale e dui 2v (2 occ.), nu 1r–v, 2v (2 occ.), nui 1r (2 occ.), 1v (2 occ.), 2r–v, vu 2r, vui 1v per la velare, mentre restano preservati amaistramenti 2r (3 occ.), comandamenti (2v), comandamenti (2v), pecatori 1r, 2v (2 occ.) e signori 1r, a differenza di quanto ci si aspetterebbe a Belluno, Padova, Treviso o Verona.11 Il quadro è però screziato da forme come multi 3r e signi 5r, a fronte di molto 2r (2 occ.) e segno 5r, e soprattutto dal diffuso esito metafonetico in -ì della desinenza verbale di 5a persona -etis, assai raro a Venezia, riconoscibile nel presente indicativo savì ‘sapete’ 2r e nei futuri contenuti nella frase con cui Gesù predice agli apostoli la loro fuga: «Quando eo serai piiado, vu ve scandaliçerì tuti e tuti scanperì e perderì la mia fe’ e lo mio amor, e sì me laxerì solo in man de li pecatori» (2v) (‘Quando sarò pigliato, voi vi scandalizzerete tutti e scapperete e perderete la fede e l’amore in me, e mi lascerete solo in mano dei peccatori’).12
11 Cf. Salvioni (1894, 308–311); Stussi (1965, xxxvii–xxxix); Ineichen (1962–1966, vol. 2, 360‒361); Brugnolo (1977, 143–145); Pellegrini (1977, 316); Donadello (1994, 42); Stussi (1995, 127, 130‒132); Tomasoni (1973, 172‒173); Tomasin (2004a, 100‒102); Bertoletti (2005, 42‒53; 2006, 13, 25). Ma si noti che nel bellunese e nel trevisano antichi la metafonesi è assente nei pronomi personali di 4a e 5a persona (cf. Formentin 2005, 311). 12 Per la 5a persona, nei testi pratici veneziani pubblicati da Stussi (1965, xxxviii) si trova solo un «isolato serì […] (di solito seré)».
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Significativa è la condizione di caduta delle atone finali, tra le quali la palatale -e può dileguarsi dopo -n, -l e -r, la velare -o dopo -n in parole piane e dopo -l nel suffisso -ol. Nei primi due fogli del codice, la -e cade dunque dopo -n in contricion 1r, passion 1v (3 occ.), passion 1r (2 occ.), 1v, 2r, predication 1r; dopo -r in amor 2r (2 occ.), miser ‘messere’ 1r (4 occ.), 1v (3 occ.), 2r (3 occ.), miser 1r (2 occ.), 1v, 2r, salvador 1r, signor 1r, 1v (2 occ.), 2r (3 occ.), vener ‘venerdì’ 1v, nel presente indicativo par 1r e negli infiniti aver 2r, eser 1r, sparçer 1r, venerar 1r; cade infine dopo -l negli aggettivi e pronomi fedel 1r, qual 1r (3 occ.), 1v (3 occ.), 2r e tal 1v. Si noti che non si ha caduta di -e né quando la sonorante che precede faceva parte di un gruppo consonantico, come nei già citati mare da matre(m) e pare da patre(m), né quando si tratta di morfema del plurale, come in maynere 1v. Per quanto riguarda la -o, essa vanisce in bon 2r (2 occ.), çaschadun 1r e nel sostantivo fiiol 1r. Gli esempi menzionati si affiancano ad altri in cui invece le finali sono conservate, ma quel che importa è che non si trovano casi di caduta dopo consonanti diverse dalle sonoranti n, l e r, che condurrebbero lontano da Venezia, verso il Veneto settentrionale; d’altro canto, la caduta delle finali dopo le alveolari -l e -r esclude Padova, dove il fenomeno si manifesta solo in presenza di un condizionamento fonosintattico, come in Toscana, e la mancanza di neutralizzazione in -o della -e finale non permette di orientarsi verso Verona.13 Caratteristici di Venezia sono inoltre l’esito in -er(o) del suffisso -arium, che si apprezza per esempio in dineri ‘denari’ 1v, 9v; l’esito in labiodentale sonora v- del germanico w- a inizio parola, per cui si possono produrre varire ‘guarire’ 3v (< fr.a. *guarir < franc. *warjan) o vardare 7r, vardar 8r ‘guardare’ (< *wardōn), varda 12r, etc., accanto però a un maggior numero di forme con esito labiovelare: guarido 6v e guarda 6r, guardado 1v, guarderà 4v, etc.; e l’estensione del morfema verbale di 4a persona -emo anche al presente indicativo di essere e dei verbi di prima coniugazione, come in semo 2v e in demandemo 6r e aidemo 6r; propria del veneziano più antico (duecentesco e di primo Trecento) è poi l’assenza dell’articolo definito el e l’impiego esclusivo di lo (Stussi 1965, xxxix, xliv–xlv, lx; Stussi 1995, 128–129).14 Il dato più rilevante è la folta attestazione di 2e persone verbali desinenti in -s, fenomeno che costituisce, per citare Alfredo Stussi (2005, 72), «uno dei tratti più individualizzanti del veneziano»: lo si incontra nell’indicativo
13 Cf. Salvioni (1894, 313–314); Stussi (1965, xxxiii–xxxv); Ineichen (1962–1966, vol. 2, 364‒365); Brugnolo (1977, 169–172); Pellegrini (1977, 358); Donadello (1994, 42); Stussi (1995, 128, 131‒132); Tomasoni (1973, 176); Tomasin (2004a, 124‒127; 2004b, 168); Bertoletti (2005, 116‒137; 2006, 8, 14, 25). 14 In Stussi (1965, lx), gli esiti di w- sono ritenuti privi di valore distintivo nell’area veneta. Diverso il giudizio in Stussi (1995, 129; 2005, 71), dove si considera il passaggio di w- in v- come caratteristico del veneziano.
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presente dis ‘dici’ (2 occ.) e nel futuro negeras ‘negherai’ all’interno del dialogo già citato in cui Gesù predice a Pietro il suo rinnegamento: «O Iesù Cristo, mo que è questo che tu dis? Che se tuto lo mondo t’abandonasse, eo no t’abandonerai mai, anço sonto aprestado de vegnir cum ti in carcere et in morte». Disse lo Signor: «Pero, Pero, no te mostrar cusì fervente, ch’io te digo in veritade che in questa note, anançi che lo gallo cante doe fiade, tu me negeras tre fiade». Disse santo Pero: «Miser que è quelo che tu dis, ch’io te negerai? Mo eo me laxerave ananti morire!» (f. 2v).
Al passo citato si può aggiungere che, nei primi cinque fogli del codice, si raccolgono abis ‘tu abbia’ 5v, dormis ‘dormi’ 4r, es ‘sei’ 5r (3 occ.), fas ‘fai’ 5r, oferis ‘offri’ 5r, podis ‘puoi’ 4r e vos ‘vuoi’ 3v. Per quanto riguarda la collocazione cronologica del testo, sembra significativo il fatto che ĕ e ŏ in sillaba libera non dittonghino mai: di nuovo limitando l’esemplificazione ai primi due fogli del manoscritto, per la serie palatale si hanno dè ‘diede’ 2r (2 occ.) e dèlli ‘gli diede’ 2r, dredo ‘dietro’ 2r, eri ‘ieri’ 1v, mei ‘miei’ 2r, pertene ‘pertiene’ 1v (2 occ.), pei ‘piedi’ 1v, 2r e Pero ‘Pietro’ 2r (3 occ.), oltre che bene 2r, da citare a parte vista la sua refrattarietà al dittongo. Per la serie velare si trovano bon ‘buono’ 2r (2 occ.), con cui vanno bona 1r e boni 2r, core ‘cuore’ 1r (2 occ.), 1v, fiiol 1r e fiiolo 1v ‘figliolo’, con il plurale fiioli 2r, mo 1r, 1v (2 occ.) e modo 1r, 2r da mŏdo.15 Il fatto si spiegherebbe se la Passione Mai – tramandata, lo si è detto, da un codice del tardo Trecento – fosse copia di un testo precedente di qualche decennio la realizzazione del manoscritto: i dittonghi in sillaba libera infatti, inizialmente assenti in veneziano, si diffondono per gradi, risultando stabilmente acclimati verso la metà del XIV secolo.16 A una datazione del testo alla prima metà del Trecento spingerebbe anche il già citato impiego esclusivo dell’articolo definito lo, visto che la coesistenza con el si afferma solo verso la metà del secolo.17
15 All’elenco si aggiunge forse iveloga ‘lì’ 2r, se l’etimologia da ibi + una forma ricostruita *īllŏco con o breve è corretta (cf. FEW, vol. 4, 559–560; Rohlfs 1969, §909; VSES, vol. 1, 354–355). 16 Cf. Stussi (1965, xxxix–xliii); Sattin (1986, 62‒65); Stussi (1995, 127‒128); Tomasin (2001, 175; 2010, 58–59; 2012, 31; 2013, 7); Ferguson (2015, 29); Formentin (2018, 436, con rinvio all’indice dei fenomeni e dei temi; si noti che all’assenza di dittongo di ĕ e ŏ in sillaba libera in tutti i testi duecenteschi commentati risponde la «dittongazione ormai generale» nella lettera di Cataruza da Pesaro della seconda metà del Trecento: ibid., 341). 17 Cf. Stussi (1965, xliv); Sattin (1986, 101‒103); Stussi (1995, 129); Tomasin (2010, 60; 2012, 31; 2013, 10); Formentin (2018, 55, 80, 200, 247, 252, 264). Le preposizioni articolate però non si presentano nella forma forte in -o, come si nota in testi veneziani duecenteschi (ibid., 62, 87, 118, 228, 252, 282, 317): la situazione trova corrispondenza nella prima redazione della copia della lettera di Ghazan, ilkhan di Persia, al Doge di Venezia, del 30 dicembre 1300, vergata in un volgare veneziano in cui si rileva «la pervasiva presenza dell’elemento francese» (ibid., 308). Il parallelo
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Stabilita la sostanziale pertinenza veneziana della Passione Mai, andrà aggiunto che alcuni suoi caratteri linguistici non si addicono propriamente a tale collocazione. È il caso di un participio tronco come conceù ‘concepito’ 2r, di contro alla conservazione della vocale finale in iato nel veneziano, e soprattutto della già citata presenza dell’esito metafonetico in -ì della desinenza verbale -etis, come in savì, scandaliçerì, etc., tratti che tradiscono un influsso non rialtino, forse padovano (cf. Ineichen 1962–1966, vol. 2, 361 n. 1, 401; Stussi 1995, 130–131; Tomasin 2004, 185).18 Anche conteggiando tali eccezioni, e qualcun’altra di minor momento che qui per la tirannia dello spazio si tralascia di discutere, è comunque ragionevole ritenere che la Passione Mai sia un testo in veneziano antico idiomaticamente piuttosto ben caratterizzato. Un testo, si diceva, concepito per essere letto ad alta voce (almeno) una volta all’anno, per il quale ‒ mantenendo la necessaria prudenza ‒ si può però supporre una buona corrispondenza di massima tra testimonianza scritta ed esecuzione orale.
vale solo per affermare che, probabilmente, la compresenza della forma forte dell’articolo definito e di preposizioni articolate apocopate è un carattere non rialtino, che va ad aggiungersi a quelli citati qui oltre. 18 A Padova potrebbero pertenere anche sonto 2v (e sont’eo vegnudo nello stesso foglio), 5v (due volte), etc., 1a persona del presente indicativo del verbo essere, attestata ai vv. 2, 3 e 9 del sonetto Paduanus della tenzone tridialettale di Nicolò de’ Rossi (Brugnolo 1996, 18), nella Bibbia istoriata (in frase interrogativa con vocale elisa: sont’e’; cf. Donadello 2006, 114) e nel Serapiom (Ineichen 1962–1966, vol. 2, 399), e l’avverbio anço ‘anzi’ 2v (3 occ.), etc., che ricorre nel Frammento Papafava (Contini 1960, vol. 1, 807) e nel Serapiom (Ineichen 1962–1966, vol. 1, 147); devanzo, enanço ed enanzo sono inoltre attestati nei testi pratici padovani trecenteschi (Tomasin 2004a, 127), enanço, inanço o innanço nella Bibbia istoriata (Folena/Mellini 1962, 127), denanço e innanço nel Serapiom (Ineichen 1962–1966, vol. 1, 402–403). Ma forse, una volta ancora, è più prudente fermarsi a rilevare che tali forme non sono rialtine, visto che sonto e anço si trovano pure altrove sia in Veneto ‒ per es. a Verona ‒ sia oltre i confini del Veneto. Anche nella Legenda de santo Stadi del veneziano Franceschino Grioni, scritta tra la fine del XIII e il principio del XIV secolo, ma tramandata da un codice del secondo quarto del Quattrocento, si trovano 5e persone in -ì e participi in -ù (Monteverdi 1930, 31‒32; Badas 2009, xlii, lxxiv, ci; sull’edizione Badas cf. i rilievi di Lorenzi 2011, che comunque non toccano i punti qui rilevanti). Forme metafonetiche come misi ‘mesi’ e infirmi e participi in -ù si riconoscono anche nella seconda delle mani che verga il trecentesco Capitolare dei Camerlenghi di Comun e che Tomasin (1999, 29‒30) giudica perciò non rialtina.
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5 Tratti fonetici cólti nella «Passione Mai» In questa prospettiva, mi pare interessante badare non solo ai caratteri che individuano il volgare adoperato e lo legano a una lingua d’uso quotidiano, ma anche a quei tratti fonetici cólti che spesso sono intesi semplicisticamente come un rumore che disturba la ricezione del vernacolo puro. Nel caso della Passione Mai, infatti, siamo senz’altro nell’àmbito di quella che si potrebbe chiamare, rifacendosi al modello di Peter Koch e Wulf Oesterreicher, un’oralità elaborata («elaborierte Mündlichkeit»), nella quale all’impiego della voce non corrisponde un’immediatezza comunicativa, ma piuttosto una distanza che si mostra in vari aspetti, tra cui il fatto che la comunicazione sia pubblica, che il suo tema sia fisso, che si tratti ‒ a quanto pare ‒ di un monologo e soprattutto che il testo sia frutto di una riflessione precedente che possiamo supporre approfondita.19 Coerentemente con tali caratteristiche, la lingua della Passione Mai è aperta alla presenza di forme latineggianti che si staccano dalla pronuncia più consona all’area idiomatica veneta. Nel trattare di questo versante della lingua del testo, è utile distinguere con chiarezza ciò che potremmo chiamare «latineggiamento fonetico», del quale qui ci si occupa, dal latinismo, cioè dalla parola di tradizione dotta, entrata nell’uso come prestito. Il latineggiamento fonetico può verificarsi infatti non solo in parole di tradizione dotta, come clausura, ma anche in parole di tradizione popolare, come fide per fede (esemplifico qui, per semplicità, attingendo e riferendomi all’italiano piuttosto che al veneziano). Si noti inoltre che non necessariamente la presenza di una parola di tradizione dotta comporta caratteristiche fonetiche latineggianti: è il caso per esempio dei superlativi in -issimo, come grandissimo, i quali non hanno nulla che li identifichi come latinismi all’orecchio di chi non sia un linguista (cf. Durante 1981, 95–96; Reinheimer-Rîpeanu 2004, §3.2.2). Ne segue dunque che si possono avere sia parole di tradizione dotta che hanno un’unica forma integralmente latina, come il già citato clausura, sia parole di tradizione dotta che, al pari delle corrispondenti parole di tradizione popolare, possono essere più e meno latineggiate, come mostra la coppia iubilo/giubilo. Quello che qui interessa sono dunque le parole latineggianti di tradizione sia dotta sia popolare che, all’orecchio di chi ascoltò la Passione Mai, dovevano suonare estranee alle sue abitudini fonetiche. Nel novero rientrano innanzitutto forme che conservano il timbro di ĭ e ŭ toniche e atone in parole che in veneziano antico presentavano e e o. Per la serie palatale si trovano confirma 2r, e, fuor d’ac-
19 Cf. Koch/Oesterreicher (1985, 23, 30). Per una applicazione specifica del modello comunicativo ai testi antichi cf. Koch (1993), in part. il §5, La scripturalité à destin vocal.
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cento, infirmitade pl. 16v, infirmitade pl. 16v, humilitade 5r, 5v (2 occ.), 7v, e virtude 16v (2 occ.), etc. attestato allato a vertude 16v. Per la serie velare è da citare, con u in posizione tonica, il connettivo unde (esclusivo all’interno della Passione Mai), mentre in atonia si hanno la preposizione cum, forma anch’essa esclusiva, dulcissimo 10v (allato a dolcissimo 15r), voluntade 8v, il verbo crucificado 1r, 11v, etc., in opposizione a croxe, e titulo 16 v (2 occ.), 17r (3 occ.). Da citare inoltre i casi di mantenimento di [j] iniziale come iustamente 17r, iusto 9v, iusticia 6r (2 occ.), a fronte dei possibili çustamente o çustamentre, çustiçia e çusto. Quanti dei tratti fonetici latineggianti tramandati dalla grafia saranno stati davvero pronunciati nella lettura ad alta voce? Il dubbio è più che lecito, soprattutto se si pensa al fatto che, con ogni probabilità, una grafia come clamà 5r (2 occ.) poteva sottintendere una pronuncia con affricata palatale sorda ([ʧa'ma]). Inoltre va tenuto presente che, nel complesso, il tasso di latineggiamento della Passione Mai non è per nulla ingente, il che conferma, per altro verso, la sua buona caratterizzazione vernacolare. D’altra parte, se è piuttosto rischioso azzardare un giudizio sul modo di pronuncia di una singola parola di un testo medioevale, sarebbe antieconomico ritenere che tutti i latineggiamenti fonetici che la grafia tramanda venissero sistematicamente disattesi nella lettura. Qual è lo scopo di una simile osservazione? Naturalmente non si scopre nulla di nuovo rimarcando l’influsso del latino sulla facies linguistica di un testo volgare medioevale. E tuttavia non è inutile ribadire come esso si iscriva nella più generale opportunità di non separare artificiosamente cultura popolare e cultura dotta, di cui si diceva in principio seguendo Zumthor. È una opportunità che mi pare valida sia sul piano del contenuto sia su quello della forma, perché anche nell’esecuzione orale di un testo non è possibile negare, e anzi è necessario accordare, diritto di cittadinanza agli elementi dotti così come a quelli popolari.
Riferimenti bibliografici Agnelli, Giovanni, Il libro dei battuti di San Defendente di Lodi. Saggio di dialetto lodigiano del secolo decimo quarto, Archivio Storico per la Città e Comuni del Circondario di Lodi 21 (1902), i‒xv, 1‒108. Andreose, Alvise, Censimento dei testimoni della «Lamentatio Beate Virginis» di Enselmino da Montebelluna. ii, Quaderni Veneti 47–48 (2008), 9‒98. Arcangeli, Massimo, Per una dislocazione tra l’antico veneto e l’antico lombardo (con uno sguardo alle aree contermini) di alcuni fenomeni fonomorfologici, L’Italia Dialettale 53 (1990), 1–42. Bachtin, Michail, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1979 [Tvorčestvo Fransua Rable i narodnaja kul’tura srednevekov’ja Renessansa, Moskva, Izdatel’stvo «Chudožestvennaja literatura», 1965].
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II. Storia profana
Roberta Cella
L’epistola dei palermitani ai messinesi (13 aprile 1282) e il suo volgarizzamento Abstract: The Sicilian Vespers broke out in Palermo on March 31th, 1282, and spread quickly to western Sicily; but, for the military to prevail over the troops of Charles I of Anjou, rebels needed that eastern Sicily also rose up. This is, in a nutshell, the historical context of the Latin epistle sent on April 13th, 1282, by the Comune of Palermo to the citizens of Messina, trying to incite them to revolt against the Angevins. The epistle’s argumentative framework is provided by two motifs: their right revolt against the Angevin tyranny and God’s favour to the Sicilians. These two motifs, which are logically separate, are intertwined by means of biblical quotations that permeate the whole epistle: Charles of Anjou is identified with the pharaoh during the Hebrew captivity in Egypt and citizens of Messina with Jewish people in slavery. Biblical quotes can be distinguished in structuring quotations, which define the metaphorical nucleus with the political content, and reinforcement quotations, which set up a non-specific, scriptural background. In turn, structuring quotations can be distinguished in identifying quotations, overlapping the contemporary figures with those of the Bible, and associative quotations, linking the vicissitude of the citizens of Messina with events of the history of Hebrews, in order to project the results of the history of the latter onto the former. This study analyzes the epistle’s argumentative framework and provides the critical edition of its ancient vernacular translation, attested by ms. Biblioteca Apostolica Vaticana, Chigiano L VII 267 (Ch2), dated 1389, and ms. Biblioteca Nazionale dei Lincei e Corsiniana, Corsiniano 44 C 8 (C), of the second quarter of the 15th century. Keywords: Ancient Italian; vernacular translations; Sicilian Vesper; medieval epistles; Bible in the Middle Ages
1 Premessa Più di dieci anni fa, quando per il Convegno di Basilea su Brunetto Latini studiavo il carteggio tra i comuni di Pavia e Firenze a proposito dell’uccisione dell’abate di Vallombrosa Tesauro Beccaria (Cella 2008), mi appassionai ad alcune raccolte
Indirizzo di corrispondenza: Prof. Dr. Roberta Cella, Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica, Università di Pisa, Piazza Torricelli 2, I-56126 Pisa. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-007
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di lettere politiche volgarizzate, assemblate forse già alla fine del Duecento. Si tratta, come ora si sa meglio, di gruppi di epistole di argomento politico, i cui originali furono prodotti in parte dalla curia di Federico II e dei suoi successori, in parte dalla cancelleria papale, in parte dalle cancellerie comunali del secondo Duecento, che oltre a essere diffuse in latino, in raccolte molto ampie di àmbito giuridico-cancelleresco, vennero volgarizzate (almeno nel caso dello scambio tra Pavia e Firenze in due redazioni indipendenti) e circolarono per tutto il Trecento, con sopravvivenze quattrocentesche, in raccolte però meno ampie di quelle latine. Di quelle lettere mi interessava il valore modellizzante, come esempi sia di scrittura e di oratoria in volgare sia di azione politica, per il mondo comunale tosco-emiliano tra la fine del Duecento e il Trecento. Mi incuriosì subito l’uso che dimostrava di averne fatto Giovanni Villani, che menziona alcune di quelle epistole, di altre cita l’incipit, altre ancora le riporta integralmente. Nel frattempo per me sono sopravvenuti altri interessi, e attorno alle epistole è cresciuta l’attenzione che meritano: già ne erano state fornite trascrizioni da singoli manoscritti (Grévin 2002, 1019–1043) e altre sono state pubblicate in séguito (Macciocca 2014, oltre al già citato Cella 2008); recentemente ne sono stati descritti i testimoni noti e ne sono stati individuati di nuovi (Menichetti 2015; Lorenzi 2017; Macciocca 2018); ne è anche stata annunciata l’edizione (Macciocca 2004; 2014). Gli studi si concentrano sulle epistole di àmbito federiciano (comprensivo anche delle vicende successive la morte di Federico II, segnate dalle dispute dei suoi successori con la Chiesa e i comuni),1 che rappresentano la parte più cospicua delle raccolte, esaurendo il testimoniale di quasi tutti i codici (cf. Lorenzi 2017). Lasciando ad altri la messa a punto dei rapporti entro la tradizione e la verifica del numero di redazioni volgari coinvolte, in questa sede tratterò dell’epistola che il comune di Palermo indirizzò il 13 aprile 1282 ai cittadini di Messina per esortarli a sollevarsi contro Carlo I d’Angiò e a unirsi alla rivolta del Vespro. Se il testo latino è ben noto (§2), quello volgare (§3) al momento è segnalato in due soli testimoni, il Chigiano L VII 267 della Biblioteca Apostolica Vaticana (che indico con la sigla Ch2, impiegata in Cella 2008 e adottata da Lorenzi 2017), e il Corsiniano 44 C 8 della Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana
1 Sulla sostanziale unitarietà formale, tematica e strutturale delle epistole politiche federiciane propriamente dette e delle epistole successive, Benoît Grévin scrive che le «lettres politiques de la seconde moitié du XIIIe siècle» «se rattachent aux précédentes» ‒ ovvero a quelle federiciane in senso stretto ‒ «par leurs caractéristiques formelles, qui les lient au style de la chancellerie de Frédéric II; par leurs thèmes (appel d’Urbain IV à la croisade contre Manfred, lettre de consolation d’Alexandre IV à Saint Louis sur la mort de son fils), ou par leur structure (échanges rhétoriques entre Florence et Pise [sic; corrige: Pavia], Palerme et Messine, comparables aux échanges entre Frédéric et Saint Louis ou Bologne)» (Grévin 2002, 992–993).
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(individuato da Menichetti 2015 e siglato C da Lorenzi 2017). Come mi fa notare Giovanni Spalloni, che ringrazio, alcune frasi del volgarizzamento sono tràdite anche indirettamente, copiate in un quaderno di spogli fatto allestire da Lionardo Salviati, l’odierno ms. 2197 della Biblioteca Riccardiana di Firenze (cf. Stanchina 2009, 187; qui di séguito siglato R), in forma testualmente affine a C (come già suggerito da Lorenzi 2017, 330 n. 1; cf. infra, §3). Analizzerò l’argomentazione (§4), che da strumento di azione politica immediata diventa storia solo nel momento in cui l’epistola viene inserita o citata nella storiografia successiva. Il testo è infatti interamente riportato in latino da due cronache siciliane trecentesche e riassunto, in volgare, nella Nuova Cronica di Giovanni Villani (1990–1991, vol. 1, 511, viii lxi 30–34): «per mandato di quegli di Palermo, contando le loro miserie per una bella pistola, e ch’egli [sc. i messinesi] doveano amare libertà e franchigia e fraternità co·lloro, sì·ssi mossono i Missinesi a ribellazione» contro gli angioini.
2 La tradizione latina Scoppiata a Palermo il 31 marzo 1282, lunedì di Pasqua,2 la rivolta del Vespro si estese rapidamente alle città vicine, fino a conquistare la Sicilia occidentale alla causa antiangioina. Ma per il successo militare contro le truppe di Carlo era necessario che si sollevasse anche la Sicilia orientale. Questo, in estrema sintesi, il quadro entro cui si inscrive l’epistola che i palermitani, costituitisi in Comune, il 13 aprile scrivono ai cittadini di Messina per incitarli alla rivolta contro i francesi. In assenza, almeno allo stato attuale degli studi, dell’originale recapitato, il testo latino è noto grazie a un complesso di tradizioni testuali (secondo Colletta indipendenti l’una dall’altra: cf. Cronaca, lxxiii).3 Nel dettaglio, l’epistola latina è inglobata in due cronache siciliane del Trecento: (a) nella Cronica Sicilie (2013, 71–76), cap. 38, §§2–8, «scritta verosimilmente nel decennio compreso tra la morte di Federico III nel 1337 e la pandemia del 1347–’ 48, da un autore anonimo appartenente al ceto burocratico-amministrativo palermitano e vicino anche alla corte e alla cancelleria regia» (Colletta in Cronaca, ix);4 2 Per la datazione dell’insurrezione cf. Cronaca, 70, commento al cap. 38, §1,7–8. 3 A meno di diverso avviso, traggo le informazioni sulla tradizione da Colletta (2011a, 65–66 n. 23, identiche a quelle in Colletta 2011b, 272–273). Cf. anche La Mantia (1917, 13–15), che segnala una copia dell’epistola in coda a un testimone dell’Historia Sicula di Michele da Piazza. 4 A Pietro Colletta si deve l’edizione più recente. In precedenza la Cronaca era stata pubblicata, in genere sulla base di un solo testimone, quattro volte nel corso del Settecento (cf. Colletta in Cronaca, xii), l’ultima delle quali in Gregorio (1792, 121–267), da cui dipende Amari (1851, 562–564).
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(b) nell’Historia sicula di Bartolomeo di Neocastro, capp. 19–20, che però la rielabora, abbreviandola, e aggiunge una presunta risposta dei messinesi non altrimenti nota. L’epistola è poi copiata singolarmente: (c) in raccolte epistolari che vanno sotto il nome di Pier della Vigna (cf. Schaller 2002, 34, 42, 95, 97, 108, 233, 271, 297, 344, 346, ai ni 18, 26, 59, 60, 70, 155, 168, 182, 207, 208); (d) nel codice Fitalia (Palermo, Società Siciliana di Storia Patria, I B 25, c. 106v, dove però, a causa di una lacuna materiale, il testo è mutilo),5 una raccolta di documenti attinenti alla storia siciliana assemblata negli anni Trenta del sec. XIV, probabilmente «finalizzata, come altre del genere, all’apprendimento, attraverso esempi celebri, dell’ars dictaminis» (Colletta 2011a, 63, con discussione di un’ipotesi alternativa), che con la Cronica Sicilie condivide dodici documenti.6 Per quanto qui interessa, ho confrontato il testo dell’epistola inserito nella Cronica Sicilie con un testimone dell’epistolario di Pier della Vigna (Durham, Cathedral Library, C.IV.24, cc. 307v–308v: cf. Schaller 2002, 96–97 n. 60) trovandovi solo le differenze che ci si attende dai processi di copia, quindi senza rinvenire alcuna manomissione tale da far ipotizzare forme redazionali diverse. Per l’edizione del volgarizzamento mi sono quindi basata sul confronto con il testo compreso nella Cronaca, considerando solo ove necessario le varianti della tradizione e del codice di Durham.
3 La tradizione e l’edizione del volgare La lettera volgarizzata è tràdita da Ch2, un collettore di volgarizzamenti e trattatelli morali copiato nel 1389 (descritto in Cella/Mosti 2013, 139–140), e dall’affine C, della prima metà del sec. XV (descritto in Menichetti 2015).7 Se in entrambi i testimoni la lettera è aggregata al citato corpus epistolare di materia federiciana (su cui cf. Lorenzi 2017), non mi è tuttavia chiara la logica ‒ se c’è ‒ con cui è ordinata in Ch2: qui è infatti isolata dal resto delle epistole relative a Federico II e ai suoi discen-
5 Sul codice Fitalia cf. Giannone (1914); la descrizione in Schaller (2002, 225–230 n. 151). 6 Cf. Colletta (2011a, 64–67; 2011b, 102–115); per le differenze tra il testo dell’epistola nella Cronica Sicilie e nel codice Fitalia cf. Colletta (2013–2014, 117). 7 Bolton Holloway (2015, 429–430) stampa diplomaticamente, e con vari errori, il testo della lettera secondo Ch2.
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denti (per interposizione degli Ammaestramenti matrimoniali, editi in Cella/Mosti 2013) e copiata in coda a una micro-sequenza tematicamente diversa, formata da una lunga lettera di argomento morale indirizzata dal maestro Mino da Colle agli amici e da una minacciosa lettera del vescovo di Volterra Ranieri ai cittadini di San Gimignano concernente una piccola vertenza locale (di entrambe è ignoto il latino da cui dipendono). Quanto ai rapporti tra i manoscritti, non ho reperito errori comuni imputabili alla tradizione, non tanto per la brevità quanto per la natura stessa del testo, per il quale lezioni poco plausibili rispetto al latino (sia dell’edizione sia della varia lectio) ma comunque difendibili in volgare possono dipendere dal volgarizzatore. Così mi pare che sia nel caso dei due luoghi sospettabili di guasto (Tav. 1): Tav. 1: Principali divergenze di Ch2, C dalla Cronica Sicilie. Ch2
C
Cronica Sicilie
13 Cierto grande sofferenza l’à facto, ma ss’è lla sofferenza, ch’è addornamento di tucte le virtudi, p(er)ché è tornata a (n)noi a danno?
Certo grande sofferenzia l’à facto, ma ss’è la sofferenzia, che è adornamento di tucte le virtudi, p(er)ché è tornata a nnoi danno?
Certe paciencia ingens fecit: si igitur paciencia est virtutum omnium condimentum, cur nobis ... attulit detrimentum?
27 nemico serpente
nimicho s(er)pente
antiquo serpente
Il primo caso (13), ‘(chi ci ha accecati e indeboliti al punto tale da farci soggiogare?) certo l’ha fatto la (nostra) grande capacità di sopportazione, ma se (ad averlo fatto) è la capacità di sopportazione ‒ che è coronamento di tutte le virtù ‒, perché ci si è ritorta contro?’, mi pare più probabilmente dovuto a una errorea segmentazione del latino da parte del volgarizzatore («si igitur paciencia est»), con la conseguente resa di «virtutum omnium condimentum» con una relativa, piuttosto che a un’intrusione di che a opera del copista in presenza di una traduzione corretta. Il secondo (27) può facilmente dipendere da un errore del testo latino di base ‒ errore favorito dal frequente valore sinonimico di antiquus serpens e inimicus (cf. per tutti Agostino, Enarrationes in Psalmos, ps. xxx, en. 2, sermo 1 §14, in Dekkers/Fraipont 1956, 201: «Alium habemus inimicum, diabolum, serpentem antiquum»), per cui una glossa può essere stata intesa come sostituzione ‒, per quanto non attestato negli apparati a mia disposizione. Stante la recenziorità di C, la sua indipendenza da Ch2 è certificata dall’assenza del saut du même au même che in Ch2 è dovuto al ricorrere della parola tempo (27); peraltro, anche C mostra una caduta per omeoteleuto (trovato ‒ provato 12), sanabile con Ch2 (Tav. 2):
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Roberta Cella
Tav. 2: Indipendenza di Ch2 e C. Ch2
C
Cronica Sicilie
12 ’l pastore il quale noi credavamo che ffosse quasi agniello mansueto aviamo trovato veracemente lupo rapace, et avéllo provato ferocissimo leone!
il pastore il quale noi creda- quem pastorem credimus, vamo che fusse quasi agniello est verissime lupus rapax, et mansueto avevemo trovato quem agnum putavimus manferocissimo leone! suetum, leonem ferocissimum experimur
27 a cciò che voi ricieviate nel tenpo ch’è a venire la dolorosa miseria di servaggio
a cciò che voi riceviate nel tempo presente la gratia della giustitia et fuggiate nel tempo che à a venire la dolorosa miseria del s(er)vaggio
ut accipiatis graciam et iusticiam in praesenti, et calamitatis fugiatis miseracionem in futuro
Infine, ciascun testimone reca singolarmente alcuni errori. Ch2: Parlermo (2), il tuo vile contenenzia (4), sost|ere (6, per sostenere), delle eternale (11), lasso noi (13), Levati le reti (19, per Lèvati lèvati), dono (26, per torre); C: il loto (2), impigherta (3), di dragone (8), male aventuroso oppinione (11), tucto le chose (11), avevemo (12), conoscietolo (18), morti (20), moiano ‘moriamo’ (22), ordinati (24), omissione di il (26). Quanto a R, che ho visto nelle riproduzioni messe generosamente a mia disposizione da Giovanni Spalloni, pur nella loro brevità i sette estratti (1, 10 Questo è l’angelo ... langori, 13 O lasso ... animi, 24 Appo ... tempestade, 21, 23 Andando ... paterini, 26 E ancora ... nimici) condividono il loro errore, difficilmente poligenetico, con C (l’omissione del pronome di ripresa il 26). Pur se ininfluente a fini stemmatici, è poi da notare che R e C coincidono nelle varianti suo tosco 21, E ancora 26 (vs loro tosco, Ancora Ch2 ) e recano entrambi le lezioni corrette lasso a noi 13, torre 26 (vs lasso noi, dono Ch2 ), e che non c’è particolarità fonomorfologica di C che R non condivida (Questo è l’angelo 10, pescina 10, vennono 23). Assodata la congiunzione tra C e R, la brevità del testimoniale di R non permette di stabilire se si tratti di un collaterale o di un descritto.
3.1 L’edizione del volgarizzamento Offro il testo del volgarizzamento secondo Ch2, cc. 189va-191rb, correggendolo e integrandolo ove necessario con C, cc. 51r–52v. Per la costituzione del testo è ininfluente la testimonianza indiretta di R, c. 106va-b. Distinguo u e v, regolarizzo le maiuscole e le minuscole, introduco l’interpunzione moderna. Sciolgo tacitamente le abbreviazioni e i compendi (le cifre arabe
L’epistola dei palermitani ai messinesi (13 aprile 1282) e il suo volgarizzamento
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che seguono le forme indicano i paragrafi del testo; la barra verticale indica il cambio di riga): (1) p con asta tagliata per per: disp(er)ate 15, op(er)a 22, op(er)e 15, p(er) 1 4 5 17 (2 occ.) 21 (2 occ.) 24, p(er)ché 5 13, p(er)iscano 22, p(er)ò 22, riconp(er)am(en)to 8; l’abbreviazione manca solo in opere 14, speranza 11; (2) s alta tagliata per ser: s(er)va 5, s(er)vaggio 22, ss(er)vono 13; (3) il titolo per la nasale: à(n)no 13 26, apparime(n)to 9, consu(m)mare 17, fu(m)mo ‘fumo’ 15, i(n) 8 20 22 27, i(n)n onbra 20, i(n)n alto 20, inga(n)nati 9, che (n)ne’ 22, a (n)noi 13 26, no(n)n era 24, om(n)ipotente 25, rexu(r)rexio(n)e 23, soste(n)ne 6, tira(n)nicha 24; e per la sequenza en: riconp(er)am(en)to 8; (4) il titolo increspato per la vibrante: e(r)rore 9, isma(r)rite 25, rexu(r)rexio(n)e 23; (5) la nota tironiana per la congiunzione copulativa: (e) 9, (e) 15; (6) il segno cristologico: (crist)iana 5, (Crist)o 23. Ammoderno la grafia laddove non la ritenga rappresentativa di fenomeni fonetici, sia quando dovuta all’assunzione del modello grafico latino (casi 1–5), sia quando dovuta a differenti stadi di assestamento del sistema grafico volgare (casi 6–9): (1) rendo ct con tt; in Ch2 ct è costante per l’occlusiva dentale sorda lunga: acciectabile 18, actendi 22, allocta 8, aspecti 5, bactaglia 22 17, cactolici 24, cictà 2, cictade 19, cictadini 2 (2 occ.), chonbactendo 27, costrecti 17, decto 20, dilectò 11, dirictura 26, ecternale 11, electa 6, facta 5 (2 occ.) 20, facto 13, lactano 16, lectera 1, nocte 19, soctoposti 2, tucte 11 13, tucti 10, tucto 6 17; (2) rendo la «sigla» (così Barbi, insuperato conoscitore della lingua e degli usi grafici antichi) et con e; Ch2 osserva la scrizione separata dopo et, sia davanti a vocale (et alti 2, et ora 8, et ogni 10, et avéllo 12, et eccho 18, et anbula 20, et in(n) 20) sia davanti a consonante (et nel 3, et chessono 5, et p(er)ché 5, et vignia 6, et nostra 9, et diciavamo 10, et tolto 13, et reggiare 14, et consummi 14, et possiamo 16, et caccia 19, et con 26): di fatto, l’adozione di et comporta la separazione grafica e la mancata notazione del raddoppiamento; dove il cambio di riga basta a separare, si hanno e (e | avilati 2, e | nemici 5, e | speranza 11) e un caso di notazione tironiana ((e) | vano 9; l’altro è aggiunto in interlinea 15). Per contro, la grafia e comporta tendenzialmente la scrizione continua, davanti a consonante sia con notazione del raddoppiamento (essè 3 5 8, ella 7 9 11 13 18 20, elle 16 [2 occ.], ell’ 17) sia senza (evestiti 3, epessimo 6, emultiplichare 14, ericieve 25), e davanti a vocale e a consonante lunga (eanime 25, esciogliti 4), ma con alcuni controesempi (e della 3, e del 3, e vilemente 5, e crudelmente 11, e chom’ 15, e considera 20 22); (3) rendo x con s o ss: ecclexia 9 da intendere con certezza ecclesia, e rexurrexione 23, da intendere più probabilmente resurressione che ressurressione
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(forma quest’ultima nettamente minoritaria, anche se a Firenze la si osserva a partire dagli anni Trenta del sec. XIV, con sopravvivenze nel fiorentino argenteo fino al pieno Cinquecento); rendo ti/ci + voc. con zi + voc.: etiandio 5, giustitia 27, gratia 27, vicitatione 18; giudicio 11; elimino h etimologica: humana 17; rendo ch + a o u con c; la situazione in Ch2 non è uniforme: è di uso generalizzato ch + u (chui 10 16, schure 11, schurità 19; ma davanti all’approssimante labiovelare cuore 10 25), quasi paritario ch + a (anticha 17, appicchati 17, charciere 23, escha 8, multiplichare 14, tira(n)nicha 24, pari al 42,9% delle occorrenze di velare sorda + a, contro caccia 19, cactolici 24, caduta 8, carissimi 17, Carlo 1, catene 3 7, periscano 22, pari al 57,1%), nettamente minoritario ch + o (anchora 12, avocholato 13, choloro 15, sì cchome 18 25, chom’ 15, chon 23, chol 27, chonbactendo 27, chose 6, eccho 10 12 18 [2 occ.], fuocho 11 25, naschondere 15, pari al 28,3% delle occorrenze di velare sorda + o, contro ancora 17 26, collo 4, coloro 26, sì ccome 5 9, come 9 10, comune 1, con 15 17 20 23 26, confortiamo 17, conoscie 18, conoscietelo 18, considera 20 22, consu(m)mare 17, consummi 14, contastare 21, contenenzia 4, continuamente 22, contra 1, contriti 25, contrizioni 25, conturba 6, convertite 16, corpora 16, cosa 15 [2 occ.] 17 20 23 26, cose 7 11 14, costrecti 17, costui 9, cotanto 15, riconp(er)am(en)to 8, secondo 18, tosco 21, pari al 71,7%), a causa della maggior stabilità grafica della congiunzione e del prefisso con; rendo gh + a o u con g; in Ch2 il digramma è nettamente maggioritario (distruggha 26, leghami 5, paghate 23 [2 occ.]; dragho 6, draghone 8, giogho 2 13, langhori 10, luogho 9 24; trasfighura 23, contro inga(n)nati 9, gonfalone 2, e, davanti all’approssimante, igualmente 11, guarderà 10); rendo con m la nasale davanti a consonante labiale, che in Ch2 è sempre rappresentata da n: anbula 20, chonbactendo 27, inpigrita 3, onbra 20, riconp(er)am(en)to 8, rinproverano 5, tenpo 6 15 18 (2 occ.) 27, tenpestade 24; elimino la i iperdiacritica nel nesso di consonante palatale + e: ci (acciectabile 18, carciere 23, cierto 13, diciendo 23, dolciezza 27, faccie 26, falcie ‘fauce’ 8, fecie 8, ricieve 25, ricievete 27, ricieviate 17 27, veraciemente 7; ma fece 10, fallace 11, veracemente 12, rapace 12), gi (angielo 10 [3 occ.], distruggie 11, distruggiendo 17, dugiento 7, gienti 5 13 22), gni (agniello 12, signiore 20 22, vignia 6), sci (conoscie 18, conoscietelo 18, pasciere 14).
Intervengo eliminando anche la notazione del raddoppiamento fonosintattico, che è sì fenomeno fonetico, ma coincide, almeno in questo testo, con le condizioni standard moderne; è registrato dal copista di Ch2 nei sintagmi saldati chectu, essè 3, chectussè, chessono, sìccome, essè 5, acte chessè 6, ella, chessono 7, essè 8,
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ella, chessìccome, annoi 9, acciò, checci 10, ella, appiè 11, cheffosse 12, ella, chess(er)vono, massèlla, a(n)noi 13, ciòssia 15, elle nostre, elle chui 16, ciòssia, elluova 17, sìcchome, ella 18, ciòssia, tussè, ella 20, fassì 21, che(n)ne’, chelle 22, ciòssia 23, chessi 24, sìcchome 25, chessia a(n)noi 26, acciò 27; e al cambio di riga: che|lle 15.8 La prima fascia di apparato dà conto delle particolarità della lezione di Ch2, indica le lezioni di C accolte a testo in presenza di errori di Ch2 e le varianti significative (non grafiche né solo fonetiche) di C e R; quando necessario, segnalo con barra verticale il cambio di riga del manoscritto. Gli errori singolari sono elencati al §3. La seconda fascia di apparato riporta in corsivo il testo della Cronica Sicilie, 71–76 cap. 38,2–8, e, solo quando più prossime alla lezione del volgarizzamento, le varianti dell’edizione Amari (1851, 562–564, siglata Am) e del ms. Durham, Cathedral Library, C.IV.24, cc. 307v–308v (siglato D); di séguito dichiara le fonti dell’epistola, specie i passi biblici pertinenti (riferiti per esteso solo quando non commentati al §4, preceduti da cf. quando si tratti di pure menzioni di personaggi e vicende), che traggo da Gryson/Weber (2007), impiegando le sigle usuali9 ma introducendo punteggiatura e maiuscole. In coda, se del caso, glosso o commento la lezione del volgare. *
8 Non intervengo invece sulle grafie portatrici di informazioni fonetiche peculiari della lingua antica non entrate nello standard: inn onbra 20, inn alto 20, nonn era 24 (cf. Formentin 1997), lo dDio 5 (imputabile a pronuncia enfatica). 9 Apc = Apocalissi; Cor = Lettere di Paolo ai Corinzi; Dn = Daniele; Dt = Deuteronomio; Es = Esodo; Gn = Genesi; Hbr = Lettera agli ebrei; Idc = Giudici; Idt = Giuditta; Ier = Geremia; Io = Vangelo di Giovanni; Is = Isaia; Lc = Vangelo di Luca; Mcc = Maccabei; Mc = Vangelo di Marco; Mt = Vangelo di Matteo; Par = Paralipomenon; Ps = Salmi (citati nella versione dei Settanta, fornendo quando necessario la corrispondenza con la versione ebraica); Pt = Epistole di Pietro; Rm = Lettera di Paolo ai Romani; So = Sofonia; Tb = Tobia; Za = Zaccaria.
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[1] Questa lettera mandò il comune di Palermo a quello di Messina per ismuo-
verli a rubellarsi contra lo re Carlo. [2] A’ nobili e alti cittadini della città di Messina, sottoposti al prencipe Faraone e aviliati in servaggio più che paglia in loto, i cittadini di Palermo salute, disiderando voi brievemente uscire del giogo di servaggio prendendo il gonfalone di libertade. [3] Lièvati suso figliuola di Sion, e vestiti della fortezza tua poi che tu sè spogliata della gloria de’ tuoi vestimenti e della tua allegrezza e sè impigrita nella tua miseria e nel die dell’amaritudine e del tuo disinore! [4] Non ti volere oggi mai più lamentare per ciò che ’l tuo lamento manifesta la tua vile contenenzia, ma prendi l’armi tue e sciogliti le catene del collo tuo! [5] Già vedi che tu sè fatta in ’brobbio de’ tuoi vicini, i quali abitano intorno di te e che sono barbari e nemici della fede cristiana; già sono aviliti i tuoi piedi sì come i legami di Gioseppo, e sè fatta come serva a’ crudeli figliuoli d’Ismael e vilemente venduta; già ti rimproverano le genti: ov’è lo dDio tuo e perché aspetti più poi che per sofferire diventi vile, non solamente a’ tuoi vicini ma eziandio
2 a’] indicata dalla letterina guida a sinistra dello spazio che avrebbe dovuto ospitare l’iniziale miniata; Faraone] Ch2 di Faraone, C Pharaone; Palermo] C; di servaggio] C del servaggio. 4 la tua vile] C. 5 tu] C om.; aviliti] C avilati; i legami] C il ligame. 2 Nobilibus civibus urbis egregie Messanensis sub pharaone principe plusquam in luto et latere ancillatis, Panormenses salutem, et captivitatis iugum abicere et bravium accipere libertatis. captivitatis iugum] D servitutis iugum. sub ... ancillatis] Idt 5,10 (cf. §4). bravium accipere] i Cor 9,24 (cf. §4). paglia in loto] scioglie la difficoltà del riferimento biblico (i mattoni erano impastati di fango e paglia); l’associazione tra lutum (e later) e palea è ben diffusa: cf. per tutti «legimus in exodo, mortuo pharaone rege aegypti, ingemuisse filios israel ab operibus luti, palearum ac lateris» (Girolamo, Commentarii in Ezechielem, lib. 3, cap. 11, riga 966, in: Glorie 1964). 3 Consurge, consurge filia Sion, induere fortitudinem tuam, que iucunditatis exuta vestibus et vestimentis tue glorie denudata, in die calamitatis et miserie, in die amaritudinis et ignominie contabescit. induere] D et induere. Consurge] Is 51,9, Is 52,1, Es 8,20–21, Es 9,13 (cf. §4). iucunditatis ... vestimentis] Idt 10,2–3 (cf. §4). in die ... miserie] So 1,15 (cf. §4). 4 Noli ultra lamenta promere, que tui contemptum pariunt, sed tolle arma tua, arcum et faretram, et solve vincula colli tui. tolle ... tua] Gn 27,3 (cf. §4). solve ... tui] Is 52,2 (cf. §4). contenenzia] ‘aspetto’, cf. TLIO s.v. 5 Iam enim facta es in obprobrium vicinis tuis, derisum et contemptum hiis, qui in circuitu tuo sunt, barbaris et Christi fidelium inimicis. Iam humiliati sunt velut Ioseph in compedibus pedes tui, et tamquam serva hiis pravis Ysmaeliticis viliter venumdata. Iam gentes tibi improperant, «ubi est Deus tuus?». Cur ultra expectas, et per patienciam vilis te effeceris non solum hostibus, sed eciam Creatori?. serva hiis] D serva es. in obprobrium ... tuis] Ps 43,14 (= 44,14), i Mcc 10,70 (cf. §4). circuito tuo] Ier 48,39 «eritque Moab in derisum et in exemplum omnibus in circuitu suo», Dt 6,14 «non ibitis post deos alienos cunctarum gentium quae in circuitu vestro sunt». velut Ioseph] cf. Gn 39,20. pravis Ysmaeliticis] cf. Ps 82,6–7. Ubi est] Ps 41,4, Ps 41,11 (cf. §4).
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al creatore? [6] Già non sostenne più dure cose il popolo d’Israel nel tempo di Faraone, che questo grande e pessimo drago che tutto il mondo conturba fa sostenere a te, che sè orto del beato Piero e vigna eletta della santa romana Chiesa. [7] Questi è veracemente Satanasso, il quale è sciolto delle sue catene dopo ’l mille dugento anni, il quale divora la vita delle cose presenti e la gloria di quelle che sono a venire. [8] Che prode ti fece addunque il ricomperamento del creatore, se allotta fosti dilibera della falce del diavolo e ora sè divenuta esca del grande dragone e sè caduta in mano del popolo d’Itiopia? [9] O miseri noi, come di quanto e vano errore fumo ingannati, noi e la santa madre ecclesia! che sì come Lucifero nel suo apparimento trasfigura le sue tenebre in luogo di splendore, così si mostrò a noi l’avenimento di costui che fosse nostro lume e nostra gloria, [10] e diciavamo infra noi «ecco il re nostro mansueto, il quale partirà da noi ogni tristezza e ogni molesta; questi è l’an-
6 sostenere] C; romana] -a in interlinea, a fine riga prima del cambio di carta; chiesa] C ecclesia. 7 sono a venire] C ànno a venire. 8 del grande dragone] C di dragone. 9 come ... vano] C come e quanto di vano (in prima scrittura: misero); che fosse] C che egli fusse. 10 questi è l’angelo la] C R questo è l’angelo la. 6 Quid durius quidque molestius plebs Ysraelitica substinuit temporibus pharaonis, quam quod iste draco magnus fecit, qui seducit universum orbem, et se in hortum Beati Petri et electam ecclesie vineam intulit hiis diebus?. draco ... orbem] Apc 12,9 (cf. §4). 7 Hic est enim Sathanas, solutus a vinculis post mille et ducentos annos, qui conglutiens omnia, vitam aufert presencium et gloriam futurorum. Sathanas ... annos] Apc 20,2 (cf. §4). 8 Quid igitur tibi profuit redempcio piissimi Salvatoris, si tunc eruta de fauce diaboli, nunc in escam draconis magni et populi Ethiopis devenisti?. eruta] D exuta. draconis magni] Dn 14,22 «erat draco magnus in loco illo et colebant eum Babylonii». populi Ethiopis] cf. ii Par 12,3. falce] forma ipercorretta per fauce. 9 Ha miseri, quam gravi fuimus errore decepti, nos et ecclesia mater nostra! Sicut enim Lucifer fugans tenebras in suo ortu clarius apparebat et nitidus, sic opinabamur istius adventum in nostrum lumen prodire, et gloriam celitus inspiratam, gravi errore] Am, D vano errore. clarius ... nitidus] Am, D clarus apparet et rutilans. Lucifer] cf. «Quomodo cecidisti de caelo, Lucifer, qui mane oriebaris? corruisti in terram, qui vulnerabas gentes?» Is 14,12. 10 dicentes intra nos: «Noli timere, filia Sion, ecce rex tuus tibi venit mansuetus, qui omnem a te tribulacionem auferet, omnemque tibi molestiam extirpabit. Hic est angelus, cuius ingressum piscina desiderat cordis tui, ut sanet omnes languores tuos, qui te oleo leticie pre participibus tuis unget. Hic est cherubin, qui tibi portas aperiet Paradisi, et Raphael, qui te tamquam unicum Tobie filium a mortis periculo preservabit». a mortis periculo] Am a mortis laqueo, D a mortis laqueis. Noli ... mansuetus] Io 12,15 «noli timere, filia Sion, / ecce rex tuus venit», Za 9,9 «exulta satis filia Sion / iubila filia Hierusalem / ecce rex tuus veniet tibi / iustus et salvator ipse / pauper», Is 62,11 «dicite filiae Sion: ecce salvator tuus venit», Mt 21,5 «dicite filiae Sion: / ecce rex tuus venit tibi mansuetus». angelus ... piscina] cf. Io 5,1–15. oleo ... unget] Ps 44,8 «dilexisti iustitiam et odisti iniquitatem / propterea unxit te Deus, Deus tuus, oleo laetitiae prae consortibus tuis», Hbr 1,9 «Dilexisti iustitiam, et odisti iniquitatem: / propterea unxit te Deus, Deus tuus, oleo exultationis prae participibus tuis». cherubin ... Paradisi] cf. Gn 3,24. Raphael ... preservabit] cf. Tb 3,25.
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gelo la cui entrata disiderava la piscina del nostro cuore, a ciò che sanasse tutti i nostri langori; questi è l’angelo cherubino, ch’aprirrà le porti del paradiso; questi è l’angelo Raffaello, che ci guarderà de’ lacci della morte come fece il solo figliuolo di Tobbia». [11] O mala aventurosa oppinione e speranza fallace! che questi è veramente il crudelissimo Nerone, il quale li appostoli di Dio pessimamente uccidea e crudelmente si dilettò nella morte della sua madre; questi è lo fuoco dell’etternale giudizio, il quale igualmente distrugge tutte le cose, e la scure aposta a piè dell’albore. [12] Ecco ancora crudele dolore, che ’l pastore il quale noi credavamo che fosse quasi agnello mansueto aviamo trovato veracemente lupo rapace, e avéllo provato ferocissimo leone! [13] Oi lasso a noi, chi à così avocolato il nostro savere e tolto il valore e la forza de’ nostri animi, che quelle genti che servono solamente all’ebbrezza del vino ci ànno posto così grave giogo di servaggio? Certo grande sofferenza l’à fatto, ma s’è la sofferenza, ch’è addornamento di tutte le virtudi, perché è tornata a noi a danno? [14] Sono queste opere di prencipe o di pastore, che quelle cose ch’elli dee pascere e reggiare e multiplicare divori e consummi?
11 veramente] C veracimente; e la scure] C et è la schure. 12 ancora] C dunque; veracemente ... provato] C om. 13 lasso a noi] C R; a danno] C danno. 11 O infelix opinio et spes fallax! Hic est revera Nero sevissimus, qui Dei apostolos trucidavit, et crudeliter in matris necem exarsit. Hic est enim ignis eterni iudicii equaliter omnia dissipans, et velut securis posita ad radicem. ignis ... iudicii] Hbr 10,27 «terribilis autem quaedam expectatio iudicii / et ignis aemulatio quae consumptura est adversarios». securis ... radicem] Mt 3,10 «iam enim securis ad radicem arborum posita est / omnis ergo arbor quae non facit fructum bonum exciditur et in ignem mittitur» (cf. Lc 3,9). 12 Proh dolor! quem pastorem credimus, est verissime lupus rapax, et quem agnum putavimus mansuetum, leonem ferocissimum experimur. quem pastorem ... rapax] Mt 7,15 «Adtendite a falsis prophetis qui veniunt ad vos in vestimentis ovium intrinsecus autem sunt lupi rapaces». avéllo] ‘lo abbiamo’ < avém(o)lo. 13 Heu! quid sic nostram fascinavit prudenciam, et vires nostri animi enervavit, ut gentes, que ebrietati deserviunt, iugum nobis imponerent servitutis? Certe paciencia ingens fecit: si igitur paciencia est virtutum omnium condimentum, cur nobis bonorum omnium attulit detrimentum? paciencia ... condimentum] «Patientia est virtutum omnium condimentum» (Bene da Firenze 1983, 34, libro i, cap. 25 § 15). lasso a noi] ‘disgrazia per noi’, sul modello del fr. las à; avocolato] ‘accecato’, cf. TLIO s.v. avocolare. 14 Suntne ista principis, ut quos deberet regere, pascere et fovere, devastet, dissipet et evellat? principis] Am principis et pastoris, D principis ac Pastoris.
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[15] Ma d’una cosa ne maravigliamo maggiormente, ciò è della nostra donna
e madre Chiesa, che pare avere infinto cotanto tempo la malizia di questo crudele tiranno, e com’ella à potuto nascondere il fummo di cotanto ardore, con ciò sia cosa che le sue disperate opere siano manifeste infino a coloro ch’abitano nella fine della terra, [16] e le nostre corpora siano già convertite in polvere, e possiamo dire beate quelle femine che non portarono figliuoli e le cui mamelle non lattano. [17] Ancora, con ciò sia cosa che più per grazia di Dio che per umana potenzia siamo costretti d’intendere ai benefici dell’antica libertade distruggendo i serpenti ch’erano appiccati alle nostre poppe e l’uova loro consummare in tutto, confortiamo voi, carissimi fratelli, che non riceviate in vano la grazia di Dio! [18] Ecco il tempo accettabile, e ecco il die della nostra salute! Conoscetelo, sì come conosce il nibbio e la rondine il tempo della loro vicitazione secondo che Idio testimonia. [19] Lèvati lèvati dunque, nobile cittade, e caccia via la scurità della
15 e madre] Ch2 (e) aggiunto in interlinea. 16 siano già] C sono già. 17 Ancora] C Dunque; costretti d’intendere] C costrecti a contendere; ch’erano] C che n’erano. 19 Lèvati lèvati] C. 15 Vehementi tamen ammiracione miramur nostram dominam et magistram Apostolicam Sedem, feritatem et nequiciam huius principis sub silentio transeuntem: quomodo tanti ardoris fumus eam potuit latere in vicinia, cui de ultimis terre finibus facta singula patefiunt?. Sedem] Am, D Ecclesiam. de ... finibus] Is 24,16 «a finibus terrae laudes audivimus, gloriam iusti / et dixi: [...] / praevaricantes praevaricati sunt / et praevaricatione transgressorum praevaricati sunt», Rm 10,18 «quidem in omnem terram exiit sonus eorum et in fines orbis terrae verba eorum». avere infinto] ‘avere nascosto’. 16 Sic autem iam humiliatus est in pulvere venter noster, quod dicere possumus et debemus: «Beate steriles quae non pariunt, et ubera que non lactant», et in laudem prorumpere Michaelis, quia non restat aliud dicere nisi: «Deus in adiutorium meum intende». et in ... intende] omesso nel volgarizzamento. Beate ... lactant] Lc 23,29 «beatae steriles et ventres qui non genuerunt / et ubera quae non lactaverunt». in ... Michaelis] Dn 10,13 «ecce Michahel unus de principibus primis venit in adiutorium meum». Deus... intende] Ps 37,23 «intende in adiutorium meum, Domine salutis meae», Ps 69,2 «Deus, in adiutorium meum intende». 17 Cum igitur, Divina pocius quam humana inspiracione compulsi, in libertatis antique beneficium intendamus, serpentibus omnibus, que ad nostra pendebant ubera, penitus amputatis, et aspidum ovis oppressis, ortamur vos, fratres karissimi, ne in vanum graciam Dei recipere vos contingat. aspidum ... oppressis] Is 59,4–5 (cf. §4). intendere] ‘aspirare’. 18 Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis nostrae! Nam milvus et irundo visitacionis sue tempus, testante Domino, cognoverunt. milvus ... cognoverunt] Ier 8,7 «milvus in caelo cognovit tempus suum, / turtur et hirundo et ciconia custodierunt tempus adventus sui: / populus autem meus non cognovit iudicium Domini». visitacionis ... tempus] Ier 8,12 «in tempore visitationis suae». 19 Surge itaque, surge, illuminare civitas generosa, et noctis caliginem procul pelle! pelle] D expelle. Surge ... pelle] Idc 9,32–33 «surge itaque nocte cum populo qui tecum est et latita in agro / et primo mane oriente sole inrue super civitatem», Is 60,1 «surge, inluminare, quia venit lumen tuum et gloria Domini super te orta est».
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notte! [20] Già t’è detto dal Signore: «Tolli il grabato tuo e ambula, con ciò sia cosa che tu sè fatta sana», che insino a qui ài tormentato in tenebre e inn ombra di morte: lieva li occhi tuoi inn alto e considera il novello cielo e la gloria della libertade! [21] non intendere al falso errore né alle false lusinghe de’ malvagi, che intendono di contastare a’ tuoi intendimenti per pulite parole; fa sì che il loro tosco non pigli mai forza, il quale è ora amortato per divina grazia. [22] Attendi e considera la malizia del tiranno, ciò è quello crudele signore, il quale opera maggiore malizia ne’ fedeli cristiani che ne’ rubelli saracini: però è assai meglio che noi di continuamente moriamo in battaglia che le nostre genti periscano in così crudele servaggio. [23] O in quanta miseria eravamo noi, con ciò sia cosa che, ’l venerdì della passione di Cristo e ’l die della sua santa resurressione andando noi vicitando le chiese, i ministri della fellonia vennero ingiuriosamente menando noi a carcere con grandi grida, dicendo: «Pagate, pagate, paterini!». [24] Né nonn era niuno die, quanto che si fosse di gran festa, né ferie ordinate per li cattolici prencipi,
20 tu sè] C tu sii. 21 loro] C R suo; tosco non] Ch2 ton in prima scrittura, con sco on aggiunti in interlinea. 22 di continuamente] C continovamente. 24 Né] C Et; quanto che si fosse] C quanto egli fusse. 20 Iam a Deo tibi dicitur: «Tolle grabatum tuum et ambula, cum sana facta sis». Que sedebas in tenebris, et in umbra mortis viliter tabescebas, leva in circuitu oculos tuos, et contemplare celum novum et gloriam libertatis. Iam ... dicitur] D Iam tibi a Domino dicitur. Tolle ... sis] Mc 2,9–11, Io 5,8–9 (cf. §4). Que ... tenebris] Tb 5,12 (cf. §4). Que ... mortis] Ps 106,10, Lc 1,79, Mt 4,16, Is 42,7 (cf. §4). umbra mortis] Ps 22,4, Iob 3,5 (cf. §4). leva... tuos] Is 49,18 = 60.4. celum novum] Apc 21,1–2 (cf. §4). ài tormentato] ‘hai sofferto’: costruzione inergativa, di cui non trovo altri esempi. 21 Non te decipiat falsus error, nec simulata suasio tirannorum, que suis blandiciis tuis intendit intencionibus obviare, dum virus eorum vires resumere valeat, quod nunc aquis divine gracie est sopitum. suis blandiciis] Am, D falsis blanditiis. intendere] ‘badare, prestare attenzione’. 22 Set attende et considera, quod minus tirannica pravitas exercuit in subiectis christicolis, quam in rebellibus Sarracenis. Melius est enim nos mori viriliter in conflictu, quam gentis nostre mala conspicere et sub servitute tirannica viliter deperire. quam ... Sarracenis] allusione alla crociata contro l’emiro di Tunisi, che Carlo intraprese nell’estate 1270 al fianco del fratello Luigi IX e concluse, senza combattere, con un accordo economico per lui molto vantaggioso (cf. Borghese 2008, 55–71). Melius ... conspicere] i Macc 3,58–60 (cf. §4). 23 Heu miseri, dum in laude divina, diebus sacri ieiunii Passionis et Resurrecionis Dominice, petebamus ecclesiam, protinus ministri scelerum venientes, nos inde conviciose trahebant et ducebant ad carcerem cum clamore dicentes: «Solvite, solvite Paterini». venientes ... trahebant ... ducebant ... dicentes] D veniebant ... trahentes ... ducentes ... dicentes. 24 Nulla dies quantumcumque celebris poterat propter hec divinis officiis celebrari, nec ferie, que fuerant ad laudem Dei per catholicos principes introducte, locum habebant apud tirannicam potestatem. potestatem] D tempestatem.
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che reverenzia né luogo avessero appo la tirannica tempestade. [25] Noi eravamo donque sì come pecore ismarrite e anime sanza fede; noi allora chiamavamo in cielo ch’avesse mercé di noi Idio omnipotente, il quale sana i contriti di buono cuore e riceve le loro contrizioni. [26] Ancora, il richegiamo che sia a noi torre di fortezza alle facce de’ nostri nemici e con dirittura della sua potenzia distrugga coloro ch’ànno fidanza nella loro crudeltade. [27] Siate dunque forti nella battaglia combattendo col nemico serpente; ricevete la dolcezza della libertade in quisa di giovani fanciulli sanza frode, a ciò che voi riceviate nel tempo presente la grazia della giustizia e fuggiate nel tempo ch’è a venire la dolorosa miseria di servaggio. *
25 di buono cuore] C di chuore. 26 Ancora, il] C E anchora; torre] C R. 27 ricevete] C e ricevete; presente ... tempo] C, Ch2 om. di servaggio] in Ch2 seguito da Amen, con titolo esornativo su en, e due barrette di chiusura, C del servaggio. 25 Eramus enim sicut oves errantes et anime sine fide. Set nunc igitur clamemus in celum, et miserabitur nostri Deus omnipotens, qui sanat contritos corde et alligat contriciones eorum, sicut ... errantes] i Pt 2,25 «eratis enim sicut oves errantes / sed conversi estis nunc ad pastorem / et episcopum animarum vestrarum», Mt 9,36 «videns autem turbas, misertus est eis / quia erant vexati et iacentes sicut oves non habentes pastorem», Mc 6,34 «vidit multam turbam Iesus et misertus est super eos / quia erant sicut oves non habentes pastorem, / et coepit docere illos multa». qui ... eorum] Ps 146,2–3 «Dominus / [...] qui sanat contritos corde / et alligat contritiones illorum [altri mss. eorum, cf. l’apparato di Gryson/Weber (2007)]». 26 ut sit nobis turris fortitudinis a facie inimici, et gentes que in sua feritate confidunt potencie ipsius dextera comprimantur. turris ... inimici] Ps 60,4 «Quia factus es spes mea, / turris fortitudinis a facie inimici». gentes ... comprimantur] «Omnipotens sempiterne deus, [...] respice ad Romanum benignus imperium, ut gentes, quae in sua feritate confidunt, potentiae tuae dextera comprimantur» (Orationes quae dicendae sunt vi Feria Maiore in Hierusalem, in Lietzmann 1921, 48 §8). 27 Estote fortes in bello, et cum antiquo serpente pugnate, et quasi modo geniti, infantes racionabiles sine dolo, lac concupiscite libertatis, ut accipiatis graciam et iusticiam in praesenti, et calamitatis fugiatis miseracionem in futuro. Estote] Am, D Estote itaque. Estote ... bello] i Macc 3,58 (cf. §4). quasi ... concupiscite] i Pt 2,1–3 «Deponentes igitur omnem malitiam et omnem dolum et simulationes et invidias et omnes detractiones, / sicut modo geniti infantes, / rationale sine dolo lac concupiscite, / ut in eo crescatis in salutem, / si gustastis quoniam dulcis Dominus».
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4 Le citazioni vetero- e neotestamentarie Il quadro ideologico-argomentativo del testo è affidato ai temi della giusta rivolta contro il malgoverno angioino e del favore divino per la causa dei siciliani; entrambi i temi, che compaiono per la prima volta proprio nell’epistola dei palermitani ai messinesi, diverranno poi comuni alla pubblicistica di parte siciliana sul Vespro. I due motivi ‒ logicamente distinti ‒ sono saldati facendo ricorso alla fitta trama di citazioni dall’Antico e, in posizione subalterna, dal Nuovo Testamento che innerva l’epistola: Carlo d’Angiò è identificato con il faraone della cattività in Egitto (e, in subordine, con il drago biblico e con Satana, nonché con Nerone [11], carnefice degli apostoli) e i messinesi con il popolo ebraico in schiavitù, tanto in Egitto quanto a Babilonia. Ciò permette alla propaganda palermitana di depotenziare l’appoggio che il papa Martino IV forniva alla parte angioina, usando interdetto e scomunica contro le città ribelli: se i messinesi sono gli ebrei in cattività, il vero Dio sta dalla loro parte e li guiderà alla liberazione, rendendo del tutto vana l’azione politica del suo vicario in terra (che è solo incidentalmente menzionato come lupo con sembianza d’agnello [12]). Tale nucleo concettuale struttura tutta la lettera, mobilitando una molteplicità di echi scritturali (i più pertinenti dei quali sono indicati nella seconda fascia di apparato) e impiegando tecniche retorico-argomentative basate sulla transumptio e influenzate dal profetismo gioachimita che erano già ampiamente in uso nelle cancellerie duecentesche (cf. Grévin 2008, 461–473).10 Nello specifico, le citazioni bibliche di cui è intessuta l’epistola mi pare che si possano gerarchizzare, distinguendole in r i p r e s e s t r u t t u r a n t i , quando concorrono alla definizione del nucleo metaforico-figurale portatore del messaggio politico (Carlo è il faraone e i messinesi sono gli ebrei in cattività), e in r i p r e s e d i r i n f o r z o , quando concorrono alla creazione di uno sfondo scritturale, questa volta generico. Esemplifico analizzando il passo d’esordio (3–4), segnato in avvio e in chiusura dalle riprese ‒ qui e in séguito evidenziate dai miei corsivi ‒ dal Libro d’Isaia: Consurge, consurge filia Sion, induere fortitudinem tuam, que iucunditatis exuta vestibus et vestimentis tue glorie denudata, in die calamitatis et miserie, in die amaritudinis et ignominie contabescit (3).
10 Non sono in grado di valutare quanto abbia inciso l’interpretazione storica della profezia che, teorizzata e messa a punto da Nicolò di Lira qualche decennio più tardi, affondava le sue radici nell’esegesi biblica duecentesca e nell’ermeneutica di Gioacchino da Fiore (cf. de Lubac 1972, 1574–1586), ma ringrazio Edoardo Barbieri per avermi segnalato la questione.
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Consurge consurge, induere fortitudine tua, Sion, / induere vestimentis gloriae tuae, Hierusalem civitas sancti, / quia non adiciet ultra ut pertranseat per te incircumcisus et immundus (Is 52,1). Consurge consurge, induere fortitudinem brachium Domini; / consurge sicut in diebus antiquis in generationibus saeculorum; / numquid non tu percussisti superbum vulnerasti draconem? (Is 51,9). sed tolle arma tua, arcum et faretram, et solve vincula colli tui (4). excutere de pulvere, consurge, sede Hierusalem, / solve vincula colli tui, captiva filia Sion (Is 52,2).
Le citazioni da Isaia identificano: la città di Messina è la figlia di Sion, è la Gerusalemme ridotta in schiavitù; le parole d’esortazione a sollevarsi, a rivestirsi della propria forza, a sciogliersi dal giogo e a colpire nuovamente il drago-Carlo sono le parole del profeta. Il «consurge» iniziale echeggia anche quanto detto da Dio a Mosé nell’Esodo, e non solo identifica i messinesi con gli ebrei della cattività in Egitto ma, richiamando la memoria sintagmatica del testo biblico, proietta sugli oppressori francesi le piaghe minacciate ‒ e poi inflitte ‒ ai sudditi del faraone: dixit quoque Dominus ad Mosen: / «consurge diluculo et sta coram Pharaone». / Egreditur enim ad aquas, / et dices ad eum: «haec dicit Dominus: / Dimitte populum meum ut sacrificet mihi / quod si non dimiseris eum / ecce ego inmittam in te et in servos tuos / et in populum tuum et in domos tuas omne genus muscarum» (Es 8,20–21). dixit quoque Dominus ad Mosen: / «mane consurge et sta coram Pharao et dices ad eum: / Haec dicit Dominus Deus Hebraeorum: / Dimitte populum meum ut sacrificet mihi / quia in hac vice mittam omnes plagas meas super cor tuum» (Es 9,13–14).
Già dalla salutatio («Nobilibus civibus urbis egregie Messanensis sub pharaone principe plusquam in luto et latere ancillatis» 2) Carlo d’Angiò è il faraone e i messinesi sono, iperbolicamente, ancor più oppressi degli ebrei in Egitto («cumque gravaret eos rex Aegypti / atque in aedificationibus urbium suarum in luto et latere subiugasset eos, / clamaverunt ad Deum suum et percussit totam terram Aegypti plagis variis» Idt 5,10), e proprio come gli ebrei sono destinati a essere vendicati; nell’esordio della narratio (3) l’individuazione di Carlo con il faraone è rafforzata dall’associazione paradigmatica con i passi dell’Esodo e di Is 51,9. Quest’ultimo suggerisce anche la metafora tra il faraone e il drago, dando vita a una catena di identificazioni poi sviluppate esplicitamente: Quid durius quidque molestius plebs Ysraelitica substinuit temporibus pharaonis, quam quod iste draco magnus fecit, qui seducit universum orbem [...]? Hic est enim Sathanas, solutus a vinculis post mille et ducentos annos, qui conglutiens omnia, vitam aufert presencium et gloriam futurorum (6–7).
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L’equiparazione tra il faraone della cattività in Egitto e il «gran drago» è reso possibile da due passi di Ezechiele, «fili hominis, pone faciem tuam contra Pharaonem regem Aegypti / et prophetabis de eo et de Aegypto universa / loquere et dices ‹haec dicit Dominus Deus: / ecce ego ad te Pharao rex Aegypti draco magne›» (Ez 29,2–3) e «fili hominis, adsume lamentum super Pharao regem Aegypti et dices ad eum: / leoni gentium adsimilatus es et draconi» (Ez 32,2), non ripresi direttamente nell’epistola ma certo presenti alla memoria dell’estensore e dei lettori; ma il draco magnus (poi citato nuovamente al capoverso 8) è anche l’idolo adorato dagli oppressori babilonesi e ucciso da Daniele (cf. Dn 14,22–26).11 La successiva identificazione tra il drago e Satana è assicurata dai passi dell’Apocalisse: vidi angelum descendentem de caelo habentem [...] catenam magnam [...], / et adprehendit draconem, serpentem antiquum qui est Diabolus et Satanas, / et ligavit eum per annos mille / [...] Et cum consummati fuerint mille anni / solvetur Satanas de carcere suo (Apc 20,1–2,7). et proiectus est draco ille magnus, serpens antiquus qui vocatur Diabolus et Satanas, / qui seducit universum orbem (Apc 12,9).
Questa, che chiamo i d e n t i f i c a t iv a , è la modalità più scoperta di creazione del nucleo concettuale che ho prima indicato. Le riprese testamentarie strutturanti agiscono anche in un modo più mediato: nel capoverso 3 già citato, Sion-Messina è detta «iucunditatis exuta vestibus et vestimentis sue glorie denudata», reimpiegando, seppur con diverso significato, le medesime parole con cui la Bibbia narra di Giuditta che si spoglia degli abiti vedovili e si riveste degli abiti di festa prima di presentarsi a Oloferne: et descendens in domum suam abstulit a se cilicium / et exuit se vestimentis viduitatis suae / et lavit corpus suum et unxit se myrro optimo / et discriminavit crinem capitis sui et inposuit mitram super caput suum / et induit se vestimentis iucunditatis suae (Idt 10,2–3).
La contraddizione nel significato (i messinesi sono ‘spogliati degli abiti di festa e privi delle vesti di gloria’) è superata dalla capacità della citazione di associare i due testi, proiettando sulla vicenda di Messina gli esiti della storia di Betùlia: come Giuditta decapiterà Oloferne, liberando la città dall’assedio, così i messinesi sapranno liberarsi di Carlo. Qui le riprese lessicali non identificano direttamente, ma attivano la memoria sintagmatica del testo biblico e quindi, senza dire esplicitamente, contestualizzano l’epistola nel testo biblico, caricandola della forza persuasiva del non detto. Il legame può essere stabilito per analogia:
11 Per la fortuna dell’identificazione di Carlo d’Angiò con il drago e il faraone nella cronachistica catalana cf. Cingolani (2006, 291–315, in part. 305–312).
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in «Melius est enim nos mori viriliter in conflictu, quam gentis nostre mala conspicere et sub servitute tirannica viliter deperire» (22) sono citate le parole con cui Giuda Maccabeo esorta gli ebrei alla rivolta, poi vittoriosa perché favorita da Dio, contro i Seleucidi: «Accingimini et estote filii potentes / et estote parati in mane ut pugnetis adversus nationes has / quae convenerunt disperdere nos et sancta nostra; / quoniam melius est nos mori in bello quam videre mala gentis nostrae et sanctorum. / Sicut autem fuerit voluntas in caelo, sic fiat» (i Mcc 3,58–60); «que sedebas in tenebris» (20) echeggia il lamento «Quale mihi gaudium erit qui in tenebris sedeo et lumen caeli non video?» (Tb 5,12) di Tobia all’arcangelo Raffaele, che poi lo guarirà. È invece per antitesi il collegamento tra «aspidum ovis oppressis» ‘avendo schiacciate le uova di vipera’ (17), detto dei palermitani che hanno già sconfitto gli angioini, e «ova aspidum ruperunt» ‘fecero schiudere le uova di vipera’ (Is 59,5), detto degli ebrei che hanno rinnegato Dio. Simili citazioni assolvono a una funzione strutturante che chiamerei a s s o c i a t iv a . Il nucleo metaforico-figurale portante, che, grazie alle riprese identificative e associative, fa dei messinesi gli ebrei e di Carlo il loro oppressore, si sviluppa pure in altre direzioni, secondarie nell’economia dell’epistola ma anticipatrici degli sviluppi successivi della propaganda antiangioina: Carlo è anche il «crudelissimo Nerone», persecutore dei cristiani per Svetonio, ma nell’epistola ricordato come colui che ‘trucidò gli apostoli di Dio’ (11), così come è narrato nella versione brevior della Passio dei ss. Pietro e Paolo detta dello pseudo Marcello, un Vangelo apocrifo noto nell’originale greco e in una versione latina del VI secolo di «larghissima diffusione» (Barbieri 1996, 206), tanto da venire volgarizzata nella prima metà del Trecento in Toscana occidentale e non raramente collocata in coda al volgarizzamento degli Atti degli apostoli di Domenico Cavalca.12 Nell’economia dell’epistola, dicevo, lo sviluppo del nucleo metaforicofigurale fino a coinvolgere eventi e personaggi dell’era cristiana è sì secondario, ma funzionale alla mobilitazione di episodi narrati nel Nuovo Testamento, che si saldano come in un intarsio alla memoria del Vecchio. Si veda l’esortazione al capoverso 20, che identifica Messina con il paralitico risanato da Cristo (metonimico del popolo guidato alla salvezza del corpo e dell’anima perché liberato dalla malattia e dal peccato) e al contempo con il popolo ebraico che ‘sedeva nelle tenebre’ (con il verbo al passato, per rafforzare la promessa-profezia di liberazione futura): Iam a Deo tibi dicitur: «Tolle grabatum tuum et ambula, cum sana facta sis». Que sedebas in tenebris, et in umbra mortis viliter tabescebas, leva in circuitu oculos tuos, et contemplare celum novum et gloriam libertatis (20)
12 Cf. Barbieri (1996). Ringrazio Edoardo Barbieri per avermi segnalato il suo lavoro.
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quid est facilius, / dicere paralytico «Dimittuntur tibi peccata» / an dicere «Surge et tolle grabattum tuum et ambula»? / ut autem sciatis quia potestatem habet Filius hominis in terra dimittendi peccata, / ait paralytico / «Tibi dico: Surge, tolle grabattum tuum et vade in domum tuam» (Mc 2,9–11) dicit ei Iesus / «Surge, tolle grabattum tuum et ambula», / et statim sanus factus est homo / et sustulit grabattum suum et ambulabat (Io 5,8–9) sedentes in tenebris et umbra mortis vinctos in mendicitate et ferro (Ps 106,10) inluminare his qui in tenebris et in umbra mortis sedent (Lc 1,79) populus qui sedebat in tenebris lucem vidit magnam / et sedentibus in regione et umbra mortis lux orta est eis (Mt 4,16; cf. anche Is 9,2) educes ... de domo carceris sedentes in tenebris (Is 42,7) si ambulavero in medio umbrae mortis / non timebo mala quoniam tu mecum es (Ps 22,4) obscurent eum tenebrae et umbra mortis (Iob 3,5) leva in circuitu oculos tuos et vide: / omnes isti congregati sunt, venerunt tibi (Is 49,18 = 60,4) et vidi caelum novum et terram novam [...] / et civitatem sanctam Hierusalem novam vidi descendentem de caelo a Deo, / paratam sicut sponsam ornatam viro suo (Apc 21,1–2).
A differenza delle riprese strutturanti, le riprese di rinforzo non attivano la memoria sintagmatica del testo sacro: di fatto, seppure altamente evocative, hanno carattere centonistico e sono decontestualizzate. Ne è esempio lo scopertissimo prelievo «ubi est Deus tuus?» (5) da «dicitur mihi cotidie ‹Ubi est Deus tuus?›» (Ps 41,4) e «qui tribulant me, / dum dicunt mihi per singulos dies ‹Ubi est Deus tuus?›» (Ps 41,11), un salmo di generica lode a Dio e professione di fiducia in lui; oppure «tolle arma tua, arcum et faretram, et solve vincula colli tui» (4), dalle parole di Isacco a Esaù per esortarlo alla caccia «sume arma tua, faretram et arcum» (Gn 27,3; una fonte ancor più completa è l’incipit del responsorio della messa della seconda domenica di Quaresima «Tolle arma tua pharetram et arcum»: cf. Waddell 2007, 227). O ancora, «et bravium accipere libertatis» (2) riecheggia l’incitamento agonistico a diffondere il vangelo rivolto da Paolo ai Corinzi «nescitis quod hii qui in stadio currunt / omnes quidem currunt / sed unus accipit bravium? / sic currite» (i Cor 9,24), e «filia Sion [...], que [...] in die calamitatis et miserie, in die amaritudinis et ignominie contabescit» (3) riprende «dies irae dies illa / dies tribulationis et angustiae / dies calamitatis et miseriae / [...] super civitates munitas» (So 1,15–16), generica minaccia di Dio al popolo che gli si allontana. Riprese strutturanti e di rinforzo cooperano nel conferire tono profetico, e quindi valore di verità, all’intero dettato epistolare; non di rado si combinano a mosaico, in modo da potenziarsi a vicenda, come nell’esempio che segue, nel
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quale le parole del generico salmo di supplica a Dio per essere salvati dalla prostrazione e dall’assoggettamento si coniugano con l’associazione alla vicenda dei ribelli maccabei: Iam enim facta es in obprobrium vicinis tuis, derisum et contemptum hiis, qui in circuitu tuo sunt, barbaris et Christi fidelium inimicis (5) posuisti nos obprobrium vicinis nostris, / subsannationem et derisum his qui [alcuni mss. aggiungono sunt; cf. l’apparato di Gryson/Weber (2007)] in circuitu nostro (Ps 43,14) tu solus resistis nobis, / ego autem factus sum in derisum et in obprobrium (i Mcc 10,70).
Le citazioni letterali viste fino a ora si combinano con singole menzioni di personaggi e vicende della storia veterotestamentaria che rafforzano l’identificazione con i protagonisti della cronaca moderna: così i messinesi sono umiliati tanto quanto Giuseppe imprigionato da Putifarre (5; cf. Gn 39,20) e dai fratelli venduto come schiavo agli ismaeliti (cf. Gn 37,25–28), pravi perché nemici degli ebrei (cf. Ps 82,6–7); la città è data in pasto, oltre che al ‘gran drago’-Carlo, agli etiopi alleati degli egizi (8; cf. ii Par 12,3), ma è preservata dalla morte così come lo fu Tobia, figlio di Tobia, dall’angelo Raffaele (10; cf. Tb 3,25), e a lei apre le porte del paradiso il cherubino, che le protegge (10; cf. Gn 3,24); Carlo è come Lucifero, splendende nel suo apparire ma destinato alla caduta (9; cf. Is 14,12). Senza protrarre ulteriormente l’analisi (qualche passo in più è commentato in Cella 2019), si può concludere ribadendo come l’epistola sviluppi la sua forza persuasiva sfruttando con perizia il sottotesto biblico: i modi di costruzione del nucleo argomentativo convergono tutti sull’identificazione dei messinesi con il popolo ebraico oppresso e Carlo d’Angiò con il suo oppressore, e conferiscono veridicità profetica al dettato. Tale strutturazione ideologica ebbe successo nell’immediatezza delle vicende del Vespro, dato che, indebolendo l’azione politica del papato filoangioino, sostenne la vittoriosa sollevazione antifrancese; in più, al di là dello scopo immediato, costituì l’impianto della propaganda siciliana e aragonese per i tre quarti di secolo successivi, pur arricchendosi di nuovi motivi (per esempio Federico III d’Aragona sarà identificato con David e Salomone) e lasciandone cadere altri (primo tra tutti l’esemplarità di Nerone [11] come carnefice degli apostoli).13
13 Per i motivi ricorrenti nella propaganda successiva cf. Colletta (2011a, 67–73), riproposto nella sostanza in Colletta (2011b, 108–115), e Cingolani (2006, 305–309). Carlo sarà Nerone Neronior solo in un altro passo della Cronaca, al cap. 94 §7 (cf. Colletta 2011a, 70–71 n. 36).
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L’epistola dei palermitani ai messinesi (13 aprile 1282) e il suo volgarizzamento
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Simona Brambilla
Note sul volgarizzamento della Fam. xii 2 di Francesco Petrarca Abstract: The essay is divided into two parts. The first part briefly describes the purpose and the features of the anonymous vernacular translation of Petrarch’s Fam. xii 2 to Niccolò Acciaiuoli, a treatise-letter on how to administrate a state, pointing out the fact that it was soon included in a rich collection of letters, speeches and other vernacular translations, and describing this collection. The second part adds some manuscripts to those already identified by Vittorio Rossi as containing the Latin text of the letter (either in α or γ form, i.e. the final or the original form) and shows the most important γ variants that can be found in ms. Oxford, Bodleian Library, Laud. Misc. 503, which Vittorio Rossi didn’t study analytically and which explain many vernacular variants of the Italian translation. Keywords: Francesco Petrarca; Fam. xii 2; Florentine civic humanism; vernacular translations
1 Contesto latino e volgare La Familiare xii 2, inviata dal Petrarca a Niccolò Acciaiuoli per sollecitarlo a sostenere con il proprio consiglio Luigi di Taranto nell’imminenza della sua delicata incoronazione regale a Napoli il 25 maggio 1352, interseca la linea rossa della storia su due fronti. Da una parte infatti il testo, che come hanno puntualizzato Donatella Coppini e Michele Feo è in realtà un vero e proprio trattato cui fungeva da accompagnatoria una seconda letterina petrarchesca, la Regia institutio, questa sì una seppur breve missiva all’Accaiuoli,1 è legato a una precisa occasione storica e declina in modo ideale temi ai quali il Petrarca dedica attenzione anche in altre occasioni, in particolare con la Fam. iii 7, contenente un breve trattato sull’educazione del sovrano per Luchino Visconti, e con la più tarda Sen. xiv 1 a Francesco da Carrara, signore di Padova. Dall’altra parte, in virtù di un evidente
1 Coppini/Feo (1991). Indirizzo di corrispondenza: Prof. Dr. Simona Brambilla, Dipartimento di Studi medioevali, umanistici e rinascimentali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Largo A. Gemelli 1, I-20123 Milano. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-008
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interesse verso quella che potremmo in senso lato definire la gestione della cosa pubblica, questa lettera-trattato gode di ampia diffusione nei manoscritti, sia nella redazione originale in latino, caratterizzata da profonde differenze tra il testo γ, effettivamente spedito, e quello ritoccato dal Petrarca in vista dell’inserimento definitivo nella raccolta delle Familiari (α), sia in un fortunato volgarizzamento che risponde a precise istanze storiche e politiche dell’Umanesimo del primo e pieno Quattrocento, specie fiorentino o più genericamente toscano. Vòlto in volgare, il trattatello si impone infatti come un efficace strumento di educazione non solo del principe ma della classe dirigente, sicché non stupisce che nei manoscritti, accanto a rubriche neutre formulate sul modello di quella del codice II IX 27 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze («Epistola mandata da messer Francesco Petrarcha a messer N. Acciaiuoli gran sinischalco del Regno per la incoronatione del Re Luigi»), se ne trovino altre molto più parlanti, come per esempio quelle dei codici II II 87 della stessa Biblioteca («Pistola di messer Francescho Petrarcha che tratta chome si debba governare uno reame, mandata a messer Niccholò Acciaiuoli») e Barb. lat. 4012 («Sermone fatto al re di Cicilia come si de’ ghovernare»), mentre il copista di un altro codice, il Chig. L VI 230, puntualizza che il testo «dà essenplo gienerale a chiunche à ghoverno e massime a sollicitudine e honesto vivere», così che chi leggerà la lettera la troverà essere «hutilissima e di grande autorità», perché «asenplo è notabilissimo».2 Un analogo sondaggio entro la tradizione latina del testo consente di raccogliere indicazioni in buona parte simili: infatti, come ha mostrato Vittorio Rossi, accanto a rubriche strettamente legate all’occasione storica che ne ha favorito la stesura, se ne trovano altre come de institutione regia, de regimine principum libellus aureus, de administratione regni, oltre a varie, più complesse e articolate, che argomentano ampiamente sulla natura pedagogica del testo,3 come è ad esempio, per aggiungere un ulteriore tassello all’esemplificazione di Rossi, quella del Par. lat. 2191: «Epistula domini Francisci quam scripsit domino Nycholle de Azarolis senescallo regis Ludovici de moribus quibus instrui et uti princeps debeat».4 Nei manoscritti, inoltre, il volgarizzamento occupa spesso la posizione iniziale, come accade nell’importante Chig. L VII 269, di mano di Giovan Marco Cinico, che lo assembla per donarlo a Ferdinando d’Aragona riunendo estratti volgari di Virgilio, Livio, Valerio Massimo, Plutarco, Plinio, la Bibbia e autori più tardi come il Filelfo e gli assegna il titolo generale di «Raccolta di precetti di autori vari per ben regere e governare», mentre alla nostra epistola attribuisce la rubrica «Epistola mandata 2 A questo proposito, mi permetto di rimandare a Brambilla (2012, 130–131). 3 Petrarca, Le Familiari, vol. 3, 5–6 nn. *1–2. 4 Pellegrin (1966, 28–29); seguo il riferimento del volume al numero progressivo di pagina indicato tra parentesi.
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da Missere Francisco Petrarcha a Missere Nicolo Acciaiuoli gran Senescalcho del Regno per la coronatione del Re Loyse come se debbia governare nel suo Reame». In apertura di manoscritto la lettera si rinviene in circa una quindicina di codici, segno evidente di come all’auctoritas petrarchesca fosse riservata una posizione di preminenza e soprattutto di come al testo venisse riconosciuta una pregnanza di contenuti tale da garantirgli la funzione di una vera e propria introduzione.5
2 Tradizione del volgarizzamento La più chiara prova della fortuna della lettera sta però nell’altissimo numero di codici che la trasmettono in volgarizzamento: in un primo censimento realizzato qualche anno fa ne ho individuati infatti ben 105, un’imponente massa d’urto costituita per la stragrande maggioranza da manoscritti cartacei quattrocenteschi – solo una decina sono membranacei, mentre il Marc. lat. XIV 165 (4254) è cartaceo e membranaceo –, caratterizzati da una certa variabilità nelle tipologie grafiche impiegate – ma è importante notare come poco meno di un terzo dei codici sia vergato in mercantesca o in grafie che risentono della sua influenza, mentre per molti altri manoscritti la mano è un’umanistica corsiva – e da una certa polarizzazione delle dimensioni verso due estremi che parrebbero distinguere, da un lato, manoscritti di formato maneggevole, dall’altro manufatti molto più scomodi e ingombranti, per i quali, oltre al fenomeno della copia per passione, si può probabilmente ipotizzare anche quello della copia di bottega.6 Le tavole dei codici aiutano a chiarire le ragioni di una diffusione così capillare. Intanto, a differenza di quanto potremmo supporre, sono pochi i manoscritti che inseriscono la lettera entro una più organica raccolta di opere petrarchesche, dunque il movente primo della sua diffusione non parrebbe doversi ricercare in un interesse specifico per le opere del Petrarca. Al contrario, la maggior parte dei codici che recano il volgarizzamento si caratterizza per il fatto di trasmettere accanto al nostro testo un elevato numero di altri testi brevi, sicché si può parlare, per molti di loro, di codici miscellanei di argomento retorico-civile. I testi che ricorrono con frequenza nei manoscritti sono ormai molto noti: basterà ricordare, tra i più comuni, la lettera del Boccaccio a Pino de’ Rossi, consolatoria per l’esilio; la corrispondenza del vallombrosano Giovanni dalle Celle e dell’agostiniano Luigi Marsili; il volgarizzamento della cosiddetta Lettera a Raimondo dello pseudo-Bernardo sul governo della famiglia; varie opere del Bruni, tra cui le vite 5 Brambilla (2012, 131–132). 6 Ibid., 139–140.
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di Dante e del Petrarca; le orazioni di Stefano Porcari, protesti e discorsi di vari autori, opere del Filelfo e del Ficino, cui si aggiungono diversi volgarizzamenti dai classici, in primo luogo quelli della Pro Marcello di Cicerone nella redazione già attribuita al Bruni e revocata in dubbio nella recente edizione di Sara Berti e dell’epistola Ad Quintum fratrem. Se alcune delle tessere riunite nei manoscritti rimontano a volgarizzamenti più antichi, il cuore di questi materiali si assesta tuttavia nel tardo Trecento e soprattutto nel secolo successivo.7 Occorre perciò riconoscere come la tradizione del nostro volgarizzamento non possa essere compresa appieno considerandolo un testo a sé stante, ma debba invece essere messa in relazione a quella di un ampio blocco di altri testi di natura simile o latamente affine, sicché sul piano metodologico è imprescindibile, oltre alla filologia del testo, anche quella delle strutture, cioè lo studio sistematico della successione e della presenza/assenza delle varie tessere entro ogni codice, benché la parola ultima sulle parentele dei manoscritti spetti poi solo alla critica del testo. Per il volgarizzamento della Fam. xii 2 la situazione è particolarmente fortunata, poiché da tempo disponiamo di contributi di ampio respiro e di importanti precisazioni metodologiche su queste miscellanee, mentre negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli studi su singole tessere dell’ampio e articolato corpus che accoglie il nostro testo ed è notevolmente cambiato anche il punto di vista dell’indagine. Non stupisce dunque che i tempi siano ormai maturi per un contributo come quello recentemente pubblicato da Paolo Divizia e intitolato, con scoperta allusione al memorabile volume di Reynolds, Texts and Trasmission in Late Medieval and Early Renaissance Italian Multi-Text Codices: in esso l’autore cita proprio il caso del volgarizzamento della nostra Familiare come esemplificativo della possibilità che un testo venga appositamente tradotto in volgare per essere inserito in raccolte miscellanee di orientamento culturale e ideologico ben definito, ipotesi che merita un supplemento di indagine quanto alla finalità e alla cronologia dell’operazione.8
3 Sondaggi nella tradizione latina Accanto a queste considerazioni va messo in campo anche un altro fattore, quello cioè legato alla tradizione latina di riferimento, che si dispiega anch’essa spesso,
7 L’ampia bibliografia relativa a questi manoscritti di interesse retorico-civile è analiticamente segnalata in Brambilla (2012, 119–121 n. 21) e, più di recente e con alcune giunte, in Berti (2018). Si attende a breve anche l’uscita del volume di Camilla Russo dedicato alla struttura di queste raccolte, frutto della sua Tesi di Dottorato. 8 Divizia (2017, 101–110).
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oltre che nelle raccolte complessive delle Familiari, entro manoscritti miscellanei di natura retorico-civile e che meriterebbe di essere meglio indagata per isolare eventuali possibili relazioni tra il versante volgare di diffusione del testo e quello latino.9 Lavorando prioritariamente sulla tradizione a stampa del volgarizzamento – che prende avvio con il Petrarchista di Niccolò Franco, pubblicato a Venezia nel 1539 e ristampato nel 1541, nel 1543 e nel 1623, per approdare a fortuna definitiva entro le Prose antiche di Dante, Petrarcha, et Boccaccio di Anton Francesco Doni, pubblicate nel 1547 e ristampate nel 1851, ed essere poi riedito numerose volte, come testo di lingua, tra Sette- e Ottocento –, ho intanto avuto modo di verificare che il testo a stampa (ma alcuni sondaggi nella tradizione manoscritta parrebbero confermare il dato) dipende saldamente non da quello definitivo ritoccato dal Petrarca in vista dell’inserimento nella raccolta delle Familiari (testo α), bensì da quello originale effettivamente spedito (testo γ).10 Le nostre conoscenze sulla redazione γ del testo petrarchesco dipendono sostanzialmente dall’apparato critico dell’edizione di Vittorio Rossi, il quale ha tenuto presente solo una parte della vasta tradizione manoscritta, testimoniata dalle cosiddette raccolte veneziane (x), dalla raccolta parmense (x1) e da un contenuto insieme di codici: Ambr1 (Milano, Biblioteca Ambrosiana, P 256 sup., ff. 29v–40v), Vat1 (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3355, ff. 1r–52v, rappresentante della raccolta senese), Bgm2 (Bergamo, Biblioteca Civica Angelo Mai, MMB 808, già Gab. Λ I 20, ff. 7r–25r, rappresentante della raccolta bergamasca) e O3 (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. lat. 1554, ff. 228r–274v).11 Sicché, come ha già ben sottolineato Carla Maria Monti, la notevole «polverizzazione di errori» che caratterizza la tradizione γ fa sì che essa sia fortemente segnata da un alto tasso di lezioni singulares nei manoscritti.12 Tuttavia, allo stato attuale è possibile riconoscere la vicinanza delle nostre lezioni a quelle della cosiddetta raccolta parmense (x1) e soprattutto al codice siglato da Rossi Bgm2, cioè
9 Imprescindibile punto di partenza in questo senso resta il primo volume dell’edizione delle Familiari curata da Vittorio Rossi; ma sollecitazioni stimolanti si possono ricavare anche da singole prospettive di ricerca, come quelle di Carla Maria Monti sulle miscellanee di cancelleria o di Clémence Revest su quelle umanistiche, per le quali rimando ai tre contributi più recenti, da cui è possibile ricavare ampia bibliografia pregressa: Monti (2015–2016; 2017); Revest (2018). 10 Brambilla (2013). 11 Cf. Petrarca, Le Familiari, vol. 3, 6 n. 3. Nella discussione che segue, si farà a volte riferimento anche a queste sigle: Dom2 (Wien, Dominikanerkloster, 136, ff. 300r–356r, di tradizione γ, rappresentante delle raccolte veneziane), Ob (Oxford, Balliol College, Arch. E 2 4 [Coxe 126], di tradizione α), y (= Mn e Lp, di tradizione γ, esponenti delle raccolte veneziane: rispettivamente, München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 5350, ff. 138r–222v e Leipzig, Universitätsbibliothek, 1269, ff. 1r–195v). 12 Monti (1993, 145–146).
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il manoscritto MMB 808 della Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo, rappresentante della raccolta bergamasca. Poiché proprio le lezioni di Bgm2 sono quelle che più si avvicinano al nostro volgarizzamento, e poiché Rossi non ebbe modo di verificare quelle dell’altro rappresentante della raccolta, il manoscritto Laud. Misc. 503 della Bodleian Library di Oxford, di cui conosceva solo la tavola,13 registro qui integralmente le sue lezioni significative, a vantaggio di future ricerche nella tradizione latina del testo γ. Faccio precedere le tavole di collazione da un breve elenco di manoscritti recanti il testo latino dell’epistola e non segnalati da Rossi nella sua edizione.14 La ricerca, che in futuro si estenderà ulteriormente, per ora si è basata sul Censimento dei Codici Petrarcheschi promosso da Giuseppe Billanovich15 e sui principali censimenti e cataloghi di mostre petrarchesche, antichi e più recenti,16 cui si è aggiunto l’esame della collana Manoscritti datati d’Italia.17 (1) Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, B. R. 50, ff. 292v–295r (Billanovich 1947, 178 n. 1; Feo 1991, 141–145 n° 92).18 (2) London, British Library, Harley 3436, ff. 118v–124v (Billanovich 1947, 178 n. 1; Mann 1975, 286–287 n° 108). (3) Los Angeles (California), University of Southern California, Hoose Library, 091 A717e, ff. 14v–17v (Ullman 1964, 455 n° 44; Dutschke 1986, 165–167 n° 66). (4) Manchester, John Rylands Library, Rylands Latin 178 (già 198), ff. 162r–167r (Billanovich 1947, 178 n. 1; Mann 1975, 346–347 n° 150). (5) New Haven (Connecticut), Yale University, Beinecke Library, 197, ff. 10v–14v (Ullman 1964, 458 n° 56; Dutschke 1986, 197–199 n° 78). (6) Olomouc, Státní Oblastní archiv, C.O. 418, ff. 105v–108r (Rauner 1999, 96–117 n° 21).
13 Petrarca, Le Familiari, vol. 1, cxli. 14 Ibid., cvii–cviii. 15 Ullman (1964); Pellegrin (1966); Besomi (1967); Sottili (1971–1978; indico il riferimento al numero progressivo di pagina tra parentesi); Mann (1975); Pellegrin (1976); Bernadskaja (1979); Zamponi (1984); Dutschke (1986); Tournoy-Ijsewijn (1988); Villar (1995); Dutschke (1997); Rauner (1999); Dutschke (2004; 2005); Malandrino (2017). 16 I codici petrarcheschi (1874); Narducci (1874); Valentinelli (1874); Vattasso (1908); Barile (1974); Mostra di codici (1974); Feo (1991); Ballarini/Frasso/Monti (2004); Petrella (2006). Sempre prezioso inoltre Billanovich (1947). 17 Manoscritti datati d’Italia (1996–). 18 La trascrizione della lettera nel celebre Zibaldone Magliabechiano del Boccaccio non è di sua mano; per un’analitica descrizione del codice cf. De Robertis et al. (2013, 313–326 n° 57; scheda di Marco Petoletti).
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(7)
Paris, Bibliothèque de l’Université, 229, ff. 153v–157r (Pellegrin 1966, 91: il ms. viene segnalato come andato perduto). (8) Praha, Národní Knihovna (Universitätsbibliothek), Roudnice, vi Fb 13 (Cim. J 342), ff. 44–51 (Rauner 1999, 405–423 n° 57). (9) Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. lat. 2358, ff. 209v– 210v (Billanovich 1947, 178 n. 1; Pellegrin 1976, 493). (10) Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 1596, f. 255v, mutila (Vattasso 1908, 81–82 n° 90). Nel registrare le lezioni del codice di Oxford, siglato Blaud come nell’edizione Rossi, seguo per comodità di riscontro le tavole in precedenza realizzate,19 iniziando dall’insieme delle lezioni caratteristiche dell’intera tradizione γ, collocate nella colonna di sinistra tra parentesi sotto il testo critico α secondo l’edizione Rossi: Tav. 5: Lezioni γ presenti nel volgarizzamento. Testo latino
Blaud
43. intra murum pugna est (est] conseritur γ)
consitur
136–140. Morbo siquidem quem patiebatur accomodum farmacum accepturo supervenerunt a Parmenione litere quibus admonebatur Philippum medicum, Darii muneribus expugnatum, necem eius hosti promisisse (Morbo … accepturo] siquidem porrectam sibi potionem a Philippo medico quem amabat, in manibus habenti γ. – medicum] om. γ)
siquidem porectam sibi potationem a Philippo medico quem amabat, in manibus herenti. – medicum] om.
141–145. Has ille perlectas occuluit dissimulansque subticuit, donec, ingresso ad se medico, et oblatum poculum exhausit et tum demum coniectis in illum oculis accusationem sibi suam obtulit: sero quidem inutiliterque si vera esset, sed quoniam falsa erat, efficaciter et tempestive (Has … tempestive] His ille perlectis, protinus Hiis ille perlectis, protinus exhausit exhausit poculum et mox Philippo literas tradidit poculum et mox Philippo literas tradidit legendas γ) legendas
19 Brambilla (2013, 47–59).
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Tav. 5: (segue) 151–152. licet inaccessibilis sit offense (offense] nec possit offendi γ)
nec possit offendi
178–179. comunem se subiectis exhibeat comunem* (comunem γ] comitem, comem α: Rossi preferisce γ a α in quanto lectio difficilior) * Quanto a 4, in cui il volgarizzamento mostra di dipendere da vicit α piuttosto che da vincit γ (che Rossi in Petrarca, Le Familiari, vol. 3, 6 definisce «lezione erronea […] ma largamente diffusa in tutte le tradizioni di γ»), Blaud legge anch’esso vincit.
Ecco ora le risultanze circa i rapporti di Blaud con alcune raccolte di tradizione γ, in particolare con quella parmense (x1) e bergamasca, cui appartiene, sin qui rappresentata, nell’apparato Rossi, solo da Bgm2: Tav. 6: Lezioni di raccolte γ presenti nel volgarizzamento. Testo latino
Blaud
10–11. cuius sepe contrarium videmus (videmus] vidimus x1 Bgm2)
vidimus
62. usque ad extremum spiritum (extremum] extremum vite Bgm2)
extremum vite
101. se vere regem putet (vere] verum x1 Vat1)
vere
132. pertinacius instantes (pertinacius] pertinaciter x1)
pertinatius
147. memorans Augustum rescripsisse Tiberio (rescripsisse Tiberio] Tiberio scripsisse Bgm2)
Tiberio scripsisse
227–229. gratitudinem mutis etiam animantibus insertam, turpiter humanis abesse pectoribus (mutis etiam] etiam x1, etiam mutis Ambr1 Vat1 Ob. – animantibus] animalibus x1 Bgm2. – turpiter] turpissimum Bgm2)
mutis etiam. – animalibus. – turpissimum
240–241. curam de salute omnium, gloriosam (gloriosam] gloriosissimam Bgm2)
gloriosissimam
274–275. mors damnosissima (damnosissima] damnosa x1 Bgm2)
dampnosa
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Queste invece, suddivise in due tavole, le indicazioni utili a delineare il testo γ come probabile area di riferimento per il volgarizzatore, specie in presenza di consonanze con x1 e/o Bgm2: Tav. 7a: Possibili lezioni di raccolte γ presenti nel volgarizzamento. Testo latino
Blaud
7–8. Immortale bellum est inter invidiam et gloriam (immortale] inexorabile x1)
inexorabile
55–56. potius nobis cum hostibus et cum Carthagine quam cum vitiis et cum voluptate certamen (cum voluptate] voluptate γ [meno Dom2 y Ambr1])
voluptate
57–58. crebrius triumphatum (crebrius] sepius Bgm2)
crebrius
95. in auribus eius (eius] suis Ambr1)
eius
106. nullum certius regnum est (certius] tutius x1 Bgm2)
tutius
108. non exercitus neque thesauros (neque] non O3)
neque
109–111. eosque nec armis cogi nec pecunia parari sed officio et fide (fide] fide parantur Bgm2)
fide parantur
120–121. et insistat verum amicum a blando hoste discernere (insistat] discat x1 Bgm2)
discat
157–158. Secretum vero suum ab aliis inquiri equo animo ferat (ferat] patiatur x1 Bgm2)
patiatur
159–160. contra autem prope par utrobique diffidentia (prope] om. Vat1 Bgm2)
prope] om.
168–169. nec unquam lecta combussit (unquam] om. x1 Bgm2)
unquam] om.
174–175. crudelitatem vero nominari etiam nefas esse (vero] om. Ambr1 O3. – etiam] om. x1)
vero. – etiam
178. ideo minaci tumore deposito (ideo] om. Ambr1 Vat1, iam x1 Bgm2)
iam
181–182. cur enim vel superbire regem oportere (oportere] oportet x1 Bgm2, om. Ambr1)
opportet
189. ita linguam instituat ut mentiri nesciat (instituat] instruat Ambr1)
instituat
197. contra etiam cur se iactet (contra … iactet] cur etiam se iactet Ambr1)
contra etiam cur se iactet
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Simona Brambilla
Tav. 7a (segue) Testo latino
Blaud
199. cur in quempiam excandescat (excandescat] exardescat x1 Bgm2)
exardescat
201. Caveat preterea immoderantius exultare (immoderantius] immoderatius x x1 Vat1)
inmoderatius
224–225. reliquos homines debet excellere is qui primum in hominibus locum tenet (is] om. Ambr1 O3)
is] om.
239–240. preter sceptrum et dyadema (preter] nisi Ambr1 O3)
preter
267. accendunt generosos animos (generosos animos] animos generosos Vat1, animos x1 Ambr1 Bgm2)
animos
271–272. vetustumque … exemplar (vetustumque] vetusque Ambr1)
vetustumque
276–277. in illo se nitidissimo speculo contempletur (in] et in Bgm2)
et in
287. duxque et auriga (duxque] dux Vat1)
dux
293. Aurum profunde foditur (profunde] profundo x1 Bgm2)
profondo
Tav. 7b: Possibili lezioni di raccolte γ presenti nel volgarizzamento. Testo latino
Blaud
229–230. eam ceteris ornamento, regi etiam presidio fore (eam] eam que Bgm2)
eamque
292. consequens est (consequens] conveniens O3)
consequens*
Cf. inoltre le risultanze per i punti segnalati in Brambilla (2013, 55–56 n. 27): 251. Postremo norit hanc vitam aleam esse magni discriminis] Postremo norit hanc vitam aream esse magni discriminis; 301–303. dum enim consummasse putas, tunc incipies; hunc optimis et regis et reipublice curis exerce] dum enim consumasse putas, tunc incipies; hunc optimis et regis rei publice curis exerce. Inoltre 119. omnia cum amico deliberet, sed de illo prius (illo] ipso γ)] omnia cum amicho deliberet sed de ipso prius. *
Nelle tavole successive, infine, i riscontri di Blaud con gli stralci della Fam. xii 2 (testo γ) trasmessi per tradizione indiretta entro l’Expositio di Barbato da Sulmona (B):
Note sul volgarizzamento della Fam. xii 2 di Francesco Petrarca
207
Tav. 8: Lezioni di B presenti nel volgarizzamento. Testo latino (αγ)
Blaud
89–90. Noverit regem a populo non magis habitu differre quam moribus (differre] differre debere B)
differe
295–296. difficile paratur omne quod in precio est (α) (paratur] γ, comparatur B)
paratur
Tav. 9: Possibili lezioni di B presenti nel volgarizzamento. Testo latino (αγ)
Blaud
194. Cur autem mentiatur cui maxime expediat nullum, si fieri possit, usquam esse mendacem? (α) (cui maxime expediat nullum] γ, cui nullum expedit B)
cui maxime expediat nullum
229–230. eam … fore (eam] eam que Bgm2, et eam B)
eamque
287. duxque et auriga (duxque] dux Vat1 B)
dux
Tav. 10: Lezioni di B assenti nel volgarizzamento. Testo latino (αγ)
Blaud
79–80. et honores non mutant mores atque animum (mores atque animum] homines neque mores B)
mores neque animum
94–95. modestissimum animosissimumque responsum (α) (modestissimum animosissimumque] honestissimum animosumque x1, modestissimi animosissimique Vat1, modestissimum animosumque B)
modestissimum animossissimumque
118. Senece consilium (α) (consilium] doctrinam Vat1 B)
conscilium
141. Has ille perlectas (α), His ille perlectis (γ) (Literis ille perlectis B)
Hiis ille perlectis
192. fundata est (α) (fundata] radicata Vat1 B)
fondata
204–205. reipublice (reipublice] patrie B)
rei publice
208
Simona Brambilla
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Note sul volgarizzamento della Fam. xii 2 di Francesco Petrarca
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Chiara De Caprio
Figure dell’autore nei volgarizzamenti e nelle cronache in volgare Aspetti teorici e linee di una ricerca storico-linguistica nei testi medioevali
Abstract: The paper focuses on the cultural frameworks and ideas of authorship shared by translators of historical texts, and by historians and chroniclers in the vernaculars. Focussing on lexical choices and textual strategies adopted in the volgarizzamenti of Bono Giamboni and Binduccio dello Scelto, as well as in the chronicles written by Dino Compagni, Giovanni Villani, Anonimo romano and by the anonymous compositore of the so-called Cronaca di Partenope, the essay sheds light on the different ways of constructing authorship. Attention has been paid to three different aspects: the use of formal markers for signaling truthfulness and the role of personal testimony in the construction of the image of the historian/chronicler as reliable witness; the construction of a narrative architecture and the role of the historian/chronicler as narrator; the selection and the re-use of sources and the role of the historian/chronicler as collector of previous historical texts. Keywords: cultural frameworks of translators; historians and chroniclers; lexical choices and textual strategies for constructing authorship; eye-witness testimony; authorship and sources; authorship and narration; authorship and truthfulness
Nota: In questo lavoro riannodo i fili di una riflessione sulla storia che trova le sue origini nello studio delle cronache medioevali di area meridionale e nel magistero di Alberto Vàrvaro. Alcune idee sono state formulate grazie al dialogo con maestri e amici napoletani prima e, poi, con gli amici e colleghi presenti al Circolo Filologico Linguistico Padovano del 16 maggio 2018. Se resta mia la responsabilità delle interpretazioni che ho dato alle loro parole, è invece senz’altro merito di quell’invito ciò che di buono aggalla nella forma e negli obiettivi di questo testo. Indirizzo di corrispondenza: Prof. Dr. Chiara De Caprio, Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Napoli «Federico II», Porta di Massa 1, I-80133 Napoli. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-009
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Chiara De Caprio
1 Il dialogo fra due esperienze culturali «dello stesso peso»: cornice teorica e preliminari di metodo Quasi tutto quello che ci è giunto di documenti e monumenti delle origini è in sostanza traduzione […]. Più tardi, negli esordi della prosa letteraria, «volgarizzamento è […] situazione mentale prima ancora che attività specifica» […] dice benissimo il Segre […]. La molteplicità di situazioni del tradurre è fortissima, nel Medioevo, in rapporto ai livelli linguistici, sia cioè che la lingua di partenza sia il latino oppure un volgare, e in rapporto ai livelli culturali e ai generi letterari, testi religiosi e didattici, giuridici, storici, poetici. Pur nella visione sincronica che il Medioevo ha dei rapporti fra latino e volgare, in quello che potrebbe definirsi un bilinguismo e biculturalismo in senso sincronico, si deve distinguere un tradurre «verticale» […] e un tradurre «orizzontale» (Folena [1973] 1991, 12–13). La storia non era un’arte autonoma. Però esisteva. Aveva un nome. Aveva il proprio scopo. […] Nel prologo della sua Historia pontificalis, Giovanni di Salisbury ci dichiara che il suo scopo è identico a quello dei cronisti che l’hanno preceduto: essere utile ai suoi contemporanei e ai loro successori. Ci precisa anche in cosa è utile la storia. Essa dà esempi di premio e di castigo che insegnano a vivere. Rivela il divino invisibile. Aiuta a stabilizzare o abolire costumi, rafforzare o distruggere i privilegi. La storia è dunque d’ausilio alla morale, alla teologia e al diritto. […] La storia non era autonoma. Era soltanto una scienza ausiliaria. Ma non c’era grande disciplina che non avesse bisogno di lei. […] Non deve dunque stupire che la lettura di libri di storia sia prevista nella grande maggioranza delle classi di grammatica e talora, soprattutto in Italia […], nelle classi di retorica. E le opere degli storici dell’antichità o le compilazioni di storia antica furono spesso unite, in uno stesso manoscritto, a trattati morali (Guenée 1991, 33–34, 36). Pour émettre un jugement équilibré et pondéré [sc. sull’opera di Froissart], il ne suffit donc pas de contrôler toutes les informations utilisées par Froissart dans la mesure où cela nous est possible et d’en relever toutes les inexactitudes ; il est également nécessaire d’évaluer sa capacité à comprendre le déroulement des évènements en cours, afin de reconstruire patiemment ses modalités narratives et ses intérêts thématiques (Vàrvaro 2011, 56).
Le autorevoli citazioni di apertura hanno lo scopo di ricordare ai lettori – come già a chi scrive – quanto ampi siano stati i confini delle due attività che sono qui oggetto d’analisi: l’atto di volgarizzare e quello di scrivere la storia in volgare. Come pannelli di una pala d’altare che torniamo a congiungere per cogliere il senso dell’insegnamento che ci viene offerto dalle immagini, i passi di Folena, Guenée e Vàrvaro, se letti in sequenza, provocano due effetti: una volta di più, ci danno l’opportunità di verificare che differenti prospettive di ricerca colgono aspetti diversi – ma tutti fondamentali – dell’attività svolta da chi volgarizzava e da chi scriveva testi storici in volgare; al contempo, i tre luoghi ci permettono d’individuare alcuni elementi nei quali sembra annidarsi il proprium del lavoro del volgarizzatore e dello storico del Medioevo.
Figure dell’autore nei volgarizzamenti e nelle cronache in volgare
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A voler dialogare con queste immagini – a voler farle proprie e ri-dirle per palesare ciò che, come trittico, rivelano – si può notare quanto esse siano coimplicate l’una con l’altra. Il radicamento nel presente di cui parla Guenée (scrivere la storia «aiuta» a stabilizzare il presente, ad avere parole per il presente e, in questo modo, insegna a vivere) non sarebbe possibile senza la vertiginosa moltiplicazione di prassi traduttive descritta da Folena: perché – evidentemente – le parole-per-il-presente hanno radici profonde, e spesso provengono da altre lingue e da altri testi; e nei modi del loro riuso si gioca la partita – culturale e linguistica, certo, ma anche politica e umana – di quanti traducevano e rimaneggiavano testi storici. Dunque – come ricorda Vàrvaro – di ogni traduzione, di ogni rimaneggiamento e di ogni scrittura originale che ambisca a raccontare la storia, vanno còlti gli interessi tematici, le strategie di selezione, le modalità narrative: ciò che viene reso con aderenza, o amplificato, con la diversa quantità o qualità delle parole, conta quanto ciò che si perde, ciò che si traduce scorciatamente, ciò che si lascia cadere nell’oblio. Per approfondire queste piste di ricerca, è forse utile verificare quali siano state alcune caratteristiche del legame tra esperienze del tradurre e prassi del comporre testi storici e cronachistici in volgare.1 Nelle pagine che seguono proverò, allora, a mettere a fuoco i modi linguistici – lessicali e testuali – attraverso i quali l’attività del volgarizzare si è posta come significativo momento, fondativo e antesignano, per quanti cercavano parole e strutture con le quali restituire, in volgare, l’esperienza e il senso della storia. Non è superfluo precisare le due idee-guida che danno ragione di questa ricerca: della sua cornice teorica, dei testi, e delle domande che ai testi sono state rivolte.
1 Nel prosieguo distinguo tra volgarizzamenti di argomento storico, da un lato, e cronache e storie, dall’altro. Come questo stesso contributo a più riprese sottolinea, sono però ben consapevole che esisteva un continuum tra il polo dei testi volgarizzati e quello delle cronache e storie caratterizzate sia da un più alto tasso di originalità dei materiali, sia da un più forte «gradiente di autorialità» (nei termini proposti da Vàrvaro 1999, e in modi affini anche da D’Agostino 2001; Fernández Ordóñez 2012; Leonardi 2014). Utilizzo il termine cronaca per indicare una «narrazione di fatti ordinati secondo un (prevalente) ordinamento cronologico, considerati dall’istanza enunciativa come accaduti e degni di essere ricordati, e da essa sottoposti a un vincolo di verità» (cf. la definizione di Pollmann 2016, 235: «text resulting from an act of literacy by someone who decides that he is well suited to keep a record of events in his surroundings, who believes that these events are worth recording, and that the best way to structure this information is to do so chronologically»). Segnalo che, nel saggio, i termini cronaca e storia e l’endiadi cronache e storie mirano ad abbracciare, nel suo complesso, la produzione storiografica in volgare, indipendentemente dalla maggiore o minore adesione dei testi a un criterio di ordinamento cronologico della materia. Per i problemi di definizione, rimando almeno a Porta (1995b).
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Chiara De Caprio
Innanzitutto, sorregge questo percorso l’idea che nelle strutture linguistiche e nelle forme si depositi, in ultima istanza, il senso della storia che gli scriventi avevano. Parole, campi metaforici, isotopie semantiche – da un lato –, strutture, pattern sintattici, formule di transizione e d’introduzione delle singole cellule narrative – dall’altro – possono tutti essere interrogati per risalire ai temi e ai concetti-chiave culturalmente significativi per quanti leggevano e scrivevano testi storici in volgare. Com’è evidente, le due serie appena elencate si riassumono nella dittologia lessico e sintassi: tenendo ben presenti questi due poli (il lessico e gli andamenti sintattico-testuali), è possibile precisare meglio il rapporto tra volgarizzamenti e scritture della storia in volgare, esplicitando la seconda idea-guida. Volgarizzare e comporre scritture storiche in volgare furono attività che ebbero un ruolo cruciale nella costruzione dell’identità linguistica, culturale e politica degli uomini del Basso Medioevo volgare. Per un verso, la traduzione di un variegato patrimonio di narrazioni ne rese possibile la traslazione in un nuovo universo culturale; e, in modi e forme diverse, consentì sia l’appropriazione di alcune strutture narrative, sia – in alcuni contesti – la ri-codificazione dell’eredità linguistica e formale latina nei volgari del sì.2 Dall’altro, l’elaborazione di forme di narrazione storica in volgare permise a gruppi e comunità di trasmettere, non solo oralmente, la propria esperienza del presente e di trasformare la traccia memoriale dei viventi in una memoria trasmissibile ai posteri in quanto culturalmente significativa.3 2 Si tratta di questioni notissime, per le quali richiamo solo alcuni dei principali lavori: Segre (1953); Dionisotti (1958); Folena (1973); Guthmüller (1989); e ancora, in tempi più recenti, le sintesi di Cella (2010); Frosini (2014); Ricotta/Vaccaro (2017); le introduzioni di Zaggia (2009); Lorenzi (2010); Lagomarsini (2018) e i saggi raccolti in Lubello (2011); Portelli/Van Den Bossche (2016); Guadagnini/Vaccaro (2017); Leonardi/Cerullo (2017). Per quanto riguarda la specificità del rapporto coi testi latini, restano punti di riferimento Segre (1953) e Folena (1973); per nuove sistemazioni e puntuali acquisizioni sui volgarizzamenti realizzati in Toscana tra la fine del Due- e la metà del Trecento e, in particolare, per l’attenzione prestata dai volgarizzatori ai valori formali e stilistici dei testi latini cf. ora almeno Zaggia (2009); i saggi raccolti in Guadagnini/Vaccaro (2017) e Leonardi/Cerullo (2017, e, qui, le note di metodo di Leonardi 2017); Vaccaro (2017); Lagomarsini (2018); per un quadro generale sulla funzione della traduzione dell’epos classico nella civiltà letteraria italiana sia consentito rimandare a De Caprio (2012b); per il rapporto tra traduzioni, volgarizzamenti e commenti danteschi cf. ora De Caprio (2017b); Boccardo (2018). Sono, invece, specificamente dedicati a importanti aspetti che investono il dominio della sintassi e della testualità i lavori di De Roberto (2017) e Mastrantonio (2017). 3 Riecheggio qui le note e affini distinzioni di Michel de Certeau e Aleida Assmann sulla differenza tra memoria dei singoli e memoria culturale (cf. de Certeau 1975; Assmann 2002). Anche per questo secondo polo, nell’amplissima bibliografia sull’area romanza, restringo il riferimento a quei lavori di valore metodologico cui sono debitrice: Guenée (1991); Vàrvaro (1993); Minervini
Figure dell’autore nei volgarizzamenti e nelle cronache in volgare
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Sulla falsariga delle riflessioni che Bachtin dedica al «legame semantico» che s’instaura tra attività e voci «dello stesso peso», non è peregrino accertare in che modo due prassi così significative – e le personalità che le hanno incarnate – abbiano potuto dialogare: abbiano potuto, cioè, incrociarsi dialogicamente, sostenendosi e completandosi, oppure, al contrario, contraddicendosi e superandosi.4 In modo preliminare, possiamo affermare quanto segue: quale sia stata la forma storicamente possibile che, di volta in volta, si è data nei diversi contesti e per i singoli scriventi, è importante stabilire in quale misura le modalità compositive che presiedevano alla realizzazione di volgarizzamenti e di cronache si siano «reciprocamente» orientate, proprio in quanto – e perché – parte di due esperienze «dello stesso peso» culturale.5 Pertanto, seguendo il filo di questo ragionamento, il percorso che si propone è stato sviluppato in due momenti: in primo luogo, sono messe a fuoco, in modo più generale, le caratteristiche del nesso tra la prassi di volgarizzare testi di materia storica e la composizione di cronache e storie in volgare (§2); in secondo luogo, tanto per l’attività di volgarizzare quanto per quella di comporre cronache e storie in volgare, a partire da un manipolo di testi di un certo rilievo, si descrivono le ricadute formali di questo possibile comune campo di questioni culturali relative alle strutture narrative e linguistiche (§3). Più nel dettaglio, nel §3 sono descritti tre differenti modi in cui, sia nei volgarizzamenti sia in cronache e storie, viene declinata la figura dell’autore. A questo riguardo, va data una chiara indicazione preliminare: la nozione di autore è qui utilizzata nella sua forma più neutra possibile; essa, cioè, designa ‘colui (1994); Vàrvaro (1999; 2011); Fernández Ordóñez (2012); per l’area italiana cf. Minervini (1993); Porta (1995b); Ragone (1998); Zabbia (1999); in un’ottica interessata alla prospettiva testuale e stilistica, per l’area italoromanza, limito il rimando ai recenti Barbato (2010); De Caprio (2012a); Montuori (2012); Gualdo (2013); Colussi (2014); De Roberto (2015) e, per quanto incentrato su testi della primissima età moderna, Fresu (2015); cf., ancora, i contributi di Barbato, Coluccia, D’Achille, De Caprio, Gualdo, Montuori in Francesconi/Miglio (2017): essi costituiscono, nel loro complesso, un aggiornato quadro sulla produzione cronachistica di varie aree dell’Italia medioevale e danno la possibilità di risalire alla ricca bibliografia precedente. 4 Guardando allo stesso campo dei volgarizzamenti, realizzati a partire da testi della latinità classica o della latinità mediolatina, da fonti appartenenti al genere epico o di natura agiografica, Leonardi (2017, ix–x) invita a considerare i possibili rapporti di «omogeneità, se non di osmosi» tra «l’esperienza capillare e endemica dei volgarizzamenti religiosi e la selezionata produzione di volgarizzamenti dai classici». In prospettiva analoga, per un’analisi dei rapporti e delle influenze fra l’attività di traduzione e la redazione di commenti in volgare alla Commedia sia consentito rimandare a De Caprio (2017b), che costituisce un tentativo di leggere la testualità dei commenti danteschi sub specie traductionis (in diversa e complementare prospettiva, cf. Boccardo 2018). 5 Le citazioni e le formulazioni parafrastiche sono debitrici di Bachtin (1929).
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Chiara De Caprio
che compone, scrive e realizza un testo’, ed è intesa come un campo – ampio, plurivoco e sfrangiato – nel quale possono intersecarsi i ruoli del copista-editor e del rimaneggiatore di testi propri e altrui.6 Vediamo più da vicino la struttura del §3. Attraverso una ricognizione delle scelte lessicali e, in parte, delle formule sintattico-testuali, si è provato a mostrare come siano stati restituiti, nel corpo vile della lingua, tre nodi che, fra i molti possibili, si sono isolati: in quanto – a parere di chi scrive – privilegiati punti d’interrogazione per individuare le diverse sfaccettature della figura di colui che redige e compone testi, sia nei volgarizzamenti di opere storiche sia in cronache e storie dotate di un più alto tasso di originalità.7 Nella prima parte del §3 viene indagata la relazione tra testimonianza, memoria e atto di scrittura, così da restituire l’immagine dello storico(/cronista)-testimone; nel prosieguo, si rubricano scelte lessicali e soluzioni formulari attraverso le quali l’istanza narrativa si staglia sulla superficie del testo e istituisce un dialogo col lettore: con questo procedimento si prova a far emergere la figura dello storico(/cronista) come autore di narrazioni; infine, sono descritti i modi in cui l’atto materiale che presiede alla composizione del testo è restituito attraverso parole e formule che lo designino: col fine di riconoscere l’immagine di uno storico(/cronista)-compositore, ovvero di una figura che materialmente seleziona porzioni di testi e le assembla in nuovo organismo. In estrema sintesi, il percorso ambisce a mostrare il tratto distintivo dei tre diversi modi in cui viene restituita la figura di colui che scrive testi storici, sia che si tratti dell’autore-fonte del testo volgarizzato o compendiato, sia che si tratti di un cronista o di uno storico medioevale: lo scrivente in quanto testimone, cioè visto nella sua relazione con gli eventi e con la realtà extralinguistica; lo scrivente in qualità di narratore, ovvero rappresentato nella sua capacità di costruire una struttura di senso per gli eventi e di orientare il lettore; lo scrivente nelle vesti di raccoglitore e selezionatore di fonti, quindi, come costruttore di un testo che ha forma di libro (cioè, di un oggetto che è andato articolandosi nello spazio bianco di un codice). Per seguire questa triplice manifestazione della figura dell’autore, sono stati scelti testi che, sulla scorta degli studi disponibili, possono essere considerati significativi. Le ragioni di questa significatività sono molteplici: l’interesse della figura del volgarizzatore o del cronista e del suo ambiente; la circolazione di quel volgarizzamento o l’importanza del testo-fonte per la cultura storiografica del 6 Rimando alle prospettive di Vàrvaro (1994), D’Agostino (2001), Fernández Ordóñez (2012) e Leonardi (2014) come a quelle più adatte a dare conto della autorialità dei testi storici del Medioevo volgare. 7 Preciso che, sul modello di De Roberto (2013), la nozione di formula è qui adottata per designare unità dotate di funzioni testuali, pragmatiche e identitarie.
Figure dell’autore nei volgarizzamenti e nelle cronache in volgare
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Basso Medioevo; e così, egualmente, per le cronache e le storie con più alto tasso di scrittura originale, il carattere culturalmente esemplare di una specifica temperie e cerchia intellettuale. La scelta è dunque caduta su testi di area fiorentina e toscana realizzati tra la fine del Duecento e la metà circa del Trecento: segnatamente, sul volgarizzamento dalle Historiae adversus paganos di Orosio realizzato da Bono Giamboni e sul volgarizzamento di materia troiana del senese Binduccio dello Scelto; quanto alle cronache, alcune esemplificazioni sono tratte dalla Cronica di Dino Compagni e dalla Nuova Cronica di Matteo Villani. Non si è però rinunciato ad allegare luoghi tratti da testi di altre aree: in particolare, dalla Cronica di Anonimo romano e dalle prime due parti della cosiddetta Cronaca di Partenope, ovvero il conglomerato di scritture storiche realizzato nella Napoli angioina nel corso del Trecento.8
8 Per le edizioni dei testi, si dà la sigla e, dopo la virgola, il riferimento della pagina ed eventualmente, tra parentesi quadre, il rinvio alla sezione del testo (prologo, libro e simili). Per i passi della Cronaca di Partenope si è trascritto da due autorevoli mss. della Pierpont Morgan Library e della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana di Palermo (sezioni del corpus si leggono in Kelly 2011, che però, a parere di chi scrive, presenta diversi problemi di resa del testo, per i quali cf. De Caprio 2012a, 22–23; Montuori 2012, 180); si sono sciolte senza segnalazione le poche abbreviazioni, e si sono poste tra quadre le lettere non leggibili per deterioramento della superficie scrittoria. In tutti i passi citati sono degli editori i corsivi, mentre sono mie le sottolineature dei punti più rilevanti. Elenco delle sigle delle edizioni e dei mss. da cui si cita: Anonimo romano, Cronica [1357–1358] = Anonimo romano, Cronica, ed. Porta, Giuseppe, Milano, Adelphi, 1979; Binduccio, Storia di Troia [1322] = Binduccio dello Scelto, La storia di Troia, ed. Gozzi, Maria, Milano/Trento, Luni Editrice, 2000; Compagni, Cronica [1310–1312] = Dino Compagni, Cronica, ed. Cappi, Davide, Roma, Carocci, 2013; CrP, redazione A [XIV sec. med.; a. 1362] = prima redazione della Cronaca di Partenope, secondo la lezione del ms. M 973 della Pierpont Morgan Library di New York [= M]; CrP, redazione B [XIV sec. med.; a. 1362] = seconda redazione della Cronaca di Partenope, secondo la lezione del ms. I D 14 della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana di Palermo [= P]; Filippo da Santa Croce, Deca prima di Tito Livio [1323] = La prima Deca di Tito Livio volgarizzamento del buon secolo, ed. Dalmazzo, Claudio, Torino, Stamperia Reale, 1845–1846 [si cita dal testo inserito nel Corpus OVI dell’Italiano antico, consultabile all’indirizzo di rete ‹http://gattoweb.ovi.cnr.it›; ultimo accesso: 31.03.2018]; Giamboni, Orosio [a. 1292] = Bono Giamboni, Storie contra i Pagani di Paolo Orosio volgarizzate. Trascrizione del ms. Riccardiano 1561, ed. Matasci [si cita dal testo gentilmente messo a disposizione da Joëlle Matasci, che ne sta curando l’edizione; esso è diverso da quello inserito nel Corpus OVI, che segue l’ed. di Tassi, Francesco, Firenze, Baracchi, 1849; il testo curato da Matasci è invece incluso nel Corpus DiVo del Dizionario dei Volgarizzamenti, consultabile all’indirizzo di rete ‹http://divoweb.ovi.cnr.it›]; Villani, Nuova Cronica [a. 1348] = Giovanni Villani, Nuova Cronica, ed. Porta, Giuseppe, 3 vol., Parma, Fondazione P. Bembo/U. Guanda Editore, 1990–1991 [si cita dal testo inserito nel Corpus OVI; ultimo accesso: 31.03.2018]. Ringrazio qui l’editrice e Giulio Vaccaro per avermi consentito di leggere il testo del volgarizzamento di Bono Giamboni.
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Questi riscontri con testi elaborati al di fuori della Toscana intendono suggerire l’utilità di una comparazione fra aree diverse: un confronto che diviene assai proficuo quando si studino tradizioni spesso caratterizzate da «basso gradiente di autorialità» (Vàrvaro 1999, 402), e dinamiche che hanno la loro ragion d’essere in processi culturali che – pur declinandosi in modi specifici in ogni singolo contesto – meritano, però, di essere analizzati all’interno di quel più vasto spazio (italo-)romanzo in cui esse presero forma.9 Per esempio, il caso del corpus napoletano di età angioina può essere di un qualche rilievo per due ordini di motivi: l’apporto consistente dato dalla cultura in francese e in toscano alle attività di traduzione e composizione di testi storici; e, ancora, la precoce dialettica che le attività di scrittura della storia instaurano col testo di Villani, che viene compendiato e fagocitato nel corpus.10 Va detto che, per i modi in cui sono stati scelti i testi, le risultanze dell’analisi non ambiscono a suggerire né influenze dirette, né prelievi automatici da un testo a un altro. Al contrario, proprio al fine di sondare l’opportunità di eventuali verifiche in una più specifica direzione, in questa sede, in modo prioritario, si è inteso accertare se e in che misura, spostandosi dalle questioni culturali alla trama lessicale dei singoli testi, si riconosca un’aria di famiglia nel tipo di scelte che gli scriventi compivano quando erano chiamati a codificare linguisticamente il loro senso della storia. Certo, questo percorso suggerisce un ulteriore passaggio, giacché esso riporta gli autori di volgarizzamenti e di testi storici al loro primo ruolo: quello di lettori, per così dire, attivi e re-attivi di testi memorabili; lettori, cioè, sollecitati dagli stessi testi che andavano compulsando a passare dall’atto della lettura al gesto della scrittura, attraverso processi di selezione e ricomposizione di materiali. In particolare, nel caso dei testi cronachistici, si può ben dire che, con diversi gradi di consapevolezza culturale, questi lettori attivi hanno memorizzato gli ipotesti scomponendoli in liste, annotazioni, talvolta depositatesi nelle loro glosse e nei marginalia;11 e ne hanno poi trasformato le sequenze verbali in parole che oseremmo definire performative. Vale qui la pena offrire un surplus di spiegazione: poiché nei testi storici e cronachistici le parole e le retoriche servono anche a modificare il rapporto col reale, esse posseggono una carica performativa nella misura in cui permettono al passato di agire sul presente, e al presente di farsi 9 Cf., in questa direzione, le riflessioni metodologiche di Vàrvaro (1995). Resta un modello in questo senso l’analisi offerta da Vàrvaro (1999), in cui parte dell’esemplificazione è da testi storici di diverse aree romanze (e, fra questi, anche la Cronaca di Partenope). 10 Su questo cf. De Caprio (2012a, 17–62); Montuori (2012); De Caprio (2017a); Montuori (2017). 11 Alla stesura di liste di autori utilizzati per le compilazioni storiche fa riferimento Guenée (1991).
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esso stesso memoria, in un processo di senso nel quale la conoscenza del passato e l’esperienza del presente sono mutualmente implicate.12 Quindi, lessico e sintassi permettono di ricostruire i gesti con cui si selezionavano le porzioni testuali degli ipotesti;13 al contempo, rivelano a quale trama di interessi e bisogni, culturali e politici, l’atto di scrivere e narrare intendeva rispondere, suggerendo possibili comportamenti collettivi.14 In conclusione, qui, la storia della lingua – declinata come storia delle parole e delle strutture formulari – è utilizzata per interpretare nodi squisitamente storiografici: proprio perché fondate nella lingua, le osservazioni provano cioè a diramarsi nella storia culturale. L’analisi linguistica viene così intesa come quel fascio luminoso che, entrando nelle strutture e nelle più strette fessure dei testi, può provare – dall’interno degli edifici testuali – a gettare luce su spazi più vasti, ovvero – fuor di metafora – su questioni culturali più generali. In questo caso, su una doppia e fondamentale necessità propria di diversi ambienti del Medioevo volgare: ricodificare nelle lingue del sì l’esperienza religiosa, culturale, e politica che si era stratificata nei volgarizzamenti di materia storica e, al contempo, individuare i modi in cui poter lasciare, in volgare, memoria scritta del senso che le collettività assegnavano al loro riuso del passato e alla loro esperienza del presente.
12 Per questi aspetti cf. Vàrvaro (1993); Minervini (1994); per Villani e la scrittura della storia a Firenze le riflessioni di Porta (1995a; 1995b); Ragone (1998, vii–xv); per l’area meridionale, De Caprio (2012a; 2017a). Per confronti con altre aree e altri testi, cf. alcuni studi che, accanto ad analisi a grana fine, presentano anche un forte taglio teorico, come Spiegel (1997); Woolf (2000); Ward (2011); Pollmann (2016); gli studiosi di cronache insistono tutti su due aspetti: il fatto che la scrittura della storia e la riscrittura di testi preesistenti debbano fornire una conoscenza utile e uno strumento che guidi nelle scelte future della collettività; il carattere sempre orientato verso il presente della narrazione del passato. Del resto, su un piano filosofico e narratologico, in questa direzione vanno le analisi di Ricoeur (2003, 15–81) sul nesso fra tempo, memoria, sapere, scrittura, di cui valga almeno questa indicazione relativa al fatto che ricordare significa anche non «dover apprendere di nuovo» e che esiste un livello nel quale «ricordarsi e sapere si ricoprono interamente» (Ricoeur 2003, 40). 13 Segnalo che mi servo della nota terminologia di Genette (1997): ipotesto e ipertesto sono, rispettivamente, «il testo A fonte» e «il testo B che dal primo discende mediante operazioni di dilatazione e riduzione di natura sia qualitativa sia quantitativa». 14 A titolo d’esempio, analisi dei principî che informano le selezioni testuali operate sugli ipotesti nella tradizione cronachistica fiorentina sono in Porta (1989; 1995b); Ragone (1998, 1–80); per l’area meridionale, le sollecitazioni culturali cui cercano di rispondere le selezioni testuali dei cronisti sono indagate in De Caprio (2012a; 2017a).
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2 Un poliedro a quattro facce: aspetti contenutistici e formali del rapporto tra volgarizzamenti e scritture della storia Nel 1999, in pagine dense quanto meditate, Marino Zabbia ha ricostruito il quadro dei testi che trasferirono agli uomini dell’Italia bassomedioevale un certo modo – complesso e pluri-prospettico – di pensare e intendere la storia, di leggere e scrivere libri di storia.15 Lo studioso precisa che, accanto alle cronache in latino e in volgare, volgarizzamenti e compilazioni sono stati veri e propri testi-mediatori attraverso i quali i lettori – e tra questi gli stessi cronisti – poterono acquisire un quadro della storia antica e numerose notizie sui secoli del Medioevo. Le cronache di Vincenzo di Beauvais e di Martino Polono, i volgarizzamenti di materia romana e troiana – per limitarci ai riferimenti più significativi – andrebbero, quindi, studiati anche come testi mediante i quali, nel Medioevo volgare, era possibile impadronirsi di un mestiere sprovvisto di uno status particolare: quello di storico.16 Per gli obiettivi di questo contributo va esplicitato perché le riflessioni di Zabbia sono una via di accesso a una chiara comprensione degli aspetti formali di talune forme di scrittura storica. Sappiamo che, in area romanza, la cultura storica poggiava su un insieme di testi appartenenti a differenti tradizioni narrative, e situati in punti diversi di un lungo arco cronologico: testi storici classici e cristiani, epica classica e romanza, Bibbia e narrazioni agiografiche, compilazioni storiche e romanzi provenienti dalla Francia.17 Ampio era il canone degli storici; esso includeva un poeta epico come Lucano e spaziava dagli autori classici a quelli tardo-latini e cristiani, e poteva poi abbracciare i compilatori del XIII secolo e i cronisti medioevali. Per effetto di questa idea di narrazione storica, se non proprio allineati in un’indistinta continuità che congiungeva passato e presente, certo Sallustio e Livio, Eusebio, Girolamo e Orosio erano quantomeno virtualmente tutti disponibili a chi volesse trarre da loro notizie e riutilizzarle in scritture non solo redatte
15 Il riferimento è a Zabbia (1999). 16 Guenée (1991); Minervini (1993, 766); Zabbia (1999, 3). 17 In prospettiva romanza cf. almeno Minervini (1994, 280–281, in part. per la fluida linea di demarcazione tra discorso storico ed epico nella produzione del laboratorio di Alfonso il Saggio e per i legami di tipo formale – «segno di più profonde analogie» – tra discorso storico e romanzo nella produzione oitanica); per l’area italo-romanza cf. Minervini (1993); Ragone (1998, 1–13); Zabbia (1999, 1–30); Gualdo (2013); a partire da due specifiche aree culturali italo-romanze, il Regno e Roma, cf. il quadro offerto in De Caprio (2017); Gualdo (2017).
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in latino ma anche in volgare.18 Inoltre, accanto alle opere del periodo tardoantico e altomedioevale, le compilazioni di storia universale del XIII secolo e i volgarizzamenti costituirono un’importante fonte tanto di materiali quanto – come vedremo – di schemi narrativi. Nel suo complesso, anche attraverso il recupero di acquisizioni della tradizione classica (a partire dalla definizione – di derivazione ciceroniana – di storia come narratio rei gestae), la scrittura storica in volgare si presentava come un’originale (ri-)combinazione di materiali narrativi e di procedure atte a produrre un discorso scritto in grado di attenersi a un vincolo di verità: ciò fa sì che il campo delle scritture storiche medioevali si offra, al nostro sguardo, come caratterizzato da una «vera e propria proliferazione di forme e stili, con esiti spesso lontani tanto dalla produzione del mondo antico quanto da ciò che, secondo criteri moderni, si includerebbe nel genere storiografico» (Minervini 1993, 765). Come sottolinea Ragone (1998, 22–23), un esempio indicativo di questa commistione di testi è, ancora in pieno Trecento, il vi capitolo del ii libro della cronaca di Giovanni Villani: cioè di un autore che ambiva a «riassumere […] in un unico sforzo di comprensione storiografica una vicenda plurisecolare che aveva come epilogo il presente» cittadino (Ragone 1998, xii). Qui, come in altri luoghi, i dati dell’«evidente sperienzia» del cronista sono alternati a notizie desunte da Livio, Virgilio, Orosio: (1) E del detto fiume d’Arno le antiche storie fanno menzione: Vergilio nel vii libro dell’Eneidos parlando della gente che fu in aiuto al re Turno incontra Enea di Troia con questi versi […]; e Paulo Orosio raccontando in sue storie del fiume d’Arno disse che quando Anibal di Cartagine, tornando di Spagna in Italia, passò le montagne d’Appennino […], in quel luogo dice che […] sì perdé tutti gli suoi leofanti […]. Ma e’ si truova, e per evidente sperienzia si vede, che la detta pietra Golfolina per maestri con picconi e scarpelli fu tagliata e dibassata, per modo che ’l corso del fiume d’Arno calò e dibassò, sicché i detti paduli scemaro e rimasero terra guadagnabile. Bene racconta Tito Livio quasi per simili parole, dicendo che ’l passo, e dove s’acampò Anibal, fu tra la città di Fiesole e quella d’Arezzo. (Villani, Nuova Cronica, 70 [libro ii, cap. 6])
18 Su questo complesso canone cf. Guenée (1991); Minervini (1994, 279–280); Courroux (2017). Zabbia (1999, 20–30) offre, per testi latini, diversi esempi di questa articolazione e del conseguente utilizzo, nello stesso testo, di Isidoro di Siviglia, Beda, accanto a Ovidio e Virgilio e alla Bibbia.
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Continuiamo a porci sulla scia di quanti si sono interrogati sul rapporto tra i volgarizzamenti e le forme del discorso in volgare sulla storia: mettiamo meglio a fuoco i caratteri di questa relazione. Verso il campo di scritture volgarizzate di argomento storico i lettori del Medioevo volgare dimostravano una disponibilità che possiamo rappresentare attraverso l’immagine di un poliedro a quattro facce. In primo luogo, come si è detto, i volgarizzamenti fornivano eventi e nomi (e quindi cellule narrative legate a quei nomi): le res gestae, insomma, di volta in volta coincidenti con la creazione del mondo, con le storie di popoli, e di guerre e battaglie, come quelle di Troia e Roma o con tutte questi fatti insieme, secondo il modello delle Historiae di Orosio volgarizzate da Giamboni. Ma, a ben vedere, quando parliamo di cellule narrative, già guardiamo una seconda faccia del nostro tetraedro; mi riferisco alla possibilità di mutuare da altri testi (ovvero, nei termini di Genette, dagli ipotesti) la cassetta degli essenziali strumenti di lavoro: modalità narrative, procedimenti stilistici, parole-chiave e campi metaforici utili, per esempio, per descrivere e narrare battaglie e assedi, carestie o alluvioni. In effetti, pur nella diversità dei contesti e della relazione che ciascun ipertesto instaura coi suoi ipotesti, un dato è stato più volte sottolineato negli studi sulle forme della scrittura storica romanza: le narrazioni epiche e romanzesche, la Bibbia e i testi agiografici, e le scritture documentarie dotate della autorevolezza della publica fides furono anche un serbatoio di tecniche narrative e di modelli stilistici a cui i cronisti poterono attingere; e di cui ebbero, in certo senso, bisogno proprio per far fronte all’assenza di uno statuto professionale ben definito, e per posizionarsi all’interno delle sfilacciate dimensioni autoriali della scrittura storica in volgare. Allo stesso modo, anche per le compilazioni storiche mediolatine del XIII secolo, è stato mostrato che, da un canto, esse resero fruibile il sapere storico-geografico in esse depositato, mentre dall’altro indicarono i possibili modi di ordinata consultazione di quel sapere.19 Se ora guardiamo alla relazione fra i volgarizzamenti di materia storica e le scritture cronachistiche originali, possiamo egualmente domandarci in che misura – e per quali testi e in quali ambienti e cerchie culturali – la lettura di volgarizzamenti non solo sia stata essa stessa percepita, nell’orizzonte d’attesa dei lettori, come parte di quell’intrattenimento istruttivo (e, in misura non marginale, sempre salvifico e portatore di senso) che è proprio del discorso storico, ma 19 Sulle compilazioni e sulla elaborazione di strumenti di consultazione cf. Guenée (1991); Zabbia (1999, 2–5); il saggio di Barone in Francesconi/Miglio (2017). Per gli aspetti sintatticotestuali delle enciclopedie e dei testi didascalici e scientifici limito il rimando a Librandi (2004). Per l’elaborazione di strategie di fruizione dei commenti volgari alla Commedia e per il loro rapporto con la tradizione enciclopedica e scientifica cf. De Caprio (2017b).
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abbia anche potenziato lo sviluppo di tecniche compilative, abilità compositive, stili di narrazione. Insomma, è possibile, caso per caso, rispondere alla domanda relativa ai modi in cui i volgarizzamenti hanno dialogato con le cronache, le storie universali e quel complesso insieme di testi che hanno costituito il «tessuto connettivo» della scrittura storica e della «cultura storiografica» in volgare?20 Per meglio articolare la prospettiva di ricerca sottesa alla domanda appena formulata, va aggiunto che questa riflessione va estesa ai supporti materiali (e siamo ora alla terza faccia del tetraedro): è, cioè, opportuno stabilire quali siano state le influenze e le analogie tra volgarizzamenti di argomento storico e cronache anche nel caso della morfologia materiale dei testi. In relazione ai modi della mise en page e della mise en texte, è infatti possibile analizzare le tracce e le cicatrici lasciate, nella materialità dei supporti, dai tentativi di assemblare disparati ipotesti in nuovi organismi testuali: in tal modo emergono elementi utili per comprendere com’era realizzata la costruzione del testo all’interno degli spazi bianchi del codice.21 Infine – e veniamo alla quarta e ultima faccia del tetraedro – la relazione tra volgarizzamenti e cronache può essere indagata prestando attenzione alla cultura storiografica degli scriventi. In questa prospettiva, cioè, è lecito chiedersi se esistano coincidenze tra volgarizzamenti di materia storica, compendi, compilazioni, e storie e cronache rispetto ad alcuni parametri di critica storiografica: per esempio, quelli adottati per ancorare le narrazioni al necessario vincolo di verità fattuale o per indicare ai lettori la qualità delle notizie o, ancora, per segnalare loro la differenza tra gli eventi visti e uditi e quelli raccontati da altri testimoni o letti nelle fonti. Indicativi della sensibilità storiografica degli scriventi, questi parametri trovano puntuale espressione nelle scelte lessicali e nelle formule sintattico-testuali attraverso le quali il lettore è guidato all’interno della narrazione.22
20 Zabbia (1999, 3). 21 Tengo qui conto di Vàrvaro (1999); Meneghetti (2013); Leonardi (2014). Intendo per «cicatrici» del testo i punti in cui, anche in presenza di un’ordinata disposizione materiale nello spazio bianco della carta, elementi di natura linguistica o narratologica, talvolta di àmbito paratestuale, rivelano un’originaria separatezza dei materiali fatti confluire nel nuovo testo. Riutilizzando in modo originale alcune etichette della filologia genetica francese, potremmo dire che le cicatrici del testo consentono di cogliere il processo mediante il quale materiali esterni ed esogenetici vengono rifunzionalizzati e trasformati in materiali interni, cioè endogenetici (la distinzione esogenesi/endogenesi si legge in Debray-Genette 1979, 23–67; per una sua applicazione in àmbito cronachistico sia consentito rimandare a De Caprio 2012a, 163–171). 22 Cf. Zabbia (1999, 10–11) per il ruolo di volgarizzamenti e opere storiche in latino nel determinare «l’accoglimento dei motivi storiografici in essi contenuti anche nella cronachistica cittadina» [sc. latina, per Zabbia] e per la progressiva «circolazione e ricezione» di comuni fondamenti di «cultura storiografica». In questa prospettiva, cf. anche Miglio (1991).
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Vediamo, allora, che cosa ci rivelano alcune immagini e alcuni luoghi testuali analizzando proprio lessico e soluzioni sintattico-testuali.
3 Registrare e narrare. Il fantasma del testimone, le parole del narratore e il gesto del compilatore Per iniziare il nostro percorso, mettiamo a fuoco il nesso tra la figura del testimone e quella di colui che scrive testi storici. A questo riguardo, tra il XIII e il XIV secolo, cioè a cavallo tra i secoli delle grandi enciclopedie e delle sintesi di storia, Binduccio dello Scelto, nel suo volgarizzamento del Roman de Troie, ci restituisce un’immagine cui siamo tentati di attribuire particolare significato; in essa sembrano addensarsi singole cellule che compongono il tessuto connettivo della riflessione sul senso della scrittura storica, per come esso si è andato depositando nei volgarizzamenti e nei testi storici in volgare:23 (2) Ma perciò che questo Homero non fu poi apresso cento anni nato che Troia fu distrutta e disertata, non fu niente suo libro per verità creduto, ché non avea di ciò niente veduto. Et quando Homero ebbe suo libro facto ed e’ fu a la città d’Athenia portato e lecto infra savi scolari, sì lo volsero per ragione dannare, però ch’egli avea fatti gli dij combattare cogli uomini carnali; et similemente facea le die combattere cho’ Troiani; la qual cosa ebbero in grande follia. Ma perciò che Homero era molto savio poeta, sì fu suo libro in auctorità messo e ricevuto. (Binduccio, Storia di Troia, 81–82) (3) Questo Dario fu troiano e mai poi che ’l sedio fu fermato non si partì di Troia: sì vedea e udiva ciò che vi si facea. E tutto ciò che ’l giorno si facea in combattere o in parlamenti, mettea la nocte in iscripto […]. E sì vi dico ben veracemente, che perch’egli fusse troiano, non volse egli niente ritrare né dire per amore ch’egli avesse a’ Troiani, né per hodio ch’egli avesse a’ Greci, se non la verità. (Binduccio, Storia di Troia, 82) Proviamo a osservare i singoli frammenti tissutali riportati in (2) e (3). Binduccio ci dice che uno dei nodi della scrittura della storia nel Medioevo è l’esistenza di un rapporto di simultaneità e «perfetta contemporaneità» (Ragone 1998, 5) tra gli
23 Per il passo che segue cf. le riflessioni consegnate ai lavori di Ragone (1998, 4–6) e Zabbia (1999, 20–30).
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eventi e la loro notazione da parte di un testimone oculare: è in ragione di questo rapporto che a Omero «che non avea […] niente veduto» (2), può essere preferito Dario. Per quest’ultimo viene impiegata l’immagine del cronista-reporter; nel silenzio della notte (possiamo inferire noi lettori), Dario mette per iscritto ciò che ha visto e udito nei teatri di guerra: azioni e parole («tutto ciò che […] si facea in combattere o in parlamenti»), come ci viene detto in (3).24 Siamo dinanzi al paradigma del cronista come testimone di cose viste e udite, un paradigma di cui abbiamo molteplici allegazioni nelle cronache fiorentine di Compagni e Villani, così come in quella di Anonimo romano.25 Ma ciò che qui interessa è il fatto che il passo di Binduccio faccia emergere anche un secondo aspetto, cioè la complessità del rapporto tra (scritture di) registrazione e (scritture di) narrazione; a questo riguardo, sarà bene intendere la pura registrazione e la narrazione non come due entità che si danno in modo oppositivo, ma come due poli di una sequenza continua di atti di scrittura: uno spettro la cui unità è data dal comune rapporto col tempo e con i «fenomeni mnemonici», secondo la prospettiva di Ricoeur (2003, 42), cui qui ci si rifà.26 Binduccio ci fa vedere un Dario che mette per iscritto azioni e parole: il volgarizzatore ci propone, quindi, l’immagine di chi si dedica a una scrittura che si orienta verso il polo della registrazione sincrona (scrittura della registrazione). Eppure, resta implicito nella sua immagine il fatto che esista, comunque, un passaggio dalla corposità sonora delle parole pronunciate alla diversa natura di quelle scritte; dallo spasmo delle azioni di guerra e dalla violenta fisicità delle battaglie alla loro rappresentazione. Perciò, quasi senza volerlo, l’immagine del volgarizzamento rivela lo scacco di ogni scrittura di registrazione: e lo fa istituendo una distanza temporale e
24 Gozzi (2000, 10) definisce il De excidio Troiae historia di Darete Frigio e gli Ephemeridos belli Troiani libri di Ditti Cretese «reportages dei luoghi di operazione». Cf. anche il contributo di Simone Pregnolato infra, in part p. 331. 25 Non provo nemmeno a dare qui conto della bibliografia su questo paradigma nella scrittura storica del Medioevo. In termini generali, cf. però Hartog (1999) e Pomian (2001); in modo pertinente rispetto all’oggetto qui in esame, segnalo, per l’area galloromanza, Corroux (2016, 65–89); per i testi storici in volgare di area italoromanza, e in ottica storico-linguistica, cf. De Caprio (2012a); Colussi (2014); De Roberto (2015). 26 Ricoeur (2003, 42–66) distingue diverse forme del ricordare; ai nostri fini, sulla scia di Mordenti (2017), è utile richiamare la distinzione fra il «sopraggiungere attuale di un ricordo (mnéme) e la dimensione cognitiva e il «carattere di sapere» della memoria, l’anamnesis: «l’ana di anamnesis significa ritorno, ripresa, recupero di ciò che è stato precedentemente visto, provato, o appreso» (ibid., 45). Nella prospettiva di Mordenti, le scritture della memoria possono collocarsi tra questi due poli e partecipare dei caratteri propri del ricordo-mnéme (le scritture di mera registrazione) o di quelli della memoria-anamnesis (le scritture di narrazione).
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spaziale tra il fragore delle azioni e delle parole del giorno e la solitudine della scrittura della notte; giacché, nel momento stesso in cui esiste questo diaframma temporale e spaziale, le azioni e le parole sono filtrate da una mente che è chiamata a compiere un atto di scrittura che si sposta verso il polo dell’anamnesi, che, cioè, diventa sapere e «capacità-di-fare»: l’anamnesi («il ricordarsi come» e non solo «il ricordarsi che») è l’atto di ricostruire attraverso la scrittura e la narrazione ciò che, altrimenti, sarebbe morto e perso, perché non più attivo e capace di generare azioni. In questo modo, in forme di volta in volta più o meno evidenti, il discorso storico e quello cronachistico partecipano «in modo costitutivo della narratività» (Mordenti 2017, 338). Se eccede gli obiettivi di questo lavoro fornire un sistematico inventario dei luoghi in cui anche i cronisti si qualificano come testimoni, è però opportuno richiamare il celebre passo in cui Anonimo romano sottolinea il ruolo della testimonianza personale, ma anche la necessità d’inserire, all’interno del suo testo, dei «marchi di storicità».27 Nella sua cronaca, da un canto, l’esperienza personale viene presentata come lo strumento attraverso il quale è possibile venire a conoscenza del flusso di eventi in cui lo stesso storico è immerso («le viddi e sentille»); dall’altro, sono sottolineati il carattere fededegno dell’intera ricostruzione narrativa e la presenza nel testo di «segnali» che rendono «non suspietto» l’atto stesso di narrare: (4) Quello che io scrivo sì ène fermamente vero. E de ciò me sia testimonio Dio e quelli li quali mo’ vivo con meco, ché le infrascritte cose fuoro vere. E io le viddi e sentille: massimamente alcuna cosa che fu in mio paiese intesi da perzone fidedegne, le quale concordavano ad uno. E de ciò io poneraio certi segnali, secunno la materia curze, li quali fuoro concurrienti con esse cose. Questi segnali farrao lo leiere essere certo e non suspietto de mio dicere. (Anonimo romano, Cronica, 5) A ulteriore titolo d’esempio, ci volgiamo ai testi di Compagni e Villani. Anche in questi due cronisti sono tra loro interconnessi i procedimenti mediante i quali emerge il nome dell’autore e quelli attraverso cui è potenziato l’ancoraggio della narrazione alla realtà extra-testuale: a quest’ultima funzione servono, infatti, anche le ripetute affermazioni relative alla propria presenza ai fatti narrati. 27 Uso qui il sintagma con cui Pomian (2001, 53–79) designa quegli elementi formali che fanno di un testo un testo storico: questi «indicatori testuali» ancorano il testo a un fuori-testo e ne segnalano la non-autosufficienza rispetto a una realtà esterna al testo stesso. Per osservazioni di taglio narratologico e testuale, cf. su questo luogo di Anonimo romano e sulle possibili lacune Seibt (2000); Campanelli (2013); Bertolini (2017, 153).
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Andrà sottolineato che, auto-qualificandosi mediante attributi legati al loro ruolo all’interno della comunità cittadina, i cronisti permettono al testo di sprigionare la sua forza performativa. Tanto l’autorevolezza della testimonianza originaria, quanto lo scrupolo nel costruire una narrazione credibile rendono la cronaca un riconoscibile strumento attraverso il quale esprimere un senso di responsabilità civica e fornire un’interpretazione in grado di orientare anche le interpretazioni altrui. Mi limito ad allegare alcuni passi di Compagni: in essi è possibile riconoscere il gioco di possibilità offerto dal modulo formulare «io + nome proprio». Nel suo testo, infatti, al nome proprio si accompagnano altre designazioni che qualificano il cronista – e i suoi intenti – all’interno della comunità; e seguono poi le parole e i pensieri stessi del Compagni-agens restituite attraverso la forma – ricca di pathos e di evidenza – del Discorso Diretto:28 (5) Ritrovandomi in detto consiglio io Dino Compagni, disideroso d’unità e pace fra’ cittadini, avanti si partissono dissi [segue Discorso Diretto]. (Compagni, Cronica, 52 [libro i, xxiv, 127]). (6) Stando le cose in questi termini, a me Dino venne un santo e onesto pensiero, immaginando: [segue Discorso Diretto]. (Compagni, Cronica, 60 [libro ii, viii, 30]) Sin qui abbiamo rintracciato alcuni luoghi testuali in cui si accampa, nella forma dell’auto-nominazione, la figura del cronista in quanto testimone, ma anche in quanto autorevole membro della comunità; vorrei ora dedicare una seconda parte del paragrafo a rintracciare parole e formule significative per ricostruire altri modi di fornire immagini di chi scriveva un testo storico. In prima battuta, come chiarito supra (§1), si tratta di un percorso che guarda al nesso tra la nominazione dell’autore e l’atto di narrare, così che sia possibile cominciare a mettere a fuoco l’immagine dello storico-narratore e cogliere differenze e analogie nelle scelte lessicali attestate. In previsione di più ampi spogli, richiamo l’interesse del volgarizzamento di Orosio da parte di Bono Giamboni per
28 Analisi di queste soluzioni nel puntualissimo commento di Davide Cappi all’edizione della Cronica di Compagni (in part. cf. Compagni, Cronica, 119). Si noti che in altri punti, invece, Compagni narra della sua presenza adottando la terza persona (cf. le osservazioni di Cappi in ibid., 140–141, a commento dei passi del i libro); per Villani, utilissimo Ragone (1998). In generale, su questi aspetti, si possono leggere con molto profitto le analisi di Colussi (2014) e De Roberto (2015); a partire da testi di area meridionale cf. De Caprio (2012a; 2017a).
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un inventario delle parole e delle formule con cui vengono definiti sia chi scrive sia l’oggetto testuale nella sua struttura e nelle sue transizioni di senso. In questa prospettiva, vorrei almeno segnalare la scelta del termine «raccontatore di storie» con cui Giamboni, sin dall’apertura del volgarizzamento, ripetutamente designa il suo autore, Orosio – si offre qui un caso in (7) –, con una rara opzione lessicale che rintracciamo anche nel volgarizzamento di Filippo da Santa Croce, come mostra l’occorrenza in (8):29 (7) Incominciasi lo libro di Paulo Orosio racontatore di storie, translatato de la gramatica in volgare per Bono Giamboni. (Bono Giamboni, Orosio, 1 [libro i]) (8) Comincia il prologo di Tito Livio, cittadino di Roma, nato in Padova, raccontatore delle storie romane. (Filippo da Santa Croce, Deca prima di Tito Livio, 1 [prologo]) Si noterà ancora che, a partire da strutture dell’ipotesto, nel volgarizzamento di Giamboni, la voce del «raccontatore di storie» è restituita mediante una serie di pattern che consentono di mettere a fuoco la relazione tra istanza enunciativa e lettore; si tratta di sequenze formulari che, occorrendo in più punti del testo, marcano alcuni snodi: (9)
[…] sì ti voglio ora mostrare i confini… (Giamboni, Orosio, 4.4 [libro i])
(10) […] or ti voglio mostrare quelle de Heuropa … (Giamboni, Orosio, 13.1 [libro i]) (11) Ma ti voglio dire ciò ke contiene il Danubio… (Giamboni, Orosio, 13.3 [libro i]) (12) Ma una cosa voglio ke sappie… (Giamboni, Orosio, 34.1 [libro i]) (13) Et acciò ke brievemente ti dica … / […] acciò ke brievemente ti dica la sua crudeltade et l’abondança de la sua malitia… (Giamboni, Orosio, 6.1 [libro vi] e 4.1 [libro vii]) (14) […] come di sopra ti dissi… / […] come per innançi ti dirò… (Giamboni, Orosio, 2.2 [libro vii] e 13.1 [libro iii]) 29 «Raccontatore» in Bono è termine con cui si designano anche altre figure, tra cui Svetonio: «secondamente ke Seutonio racontatore di storie disse» (Bono Giamboni, Orosio, 8.15 [libro vi]); «cciò ke usi le parole di Seutonio Tranquillo racontatore di storie» (Bono Giamboni, Orosio, 5.4 [libro vii]).
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Tipiche di diverse tradizioni discorsive, queste formule funzionano da indicatori di dialogo col lettore.30 Esse, infatti, mostrano in modo esplicito la rilevanza di alcuni luoghi – cf. gli esempi (9)–(12) – o la quantità d’informazione (il dire brevemente) che viene riservata a un determinato evento (13). Ancora, sotto forma di subordinate con funzione meta-testuale, queste soluzioni formulari possono far spostare il lettore indietro o in avanti nel testo: attraverso un rimando anaforico, infatti, queste strutture richiamano quanto è già stato narrato; oppure, mediante un’anticipazione cataforica, menzionano la materia successiva (14). Vengo ora all’ultima delle tre modalità di rappresentare l’autore, quella più legata alla materialità del testo: nel §1, non a caso, ho parlato dell’autore come assemblatore e storico(/cronista)-compositore. In quest’ultima costellazione di parole e immagini, nelle scelte lessicali e nelle soluzioni formulari – più che l’atto attraverso il quale i materiali sono articolati in un’architettura di senso – sono in primo piano i gesti concreti con cui prendono forma, all’interno di codici miscellanei, testi a «costanza debole» e con un «basso gradiente» di coerenza narrativa (Vàrvaro 1999, 402). È questo, per esempio, quanto si registra nelle prime due parti della Cronaca di Partenope (CrP). Gioverà qui ricordare che le prime due parti dell’agglomerato di età angioino-durazzesca sono costituite attraverso processi di traduzione dal latino e di riduzione – qualitativa e quantitativa – di fonti di argomento e fattura assai disparate: dalle narrazioni agiografiche alle descrizioni storico-geografiche; dalle scarne notazioni dinastiche alle storie ereditate dalla classicità e da Livio sino alle leggende medioevali su Virgilio.31 Ciò che qui preme mettere in evidenza è che, in entrambe le redazioni giunte sino a noi, la rubrica iniziale descrive la costruzione della cronaca come un processo di assemblaggio e composizione di fonti eterogenee: (15) De la cità de Napoli, la quale inter l’altre citate de lo mundo per multitudene de’ cavaliere et di lloro dilecti et ponpose ricchicze, avea acquistata fama grandissima. Le quale cose se innarrano tucte in diversi volume de libre sicché et in queste presente croniche tucte so’ conposte. (CrP, redazione A, ms. M, c. 23ra, rr. 1–8; cf. Kelly 2011, 165)
30 La funzione eminentemente testuale di queste strutture formulari è stata ben descritta in relazione alla prosa didattica e scientifica, per la quale cf. almeno Librandi (2004); Giovanardi/ De Roberto (2015); per i commenti danteschi, cf. De Caprio (2017b). 31 Rimando a De Caprio (2012a); Montuori (2012); De Caprio (2017a); Montuori (2017). Nel prosieguo dell’analisi, mi avvalgo di lavori di scavo di cui ho dato conto in De Caprio (2017a).
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(16) Di la cità di Napoli, la quale inter l’altre cità dil m[undo] per la moltitudine dey cavalieri e di lloro pompos[e] e dilecte ricchicze, ave acquistata fama grandissim[a]. Le quale chuose tucte se narrano in diversi volumi e coroniche et in questa presente scriptura si componino. (CrP, redazione B, ms. P, c. 1r, rr. 1–6) Pur nella loro vaghezza, i termini che definiscono il testo e le sue fonti posseggono una qualche forza interpretativa. In primo luogo, le due versioni della rubrica offrono, in diversa combinazione, quattro lessemi: volume, libro, cronaca, scrittura. Come è stato evidenziato da Ragone (1998, 111), nella tradizione cronachistica volgare libro e volume rimandano al ‘contenitore dell’opera’, descritto e percepito nel suo assetto materiale e nelle sue dimensioni. Si tratta di un uso diffuso in testi cronachistici due-trecenteschi; in area toscana, leggiamo di un libro di croniche in Paolino Pieri, così come di un librecto in Giovanni Sercambi; con più ampia oscillazione lessicale, Giovanni Villani utilizza le designazioni di libro, opera, trattato, cronica: quest’ultimo, secondo l’uso dei cronisti in latino, a indicare la dimensione temporale che governa l’ordinamento della materia e anche «un’operazione di composizione, successiva e distinta da quella di registrazione» (Ragone 1998, 112). Verificata questa comune attenzione dei cronisti per la definizione del proprio testo, anche in quanto oggetto-libro, torniamo alla CrP. Mi sembra interessante osservare, in ciascuna delle due rubriche, a che cosa si riferiscono le quattro voci (la CrP o le sue fonti) e che rapporto vi sia tra esse. Ebbene, nella redazione A (ms. M), il termine cronaca è riferito, al plurale, al nuovo testo, frutto del lavoro di ricomposizione delle fonti («in queste presente croniche»): la rubrica della redazione A descrive l’attività di composizione del nuovo testo come un percorso che, a partire da narrazioni generiche («cose se innarrano tucte in diversi volume de libre»), porta alla costruzione di un testo con un più evidente focus di tipo storico. Invece, nella redazione B (ms. P), il medesimo termine, al plurale, individua una delle due fonti utilizzate («Le quale chuose tucte se narrano in diversi volumi e coroniche»): una fonte più specifica sotto il profilo tematico e contenutistico rispetto ai generici volumi. Potremmo così dire che la dittologia volumi e croniche della rubrica della redazione B fa emergere un quadro delle fonti bipartito in una coppia oppositiva: cronache, da un lato; altri tipi di narrazioni, dall’altro. Merita d’essere evidenziato un altro dato relativo alle scelte lessicali che in CrP ci restituiscono l’immagine di colui che costruisce il testo cronachistico. I processi di traduzione e riduzione che presiedono alla formazione di queste parti del corpus vengono riconnessi alla figura di un compositore; una figura che così si auto-nomina nel testo, in uno dei pochi luoghi in cui dialoga col lettore, rendendo percepibili la sua presenza e la sua voce:
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[I]nter l’altre et varie cose che so’ in presencia de me compositore de quisto libro solamente scrivere una cosa non m’è greve. (CrP, redazione A, ms. M, c. 35vb, rr. 12–15; cf. Kelly 2011, 210)
A questa altezza cronologica, in area italo-romanza la voce compositore è documentata nell’accezione generica di ‘autore’; ma nel passo in (17) essa sembrerebbe mantenere un legame semantico con quel valore della parola che rinvia all’attività di raccolta e assemblaggio di materiali di diversa provenienza. Se colleghiamo questa attestazione di compositore alle due occorrenze del verbo comporre presenti nelle rubriche in (15) e (16), possiamo forse meglio precisare la sfumatura con cui è usato il verbo: comporre è impiegato nel senso di ‘formare un tutto dall’unione di più elementi’; o, con una definizione che valorizza maggiormente il carattere letterario dell’operazione, ‘accorpare materiali narrativi, tratti da fonti diverse, in una nuova struttura’.32 Il corpus napoletano – mi pare – ci mostra in modo chiaro la natura del dialogo tra le due esperienze del tradurre e del comporre testi storici in volgare: non solo le attività di traduzione e composizione potevano sovrapporsi nelle concrete prassi di lavoro, ma – più in generale – ciascun testo si andava progressivamente costituendo a partire dal negoziato tra un compositore e i suoi ipotesti, latini o volgari. Questo caso ribadisce, ancora una volta, il fatto che, nei testi storici e cronachistici a basso gradiente di autorialità, nell’istanza narrativa e nella voce che talvolta dice «io» possono combinarsi e intrecciarsi più personalità, impegnate in molteplici processi di traduzione e composizione. Del resto, come Rico (1997, 151) insegna, nel Medioevo romanzo è ben vero che: cada copia no podía sino reflejar el impulso que le había dado origen, porque una obra en vulgar no se trasladaba sino era en respuesta al encargo de un aficionado, o más comúnemente, al gusto del mismo transcriptor, a quien, por el mero hecho de serlo, hemos de suponer singularmente interesado por la obra en cuestión.
4 Disegnare una mappa Se il lessico e le soluzioni sintattico-testuali possono essere indicativi della cultura storiografica degli scriventi, proprio i quattro elementi passati in rassegna nel §2 32 Ricordo che in TLIO s.v. comporre ben si coglie il passaggio dal ‘mettere insieme’, ‘formare un tutto organico’ a ‘produrre un testo’. Sul valore delle tecniche di composizione e compilazione, cioè di accorpamento di fonti, nella storiografia fiorentina, cf. Ragone (1998, 112–114).
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ed esemplificati nel §3 supra sono per noi utili per ricostruire la relazione tra la lingua della storia e le prassi del fare storia in volgare. Se è vero che il testo storico ha bisogno di «marchi» e «indicatori» (nel senso dato da Pomian) attraverso i quali consegnare ai lettori vicende passate sottoposte a processi di accertamento del vero, non si può non riconoscere che, in certo modo, da «marchi» di storicità funzionano anche le immagini con le quali si descrive lo storico (in quanto)-testimone, così come le parole e le formule con cui si designano sia colui che compie l’atto di narrare eventi realmente accaduti (lo storico (in quanto)-narratore), sia colui che di questo atto si assume la responsabilità dinanzi a una collettività selezionando e assemblando testi pre-esistenti (lo storico (in quanto)-compositore). Ed è qui che entrano in gioco i volgarizzamenti dei testi latini e francesi; infatti, delle parole e delle formule che leggevano nei testi storici già scritti da altri, gli uomini del Medioevo volgare fecero uno specchio: uno specchio in grado di restituire loro, attraverso diversi gradi di deformazione, alcune possibili forme dell’autorialità. A nostra volta, delle immagini che emergono da questo atto di rispecchiamento in testi antichi o memorabili – e in ogni caso fondativi e antesignani – possiamo fare uno strumento per isolare aree centrali e periferie, sbalzi e faglie, rilievi e depressioni nell’amplissima mappa che racchiude l’esperienza della storia del Medioevo volgare.
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Enrico Faini
Vegezio e Orosio: storia, cavalleria e politica nella Firenze del tardo Duecento Abstract: In his major vernacularisations (Vegetius’ Epitoma rei militaris and Orosius’ Historiarum adversus paganos libri septem), Bono Giamboni presents a modernised version of ancient Rome, more congruent with the time of the Italian city-states. Was this an effect of the limited vocabulary available to Bono at the time, or were his lexical choices in fact intentional devices? This essay highlights some passages through which one can deduce that Bono deliberately superimposed the two historical periods, indicating that his works were artfully written as powerful vehicles for spreading a new political culture among the lower social classes. Keywords: cavalry; politics; historiography; city-communes; magnates
1 Volgarizzare e attualizzare E allotta fece cavalieri servi ch’avessero forza, che vi vennero con loro volontà, o dando loro soldo, promettendo di farli liberi, e dare loro cavalleria. E l’arme che loro menovaro trassero delle chiese; ed essendo la camera del Comune povera, delle ricchezze degli uomeni speziali si riempieo.1
A scrivere queste cose non è Dino Compagni, non è un cronista vissuto a cavallo del 1300; è piuttosto uno storico della tarda latinità, prete e amico di Agostino d’Ippona: Paolo Orosio.2 Nonostante il sapore comunale di questa notizia, si tratta di un brano delle Historiae adversus paganos, in particolare del passo relativo alla 1 Tassi (1849, 243–244); questo il passo latino: «Tunc etiam seruos spectati roboris ac uoluntatis uel oblatos uel, si ita opus fuit, publico pretio emptos sub titulo libertati sacramento militiae adegit. Arma quae deerant templis detraxerunt; egenti aerario priuatae opes refusae sunt» (Arnaud-Lindet 1990–1991, 4, 16, 8). 2 Uno studio complessivo dell’opera storiografica di Orosio è in Fabbrini (1979). Nota: Desidero ringraziare Silvia Diacciati per l’attenta lettura e gli utili consigli. Quanto rimane di impreciso e inesatto deve essere attribuito interamente alla mia responsabilità. Indirizzo di corrispondenza: Prof. Dr. Enrico Faini, Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo, Università degli Studi di Firenze, Via San Gallo 10, I-50129 Firenze. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-010
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disperata reazione romana dopo il disastro di Canne durante la seconda guerra punica (216 a.C.). Lo straniamento che ci coglie di fronte a questa consapevolezza è un effetto della lingua di traduzione: il volgare fiorentino. Il volgarizzatore – Bono Giamboni – impiegò, con ogni evidenza, il lessico che aveva a disposizione. Bono tradusse con «fece cavalieri» quello che in latino era «sacramento militiae adegit», trasformando dei legionari in cavalieri. Tradusse «aerarium» con «camera del Comune», trasformando un’istituzione peculiare della Roma antica in un istituto diffuso nelle città dei sui tempi. Tradusse infine «templa» con «chiese», trasformando gli abitanti della Roma repubblicana in cristiani ante litteram. L’effetto attualizzante è indotto solo dalla povertà lessicale oppure è la conseguenza di una scelta precisa? Qualora si voglia indagare l’intenzione comunicativa del volgarizzatore, si tratta di un problema ineludibile.3 Non si potrà, in questa sede, offrire una soluzione definitiva, vista la limitata competenza di chi scrive nel campo degli studi linguistici, letterari e filologici; si cercherà, tuttavia, di offrire qualche ulteriore elemento di valutazione alla luce del contesto politico e sociale entro il quale avvenne l’operazione di volgarizzamento. I volgarizzamenti di Bono – in particolare quello di Orosio e quello dell’Epitoma rei militaris di Vegezio – potrebbero esser state operazioni culturali intelligenti ed efficaci.4 Rivestire di panni moderni le storie antiche poteva equivalere a fondare alcune idee nuove su autorità riconosciute. Significava, forse, invocare Orosio e Vegezio a sostegno di un’opinione politica. Ma quale?
2 Il contesto Gli studiosi non hanno ancora collocato nel tempo con precisione la produzione del Giamboni e non possediamo neppure una cronologia relativa delle opere. In genere si scrive che i suoi lavori sono anteriori al 1292, ovvero all’ultima sua attestazione in vita. Sulla base di alcune tracce documentarie della sua attività di giudice, il periodo di possibile scrittura è stato collocato nel trentennio che
3 Sul tema dell’attualizzazione intenzionale attraverso precise scelte lessicali cf. il caso dell’autovolgarizzamento di Bartolomeo da San Concordio (gli Ammaestramenti degli Antichi): Conte (i.c.s.; ringrazio la studiosa per avermi messo a disposizione questo importante saggio ancora inedito). Il quadro generale degli studi sul tema dei volgarizzamenti è noto a chi scrive in primo luogo sulla base di Segre (1995). 4 Il volgarizzamento di Vegezio è anch’esso pubblicato in un’edizione ottocentesca: Fontani (1815).
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va dal 1260 al 1292.5 Si tratta di una delle fasi più turbolente e studiate della storia fiorentina.6 Siamo negli anni dello scontro incrociato tra le fazioni guelfa e ghibellina e tra la «nobiltà» e il Popolo. È soprattutto sulla seconda di queste opposizioni che dobbiamo soffermarci. Dagli inizi del Duecento, un po’ in tutta l’Italia comunale, il vecchio gruppo dirigente era diventato sempre meno permeabile alle ascese sociali e aveva creato una folta schiera di esclusi.7 Entro la prima metà del secolo gli interessi convergenti dei nuovi ricchi emarginati dal governo e dei meno abbienti, vessati dallo stile di vita violento del gruppo dominante, sfociarono in quasi tutte le città del Centro-Nord nella costituzione di movimenti politici che la storiografia ha ricondotto alla denominazione unitaria di Popolo.8 Solo in una manciata di città, tuttavia, questi movimenti costituirono veri e propri regimi popolari in grado di scalzare l’egemonia politica dell’aristocrazia dei milites.9 A Firenze ciò avvenne tra il 1250 e il 1260. Il disastro successivo a Montaperti impose per una ventina d’anni governi di diverso colore, caratterizzati comunque da un ruolo nuovamente determinante del vecchio gruppo dominante, prudentemente aperto allo strato superiore della dirigenza già popolare.10 Il movimento del Popolo non si era affatto spento, sostenuto com’era sia dal suo radicamento nelle corporazioni di mestiere (le artes), sia dall’opera di intellettuali particolarmente influenti: tra questi, come è noto, Brunetto Latini e, io credo, Bono Giamboni; esso aveva, tuttavia, cambiato pelle e al suo interno si era venuto affermando un gruppo dirigente dotato di buone disponibilità economiche e provate competenze di governo.11 Dal 1282 questi popolani imposero alla città una nuova configurazione istituzionale entro la quale il ruolo delle arti risultava centrale.12 5 Il profilo biografico di Bono può esser ricavato da Debenedetti (1912–1913), Speroni (1994; cf. soprattutto l’introduzione), Foà (2000) e Diacciati (2011, 240–241). 6 Cercherò di offrirne una sintesi sulla base dello studio di Silvia Diacciati citato nella nota precedente. 7 Cf. Maire Vigueur (2004, in part. l’ultimo capitolo). 8 Per il contesto italiano si può far riferimento all’ancora utile Koenig (1986). Sulle istanze dei movimenti di Popolo cf. Maire Vigueur (2011). Un’aggiornata e accessibile messa a punto in chiave problematica in Poloni (2010); il punto storiografico in Milani (2015). Il saggio di Milani rileva – in maniera molto lucida – le differenti valutazioni dell’impatto dei regimi popolari sulla tradizione politica occidentale. 9 Su Firenze come prototipo di regime popolare e caso storiografico cf. Maire Vigueur (1997). 10 Cf. Diacciati (2011, 297–302). 11 Sulla costruzione di una vera e propria ideologia popolare nella Firenze della seconda metà del secolo XIII cf. Diacciati (2011, 183–192, 399–400), utile anche per una sintetica descrizione del gruppo dirigente del Secondo Popolo. Per la descrizione delle novità ideologiche dei contesti popolari cf. Giansante (1998); Artifoni (2003). 12 Diacciati (2011, 341–347). Sulla differenza tra la prima e la seconda stagione popolare, in contesti anche differenti rispetto a quello fiorentino, cf. Poloni (2009).
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Tra la fine degli anni Ottanta e la metà dei Novanta, tuttavia, la pressione (anche militare) dell’aristocrazia sugli strati popolari fu avvertita come problematica e determinò il varo di una legislazione fortemente discriminatoria.13 L’idea di una normativa che distingueva in base alla qualità della persona, al ceto, non era nuova nella concezione medievale del diritto; a essere nuovo era semmai il suo impiego esplicito in termini di conflitto sociale e di condizionamento culturale.14 A farne le spese furono quei gruppi familiari, dotati di una pervasiva influenza, che avversavano l’iniziativa popolare e non si conformavano al nuovo modello di convivenza civile.15 Si giunse così non tanto alla rovina economica del gruppo aristocratico, né alla sua definitiva emarginazione politica, quanto piuttosto a un ridimensionamento del suo ruolo, anche tramite la delegittimazione dell’esercizio della violenza privata. Tale delegittimazione fu tuttavia un processo lento, non lineare, e lo seguiamo meglio attraverso alcune fonti letterarie piuttosto che attraverso la normativa; esso condusse «alla costruzione di un modello negativo di cittadinanza» incarnato dalla figura del «cattivo nobile», ovvero del magnate.16
13 Diacciati/Zorzi (2013). 14 Cf. le importanti considerazioni di Claudia Bertazzo (2010, 33–55). L’autrice tende a negare non solo la novità delle norme comunemente dette «antimagnatizie», ma anche il loro carattere lesivo nei confronti di un preciso gruppo e, dunque, l’aspetto sociale dello scontro tra magnati e popolani. Il fatto che coloro che occupavano un ruolo privilegiato nell’organizzazione cetuale della società cittadina pagassero più degli altri non era una novità, come ben dimostra l’autrice sulla base di un corpus ampio di esempi normativi medievali. Mi pare tuttavia che la novità della legislazione antimagnatizia non stia tanto nel generale (e, questo sì, tradizionale) principio di coequatio della pena, quanto piuttosto nell’esplicito riconoscimento di un conflitto tra «grandi» e «popolari»: norme discriminatorie sono quelle rivolte contro i grandi che colpiscono i popolani, non contro i grandi che impiegano genericamente la violenza (a mero titolo di esempio, cf. Diacciati/Zorzi 2013, 18–19). 15 Diacciati (2011, 389–392). L’autrice ha riletto anche il conflitto della fine del Duecento tra le due fazioni dei Bianchi e dei Neri interne allo schieramento guelfo sulla base di un differente atteggiamento verso le proposte popolari (Diacciati 2014). Sui magnati fiorentini cf. anche Lansing (1991). Diversa la linea di ricerca promossa da Andrea Zorzi, secondo il quale l’aspetto sociale dell’opposizione magnati-popolani – aspetto che l’autore non nega – è scarsamente utile sul piano euristico: prevale invece l’intenzionalità nella costruzione del nemico politico «magnate»; il carattere ideologico di questa categoria dovrebbe, secondo Zorzi, esser messo in maggiore evidenza dagli studi: cf. Zorzi (2001). Sul cambiamento negli interessi relativi all’indagine sui magnati negli ultimi vent’anni cf. le considerazioni di Giuliano Milani (2013, 159–160): l’articolo di Milani si segnala anche per la proposta di nuove linee di ricerca nell’àmbito della storia comunale, estranee alla logica oppositiva generata da incongrue attualizzazioni. 16 La citazione da Zorzi (2017, 396). Per un’indagine sull’efficacia nel lungo periodo dei provvedimenti antimagnatizi (relativamente al mutamento dei modelli culturali del gruppo dominante), cf. Klapisch-Zuber (2010). Zorzi ha insistito sulla perdurante legittimità e sulla larga diffusione sociale delle pratiche legate alla vendetta: cf. Zorzi (2009, in part. l’introduzione).
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Certo, l’opposizione magnati-popolani non può esser ricondotta a uno scontro sulla base esclusiva degli interessi e delle disponibilità economiche o dell’appartenenza cetuale. Non solo i grandi mercanti e banchieri di parte popolare (il «popolo grasso») potevano sfoggiare un lusso comparabile con quello degli aristocratici (e di alcuni magnati), ma troviamo addirittura individui appartenenti a lignaggi di antica nobiltà che promossero le istanze popolari più estremiste: basti per tutti il nome di Giano Della Bella.17 Una cosa, però, appare chiara: l’esibizione della violenza, il combattimento a cavallo e, in generale, i valori e il mestiere delle armi, erano i contrassegni della vecchia aristocrazia e anche – pur non essendo gli unici – del gruppo dei magnati.18 Il fatto di poter annoverare nella famiglia almeno un «cavaliere di corredo», ovvero un professionista del combattimento a cavallo che aveva ricevuto un addobbamento solenne, era considerato indizio sicuro di grandigia.19 Lo stile di vita, che già contava molto nella determinazione dello status aristocratico, contava anche nella determinazione di quello magnatizio.20 Le pratiche della faida e della vendetta non erano in sé prerogativa delle aristocrazie, ma è chiaro che la ricchezza e la continua attività militare vi giocavano un ruolo decisivo; dunque queste pratiche finivano per confermare le asimmetrie sociali in maniera più diretta rispetto alla giustizia «disarmata» dei tribunali promossa, non a caso, dal fronte anti-magnatizio.21 Circa la definizione dei gruppi dirigenti comunali sulla base di esclusioni e successive reintegrazioni, eventualmente negoziate anche in forza della conformità a determinati modelli politico-culturali, cf. ancora Zorzi (2001), oltre, naturalmente, a Milani (2003). Sull’affermazione trecentesca di un nuovo quadro valoriale, entro il quale la vendetta veniva condannata, pur restando legittima in termini giuridici, mi permetto di rinviare a Faini (2006a). Più in generale, sugli attori pubblici coinvolti in questo processo di delegittimazione, cf. Zorzi (2008b, 145–154). 17 La descrizione del gruppo dirigente del secondo Popolo è in Diacciati (2011, 398–399). 18 Cf. Diacciati (2011, 400–401). L’aggiornato punto storiografico sulla questione in Sposato (2018a; 2018b). 19 Cf. Diacciati (2011, 296). 20 Si tratta di un dato ormai acquisito nella medievistica, a partire, almeno, da Tabacco (1974). 21 Sono ben consapevole che questa vicenda non può esser ridotta alla semplificante dicotomia fra giustizia pubblica e giustizia privata, che la vendetta possedeva un valore fortemente integrativo nelle società comunali e che la normativa antimagnatizia – come i bandi politici e le esclusioni – determinava un’asimmetria avvertita come potenzialmente disgregatrice: cf. Zorzi (2008a, 86–87). Mi pare, però, che quell’asimmetria giuridica fosse presentata come correttivo delle asimmetrie sociali e, in questo senso, costituisse un’autentica novità, difficile da far accettare. Essa fu strumentalmente impiegata nella lotta di fazione tra soggetti dotati di risorse comparabili, come ha mostrato Zorzi (2001; 2008b, 160). Tuttavia il consenso popolare attorno a quella iniziativa fu raggiunto anche tramite un’opera di formazione dei soggetti subalterni che tese a presentarli come agnelli di fronte a lupi (cf. Giansante 1999). È proprio a questo processo di formazione che potrebbero aver partecipato anche alcuni volgarizzatori; tra questi, io credo, Bono Giamboni (su questo punto cf. infra, §5).
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Quello del combattimento a cavallo era un problema centrale in una città (potremmo perfino dire in una civiltà) continuamente in stato di guerra. L’esercito tardo-duecentesco non era composto esclusivamente di cavalieri, né tra i combattenti a cavallo vi erano solo nobili: oltre ai cavalieri per tradizione familiare vi erano infatti famiglie che, per disponibilità economiche, erano tenute a fornire uno o più cavalieri in caso di mobilitazione generale («cavalleria censitaria»). Tuttavia è certo che la guerra e la milizia a cavallo erano le carte migliori in mano alla vecchia aristocrazia per mantenere un ruolo politico.22 La produzione del Giamboni si colloca, peraltro, tra due episodi bellici di grande rilievo per Firenze, una sconfitta e una vittoria: Montaperti nel 1260 e Campaldino nel 1289.23 Forse non fu davvero un caso se Bono scelse di volgarizzare la fortunatissima opera di Vegezio, dedicata all’arte della guerra. Ma andiamo con ordine. Abbiamo focalizzato la nostra attenzione su una delle numerose fratture della società fiorentina: quella tra milites/magnati e Popolo. È possibile comprendere da che parte stesse Bono? Sono state fatte delle ipotesi sulla sua collocazione sociale. Bono era uno iudex ordinarius a sua volta figlio di un giudice, Giambono di Vecchio, forse membro dell’équipe di un podestà itinerante già nel 1234.24 Gli iudices duecenteschi rappresentavano l’intellighenzia cittadina e, certo, non appartenevano a segmenti socialmente marginali.25 Sebbene l’identificazione della famiglia di Bono con il lignaggio consolare dei Vecchietti non appaia suffragata da riscontri documentari convincenti, possiamo immaginare che Bono, a metà secolo, avesse alle spalle almeno due generazioni di buon rilievo sociale.26 Non credo che possiamo quindi annoverare la sua famiglia tra quelle degli esclusi dal sistema politico per inidoneità di status. La scelta di campo del nostro si rivela in un passo del Libro de’ Vizî e delle Virtudi.27 In questa noiosa allegoria, vizi e virtù ingaggiano una battaglia di cavalleria: i vizi sono capitanati dalla Superbia che, sprezzante, arringa così i suoi avversari: «O misera gente, non vi vergognate voi, con così cattivi cavalieri di popolo, e con così misero popolazzo e uomini tutti poveri e brolli, di richiedere di battaglia i re e’ baroni e tutta la gentilezza del mondo […]?».28 I vizi stanno con «la genti-
22 Sul quadro italiano cf. Maire Vigueur (2004, 492–508). 23 Il quadro politico toscano in questa fase storica è ricostruito in Canaccini (2009). 24 Cf. Foà (2000). 25 Il punto sulla provenienza sociale e sul ruolo politico degli iudices nel Duecento in Menzinger/Vallerani (2014, 201–211). 26 Cf. Diacciati (2011, 240). 27 Ed. di riferimento: Segre (1968). 28 Segre (1968, lviii, 1).
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lezza», le virtù con il «popolazzo»: la scelta mi pare chiara.29 Non è lecito, però, generalizzare quella che ci appare come una netta scelta di campo sulla base dell’opinione espressa in un’opera sola: è possibile che l’autore abbia adattato non solo il tono e la lingua, ma anche il senso generale del discorso all’àmbito di possibile ricezione del suo lavoro. Il Libro è infatti un tipico trattato devozionale destinato probabilmente a una delle confraternite cittadine; queste erano spesso composte da persone dal profilo sociale piuttosto modesto e, nel secondo Duecento, orientate verso una vera e propria militanza anti-magnatizia.30 Questo atteggiamento mi pare tuttavia confermato in un’altra opera di Bono. Il volgarizzamento di Vegezio poteva infatti costituire l’abbozzo di una proposta politica di stampo popolare, comunque contraria a una milizia stabilita sulla base dell’appartenenza familiare o del censo. Traducendo con «cavalieri» quel che nel testo latino era «iuvenes» o «tyrones», cioè ‘reclute’, Bono faceva dire a Vegezio che era opportuno reclutare i cavalieri dalle classi meno agiate e dalla popolazione della campagna. In pratica quei settori della società che la vecchia aristocrazia non aveva nessuna intenzione di integrare, men che meno nella cavalleria, e ai quali era dunque preclusa ogni forma di promozione sociale attraverso l’esercizio delle armi. Se è vero che la traduzione di «tyrones» in «cavalieri» non era una novità introdotta da Bono, è anche vero che le implicazioni politiche di questo primo libro, tutto sul rinnovamento della cavalleria attraverso il rifiuto del reclutamento sulla base della tradizione familiare o del censo, devono essere state subito evidenti in un contesto tanto suscettibile riguardo a questo tema.31 Ora vorrei tornare al passo dal quale siamo partiti. Anche qui, come nel Vegezio volgarizzato, abbiamo un «rinnovamento» della cavalleria. Anche qui un esercito composto prevalentemente di fanti diventa una schiera di cavalieri e anche qui, di fronte alle carenze del reclutamento tradizionale, si passa al reclutamento degli schiavi liberati o, se si preferisce, dei servi affrancati. Solo che, in questo caso, la proposta programmatica di Vegezio diventa la realtà storica raccontata da Orosio. Lo stesso Orosio attraverso la penna di Bono offre anche la soluzione al problema aperto da questo progetto: dove trovare il denaro per armare e addestrare questi nullatenenti? Risposta: requisire le ricchezze dei privati e delle chiese. Lo si è detto: non è possibile, allo stato delle ricerche, ricostruire una cronologia relativa per gli scritti di Bono; non sappiamo, quindi, quale dei due volgarizzamenti sia il primo, né quanto tempo intercorse tra l’uno e l’altro. Certo 29 Cf. l’opinione, da me condivisa, di Johannes Bartuschat (1995, 57–58). 30 Cf. Gazzini (2004, 425). 31 Sintetizzo in questo breve paragrafo un problema che ho già trattato in Diacciati/Faini (2017, 205–219).
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è che possiamo riconoscere un filo rosso tra il dibattito politico nella Firenze duecentesca, il punto di vista del Libro de’ Vizî e delle Virtudi, il programma del primo libro di Vegezio e il volgarizzamento di Orosio.
3 Tra Popolo e plebs Non dobbiamo esagerare: il passo di Orosio sul quale ci siamo soffermati è solo una goccia nel mare, poche righe su almeno seicento pagine di edizione a stampa. Il punto è che la storia romana, se riletta con le categorie attualizzanti di Bono, poteva offrire spunti di grande presa politica a fine Duecento. Un esempio abbastanza ovvio: tradurre «plebs» con «popolo» significava compiere una scelta interpretativa molto forte, che attribuiva un valore attualizzante all’antico contrasto tra patrizi e plebei. È ciò che, in effetti, avviene nel volgarizzamento, ma prima di vedere come e in quale contesto, dobbiamo renderci consapevoli della polisemia implicita nella parola. Come hanno recentemente messo in rilievo Giuliano Milani e Igor Mineo, infatti, il termine «popolo» risultava nel Basso Medioevo fortemente ambiguo: da una parte indicava l’intera comunità, dall’altra – soprattutto dai primi decenni del secolo XIII – la sua porzione più umile, quella che il latino poteva indicare col termine plebs, e che nelle città comunali risultava, come si è visto, dal contrasto con l’aristocrazia dei milites.32 Impiegheremo la lettera maiuscola per indicare il secondo significato, cioè quello di ‘popolo-parte’. In effetti Bono non aveva ancora un termine specifico per separare, anche lessicalmente, la plebe romana dal Popolo d’età comunale. Il latinismo «plebe» è attestato per la prima volta in Dante (If xxxii 13) nel senso di ‘moltitudine’.33 Il termine volgare derivato da plebs, cioè «pieve», era in uso, ma si riferiva alla distrettuazione ecclesiastica delle campagne.34 Tuttavia, nella prima metà del Duecento, ai tempi dei primi contrasti tra vecchia aristocrazia e Popolo nelle città del Centro-Nord, il parallelo tra il termine latino plebs e il termine populus inteso come ‘popolo-parte’ era già stato impostato. Partiamo da un caso che dimostra la compresenza delle due parole nel lessico politico di quell’epoca, nello specifico in alcuni passi degli Annales Placentini del notaio-cronista Giovanni Codagnello e in alcuni documenti della stessa città.35 Codagnello, vissuto tra la metà del secolo XII e gli anni Trenta del XIII, scriveva
32 Cf. Milani (2014, 261); Mineo (2018, 7–12). 33 Cf. TLIO s.v. plebe. 34 Cf. TLIO s.v. pieve. 35 Arnaldi (1966; 1982).
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proprio negli anni della prima affermazione del Popolo piacentino. La documentazione piacentina superstite attesta l’uso del termine plebs per definire la prima organizzazione politica del Popolo: a mostrarlo è il testo di un arbitrato del 4 febbraio 1220 tra il potestas communitatis plebis, i consoli dei quartieri cittadini e di alcune corporazioni da una parte, i consules militum, i consoli di giustizia e quelli dei mercanti dall’altra.36 Codagnello, che pochi anni dopo descrive quell’interminabile contrasto, non adopera mai il termine plebs, ma solo il termine populus, inequivocabilmente nel senso di ‘popolo-parte’.37 Questo populus, comunque, non è riducibile ai soli pedites, perché può già mettere in campo un’armata di fanti, cavalieri, balestrieri e arcieri.38 Nel mondo di Codagnello, quindi, plebs e populus vengono impiegati per descrivere un conflitto sociale e sono, almeno in parte, sovrapponibili, anche se appare riduttivo considerare il Popolo come composto solo da elementi subalterni. Il caso che ci propone un altro notaio-cronista è ancora più istruttivo. Disponiamo, infatti, di un prezioso passo dei Gesta Florentinorum di Sanzanome, un testo storiografico locale, steso a Firenze tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo XIII.39 Come ha ben messo in rilievo Mineo, Sanzanome impiega quasi sempre il termine populus come sinonimo dell’intera cittadinanza; nel farlo egli si conforma all’uso ampiamente attestato sia nella cronachistica anteriore, sia nella documentazione del secolo precedente.40 A mio avviso, però, Sanzanome usa consapevolmente un lessico passatista con l’intenzione di nascondere le fratture già affiorate negli anni nei quali scrive, compresa quella tra la militia e il Popolo.41 In altre parole Sanzanome ci offre un racconto non solo fortemente orientato (quale racconto non lo è?), ma soprattutto poco affidabile riguardo al lessico politico. Che, nella realtà dei suoi anni, il termine populus non fosse più
36 Cf. Koenig (1986, 54). Più tardi, nello stesso anno, il legato di Federico II avrebbe abolito le «societates plebeiorum» (ibid., 55). 37 Holder-Egger (1901, 68–68): «Et eo tempore inter populum et eiusdem civitatis milites propter quedam populi capitula ingens crevit sedicio, que rectores civitatis populi in brevi communis esse mittenda volebant, que plurimum dispicienda [milites] contradicebant; verum quia illi de populo coniurationem insimul fecerant et omnimode militibus contradicebant, omnes viri nobiles et potentes civitatis Placentie se confirmaverunt». 38 Holder-Egger (1901, 70): «Die vero Lune viii mensis Martii populares tam milites quam pedites, sagittarii et balestarii ad conburendum locum de Capremaldo iverunt». 39 Cf. Hartwig (1875); sull’autore cf. Chellini (2017). 40 Cf. Mineo (2018, 19–22). 41 Sull’intenzione comunicativa di Sanzanome e il suo tentativo di annullare ogni polarità interna alla cittadinanza fiorentina cf. Faini (2006b). Sulla probabile presenza di un’organizzazione armata del Popolo a Firenze e sul suo coinvolgimento nei disordini dei tardi anni Trenta del Duecento cf. Diacciati (2011, 51–54).
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sinonimo di tutta la cittadinanza mi pare emerga chiaramente da una sorta di lapsus nel quale Sanzanome incorre descrivendo l’esito di uno scontro tra Pisani e Fiorentini, avvenuto all’inizio degli anni Venti. Degli ottanta milites catturati si dice che non erano «de plebe sed populo».42 Il passo non è chiarissimo: il manoscritto ha un’abbreviazione che l’editore scioglie con populo. Si può tuttavia affermare, con cautela, che nel lessico politico in uso ai tempi di Sanzanome la parola populus fosse in parte sovrapponibile a quella di plebs e, dunque, che nel linguaggio comune, come a Piacenza, essa fosse ormai assimilata alla nozione di popolo-parte. La precisazione lessicale di Sanzanome, però, a mio avviso potrebbe non derivare dalla volontà di ribadire il significato onnicomprensivo di populus, ostinatamente brandito dall’autore, ma da una caratteristica del movimento di Popolo già osservata anche in Codagnello: la non perfetta coincidenza tra la nozione, prevalentemente politica, del Popolo con quella, forse prevalentemente sociale, di plebs.43 La precisazione, nel contesto, possiede a mio avviso questo significato: la preda, per quanto non eccellente, non era da disprezzare, perché nelle file del Popolo militavano anche soggetti di ricchezza ragguardevole, utili pedine di scambio e fonte di buoni riscatti. Nel momento in cui volgarizzava Orosio, quindi, Bono forse sapeva che i concetti di plebs e di Popolo, per quanto vicini, non erano perfettamente sovrapponibili. Sceglie tuttavia di attualizzare il contrasto tra patrizi e plebei, rileggendolo nella chiave popolo/cavalieri. Narrando la prima secessione della plebe romana, l’Orosio volgarizzato presenta infatti un testo potentemente alterato: la «discessio plebis a patribus» diventa «il partimento del popolo da’ cavalieri», ove la voce «cavalieri» è sinonimo di categoria sociale privilegiata (non ci sorprende), e soprattutto il termine «popolo» va inteso come corrispettivo dell’agguerrita plebe romana.44 Così avviene anche subito dopo il passo con il quale abbiamo aperto: di fronte all’emergenza imposta dalla sconfitta di Canne, ogni tatticismo e ogni formalismo viene abbandonato: «Ita equester ordo, ita plebs trepida oblita studiorum in commune consuluit»; Bono, senza apparente esitazione, traduce:
42 Ecco il passo: «Florentini vero obviam in flumine se facientes eisdem bellum fortissimum agitarunt, et cum partem suam fluminis viriliter pars unaqueque defenderet, apparuit acies militum de bosco exiens, et irruens in Pisanos bellum forte fortius fecerunt cum eisdem, in quo ex utraque parte mortui sunt plures, et ab adversa parte capti milites octuoginta non de plebe sed populo, et reliqui de renibus clippeum facientes fuge remedium patiere» (Hartwig 1875, 23). 43 Su questo punto, con opinione differente, cf. Mineo (2018, 21 e n. 6). 44 Nella tabella seguente i passi messi a confronto:
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«Così l’ordine de’ cavalieri, così il popolo spaventato, dimenticandosi l’ordine che tener vi solea, ordinaro che si facesse».45 Davvero Bono, non disponendo del latinismo plebe, non aveva altra scelta? A me pare che l’attualizzazione non fosse un procedimento scontato: in qualche caso, infatti, egli impiega termini fortemente attualizzanti pur in presenza di latinismi che altrove non si perita di usare. Un caso molto significativo riguardo al nostro tema è quello relativo alla traduzione di tribunus plebis con «capitano del Popolo».
4 Capitani e tribuni In àmbito fiorentino il Capitano del Popolo era un’istituzione profondamente legata alla tradizione popolare: istituito alla metà del XIII secolo, era stato abolito nel 1260 dopo la fine del primo regime di Popolo e sarebbe tornato in auge solo negli anni Ottanta (ma con denominazione differente: Difensore delle Arti e degli Artefici), al momento dell’istaurazione del regime delle Arti.46 Il testo latino di Orosio – compilazione universale ricavata, a sua volta, da altre compilazioni – è scarsamente interessato alla contrapposizione tra nobiltà e plebe che sembra star molto a cuore a Bono. In effetti il racconto della prima secessione non prosegue che un paio di righe. Poi però arriva quel secolo tempestoso tra i Gracchi e Augusto – fatto di guerre, conquiste, dittatori, congiure, proscrizioni, forti sommovimenti sociali – che travolse l’ordinamento tradizionale della res publica, preparando la «Rivoluzione romana», come è stata definita – non senza sarcasmo – l’impresa di Ottaviano in un classico della storiografia.47 In questa fase,
Arnaud-Lindet (1990–1991, ii, 5, 5)
Tassi (1849, 75–76)
Sequitur discessio plebis a patribus, cum, M. Valerio dictatore dilectum militum agente, uariis populus stimulatus iniuriis Sacrum Montem insedit armatus. qua pernicie quid atrocius, cum corpus a capite desectum perditionem eius, per quod inspirabat, meditaretur?
Seguitasi il partimento del popolo da’ cavalieri. Quando Marco Valerio dittatore, stimolato il popolo per molte iniurie, n’andò in sul monte Aventino, che più dura cosa potte avvenire, che sceverare il capo dallo ’mbusto?
45 Arnaud-Lindet (1990–1991, iv, 16, 8). 46 Diacciati (2011, 14–15, 170–171, 339). 47 Il riferimento è a Syme (1939). Per un inquadramento storiografico e per la storia della sua ricezione italiana cf. Traina (2014). Si noti che il lavoro di Syme rileggeva quella fase storica nell’ottica elitista e non classista, contrapponendosi in tal modo alla precedente visione di quella fase storica impostata da Eduard Meyer (ibid., xiii). La torsione verso l’elitismo nella medievistica
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come noto, l’opposizione tra i populares e gli optimates (qualsiasi cosa si celasse dietro quelle etichette) contò parecchio. Siamo curiosi di capire come potrebbe averla letta un Giamboni. Va detto che l’opera di Orosio non brilla per dettaglio su questa fase storica: tra l’altro glissa sulla congiura di Catilina, fin troppo nota ai suoi tempi, dice.48 Perfino nel rapido passaggio con cui liquida la congiura, però, la traduzione del latino «patria» con «Comune della cittade» instaura un significativo parallelo che meriterebbe, forse, qualche riflessione ulteriore. La materia storica è comunque troppo abbondante perché non gli sfugga qualche riferimento alla prototipica contrapposizione tra ottimati e popolari. E qui l’estro di Bono produce perle preziose per noi. Trasforma, ad esempio, i Gracchi da tribuni della plebe in «capitani del popolo». Ciò avviene, per esempio, nel momento in cui Orosio ci presenta l’azione di Tiberio Gracco in favore della plebe; leggiamo il passo completo e confrontiamolo con quello latino. Arnaud-Lindet (1990–1991, v, 8, 2)
Tassi (1849, 288)
Carthagine Numantiaque deleta moritur apud Romanos utilis de prouisione conlatio et oritur infamis de ambitione contentio. Gracchus tribunus plebi iratus nobilitati cur inter auctores Numantini foederis notatus esset, agrum a priuatis eatenus possessum populo diuidi statuit.
Disfatta Cartagine e Numanzia, si cominciò utilemente a trattare del provvedimento di Roma, e nacquene infamata contenzione delle utilitadi e degli onori. Perchè Gracco, capitano del populo, adirato contra i gentili, perchè fue infamato tra coloro che co’ Numantini fecero patti, le possessioni de’ Numantini prese, possedute da certi de’ grandi, speziali persone, e comandò che tra coloro del popolo si dividessero
italiana era avvenuta qualche anno prima, per opera soprattutto di Nicola Ottokar, proprio nel grande cantiere dell’indagine sulla Firenze tardo-duecentesca (cf. Ottokar 1926). Sulla relazione tra l’opera di Syme, quella della scuola di Ottokar e, più in generale, la prosopografia medievistica cf. Tabacco (1976). 48 Arnaud-Lindet (1990–1991, vi, 6, 5–6)
Tassi (1849, 362–363)
«Interea coniuratio Catilinae aduersus patriam per eosdem dies in Vrbe habita ac prodita, in Etruria uero ciuili bello extincta est; Romae conscii coniurationis occisi sunt. Sed hanc historiam agente Cicerone et describente Sallustio satis omnibus notam nunc a nobis breuiter fuisse perstrictam sat est»
«In questo mezzo fue il congiuramento di Catellina contra ’l Comune della cittade in quelli medesimi dì a Roma manifestato, e in Etruria morio per battaglia ch’ebbero tra loro i cittadini; e fuoro morti coloro, che di quella iura fuoro colpevoli. Ma questa istoria detta da Cicerone, e compilata da Salustio, assai è ad ogni uomo manifesta, e ora da noi essere brievemente detta assai è bastevole».
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Non soltanto il tribuno della plebe diventa capitano del Popolo, ma i detentori dei terreni confiscati agli sconfitti da «privati» diventano «grandi». Difficile non scorgere in questa traduzione l’impatto dell’antagonismo degli anni di Bono tra grandi (magnati) e Popolo: i terreni requisiti ai «grandi» sarebbero stati, per iniziativa di Tiberio, redistribuiti tra il «popolo» romano; il volgarizzatore intende quindi restituire tutta la drammaticità della contrapposizione trasformandola in qualcosa di comprensibile per i suoi lettori, attualizzandola. Il testo orosiano non mostra simpatia per la causa dei Gracchi: Gaio Gracco, divenuto tribuno «per tumultum», rappresentò una minaccia per Roma: «Magna reipublicae pernicies fuit».49 Bono non stravolge il testo latino, almeno non nel senso generale, e di Gracco dice: «Grande morte fue del Comune di Roma».50 Soffermiamoci, però, su Tiberio Gracco, tribuno della plebe diventato «capitano del popolo». Sappiamo con certezza che Bono disponeva di un termine alternativo e, in effetti, lo impiega nel volgarizzamento. Gaio Gracco era infatti divenuto «tribuno a romore e a grido di popolo»: non capitano del popolo, dunque, ma tribuno.51 Poche righe più avanti troviamo una glossa – constatata la sua presenza in tutti i manoscritti, l’editore la considera opera di Bono – che mostra come la traslazione da tribuno a capitano fosse consapevole: «E Minucio nel tribunato, cioè in essere capitano del popolo, fue suo successore».52 Lo slittamento verso l’istituzione a lui contemporanea del Capitano non denuncia soltanto l’intenzione di Bono di rendere il testo più comprensibile, ma probabilmente anche quella di fare della respublica romana un modello per il Comune.
5 Contro i «cavalieri» Da quanto detto finora si ricava che la finalità di Bono nel volgarizzare Orosio potrebbe esser stata anche politica e non solo estetico-pedagogica. Ma politica in quale senso? A mio avviso non si trattava solo di legittimare gli istituti comunali, specie quelli di varo più recente come il Capitano del Popolo, tramite il parallelo 49 Arnaud-Lindet (1990–1991, v, 12, 3). 50 Tassi (1849, 297). 51 Ibid., 297. 52 Tassi (1849, 297). A ciò si aggiunga che l’espressione «tribuno del popolo» si trova anche nel volgarizzamento brunettiano della Pro rege Deiotaro (Lorenzi 2013, 74), cronologicamente molto vicino al volgarizzamento di Orosio. Sull’eccezionalità dell’impiego di «capitano del popolo» nel volgarizzamento giamboniano cf. il contributo di Cristiano Lorenzi in questo volume (Tradurre la storia romana. Il caso delle due redazioni del volgarizzamento della prima Catilinaria fra Due- e Trecento, pp. 255–272).
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con l’antico. Forse attraverso il volgarizzamento di Orosio Bono intendeva espandere la proposta implicita in quello di Vegezio (o, nel caso di una cronologia differente, precisare in quest’ultimo ciò che aveva già presentato nell’altro): sottrarre la cavalleria cittadina (metafora del primato politico) al controllo della vecchia aristocrazia. Probabilmente il testo di partenza, cioè le Historiae adversus paganos, non era il più indicato per un’operazione del genere. Si trattava, dopo tutto, di una cronaca universale e, se poteva essere abbastanza semplice l’accostamento tra il Comune fiorentino e la Roma repubblicana, certo non si poteva dire altrettanto per le storie dell’Oriente persiano, per le guerre di Alessandro Magno, forse neppure per la Roma imperiale. La scelta di Bono, però, è a mio avviso indicativa sia di un’esigenza pratica sia di un atteggiamento politico. Rispetto a opere monografiche d’ambientazione repubblicana come il De coniuratione sallustiano, per esempio, il testo di Orosio era economicamente più vantaggioso: esso offriva una narrazione completa anche della storia più remota, oltre a essere sintatticamente molto accessibile. Quella di Bono, dunque, poteva essere una scelta dettata dalla domanda dei possibili lettori: Orosio era notissimo, citatissimo e molto utile per l’alfabetizzazione storica.53 D’altra parte è possibile che Bono non intendesse limitare il parallelo tra storia comunale e storia romana alla sola fase repubblicana. Non credo che, in pieno Duecento, il «repubblicanesimo» costituisse già un’ideologia definita ed esclusiva, come avverrà a fine Trecento nel contesto delle guerre coi Visconti.54 Lo stesso pensiero aristotelico-tomistico dovrà attendere la fine del secolo per essere diffuso e attualizzato tra gli strati popolari fiorentini, soprattutto per opera di Remigio de’ Girolami.55 Nella fase nella quale operò Bono la priorità era la partecipazione al governo dei gruppi fino ad allora meno coinvolti nelle decisioni politiche, indipendentemente dal «tipo» di regime (signorile o «repubblicano»).56 Questa militanza del volgarizzatore mi pare emergere da alcuni slittamenti di senso, modesti ma significativi. È il caso, per esempio, del regno di Semiramide. Orosio ci presenta la regina d’Assiria, come il prototipo di una femminilità dissoluta e tirannica. Sovrana crudele ma capace, Semiramide riuscì a dominare i molti popoli del suo impero impegnandoli in guerre sanguinose: «Auidosque iam usu sanguinis populos, per duo et quadraginta annos caedibus gentium exercuit».57 Si potrebbe dubitare della correttezza del testo su cui Bono stava lavorando, perché 53 Fabbrini (1979, 9–29). 54 Una riflessione critica sul tema del repubblicanesimo comunale in Mineo (2009). 55 Carron (2017). 56 Sulla necessità di superare certe precomprensioni sui regimi signorili cf. Maire Vigueur (2013, 11). 57 Arnaud-Lindet (1990–1991, i, 4, 4).
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il senso del discorso è completamente alterato, nel volgarizzamento, tramite la sostituzione della parola «populos» con «cavalieri»: «I disiderosi cavalieri ià di sangue per uso, per quaranta e due anni al tagliamento delle genti usoe».58 Avidi di sangue non sono più i popoli, ma i cavalieri. A me non pare che il termine cavalieri sia impiegato da Bono solo per indicare, genericamente, i soldati. Ricordiamo che aveva volgarizzato con «cavalieri» anche il termine «patres» in opposizione alla «plebs». Egli traduce tuttavia regolarmente il termine milites con cavalieri, seguendo in questo l’uso medievale. Bono, insomma, sembra ben consapevole del fatto che – ai suoi tempi – il termine possiede l’accezione di una distinzione sociale, ma sembra dimenticarsene quando volgarizza i termini latini relativi ai legionari. Il risultato è che, quando Orosio comincia a parlare dell’anarchia militare del tardo Impero, le turbolenze dell’esercito diventano «malizia de’ cavalieri», «romore e […] villania de’ cavalieri», «fellonia de’ suoi cavalieri», e così via.59 Ancora una volta una traslazione di significato, apparentemente involontaria, stravolge il senso del discorso e propone un’attualizzazione fin troppo facile: sono i cavalieri a destabilizzare la respublica, anzi, per usare le parole di Bono, il «Comune». Pur nell’incertezza di un’edizione antiquata, mi pare che le coincidenze siano troppe per non ipotizzare un po’ di intenzionalità nelle imprecisioni di Bono. Siamo ben lontani dalla sensibilità umanistica, ma credo che la sovrapposizione – in alcuni passi perfetta – tra storia romana e storia comunale sia stata vista come un valore da Bono e dai suoi lettori. Lo studio di volgarizzamenti come questo appare particolarmente utile nel contesto storiografico attuale. Come ho cercato di mettere in evidenza supra al §2, è in corso una profonda revisione di molti cliché sulla storia comunale. Ci si interroga, in particolare, sull’applicabilità alla storia del Duecento delle distinzioni sociali suggerite dalla storiografia otto-novecentesca e ci si chiede quale fosse il peso relativo delle componenti ideologica e socio-economica nella definizione della dicotomia magnati/Popolo. Personalmente ritengo che la distinzione si fondasse su differenze a livello della società, delle basi economiche e dei comportamenti. Differenze forse evidenti per noi, ma quanto significative per gli uomini di allora? Voglio dire: quanto interpretabili allora in chiave di sopraffazione? Riconosco, quindi, che queste differenze necessitavano di un’opera estesa di formazione per essere impiegate come base di consenso utile a un’egemonia politica.60 Il passato romano, letto nel modo che abbiamo visto attraverso il vol-
58 Tassi (1849, 30). 59 Rispettivamente ibid., 487, 484 e 483. 60 In questo senso trovo molto persuasive le considerazioni di Zorzi (2008b, 145–154).
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garizzamento di Bono, potrebbe aver avuto un ruolo in questa vicenda: la plebe contro i patrizi, i populares contro gli optimates potrebbero aver fornito al gruppo dirigente popolare e alla sua base politica un modello di confronto. In altre parole la storia romana – con le sue battaglie, i suoi magistrati, i suoi tiranni, le sue proscrizioni e persino le sue leggi e le sue riforme agrarie – potrebbe aver fornito non solo un esempio per la storiografia comunale, ma forse perfino un canovaccio per la storia comunale.
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Cristiano Lorenzi
Tradurre la storia romana
Il caso delle due redazioni del volgarizzamento della prima Catilinaria fra Due- e Trecento Abstract: The paper examines the relationships between the two versions of the anonymous vernacular translation of the First Catiline oration, both dating back probably to the end of the 13th century. Great attention is also paid to the translators’ level of understanding of events, historical characters and specific material terminology of the Roman world mentioned in Cicero’s text: notably, some significant lexical choices of the two volgarizzatori are analysed and discussed, with particular regard to the difficulties and the misunderstandings that can arise in their own vernacular translations. Keywords: Roman history; vernacular translation; lexical analysis; Catiline oration
1 Le due redazioni del volgarizzamento La prima Catilinaria di Cicerone venne volgarizzata a Firenze verosimilmente verso la fine del Duecento: l’orazione, d’altronde, si prestava facilmente a una rilettura entro il contesto comunale, dal momento che la città toscana ricollegava la sua discendenza a Roma e che la congiura di Catilina poteva al contempo richiamare le numerose lotte intestine al comune. Il volgarizzamento ebbe poi larga diffusione, specie all’interno di raccolte di interesse storico (in associazione talvolta al Catilinario e al Giugurtino di Bartolomeo da S. Concordio o ai Fatti dei Romani)1 o di ampie miscellanee di orazioni civili: da un personale censimento – che rischia di essere ancora parziale – sono a conoscenza di ventinove testimoni manoscritti dell’orazione volgare, assegnabili ai secoli XIV e XV.
1 Anzi, in più di qualche occasione l’orazione si trova inserita surrettiziamente proprio all’interno dei Fatti dei Romani: cf. Papini (1973, 119); Carlesso (2001, 352). Indirizzo di corrispondenza: Prof. Dr. Cristiano Lorenzi, Università Ca’ Foscari di Venezia, Dipartimento di Studi Umanistici, Dorsoduro 3484/D, I-30123 Venezia. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-011
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Andrà subito ricordato che del testo si conservano due redazioni, entrambe prive di paternità nella tradizione manoscritta e peraltro molto precoci, essendo contenute in taluni codici che risalgono ai primi anni del Trecento (i più antichi risultano da un lato il Palatino 539 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e l’incompleto Marucelliano C 128, collocabili all’inizio del sec. XIV, e dall’altro il ms. Hamilton 67, datato 1313):2 quella maggiormente diffusa (che chiameremo A) è attestata da venti testimoni, l’altra (B) dai rimanenti nove.3 Che A e B non fossero traduzioni del tutto indipendenti ma potessero essere redazioni tra loro connesse risultò chiaro fin al primo editore dei due testi, Luigi Maria Rezzi, che, individuato nel secondo volgarizzamento il più recente a séguito di sommaria expertise («la dicitura nel primo è più stretta e breve, e perciò più antica; più larga e diffusa nel secondo, e perciò più moderna»), notava come esso seguisse, specie in chiusura, il dettato dell’altro, al punto «da non potere dubitare, che chi lo scrisse abbia avuto questo sotto gli occhi suoi».4 L’ipotesi fu più autorevolmente ripresa anche da Francesco Maggini, il quale, dopo aver offerto un sintetico supplemento di indagine sulla lezione dei due testi, giunse sostanzialmente alle stesse conclusioni.5 Si aggiunga che lo stesso Rezzi (1832, xiii–xiv) su basi stilistiche aveva assegnato il primo volgarizzamento a Brunetto Latini, ravvisandovi analogie con le tre orazioni ciceroniane senz’altro tradotte dal notaio fiorentino (Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Deiotaro); la paternità brunettiana nel corso dell’Ottocento passò in giudicato, per venire accolta, seppure dubitosamente, ancora da
2 L’Hamilton 67 è il ben noto testimone (assieme al Riccardiano 2418, con il quale costituiva in origine un unico codice) della redazione lunga dei Fatti dei Romani: sul ms. cf. Staccioli (1984, 27–41) e, per il testo del volgarizzamento, Bénéteau (2012). 3 Questi sono i codici che recano la redazione A: Firenze, Biblioteca Marucelliana, C 128; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Gaddi rel. 18; ivi, Conv. Sopp. 122; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II i 93; ivi, II ii 23; ivi, II iii 328; ivi, Magliabechiano XXXIV.1; ivi, Palatino 539; ivi, Panciatichiano 53; Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1513; ivi, 1538; ivi, 1552; ivi, 1563; ivi, 4072; London, British Library, Add. 16437; Kórnik (Polonia), Polska Akademia Nauk, Biblioteka Kórnicka, 633; Padova, Biblioteca Antoniana, ms. 47 scaff. ii; Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barberiniano latino 4045; Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, It. Z 18 (4793); ivi, It. VIII 26 (6090). La redazione B è invece tràdita dai seguenti testimoni: Berlin, Staatsbibliothek, Hamilton 67; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, plut. 61.26; ivi, plut. 89 inf. 56; ivi, Redi 113; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II iv 128; ivi, Magliabechiano XXIII.136; Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1105; Roma, Biblioteca Nazionale dei Lincei e Corsiniana, 44 C 8 (olim Rossi 42); Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chigi L VII 267. 4 Rezzi (1832, xiii–xiv) per le due citazioni; Rezzi pubblicava la redazione A alle pp. 91–111 e la B alle pp. 115–136. 5 Maggini ([1939] 1952, 32–33).
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Maggini, mentre la critica recente si è mostrata molto più cauta in proposito.6 Tralasciando in questa sede la questione attributiva, vorrei soffermarmi piuttosto sui rapporti tra le due redazioni, provando in séguito ad avanzare alcune osservazioni in merito all’orizzonte culturale dei due traduttori. Come detto, da un certo punto in poi (grosso modo dal §27 dell’ed. latina di riferimento) le due redazioni proseguono in modo quasi identico, pur permanendo alcune minime divergenze. Il legame tra A e B pare però che si possa confermare per il testo nella sua interezza, dal momento che anche nella prima sezione, dove le traduzioni sono più nettamente distinte, in entrambe le redazioni ricorrono alcune espressioni peculiari che difficilmente potrebbero essersi prodotte in modo indipendente, come già segnalava Maggini ([1939] 1952, 32) proponendo un minimo catalogo esemplificativo,7 e come avremo modo di vedere anche più oltre. Ma soprattutto una vistosa (e ancor più decisiva) conferma della diretta relazione tra i due volgarizzamenti credo possa giungere dal fatto che nell’ampia sezione divergente (§§1–26) i testi coincidono in numerosi errori di traduzione, dovuti sia a lezioni caratteristiche dell’antigrafo latino utilizzato (Tav. 1) sia a fraintendimenti e incomprensioni del dettato ciceroniano (Tav. 2 ), fenomeni – oltretutto concomitanti – che ragionevolmente non possono che far pensare a una dipendenza di un volgarizzamento dall’altro:8 6 Per tutta la questione cf. Manuzzi (1834, iv–v); Nannucci ([1837–1839] 41883, vol. 2, 282, 300); Dello Russo (1850, 6); Zambrini/Lanzoni (1850, 332); Maggini ([1939] 1952, 29, 31); per le posizioni più recenti cf. almeno D’Agostino (2001, 104); Zaggia (2009, 12–13); Lorenzi (2015, 391–392). Gioverà ricordare che nell’ampia tradizione manoscritta il volgarizzamento circola adespoto, con la sola eccezione del quattrocentesco codice Laurenziano Conventi Soppressi 122, nel quale la rubrica complessiva di un terzetto di volgarizzamenti ciceroniani (Pro Ligario, Pro Marcello, Prima Catilinaria) sembra conferire la nostra orazione al Latini: si tratta tuttavia quasi certamente di un errore dovuto alla caduta nell’antigrafo della terza Cesariana, la Pro rege Deiotaro (in proposito cf. Lorenzi 2015, 380): d’altronde, in più di qualche testimone le Cesariane e la Prima Catilinaria volgari viaggiano in sequenza, seppur invertita, come nel ms. II.II.23 della Biblioteca Nazionale di Firenze, nell’Additional 16437 della British Library, nel Marciano It. VIII.26 o ancora nel codice 633 della Biblioteca dell’Accademia Polacca delle Scienze di Kórnik. 7 Ma la lista è facilmente integrabile: si osservi e.g. al §10 la peculiare resa di magno […] metu con agra paura tanto in A quanto in B. 8 La verifica è stata fatta sulla base dell’elenco dei luoghi problematici di A già proposto in Lorenzi (2015, 390–391), a cui si rimanda per ulteriori precisazioni. Nella Tav. 1 pongo tra parentesi quadre dopo il testo latino la lezione che verosimilmente leggeva il primo volgarizzatore. Dato che le edizioni ottocentesche di Rezzi (1832) e Manuzzi (1834) non danno alcuna garanzia di affidabilità (e quelle di Nannucci [1837–1839] 41883, Dello Russo 1850 e Zambrini/Lanzoni 1850 ripropongo le precedenti), si cita il testo dei due volgarizzamenti sulla base dell’edizione critica provvisoria per mia cura consultabile entro il Corpus DiVo, che si fonda sull’esame dell’intera tradizione, a eccezione dei mss. di Padova e della Corsiniana di Roma, dei quali sono venuto a conoscenza solo successivamente. Rispetto a tale edizione segnalo qui alcune necessarie correzioni per sanare refusi o errori: A § 5.1 nu-
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Tav. 1 Testo lat.
Volg. red. A
Volg. red. B
§4 nox nulla intercessit [vox per nox]
senza comandamento d’alcuno
sanza comandamento d’alcuna persona
§5 in Etruriae faucibus [partibus per faucibus?] nelle parti di Toscana
ne le parti di Toscana
§9 dixisti paulum tibi esse etiam nunc morae [mori per morae]
dicesti che poco prezzavi il morire dicesti loro che poco pregiave la morte
§13 quae nota domesticae turpitudinis non inusta vitae tuae est? [iuncta per inusta]
Quale dannazion di domestica sozzura non è congiunta colla tua vita?
Però che tutte danazioni e tutte sozzure sono congiunte a la vita tua
§14 proximis Idibus [diebus per Idibus]
di qui a pochi dì
di qui a brieve tempo
§19 ad suspicandum sagacissimum [suscipiendum per suspicandum]
molto maestro in riceverti
maestro in te ricevere
§20 si emori aequo animo non potes [morari per emori]
tu non puoi buonamente qui dimorare
tu no puoi qui istare
§25 ad hanc te amentiam natura peperit, voluntas exercuti [voluptas per voluntas]
a questa matta follia forse t’à menato natura, ausato dilettanza
a questa rabia t’à menato natura e usato diletanza
§26 vigilare non solum insidiantem somno maritorum verum etiam bonis otiosorum [occisorum per otiosorum]
non solamente vegghiare in aguatare lo sonno de’ mariti vivi, ma ancora per atrappare li beni de’ morti
no solamente veghiare per apostare al sonno i mariti vivi, ma ancora per atrappare i beni di coloro che sono ucisi*
* Si noti inoltre sia in A sia in B la significativa aggiunta dell’aggettivo vivi a qualificare mariti, evidentemente nel tentativo di creare un’opposizione con il successivo morti/ucisi.
Tav. 2 Testo lat.
Volg red. A
Volg. red. B
§1 nihil hic munitissimus habendi senatus locus
né che tu abbi avuto luogo nel senato
né ancora che tu abie luogo e uficio nel sanato di Roma
§3 C. Servilius Ahala Sp. Maelium […] manu sua occidit
Servilio Attilio di sua mano uccise Mellio bastardo [incomprensione del praenomen Spurio]
Servilio Atilia uccise co la sua propria mano Melio bastardo
§8 sensistin illam coloniam meo iussu meis praesidiis, custodiis, vigiliis esse munitam?
sentisti come fue guernita quella terra di gente di cittadini al mio comandamento, per mio sforzo e per mio vegghiare? [non è còlto correttamente il collegamento tra munitam e gli ablativi praesidiis, custodiis e vigiliis]
potesti tu bene vedere come le genti fuoro ad arme per mio comandamento e per la mia provedenza
§16 quae [sica] quidem quibus certo io non so chi da tte in fuori abbia fatto abs te initiata sacris ac devota boto di farne sacrificio di questo coltello sit nescio
io mi penso che tu abie botato di farne quale che sagrificio di questo coltello
§18 quicquid increpuerit, Catilinam timeri
e catuno riprende ch’io ò paura di te, Catellina [quicquid è confuso con quisquis e increpere è inteso non nell’accezione di ‘risuonare’ bensì in quella di ‘rimproverare’]
tutto lo mondo mi biasma de la paura ch’i’ òe di te, Catelina
§23 concita perditos civis
rauna gli sbanditi di Roma [incomprensione di concita ‘infiamma’]
ov’elli [sc. Malio] è ragunato con tutti i tuoi isbanditi
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Confermato il rapporto tra le due traduzioni, resta da stabilire quale redazione sia cronologicamente anteriore e costituisca dunque il modello per l’altra. A partire dalle impressionistiche considerazioni di Rezzi (1832) citate in precedenza, l’ipotesi che A sia il testo più antico è stata – correttamente, come vedremo – recepita dagli studi, anche se non mi pare che sia mai stata sottoposta a verifica puntuale, dato che a rigore nulla vieterebbe di pensare che B, stilisticamente inferiore e conservato in almeno un codice altrettanto (se non più) antico, possa precedere A. In assenza di prove dirimenti, credo che l’unica soluzione consista nel verificare se la traduzione della sezione finale, pressoché identica nelle due versioni, sia stilisticamente accostabile alla redazione A o piuttosto alla redazione B. Il compito appare attuabile in quanto esse presentano modalità traduttive nettamente distinte, che le rendono sotto il profilo stilistico ben definite. La redazione A, infatti, si caratterizza quale traduzione fedele, aderente al dettato ciceroniano, contraddistinta da un’elegante brevitas, con il risultato che – salvo rari e motivati casi – nulla è omesso e quasi nulla è aggiunto. Al contrario, la redazione B si conferma più libera nel rapporto col latino sotto il profilo sintattico e lessicale, con una forte tendenza ad ampliare l’enunciato, a introdurre banali amplificazioni retoriche e a esplicitare tutto ciò che è taciuto nel testo originale.9 Quanto detto si può rilevare mettendo a confronto le due traduzioni del ben noto esordio della Catilinaria (cf. infra, Tav. 3). Innanzitutto il legame tra le due redazioni, di cui abbiamo detto, trova ulteriori conferme fin da questo incipit. Non può infatti passare inosservata, in entrambi i casi, la resa di patientia con pacifica sofferenza: se in italiano antico è piuttosto comune la traduzione di patientia con sofferenza (così e.g. anche nella pressoché coeva traduzione di Brunetto della Pro Ligario),10 non può affatto dirsi «poligenetica» l’aggiunta dell’aggettivo pacifica. Allo stesso modo, difficilmente sarà casuale l’identico giro di frase Non t’à rimosso alquanto (in lat. nihil […] moverunt) o la perifrasi il guarnimento ch’è fatto di notte (in B con minima variazione il grande guernimento ch’è stato fatto ogni notte) per il lat. nocturnum praesidium.
mero > novero; A §8.1 de’ cittadini > di cittadini; A §11.2 e con coloro che > e coloro che; A §17.2 da tutti > di tutti; A §24.1 ch’a’ > ch’à’; B §5.2 bene fatto questo bene > bene fatto questo; B §22.3 nel tuo corpo > né ’l tuo corpo; B §27.1 il comune > lo stato. Tutte le citazioni del testo latino, infine, provengono da Maslowski (2003), edizione di cui si segue anche la paragrafazione. 9 In questo quadro si inserisce l’aggiunta in B di un lungo prologo (inc.: Catelina fue uno grande cittadino di Roma e nobile sanatore) nel quale si fornisce un ritratto di Catilina (con qualche vicinanza con la ben nota raffigurazione di Sall. Cat. 5) e si narrano le principali vicende della congiura, contestualizzando così il discorso dell’orazione. 10 Per le orazioni Cesariane mi avvalgo del testo per mia cura di recente pubblicazione (Lorenzi 2018), a cui mi riferisco anche per la paragrafazione.
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Tav. 3 Cic. Cat. 1, 1
Volg. red. A
Volg. red. B
Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? quam diu etiam furor iste tuus nos eludet? quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? nihilne te nocturnum praesidium Palati, nihil urbis vigiliae, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus, nihil horum ora vultusque moverunt? patere tua consilia non sentis, constrictam iam horum omnium scientia teneri coniurationem tuam non vides? quid proxima, quid superiore nocte egeris, ubi fueris, quos convocaveris, quid consili ceperis quem nostrum ignorare arbitraris?
Quando finalmente ti rimarrai tu, Catellina, d’usare in mala guisa la nostra pacefica sofferenza? Quanto lungamente farà scherno di noi questo tuo furore? A che fine si conducerà il tuo sfrenato ardimento? Non t’à rimosso alquanto il guarnimento ch’è fatto di notte in palagio, la guardia ch’à vegghiato per la cittade, il temore del popolo, né ’l comune consentimento di tutti li buoni uomini, né che tu abbi avuto luogo nel senato? Non t’à rimosso la presenza e ’l volto di costoro? E non senti che lli tuoi consigli son palesati? Non senti che lla tua coniurazione è già istrettamente in saputa di tutti costoro? Pensi tu che ssia alcuno di noi che non sappia ciò che ttu facesti ier notte e l’altra, e ove tu fosti e con cui ti raunasti e che consiglio prendesti?
Quanto tempo, Catelina, t’ài tu posto in cuore d’usare pur male la tua vita incontro a la nostra pacefica sofferenza? E quanto tempo farà beffe di noi la tua grande crudeltà? E a che fine dèe venire il tuo isfrenato ardimento? Non t’à rimosso alquanto il grande guernimento ch’è stato fatto ogni notte in sul grande palagio di Roma, né le guardie che sempre veghiano ne la cittade, né la paura del popolo, né ’l comune asembiamento di tutti i buoni uomini di questa cittade, né ancora che tu abie luogo e uficio nel sanato di Roma? E non t’à rimosso la presenza e la veduta di costoro, né gli ochi loro, che veggiono l’opere tue, non t’àe cambiato il tuo malvagio proponimento? Non senti tue che ’l tradimento tuo e ’l tuo consiglio e tutti i tuoi trattamenti sono già tutti saputi, e che la tua congiurazione è già palesata a tutti sanatori e consoli? Credi che ne sia alcuno in tra noi che no sapia apertamente quello che tue facesti ista notte e l’altra notte, e come voi vi ragunaste e chi fue con teco e che consiglio tu prendesti? Certo, tutto ciò sapemo noi bene.
Per quanto riguarda il lessico, si osserverà la maggiore aderenza al latino di A rispetto a B: si vedano furor (furore A : crudeltà B), iactabit (si conducerà A : dèe venire B), timor (temore A : paura B), vultus (volto A : veduta B). Aspetto peculiare della redazione B è, come accennato, la presenza di aggiunte esplicative (i complementi di specificazione di Roma o di questa cittade, il referente sottinteso sanatori e consoli) e di amplificazioni, talvolta modeste (il tricolon sinonimico ’l
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tradimento tuo e ’l tuo consiglio e tutti i tuoi trattamenti in luogo del lat. consilia, o la triplice inserzione, a breve distanza, dell’attributo rafforzativo grande, assente nel testo ciceroniano: grande crudeltà per furor, grande guernimento per praesidium e grande palagio per Palati), in altri casi molto marcate (la postilla né gli ochi loro, che veggiono l’opere tue, non t’àe cambiato il tuo malvagio proponimento e la risposta alla domanda retorica conclusiva Certo, tutto ciò sapemo noi bene). Un’ultima osservazione su questo incipit: non è facile dire se la traduzione in A di Palati con in palagio colga o meno il riferimento al toponimo del colle Palatino (e dunque in tal caso andrebbe stampato Palagio con la maiuscola) o se piuttosto, come è certo in B, sia inteso come sostantivo comune, denunciando così un fraintendimento del contesto. D’altro canto, il traducente palagio per Palatium ‘colle Palatino’ è comunissimo nei volgarizzatori due-trecenteschi (si ha anche in Bono Giamboni nel volgarizzamento di Orosio o nel Valerio Massimo volgare), mentre, con l’eccezione di un’isolata occorrenza di nuovo in Bono, tutte le più antiche attestazioni del toponimo Palatino si trovano solo a partire dalla traduzione della Prima Deca di Filippo di S. Croce (1323). Come detto, il dubbio svanisce però nella redazione B, dal momento che l’aggiunta dell’aggettivo grande appena vista assicura la mancata comprensione del riferimento topografico, e dunque conferma fin dalle prime righe una limitata conoscenza da parte del traduttore degli aspetti più peculiari dell’antica Roma, aspetti che peraltro avremo presto modo di osservare ancora. A conferma di un rapporto ben più libero col testo latino di partenza, non mancano anche casi – più rari, per la verità – in cui la redazione B si mostra nettamente scorciata, rendendo solo in modo generico il significato complessivo del corrispondente passo ciceroniano. Basti qui un secondo e più breve specimen, da cui si ricavano tali indicazioni: Tav. 4 Cic. Cat. 1, 22
Volg. red. A
Volg. red. B
Quamquam quid loquor? te ut ulla res frangat, tu ut umquam te conligas, tu ut ullam fugam meditere, tu ut ullum exsilium cogites? utinam tibi istam mentem di immortales duint!
Avvegna, di che mi travaglio? Che sia alcuna cosa che tti rompa? Che ttu unque ti corregghi? Che ttu pensi in qualche guisa di fuggire? Che tti vegna pensiero d’andartene in essilio? Volesse Idio che t’avesse dato tal cuore!
Ma ciò ch’io dico è niente, ché niuna cosa ti potrebe ismuovere d’andare fuori di questa cittade.
A fronte di quanto visto sin qui, basteranno un paio di estratti dalla sezione conclusiva dell’orazione per verificare come la prassi traduttiva sia senz’altro deci-
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samente più in linea con quella della redazione A, fatto che lascia così intendere che l’unica traduzione in origine completa fosse questa, sanzionandone, di conseguenza, l’anteriorità:11 Tav. 5 Cic. Cat. 1, 28
Volg. redd. A+B
praeclaram vero populo Romano refers gratiam qui te, hominem per te cognitum, nulla commendatione maiorum tam mature ad summum imperium per omnis honorum gradus extulit, si propter invidam aut alicuius periculi metum salutem civium tuorum neglegis.
Una bella grazia renderai al popolo [comune B] di Roma, il quale te uomo non conosciuto, se non per te [uomo che sè conosciuto solo per te medesimo B], senza commendagione de’ tuoi maggiori [senz’altra antichitade di tuo lignaggio B] àe inalzato alla somma signoria [add. di Roma e B] per tutti gradi delli onori, se per biasimo o per paura d’alcuno pericolo tu metti a non calere la salute de’ tuoi [di tutti B] cittadini!
Tav. 6 Cic. Cat. 1, 31
Volg. redd. A+B
etenim iam diu, patres conscripti, in his periculis coniurationis insidiisque versamur, sed nescio quo pacto omnium scelerum ac veteris furoris et audaciae maturitas in nostri consulatus tempus erupti. hic si ex tanto latrocinio iste unus tolletur, videbimur fortasse ad breve quoddam tempus cura et metu esse relevati, periculum autem residebit et erit inclusum penitus in venis atque in visceribus rei publicae.
Ché, sappiate per certo, padri sanatori, che già lungamente semo stati [che questi uomini sono stati lungamente B] in su questo pericolo della congiurazione, ma non so io per che ragione [cagione B] ogni scellerata opera, tutto [ogni B] vecchio furore ed ardimento [ardore B] è ora maturo [pare maturo B] ed esce fuori nel tempo del nostro consolato. E se pur questo uno solo di cotanti ladroni [solo uomo di tanto ladroneggio B] si toglie via, forse parrà che alquanto piccolo tempo siamo rallevati di sollecitudine e di paura; ma il pericolo ristarà e sarà rinchiuso nelle vene e dentro dal corpo del comune.
Ulteriore prova accessoria – se fosse ancora necessaria – potrebbe essere la coincidenza della traduzione di privatus con speziale tanto nella sezione comune (§28 privati > le speziali persone A+B) quanto nella sola redazione A (§6 privata domus > spezial casa; §13 privatarum rerum > fatti ispeziali), laddove B propone soluzioni diverse (rispettivamente propia casa e tue opere).
11 In questo caso per il volgare propongo il solo testo di A, con l’indicazione tra parentesi quadre delle eventuali varianti di B.
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D’altronde, che la dinamica di trasmissione sia questa (B rimaneggiamento di A) si intuisce anche dal confronto delle due versioni nella loro interezza. Dalle parole esordiali al §24 la redazione B risulta nettamente distinta da A, per diventare poi ai §§25–26 una più cauta revisione del primo volgarizzamento, fino ad appiattirsi completamente su di esso dal §27 alla conclusione (per quanto, come si rileva anche dagli excerpta appena citati, non manchi ancora qualche sporadico intervento, che muove sempre secondo le stesse direttrici di amplificazione ed esplicitazione): tutto insomma fa pensare che il compilatore di B, pur tenendo conto di A, volesse approntare una propria traduzione, ma che da un certo punto in poi, senza apparente motivo, rinunciasse via via all’idea, limitandosi a riproporre la prima versione minimamente ritoccata. Del resto, è comunque certo che il volgarizzatore di B, oltre alla redazione A, avesse sotto gli occhi un testimone latino, non fosse altro perché in alcuni luoghi della seconda versione si osserva una maggiore aderenza lessicale al testo ciceroniano, spesso in corrispondenza di alcuni passi difficili o problematici in A, benché pure la nuova traduzione di B risulti a sua volta nel complesso imprecisa, a dimostrazione della modestia del rimaneggiatore. Mi limiterò a un paio esempi significativi.12 Ecco il primo: Tav. 7 Cic. Cat. 1, 14
Volg. red. A
Volg. red. B
quid vero? nuper cum morte superioris uxoris novis nuptiis domum vacuefecisses, nonne etiam alio incredibili scelere hoc scelus cumulasti?
E che facesti tu novellamente, morta la prima moglie? Da cche avesti sgombrata la casa della novella moglie, non adiugnesti questa retade ad altra non credevole fellonia?
E noi sapemo bene ciò che tu novellamente facesti dopo la morte de la tua primaia moglie, che sopra le novelle nozze giugnesti male sopra male e crudelitade sopra crudelitade
Il volgarizzatore A, pur traducendo abbastanza correttamente, fatica a comprendere novis nuptiis (‘per le nuove nozze’), che rende in modo poco perspicuo con novella moglie, forse anche ignorando le doppie nozze di Catilina e le accuse infamanti sul nuovo matrimonio che ci consegna Sallustio (Sall. Cat. 15). In questo caso il rimaneggiatore B sembra avvalersi senz’altro di un testimone latino che gli permette di recuperare il corretto novelle nozze, per quanto poi si trovi in difficoltà con il successivo domum vacuefecisses, che non traduce, e risolva il senso complessivo con un generico sopra le novelle nozze giugnesti male sopra male.
12 Per altri casi cf. Maggini ([1939] 1952, 33); Lorenzi (2017a, 170–171).
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Questo invece il secondo esempio: Tav. 8 Cic. Cat. 1, 16
Volg. red. A
Volg. red. B
si hoc post hominum memoriam contigit nemini, vocis exspectas contumeliam, cum sis gravissimo iudicio taciturnitatis oppressus?
Se uomo si ricorda che cciò sia di nemico altrui, sì aspetti tu che ti sia detta vergogna, essendo congiunto per la grave sentenza del tuo tacere?
E ciò no avenne mai a cittadino di Roma; la quale cosa ti torna meravigliosamente a grande disonore. Ancora tu medesimo no facesti motto, e per quella insegna fue creduto il tuo malvagio pensamento.
L’autore di A fraintende completamente il senso della protasi del periodo ipotetico, forse a causa di qualche corruttela nella copia latina utilizzata (inimici per nemini?), mentre B restituisce più correttamente il senso, salvo poi tradurre il resto del passo con estrema libertà. Significativo però che entrambe le redazioni distorcano il significato del ciceroniano iudicio taciturnitatis, che in origine si riferiva non al silenzio di Catilina (del tuo tacere A : no facesti motto B), ma a quello dei senatori e degli amici che lo privano del saluto. Proprio il ricorso al latino consentirà anche di spiegare l’assenza dei pochi errori d’archetipo presenti in A, ovvero di quelle mende che a mia conoscenza si trovano in tutta la tradizione della prima redazione.13 Peraltro si affaccia anche il sospetto che B potesse avvalersi di un testo A che si collocava al di sopra dell’archetipo che oggi ricostruiamo, poiché al §29 (dunque nella sezione finale coincidente) B reca una lezione corretta a fronte di un errore dovuto a salto dallo stesso allo stesso, non facilmente emendabile per congettura:
13 Non è questa la sede per esporre i dettagli dell’analisi della vasta tradizione manoscritta della redazione A, che risulta comunque macchiata da un certo numero di errori d’archetipo, anche se talvolta qualche isolato codice pare recuperare la lezione corretta per via congetturale. Riporto dunque l’elenco dei soli luoghi in cui le traduzioni sono confrontabili e dunque è possibile rilevare come B sia privo della menda (in altri casi B, secondo le modalità che abbiamo visto, rielabora o scorcia nettamente il dettato, rendendo difficile il parallelo), indicando col sottolineato l’errore e tra parentesi quadre la necessaria correzione: §13 cui adulescentulo quem corruptelarum inlecebris inretisses non aut ad audaciam ferrum aut ad libidinem facem praetulisti? > A qual giovine, cui tu prendessi per diletto di corruzione, non desti o ferro o [a] ardire o faccellina a lussuria? A > tu sotrai i giovani fanciuli per mala coruzione e poi done loro ferro a ffolia e fuoco a lussuria B; §24 a cuius altaribus > a’ cui altri [altari] A > sopra lo cui altare B; § 26 inopiae rerum omnium > d’inopia e [om.] di tutte cose A; d’inopia di tutte cose B.
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Tav. 9 Cic. Cat. 1, 29
Volg. red. A
Volg. red. B
invidiae in posteritatem redundaret. quod si ea mihi maxime impenderet, tamen hoc animo fui semper
sopra me ne dovesse tornare alcuno biasimo […] n’appendesse a me, tutta volta sempre fui di questo animo
sopra me ne dovesse tornare alcuno biasimo. E se pur biasimo mi ne pertenese sì fu’ io sempre di questo animo
Tuttavia non si può affatto escludere che il rimaneggiatore ricorresse ancora al testo latino per sanare la lacuna: l’utilizzo in modo saltuario del testimone latino da parte di B anche negli ultimi paragrafi è infatti assicurato da uno sparuto numero di luoghi in cui le minime varianti di B vanno nella direzione di una maggiore aderenza al dettato ciceroniano: cf. il caso di §27 animis vestris mentibusque (al cuore e alla mente A : a l’animo ed a la mente B) o quello di §30 mollibus sententiis (con umile parole A : co·moli sentenzie B).14 In considerazione di ciò, viene peraltro meno la possibilità che l’autore della redazione B disponesse di un testo latino mutilo, come ipotizzato da Maggini ([1939] 1952, 33) per spiegare il suo diverso comportamento nella sezione finale.15
2 I limiti della redazione B Come forse si può intuire da quanto detto e dai saggi sin qui proposti, la redazione B risulta senz’altro inferiore ad A sia dal punto di vista stilistico sia per quanto riguarda la qualità complessiva del volgarizzamento, dal momento che il rimaneggiatore, oltre a conservare alcuni fraintendimenti di A, introduce di suo nuovi errori di traduzione o banalizzazioni, non di rado dovuti a una sua limitata conoscenza delle vicende di epoca romana. Si osservi il seguente esempio: 14 Per contro, nella sezione coincidente si segnala altresì una lacuna in B, verosimilmente d’archetipo, dato che il senso complessivo ne trae detrimento (è sottolineata la parte mancante): §§31–32 vivendo gli altri che rimarrebono, diverrebbe molto più grave. Per la qual cosa, vadansene i malvagi e sceverinsi da’ buoni, e raguninsi in uno luogo: finalmente, com’i’ò detto piusori fiate, il muro della cittade parta tra loro e ’ buoni A > vivendo gli altri che rimarebero, sarebe lo pericolo troppo più grave. Onde, finalmente, sì com’io ò detto giàe ispesse volte, le mura de la cittade partano i buoni da’ rei B. 15 Più in generale, invece, a séguito della nostra indagine sembra si possa riconfermare tutto ciò che sosteneva Maggini ([1939] 1952, 33) a proposito di B: «Io penso che si tratti di un rimaneggiamento di qualcuno che forse in origine voleva tradurre di suo, ma trovando nel testo troppe difficoltà ricorse spesso alla traduzione attribuita a Brunetto e cercò di metterla a nuovo».
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Tav. 10 Cic. Cat. 1, 15
Volg. red. A
Volg. red. B
Lepido et Tullo consulibus
essendo consoli Lepido e Tulio
Tulio Lepido, consolo di questa cittade
Qui l’autore di B cade in errore ritenendo Manlio Emilio Lepido e Lucio Volcacio Tullo un’unica persona anziché due distinte (sono i consoli dell’anno 66 a.C.). Un caso analogo si riscontra anche poco oltre, dove però non si può escludere in B un pasticcio a livello di trascrizione d’archetipo, in una sorta di lacuna per omeoteleuto: Tav. 11 Cic. Cat. 1, 19
Volg. red. A
Volg. red. B
ad Q. Metellum praetorem venisti. a quo repudiatus ad sodalem tuum, virum optimum, M. Marcellum [variante di due famiglie latine, il resto della tradizione: Metellum], demigrasti quem tu videlicet et ad custodiendum te diligentissimum
E tu allora ne venisti a Quinto Metello pretore e, rifiutato da llui, sì te n’andasti a quello valente uomo che già fu tuo compagno, Marco Marcello, il quale tu pensasti bene che sarebbe diligentissimo a guardarti
E alora andasti tu a Quinto Marco Marcello, il quale tu credevi bene ch’elli fosse savio
Nella redazione B i nomi dei due personaggi (Quinto Metello e Marco Marcello) vengono indebitamente accorpati in uno solo (non è chiaro se per errore del volgarizzatore o per accidenti della tradizione), dando così origine a una lacuna, per quanto inavvertita a livello di senso complessivo. Una scarsa dimestichezza con l’onomastica romana si rintraccia anche in un altro passo: Tav. 12 Cic. Cat. 1, 4
Volg. red. A
Volg. red. B
C. Mario et L. Valerio consulibus fue il comune messo in signoria fue data la guardia del est permissa res publica di G. Mallio e L. Valerio consoli comune a Gaio e Lucio consoli
Rileviamo subito come, mentre il primo volgarizzatore registra correttamente i nomi dei due consoli dell’anno 100 a.C. (ossia Gaio Mario e Lucio Valerio Flacco), il rimaneggiatore di B si limita a riportare i soli praenomina (Gaio e Lucio), rendendo di fatto poco perspicuo il testo.
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Restando nell’àmbito dell’onomastica, pongo all’attenzione un ulteriore luogo, in cui la traduzione tradisce altri limiti, da ricondurre una volta ancora alle imprecise conoscenze che del mondo romano hanno entrambi i volgarizzatori (ma, al solito, soprattutto l’autore della redazione B): Tav. 13 Cic. Cat. 1, 8
Volg. red. A
Volg. red. B
dico te priore nocte venisse inter falcarios – non agam obscure – in M. Laecae domum; convenisse eodem compluris eiusdem amentiae scelerisque socios. num negare audes?
Io nol ti dico di nascoso: tu venisti l’altra notte intra ’ falcari, e nella casa di N. della Leccia si raunaro molti di tua amistade, compagni d’uno medesimo misfatto. Ardiscil tu a negare?
E questo non dico in celato, ché l’altra notte venistù con tuoi sergenti e compagni di tuo seguito e foste insieme in casa di M. da la Lecia, e ciò no puoi tu negare
Appare evidente la difficoltà del primo volgarizzatore (e il rimaneggiatore in questo va di conserva) a intendere il cognomen Leca, che viene scambiato per un toponimo, come si deduce anche dalla resa al paragrafo successivo (fosti […] alla Leccia per fuisti […] apud Laecam, mentre la traduzione corretta sarebbe stata «fosti presso Marco Leca»). La copia latina utilizzata dall’autore della redazione A doveva peraltro presentare un banale scambio M./N. del praenomen, a meno che il guasto non sia da ascrivere all’archetipo volgare; e tale testo latino recava verosimilmente anche la lezione amicitiae in luogo di amentiae, forma che spiega la traduzione «di tua amistade». Interessante poi notare come A traduca con un calco la non comune parola latina falcarius ‘fabbricante di falci’: la resa falcari è un hapax che non ha altre attestazioni in volgare, come si ricava consultando il TLIO e il GDLI. E proprio l’assoluta rarità della voce (tanto in latino quanto in volgare) spiegherà le incertezze del rimaneggiatore della redazione B, che, forse non comprendendone il significato, evita il termine falcari e si limita a rendere l’intero passo in modo più vago per sanare la falla, facendo ricorso (un po’ impropriamente in questo contesto) al termine sergenti.
3 Alcune questioni lessicali In tema di lessico, vorrei soffermarmi sulla resa in A e in B di alcuni tecnicismi latini privi di precisi referenti in epoca medioevale, e dunque utili per comprendere il grado di assimilazione della latinità e della storia romana da parte dei
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due volgarizzatori. Mi concentrerò in particolare su una serie di termini legati alle istituzioni politiche, civili e religiose del mondo romano, che possiamo facilmente analizzare anche grazie agli strumenti di cui oggi disponiamo, in particolare i Corpora DiVo (Dizionario dei Volgarizzamenti) e ClaVo (Corpus dei Classici Latini Volgarizzati), da cui ricavo l’esemplificazione e a cui rimando per le edizioni di riferimento. In primo luogo andrà registrata, in entrambe le redazioni, la traduzione al §4 della carica di tribunus plebis con un attualizzante signor del popolo («fece morire L. Saturnino, signor del popolo», secondo A); tra i volgarizzatori coevi senz’altro più consueta è la resa con il prestito tribuno del popolo: così per esempio di norma Bartolomeo da S. Concordio nel Catilinario e nel Giugurtino, ma anche Brunetto Latini nella Pro rege Deiotaro volgare;16 il solo Bono Giamboni alterna con una certa frequenza nel volgarizzamento delle Historiae adversus paganos di Orosio il latinismo tribuno del popolo all’indigeno capitano del popolo.17 Su questa falsariga Bartolomeo da S. Concordio – come noto fine conoscitore della latinità, secondo quanto ricordava già Segre (1953, 33–34) – in un’occasione aggiunge al calco una glossa esplicativa più articolata: «tribuno, cioè capitano e difenditore del popolo» (Catilinario, 43.1). La generica resa signore del popolo che troviamo nella Catilinaria non è però del tutto inusitata: se ne trova minima traccia in un paio di occorrenze ravvicinate di nuovo nell’Orosio volgare di Bono, seppure entro glossa o in dittologia sinonimica, al fianco del prestito latino: «tribuno, ciò è segniore del popolo (Orosio volg. V.17.10) e «tribuno et sengniore del popolo» (V.17.11). Insomma, la formula usata da A e B non era affatto comune, anzi direi quasi sconosciuta al lessico dei volgarizzatori duecenteschi e primo-trecenteschi. Allo stesso modo, un unicum è pure la traduzione di praetor, tanto nella redazione A quanto nella redazione B, con generale giudice della terra al §4, espressione che fa il paio con la resa di praetor urbanus con giudice della cittade al §32. Esclusiva presso tutti i volgarizzatori più antichi è infatti la resa con il semplice calco pretore (compare anche nella Pro Ligario di Brunetto), che peraltro è utilizzato anche dal volgarizzatore di A in un altro luogo (§19).18
16 Cf. Pro rege Deiotaro, §31.1; nell’unica altra occasione in cui nelle orazioni Cesariane compare l’espressione tribunus plebis (Pro rege Deiotaro, §11.1) Brunetto non la traduce. 17 Sulla particolare resa capitano del popolo da parte di Bono cf. in questo stesso volume il contributo di Enrico Faini (Vegezio e Orosio: storia, cavalleria e politica nella Firenze del tardo Duecento, pp. 237–254, §4). 18 In B invece non è possibile verificare la resa del termine, in quanto la traduzione è nettamente scorciata (cf. supra).
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Se invece prendiamo in esame la carica del pontifex maximus, che compare al §3 in relazione a Publio Scipione, noteremo che l’autore della redazione A traduce con grandissimo pontefice, secondo quella che è la resa più comune tra i volgarizzatori più antichi (benché qualcuno, come Brunetto, Pro rege Deiotaro §31.2, preferisca a grandissimo il grado positivo grande). Curioso piuttosto che il rimaneggiatore della redazione B senta la necessità di rifiutare il calco e scelga di introdurre una glossa esplicativa («Publio Iscipio, uomo di grande autoritade»), che tuttavia lascia più di qualche dubbio sull’effettiva comprensione da parte del volgarizzatore del preciso referente che il termine designa. Propongo infine un ultimo passo significativo, al §11, già cursoriamente segnalato da Gianni A. Papini (1981, 9): Tav. 14 Cic. Cat. 1, 11
Volg. red. A
Volg. red. B
cum proximis comitiis consularibus me consulem in campo et competitores tuos interficere voluisti, compressi conatus tuos nefarios amicorum praesidio et copiis nullo tumultu publice concitato
me consolo, con gli miei prossimi compagni consolari, e coloro che dimandavano come tu le dignitadi volesti uccidere nel Campo Marzio, ed io ristrinsi li tuoi malvagi intendimenti con aiuto d’amici, senza fare alcuno romore in comune
e ’l somigliante ò fatto poi ch’i’ fui a l’uficio; e sì ssai bene che ’l dìe che tue volesti ucidere coloro che voleano avere le dignitadi nel Campo Marzio altresì come tu, noi rafrenamo lo tuo malizioso intendimento co·l’aiuto de’ miei amici, sanza farne niuno romore tra le genti del comune
Come si può notare, il primo volgarizzatore si trova in difficoltà dinanzi al termine comitium (non coglie il significato dell’espressione comitia consularia ‘comizi consolari’), tanto che si direbbe che fraintenda comitiis con comitibus ‘compagni’: d’altronde, che non si tratti di una cattiva lettura del codice latino utilizzato, ma piuttosto di un vocabolo a lui sconosciuto sembra si possa dedurre dal fatto che anche poco oltre, al §15, di fronte al latino stetisse in comitio cum telo egli non traduce in comitio (rende infatti soltanto tu fosti armato). Per contro, il significato di consularis doveva essergli noto, visto che ricorreva già – come sostantivo – al §4 dell’orazione, e lì lo restituiva con calco latino (Fulvio consolare).19 Il rimaneggiatore a sua volta non è in grado di tradurre correttamente, pur con l’ausilio del testo latino: anzi, di fronte alla traduzione di A prossimi compagni consolari,
19 Si noti tuttavia che in altra occasione (§17) consulares è reso impropriamente da A con consiglieri (e l’errore è mantenuto anche in B).
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probabilmente non capendone il significato, preferisce eliminarla, come gli abbiamo visto fare in casi analoghi (e.g. con falcari). Interessante infine la resa di competitores in A con coloro che dimandavano come tu le dignitadi (e con minime varianti in B: coloro che voleano avere le dignitadi […] come tu), cioè ‘coloro che partecipavano, come te, alla competizione per le cariche’; l’ampia perifrasi non è completamente priva di riscontri nei volgarizzamenti coevi (cf. e.g. l’esito «coloro che una medesima cosa adomandano» nelle tre redazioni del volgarizzamento delle Epistulae di Seneca, ricavabile dal Corpus CLaVo), anche se non mancano in antico traduzioni sintetiche come addomandante o addomandatore (volgarizzamento della Quarta Deca di Livio) o il calco competitore (Terza Deca volgare).
4 Conclusioni Chiudo dunque con qualche minima riflessione, che tocca inevitabilmente la questione attributiva sottesa al primo volgarizzamento. Anche la sommaria analisi lessicale che ho proposto sembra continuare a sollevare dubbi sulla liceità dell’attribuzione a Brunetto della redazione A: come già ipotizzavo in altra sede,20 se davvero si vuole pensare a Brunetto (e tutto sommato pare un po’ azzardato in assenza di conferme dalla tradizione, che per contro ci consegna concordemente un volgarizzamento adespoto), si dovrà almeno ammettere l’anteriorità di questa traduzione rispetto a quella delle orazioni Cesariane (Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Deiotaro), poiché nella Catilinaria il volgarizzatore dimostra una minore dimestichezza con certa terminologia tecnica latina, rifiutando in più di qualche caso dei calchi latini e proponendo perifrasi esplicative in volgare non sempre precise e con esiti non di rado privi di altri esempi nella lingua antica, almeno per ciò che sappiamo. Per quanto riguarda la redazione B, poi, i limiti del volgarizzatore sono ancora più evidenti, sia sotto l’aspetto stilistico, sia – soprattutto – per ciò che concerne le sue conoscenze della storia romana, il che comporta numerosi fraintendimenti relativi a personaggi storici e palesi incomprensioni di termini della cultura materiale. Insomma, sotto ogni punto di vista la versione B risulta nettamente inferiore rispetto alla prima redazione, e forse anche questo sarà uno dei motivi della sua minore fortuna entro la tradizione manoscritta.21
20 Lorenzi (2015, 391–392). 21 Come ricordava Tanturli (1986, 842), infatti, «chi riveda una traduzione già fatta, sarà almeno del suo livello; se stranamente ne fosse inferiore, il nuovo prodotto non si imporrà sul vecchio».
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Giulio Vaccaro
Storia e geografia di un centone di volgarizzamenti: il Libro dell’Aquila Abstract: The Libro dell’Aquila is a mid-14th century collection of vernacular texts, such as Dante’s Divina Commedia, Guido da Pisa’s Fiorita, Filippo Ceffi’s translation of the Ovidian Heroides, Fatti di Cesare and two anonymous translations of Aeneis. The paper focuses on the creation of this textual collection, especially on the cultural milieux in which it was produced. Keywords: Aquila; Libro imperiale; Dante Alighieri; genealogies
1 L’Aquila: composizione di un centone L’Aquila o Aquileida o Aquila volante (queste le varie titolazioni con cui la si trova nei manoscritti e nelle stampe) è un’anonima silloge in volgare, divisa in quattro libri (cinque nelle edizioni a stampa), che raccoglie materiali eterogenei tratti, in diversa misura, da volgarizzamenti di opere classiche e medievali, da commenti danteschi e dalla Commedia (almeno nei primi due libri spesso con la mediazione della Fiorita di Guido da Pisa). L’opera è trasmessa da tre manoscritti e 15 edizioni antiche a stampa. I manoscritti sono il tardo-trecentesco Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Morbio 3 (M), che presenta una patina linguistica bassolaziale; il più tardo (è datato 1447) Paris, Bibliothèque nationale de France, ital. 438 (P), di area napoletana; e il settecentesco Catania, Biblioteche riunite Civica e A. Ursino Recupero, C. 65 (che è copia dell’edizione a stampa del 1517). A questa sostanziale limitatezza della diffusione del testo fino al Quattrocento inoltrato, fa séguito invece una grandissima diffusione Nota: Questo contributo sviluppa alcune linee di ricerca nate nell’ambito del progetto FIRBFuturo in Ricerca DiVo-Dizionario dei volgarizzamenti, coordinato da Elisa Guadagnini e da me presso l’«Opera del Vocabolario Italiano» e presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, e si è sviluppato durante il mio periodo di visiting researcher presso il Deutsches Historisches Institut di Roma. I criteri di trascrizione dai manoscritti sono quelli di Frosini (2012). Molto devo per confronti, spunti, suggerimenti a Maria Grazia Blasio, Cosimo Burgassi, Caterina Canneti, Claudio Ciociola, Cristiano Lorenzi Biondi, Andreas Rehberg, Veronica Ricotta. Indirizzo di corrispondenza: Dr. Giulio Vaccaro, «Opera del Vocabolario Italiano» – Istituto del C.N.R., Via di Castello 46, I-50141 Firenze. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-012
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a stampa. La princeps (Napoli, Ayolfo de Canthono, 1492: N) si presenta come un prodotto di notevole dignità libraria, ben rappresentativo della cultura tipografica napoletana dell’ultima età aragonese.1 Il testo conosce poi tre ristampe entro la fine del Quattrocento2 e undici ristampe fino al 1565,3 anno cui risale l’ultima edizione dell’opera, che non ha goduto di alcuna fortuna editoriale in epoca moderna. Dal punto di vista testuale, come ha notato Massimo Zaggia (2014, 189), tutte le stampe costituiscono un’unica linea di filiazione rispetto alla princeps (riagganciandosi o direttamente a quest’ultima oppure a precedenti ristampe), dalla quale si distanziano per sporadiche correzioni degli errori più evidenti, e soprattutto per alcuni interventi più o meno larghi di revisione formale, soprattutto nel senso di una riduzione della patina fonetica centro-meridionale. Dal punto di vista dell’organizzazione del testo, inoltre, le stampe dividono in due libri distinti quello che nei manoscritti è il iii libro: il primo dei due, dunque, coincide con quello dei manoscritti per la porzione che va dalla narrazione della congiura di Catilina fino alla battaglia di Farsalo; finiscono invece in un iv libro a sé stante l’ultima parte della narrazione lucanea fino alla morte di Catone e la parte svetoniana in cui si narra l’uccisione di Cesare. Nella princeps ancora non compare il titolo di Aquila volante, bensì solo quello di Aquila, inserito a occhiello nella risguardia iniziale delle successive stampe. Solo a partire dall’edizione del 1497 la titolazione della princeps («Opera
1 Questa è una descrizione basata sull’esemplare Roma, Biblioteca Casanatense, inc. 44 (sono noti ai repertori altri 15 esemplari). Ed. in folio (mm 298 × 210). Ff. non numerati, ma 156. Fasc.: A8, a8-g8, h6, i6, k8, l8, m6, n8, o6-s6, t8, u8, x4. Car. romani; ll. 39. Cornici silografiche ai ff. 1v, 2r. Cf. GW 5649; ISTC ib01231000. Tit. a f. 1v: «Opera intitulata la Aquila composta per missere Leonardo Aretino»; colophon a f. 156r: «Qui finisse (laudando la divina Gratia) la excellente et delectabile opera intitulata l’Aquila composta per lo magnifico et doctissimo homo misser Leonardo Aretino et da ipso curiosamente translata da latino in vulgare sermone ad laude et gloria de quella felice memoria de Iulio Cesare Augusto imperatore delli potentissimi romani, et impressa o vero stampata a Napoli per lo magnifico Ayolfo de Canthono cithadino de Milano alli anni Domini M.cccc.lxxxxii a dì xxvii del mise de Iunio dello instante anno de la x inditione». Inc.: «Secundo che dice Aristotile nel principio de la Metafisica». Expl.: «E tucto lo splendore manderà in quillo luoco dove staranno li beati, a ciò che sia a loro maiore allegreza et gloria». 2 Rispettivamente: 1494, Venezia, Pellegrino de’ Pasquali: GW 5650, ISTC ib01232000; 1495, Milano, Antonio Zarotto: GW 5651, ISTC ib01233000; 1497, Venezia, Teodoro Ragazzoni: GW 5652, ISTC ib01233100. 3 Rispettivamente: 1506, Venezia, Pietro Quarengi: Edit16, i, 2216; 1508, Venezia, Pietro Quarengi: Edit16, i, 2217; 1508, Milano, Giovanni Antonio Castiglione: Edit16, i, 2218; 1517, Venezia, Alessandro Paganino: Edit16, i, 2219; 1531, Venezia, Melchiorre Sessa: Edit16, i, 2220; 1535, Venezia, Melchiorre Sessa: Edit16, i, 2221; 1539, Venezia, Melchiorre Sessa: Edit16, i, 2222; 1543, Venezia, Melchiorre Sessa: Edit16, i, 2223; 1549, Venezia, Melchiorre Sessa: Edit16, i, 2224; 1563, Venezia, Francesco Lorenzini: Edit16, i, 2225; 1565, Venezia, Alessandro Viani: Edit16, i, 2226.
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intitulata la Aquila composta per Missere Leonardo Aretino») viene sostituita dalla più complessa indicazione che attribuisce a Leonardo Aretino sia una prima stesura in latino sia il successivo volgarizzamento.4 Tale indicazione è estratta dalla dichiarazione che si trova già nell’explicit della princeps: «Qui finisse (laudando la divina Gratia) la excellente et delectabile opera intitulata L’Aquila composta per lo magnifico et doctissimo homo misser Leonardo Aretino, et da ipso curiosamente translata de latino in vulgare sermone ad laude et gloria de quella felice memoria de Iulio Cesare Augusto Imperatore delli potentissimi Romani». Nelle edizioni Sessa l’intitolazione viene notevolmente ampliata, e al nome di «messer Leonardo Aretino» viene giustapposto quello di Dante: Libro intitolato Aquila Volante, di latino in volgar lingua dal Magnifico et eloquentissimo messer Leonardo Aretino tradotto. Nel qual si contiene del principio del mondo, di molte dignissime historie et favole di Saturno et Giove, delle gran guerre fatte da’ Greci, da’ Troiani, et da’ Romani fin al tempo di Nerone, con molte degne allegatione di Dante et altri autori.
L’Aquila è, dunque, uno dei molti testi prodotti in Italia nel corso del Trecento e della prima metà del Quattrocento che cuciono e rielaborano fonti di varia provenienza e di varia natura; tutti questi testi sono riconducibili tuttavia a un medesimo meccanismo compositivo che vede impiegati tre punti fondamentali: (1) altre compilazioni italiane che fungono da fonte e da modello (come la Fiorita di Guido da Pisa5 o quella di Armannino giudice);6 (2) volgarizzamenti di compilazioni prodotte in area francese (come l’Histoire ancienne7 e i Faits des Romains);8 (3) volgarizzamenti dal latino, con testi spesso abbondantemente rimaneggiati, ritagliati e rimescolati. A essere saccheggiati in questi testi sono in particolare il Chronicon latino di San Girolamo, Guido delle Colonne, Martino Polono (a sua volta grande raccoglitore di opere precedenti, come l’Historia miscella in cui
4 Si noti che l’esclusione della paternità dell’Aretino arrivò solamente alla fine dell’Ottocento grazie agli studi di Parodi (1887; 1889). Ancora Zambrini (1857, §621; 41884, col. 410) riteneva «i concetti quasi tutti, le frasi, e frequentemente le parole stesse, e i periodi del Fiore d’Italia si ritrovano nell’Aquila volante di Lionardo Aretino, a cui non puossi percò risparmiare la taccia di plagiario». Anche Giuseppe Mazzatinti (1880, 7–9) pone in parallelo le due opere, attribuendo tuttavia il ruolo di plagiario non all’Aretino ma a un copista che avrebbe commistionato il testo originale con quello di un manoscritto della Fiorita. 5 Per l’edizione del testo cf. Muzzi (1824); il censimento dei manoscritti è in Bellomo (1990; ulteriori manoscritti sono segnalati in Rinoldi 1998 e Lorenzi 2009); per un inquadramento culturale del testo, cf. Badon (1984–1985) e Bellomo (2000). 6 Su cui cf. Quarello (2012/2013). 7 Su cui cf. Ronchi (2004; 2005); Di Sabatino (2016). 8 Sulla tradizione dei Fait des Romains in Italia rimangono fondamentali gli studi di Parodi (1889, 295–299) e Flutre (1932).
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confluisce, per esempio, Paolo Diacono), ma – soprattutto – Orosio. Quest’ultimo è di gran lunga l’autore più saccheggiato (anche a partire dal volgarizzamento realizzato a Firenze nell’ultimo quarto del Duecento da Bono Giamboni): a Orosio fondamentalmente si deve infatti lo schema strutturale che pervade la più parte delle compilazioni sia latine sia volgari, ossia la divisione della storia del mondo in sei età e l’idea di fondo che vede la Storia come storia della Salvezza. Ciò, ovviamente, legittima e nobilita il ruolo dell’Impero nella redenzione. Dal punto di vista della formazione della compilazione e della tradizione, l’Aquila non fa eccezione. Il risultato è, infatti, una congerie eterogenea di testi, che si può con qualche semplificazione riassumere secondo questo schema:9 dopo il Prologo, il libro i si occupa della creazione del mondo, della mitologia greca e delle fatiche di Ercole, riprendendo la materia quasi integralmente dalla Fiorita di Guido da Pisa; il libro ii racconta invece le vicende di Enea, attingendole da tre fonti distinte: ancora Guido da Pisa, l’anonimo volgarizzamento fiorentino attribuito tradizionalmente ad Andrea Lancia10 (con la notevole aggiunta, all’altezza della partenza di Enea da Cartagine, del volgarizzamento della epistola di Didone in una versione riconducibile al volgarizzamento fiorentino di Filippo Ceffi)11 e la cosiddetta «Eneide magliabechiana»;12 gli ultimi capitoli del ii libro colmano la cronologia della discendenza di Enea e la storia di Roma fino all’avvento di Cesare, attingendo il testo alle sezioni iniziali del Chronicon di Martino Polono
9 La struttura dell’Aquila è riepilogata nel Prologo: «Nel principio, cioè nel primo libro, tractarimo del principio del mundo discendendo per la stirpe de Iove, che portò in cima confalone dell’aquila d’oro nelle parte di Grecia infine alla destructione de Troya, et narraremi deli cinqui Ri de Italia, et de altre hystorie concorrente ad quillo tempo. Nel secundo libro tractarimo del partimento de Enea da Troya et dele fortune recepecteno per lo camino, et como arrivò in Italia, et deli quatordici Ri che che regnareno de po’ luy et del nascimento de Romolo et como edificò Roma et de li septe Ri che regnarono da po’ luy in Roma; et de li Consuli et tribuni che succesero al gubernamento della republica poi che cacciaro Tarquinio re. Nel terzo libro tractarimo delli altri facti et dicti in Iulio Cesare et de suo nascimento fino alla sua morte; lo quale portò lo confalone dell’aquila d’oro nel campo vermiglio como dice Lucano nel suo libro. Nel quarto libro tractarimo del lignagio deli descendenti de Cesare et delle loro bactagli et fortune, li quali remasero in terra di Roma, et per Campagna sparti de po’ la morte di Nerone imperatore di Roma. Lo quale fue l’ultimo del lignangio di Cesare, che per suoi vicii tucti li parenti furono mandati in exilio di fuor di Roma». Per un’analisi complessiva delle fonti e della struttura dell’opera, rimando a Blasio/Vaccaro (2018, Parte i). 10 Per l’edizione del testo cf. Fanfani (1851); per la tradizione del testo cf. Tanturli (2000) e Bertin (2014). 11 Il rapporto tra l’Aquila e l’epistola vii del volgarizzamento del Ceffi è stato indagato nel monumentale lavoro di Massimo Zaggia sull’Ovidio fiorentino (Zaggia 2014, 184–197). 12 Su questo testo cf. Guadagnini/Vaccaro (2016, 303–306) e infra, n. 15.
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(nella recensio C);13 il iii libro è centrato sulle imprese di Cesare ed è una riproposizione della «versione breve» del volgarizzamento dei Faits des Romains (ossia i Fatti di Cesare);14 il iv libro, invece, narra dei discendenti di Cesare da Ottaviano a Nerone (nell’ordine: Ottaviano, figlio della sorella di Cesare, Giulia, per questa via discendente di Enea; Tiberio, figlio di Livia, poi moglie di Ottaviano, e figlio adottivo di quest’ultimo; Caligola, figlio di Druso, a sua volta figlio naturale di Tiberio; Claudio, fratello di Tiberio; Nerone, figlio del fratello di Caligola) e si chiude con un piccolo trattato storico e geografico sul territorio della Campagna (il cosiddetto Sito et conditione de Campagna). È proprio questa parte finale a rivelare l’intento dell’opera, ossia l’esplicitazione della genealogia dei conti di Ceccano (e – in subordine – dei Prefetti di Vico) e l’illustrazione dei loro possedimenti: Poi che fu facta Roma anni .viiii. cento .xxiiii., morto Nerone Cesare dicto Galicola, solo dui ioveni, chiamato uno Marco Menio e l’altro [Tito] Menio, li quali erano fratelli et erano stati parenti de questo Nerone, desciesi dela schiata de Iulio Cesare, camparo dela ira perhò che essendo lo remore grande per la cithà de Roma, dicendo «moira moira Nerone e li soi». Questi per gran paura, vestiti de biscio et de vili panni, fugero for dela cithà di Roma di longo al Thevere in uno loco chiamato speluncha Saturnina, et quivi se nascosero per lo gran timore et stettero appiactati, overo inascosi, doi dì denza mangiare. Questa speluncha era oscura et spaventevole, et antichamente in questa speluncha li demonii in specie delli dii soliano dare responso al rempio de Saturno, et perhò era chiamata speluncha Saturnina. Unde la nocte dormendo questi ioveni, li venne in visione Iulio Cesare, dicendo a questi che se partessero da questo et non andasseno più insieme, ma l’uno andasse la via de levante, et l’altro la via de ponente. Desvegliati questi ioveni lo matino, l’uno recitò la visione all’altro, et pensaro veramente che questo era comandamento divino, credendo che dio Querino, loro dio de Roma, li havesse mandato questo. Stando costoro in tanto dubio la fame li incalzò la paura constringendoli de partirse per defecto de victuaglia. La matina seguente se parterono inanti giorno, onde piangendo con molto spandere de lachrime si departero l’uno dal’altro. Unde Marco Menio hobedendo la visione divina fece la via de Toschana che se chiama lo Patrinio, ove poi hedificò la cithà de Orvieto, che tanto è a dire quanto ‘terra vecchia’; perhò ch’era sbandito et di fora dela gratia del Senato et erali vetato de andare ad Roma, così volse che fosse vetato ali romani de andare ad questo loco: questo loco era forte et expugnabile a tucto ’l mondo. Unde poi ciascuno che era sbandito dal Senato per debito o per homicidio se recuperava in questo loco così forte, ove non timeano nè bando nè corte; et così in poco tempo multiplicò et fecese sì grande cità. Dicesi che da quisto Marcho sonno
13 Per il testo latino cf. Weiland (1872, in part. 399–406) e von den Brincken (2014). Su questi impieghi e per le altre fonti indicate cf. Blasio (2003, 175). 14 Di questa fortunatissima redazione si conoscono 41 testimoni. Il testo è stato pubblicato da Luciano Banchi (1863) sulla base dell’antico manoscritto Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati, I.vii.6 (sec. XIII ex.–XIV in.), collazionato con altri due manoscritti senesi (I.vii.4 e I.vii.5); con Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.ii.74 e Biblioteca Medicea Laurenziana, plut. 91 sup. 52. Per la tradizione del testo cf. Papini (1973).
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descisi quelli de casa de Vico, unde ène lo prefecto de Roma. Poi volando la fama per la provincia de Roma dela forteza de quisto loco et dela francheza ch’era, cioè che ciascuno sbandito se recuperava in quillo loco. Lo fratello Tito fece la via de Campagna, ove poi hedificò in uno monte uno castello, lo quale per suo nome fo chiamato Menio, et hora è chiamato Magensa. De quisto Tito sono desciesi questi de casa de Ceccano [L. iv, cap. 4].
2 Il tempo e lo spazio: l’Aquila nel basso Lazio La datazione dell’Aquila rimane abbastanza incerta. Attribuita tradizionalmente alla metà del Quattrocento, sulla scorta della datazione del codice Paris, Bibliothèque nationale de France, ital. 438, a lungo l’unico testimone manoscritto noto,15 essa è collocabile – come ha dimostrato Maria Grazia Blasio (2003, 175) – senz’altro entro il 1417: il termine si giustifica con la sequenza di pontefici provenienti dalla Campagna elencati nell’opera, che si arrestano con Bonifacio VIII, «recando quindi un dato non trascurabile, seppure non decisivo, per escludere un’elaborazione dell’Aquila che raggiunga il 1417, la fatidica data che segnò la fine dello Scisma con l’elezione a Costanza di Martino V Colonna nato nel 1368 a Genazzano». Tuttavia il contenuto dell’opera orienta decisamente verso una datazione più alta, probabilmente intorno alla metà del Trecento, all’altezza del più illustre dei rappresentanti della famiglia Da Ceccano, il cardinale Annibaldo.16 Non si può escludere tuttavia del tutto, visto pure il riferimento nell’opera anche alla casata dei Prefetti di Vico, che essa si possa collocare nei tardi anni Cinquanta o negli anni Sessanta, nell’ambiente di Margherita da Ceccano, contessa di Vico (benché paia assai improbabile che la famiglia cui apparteneva Pietro Pipino, marito della contessa, avesse qualcosa a che fare con i Prefetti di Vico, potrebbe aver agito almeno un effetto eco).17
15 Cf. Ragazzi (1984, 300, con datazione generica al Quattrocento); Bellomo (2000, 230: «in questa forma risale alla metà del ’400»); Vaccaro (2009, 371, con datazione generica al Quattrocento). Più ampio Zaggia (2014, 184: «tra fine Trecento e prima metà del Quattrocento»). Rimanda almeno al tardo Trecento la datazione proposta da Lagomarsini (2018, 13), sulla scorta della datazione del manoscritto Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.iv.32, usato nell’Aquila per l’ultima parte del L. ii: «l’Aquila accoglierebbe anche alcuni brani tratti da un altro compendio tardo-trecentesco in prosa, finora rimasto inedito e contenuto nel ms. Firenze, BNC, II IV 32 (sec. XIV ex.)». Per il volgarizzamento «magliabechiano» e una diversa ipotesi sulla sua datazione (al secondo quarto del Trecento) cf. Guadagnini/Vaccaro (2016, 303–306) e Vaccaro (2018a, 224– 229). Va corretta l’ipotesi di Lagomarsini (2018, 13) che vede nell’Aquila un «altro poema in ottave che si è erroneamente attribuito a Leonardo Bruni». 16 Cf. Blasio (2004); Miglio (2006, ad loc.); Internullo (2016, 304). 17 Su Margherita da Ceccano cf. Romanini (2012, 161–166).
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Un ulteriore dato ai fini della cronologia può venire dal capitolo, estratto dal Sito et conditione de Campagna, Delli citati et castella che so nella provincia de Campangia et Maretema, in cui è descritta la situazione territoriale della Campagna. 1
Campangia antiquamente abe molte citati, como fo Capua, Napuli, Gayta, Salerno, Nola, Fonde, et multe altre citadi che mo sonno destructe in parte et in parte fora troppo longo a dire.
2
Ma poi che Campangia fo seperata, remase multo piccola provincia, però che nela provincia di Campangia non so remase se non vii citati che aviano episcopato, e so questi: la cità de Anangi, la cità de Sengie, la cità de Bellitri, la cità de Ferentino, la cità de Alatro, la cità de Veroli, la cità de Taracina.18
3
Vero è che sonno anchora in Campagna quattro comunanze che antiquamente forono citati, l’una è Piperno, l’altra Seze, l’altra Core et l’altra Guarcini.19
4
Lu Papa ave in Campangia lo titulo del Contato, però che ’l suo officiale è chiamato Conte de Campangia et de Maretima, zoè della marina de Campangia; castella soe proprie non so più che vi: le quali lu primo e llu melliu è Fresulone, ove tene corte lu Conte de Campangia; l’altro è Flumone; l’altro è Paliano; l’altro è Castro; l’altro è Anticuli; l’altro è la rocca de Lariano; l’altro è l’Acqua puza.20 5
Sono anche nella provincia de Campagna infinito numero de castella, le quali so de multi singiori, como è casa de Ceccano, casa delli Conti, casa de Sopino, casa de miser Macthia, casa dellu Pillio, casa de Treve, casa Gaytana, casa de Sompnino. Sonce anche alcuni piccoli baruni che forria troppo longo a contare.
6
Le castelle de casa de Ceccano sono xxiii: lo primo e lo megliore è Ceccano, lo quale ène lo cognome; l’altri sono questi, cioè Sancto Laurenzo della Valle, Sancto Stephano, Iuliani, Prossei, Postezoli, Rocca secca, Rocca borga, Magensa, Carpaneta, Monte acuto, Gorghe, Montelanico, Colle mezo, Prune, Pruni, Cacum[e], Larnara, Ripi, lo Carpino, Ceperano; vero è che ’l Papa nce tene alquanti vassalli in Ceperano.21
18 Si tratta di Anagni, Segni, Velletri, Ferentino, Veroli, Terracina. 19 Si tratta di Piperno (l’odierna Priverno), Sezze, Cori e Guarcino. 20 Si tratta di Frosinone, Fumone, Paliano, Castro dei Volsci, Anticoli di Campagna (l’odierna Fiuggi), Lariano, Acquapuzza. 21 Si tratta di Ceccano, Amaseno (Castrum Sancti Laurentii), Villa Santo Stefano (Castrum Sancti Stephani), Giuliano (attuale Giuliano di Roma), Prossedi, Pisterzo, Roccasecca, Roccagorga, Magenza, Carpineto, Monte Acuto, Gorga, Montelanico, Colle di Mezzo, Castelli di Pruni, il non identificabile Prune (che è probabilmente un mero errore di tradizione; gli altri testimoni del Sito qui leggono Patrica), Cacume, Larnara credo sia la frazione di Farneta (nel comune di Ceccano), San Clemente, Arnara, Ripi, Carpine, Ceprano.
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Le castelle de casa de Conti sono questi, cioè lo primo e ’l megliore si è Valle montone, Fluminara, Monte fortivo, Collo de ferro, Savingiano, Baccho, la Turre; l’altre terre che hanno casa de Conti sono in terra de Roma.22 8
Le castelle de casa de Supino sono due: lo primo ène Supino, l’altro ene Meroli.23
9
Le castelle de casa de Gaytana sono tredeci: cioè lo migliore è Sermoneta, poi Nenfa, Basiano, Norme, la Scultu, la Salva de muri, Terni de Campagna, Felentino, Valle de petra, la Turre, Gene, Acquarolo, Sancta Felice.24 10
Casa de Sopreneno non have se non lo castello de Sopreneno.25
11
Casa de misser Mathia have due castelle: l’uno è la Turre de Mathia, l’altro è Monte longo.26
12
Casa de Pellio non ha se non lo Peleo.27
13
Casa de Trevi non ha se non lo castello de Treve.
14
Sono anchora in Campagna certe castelle che hanno diversi Signori, come è Monte Sancto Ioannis, Torrice, Baccho, Triviliano, la Villa, Puzano, Colliperdi, Vico, Aguto, Gallo, la Cisterna, Strangolagallo.28
Il testo è scritto senz’altro dopo la riorganizzazione territoriale dell’area di Marittima e Campagna, portata avanti da un lato dai Caetani, grazie al consolidamento del potere politico-familiare dovuto all’azione di Bonifacio VIII (Benedetto Caetani) fin dagli anni del cardinalato ai danni di altre famiglie con possedimenti
22 Si tratta di Valmontone, Pluminaria, Montefortino, Colleferro, Gavignano, Sacco (Baccho è più probabilmente un mero errore che Buaco, ossia l’attuale Boville Ernica), Torre de’ Conti. 23 Si tratta di Supino e Morolo. 24 Si tratta di Sermoneta, Ninfa, Bassiano, Norma, la Scurcola, Selvamolle (nei pressi di Ferentino), Trevi, Filettino, Vallepietra, Torre Cajetani, Jenne, San Felice (attuale San Felice Circeo). Non sono riuscito a identificare univocamente Acquarolo o Acquarola: la posizione nell’elenco e la due attestazioni quattrocentesche di Acquarolo in Ramadori/Pollastri (2006, 140, 148) mi fanno propendere per l’identificazione con il territorio compreso tra Maranola e Castellonorato. 25 Si tratta di Sonnino. 26 Il primo è l’attuale Castellaccio (o Castel Mattia) di Paliano; il secondo toponimo, Monte lungo, si riferisce a una piazzaforte sui monti Ernici non meglio identificabile. Si tratta di «picciolo castello, che non avea più di 500. abitatori, come si raccoglie da alcuni frammenti di scritture antiche» (De Magistris 1749, 122). 27 Si tratta di Piglio. 28 Si tratta di Monte San Giovanni (attuale Monte San Giovanni Campano), Torrice, Buaco (attuale Boville Ernica), Trivigliano, Villa (attuale Villa Santa Lucia), Porciano, Collepardo, Vico nel Lazio, Acuto, Strangolagalli. Per Cisterna l’ipotesi più economica è che si tratti dell’attuale Cisterna di Latina, che apparteneva all’epoca ai Frangipane: fa tuttavia difficoltà il posizionamento geografico di Cisterna rispetto agli altri castelli nominati nella sequenza, tutti nella catena dei monti Ernici. Non ho identificato invece Gallo.
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nella zona, che furono espropriate o costrette a vendite forzate;29 dall’altro dalla famiglia Da Ceccano per opera del cardinale Annibaldo e dal fratello Tomasio. Tra le famiglie, sono citati i Ceccano, i Conti, i Supino, i Caetani, i Sonnino, la casa di messer Mattia di Anagni e i signori di Trevi e Piglio. Mancano invece gli Annibaldi e, soprattutto, i Colonna, i cui possedimenti agli inizi del Trecento avevano subito le sorti del conflitto con il Papa, che aveva colpito prima il ramo principale di Palestrina e poi quello di Genazzano. Per quanto riguarda i da Ceccano, invece, come ricostruto da Blasio (2003, 174–175), Giovanni III era stato alleato dei Colonna nell’opposizione a Benedetto Caetani, che lo aveva imprigionato e privato di tutti i beni (1299). D’altronde, tra gli artefici dell’episodio dello schiaffo di Anagni, che segnò la fine delle fortune di Bonifacio, vi erano i principali esponenti delle famiglie maggiormente radicate nella Campagna, unite in un comune interesse difensivo: accanto a Sciarra Colonna, dunque, si trovavano Giovanni II di Landolfo da Ceccano col figlio Goffredo, i figli di Mattia d’Anagni, i figli di Rainaldo de Rubeis, Rainaldo di Supino, Tommaso di Morolo coi figli, Giordano di Sgurgola, Massimo di Trevi, Pietro e Stefano Colonna di Genazzano. La presenza della descrizione geografica della Campagna, dunque, dà un chiaro quadro dei luoghi di produzione del testo, ma ci fornisce anche delle possibili indicazioni cronologiche: il dato più rilevante da questo punto di vista è che il castello di Ripi, nella diocesi di Veroli, fu venduto a Tomasio da Ceccano il 7 febbraio del 1350 (il che verrebbe a rappresentare un preciso termine post quem) e fu perso dai Ceccano intorno al 1360. Per quanto riguarda l’univocità di tale dato ai fini della datazione dell’Aquila rimangono due problemi. Il primo, generale, è quello della frammentarietà (spesso dell’estrema frammentarietà) della documentazione archivistica per quest’area del Lazio per tutto il Trecento, per cui non sempre è possibile seguire nel dettaglio l’avvicendamento delle proprietà dei singoli castra.30 Il secondo problema, più profondo, è capire quale sia genesi del Sito et conditione de Campagna. Oltre alla descrizione geografica si allineano infatti nel Sito le storie delle vicende della regione in epoca antica (cap. 1, rubr.: «Qui se nara lo sito et condicione de Campagna, et persecucione che have havute in diversi tempi, et la donacione che fece Constantino alla ecclesia»; inc.: «Campagna si è la septima provintia de Ytalia»;31 cap. 2, rubr.: «Qui se narrano le persecucione che ebbe Campagna poy che venne in mano dela ecclesia de Roma»;
29 Sulla formazione della signoria dei Caetani cf. Falco (1928). 30 Cf. Falco (1926); Silvestrelli (1993). 31 Cito qui e altrove il testo del Sito dal ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4601, per la cui descrizione rimando a Blasio (2003, 176) e Vaccaro (2018c).
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inc.: «Alli mille clxiiij poy che Roma fo edifichata nel tempo de Archadio et de Honorio imperatori») e poi in epoca medievale (cap. 3, rubr.: «Qui se narrano unde ussiro quisti che distrussero Campagna et tucti li principi che principiaro nela cità di Capua»; inc.: «Queste generacione di giente che dampnificaro et distrussero la provintia di Campagnia»); infine il iv capitolo contiene la descrizione geografica che abbiamo visto supra e una brevissima dichiarazione biografica dei pontefici provenienti dalla Campagna, in una versione tuttavia assai meno estesa di quella che si legge nell’Aquila, che deriva più probabilmente dalla Chronica Martiniana, talvolta incrociata con altre fonti non sempre identificabili:32 cf. infra, Tav. 1. Il Sito ha una cospicua tradizione al di fuori dell’Aquila: compare, infatti, anche in quasi tutti i manoscritti del gruppo B della Cronaca di Partenope:33 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4601; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Capponi 108; Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III», XIV D 7 e San Martino, I 63; Napoli, Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, XX C 5 e XXXII D 14 bis; New York, Morgan Library & Museum, ms. M.973; Paris, Bibliothèque nationale de France, it. 301 e it. 303. A questi va aggiunto Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palat. 591,34 che si apre con il Sito et conditione e prosegue con il cosiddetto «Villani meridionale» (ossia la Cronica del Villani depurata delle parti dedicate alle vicende interne del comune di Firenze), a sua volta interpolato con alcuni capitoli della Fiorita, della Cronaca di Partenope e del Libro fiesolano. La questione fondamentale ai fini della datazione dell’Aquila, dunque, è comprendere quale sia l’origine di questo testo: se esso sia nato all’interno dell’Aquila e ne sia poi stato estrapolato nel corso del Quattrocento, congiungendosi alla tradizione della Cronaca di Partenope, oppure se esso sia nato indipendentemente e poi sia finito attraverso rivoli diversi sia nell’Aquila sia nella Cronaca di Partenope. Andrà certo considerato tuttavia che il testo del
32 Si tratta almeno del Liber Pontificalis e del Chronicon di Romualdo Salernitano. Non si riscontrano invece punti di tangenza con gli Annales Ceccanenses. 33 Cf. Sabatini (1975, 136–140); Kelly (2011, 148). Per la genesi della Cronaca risultano fondamentali rispetto alle poco probabili tesi di Kelly (2011) le messe a punto di De Caprio (2012, 18–28; 2017); Montuori (2017); De Caprio/Montuori (2018). 34 Cf. già Blasio (2003, 166–167). Anche questo manoscritto, come tutti gli altri della stessa opera (cf. Sabatini 1975, 282–283), risale al pieno Quattrocento, e più probabilmente agli anni del pontificato di Niccolò V, vista la nota alla fine di una lista di pontefici al f. 8r: «Et doppo costui seguì papa Nicola da Sereçana a governare la sancta monarchia: al qua· Idio, s’egli è di suo piacere, presti lunga e buona vita, e mantenga re benifattore e protettore e difensore dela nostra ciptà; e dove così non sia, disperga lui el suo congnome».
Quisto lu clericato apponeo. /.../ In quillo tempo la clericia compose li salmi et cantòli; et reconciliao li Greci, li quali foro obligati de liname de maledicta excommonicatione per la accagione de Pietro episcupo de Allexandria. Chistu, da poy che multe helemosine alli poveri havea date et alle ecclesie havea dato diversi ornamenti, appresso de sancto Pietro uno trave de argento de mille xl libri lassando, in quella parte atterrato se reposa [ff. 97vb-99vb].
Hic clerum conposuit et psalmos Quisto reconciliò quelli li quali erano anateerudivit, et Grecos reconciliamatizati, Pietro Episcopo de Alexandria vit, qui obligati fuerant vinculo anathematis propter Petrum Alexandrinum episcopum.
Hic postquam elemosinas multas pauperibus erogasset nec non et basilicis diversa ornamenta contulisset, apud Sanctum Petrum trabem argenteam mille quadraginta librarum relinquens, ibidem sepultus quiescit (MGH, Scriptores, xxii, 420).
Quisto, poi che hebbe largite molte elimosine per l’amor de Dio ali poveri, et a molte basiliche hebbe datti diversi doni, fece molti ornamenti basilica de Sancto Pietro, et infra l’altre since fece uno travo de argento che pesava xl libre de argento, et poi loco fu sepellito. Et in questo tempo era imperatore Anastasio et heritico. Forono da San Pietro fine a cquisto tempo di Hormisda cinquanta tre anni.
Hormisda de nacione campanino della citate de Frisolone dello patre Iusto sedeo annj iij mise viijj die xvij et cessao die xij.
Hormisda fu della natione de Campagna, del castello de Frusolone. El padre se chiamò Iusto. Quisto papa vixe nele [sic] papato anni dece et iorni xviii et vacò iorni sei.
Hormisda nacione Campanus de civitate Freselon ex patre Iusto sedit annis 9 diebus 17, et cessavit episcopatus diebus 6.
Chronica Martinìniana, Volg. V (Va)
Aquila
Lat.
Tav. 1: Le diverse «forme» della Vita di Ormisda.
Questo fo multo helemosinario et da poy che ebbe largite de multe helemosine per lo amore de Dio alli poveri et ad diverse basiliche, et inter le altre fece uno trave de argento alla basilica de sancto Pietro de Roma, che pesò mille et quaranta libre [f. 74ra-b]
El primo papa della provintia de Campagna si fo Hormisda, lo qual fo della cità de Frusolone.
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Sito è profondamente funzionale alla descrizione della realtà storico-territoriale dell’Aquila. D’altronde, alle stesse vicende territoriali di Campagna e Marittima in generale, e delle famiglie schierate su un fronte opposto a quello dei Caetani in particolare, è profondamente legata l’ultima sezione del L. iv, che presenta una feroce polemica antibonifaciana, che si esplicita sia attraverso l’abbondante citazione di versi danteschi (uniti a porzioni del commento laneo) sia attraverso la presenza dei principali elementi della cosiddetta «leggenda celestiniana».35 Ci troviamo, dunque, di fronte a un testo che riprende, come già la Fiorita di Guido da Pisa, non solo tessere dantesche funzionali alla narrazione, ma anche – e soprattutto – venature politiche e ideologiche. Nella pratica, poi, queste venature diventano ancor più presenti che nella Fiorita: se, infatti, nell’opera del carmelitano pisano esse si proiettavano esclusivamente nella ricezione della concezione politica dantesca del rapporto tra potere spirituale e potere temporale, nell’Aquila si aggiunge la questione del controllo del territorio di Campagna e dell’espansione dei Caetani. Il riuso dantesco, dunque, risponde a una duplice funzione: da un lato quella di auctor nobilitante per le vicende storiche che vengono narrate in tutta l’opera; dall’altro quella di voce autorevolissima di condanna della politica bonifaciana.
3 Una storia sociale del testo: l’Aquila e le «genealogie incredibili» L’Aquila, dunque, non ha come obiettivo principale la narrazione delle storie mitiche di dèi ed eroi, connettendole poi strettamente alla storia romana (è quanto era previsto nel disegno della Fiorita di Guido da Pisa, rimasta tuttavia incompiuta dopo la narrazione dei fatti di Enea) o alla storia medievale, eventualmente riconnessa alla storia antica (è il caso della Fiorita di Armannino giudice e dei suoi ampliamenti come, per esempio, la Fiorita abruzzese o la Fiorita chietina), oppure solamente la narrazione della storia romana (come accade con i Fatti di Cesare). Nasce invece con un intento che è squisitamente genealogico, vòlto ad affermare le origini mitiche e antichissime delle famiglie Da Ceccano (soprattutto) e dei Prefetti di Vico. Questo intento pone il testo all’interno di quel filone delle «genealogie incredibili» che cominciano ad affacciarsi nella nobiltà
35 Cf. Bartolomei Romagnoli (2013).
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italiana tra il tardo Due- e il primo Trecento:36 un filone parallelo ma – si badi – non alternativo alle scritture storiche e che, anzi, si sostanziava come scrittura in certa misura storica. Il punto fondamentale messo in luce da Bizzocchi, infatti, è che queste genealogie che appaiono oggi strampalate non erano affatto tali per i contemporanei, e ciò in ragione di un approccio alla ricerca e alla conoscenza storica affatto diverso a quello che si è andato praticando in epoca moderna, dal Muratori in poi. Il passato, infatti, non si ricostruisce sulla base di fonti e documenti, bensì sulla base di tradizioni presupposte che i documenti hanno il solo scopo di confermare, rinforzare o – talvolta – negare. La prassi è ottimamente descritta da Internullo (2016, 425): «bastava che in giro si dicesse che una famiglia discendeva da un’antica gens romana, perché gli eruditi legati a essa si tuffassero nei libri di Livio o di altri storici e nelle ormai diffuse sillogi di antichità per trovare dati a favore di questa presupposizione diffusa». Questa ricerca a posteriori, unita talvolta ad arditissime interpretazioni o concatenazioni etimologiche, giungeva il più delle volte a trovare punti di appoggio che confermassero la preminenza sociale, politica, nobiliare delle famiglie o dei gruppi familiari interessati. Tuttavia, anche il mancato reperimento di fonti non costituiva un problema: le fonti potevano essere create ex novo oppure direttamente inventate. È questo ciò che accade nell’Aquila con i due nipoti di Nerone, Marco Menio e Tito Menio, che rappresentano un (altrimenti ignoto) trait d’union tra le nobili famiglie di cui si sta ricostruendo la genealogia e la gens Iulia; o è ciò che accade con le gesta di Colonnese e di Massimo nel poco più tardo Libro imperiale (da cui nasceranno, rispettivamente, i Colonna e ancora i Prefetti di Vico). La trattatistica genealogica, tuttavia, è una prassi che si afferma a Roma ben prima dell’Aquila, già nel tardo Duecento, e si sviluppa notevolmente nel XIV secolo: Internullo (2016, 427) individua già tra Due- e Trecento almeno otto casi di genealogie incredibili tra le famiglie baronali (Annibaldi, Sant’Eustachio, Bonaventura, Colonna, Orsini, Capocci, da Ceccano, Prefetti di Vico), cinque nella nobiltà cittadina (Frangipane, Patrizi dell’Isola, Severini, Marcellini, Arcioni) e uno tra i popolari (Cola di Rienzo). La pervasività e l’importanza di queste ricerche genealogiche è ottimamente testimoniata dalla lunghissima diatriba sulla maggiore nobiltà e antichità che si dispiega nell’arco di oltre cinquant’anni (tra il 1277 e il 1344) tra le famiglie Sant’Eustachio e Bonaventura: il caso qui è di particolare interesse perché i due incaricati di dirimere la questione, Paolo Rainuzzi e Napoleone Orsini, arrivano il 1° dicembre del 1344 a pronunciare una sentenza nel palazzo Senatorio sul Campidoglio, 36 Ripropongo qui la felice denominazione data nel titolo della propria opera da Bizzocchi (2009): il volume, pur dedicato alle costruzioni genealogiche delle famiglie nobiliari tra Cinquee Seicento, mostra come in realtà il fenomeno fosse molto diffuso già a partire dal XIII secolo. Sul caso romano cf. in part. Internullo (2016).
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dando quindi la forma di un lodo arbitrale in una sede pubblica alla ricostruzione genealogica. Che l’operazione avesse in realtà non solo un valore (più o meno blandamente) rispondente a una nobilitazione e a un’esaltazione della famiglia, ma rispondesse a una precisa scelta politica lo dimostra soprattutto la vicenda di Cola di Rienzo: la peculiarità, in questo caso, è anche che il protagonista della vicenda e l’autore della genealogia incredibile coincidono, in quanto è Cola medesimo a narrare le proprie (presunte) nobili origini. In una lettera scritta nei pressi di Praga, nell’agosto del 1350, mentre era prigioniero di Carlo IV di Boemia, Cola invia all’imperatore una lunga lettera nella quale chiede insistentemente di essere liberato, adducendo tre motivi: il primo è la paura della fama di eretico che gli deriverebbe dalla carcerazione, il secondo è il danno alla salute che gli sarebbe procurato dalla carcerazione, il terzo è la rivelazione di un grande arcanum che Cola ha da fare all’imperatore.37 Nel maggio del 1312 l’imperatore Enrico VII scese a Roma con l’idea di farsi incoronare in San Pietro; ciò, tuttavia, gli fu impedito da alcuni guelfi romani e fu incoronato a San Giovanni in Laterano. L’imperatore – prosegue Cola – volle comunque recarsi in visita a San Pietro, accompagnato da una guida «qui vias occultas agnosceret, et cum eo in habitu peregrino». La voce, tuttavia, si diffonde rapidamente, sicché l’imperatore e la sua guida sono costretti non solo a desistere dal loro proposito, ma anche a nascondersi rapidamente per non essere scoperti:38 Quam quidem vocem ubilibet susurratam imperator et Latinus pariter advertentes per occultam viam, que dicitur Ripa fluminis, in qua domus mea permanet situata, ambo pariter transierunt. Verum cum sbarras domui mee propinquas ante clausas et custoditas adverterent, quasi simulantes in domo mea, que taberna erat publica, velle tunc bibere, intraverunt in illam, et deinde pro nocturna quiete hospitium et cameram petierunt. Qui a matre mea, absente tunc viro ad cuiusdam loci custodiam destinato, hospitati faerunt liberaliter et recepti. Et secundum aliquorum relationem per dies x et secundum aliquos per dies xv se infirmum simulans ibi latuit imperator, donec videlicet fuit illa in totum sublata suspicio et tante solicitudini et custodie finis datus. Et de hoc latitacionis puncto ab illis, qui cum eo tunc morabantur assidui, si aliquis vivit ut oppinor, poteritis, si recolunt, declarari.
37 «Dico itaque, serenissime princeps et fautor, – licet (parcat michi Deus!) cum reverencia materni pudoris fateri non possum – quod velim nolim ammodo in Romano populo non latescit: quod, ego licet fuerim tanto domino prorsus indignus, tamen ipsa natura, construens omnia me natum esse fecit, ut credo, gloriose memorie quondam imperatoris Heinrici, avi vestri et mei domini sempiterni, ex muliere videlicet eius hospita et ancilla. Nec cum causam sciveritis mirandum valde videbitur, cum et David, a Deo electus rex verus et sanctus, ex ea, que fuit Urie, natum habuit non ignotum, et ipse Abraham, patriarcha dilectissimus et iustissimus a Domino reputatus, divino permissu filium Deo acceptum sumpserit ex ancilla» (Burdach/Piur 1912–1929, vol. 3, 201). 38 Ibid., 202–203.
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Poco tempo dopo, il 16 agosto, Enrico VII moriva a Buonconvento, mentre a Roma nasceva postumo il figlio, Cola. Il fatto, raccontato dalla madre di Cola, Matalena, a un’amica, e da quest’ultima a un’altra amica, era rapidamente passato di bocca in bocca (non modicum sussurratum); la moglie del taverniere Lorenzo, vicina alla morte, confessò il suo peccato a un sacerdote.39 Solo molti anni dopo la confessione di Matalena, e dunque dopo lo svolgimento dei fatti narrati, Cola – alla morte del padre Lorenzo – venne a sapere dal sacerdote che aveva raccolto la confessione della madre e dall’amica la vicenda legata alla nascita. L’intera vicenda si potrebbe facilmente inquadrare nella tendenza «spettacolare» di Cola di Rienzo40 e nella necessità, all’altezza della scrittura della lettera, di uscire dalla difficilissima situazione in cui si trovava. Tuttavia questa risposta si rivelerebbe almeno semplicistica: il Basso Medioevo pullula di «re nascosti», spesso semplici mitomani, talvolta attori (più o meno consapevoli) all’interno di dispute dinastiche.41 Poco importa, in questi casi, sapere non tanto se Cola fosse o no il figlio di Enrico VII, ma anche semplicemente se Cola credesse o no di essere veramente il figlio di un imperatore. Quello che importa, nel caso di Cola come in quello delle altre genealogie incredibili che si vengono producendo nelle città Italiane fra Tre- e Cinquecento, è cercare di rispondere alla domanda: «a che cosa servono di preciso?». Il dato di fondo rintracciabile in tutti i casi è uno e uno solo: quello della fama. E dunque tutte queste genealogie hanno a che fare con la publica fama: d’altronde una «(buona) reputazione è una moneta che si spende in società, negli affari, in tribunale, nel matrimonio, una moneta che va custodita con cura» (Mucciarelli 2011, 41). Sotto questo punto di vista un’ascendenza antichizzante, se testimoniata da fonti storiche (vere o, più spesso, create ad arte) e da un’opinione diffusa, contribuiva notevolmente alla buona fama di una famiglia: da questo, dunque, nasce l’affanno all’autocelebrazione e all’auto-
39 «Et quia nichil occultum, quod non reveletur, post imperatoris ab Urbe absenciam et egressum, ille idem Latinus tam in domo mea quam in locis conpluribus revelavit quod dominus imperator in eodem meo hospicio diebus pluribus latitavit. Dum itaque de tanto domino matri mee innotesceret, quod ante, ut oppinor, verisimiliter ignorabat, muliebri ac iuvenili more subducta, cuidam sue amice se de imperatore pregnantem secrete, ut credidit, revelavit; amica vero ipsa muliebri more secreta invenit aliam amicam insecretam, cui tanquam secreta ut mulier negocium secretavit, et sic de aure ad aurem negocium secretando fuit diebus illis non modicum susurratum. Ipsa denique mater mea tempore mortis sue aperuit, ut debuit, sacerdoti» (ibid., 203). 40 Su Cola di Rienzo la bibliografia è sconfinata: per un quadro d’insieme cf. almeno di Carpegna Falconieri (2002). 41 Sui re nascosti nel Medioevo cf. Bercé (1990). Strettamente legata alla figura di Cola è anche la vicenda del senese Giannino di Guccio Baglioni (per cui cf. di Carpegna Falconieri 2005; Vaccaro 2018c).
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nobilitazione, come la tendenza (testimoniata per esempio già nel Trecento dagli stemmari) a fornirsi di un’arma non solo nelle casate nobili ma anche in quelle popolari. In ultima analisi la tendenza ad «antichizzare» la propria famiglia nasce dall’esigenza di affermare la propria preminenza sociale. Le genealogie (credibili o incredibili, come abbiamo visto, non importa), insomma, servono a creare o rafforzare il prestigio nobiliare di una persona o di un gruppo, insistendo su una delle componenti che determinano il suo status, l’antichità del lignaggio, e cercando di far entrare quest’antichità nella communis opinio della comunità. Sono insomma strumenti utili ad accrescere il proprio capitale simbolico. Al contrario, chi cerca di smentire costruzioni del genere lo fa con l’intenzione di indebolire o addirittura distruggere questo prestigiuo nobiliare, sempre giocando con il dispositivo della fama (Internullo 2016, 442).
Questo aspetto, del resto, non interessava solamente i nobili, la borghesia e le casate popolari, ma anche le famiglie reali, come ben mostra il caso degli Angioini, che nel momento dell’ingresso a Napoli cercano di legittimare il proprio buon diritto al governo attraverso una serie di legami che rimandassero a Enea, come mostra la diffusione angioina dell’Histoire ancienne (cf. da ultimo Lee 2015). L’Aquila dunque non è affatto un caso isolato. Essa, anzi, trova un preciso parallelo in un’opera di poco più tarda, il Libro imperiale, realizzato ancora in àmbito romano, in cui si narrano due «genealogie incredibili»: quella dei Colonna e di nuovo quella dei Prefetti di Vico, la cui origine viene tuttavia raccontata in modo completamente diverso rispetto all’Aquila.
4 Trattatistica genealogica in volgare e volgarizzamenti La fortuna del Libro imperiale è stata in qualche misura inversa rispetto a quella dell’Aquila; si contano infatti almeno 29 manoscritti e appena due edizioni a stampa.42 L’attribuzione del Libro imperiale è argomento controverso. I 42 I manoscritti sono Cambridge (Mass.), Houghton Library – Harvard College Library, Riant 87; Chicago, Newberry Library, f. 93; Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. LVI 56; Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chig. M.V.117; Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chig. M.VI.189; Firenze, Biblioteca Marucelliana, C.140; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, plut. 43.21; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Acquisti e doni 399; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Mediceo Palat. 115; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Segni 4; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.i.19; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.i.363; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.iv.279; Firenze, Biblioteca
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manoscritti presentano infatti, nel corpo del proemio, là dove è indicato il nome dell’autore, sostanzialmente due lezioni alternative: la prima che rimanda a un Cam/Can/Cambio (Camillo nel manoscritto Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chigiano M.V.117); la seconda che attribuisce invece l’opera a Giovanni Bonsignori. La prima attribuzione finisce nelle stampe;43 la seconda è stata, invece, convincentemente dimostrata da Achille Coen (1881–1882).44 L’opera si compone di due parti distinte: la prima, articolata in quattro libri e presente in tutti i manoscritti tranne che nel Barberiniano, è la sola che finisce nella stampa e narra, semplificando al massimo, i trionfi di Cesare (L. i); la sua uccisione e i funerali (L. ii); la storia di Augusto e dei suoi successori con l’inizio delle avventure di Selvaggio (L. iii), le cui vicende occupano interamente il L. iv, che si conclude con la genealogia dei Prefetti di Vico. La seconda parte, invece, è assai più breve ed è una cronichetta degli imperatori romani che arriva fino a Enrico VII. Il i e il ii libro sono una mera riproposizione del testo dei Fatti di Cesare. Il iii libro, dopo il proemio (cap. 1), narra la guerra tra Ottaviano, Antonio, Bruto e Cassio (capp. 2–17) e prosegue quindi con l’episodio dell’adorazione di Cristo da parte di Ottaviano (cap. 18). Con questo capitolo termina la parte propriamente storica e comincia invece la parte genealogica, prima con la narrazione Nazionale Centrale, II.iv.280; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II.iv.281; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. XXIII.129; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palat. 459; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palat. 471; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palat. 674; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Panciat. 64; Firenze, Bibloteca Riccardiana, 1954; Firenze, Bibloteca Riccardiana, 2062; London, British Library, Egerton 1866; Paris, Bibliothèque nationale de France, it. 1095; Parma, Biblioteca Palatina, Palat. 313; Roma, Archivio di Stato, ms. 522; Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, 44.E.27; Roma, Biblioteca Casanatense, D.I.4; Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, it. XI.126 (= 6916). Per la tradizione a stampa si hanno la princeps romana del 1488 (Roma, Bartholomaeus Guldinbeck, 1488: GW M18197; ISTC il00200000) e una stampa veneziana del 1510 (Imperiale che tratta gli triumphi honori e feste chebbe Iulio Cesaro ne la citta di Roma, dappuoi per la inuidia, et per le cose soperchie Bruto e Cassio con cinquanta senatori a che modo gli diero la morte, et le magne exequie che fuorono celebrate al suo corpo, et come Ottauiano successe, e come persequito li occisori di quello, et la morte di Bruto et Cassio, con molte altre belle historie, in Venetia, per Simone de Luere nela contrata di san Cassano, vltimo agosto 1510). 43 Cf. Affolter (1994, 784). 44 Val la pena riportare anche l’attribuzione riferita da Zambrini (41884, coll. 608–609): «Un valente letterato e paleografo (l’egregio signor G. A.) è di parere, che il Borghini prendesse abbaglio circa l’Autore del Libro Imperiale. Or ecco quanto egli mi scriveva da Roma, in data del 12 dicembre del 1865. [...] Nel ms. suddetto [sc. Roma, Biblioteca Casanatense, D.I.4] però è limpidamente scritto Can [...]. E poi Cane non fu nome frequente nelle casate ghibelline? E i Prefetti e i Colonnesi e o Castelli erano ghibellini e vicarii dell’imperio per queste terre». Si noti, inoltre, che al Bonsignori si deve anche un poemetto, oggi perduto, sull’origine della famiglia Frangipane, fatta risalire alla gens Anicia e a Gregorio Magno.
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dell’impero di Iulio, successore di Ottaviano, che regnò per sei anni prima di Tiberio (cap. 19), e quindi con la narrazione della nascita dei Colonna (cap. 20): Remase pregna una do[m]pna de Iulio chiamata Godina; havea anchora sey misi ad portare. Or avende che Iulio inparatore era andato per certo bisogno, et havea tucti li megliori de Roma menati cqui seco, onde la terra era sfornita. Certi parenti descendenti se quilli senatori che foro alla morte de Ce. se accordaro insemi, così dicendo: «della casa de Ce. per cui semo così destructi non ne remane persona già se Godina non facesse figliolu mascolo. Et si così fosse, lo avanso de nuy li convene essere inimici, e però è bono inanti tempo provederese. Quella spesse volte va al giardino: assagliamola per sì facto modo che occidamo ley e sua fameglia, anchora quello che have generato in corpo». Et così dicto la maytina sequente se levano alquanti ioveni e aspectaro lu advenimento dela dompna. Godina, sì como era usata, la maytina andava al iardino, et quando passava per la via foro prima assalliti li soy servi e tucti morti; la dompna ciò vedendo fugio per la pagura socto ad uno porticale, e essendo gravata dal parto perché allora ferniano li nove misi se abracciò ad una colompna de marmo biancho, do’ li inimici la ionsero e deroli tanta ferite che a ppedi de la colompna cadé morta. Facto questo malficio li inimici fugero, la gente tirao lì e sentendo che lo figliolo era vivo che havea in corpo, et aperendo la do[m]pna, et lu figlioli cascò sula sangue dela matre: et così manchò la intemptione de quilli tradeturi. Nato lu figliolo fo notricato, et per quella colompna che sostende la matre fo chiamato Colopnese, lo quale, po’ che fu homo, fece gran vendecta de qulloro [sic] che occisero la matre. E tornato lo inparatore e udita la novella de cui era desciso Colopnese lo constituý suo barone. Al tempo del quale se rebellò alli romani la Bertagna: Colonnese facto duca andò con le melitie de Roma, e quando se partìe in memoria del suo nascimento fe fare uno confalone vermiglio ad memoria del sangue dela matre dove cadé; e in lo campo fé fare una colompna biancha per memoria de quella colompna dove se abracciò Godina sua matre. Et andato in Bertagna tornò infra due duy anni con lu triumpho dela victoria, e foli facto l’archo honorebile e grande e vende in carro coperto ad oro in Campo de oglio. Allora lu inparatore lu ammanio de una dompna campanina la quale hebe nome Sophia, et de quisti dui so poy discisi li Colopnisi. Pilliano poy lo nomo de Colopnese e però se dice che so discisi de Ce. e Iulio fo figliolo de Octaviano [ff. 40r–41r].45
L’origine dei Colonnesi dalla prosapia di Giulio Cesare – pur in una forma priva di qualunque ricostruzione genealogica dettagliata – trova spazio già nel primo capitolo del Fioretto di cronache degli imperadori, annesso ai Fatti di Cesare, che compare anche (opportunamente modificato) nella parte finale del iii libro dell’Aquila, in corrispondenza della morte di Giulio Cesare:46 45 Cito il testo dal ms. primo-quattrocentesco Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, M.V.117, che presenta una lingua non ancora largamente toscanizzata come i testimoni del Quattrocento inoltrato. 46 Si noti, tuttavia, che il solo capitolo iniziale del Fioretto finisce spesso per essere integrato nei manoscritti contenenti i Fatti di Cesare, come per esempio Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1553 e Biblioteca Medicea Laurenziana, plut. 91 sup. 53. Ai quattro codici che tramandano in sequenza i Fatti di Cesare e il Fioretto individuati da Flutre (1932, 208: Firenze, Biblioteca Nazionale
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Tav. 2: L’origine dei Colonna nel Fioretto di cronache degli imperadori e nell’Aquila. E dicesi che di suo legnaggio sono nati i Colonesi e sono isuti di sua progenie [x] xiiii papi e xviiii imperadori e molti re e xl sanatori e molti consoli. E fue di sua casa il crudele Nerone imperadore; e Ottaviano nobile imperadore fue suo nipote [Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1550, f. 60r]*
de sou lingiaio so nati quilli de casa de Ceccano che anche portano l’aquila per lora onsengia d’oro nel campo vermillio; e so insìti de soa progenia xiiii papa et xx imperaturi et xl senaturi et multi consuli. Et fo de soa casa el crudele Nerone imperatore de Roma; e ’l nobele Octaviano imperatore fo sou nepote [M, f. 218va]
*
Il numero dei papi è «xiiii» nel Riccardiano 1550; in tutti gli altri manoscritti il numero dei papi è sostituito da uno spazio bianco. Il Panciatichiano 65 sopprime invece la notizia della discendenza della famiglia dei Colonna, introducendo la frase con un poco comprensibile «e dichono le storie che sono stati xxiiii papi».
Terminata la genealogia dei Colonna, la storia nel Libro imperiale fa un passo indietro e torna prima a Giulio Cesare per poi raccontare le vicende del figlio da lui avuto con Cleopatra, Cesarione. Secondo il Bonsignori, dunque, Cesarione – riconosciuto legittimo re dell’Egitto da Ottaviano – regnò per ventitré anni; gli succedettero quindi il figlio Talamo, che regnò trentadue anni, e poi Menzio (che regnò tredici anni), Salario (che regnò sedici anni) e infine «il crudele re Pompilio», che, dopo aver regnato per diciannove anni e quattro mesi, fu ucciso durante un tumulto. La «donna» di Pompilio fuggì, portando in grembo il figlio del re: giunse dunque, dopo un viaggio in nave, in Italia, a Gaeta, e partorì il figlio (chiamato Selvaggio) a Tagliacozzo. Questi venne dunque portato a Laurento e affidato a una donna, Diosita, cui vengono consegnate anche una corona e una palla che Ottaviano aveva donato a Cesarione quando lo aveva fatto re d’Egitto. Di qui la vicenda segue in modo pedissequo (pur con qualche ampliamento narrativo) la narrazione del De Constantino Magno eiusque matre Helena libellus,47 sostituendo – ovviamente – Selvaggio a Costantino.
Centrale, II.ii.49; II.ii.74, in cui in realtà il Fioretto precede i Fatti; Panc. 65; Biblioteca Medicea Laurenziana, plut. 61.22) ho aggiunto Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1550 (cf. Vaccaro 2018a, 243–244), che parrebbe essere l’unico testimone latore da collocarsi entro il Trecento. 47 La storia narrata in quest’anonima opera bassomedievale si origina, in realtà, dalla fusione di due parti originariamente distinte, come dimostrato da Achille Coen (1881–1882). Nella prima di esse si narra la vicenda di Elena: venuta a Roma da Treviri per recarsi in pellegrinaggio alla chiesa degli apostoli Pietro e Paolo, incontra casualmente l’imperatore romano Costanzo, che s’invaghisce di lei. Trattenuta con una scusa a Roma, la giovane viene violentata dall’Imperatore, scopre quindi di essere incinta e decide, per la vergogna, di rimanere a Roma, ospite di alcuni buoni cristiani. Partorisce dunque un figlio, cui pone nome Costantino. A questa altezza del racconto si innesta la seconda parte. Circa dieci anni dopo la nascita di Costantino, mentre
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Dopo il riconoscimento dell’origine imperiale di Selvaggio, che diviene imperatore col nome di Massimo, il iv libro si conclude legando questa vicenda all’origine dei Prefetti di Vico, a loro volta discesi dal figlio di Massimo, di nome – per l’appunto – Prefetto (L. iv, cap. 66), il cui patrimonio fu confermato dal nuovo imperatore, Severino (cap. 67) e ampliato attraverso dodici figli (cap. 68). Dopo un capitolo sulla donazione di Costantino (cap. 69), riprende la narrazione della vicenda dei Prefetti (capp. 70–78) con una breve digressione per descriverne l’arma (cap. 75). Terminata così la prima parte dell’opera (definita nell’explicit «primo tractato»), inizia una seconda sezione che contiene dapprima una brevissima genealogia «deli antiqui regi del cuy seme fo hedificata Roma» e passa quindi a una breve cronaca di imperatori da Giulio Cesare a Enrico VII. In questa sezione la serie degli imperatori romani, è – tranne qualche lieve eccezione, come l’inserimento tra Cesare e Ottaviano del Giulio da cui discesero i Colonna – conforme alla realtà storica fino a Adriano; dopo Adriano, invece, sono nominati Antonio I, Marco Antonio, Comido, Ellio – in cui sono raccontati molto rapidamente i fatti che hanno già costituito il iii e il iv libro dell’opera –, Massimo (ossia il protagonosta del Libro imperiale), Servio, Claudio Pertinace e Caracalla; con Caracalla ricomincia la serie quasi regolare degli imperatori, che arriva fino a Enrico VII: nonostante la coincidenza nel punto di arrivo, il testo del Libro imperiale non pare avere nulla a che fare con quello del Fioretto di cronache degli imperadori. Rimane certo da domandarsi perché l’Aquila, apparentemente tanto legata a un contesto culturale e familiare specifico e a una temperie culturale specifica, abbia goduto di una tanto ampia fortuna a stampa. Alla fortuna concorrono almeno tre dati coincidenti. Innanzitutto, come per molti testi simili (dai infuriava un’aspra guerra tra l’imperatore romano e quello greco, due mercanti romani, grandemente stimati dall’imperatore greco, incontrano Costantino. Ammirandone la bellezza e il nobile portamento, e saputolo privo di padre e figlio di una donna poverissima, decidono di portare con loro il fanciullo, di educarlo e di presentarlo all’imperatore greco come figlio di Costanzo, dicendo che l’imperatore romano voleva che il proprio figlio sposasse la figlia dell’imperatore greco: in questo modo essi avrebbero ottenuto grandi ricchezze e avrebbero portato un gran danno al nemico dei Romani. Dopo circa tre anni, i mercanti partono da Roma alla volta della Grecia; qui espongono la simulata ambasceria e ottengono di portare con loro a Roma la figlia dell’imperatore. Sulle navi vengono caricate grandi ricchezze, mentre l’imperatrice consegna di nascosto alla figlia alcune pietre d’oro e gemme purissime. Le navi salpano alla volta di Roma e i due promessi sposi vengono abbandonati, nottetempo, su un’isola deserta. Salvati da una nave di passaggio giungono a Roma e si presentano a Elena: grazie alle gemme portate dalla figlia dell’imperatore, aprono una locanda. Dopo circa sei anni, Costantino acquista gloria in hastiludiis et torneamentis, fino a essere notato dall’imperatore, che gli chiede di esporre la propria origine. A questo punto si ha l’agnizione di Costantino e lo scioglimento dell’intera vicenda, con la celebrazione di un nuovo matrimonio e la pubblicazione dei decreti che dichiarano Costantino erede dei due imperi.
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duecenteschi Fatti di Cesare fino alle fiorite degli inizi del Quattrocento), agisce da motore il culto per la storia di Roma, nella sua duplice veste di centro dell’Impero e di centro della Cristianità.48 A maggior ragione, poi, questi testi godono di un ampio successo perché «ignorano la frattura dei secoli anestetizzando il senso del tempo» (Segre 1953, 23): l’Aquila, il Libro imperiale, così come i Fatti di Cesare che al loro interno sono contenuti, travestono di fatto personaggi storici e avvenimenti del passato in personaggi cavallereschi e borghesi e in avvenimenti che potrebbero ben essere contemporanei ai lettori. Pur essendo testi di traduzione, in essi si verifica una continuità totale tra antico e moderno, in cui al cambio di codice linguistico non corrisponde un effettivo iato storico. E d’altronde in tutte queste compilazioni s’incontrerebbero con difficoltà nomi di realia del mondo romano che pure pullulano, ovviamente, nei volgarizzamenti degli stessi testi (per esempio nel Lucano pratese, da attribuire forse ad Arrigo Simintendi,49 o nel volgarizzamento di metà Trecento da Svetonio). L’esigenza di dare una profondità storica alla narrazione veniva dunque affidata primariamente alle narrazioni di tipo genealogico, che andavano spesso a intrecciarsi con le leggende di fondazione delle città: così accade anche nel caso dell’Aquila, dove l’origine dei Da Ceccano andrà ricercata negli imperatori romani, in Giulio Cesare, e da qui, per li rami, in Enea. Il secondo motivo che spiega il successo delle fiorite è l’amore per le storie, che spinge alla lettura di tutti i generi narrativi, dalla mitografia, agli exempla, alle agiografie, alle novelle (in serie o spicciolate), ai romanzi. Esemplare per comprendere quanto detto è la continua vicenda di ampliamento e riduzione che s’incontra nei testimoni recenziori delle fiorite, che «fanno sì che, al limite, ogni manoscritto divenga in pratica una nuova compilazione, la quale, a sua volta, può magari avere una fortuna propria» (Bellomo 2000, 228) ed eventualmente, nei casi più fortunati, arrivare alla stampa. Il terzo punto, che non sempre è esplicito, è lo spazio dedicato in tutte queste opere alle genealogie: il modello principe, la Bibbia, d’altronde, ne è piena.50 E la genealogia (nel senso della ricostruzione delle origini) rappresenta, per il Medioevo, una categoria di lettura e di appropriazione del mondo, applicabile alla storia quanto alle parole: basti pensare al modello isidoriano dell’Etymologiarum
48 Basti qui il rimando a Graf (1882–1883). 49 Questa l’opinione espressa da Laura Allegri (2008, xxiii–xxxvii); di tutt’altro parere è invece Maria Carla Marinoni (2011, 38–46). 50 Ciò è particolarmente evidente nella doppia genealogia di Cristo offerta nei Vangeli: in Mt 1, 1–17 abbiamo una genealogia discendente, divisa in tre sezioni di quattordici generazioni ciascuna, che parte da Abramo e arriva fino a Cristo. Quella data in Lc 3, 23–28, invece, non contempla partizione, procede in modo ascendente e arriva fino ad Adamo: cf. Johnson (1969).
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sive originum libri. In chiave storica, però, la tendenza etimologica si pone in Italia su un duplice piano. Il primo, assai limitato, è quello delle genealogie familiari, volte a legittimare – perlopiù tramite «genealogie incredibili» – la nobiltà o il privilegio. L’altro, ben più ampio, soprattutto in Toscana e nell’Italia settentrionale, è la visione genealogica come legittimazione del buon diritto e dell’antichità del proprio comune: ecco perché le narrazioni delle origini cittadine (anche qui tramite il ricorso a «origini incredibili», come le ha definite Tanzini 2016) vanno a sostituirsi alle genealogie familiari.51 Con l’Aquila (così come con il Libro imperiale) ci troviamo di fronte, dunque, a testi che si pongono all’incrocio di vie assai battute nella seconda metà del Trecento: quella delle fiorite, con il loro valore esemplare, e quello delle genealogie, con il loro duplice valore storico: da un lato per chi le promuoveva, che vedeva in esse il principio della propria (auto-)affermazione; dall’altro per chi ne fruiva, che trovava una raccolta spesso disorganica ma storicamente orientata. Il punto essenziale è che testi come l’Aquila – a prescindere dalle intenzioni con cui siano nati, genealogiche (come per il nostro testo o per il Libro imperiale), narrative (come per la Fiorita di Guido da Pisa) o ancora didattiche (come per la Fiorita di Armannino giudice, in cui una maestra, personificazione della Fiorita stessa, guida e ammaestra l’autore) – rappresentano l’ossatura della letteratura popolare tra Quattro- e Cinquecento, la linea che unisce i lettori non cólti alla storia antica, alla mitologia e alla lettura di testi fondanti l’identità culturale (e la Commedia anzitutto). D’altronde proprio uno dei principali e più tardi prodotti di questa serie, il Fiore novello (cf. Giola 2018), era tra i libri sequestrati a Pellegrino Baroni (detto Pighino el grasso), contadino di Savignano sul Panaro, che su questa base aveva elaborato strane teorie sulla Vergine e Cristo e si salvò la vita con l’abiura davanti agli inquisitori ferraresi nel 1571; un’altra, invece, era stata requisita a Domenico Scandella (detto «Menocchio»), mugnaio di Montereale Valcellina, che aveva costruito invece (sulla base del Fiore e di altri libri consimili) una sua genesi dell’universo e che salì sul rogo a Portogruaro nell’estate del 1599. L’Aquila, insieme ai fiori, ai fioretti e alle fiorite, è dunque un testimone importante per comprendere la lettura e l’educazione nelle fascie popolari: per comprendere, in ultima analisi, come l’Umanesimo e il Rinascimento abbiano rivoluzionato in minima parte quello che anche per l’Italia è stato un lunghissimo autunno del Medioevo. 51 Per il caso di Firenze, cf. Faini (2017). Probabilmente a tali ragioni di «genealogie cittadine» si deve la grandissima fortuna dei testi che narrano le vicende troiane, e in particolare dell’Historia desctructionis Troiae: per un panorama sulle versioni italiane, cf. Carlesso (2009; 2014) e la Tav. 1 del saggio di Simone Pregnolato infra (pp. 340—343); per la versione di Filippo Ceffi, cf. Lorenzi (2011). Sulla figura di Enea nel Trecento italiano cf. invece Tufano (2010).
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Luca Barbieri
Materia troiana e materia ovidiana nel ms. Gaddi 71 della Biblioteca Laurenziana di Firenze Abstract: The ms. Gaddi 71 of the Laurentian Library of Florence contains four texts, linked by their interest in the subject of Troy, among which are the Istorietta troiana and the Italian translation of some Ovidian Heroides, accompanied by glosses. Both of these texts derive from a French model and are in some way connected with the Angevin court of Naples, at the time when the young Boccaccio was in the Parthenopean city. Despite the stylistic differences between the two texts, the Istorietta troiana and the glosses of the Heroides show some linguistic and structural affinities and share a new approach with respect to the French model of commented translation. The glosses in particular indicate a stratified nature, the result of a progressive accumulation of texts of different origins, natures and interests. Some of them are short stories of considerable literary and linguistic value, and along with monuments such as the Novellino and the Conti di antichi cavalieri are among the first successful attempts of nascent Italian narrative prose. Several elements of the Gaddian commentary on the Heroides can also be found in Boccaccio’s early works, showing the evidence of a cultural and linguistic proximity that deserves to be better studied. Keywords: narrative prose; French and Italian literature; medieval translations; medieval glosses; Giovanni Boccaccio
1 L’Istorietta troiana e le Eroidi glossate nel ms. Gaddi 71 Il ms. Gaddi 71 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze è stato redatto probabilmente nella seconda o terza decade del XIV secolo, nella stessa città di Firenze
Indirizzo di corrispondenza: Prof. Dr. Luca Barbieri, Université de Fribourg, Département de Français, av. de Beauregard 13, CH-1700 Fribourg/«Opera del Vocabolario Italiano» – Istituto del C.N.R., Via di Castello 46, I-50141 Firenze. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-013
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o comunque da mano fiorentina.1 Esso contiene quattro testi, tutti incompleti: il volgarizzamento anonimo di alcune Eroidi ovidiane, accompagnato da chiose (cc. 1a–8d);2 l’anepigrafa e ànura Istorietta troiana (cc. 9a–14d); i primi due libri dell’Eneide di Andrea Lancia (16a–19d); l’adespota Intelligenza, acefala (cc. 20a– 25d). Il filo conduttore del codice sembra essere l’interesse per la materia troiana, di cui si tratta in alcune glosse alle Eroidi, nel volgarizzamento dell’Eneide e nell’Intelligenza, le cui strofi 240–286 costituiscono un lungo riassunto della guerra di Troia.3 Intendo occuparmi sostanzialmente dei primi due testi, che risalgono entrambi a modelli francesi noti e presentano evidenti punti di contatto tra di loro. L’Istorietta troiana (d’ora in poi IT) è un volgarizzamento succinto della versione in prosa del Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure (d’ora in poi RdT) conosciuta come Prose 3,4 mentre le Eroidi volgarizzate sono tradotte da un modello francese che ritroviamo inserito in un’altra versione in prosa del RdT, quella nota come Prose 5, che a sua volta costituisce la sezione troiana della seconda redazione dell’Histoire ancienne jusqu’à César (d’ora in poi HA2).5 Oltre che per la fedeltà del volgarizzamento, la derivazione da testi d’Oltralpe è evidente anche per la presenza di numerosi francesismi linguistici già segnalati e raccolti ora nell’edizione comune dei due testi.6 Il testimone più antico e più importante dell’HA2 è stato realizzato a Napoli, probabilmente per la stessa corte angioina, nella prima metà del XIV secolo.7 Lo stesso progetto di questa compilazione potrebbe essere napoletano e angioino, malgrado la sua fortuna esclusivamente francese. Maurizio Perugi ritiene che il commento gaddiano sia stato studiato e utilizzato dal giovane Boccaccio e ne situa l’origine nella stessa Napoli angioina dove il certaldese passò gli anni della formazione al seguito del padre.8 Non esistono prove evidenti che la prima parte del ms. gaddiano, quella costituita da IT ed Eroidi glossate, rispecchi veramente
1 Per quanto riguarda la data del codice, possiamo osservare che l’unico terminus post quem sicuro è costituito dalla data dell’Eneide volgarizzata, composta non più tardi del 1316–1317. 2 Sul quale cf. almeno Bellorini (1900, 17–32); Perugi (1989); Barbieri (2005); Zaggia (2009, 223–265); D’Agostino/Barbieri (2017). Le Eroidi gaddiane sono tràdite anche da cinque altri testimoni, tutti fiorentini. Tutti i codici mescolano la traduzione anonima del gaddiano con altre (quella di Filippo Ceffi e altre ancora, adespote). 3 Cf. in questo senso Cappi (2007; 2008). 4 Informazioni e bibliografia su Prose 3 in Colombo Timelli et al. (2014, 805–816). 5 Per la bibliografia su Prose 5 cf. Colombo Timelli et al. (2014, 823–848). 6 D’Agostino/Barbieri (2017). 7 Si tratta del ms. Royal 20.D.I della British Library di Londra, compilato verosimilmente tra il 1338 e il 1341, durante il regno di Roberto d’Angiò. 8 Perugi (1989, 136–137) si dice convinto «che nel Gaddiano si rifletta una doppia anima, prima napoletana, Ovidio e l’Istorietta, poi fiorentina», con l’Eneide e l’Intelligenza.
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un’anima «napoletana», malgrado l’origine partenopea e angioina del ms. Royal di Prose 5 e la probabile presenza a Napoli di un codice contenente Prose 3 forse già affiancata dalle Eroidi.9 La lingua delle Eroidi gaddiane e delle loro glosse è risolutamente fiorentina, e la paternità di questi testi andrà attribuita a uno o più autori fiorentini, fino a prova contraria. Non si può negare tuttavia che la cultura che emerge dal ms. gaddiano sia la stessa che si trova nelle opere napoletane di Boccaccio, e che il piccolo codice fiorentino dia realmente l’impressione di una raccolta approntata da e per un letterato, con un interesse che spazia tra i diversi generi, dall’elegia alla poesia lirica cortese fino alla narrativa breve. La vicinanza di questi due volgarizzamenti dal francese non sembra casuale. L’unione fra materia troiana ed epistole ovidiane, e il legame fra Prose 3 e le Eroidi francesi, sono confermati d’altronde proprio da Prose 5, che oltre a interpolare nel racconto le epistole ovidiane si serve ampiamente e fedelmente di Prose 3 come fonte. L’ipotesi che i due volgarizzamenti siano dovuti al medesimo autore è seducente ma tuttavia non è dimostrabile, e il confronto fra i due testi lascia supporre che si tratti del lavoro di due autori diversi che condividono lo stesso dialetto fiorentino, la conoscenza del francese e probabilmente anche una buona cultura scolastica e poetica, che spinge entrambi a non affidarsi totalmente ai testi-fonte, ma a far ricorso al deposito di nozioni acquisite, in modo diretto o indiretto, da fonti classiche. Diverse sono in ogni caso le modalità di traduzione: più libera, efficace e di gran pregio qualitativo quella dell’IT; più servile e involuta, puramente funzionale e priva di ambizioni letterarie quella delle Eroidi.10 Va detto tuttavia che questa differenza è meno evidente in alcune chiose alla Eroidi, soprattutto in alcuni lunghi sviluppi di tipo narrativo dei quali è impossibile non notare la straordinaria qualità linguistica e stilistica, nonché la vicinanza a certi passi particolarmente felici dell’IT.
2 Lingua e stile dei due volgarizzamenti Dal punto di vista linguistico le affinità sono più evidenti. Tanto le epistole e le glosse quanto l’IT sono scritte in fiorentino, in un idioma ricco di francesismi per la dipendenza, in tutti e tre i casi, da fonti in lingua d’oïl. Si notano in particolare
9 Cf. Del Lungo (1879, 425); Bellorini (1900, 23); Perugi (1989, 136); Barbieri (2014, 149 n. 20, 150); da ultimo, D’Agostino/Barbieri (2017, 95–99). 10 Si potrebbe dire, mutuando le parole di Massimo Zaggia (2009, 225), che «tra i due testi si riscontrano precisi rimandi, che si spiegano per la comune provenienza da una omogenea cultura di stampo francese, o meglio da un medesimo scrittoio».
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alcune interessanti coincidenze tra i due testi: la presenza della curiosa espressione ricco uomo re (IT 2 e 4G 42); il ricorso al verbo appaciare per indicare l’acquietarsi della furia degli elementi (IT 23 e 2G 162–163)11 e all’inconsueta forma subbietto (IT 142 e 3G 26, usata anche da Boccaccio); l’impiego della poco comune espressione avverbiale oltre per lo mezzo (IT 157 e 219, 1E 26) e del raro aggettivo sottrattoso (IT 121 e 3G 124). Proprio quest’ultima sembra la forma più interessante: il verbo sottrarre nel senso di ‘sedurre, lusingare’ è dantesco (If xxvi 91), ma la forma aggettivale è rarissima e sembra attestata solo in un’altra occasione da Ventura Monachi. Gittò voce di fòri, e disse: Quando mi diparti’ da Circe, che sotrasse me più d’un anno là presso a Gaieta (If xxvi 90–92). Madonna Venus, conta e bella, nobile e piacente, sottrattosa e smovente, gli promise tutta sua forza (IT 121). con ciò sia cosa che l’uomo è il più di buona aire animale che sia in terra, e la femina lo più sottrattoso (3G 124). pensando dove i’ fui e sono altronde e sto sotto le gronde delle volpine sottrattose belve (Ventura Monachi, Rime 74, 4–6).
L’agilità del dettato dell’IT si manifesta soprattutto laddove il volgarizzatore elimina con una certa sistematicità le moralizzazioni tipiche della versione francese: Raison est et droitture, puis que souvent en sommes en matiere, que nous disions la cause et la raison pourquoy Troye la grant fu destruitte; car il est fol et nices qui souvent maintient parole de chose que il ne scet ne cognoist devant qu’il ait apris et sceu que ce est. Si vous dirons doncques qu’il fut en Grece un riche roy, qui fut appelez Peleus (Prose 3, §1). Per ciò che sovente ne siamo in materia, diremo la cagione per che Troia fue distrutta. In Grecia fue uno ricco re, che era chiamato Pelleus (IT 1–2).
Ma si può notare anche come il volgarizzatore italiano riesca a governare in modo impeccabile una sintassi complessa, con presenza di numerose subordinazioni, e sappia al contempo rendere in modo stilisticamente efficace alcuni passi di particolare densità drammatica: Avenne, anzi che Accilles fosse nato, che questo Pelleus avea uno nepote maravigliosamente prode e ardito e di grande segnoria, del quale Pelleus avea invidia e paura,
11 La connessione di questo verbo alla furia del mare sembra trovarsi solo nell’IT e nelle glosse gaddiane.
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avegna che egli fosse suo nepote, temendo che, se elli vivesse, che no gli togliesse il reame (IT 2). Ma Ettor diede lui sì forte colpo, che né scudo né arme nol poté sostenere lo tagliente ferro, che oltre per lo fianco gli passò il cuore; onde Patricolus cadde morto a terra. Ora è cominciato il pericoloso assalto, innarrata è la mortale distruzione, scoperto è il tristo annunzio. Come Patricolus fue alla terra versato, Ettor pugna contra li Greci, i quali non poteano sostenere l’assalto, anzi si trassero infino in sue la riva, ove gli Troiani gli uccideano e damaggiavano sanza rimedio (IT 219–220).
Al contrario, il volgarizzatore delle Eroidi sembra reagire male alle difficoltà sintattiche, e incappa spesso in anacoluti clamorosi che non sembrano effetti retorici voluti, ma piuttosto elementi di un’oralità di tipo basso: Con ciò sia cosa che io vegga il dolce tempo della primavera, il quale ciascuna creatura traie a gioia, che io solea essere secura o in grande sollazzo, ora sono in pene e in paura e ho tema della tua persona per lo grande amore che io ho in te (1E 7–8). Non mi lasciare a richiedere per nullo folle pensero; ché io ti giuro, per la sipoltura di quelli che mio marito fue e per li due mie’ fratelli che io vidi a ghiado morire, e per l’amore e per la fede che io ti porto, che sè mio segnore, mio capo, mia vita, conforto e gioia, che unque il re Agamenon non toccò la mia carne per villania, e poi nonn-ebbi sollazzo né compagnia d’uomo che io mi partî da te (3E 49–51).
In generale, poi, le Eroidi sembrano troppo appiattite sul modello francese, del quale conservano anche evidenti errori, come dimostra questa stravagante traduzione di Her. ii, 115: «avibus libata sinistris» (‘offerta sotto cattivi auspici’) che contiene anche alcuni evidenti calchi dal francese: Io sono quella che t’abandonai la mia verginità e la mia tenera carne, che io avea lungamente guardata netta e pura; sì mi verrebbe meglio ched io l’avessi abandonata a divorare agli uccelli del cielo. I-mala ora ci congiugnemmo insieme; Tesipone urlò nella nostra camera e lo hubeut vi cantò il tristo canto il dì e la notte; e in quella ora che noi ci ragunamo e sì vi fue Atleta col capo colovrato (2E 51–53).
Non mancano però esempi di efficacia stilistica e retorica in cui il livello si avvicina a quello dell’IT: La gente dice che Troia è distrutta, ma a me sola non pare che ciò sia. Coltivato è ora con buoi, e ha già biada là ove Troia fu, e la umida terra, ingrassata del sangue de’ Troiani, è già fatta gaia e verde, e gli bomeri degli arati rivolgono l’ossa de’ morti, e la verde erba cuopre le cadute case; e tu, vincitore, ove sè? (1E 29–31). E tue te ne andrai, ai lassa! Tu, fello e crudele, a cui mi lascerai tu, dolente, trista e smarrita, e che o quale cosa mi potrà essere conforto e alleggiamento? Ai lassa, prima mi possa la terra viva tranghiottire e divorare, o crudele folgore ardere e tempestare che io possa vedere o sapere che tu te ne vadi senza me (3E 29–30).
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3 Le glosse delle Eroidi gaddiane Le chiose che accompagnano il testo delle Eroidi sono certamente una delle parti più interessanti nel ms. gaddiano, perché è in esse che si può meglio cogliere il mutamento di gusto in atto e l’affrancamento dal modello classico francese di volgarizzamento commentato.12 Alcune di esse, soprattutto quelle che si configurano come novelle narrative, sono scritte in uno stile pregevole e molto vicino a quello dell’IT e sono ben lontane dalla scrittura faticosa di certe glosse mitologiche e morali, che ricorda da vicino lo stile delle epistole. Soprattutto, le glosse contengono riscontri testuali che confermano il possibile legame tra l’IT e le Eroidi gaddiane: (1) il numero e i nomi dei figli di Priamo (IT 76–86 e 1G 12–14); (2) lo scambio tra Tideo e Teseo (IT 197 e 3G 222); (3) la disputa tra Aiace e Ulisse per le armi d’Achille (IT 202 e 3G 31–32); (4) Patroclo che prende il posto di Protesilao (IT 214 e 3G 27–28); la confusione tra Toante e Calcante (IT 261 e 3G 5). Nel primo caso il commentatore riprende la versione particolare dell’IT, che esclude il nome di Eleno, le cui caratteristiche sono attribuite a Deifobo, e aggiunge un figlio non ancora in grado di combattere. Questa lista non sembra condivisa da nessun altro testo troiano, e soprattutto non coincide con quella di Prose 3, mentre è identica a quella delle glosse gaddiane, dove manca Eleno e viene aggiunto Aternante, il cui nome ricorda quello del pargolo Astianatte, figlio di Ettore: Questo Priamo avea trenta figliuoli cavalieri bastardi, i quali erano forti e possenti, e cinque figliuoli di sua moglie, de’ quali il primo e più forte ebbe nome Ettor, il secondo Deifebus, il terzo Troiolus, il quarto il bello Paris, il quinto e ultimo fue Aternante; e ebbe due belle figliuole: l’una ebbe nome Pulisena, della quale assai disser che fu più bella della bella Elena; l’altra ebbe nome Casandra e fue grande divinatrice, la quale predisse tutta la distruzione di Troia (1G 12–14).
Nel secondo caso si associa il nome di Teseo all’assedio di Tebe, dove invece si distinse Tideo; la confusione accomuna l’IT e le glosse gaddiane, e si trova anche in Prose 3. Il terzo caso è probabilmente un recupero memoriale del mito classico, in opposizione alla lezione di Prose 3 che riferisce la disputa al possesso del Palladio. Il quarto caso è imputabile alla brevità del racconto dell’IT (e di Prose 3), che taglia tutta una serie di episodi facendo di Patroclo il primo eroe greco ucciso, al posto di Protesilao di cui parla tutta la tradizione troiana. Infine, nell’IT come nelle glosse gaddiane, il padre di Briseis è Toante e non Calcante, in contraddizione con la lezione di Prose 3 e del RdT.
12 Cf. Barbieri (2018, 155–164).
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4 Un commento composito e stratificato Il carattere composito del commento gaddiano è chiaramente messo in evidenza dalla presenza di diverse tipologie di chiose, che spaziano dalla brevissima glossa esplicativa, al commento morale, alla didascalia mitologica, fino ad alcune lunghe digressioni che si configurano come vere e proprie unità narrative autonome, benché sempre legate al testo delle epistole a causa del loro carattere esemplare. Le differenze, non solo di contenuto, ma anche linguistiche e stilistiche tra i vari tipi di glosse parlano a favore della natura stratificata del commento gaddiano, certamente non dovuto a un unico autore, ma frutto di un’accumulazione progressiva di testi di origine, natura e interesse diversi.13 Le chiose di carattere morale, tipiche dei commenti latini di origine clericale, sono spesso contaminate da accenti fortemente misogini. Il commentatore esamina vari tipi di amore, lodandone alcuni e condannandone altri, riprendendo il modello degli accessus latini alle Eroidi ovidiane. Ogni epistola del ms. gaddiano è infatti introdotta da una glossa che presenta il contenuto generale del testo attribuendo in tre casi (le epistole di Penelope, Fillide ed Enone) un’intenzione morale all’autore. Particolarmente significativa è l’introduzione all’epistola di Penelope: Qui comincia l’Ovidio delle pìstole, che alcuno chiama i-libro delle donne. Lo ’ntendimento di colui che questo libro fece fue di trattare di tutte maniere d’amore. È da sapere che tre maniere d’amore sono: lo primo e migliore e più degno sì è amore di matrimonio; il secondo è chiamato folle amore, cioè semplice formicazione d’uomo non amogliato e femina sanza marito e di tale femina a tale uomo; la terza è chiamata incesto, lo quale è amore contro deritto e contro a legge, sì come di femina maritata ad uomo con moglie e di fratello a suora e di padre a figliuola, e cotali cose e tale amore è chiamato incesto (1G 1–4).
In essa appare evidente l’affinità con gli accessus latini, e in particolare la glossa sembra riprendere il secondo e il terzo accessus pubblicati da Huygens, come mostrano la suddivisione dei tipi d’amore (castus, stultus, incestus) e alcuni dettagli del racconto dell’avventura di Ulisse a Troia.14 Ma gli interventi morali del commentatore non sono limitati alle glosse introduttive; essi si possono incontrare anche nel commento a passi specifici, spesso – come si è detto – con una colorazione misogina:
13 Della composizione stratificata delle glosse gaddiane si mostrava convinto già Perugi (1989, in part. 128 e 131). 14 Cf. Huygens (1970, 31–33).
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Non dee essere tenuto né da folle né da savio che l’uomo non sia capo della moglie, che ciò nonn-è inn-una legge, ma in tutte comunamente. E ciò non è costuma né statuto, anzi è diritta natura, che sì come ciascuno puote sapere, di tutte le bestie che sono il maschio è segnore e maestro della femina. E sì non dee l’uomo essere signore dell’albergo solamente, [ma di ciò] che all’albergo apartiene (1G 107–109).
In alcuni casi, questo tipo di glossa viene ricondotto a un sostrato biblico: Come il fino oro e puro e [pro]vato nella fornace, né in fango né in lordura non potrà tanto stare che ne prenda ruggine, simile è della buona donna, avegna che forte sia a trovarla, onde Salamone disse: «Chi troverà forte femina?», cioè forte da vizî e da malizia, come se volesse dire: elle sono poche, overo nulla buona e savia donna e provata infra le malvagie. Sì come Lotto fue sprovato, che solo fue uomo infra li soddomiti, e così era Penelope sanza segnore e sanza compagnia (1G 85–87).
Ma le affinità con i commenti mediolatini tradizionali si fermano qua, tanto più che questo tipo di lettura morale e misogina non appare prevalente nelle glosse gaddiane.15 Dal punto di vista linguistico e stilistico, alcune glosse mitologiche o morali presentano lo stesso tipo di problemi già riscontrati nel testo delle Eroidi: sintassi contorta, francesismi crudi, anacoluti evidenti. Questo vale soprattutto, in modo conforme alle aspettative, per l’epistola di Penelope,16 mentre nelle altre epistole i diversi stili del commento si trovano più facilmente affiancati e il commentatore sembra affrancarsi dal tipico modello francese di volgarizzamento glossato. Le medesime caratteristiche possono essere estese anche alle glosse misogine, concentrate prevalentemente nell’epistola di Briseide, che verosimilmente fanno parte dello strato più antico del commento, di stampo tradizionale e di probabile origine clericale.17 In alcuni casi tali glosse assumono l’aspetto di invettive dal tono particolarmente crudo: Femina crucciata nonn-ha senno; femina crucciata è diavolo; femina è più che tigro o che altro serpente; femina nonn-ha alcuno temperamento; femina è sanza senno; femina per natura è cagione d’ogni male. E però diremo come la piue nobile cittade del mondo a quel tempo fue distrutta per femina (3G 112–114).
Se le glosse di tipo misogino sono prevalentemente concentrate nelle epistole di Penelope e Briseide, quelle a sviluppo narrativo sono raccolte nelle epistole di
15 L’interpretazione morale è tendenzialmente limitata alla prima epistola, dal commento più tradizionale, anche se qualche rara moralizzazione si trova sparsa anche nelle altre epistole; le osservazioni misogine più forti invece sono concentrate curiosamente nell’epistola di Briseide. 16 Cf. per esempio 1G 44–46, 73, 78, 95–96, 112–115. 17 Cf. per esempio 3G 18–20.
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Briseide e Fillide, mentre le citazioni liriche abbondano soprattutto nelle epistole di Fillide ed Enone, che non a caso sono le due eroine accusate di cedere all’amour fou nelle glosse introduttive.
5 Il commento all’epistola di Briseide La stratificazione di cui ho parlato è particolarmente evidente proprio nel commento all’epistola di Briseide, che accumula tutte le tipologie di glosse: morali, misogine, troiane, amorose, mitologiche brevi e lunghe, narrative. Un primo interrogativo si pone sulla ragione che porta i commenti misogini a concentrarsi attorno alla figura di Briseide. Non c’è nessun motivo particolare per cui Briseide debba assumere i tratti di una donna moralmente condannabile, e d’altronde questa è l’unica epistola nella cui introduzione non si fa riferimento a una tipologia amorosa precisa, né per lodarla né per stigmatizzarla. Si potrebbe pensare che il carattere particolarmente misogino e critico di certi commenti sia dovuto alla frequente confusione fra Briseide e la Briseida del RdT, amante infida e volubile per eccellenza:18 nelle glosse, il commentatore ricorre sempre alla grafia Briseida. Va notato fra l’altro che l’IT abbrevia ulteriormente il dettato già sintetico di Prose 3 ed elimina praticamente tutta la parte riguardante Troilo.19 Il risultato è che questi tagli rendono ancora più sconcertante il voltafaccia di Briseida, che cede immediatamente alla corte di Diomede:20
18 Sulla figura di Briseida nel RdT cf. per esempio Lumiansky (1954); Antonelli (1989); Kelly (1995); Baumgartner (1996); Barbieri (2013). 19 Un cortocircuito analogo a quello tra Briseide e Briseida si produce in corrispondenza della menzione del nome di Telefo nella stessa epistola di Briseide. Il nome del guerriero ferito e guarito dalla lancia di Achille è introdotto erroneamente nel testo dell’epistola; nella glossa corrispondente, che pure nomina Telefo, l’episodio raccontato è in realtà quello del re Lernesio, per cui cf. IT, 187–188 e 204–206, nonché Prose 3, 92, che fa di questo personaggio il padre di Briseide. A sua volta questo episodio deriva da quello del re di Misia nel RdT (vv. 6511–6657), dove uno dei protagonisti è proprio Telefo. Rispetto a quest’ultimo testo, nella glossa del ms. gaddiano Telefo prende il posto del re sconfitto (recuperando così una qualche aderenza con la leggenda classica) e Ulisse quello di Telefo, ed è quindi Achille stesso a riconoscere e risparmiare il re. Il commentatore vuole giustificare così l’inserimento del nome di Telefo nella traduzione, dovuto probabilmente a una glossa latina erronea. 20 D’altronde, l’associazione di un commento misogino al comportamento di Briseida era già presente nel romanzo in versi: «Femme n’iert ja trop esgaree: / Por ço qu’ele truist ou choisir, / Poi durent puis li suen sospir. / A femme dure dueus petit / A l’un ueil plore, a l’autre rit. / Mout muent tost li lor corage. / Assez est foie la plus sage: / Quant qu’ele a en set anz amé / A ele en treis jorz oblïé» (RdT 13438– 13446).
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E quando furono tutti addormentati, Troilus segretamente andò a vedere la donzella, e tutta la notte stettero insieme braccio a braccio e bocca a bocca. E tutta la notte non finarono di piagnere, sempre pregando l’uno l’altro che il carissimo amore non si dimenticasse tra loro. […] E così le promise, e la pulcella promise lui fede e lealtade. Al punto del dì Troilus si partì segretamente e la pulcella si levò e apparecchiossi orrevolemente. Al punto del die Ulixes e Polipom e Diomedes vennero per la donzella, la quale a loro fue data. Sì tosto come li Greci furono fuori de la cittade colla donzella, Diomedes la richiese d’amore; la quale, sanza alcuno detto, gli ebbe promesso, e donogli uno anello che Troilus l’avea donato (IT 270–275).
6 Le glosse mitologiche estese Se le glosse mitologiche costituiscono la tipologia più diffusa nel ms. gaddiano, come del resto in tutta la tradizione medievale, alcune di esse raggruppano diverse leggende e assumono dimensioni tali da non poter più essere considerate alla stregua di semplici chiose. (1) 2G 64–142: Minotauro, centauro sagittario; storia di Minosse, Niso e Scilla; storia di Pasife e del toro; storia di Arianna e Teseo e morte del Minotauro; storia di Dedalo e Icaro; storia della morte di Perdice. (2) 2G 143–153: continuazione della storia di Arianna e Teseo; fuga, abbandono di Arianna e incontro di questa con Bacco. (3) 3G 130–247: Meleagro, Atalanta e Ippomene: nascita e giovinezza di Meleagro, caccia al cinghiale di Calidone, amore tra Meleagro e Atalanta, morte di Meleagro; Atalanta e Ippomene. (4) 4G 19–62: Perseo e cavallo Pegaso, uccisione di Medusa, liberazione di Andromeda, vendetta contro Fineo, zio di Andromeda e antico promesso sposo della fanciulla. Anche dal punto di vista stilistico, esse presentano le caratteristiche di vere e proprie novelle, e mettono in mostra la vena narrativa di autentico scrittore del loro autore, sia che si tratti dello stesso commentatore, sia che questi le abbia attinte da testi preesistenti. In generale l’occasione per l’aggiunta di queste chiose è come in tutti gli altri casi un aggancio testuale preciso: il nome di una divinità o di un personaggio mitologico, la menzione di un evento. Ma il commentatore travalica i limiti di una ragionevole spiegazione della lezione del testo e si dilunga passando da mito a mito e seguendo un filo che lega i vari episodi, allontanandosi sempre più dal contesto circoscritto richiesto dalla lezione da commentare e mostrando un gusto narrativo di natura più letteraria che didascalica. La glossa più interessante è certamente il lungo racconto mitologico su Meleagro e Atalanta. In questo caso il testo è evidentemente composto da vari episodi
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cuciti insieme, ed è interessante che il commentatore esalti una figura femminile, benché vagamente androgina,21 proprio nell’epistola che contiene il maggior numero di glosse misogine, comprese quelle immediatamente successive. Questa lunga chiosa mitologica è certamente interessante dal punto di vista narrativo, ma è stilisticamente meno efficace di altre glosse lunghe, e mette forse in evidenza la mancanza di un’ultima revisione. Le diverse parti della glossa risultano così semplicemente giustapposte, lasciando vedere in modo ancora più chiaro la stratificazione del materiale di cui è composta. La natura non rifinita di questa glossa appare in modo evidente se si considerano i frequenti problemi sintattici e le fastidiose ripetizioni,22 ma soprattutto la duplice presentazione della punizione divina rappresentata dal cinghiale di Calidone, anche se la vera e propria caccia viene descritta solo nel secondo caso: Sì mandò loro uno animale in figura d’uno porco salvatico, di forma feroce e grandissimo oltre l’uso; e andava tempestando biade, vigne e albori, e uccidea animali e uomini e guastava tutto lo paese, sicché nullo uomo s’usava d’abbandonare al camino (3G 151–152). Non dimorò guari che la dea Diana mandò in quella contrada uno porco salvatico di sì grande forma che il dire darebbe abbominevole amirazione a chi l’udisse, il quale in tutta la contrada no lasciava biade né frutti a divorare, e medesimamente gli animali e gli uomini da lui non si poteano difendere (3G 189–190).
La stessa cosa avviene nella glossa sul Minotauro dell’epistola di Fillide, dove viene ripetuta due volte in modo quasi identico la parte sulla costruzione del labirinto.23 Non di rado il commentatore insiste su alcuni personaggi e sui loro dialoghi trasformandoli alla luce delle mode culturali del tempo. È il caso per esempio dei dialoghi tra Meleagro e Atalanta, che sembrano tradire influenze della letteratura cortese e stilnovistica, già segnalate peraltro in alcuni passi dell’IT:24 Quando ella lo vide, sì disse: «Amico, ben vegni come il piue pro e il meglio combattente di tutti e il piue bello al mio animo; e per questa cagione ti dono lo mio amore, che lungamente
21 Andromeda è un’eccellente cacciatrice ed è più veloce degli uomini nella corsa. 22 Per esempio, s’incontra tre volte l’avverbio incontanente nella stessa frase. 23 Una prima volta in 2G 105: «Sì fece, quando il mostruo fue nato, fare una diversa casa della quale nullo che v’entrasse sapea uscire; e quello Dedalus medesimo la fece che alla reina avea fatta la falsa vacca, ma ciò non sapeva il re»; la seconda in 2G 108–109: «sì si consigliò con Dedalus, lo sottile uomo il quale avea fatta la figura della vacca di legno (ma il re Minos nol sapea), e Dedalus gli rispuose che gli farebbe una tal casa onde chi v’entrasse non saprebbe mai uscire, e così fece». 24 Cf. IT 163–164 e il commento in D’Agostino/Barbieri (2017, 30, 34–35). Per quanto riguarda le Eroidi, cf. per es. anche 3E 69 e 4E 4.
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ho guardato. […] E acciò che tu siei veramente mio, io dono e metto in tua libertà il cuore e ’l corpo, l’amore, la giovanezza e la mia libertà». Meleager rispuose: «Madonna, la vostra contigia e il vostro amore desidero io sopra tutte quelle donne del mondo, e del vostro nobile presente vi rendo con umiltà mercede e grazie, e fovi presente di me e di quanto posso sì come della cosa ch’è piue vostra che mia». Poi rispuose Atalenta: «Amico, bene hai detto. Omai porti fede e lealtade l’uno all’altro, e non voglio che il nostro amore sia nascoso, ma palese» (3G 169–178).
Se la stratificazione del commento risulta evidente, pare più difficile indicarne l’origine e mostrarne la costituzione progressiva. L’analisi linguistica rileva caratteristiche simili a quelle già individuate nel testo delle Eroidi volgarizzate, con una massiccia presenza di francesismi che sembrerebbero indicare una prima redazione proveniente d’Oltralpe. Visto il carattere composito del commento, non sembra tuttavia possibile immaginare che esso sia integralmente tradotto da una versione francese già completa. La lingua delle glosse narrative è infatti molto migliore di quella di altre glosse di tipo mitologico o morale; i francesismi sono presenti anche nelle glosse lunghe, ma in percentuale minore, e si tratta quasi esclusivamente di fenomeni lessicali e non sintattici.
7 Le glosse di tipo narrativo Vi è un altro tipo di «glosse» che rendono estremamente interessante e forse unico nel suo genere il commento alle Eroidi del ms. gaddiano. Si tratta di alcune unità narrative, vere e proprie novelle brevi prive di carattere mitologico. Esse vengono presentate nell’introduzione o nella conclusione alla stregua di classici exempla morali, ed è questa l’unica caratteristica che permette di ancorarli al testo delle Eroidi, ma il loro contenuto è pienamente autonomo e l’autore, che coincida o meno con il compilatore del commento, vi esprime una vena letteraria che va ben al di là del puro commento funzionale. (1) 2G 178–215: glossa che raccoglie tre brevi racconti: il primo è un aneddoto della vita d’Ippocrate che riferisce la morte della madre per eccesso di gioia; il secondo riguarda il duca di Normandia e un chierico forestiero di passaggio; il terzo narra di una donna francese, la «madre dei Cornuti», e dei suoi figli tutti assurti ad alte e prestigiose cariche; (2) 3G 38–110: glossa che contiene un solo lungo racconto sulla storia di un re mal consigliato che fece uccidere tutti i vecchi del suo paese. La prima glossa è apposta in corrispondenza della traduzione di Her. ii, 125–126 («et quaecumque procul venientia lintea vidi, / protinus illa meos auguror esse
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deos»), versi che sono resi in maniera molto libera con la frase «e sì tosto com’io veggio alcuna vela, tutto lo cuore mi trassalta nel ventre, che tuttavia penso che li idii m’aiutino». La glossa è introdotta da una frase che vuole mettere in guardia dagli effetti pericolosi delle emozioni troppo forti, attingendo a categorie tipiche della fisiologia medievale: Sovente aviene che ’l cuore salta e si muove, e ciò aviene per due cagioni: o per gioia o per paura; e molte volte l’uomo ne muore di subito (2G 177).
I tre racconti che seguono illustrano precisamente questo argomento, e narrano tre esempi di morte per eccesso di gioia.25 La seconda glossa narrativa è apposta in corrispondenza della traduzione di Her. iii, 37 («sed non opus est tibi coniuge»), resa con fedeltà dal volgarizzatore («ma, segnor mio, tu no mi avei bisogno di femina»), ma interpretata erroneamente come un riferimento alla presunta omosessualità di Achille. Il legame tra l’ira di una donna rifiutata e l’accusa di omosessualità rivolta ai cavalieri ha un’importante storia letteraria in àmbito romanzo: lo troviamo nell’Eneas (vv. 8565–8583 e 9130–9170), nel Lanval di Maria di Francia (vv. 277–284) e nella canzone RS 1574 di Conon de Béthune (vv. 17–24).26 A partire da questo spunto, il commentatore inserisce un breve commento morale e misogino circa il pericolo costituito dalle donne gelose, che per vendetta reagiscono tentando di nuocere a chi le ha offese, senza pensare alle gravi conseguenze che le loro parole possono provocare: Per questa cagione rimproverò Ettor ad Accilles ch’elli per nullo avere non vorrebbe essere tanto biasimato de l’amore d’uno cavaliere come elli era di quello del re Patroclus. E in questo modo gli rimproverò Briseida il vizio suo, dicendo che egli nonn-avea bisogno di femina. E non è da maravigliare se, essendo crucciata, ella gli rimproverò il vizio della soddomia; ché quando femina è crucciata, ella non guarda quanto pericolo o vergogna avenga possa ella nuocere e spiacere, e di ciò ci hae assemplo (3G 34–37).
Il ricorso alla parola assemplo spiega bene la funzione che il commentatore intende assegnare al lungo racconto che segue. In esso si susseguono diversi aneddoti, e sia il comportamento della moglie del re,27 sia quello della moglie del giovane che ha nascosto il padre perché non venisse ucciso permettono di 25 Per l’analisi di questi racconti rimando all’ed. a cura di D’Agostino/Barbieri (2017, 82–83). 26 Cf. Barbieri (2013, 277–279). Accenni espliciti all’omosessualità di Achille si trovano anche nel RdT, 5176–5178, 10335–10369, 10390–10398 e soprattutto 13178–13188. 27 Il ruolo della moglie del re sembra introdotto solo nel racconto gaddiano; ma potrebbe esserci un’influenza del Lanval, dove la regina rifiutata si vendica rovesciando l’accusa di molestie sul cavaliere, che è costretto a difendersi davanti al re.
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giustificare la funzione esemplare della novella rispetto alla frase introduttiva. La stessa idea è poi ripresa nella frase conclusiva: Per questo assempro vedemmo che, quando la femina è in cruccio e inn-ira, che ella non teme di nullo male fare, e non dotta peccato né onta, e non si risparmia di fare male pure che ella lo possa fare grandissimo e scellerato (3G 110–111).
La ricerca delle fonti di questo racconto è particolarmente complessa, perché la redazione della novella sembra intrecciare fra loro diversi nuclei narrativi. Per la parte essenziale dell’apologo, quella del re privato degli anziani consiglieri e del giovane accompagnato dalla moglie, dal figlio e dal cane, si può invece indicare una catena di fonti prevalentemente latine il cui nucleo centrale è attestato almeno dal X secolo nel Sermo de octavis Paschae di Raterio di Verona, e poi alla fine del XII secolo nel De naturis rerum di Alessandro Neckam. Una versione più vicina a quella del ms. gaddiano è costituita dall’apologo Senex contenuto nel Dolopathos latino di Jean de Haute-Seille, una delle numerose derivazioni del materiale raccolto nella cornice leggendaria del Libro dei sette savi.28 In ogni caso, il commentatore sviluppa in modo personale i dati trovati nelle fonti aggiungendo molti nuovi elementi – specialmente nella prima parte, come la figura della moglie gelosa, il cliché del don contraignant, l’episodio del sogno del re – ma soprattutto amplificando il dettato, rendendo più articolati e incalzanti i dialoghi e vivacizzando lo stile: Ed ella disse: «Messere, per vostro bene ed onore vostro donatemi uno dono che io vi domanderò». E il re rispuose: «Che che si sia, abiatelo». La quale rispuose: «Per vostra volontà lo farò io fare domane». Ed egli disse che molto gli piacea. A tanto rimase la cosa infino alla mattina. E l’altro die, la reina fece comandare che in tutto lo reame nol rimanesse nullo uomo vecchio il quale avesse passato i sessanta anni che non fosse morto sanza alcuna pena (3G 46–48).
Si tratta di una delle numerose varianti di un topos che ha anche un doppio ascendente biblico nella promessa del re Assuero a Ester e in quella di Erode a Salomè che costò la vita a Giovanni il Battista: Allora il re le disse: «Che vuoi, Ester, qual è la tua richiesta? Fosse pure metà del mio regno, l’avrai!». Ester rispose: «Se così piace al re, venga oggi il re con Amàn al banchetto che gli ho preparato». Il re disse: «Convocate subito Amàn, per far ciò che Ester ha detto». Il re
28 Altre versioni successive più o meno direttamente legate al Dolopathos si trovano nei Gesta Romanorum composti tra fine XIII e inizio XIV secolo, nel ms. del XIV secolo CXXX.E.5 della Biblioteca Universitaria di Pavia e nella Scala coeli di Giovanni Gobi, composta tra il 1323 e il 1330. Cf. Barbieri (2014, 167–169).
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andò dunque con Amàn al banchetto che Ester aveva preparato. Il re disse a Ester, mentre si beveva il vino: «Qual è la tua richiesta? Ti sarà concessa. Che desideri? Fosse anche la metà del regno, sarà fatto!». Ester rispose: «Ecco la mia richiesta e quel che desidero: se ho trovato grazia agli occhi del re e se piace al re di concedermi quello che chiedo e di soddisfare il mio desiderio, venga il re con Amàn anche domani al banchetto che io preparerò loro e io risponderò alla domanda del re» (Est 5, 3–8). Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla ragazza: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le fece questo giuramento: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». La ragazza uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta dicendo: «Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista» (Mc 6, 22–25).
Anche dal punto di vista linguistico e stilistico questi racconti sembrano distinguersi dalla relativa mediocrità del resto del commento, al punto che alcuni di essi sono stati utilizzati da Vincenzio Borghini all’interno della sua versione emendata del Novellino stampata nel 1572. Lo si può vedere bene in questo passo, dove proprio il tema della «femina crucciata» fornisce lo spunto per una delle pagine più vivaci e meglio riuscite del racconto: Poi prese la moglie per la mano e disse: «Ecco il piue grave nemico che io abbia. Io mi guarderei d’uno strano, se io sapessi che elli mi volesse male, ma io so bene che questa non mi farà già bene che ella possa, per ciò che tale è natura di femina che mai bene non fa a chi l’ama o a chi l’onora, e di lei no mi posso guardare né in casa né fuori, a mensa né a letto. Quando io credo essere a maggiore allegrezza e quella muove cosa onde molto mi conturba, tormenta, assale, garre, azzuffa e dibatte, e quello che io voglio e ela disvuole, quello che mi piace e lei spiace. Nullo mi potrebbe gravare laove ella mi stimola e conquide, perché di vero questo è il mio pessimo e mortale nemico». Quando il giovane ebbe ciò detto, la moglie tirò a sé la mano che elli tenea e per maltalento cominciò ad arrossare, e infiammò d’ira, e isguardò il marito di traverso e cominciò a favellare furiosamente e disse: «Poi che tu mi tieni per nemico, qui non credea io essere menata per questa cagione, ma questa nimistà non t’ho io mostrata, ché io t’ho guardato il tuo padre il quale tu hai celato contra il comandamento der re. Per la qual cosa tu hai servito d’essere appeso per lo collo». Allora cominciarono tutti quelli della corte a sorridere, e il giovane dise: «Segnori, qui non mi conviene sforzare molto di mostrare che ella sia nemica» (3G 80–91).
Ancora una volta, le fonti di queste novelle sono da cercare in materiale d’Oltralpe, secondo una prassi che vale d’altronde per buona parte dei racconti riuniti nello stesso Novellino, soprattutto nella sua forma più antica attestata dal ms. Panciatichiano.29 Il commento alle Eroidi del ms. gaddiano, almeno in qualche sua parte, mostra quindi di partecipare da molti punti di vista al fermento culturale da cui
29 Per le fonti del Novellino e dell’Ur-Novellino cf. almeno Conte (2001).
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nasce una delle più antiche e autorevoli raccolte di narrativa breve della letteratura italiana: stesso tipo di fonti, stesso stile, stesse implicazioni morali ancora legate agli exempla.
8 Verso una nuova tipologia di volgarizzamento Le Eroidi gaddiane e l’IT sono tutto sommato ancora un tardo esempio della subalternità della letteratura italiana alla cultura francese. Il fatto che entrambi i testi siano incompleti e che in molti testimoni la redazione gaddiana delle Eroidi si trovi mescolata al volgarizzamento di Filippo Ceffi sembra indicare una transizione che coincide con un cambiamento di gusto in corso, una volontà di affrancamento dal modello francese di traduzione dal latino. I volgarizzamenti d’Oltralpe di XII e XIII secolo sono prevalentemente caratterizzati da una scarsa fedeltà all’originale latino, dovuta certamente alle non eccelse competenze linguistiche dei volgarizzatori ma anche alla volontà d’interpretare il testo in funzione di un preciso progetto culturale, da una generale rilettura morale di tipo «scolastico» e clericale e da un adattamento anacronistico ai tempi. Per quanto riguarda i volgarizzamenti italiani di testi francesi, essi sono spesso caratterizzati da una trasposizione linguistica faticosa, troppo succube del prestigio di un idioma culturalmente dominante, che dà luogo tra l’altro alla proliferazione di forestierismi lessicali. A questo modello, sostanzialmente valido anche per le epistole gaddiane, si sostituisce progressivamente nel XIV secolo un nuovo approccio più fedele e aderente alla lingua dei testi classici e al contempo più consapevole delle potenzialità della lingua italiana, che si traduce in una prosa più snella e leggibile, meno dotta e didattica, in ossequio a un progetto letterario più «moderno» e ai gusti del nuovo pubblico laico e borghese.30 Proprio questo cambiamento di gusto, ben incarnato dall’opera del Ceffi, potrebbe aver consigliato l’interruzione del volgarizzamento gaddiano legato a modelli ormai superati. In questo senso, potrebbe essere significativo il fatto che anche l’IT si presenti in forma mutila, e che in uno dei due testimoni essa sia continuata dal volgarizzamento dell’Historia destructionis Troiae a opera dello stesso Ceffi. Se l’IT rappresenta da un lato questa «vecchia» tradizione, il suo stile e la sua lingua aprono invece a forme più innovative. In questo senso, anche alcune chiose alle Eroidi testimoniano il superamento di questo modello e l’apertura verso una nuova tipologia di scrittura. Entrambi questi testi costituiscono un banco di prova per la nascente prosa narrativa italiana, e meritano un posto nella 30 Cf. Zaggia (2009, 298–301).
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storia della letteratura italiana non inferiore a quello del Novellino o dei Conti di antichi cavalieri. Al di là del fatto che possa realmente aver consultato il ms. gaddiano, Boccaccio ha fatto propria questa lezione. Si è spesso messa in evidenza la lingua estremamente elaborata del prologo e della cornice storica del Decameron, ma non bisogna dimenticare che nelle novelle si può ritrovare quella sintassi semplice, diretta ed efficace tipica delle fonti delle quali lo scrittore fiorentino si è nutrito in gioventù.
9 Il lessico delle Eroidi gaddiane Qual è l’apporto lessicale delle Eroidi gaddiane alla lingua italiana? Per quanto riguarda i numerosissimi francesismi, accanto a una serie di forme assai diffuse e comuni, vi sono altri fenomeni più rari e quindi più significativi. Tra questi si possono segnalare in particolare le forme ottriare ‘concedere, permettere’ (1E 14 e IT 244; Fatti di Cesare, Luc. 2, 1; Tommaso di Giunta, Conciliato d’Amore, 14, 3), dammaggio ‘danno’ (1E 53 e IT 42; Tristano Riccardiano, Palamedés, Teseida, Giovanni Villani) e deessa (2E 19 e IT 166; Fatti di Cesare, Palamedés, Intelligenza, Pistole di Seneca). Sarà comunque interessante sottolineare che i francesismi non si trovano solo, com’era facilmente prevedibile, nel testo delle epistole, ma anche nelle glosse, e persino in quelle lunghe di tipo mitologico e narrativo, riaprendo di nuovo la questione sulla possibile derivazione del commento da un materiale francese preesistente. Tra le forme presenti nelle glosse lunghe vanno segnalate in particolare il sostantivo bergere ‘pastore’ (2G 185, 4G 8), francesismo evidente che sembra essere attestato solo nelle glosse alle Eroidi gaddiane, e il verbo sbaldire ‘rallegrarsi’ (2G 193), che conta poche altre attestazioni tutte in testi del XIII secolo, cosa che sembrerebbe parlare in favore dell’antichità del commento gaddiano. Vi è poi una quindicina di forme lessicali che costituiscono probabilmente delle prime attestazioni assolute nella lingua italiana scritta,31 anche se in alcuni casi è difficile stabilire una precedenza cronologica fra testi di cui non si conosce la datazione esatta. Va precisato che i neologismi non sono necessariamente francesismi,32 ma termini perfettamente italiani, a volte destinati a un vasto uso e a un’ampia fortuna (screzio, crocicchi, scettro, imbrattare), mentre altre forme sono riprese da Boccaccio, a volte in modo esclusivo, contribuendo così a consolidare
31 Cf. D’Agostino/Barbieri (2017, 211–212). 32 Come accade per esempio in un altro volgarizzamento italiano del RdT in prosa, quello di Binduccio dello Scelto.
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il legame del certaldese con il ms. gaddiano. Tra questi ultimi mi sembrano particolarmente interessanti le forme spastarsi ‘ripulirsi (da una sostanza collosa)’ (altre attestazioni solo in Boccaccio, Decameron viii, 9, 100 e Sacchetti, Rime 191, 92), sturbo ‘ostacolo, impedimento’ (Boccaccio, Ameto, c. 7 e Giovanni Villani) e guerreggiatori ‘depredatori’ (Filippo da Santa Croce, Deca prima di Tito Livio; Boccaccio, Chiose Teseida, 7, 30).
10 Il ms. Gaddi 71 e Boccaccio Secondo Perugi, «il commento gaddiano ha molte probabilità di fotografare un momento importante del sincretismo letterario cui attinse il Boccaccio giovane».33 Alcuni elementi fondanti di questo sincretismo sono la passione per la materia troiana, la commistione di versioni medievali e classiche dei miti, il recupero dell’ispirazione ovidiana e della tonalità elegiaca, compresa l’attenzione al taglio autobiografico,34 la permeabilità al linguaggio cortese e stilnovistico, nonché il ricorso alle inserzioni liriche. Si tratta di elementi che ritroviamo tutti nelle opere giovanili di Boccaccio e in particolare nel Filostrato, il poema in ottava rima che isola e sviluppa la storia d’amore fra Troilo e Briseida, il personaggio femminile inventato da Benoît de Sainte-Maure. All’epoca della redazione del Filostrato, Boccaccio poteva approfittare della ricchezza culturale straordinaria della corte angioina di Napoli, e benché si pensi generalmente che la fonte principale del poema sia l’Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne, diversi studiosi hanno sottolineato che lo scrittore fiorentino doveva conoscere anche altre versioni della leggenda troiana, e non si può escludere che tra queste vi fossero anche l’IT e le Eroidi glossate.35 Come abbiamo già ricordato, infatti, il modello francese di questi testi (e forse anche l’originale italiano) doveva trovarsi nella biblioteca angioina di Napoli, dove è stato utilizzato come fonte della sezione troiana dell’HA2. Qui vorrei solo ricordare che un’osservazione sulla gelosia come malattia contenuta in un’altra opera giovanile di Boccaccio, il Filocolo, sembra derivare direttamente da una glossa gaddiana all’epistola di Briseide: 33 Perugi (1989, 133). In modo più prudente Zaggia (2009, 226) lo definisce «un anello importante nella trafila culturale che porterà alle chiose sul Teseida». Sui possibili punti di contatto tra le opere giovanili di Boccaccio e i testi del ms. gaddiano cf. Barbieri (2018, 159–163). 34 Cf. per esempio le glosse 2G 11, 3G 11, 5G 37 e l’analisi di Perugi (1989, in part. 124–126). La possibile interpretazione autobiografica costituisce anche l’ispirazione del Filostrato, secondo la testimonianza del suo autore nel prologo. 35 Sulle fonti del Filostrato cf. Barbato/Palumbo (2012, in part. 138–146).
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Ché disaventura di gelosia non può sapere nullo se prima no la pruova come grave infertà (3G, 125). O amore, dolcissima passione a chi felicemente i tuoi beni possiede, cosa paurosa e piena di sollecitudine, chi potrebbe o credere o pensare che la tua dolce radice producesse sì amaro frutto come è gelosia? Certo niuno, se egli nol provasse. […] E le più fiate avviene che di quella infermità onde ella ha maggior paura, di quella è più spesso assalita e oppressa infino alla morte (Filocolo iii, 27).
La stessa idea si trova espressa anche in una lunga chiosa autografa al Teseida, che contiene anche in sintesi le storie di Meleagro, Atalanta e Ippomene:36 ma gelosia porge amarissime sollecitudini et infinite, le quali et sospiri et lagrime et angosciosi guai tirano spesse volte fuori de’ petti de’ gelosi: come coloro sanno che il pruovano o che provato l’ànno (Boccaccio, Teseida, chiosa a vii, 50).
Evidentemente queste sole osservazioni non possono essere sufficienti a dimostrare che Boccaccio abbia conosciuto i testi contenuti nel ms. gaddiano, ma confermano in ogni caso una prossimità culturale e linguistica che non può essere ignorata e che merita ricerche più approfondite.
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36 Cf. Perugi (1989, 125–126). Le storie di Meleagro, Atalanta e Ippomene costituiscono l’oggetto della lunga glossa narrativa che segue immediatamente quella sulla gelosia nel ms. gaddiano.
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Simone Pregnolato
La «verace ystoria»
Avviamento allo studio del volgarizzamento troiano di Mazzeo Bellebuoni Abstract: The essay focuses on Mazzeo Bellebuoni, a Pistojese notary who lived between the 13th and 14th centuries, and his written production. First of all, some information is shared about his life and his professional activity (§1); then, the paper discusses his «auto-translation» from Latin of the Statuto dell’Opera di San Jacopo, related today by the ms. Pistoia, Archivio di Stato, Opera di San Jacopo, 237 (§2). Mazzeo Bellebuoni, however, is especially known for his 1333 translation into Pistojese of Guido delle Colonne’s Historia destructionis Troiae, a text originally written in Latin that came to be considered a historical source during the Middle Ages: §§3.1–3.2 are dedicated to placing Mazzeo Bellebuoni in the context of the other vernacular translations developing the Trojan legend in Italy. This unreleased «volgarizzamento», only reported by two manuscripts stored in the Biblioteca Riccardiana of Florence (1095 and 2268), is useful for extracting the mid-14th century literary grammar of a Tuscan dialect which influences the Florentine variety. My research is an introduction to the first critical edition – which I am preparing – of this ancient Bellebuoni’s text: it includes a survey of the manuscript witnesses (§4.1), a review of previous incomplete editions (§4.3) and, above all, the first analytical description of the codex Riccardiano 2268 (signed R2; §4.1.1), which I selected as the textual base for the future edition of what I named Troiano Riccardiano (§4.2). Keywords: Mazzeo Bellebuoni; Pistoia; «Volgarizzamento»; Trojan saga
Nota: Sono debitore di suggerimenti e d’una attenta lettura preliminare a Michele Colombo, Alice Ducati, Paolo Pellegrini, Marco Petoletti e Wolfgang Schweickard; un ringraziamento speciale desidero riservare a Massimiliano Bassetti e a Gabriella Pomaro per le consulenze che generosamente m’hanno prestato (ma resta inteso che la responsabilità d’ogni errore residuo, paleografico o meno, è mia soltanto). Alcuni nuclei di questo Avviamento, in part. i §§1–2, sono stati anticipati, in una veste di tenore più divulgativo, in Pregnolato (2017b). Indirizzo di corrispondenza: Dr. Simone Pregnolato, Università degli Studi di Verona, Dipartimento di Culture e Civiltà, Viale dell’Università 4, I-37129 Verona/Universität des Saarlandes, Institut für Romanistik, Campus Geb. A5 3, D-66123 Saarbrücken. E-Mail: [email protected]. https://doi.org/10.1515/9783110611113-014
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Simone Pregnolato
Introduzione Nei primi anni Novanta dell’Ottocento, presso il Department of Romance Languages della Johns Hopkins University di Baltimora (Maryland), James Dowden Bruner, un perfezionando del filologo romanzo Aaron Marshall Elliott, presentava la propria dissertazione dottorale dal titolo The Phonology of the Pistojese Dialect; stando a quanto vi dichiara l’autore – il quale, discussa la Tesi, subito la diede alle stampe sotto gli auspici della Modern Language Association of America –, il duplice obiettivo della ricerca era quello di descrivere il dialetto della città di Pistoia e della montagna pistoiese «first from an historical and a physiological point of view; and secondly in comparison with other Tuscan (Italian) dialects».1 Il metodo (invero discutibile) cui egli era ricorso per la sua analisi consisteva, da una parte, nella schedatura dell’idioma parlato dai Pistoiesi del tardo XIX secolo (compiuta direttamente dal Bruner durante un semestre trascorso fra Pistoia e Cutigliano), e dall’altra nello spoglio d’un corpus sufficientemente ricco di manoscritti due-trecenteschi, pubblici e privati, editi e non. Fra le prose d’arte ivi censite figurano testi d’insindacabile spessore linguistico, com’è il caso dei Trattati morali d’Albertano da Brescia tradotti dal notaio Soffredi del Grazia nel 1275 e recati dal codex unicus idiografo segnato Pistoia, Biblioteca Comunale Forteguerriana, A.53 (a. 1278), giustamente riconosciuto come «the most important ms. noted here»,2 e come anche gli Statuti dell’Opera di San Jacopo stesi nel 1313 per opera del notaio Mazzeo di ser Giovanni Bellebuoni;3 tuttavia mancano in Bruner (1894) – ed è un vuoto che si fa sentire – cenni anche minimi all’altra opera in pistoiese del Bellebuoni, meritevole di menzione quantomeno per la mole (decisamente ampia) e per l’ambizioso intento storico-letterario che la informa: alludo al volgarizzamento,
1 Bruner (1894, 1). Lo studioso americano giunse a dimostrare – in maniera evidentemente fallace – che «the orthography of the mss. [e.g. scrizioni etimologiche come -ct- in predicti, considerata dal Bruner forma con /c/ epentetica] is phonetic» (ibid., 2); cf. l’assai severa – e in buona sostanza sottoscrivibile – recensione che ne fece il Parodi (1896b, 142: «Converrà che ognuno, valendosi di codesto materiale raccolto, non ricorra che con molta circospezione ai giudizî del raccoglitore, e lo studî, per proprio conto, con molto diversi criterî»). Il lavoro del Bruner viene comunque adoperato dal Castellani (cf. NTF 41) insieme col precedente Bruner (1893) sul pron. pers. tonico di 2a pers. sg. in pistoiese, e lo si ritrova citato ancora in Manni (1990) e in CLPIO clxva. 2 Bruner (1894, 1). Una concisa panoramica di tenore divulgativo su Soffredi del Grazia e sulla rilevanza storica e linguistica del suo volgarizzamento in pistoiese d’Albertano, copiato tre anni dopo la sua composizione da un altro pistoiese, Lanfranco di ser Jacopo del Bene, è ora in Pregnolato (2017a, con bibliografia di base). 3 Cf. infra, §3; Savino (1994) per l’edizione del testo; Pregnolato (2017b, 35–36).
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datato al 1333, delle vicende della città di Troia secondo il resoconto fattone da Guido Giudice nell’Historia destructionis Troiae (in séguito: HdT).4 Nel corso dei centoventicinque anni che ci separano da questo studio pioneristico ma farraginoso del Bruner, la ricerca nel campo della linguistica diacronica dell’italiano e delle varietà toscane tutte ha compiuto veri passi da gigante: si pensi soltanto ai risultati raggiunti – e ancora in corso d’affinamento – nel campo della lessicografia storica informatizzata (il Tesoro della Lingua Italiana delle Origini elaborato dall’OVI «Opera del Vocabolario Italiano – Istituto del C.N.R.» di Firenze) o, ancor più, al composito e articolatissimo panorama linguistico della Toscana medioevale che Arrigo Castellani è riuscito a fotografare, grazie alle forze proprie e a quelle degli allievi formatisi alla sua scuola, con rigore e perseveranza magistrali; oggi, a più d’un secolo di distanza da quel lontano 1894, si sottopongono all’attenzione della comunità scientifica i primi frutti di un’altra Tesi di Dottorato, che poggia principalmente su tali ultime acquisizioni e che muove dall’intento di restituire, anzi ricostruire per la prima volta il libro troiano di ser Mazzeo in veste critica e filologicamente avvertita, per trarne poi qualche considerazione d’ordine linguistico.5 Infatti il volgarizzamento dell’HdT del Bellebuoni, secondo uno dei due testimoni manoscritti che ce lo trasmettono, costituisce la più estesa scrittura letteraria pervenutaci redatta nell’antico volgare di 4 Quello di Nathaniel Edward Griffin del 1936 è ancora l’insostituito testo di riferimento dell’HdT, malgrado la sua profonda divergenza da ciò che si definisce un’edizione propriamente critica (cf. i principî d’allestimento della lezione alle pp. xi–xvi), come anche sottolinearono il Franceschini (1937) e l’Hamilton (1938) nelle loro recensioni (e cf. anche De Blasi 1979, 108–109). Dei cinque mss., tutti datati, selezionati dall’editore critico per la collazione e la ricostruzione dell’HdT (l’elenco è in Griffin 1936, xii–xiii), il più antico (e lacunoso), P1, rimontante al 1334 (Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 5694), viene eletto a base testuale; gli altri codd. sono i seguenti: London, British Library, Additional 36671 (= A, a. 1338); Harvard, Harvard College Library, lat. 35 (= C, a. 1353); London, British Library, Harley 4123 (= H, a. 1349); Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 5695 (= P2, a. 1350). In alcuni passaggi di particolare difficoltà, il Griffin è ricorso anche ai seguenti tre testimoni (ibid., xiv–xv): London, British Library, Additional 15477 (= A1, sec. XIV med.); London, British Library, Additional 22155 (= A2, sec. XIV med.); London, British Library, Royal 15.C.xvi (= R, sec. XIV), oltre che ad alcuni incunaboli. L’ipertesto dell’ed. Griffin è disponibile in rete sul sito Internet della Medieval Academy of America: ‹https://cdn. ymaws.com/www.medievalacademy.org/resource/resmgr/maa_books_online/griffin_0026.htm#hd_ma0026_head_027› (ultimo accesso: 26.10.2018). 5 Pregnolato, Simone, Il «Troiano Riccardiano» di Mazzeo Bellebuoni, volgarizzamento trecentesco pistoiese dell’«Historia destructionis Troiae» di Guido delle Colonne. Saggio d’edizione critica, commento linguistico e glossario, Tesi di Dottorato in Studi Filologici, Letterari e Linguistici/Romanistik, Università degli Studi di Verona/Universität des Saarlandes, tutori: Paolo Pellegrini/ Wolfgang Schweickard, xxxi ciclo. L’analisi grafica e fonomorfologica delle cc. 2r–24v del ms. Riccardiano 2268 (siglato R2: cf. infra, §4), rispecchianti grosso modo lo stato di lingua dell’intero cod. latore dell’opera, vedrà la luce in un mio prossimo contributo (Pregnolato i.c.s.–c).
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Pistoia, prodotta al tramonto di quella che può inquadrarsi come l’«età di Cino»; ebbene, è questa una ragione più che sufficiente perché, rievocando le parole del Mussafia (1871, 301), a siffatta prosa letteraria risulti «non inutile accordare una volta l’onore della pubblicazione».
1 Notizie su ser Mazzeo di ser Giovanni Bellebuoni da Pistoia Mazzeo Bellebuoni è entrato a far parte della storia letteraria e linguistica italiana unicamente per essere stato volgarizzatore d’un testo di natura giuridica – dunque realizzato a fini pratico-legislativi, lo Statuto dell’Opera di San Jacopo – e d’uno storico-letterario, approntato con pretesa d’artisticità e desiderio di divulgazione: il volgarizzamento dell’HdT di Guido Giudice. L’ipotesi che il nostro sia stato pure l’autore della seconda sezione delle anonime Storie Pistoresi, che descrivono eventi compresi fra il 1330 e il ’48, è stata ritrattata proprio da colui il quale l’aveva avanzata, e oggi non ha più séguito (cf. Azzetta 2013, 34).6 Di professione e per tradizione familiare Mazzeo era notaio, come testimonia la qualifica di ser con la quale è nominato almeno a partire dal 1307, oltreché giureconsulto; visse sempre a Pistoia, in un palazzo ubicato nella circoscrizione
6 Il riferimento implicito è a Zaccagnini (1910, 48–53); la palinodia è in Zaccagnini (1918, 16 n. 4). Delle Storie Pistoresi (note anche come Istorie Pistolesi) è stata di recente pubblicata un’anastatica della vetusta, ma ancora insostituita, ed. di Silvio Adrasto Barbi (1907–1927) realizzata per i Rerum Italicarum Scriptores (per la quale cf. l’antica recensione del Sàntoli 1916), completata ora da una Nota linguistica a cura di Paola Manni e da un saggio storico di Natale Rauty (già edito in Rauty 1995): Nelli (2011). Giampaolo Francesconi (2017, 23; 2018, 79–80) ha da poco ricordato che Luigi Chiappelli (1925, 33–63) giunse, al termine di un’ampia discussione storico-erudita, a candidare Rustichello de’ Lazzàri ad autore delle Storie Pistoresi, argomentando però la proposta sulla base d’indizi e non di prove sufficientemente persuasive. Sulla lingua di queste ultime è stata svolta una vecchia Tesi di Laurea, comprensiva di Glossario finale, sotto la direzione di Bruno Migliorini: Giusti (1946/1947); tuttavia, anche a causa della poca strumentazione grammaticale all’epoca disponibile, la Giusti ammette d’individuare tratti peculiari del pistoiese «con una certa difficoltà, mancando al pistoiese vere e proprie caratteristiche particolari, conglobato e confuso com’è con le aree di Pisa e di Lucca» (ibid., iv: un giudizio, in sostanza, ancora tutto ottocentesco, se si pensa che anche il Parodi 1896b, 144 affermava che «i tre dialetti [sc. occidentali: pistoiese, pisano e lucchese] differiscono così poco fra loro, che a stento potrebbero indicarsi fenomeni caratteristici, proprî esclusivamente dell’uno o dell’altro; o per lo meno, se esistettero, nei testi che ci rimangono appajono turbati ed oscillanti»; costituisce un avanzamento già Zaccagnini 1909, 120: «crediamo che il volgare pistoiese, pure avvicinandosi sempre più al fiorentino e in parte anche al lucchese, abbia per i primi decenni del secolo XIV conservato un fondo tutto suo particolare e caratteristico»).
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di San Giovanni Fuoricivitas del quale parlano le sue ultime volontà. Malgrado il fatto che «la ricostruzione dettagliata di un suo profilo biografico […] ancora attenda di essere compiutamente realizzata» (ibid., 33), disponiamo comunque di non poche informazioni sulla sua vita, notizie che s’ottengono facendo reagire assieme i dati emersi dallo scavo archivistico, dei quali qui produrrò una rapida sintesi.7 Mutuata la professione notarile dal padre Giovanni,8 il Bellebuoni avrebbe svolto uffici politici per conto del suo Comune, ricoprendo incarichi di rilievo quali l’arringatore al Consiglio del Popolo (saltuariamente fra il ’30 e il ’38), il procuratore, l’estensore degli Statuti nel 1321 e il Gonfaloniere di giustizia nel 1344 («fu dunque nella realtà pistoiese una sorta di parallelo del fiorentino Andrea Lancia»);9 inoltre, va sottolineato che «partecipò anche ad atti di notevole rilevanza politica, come la pace fra i Comuni di Pistoia, Firenze, Prato e i fuorusciti pistoiesi (1329)» (Segre 1965), e questo ci avverte circa l’alto rango della sua posizione dentro e fuori delle mura cittadine, oltre a essere prova certificata «della sua inconcussa fede guelfa ribadita, lo stesso giorno [sc. il 24 maggio 1329], dalla promessa di obbedienza e devozione alla Chiesa e al pontefice contro Ludovico IV il Bavaro, la cui parte aveva seguito Castruccio Castracani, poco prima di morire, restaurando in Pistoia, per l’ultima volta, un effimero e arruffato ghibellinismo» (Savino 1994, 170). Il testamento latino che Mazzeo sottoscrisse (edito per intero in Zaccagnini 1910, 46–48)10 reca la data 1348, ed egli morì probabilmente di lì a poco, forse vittima della peste nera, se già all’altezza del ’50 i suoi averi risultano proprietà degli eredi: venne tumulato nella chiesa di San Domenico quando doveva avere al massimo ottant’anni, se nel 1298 – anno in cui il suo nome figura per la prima volta in un documento pistoiese (Firenze, Archivio di Stato, Diplomatico, Pistoia, Comune [e S. Jacopo, Opere], Normali, 22 dicembre 1298) – egli aveva già raggiunto l’età adulta e poteva pertanto effettuare la vendita di cui è attore insieme col
7 Azzetta (2013) è la più aggiornata biografia del Bellebuoni, che comunque riprende in gran parte quanto già nel ’65 il Segre aveva scritto stendendo la voce del Dizionario Biografico degli Italiani. Studi tardo-ottocenteschi o primo-novecenteschi (talora anche superati) sono richiamati in Savino (1994, 169 n. 2). 8 A quanto ci riferisce già l’Azzetta (2013, 33), la copia d’un atto notarile di Giovanni Bellebuoni è custodita presso l’Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico, Pistoia, Comune (e S. Jacopo, Opere), Normali, 7 maggio 1282; la riproduzione digitale è disponibile sul sito Internet dell’Archivio: ‹http:// www.archiviodistato.firenze.it/pergasfi/index.php?op=fetch&type=pergamena&id=637479› (ultimo accesso: 24.02.2018). 9 Zaggia (2015, 707 n. 20). 10 Per l’analisi della grafia del Bellebuoni (documentata solo dagli atti latini legati alla sua professione) cf. la Nota sulla scrittura d’Irene Ceccherini in calce ad Azzetta (2013, 35; in ibid., 36–41 le Tavole iconografiche con le fotoriproduzioni di sei atti notarili).
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fratello (medico di professione), fatto che ci lascia dedurre che Mazzeo sia nato presumibilmente intorno alla metà degli anni Settanta del Duecento.11 Per finire, una minima precisazione circa il nome di battesimo del Bellebuoni. Luca Azzetta (2013, 33), nella scheda per la collezione degli Autografi dei letterati italiani, predilige la forma Matteo in quanto – lo si ricava solo implicitamente dalle sue parole – essa rappresenterebbe la diretta continuazione del latino Matheus, nome col quale il notaio firma tutti gli atti notarili da lui medesimo rogati. La forma Mazzeo, però, compare – lo ricorda del resto già l’Azzetta – nel colophon del cod. R2 (cf. infra, §4.1.1; la riporto qui in trascrizione fedele, con la sottolineatura presente nell’originale: «s(er) Maççeo s(er) Joh(ann)i belle buonj dapistoia»). Se, da un canto, a rigore, si potrebbe dubitare dell’attribuzione al nostro del nome Mazzeo vista l’apografia del suddetto ms. (databile al medio Trecento), dall’altro occorrerà tener presenti anche altri due elementi: in primis, il fatto che la forma Mazzeo è documentata anche alla c. 56v del ms. n° 237 del fondo Opera di San Jacopo dell’Archivio di Stato di Pistoia («per me Maççeo s(er) Giovanni Bellebuoni, notaio della ditta Opera»: Savino 1994, 201),12 traduzione – in un certo senso, come si dirà, auto-traduzione – del Matheus che campeggia nella sottoscrizione di c. 36v e che conferma, in effetti, la forma latina sistematicamente adoperata dal Bellebuoni nelle sue scritture notarili: giacché tale cod. fu probabilmente vigilato dall’autore in persona, esso rappresenta una base autorevole per conferire al tabellione l’antroponimo Mazzeo. In seconda istanza, non si dovrà scordare che nel pistoiese arcaico (ma anche nelle altre varietà tosco-occidentali, ancorché in maniera meno massiccia) il nesso grafico 〈th〉 – peraltro attestato nel volgarizzamento dell’HdT solo in alcuni nomi propri greci – corrispondeva al suono affricato alveodentale sordo: la scrizione aveva cioè un valore fonematico identico a 〈ç〉, ed è pertanto possibile, se non addirittura probabile, che il Bellebuoni pronunciasse il suo nome, tanto in latino quanto in volgare pistoiese, articolando il suono [ts].13 In definitiva, nel corso
11 Rilievi quantitativi sui letterati morti nella pestilenza in Castelnuovo/Mabboux (2010, 222– 223, Figg. 1 e 2). Il documento del 1298 del fondo Diplomatico è stato digitalizzato: ‹http://www. archiviodistato.firenze.it/pergasfi/index.php?op=fetch&type=pergamena&id=1002603› (ultimo accesso: 25.07.2019). 12 Cf. infra, §2; la fotoriproduzione di questa sottoscrizione volgare è in Savino (1994, 236, in b/n) e ora anche in Pregnolato (2017b, 39, Tav. xii, a colori). 13 «L’identificazione di /θ/ con /z/ deve comunque essersi riproposta con un nuovo e più intenso vigore nella Toscana occidentale allorché essa, per le circostanze storiche che ben conosciamo, viene a contatto diretto con la pronuncia seriore dell’XI e XII secolo. Tale identificazione lascia ora delle tracce inequivocabili non solo nell’affermarsi della grafia 〈th〉 per /z/, ma anche nella presenza d’un esito /z/ (alternativo a /t/) < /θ/ fissatosi in alcuni antroponimi diffusi o reintrodotti per influsso bizantino nella medesima epoca: Mazzeo < Matthaeus < Ματθαῖος» (Manni 1991, 181, e cf. ibid., 183 e n. 25; 1990, 26–27); per Mazzeo ~ Maççeo ~ Matteo cf. Gr.st. 151.
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di questo mio lavoro accoglierò sempre il nome Mazzeo, respingendo Matteo sulla base d’evidenze documentarie e storico-linguistiche (e in linea per di più con la vulgata degli studi, che ha tradizionalmente accolto la forma con 〈z〉 = 〈ç〉 = [ts]). Prima di concentrarmi più specificamente sul volgarizzamento pistoiese dell’HdT, credo meriti qualche parola di resoconto anche l’altra grande opera del Bellebuoni, l’unica che finora ha goduto della dignità di stampa, e anzi di un’edizione scientifica.
2 Lo Statuto dell’Opera di San Jacopo (1313) Esistono incarichi, anche parecchio impegnativi, che s’assumono non tanto per la provvigione con la quale verranno retribuiti, quanto per il prestigio e il grande senso di responsabilità di cui, svolgendoli, si viene investiti. Le ragioni che spinsero Mazzeo di ser Giovanni Bellebuoni ad accettare la nomina a notaio dell’Opera di San Jacopo furono senza dubbio legate all’onore di rappresentare giuridicamente un ente d’importanza estrema per l’amministrazione della propria città: non si giustificherebbe altrimenti la misera paga di quaranta soldi con la quale venne stipendiato.14 L’Opera di San Jacopo – sulla cui storia lungo i secc. XII–XVIII cf. l’esemplare e informatissima trattazione di Lucia Gai (1994) –15 fu infatti un’eminente istituzione pistoiese la quale, nata in seno all’Episcopato su iniziativa del vescovo Atto e passata già a metà Duecento sotto il controllo diretto del Comune, era espressione e longa manus degli orientamenti politici di quest’ultimo. Soppressa nel 1777 per motu proprio del Granduca di Toscana Pietro Leopoldo dopo sei secoli d’attività, fra Due- e Trecento l’Opera costituì l’organo rappresentativo della magistratura civica e, soprattutto, s’occupò in maniera esclusiva del culto di San Giacomo di Zebedeo, detto il Maggiore (Santiago di Compostela), dagl’inizi del sec. XIII a tutt’oggi patrono e signum individuationis della città di Pistoia. Quando, nel 1313, l’Opera («che è come dire il cuore della vita cittadina» pistoiese)16 ebbe la necessità di porre per iscritto il proprio ordinamento, fu eletto – come s’anticipava – proprio Mazzeo Bellebuoni: lo Statuto, redatto fra il 5 e il 19 gennaio e approvato ufficialmente il giorno 20, ci è trasmesso dal già citato cod. Pistoia, Archivio di Stato, Opera di San Jacopo, 237 (un’ampia scheda descrittiva è nella Nota codicologica del Savino 1994, 176–177); è questo un ms. membranaceo di forma grafica
14 Il Bellebuoni non solo fu affiliato all’Opera di San Jacopo, ma a Pistoia fu anche membro dell’Opera di San Zenone (1337) e procuratore della Società dei Preti (1339; cf. Segre 1965; Savino 1994, 170). 15 Cf. anche la recensione al volume di Gai/Savino (1994) redatta da Francesco Neri (1995). 16 Capecchi/Frosini (2017, 1).
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molto elegante, impreziosito oltretutto dalle rubriche in rosso aggiunte posteriormente (con conseguenti problemi d’inserzione del testo), dai segni di paragrafo e dai ripassi in penna rossa sulle maiuscole iniziali di periodo, sui nomi propri, sui termini notevoli e sulle indicazioni di moneta. Tale prosa statutaria (nella quale il notaio rogatario si premura di «raccogliere, conservare e adeguare al ‹presente› un insieme di norme formulate circa un secolo prima, se non anche in tempi anteriori»: ibid., 34) si segnala per almeno tre peculiarità: anzitutto, in termini cronologici, lo Statuto del ’13 è in assoluto il primo dell’istituzione jacopea pervenutoci, l’apripista d’una lunga serie di redazioni successive allestite ogniqualvolta uno sconvolgimento politico-militare in Pistoia imponeva modifiche alla normativa; in seconda battuta, il testo (cc. 25r–29v), redatto in latino – come richiedeva l’uso legislativo – da un copista professionista, in grado d’eseguire una littera textualis d’assai buona fattura, regolare e omogenea, fu autenticato dal Bellebuoni stesso, che in calce alla c. 36v vi pose il proprio signum notarii, vidimando lo Statuto con le seguenti parole: Ego Matheus condam ser Johannis Bellebuoni, inperiali auctoritate iudex ordinarius et notarius, predicta statuta et quelibet eorum legi in Consilio populi suprascripto et approbationi eorundem interfui et ideo me subscripsi et pubricavi.17
In terza istanza, lo Statuto latino dell’Opera di San Jacopo è seguito da una sincrona trasposizione in volgare (cc. 41r–57v), trascritta dal medesimo copista (il che esalta la contiguità con la stesura autenticata) e realizzata dal medesimo estensore del testo, il Bellebuoni appunto, che per così dire – fatto non proprio comune nella letteratura italiana medioevale – s’«auto-volgarizzò».18 La redazione pistoiese dello Statuto bilingue jacopeo, da ultimo, è interessante anche da un punto di vista lessicale, perché intrisa di «numerosi termini dell’artigianato e del costume in relazione con le attività finanziarie ed esattoriali dell’associazione» (Segre 1965), ed è anche per questo che godette d’un certo
17 Savino (1994, 173). Stante il fatto che il signum tabellionis e la subscriptio del Bellebuoni cadono solo in questo punto, cioè in calce alla redazione latina dell’ordinamento giuridico dell’Opera, si deve arguire che l’autenticazione notarile riguardi questa sola versione, e non anche quella volgare (cf. Gai 1994, 82). Una riproduzione fotografica dell’autenticum è in Savino (1994, 83), Azzetta (2013, 42, Tav. 7 [particolare]) e Pregnolato (2017b, 38, Tav. xi, a colori). 18 Colgo quest’occasione per correggere un grave errore presente in Pregnolato (2017b, 36): com’è notorio, l’autentica del notaio non va accostata al concetto d’idiografia del cod., cioè a quello d’«originale». A ben vedere, inoltre, da un punto di vista strettamente diplomatistico sarebbe parimenti inesatto parlare d’auto-volgarizzazione, essendo la redazione latina dello Statuto non un testo autoriale del Bellebuoni, quanto piuttosto un atto documentario dotato di valore giuridico (basti per questo Pratesi 31999, 106).
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apprezzamento cruscante;19 di esso fornirò ora due campioni, allineando in parallelo il testo in latino (tuttora inedito) con quello volgarizzato. Nel primo excerptum si riporta l’incipit dello Statuto (tratto, rispettivamente, dalle cc. 25r e 41r), dove il Bellebuoni dichiara in prima persona d’essere il compilatore del testo:20 Statuta Opere beati Jacobi apostoli.
Questi sono li statuti dell’Opera del beato mess(er) Santo Jacopo apostolo.
Ad honorem Dei et beate Marie semper virginis et beati Jacobi apostoli, et sancti Çenonis confessoris et omnium sanctorum et sanctarum Dei et ad bonum et pacificum statum Communis et populi civitatis Pistorii. Hoc est statutum Opere beati Jacobi apostoli filii Çebedei civitatis Pistorii factum et compositum tempore nobilis viri Benuccii de Salinbenis de senis honorabilis potestatis Pistorii per Guillielmum Bartholomei et Angnolum ser Ormanni tunc operarios dicte Opere et per dominum Jacobum Vescontis, Michelem Bartholomei, Fredum Berticcii et Michelem Tedicii sapientes electos per dominos Ançianos et vexilliferum iustitie secundum reformationem consilii, et scriptum per me Matheum ser Johannis Bellebuoni tunc notarium dicte Opere sub anno Domini a nativitate Millesimo cccxiii° indictione xja, die quinto mensis Januarii.
[A]ll’onore di Dio e della sua santissima madre mado(n)na santa Maria e de’ beati suoi santi mess(er) santo Jacopo apostolo e mess(er) santo Çenone confessoro e di tutti li altri santi et sante di Dio, et a buono e pacifico stato del Comune e del popolo della cittade di Pistoia. Amen. Questo è lo statuto dell’Opera del beato apostolo mess(er) Santo Jacopo, figluolo di Çebedeo, dela cittade di Pistoia, facto e conposto nel tempo del nobile huomo Benuccino de’ Salimbeni da Siena, honorevile podestade di Pistoia, p(er) Guillielmo Bartromei et Agnolo s(er) Orma(n)ni, in quello tempo operarii della ditta Opera, et p(er) mess(er) Jacopo Vesconti, Michele Bartromei, Fredi Bertucci et Michele Tedici, savi electi p(er) li singnori ançiani e gonfalonieri di giustitia, secondo la riformagione del Consiglo, e scritto p(er) me Maçeo s(er) Giovanni Bellebuoni, in quello tempo notaio della ditta Opera, sotto li anni della nativitade del nostro Singnore mille trecento tredici, nella undecima indictione, a dì cinque del mese di gennaio.
19 L’ottimo testo del Savino (che sostituisce l’infida e «prescientifica» ed. Ciampi 1814) è stato infine lemmatizzato dall’OVI e fa parte di TLIOCorpus (con minimi cambiamenti, relativi ai segni paragrafematici e alla scansione delle parole, apportati da parte dell’Ufficio Filologico; cf. la Documentazione Filologica reperibile in rete: ‹http://tlio.ovi.cnr.it/LIVS/livsdoc/EEU-dossier%20 filologico/EEU-errata%20corrige/EEU_Stat.%20pist..htm›). 20 Riassumo di séguito gli ovvi criteri di resa grafica qui adottati: nella trascrizione dello Statuto latino sciolgo tacitamente le abbreviature e non do conto né del fine rigo né delle cornicette riempitive. L’interpunzione, l’uso dell’iniziale maiuscola e la distinzione in 〈v〉 ~ 〈u〉 di 〈u〉 seguono l’uso moderno. Per quanto concerne la versione in volgare, ricavata dall’ed. Savino (1994, 181; i criteri editoriali in ibid., 178–179), i ritocchi sono stati leggeri: in part., non riproduco le note a piè di pagina (di carattere perlopiù paleografico) e muto il significato della doppia asta verticale, che il Savino adoperava per indicare l’inizio della riga numerata fittiziamente a margine e che ora semplicemente designerà il cambio di carta. Fra parentesi quadre sono due facili integrazioni editoriali (in assenza delle lettere miniate, mai realizzate dal decoratore, resta solo la letterina-guida in margine a ogni rubrica).
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La confraternita pistoiese era responsabile di molteplici mansioni cittadine; ai due Operai di San Jacopo, eletti nominalmente per la durata d’un solo anno solare (durante il quale non percepivano compenso) e impossibilitati per legge a spostarsi da Pistoia per più d’otto giorni consecutivi, spettava, fra i tanti incarichi, la salvaguardia del prezioso tesoro e dei possessi dell’Opera (del furto «a la sagrestia d’i belli arredi» da parte di Vanni Fucci [If xxiv 138], oggi interpretato più come crimine politico che come atto sacrilego, si ricorderà ogni lettore della Commedia dantesca); inoltre, era di loro competenza la manutenzione dei paramenti liturgici e dei lumi della sagrestia, l’elezione del notaio dell’Opera e quella del personale di custodia notturna della cattedrale e della cappella di San Jacopo, così come l’organizzazione della festa patronale e la riscossione di canoni, gabelle, rendite e affitti.21 Relativamente a quest’ultimo aspetto, proprio l’anno precedente la stesura dello Statuto, ossia nel 1312, lo stesso Mazzeo Bellebuoni aveva redatto un funzionale inventario dei beni immobili posseduti dall’Opera, un registro ordinato topograficamente che le consentisse di recuperare tutti i suoi crediti e che oggi è conservato alle cc. 109–157 e 161–174 del ms. Pistoia, Archivio di Stato, Opera di San Jacopo, 31 (inc.: «Hoc est registru(m) te(r)rar(um), bo(no)r(um), possessio(n)um, affictu(um) et redditus»). La rubrica [xxi] dello Statuto del ’13 (situata, rispettivamente, alle cc. 28v–29r [latino] e 46v [pistoiese]; cito il testo volgare da Savino 1994, 188) esplicita a chiare lettere quali dovessero essere le modalità di riscossione degli affitti; «il segno del particolare favore del Comune nei riguardi dell’istituzione era poi indicato dal fatto che le tasse comunali, percepite dai gabellieri su case, botteghe e atti economici, non si applicassero sui beni dell’Opera e gli atti finanziari degli Operai» (Gai 1994, 90): Quod pensiones solvantur in medio termini.
[xxi.] Come le pigioni si paghino a meçço lo termine.
Item ordinamus quod dicti operarii teneantur cogere et co||gi facere omnes pensionarios quolibet anno qui tenent aliquas apothecas et domos dicte Opere ad pensiones, ad solvendum medietatem pensionis in medio termini et aliam medietatem in fine termini. Et notarius dicte Opere qui conficit instrumentum locationis teneatur ibi expecificare dictum
[A]ncora ordiniamo ke ’ ditti operari siano tenuti di fare costringere tutti li pigionavili, ciascheduno anno, li quali tenessero alcune botteghe e case della ditta Opera a pisgione, a pagare la metade della pigione a meçço lo termine e l’altra metade in fine del t(er)mine. E lo notaio della ditta Opera, ke farà la carta della logagione, sia tenuto di specificare nella
21 Un commento puntuale a ogni singolo comma dello Statuto volgare di Mazzeo è in Gai (1994, 82–105).
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pactum. Et quod nullus pensionarius possit facere aliquas expensas in dictis domibus vel apothecis sine licentia operariorum. Et, si fecerit, quod faciat suis expensis. Et hoc non vendicet sibi locum in affictariis perpetuis. Et quod nulla gabella possit tolli, accipi vel peti ab aliquo gabellerio Communis* pro aliqua apoteca alicuius domus de sancti Jacobi vel quacumque alia re fienda pro dicta Opera beati Jacobi et beati Johannis Battiste, capitulo aliquo non obstante.
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ditta carta lo ditto patto. E ke nullo pigionavile possa fare alcuna spesa nelle ditte case, overo botteghe, sança licença delli operari. E se lle facesero, ke le facciano a le loro spese. E questo no abbia luogo nelli affittali p(er)petuali. E ke nulla gabella si possa tollere overo adomandare per alcuno gabellieri del Comune p(er) alcuna bottega overo casa dell’Opera di Santo Jacopo, overo di qualu(n)que altra cosa ke si facesse p(er) la ditta Opera di Santo Jacopo e di Santo Giova(n)ni Batista, no ostante alcuno capitolo.
* Nota marginale con manicula: «de gabbellis non solvendis».
La prosa che però garantisce a ser Mazzeo «un suo piccolo posto nella storia della cultura» (Segre 1965) è senz’altro il volgarizzamento dell’HdT del giudice messinese Guido delle Colonne, un’opera ritenuta nel tardo Medio Evo, come si cercherà d’argomentare tra poco, «fonte autorevole di storia antica» (Frosini 2014, 37).22
3 Nel contesto letterario (da Troia a Pistoia) 3.1 Darete e Ditti di contro ai poeti: pseudo-cronaca, storia (profana) o leggenda troiana? L’uomo tardo-medioevale considerava i testi relativi ai fatti di Troia sostanzialmente alla stregua di classici, giacché questi gli riferivano, in una veste formale spesso tendente al letterario e orientata al dilettevole, notizie e vicende appartenenti alla storia remota della propria civiltà e dei propri progenitori: una vicenda, quella della presa e della distruzione d’Ilio, sentita al pari d’«un evento archetipico in cui ogni epoca si può riconoscere», come «l’avvenimento centrale di tutta la storia antica prima della venuta di Cristo», «una delle grandi storie simboliche della cultura occidentale».23 Di contro a poeti come Ovidio e soprattutto Omero (quest’ultimo, almeno fino alla modesta versione latina di Leonzio Pilato, letto nei soli 1070 esametri dell’Ilias Latina, una drastica riduzione dell’Iliade risalente al I sec. d.Cr.), il nome di Ditti Cretese e quello di Darete Frigio erano senza dubbio
22 Cf. Ducati (2018, 60–63) sull’auctoritas storica della materia troiana (principalmente di Benoît de Sainte-Maure, in genere passato sotto silenzio, e di Guido delle Colonne). 23 Le citazioni, rispettivamente, da Gozzi (2000a, 11), Jung (2003, 179) e Carlesso (2017, 345).
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garanzia d’attendibilità e veridicità storica, in forza del fatto che i due sarebbero stati, fantasiosamente e rispettivamente, un soldato greco agli ordini d’Idomeneo e un guerriero che scrive dalla città sotto assedio.24 Alfonso D’Agostino (2006, 19) ha parlato con chiarezza, proprio per il I sec. d.Cr., del formarsi di «due filoni contrapposti»: quello filomerico, da un canto (Virgilio, Ovidio, l’Ilias Latina), e quello antiomerico, con il De excidio Troiae di Darete (VI sec.) da una parte, e l’assai meno diffusa Ephemeris belli Troiani di Ditti (IV sec.) dall’altra.25 Queste due compilazioni presunte storiche, pur divergenti fra loro sia per contenuti e interpretazioni («[…] Dare e Ditti, / fra lor discordi e non è chi ’l ver cribri», notava già il Petrarca),26 sia per estensione e ambizioni letterarie (cf. il bel saggio del Timpanaro 1987, che pone l’accento sul gusto del paradosso ironico in Ditti), corrispondevano a quelli che 24 L’opera di Darete è preceduta dall’Ilias in molti codd., almeno nella fase più alta di trasmissione (secc. X–XI): ricavo il dato dal D’Agostino (2006, 22, 24). 25 Le edd. di riferimento delle opere di Darete e Ditti sono, rispettivamente, Meister (1873, da affiancare a Stohlmann 1968, in part. 12–14) e Eisenhut (1958; 21973); del De excidio di Darete Frigio esiste anche la traduzione italiana di Luca Canali comprensiva di note di commento (Canali/ Canzio 2014), oltre a quella del Garbugino (2011). Inoltre una nuova traduzione criticamente commentata di Ditti, realizzata a più mani e corredata d’una nota sulla tradizione manoscritta, è stata raccolta, insieme con la fedele traduzione di Nicoletta Canzio dell’opera di Darete e con altri testi bizantini d’argomento troiano, pure tradotti in italiano, in Lelli (2015). Ancora utili, anche per la questione degli originali greci (perduti quasi o del tutto) che stanno a monte del De excidio e della Ephemeris, le voci dell’Enciclopedia Virgiliana dedicate a questi due autori tardo-antichi: cf. Frassinetti (1984; 1985); una rapida sintesi in Ducati (2018, 57 n. 38); ampie rassegne di studi su Darete e Ditti e sulla loro fortuna letteraria, anche oltre il Medio Evo, in Bessi (2004; 2005); Prosperi (2011); Lentano/Zanusso (2016–2017). Per l’Ilias Latina, nota anche come Homerulus, cf. invece l’ed. Scaffai (1982, 11–78) e almeno D’Agostino (2006, 21–27). 26 Triumphus Fame, iia, vv. 107–108 (ed. Pacca/Paolino 1996, 622). Come informa Petoletti (1999, 473), prima ancora del Petrarca, ossia intorno al 1320, anche l’erudito enciclopedista e cancelliere di Cangrande della Scala Benzo d’Alessandria, nel suo Chronicon (Libro xxii), rilevava profonde divergenze fra i due: «in eorum scriptis tanta tamque frequens dissonantia et diversitas reperitur»; Marco Petoletti, fra l’altro, sulla base di rilievi relativi alla scarna tradizione manoscritta di Ditti Cretese (cf. ibid., 474 n. 22 per la bibliografia pregressa; sono solo sei i testimoni completi ante XII sec.: cf. ibid., 472; Punzi 2004, 166–167), ha ben scardinato la categoria storiografica di «dittico Ditti-Darete» cui spesso i romanisti s’appigliano per riferirsi all’eco avuta dai due «informatori» sulla successiva ricezione letteraria (cf. ancora Petoletti 1999, 470 insieme col precedente Punzi 1991, in part. 88–93, per uno sguardo ampio sulla loro circolazione e rielaborazione nell’Europa del Duecento); come ha sottolineato il D’Agostino (2006, 49), è col Roman de Troie che «Benoît salda definitivamente il dittico che la tradizione aveva surrettiziamente creato». Per quanto attiene invece alla divergenza d’argomenti, basterà sottolineare che Darete prende le mosse ab ovo, narrando gli antecedenti della guerra di Troia (la spedizione degli Argonauti e la prima distruzione della città), mentre Ditti riassume i νόστοι d’alcuni degli eroi greci, e segnatamente d’Odisseo (un riassunto dei contenuti dei sei Libri dell’Ephemeris, che vale ‘diario’ [lat. Commentarii], si trova in ibid., 28–29; quello dei 44 capitoli del De excidio, invece, in ibid., 36–37).
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oggi non faticheremmo a chiamare «reportages dai luoghi di operazioni»; in quanto tali, e principalmente in quanto racconti integrali delle vicende troiane, dal ratto d’Elena alla morte d’Ulisse (cf. Prosperi 2011, 41–43), esse godettero d’immensa fortuna nel corso del tempo, in campo mediolatino così come in àmbito romanzo, proprio in quanto ritenute anteriori alla rielaborazione omerica delle vicende troiane – il poeta dell’Iliade sarebbe vissuto più d’un secolo dopo la guerra –27 e perché credute redatte (in una prosa francamente sciatta) da testimoni oculari protagonisti del conflitto o quantomeno direttamente informati ex auditu d’alcuni fatti. Non serve rammentare che si tratta in effetti «di falsi patenti, ma le proteste di autenticità dei due autori, o per meglio dire dei due falsari, garantirono accoglienza e ascolto nelle biblioteche medievali, prive, com’è ovvio, di un senso storico modernamente inteso, ma assetate di quelle verità che Omero non poteva assicurare».28 Anche nel suo volgarizzamento troiano Mazzeo Bellebuoni, fin dal Prologo (assente per guasto meccanico nell’acefalo cod. R2, ma ricavabile dal secondo testimone che ci consegna l’opera: cf. infra, §4.1),29 richiama l’auctoritas dei due sedicenti historici Troiani e professa di volersi occupare «della verace ystoria de’ troyani»; si tratta, comunque, di stilemi diffusi, di prassi generalizzata, quasi d’un obolo da pagare al tribunale della credibilità. Ne riprendo il testo dal ms. Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1095 (= R1), c. 101r:30 [Prologus]
[Naturalmente la gente si dilecta d’udire e’31 facti degli antichi, e spe-|[2]tialmente le grandi e nobili cose degne di memoria. Et per-|[3]ché e’ fatti de’ troiani 27 Cf. Jung (2003, 187 e n. 23). 28 Gozzi (2000a, 12), anche per la citazione precedente. Come s’anticipava supra alla n. 25, la critica a lungo ha discusso (ed è questione ancora aperta) se tanto il De excidio di Darete quanto l’opera di Ditti – della quale sembra accertato l’antecedente greco in un papiro ossirinchita ritrovato nel 1966 – discendano da originali greci del I sec. d.Cr. (dell’epoca, cioè, della Neosofistica; cf. Bornmann 1987 per il «Darete greco»; Punzi 2004, 163 n. 1, con ricca bibliografia; ancora Bessi 2004). 29 La mano responsabile della scrittura dell’exordium nel cod. Riccardiano 1095, tra l’altro, è successiva a quella che verga tutto il resto del volgarizzamento (cf. infra, §4.1). 30 Cito dalla mia edizione (ancora in fase di messa a punto), informata sostanzialmente ai criteri di trascrizione sommariamente illustrati in Pregnolato (i.c.s.–a), cui rinvio. 31 In questo scampolo di R1 scrivo apostrofato l’art. m. pl. perché ei è forma attestata in toscano occidentale (accanto a i: cf. Gr.st. 313); cf. anche Menichetti (2017, 159). La forma e, invece, è documentata in senese e sangimignanese tra la fine del XIII e il principio del XIV secolo (cf. ancora Gr.st. 357): a proposito di testi documentari linguisticamente caratterizzati in direzione di Siena, ricordo che Roberta Cella (2009, 204–205) ha escluso di ricorrere all’apostrofo diacritico, e dunque ha preferito non distinguere «e ‘i’ art. da e cong.».
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fuorono de’ più excellenti che fusseno nel |[4] mondo, p(er)ciò molti savi huomini si misero a scrivere de |[5] quelle cosse, chi per versi e chi per prose. E tra gli altri che |[6] veramente scripsero e’ facti de Troya et de’ troyani furo(n) |[7] due, chiamati l’uno Dite Greco e l’altro Dares Frigio, che al |[8] tempo delle battaglie di Troya continuame(n)te32 in quelle battaglie furono |[9] presenti, et di quello che viddero furon veraci scriptori; poi i detti li-|[10]bri furon trasposti di greco in latino per uno grande savio romano, chi-|[11]amato Cornelio, nipote del buono Salustio.33 In questo libro scripsero qua-|[12]si tutta la materia universalme(n)te, et particularmente della verace ysto-|[13]ria de’ troyani. In prima la cagione e l’origene degli scandali e delle nimi-|[14]stadi che co(m)mosse quelli de Gretia contra quelli de Frigia. Chiamasi Ytalia |[15] la grande Grecia, la quale oggi si chiama Romània, et quella s’acco-|[16]stò colla piccola Grecia adosso a’ troyani e con pocha altra gente adiunta, |[17] secundo che lla storia di sotto apertamente dichiara.34 E così subcessivame(n)-|[18]te e per ordine mosterrà quali furono li re e i duchi che ve(n)noro in so-|[19]chorso della gente de’ greci, e quante navi nel predetto hoste menarono, |[20] e che arme in loro insegne portarono, et quali furono gli re e i du-|[21]chi che vennoro in soccorso de’ troyani, et quante furono le battaglie |[22] e lle schonficte, e quante volte fu per loro combatuto e in che tempo, e |[23] coloro che nelle battaglie caddero, e coloro che vi furon morti et p(er) gli |[24] cui colpi, et la fine della guerra dichiaratamente diremo.]35 |[25]–[27] * Ap p a r a t o c r i t i c o 101r.14–15 Chiamasi Ytalia | la grande Grecia] Chiamasi gre|cia lagrande ytalia 101r.16 colla piccola Grecia] colla piccola ytalia
32 -e evanida e ricostruita. 33 Gorra (1887, 112) aveva a suo tempo sottolineato che già in Benoît de Sainte-Maure è il fraintendimento che fa di Cornelio Nepote il nipote dello storico Sallustio, un errore poi ripreso acriticamente da Guido delle Colonne («Quamquam autem hos libellos quidam Romanus, Cornelius nomine, Salustii magni nepos, in Latinam linguam transferre curauerit»: HdT 4). Sulla questione, che rimonta in realtà a Darete Frigio, cf. D’Agostino (2006, 34–35). 34 «… (vt appellatione Grecie n o n M a g n a G r e c i a , Yt a l i a u i d e l i c e t , ut uoluerunt nonnulli, debeat comprehendi, dicentes aduersus Troyanos et Magnam Greciam, id est Ytaliam, quam appellamus hodie Romaniam, confluxisse, c u m p a r u a s c i l i c e t s o l a , licet paucis aliis sibi adiunctis, uenerit expugnatura Troyanos, prout ipsius ystorie series per ea que infra legentur apertius demonstrabit)» (HdT 4–5; spaziato mio). 35 Qui, separata da due righi bianchi, si conclude in R1 la traduzione Bellebuoni del Prologus, che diverge in maniera sensibile dall’originale latino, il quale viene qui fortemente scorciato e rifuso. Non si riporta, tuttavia, il lungo brano con cui ha inizio l’HdT 3–5, se non per il punto che
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A ulteriore titolo d’esempio, basterà la lettura dei capitoli ii-iiia del Libro de la storia di Troia di Binduccio dello Scelto, che volgarizza la seconda delle cinque prosificazioni in antico francese del Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure (romanzo-fiume in più di 30.000 octosyllabes francesi, composto nel 1165 ca. in ambiente forse plantageneto)36 e che bene illustra la distanza percepita fra la versione poetica (inaffidabile) d’Omero e quella storica del resoconto sincero e veritiero di Darete (Dario lo Troiano); riporto interamente ambedue i passi per compiutezza, marcando in caratteri corsivi i passi più calzanti con questo nostro discorso (cito Binduccio da Gozzi 2000a, 81–83; le Note illustrative dell’editrice in ibid., 620–621):37 ii [11ra] Come Cornelio ritrovò la verace storia di Troia. Homero fu uno poeta molto savio maravigliosamentente [sic], sì come noi troviamo scripto. Questo Homero scripse dal cominciamento del sedio sfino a la distructione di Troia, e
serve a supporto degli emendamenti compiuti (evidenziati dalla spaziatura) e per l’ultimo periodo del volgarizzamento, cui corrisponde in HdT 5 il seguente estratto: «Sic ergo successiue describetur in ipsa qui reges et qui duces Grecorum armata manu et quot nauibus se in predictum exercitum contulerunt, quibus armorum insigniis usi sunt, qui reges et qui duces in Troyane urbis defensionem aduenerunt, quanto tempore fuit protracta uictoria, quotiens bellatum extitit et quo anno, quis in bello ceciderit et cuius ictu (de quibus omnibus pro maiori parte Cornelius nihil dixit). Superest ergo ut ad eius narrationis seriem accedatur. Explicit prologus». 36 L’ed. di riferimento è ancora quella del Constans (1904–1912, anche in versione digitale sul sito Internet Gallica della Bibliothèque nationale de France, all’indirizzo di rete ‹https://gallica.bnf. fr/services/engine/search/sru?operation=searchRetrieve&version=1.2&collapsing=disabled&rk=21459;2&query=%28gallica%20all%20%22roman%20de%20troie%22%29%20and%20dc. type%20all%20%22monographie%22%20and%20dc.relation%20all%20%22cb317946424%22› [ultimo accesso: 31.10.2018]), ora finalmente disponibile in traduzione italiana (Benella 2019); una sintesi della trama di quest’opera dal successo sterminato è in D’Agostino (2006, 55–57; ben più particolareggiata quella dello Jung 1996, 40–77). 37 Il Libro di Binduccio è stato pubblicato due volte in un lasso molto ravvicinato di tempo: per l’ed. giudicata di riferimento, Gozzi (2000a), già entrata di diritto negli spogli di OVICorpus, cf. la recensione della Carlesso (2000) e gli addenda del Petrucci (2003), relativi alle rubriche in calce all’unico ms. che tramanda il volgarizzamento (F = Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II IV 45; a. 1322, Siena; il copista è un Andrea Ugurgieri: cf. Bertelli 2002, 91–92 n° 15). Per l’assai più raffazzonata ed. Ricci (2004) di Binduccio, che pare non volersi avvalere dell’edizione precedente, cf. la succinta stroncatura del Vàrvaro (2004), incentrata massimamente sul mancato aggiornamento bibliografico, e la recensione del Carpi (2005). Imprescindibili per una lettura filologica di Binduccio dello Scelto sono i rilievi contenuti nel mirabile saggio di Davide Cappi (2008b), che collaziona (fra loro, col codex unicus F e coi tre testimoni della «fonte» francese volgarizzata Prose 2, riconosciuta come tale in Carlesso 1966) le due succitate edizioni, giungendo a correggerle in moltissimi loci.
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perché Troia fu distrutta e disertata. Ma perciò che questo Homero non fu poi apresso cento anni nato che Troia fu distrutta e disertata, non fu niente suo libro per verità creduto, ché non avea di ciò niente vedu[11rb]to. Et quando Homero ebbe suo libro facto ed e’ fu a la città d’Athenia portato e lecto infra savi scolari, sì lo volsero per ragione dannare, però ch’egli avea fatti gli dij combattare cogli uomini carnali; et similemente facea le die combattare cho’ Troiani; la qual cosa ebbero in grande follia. Ma perciò che Homero era molto savio poeta, sì fu suo libro in auctorità messo e ricevuto. iiia38 Come Cornelio ritrovò la verace storia di Troia, la quale Dario lo Troiano scrisse dentro a Troia in lengua greca, e Cornelio la mise in latino. A quello tempo che Salustio vivea, era già Roma grande tempo durata dal suo cominciamento. Questo Salustio era di molto alto paraggio e molto pro’ e molto valente e molto savio huomo; sì avea questo Salustio uno suo nipote molto savio e scientiato e molto fondato in lectera, ed era chiamato Cornelio.39 Questo Cornelio tenea ad Athenia scuola. Uno giorno avenne ch’elli cerchava uno suo armario per uno suo libro trovare et così cerchando venneli a le mani lo libro de la storia di Troia, quel medesimo che Dario scrisse dentro a Troia mentre che ’l sedio v’era. Questo Dario fu troiano e mai poi che ’l sedio fu fermato non si partì di Troia: sì vedea e udiva ciò che vi si facea. E tutto ciò che ’l giorno si facea in combattare o in parlamenti, mettea la nocte in iscripto, ché ciò sapea elli molto ben fare, perciò ch’egli era huomo molto savio e cavaliere troppo pro’ di suo corpo. Et perciò che questo Dario vidde che l’affare era sì grande e sì maraviglioso, pensò che tutto ciò ch’avarebbe in questo sedio mettare in iscripto diligentemente. E sì vi dico ben veracemente che, perch’egli fusse troiano, non volse egli niente ritrare né dire per amore ch’egli avesse a’ Troiani, né per hodio [11va] ch’egli avesse a’ Greci, se non la verità. Apresso ciò che Troia fu distrutta, fu suo libro gran tempo perduto, che non fu trovato; ma adunque fu elli ad Athenia trovato, così chom’io v’ò contiato e decto. Et quando Cornelio ebbe questo libro trovato, egli el traslatò di greco in latino per suo senno e per suo savere. Et perciò che questa storia scripse colui che tutto ciò vidde cho’ suoi occhi, lo doviamo noi meglio credare che colui che poi apresso cento anni nacque, né di ciò non avea niente saputo né veduto, fuor che per udito.
È ampiamente noto agli studi di filologia medioevale e umanistica che sarà Coluccio Salutati, in un’epistola al signore di Pesaro Malatesta di Pandolfo Malatesta del 25 settembre 1401, a smascherare in maniera definitiva la mito-storia dei due supposti testimoni autoptici, senza però che questo disvelamento interrompesse
38 Sui problemi della numerazione di questo capitolo e del successivo (iiia e iiib nell’ed. Gozzi 2000a), cf. le giuste osservazioni del Cappi (2008b, 285–286). 39 Glossa la Gozzi (2000a, 620–621): «Darete premetteva alla propria opera un’epistola di Cornelio Nepote a Sallustio Crispo [Meister 1873, 1], con la quale introduceva il suo lavoro di traduzione in latino dell’originale Darete in greco. Il personaggio diventa in Benoît il ‹nipote di Sallustio›. Naturalmente Darete aveva inventato lo stratagemma della lettera solo per accrescere con la citazione dei due storici romani la dignità dell’intero suo testo». Cf. anche Bruni (1987, 110–111).
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il corso della loro fortuna, cioè quello dell’«epica ridotta a pseudocronaca».40 Appartiene alla schiera degli scrittori loro seguaci anche Guido delle Colonne, che li cita esplicitamente in qualità di fonti rispettabili (nel Prologus dell’HdT 4 li designa come «[ii] qui tempore Troyani belli continue in eorum exercitibus fuere presentes et horum que uiderunt fuerunt f i d e l i s s i m i r e l a t o r e s » [spaziatura mia]), mentre da tempo è fuor di dubbio che i 35 Libri dell’HdT di Guido altro non siano che un rifacimento in prosa del Roman de Troie, il quale Roman è però deliberatamente taciuto dal giudice messinese visto il genere romanzesco d’appartenenza.41 Ha sottolineato Dorothea Walz (1998, 818), operando un
40 Bruni (1996, 759). Ecco il passo di Coluccio: «aliud autem apud Latinos non memini me legisse, nisi penes Guidonem de Columna Messana, qui, Dictym Daretaque secutus, librum, qui Tr o i a n u s vulgo dicitur, ex duabus illis hystoriis compilavit et ex duobus apocryphis unum fecit, quem omnes quos eruditos vidi floccifaciunt, utpote carentem tam gravitate quam fide» (Novati 1896, 546, rr. 2–7). Cf. Petoletti (1999, 473–474 e n. 21); Walz (1998, 818–819, ove erroneamente si data la lettera al 1405). La maggiore diffusione di Darete in epoca medioevale è dovuta anche alla sua prospettiva filotroiana e quindi, visto il favore accordato al personaggio d’Enea, anche filoromana (sulla tradizione di Darete Frigio cf. almeno Faivre d’Arcier 2006 con la recensione di Petoletti 2007; De Caprio 2012, 56, Fig. 1, ove si comparano in un grafico le tradizioni manoscritte di Ditti, di Darete e dell’Ilias fra IX e XI sec.; i precedenti D’Agostino 2006, 28–29 e Punzi 2004). 41 «Che [Guido Giudice] non citi Benoît, benché ci possa apparire scorretto, non è del tutto strano, pensando che anche molti degli autori delle mises en prose del RdT [sc. Roman de Troie] non lo fanno; il fatto è che spesso gli autori citavano di preferenza le fonti più antiche, e preferibilmente quelle latine e non le volgari. Che a volte Guido occulti la verità, pare chiaro» (D’Agostino 2006, 95). Si tratta, in definitiva, d’una diversa urgenza narrativa e della selezione d’un pubblico ben definibile: l’HdT infatti è «destinata all’attenzione degli eruditi più che al semplice svago dei lettori. […] Nella particolare impalcatura dell’opera di Guido l’erudizione ha la precisa e fondamentale funzione di allontanare il testo dal tono puramente narrativo per renderlo ‹scientifico›» (De Blasi 1980b, 52). Al «silenzio» di Benoît e alla «(s)fortuna di un auctor» che ha fornito al Medio Evo un canone narrativo della storia troiana è dedicato in buona parte un saggio d’Alice Ducati (2018); qui, tra l’altro, non s’esclude una discendenza dell’HdT da Prose 2 (ibid., 57). Non è certo questa la sede appropriata per disquisire se il Guido estensore dell’HdT sia effettivamente il Guido delle Colonne poeta siciliano e autore delle cinque canzoni antologizzate in Contini (1960, vol. 1, 97–110), oppure no. Il problema resta tuttora aperto: studi critici d’avvio alla quaestio sono certamente Contini (1954), secondo cui il rimatore e lo storico sono due persone diverse, e soprattutto Dionisotti (1965), per il quale, com’è noto, è assai arduo «credere all’esistenza immediatamente successiva e probabilmente in parte contemporanea di due omonimi, entrambi messinesi, entrambi giudici, entrambi uomini di lettere a tempo perso, e accordatisi per giunta a scrivere, l’uno soltanto rime volgari, ma nient’altro popolari, testi d’una raffinata cultura e tecnica, l’altro soltanto la prosa latina della Historia. Confesso che, a paragone di questa, l’ipotesi di una eccezionalmente tarda e verde e latina vecchiezza dello stesso uomo che in giovinezza era stato autore di rime volgari, mi pare di gran lunga più probabile» (ibid., 456). D’opinione contraria sono il Bruni (1990, 684–685) e il D’Agostino (2006, 94),
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confronto ideologico fra i due autori, che «Guido si sente soprattutto uno storico, Benoît de Sainte-Maure un autore di romanzi», e infatti «Benoît vuole raccontare, Guido spiegare. Guido comprime la materia, lascia da parte episodi secondari e dettagli superflui e si concentra nella rappresentazione della guerra troiana, che egli considera un avvenimento storico e che vuole descrivere e spiegare il più precisamente possibile». Nell’HdT, realizzata fra il 1272 e il 1287,42 la materia troiana – che spesso nel modello francese del Troie prestava il fianco a episodi attinenti la sfera sensuale – viene passata al setaccio di Guido Giudice per uscirne depurata dai riferimenti alla letteratura di sapore più spiccatamente sentimentale o erotico (in ispecie la poesia amorosa ovidiana e il romanzo cortese), al fine di respingere l’accusa di lascivia e favorire al contrario l’edificazione cristiana: «spiriti antieroici e antierotici si sommano dunque nell’Historia» – come ha osservato, con parole ormai celebri, Francesco Bruni (1990, 686–687 passim) – nel segno d’un «moralismo puritano e antiumanistico». Emerge insomma in Guido Giudice una concezione della storia in reazione agli auctores: un’idea di racconto che vuole, deve affrancarsi dalla fabula pettegola e dal sentore di leggenda, dalla mitizzazione e dal ruolo centrale dell’azione divina (in linea con la dottrina evemeristica),43 perché desidera farsi «essenzialmente storia di uomini. […] Nell’opera di Guido è l’uomo ad essere al centro dell’attenzione; l’uomo visto come individuo, come essere attivo, pensante e giudicante» (Walz 1998, 821–826 passim).44 Largamente propagatasi in territorio romanzo (e finanche in quello slavo e germanico: cf. Carlesso 1980, 231 n. 3), l’HdT – denominata anche, con titolazione popolare, Liber Troianus – deve gran parte del suo successo, misurabile anche tramite il novero dei testimoni mss. superstiti (ca. 140 codd., addirittura ca. 240 per Jung 1996, 565),45 all’idioma nel quale è scritta: la lingua latina. Si badi, non è questa una considerazione di stile, ché il latino dell’Historia è stato anche immeritatamente valutato da taluni come molto secco, culto, persino ingessato e
i quali caldeggiano l’ipotesi dell’omonimia. Avverto che in questo lavoro si considereranno sinonimiche le due denominazioni antroponimiche «Guido delle Colonne» e «Guido Giudice». 42 Credo che la fama del testo possa dispensarmi da dettagliate precisazioni bibliografiche: basti qui rinviare all’aggiornata sintesi del Calenda (2006) e al ricco repertorio bibliografico ragionato del Bisanti (2014). 43 Cf. D’Agostino (2006, 28 n. 19); Pastore Stocchi (1968, 112 e n. 1; questo vecchio saggio è da leggersi in coppia col recentissimo Battaglia Ricci 2018, in part. 57–60): in sintesi, per giustificare la presenza degli dèi, l’evemerismo li considera eroi divinizzati. 44 Cf. anche Bruni (1987, 110–115; 1996, 759–763). 45 Ma, come ha recentemente ricordato la Ducati (2018, 56 n. 35), «sfortunatamente, Jung non ha mai fornito l’elenco dei circa 240 testimoni [sc. dell’HdT] a lui conosciuti».
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frettoloso («più pretenzioso che elegante» per il D’Agostino 2006, 97);46 la svolta è rappresentata proprio dalla scelta, solo apparentemente controcorrente, di volgere in latino una materia già estesamente diffusa mediante il volgare e che con Benoît sembrava portarsi addosso il suggello indelebile della Francia e della sua supremazia letteraria: per quanto in Guido Giudice la gramatica possa risultare poco vitale o sintatticamente inelegante, la selezione del latino per questa sorta d’«anti-volgarizzamento» (o, a ben vedere, di retrotraduzione o traduzione di secondo grado) decretarono l’internazionalità del Liber e il legittimo confluire della saga di Troia nell’alveo insigne dei testi di storia profana.47 «L’impresa, – ha chiosato il Dionisotti (1965, 459) – che la Historia di Guido delle Colonne ci rappresenta, di risalire la china dalla favola volgare alla storia grammaticale e retorica, deve considerarsi, in quell’età, eccezionale». Ulteriori prove, cui qui accenno in modo cursorio, convaliderebbero il carattere di veridicità storica che il Basso Medio Evo – e dunque anche Benoît e Guido Giudice – conferivano alla saga troiana:48 (a) la scelta stessa della scrittura prosastica (ma per la Francia sarà meglio parlare di mise en prose) a scapito del verso, ciò ch’è «la grande novità letteraria dell’epoca» (Gozzi 2000a, 16); (b) la mancata interferenza delle divinità nelle vicende degli eroi, cui già s’è fatta menzione parlando d’evemerismo (si «trovano tutte e sempre spiegazioni razionali o sentimentali, ma comunque umane»: ibid., 28); (c) per quanto concerne i romans francesi, l’esibizione del loro status di «traduzione» e, di conserva, l’esplicitazione dell’intento primario dello scrittore, che sarebbe diffondere presso i suoi contemporanei i fondamenti di quell’antica civiltà di cui egli ed essi appaiono i discendenti; (d) la collocazione (in dieci dei tredici mss. che la tramandano) d’una delle prosificazioni di Benoît, la trecentesca Prose 5 – della quale, come per Prose 3, s’attende la prima edizione critica per le cure di Luca Barbieri –,49 all’interno della sezione v (Troie) dell’Histoire ancienne jusqu’à César, ovvero d’una vera e propria
46 E cf. ancora Walz (1998, 818): «Guido non è ben visto dalla maggior parte della critica contemporanea. Le maggiori contraddizioni riguardano lo stile di Guido: è arido, algido, rigido, privo di vitalità, troppo dotto. Il Joly [1869, 893, 880] lo definì nel suo commentario al Roman de Troie una ‹barbarie pédantesque› in un latino detestabile [‹latin détestable›]». In realtà lo stile formale di Guido delle Colonne si connota come altamente retorico, nient’affatto basso ma riflesso anzi di un’oltranza stilistica: programmaticamente, è il latino proprio dell’ars dictaminis meridionale applicato alla storia (cf. e.g. il rispetto del cursus e il sonus martellante). 47 Cf. Carlesso (1966, 525); Gozzi (2000a, 47 n. 22). 48 Sulla scorta – ricorda il Bessi (2004, 200), delle Etymologiae d’Isidoro di Siviglia, dove Darete è presentato «come il primo storico pagano in ordine cronologico». 49 Cf. Barbieri (2005, 6 n. 18).
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Simone Pregnolato
Historie universelle;50 (e) da ultimo, la presenza nei testi sulla presa di Troia d’una specie di «medioevalizzazione» delle vicende e dei personaggi, col conseguente raggiungimento di «macroscopici effetti di anacronismo [… che] rappresentano lo sforzo più o meno riuscito di stabilire equivalenze simboliche tra le due epoche», l’antica e leggendaria e quella presente.51
3.2 Cenni al panorama dei volgarizzamenti italiani di materia troiana Con la recentissima monografia sull’Istorietta troiana a cura di D’Agostino/Barbieri (2017) è ripresa nel nostro Paese la pratica dell’edizione critica e commentata di volgarizzamenti d’argomento troiano in lingua di sì, avviata sul suolo italiano nel 1986, allorché Nicola De Blasi riesumava l’anonimo Libro de la destructione de Troya in antico napoletano, e dismessa da quando Gabriele Ricci, nel 2004, pubblicò una seconda edizione del Libro de la storia di Troia in senese di Binduccio dello Scelto.52 Tuttavia, nel rinnovato clima di scavo filologico-linguistico sui volgarizzamenti medioevali instauratasi negli ultimi tempi – si pensi solo alle azioni benefiche svolte dal progetto DiVo (Dizionario dei Volgarizzamenti)53 e dal cantiere ancora aperto dell’Enav (Edizione Nazionale degli Antichi Volga-
50 Cf., per questa definizione, Jung (1996, 334); l’ed. in ibid., 358–430; sulle cinque prosificazioni francesi del Roman de Troie, infine, cf. ibid., 440–562, cui risale questa distinzione (sono comunque efficaci le sintesi introduttive di D’Agostino 2006, 59–64 e Mantovani 2013c); recentemente sono stati indagati anche i rapporti fra il Roman e l’anonimo poemetto L’Intelligenza (strofe 240–286): cf. Cappi (2007; 2008a). 51 Gozzi (2000a, 13, e cf. anche ibid., 45 n. 13 per ulteriore bibliografia). 52 Per un conciso inquadramento dell’Istorietta troiana (ora edita insieme con le Eroidi glossate tràdite dal ms. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Gaddi reliqui 71), sia lecito un rimando alla mia recensione (Pregnolato i.c.s.–b; per la verità, è il caso di rammentare che il D’Agostino 2006, 295–334 ne aveva già offerto un testo provvisorio a uso didattico). Relativamente a De Blasi (1986), invece, cf. le recensioni di Librandi (1987) e Paradisi (1987), quest’ultima fondamentale per le numerosissime correzioni di lezione che vi si snocciolano, da combinare con quelle riconosciute dall’editore medesimo nell’Errata corrige all’edizione (Tavola f.t.) e con quelle racchiuse nella «Scheda verde» dell’Ufficio Filologico dell’Accademia della Crusca/Opera del Vocabolario (ora nella Documentazione Filologica del TLIO disponibile in rete: ‹http://tlio.ovi.cnr.it/LIVS/ livsdoc/V1-dossier%20filologico/V1-doc.%20ufficio%20filologico/V1-scheda%20verde/V1_ scheda%20verde.pdf›). Fuoriesce da ogni nostra considerazione l’edizione di cantari troiani in ottava rima, egregiamente avviata con l’ed. Mantovani (2013b; cf. anche l’articolo preparatorio, Mantovani 2013a, di cui, per una svista, manca lo scioglimento del compendio bibliografico in calce all’edizione). 53 Nella cui banca-dati, però, manca Mazzeo Bellebuoni.
Avviamento allo studio del volgarizzamento troiano di Mazzeo Bellebuoni
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rizzamenti dei testi latini nei volgari italiani) –,54 parecchio ancora resta da fare per assecondare la risoluta constatazione di Carlo Dionisotti ([1962] 1967, 114), secondo il quale l’«incontro della prosa toscana con l’alta retorica latina del siciliano Guido Giudice è importante e merita di essere meglio studiato».55 A quanto ci è noto, fra Due- e Trecento l’HdT di Guido è stata volgarizzata in Toscana ben tre volte, in redazioni ancora prive – nessuna esclusa – d’una edizione scientificamente condotta. S’offre infra una sinossi delle traduzioni dirette dell’HdT trasposte in un volgare italiano (non solo quelle toscane, dunque), con l’indicazione dei mss. di riferimento e di qualche scarno rinvio bibliografico (Tav. 1).56 Esse si possono ancora catalogare sulla scorta dell’antica tipologia che ne fece il Morf (1892b), il cui tentativo di classificazione del materiale in tre gruppi (i: volgarizzamenti che seguono esattamente Guido delle Colonne; ii: volgarizzamenti che lo amplificano, che lo abbreviano o che lo sostituiscono parzialmente; iii: volgarizzamenti in cui il testo di Guido è quasi «soffocato» da compilazioni altre) è stato arricchito da Giuliana Carlesso alla luce delle acquisizioni più recenti; non sarà inutile riproporlo qui, per meglio innestare l’opera del Bellebuoni nell’intricato terreno
54 Per ciascuna delle due iniziative citate cf. il rispettivo indirizzo di rete: ‹http://tlion.sns.it/ divo/index.php?type=page&p=progetto%20tlion› e ‹http://www.ilritornodeiclassici.it/enav/ index.php?lang=it› (ultimo accesso: 29.10.2018). 55 Una dimostrazione di quanto resti da dissodare nel terreno in gran parte ancora vergine dei volgarizzamenti italiani su Troia risiede nel fatto che Gorra (1887), uno studio per certi versi assai invecchiato, in molti casi rimane insostituito (ancora «fa testo sull’argomento», per richiamare le parole del Dionisotti 1965, 453). Una spinta nella direzione d’ulteriori acquisizioni, per fare solo due esempi virtuosi, è impressa dalle continue, decennali ricerche condotte da Giuliana Carlesso e Maria Gozzi, perlopiù pubblicate sulle pagine degli «Studi sul Boccaccio». Alice Ducati, all’interno del perimetro d’una Tesi dottorale in Filologia romanza svolta presso l’Università degli Studi di Trento (La prosa latino-francese d’argomento troiano del codice Barberiniano latino 3953 e la fortuna medievale della materia troiana in Italia, xxx ciclo; tutrice: Roberta Capelli), ha intrapreso interessantissime indagini codicologico-filologiche sulla tipologia miscellanea «Filostrato del Boccaccio + volgarizzamento troiano», diffusa nei mss. medioevali per evidenti affinità tematiche delle due opere, allo scopo di verificare se il loro accostamento «sia significativo a livello stemmatico per definire i rapporti fra i testimoni della tradizione troiana in volgare» (Ducati 2017, 42). Sui rapporti tra l’HdT e il Filocolo (rapporti sintattici, retorici, genericamente linguistici, specie nei passaggi di stampo bellico e amoroso) cf. invece Venuda (1993), che può considerarsi una sorta di verifica empirica di quanto proposto dal Dionisotti (1965, 461–462). 56 Specifico che non sono riuscito a visionare direttamente nessun ms., eccetto naturalmente i due codd. Riccardiani 1095 e 2268 di Mazzeo: la Tav. 1 è stata allestita tentando di porre a sistema quanto s’estrapola dalla bibliografia secondaria disponibile (o, quantomeno, da quella a me nota, soprattutto italiana).
B
A1
A
C
ii
i
Sigla
(2) (3) (4) (5)
(1)
Volgarizzamento in pistoiese.
Cf. Carlesso (2014, 293–310): a lungo creduto uno dei testimoni di A, A1 è ora individuato come una redazione a sé stante; Ducati (2017).
Volgarizzamento in fiorentino. Il censimento aggiornato del testimoniale è in Zaggia (2009, 28–29); cf. anche Lorenzi (2011) e Ducati (2017, 45 n. 20) per aggiornamenti. Scorrettissima l’ed. Dello Russo (1868), ancorché tuttora insostituita (sul «metodo eclettico» del Dello Russo cf. le osservazioni di Zaggia 2009, 91–93); in Zaggia (2015b, 710–715) si dà una nuova ed. dell’episodio della morte d’Ulisse secondo il cod. Riccardiano 1821, ma sottoponendo a controllo altri 28 testimoni.
Note, osservazioni e bibliografia essenziale
Volgarizzamento in lingua toscana. Cf. Gorra (1887, 458–480, 523–525); Carlesso (1980, 235 e n. 25); Punzi Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Acquisti (2004, 189–193, dove s’avanza l’ipotesi che «il Volgarizzamento d’Anonimo e Doni 424. risalga ad una prosificazione oggi perduta, vicina, ma non coincidente, con Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Gaddi 35. quella rappresentata da Prose 5»); Zaggia (2015a, 706 e nn. 17–18). Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Gaddi 45. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palatino 568. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Panciatichi 55 (olim 88).
«Versione di Anonimo»
(1) Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1095. (2) Firenze, Biblioteca Riccardiana, 2268.
Mazzeo Bellebuoni, Troiano Riccardiano (1333)
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo 89 inf.–44 (sec. XV in.).
Anonimo, Libro chiamato «Troiano»
30 mss. superstiti, fra interi e contaminati, perlopiù fiorentini, più almeno altri 28 elencati in Zaggia (2015b, 709 n. 4).
Filippo Ceffi, Storia della guerra di Troia (1324)
Autore, volgarizzamento e mss. latori del volgarizzamento
Tav. 1: Sinossi dei volgarizzamenti italiani dell’HdT.
v
340 Simone Pregnolato
G
D
R
(1) Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II IV 46 (secc. XIV ex.–XV in.). (2) Paris, Bibliothèque nationale de France, It. 120.
Anonimo, Storia di Troia
Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1311, cc. 47rb-123vb (a. 1439).
Piero di Vaschino «de Bergamo», Libro de la creatione del mondo
Paris, Bibliothèque nationale de France, It. 617.
Anonimo, Libro de la destructione de Troya
(6) Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1311 (solo limitatamente al Prologo, poi prosegue con A). (7) Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1900. (8) Palermo, Biblioteca Comunale, 2 Qq E 1. (9) Parma, Biblioteca Palatina, Parmense 1043 (eccetto gli ultimi capitoli). (10) Pisa, Archivio di Stato, Alliata 65 (acefalo).
(segue)
Cf. Carlesso (2009, 309–317): D «sarebbe costituito dalla ‹combinaison› del volgarizzamento del Ceffi […] e di una traduzione del Roman de Troie en prose nella forma che ora si indica, secondo la terminologia dello Jung, come Prose 1» (ibid., 292; 2014, 293–310).
Punzi (2004, 193–195); Carlesso (2009, 296–309), ove si dimostra che «la sezione troiana del Libro de la creatione del mondo del ms. Ricc. 1311 è formata all’inizio da un rimaneggiamento della prima redazione dell’Histoire ancienne e in seguito dal volgarizzamento Ceffi e dalla versione di Anonimo» (ibid., 308); l’analisi linguistica del Di Sabatino (2017, 103), benché sia a campione, mostrerebbe «che il bergamasco Piero fu semplice copista [settentrionale], e non autore, della compilazione che sottoscrisse, evidentemente già assemblata (e linguisticamente uniformata) in Toscana».
Volgarizzamento in napoletano. Cf. gli studi preparatorî di Nicola De Blasi (1979; 1980b) e la sua ed. critica finale (De Blasi 1986); il De Blasi ricorre alla sigla N (= N’ e N’’, dove N’’ è la coda finale, l’adattamento napoletano del volgarizzamento Ceffi: gli ultimi quattro Libri di G, infatti, cc. 142r–157v, sono una versione meridionalizzata di A). Un recente studio stilistico-sintattico sul Libro è in Greco (2011). Cf. infra per G1.
Avviamento allo studio del volgarizzamento troiano di Mazzeo Bellebuoni 341
vi
v
iv
iii
M
G1
U
F
V
Sigla
Tav. 1: (segue)
Da unire a G: in entrambe le versioni si legge la redazione napoletana edita dal De Blasi (1986), che sigla i mss., rispettivamente, O (cod. oxoniense) e P (cod. parigino).
Volgarizzamento (parziale) in veneto completato da una trasposizione di A. Cf. De Blasi (1979, 122); Carlesso (1980, 242–251).
Cf. Morf (1892a, 21–31); Carlesso (2009, 317–323).
Volgarizzamento in veneto. Cf. Morf (1895); Carlesso (1969; 2017, 304–311).
Note, osservazioni e bibliografia essenziale
Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, It. Z. 47 (4805; Volgarizzamento anonimo collegabile a C. sec. XV). Il cod. Antoniano è una trasposizione veneta di C. Padova, Pontificia Biblioteca Antoniana, 47, Scaffale ii Cf. De Blasi (1979, 121–122); Carlesso (1980, 234–235). (sec. XV).
Oxford, Bodleian Library, Canonici It. 133 (sec. XV).
Udine, Biblioteca Arcivescovile, 108 (sec. XV in.).
Anonimo, Libro dele bataglie antiche troiane
Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, Rossi 43 (44 D 24; sec. XV).
Anonimo, Libro de la veragie storia di Troia («Volgarizzamento Corsiniano»)
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Mediceo Palatino 153 (sec. XV in.).
Anonimo, Libro Troiam
Autore, volgarizzamento e mss. latori del volgarizzamento
342 Simone Pregnolato
vii
V2
V1
Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palatino 502 (a. 1464).
Polinestor de Agnellis, Fati de la nobille Troia
Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, It. VI. 81 (5975), cc. 108va–146ra (sec. XIV2).
Anonimo, Fiore della Bibbia e di antiche storie
Cf. Carlesso (2017, 321–345).
Volgarizzamento in veneto. V1, come V2, si pone accanto a V. Cf. Carlesso (2009, 326–328; 2017, 311–320).
Avviamento allo studio del volgarizzamento troiano di Mazzeo Bellebuoni
*
343
344
Simone Pregnolato
storico-culturale che gli è proprio.57 Il nostro volgarizzamento pistoiese, come si vedrà, s’inserisce nel primo gruppo – quello delle traduzioni dirette dell’HdT – e viene indicato, mediante sigla ormai canonica concepita in base al cognome dell’autore, come redazione B.58 La Tav. 1, in definitiva, non è nulla più d’un tentativo di sistematizzare in un prospetto gli esiti delle più recenti ricerche della Carlesso; tuttavia, si confessa vivo il dubbio che altri tipi di schematizzazione e catalogazione dei testi e dei testimoni (e forse anche nuove siglature, generalmente condivise e non più difformi fra loro) potranno in futuro meglio descrivere la situazione e i mutui rapporti intercorrenti tra questi ultimi.
4 Prolegomena a un’edizione del volgarizzamento pistoiese dell’HdT (1333) 4.1 Il testimoniale manoscritto La scarsa attenzione che finora gli italianisti hanno riservato al volgarizzamento Bellebuoni dell’HdT non è certo dovuta allo sconforto per una tradizione manoscritta particolarmente aggrovigliata, giacché anzi – com’emerge dalla Tav. 1 riportata supra – la situazione testimoniale dell’opera, alla luce anche d’una
57 Cf. Carlesso (2009, 292–296); è condivisibile quanto annota la studiosa circa i criteri tassonomici: «Si potrebbe certo procedere in modo diverso dallo studioso francese, ad esempio distinguendo le traduzioni dirette dal latino da quelle che si ritengono indirette tramite versioni francesi della Historia [destructionis Troiae] oppure ponendo in gruppo separato le opere che utilizzano il volgarizzamento attribuito al Ceffi e/o la versione di Anonimo o le versioni inserite in Histoire ancienne [jusqu’à César] (C e R tra quelle note al Morf). A mio parere, tuttavia, a distanza di più di un secolo, la disposizione del Morf mantiene in sostanza una sua validità» (ibid., 293–294). Non riportiamo nella Tav. 1 – seguendo la Carlesso – l’Istorietta troiana, trattandosi, com’è ora risaputo, d’un rifacimento di Prose 3 (mentre il Morf associava l’attuale ms. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabechiano II IV 49 [olim Magliabechiano IV 49], riportante proprio l’Istorietta, ai mss. fiorentini della versione A, cioè al volgarizzamento del Ceffi). I gruppi qui numerati da iv a vii erano ignoti al Morf. 58 A (= Anonimo), B (= Bellebuoni) e C (= Ceffi) sono i tre volgarizzamenti toscani da Guido Giudice secondo il più immediato siglario del D’Agostino (2006, 107), ricalcato sulle proposte del De Blasi (1979, 115) e in parte divergente da quest’ultimo quanto ai volgarizzamenti non toscani (sbaglia, fra l’altro, il D’Agostino, forse fidandosi del Morf 1892b, 95, a indicare R1 e R2 come «due mss. quattrocenteschi»). Zaggia (2015, 706–707), probabilmente per motivi di sintesi, non ricorre a un sistema di sigle.
Avviamento allo studio del volgarizzamento troiano di Mazzeo Bellebuoni
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nuova recensio, non è affatto complessa; il testo, infatti, è tràdito da due soli testimoni, entrambi conservati presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze: i mss. 1095 (olim Gabriello II III 380) e 2268 (sec. XIV med.),59 che siglo rispettivamente R1 e R2. Nessuna stampa antica fu impressa per l’opera di Mazzeo.60 In R1, ms. composito datato ad annum per la sezione che qui interessa (anzi, ad diem: 22 dicembre 1399) e ben localizzabile dal punto di vista della geografia linguistica, il volgarizzamento occupa le cc. 101r–196r; per tale ms. disponiamo d’una sintetica descrizione codicologica nella serie dei Manoscritti Datati d’Italia (De Robertis/Miriello 1999, 13 n° 23), relativa alla sola parte troiana del cod.61 Per completezza la si riporta qui di séguito, tralasciando la bibliografia intermedia62 e, per ora, la trascrizione della subscriptio:
59 Gabriella Pomaro (Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino, Firenze), cui ho chiesto la cortesia di un’expertise (comunicazione scritta del 13.07.2018), conferma la collocazione alla metà del secolo giudicata plausibile in Gr.st. 284 n. 52, preferendola rispetto a una datazione leggermente più bassa, pure ammessa dal Castellani, orientata sul terzo quarto del Trecento. Per la storia della Biblioteca e del suo fondo manoscritto cf. rispettivamente Rascaglia/ Di Benedetto (2005, 191–198) e De Robertis/Miriello (1997, 3–11). 60 A margine si noti che Nicola De Blasi (1979, 100 n. 5) ha mostrato che: (a) non è il testo del Bellebuoni a essere adoperato negli spogli lessicali destinati al TB; cf. pure De Blasi (1980a), anche per le citazioni a nome Mazzeo Bellebuoni già presenti in Crusca1–5 e poi, attraverso il TB, nel DEI e nel GDLI; (b) smentendo il suo maestro Francesco Sabatini (1975, 142–146; nn. alle pp. 270–272), il volgarizzamento Bellebuoni B non costituisce il modello ispiratore di quello napoletano G (siglato N dal De Blasi: cf. supra, Tav. 1); riporto per intero la sua nota a riguardo, precisando comunque che il De Blasi (1979, 118–119), nei suoi raffronti a campione tra G e il Bellebuoni, legge quest’ultimo nella lezione di R1 (erroneamente citato come «Ricc. 1096» nella n. 23): «Il Sabatini da alcune coincidenze notevoli tra il testo di N e le citazioni relative a Guido delle Colonne presenti nel Dizionario del Tommaseo ha potuto concludere che il probabile antecedente volgare di N fosse proprio il volgarizzamento utilizzato dal Tommaseo e indicato come opera di Mazzeo Bellebuoni. In realtà le cose stanno diversamente: le citazioni, che il Tommaseo deriva dal Vocabolario degli Accademici della Crusca, sono tolte dal testo di Ceffi […], pur se nello stesso Vocabolario della Crusca si parla prima di testo anonimo (i ed.) e successivamente si fa il nome del Bellebuoni (ii ed.). Altre citazioni (quelle coincidenti con N) confluiscono nel Tommaseo dagli spogli forniti da G. Campi […], che appunto volse al toscano il codice parigino di N. I testi citati sono quindi quelli del Ceffi e quello napoletano toscanizzato; mentre quello di Bellebuoni, l’unico esplicitamente chiamato in causa, non è mai utilizzato». Cf. anche Carlesso (1980, 236–237), che pare non essersi giovata in tempo dello studio del De Blasi (1979), pur giungendo ad analoghe conclusioni. 61 Cf. anche Boccini (1997/1998, vol. 1, 15–35), da prendere con la dovuta cautela a causa delle numerose mende. 62 Alla quale s’aggiunga Ceresi (1971, 18–19).
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1095 Composito. Cart.; ff. iii, 197, iii’. Legatura in pelle del sec. XVIII. […]63 ii. ff. 101–19763
1399 dicembre 22, Montepulciano
Guido delle Colonne, Storia della distruzione di Troia, volg. di Mazzeo Bellebuoni (ff. 101r–196r) Numerazione da 1 a 97 di mano della fine del sec. XV su recto e verso; 1 f., 115, 2–516, 617, richiami; in-folio, 284 × 209; r. 1 / ll. 41 variabili*, rigatura a colore. Di mano diversa e di poco posteriore il f. 101r–v. Correzioni ed integrazioni della mano del testo; note marginali di mano del sec. XVI. Iniziali rosse e blu, alternate e filigranate da 102r. […] * Sono tracciate la linea superiore dello specchio e le rettrici vericali [sic]. Lo schema di impaginazione risulta così ripartito: 22 [212] 50 × 36 [139] 34. Diversa la situazione al f. 101r–v, integrato da altra mano: 284 × 215 = 18 [217] 49 × 38 [140] 37; rr. 42 / ll. 41; rigatura mista a colore.
Segnalo anche che, in testa alla c. 101r, una mano senz’altro successiva al resto della trascrizione di Mazzeo ha aggiunto la specifica «volgarizzamento di Giov. Bellebuoni»: si tratta evidentemente d’una indicazione errata che confonde l’autore effettivo della traduzione di Guido col padre Giovanni, notaio a Pistoia alla stregua del figlio. La data di composizione del volgarizzamento e quella d’allestimento del manufatto, invece, sono riportate nella sottoscrizione vergata dal copista di questa redazione, Marco di Ghino da Prato, nella scrittura gotica (semi-)libraria con la quale è stata trascritta tutta l’opera troiana;64 cito sempre da De Robertis/Miriello (1999, 13 n° 23) ma, per scrupolo diplomatico, stampo fra tonde le poche lettere derivanti da scioglimento d’abbreviazione: Iste liber fuit scriptus et co(m)pletus per me Marchum filium Prioris Ghini de Prato, notarium et offictialem mall(ef)i(ci)or(um) nobilis et potentis viri Iacobi Niccholai de Riccialbanis de Flor(enti)a, pro magnifico excelso et honorato p(o)p(u)lo et co(mmun)i Florentie honorabilis pot(est)atis et capitan(ei) terre Montispoliçiani, sub a(n)no D(omi)ni ab eiusdem salutifera incarnatione mccclxxxxviiii°, indictione octava, die xxii mensis decembris.65
63 Fra gli svariati testi accolti nel primo troncone del ms. R1 figura, alle cc. 11v–17r, anche il volgarizzamento di Leonardo Bruni (Aretino) della Pro Marcello (cf. Morpurgo 1900, 100; Tanturli 1978, 214 n. 4; cf. ora l’ed. critica di Berti 2010, dove R1 corrisponde a R6, descriptus): avverto a latere che, grazie al Kristeller (1981, 48 n. 22) il quale, accortosi d’un refuso nell’indicazione del Folena (1991, 52–53), ha rettificato l’errata segnatura «cod. Riccardiano 1905, c. 12r» in «Ricc. 1095» (com’era peraltro già in Folena 1953, 160), siamo in grado di ricondurre l’estratto e il commento foleniani proprio al nostro cod. R1. 64 A eccezione, lo ribadiamo, della c. 101r–v. Uno specimen fototipico di R1 (c. 133r) è in De Robertis/Miriello (1999, Tav. xiv). 65 Cf. Colophons, vol. 4, 111 n° 12976.
Avviamento allo studio del volgarizzamento troiano di Mazzeo Bellebuoni
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Poco sopra, sempre alla c. 196r, è la formula di chiusura, che così recita (la trascrizione è interpretativa): Questo libro fue extracto de’ libri di Dares Frigio e del libro di Dites | Greco secondo che di sopra è dichiarato p(er) lo iudice Guido di Messina e | poi fue regato in vulgare p(er) me Matheo di ser Giovanni Bellebuoni | da Pistoia socto gli a(n)ni del nostro Singnore Dio da la natività mcccxxxiij.
Dunque, dei due testimoni mss. dell’HdT volgarizzata, quello più calligrafico e di più squisita fattura, ovvero R1, risulta altresì poco attendibile sotto il rispetto più propriamente idiomatico: il menante pratese avrà infatti trasferito l’antigrafo nel proprio vernacolo, rendendo la stesura linguisticamente poco omogenea rispetto al presunto archetipo del Bellebuoni.66 Assai più affine a quest’ultimo per coloritura dialettale sarà piuttosto il secondo teste, già proprietà dell’accademico della Crusca Bernardo Davanzati (1529–1606);67 per quest’altro cod., «il più antico e più fedele»,68 disponiamo d’una nota del Castellani, concisa ma in tutto corretta, nella quale R2 viene presentato come «cartaceo in lettera cancelleresca minuta, mutilo del primo foglio, da attribuirsi alla metà o al terzo quarto del sec. XIV, di mano con ogni probabilità pistoiese, inedito».69 Anche di R2 riporto in edizione semidiplomatica il colophon (c. 88v), dove si nominano Darete, Ditti e la fonte diretta Guido, e dove anche si conferma la datazione del volgarizzamento all’anno 1333: Q[u]esto fue extratato de’ librj di Dares Fligio et de· libro di Dites Greco | seco(n)do che di sopra è dichiarato p(er) giudicie Guido da Messina e poi fue | regato i(n) volgare p(er) s(er) Maççeo ser Ioh(ann)i Bellebuoni da Pistoia socto li a(n)nj mcccxxxiij. Laude n’abia lo nostro Signore Dio, e lla sua madre, e lla | corte di Paradiso. Amen. Amen. Amen.
Tanto R2 quanto R1 sono codd. diffusamente corrotti (cf. già Segre 1965), zeppi d’errori di copia che il lavoro filologico di restituzione testuale dovrà necessa-
66 Un’analisi linguistica – anche parziale – della seconda sezione di R1, però, manca ancora; sulla caratterizzazione del pratese, «dialetto di transizione» tra il fiorentino e il gruppo occidentale al pari del pistoiese, cf. almeno Gr.st. 349. Oltre a quelli editi e analizzati dal Serianni (1977), altri testi pratici pratesi dalle Origini al 1320, scevri però d’un commento linguistico e lessicale che ancora attende d’essere svolto, sono stati pubblicati in anni non lontani, nella medesima collana di Crusca, dal Fantappiè (2000). 67 Sul Davanzati cf. almeno Zaccaria (1987); più recentemente, Siekiera (2018). 68 Savino (1994, 170). 69 Gr.st. 284 n. 52 (corsivo mio). Già lo Zaccagnini (1909, 129) riconosceva la veste linguistica di R2 «molto vicina all’originale». Di R2 non esistono facsimili fotografici a eccezione delle cc. 15v–16r, ora riprodotte a colori in Pregnolato (2017b, 41, 43, Tavv. xiii–xiv).
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riamente tentare di correggere; R2, in più, oltre alla patina «con ogni probabilità pistoiese» (e cf. ora Pregnolato i.c.s.–c), mostra in taluni luoghi marginali (non molti, per la verità) alcune scritte (e.g. aggiunte, correzioni di lezione, specifiche di vario genere) vergate da persona distinta e facilmente distinguibile dal copista responsabile unico della trascrizione del volgarizzamento (cf. infra, §4.1.1). Per tali marginalia s’è mostrato indispensabile giungere, se non proprio all’identificazione della mano, quantomeno all’accertamento della loro eventuale autografia, in maniera da escludere o dimostrare l’idiografia di R2 (ciò che avrebbe rappresentato, ça va sans dire, una sorta di «pistoiesità al quadrato» del ms. R2 e quindi la prova definitiva dell’opportunità d’accogliere tale testimone, e non il pratese R1, a base filologica della prima edizione dell’opera).70 A questo scopo ho potuto giovarmi del parere paleografico sulle note a margine di Massimiliano Bassetti (Università degli Studi di Verona), la cui expertise cito qui integralmente (comunicazione scritta del 20.07.2018): (1)
(2)
(3)
Sono di una mano della prima età moderna (in umanistica corsiva o già in italica semplificata) i marginalia di cc. 2v, 3r, mentre ad altra mano ancora più informale e – direi – tarda si deve lo sciatto intervento di c. 75v; tutte le restanti occorrenze segnalate vanno riferite a un solo operatore sicuramente trecentesco, capace di una minuscola corsiva professionale (quindi anche documentaria e notarile), con percettibile inclinazione a sinistra (talvolta più, talvolta meno marcata); malgrado le suggestive prossimità grafiche (dovute all’appartenenza a un medesimo sistema grafico ben normato per ragioni d’uso) questa mano non mi pare potersi identificare con quella del Bellebuoni. Ci sono diversi indicatori che ritengo spingano in questa direzione, il più significativo dei quali è l’assoluta difformità morfologica di e e di g (per non dire che dei fatti più notevoli); rilevo altresì che il Bellebuoni non usa mai la variante corsiva di r (in forma di 2), nemmeno quando questa sarebbe più «economica» al contesto di alcune soluzioni di legamento, mentre il correttore del riccardiano vi ricorre proprio per ragioni funzionali al legamento (vendicarci a l. 2 di c. 22r).
70 Per raggiungere questo obiettivo ho anche provato, insieme con Teresa De Robertis, che ringrazio, a rintracciare in alcune scritture del cod. Pistoia, Archivio di Stato, Opera di San Jacopo, 31, contenente moltissimi atti rogati e sottoscritti da Mazzeo – fra i quali l’inventario topografico dei beni immobili dell’Opera (cf. supra, §2) –, la mano di R2: è probabile, infatti, che questo anonimo copista possa essere scovato e paleograficamente identificato perlustrando i mss. pistoiesi legati all’attività professionale e all’entourage del Bellebuoni, il quale, in qualità di notarius e d’affermato uomo politico in Pistoia, avrà senz’altro goduto dei servigi d’alcuni scribi di fiducia (ed è presumibile che a uno di costoro possa aver affidato – o sia in séguito capitata – la trascrizione del volgarizzamento troiano). Questa parziale ricerca, per ora, non ha dato i frutti sperati.
Avviamento allo studio del volgarizzamento troiano di Mazzeo Bellebuoni
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Scartata insomma l’ipotesi, pur ragionevolmente sospettabile, dell’idiografia di R2, col volgarizzamento B ci troviamo dinanzi a una tradizione quantitativamente esigua, segno certo della sua scarsa circolazione (cf. Zaggia 2015a, 706–707 n. 19), e probabilmente composta di due soli rami collaterali fra loro (ma soltanto l’edizione integrale del volgarizzamento, cioè una collatio completa dei due testimoni, potrà comprovarlo in maniera definitiva), senz’altro non del tutto «quiescente» – com’è in genere quella dei volgarizzamenti – e abbastanza corrotta.71 La dipendenza di R2 da R1 è respinta per ragioni cronologiche inerenti alla confezione dei due manufatti; infine, è escluso anche il contrario (R1 < R2) a causa delle lacune di R1 corrispondenti a loci nei quali R2, invece, reca il testo del Bellebuoni.
4.1.1 Descrizione codicologica di R2 Alla luce della supposta pistoiesità del dettato di R2, che è motivo bastevole a innalzarlo a base testuale, do allora una prima descrizione completa e dettagliata di questo ms., resa necessaria, a mio modo di vedere, qualora un cod. assurga – come s’è detto in altra sede (Pregnolato i.c.s.–a) – al ruolo di «manoscritto di superficie» d’una futura edizione.72
71 Ricordo col Vàrvaro (1971, 87), cui si deve tale denominazione, che «l’elemento determinante [sc. a distinguere tradizioni q u i e s c e n t i da tradizioni a t t iv e ] pare l’atteggiamento dello scriba rispetto al testo: nella tradizione quiescente il copista si sente in qualche modo estraneo al testo su cui lavora e ne ha rispetto; sbaglia, magari azzarda congetture, ma sempre al fine di un restauro conservativo. Nella tradizione attiva, invece, il copista ricrea il suo testo considerandolo attuale ed ‹aperto›, sicché – oltre a cadere nelle corruttele cui nessuno sfugge – opera interventi di un tipo alquanto diverso da quello consueto nella tradizione quiescente: soprattutto innovazioni che a suo parere incrementano il testo, ad es. rendendolo più piano o più ‹contemporaneo›, e che quindi non obbediscono ad intenti di restauro». 72 L’unica descrizione a me nota di R2 è edita in Ceresi (1971, 19–20), ma si tratta solo d’una scheda stringata. Nel seguente esame codicologico tutte le citazioni dal cod. R2 sono date in trascrizione diplomatica, con scioglimento dei compendi fra parentesi tonde (i sottolineati, quindi, appartengono all’originale); le frecce così direzionate \…/ indicano l’inserzione d’una parte di testo dall’interrigo superiore. L’elenco apparentemente esagerato dei capilettera (alti 2–3 ll. di scrittura) di R2 (cf. infra, n. 76) è fornito in ossequio agli scopi con cui lo Jung (1996, 13) dichiara d’aver intrapreso il suo studio sulla tradizione della leggenda troiana in Francia, e come appoggio a futuri lavori di questo tipo: «les textes ne m’intéressaient pas uniquement dans le mesure où ils existaient. Au contraire, c’est le lecteur d’alors, du XIIIe e au XVe siècle, qui m’intéressait, ou mieux: le document manuscrit que ce lecteur avait devant lui»; a tal proposito, cf. anche la recensione del Vàrvaro (1996, 309), secondo il quale i capilettera, anche se scarsamente decorati o soltanto ripassati come quelli presenti in R2, rappresentano comunque «i mezzi attraverso cui
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R2 Firenze, Biblioteca Riccardiana, 2268. Sec. XIV med., cart. (filigrane: basilisco simile a Mošin-Traljić, vol. 1, 974 [Siena, 1361] e a Briquet, vol. 3, 2620 [Grenoble, 1361]; lettera A simile a Briquet, vol. 4, 7938 [Forcalquier, 1354 oppure Fabriano, 1356]; campana simile a Briquet, vol. 3, 3997 [Pisa, 1356–1357]; monte a tre punte simile a Mošin-Traljić, vol. 2, 6259 [Fano, 1360 oppure Firenze, 1362]). C o n s i s t e n z a . Cc. i (cart. mod. incollato al piatto) + ii-iii (membr.) + iv (cart. ant.) + v (cart. mod.) + 1 (cart. mod.) + 2–89 (= 88) + 90–91 (cart. mod.) + i′–ii′ (membr.); iii′ (cart. incollato al contropiatto); tre diverse cartulazioni: [a] numerazione antica manoscritta in cifre arabe (coeva alla mano che ha vergato il cod., dentro una cornice fino al numero 15), in inchiostro nero sottile nell’angolo dx del marg. sup. d’ogni recto; [b] saltuaria numerazione moderna manoscritta in cifre arabe in inchiostro nero più spesso nell’angolo dx del marg. sup. d’ogni recto (numeri puntati alle cc. 4–9, 13–14); [c] numerazione meccanica moderna (in cifre arabe) nell’angolo dx del marg. inf. d’ogni recto, che qui si segue (e a cui eventualmente fa séguito il numero del rigo dopo un punto); la foliazione stampigliata [c] è continua: comincia da c. 1r (bianco, corrispondente alla c. vi di guardia) e prosegue fino a c. 91r.73 Infolio, mm 290 × 215 (20 | 240 | 30 × 25 | 170 | 30, con variazioni di ca. 5 mm), acefalo. Fa s c i c o l a z i o n e . 113 (14 − 1°) (cc. 2r–14v), 218 (cc. 15r–32v), 3–516 (cc. 33r–48v, 49r–64v, 65r–80v), 69 (10 − 10°) (cc. 80r–89v). Richiami nel marg. inf. al centro (incorniciati per metà e vergati in inchiostro marrone chiaro: «Colla spada» 14v; «In Verita» 32v; «dachauallo» 48v; «proponim(en)to» 64v; «de Re p(ri)amo» 80v. Rilegate scambiando recto e verso le cc. 2–3 (cf. le parole d’ordine nei marg. inf. delle cc. 2v e 3r–v: «a luj in tutto» 2v.31; «d(e)lla loro uittoria» 3r.34; «grembo d[e]lla» a c. 3v.31). R i g a t u r a . A mina di piombo (è stato tracciato solo lo specchio di giustificazione; non si riscontrano i forellini-guida, probabilmente rifilati al momento del restauro); rr. 1 / ll. 31–43 (la scrittura segue le vergelle; fanno eccezione le cc. 89v, 90v–91v, su 2 coll.; a c. 90r, a una scritta di 2 rr. ormai sbiadita a tutta giustezza seguono prove di penna scritte solo sulla col. di dx); bianche le cc. 1r–v e 89r, entrambe numerate meccanicamente.
viene suggerito un modo di lettura, forniscono una scansione del testo in parti, mettono in rilievo alcune scene, propongono una visualizzazione di ciò che viene narrato. Descrivere il manufatto non solo indicando il numero e la misura delle colonne di scrittura ed il tipo di quest’ultima, non solo la disposizione della parola nella pagina e la colorazione linguistica delle frasi, ma anche la divisione in parti suggerita dai capilettera […] significa sforzarsi di intendere il documento quanto più possibile nella maniera in cui lo percepiva il lettore medievale, accostarlo come lo accostava lui». Cf. infine Gozzi (2000b, 460 e n. 15). 73 È sbiadita la numerazione [c] di c. 4r, che viene compensata da una numerazione moderna a matita grigia posta ca. 2 cm sopra. La numerazione [b], come s’è detto, è saltuaria e sovrascrive (senza considerare la caduta della c. 1) la numerazione [a] ogniqualvolta essa necessita d’essere corretta: in part., rinumera le cc. 4–14 e 18–23, retrocedendo di un’unità nelle carte del primo intervallo – quindi, e.g., c. 4 in [c] = c. 3 in [b], ma c. 18 in [c] = c. 18 in [b], e via proseguendo, con errore di computo in [b] e messa in pari rispetto alle altre due foliazioni. Le cartulazioni [a] e [c] coincidono sempre, ma [a] inizia a numerare da c. 3 e s’arresta a c. 89 (del numero 89 è leggibile solo la decina). Sono puntati i numeri di [b] alle cc. 4–9 e 13–14.
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S c r i t t u r a . Scrittura notarile d’unica mano α per le cc. 2r–88v, in inchiostro bruno, tendente al nero (molto evidente il cambio di colore a c. 16v.17).74 La scrittura si fa via via più minuta, fitta e frettolosa, segno probabilmente che il cod. fu trascritto dal menante in un lasso ravvicinato di tempo e con poche interruzioni.75 D e c o r a z i o n e . Assenti interventi a colore; iniziali di paragrafo o di Libro a inchiostro nero di modulo maggiore (2–3 ll.), con limitato intervento decorativo sempre in inchiostro nero (un solo caso di lettera istoriata a scopo ornamentale: D 16r, con viso d’uomo stilizzato in inchiostro nero nella pancia della lettera). Nei margini notabilia e maniculae.76
74 Tommaso Gramigni (2003/2004, 301 e n. 355) riconosce come caratteristica della scrittura di R2 il grafema 〈ç〉, esclusivo in luogo di 〈z〉, «con la cediglia molto piccola e sottile, costituita da tre trattini spezzati, spesso nettamente staccata dalla lettera»; cf. anche Loach Bramanti (1971, 41). Sempre per il Gramigni (2003/2004, 143), anche la s tagliata ricorre con frequenza nel cod. ed è un suo tratto grafico peculiare. 75 Secondo il Castellani (Gr.st. 284 n. 52) la scrittura è una «cancelleresca minuta», mentre per Gabriella Pomaro «la scrittura è una buona notarile […] (la scrittura cancelleresca implica una tecnica esecutiva qui assente)», «con qualche accenno di influenze mercantesche per alcuni allungamenti e la saltuaria presenza della legatura ch» (comunicazioni scritte, rispettivamente, del 23.08.2018 e del 13.07.2018). 76 Notabilia e marginalia: «nota» a c. 8v.18; «colpare» a c. 11v.18; c. 16r.1–5 entro una parentesi quadra; c. 16v.3–4 entro una parentesi quadra; «no» a c. 22r.8–13 (entro una parentesi quadra e con manicula); «[T]royani Vi\C/|[x]xVi miglaya | [G]reci Viii\C/|[L]xxxVi miglia|ya» 41v.4–7 (entrambe le notazioni sono difficilmente leggibili perché il foglio è stato rifilato in fase di restauro); «comi(n)cia 17» (stessa mano del copista del testo) a c. 51v.24, in corrispondenza dell’incipit del Liber xvii dell’HdT 151; «19» 54r.12; «†a u(er)ba h(ab)ita | [in](ter) Acchille(m) (cum) | [e]cto(r)rem» 54v.7–9; «20» 56r.24 (in matita, mano moderna); «A» 60r.24 (ma la parola Amici, con cui inizia il rigo, ha già la A iniziale maiuscola); croce con asta verticale lunga nel marg. sup. sx di c. 62v; l minuscola in corrispondenza di c. 66r.7 (si tratta d’un memorandum per disegnare la L maiuscola ornamentale); «fedito» 66v.36 (interpolazione da inserire probabilmente dopo mo(r) talem(en)te); «coda» 67v.38 (interpolazione da inserire alla fine del rigo, dopo alla); «12d | agosto» 75v.37–39; «a | 31» 82r.23–24. Maniculae (con eventuali parentesi quadre per comprendere e segnalare assieme più d’un rigo) alle cc.: 9v.9–13, 9v.21, 10v.6, 12r.21, 16r.18–34, 21r.5–8, 21v.5, 22r.8–13, 22r.15, 64r.29. Capilettera: A 2v, R 3r, L 3r, A 3v, D 4r, O 4r, P 4v, N 5r, A 5v, Q 6r, E 6v, A 7r, O 7v, A 8r, U 9v, G 9v, I 10r, A 10r, A 10v, O 10v, E 11r, O 11v, I 12r, E 12v, E 12v, A 13r, D 13r, O 13v, P 14r, E 14r, O 15v, L 16v, S 17r, P 18v, O 18v, G 19r, V 19v, A 20r, A 20r, D 20v, L 21r, U 21v, M 22v, K 23r, E 23v, A 23v, P 24r, O 24r, P 24v, T 24v, E 26r, P 27r, O 27v, F 27v, P 28r, A 28v, D 29r, E 29r, M 29r, Q 29v, D 30r, T 32r, D 32r, D 32v, O 32v, P 35r, R 35v, P 35v, R 36v, L 37r, A 37r, F 37v, A 38v, M 39r, M 40v, S 40v, A 41v, D 42r, D 43v, R 44v, S 50v, P 51r, P 51v, L 52v, A 53r, S 54r, L 54r, D 56r, F 57r, P 57v, M 58v, A 59v, M 60r, C 60v, A 61v, C 63r, L 64r, P 65r, L 65v, C 65v, L 66r, Q 66v, P 68r, D 68v, P 69v, I 70v, L 71v, L 73r, E 74r, V 74v, Q 76r, D 77v, C 79r, D 79r, I 80r, C 80v, E 81v, H 82r, T 82v, M 83r, D 83r, P 84v, L 86v, D 87r, I 88r, L 88v, Q 88v. Letterina-guida a c. 66r. Sono presenti anche alcuni segni a marg. poco significativi, di cui si dà un elenco per quanto possibile sistematico. Trattini (obliqui od orizzontali) a matita grigia, a mo’ di segni d’evidenziazione, in corrispondenza delle cc.: 7r.9, 7r.10, 8r.2, 8r.25, 9r.9, 9r.32, 9v.27, 10r.16, 10v.32, 11r.14, 11r.20, 11r.22, 11r.27, 12v.13, 12v.23, 13v.3, 14r.30, 14v.9, 14v.26, 15r.30, 15r.33, 20v.4, 21r.1, 21r.6, 22v.7, 24r.27, 32v.14 (in inchiostro nero sottile), 32v.20 (in inchiostro nero sottile), 36v.14, 36v.20, 55r.29–30, 56r.2 (in inchiostro nero sotti-
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L e g a t u r a . È del sec. XVIII in vacchetta senza alcuna decorazione, eseguita da Giuseppe Maria Gaetano Pagani (1691–1758), legatore di fiducia di Gabriello Riccardi, prima del 1756 (terminus ante quem delle ricevute della filza rilasciate dal Pagani nel suo venticinquennio d’attività, compreso fra il 1731 e il 1756: cf. Filza di ricevute dell’Ill.mo e Rev. mo Suddecano Gabriello Riccardi riguardante acquisti di libri, medaglie e quadri dal 1726 al 1756 [Archivio di Stato di Firenze, Riccardi, filza 237] e Bani 1985/1986, vol. 1, ii–iii). Piatti (mm 300 × 225; spessore di mm 3) con anima in legno; unghiatura di mm 6; il dorso è attraversato da cinque nervi orizzontali; fra il primo e il secondo nervo del dorso è impressa in oro la scritta (incompleta) «[D]estruzio[ne] | di | troia | e rime»; sotto il quinto nervo è incollata l’etichetta di carta della Biblioteca («biblioteca riccardiana | 2268»); contropiatti ant. e post. rivestiti con carta bianca, solidali, rispettivamente, col primo e con l’ultimo foglio di guardia; sul piatto ant. int. si trova un cartellino cartaceo identico a quello incollato sul dorso della legatura. N o t e d i p o s s e s s o e av v e r t e n z e b i b l i o t e c a r i e . C. 1r («di Bernardo Dauanzati | 1593»), nel marg. inf. centrato; c. 88v («Questo libro Bellebuono è di | Bernardo Dauanzati 1593»; sottolineature originali, qui e oltre), nel marg. inf. centrato. A c. 93r avvertenze di due mani moderne differenti con indicazione della segnatura e della consistenza del ms.: «Codice 2268» e sotto «Carte 91 [il numero è impresso col numeratore meccanico] nuov. nume. V. n. da c. 2 (la prima, bianca | supplita a una mancante) prosegue reg. | Due mbr. e due cartacee in principio e tre | cart. e due mbr. in fine non nume.». Il numero «35» (scritto due volte, entrambe sotto «2268») sul recto della prima guardia membranacea probabilmente rappresenta, piuttosto che un’antica segnatura, un vecchio numero d’inventario, e potrebbe forse indicare che R2 è il trentacinquesimo volume della Libreria Davanzati a confluire in quella del Riccardi (cf. infra; non coincide comunque con la collocazione di Giovanni Lami il quale, nel cosiddetto «Bullettone» – Firenze, Biblioteca Riccardiana, 3824, vol. 64, to. xliv, parte i, c. 168r –, aveva segnato R2 come II.II.334). S t o r i a d e l c o d i c e . Trascritto da un copista pistoiese – lo denota la patina linguistica –, il cod. venne confezionato in anni non lontani dalla stesura dell’opera. Divenne poi proprietà del Davanzati e, insieme con un manipolo d’altri trentotto libri (tutti mss., eccetto un incunabolo), nel XVIII sec. fu venduto per sessanta ducati dagli eredi di Bostico Davanzati (1645–1734) al marchese suddecano Gabriello Riccardi (1705–1798): la ricevuta d’acquisto del 7 gennaio 1735 (Firenze, Archivio di Stato, Riccardi, filza 237, c. 222r–v) è edita in Bartoletti (2010, 110–111; 2017, 256–257 [dove, però, si parla più estesamente di cc. 199–200]; R2 è all’item n° 16). Si riscontra identità di mano fra le note di lettura delle cc. 2–3 (necessarie per correggere l’inversione delle carte) con lo Zibaldone autografo di Bernardo Davanzati (Firenze, Biblioteca Moreniana, Moreni 102). Già il Gorra (1887, 174 n. 1) descrive il cod. come mancante della prima carta, ma è probabile che la caduta del primo foglio sia precedente ai
le), 57r.16 (in inchiostro nero sottile, doppio segno orizzontale), 70v.22, 72r.26 (in inchiostro nero sottile), 83r.10–11 (in inchiostro nero sottile); marg. inf. centrato di c. 84r (in inchiostro nero). Segno 〈+〉 a secco a marg. delle cc.: 29r.22–23, 29r.30–31, 29r.33–34, 31r.10, 32r.22, 33v.23, 34v.5, 35v.24, 37r.28, 38r.14, 41r.26, 45v.16, 46r.17, 47r.14, 47v.3, 49r.21, 49v.12, 50v.17, 51v.1, 51v.20, 52v.1, 52v.29, 53r.20, 54r.1, 54r.29, 56v.25, 57v.27, 58r.16, 58v.8, 59v.14, 61r.16, 61v.33, 62r.23, 63v.21, 64v.3, 65r.14, 65v.28, 66v.4, 66v.36, 68v.16, 69r.35, 71r.17, 71v.6, 71v.36, 72v.39, 73r.29, 74v.28, 75r.17, 75v.7, 76v.39, 77r.29, 78r.1, 78v.32–33, 79v.16, 80r.37, 81r.34, 82v.12, 84r.33, 85r.16, 87v.6. Spesso al segno 〈+〉 corrisponde, nel testo, la correzione d’un refuso.
Avviamento allo studio del volgarizzamento troiano di Mazzeo Bellebuoni
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tempi di Bernardo Davanzati, se la sua nota di possesso autografa viene vergata a c. 2r; lo stesso dicasi per la rilegatura al contrario della c. 3r–v.77 S t a t o d i c o n s e r v a z i o n e . Buono; la carta è spessa e di colore ocra, con frequenti gore d’umidità e macchie che non impediscono però la lettura; pochissimi i fori di tarlo. In Bani (1985/1986, vol. 3, 153 n° [1322]) si legge: «Opera [completamente] restaurata». A c. 2r si trova il timbro rosso della Biblioteca Riccardiana, incompleto a causa del restauro che ha coinvolto il primo foglio del volgarizzamento; timbro integro a c. 91v. Boccini (1997/1998, vol. 1, 39) c’informa anche che il restauro è stato realizzato «ad opera di Masi e Andreoni nel 1959». C o n t e n u t i . Cc. 2r–88v: [Mazzeo Bellebuoni, El Troiano o Troiano Riccardiano]. C. ivr, tit. coevo (mano α?): «El troiano cioe La destrvtione di troia»; c. ivv: «q(ua)n(do) giansone ando pelueglio delloro et Come lacicta ditroya fu disfatta» (è la stessa mano tardo-quattrocentesca o primo-cinquecentesca di c. 89v, col. dx: cf. infra); segue una scritta evanida di cui resta solo il segno di paraffo e una Q maiuscola. Inc. del Troiano: c. 2r (= 2v): «propuose i(n)se comelli potesse iason co(n)duce(re) p(er) p(ro)deçça digioue(n)tude ch(e) disua»; expl., c. 88v: «¶ Lo Re Octemene Et · polisena»; subscriptio (c. 88v): «Q[U]Esto fue extratato de librj di dares fligio et delibro didites Greco | seco(n)do che di sopra e dichiarato p(er) giudicie Guido damessina e poi fue | regato i(n) uolgare p(er) s(er) Maççeo s(er) Joh(ann)i Belle buonj dapistoia socto lia(n)ni | mcccxxxiij · laude nabia lo nostro Signore dio ella sua madre ella | corte di Paradiso. ·: // Amen :· // Amen :· Amen: · ////». Argomenti (non compaiono in maniera sistematica): «Come ligreci disposarono i(n) sul te(r)reno ditroia» 3r.24; «Qua(n)do Iaxon adoma(n)do aRe cetes laparola dandare p(er)lo uellio delloro» 10r.31; «Della structione della p(ri)ma troia» 12v.6; «Della rifondatione della Citta ditroia» 16r.14; «Qua(n)do antonor giu(n)se acastor edapolluce» 20r.13; «delco(n)sillio facto p(er) paris ma(n)dare i(n)grecia» 20v.28; «dello ari(n)gham(en)to deleno» 23v.3; «Qua(n)do paris ando i(n)grecia p(er) Elena» 24v.30; «Chome grecj ma(n)daro Acchille et thalafun p(er) Victuallia p(er)loste» 39.22; «Come ligreci sipa(r)tiro da Tenedon et andaro a Troya» 41v.10. C. 89v: tre stanze isolate d’una mano γ corrispondenti alle ottave 45–47 d’un cantare in ottava rima, Morte di Polissena e ruina di Troia, in cui Polissena parla prima d’essere immolata sulla tomba di Achille, interrotta dal lamento d’intercessione della madre Ecuba (tràdito dall’incunabolo [Venezia], Giuliano Pasquali, [ca. 1489–1491], cc. 40r-43v). Inc.: «GRatia mi fate difarmi morire»; expl.: «co(n)forto solo dognia mia noia e pena. | Amen». Le tre strofe sono ripetute nella colonna di dx – ma con errori, e.g. l’omissione d’un verso nella prima ottava –, trascritte da una mano δ del tardo Quattrocento forse per rendere più comprensibile a un lettore coevo la trecentesca scrittura cancelleresca della colonna di sx (fotoriproduzione in b/n ed edizione della c. 89v, col. sx, in Petrella 2009, 94–95, a superamento di Gorra 1887, 366). Infine, nel marg. inf., col. sx, una terza mano ε ha trascritto un’ottava del cantare d’Apollonio di Tiro (inc.: «Signori che inquesto mondo eisuenturato»; expl.: «sospiro semi as choltate diro dapolonio | ditiro»).
77 Da rivedere, dunque, Gorra (1887, 174 n. 1), secondo cui «dopo il f. 3 ne manca uno quantunque la numerazione non sia interrotta», e anche Boccini (1997/1998, vol. 1, 38), per la quale sarebbe caduto un foglio fra le cc. 2 e 3 (la seconda parte d’un bifoglio, di cui la prima potrebbe essere la perduta c. 1?).
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C. 90r: probationes calami e formule varie. In alto, a piena pagina, si trova una nota in latino terminante con «Finis Deo gra(tias) 1466», ma il resto è molto poco visibile (si legge l’indicazione d’un libro di debiti: «Tomaso de avere»). Cc. 90v–91v: [Rime]. Inc., c. 90v: «Ointelletto n(ost)ro tanto dengnio»; expl., c. 91v: «che tutta grecia ved a[n]dare per terra». C. iii′v, tit. coevo (mano α?): «Q[u]esto sichiama eltroiano cioe ladistruzzione ditroia». B i b l i o g r a f i a . Inventario 47; Capponi (1874, 43–44); Gorra (1887, 174 n. 1, 366); Zaccagnini (1909, 129 n. 1); Morpurgo (1929, n° 678); NTF 39; Segre (1965); Ceresi (1971, 19–20); Loach Bramanti (1971, 41); Bani (1985/1986, vol. 1, 1–45; vol. 3, 153 n° [1322]); Savino (1994, 170–171); Boccini (1997/1998, vol. 1, 37–44); Gr.st. 284 n. 52; Gualdo/Palermo (2001, 362); Gramigni (2003/2004, 411–412, ma R2 è uno fra i Manoscritti scartati dall’Autore); Montanari (2004, 14 n. 24); Petrella (2009, 92–96); Bartoletti (2010); Azzetta (2013, 33–34); Frosini (2014, 37); Zaggia (2015a, 706–707 n. 19); Bartoletti (2017, 49); Pregnolato (2017b, 37–43).
4.2 Postilla sul titolo del volgarizzamento Per riferirsi a questa traduzione «verticale» del Bellebuoni è invalsa finora, fra gli studiosi, l’etichetta (non autoriale e mai attestata nella tradizione manoscritta) d’Istoria troiana, un probabile calco su Istorietta troiana (così a partire almeno da Zaccagnini 1909, e cf. ancora Gr.st. 284 n. 2, sulla scia di NTF 39, o Manni 2004, 371). Tuttavia, è bene chiarire che si potrebbe avanzare una proposta d’intitolazione capace di rispettare quanto suggerito da almeno uno dei due codd. relatori. Sul recto del quarto foglio di guardia – l’unico cartaceo antico – in testa a R2 (cf. supra, §4.1.1), si legge infatti «El Troiano cioè La destrutione di Troia»; la mano pare quella dell’unico copista trascrittore del volgarizzamento. L’espressione poi si ripete, con minime variazioni, sul verso della terza guardia posteriore – la terza cartacea – in fondo al cod.: «Q[u]esto si chiama El Troiano cioè La distruzzione di Troia» (la grafia però è differente e sembra leggermente posteriore). È una designazione (quantomeno la prima parte del titolo) che riprende il nome vulgato dell’HdT di Guido Giudice, Liber Troianus. R1, invece, è in toto anepigrafo. Ciò detto, suggerisco comunque una denominazione meno generica rispetto a El Troiano (pure valida, naturalmente)78 e che – seppur priva di certificazione documentaria proprio come Istoria troiana – mi pare valorizzi una specificità di questo testo, cioè il suo essere trasmesso unicamente da due codd. Riccardiani. Sicché, sul modello evidente del Tristano Riccardiano – così appellato dal Parodi
78 In Pregnolato (2017b) ancora propendevo per questa titolazione cavata dai fogli di guardia; così fa anche Loach Bramanti (1971, 41).
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(1896a) con riferimento, come noto, al più antico e fededegno ms. che lo tramanda (Firenze, Biblioteca Riccardiana, 2543; secc. XIII ex.-XIV in.) –,79 per El Troiano di Mazzeo Bellebuoni potrebbe attagliarsi l’insegna univoca di Troiano Riccardiano. È così, quantomeno, che lo chiamerò per tutto il prosieguo del lavoro e in futuro, servendomi per brevità della sigla TR.
4.3 Precedenti edizioni del TR A ben vedere, il volgarizzamento troiano del Bellebuoni è solo parzialmente inedito (cf. Azzetta 2013, 33):80 sui due apografi Riccardiani, infatti, sono state condotte (in anni nient’affatto recenti) alcune edizioni molto poco affidabili e in sé limitate – in rapporto tanto alla lunghezza totale del volgarizzamento, quanto ai principî ecdotici che le informano –, delle quali però, a ogni buon conto, converrà produrre qui un primo regesto completo (cf. infra, Tav. 2).81 In questa sede desidero rammentare che Guido Zaccagnini, benemerito studioso d’antichità non solo pistoiesi, riservava «ad altro tempo la stampa dell’intera opera» troiana del Bellebuoni secondo la versione di R2,82 e che questi, per la verità, «ne aveva preparata l’edizione critica, che la morte [nel 1943] gl’impedì di dare in luce, ma non di lasciarne in dono il manoscritto alla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, dove tuttora si conserva».83 Purtroppo ho dovuto constatare
79 Per una panoramica introduttiva ma comunque analitica, cf. la scheda filologica sul Tristano Riccardiano a cura di Cristiano Lorenzi nella banca-dati del TLIon (Tradizione della Letteratura Italiana online), consultabile all’indirizzo di rete ‹http://www.tlion.it› (ultimo accesso: 13.07.2018). 80 In NTF 39 si menzionano i due saggi d’edizione di cui ai ni 2 e 4 della Tav. 2 infra; in Gr.st. 284 n. 52 solo il n° 4 (ma le carte non sono le 2r–10r, come erroneamente indicato dal Castellani). Alcune precedenti edizioni del TR sono richiamate anche in Segre (1965: ni 2 e 4 della Tav. 2), Savino (1994, 170–171: ni 1–4 della Tav. 2) e Azzetta (2013, 33: ni 2–4 della Tav. 2). 81 Per le edizioni del TR presenti in TLIOCorpus (ni 1–4 della Tav. 2) cf. Artale (2003, 335–336); cf. anche, al sito di rete ‹http://tlio.ovi.cnr.it/BibVolg/›, i volgarizzamenti di materia troiana annessi al Corpus [ultimo aggiornamento: dicembre 2014]. Prescindo, nella Tav. 2, dal registrare i preliminari saggi d’edizione del TR che ho fornito io stesso in altre sedi (Pregnolato 2017b, 42; i.c.s.–a; cf. supra, §3.1 per quanto riguarda il Prologo da R1). 82 La citazione è da Zaccagnini (1909, 129 n. 1); l’annuncio era stato dato già in Zaccagnini (1907, xxx n. 4: «Intendo occuparmene con più agio, appena ne avrò il tempo, per pubblicarla intera»). 83 Savino (1994, 171 n. 7); dal necrologio dello Zaccagnini steso da Alfredo Chiti (1943, 55) e menzionato anche dal Savino s’apprende che lo studio perduto aveva per titolo Il Volgarizzamento della «Historia destructionis Troiae» di Guido delle Colonne del pistoiese Mazzeo Bellebuoni con introduzione critica.
Paride ed Elena (intero Libro vii dell’HdT)
R1, cc. 124r–129r (confrontato con R2, cc. 24v–29v)
R1, cc. 101r–102v.36 Prologo e attacco della narrazione (confrontate con R2, (prima parte del Libro i dell’HdT: Peleo, cc. 2v–3v.11, escluso Giasone e la missione del vello d’oro) naturalmente l’attacco dell’opera)
R2, cc. 2v–9v.33
(2) Gorra (1887, 443–457)
(3) Gorra (1887, 518–523)
(4) Zaccagnini (1909, 130–143)
Storia del vello d’oro, vicende di Giasone e Medea (Libri i–ii e prima parte del Libro iii dell’HdT)
Troilo e Briseida (fine del Libro xix dell’HdT); Diomedes disarciona Troilo e manda un messo a Briseida (inizio del Libro xx dell’HdT)
Episodio
R2, cc. 55r.29–55v.1, 55v.9–55v.18, 56r.9– 56r.23, 56v.35–57r.5
Ms. e fogli trascritti
(1) K.X.Y. [sc. Niccolò Tommaseo] (1832, 39–41) [poi parzialmente ripubblicato in: Tommaseo (1852, 271)]
Edizione
Tav. 2: Le edizioni parziali del TR.
La numerazione dei fogli di R2 cui ricorre lo Zaccagnini non coincide con quella [c], recente e stampigliata sul cod.: la c. 2r è, per lo Zaccagnini (1909), 1r; la 2v viene numerata 1t [sc. tergo], la 3v 2t, la 3r 2r e così via. Gr.st. 284 n. 52 avverte che si tratta delle cc. 2r-10r, ma sbagliab
Cf. supra, n° 2
Cf. le Aggiunte e correzioni del Gorra (1887, 562–572: 571), la recensione del Morf (1892b, 94 n. 1, 95)a e i cambiamenti apportati dall’Ufficio Filologico dell’Accademia della Crusca/Opera del Vocabolario per OVICorpus (‹http://tlio.ovi.cnr.it/LIVS/livsdoc/ND-dossier%20 filologico/ND-errata%20corrige/ND_Mazz.%20Bell.%20 Storia%20(ed.%20Gorra).htm›). Sbaglia il Gorra (1887, 443 n. 2) a indicare come 122r–127r le cc. di R1 da lui edite (il cod. cominciava per lui a 99r e finiva a 194r), e come 24v–29r quelle di R2 collazionate
Il testo, in quanto edito sull’«Antologia», è stato digitalizzato dall’Accademia della Crusca ed è ora leggibile all’indirizzo di rete ‹http://www.antologia-vieusseux. org/scheda?IDV=45&seq=289&file_seq=570› (ultimo accesso: 31.10.2018)
Note e osservazioni
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Trascrizione d’alcuni estratti narrativi (dal Prologo e dai Libri i–viii, xii, xix, xx–xxi, xxiii–xxiv, xxvi–xxviii, xxx, xxxiii, xxxv dell’HdT; dei Libri ix–xi, xiii–xviii, xxii, xxv, xxix, xxxi–xxxii, xxxiv s’allega un breve riassunto), con particolare riguardo ai personaggi femminili (ibid., 3)
Tesi di Laurea specialistica inedita.c I criteri editoriali in ibid., 21–22; manca un siglario dei mss. (ma s’inferisce che A = R1 e B = R2)
Cf. supra, n° 5. Giustamente nella restitutio textus di R2 vengono invertite dall’editrice le cc. 2r–v e 3r–v per ripristinare il corretto ordine narrativo
Tesi di Laurea dattiloscritta inedita (in 2 tomi con numerazione continuata). La trascrizione è semidiplomatica (i criteri editoriali in ibid., vol. 1, 10–12)
Per il Morf (1892b, 95), «Bellebuoni vaut certainement Ceffi. Sa traduction est plus courte, elle serre de plus près le texte latin; son élocution est plus simple que celle du notaire florentin». Circa la scelta del testimone-guida, il Morf rimproverava al Gorra (1887) d’aver selezionato R1 «sans donner la raison de ce choix, qui est contestable» (ibid., n. 2). Annoto a margine che il saggio d’edizione del TR a cura d’Antonio Benci (1825) cui allude lo Zambrini (41884, 287), in verità, non esiste. b Com’è ovvio per un lavoro realizzato nei primissimi anni del Novecento, anche lo Zaccagnini (1909), come il Gorra (1887), non è filologicamente irreprensibile: oltre a non dichiarare i suoi criteri editoriali, non è nemmeno costante nella loro applicazione. Si notino, fra i molti aspetti critici che si potrebbero registrare: la mancata inversione delle cc. 2v e 2r utile a ripristinare la linea della narrazione; l’omissione dell’indicazione «(c. 3r.)» in corrispondenza dell’attacco della c. 4v e la scorretta collocazione di «(c. 5r.)» (= 6r); l’insufficienza della punteggiatura (peraltro sporadica), che sovente non agevola in nulla la lettura; la non sistematicità nella distinzione 〈u〉 ∼ 〈v〉 etc. A ben vedere, non si tratta di un’edizione diplomatica – l’editore, infatti, integra il testo (cf. [per] la gioia 8v.17 o [fa]milglia 8v.20) e lo corregge, magari senza dichiararlo (e.g. [per] la gioia in luogo di ella groria 8v.17, ciascheduno in luogo di ciasceduno 8v.17, l’erroneo seguidino auere invece di seg(n)\i/ | di no aue(re) 8v.21–22 etc.) –, ma nemmeno di un’edizione critica (non foss’altro che per le frequenti lacune nella trascrizione di R2, come quella della pericope i(n)co(n)tene(n)te si | leuo dellecto et co(n)legier passi 8v.30–31). c La mia riconoscenza alla dott.ssa Miriam Chiappa per avermi fornito il pdf del suo elaborato.
a
R2, passim
La missione del vello d’oro (Libro i e prima parte del Libro ii dell’HdT)
(6) Boccini (1997/1998, R2, cc. 2r–4r.20 vol. 2, 539–549)
(7) Chiappa (2007/2008)
—
(5) Boccini (1997/1998, R1, integrale vol. 1, 49–358; vol. 2, 359–529)
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di persona la dispersione del faldone contenente gli originali dello Zaccagnini, forse a causa d’un banale errore di collocazione.84
5 Osservazioni finali e prospettive future «È probabile che la storia della cultura e della lingua di Pistoia possa ricever maggior luce da approfondimenti sull’opera di volgarizzazione avvenuta in città» (Marrani 2012, 33):85 la mia progettata edizione del TR, corredata di commento linguistico e glossario, è figlia di questa convinzione. In processo di tempo, lo studio sul Bellebuoni ha implicato il sinergico intersecarsi di svariati àmbiti del sapere: pubblicare un volgarizzamento medioevale – che significa, a ben vedere, studiare al contempo due testi, la traduzione e insieme la fonte tradotta – impone di necessità il ricorso alla paleografia, alla storia generale e letteraria, all’ecdotica, alla filologia mediolatina, alla storia della lingua italiana (nel senso anche più ristretto di grammatica storica); pubblicare un volgarizzamento trecentesco sui fatti d’Ilio, per di più, richiede competenze di filologia romanza, alveo nel quale solitamente si tratta la leggenda troiana in ragione dell’enorme risonanza di cui essa godette in terra di Francia. La difficoltà filologica d’emendare in moltissimi loci il testo del Bellebuoni per ripristinare la presunta «volontà d’autore», pertanto, s’è accompagnata a quella del doversi destreggiare con relativa sicurezza in discipline assai differenti fra loro (ma non servirà citare il confortante giudizio del Billanovich per ricordare che «restringono e confondono il paesaggio le siepi che ritagliano i campi di studio»).86 Al netto di questi problemi, molto resta ancora da sondare a integrazione di quanto qui s’espone; l’edizione di tutte le restanti carte di R2 permetterà in futuro
84 A questo proposito, desidero ringraziare con particolare riguardo la dott.ssa Angela Bargellini e la sig.ra Simonetta Ferri, bibliotecarie presso la Biblioteca Comunale Forteguerriana, per la paziente solerzia con cui m’hanno aiutato a cercare il ms. smarrito. In ogni caso, a quanto si legge nell’estratto del TR secondo R2 pubblicato dallo Zaccagnini nel 1909 (cf. Tav. 2, n° 4), se anche oggi si fosse in possesso della sua perduta edizione integrale – che pure resta un importante documento storico-culturale senza dubbio meritevole d’essere riscattato –, sarebbe comunque risultato necessario procedere a un riesame filologico del ms. R2 e a una nuova constitutio textus, e ciò in ragione dell’inattendibilità del procedimento ecdotico operato dallo studioso. 85 Sulla storia tardo-medioevale di Pistoia corre l’obbligo di riferirsi a Herlihy (1972) e a Cherubini (1998; cenni a Mazzeo alle pp. 327–328); cf. Savino (2011) per la produzione libraria a Pistoia dal sec. XII al XV. 86 Billanovich ([1989] 2004, vol. 1, 339); la stessa citazione trovo in esergo a Pellegrini (2016, 7).
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spogli sistematici, attuabili – ci si augura – mediante un’interrogazione elettronica del testo complessivo (meglio ancora se lemmatizzato in GATTOWeb™),87 necessaria per arricchire la banca-dati del TLIO e per completare il profilo grammaticale della traduzione di Mazzeo Bellebuoni;88 la quale, in definitiva, si segnala all’attenzione degli studiosi per una serie abbastanza cospicua di ragioni: per la sua cronologia alta (ambedue i testimoni mss. non sono di molto posteriori all’originale perduto);89 per la sostanziale integrità materiale dei due apografi (forse proprio a causa della scarsa circolazione ch’ebbe il TR, schiacciato dalla diffusione del coevo volgarizzamento dell’HdT di Filippo Ceffi, a. 1324);90 per la considerevole estensione del testo; per il fatto che il Bellebuoni volgarizzò direttamente l’originale latino senza servirsi d’intermediari d’Oltralpe (caso raro, comune in Italia al Ceffi); persino – verrebbe da dire – per i suoi evidenti limiti traduttivi, linguistici e sintattici (sui quali s’è fissato il giudizio equanime del Segre 1965),91 giacché nel periodare incerto del Bellebuoni, talora aggravato dalle
87 Del software GATTOWeb™ (Gestione degli Archivi Testuali del Tesoro delle Origini), di cui è liberamente scaricabile dal sito web dell’OVI la più aggiornata versione 3.3 (‹http://www.ovi.cnr. it/index.php/it/risorse/scarica-il-software-gatto/installazionegatto2›), è stato ideatore Domenico Iorio-Fili («Opera del Vocabolario Italiano – Istituto del C.N.R.»). 88 E manca ancora – malgrado il ruolo di «testo di lingua» da esso assurto nell’Ottocento – un’approfondita analisi linguistica dello Statuto dell’Opera di San Jacopo del ’13, con la quale si contribuirebbe a delineare il quadro anche evolutivo della lingua del Bellebuoni volgare: lo stesso Giancarlo Savino (1994, 179 n. 26), congedando la sua ed. interpretativa e facsimilare del testo, lamentava «il forte rammarico per non aver allegato all’edizione dello statuto una discussione linguistica, che, forse estranea al carattere storico complessivo di questo lavoro, andava comunque riservata agli specialisti». 89 Lucia Gai (1981, 6) ha rimarcato che la volgarizzazione dell’HdT da parte del Bellebuoni coinciderebbe con un momento di grande crescita e affermazione sociale, in Pistoia, delle «grandi famiglie» magnatizie, composte perlopiù da arricchiti desiderosi d’uno status signorile che l’agognato conferimento del titolo cavalleresco avrebbe garantito loro: «un indizio di questa penetrazione in profondità di un modello di vita più raffinato è costituito dalla diffusione, più ampia in questo periodo [sc. metà del Trecento] di nomi propri di persona che si riferiscono ai cicli della Guerra troiana e della Tavola rotonda, come Paris (Paride), Ettore, Orlando», ciò che avrebbe ulteriormente spronato Mazzeo all’impresa della traduzione di Guido: un intento storico-divulgativo, dunque, ma anche il desiderio di cavalcare una moda pistoiese allora imperante. 90 Cf. Lorenzi (2011). 91 Il quale Segre lamentava nel Bellebuoni anche una (troppo?) spiccata aderenza al latino nel lessico del volgarizzamento; ricordo a margine che Luca Serianni (2017) ha da poco avanzato una proposta di tipologia dei latinismi lessicali nell’italiano antico. Con termini dal sapore leggermente romantico, così lo Zaccagnini (1909, 129) commentava la lingua letteraria del Bellebuoni: «[è] un documento del volgare che si corrompe e si sforza d’assumere, rozzamente s’intende, una certa dignità letteraria. Il testo latino, da cui il Bellebuoni tradusse lievemente modificandone il
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non rare sviste di copia dello scriba di R2, lo storico della lingua quasi paradossalmente potrà apprezzare le inclinazioni d’un volgare «in tensione», ovvero la plasticità, magari anche sforzata, d’una lingua prosastica in corso di formazione.92 È in virtù di tutti questi motivi, e forse d’altri ancora, che – per dirla con la metafora «catastale» coniata dal Savino (1994, 170) – «nel condominio delle patrie lettere alcuni millesimi spettano di diritto a ser Mazzeo».
senso, guastò, purtroppo, sulla bocca del buon notaro pistoiese che sapeva di latino il candore e la schiettezza del volgare nativo, e portò di conseguenza un curioso ibridismo di forme latineggianti e di forme volgari che […] ci farà toccare con mano quanto grande differenza vi fosse tra il dialetto parlato dal popolo pistoiese e il linguaggio dei letterati che faticosamente si strascicavano ansimando dietro le forme solenni del latino». 92 A proposito dello studio della prassi scrittoria dei volgarizzatori, Giovanna Frosini (2016, 80–81) ha rimarcato la centralità, tanto per il filologo quanto per il linguista, «di entrare nell’officina della traduzione e comprendere con quale disponibilità di materiali, con quali operazioni tecniche e pratiche, con quale grado di autocoscienza si poteva realizzare il volgere in volgare». Per quanto concerne il Bellebuoni, basterà la lettura di pochi estratti da R2 per riuscire a tracciare il profilo d’un autore in effetti ancora primitivo: scarsamente attrezzato, come pare, di strumentazione sintattica, l’unica ipotesi traduttiva accarezzabile fu per lui quella ad verbum, una «versione parola per parola» che, in più d’una circostanza, può rivelarsi anche priva «del necessario adattamento alle strutture fono-morfologiche della lingua d’arrivo» (Cella 2011, 1598). Già il Segre (1965), come si diceva, aveva còlto la nebulosità della sintassi di Mazzeo («è piuttosto nell’ambito sintattico che lo stile del B.[ellebuoni] s’ingarbuglia o s’annebbia assai spesso»), e fu forse liberale nel ritenere che il Bellebuoni esercitasse nello scrivere «una misura linguistica abbastanza giudiziosa rispetto alle attitudini del volgare»; d’altronde, se Franca Ageno (1964, 490) poté parlare d’«incapacità costruttiva» a proposito del Trecentonovelle del Sacchetti, non s’avrà remore oggi nel ripiegare il medesimo giudizio sull’infinitamente più modesto Bellebuoni, poco «narrativo» – nonostante l’intreccio anche avvincente dei fatti trattati – e non di rado oscuro. Nel caso particolare del TR, infatti, vige l’equazione per cui traduzione fortemente letterale corrisponde ad aderenza pedissequa e servile ai giri periodali di Guido Giudice, e può francamente stupire la constatazione che un notaio d’alto rango, allenato a masticare il pane quotidiano del latino giuridico e risoluto a divulgare nel proprio vernacolo un’opera da lui ritenuta meritevole di diffusione, s’arrendesse così di frequente a una resa volgare dell’HdT che poteva sfiorare l’incomprensibilità da parte del fruitore, fino talora al sacrificio della coesione, della chiarezza e della consequenzialità logica, immolate sull’altare di un’arrendevole subordinazione al modello. Sulla sintassi degli antichi volgarizzatori dai «classici» (antichi o medioevali) conservano una loro vitalità i vecchi, pioneristici appunti di Max Pfister (1978, 81–86); sui latinismi sintattici nella prosa delle Origini, nient’affatto episodici nel Bellebuoni ma sui quali qui per il momento si sorvolerà, cf. ora l’amplissima trattazione di Davide Mastrantonio (2017). Per una propedeutica alla sintassi dei volgarizzamenti cf. le osservazioni della Cella (2013, 17–34, utili anche per la prosa d’arte delle Origini, oltre che per la «prosa media») e quelle recentissime e informate d’Elisa De Roberto (2017).
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Indici Avvertenza generale. Sono esclusi dall’indicizzazione sia i nomi in lingua latina e quelli letterari o di fantasia (e.g. Achille), sia i rinvii bibliografici citati nel corpo del testo, nelle note a piè pagina e nei Riferimenti in calce a ciascun contributo. Le sigle con cui alcuni manoscritti possono essere nominati si riferiscono ai soli contributi compresi nel presente volume; anche alcune segnature di codici si trovano elencate qui di séguito in una forma normalizzata che può risultare leggermente diversa da quella adottata in alcuni dei saggi componenti la miscellanea (in particolare, s’è scelto d’inserire un punto per separare cifre da cifre e uno spazio tra lettere oppure fra lettere e cifre).
1 Indice dei nomi Acciaiuoli Niccolò IX, 197–199 Adam von Ammergau 92 n. Adriano Publio Elio Traiano 292 Agostino Aurelio, santo 15, 237 Aimone di Faversham 8 Albertano da Brescia 160 n., 320 e n. Alberti Leon Battista 153 Alessandro III, re di Macedonia, detto Magno 250 Alessio, santo 20–21 Alfonso V d’Aragona, re di Sicilia, re di Napoli 93 Alfonso X il Saggio, re di Castiglia e León 26, 41, 50 n., 220 n. Alighieri Dante 9–10, 200, 244, 273, 275 Alluccio da Pescia, santo 6 Anastasio I, imperatore d’Oriente 283 Andreoni Armando 353 Anonimo romano 211, 217, 225, 226 e n. Antonio abate, santo 15 Antonio Marco, il triumviro 289 Apollonio di Tiro 353 Aristotele 274 Armannino da Bologna 275, 284, 294 Arnaldo da Villanova 50 Assmann Aleida 214 n. Atto, santo 325 Augusto Gaio Giulio Cesare Ottaviano, imperatore 247, 274–275, 277, 289–292 Azzetta Luca 324 Bachtin Michael 215 Baglioni, Giovanni (Giannino) 287 n. Barbato da Sulmona 206 Barbato Marcello, 215 n. Barbieri Luca X, 337 Barbieri Edoardo 188 n., 191 n. Bargellini Angela 358 Baroni Pellegrino 294 Bartolo da Sassoferrato 64 Bartolomeo Anglico 22 n. Bartolomeo da San Concordio 90, 238, 255, 268 Bartolomeo di Neocastro 176 https://doi.org/10.1515/9783110611113-015
Bartromei Guillielmo 327 Bartromei Michele 327 Basilio di Cesarea, detto il Grande, santo 12 Bassetti Massimiliano 319 n. Beccaria, Tesauro 173 Beda, detto il Venerabile, santo 221 Belcalzer Vivaldo 22 n. Belcari Feo 88 Bellebuoni Giovanni 320, 322, 323 e n., 324–327, 346–347 Bellebuoni Mazzeo XI, 319–322, 323 e n., 324, 325 e n., 326 e n., 327, 328 e n., 329, 331, 332 n., 338 n., 339 e n., 340, 344, 345 e n., 346–347, 348 e n., 349, 353–355, 357, 358 e n., 359 e n., 360 e n. Benedetto da Norcia, santo 12, 48 Benincà Paola 153 Benoît de Sainte-Maure 300, 316, 329 n., 330 n., 332 n., 333, 334 n., 335 n., 336–337 Benzo d’Alessandria 330 n. Berger Samuel 86, 96 Bernardo di Chiaravalle, santo 52 Bernardo di Chiaravalle, santo (pseudo Bernardo) 199 Berti Sara 200 Bertoletti Nello 155 n. Bertucci Fredi 327 Billanovich Giuseppe 202, 358 Binduccio dello Scelto 211, 217, 224–225, 315 n., 333 e n., 338 Blasio Maria Grazia 273 n. Boccaccio Giovanni IX, XI, 9–10, 199, 202 n., 299–302, 315, 316 e n., 317, 339 n. Boezio Anicio Manlio Torquato Severino 89 Bonaventura da Bagnoregio 11–12 Bonifacio VIII, papa (Benedetto Caetani) 278, 280–281 Bonifacio, vescovo di Ferentino, santo 73 Bonsignori Giovanni 289 e n., 291 Bonvesin da la Riva VIII, 19, 21–22, 23 e n., 24, 25 e n., 26, 27 n., 28, 31 e n., 32–33, 35–36, 37 e n., 63, 76 Borghini Vincenzio 289, 313
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1 Indice dei nomi
Brambilla Simona IX Brucioli Antonio 92 Bruner James Dowden 320 e n., 321 Bruni Leonardo, detto Leonardo Aretino 199–200, 274 n., 275, 278 n., 346 n. Bruto Marco Giunio 289 Burgassi Cosimo 273 n. Caligola 277 Campi Giuseppe 345 n. Campulu Giovanni 49 Canali Luca 330 n. Canneti Caterina 273 n. Canzio Nicoletta 330 n. Cappi Davide 227 n., 333 n. Carlesso Giuliana 339 e n., 344 e n. Carlo I d’Angiò, re di Sicilia IX, 174–175, 180, 182, 186 n., 188–189, 190 e n., 191, 193 e n. Carlo IV di Lussemburgo, imperatore (I come re di Boemia) 286 Cassio Gaio Longino 289 Castellani Arrigo 320 n., 321, 345 n., 347, 351 n., 355 n. Castracani Castruccio 323 Cataruza da Pesaro 164 Caterina d’Alessandria, santa 20 Catilina Lucio Sergio 248, 255, 258, 259 n., 260, 263–264, 274 Catone Marco Porcio, detto Uticense 274 Cavalca Domenico 11, 49 e n., 53, 55–56, 61, 63 e n., 65, 191 Ceccano Annibaldo da 278, 281 Ceccano Giovanni II da 281 Ceccano Giovanni III da 281 Ceccano Goffredo da 281 Ceccano Margherita da 278 e n. Ceccano Tomasio da 281 Ceccherini Irene 323 Ceffi Filippo 276 e n., 294 n., 300 n., 314, 340–341, 344 n., 345 n., 357, 359 Cella Roberta IX Certeau Michel de 214 n. Cesare Gaio Giulio 274 e n., 275, 276 e n., 277, 289–293 Cesario di Heisterbach 48 n. Chiappa Miriam 357 Cicerone Marco Tullio X, 200, 248, 255
Cinico Giovan Marco 198 Cino da Pistoia 322 Ciociola Claudio 273 n. Ciriaco, versificatore della Bibbia 94 n. Claudio, imperatore 277 Codagnello Giovanni 244–246 Cola di Rienzo 285–286, 287 e n. Colletta Pietro 175 e n. Colombini Giovanni 88–89 Colombo Michele IX, 319 n. Colonna Pietro 281 Colonna Sciarra 281 Colonna Stefano 281 Coluccia Rosario 215 Compagni Dino 47, 77, 211, 217, 225–226, 227 e n., 237 Conon de Béthune 311 Contini Gianfranco 23, 26, 35 Coppini Donatella 197 Cornagliotti Anna 86, 93 n. Cornelio Nepote 332 e n., 333, 334 e n. Costantino, imperatore 291 e n., 292 e n. Cristoforo, santo 21 D’Achille Paolo, 215 n. D’Acunto Nicolangelo VII D’Agostino Alfonso 344 n. Davanzati Bernardo 153, 347 e n., 352–353 Davanzati Bostico 352 De Blasi Nicola 338, 341, 345 n. De Caprio Chiara IX, 215 n. de’ Dazi Giovanni 21 De Luca Giuseppe 85–87 De Robertis Teresa 348 De Roberto Elisa VIII, 9, 22 e n. de’ Rossi Nicolò 165 de’ Rossi Pino 199 de Rubeis Rainaldo 281 Del Balzo Angilberto 90 n., 91 del Bene Lanfranco 320 n. del Grazia Soffredi 320 e n. Delcorno Carlo 3, 12 Della Bella Giano 241 della Scala Cangrande 330 n. delle Colonne Guido XI, 275, 316, 319, 321–322, 329 e n., 332 n., 335 e n., 336 e n., 337 e n., 339, 344 n., 345 n., 346–347, 353–354, 359 n., 360 n.
1 Indice dei nomi
Dello Russo Michele 340 Diacciati Silvia 237 n., 239 n. Divizia Paolo 200 Domenico di Guzmán, santo 13 Doni Anton Francesco 201 Druso Maggiore 277 Ducati Alice 319 n., 339 n. Duccio di Gano 52 Elena madre di Costantino, santa 291 n., 292 n. Eleonora d’Angiò, regina di Sicilia 49–50, 63 Elia da Cortona 15 Elia, profeta 74 Eliseo, profeta 74–75 Elliott Aaron Marshall 320 Enrico VII di Lussemburgo 286–287, 289, 292 Eusebio di Cesarea 220 Faini Enrico X, 268 n. Federico II, imperatore 174, 176, 245 Federico III d’Aragona, re di Sicilia 50, 175, 193 Feo Michele 197 Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli 198 Ferrari Mirella 155 n., 157 Ferri Simonetta 358 n. Ficino Marsilio 200 Filelfo Francesco 198, 200 Filippo da Santa Croce 228, 261 Flacco Lucio Valerio 266 Folena Gianfranco 212–213 Formentin Vittorio 91 n., 155 n. Franceschini Ezio 24–26, 37 Francesco I da Carrara, signore di Padova 197 Francesco d’Assisi 7–8, 11–14 Franco Niccolò 201 Froissart Jean 212 Fucci Vanni 328 Gasca Queirazza Giuliano 86 Gautier de Coincy 26, 41, 50 n. Genette Gérard 222 Gerardo di Frachet 15 Gervasio di Tilbury 44 Gesù Cristo 151, 157–160, 162, 164
377
Ghazan, ilkhan di Persia 164 n. Ghinazzone da Siena, detto Oriente Senese 93 Giacomino da Verona 150 Giacomo il Maggiore, santo 325 Giamboni Bono X, 211, 217 e n., 227, 228 e n., 237–238, 239 e n., 241 n., 242–244, 246–252, 261, 268 e n., 276 Gidino da Sommacampagna 150–151 Gioacchino da Fiore 188 n. Giordano da Pisa 13, 15, 95 e n. Giordano di Sgurgola 281 Giovanni dalle Celle 199 Giovanni da Parma 14 Giovanni di Salisbury 212 Giovanni Battista, santo 312–313 Girolami Remigio de’ 250 Girolamo, santo 220, 275 Giulia, sorella di Gaio Giulio Cesare 277 Giuliari Giovan Battista Carlo 150–152 Giuseppe, figlio di Giacobbe 86 Giusti Maria 322 n. Giusto, padre di Ormisda 283 Gobi Giovanni 312 n. Goffredo da Bussero 21 Gonzalo de Berceo 26, 41, 50 n. Gozzi Gozzo 87, 89 Gozzi Maria 339 n. Gracco Gaio Sempronio, tribuno della plebe 247–249 Gracco Tiberio Sempronio, tribuno della plebe 247–249 Gregorio di Tours 47, 51 Gregorio Magno, santo VIII, 23 n., 46, 48 e n., 53 n., 54 e n., 56–57, 59, 60, 62–63, 65 e n., 66, 67, 70, 72–75, 289 n. Grévin Benoît 174 n. Griffin Nathaniel Edward 321 n. Grioni Franceschino 165 n. Guadagnini Elisa 173 n. Gualdo Riccardo 215 n. Guenée Bernard 212–213 Guernes de Pont-Sainte-Maxence 20 Guevara Iñigo 93 Guglielmo da Volpiano 5 Guibert de Nogent 51 Guido da Pisa 273, 275–276, 284, 294
378
1 Indice dei nomi
Hugues Farsit 51 Iacopo da Varazze 34–35 Ilarione di Gaza, santo 13 Innocenzo III, papa (Lotario dei Conti di Segni) 6, 7 e n. Iorio-Fili Domenico 359 n. Ippocrate di Coo 310 Isidoro di Siviglia, santo 221 n. Jean de Haute-Seille 312 Jean le Conte 31 n. Jenson Nicolas 92 n. Jung Marc-René 336 n., 341 Koch Peter 166 Lami Giovanni 352 n. Lancia Andrea 276, 300, 323 Latini Brunetto 173, 239, 256, 257 n., 259, 265 n., 268 e n., 269, 270 Laurent Françoise 20 Lavagna, Filippo Cavagni di 52 Lazzàri Rustichello de’ 322 n. Leca Marco 267 Leonardi Lino 86–87, 90 Lepido Manlio Emilio 266 Licht Tino 24 Livia Drusilla 277 Livio Tito 89, 198, 220–221, 228–229, 270, 285 Lorenzi Biondi Cristiano 273 n. Lorenzi Cristiano X, 249 n., 355 n. Lorenzo, padre di Cola di Rienzo 287 Lorenzo, santo 20 Lucano Marco Anneo 89, 220, 276 n. Ludovico IV, imperatore, detto il Bavaro 323 Luigi IX, re di Francia, santo 186 n. Luigi di Taranto, re titolare di Sicilia IX, 197–198 Macario il Grande, santo 15 Maggini Francesco 256–257 Malatesta Malatesta IV 334 Malerbi Nicolò VIII, 85, 91–92, 96 Manni Paola 322 n. Manzi Adele 30 Marcello Marco 266
Marcello (pseudo Marcello) 191 Marco di Ghino da Prato 346 Margherita, santa 20–21 Maria di Francia 311 Maria Egiziaca, santa 21 Maria Maddalena, santa 151 Maria Vergine 25, 50, 51, 52 e n., 62, 70, 72, 75, 76, 160, 161, 327 Mario Gaio 266 Marmochino Sante 92 Marogna Maria Antonietta 155 n. Marsili Luigi 199 Martino IV, papa (Simon de Brion) 188 Martino V, papa (Ottone Colonna) 278 Martino Polono 220, 275–276 Masi Giuseppe 353 Massimiano, vescovo di Siracusa 48 n. Massimo di Trevi 281 Matalena, madre di Cola di Rienzo 287 Matasci Joëlle 217 Mattia d’Anagni 281 Meiss Millard 10 Menichetti Caterina 86 Menocchio, cf. Scandella Domenico Metello Quinto 266 Michele da Piazza 175 n. Migliorini Bruno 153, 322 n. Milani Giuliano 239 n.–240 n., 244 Mineo Ennio Igor 244–245 Mino da Colle 177 Minucio Rufo Marco 249 Monachi Ventura 302 Monti Carla Maria 201 e n. Montuori Francesco 215 n. Mordenti Raul 225 n. Morf Heinrich 344 n., 357 Mussafia Adolfo IX, 150–153 Natale Sara 86–87, 90 Neckam Alessandro 312, Neri Umberto 96 n. Nerone, imperatore 184, 188, 191, 193, 275, 276 n., 277, 285 Niccolò V, papa (Tomaso Parentucelli) 282 n. Nicola di Nardò 90 n. Nicolò di Lira 188 n. Nigel di Canterbury 51
1 Indice dei nomi
Oddone di Cluny 5 Oesterreicher Wulf 166 Omero 224–225, 329, 331, 333–334 Omobono di Cremona 6 Oriente Senese, cf. Ghinazzone da Siena Ormanni Agnolo 327 Ormisda, papa 283 Orosio Paolo X, 217, 220–222, 227–228, 237 e n., 238, 243–244, 246–248, 249 e n., 250–251, 261, 268, 276 Orsini Napoleone 285 Ottokar Nicola 248 Ovidio Nasone Publio 22 n., 89, 221 n., 300 n., 305, 329–330 Pagani Giuseppe Maria Gaetano 352 Paolo Diacono 276 Paolo, santo 12, 48, 191–192, 291 n. Passavanti Iacopo 90 Pellegrini Paolo VIII, 155 n., 319 n. Petoletti Marco 202 n., 319 n., 330 n. Petrarca Francesco IX, 197–201, 330 e n. Pier Damiani 5, 12 Pier della Vigna 176 Pieri Paolino 230 Piero di Vaschino 341 Pietro, vescovo di Alessandria, santo 283 Pietro da Barsegapè 37 n. Pietro da Napoli 94 n. Pietro Comestore 23 n. Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena, granduca di Toscana 325 Pietro, santo 48, 158–159, 162, 164, 191, 283, 291 n. Pilato Leonzio 329 Pipino Pietro 278 Plinio il Vecchio 198 Plutarco 198 Poggiali Gaetano 86 e n. Polono Martino 220, 275–276 Pomaro Gabriella 155 n., 157, 319 n., 345 n., 351 n. Pomian Krzysztof 232 Porcari Stefano 200 Pregnolato Simone XI, 225 n., 294 n. Rainaldo di Supino 281
379
Rainuzzi Paolo 285 Ramello Laura 86 Ranieri da Pisa 6 Ranieri, vescovo di Volterra 177 Raterio di Verona 312 Rauty Natale 322 n. Redi Francesco 87 Rehberg Andreas 273 n. Revest Clémence 201 n. Reynolds Leighton Durham 200 Rezzi Luigi Maria 256 e n. Riccardi Gabriello 352 Ricci Ardingo 93 Ricci Gabriele 338 Ricci Romigi 93 Ricotta Veronica 273 n. Roberto Grossatesta 14 Romualdo Salernitano 282 n. Rossi Vittorio 197–198, 201 e n. Russo Camilla 200 n. Rustici Francesco 92 Sabatini Francesco 345 n. Sacchetti Franco 360 n. Salimbene de Adam 14–15 Salimbeni Benuccino de’ 327 Sallustio Crispo Gaio 220, 248, 263, 332 n., 334 n. Salomonio Ottaviano 52 Salutati Coluccio 334 Salvioni Carlo 149, 152–153 Sanzanome, giudice, autore dei Gesta Florentinorum 245 e n., 246 Savino Giancarlo 327 n., 355 n. Scandella Domenico, detto Menocchio 294 Scarpini Cristina 94 n. Schweickard Wolfgang 319 n. Scipione Nasica Publio Cornelio 269 Segre Cesare 23 n., 212 n., 323 n., 359 n. Seibt Gustav 226, 235 Semiramide, regina d’Assiria 250 Seneca Lucio Anneo 270 Sercambi Giovanni 230 Simintendi Arrigo 293 Simonetta Francesco, detto Cicco 52 Stefanini Ruggero 23 n.
380
1 Indice dei nomi
Stefano di Borbone 51 Stussi Alfredo 151–152 Svetonio Tranquillo Gaio 191, 228 n., 293 Syme Ronald 247 n., 248 n. Taziano di Siria 149 Tedici Michele 327 Tommaseo Niccolò 345 n. Tommaso d’Aquino 64 Tommaso da Celano 13 Tommaso di Eccleston 8, 14 Tommaso di Morolo 281 Tuttle Edwuard Fowler 153 e n. Ugurgieri Andrea 333 n. Vaccari Alberto 86 Vaccaro Giulio X, 217 n. Valerio Massimo 89, 198, 261 Valerio Massimo Manio 247 n. Vàrvaro Alberto 211 n., 212–213 Vauchez André 20, 21 e n. Vegezio Renato Publio 237, 238 e n., 242–244, 250 Venanzio Fortunato, santo 47
Vesconti Jacopo 327 Vidmanová-Schmidtová, Anežka 23, 24 e n., 25 e n., 36 Villani Giovanni VIII, 47, 77–79, 174, 211, 218, 219 n., 221, 225–226, 227 n., 230, 282 Villani Matteo 217 Vincenzo di Beauvais 51, 220 Vindelino da Spira 91 Violante Cinzio 14 Virgilio Marone Publio 89, 198, 221 e n., 229, 330 Visconti Luchino 197 Vittore di Capua, santo 149 Volcacio Tullo Lucio 266 Wilhelm Raymund VIII, 155 n. Zabbia Marino 220, 223 n. Zaccagnini Guido 355 e n., 356, 358 e n. Zaggia Massimo VIII, 155 n., 276 n. Zambrini Francesco 150 Zinelli Fabio 86 Zorzi Andrea 240 n. Zumthor Paul 155–156, 167
2 Indice dei manoscritti e dei documenti d’archivio ADMONT (STEIERMARK, AUSTRIA), Stiftsbibliothek Admont. 664: 29 n. BERGAMO, Biblioteca Civica Angelo Mai e Archivi storici comunali MA 460: 157 MMB 808 (olim Gab. Λ I 20) (= Bgm2): 201–202, 204–207 BERLIN, Staatsbibliothek Hamilton 67: 256 e n. BOLOGNA, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio A 252: 94 n. CAMBRIDGE (MASSACHUSETTS), Harvard University, Houghton Library Riant 87: 288 n. CAMBRIDGE (UK), University Library Additional 6685 (= AntTestCantabr): 85, 87, 89, 96 n., 97 e n., 100, 104, 108, 112, 116, 120, 124, 128, 132, 136, 140, 144 CATANIA, Biblioteche riunite Civica e A. Ursino Recupero C 65: 273 CHICAGO, Newberry Library f 93: 288 n. COPENAGHEN, Kongelige Bibliotek Thott 128: 51 DURHAM, Cathedral Library C IV 24 (= D): 176, 181, 182 n.–187 n.
HARVARD, Harvard College Library Lat. 35: 321 n. FIRENZE, Archivio di Stato Diplomatico Pistoia, Comune (e S. Jacopo, Opere) Normali, 7 maggio 1282: 323 n. Normali, 22 dicembre 1298: 323 Riccardi Filza 237: 352 FIRENZE, Biblioteca Marucelliana C 128: 256 e n. C 140: 288 n. FIRENZE, Biblioteca Medicea Laurenziana Acquisti e Doni 399: 288 n. 424: 340 785: 94 n. Ashburnham 1102 (= AntTestAshb): 87, 88 n., 96 n., 97 e n., 100, 104, 108, 112, 116, 120, 124, 128, 132, 136, 140, 144 Conventi Soppressi 122: 256 n.–257 n. Gaddi reliqui 18: 256 n. 35: 340 45: 340 71: X–XI, 299, 300 e n., 301, 304–305, 307 n., 308, 310, 312–313, 315, 316 e n.–317 e n., 338 n. Medicei Palatini 115: 288 n. 153: 342 Plutei 43.21: 288 n. 61.22: 291 n. 61.26: 256 n. 89 inf.–44: 340 89 inf.–56: 256 n.
382
Redi
2 Indice dei manoscritti e dei documenti d’archivio
91 sup. 52: 277 n. 91 sup. 53: 290 n.
113: 256 n. Segni 4: 288 n. FIRENZE, Biblioteca Moreniana Moreni 102: 352 FIRENZE, Biblioteca Nazionale Centrale Banco Rari 8: 92 e n. 50: 202 e n. Capponi 108: 282 Conventi soppressi C 3.626 (= AntTestGozzi): 87, 96 n., 97 e n., 100, 104, 108, 112, 116, 120, 124, 128, 132, 136, 140, 144 Fondo principale II.i.19: 288 n. II.i.363: 288 n. II.i.93: 256 n. II.ii.23: 256 n.–257 n. II.ii.49: 291 n. II.ii.74: 277 n., 291 n. II.ii.87: 198 II.iii.328: 256 n. II.iv.32: 278 n. II.iv.45: 333 n. II.iv.46: 341 II.iv.107: 94 n. II.iv.128: 256 n. II.iv.279: 288 n. II.iv.280: 289 n. II.iv.281: 289 n. II.ix.27: 198 Magliabechiani II.iv.49 (olim IV.49): 344 n. XXIII.129: 289 n. XXIII.136: 256 n. XXXIV.1: 256 n. XXXIX.49 (= MaglMiscColombini): 88, 95, 97 n., 98, 102, 106, 110, 114, 118, 122, 126, 130, 134, 138, 142, 146
Nuovi Acquisti 1045: 94 n. Palatini 1: 86 n. 126: 94 n. 459: 289 n. 471: 289 n. 502: 343 539: 256 e n. 568: 340 576: 94 n. 591: 282 674: 289 n. Panciatichiani 32: 313 41: 94 n. 51: 94 n. 53: 256 n. 55 (olim 88): 340 64: 289 n. 65: 291 FIRENZE, Biblioteca Riccardiana 1095 (olim Gabriello II.iii.380) (= R1): 319, 331 e n., 332 n., 339 n., 340, 344 n., 345 e n.– 347 e n., 348–349, 354, 355 n., 356, 357 e n. 1105: 256 n. 1252: 87 n. 1265: 94 n. 1279: 94 n. 1311: 341 1380: 94 n. 1513: 256 n. 1538: 256 n. 1550: 291 e n. 1552: 256 n. 1553: 290 n. 1563: 256 n. 1628: 94 n. 1655: 93 1672: 94 n. 1821: 340 1900: 341 1954: 289 n. 2062: 289 n.
2 Indice dei manoscritti e dei documenti d’archivio
2197 (= R): 175, 178, 181, 183–184, 186–187 2268 (= R2): 319, 321 n., 324, 331, 339 n., 340, 344 n., 345, 347 e n.–349 e n., 350, 351 n., 352, 354–356, 357 e n.–358 e n., 360 e n. 2418: 256 n. 2543: 355 3824: 352 4072: 256 n. FULDA, Hochschul- und Landesbibliothek 100 Bonifatianus 1: 149 KÓRNIK (POLONIA), Polska Akademia Nauk, Biblioteka Kórnicka 633: 256 n.–257 n. LYON, Bibliothèque municipale 1367: 87 n., 91 1368: 87 n., 91 LEIPZIG, Universitätsbibliothek 1269: 201 n., 205 LONDON, British Library Additional 15477: 321 n. 16437: 256 n.–257 n. 22155: 321 n. 36671: 321 n. Egerton 1866: 289 n. Harley 4123: 321 n. 3436: 202 Royal 15 C xvi: 321 n. 20 D I: 300 n. LOS ANGELES, University of Southern California, Hoose Library 091 A717e: 202 MANCHESTER, John Rylands Library Lat. 178 (olim 198): 202
383
MILANO, Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana Trivulziani 92: 21 93: 21 545: 94 n. MILANO, Biblioteca Ambrosiana P 256 sup. (= Ambr1): 201, 204–206 Q 36 sup.: 24 MODENA, Biblioteca Estense e Universitaria Alpha G 5.10 (Ital. 382): 94 n. Alpha H 3.6 (Ital. 437): 94 n. MILANO, Biblioteca Nazionale Braidense Morbio 3 (= M): 273, 291 MÜNCHEN, Bayerische Staatsbibliothek Clm 5350: 201 n., 205 NAPOLI, Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria XX C 5: 282 XXXII D 14 bis: 282 NAPOLI, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III» XIV D 7: 282 San Martino I.63: 282 NEW HAVEN (CONNECTICUT), Yale University, Beinecke Library 197: 202 NEW YORK, Morgan Library & Museum M 973: 217 n., 229–231, 282 OLOMOUC, Státní oblastní archiv C O 418: 202 OXFORD, Balliol College Arch. E 2.4 (Coxe 126): 201 n., 204
384
2 Indice dei manoscritti e dei documenti d’archivio
OXFORD, Bodleian Library Canonici It. 94: 94 n. 126: 94 n. 133: 342 Laud. Misc. 503: 197, 202 PADOVA, Biblioteca Antoniana 47 scaff. II: 256 n., 342 PALERMO, Biblioteca Centrale della Regione Siciliana I D 14 (= P): 217 n., 230 PALERMO, Biblioteca Comunale 2 Qq E 1: 341 PALERMO, Società Siciliana di Storia Patria I B 25: 176 e n. PARIS, Bibliothèque de l’Université 229 (perduto): 203 PARIS, Bibliothèque nationale de France Italiens 1 (= BibbiaNap): 85, 90–91, 93 n., 96, 97 e n., 98, 101, 105, 109, 113, 117, 121, 125, 129, 133, 137, 141, 145 2: 90–91 3: 91 4: 91 85: 93 109: 94 n. 120: 341 301: 282 303: 282 438: 273 617 (= G): 341–342 1095: 289 n. Latins 2191: 198 5694: 321 n. 5695: 321 n. Nouvelles acquisitions 503: 52 n.
PARMA, Biblioteca Palatina Palatini 313: 289 n. Parmensi 1043: 341 PISA, Archivio di Stato Alliata 65: 341 PISTOIA, Archivio di Stato Opera di San Jacopo 31: 328, 348 n. 237: 319, 324–325 PISTOIA, Biblioteca Comunale Forteguerriana A 53: 320 PRAHA, Národní knihovna Roudnice VI Fb 13 (Cim. J 342): 203 PRATO, Archivio di Stato Spedali 2607: 88 ROMA, Archivio di Stato 522: 289 n. ROMA, Biblioteca Angelica 1552 (= AntTestAng): 85, 90, 91, 97 e n., 98, 101, 105, 109, 113, 117, 121, 125, 129, 133, 137, 141, 145 1553 (= AntTestAng): 90, 91, 97 e n., 98, 101, 105, 109, 113, 117, 121, 125, 129, 133, 137, 141, 145 1554: 94 n. ROMA, Biblioteca Casanatense D I.4: 289 n. ROMA, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana 43 D 9 (1827): 94 n. 44 C 8 (olim Rossi 42) (= C): 173–178, 181–187, 256 n.
2 Indice dei manoscritti e dei documenti d’archivio
44 D 24 (olim Rossi 43): 343 44 E 27: 289 n. SIENA, Biblioteca Comunale degli Intronati F III 4 (= AntTestSen): 85, 88, 96 e n., 97 n., 98, 100, 104, 108, 112, 116, 120, 124, 128, 132, 136, 140, 144 I V 5 (= LibriStorATSen): 88, 97 n., 98, 102, 106, 110, 114, 118, 120, 124, 130, 134, 138, 142, 146 I V 28: 49 UDINE, Biblioteca Arcivescovile 108: 342 UPPSALA, Universitetsbiblioteket C 805: 94 n. VATICANO (CITTÀ DEL), Biblioteca Apostolica Vaticana Barberiniani latini 3665: 94 n. 3953: 339 n. 4012: 198 4032: 52 n. 4045: 256 n. LVI.56: 288 n., 289 Chigiani L VI.230: 198 L VII.267 (= Ch2): 173–174, 176 e n., 177–182, 185–187, 256 n. L VII.269: 198 M V.117: 288 n., 289, 290 n. M VI.189: 288 n.
385
Latini 4601: 281 n., 282 4821: 94 n. 7208: 94 n. Ottoboniani latini 1554: 201 2358: 203 Palatini latini 1596: 203 Vaticani latini 3355: 201 VENEZIA, Biblioteca Nazionale Marciana It. II.13 (4937): 94 n. VI.52 (6029): 94 n. VI.81 (5975): 94 n., 343 VI.285 (6192): 94 n. VIII.26 (6090): 256 n.–257 n. XI.126 (6916): 289 n. Z 13 (4744): 150 Z 18 (4793): 256 n. Z 47 (4805): 342 Lat. XIV.165 (4254): 199 VERONA, Biblioteca Civica (oLiM Comunale) 753: 150 n. WIEN, Dominikanerkloster 136 (Dom2): 201 n., 205 WIEN, Österreichische Nationalbibliothek 3314: 94 n.