Storia della filosofia antica. L'età ellenistica [Vol. 3] 8843080458, 9788843080458

L'opera non è rivolta solo agli specialisti, ma propone uno strumento di studio e di informazione culturale accessi

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Italian Pages 278 [280] Year 2016

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Storia della filosofia antica. L'età ellenistica [Vol. 3]
 8843080458, 9788843080458

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I quattro volumi di questa nuova Storia della filosofia antica offrono il quadro critico più completo e aggiornato del pensiero filosofico e scientifico greco-romano oggi disponibile in lingua italiana. L'opera non è rivolta solo agli specialisti, ma propone uno

Mario Vegetti è professore emerito dell'Università di Pavia, dove ha insegnato Storia della filosofia antica.

Franco Trabattoni

strumento di studio e di informazione

è professore ordinario di Storia

culturale accessibile a un pubblico colto

della filosofia antica all'Università

e agli studenti. Il suo intento consiste

degli Studi di Milano.

infatti nel riportare alla luce, e riproporre all'attenzione della cultura contemporanea, quel ricco giacimento di razionalità critica, di opzioni etico-politiche, di prospettive teoriche, che quel pensiero ha elaborato con una

Emidio Spinelli è professore ordinario di Storia della filosofia antica alla Sapienza Università di Roma.

potenza argomentativa e una libertà intellettuale che hanno pochi paralleli nella storia della filosofia occidentale. Chiarite le coordinate della categoria storiografica di .. ellenismo", il volume espone le vicende delle ricerche tanto scientifiche quanto filosofiche del periodo fra

rv e r

sec. a. C.:

dalla medicina ellenistica e da Euclide a Epicuro; dallo stoicismo allo scetticismo accademico, a Pirrone e alla rinascita pirroniana; dalle tendenze peripatetiche alla ··restaurazione" platonica di Antioco di Ascalona, senza trascurare le profonde innovazioni riscontrabili in ambito epistemologico e il difficile equilibrio realizzatosi grazie all'incontro della cultura greca con quella romana.

Progetto grafico, Falcinelli & Co. ln copertina, Gruppo del Laocoonte (particolare). copia in marmo realizzata tra 1 secolo a.C. e 1 secolo d.C. di un originale bronzeo clel 150 a.C. circa.

Frecce·

211

Piano dell'opera

Volume I. Dalle origini a Socrate A cura di Mauro Bonazzi Contributi di: Mauro Bonazzi, Filippo Forcignanò, Francesco Fronterotta, Emidio Spinelli, Franco Trabattoni, Mario Vegetti

Volume II. Platone e Aristotele A cura di Franco Trabattoni Contributi di: Elisabetta Cattanei, Riccardo Chiaradonna, Francesco Fronterotta, Alberto Jori, Franco Trabattoni, Mario Vegetti

Volume III. L'età ellenistica A cura di Emidio Spinelli Contributi di: Thomas Bénatoui:l, Mauro Bonazzi, Riccardo Chiaradonna, T iziano Dorandi, Carlos Lévy, Federico Petrucci, Emidio Spinelli, Mario Vegetti, Francesco Verde

Volume IV. Dalla filosofia imperiale al tardo antico A cura di Riccardo Chiaradonna Contributi di: Francesca Alesse, Mauro Bonazzi, Aldo Brancacci, Francesca Calabi, Riccardo Chiaradonna, Alessandro Linguiti, Federico Petrucci, Emidio Spinelli, Mario Vegetti, Marco Zambon

Storia della filosofia antica Direzione scientifica di Mario Vegetti e Franco Trabattoni III.

L'età ellenistica

A cura di Emidio Spinelli

Carocci editore

@ Frecce Mauritius_in_libris

1' edizione,

aprile 2.016 ©copyright 2.016 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino Finito di stampare nell'aprile 2.016 da Eurolit, Roma

Riproduzione vietata ai sensi di legge {art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Siamo su: .carocci.it www.facebook.com/ caroccieditore www.twitter.com/ caroccieditore www

Indice

Premessa di Mario Vegetti e Franco Trabattoni

I.

2.

II

Tavola cronologica

15

Ellenismo : periodizzazione e cronologia delle scuole filosofiche di Tiziano Dorandi ed Emidio Spinelli

19

Etichettare il passato : il caso dell'ellenismo

19

L' invenzione di Droysen

20

Dopo e oltre Droysen

22

Lo statuto giuridico delle scuole filosofiche

24

Organizzazione e struttura

28

Funzioni d' insegnamento

29

Durata spazio-temporale delle scuole come istituzioni e problemi interni

3

0

Le scienze nel mondo ellenistico di Mario Vegetti e Federico Petrucci

33

Il Museo di Alessandria

33

La medicina ellenistica

34

Matematica, astronomia, musica

41

8 3.

4.

STORIA DELLA FILO S O FIA ANTI C A

Pirrone e il neopirronismo di Emidio Spinelli

53

Alla ricerca delle origini La "filosofia" di Pirrone L'annuncio di Timone La rinascita pirroniana: Enesidemo Dopo Enesidemo

53 55 61 65 71

Epicuro di Francesco Verde

73

La vita Le opere L'epitome filosofica Il sistema filosofico La canonica La scienza della natura L'etica

5.

6.

La scuola di Epicuro di Francesco Verde

105

L'epicureismo da Ermarco a Patrone L'epicureismo campano: Filodemo di Gadara e Sirone L'epicureismo a Roma: Tito Lucrezio Caro

105 108 109

L'epicureismo di età imperiale: Diogeniano, Diogene di Enoanda e Platina

III

Lo stoicismo ellenistico fino al I secolo a.C. di Thomas Bénatouil

113

Il sistema stoico e i suoi frammenti Corpi e incorporei

113 115

9

INDICE

I principi e la cosmogonia Il

mondo

L'uomo Dalla dialettica alla virtù La saggezza L'evoluzione dello stoicismo

7.

Accademia ellenistica di Mauro Bonazzi

137

Platonismo e scetticismo?

137 138

L'Accademia in epoca ellenistica Il discorso sul metodo : discussioni socratiche, dialettica accademica Il dibattito

sulla conoscenza

Conoscenza, opinione e azione Altre polemiche con gli stoici: la libertà e il destino, gli dei e letica Filone di Larissa e la svolta moderata Scetticismo e platonismo

8.

141 143 146 149 151 154

Il Peripato ellenistico di Riccardo Chiaradonna

161

Stratone di Lampsaco

161 162

Il Peripato ellenistico dopo Stratone

9.

116 117 119 124 126 129

Epistemologie ellenistiche: il problema del criterio d i Emidio Spinelli

169

Fra passato e presente

169 171 172

Per u n nuovo approccio epistemologico Sul criterio: schemi e classificazioni

IO

STORIA DELLA FILO S O FIA ANT ICA

Epicuro Gli stoici L'attacco scettico-accademico e la risposta stoica I neopirroniani e il "doppio criterio"

IO.

Il senso del passato : Antioco e il I secolo a.C. di Mauro Bonazzi

I97

Eclettismo e riflessione storica Stoicismo e platonismo

I97 200 202

L' incontro di due culture

205

Epistemologia ed etica in Antioco

11.

I79 I86 I9I I93

di Carlos Lévy Il contesto politico e sociale Lucilio, il primo L'antropologia di Lucrezio Una variante del mito lucreziano : il prologo del libro II del De architectura di Vitruvio

205 207 209

Osservazioni conclusive e prospettive

2I2 2I3 223

Note

225

Bibliografia

243

Indice dei nomi

27I

Gli autori

277

Cicerone o la filosofia senza filosofo

Premessa di Mario Vegetti e Franco Trabattoni

In ogni stagione della cultura europea, le grandi storie della filosofia antica hanno intrattenuto un rapporto significativo con l'ambiente intellettuale e filosofico dell'epoca. Così l' impresa di Eduard Zeller era in stretta relazio­ ne con la filosofia hegeliana, di cui verificava ed estendeva le prospettive sul pensiero greco, e l'opera di Theodor Gomperz si proponeva come un con­ tributo alla storia degli sviluppi del positivismo nella filosofia occidentale. Oggi una simile integrazione di prospettive filosofiche e storiografiche non appare più possibile né peraltro auspicabile. Non avrebbe senso, ad esempio, costruire una storia del pensiero antico come preludio all'avvento della metafisica occidentale, o come incunabolo della filosofia analitica, o ancora come esercizio di riduzionismo sociologico e antropologico. Que­ sto non può tuttavia significare che sia possibile, e desiderabile, sottrarsi all' interlocuzione con le grandi tendenze della cultura contemporanea. La via più praticabile e fruttuosa appare quella di un' indagine storiografica rigorosa e non pregiudicata, che non si risolva però nella hegeliana "fila­ strocca delle opinioni". L' intento di una rinnovata indagine complessiva sul pensiero antico, aperta a quella interlocuzione, sembra dover dunque consistere nel riportare alla luce, e riproporre all'attenzione della cultura contemporanea, quel ricco giacimento di razionalità critica, di opzioni eti­ co-politiche, di prospettive ontologiche e cosmologiche, che quel pensiero ha elaborato con una potenza argomentativa e una libertà intellettuale che hanno pochi paralleli nella storia della filosofia occidentale; un giacimento da esplorare tenendo presenti le domande teoriche che nascono sul terreno del mondo contemporaneo, alle quali l'antico non può offrire direttamen­ te risposte, ma certo stimoli di riflessione e prospettive di pensiero affasci­ nanti proprio in ragione della loro differenza e della loro distanza. L'opera che qui presentiamo - in un momento in cui la cultura con­ temporanea sembra sperimentare una crisi di orientamento - mira a ripri-

12

STORI A D ELLA FI LO SO FI A ANTICA

stinare un circolo virtuoso tra storiografia dell'antico e questioni aperte della contemporaneità, senza fare della prima uno strumento al servizio di opzioni filosofiche precostituite, ma anche senza dimenticarne la respon­ sabilità culturale di fronte a tali questioni. Si è avvertita lopportunità di rispondere a questa esigenza perché, ad avviso comune dei coordinatori e dell'editore, manca oggi nel campo degli studi italiani di storia della filosofia antica - a fronte dello sviluppo im­ petuoso delle ricerche di ambito specialistico - uno strumento di ampio respiro che sia in grado di offrire a studiosi, studenti e persone di cultura una visione esauriente e aggiornata dello "stato dell'arte" della disciplina, delle conoscenze acquisite e delle prospettive di ricerca maturate a livello internazionale. I quadri storiografici complessivi devono infatti venire pe­ riodicamente rielaborati perché possano tenere conto, in una prospettiva integrata, delle innovazioni esegetiche sperimentate nei singoli settori di studio. Non si tratta soltanto di aggiornare l'esposizione del pensiero dei diversi filosofi antichi sulla base delle più recenti acquisizioni filologiche e storiche; si tratta anche, e soprattutto, di ricostruire e discutere le strutture argomentative, i nodi teorici, i contesti problematici che formano la trama di quel pensiero e ne assicurano il perdurante interesse filosofico anche per il lettore del nostro tempo. Questi compiti non potevano più in ogni caso venire affidati all'opera di un singolo autore - com'è il caso pur meritorio dei vasti ma datati ma­ nuali di storia della filosofia antica oggi disponibili - perché la complessità e la ricchezza degli studi renderebbe oggi impossibile e persino impensabile una simile impresa. Si è quindi fatto ricorso a una pluralità di contributi scritti da autorevoli studiosi, italiani e stranieri, nei singoli settori di ricerca; non per questo però lopera che qui presentiamo ha assunto il carattere di un reading antologico. Gli autori coinvolti hanno certamente portato nelle trattazioni di loro competenza le prospettive e gli esiti maturati nel corso delle rispettive ricerche specialistiche, di cui si assumono la piena responsa­ bilità, senza la pretesa di una implausibile "oggettività", definitiva e imper­ sonale, delle tesi esegetiche sostenute (benché al lettore vengano forniti gli strumenti per sviluppare eventualmente punti di vista diversi). Resta però il fatto che l'opera mantiene una sua unitaria organicità, che è stata assicurata dal costante lavoro di confronto e di verifica condotto collegialmente fra i due coordinatori, i curatori dei quattro volumi e i singoli autori. I caratteri di originalità di questi volumi sono dovuti all' impostazione progettata dai coordinatori, ma sono stati resi possibili soltanto dal lavoro

P REMESSA

13

d i équipe d i curatori e autori. S i tratta i n primo luogo d i un sostanzia­ le riequilibrio degli spazi dedicati a epoche e pensatori. Nelle esposizioni tradizionali, a Platone e Aristotele viene assegnato un ruolo del tutto do­ minante, a scapito soprattutto delle filosofie ellenistiche e tardo antiche. Questo squilibrio non è più compatibile né con lo stato degli studi storio­ grafici né con gli attuali interessi teorici rivolti al pensiero antico. Platone e Aristotele, com'è giusto, sono fatti oggetto di un'ampia trattazione, che occupa la maggior parte del secondo volume, ma altrettanta attenzione è dedicata sia al pensiero presocratico e socratico, esposto nel primo volume, sia, e soprattutto, alle filosofie posteriori alle quali sono dedicati i volumi terzo e quarto dell'opera. Le rilevanti novità intervenute nella storiografia degli ultimi decen­ ni - a proposito ad esempio di Platone e del neoplatonismo, per citare alcuni dei casi più rilevanti - hanno naturalmente ispirato il resoconto dei rispettivi ambiti di ricerca. Per gli autori che hanno svolto un ruolo decisivo nella tradizione filosofica, come Platone e Aristotele, si è inoltre ritenuto opportuno integrare l'esposizione del loro pensiero con quadri della storia delle interpretazioni e dell'attuale dibattito esegetico, in modo da presentare al lettore e allo studioso lo sfondo problematico sul quale si costruiscono le opzioni storiografiche di volta in volta adottate. Abbiamo inoltre creduto che fosse necessario premettere alle diverse epoche della storia del pensiero filosofico un quadro delle condizioni so­ ciali e culturali ali' interno delle quali la filosofia, e la stessa figura sociale del filosofo, si sono via via venute costituendo e definendo : è ben chiaro, ma troppo spesso ignorato, ad esempio, che l'ambiente sociale della filo­ sofia e della figura del filosofo nel mondo presocratico è del tutto diverso dall'epoca delle scuole nel mondo tardo antico, e questo non è certo indif­ ferente per l'assetto della prima e della seconda. Nello stesso intento di superare i limiti tradizionali assegnati alla storia del pensiero filosofico - senza peraltro metterne affatto in discussione la specificità teorica - è stata concessa un'attenzione inconsueta agli sviluppi della riflessione politica da un lato, scientifica dall'altro : politica e scienza sono infatti, dal versante pratico e da quello teorico, i due grandi territori di pensiero confinanti con l'ambito proprio della filosofia in senso stretto. Quest 'opera si propone dunque di offrire un contributo al consolida­ mento e allo sviluppo degli studi di filosofia antica in Italia, offrendone un bilancio aggiornato e delineandone le prospettive di ricerca, da cui emer­ gano anche i motivi che tuttora ne giustificano l' interesse in un contesto

14

STORIA DELLA F I L O S O FIA ANTI C A

culturale complessivo. Ci si augura inoltre di proporre uno strumento uti­ le all' insegnamento universitario, evitando sia di indulgere alla tentazione di sguardi eccessivamente sintetici e quindi semplificatori sia di appesanti­ re l'esposizione con l'esibizione di un apparato accademico in questa sede superfluo. La stessa partizione dell'opera in quattro volumi, dedicati rispettiva­ mente agli inizi della filosofia fino a Socrate, al pensiero del IV secolo, alla filosofia ellenistica e infine a quella dell'epoca imperiale e tardo antica, è intesa ad agevolarne la consultazione secondo particolari interessi ed esi­ genze didattiche. Per favorire la leggibilità, il corredo di note è limitato alle informazioni essenziali, e le bibliografie che corredano ogni volume sono intese come strumento di servizio, praticabile per eventuali approfondi­ menti, non come esibizione di un'erudizione che è già garantita dall'auto­ revolezza e dalla competenza degli autori. Se l'opera che ora presentiamo avrà raggiunto anche solo alcuni degli scopi che ci eravamo proposti, gran parte del merito va appunto agli au­ tori dei singoli capitoli, nonché ai curatori dei volumi, ed è a loro che va in primo luogo il ringraziamento dei coordinatori, oltre che all' impegno profuso dall'editore nella realizzazione di un progetto complesso e diffici­ le come il nostro.

Tavola cronologica

16 Epicurei

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANTICA

Stoici

Zenone (n4-261 a.C. ) Epicuro (3 41-271/0 a.C.) Aristone di Chio (1v sec. Metrodoro (33 1/0 -278/7 a.C. ) a.C. ) Idomeneo (n. 3 25 ca. a.C. ) Cleante (331-230 a.C.) Ermarco (325 ca.-250 ca. a.C.) Pitode (n. 324 ca. a.C. ) Colote ( n. 3 20 ca. a.C. ) Polieno (t 290 -280 a.C. )

Accademico-platonici Polemone (t 270/69 a.C. ) Cratete di Atene (t 268/ 4 a.C. ) Crantore di Soli (t 276/5 a.C. ) Arcesilao (315 -240 a. C. )

Polistrato ( t 219/8 a.C.) Dionisio di Lamptre (t 205/ 4 a.C.) Basilide (t 175 ca. a.C.)

Erillo di Cartagine ( m Lacide ( t 206/5 a.C.) Evandro ( m-II sec. a.C.) sec. a.C.) Carneade di Cirene (214-129 Sfero (n. 285 ca. a.C.) a.C.) Crisipp o (28 0 -204 a.C.J Diogene di Babilonia (230 ca.-150/ 40 a.C.) Boeto di Sidone (II sec. a.C.)

Apollodoro (II sec. a. C. ) Zenone di Sidone (n. 150 ca. a.C. ) Demetrio Lacone (n. 150 ca. a. C. ) Protarco di Bargilia (/loruit 150 -120 a. C. ) Fedro (n. 13 8 a. C. )

Antipatro di Tarso (t Clitomaco (187/6-110/9 a.C.) 130 /29 a. C. ) Metrodoro di Stratonicea Panezio (180 -109 a.C.) (metà II sec. a.C. ) Posidonio (13 5 -50 a.C. ) Telede (t 167/6 a.C. ) Mnesarco e Dardano Filone (15 4/3-84/3 a. C. ) (1 70 ca. -post 88 a.C. ) Carneade il Giovane (t 131/o a.C. ) Cratete II (t 127/6) Antioco di Ascalona (130 ca.-68 ca. a.C.) Cicerone (10 7-43 a.C. )

Filodemo d i Gadara (110 ca.-35 ca. a.C.) Lucrezio ( 1 sec. a. C. ) Sirone ( 1 sec. a. C.) Diogeniano (prima metà II sec. d.C.) Diogene di Enoanda (fine I I-inizio III sec. d.C.)

TAVOLA CRONOLOGICA

Aristotelici

17

Pirroniani

Scienziati

Teofrasto {3 72/0-288/6 a.C.) [Pirrone {3 60 -270 Eudemo di Rodi {1v sec. a.C.) a. C. )] Timone {320 ca.-230 Aristosseno (1v sec. a.C. ) Demetrio Faleceo {n. 350 ca. ca. a.C. ) a.C. ) Stratone {3 40/30 -270/68 a.C.) Prassifane {fine IV-metà III sec. a.C. )

Erofìlo (33 5 ca.-280 a.C. )

Licone {300/2.99 o 299/822.6/ 5 o 22.5/ 4 a.C.) leronimo di Rodi {290 ca.230 ca. a.C.) Aristone di Ceo {n. 250 ca. a.C.)

Aristarco d i Samo {310 ca. 250 a.C.) Erasistrato {prima metà III sec. a.C.) Euclide di Alessandria {iv-II I sec. a.C.) Autolico di Pitane {1v-m sec. a.C.) Filino di Cos {m sec. a.C.) Eratostene di Cirene {280 ca. -195 ca. a.C.) Apollonio di Perge (240 -170 ca. a.C.) Archimede (t 212 a.C.)

Critolao {t 1 1 8 a.C. )

Ipparco di Nicea (II sec. a.C. ) lpsicle (II sec. a.C. ) Asclepiade d i Bitinia (fine II sec. a.C. )

Andronico d i Rodi ( r sec. Enesidemo ( r sec. a.C.) Temisone ( r sec. a.C.) Agrippa (fine I sec. Vitruvio (t 15 a.C.) a.C.) Boeto di Sidone ( 1 sec. a.C.) a.C.-inizio I d.C.) Tessalo (r sec. d. C. ) Erone (1 sec. d. C. ) Cassio (prima metà II sec. d.C.)

Nicomaco di Gerasa ( n sec. d.C.)

Avvertenza Dove non è indicato altrimenti, le traduzioni dei testi antichi sono degli autori dei singoli capitoli.

I

Ellenismo: periodizzazione e cronologia delle scuole filosofiche di Tiziano Dorandi ed Emidio Spinelli*

Etichettare il passato : il caso dell'ellenismo

Sezionare il passato, per renderlo meglio disponibile in una forma classi­ ficatoria chiara e netta; o meglio ancora selezionarne secoli e periodi ben precisi, inseriti sotto un unico ombrello di senso, che dia omogeneità di essenza e di lettura a fenomeni fra loro forse diversi, ma comunque assi­ milabili: questo è uno dei compiti più difficili che chi si accinge a fare il "mestiere dello storico" ha di fronte a sé, nel momento in cui decide di individuare categorie storiografiche di grande respiro. I rischi di operare scelte arbitrarie o i pericoli di generare vere e proprie gabbie ermeneutiche troppo strette e perfino asfissianti sono sempre dietro langolo (per una riflessione più generale su tale questione cfr. Le Goff, i.014). Si potrebbe estendere una simile preoccupazione di omogeneizzazione forzata anche all'etichetta sotto la quale viene racchiuso un lungo momen­ to della storia culturale del mondo antico, quello noto con il nome di elle­ nismo, periodo compreso fra la fine dell'età greca classica e l' inizio dell'e­ tà romana, la cui estensione viene più esattamente e convenzionalmente fissata fra il 3i.3/3i.i. e il 31 a.C. La scelta delle date non è certo casuale e sembra rispondere quasi a quella che Hegel avrebbe salutato come la com­ parsa di grandi individui cosmico-storici quali significativi spartiacque di mutamenti epocali nello sviluppo delle vicende umane. Da una parte, per il punto di inizio, abbiamo una data di morte, alternativamente individua­ ta nella scomparsa o di Alessandro Magno - seguita dalla frammentazione dell' immenso complesso politico che egli aveva creato con la forza delle armi e la tenacia di una grecità avanzante - oppure (forse con un pizzico

• A Emidio Spinelli si deve la stesura dei primi tre paragrafi; a Tiziano Dorandi quella dei restanti quattro.

20

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTI C A

di malcelato e "parrocchiale" orgoglio filosofico) di Aristotele - assurto così a ultimo ed estremo rappresentante di un pensiero che già forse allora (e sicuramente più tardi, nella lunga storia del pensiero occidentale) era, e sarà, considerato come "classico". Dall'altra viene posto come momento di chiusura dell'ellenismo un evento preciso, che segna il dominio incon­ trastato di Roma sul Mediterraneo, la battaglia di Azio, anch'essa letta sullo sfondo della definitiva affermazione storica di Augusto, destinato a incarnare, se non de iure sicuramente defacto, il vero cominciamento del lungo sviluppo di un'epoca nuova, quella del principato (per una prima introduzione storica all'età ellenistica cfr. Walbank, 1981).

L' invenzione d i Droysen

Al di là di qualsiasi discussione e obiezione su tali limiti cronologici o sul carattere più o meno problematico della sua pretesa forza tassonomica, vale la pena interrogarsi sulla genesi di una simile periodizzazione stori­ ca. Non potendo certo credere che essa esista così, quasi in e per natura, occorre individuarne la data di nascita e dunque, soprattutto, la paternità storiografica. Possiamo in tal senso dire di essere fortunati, perché siamo in grado di individuare, con certezza e abbondanza di particolari, il vero inventore della categoria di "ellenismo" ( cfr. l'accurata ricostruzione di Canfora, 1995, nonché i saggi raccolti in Zecchini, 2013 e ora Battistin Sebastiani, 2015). Si tratta di Johann Gustav Droysen, che, nelle dense pa­ gine della sua Geschichte des Hellenismus (il cui primo volume vide la luce nel 1836; ma non si dimentichi anche Droysen, 1833), appare animato, nel suo lavoro di sistemazione storiografica, dalla volontà di rivalutare nei suoi vari aspetti l'età successiva ad Aristotele, a lungo derubricata come epoca di decadenza. Ponendosi consapevolmente oltre, se non contro, certe de­ generazioni (ad esempio zelleriane?) della lettura post-hegeliana relativa ai secoli seguenti la presunta età dell'oro incarnata dai grandi Socrate, Pla­ tone e Aristotele (si vedano i vari saggi ospitati in Movia, 1998), Droysen si propone di analizzare gli apporti positivi offerti da un intero e nuovo e originale momento di produttiva creatività culturale, troppo e purtroppo trascurato tanto sul piano filologico quanto su quello teorico, oltre che su quello più generalmente storico. Il suo intento non è certo neutrale, visto che, come si legge in una sua lettera, mira a rafforzare la conclusione secon­ do cui, ben prima dei debiti contratti con la romanità, «è dall'ellenismo

' L ELLEN I S M O E LE S U E S C U OLE F I L O S O F I C H E

21

che il cristianesimo ha tratto la sua origine ed i mirabili indirizzi dei suoi primi sviluppi » (cit. in Canfora, 199 s, p. 6). Ancora più al fondo, la sua convinzione è che l'ellenismo sia stato un terreno di coltura e un elemento cogente per lo sviluppo di tutte le epoche successive, fino alla modernità. In questo, egli ha il duplice intento di creare una nuova categoria storio­ grafica e di rivalutare l' influenza greca su quella romana, sullo sfondo di una sorta di " basso continuo", rappresentato dal suo desiderio di elevare comunque un inno alla grecità. Il punto di partenza della sua ricerca, in ogni caso, è innanzitutto lingui­ stico e si appoggia alla grande mole di testi redatti in una lingua chiaramen­ te diversa dall'attico dell'età classica. Nella sua Prefazione alla ricostruzione storica di questa nuova età della storia greca, egli propone - per analogia con le modalità di costituzione delle lingue romanze altomedievali e dun­ que con la creazione del concetto di Romanismus di rinvenire, nella lin­ gua greca comune (o koine dialektos), individuabile nei testi a noi giunti, l'espressione di una profonda « mistione di popoli » (Volkermischung), vale a dire della commistione tra etnie occidentali e orientali, che oggi non si faticherebbe a racchiudere sotto il termine (promiscuo e spesso ambi­ guo) di "multiculturalismo"'. Essa viene realizzata sì grazie alla prepoten­ te avanzata delle lance dell'esercito macedone (analogamente a quanto è stato detto rispetto alla vincente affermazione degli ideali illuministici imposti dalle baionette di Napoleone), ma si mostra capace di penetra­ re (e restare) in profondità nel tessuto culturale per quasi tre secoli. Tale fusione ( Verschmeltzung) è resa armoniosa dal predominio degli elemen­ ti greci, che imprimono i valori dell' Occidente su un Oriente concepito come pura terra di conquista. Dunque, nessuna decadenza della grandezza greca: piuttosto, grazie alla fusione con altri popoli, maturano ora diverse forme di vita e di espressione, che rappresentano, per Droysen, uno stadio nuovo e "altro" della storia dell'umanità. In breve, l'ellenismo non rappresenta né una cesura né una frattura, in quanto esprime una continuità sia verso il passato che verso il futuro. Posta in questi termini, la periodizzazione storica proposta da Droysen sembra quasi descrivere un fenomeno che noi, oggi, chiameremmo di "glo­ balizzazione" o "mondializzazione culturale", fondato sull' armonizzazio­ ne (più o meno positiva) di usi, costumi, tendenze inizialmente diverse, ma pronte a dialogare verso un esito nuovo e creativamente condiviso. Per dirla direttamente con le parole usate dallo stesso Droysen in un altro suo testo (cfr. Droysen, 1882, trad. it. pp. 387-8) e a conferma di una visione -

22

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANT I C A

che individua sì gli elementi di discontinuità, senza tuttavia nascondere quelli di sostanziale continuità con la cosiddetta "età classica" o "elleni­ ca", «l' Ellenismo non è una mostruosità inorganica avulsa dallo sviluppo dell'umanità: esso ha assunto l'eredità del mondo greco come dell'antico Oriente con tutti i suoi attivi e passivi e con questo dato ha sviluppato, agendo liberamente oltre e proseguendone faticosamente il lavoro, un al­ tro, un nuovo stadio che pur così mediato continua a rimandare al suo più prossimo stadio precedente » .

Dopo e oltre Droysen

Senza voler inseguire in tutti i suoi minuti e complicati dettagli la storia della successiva fortuna di una simile etichetta storiografica, può essere op­ portuno richiamarsi unicamente ad altre due prese di posizione successive, utili per dare una fisionomia ancor più precisa all'etichetta di ellenismo•. Un'ulteriore articolazione del paradigma droyseniano, nel senso di stabilire una più netta continuità non solo con la precedente età classi­ ca ma anche e soprattutto con la successiva epoca dell' Impero romano, è elaborata da Michail Rostovtzeff. Egli evidenzia la centralità del mondo romano nella transizione dalla Grecia all ' Oriente per comprendere l'elle­ nismo, ponendo in primo piano, come « fatto non soggetto a dubbio » , «l'acquisizione massiccia nella struttura statale romana, nell'amministra­ zione, nell'economia pubblica e, innanzitutto, nel diritto all'epoca dell'e­ sistenza di Roma quale Stato mondiale, di elementi ellenistico-orientali » (Rostovtzeff, 1 9 9 5 , p. 44). L'apporto di Roma è essenziale per quanto concerne una serie di ambiti (giuridico, economico, statale e amministra­ tivo), che Droysen aveva invece trascurato. In questo modo Rostovtzeff corregge e solidifica l idea droyseniana di età ellenistica, dedicando mag­ giore attenzione alla concretezza delle realizzazioni politiche e alla pene­ trazione nella quotidianità della prassi romana di alcune norme di fondo dell'ellenismo. Su di una linea interpretativa ancor più complessa e varia si pone la lettura di Hans Jonas. Secondo Jonas, durante l'età ellenistica la perdita dell' indipendenza politica della polis fa emergere una nuova, originale "vi­ sione del mondo", una vera e propria "Weltanschauung. Per quanto le poleis greche non scompaiano del tutto, esse si "municipalizzano"; la loro legit­ timazione politica viene svuotata dall' interno. Dopo la morte di Alessan-

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dro Magno e dopo la creazione dei vari regni distinti dei diadochi, esse non hanno più autonoma amministrazione, in quanto dipendono dal dia­ doco di turno o dal suo rappresentante in loco. Se la polis non scompare de iure, insomma, essa scompare defacto, dando luogo a una sorta di « choc nella coscienza comune » (Vegetti, 1989, p. i.19 ). Non esiste più quella direzione "esterna" verso la quale l individuo dell'età classica orientava i propri sforzi per il conseguimento della propria arete, poiché, una volta ca­ duta/ ridimensionata drasticamente la polis, vengono meno le condizioni di possibilità dell' arete stessa. Nella Repubblica di Platone, così come nella Politica di Aristotele, la realizzazione dell'uomo non è rivolta all' interno, perché questi non può realizzarsi che nella sfera pubblica; in accordo con la morale eudaimonistica greca, ciò non lo rende soltanto pienamente uomo, ma anche felice. Nella lettura di Jonas, in opposizione a questa visione del mondo pren­ de corpo, nell'età ellenistica, una torsione di interessi, che è senza dubbio storica, ma che mostra la sua massima forza soprattutto sul piano filosofi­ co, in pensatori che dunque, lungi dal poter essere classificati come meri epigoni, di scarso interesse e valore, rispetto alla grande stagione platonica o aristotelica, acquistano una fisionomia teorica e una valenza etica di pri­ maria importanza. Sullo sfondo resta un mutamento epocale. Per dirla con le parole di Jonas ( i.0 10, p. si.), infatti, «l' individuo, sebbene le sue responsabilità ver­ so la comunità fossero sempre sottolineate, venne considerato in primo luogo come una persona privata che doveva cercare la pienezza della sua vita o la felicità, in termini privati. Questi termini potevano includere la sua scelta di un incarico pubblico, ma ciò sarebbe stata solo una delle pos­ sibili scelte private e non era più considerata - o non poteva essere - la sola valida via per una vita piena e "virtuosa" » . Allo sgretolamento delle istituzioni politiche della polis classica fa tut­ tavia da contraltare non solo l' invenzione di una dimensione etimologica­ mente "idiota" della sfera di azione eudaimonistica del singolo, ma anche, quale indispensabile puntello teorico, la necessità di un "sistema", dettato dall'esigenza di un ordine tanto esteriore quanto interiore. L'unico modo di ripiegarsi su sé stessi senza perdersi è, infatti, quello di ricomprendersi all' interno di un ordine sistematico. Le due scuole più rappresentative di questa tendenza, quella stoica e quella epicurea, pur nelle profonde diffe­ renze che le contraddistinguono, sembrano condividere, come si vedrà in dettaglio più avanti (cfr. CAPP. 4-6), una simile esigenza di fondo. Al netto

STORI A DELLA FILO S O FIA ANTICA

delle sfumature e delle prese di posizione più o meno inconciliabili, per gli epicurei come per gli stoici è necessario proporre una filosofia sistematica­ mente ordinata, che si ponga come scopo ultimo la tranquillità, che costi­ tuisca confini sicuri entro i quali l' individuo possa conoscersi e realizzarsi in una dimensione esclusivamente intramondana. Per chiudere questa breve riflessione introduttiva sulla nozione di el­ lenismo e per rafforzare la considerazione teoricamente alta dei suoi pro­ dotti filosofici, vale forse la pena ricordare che, sul piano più strettamente operativo della ricerca di ambito antichistico, a partire dagli inizi degli anni Settanta del Novecento è avvenuto un ulteriore fatto storiografico in­ negabile: si è assistito infatti a un revival quantitativamente e soprattutto qualitativamente rilevante degli studi dedicati alle filosofie ellenistiche in generalei. Esse sono state rilette con occhi diversi, oramai libere e liberate da ipoteche negative, assurte nuovamente a oggetto d' indagine di prim'or­ dine, soprattutto per gli stimoli intellettuali che offrono e per le sorpren­ denti affinità che mostrano rispetto a tematiche e metodologie care anche alla ricerca filosofica prima moderna (cfr. Bonacina, 1996; Miller, Inwood, 2007; nonché Russo, 2013, per l'importanza della scienza ellenistica, con­ siderata come l'autentico antenato della rivoluzione scientifica moderna) e poi anche contemporanea.

Lo statuto giuridico delle scuole filosofiche

Nel panorama dell' insegnamento della filosofia in epoca ellenistica, si di­ stinguono quattro grandi scuole, due delle quali continuavano istituzioni nate qualche decennio prima: l'Accademia, fondata da Platone tra il 390 e il 380 a.C., e il Liceo di Aristotele, nato nel 335. Accanto all'Accademia e al Liceo si collocarono ben presto nuove scuo­ le destinate a una lunga vita parallela e ad attirare sempre più l'attenzione e gli interessi del pubblico colto del bacino mediterraneo : la stoicismo, l'epicureismo e, in misura più limitata, il cinismo. L'Accademia platonica, dopo Speusippo e Senocrate, continua con Po­ lemone fino ad Antioco di Ascalona e a suo fratello e successore Aristo, attraverso la fase "scettica", tra Arcesilao di Pitane e Filone di Larissa. Il Liceo inizia la sua fase ellenistica già con Teofrasto e prosegue, dopo alcuni decenni di fioritura, una lenta decadenza. La Stoa, così chiamata dal luogo dove Zenone di Cizio e i suoi successori si riunivano per fare filosofia, per-

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dura con Cleante e Crisippo, Panezio e Posidonio fino agli inizi dell' Im­ pero romano e ben al di là. Il Giardino di Epicuro, che dal suo fondatore prese il nome di "epicureismo� prosegue anch'esso fino al I secolo a.C. (e oltre). Non è tuttavia sulla storia esterna di queste scuole né tantomeno sul pensiero dei loro rappresentanti che intendo soffermarmi, bensì su alcuni aspetti meno conosciuti, ma altresì interessanti, quali la struttura, l'orga­ nizzazione di questi organismi e la loro evoluzione istituzionale (per la cronologia delle scuole, cfr. Dorandi, 1999a; alcuni risultati devono tutta­ via essere rivisti alla luce delle più recenti ricerche). Quali motivi indussero Platone, Aristotele, Zenone di Cizio ed Epicu­ ro a fondare nuove scuole filosofiche ad Atene tra il IV e il III secolo a.C.? Quali regole, strutture, funzioni erano state loro attribuite ? O, in maniera più diretta: che cosa era una scuola filosofica nell'età ellenistica (cfr. anche Dorandi, 1999b) ? C 'è comunque un'altra domanda alla quale bisogna rispondere in un primo momento : che posizione occupavano le scuole di filosofia nella società e nella vita cittadina contemporanea ? Si tratta di una questione spinosa, che non ha trovato ancora una risposta soddisfacente in relazione a tutti i problemi che pone, ma che è altresì ineludibile, se vogliamo spie­ gare, oltre agli aspetti organizzativi, anche alcune scelte determinanti nella storia di scuole come l'Accademia (ma anche il Liceo e il Giardino) nei primi decenni successivi alla scomparsa del loro fondatore. I dati in nostro possesso riguardano il più delle volte la sola Accademia, il che impedisce di avere un' idea precisa anche delle restanti istituzioni, a meno che non si attribuiscano a esse paradigmaticamente le medesime strutture, organizza­ zione e condizioni storico-sociali e culturali4• Nell'Accademia, il fatto che Platone abbia designato come erede nella direzione della scuola il nipote Speusippo è sempre apparso come un ge­ sto naturale e come un atto pienamente giustificato ali' interno del sistema giuridico attico, a partire dal presupposto che Speusippo, cittadino atenie­ se, nipote di Platone, seppure in linea femminile (sua madre era Potone, sorella di Platone), era abilitato a pieno diritto a ereditare un bene im­ mobile come l'Accademia con i suoi annessi e connessi. Le difficoltà sono sorte nel momento in cui si è cercato di capire i principi e i meccanismi che regolarono la nomina di Senocrate a successore di Speusippo (cfr. lsnardi Parente, 2004). Ci si è chiesti: come poté il meteco Senocrate, privo del diritto di possedere beni immobili ad Atene, ereditare l'Accademia e dive-

STORIA DELLA F I L O S O FIA ANTI C A

nirne scolarca ? E la stessa domanda vale per Ermarco, anche lui meteco e successore dell'ateniese Epicuro. Wilamowitz (1881) suppose che le scuole dei filosofi ad Atene fossero associazioni religiose (thiasoi), dedicate al culto delle Muse. Wilamowitz partiva dal presupposto che tutte le associazioni antiche avessero avuto carattere cultuale e che, per questo motivo, fossero state riconosciute dal diritto ateniese, che attribuiva loro uno status di persone giuridiche. Dal punto di vista esterno, le scuole erano intese come associazioni religiose dedite al culto delle Muse, mentre, dal punto di vista interno, svolgeva­ no funzioni simili a quelle delle moderne università. Tale speciale status giuridico-cultuale avrebbe consentito al meteco Senocrate di ottenere lo scolarcato dell'Accademia. Questa ipotesi, accolta subito con interesse, ha suscitato perplessità e obiezioni da parte di Lynch ( 1972). Innanzitutto, Lynch ha rilevato che quegli elementi che per Wilamowitz sono tipici di un thiasos (statue delle Muse e loro culto) erano comuni anche ad altre istituzioni culturali quali i ginnasi e le scuole degli efebi e che quindi non erano, da soli, sufficienti per suffragare l' identificazione delle scuole filosofiche con associazioni di tipo religioso. Affermare, poi, che l'Accademia fosse un' istituzione a proprietà comune nella quale lo scolarca era l'unico proprietario di tutti i beni immobili è apparsa un' illazione inammissibile. Né tantomeno può reggere il presupposto che l'Accademia ricorse all'espediente del koinon religioso per ottenere lo status di persona giuridica, in quanto tale concet­ to era estraneo al mondo greco. Lynch ha pertanto supposto che l'Acca­ demia, come le altre scuole dei filosofi, fosse piuttosto un' istituzione se­ colare con fini educativi rivolta alla promozione di una conoscenza utile. Si sarebbe trattato dunque di una fondazione privata che niente aveva a che fare con lo Stato e che, pertanto, non aveva bisogno di nessuna auto­ rizzazione per esistere e funzionare. Non sono mancati, tuttavia, ulteriori tentativi a sostegno della soluzio­ ne del Wilamowitz. Isnardi Parente (1981) ha suggerito che l'Accademia, nata come un feudo della famiglia di Platone, alla sua morte sarebbe passata ex iure al nipote Speusippo. Il ricorso all'espediente giuridico-religioso del koinon dedicato alle Muse non può essere escluso, ma va solo ritardato nel tempo: esso si sarebbe reso necessario non subito, al momento cioè della fondazione dell'Accademia e della successione di Speusippo, ma solo in una seconda fase della sua storia, quando si prospettò appunto la trasmissione dello scolarcato a un filosofo povero e meteco come Senocrate.

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Gli studiosi del Liceo hanno proposto di accostare, con verosimiglian­ za, quella istituzione a un tipo di fondazione perpetua simile a determina­ te fondazioni scolastiche e funerarie. Il Liceo, nato da un lascito ereditario di Aristotele, non ebbe come fine di assicurare un'educazione ai giovani né un culto delle Muse, ma piuttosto l'attuazione dell' ideale della vita teore­ tica, del bios theoretikos, di quel symphilosophein (cfr. perciò Berti, 2010 ) , che era uno dei modi che Aristotele aveva indicato per trascorrere insieme con gli amici i periodi di scholel. Se si potesse riconoscere anche all'Accade­ mia - come al Liceo - un simile carattere di fondazione perpetua di tipo evergetico si riuscirebbe ad avviare a soluzione soddisfacente gravi aporie quale quella del culto, in essa professato, di Platone heros ktistes e la contro­ versa scelta del meteco Senocrate come scolarca. Infine, Maffi (2008, pp. 114-5, da cui le citazioni che seguono ) ha ri­ preso la questione, ribadendo i punti deboli delle precedenti soluzioni (esclusa quella di Natali e Veyne che gli è sfuggita) . Maffi ha ben messo in evidenza che le scuole filosofiche (almeno nel I I sec. a.C. ) si presentavano come « strutture didattiche incentrate su un rapporto personale e gerar­ chico [ ... ] non sembra che tali scuole vadano inizialmente nella direzione di una istituzione (sul modello che noi definiremmo associazione o fon­ dazione ) dotata di una individualità (anche se non si può ancora parlare di personalità giuridica) indipendente dalle persone che la compongono » . Solo più tardi, cioè nel I secolo a.C., le scuole assunsero « una veste im­ personale e istituzionale » . I testamenti dei filosofi trasmessi da Diogene Laerzio mostrano inoltre che, fatte le dovute differenze, l'Accademia, il Liceo e il Giardino erano « comunità di colleghi accomunati dalla passio­ ne per lo studio sotto la guida di una figura, lo scolarca, che si potrebbe definire anacronisticamente come una sorta di coordinatore » . Il model­ lo di riferimento resta sostanzialmente informale, maestro/allievi, a cui lo scolarca «può imprimere una determinata configurazione senza però mutarne l'essenza » . I testamenti appaiono rispondere a un intento fonda­ mentale costante : « assicurare nel modo migliore la continuità della scuo­ la rimodellando o semplicemente ritoccando la struttura delle relazioni interne. Non sembra dunque esistere una struttura rigida e immutabile, ma una configurazione duttile, che lo scolarca adatta alle circostanze e che può tradursi a livello giuridico in variazioni più o meno formali » . Si tratta di una lettura interessante che ha il merito di riaprire il dibattito da una prospettiva nuova e stimolante.

STORI A D ELLA FILOSOFIA ANTI C A

Organizzazione e struttura

Le quattro scuole principali erano organizzate secondo una struttura in­ terna per certi aspetti simile, che seguiva spesso una gerarchia ben stabi­ lita. A capo della scuola c 'era uno scolarca (.prostates, archon ), le cui funzioni non si limitavano solo alla direzione degli affari comuni, ma dovevano ave­ re anche un' influenza determinante sugli orientamenti di pensiero seguiti nell' insegnamento e a cui i membri della scuola si dovevano uniformare se volevano restare nel seno di quella particolare istituzione. La scelta dello scolarca sembra fosse regolata da criteri non troppo ri­ gidi. Spesso era lo scolarca in carica che designava il proprio successore : Platone nomina Speusippo; Epicuro sceglie Ermarco ; il peripatetico Stra­ tone opta per Licone. In altre occasioni, l'elezione poteva essere fatta per votazione : Senocrate è eletto dai membri giovani (neaniskoi) dell'Accade­ mia. Lo scolarca scelto o designato poteva eventualmente rifiutare l' inca­ rico (è noto il caso di un certo Socratide che lascia il posto ad Arcesilao). In principio, lo scolarca restava in carica tutta la vita, ma ci furono per­ sonaggi che per ragioni di salute rinuciarono prima all' incarico : Lacide e Carneade di Cirene, membri entrambi dell'Accademia. Mancano invece prove consistenti in favore della possibilità di uno scolarcato congiunto postulato talvolta, a torto, per Mnesarco e Dardano nella Stoa. Dopo il ritiro di Lacide, l'Accademia venne tuttavia governata da un consiglio di reggenza. Abbiamo notizia di scolarchi che vissero direttamente nell'ambito del­ la scuola: Speusippo, Senocrate e Polemone nell'Accademia; Epicuro ed Ermarco nel Giardino. Le fonti antiche ci presentano in particolare il Giardino come un' isti­ tuzione rigida nella quale era in vigore una distinzione di gradi che corri­ spondevano probabilmente ai distinti livelli di preparazione acquisiti dai membri (Filodemo parla di philosophoi, philologoi, kathegetai e synetheis). Epicuro, Metrodoro, Ermarco e Polieno sono inoltre spesso presentati come i quattro kathegemones, modelli da imitare all' interno della scuola intesa come contubernium. Per il mantenimento economico della scuola, taluni scolarchi ricorsero al sistema di farsi pagare per il loro insegnamento (sul modello dei sofisti). Nel Giardino era in uso, almeno alle origini, il sistema delle syntaxeis, libe­ re donazioni che personaggi abbienti e influenti (quale, ad esempio, il mi-

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nistro delle finanze di Lisimaco, Mitre) versavano nelle casse della scuola su richiesta dello stesso Epicuro.

Funzioni d ' insegnamento

Non molto conosciamo delle funzioni delle scuole. Qualcosa possiamo dedurre sull'Accademia. Significativo a proposito resta un frammento famoso del comico del IV secolo a.C. Epicrate (fr. F 10 Kassel-Austin = Speusippo, F 33 Isnardi Parente, T 33 Taran). Si tratta di un dialogo fra due personaggi anonimi. A un tale che gli chiede che cosa stiano facendo Pla­ tone, Speusippo e Menedemo, l' interlocutore risponde dicendo di avere visto nell'Accademia un gruppo di giovani intenti a distinguere e definire le varie specie di animali e piante. Stavano in silenzio, chini su una zucca. Di fronte ai vari tentativi di definizione che i giovani davano della zuc­ ca - "un vegetale rotondo", "una verdura", "un albero" - un medico sicilia­ no, che era lì presente, commenta: « Quante sciocchezze ! » . Ma i giovani non gli prestano attenzione e Platone, senza scomporsi, invita i suoi allievi a continuare nel loro intento. La lettura di questa testimonianza ha fatto sì che, nell'Ottocento, si pensasse all'Accademia come a un prototipo delle moderne università (tedesche). Usener, in particolare, aveva scorto nel frammento comico una caricatura delle esercitazioni di botanica e di zoologia che si tenevano nell'Accademia. Platone appariva a questi studiosi come il primo organiz­ zatore della ricerca scientifica nell'Accademia e si era giunti addirittura a presupporre lesistenza nella scuola di programmi regolari e seminari nei quali erano affidate agli studenti migliori ricerche specifiche sotto la guida del maestro (Usener, 1884, pp. 1-2s ) . Ma si tratta di un' ipotesi azzardata e anacronistica, confutata ampiamente dalla critica successiva. Il frammento di Epicrate è, tutt 'al più, testimonianza del metodo diairetico e classifica­ torio praticato nell'Accademia, di cui restano tracce nello scritto di Speu­ sippo Sui simili nonché in dialoghi platonici come il Sofista e il Politico ( cfr. Cherniss, 194s, trad. it. pp. 73-s). Tantomeno si può parlare delle scuole come sedi di un culto mistico o dell'Accademia come una scuola di scienze politiche oppure come di un'attività impegnata in difficili ricerche di carattere metafisico o logico­ ontologico.

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STORI A D ELLA FILO S O FIA ANTI C A

Durata spazio-temporale delle scuole come istituzioni e problemi interni

Nessuna delle scuole filosofiche ateniesi mantenne le stesse caratteristiche e la stessa organizzazione per tutta la durata della sua esistenza. John Glucker ha supposto che l'Accademia intesa come scuola istitu­ zionalizzata, quale fu fondata da Platone, terminò la sua esistenza con Fi­ lone (morto nell' 84/83 a.C.). Antioco di Ascalona non sarebbe mai diven­ tato scolarca dell'Accademia, in qualità di successore ufficiale di Filone, ma avrebbe aperto una propria scuola alla quale dette il nome program­ matico di "Antica Accademia", per mettere così in evidenza un ritorno al pensiero delle origini, dopo le deviazioni del cosiddetto periodo "scettico" (Glucker, 1978)6• L'episodio di Antioco non fu un caso isolato nella storia delle scuole filosofiche. Nell'Accademia (ancora una volta la scuola sulla quale siamo meglio informati) si era già assistito a inquietanti fenomeni di scissioni e di successive reintegrazioni, soprattutto nel periodo che va dalla morte di Lacide, successore di Arcesilao, fino a Filone. Dopo che Lacide era stato costretto a lasciare lo scolarcato a causa di una malattia, la responsabilità della carica venne affidata a un gruppo di anziani (presbyteroi) che resse l'Accademia fino alla successione di Carneade. Le fonti non danno infor­ mazioni troppo dettagliate, ma mostrano la complessità della situazione e le difficoltà che l'Accademia incontrò. La situazione peggiorò negli anni successivi a Carneade. Quando Carneade di Cirene, ammalato, fu costret­ to a cedere la direzione della scuola si assiste alla successione ufficiale di Carneade il Giovane, che morì prematuramente, e fu sostituito da Cratete di Tarso. In parallelo si verifica la secessione di Clitomaco, anche lui disce­ polo di Carneade di Cirene : Clitomaco si ritirò allora nel Palladio dove fondò una propria scuola in opposizione con quella ufficiale; alla morte di Carneade il Giovane, irruppe poi nell'Accademia, quando ancora era sco­ larca designato, Cratete di Tarso e si impossessò di fatto del potere. Nello stesso periodo compaiono anche le figure di Metrodoro di Stratonicea e di Carmada, la cui posizione all' interno della scuola non è ancora ben de­ finita. È stato supposto che Carmada fu nominato successore di Filone e che quindi l'Accademia "ufficiale" avrebbe continuato a sopravvivere per qualche anno accanto alla "Antica Accademia" di Antioco e di suo fratello e successore Aristo. Neppure si deve dimenticare laltro grave problema della secessione di

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alcuni membri della scuola a favore di una scuola avversaria o per fondarne una propria. Nell'Accademia, il caso più noto è quello del giovane Aristotele, che, alla morte di Platone, abbandona la scuola e apre, qualche anno più tardi (335), la propria scuola nel Liceo. Poco prima (339/338), anche Menedemo di Pirra e Eraclide Pontico avevano lasciato l'Accademia al momento dell'ele­ zione di Senocrate allo scolarcato. A qualche secolo di distanza, si collocano gl i episodi di Metrodoro di Stratonicea, passato all'epicureismo, e dei due di­ scepoli di Aristo di Ascalona, Dione di Alessandria e Cratippo di Pergamo, che integrarono il Peripato ( sull'ultima questione e sugli allievi e successori di Antioco, cfr. Lévy, 2012a) . La medesima situazione è comune anche alla Stoa e al Giardino. Nella Stoa, dopo le prime avvisaglie di moti separazionistici - Aristone di Chio, Dionisio "Trasfuga" (Metathemenos) ed Erillo di Cartagine - al tempo di Antipatro e Panezio, si ha notizia di insegnamenti paralleli ( e in concor­ renza ? ) a quello dello scolarca ufficiale. Non è un caso che, proprio in que­ sti decenni, furono attivi ad Atene, oltre ad Antipatro e a Panezio, almeno altri due stoici di rilievo, Dardano e Mnesarco (principes Stoicorum li de­ finisce Cicerone ) , più o meno coevi di Panezio. Posidonio ebbe scuola a Rodi. Anche la compattezza del Giardino comincia a frantumarsi almeno dalla metà del II secolo a.C. Gruppi "dissidenti" operano ( se prestiamo fede a Filodemo ) a Rodi e a Cos; nell'ambito stesso della scuola madre, è inoltre evidente la compresenza di più figure di spicco - Zenone di Sido­ ne, Demetrio Lacone, Fedro di Atene e Filodemo di Gadara - non tutte attive ad Atene, ma spostate talora in zone periferiche ( Mileto, sulla costa microasiatica, e l' Italia, tra Roma e la Campania ) . Una realtà che non può essere spiegata solo come risultato di una decentralizzazione dell' insegna­ mento filosofico da Atene ad altri centri culturali, ma che è altresì sintoma­ tica di uno stato di disagio e di frantumazione dell'originaria unità interna delle scuole filosofiche della fine dell'ellenismo. Sono fenomeni che rivelano una situazione di malessere diffuso che portò cambiamenti profondi e dette origine a un'estesa e generalizzata riorganizzazione interna alle scuole alla fine del I secolo a.C. L'anno cru­ ciale fu 1 ' 8 8, quando Silla riconquistò Atene e le restituì la libertà, dopo la dominazione mitridatica7• Ma ormai letà ellenistica volge al suo termine e con essa la storia delle sue scuole istituzionalizzate.

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Le scienze nel mondo ellenistico di Mario Vegetti e Federico Petrucci*

Il Museo di Alessandria

All' inizio del III secolo a.C. ebbe inizio un processo destinato a lasciare un' impronta durevole sulla storia intellettuale greca, e, si può dire, dell' in­ tero Occidente. Si tratta della progressiva separazione tra riflessione fi­ losofica, il cui centro continuò per secoli a essere sito in Atene, e ricerca scientifica (soprattutto in campo medico-biologico da un lato, matema­ tico, astronomico, geografico, meccanico dall'altro) che trovava ora il suo punto di riferimento principale in Alessandria. La condizione materiale per questo processo fu offerta dalla fondazione in Alessandria, da parte del diadoco di Alessandro Tolemeo I Soter, diventato re d' Egitto - che mirava a legittimare il suo trono grazie a un mecenatismo culturale che gli garantiva prestigio nel mondo ellenizzato -, di due grandi istituzioni: il Museo e la Biblioteca. Il primo provvedeva un luogo di incontro, di la­ voro, di vita comune per scienziati e ricercatori di ogni disciplina e di ogni provenienza, molti dei quali potevano godere di uno "stipendio regio"; la seconda costituiva un centro senza precedenti di raccolta, trascrizione, catalogazione dell' intero patrimonio librario fino ad allora prodotto da tutta la cultura greca (nell'ambito della Biblioteca di Alessandria venne tra l'altro costituito il cosiddetto Corpus hippocraticum, che garantiva la permanenza e la continuità del sapere medico del v secolo). Anche se non siamo sufficientemente informati sulla struttura e sul funzionamento di queste istituzioni', è difficile sopravvalutare la loro importanza rivoluzio­ naria nella trasformazione delle condizioni del lavoro intellettuale in am­ bito scientifico, e in primo luogo medico.



Mario Vegetti è responsabile della stesura dei primi due paragrafi; Federico Petrucci del

terzo.

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STORIA DELLA FILOSO FIA ANT ICA

Quanto alle premesse filosofiche della svolta del III secolo, esse erano state preparate dalla struttura del Liceo aristotelico, che, pur nell'unità ga­ rantita ancora dalla figura del caposcuola, aveva tuttavia concesso largo spazio a ricerche scientifiche specialistiche, condotte dallo stesso Aristo­ tele (si pensi, in ambito biologico, alle sue grandi opere zoologiche) e dai suoi allievi, come Teofrasto, Eudemo, Stratone. Non è del resto certamen­ te casuale se furono proprio Stratone e un altro peripatetico, Demetrio Falereo, secondo quanto riferisce una tradizione plausibile, a suggerire a Tolemeo di impegnare direttamente lo Stato nella creazione di istituzioni destinate a promuovere lo sviluppo del sapere scientifico. L'esito di questo intervento andò probabilmente oltre le loro intenzioni, nel senso appunto dell'allontanamento della filosofia dal pensiero scientifico. Platone aveva ancora svolto una funzione "architettonica", di stimo­ lo e di orientamento, nei riguardi delle ricerche matematiche, e il filoso­ fo Aristotele aveva diretto e coordinato gli studi scientifici nel Peripato. Ora questa supremazia della filosofia sulle scienze diventava sempre meno accettata ed efficace. Certo, alla filosofia restava l'ambito speculativo del­ la "fisica" o teoria degli elementi costitutivi e delle cause prime della na­ tura, ma si trattava, appunto, di un ambito eminentemente speculativo, sottratto per principio alla sperimentazione empirica e alla dimostrazio­ ne scientifica, come avrebbe più tardi fatto rilevare Galeno. Ma si pensi, al contrario, che stoici e aristotelici restarono dogmaticamente fedeli al cardiocentrismo dei rispettivi maestri per lunghi secoli dopo che i grandi anatomisti alessandrini avevano scoperto il sistema nervoso e la sua con­ nessione con il cervello.

La medicina ellenistica

Alla medicina, l'ambiente alessandrino offriva prima di tutto luoghi, ri­ sorse, strumenti, che consentivano ai suoi professionisti quel distacco, al­ meno parziale, dalle immediate esigenze della pratica terapeutica che era stato impossibile per i loro predecessori ippocratici, insomma la schole in­ dispensabile alla ricerca teorica. Certo questo introduceva una scissione fra i praticanti della vecchia arte degli "asclepiadi". Da un lato, gli appar­ tenenti ai gruppi dell'alta ricerca, come quelli legati al Museo, di norma di cospicua estrazione sociale e di alto livello culturale, e il magistero dei

LE S C IENZE NEL M O N D O ELLEN I S T I C O

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grandi scienziati come Erofilo, Erasistrato e dei loro allievi riconosciuti per affiliazioni di scuola; dall'altro, la moltitudine anonima dei medici praticanti e itineranti, spesso sprovvisti (come avrebbe lamentato Galeno) di una riconoscibile preparazione scientifica. In campo scientifico, più specificamente, lambiente del Museo rende­ va possibile ai medici raccogliere la sfida costituita, nel campo dei saperi sulla vita, dalla biologia aristotelica. Essa aveva prescritto lispezione ana­ tomica del corpo animale come via necessaria per la comprensione teori­ ca della sua struttura e delle sue funzioni; una medicina che, come quella ippocratica, restasse al di qua della rivoluzione anatomica operata dalla zoologia aristotelica risultava dunque ormai scientificamente obsoleta. L'atmosfera di "nuova frontiera intellettuale" (cfr. in questo senso von Staden, 1989, pp. 28 ss.) prodottasi nell'ambito del Museo consentì in pri­ mo luogo ai medici di superare questo ritardo: la violazione anatomica del cadavere umano, necessaria per superare i limiti osservativi della dissezio­ ne animale praticata da Aristotele, e per avviare una ricerca anatomo-pa­ tologica di diretta rilevanza medica, veniva ora resa possibile infrangendo un antico tabù. Ma la stessa frontiera della dissezione del cadavere umano venne superata. Secondo l indiscutibile testimonianza di Celso ( fr. 63A von Staden), i grandi anatomisti alessandrini come Erofilo ed Erasistrato sarebbero stati in grado di praticare la vivisezione umana sul corpo di cri­ minali condannati a morte e consegnati loro a questo scopo dalle autori­ tà regie : una pratica, per quanto crudele e come tale deprecata in seguito tanto da pagani come Celso quanto da cristiani come Tertulliano e Ago­ stino, che consentì fondamentali scoperte sull 'anatomo-fisiologia umana. Questa possibilità sarebbe stata concessa ai medici in Alessandria per non più di una cinquantina d'anni; all'epoca di Galeno, nel 1 1 secolo d.C., si conservavano ancora ad Alessandria, per lo studio anatomico, scheletri umani, ma per la vivisezione si doveva ricorrere ad animali come scimmie, capretti e maialini. Erofilo e la sua scuola L'opera di Erofilo' mostra con chiarezza sia la forza innovativa della me­ dicina ellenistica sia i suoi persistenti legami con la tradizione ippocratica. Erofilo introduceva in primo luogo nella medicina una parte teorico-epi­ stemica, relativa alle condizioni normali del corpo sano, cioè un versante

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anatomo-fisiologico del tutto assente nella medicina ippocratica e ispirato invece alla biologia aristotelica. Da questa prendeva però le distanze in­ dividuando il livello fondativo della medicina nell'ambito delle strutture osservabili anatomicamente ( « siano queste le cose prime, anche se non sono prime » , fr. 50B von Staden), e considerando invece ad essa estra­ nea la teoria filosofica degli elementi-qualità costitutivi della materia, sulla quale la medicina non poteva avere alcun controllo. In questo modo, Ero­ filo costruiva una solida protezione epistemologica della medicina rispet­ to alla filosofia e alle sue discussioni, come ad esempio quella che vedeva opporsi la dottrina aristotelica degli elementi a quella epicurea degli atomi (cfr. in proposito Viano, 1 9 84, pp. i.46 ss.). La prima vittima del rasoio epistemologico di Ero filo era la teoria del calore cardiaco innato, che aveva giocato un ruolo centrale nella fisiologia aristotelica. Ma era poi lo stesso cardiocentrismo di Aristotele a venire reso scientificamente obsoleto dalle scoperte anatomiche di Erofilo, che costituivano un progresso davvero im­ pressionante nella conoscenza dell'architettura corporea. Il punto centrale è costituito dall' individuazione del sistema nervoso, chiaramente distinto per la prima volta sia dai tendini sia dai terminali ar­ teriosi; la sua origine era riconosciuta nel cervelletto e nel midollo spinale adiacente. I nervi venivano distinti in due classi, quelli cinetici, cioè re­ sponsabili del movimento volontario, duri ed elastici, affini quindi a tendi­ ni e legamenti; e quelli sensori, molli e cavi. Il sistema nervoso e il cervello assumevano dunque le funzioni percettive e "proairetiche" che Aristotele aveva assegnato al cuore. Quest 'ultimo era invece il centro e l'origine degli altri due sistemi vascolari, le vene e le arterie, ora chiaramente distinte. L'architettura anatomo-fisiologica erofilea contemplava così due prin­ cipi (cervello e cuore) e tre sistemi (nervi, vene e arterie). Una sorta di assioma epistemico induceva poi Erofilo ad assegnare un Auido diverso a ogni sistema : pneuma psichico, vettore dei messaggi percettivi e forse (ma non è sicuro) di quelli motori, elaborato dal cervello a partire dall'aria inspirata, nei nervi; sangue nelle vene ; ancora pneuma, ma questa volta proveniente dal cuore, nelle arterie. Questo sistema presenta sul piano anatomo-fisiologico numerose incertezze e lacune, che come vedremo Erasistrato avrebbe cercato di colmare. La maggiore incompiutezza della teoria erofilea consisteva però nella mancata saldatura fra innovazioni nel sapere anatomico e versante clinico­ terapeutico. Anche in questo senso, Erofilo fu a dire il vero un innovatore, grazie alla teoria del polso (basata su sistoli e diastoli delle arterie), di cui

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fu fondatore e anche un virtuoso nel!' impiego per diagnosi e prognosi del­ le affezioni febbrili. Ma la patologia di Erofilo restava quella umorale di matrice ippocratica: la causa delle malattie consisteva sempre negli squili­ bri tra gli umori (bile nera e gialla, Aegma e sangue) ; e altrettanto ippocra­ tica era la terapia, basata sulla dieta alimentare e sui farmaci di estrazione vegetale. Questo scollamento fra l'innovativa teoria anatomo-fisiologica e la tradizionale clinica ippocratica può contribuire a spiegare un importante sviluppo prodottosi nell'ambito della scuola di Erofilo. Filino di Cos, già nel III secolo a.C., dava inizio alla tendenza empirica, sotto il segno di un ritorno a Ippocrate e del rifiuto dell'anatomia vista come inutile alla pratica medica. Nell'ambito della scuola empirica, coerentemente con la sua ispira­ zione di base, la ricerca anatomica venne sostituita, oltre che dall'esperienza diretta dei casi clinici, dalla pratica estensiva del commento ai testi ippocra­ tici, che ebbe inizio con Bacchio e che sarebbe continuata per secoli. La scuola empirica di medicina non fu priva di contatti, per quanto difficilmente documentabili, con la filosofia scettica: ciò che le accomu­ nava era l' idea dell' impossibilità di risalire a una spiegazione causale dei fenomeni che comportasse inferenze dal visibile all' invisibile, dall'osser­ vazione alla teoria generale (cfr. in proposito Viano, 1 9 8 1 ) . Contro questa tendenza, e richiamandosi all'originale insegnamento erofileo, si sarebbe decisamente schierato Galeno. Erasistrato e la tendenza materialistica Benché sia stato contemporaneo di Erofilo, Erasistrato3 dà la netta impres­ sione di aver tentato di superare le difficoltà e le lacune del grande ales­ sandrino. Egli traeva in primo luogo con più risolutezza le conseguenze della rivoluzione anatomica declassando lo statuto epistemologico della tradizionale clinica ippocratica. Ali' anatomo-fisiologia, cui si aggiungeva ora l'eziologia, Erasistrato assegnava uno statuto propriamente epistemico (epistemonikon), mentre alla clinica (semiotica, terapeutica) veniva rico­ nosciuto solo un carattere di approssimazione stocastica (stokastikon ) : una partizione che avrebbe segnato una traccia profonda sia nell 'autoconsape­ volezza del sapere medico, sia nella diversa dignità spettante ai suoi pro­ fessionisti, i "teorici" e i clinici praticanti. Galeno avrebbe seguito questa decisione epistemologica di Erasistrato, senza tuttavia ripeterne lo sforzo

STORIA D ELLA FILO S O FI A ANTICA

di rendere la clinica effettivamente dipendente dal livello epistemico della medicina. La costruzione del complesso sistema erasistrateo si articola in una serie di passi, sia teorici sia osservativi, di grande originalità. Esso era fondato su di una serie di impegnativi presupposti, dal carattere quasi-assiomatico : 1 . lorganismo è governato d a due « materie prime e fondamentali » , il cibo, che, trasformato in sangue, alimenta il corpo integrandone le per­ dite, e il pneuma (derivante dall'aria inspirata), principio energetico delle principali funzioni naturali; i.. c 'è una « struttura principale » , la triplokia, invisibile intreccio di mi­ cronervi, microarterie e microvene, di cui sarebbero composte le pareti dei tre sistemi vascolari (i nervi sono ritenuti indispensabili per spiegare la dif­ fusione periferica della sensibilità, le vene per assicurare la nutrizione delle tuniche arteriose, essendo le arterie stesse prive di sangue, le arterie per la distribuzione del pneuma vitale). Erasistrato introduceva, a proposito di questa triplokia necessaria al sistema ma anatomicamente inosservabile, il concetto epistemologico di "osservabilità teorica" (logoi theoreton ), di pro­ babile derivazione epicurea (cfr. Ep. Herod. 47; 6i.); 3 . un principio generale di carattere biofisico, il "riempimento del vuoto" (più tardi noto come il principio dell ho rror vacui). Esso significava che ogni volta che si verifica nell'organismo una perdita di materia, per consu­ mo fisiologico o per motivi patologici, la natura tende immediatamente a rimpiazzarla con materia adiacente, che può essere dello stesso tipo nei casi normali, o di tipo diverso in quelli patologici. A partire da questi presupposti, Erasistrato poteva non solo sviluppare il suo sistema anatomo-fisiologico, ma anche farne derivare la patologia e la terapia. Cominciamo dai processi mediante i quali l'organismo viene ali­ mentato con le due materie fondamentali, pneuma e nutrimento. L'aria esterna viene aspirata dalla dilatazione del polmone e alimenta il pneuma necessario ai processi fisiologici. La diastole del ventricolo sinistro del cuore richiama il pneuma dai polmoni, la sua sistole lo pompa nelle arte­ rie, dove esso si bipartisce. La maggior parte (pneuma "animale" o vitale) raggiunge attraverso le arterie le cavità muscolari, fornendo il principio energetico dei movimenti; una parte minore raggiunge i ventricoli cere­ brali dove viene trasformato in pneuma psichico ; la sistole dei ventricoli cerebrali pompa il pneuma psichico nei nervi sensori e cinetici, entrambi cavi. '

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Il cibo ingerito subisce una prima elaborazione nello stomaco (non una cozione che comporti lopera del calore organico, ma una triturazione ad opera dei muscoli) ; il fegato ne completa la trasformazione in sangue, che viene richiamato al cuore attraverso la vena cava dalla diastole del ventri­ colo destro. La sua sistole pompa il sangue nelle vene che lo distribuiscono a tutte le parti del corpo, dove esso ricostituisce la materia organica con­ sumata. La scoperta erasistratea delle valvole cardiache consentiva dunque di concepire il cuore come una doppia pompa (di pneuma e di sangue) fornita di valvole unidirezionali, su cui si imperniavano i maggiori processi vitali, fermo restando il ruolo egemonico del cervello nella sensazione e nel movimento volontario. A questo punto Erasistrato si trovava a dover fronteggiare due pro­ blemi. Il primo era quello dell' innegabile presenza di sangue nelle arterie ogni volta che esse venivano perforate : questo dato osservativo rischiava di far crollare la distinzione fra i sistemi e i rispettivi fluidi, che esigeva che il sangue fosse contenuto nelle sole vene, essendo i nervi vasi del pneuma psichico e le arterie di quello animale. Il secondo, ancora più importante, era di operare quella connessione, alla quale Erofilo aveva rinunciato, fra anatomo-fisiologia e clinica, supe­ rando in nome della prima la patologia umorale di tradizione ippocratica. Erasistrato tentava di risolvere entrambi questi problemi con una sola mossa di straordinaria efficacia scientifica: lassunzione di una nuova struttura "teoricamente osservabile", un' invisibile sinastomosi, provvista di valvole, fra i terminali capillari di vene e arterie. Nel caso di perfora­ zione della tunica arteriosa, si poteva ipotizzare l immediata fuoriuscita di tutto il pneuma contenuto nell'arteria. Il vuoto così prodottosi veniva immediatamente colmato dall'affiusso di sangue venoso che forzava, per il principio del "riempimento", la valvola della sinastomosi traboccando nell'arteria (Galeno avrebbe dedicato straordinari sforzi di indagine speri­ mentale alla falsificazione di questa ipotesi). Quanto alla patologia, Erasistrato identificava la condizione di salute con la tenuta stagna dei tre sistemi vascolari. Egli poteva così identificare una sola causa vera e propria delle malattie : la "pletora': cioè l'eccesso di materie in ingresso nell'organismo, con il conseguente eccesso di sangue. Se nelle vene c 'è più sangue di quanto esse ne possano contenere, esso ten­ de a tracimare nei sistemi contigui, e questo fenomeno, la paremptosis, è la causa prima e praticamente unica di tutte le malattie, determinando di­ sturbi sia nel sistema arterioso sia in quello nervoso. La presenza di sangue

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nelle arterie produce tutte le malattie di carattere infiammatorio e febbri­ le; quella nei nervi le malattie connesse alla "paralisi", cioè al malfunziona­ mento sensoriale e motorio. Su questa base, il principio generale di ogni terapia consisteva nel ri­ durre la quantità di sangue, riconducendolo nei suoi vasi venosi: a ciò po­ tevano servire sia le diete alimentari sia i farmaci evacuanti ( può apparire sorprendente a questo punto che Erasistrato rinunciasse al salasso, forse per non ledere la tenuta stagna dei vasi venosi ) . Il sistema di Erasistrato riusciva così, per la prima e forse l'ultima volta nella storia della medicina antica, a connettere il versante epistemico ( ana­ tomo-fisiologico ed eziologico ) e quello stocastico ( diagnostico e terapeu­ tico ) del sapere medico. Ma pagava questo successo con una serie di punti critici, che sarebbero stati oggetto di dure confutazioni da parte sia dei medici empirici, sia anche di un razionalista "dogmatico" come Galeno. In primo luogo : una concezione della medicina che si pretendeva fondata sull'osservabilità anatomica delle strutture corporee era invece costretta a far ricorso, negli snodi decisivi del sistema, a entità e struttu­ re per principio empiricamente inosservabili, come lo stesso pneuma, la triplokia, le sinastomosi; e d'altra parte negava significato a fenomeni ben osservabili come la presenza di sangue nelle arterie. In secondo luogo: far dipendere, attraverso il concetto di pletora, la clinica dall'anatomia, impoveriva in modo eccessivo la ricchezza del pa­ trimonio ippocratico, la sua capacità di comprendere la semiotica dei casi individuali, di valorizzare nella diagnosi e nella terapia l'età e il regime del paziente, il virtuosismo dietetico : tutto ciò, insomma, che pareva agli em­ pirici contare davvero nella pratica concreta della medicina. Nonostante questi punti critici, la scuola erasistratea, sia pure con qual­ che cedimento ( ad esempio il ritorno alla flebotomia) avrebbe mostrato una lunga resistenza: c 'erano ancora suoi adepti nella Roma di Galeno, nel I I secolo d.C. Ma lo stesso Galeno avrebbe indicato una diversa e più pericolosa discendenza erasistratea, che gli consentiva di inserire il fon­ datore in quella tendenza materialistica e anti-teleologica (dunque anti­ aristotelica) , il cui ispiratore filosofico sarebbe stato naturalmente Epicuro ( per questa polemica di Galeno cfr. Vegetti, 1999 ) . Da questo punto di vista, il vero successore di Erasistrato sarebbe stato Asclepiade di Bitinia ( fine II sec. a.C. ) 4. Secondo Asclepiade bastavano a spiegare l' intero organismo due assunti, entrambi "osservabili teorica­ mente": gli onchoi, massicelle costitutive del corpo ( secondo Galeno simili

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agli atomi epicurei), e i poroi, condotti vascolari in cui essi si muovono. Asclepiade riduce dunque in modo drastico le presupposizioni necessarie a Erasistrato, facendo naturalmente a meno del suo sapere anatomico, ma continuandone la semplificazione eziologica e clinica. Asclepiade era dun­ que (sempre secondo Galeno) ali'origine dell'ulteriore mossa riduzionista compiuta dalla medicina metodica fondata a Roma da Temisone ( I sec. a.C.) e Tessalo ( I sec. d.C.). Essi avrebbero ridotto tutte le condizioni pa­ tologiche a stati di eccessivo restringimento o rilassamento dei condotti, che avrebbero reso troppo difficile o troppo pervio il movimento delle particelle organiche ; la terapia sarebbe stata parimenti ridotta a interventi mirati ad aprire o a restringere gli stessi condotti (questa drastica semplifi­ cazione avrebbe reso secondo i metodici l' intera medicina insegnabile in soli sei mesi)1• Lo stesso Galeno, come vedremo, si sarebbe trovato in ogni caso sia a beneficiare dell'eredità del sapere anatomo-fisiologico dei grandi medici ellenistici, sia a fronteggiare le difficoltà epistemologiche che Erofilo aveva lasciato irrisolte e che Erasistrato aveva tentato di superare a costo di aprire nuovi e complessi problemi.

Matematica, astronomia, musica

Di norma la storia della matematica greca non si articola per "scuole", in­ tese anche solo come contesti in cui gruppi di studiosi, una generazione dopo l'altra, si dedicano a determinate discipline (senza che questo im­ plichi un' istituzionalizzazione o una strutturazione ufficiale). Tra le rare esperienze di questo tipo, l'unica estesa per almeno un secolo e con un dibattito scientifico documentato è forse individuabile nell'Alessandria del III secolo a.C. Euclide vi svolse le sue ricerche nella prima metà del secolo, e la sua influenza (più o meno diretta) è sicuramente ravvisabile nelle opere di Apollonio di Perge, più giovane di almeno una generazione, che studiò nella città. Nello stesso contesto visse Eratostene di Cirene, di­ rettore della Biblioteca e precettore reale, a cui Archimede, vissuto nello stesso secolo a Siracusa, dedicò e inviò il suo Metodo. E tuttavia, le scienze esatte furono praticate anche in altri nuclei dell'ormai dissolto Impero ma­ cedone (come dimostra lo stesso caso di Archimede), e furono oggetto di studio e produzione teorica per tutta 1'età ellenistica.

STORIA D ELLA FILO S O FI A ANT ICA

Euclide e il ruolo degli Elementi nella storia della matematica greca Euclide6 operò ad Alessandria nella prima metà del III secolo, dove esercitò a qualche livello attività d' insegnamento ( probabilmente non sotto l'egida diretta del potere tolemaico) 7• Poche notizie biografiche affidabili sono note e la nostra fonte principale, il Commento al I libro degli Elementi di Proclo, sembra talvolta manipolare le sue fonti, come quando attribuisce a Euclide ladesione al platonismo ( 68 20-21 ) . Tale affermazione, certamente "vantag­ giosa" per il platonico Proclo e basata solo sul fatto che il libro XIII degli Elementi è dedicato ai solidi impiegati nella cosmogenesi del Timeo ( s3c ss. ) , non è fondata. Non vi sono ragioni per attribuire a Euclide ladesione a un orientamento filosofico, e ciò che le opere segnalano è un vasto impegno nei diversi ambiti delle scienze esatte : oltre agli Elementi, sono attestate opere di argomento geometrico, come i Dati ( sull'uso della nozione di geometrica­ mente dato) o le Coniche ( trattato sulle sezioni coniche ) , musicale ( la Divi­ sione del canone), astronomico ( i Fenomeni), ma anche un trattato di ottica8• Il nome di Euclide è però legato indissolubilmente agli Elementi, base di ogni successiva formulazione geometrica ( anche in senso polemico : si pensi alle contemporanee geometrie non euclidee, costruite negando o non accettando alcuni postulati ) e aritmetica: probabilmente nessuna opera scientifica ha avuto nel corso dei secoli la stessa influenza. Non è però altrettanto immediato cogliere la ragione dell ' importanza degli Ele­ menti nel loro contesto storico. Essa non può dipendere né dall"'inven­ zione" del genere letterario, né da una presunta completezza, né tanto­ meno dall'originalità dei contenuti: al contrario, gli Elementi di Euclide si collocano in una tradizione "di genere" ben stabilita9, producono solo una selezione di nozioni e dimostrazioni, ma soprattutto dipendono in ampia parte da scoperte precedenti. Euclide era allora niente più che un compilatore ? Guardando al piano dei tredici libri autentici degli Elementi, piuttosto disorganico e discontinuo, tale sensazione sembra confermata: i libri I-IV sono dedicati alla geometria piana; il v alle proporzioni; il VI all'applicazione delle proporzioni alla geometria piana; i libri VII-IX alla teoria dei numeri; il x ai segmenti commensurabili o incommensurabili; i libri XI-XIII alla stereometria ( geometria solida) . Eppure è proprio a par­ tire da questa sistemazione che è possibile rintracciare uno dei caratteri fondamentali degli Elementi: sulla base di alcuni punti di partenza indi­ mostrabili, Euclide produce una catena dimostrativa in cui le proposizioni seguenti si basano sulle precedenti (benché poi non tutte le proposizioni

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debbano essere usate per fondarne altre) . Pur attingendo ampiamente a materiale già disponibile'0, Euclide costruisce per primo (e definitivamen­ te, almeno negli stessi termini) le discipline che affronta come un edificio dimostrativo coerente e conclusivo". Parallelamente è importante osservare altri due aspetti centrali dell'o­ pera euclidea: la definitiva fissazione di uno "stile" dimostrativo e la ridefi­ nizione della nozione di punto di partenza della dimostrazione. In primo luogo, ogni dimostrazione euclidea, problema (che prescrive di costruire, fare o trovare qualcosa) o teorema (che prescrive di dimostrare qualcosa, generalmente una proprietà) che sia, è composta da passaggi prestabiliti: si tratta di una struttura semplificabile (alcuni passaggi possono all'occor­ renza essere omessi) ma non violabile nei suoi tratti fondamentali, logici e sintattici, una struttura che garantisce il rigore della dimostrazione. Ma non è tutto : Euclide sistematizza una serie di elementi linguistici (proba­ bilmente in parte tradizionali) in modo tale da rendere ogni dimostrazione propriamente generale. In effetti, la generalità delle dimostrazioni geome­ triche greche non è determinata da un procedimento di generalizzazione (come invece riterrà Proclo, In primum Euclidis Elementorum librum 207 4-25), ma dall' intrinseca indeterminazione degli oggetti considerati: essi non sono "istanze" particolari passibili di universalizzazione, ma oggetti di per sé generalissimi in quanto indefiniti, non considerabili come individui (su questi aspetti cfr. Acerbi, 2007, pp. 259-323; 20n). Il secondo aspetto, più difficile da determinare, riguarda il ruolo dei "punti di partenza" della dimostrazione, ovvero i presupposti indimostra­ bili su cui si basa la catena di proposizioni degli Elementin: si tratta di definizioni (horoi), postulati (aitemata) e nozioni comuni (koinai ennoiai, o assiomi). Le definizioni sono pensate per spiegare ciò in cui consistono oggetti fondamentali, o abbreviarne descrizioni più ampie ; esse possono essere poste come indimostrabili solo in modo provvisorio, poiché Eu­ clide offre talvolta proposizioni che costruiscono gli oggetti definiti (un esempio classico è quello del quadrato, a cui è dedicata la definizione I 21 ma che poi è costruito nella proposizione I 46). Gli assiomi sono verità generali legate al ragionamento quantitativo, indimostrabili, che regola­ no logicamente le successive operazioni. I postulati contengono invece sia asserzioni specifiche che regole. Nonostante molti tentativi di rintraccia­ re tali elementi in elaborazioni filosofiche precedenti, sembra acquisito che Euclide sia responsabile di innovazioni sostanziali: da un lato l' idea, proposta da Platone nella Repubblica ( v 51oc-d), che i matematici agisca-

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no ponendo ipotesi senza darne ragione e procedendo deduttivamente è troppo vaga per fungere da precedente o da modello normativo ; dall'altro i principi della dimostrazione fissati da Aristotele ( soprattutto negli Ana­ litici Secondi) non sembrano né formalmente coincidenti né direttamente ispiratori rispetto a quelli euclidei. Del resto, nonostante la scarsezza delle fonti dirette circa la matematica pre-euclidea, è possibile ipotizzare che Euclide abbia riformato in modo sistematico uno stile dimostrativo che, pur prossimo e in "naturale" evoluzione (cfr. i trattati di sferica di Autolico di Pitane, approssimativamente contemporaneo di Euclide ) , era diverso da quello degli Elementi sia nella macrostruttura sia nelle sue articolazio­ ni formali più specifiche. Tale stile sarà senza dubbio un punto di rife­ rimento fondamentale, benché scienziati successivi tendano a distaccarsi dal modello euclideo proprio circa i "punti di partenza": tra questi furono Aristarco nelle sue opere di astronomia geometrica e Archimede, che pre­ metteva alle varie opere postulati e definizioni ad hoc. Come si vedrà, gli Elementi, pur acquisendo subito una fortissima rile­ vanza, non soppiantarono completamente altre tradizioni ( in particolare aritmetiche ) , né inibirono la ricerca di nuovi possibili approcci metodolo­ gici. A partire dalla tarda antichità, tuttavia, si può facilmente affermare che essi divennero testo assolutamente canonico. A dimostrazione vi sono svariati commenti e operazioni esegetiche, soprattutto nell'ambito della tradizione platonica: oltre al matematico Erone ( I sec. d.C. ) , sono attestati interessi mirati da parte di Porfirio, Pappo, Proclo, Simplicio. Uno snodo fondamentale per la tradizione del testo risale al IV secolo d.C.: Teone di Alessandria (In Almagestum 492 6) produsse un'edizione canonica degli Elementi, che è ben rappresentata da uno dei due rami della tradizione ma­ noscritta. Altre testimonianze dell' interesse continuativo per 1 'opera sono i libri XIV e xv, aggiunti rispettivamente nel II secolo a.C. (dall'astrono­ mo Ipsicle ) e nel VI d.C. ( autore non noto ) , oltre che l'ampia tradizione manoscritta e le numerose traduzioni latine e arabe, volte evidentemente a rendere fruibile un'opera ritenuta indispensabile. Euclide e gli altri: Archimede, Apollonio di Perge, Eratostene, la tradizione platonica La vivacità del contesto in cui operò Euclide determinò da un lato una pressoché immediata ricezione delle sue opere ( specie nel contesto ales­ sandrino), dall'altro la presenza di operazioni di correzione, miglioramen-

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to e integrazione. La prima figura da considerare è il siracusano Archimede (morte fissata al 212 ) , autore di numerose opere di argomento geometri­ co (tra cui La sfora e il cilindro e la Misurazione del cerchio), astronomico (come l'Arenario, che contiene in realtà una trattazione su grandezze nu­ meriche molto elevate), meccanico'3• Nonostante la probabile vicinanza cronologica tra i due (per la quale un contatto poté avvenire solo in una fase tardiva) e il marcato carattere di indipendenza, specificità e settoriali­ tà dell'opera del siracusano, Archimede utilizzò in qualche modo le opere di Euclide. Ciò non implica, però, un'adesione incondizionata; al contra­ rio, da molti punti di vista Archimede segna vie metodologiche nuove (e problematiche). Talvolta egli pare proporre una concezione peculiare de­ gli oggetti matematici, che "si presentano" allo studioso e hanno proprietà "naturali": si tratta di una posizione "iper-realista� non associabile alle co­ struzioni euclidee. Tali affermazioni, tuttavia, sono contenute nelle lettere prefatorie, tipicamente "retoriche� mentre nei contesti operativi una si­ mile prospettiva viene totalmente ribaltata: Archimede manipola e deco­ struisce le figure in modo talmente radicale da negare difatto un approccio realista, e arriva anzi a superare di gran lunga le manipolazioni delle figure operate da Euclide. Questo aspetto è legato a una seconda peculiarità di Archimede, ovvero il tentativo di stabilire un nuovo "approccio" ai pro­ blemi geometrici. Nella lettera prefatoria al Metodo egli annuncia la sco­ perta di un procedimento applicabile a problemi geometrici che consente di "intuire" alcuni risultati senza passare per la dimostrazione geometrica. Quest'ultima non è eliminata, ma considerata come momento ulteriore di formalizzazione : prima vi è dunque un' intuizione, poi una (canonica) struttura dimostrativa. Archimede non fu però il solo a confrontarsi criticamente con il mo­ dello euclideo, che venne discusso già nel contesto alessandrino. La più importante tra queste operazioni è ascrivibile ad Apollonio di Perge ( 240170 a.C. ca.), matematico e astronomo (cfr. infra, pp. 48 ) , attivo (a qual­ che titolo, e per un certo periodo) ad Alessandria: frequentò il contesto in cui (insegnò o) aveva insegnato Euclide, e fu autore del più autorevole trattato sulle Coniche (in otto libri) dell'antichità (su Apollonio cfr. Fried, Unguru, 2001, pp. 2-12; per l'aspetto qui considerato cfr. Acerbi, 2010 ) . Secondo una notizia fornita da Pappo ( Collectiones mathematicae II 672 ) , nei primi quattro libri Apollonio avrebbe semplicemente integrato le Co­ niche di Euclide, aggiungendo poi altri quattro libri. Ma questo resoconto è estremamente parziale. La reale matrice dell 'operazione emerge dalla

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lettera prefatoria al primo libro delle Coniche, in cui Apollonio espone i contenuti della sua opera chiarendo che i primi quattro libri sono ele­ mentari e che nel redigerli ha da un lato recuperato materiale precedente, e in particolare euclideo, dall'altro aggiunto molto di nuovo. Da questo spaccato emerge come la storia reale delle matematiche greche fosse nel suo contesto ben diversa rispetto a quella descritta nella tarda antichità: l'assoluta autorità di Euclide compare come costruzione storiografica, che pur trovando riscontro nell' importanza delle opere euclidee non rende conto della dialettica ( reale o "virtuale" ) al centro della quale esse furono in età ellenistica. Nell'Alessandria del III secolo a.C. operò anche Eratostene di Cirene, direttore della Biblioteca e precettore reale. Benché le sue ricerche più ri­ levanti si situino probabilmente nell'ambito della geografia ( in particola­ re, la sua misurazione della circonferenza terrestre rimase sostanzialmente autorevole fino alla Geografia di Tolemeo ) , egli fu attivo nella ricerca ma­ tematica, e in particolare nell'ambito delle medietà'4• e 'è però un aspetto che rende peculiare ( e qui particolarmente interessante ) la figura di Era­ tostene : egli aderì alla fìlosofìa platonica e sviluppò ( almeno in parte ) le sue ricerche matematiche nel contesto di opere dedicate al Timeo (come il Platonico). Un esempio di questa convergenza è fornito dall'elaborazione di un procedimento che consente di derivare proporzioni in diversi rap­ porti da un'uguaglianza di unità, o viceversa di ridurre a un'uguaglianza di unità proporzioni in specifici rapporti. Tale regola era probabilmente pen­ sata come corredo esegetico all'applicazione delle proporzioni del Timeo, e come tale rimase considerata in età imperiale ( ad esempio da Adrasto e poi da Teone di Smirne, che la riporta in Expositio 107 15-m 14). Una simile sovrapposizione tra matematiche e filosofia platonica, non riscontrabile nelle opere dei matematici "principali" dell'età elleni­ stica, rappresenta in effetti un dato da considerare. Oltre alle scoperte di ambiente accademico riprese e sistematizzate da Euclide, vi era probabil­ mente un modello matematico proprio del contesto dell'Accademia che "sopravvisse" nonostante fosse stato accantonato ( almeno nella sua forma classica) da Euclide. Si tratta del modello aritmogeometrico, per il quale i numeri, aggregati di unità, sono associati a figure geometriche in funzione dei loro fattori ( ad esempio : se un'unità è un punto, 4, essendo 2 x 2, è un quadrato di lato 2 ) ; sulla base di tale presupposto questo metodo elaborava relazioni tra i numeri e poggiava su tavole numeriche e sull'esposizione di esempi piuttosto che su dimostrazioni di stampo euclideo. Tale approc-

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cio percorre di fatto tutta l'antichità fino al neoplatonismo : il "manuale" classico di questa tradizione, lIntroduzione all'aritmetica di Nicomaco di Gerasa ( n sec. d.C.), fu commentato da Giamblico, tenuto in altissima considerazione da Proclo e Domnino, e divenne un testo canonico per lo studio dell'aritmetica nella tarda antichità e nel Medioevo. L'astronomia nell'età ellenistica : dalla sferica euclidea dei Fenomeni a Ipparco In senso ampio, un interesse a qualche titolo astronomico in Grecia è già rintracciabile nelle rappresentazioni del mondo nell'epica arcaica e nelle cosmologie presocratiche'1• Questa prima fase, interessata soprattutto a raggruppare le stelle in costellazioni e alla composizione di calendari, si estende fino alla metà del IV secolo, cioè fino a Eudosso di Cnido. Egli rese canonico il cosiddetto "modello a due sfere" (quella delle stelle fisse e quel­ la della Terra) e pose ali'ordine del giorno nuovi e più complessi problemi, relativi ai moti della sfera stellata e dei pianeti; con Eudosso, inoltre, inizia a essere applicato il principio (cardine dell'astronomia greca) del "salvare i fenomeni", ovvero spiegare le apparenti anomalie nel moto planetario (i fenomeni) attraverso modelli che rispettino certi requisiti geometrici e fisici'6• In particolare, Eudosso elaborò un modello a sfere omocentriche (Aristotele, Metaph. XII 8 1073b 17-1074a 4) finalizzato a rendere conto dell'anomalia planetaria a lui nota, ovvero l'anomalia "rispetto al Sole": dalla Terra i pianeti, in movimento lungo l'eclittica, appaiono produrre anomalie nel moto in latitudine e longitudine, quindi tracciare traietto­ rie non circolari né regolari, contrariamente a quanto dovrebbe accadere secondo basilari assunzioni fisiche. Il modello eudossiano prevedeva per ciascun pianeta un sistema di sfere omocentriche con assi a diverse incli­ nazioni; la loro interazione avrebbe riprodotto lapparente anomalia, spie­ gandola in funzione dei movimenti circolari (quelli delle sfere). È in questo contesto che vanno collocati i Fenomeni di Euclide. Si tratta di uno scritto di "sferica", particolare branca della geometria sviluppatasi soprattutto a cavallo tra il IV e il I I I secolo (altro esempio ne è La sjèra in movimento di Autolico di Pitane) che si applica all'astronomia in quanto spiega le posizioni e i movimenti degli astri rispetto a determinati punti della sfera celeste. I dati osservativi impiegati sono elementari, mentre me­ todi di calcolo complessi o elementi quantitativi sono pressoché assenti: la

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geometria sferica dei Fenomeni è sostanzialmente sovrapposta alla costru­ zione geometrica, nonostante il fatto (in realtà non indifferente rispet­ to alla riuscita dell'operazione) che il metodo sia qui applicato a oggetti quantomai reali. Si tratta della stessa prospettiva in cui va letta lattività di Aristarco di Samo (prima metà del III sec. a.C.), che secondo Archimede (Arenarius 11 218 10-18) avrebbe elaborato un modello eliocentrico : anche in questo caso, in effetti, il sistema astronomico è basato su determinate as­ sunzioni geometriche e calcoli di convenienza, senza una reale attenzione per i dati osservativi. Più difficile è invece cogliere il ruolo giocato da Apollonio di Perge nel­ la tradizione astronomica. Egli avrebbe per primo trovato una soluzione a un nuovo problema, quello della cosiddetta "anomalia" rispetto all'eclit­ tica (o semplicemente "moto anomalistico" dei pianeti): il moto circola­ re dei pianeti non si "altera" solo in latitudine e longitudine, ma anche "in profondità", poiché i pianeti si allontanano e avvicinano rispetto alla Terra. A partire da alcuni passi dell'Almagesto ( m 1 ; IV 5; XII 1 ) , sembra che Apollonio abbia elaborato i modelli dell'eccentrico e dell'epiciclo per spiegare questo fenomeno in termini di moto circolare uniforme. Secondo il modello dell'eccentrico (cfr. schema A a fianco) il pianeta (P) si muove regolarmente su un'orbita circolare (�, con centro in b) ma eccentrica ri­ spetto all'universo (a, con centro in T, la Terra). Secondo il modello dell'e­ piciclo ( cfr. schema B a fianco), invece, il cerchio �. detto deferente, è con­ centrico all'universo (entrambi hanno centro in T); su di esso si muove il centro b della circonferenza y, su cui a sua volta si muove regolarmente il pianeta P. In entrambi i casi il pianeta, pur allontanandosi e avvicinandosi rispetto alla Terra, ha moto circolare uniforme. Apollonio sembra aver inoltre dimostrato l'equivalenza tra i due mo­ delli (la traiettoria finale descritta dal pianeta è la medesima) e un teore­ ma relativo a stazionamento e retrogradazione, cioè quei movimenti per cui alcuni pianeti paiono stazionare (fermarsi presso un punto della volta celeste) e invertire la direzione del movimento. Al di là di recenti (e for­ se troppo radicali) tentativi di drastico ridimensionamento del ruolo di Apollonio in queste scoperte ( cfr. ad esempio Goldstein, 2009 ), va tenuto presente che le elaborazioni indicate, pur muovendo da un dato osserva­ tivo (l'anomalia planetaria), non rispondono direttamente dei fenomeni né impiegano dati quantitativi: ciò che è ancora in primo piano è laspetto geometrico del modello planetario. Una reale svolta è invece segnata da Ipparco di Nicea ( n sec. a.C.).

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Modelli planetari ellenistici

L' importanza che tradizionalmente è attribuita a questa figura è dovuta a diverse ragioni: egli per primo ebbe a disposizione e mise a frutto una cer­ ta quantità di dati osservativi (anche babilonesi) ; effettuò osservazioni in prima persona (riportate da Tolemeo) ; introdusse nell'astronomia nuovi metodi quantitativi e predittivi. Solo in questo modo Ipparco poté dare consistenza ai modelli dell'eccentrico e dell'epiciclo, cioè renderli davvero operativi nel salvataggio dei fenomeni. Al contempo, egli dovette conce­ pire un metodo nuovo che regolasse 1' interazione tra modelli geometrici e dati osservativi: esso fu probabilmente basato su un empirismo radicale, per cui qualsiasi osservazione poteva invalidare la costruzione geometrica e le quantificazioni ad essa applicate (cfr. in particolare Grasshoff. 1990, pp. 198-216). Nonostante le evidenti difficoltà derivanti da un simile meto­ do, a Ipparco sono ascrivibili enormi acquisizioni (1' applicazione efficace dei modelli planetari almeno al moto solare; la scoperta della processione degli equinozi'7; una celebre mappatura delle stelle) che resero le sue posi­ zioni autorevoli fino alla rifondazione tolemaica dell' astronomia'8• La Divisione del canone e il dibattito sulla scienza armonica La Divisione del canone euclidea è uno scritto di argomento musicale'9 che conduce, attraverso un' introduzione e venti proposizioni (che affrontano prima presupposti matematici e poi focalizzano le dimostrazioni su aspetti musicali) a tracciare le principali notazioni tradizionali in modo tale che

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le note siano disposte su un segmento (che raffigura un canone armonico, cioè un monocordo) e siano tra loro in determinati rapporti quantitativi (dato che nella teoria musicale greca a ogni intervallo armonico corrispon­ de un certo rapporto numerico)'°. Un'acquisizione significativa è da rin­ tracciare già nell' introduzione, che contiene una delle prime definizioni fisiche del suono in termini di frequenza, laddove la visione tradizionale (Archita B 1 DK e Platone, Tim. 67b 2-6) identificava il suono con una singola percussione dell'aria (forte, quindi veloce, per un suono acuto ; debole, quindi lenta, per uno grave). Benché siano presenti alcune impre­ cisioni dimostrative, lo svolgimento consiste in una concatenazione di di­ mostrazioni geometriche (che però spesso presuppongono quantificazio­ ni numeriche, cioè una base aritmetica) di stampo euclideo : la valutazione dei rapporti tra le note o la loro individuazione è fondata interamente su procedimenti dimostrativi svolti a partire da determinati presupposti logici. L'esempio più significativo è offerto dalla soluzione a una vexata quaestio della musica greca, cioè la divisibilità del tono in parti uguali (o, in altri termini, se esista un semitono perfetto) : poiché 1' intervallo di tono è tradizionalmente identificato nel rapporto 9/8, il problema viene propo­ sto (prop. 3) chiedendo se sia possibile trovare un medio proporzionale tra due numeri in rapporto epimore - cioè (1 + n)/n -; la soluzione porta a negare questa possibilità, quindi anche a negare 1' esistenza di un semitono perfetto. Euclide si pone così in continuità con una tradizione musicale di lungo corso, che affonda le proprie radici nelle formulazioni di Filolao e Archita e poi (soprattutto) nei dialoghi platonici e identifica la musica con lo studio matematico dei rapporti di consonanza. Nel v secolo alle istanze pitagoriche si contrapponevano i cosiddetti "Armonici", studiosi di musica o musicisti essi stessi che vedevano nel suo­ no un fenomeno puramente estetico e lo valutavano solo in base a come esso veniva percepito. Nell'età ellenistica tale tradizione venne in qualche modo ripresa - e radicalmente riformulata - da due allievi diretti di Ari­ stotele. Teofrasto (fr. 716 F H S G ) negò al suono ogni statuto quantitativo e tentò di ridurne i caratteri a sole proprietà qualitative composte in una "fi­ gura" (schema) : ciò significava negare qualsiasi struttura fisica o numerica del suono. Parallelamente Aristosseno si impegnò nell'ambizioso progetto di fondare una scienza armonica sulla base del modello epistemologico de­ gli Analitici Secondi partendo dall'assunzione che il suono sia un fenome­ no puramente estetico (assunto agli antipodi rispetto alla prospettiva pita­ gorico-platonica). Al fine di rendere la propria trattazione propriamente

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scientifica, Aristosseno (Elem. hann. 54 2-10 ) assunse un principio logico basilare che consentiva di identificare gli intervalli armonici tra le note (non in termini numerici, ma sostanzialmente armonici), e sulla base di esso considerò le interazioni dei suoni in riferimento alla "rappresentazio­ ne della percezione" ( 8 23; 9 23 ) , senza proiettare su essi strutture estrinse­ che : ogni nota possiede la capacità (dynamis) di contrarre diverse relazioni con altre, capacità che si realizza in modo non quantitativo nel fenomeno sonoro. In modo coerente, Aristosseno definì una facoltà peculiare in gra­ do di cogliere il suono, una percezione (aisthesis) che sembra "assorbire" sia l'ascolto (akoe) sia un momento valutativo (dianoia: 33 4-9 ). In questo quadro, la Divisione del canone euclidea sembra rappresentare un'efficace e scientificamente fondata (almeno nelle intenzioni) risposta al modello aristossenico. Le due tradizioni continueranno a svilupparsi pa­ rallelamente, con differenti sfere di influenza (i manuali sono generalmen­ te di orientamento aristossenico, mentre la matrice della Divisione è tra­ slata all' interno di contesti di esegesi platonica). Solo la Scienza annonica di Claudio Tolemeo ridurrà questa contrapposizione rifondando i metodi della teoria musicale greca. Euclide e il "pluralismo" delle scienze esatte in Grecia Euclide rappresenta senza dubbio un monumento della razionalità scien­ tifica greca: gli Elementi e la costruzione dimostrativa euclidea furono ben presto un punto di riferimento assoluto. E tuttavia, osservando l'opera di Euclide nel contesto del dibattito scientifico ellenistico, è evidente che tale importanza non è sinonimo di inattaccabilità: pur recependo come fatto­ re di correttezza l'aderenza a un modello dimostrativo, autori come Archi­ mede o Aristarco non strutturarono i "punti di partenza" delle proprie di­ mostrazioni adottando la "triade" euclidea definizioni-postulati-assiomi; negli ambiti della geometria solida, del metodo geometrico e dell'astro­ nomia figure come Apollonio, Archimede e Ipparco segnarono a diversi livelli sviluppi metodologici e fattuali, peraltro nella piena consapevolez­ za di far progredire discipline il cui punto di riferimento era o era stato quello euclideo ; infine, sia dal punto di vista dell'aritmetica sia da quello della musica, il contributo di Euclide, benché fondamentale, non eliminò scuole o tradizioni rivali, che, pur con modalità differenti, sopravvissero parallelamente (non senza commistioni). Questo fenomeno dipende da due caratteri propri delle scienze esatte in Grecia, che si affievoliscono pro-

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gressivamente in età imperiale. Il primo di essi è il "pluralismo" (per usare l'espressione di Lloyd, 2.012.) : diversi orientamenti, metodi, applicazioni, convivono anche all' interno di uno stesso ambito scientifico. L'altro è l ' i­ dea (non a caso anche alla base della storiografia scientifica del peripateti­ co Eudemo di Rodi) di progresso : Archimede annuncia la scoperta di un metodo che facilita la risoluzione di problemi; Apollonio "fa progredire" lo studio delle coniche; Ipparco e Aristosseno vogliono (ri)fondare epi­ stemologicamente prima che contenutisticamente le rispettive discipline. All' interno del quadro teorico individuato da tali principi, quella della matematica greca in età ellenistica è una storia complessa e affascinante di opposizioni, polemiche e piccole rivoluzioni.

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Pirrone e il neopirronismo di Emidio Spinelli

Alla ricerca delle origini

Il primo nodo da sciogliere, soprattutto qualora si intenda davvero evita­ re qualsiasi fraintendimento o qualsiasi superficiale lettura e utilizzazio­ ne del patrimonio scettico antico, è quello di una corretta delimitazione del campo di indagine. Occorre insomma preliminarmente chiedersi che cosa si possa e si debba intendere per scetticismo, in modo da determi­ nare in modo coerente e conseguente anche quando collocare la prima apparizione di questo atteggiamento filosofico'. Se a questa domanda ri­ spondessimo assimilando "debolmente" la scepsi alle molte, ma per nulla sistematiche, dichiarazioni ed espressioni di dubbio o ignoranza formu­ late sia da poeti sia da filosofi agli albori della tradizione culturale occi­ dentale, dovremmo popolare la storia dello scetticismo antico di pallide figure, magari attribuendo loro il titolo onorifico di "precursori". Potrem­ mo allora chiamare in causa - come pure sembrano aver fatto alcune fonti antiche, colpite da isolati e pessimistici pronunciamenti sulla debolezza delle nostre capacità gnoseologiche o sui limiti invalicabili della nostra condizione mortale e per ciò stesso "effimera" - i nomi illustri di Omero o dei Sette Sapienti; di Archiloco o di Euripide ; di Senofane, di Parmenide o di Zenone eleatico ; di Eraclito o di Empedocle ; di Ippocrate o di De­ mocrito, per chiudere naturalmente con Socrate o con lo stesso Platone>. Accettare questo tipo di interpretazione, tuttavia, significherebbe dis­ solvere la specificità di quella corrente filosofica, che probabilmente non raggiunse - meglio : non volle raggiungere - mai la struttura consolidata di una scuola o hairesis, ma che rappresenta un movimento, una corrente di pensiero o agoge ( su tale etichetta cfr. Ioli, 2.003). Essa è caratterizzata da una serie di atteggiamenti non fra loro concorrenti quanto piuttosto proficuamente concomitanti, grazie a cui «l' indirizzo scettico, dunque,

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vien detto anche zetetico, dall'attività relativa all' indagare e al ricercare ; ed efettico dall'affezione sorta, in chi ricerca, dopo l' indagine ; e aporeti­ co o in virtù del suo sollevar dubbi e indagare su tutto, come sostengono alcuni, o in virtù del fatto che non possiede alcun mezzo per concedere o rifiutare l'assenso ; e pirroniano in virtù del fatto che Pirrone ci sembra es­ sere stato associato alla scepsi, quanto all'aspetto e alla fama, più di quanti erano venuti prima di lui » (Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp. I 7; cfr. anche Diogene Laerzio IX 6 9-70 ). Al di là di qualsiasi più o meno variegata questione relativa alla diversità di possibili nomenclature, all'attitudine scettica possono essere attribuite almeno due note distintive di fondo : - la convinzione che il vero scettico persevera senza sosta nella ricerca e insieme permane nell'aporia, un abito che arriva quasi a caratterizzarsi come un vero e proprio fine o telos in senso forte ; - la capacità di supportare questo atteggiamento di interminabile aper­ tura mentale mediante una sistematica raccolta o, se necessario, un'oppor­ tuna invenzione di argomenti volti a mostrare l' impossibilità e/o l' infon­ datezza di qualsiasi pretesa conoscitiva cristallizzata in dogmi. Se scegliamo questa seconda opzione ermeneutica, possiamo evitare pericolosi regressi all' infinito nella nostra caccia alle origini dello scetti­ cismo antico e possiamo anzi individuare un ambito cronologico e con­ cettuale ben preciso, entro cui tale atteggiamento si impose e consolidò : si tratta del dibattito epistemologico ed etico innescato fra IV e I I I secolo a.C. dalle riflessioni di Arcesilao ( 315-240 a.C.) da una parte (cfr. CAP. 7 ) e, stando ad alcune testimonianze (come vedremo subito non del tutto disinteressate), di Pirrone ( 3 60-270 a.C.) dall'altra3• Il richiamo alla auctoritas non di uno, ma di ben due "padri fondatori" non è affatto frutto di tentennamenti attribuzionistici o di confusioni in­ terpretative. Essa impone piuttosto, a qualsiasi ricostruzione che voglia dirsi storicamente attenta e consapevole, la necessità di fare i conti con l'esisten­ za di almeno due forme diverse di scetticismo, fra loro non perfettamente coincidenti, anzi spesso fra loro apertamente rivali e segnate entrambe da una storia, da un'evoluzione interna non priva di scossoni, niente affatto li­ neare. Né si dimentichi che si tratta di una questione di "tassonomia storio­ graficà' complessa, senza dubbio anche immediatamente spinosa sul piano teorico, ma non arbitrariamente inventata dagli esegeti moderni o contem­ poranei: le radici della consapevole separazione di due tipi di scetticismo, infatti, sono già antiche (cfr. Aulo Gellio, Noct. att. XI 5 6 ) .

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La "filosofia" di Pirrone

Senza entrare nella spinosa questione relativa alla differenza fra accade­ mici e pirroniani (per un riesame recente cfr. Striker, 2010; Bolzani Filho, 201 1), il primo scoglio interpretativo da affrontare riguarda la posizione e la "casacca filosofica" di Pirrone. Cominciare da lui ha un senso e una por­ tata storiografica non indifferente, non solo per ragioni di mera priorità cronologica, ma soprattutto perché la sua figura suscita una domanda pre­ liminare. Essa, benché possa suonare paradossale, condiziona tutta l' ana­ lisi della successiva storia del versante pirroniano dello scetticismo antico : fu Pirrone davvero pirroniano ? La modalità più immediata per trovare una qualche forma di orienta­ mento di fronte a questo rebus di "etichettatura storica" può essere quella di accennare almeno alla formazione filosofica di Pirrone, senza mai di­ menticare tuttavia l'oggettiva difficoltà costituita per qualsiasi interprete dal fatto che a quanto pare egli non scrisse nulla, se non, forse, un poema in lode di Alessandro Magno (cfr. Sesto Empirico, Adv. Math. I 281-282). In tal senso si potrebbe e dovrebbe insistere, ben oltre il presunto influsso esercitato da un contatto (già solo linguisticamente arduo) con brahmani e gimnosofisti di varia, orientale natura o provenienza4 e al di là del pro­ blematico richiamo a Brisone o al possibile influsso cinico5, sul probabile e fecondo legame con Democrito e la prima tradizione democritea, con particolare riferimento ad Anassarco6, mentre non è mancato chi ha vo­ luto sottolineare una qualche relazione, dialettica e di certo non passiva o pedissequa, perfino nei confronti della raffigurazione della realtà sensibile fornita da Platone in alcuni suoi dialoghi (soprattutto Repubblica, nella chiusa del libro v, e Teeteto: cfr. Bett, 2000, pp. 132-40 ). La ricchezza del retroterra, filosofico e non, cui si sarebbe ispirato Pir­ rone così come la difficoltà di districarsi tra fonti di seconda o terza o quar­ ta mano, non sempre "oneste" né brillanti sul piano dell'acutezza teorica, ha generato letture diverse, non di rado in forte e reciproco contrasto, del suo pensiero. Ne è nato un dibattito ermeneutico lungo, articolato e co­ munque fecondo7, segnato anzi fin dall'antichità da posizioni estreme ed estremamente scettiche o rinunciatarie, quale quella di Teodosio. Come leggiamo in Diogene Laerzio ( Ix 70 = Pyrrho T 41 Decleva Caizzi), infatti, egli « nel Sommario scettico, afferma che non si deve chia­ mare pirroniana la filosofia scettica; perché, se il movimento di pensiero altrui è inapprensibile, non conosceremo la disposizione mentale di Pirro-

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ne; non conoscendola, non potremo neppure venir detti pirroniani; oltre al fatto che Pirrone non fu il primo inventore della filosofia scettica e non ebbe alcun dogma. Uno dovrebbe dunque esser detto pirroniano per ana­ logia con il modo di vita di Pirrone » . A mio avviso è sempre necessario mantenere una certa cautela, confer­ mata perfino da Sesto Empirico, come abbiamo già visto (Pyrrh. Hyp. I 7 = Pyrrho T 40 Decleva Caizzi ) , nel momento in cui, forse rispondendo implicitamente e con cautela proprio a Teodosio, riconosce che Pirrone sembra, non assolutamente e, collegato e collegabile al movimento scetti­ co, perché forse ne ha incarnato meglio, in base a una valutazione succes­ siva e non certo storiograficamente neutrale, alcune caratteristiche. Ciò nonostante, le conclusioni di Fernanda Decleva Caizzi prima e - seppur con sfumature diverse - di Richard Bett poi consentono forse di formula­ re un giudizio globale e alquanto attendibile sulla sua "dottrina"8• La posizione di Pirrone, così come sembra emergere da varie testimo­ nianze antiche, non appare affatto incardinata sul desiderio di dar vita a una ricerca ininterrotta, caratterizzata però dalla persuasione forte di non poter dire nulla di definitivo sulla realtà. A questo proposito si può invo­ care una testimonianza di Aristocle, filosofo peripatetico vissuto forse nel I secolo d.C., che ci è tuttavia giunta, vale la pena ricordarlo, di "quarta mano", visto che a riportarcela è Eusebio, vescovo vissuto nel I II-IV secolo d.C., che cita Aristode, che dipende da Timone, che a sua volta riferisce tesi del suo maestro Pirrone. Leggiamola per esteso (Aristocle apud Euse­ bio, Praep. ev. XIV 18 1-4 = F 4 Chiesara = Pyrrho T 53 Decleva Caizzi ) : È necessario prima di tutto indagare sulla nostra conoscenza; se infatti per natu­

ra non conosciamo nulla, è superfluo indagare sul resto. Anche tra gli antichi vi furono alcuni che affermarono ciò, ai quali replicò Aristotele. Particolare forza nel dire ciò ebbe anche Pirrone di Elide, che però non lasciò nulla di scritto; ma il suo discepolo Timone afferma che colui che vuole essere felice deve guardare a queste tre cose: in primo luogo, come sono per natura le cose; in secondo luogo, quale deve essere la nostra disposizione verso di esse; infine, che cosa ce ne verrà, comportandoci così. Egli dice che Pirrone mostra che le cose sono egualmente senza differenze, senza stabilità, indiscriminate; perciò né le nostre sensazioni né le nostre opinioni sono vere o false. Non bisogna quindi dar loro fiducia, ma essere senza opinioni, senza inclinazioni, senza scosse, su ogni cosa dicendo: "è non più che non è", oppure "e è e non è", oppure "né è, né non è". A coloro che si troveran­ no in questa disposizione, Timone dice che deriverà per prima cosa la afasia, poi l' imperturbabilità.

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Si tratta di un testo molto noto, molto studiato - anche nella sua costituzio­ ne testuale, su cui comunque non appare necessario intervenire con corre­ zioni, che ne condizionino la lettura - e non certo univocamente interpre­ tato ( sulle sue caratteristiche terminologiche e implicazioni concettuali cfr. almeno Decleva Caizzi, 1981, pp. 218-34; Chiesara, 2001, pp. 86-109; nonché Bett, 1994; Beckwith, 2ou, pp. 293-320 ) . Al di là di ogni possibile dissenso, due mi sembrano i punti fermi ricavabili dalla testimonianza, utili a decifra­ re con una certa attendibilità la posizione di Pirrone: - il suo desiderio di proporre una ricetta di felicità, perfettamente in li­ nea con la tendenza eudaimonistica propria delle filosofie a lui immedia­ tamente precedenti e contemporanee; - i passi argomentativi grazie a cui garantire il raggiungimento di quel fine. La strada indicata dal passo di Aristocle mostra una certa coerenza e consequenzialità. Essa si struttura infatti attraverso una serie di domande basilari e relative risposte, che hanno a che fare nell'ordine con: - l' individuazione di cosa siano per natura le cose (ta pragmata) ; - la disposizione conoscitiva che noi dobbiamo assumere nei loro confronti; - ciò che deriva da tutto ciò per chi voglia ottenere una disposizione in grado di portare alla felicità. Rispetto alla prima domanda Pirrone non sembra avere esitazioni e sembra anzi pronunciarsi in modo dogmatico sulla natura delle cose. Esse vengono infatti negativamente etichettate come « egualmente senza dif­ ferenze, senza stabilità, indiscriminate » . Già la scelta di interrogarsi sulla reale natura delle cose sembra difficilmente qualificabile come scettica in senso stretto ; ancor meno scettica, del resto, appare la risposta, che ci resti­ tuisce piuttosto un Pirrone sostenitore di una sorta di "metafisica negativa o indifferentista". Alla luce e in conseguenza di questa conclusione, che appare dogmati­ camente alquanto forte, seppur negativamente forte, il testo di Aristocle propone una posizione molto netta anche sul piano epistemologico, forse riconducibile ancora a Pirrone ( a meno che non si voglia, come pure è sta­ to fatto, considerarla frutto di un'elaborazione successiva proposta invece da Timone : cfr. soprattutto Brunschwig, 1994 ) . La tesi di una radicale e intrinseca indeterminatezza delle cose o pragmata, infatti, condiziona la nostra disposizione conoscitiva, lasciandoci « senza opinioni, senza incli­ nazioni, senza scosse » . Anche i nostri stati percettivi e i nostri giudizi,

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sottratti al dominio del vero e del falso, risultano privi di credibilità e non degni di fiducia, secondo una forma di indifferentismo gnoseologico che fa il paio con quello ontologico affermato in prima istanza da Pirrone, al punto che egli sul piano epistemico non si appaga dell'affermazione dubi­ tativa (e già socratica ?), secondo cui "noi non conosciamo nulla'', ma tende piuttosto a dichiarare senza esitazione che "non c 'è nulla da conoscere", mettendo così capo a quella che è stata definita una tesi metadogmatica negativa (cfr. rispettivamente Decleva Caizzi, 1 9 8 6, p. 177; Barnes, 1992, p. 4252, nota 54 e p. 4254, nota 72). A questo duplice scacco non consegue una forma di nichilismo assolu­ to, ma una ben precisa norma d'uso linguistico, coerentemente sospensiva perché retta dal criterio del "non più" o ou mallon (su cui cfr. almeno De Lacy, 1958; Graeser, 1970; Burkert, 1997; nonché la testimonianza sesta­ na in Pyrrh. Hyp. I 188-191, con utili indicazioni in Castagnoli, 2010, par­ te m ) e una positiva soluzione etica: per dirla con il testo di Aristocle, ciò che ne risulta è «per prima cosa l'afasia, poi l' imperturbabilità » . L'as­ senza di discriminazione ontologica delle cose e la cautela o stasi episte­ mologica descritte nelle prime due tappe dell'argomentazione pirronia­ na (o pirroniano-timoniana) producono dunque come primo effetto un atteggiamento di non pronunciamento linguistico o aphasia (su cui cfr. Brunschwig, 1997 ), specificamente indirizzato a mettere in discussione l'e­ sistenza di presunti valori o disvalori assoluti (poiché, se la realtà è "indiffe­ rente'', ogni giudizio o affermazione risulterà privo di senso), e come esito finale la conquista di una piena imperturbabilità o ataraxia, vera garanzia di felicità per l'uomo. Credo sia opportuno sottolineare anche un elemento diciamo così let­ terario e di più generale continuità con alcuni messaggi forti della tradi­ zionale paideia greca, che aiuta a collocare nella giusta luce questa conclu­ siva ricetta di felicità proposta da Pirrone. Egli sembra infatti fondare le sue conclusioni anche sulla realistica considerazione dei limiti della condi­ zione umana, più volte ribaditi e riproposti significativamente attraverso tanto una probabile ripresa di temi democritei (cfr. 6 8 B 285 DK) quanto mediante la citazione di determinati versi omerici. Stando infatti a una testimonianza riportata sempre da Diogene Laerzio ( Ix 67 = Pyrrho T 20 Decleva Caizzi), « Pirrone era solito richiamarsi soprattutto a Demo­ crito e poi anche a Omero, ammirandolo e spesso ripetendo [Iliade VI 146] "quale la stirpe delle foglie, tale quella degli uomini" e che soleva paragonare gli uomini alle vespe, alle mosche, agli uccelli; citava anche

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questi versi [Iliade XXI 106] "su, amico, muori anche tu; perché così ti lamenti ? I morì anche Patroclo, che era di molto migliore di te" e tutti quelli che fanno riferimento all' instabilità, alla vacuità ed alla puerilità degli uomini » . Al di là di ogni obiezione o dubbio, credo che a conferma indiretta di questa interpretazione "dogmatica" di Pirrone possa essere addotta la constatazione per cui, per lungo tempo e comunque sicuramente fino al I secolo a.C., l'etichetta dossografica di "pirroniano" non sembra assume­ re alcuna valenza scettica (cfr. soprattutto la testimonianza ciceroniana in De orat. III 17 62. = Pyrrho T 69 M Decleva Caizzi). Certo, si potrebbe obiettare che molti degli episodi e alcune delle opinioni o doxai, che costi­ tuiscono l'ossatura della vita laerziana dedicata a Pirrone, ce lo mostrano privo di convinzioni definite in campo etico, pronto anzi a negare forza e valore assoluti a concetti basilari come quelli di bene e male ( cfr. paradig­ maticamente Diogene Laerzio IX 61 = Pyrrho T 1 A Decleva Caizzi), se è vero che egli « diceva infatti che nulla è né bello né brutto né giusto né ingiusto; e similmente di tutte le cose disse che nulla è secondo verità; e che gli uomini agiscono in tutto per convenzione ed abitudine; ogni cosa è non più questo che quello» (ibid. ). Almeno su questo piano, dunque, gli si potrebbe riconoscere la "patente" di scettico, al punto da giustificare anche la ben nota accusa di inattività o apraxia implicitamente adombrata in alcuni comportamenti a lui attribuiti dalla tradizione aneddotica (cfr. soprattutto Diogene Laerzio IX 62.-64 = Pyrrho TT 6 e 10 Decleva Caiz­ zi; la fonte è qui Antigono di Caristo = F 3 e 2. A Dorandi; sugli elementi relativi a tali aneddoti cfr. anche Pérez-Jean, 2.0 I I ) . Proprio tale tradizione, tuttavia, si lascia andare in più di un'occasione all'enfasi di una "pubblicità ambigua", pronta a dipingerlo piuttosto sbrigativamente come una sorta di « eccentrico guru » (Brunschwig, 2.006, p. 466), quasi paradigma di so­ vrana indifferenza e impassibilità, come sembra emergere da una testimo­ nianza posidoniana, conservata in Diogene Laerzio ( I x 68 = T 17 A De­ cleva Caizzi; cfr. anche T 17 B Decleva Caizzi) : « Posidonio racconta di lui anche questo : una volta che quelli che navigavano con lui caddero in preda al terrore per una tempesta, egli, restando calmo, ritrovò la forza d'animo mostrando un maialino che sulla nave continuava a mangiare e dicendo che il sapiente deve mantenersi in un simile stato di imperturbabilità » . A conferma del ginepraio interpretativo che avvolgeva, e ancora avvolge, la vita e il pensiero di Pirrone, comunque, non mancano controattestazioni testuali riscontrabili in altri filoni dossografici, non pregiudizialmente ostili

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alla sua figura e alla sua attività filosofica oggettivamente "strana� non dassi­ ficabile9. Ad esempio egli viene radicato in modo organico e forte nel tessuto della sua città, visto che « fu tanto ammirato in patria che fu eletto sommo sacerdote e, in omaggio a lui, fu stabilito per decreto che tutti i filosofi fos­ sero esenti dalle tasse » ( Diogene Laerzio IX 6 4 = Pyrrho T 1 A Dedeva Caizzi ) , senza dimenticare che a lui venne dedicata anche una statua (cfr. Pausan. VI 24 s = Pyrrho T 12 Dedeva Caizzi ) . L'oggettiva difficoltà a inquadrare in modo rigido e univoco la figura di Pirrone, infine, si rivela anche nel momento in cui egli viene dossografi­ camente collocato, accanto ad altri autori poco noti e comunque diciamo così "eterodossi" rispetto alle scuole di provenienza ( come ad esempio, in ambito stoico, Aristone di Chio ed Erillo ) , nel novero dei "moralisti" ( cfr. soprattutto Cicerone, Luc. 130 = Pyrrho T 6 9 A Dedeva Caizzi ) . Alla luce delle considerazioni precedenti, occorre prendere atto dell' i­ nevitabile filtro, se non della consapevole distorsione cui le opinioni e le tesi di Pirrone furono sottoposte da autori e testimoni successivi, fossero essi ostili o favorevoli, decisamente poco interessati, in ogni caso, a presen­ tarne un' immagine fedele. Ciò che appare chiaro, scorrendo il resoconto dei vari testimoni, è che ciascuno di loro mira a crearsi in modo unilate­ rale un' immagine di questo filosofo, o piegata a esigenze polemiche più o meno contingenti oppure intenzionata al contrario a celebrarne il ruolo di fondatore del presunto pirronismo o meglio neopirronismo. Occorre ribadire che una simile constatazione vale non solo per le fonti aperta­ mente ostili a Pirrone, che certo non mancano già nel mondo antico, ma anche per quelle a lui favorevoli. Un discorso del genere può infatti essere legittimamente applicato al suo immediato discepolo Timone di Fliunte. Se è vero che egli si fece portavoce del "verbo" pirroniano, altrettanto ve­ rosimile è supporre che egli volle lasciare anche il segno della propria ela­ borazione intellettuale autonoma, piegando forse l'originario messaggio pirroniano nel senso e nella direzione dei dibattiti soprattutto epistemo­ logici della sua epoca. Né meno di parte, perché ancorata a una scelta di fondo radicalmente fenomenistica, si rivelò più tardi l'utilizzazione della figura di Pirrone ( e dello stesso Timone ) in quei pensatori che a essa si appoggiarono per "fondare" un proprio indirizzo di pensiero, ossia quel "neopirronismo" inaugurato da Enesidemo ( cfr. infra, in questo capitolo ) e proseguito da Sesto Empirico (cfr. VOL. IV, CAP. 7 ) . Se teniamo presenti tali difficoltà, ciò che si impone è la necessità di mettere fra parentesi pro­ prio quelle testimonianze più tarde, che mirano a presentarlo come pie-

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namente scettico. L'equazione tra Pirrone, il pirronismo e lo scetticismo appare il prodotto di polemiche storiografiche successive. Alla nostra iniziale, solo apparentemente paradossale domanda sull'e­ ventuale pirronismo di Pirrone, allora, possiamo in definitiva risponde­ re negativamente, come efficacemente ha ribadito Jacques Brunschwig: « Pirrone non fu il primo pirroniano. Il primo pirroniano fu Timone, il più noto degli immediati discepoli di Pirrone » (Brunschwig, 1999, p. 247; cfr. anche Warren, 2002, pp. 97-103 ) .

L'annuncio di Timone

Nelle pagine che precedono si è già più volte evocata la figura di Timo­ ne di Fliunte ( 320-230 a.C.), sicuramente testimone privilegiato e fonte decisiva per la ricostruzione del pensiero di Pirrone (forse meglio : del suo "maestro" Pirrone). Se questo suo ruolo appare innegabile, altrettan­ to verosimile è la supposizione che egli, facendo forse tesoro anche della giovanile formazione presso Stilpone (cfr. Diogene Laerzio IX 109 ) , seppe e volle in qualche modo andare oltre e difendere su alcuni punti, come vedremo, una sua presa di posizione filosofica. Insomma, benché gli si pos­ sa attribuire a ragione la qualifica di "interprete" o addirittura di "profe­ ta" (prophetes) del verbo pirroniano (termine, anzi hapax nella sua prosa, esplicitamente usato da Sesto Empirico : cfr. Adv. Math. I 53 = Pyrrho T 45 Decleva Caizzi), non si deve pensare a un mero ripetitore, passivamente prono a quanto ricevuto dal suo maestro e/ o dalla tradizione precedente e contemporanea. Con quest 'ultima, del resto, ebbe modo di confrontarsi, anche grazie ai suoi soggiorni ateniesi e ai suoi contatti con la scuola epicu­ rea, quella stoica (Zenone, Aristone di Chio, Cleante) e in modo partico­ lare con Arcesilao, con il quale intrattenne rapporti ambivalenti, oscillanti fra l'attacco violento (cfr. ad esempio i frr. 31-34 Diels e Di Marco, 1989 ) e il rispetto finale, a quanto pare consegnato al suo Banchetto funebre di Arcesilao (cfr. Diogene Laerzio IX u5). Il primo tratto che nettamente lo differenzia da Pirrone è la sua note­ vole, ma purtroppo per noi in larga parte perduta, produzione scritta, in prosa (come ad esempio il Pitone, da cui forse dipende il testo di Aristocle discusso in precedenza) e in versi (per una ricostruzione soprattutto let­ teraria della sua personalità, organicamente immersa nell'ambiente poeti­ co del IV-III sec. a.C., cfr. Clayman, 2010 ). Molti sono i generi letterari da

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lui frequentati, se è vero che « come informa Antigono di Caristo, egli era amico del vino e, quando poteva interrompere gli studi filosofici, era solito dedicarsi a lavori poetici. Così egli compose poemi epici, tragedie, drammi satireschi (trenta commedie e sessanta tragedie) e silli e cinedi (versi osce­ ni) » (Diogene Laerzio IX 110; trad. Gigante, 1976'). Fra questa massa di testi spiccano gli Indalmoi (titolo di uno scritto in distici elegiaci difficile da rendere: forse Immagini? O meglio ancora Apparenze?) e l'opera intito­ lata Sulle sensazioni. Entrambi questi testi sembrano proporre una marcata criteriologia fenomenistica e un privilegio concesso, forse già in risposta ad accuse contemporanee di inattività o apraxia, alla dimensione della con­ suetudine/ abitudine o synetheia, come attesta un passo di Diogene Laerzio ( Ix 61; trad. Gigante, 1976') : «E nelle Immagini o Apparenze si esprime così: "Vige il fenomeno sempre, dovunque appaia" e nell'opera Sulle sensa­ zioni: "Non assicuro che il miele sia dolce, riconosco che tale esso appare" » . Vanno poi ricordati il Contro ifisici (su cui torneremo) e soprattutto i Silli, testo composto secondo l'omerica consuetudine degli esametri. Qui, alla lode nei confronti di Pirrone, si aggiunge, a giudicare dai frammenti a noi pervenuti, un approccio molto critico verso gli altri "colleghi" fi­ losofi, presi in giro e motteggiati speso con sarcastica satira (si pensi alle polemiche condotte sul versante presocratico contro Talete, Anassagora, Empedocle, Eraclito, Pitagora, Democrito, Anassarco; o sofistico, con­ tro Protagora e Prodico; o ancora socratico-accademico, non solo contro Socrate, ma anche a danno di Aristippo, Fedone, Euclide, Menedemo, Antistene, Filone, nonché Platone, Speusippo, Aristotele), tranne rare eccezioni, come ad esempio Parmenide, Zenone, Melissa, nonché in par­ ticolare Senofane (cfr. soprattutto frr. 59-60 Diels e Di Marco, con utili osservazioni linguistiche e stilistiche in Di Marco, 1 9 8 9, pp. 247-59 ). Sen­ za entrare nei dettagli di questa nekya o discesa agli inferi all' interno del panorama di pensiero preso di mira da Timone, assimilabile, nella sua ri­ presa del modello senofaneo come anche della diatriba cinica (per l' ipote­ si di un influsso di Cratete cfr. Long, 1978b ), a una sorta di filosofico, mor­ dace e letterariamente raffinato « marketplace of ideas » o anche « Hyde Park corner » di demolizione delle idee dogmatiche (cfr. Clayman, 2010, cap. 3), ciò che di Pirrone viene sottolineato con forza è la sua condizione, meglio il suo stato mentale o diathesis, segnato da un consapevole "disim­ pegno" (o apragmosyne), una tranquillità sovrana, eccezionale, priva sì di sostegno teorico cogente, ma perfettamente efficace nella vita quotidiana (Diogene Laerzio IX 64-65 = Pyrrho TT 60 e 61 A-B Decleva Caizzi) :

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«Ebbe [Pirrone] invero molti emuli nel non darsi da fare ; onde anche Timone dice di lui così nel Pitone e nei Silli [fr. 48 Diels e Di Marco] : "o vecchio, o Pirrone, come e donde trovasti scampo I dalla schiavitù delle opinioni e della vuota sapienza dei sofisti, I e sciogliesti i legami d'ogni persuasivo inganno ? I Né ti curasti di ricercare quali venti I percorrono l' Ellade, donde ogni cosa venga ed in che si risolva". E di nuovo, negli Jn­ dalmi: "Questo, o Pirrone, il mio cuore desidera udire, I come mai, ancor uomo qual sei, vivi serenamente in quiete I tu solo agli uomini facendo da guida come un dio" » . S i può ragionevolmente supporre che questa profonda ammirazione verso Pirrone si sia trasformata, in più di un punto degli scritti di Timone, di difficile interpretazione ma sicuramente non trascurabili per la rico­ struzione complessiva della personalità del maestro, in una sorta di inno o peana, al punto da raffigurarlo quasi come un dio (così testimonia Sesto Empirico, "addomesticando" nel senso dell ' epoche pirroniana le espressio­ ni timoniane molto cariche e forti: cfr. Adv. Math. I 305-306 = Pyrrho T 61 D Decleva Caizzi) ; o ancora, negli Jndalmoi, da una parte saldo nella sua condizione e sordo alle lusinghe erronee della presunta sapienza altrui, dall'altra in possesso di una parola di verità su temi di centrale importanza, come il divino e il concetto stesso di bene (cfr. rispettivamente, sempre in Sesto Empirico, Adv. Math. XI I e 20 = Pyrrho TT 61 e e 62 Decleva Caizzi; per ulteriori riflessioni e rinvii su questi passi cfr. il commento ad loc. in Spinelli, 1995; Bett, 1997; 2000, pp. 70-6). Se questo è il versante dell'annuncio, più o meno frutto del lavoro di un « faithful amanuensis» (Hankinson, 1995, p. 73 ) , non mancano testi che rivelano probabilmente una certa indipendenza e capacità argomentativa di Timone. Al di là di una rilettura accurata della formula "non più" (ou mallon), centrale nel resoconto di Aristocle (cfr. supra, p. 58 ) e che « indica dunque, secondo quanto afferma Timone nel Pitone, "il non determinare nulla e non consentire a nulla" » (Diogene Laerzio IX 76 = fr. 80 Diels = Pyrrho T 54 Decleva Caizzi), abbiamo in primo luogo una testimonianza di Sesto Empirico nel Contro i geometri (Adv. Math. III 2 ) , in cui l' impegno teorico timoniano appare indirizzato a discutere e quasi a delegittimare, sul piano della costruzione logica, l'uso del metodo ipotetico. Si tratta di una presa di posizione ben articolata e forse in grado di influenzare anche successi­ ve argomentazioni pirroniane, fra cui l'elaborazione del quarto tropo di Agrippa (cfr. Pyrrh. Hyp. I 1 6 8, nonché infra, p. 72 ) , basato appunto sulla

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demolizione delle pretese dimostrative e fondative di ogni ipotesi dogma­ tica (cfr. ancora Hankinson, 1995, pp. 70-2). In secondo luogo, all' interno della produzione in prosa di Timone e più esattamente nel suo scritto già ricordato dal titolo Contro ifisici, egli prende posizione sulla controversa questione dell'esatta natura del tempo presente. Il passo, conservato sostanzialmente identico in due luoghi del corpus sestano (Adv. Math. X 197 e VI 66 = fr. 76 Diels), è il seguente (cito da Adv. Math. x 197 ): « il tempo è suddiviso in tre parti: una parte di esso sarebbe infatti passato, una presente, un'altra futuro. Di tali parti, però, il passato non è più, mentre il futuro non è ancora. Resta dunque che una sola parte esista, ovvero il presente. Il tempo presente, dal canto suo, o è indivisibile o è divisibile. Non è possibile, però, che sia indivisibile: come dice Timone, "in un tempo indivisibile, infatti, non può esserci natural­ mente nulla di divisibile� ad esempio il nascere e il perire e tutto ciò che a queste cose è simile » . Questa testimonianza, al di là dell'uso che ne fa Sesto Empirico pie­ gandola ai suoi interessi polemici ami-dogmatici (cfr. in proposito Spinelli, 2002, pp. 296-8), merita di essere analizzata, come hanno fatto gli studiosi che se ne sono occupati finora, dal punto di vista del suo contenuto ogget­ tivo. Occorre cercare di scoprire subito il succo dell'argomento principale della frase di Timone, il cui possibile retroterra teorico sembra costituito da una ripresa "mimetica" dei paradossi di Zenone di Elea (così Hankinson, 1995, pp. 72-3; cfr. anche Long, Sedley, 1987, vol. 2, p. 17 ). Non meno inte­ ressante è individuare l'eventuale bersaglio contro cui egli intende dirigere la sua polemica. Il tono sembrerebbe essere anti-megarico ( cfr. Long, 1978b, p. 72) o perfino polemicamente rivolto contro la teoria degli indivisibili o amere di Diodoro Crono (così ancora Long, Sedley, 1987, vol. 2, p. 17). Forse dietro l'argomentazione timoniana conviene tuttavia ipotizzare la presenza di « obiettivi polemici molteplici» , fra cui non si può escludere quella posizione filosofica stoica, che presuppone « il primato ontologico delle cose presenti » (cfr. Decleva Caizzi, 1984, p. 102, nota 28). Se è vero che qui Timone potrebbe anche riproporre una posizione ori­ ginaria di Pirrone, mi sembra che la modalità con cui egli procede nell' ar­ gomentare e il suo marcato interesse a intervenire in dibattiti teorici minu­ ti o complessi tradiscano un tocco personale, perfino originale, a conferma del fatto che egli si impegna ad allargare gli orizzonti filosofici (almeno verso i regni della fisica e della logica: cfr. Hankinson, 1995, p. 73). Ti­ mone, infatti, non sembra voler combattere direttamente una determinata

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teoria sul tempo, quanto piuttosto mostrare indirettamente - in funzione forse ami-aristotelica, nonché ami-stoica - linaccettabilità dell' ipotesi, ritenuta evidente, di un'effettiva sussistenza del divenire. Nel far questo, inoltre, egli comincia a sviluppare un metodo polemico, che sfocerà nella negazione stessa dell'oggetto d' indagine, secondo un approccio in seguito molto apprezzato dalla tradizione neopirroniana, verso cui è ora tempo di rivolgere l'attenzione.

La rinascita pirroniana : Enesidemo

Le vicende di quella che è stata ritenuta una delle due varianti dello scetti­ cismo antico sono avvolte, dopo la morte di Timone, in una densa oscuri­ tà, dovuta all'assenza di fonti o alla contraddittorietà di notizie che alcune di esse forniscono. Non sappiamo dunque con certezza se la posizione di Pirrone venne ripresa ed ebbe un qualche sviluppo. Volendo tuttavia provare a dare ordine a questa ( più o meno presunta) evoluzione scettico-pirroniana, al di là del tentativo - operato sì sulla base di una costruzione diadochistica risalente già a Ippoboto e Sozione, ma per la verità non troppo riuscito - di salvaguardare un' ininterrotta continuità di un movimento filosofico individuabile come "pirronismo" ( cfr. Dioge­ ne Laerzio IX u5-u6 = Aenesidemus A s Polito ) , potremmo appoggiarci a una testimonianza di Menodoto di Nicomedia, noto medico empirico, da collocare intorno alla metà del II secolo d.C. Secondo la sua ricostruzione, molto netta e probabilmente non neutrale, non vi sarebbe stata nessuna continuità nella tradizione pirroniana, poiché Timone « non ebbe alcun successore, ma l' indirizzo [agoge] si interruppe fino a quando Tolemeo di Cirene lo ristabilì » ( Diogene Laerzio IX u s ; trad. Gigante, 1976', legger­ mente modificata) . L' intento di Menodoto appare qui chiaro : ponendo come punto di un nuovo inizio Tolemeo, un altro medico vissuto a quanto pare nel I secolo a.C., egli voleva collegare la ripresa del pirronismo all' am­ biente della medicina empirica. Lo stesso ambiente si sarebbe intrecciato con la riflessione filosofica di colui che viene presentato come allievo di Eraclide di Taranto, forse altro medico empirico ( cfr. Aenesidemus A 4 Polito ) , ovvero Enesidemo, il cui ruolo merita dunque di essere analizzato più da vicino. Sulla vita, sulle vicende biografiche e sull'esatta collocazione cronologi­ ca di Enesidemo, ormai concordemente considerato come il vero fondatore

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di un movimento filosofico giustamente indicato come "neopirronismo'', non siamo in grado di raggiungere punti fermi incontrovertibili. Egli, nato a Cnosso (anche se Fozio lo dice "di Egea": cfr. in proposito Aenesidemus A s e 6 Polito), visse forse intorno alla metà del I secolo a.C. e non è escluso che almeno per un certo periodo operò e agì ad Alessandria. Sul piano dell'orientamento di pensiero, la sua preoccupazione princi­ pale appare essere quella di combattere il presunto scetticismo dell'Acca­ demia del suo tempo, soprattutto il "fallibilismo" di Filone di Larissa (cfr. CAP. 7 ). Quest 'ultimo avrebbe per così dire tradito il genuino spirito dello scetticismo snaturandolo e conducendolo verso una forma di dogmati­ smo pericolosamente vicina allo stoicismo, ingaggiando anzi letteralmen­ te « una lotta di stoici contro stoici » (così si legge in Fozio, Bibliotheca cod. 212 p. 170• 14-16 = Aenesidemus B 2 Polito ; cfr. anche Brunschwig, 2006, pp. 471-3). Contro questa deriva, Enesidemo si propone di ritornare alla prima radice scettica, in modo originale e forse ripensando anche la lettura che ne aveva dato Timone. Egli assume dunque Pirrone, non senza forzature interpretative, come modello ideale, come una sorta di nuovo primo fondatore o protos heuretes, come la "bandiera" del suo nuovo movi­ mento filosofico, genuinamente scettico. Le opere di Enesidemo non sono giunte sino a noi. Abbiamo alcuni titoli - Contro la sapienza, Intorno alla ricerca, Schizzo introduttivo alpirronismo ( = Aenesidemus B 16 Polito), Elementi, Prima introduzione ( = Aeneside­ mus B 28 A Polito) - che gli vengono attribuiti da fonti successive e non sappiamo se corrispondano a scritti autonomi o semplicemente a parti di uno stesso testo o di più testi. Sembra certo che la sua opera più significa­ tiva e rilevante sul piano filosofico siano quei Discorsi pirroniani, in 8 libri, di cui fortunatamente Fozio nella sua Biblioteca (cod. 212) ci ha lasciato un resoconto dettagliato, esponendone in modo sintetico, a volte preciso, ma non sempre neutrale, il contenuto, libro per libro (cfr. anche Polito, 2014, pp. 1 4-8). Questo scritto è dedicato a Lucio Elio Tuberone, che ebbe a Roma importanti cariche pubbliche e che a lungo è stato ritenuto condi­ scepolo di Enesidemo all' interno dell'Accademia scettica (tesi di recente messa in discussione: cfr. Decleva Caizzi, 1992b ; Polito, 2002; contra cfr. tuttavia Mansfeld, 1995). Cercando di fare tesoro della testimonianza di Fozio, incrociata con altre (invero scarne e talora forse distorte) informazioni, si può provare a fornire un quadro generale della posizione, nuova e "di rottura", per così dire, assunta da Enesidemo. I dettagli non sono facili da ricostruire e il

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compito si rivela spesso arduo, nonostante si possa ora disporre di un'edi­ zione delle testimonianze che lo riguardano (cfr. Polito, 2014). Problemi si pongono subito, ad esempio, per chiunque voglia individuare con esattez­ za quanto debba essere con certezza ricondotto a lui, in particolare dietro le pagine della fonte pirroniana che più verosimilmente ne fece largo uso, Sesto Empirico, il quale non può tuttavia essere ridotto al rango di mero copista del pensiero enesidemeo (cfr. in proposito VOL. IV, CAP. 7 ). Nonostante questi ostacoli e questi intralci ermeneutici, è forse possibi­ le fissare alcuni punti fermi'0• Il primo merito che va ascritto a Enesidemo è la sua capacità di raccogliere e soprattutto di dare una veste sistematica a quel materiale di varia provenienza, di cui lo scetticismo a lui antecedente si era servito per rafforzare l'approdo a una forma onnicomprensiva di so­ spensione del giudizio. Dietro quest 'operazione di tassonomia polemica opera la convinzione per cui è necessario classificare in maniera organica le opposizioni possibili fra il modo in cui un oggetto appare (senza distin­ guere pregiudizialmente se alla percezione sensibile o intellettuale) e ciò che esso è in realtà o secondo natura. Questo complesso lavoro di ricerca e sistemazione mette capo all' individuazione di una serie ben precisa di argomentazioni specifiche e di strumenti tecnici, che la tradizione scettica ha elaborato nel corso della sua storia per raggiungere la epoche: sono i fa­ mosi dieci tropi (o modi o schemi o argomenti: cfr. Pyrrh. Hyp. I 3 1 ) della sospensione del giudizio, vero e proprio cavallo di battaglia della polemica neopirroniana (per un primo orientamento cfr. Chatzilysandros, 1970; Striker, 1983; Annas, Barnes, 1985; Spinelli, 2005, cap. 2; Hankinson, 2010, pp. 105-15; Woodruff, 2010, pp. 214-23; Spinelli, 2015b). Benché essi ci vengano riportati da fonti e in versioni diverse (Filone Alessandrino, Aristocle, Diogene Laerzio, la tarda testimonianza medie­ vale riportata sotto il nome di "Erennio": cfr. Annas, Barnes, 1985, cap. 3, nonché ora, su Filone in particolare, Lévy, 2015), credo sia legittimo ri­ conoscere che la presentazione più completa è quella offerta da Sesto in Pyrrh. Hyp. I 31-163 (per il privilegio accordato alla testimonianza di Dio­ gene Laerzio cfr. invece ora Sedley, 2015). Seguendone dunque il dettato, si deve dire che essi sono dieci, senza che questo possa in alcun modo legit­ timare un parallelismo con le categorie di Aristotele, ovvero nell'ordine : 1. differenze di rappresentazioni che si riscontrano fra gli animali; 2. differenze fra gli uomini; 3. indirimibili conflitti di apparenze legati alla molteplicità e varietà delle sensazioni;

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4. opposizioni o discrepanze, riscontrabili entro il medesimo senso, ri­ spetto alle "circostanze" o "disposizioni"; 5 . varietà delle rappresentazioni per effetto delle distanze, dei luoghi e delle posizioni; 6. mescolanze interne o esterne, che impediscono una percezione sensi­ bile pura e assoluta degli oggetti e costringono a limitare le proprie affer­ mazioni al modo in cui ci appaiono le varie commistioni; 7. tipi di composizione diversi che entrano in gioco nella formazione di un oggetto e che determinano rappresentazioni discordi; 8. relazione (data l'onnipervasiva relatività delle cose, dobbiamo sospen­ dere il giudizio sulla loro reale natura) ; 9. opposte rappresentazioni prodotte a seconda della quantità di occor­ renze (frequenti/rare) di un determinato evento nel corso cumulativo del­ la nostra esperienza; IO. i cinque fattori (diversità di scelte di vita, costumi, leggi, credenze mitiche e presupposizioni dogmatiche), generatori di conflitti di rappre­ sentazioni, accuratamente ricostruiti in tutti i loro possibili incroci (ben quindici), e dunque capaci di indurre alla sospensione del giudizio circa la reale natura degli oggetti o comportamenti "etici" presi in considerazione. In generale, del resto, nella presentazione che Sesto ne dà, i "modi" sem­ brano funzionare secondo uno schema solido e insieme solito, in quanto sfruttano le dissonanze di posizioni, osservazioni, conclusioni ripetuta­ mente rinvenibili nelle tesi dogmatiche o anche sul campo aperto della quotidiana esperienza, per riaffermare in modo riepilogativo che, pren­ dendo come caso paradigmatico la chiusa del quinto tropo (Pyrrh. Hyp. I 123), « se quindi né senza dimostrazione né per mezzo di dimostrazione si sarà in grado di giudicare le sopracitate rappresentazioni, la sospensio­ ne del giudizio si fa avanti, potendo forse dire quale ciascuna cosa appare secondo tale posizione o secondo tale intervallo o in tale luogo, ma senza essere capaci, in base a quanto precedentemente detto, di mostrare cosa essa sia per natura » . Va notato inoltre che Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp. I 38-39 ), i n modo forse originale o comunque facendo uso di fonti pirroniane più tarde (Agrippa e/o seguaci: cfr. infta, pp. 71-2), divide i tropi in tre gruppi, a seconda che essi abbiano a che fare solo con il soggetto giudicante (i primi quattro) ; solo con l'oggetto giudicato (il settimo e il decimo) ; o infine con entrambi (il quinto, il sesto, l'ottavo e il nono). Egli propone inoltre una sorta di struttura piramidale : al vertice troviamo, quale "genere sommo", il

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tropo della relazione, cui sono subordinati rispettivamente, quali sue spe­ cie, i tre raggruppamenti appena menzionati e quali sue infimae species i dieci modi nella loro totalità. Oltre a questi dieci modi della sospensione del giudizio, sul piano dell'analisi epistemologica merita forse un'attenzione speciale anche una serie di argomenti polemici, per l'esattezza altri otto tropi, elaborati da Enesidemo specificamente contro coloro che volevano fornire una spiega­ zione causale delle cose e degli eventi ( cfr. Pyrrh. Hyp. I 180-186 = Aenesi­ demus B 14 Polito, con il relativo commento in Polito, 2014, pp. 297-303). Mostrare l' infondatezza, la non giustificabilità delle singole spiegazioni causali o aitiologiai, piuttosto che la loro falsità : è questo l' intento circo­ scritto perseguito da Enesidemo con gli otto tropi. Su di un piano ancora più generale, invece, è probabile che egli, accanto a questo tipo di attacco, decise di intraprenderne un altro, molto più radicale e a quanto pare in grado di anticipare in un certo senso alcuni sottili argomenti in seguito proposti da Hume, contro il concetto di causa, contro la possibilità stessa di considerare qualcosa causa di qualcos'altro (cfr. ad esempio Pyrrh. Hyp. I I I 1 3-29; nonché Spinelli, 2005, cap. 4; e Woodruff, 2010, pp. 226-7, con ulteriori rinvii ) . La batteria delle polemiche messe in campo da Enesidemo non si ferma a questa pur significativa operazione di organizzazione dell'arsenale dei tropi. Egli attaccò infatti anche altri concetti fondamentali della riflessio­ ne filosofica dogmatica, come quelli di verità e scienza ( cfr. ad esempio Se­ sto Empirico, Adv. Math. VIII 40-48; Diogene Laerzio IX 92-96), segno, dimostrazione, apparato sillogistico aristotelico nonché dialettica stoica, tenendo sempre sullo sfondo la sua convinzione per cui le sensazioni non danno nessuna certezza, mentre la ragione stessa è strutturalmente infida. L' insieme di queste critiche aveva a suo avviso uno scopo ben preciso: «quelli che seguono gli altri indirizzi filosofici non si rendono conto, tra l'altro, di logorarsi invano e di sprecarsi in angustie continue, ignorando appunto questo, ossia di non aver compreso nulla di tutto ciò di cui sem­ bra abbiano conseguito la comprensione. Invece il seguace della filosofia di Pirrone, tra i vari motivi della propria felicità, possiede la "saggezza" di rendersi soprattutto conto che egli non ha compreso nulla con certezza. E anche delle cose che egli eventualmente conosca, è in grado di esprimere l'assenso per via affermativa "non più" che per via negativa » ( Fozio, Bi­ bliotheca cod. 212 p. 1 6 9b 22-30; trad. Russo, 1978). Senza definire nulla, muovendosi sul piano di una cautela linguistica

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STORI A D ELLA F I L O S O FIA ANT ICA

regolata dal principio del "non più" o ou mallon e accettando di parlare solo di ciò che gli appariva, Enesidemo ritenne di restare fedele al mes­ saggio filosofico di Pirrone. A lui, inoltre, si ispirò forse anche sul piano etico, per stabilire che da un simile atteggiamento non deriva frustrazione o angoscia, ma al contrario la conquista della felicità, individuata in una forma completa di imperturbabilità o ataraxia, fine ultimo di tutti i nostri sforzi, tanto intellettuali quanto morali. Per concludere la presentazione della figura di Enesidemo, sfuggente ma sicuramente di grande rilievo nella storia degli approcci ellenistici alla riflessione filosofica, resta da spendere qualche parola sulla questione di­ battutissima del suo presunto "eraclitismo": « Enesidemo sosteneva che l' indirizzo scettico è una via verso la filosofia eraclitea (perché il fatto che appaiono aspetti contrari riguardo alla medesima cosa spiana la strada al fatto che aspetti contrari riguardo alla medesima cosa sussistono effettiva­ mente) e gli scettici affermano che aspetti contrari riguardo alla medesima cosa appaiono, mentre gli eraclitei da ciò arrivano ali'effettiva sussistenza di quegli aspetti » (Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp. I 210 = Aenesidemus B 22 Polito; cfr. anche Adv. Math. VIII 8; IX 337; X 3 8, 21 6, 233; Pyrrh. Hyp. I I I 138 nonché Tertulliano, De an. c. 25 ) . Non è possibile riproporre qui tutte le interpretazioni di questo dif­ ficile passo. Una volta scartata la facile, ma improduttiva strada di un grave errore o di una imperdonabile disattenzione dossografica di Sesto, sarà forse utile ricordare in generale alcune ipotesi rilevanti. Si potrebbe pensare che la vicenda filosofica di Enesidemo sia stata caratterizzata da un'evoluzione, segnata dal passaggio da una forma iniziale di scetticismo a una matura fase eraclitea; in base a una supposizione opposta, invece, egli si sarebbe spostato dall'eraclitismo, sostenuto in una fase iniziale e dogma­ tica della sua formazione filosofica, al pirronismo, ultimo approdo di una considerazione della filosofia ormai compiutamente scettica. Altri inter­ preti, senza mai sottovalutare il carattere non dogmatico del complessivo pensiero enesidemeo, hanno voluto vedere in esso un uso esclusivamente dialettico (ed essenzialmente ami-stoico) dell'eraclitismo (cfr. soprattutto Burkhard, 1973; ora Castagnoli, 2014, pp. 1 197-8; alle cui conclusioni va accostata l'altra, sostenuta da Pérez-Jean, 2005, che risolve l'eraclitismo enesidemeo in una sorta di sfruttamento filosofico di materiale dossogra­ fico ). Nonostante la plausibilità di quest 'ultima ipotesi e il proliferare di altre letture, più o meno complesse e accettabili (mi limito a ricordare qui quelle di Polito, 2004, ripresa in Polito, 2014; e quella di Schofield, 2007 ),

PIRRONE E IL NEOPIRRONISMO

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si può forse avanzare anche un'altra congettura: che sia lo stesso Sesto, per i suoi scopi compositivi, a usare alcuni spunti dell' interpretazione eracli­ tea fornita da Enesidemo per classificarlo - come del resto fa apertamente in altri punti dei suoi scritti - fra i dogmatici, allo scopo di far meglio risaltare la purezza e la forte originalità del proprio pirronismo.

Dopo Enesidemo

L'oscurità delle testimonianze, non certo abbondanti né sempre lineari e coerenti, caratterizza la ricostruzione delle vicende del movimento neopir­ roniano anche dopo la scomparsa di Enesidemo. A parte le figure (assoluta­ mente "pallide" e la cui collocazione cronologica ci sfugge) di Mnasea e Fi­ lomelo - pensatori scettico-pirroniani citati da Numenio di Apamea (fr. 2.5 des Places), perché, come già Timone, avrebbero attribuito ad Arcesilao la qualifica di "scettico" - e a parte un certo Cassio - forse medico empirico, non sappiamo bene vissuto quando (se nell'età di Tiberio e nella prima metà del II sec. d.C.), ma pronto a definirsi pirroniano (cfr. Galeno, Sub.figuratio empirica 4 p. 49, 3 1 Deichgraber; cfr. anche Diogene Laerzio VII 32.-34 e 187189) - una possibile eccezione, di cui vale la pena parlare, è costituita dalla figura di Agrippa, anch'essa piuttosto nebulosa, ma senz'altro teoricamente di primo livello, anzi forse da celebrare come il più grande fra i pirroniani (cfr. Brunschwig, 2.006, p. 474). Egli visse forse tra la fine de I secolo a.C. e linizio del I d.C. e fu rappresentante autorevole del neopirronismo, al pun­ to che un certo Apella gli intitolò addirittura un'opera (Diogene Laerzio IX 106). Se è vero che non abbiamo notizie sulla sua vita e sulle sue opere, sap­ piamo però che, andando oltre Enesidemo e rendendo ancora più acuta la sua polemica, egli elaborò una serie di modi o tropi, pensati come una poten­ tissima "rete scettica" capace di bloccare ogni mossa dei dogmatici, al punto da demolire la possibilità stessa di fondare una scienza dimostrativa, intesa almeno secondo quanto Aristotele aveva sostenuto (cfr. ad esempioAn. Post. I 3). Proprio ad Agrippa viene infatti ricondotta, esplicitamente da Diogene Laerzio ( ix 88) e implicitamente da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp. I 164 e 177, dietro la formula «gli scettici più recenti » ) , la paternità dei cinque tropi della sospensione del giudizio, il cui vigore polemico veniva apprezzato già da Hegel11• Questi ulteriori modi della sospensione del giudizio si fondano, nell 'or­ dine, su :

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STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANT ICA

1. la dissonanza o diaphonia, basata sull' in dirimi bile dissidio esistente fra le varie posizioni filosofiche o del senso comune rispetto a qualsiasi ogget­ to d' indagine; 2. il regresso all' infinito, che evidenzia l'assenza di un principio dell' inda­ gine che non abbia a sua volta bisogno di essere fondato ; 3. la relatività, che nega la possibilità di conoscere un oggetto esterno in sé, dovendo esso essere sempre rapportato al soggetto conoscente ; 4. l' ipotesi, che attacca la pretesa di fornire un punto di partenza della dimostrazione a sua volta non dimostrato ; 5. il diallele, che svela la viziosa circolarità delle argomentazioni dogma­ tiche, nelle quali ciò che dovrebbe fungere da prova deve a sua volta essere provato. Questi schemi argomentativi, stando ancora a Sesto (Pyrrh. Hyp. I 178-179 ), sembrano essere ulteriormente riducibili a due soli tropi, pensati per mettere definitivamente al tappeto i dogmatici di ogni tempo e luogo, e giustamente definiti come l'ultimo distillato, il liquore più forte della polemica scettica (cfr. Hankinson, 1995, p. 1 89 ; e anche Janacek, 2008b; Barnes, 199ob). Né va dimenticato che essi hanno rappresentato e conti­ nuano a rappresentare ancora oggi un banco di prova di notevole rilevan­ za teorica, all' interno del ricco dibattito epistemologico contemporaneo, ad esempio rispetto al problema della metagiustificazione del criterio di giustificazione (cfr. almeno Floridi, 1996, pp. 80-120; e ancor prima Sosa, 1991, pp. 149-64).

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Epicuro di Francesco Verde

La vita

Epicuro' nasce a Samo ( dove il padre era un colono ateniese ) nel 341 a.C. e muore ad Atene tra il 27 1 e il 270 a.C.; scarse e fondamentalmente contro­ verse sono le informazioni riguardanti il suo periodo a Samo, dove è pro­ babile rimanesse fino all'età di 14 anni. Sembra che il suo primo maestro di filosofia fosse un platonico di nome Pamfilo di cui non si ha pressoché alcuna notizia. Siamo più certi, però, sulla sua permanenza a Teo dove se­ gue Nausifane, un filosofo democriteo autore del Tripode che, in seguito, Epicuro - come bene attesta la Lettera aifilosofi di Mitilene ( si tratta dei frr. rn-114 degli Epicurea di Hermann Usener, Lipsiae 1887; d'ora in avan­ ti: Us. ) ' - criticò severamente, arrivando a dichiararsi autodidatta ( secon­ do Diogene Laerzio - x 13 = 123 Us. - lo fa nell'Epistola a Euriloco) al fine di fugare ogni possibile dubbio sul suo discepolato presso il filosofo di Teo. In ogni caso, le fonti antiche registrano la probabile acredine tra Epicuro e Nausifane (cfr. Warren, 2002, pp. 1 60-92); Diogene Laerzio ( x 14), ad esempio, riporta l'opinione di un Aristone ( forse lo stoico di Chio, ma vi è anche chi sostiene che potrebbe trattarsi dell'Aristone peripatetico ) che nella sua Vita di Epicuro accusa Epicuro di aver attinto largamente al Tri­ pode di Nausifane. Come che sia la questione, nonostante quanto Epicuro medesimo denunci, le fonti testimoniano il suo discepolato a Teo ( data­ bile intorno al 32 7 f324 a.C. ) presso Nausifane che, con ogni probabilità, trasmise al filosofo i principi dell'atomismo leucippo-democriteo. Come cittadino ateniese ( pur essendo di Samo, egli conservò la cittadinanza ateniese, essendo l isola una cleruchia di Atene ) Epicuro si recò ad Atene per l'efebia tra il 323 e il 321 a.C., quando reggeva l'Accademia platonica Senocrate ( Alessandro Magno e Aristotele erano morti assai recentemen­ te, l'uno nel 323, l'altro nel 322 a.C. ) ; non è certo se Epicuro ascoltasse le

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STORIA D ELLA FILO S O FIA ANT ICA

lezioni di Senocrate, è probabile, tuttavia, che ciò avvenne. È, infatti, dif­ ficile pensare che Epicuro, seppure molto giovane ma già con una prepa­ razione filosofica di livello tanto sul fronte platonico (Pamfilo ), quanto su quello atomista (Nausifane), non avesse colto l'occasione di recarsi presso l'Accademia retta da Senocrate. A ciò si aggiunga anche il fatto che dal punto di vista dei contenuti è possibile constatare una relazione di fondo tra la dottrina senocratea delle linee indivisibili e quella epicurea dei mi­ nimi atomici (cfr. Verde, 2.013b, pp. 129-84), sebbene non possa escludersi che Epicuro avesse conosciuto il pensiero di Senocrate quando ritornò ad Atene per la fondazione del Giardino. Concluso il periodo dell'efebia, Epicuro nel 322 a.C. si sposta a Colo­ fone, dove si ricongiunge con i suoi che, nel frattempo, si erano trasferiti lì da Samo. Successivamente il filosofo si reca a Mitilene (qui aveva risieduto per circa un biennio Aristotele tra il 345 e il 344 a.C.) dove fonda il primo cenacolo filosofico; è fondamentalmente incerto in quale anno avvenga la fondazione, ma è verosimile ritenere che sia intorno al 3 1 1 a.C. La scuola di Mitilene è il primo centro dove Epicuro inizia ad avere discepoli; in questa occasione con ogni probabilità ha modo di conoscere Ermarco che, in se­ guito alla sua morte, gli succederà nella direzione della scuola madre di Ate­ ne. Di Mitilene era Prassifane, un filosofo peripatetico che, secondo quanto trasmette Diogene Laerzio ( x 13) - che, a sua volta, riferisce l'opinione che Apollodoro espone nelle sue Cronache - fu maestro di Epicuro; per motivi meramente cronologici questa notizia appare poco veritiera. Forse per ra­ gioni politiche (ma anche questo dato è incerto) Epicuro si sposta da Miti­ lene a Lampsaco intorno al 309 a.C.; a Lampsaco fonda la seconda scuola filosofica. Il cenacolo lampsaceno è particolarmente importante soprattut­ to perché lì Epicuro avrà occasione di radunare intorno a sé i discepoli più celebri con i quali, anche dopo il suo trasferimento ad Atene, continuerà a mantenere frequenti contatti epistolari (è anche possibile che quelle poche volte che Epicuro lasciò Atene, lo fece per tornare dai suoi amici e discepoli di Lampsaco). Si tratta di Metrodoro (il più stretto amico e collaboratore di Epicuro) e il fratello Timocrate (che, in seguito, diffamò pesantemente Epicuro, dando inizio a una vera e propria "campagna denigratorià' contro il maestro; l'apostasia di Timocrate è databile intorno al 290 a.C.), di Polie­ no, di Leonteo e sua moglie Temista, di Colore e Idomeneo (che sposò Ba­ ticle, sorella di Metrodoro ). Risulta assai plausibile ritenere che l'esperienza lampsacena fu per Epicuro un momento molto significativo per l' appro­ fondimento, l'evoluzione e il consolidamento delle sue dottrine; una tra le

E P I C U RO

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ragioni che può essere addotta potrebbe risiedere nella "relazione polemi­ ca" tra il cenacolo lampsaceno e il "circolo" eudossiano (Eudosso di Cnido aveva risieduto per qualche tempo a Cizico, forse a partire dal 363/362 a.C.; cfr. Diogene Laerzio VIII 87 = fr. T 7 Lasserre) verosimilmente presente a Cizico, poco distante da Lampsaco. Si data al 306 a.C. la fondazione del Giardino (Kepos) ad Atene; Epi­ curo si trasferì ad Atene lasciando Lampsaco (ma la "scuola" lampsacena continuò a esistere nonostante la sua assenza) e lì acquistò per 80 mine (una cifra piuttosto modesta) un giardino poco fuori la Porta del Dipylon che divenne la sede della scuola, aperta perfino a donne, etere (Diogene Laerzio x 7) e schiavi (Diogene Laerzio X 10 ). Il Kepos di Epicuro fu dav­ vero una comunità di amici priva di sedizioni, ispirata da una volontà co­ mune' e incentrata sull' insegnamento del maestro (considerato una figura paradigmatica e per certi versi carismatica) e volta all'ottenimento della felicità stabile e duratura tramite la comune ricerca filosofica (syzetesis)4• Sotto il potere di Lisimaco (che nel 285 a.C. divenne re di Macedonia) il Giardino fu sostenuto economicamente da Mitre, un epicureo dignitario e "ministro delle finanze" dello stesso Lisimaco; quando questi morì nello scontro di Curupedio (281 a.C.), Epicuro, forte della sua amicizia con Cra­ tero (che nel frattempo era divenuto governatore del Peloponneso), cercò in tutti i modi - anche grazie alla collaborazione di Metrodoro - di libera­ re Mitre imprigionato al Pireo. Nel 278/277 a.C. morì Metrodoro (.paene alter Epicurus, come a ragione lo definì Cicerone : De finibus I I 28 92 = 5 Korte) che, con ogni probabilità, avrebbe dovuto succedere nello scolar­ cato del Kepos a Epicuro. Circa sette anni dopo la morte di Metrodoro, in­ torno al 271/270 a.C., probabilmente dopo un periodo di acute sofferenze, scomparve anche Epicuro che lasciò la direzione della scuola a Ermarco di Mitilene. Diogene Laerzio ( x 22 = 1 3 8 Us. = 23 Angeli) conserva una breve sezione dell'Epistola a Idomeneo (più nota come Epistola dei giorni supremi) : « Era il giorno beato [makaria] e insieme l'ultimo della mia vita quando ti scrivevo questa lettera. I dolori della vescica e dei visceri erano tali da non poter essere maggiori; eppure a tutte queste cose si opponeva la gioia dell'anima [to kata psychen chairon] per il ricordo [mneme] del­ le nostre passate conversazioni filosofiche [dialogismoi] . Tu ora, come è degno della buona disposizione che hai avuto fin da giovanetto per me e per la filosofia, abbi cura dei figli di Metrodoro» (trad. Arrighetti, 19731, leggermente modificata). Sul letto di morte, in preda ai più atroci dolori, Epicuro considera beato, dunque felice, quel giorno; alle sofferenze fisiche

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANTI C A

oppone le gioie dell'anima, intrinsecamente legate alle conversazioni filo­ sofiche tenute con Idomeneo e con gli altri discepoli nel Giardino e si pre­ occupa teneramente dell'avvenire dei figli di Metrodoro, come farà anche nel Testamento, ma più nel dettaglio ( Diogene Laerzio x 19 ) .

Le opere

Il x libro delle Vite deifilosofi di Diogene Laerzio dedicato alla Vita di Epi­ curo è la fonte privilegiata per la conoscenza delle opere di Epicuro. Il x libro è senz'altro un unicum nell'opera laerziana in quanto Diogene tra­ smette integralmente alcuni scritti di Epicuro, ossia: il Testamento ( 1 6-21 ) , l'Epistola a Erodoto ( 3 5-83 ) sulla scienza della natura (.physiologia; cfr. Ver­ de, 2010b; Lapini, 2015 ) , l'Epistola a Pitocle ( 83- 1 1 6 ) su ta meteora, ovvero i fenomeni celesti e meteorologici ( cfr. Bollack, Laks, 1977 ) , l'Epistola a Meneceo ( 121-135 ) dedicata all'etica5 e, infine, 40 Massime Capitali ( 139154 ) sull'etica, sulla dottrina della conoscenza e sul diritto e la giustizia, che Diogene considera il coronamento dell'opera e della vita del filosofo. Un'ulteriore raccolta di 81 massime che va sotto il nome di Gnomologium "Vaticanum Epicureum è stata pubblicata solo nel 1888 da Carl Wotke in collaborazione con Usener che la scoprì nel codice Vaticano greco 1950 (xiv sec. ) ; la raccolta, il cui titolo è Esortazione di Epicuro, contiene senten­ ze di carattere etico delle quali alcune coincidono con le Massime Capitali, altre sono attribuibili a discepoli di Epicuro, in primo luogo a Metrodoro. Diogene Laerzio ( x 27-28 ) , inoltre, dopo aver riferito che Epicuro fu uno scrittore assai prolifico e superò tutti per numero di libri ( si tratta, infatti, di circa 300 volumi ) , riporta una lista di 41 scritti che egli giudica i migliori (ta beltista): Sulla natura, i n trentasette libri; Sugli atomi e il vuoto; Sull'amore; Epitome dei libri contro ifisici; Contro i Megarici; Casi dubbi; Massime Capitali; Su cio che si deve scegliere efuggire; Sulfine; Sul criterio o Canone; Cheredemo; Sugli dei; Sulla santita; Egesianatte; Sui generi di vita, in quattro libri; Sul giusto operare; Neocle, a Temista; Simposio; Euriloco, a Metrodoro; Sulla vista; Sull'angolo nell'atomo; Sul tatto; Sul destino; Massime sulle passioni, a Timocrate; Prognostico; Protreptico; Sui simulacri; Sulla rappresentazione; Aristobulo; Sulla musica; Sulla giustizia e sulle altre virtù; Sui doni e la gratitudine; Polimede; Timocrate, in tre libri; Metrodoro, in cinque libri; Antidoro, in due libri; Massime sulle malattie, a Mitre; Callisto/a; Sulla regalita; Anassimene; Epistole (trad. Arrighetti, 1973').

EPIC URO

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Alle opere di Epicuro va probabilmente aggiunto anche l' Echelao, di cui non si conosce nulla (anche perché non viene menzionato da altre fonti) fuorché il titolo preservato dal PHerc. 566 (cfr. Del Mastro, 2on-12; 2014, pp. 148-9). Non è un caso che Diogene indichi come primo titolo l'opera Sulla natura in 37 libri; questo scritto, il più lungo nella bibliografia epicurea per numero di libri, può essere considerato il capolavoro di Epicuro. Il Sulla natura è dedicato allo studio e ali' analisi della scienza della natura nei suoi aspetti più dettagliati e particolari. Fortunatamente (e con indiscusso pro­ fitto da parte degli studiosi) alcuni dei papiri carbonizzati ritrovati a più riprese tra il 1752 e il 1754 presso la Villa dei Pisoni (meglio nota come "Vil­ la dei Papiri") di Ercolano, dove Filodemo di Gadara aveva costituito un vero e proprio centro di studio epicureo, contengono alcuni libri6 dell'o­ pera maggiore di Epicuro. I Papiri Ercolanesi concernenti i libri dell'opera sono i seguenti (per ogni libro si segnalano le edizioni più recenti) : libro II (in due copie : PHerc. n49/993; PHerc. 1010; cfr. Leone, 2012); libro XI (in due copie : PHerc. 1042; PHerc. 154; cfr. Arrighetti, 19731, p. 26, nonché Sedley, 1976; Arrighetti, Gigante, 1977 ) ; libro XIV (in una copia: PHerc. n48; cfr. Leone, 1984) ; libro xv (in una copia: PHerc. n 5 1 ; cfr. Millot, 1977); libro XXI (in una copia: PHerc. 3 62, di argomento incerto ; cfr. Del Mastro, 2013); libro xxv (in tre copie : PHerc. 419/1 634/697; PHerc. 1420/1056; PHerc. n 9 1 ; cfr. Laursen, 1995; 1997); libro XXVIII (in una copia: PHerc. 1479/1417; cfr. Sedley, 1973); libro XXXIV (in una copia: PHerc. 143 1 ; cfr. Leone, 2002) ; tre libri tuttora non identificati (PHerc. 989; PHerc. 1413, su cui cfr. Cantarella, Arrighetti, 1972; Arrighetti, 19731, p. 37; PHerc. 560, su cui cfr. ancora Del Mastro, 2013); altri papiri (ad esempio il PHerc. 1039, di argomento fisico ; cfr. Puglia, 1988a) sono stati assegnati ali'opera su base paleografica. Il I I libro del Sulla natura si occupa principalmente della dottrina dei simulacri, ossia la loro formazione, la loro natura e la loro velocità; il libro XI, di argomento cosmologico, discute la forma della Terra, la sua posizio­ ne nell'universo e la sua stabilità/immobilità. Questo libro contiene anche un' interessante sezione in cui Epicuro critica l'uso degli organa o strumen­ tazioni astronomiche, denunciando il fatto che si tratta di macchine non precise e che occorre in ogni caso fare ricorso ai fenomeni. Nel XIV libro, invece, Epicuro, trattando della formazione degli aggregati, polemizza con alcuni dei filosofi usualmente considerati "monisti" e "pluralisti" e, in par­ ticolare, con la dottrina degli elementi del Timeo di Platone. Le sezioni

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANTI C A

leggibili del x v libro invitano a credere che il contenuto riguardi gli atomi e gli aggregati atomici; non è escluso che questo libro contenesse anche la critica alla filosofia di Anassagora. Il xxv libro contiene la disamina di un tema etico assai significativo a partire dal punto di vista fisico; il tema prin­ cipale è la difesa (da parte di Epicuro) di una particolare nozione di libertà intesa come fondamentale autodeterminazione della dianoia (ossia della mens, per dirla con Lucrezio) rispetto alla propria costituzione atomica (systasis) e alle interazioni meccaniche con lambiente esterno. Nelle parti leggibili di questo libro non vi è alcun cenno alla dottrina del clinamen che forse Epicuro sviluppò successivamente, dopo la stesura del xxv libro. È molto probabile che la difesa dell'autodeterminazione riconosciuta a un aggregato particolarissimo come la dianoia debba leggersi in contrappo­ sizione al determinismo democriteo. Il tema principale del XXVIII libro (che riporta il resoconto di discussioni e dibattiti tra Epicuro e Metro­ doro) è il linguaggio e il suo corretto uso in ambito filosofico; vengono prese in esame la differenza tra linguaggio tecnico, linguaggio comune e le modalità grazie alle quali è possibile ricorrere al linguaggio ordinario, pur evitando l'ambiguità e l'assenza di chiarezza. Con il XXXIV libro si ritorna su questioni eminentemente gnoseologiche relative in prima istanza alla percezione dei sensi e di quella della mente (che deve essere considerata un organo sensoriale a tutti gli effetti). È incerto a quale libro del Sulla natura attribuire lo scritto contenuto nel PHerc. I4I3; è stato proposto con buone ragioni di identificarlo con il x libro dell'opera (cfr. Sedley, 1998, p. 1 1 8 ) ; in ogni caso il contenuto riguarda la tematica del tempo che viene affrontata in forma di dialogo tra interlocutori.

L'epitome filosofica

Diogene Laerzio ( x 13) trasmette una testimonianza significativa tratta dallo scritto Sulla retorica di Epicuro in cui si legge che secondo il filosofo non si deve ricercare altro che la chiarezza (sapheneia; cfr. in merito Milanese, 1989; nonché Arrighetti, 2010 ). La chiarezza espositiva è un vero e proprio topos della produzione epicurea. Il tema della chiarezza (linguistica e concettuale allo stesso tempo) si lega direttamente all'epitome, una forma espositiva che, in particolare proprio con Epicuro, diviene un genere letterario (e filosofi­ co) a tutti gli effetti (cfr. Spinelli, 2012b, pp. 152-63). Il ruolo ricoperto dal compendio nell'epicureismo è decisivo; Epicuro scrisse delle epistole che

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sono epitomi dottrinarie e non è casuale che, come informa ancora Diogene ( x 3), lo stoico Diotimo, al fine di calunniare e screditare il filosofo, mise in circolazione cinquanta lettere spurie, lascive e licenziose a nome di Epicuro. Che, poi, il genere del compendio fosse proprio della tradizione epicurea lo testimonia ancora Diogene Laerzio ( x 118) che cita l'Epitome della dottrina etica di Epicuro di Diogene di Tarso, un epicureo del II secolo a.C.; il PHerc. 1044 (fr. 14 Gallo), inoltre, riferisce che un altro epicureo del I I secolo a.C., Filonide di Laodicea a mare, scrisse per i giovani pigri dei compendi delle epistole dei cosiddetti kathegemones o andres del Giardino, ovvero Epicuro, Metrodoro, Polieno ed Ermarco (su queste figure cfr. senz'altro lo studio di Clay, 1983). Filonide, dunque, scrisse addirittura "compendi di compendi� molto verosimilmente attuando una netta semplificazione della filosofia epi­ curea tale da risultare utile perfino a dei destinatari particolari come i giovani più pigri e "svogliati� Epicuro, tuttavia, non si distinse solamente per la composizione del­ le epistole, ma anche per la stesura di massime, ossia sentenze brevissime ma certamente efficaci (cfr. Gagliarde, 2011 ) . La motivazione per la quale Epicuro scrisse dei compendi risiede tanto nel fatto che la filosofia (epicu­ rea) deve avere un'applicazione diretta e concreta alle diverse e puntuali circostanze che la vita quotidiana pone, quanto nella conseguente diver­ sificazione dei destinatari a cui sono indirizzate le epitomi. Ciò risulta chiaro nel caso delle epistole e ancora di più in quello delle massime. Se i contenuti della filosofia devono essere applicati alla vita di tutti i giorni al fine dell'ottenimento della felicità, essi devono essere condensati in bre­ vi epistole o in sintetiche massime facilmente memorizzabili. La brevità è direttamente connessa alla memoria (sul ruolo della memoria in Epicuro cfr. Masi, 2014) ; la brevità delle epistole e delle massime, infatti, permette la loro rapida memorizzazione. Ciò, inoltre, è in relazione alla chiarezza; è del tutto evidente, infatti, che se le massime o i contenuti delle lettere non sono chiari, la loro comprensione e la loro conseguente memorizzazione risulteranno più ostiche e difficoltose. La chiarezza, tuttavia, non deve es­ sere necessariamente considerata in termini di banalizzazione o facilità; alcune sezioni dell'Epistola a Erodoto (o lo stesso Sulla natura), ad esem­ pio, non sembrano così chiare o immediatamente comprensibili. Non solo non va tralasciato che da quel testo ci separano più di venti secoli (in cui la stessa nozione di chiarezza si è modificata), ma soprattutto occorre tenere presente che la chiarezza a cui aspira Epicuro significa in prima istanza

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l'uso di un linguaggio appropriato che non lasci spazio a equivoci e am­ biguità che renderebbero vana la ricerca filosofica. Va anche tenuto conto, poi, del fatto che la chiarezza a cui Epicuro intende richiamarsi va intesa, per così dire, nell'ambito del Giardino, nel senso che tecnicità e chiarez­ za non sono modalità linguistiche e argomentative che Epicuro considera necessariamente in contraddizione. Coloro che si apprestano a leggere le epistole o a memorizzare le massime devono in primo luogo comprender­ ne il contenuto, ma ciò risulta difficile (se non impossibile) se costoro sono del tutto sprovvisti degli elementi dottrinari essenziali. Naturalmente Epicuro non scrive solamente epitomi, ma anche opere più lunghe e complesse come il Sulla natura in ben 37 libri. Tra la compo­ sizione di opere come il Sulla natura e la stesura di epitomi non vi è alcuna contraddizione ; ciò risulta chiaro se si tiene presente la diversificazione dei destinatari. A tale riguardo 1' incipit dell'Epistola a Erodoto (35-36) è un testo particolarmente lucido ; l'epistola è rivolta a coloro che : 1. non possono dedicarsi (per capacità intellettuali o per via delle occupa­ zioni quotidiane) allo studio delle opere maggiori sulla natura; 2.. avendo progredito nello studio della natura sufficientemente, sono in grado di orientarsi nel complesso delle dottrine ; 3. hanno raggiunto la perfetta conoscenza del sapere veicolato dalla pro­ posta filosofica di Epicuro. Il punto significativo è che tutte e tre le categorie di destinatari hanno bisogno del compendio : trarranno vantaggio dal compendio, dunque, co­ loro che non sono in grado di leggere le opere più complesse sulla natura, ma anche chi ha già raggiunto la conoscenza completa e ottimale, al fine di non "perdersi" eccessivamente nei dettagli dottrinari, sapendo così ricon­ durli di volta in volta ai principi fondamentali della filosofia.

Il sistema fìlosofìco

La filosofia di Epicuro si organizza in un sistema che, riprendendo la tri­ partizione inaugurata a quanto pare dall'accademico Senocrate (cfr. Sesto Empirico, Adv. Math. VII 16 = F 1 Isnardi Parente>), si costituisce, per 1' appunto, di tre parti, la canonica, la fisica e 1' etica. La particolarità essen­ ziale del sistema epicureo è il suo essere, per così dire, "orientato"; il fine dell ' intero sistema è 1' etica che si occupa di ciò che occorre scegliere e di ciò che bisogna fuggire. Per raggiungere e comprendere correttamente le

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proposte dell'etica epicurea, è necessario iniziare il "percorso filosofico" dalla canonica, proseguendo successivamente con la fisica o scienza del­ la natura (physiologia). Diogene Laerzio ( x 30) riferisce che la canonica è l' introduzione o, più letteralmente, la via di accesso (ephodos) a tutto il complesso della dottrina (pragmateia) ; la canonica, infatti, è la parte gno­ seologica del sistema e si occupa di rintracciare gli strumenti (o canoni) adeguati che permettono la corretta conoscenza della realtà. Conoscere la realtà grazie ai criteri gnoseologici forniti dalla canonica non è affatto un'attività fine a sé stessa ma è "strumentale" alla seconda parte del siste­ ma, ovvero alla scienza della natura, il cui studio è necessario e inaggirabile per comprendere l'assoluta plausibilità dell'etica proposta da Epicuro. A tale riguardo le Massime Capitali XI e XII sono assai esplicite: se non fos­ simo turbati dai fenomeni celesti e meteorologici (credendo, magari, che siano diretta opera divina) o dal timore della morte, non avremmo alcun bisogno di studiare la fisica. Il raggiungimento del piacere e, dunque, della felicità ( eudaimonia) che si identifica con la coincidente assenza dei timori (principalmente degli dei e della morte) è possibile esclusivamente se si conosce l' intrinseca struttura della realtà (cfr. a riguardo Spinelli, 2012a). Il metodo delle "molteplici spiegazioni" (pleonachos tropos) presentato principalmente dall'Epistola a Pitocle (85-88) si inscrive perfettamente in questo contesto (cfr. Bénatoui1, 2003; Bakker, 2010, pp. 8-69; Verde, 2013c). Ci si potrebbe chiedere, infatti, per quale ragione Epicuro dedichi un' in­ tera epistola all'esame dei fenomeni celesti e meteorologici (ta meteora). Poiché questa tipologia di fenomeni era considerata come la prova della benevolenza o (più di frequente) dell'attitudine punitiva degli dei (cfr. a mo' di esempio Sofocle, Edipo a Colono vv. 1463-1471), Epicuro, con­ ducendo una puntuale indagine scientifica, esclude del tutto questa pos­ sibilità, rilevando che in particolare i fenomeni celesti, avendo più cause del loro verificarsi (differentemente da altri fenomeni), avranno anche molteplici spiegazioni della loro generazione (ammesso che tali spiegazio­ ni siano compatibili con l'evidenza sensibile o enargeia). Dal momento che, ad esempio, attribuire la causa del terremoto all'attività (più o meno collerica) di Zeus è una spiegazione che, se non viene smentita, almeno non trova conferma nella testimonianza dell 'evidenza sensibile, si tratta di una spiegazione che non va minimamente presa in considerazione. Il terremoto, invece, avrà tante spiegazioni quante siano compatibili con la verace testimonianza dei sensi, in virtù, dunque, di quella stessa evidenza percettiva di cui (non a caso) lo stoico Cleomede (Caelestia II 1 1-5 Todd)

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ancora nel I I secolo d.C. criticava l'applicazione in ambito cosmologico in polemica anti-epicurea. Si comprende bene, dunque, come l'unico scopo di una trattazione del genere non potrà che essere la completa e salda im­ perturbabilità (ataraxia). Da questo punto di vista, l'etica ( quindi il pieno e duraturo raggiungi­ mento della felicità) rimane l'unico e autentico fine (telos) della filosofia di Epicuro; per raggiungere tale coronamento, tuttavia, occorre conoscere la natura (physis), ma, per fare questo, bisogna usare strumenti adeguati, ossia i criteri stabiliti dalla canonica.

La canonica

La canonica è la parte epistemologica del sistema filosofico, dunque il suo inizio ( sulla canonica cfr. Asmis, 1 9 84; nonché Giovacchini, 2012; CAP. 9 ) ; gli epicurei solevano definirla "scienza del criterio" (peri kriteriou: Dioge­ ne Laerzio x 30) in quanto riguardava i criteri o, meglio, i canoni, cioè gli strumenti della conoscenza indispensabili per esaminare correttamente la natura. Epicuro scrisse un'opera, il Canone, appunto, dove si occupava di analizzare debitamente i criteri della verità (kriteria tes aletheias) che, come tali, sono sempre veri. L'errore, infatti, risiede esclusivamente in ciò che si aggiunge nel giudizio (en toiprosdoxazomenoi) rispetto alla testimonian­ za evidente dei sensi e che, di conseguenza, trova smentita e attestazione contraria da parte dell'evidenza sensibile (enargeia; cfr. Ep. Herod. 50). È ancora Diogene Laerzio ( x 3 1 ) che trasmette fortunatamente la lista dei criteri che Epicuro studiava nel suo Canone. Il primo ( fondamentale ) criterio è la sensazione (aisthesis) che va con­ siderata una mera e passiva registrazione del fatto che qualcosa di esterno colpisce i nostri organi sensoriali (dianoia o mens compresa) . La sensazio­ ne, pertanto, è in ogni caso vera, in quanto si limita a registrare che vi è qualcosa di esterno che urta materialmente contro gli organi di senso; per questo motivo, la sensazione non solo è a-razionale (alogos), ma è anche priva di memoria (mneme). La sensazione, infatti, registrando semplice­ mente l' impatto esterno, non ne produce alcuna puntuale elaborazione razionale dei contenuti, e neppure è in grado di ricordare i diversi "im­ patti" che pure ha registrato. Nonostante tali "limitazioni", la sensazione, essendo sempre vera, gioca un ruolo fondamentale nella canonica e, più in generale, nella filosofia di Epicuro. Per comprendere meglio il ruolo di

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criterio ricoperto dal!' aisthesis, è necessario introdurre in sintesi la dottri­ na dei simulacri che Epicuro riprende dalla tradizione atomistica (Leucip­ po e Democrito) ; si tratta di una dottrina molto importante e non a caso Epicuro ne trattava diffusamente, con dovizia di dettagli, nel I I libro del Sulla natura, dunque praticamente all' inizio dell'opera (sulla dottrina dei simulacri cfr. gli studi raccolti in Masi, Maso, 2015). I simulacri (eidola) sono sottilissime immagini o pellicole che si distaccano continuamente dalla superficie degli oggetti; queste pellicole, sebbene non siano visibili, sono costituite da atomi che possiedono (almeno in partenza) la stessa configurazione atomica della superficie degli oggetti da cui continuamen­ te si distaccano. Evidentemente, dato che gli eidola sono dei corpi a tutti gli effetti, la loro struttura, viaggiando a velocità elevatissime nell'aria o nell'acqua, può modificarsi o alterarsi; ciò non è affatto significativo per I' aisthesis che, infatti, registra semplicemente lurto dei simulacri con gli organi sensoriali (cfr. da ultimo Hahmann, 2015). Il secondo criterio è la prolessi (prolepsis) o anticipazione; essa ricopre grosso modo la funzione del concetto. Il compito della prolessi, infatti, è quello di anticipare la comprensione (pro-lambanein) di un dato oggetto o di una qualche nozione in loro assenza. Nel momento in cui si dice il ter­ mine "uomo", si pensa immediatamente all'uomo grazie alla prolessi che, per lappunto, richiama tutti quei caratteri intrinseci ed essenziali, "anali­ ticamente" ineliminabili dall' "uomo"; in questo senso, la prolessi non solo è direttamente legata al linguaggio, ma, a differenza della sensazione, pos­ siede la memoria. Ciò risulta pienamente comprensibile se si tiene conto di come si forma la prolessi; tenendo consapevolmente da parte la (ap­ parentemente controversa) testimonianza ciceroniana sulla formazione della prolessi, Diogene Laerzio ( x 33) riferisce che la prolessi si costituisce empiricamente, "collezionando" (grazie alla memoria) i dati e i caratteri delle sensazioni più volte reiterate. In questo modo, nel caso non si riu­ scisse a distinguere chiaramente se quello laggiù sia un cavallo o un bue, in virtù della prolessi che conosce in anticipo (rispetto a ogni esperienza) la forma esteriore (morphe) del cavallo e del bue, sarà possibile concludere che si tratti magari di un cavallo e non di un bue. La prolessi del "caval­ lo" (direttamente connessa al nome) - che va considerata come un typos, ossia un' impronta materiale nella nostra dianoia - si è formata dopo che il "ragionamento applicativo" (del tutto assente nel caso dell' aisthesis) o epilogismos (cfr. su questo concetto Schofield, 1996 ) applicandosi al "ma­ teriale grezzo" proveniente dalla sensazione, lo raccoglie memorizzandolo

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e riuscendo a trarre da esso i caratteri essenziali dell'oggetto in questione. Grazie a questa operazione il nome (onoma) "cavallo" coinciderà con la morphe del cavallo e, in questo modo, la prolessi permetterà di riconoscere (nel caso sia effettivamente presente) o di pensare (nel caso non ci fosse) un cavallo. La relazione tra prolessi e linguaggio risulterà ancora più chia­ ra se si tiene conto della trattazione epicurea della genesi del linguaggio, così come viene presentata nell'Epistola a Erodoto ( 7 5-76 ; cfr. almeno Ver­ linsky, 2005). Epicuro ha una concezione dinamica e "progressiva" (ma, beninteso, non teleologica) di natura, come la stessa storia dello sviluppo del genere umano tratteggiata da Lucrezio nel V libro della Natura delle cose mostra chiaramente. La natura, non essendo un'entità stabile ma in "evoluzione", apprese molte cose dai fatti o circostanze (pragmata) che av­ venivano in essa, tuttavia solo il ragionamento (logismos) perfezionò e ag­ giunse molte scoperte le cui origini sono in ogni caso da rintracciare nella natura stessa. È in questo contesto che è possibile comprendere la genesi e lo sviluppo del linguaggio che, pertanto, avrà un inizio, per così dire, "naturale" e uno sviluppo "razionale" (cfr. Ep. Herod. 75-76). I nomi (ono­ mata) in origine, infatti, non furono affatto stabiliti per "convenzione" o per "accordo" (thesis) ma secondo le "nature degli uomini" (anthropon physeis), sulla base dei diversi popoli e dei luoghi da loro occupati; ogni "etnia", subendo affezioni particolari (idia [ ... ] pathe) e, quindi, rappresen­ tazioni altrettanto particolari (idia [ ... ] phantasmata ) , proprio dietro que­ sto impulso, emetteva diversamente l'aria. In origine, quindi, il "linguaggio" si costituisce come una sorta di "reazione" fonica o "conseguenzà' sonora ai diversi impulsi naturali; tuttavia, già originariamente questo "linguaggio" (o, più propriamente, questa "emissione d'aria") non è omogeneo ma è, ap­ punto, già diversificato a seconda delle diverse affezioni derivanti dai diversi popoli e dai luoghi da loro abitati. È solo successivamente (hysteron) che ciascun popolo concordemente (koinos) stabilì delle espressioni particola­ ri meno ambigue e, dunque, più chiare, affinché la comprensione recipro­ ca e concisa fosse garantita. È in tale ambito che si assiste all' introduzione da parte di "figure di esperti" di nomi nuovi connessi a cose che non erano "visibili" e note ; in sostanza, questi "esperti" introducono nomi di cose che non avevano avuto la loro genesi diretta in quelle affezioni e rappresenta­ zioni originarie o perché necessitati a pronunciare espressioni del genere o perché il ragionamento (logismos) esortava a esprimersi in questo modo. La genesi della formazione del linguaggio, dunque, mostra chiaramente la "relazione dialettica" tra "natura" e "ragionamento" in virtù della quale

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è possibile comprendere meglio la connessione tra prolessi e linguaggio, nonché lo statuto veritativo (come canone) della prolessi. Ogni ricerca che si intende condurre senza errori deve necessariamente partire dalle prolessi che, proprio in virtù del loro statuto veritativo, sono in grado di giudicare la correttezza o meno delle opinioni e, dunque, di ciò che è oggetto di indagine, senza il rischio di equivoci o confusioni (cfr. Ep. Herod. 37-38). A differenza della prolessi, l' ipolessi (hypolepsis), il cui contenuto è oggetto di opinione (to doxaston ) , può essere vera e fal­ sa; sarà vera, quando sarà direttamente confermata (epimartyresis) o non riceverà attestazione contraria (ouk antimartyresis) da parte dell'evidenza sensibile, mentre sarà falsa, quando riceverà attestazione contraria (anti­ martyresis) oppure non verrà confermata (ouk epimartyresis) sempre dal­ la testimonianza verace dei sensi (cfr. Dumont, 1982 ) . Il caso dell'esame della verità o della falsità di ciò che è oggetto di opinione (to doxaston) dimostra il ruolo decisivo giocato dall' enargeia, l'evidenza sensibile che occorre considerare esattamente come essenziale "banco di prova" della filosofia di Epicuro. Tra l' aisthesis intesa come primo criterio e l' enargeia vi è certamente relazione ma non diretta identità; si è già osservato che la sensazione, considerata, per l'appunto, come canone, è a-razionale (dun­ que non ammette il ricorso all' epilogismos) ed è vera in quanto si limita a registrare un urto esterno; pertanto, la verità della sensazione coincide propriamente con la realtà dell'urto esterno. È per questo che le visioni dei folli e quelle dei sogni sono vere; esse, infatti, sono connesse proprio a questo urto che, in ultima analisi, è un movimento e ciò che non esiste non può produrre movimento alcuno (cfr. Diogene Laerzio x 32). L'enargeia, invece, è sempre vera in un senso più elaborato e complesso rispetto alla verità (= realtà) dell' aisthesis; quando Diogene Laerzio afferma che le pro­ lessi sono evidenti (enargeis: Diogene Laerzio x 33) intende dire che sono vere non solo perché si costituiscono a partire dalle sensazioni, ma perché l' epilogismos, applicandosi al materiale sensibile e traendo da esso quei dati essenziali (ovviamente veri) che costituiranno la prolessi di un certo og­ getto, legittima lo statuto veritativo della prolessi, che non si limiterà a essere vera solo perché registra un urto esterno da parte dei simulacri come l'aisthesis, ma sarà vera, per così dire, "sotto ogni rispetto". Il caso dell 'esi­ stenza degli dei dell'Epistola a Meneceo (123) è esemplare : gli dei esistono in quanto la loro conoscenza (gnosis) è evidente (enarges). L'evidenza della conoscenza dell'esistenza degli dei dipende non solo dal fatto (legato pro­ priamente alla aisthesis) che gli dei, essendo degli aggregati atomici (ma

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assai particolari), emanano dei simulacri che urtano la nostra dianoia, ma anche dal fatto che la prolessi di divinità (legata ai suoi caratteri essenziali di incorruttibilità, aphtharsia, e di beatitudine, makariotes) come criterio è in grado di delegittimare lo statuto veritativo di quelle (false) ipolessi o opinioni (relative, ad esempio, alla collera o alla benevolenza degli dei nei nostri confronti) che il volgo erroneamente applica agli dei. L' enargeia svolge, inoltre, un ruolo di prim'ordine anche in quella che non del tutto impropriamente si può definire "semiotica epicurea", di cui il trattato Sui segni di Filodemo di Gadara conservato nel PHerc. 1065 è una testimonianza preziosa e paradigmatica (cfr. a riguardo Manetti, 2013, pp. 233-57; nonché Allen, 2001, pp. 194-241). L' interesse epicureo per l'inferenza da segni dipende fondamentalmente dalle stringenti difficoltà poste da ciò che non cade sotto i sensi (ta ade/a); come è possibile, infatti, provare l'esistenza di ciò che non è possibile percepire ? Anzitutto va chia­ rito che non necessariamente ciò che non siamo in grado di percepire non esiste ; gli atomi e il vuoto, ad esempio, che sono i principi fondamentali della physiologia epicurea, non possono essere percepiti, eppure esistono e la loro esistenza ovviamente deve essere giustificata. A tal fine Epicuro teo­ rizza l' inferenza semiotica come un vero e proprio passaggio (metabasis) dal fenomeno (percettivamente evidente) alla realtà non evidente o "oscu­ ra"; tale metabasis risulta possibile solamente se il fenomeno viene consi­ derato come segno (semeion) della realtà non evidente (cfr. Ep. Pyth. 87, 97, 104), dunque come "punto di partenza" da cui inferire analogicamente l'esistenza di ciò che è non evidente. Si ha un esempio di tale metabasis per analogia nella dottrina dei minimi atomici dell'Epistola a Erodoto ( 5859 ) ; a ogni modo, per chiarire meglio la questione, è utile richiamare sin d'ora l'esempio del vuoto, che è certamente una realtà non evidente, che sfugge, quindi, alla nostra percezione. Per legittimare l'esistenza del vuoto gli epicurei partivano da un fenomeno evidente, ovvero il movimento; tale fenomeno costituisce il segno da cui inferire per analogia l'esistenza del vuoto : il movimento di un dato corpo, infatti, è possibile solo se esso non sia ostacolato da altro ; di conseguenza, se si dà movimento, da ciò, allora, è possibile inferire l'esistenza del vuoto. Il terzo criterio della canonica epicurea sono le affezioni (pathe) cioè il piacere (hedone) e il dolore (algedon ) ; i pathe ricoprono in prima istanza il ruolo di criteri della verità - dunque, non sono stricto sensu criteri pratici, ma sono criteri epistemologici (ossia canoni) che si applicano alla sfera pratica - in quanto è in base a essi che è possibile giudicare (krinesthai:

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Diogene Laerzio x 34) ciò che occorre eleggere e ciò che bisogna fuggire. Per fare questo, le affezioni devono essere sempre vere: il loro statuto veri­ tativo, infatti, è garantito dalle sensazioni. Dall'Epistola a Meneceo (124) si apprende che ogni bene ( corrispondente al piacere ) e ogni male ( corri­ spondente al dolore ) sono nella sensazione ( en aisthesei). Le affezioni, per­ tanto, sono in grado di giudicare ciò che va scelto e quanto occorre fuggire. Di questi tre criteri della verità Epicuro avrebbe trattato nel Canone; Diogene Laerzio ( x 31 ), tuttavia, informa che gli epicurei aggiunsero un quarto criterio (che evidentemente Epicuro non esaminava nel Canone e che lo stesso Diogene non analizza come fa, invece, nel caso degli altri tre ) ovvero le applicazioni rappresentative del pensiero (phantastikai epibolai tes dianoias) . La notizia fornita da Diogene non è di immediata compren­ sione, soprattutto se si tiene conto del fatto che il termine epibole ( a vol­ te insieme a phantastike, altre volte insieme a dianoias: cfr. Ep. Herod. 38, so ) compare in più luoghi dell'opera epicurea ( ad esempio, nell'Epistola a Erodoto). Senza scendere troppo nei dettagli, per spiegare l' informazione laerziana si potrebbe supporre che, sebbene Epicuro nei suoi scritti usasse con una certa frequenza il termine epibole, non considerandolo, però, un criterio, furono successivamente gli epicurei a elevarlo a rango di criterio della verità a tutti gli effetti. La phantastike epibole tes dianoias va conside­ rata, in primo luogo, come la modalità percettiva della dianoia; la mente, essendo un organo di senso materialmente formato da atomi, percepisce come gli altri organi sensoriali ma in una maniera, per così dire, più "sot­ tile" ed elaborata. L' epibole tes dianoias, in questo senso, non indica solo l'atto percettivo della mente, ma rappresenta anche un'attiva "applica­ zione" della mente al materiale percettivo. Le rappresentazioni derivanti originariamente dal continuo flusso di simulacri che urtano la mente si costituiscono proprio in virtù dell' epibole che, di conseguenza, non svolge solo un ruolo passivo, ma anche uno attivo nell'elaborazione, per così dire, "rappresentativa" del materiale percettivo.

La scienza della natura

Il compito della scienza della natura (physiologia) è - si potrebbe aggiunge­ re: "aristotelicamente" - quello di investigare con precisione (exakribosai) la causa (aitia) dei fenomeni fondamentali (cfr. Ep. Herod. 78). Tale causa si identifica con due realtà contrarie che, però, non si escludono a vicenda:

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ciò che è corporeo e impenetrabile, ossia gli atomi, e ciò che, al contrario, è intangibile e intrinsecamente cedevole (e che, quindi, non può né agire né patire ; cfr. Ep. Herod. 67 ), ovvero il vuoto. Riprendendo i fondamenti dell'atomismo di Leucippo e Democrito (ma, come si vedrà, apportando innovative modifiche che segnano in modo netto la differenza tra l' ato­ mismo più antico e quello epicureo), Epicuro pone alla base della realtà gli atomi e il vuoto; tutto il resto è o proprietà (symbebekos) o accidente (symptoma) degli atomi e del vuoto. La distinzione tra proprietà e acci­ dente vale la pena di essere esplorata brevemente ; sulla base di alcuni versi lucreziani che precedono la trattazione del tempo (Lucrezio, Rer. Nat. I 445-458), si deduce che le uniche realtà a essere davvero autonome e "onto­ logicamente" indipendenti sono gli atomi e il vuoto, che il poeta definisce non a caso dei per se. Proprietà (coniunctum/symbebekos) è ciò che non è possibile separare dalla cosa di cui è proprietà, pena la sua stessa distruzio­ ne, come il calore del fuoco o la pesantezza dei sassi; l'accidente (eventum/ symptoma), al contrario, è ciò che, anche se separato dalla cosa di cui è acci­ dente, lascia incolume la natura della cosa stessa (gli esempi portati da Lu­ crezio sono la povertà e le ricchezze, la libertà e la guerra). Evidentemente le proprietà hanno un grado di necessità incomparabilmente superiore rispet­ to agli accidenti; questa distinzione mostra efficacemente che i fondamenti della realtà sono esclusivamente gli atomi e il vuoto (gli unici per se), men­ tre tutte le altre cose (ad esempio le qualità degli aggregati) possono essere o proprietà o accidenti (cfr. Ep. Herod. 68-71). Dal momento che tutto ciò che esiste né deriva dal nulla né finisce nel nulla (se così non fosse, infatti, la testimonianza dei sensi che, per l' ap­ punto, attestano chiaramente la continua esistenza della cose, risulterebbe fallace ; cfr. Ep. Herod. 38-39 ) , ogni cosa si riduce agli atomi e al vuoto, principi eterni e indissolubili che, raccogliendosi insieme, costituiscono ogni corpo aggregato (sygkrisis). Le cose, dunque (da ciò che non è ani­ mato come, ad esempio, una pietra, fino agli esseri viventi, dagli dei agli infiniti mondi), non sono altro che aggregati di atomi e di vuoto ; gli ato­ mi, che possiedono intrinsecamente la causa del loro movimento, tendono continuamente ad aggregarsi a seconda delle loro forme, ma hanno anche la capacità di disgregarsi e ciò è possibile, in particolare, in virtù della pre­ senza del vuoto all' interno di ogni aggregato. Se gli aggregati hanno un inizio e una fine della loro esistenza, ciò evidentemente non vale per gli atomi (e per il vuoto) che sono eterni e indissolubili; questo è il motivo per cui solo gli aggregati possono avere delle qualità, come ad esempio,

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il colore. Corpi eternamente immutabili non possono avere qualità che naturalmente possono variare nel tempo, come, appunto, nel caso del co­ lore. Di conseguenza, le qualità come il colore appartengono solo agli ag­ gregati; un dato corpo, dunque, avrà determinate qualità a seconda della particolare configurazione e della specifica struttura assunte dagli atomi nell'aggregazione. A differenza degli aggregati, gli atomi non hanno qua­ lità; gli unici caratteri che possiedono sono di ordine "quantitativo" e sono la forma (schema), il peso (baros) e la grandezza (megethos). Indubbiamente il carattere fondamentale ( richiamato anche dal nome stesso ) dell'atomo ( da cui derivano gli altri suoi caratteri di eternità, im­ penetrabilità e indissolubilità ) è la sua indivisibilità o, più letteralmente, la sua "non secabilità". L'atomo è un corpo talmente solido e duro da ri­ sultare non divisibile né in termini fisici né in senso teorico ( ammesso e non concesso che una siffatta distinzione sia plausibile nell 'ambito dell 'e­ picureismo ) . È propriamente nella struttura interna dell'atomo che è pos­ sibile osservare una prima e netta differenza con l'atomismo di Leucippo e Democrito ; l'atomo di Epicuro, infatti, è materialmente costituito da elementi minimi (ta elachista) di natura fisico-corporea ( e non teorica, dunque ) che sono unità di misura (katametrema) della grandezza dello stesso atomo. A seconda del numero e della disposizione di questi minimi al suo interno, l'atomo avrà una certa grandezza e, pertanto, una certa forma e un determinato peso. Dal momento che l'atomo è un corpo li­ mitato, il numero dei minimi nell 'atomo non potrà che essere altrettan­ to limitato, di conseguenza la gamma delle forme ( delle grandezze e dei pesi ) degli atomi non potrà essere infinita, sebbene per ogni "esempla­ re" il numero degli atomi sarà infinito. Gli atomi, quindi, sono infiniti ma il numero delle loro forme, malgrado sia inconcepibilmente elevato, è, invece, finito. Almeno due sono, a mio parere, gli aspetti più interes­ santi di questa dottrina; il primo riguarda la modalità seguita da Epicuro per giustificare l'esistenza degli elachista, mentre il secondo concerne il problema dell' indivisibilità dell'atomo, pur essendo questi costituito da ulteriori "parti". La dottrina dei minimi ( a riguardo cfr. Verde, 2.013b ) , come già si accennava in precedenza (cfr. p. 86), è un chiaro esempio di metabasis analogica; Epicuro, infatti, al fine di legittimare l'esistenza dei minimi nell'atomo, prende le mosse dai cosiddetti "minimi sensibili", ov­ vero le parti più piccole di un dato corpo che siamo ancora in grado di percepire. Da questi e, in particolare, dalle loro "proprietà", Epicuro in­ ferisce per analogia i minimi atomici, che differiscono da quelli sensibili

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in primo luogo per piccolezza (mikrotes). Benché l'atomo sia costituito da minimi, esso non deve essere considerato come un corpo aggregato : se così fosse, infatti, l'atomo potrebbe disgregarsi proprio come un corpo qualunque. Per ovviare a questa spinosa difficoltà, Epicuro nel!' Epistola a Erodoto (59) definisce significativamente i minimi atomici come "limiti" (perata). Senza entrare troppo nei dettagli, Epicuro molto probabilmente usa il termine "limite" nel!' accezione aristotelica, il che potrebbe provare la frequentazione epicurea dei trattati non pubblicati di Aristotele (come pure sembrerebbe lecito ipotizzare sulla base di un frammento papiraceo ercolanese)7• Aristotele (ad esempio, nella trattazione della relazione tra !' "adesso", to nyn, e il tempo) tracciava una chiara distinzione concettuale tra "parte" (to meros) e "limite" (to peras). Mentre la "parte" è in grado di misurare e, inoltre, può essere separata da ciò di cui è parte (se, infatti, dico che x è parte di y, affermo non solo che x può misurare y, ma anche che x può separarsi day), ciò non vale per il limite ; esso, infatti, non può mai essere separato da ciò di cui è limite (secondo l'esempio precedente, se x è limite di y, x non potrà mai separarsi da y; se ciò avvenisse, x non sarebbe più limite di y; cfr. Aristotele, Phys. IV 10 218a 6-24). In questo modo, definendo i minimi come "limiti" (ma attribuendo loro la fun­ zione di unità di misura che, invece, Aristotele attribuiva alla "parte"), Epicuro ha preservato l' integrità e l' indivisibilità dell 'atomo. La dottri­ na dei minimi è una parte integrante della filosofia di Epicuro che, tra l'altro, ha avuto un suo sviluppo all' interno del Giardino : gli epicurei (o forse già Epicuro che si occupa del concetto di tempo in Ep. Herod. 72-73) non solo considerarono lo spazio e il tempo in termini "granulari" (ossia come grandezze discontinue, costituite da minimi, per lappunto, spaziali e temporali), ma molto verosimilmente applicarono la teoria dei minimi (una dottrina originariamente fisica, come abbiamo visto) all'ambito geo­ metrico (sulla questione della "geometria epicurea" cfr. Bénatou'il, 2010, pp. 1 51-62; Verde, 2013c). Nella physiologia epicurea il vuoto non è "ontologicamente" inferiore agli atomi, ma, non meno degli atomi, possiede una propria e autonoma sussistenza; non a caso Epicuro parla di "natura del vuoto" (tou kenou physis: Ep. Herod. 44; in merito cfr. Sedley, 1982). Sebbene la questione sia piuttosto complessa, sembra che Epicuro intendesse il vuoto come "natura intangibile" o anaphes physis (evidentemente per diversificarla da quella corporea coincidente con gli atomi) ; inoltre, soprattutto sulla base di una notizia di Sesto Empirico (Adv. Math. x 2 = 271, p. 350 Us.), Epicuro de-

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clinava quello che possiamo genericamente definire "vuoto" in tre distinte "modalità" (ma non bisogna cadere nell'equivoco che Epicuro teorizzi tre "vuoti" diversi; si tratta, invece, di tre diversi nomi assunti dalla natura intangibile relativi ad altrettante "condizioni" fisiche del vuoto). Le ti­ pologie in cui si declina la natura intangibile a seconda della presenza o meno dei corpi che viaggiano di continuo attraverso di essa sono il vuoto, appunto, o kenon (quando non viene occupata da corpi), lo spazio o chora (quando lascia passare i corpi) e, infine, il luogo o topos (quando viene oc­ cupata da corpi). Il numero infinito degli atomi e il loro costante viaggiare in un uni­ verso infinito e privo di limiti permette la formazione di mondi infiniti; essendo dei corpi aggregati e possedendo, quindi, i loro caratteri, i mon­ di si generano e si dissolvono continuamente nell'eternità del tempo e nell' infinità dello spazio (cfr. Ep. Herod. 73-74). Il nostro mondo, con­ siderato nell' infinità dell'universo, non ha alcun carattere privilegiato ri­ spetto agli altri; la generazione di un mondo (che può avere naturalmente diverse forme) non avviene a causa di un provvidenziale intervento divi­ no, ma solo per ragioni genuinamente fisiche, legate alla cinetica degli atomi e alla loro aggregazione. Non esistono principi divini ordinatori (immanenti o trascendenti che siano) che garantiscano la razionalità del tutto ; in Epicuro, insomma, la cosmologia non è legata ad alcuna forma di teleologia e non ha bisogno di una teologia provvidenzialistica che la legittimi, come, invece, nel caso del Timeo platonico o, successivamente, della "cosmo-teologià' stoica (cfr. su questo punto Sedley, 2007, pp. 1 5 1 7 6 ) . Eppure, benché i n questa cosmologia non vi sia spazio per l'azione provvidenziale e ordinatrice della divinità, i mondi, come ad esempio il nostro, non solo dispongono di una ben definita struttura ordinata, ma soprattutto hanno in sé stessi le condizioni che permettono la vita. Ciò significa che gli atomi numericamente infiniti, senza alcun ausilio divino e senza poter contare su una natura teleologicamente ordinata, combi­ nandosi secondo certe forme (che, lo si ricorderà, non sono illimitate, dunque le aggregazioni, anche quelle più "favorevoli" che permettono la vita, come nel caso del nostro mondo, tenderanno a ripetersi), sono in grado di spiegare !' "ordine" dei mondi che, tuttavia, sono destinati a dis­ solversi per quelle stesse motivazioni fisiche che hanno portato alla loro generazione. Questa prospettiva, per quanto sia netta e non lasci spazio a compromessi di alcun genere, non esclude l'esistenza degli dei. Molto a lungo (e, si potrebbe dire, addirittura fino a oggi) Epicuro, a causa di

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una vera e propria "cattiva pubblicità" perpetrata a suo danno almeno a partire da Timocrate fino ai commediografi (Damosseno ), a Cicerone e ai Padri della Chiesa (cfr. a riguardo Schmid, 1961, trad. it. pp. 1 37-97; Criscuolo, 1994 ) , è stato considerato l'ateo par excellence. Se "ateo" è co­ lui che nega ogni attività (che sia provvidenziale o meno) alla divinità, Epicuro è certamente un ateo; se, invece, per ateo si intende chi nega l'e­ sistenza degli dei, Epicuro non solo non è un ateo, ma la sua riverenza nei confronti degli dei era un dato assai noto ( cfr. Diogene Laerzio x 10, nonché Lucrezio, Rer. Nat. V 52.-53; cfr. Giannantoni, 1996 ) . A questo proposito si è già menzionato poco sopra il passo dell'Epistola a Meneceo ( 1 2.3 ) in cui Epicuro asserisce lucidamente che gli dei esistono (theoi [ . . . ] eisin), infatti la loro conoscenza (gnosis) è evidente (enarges). L'evidenza a cui si richiama Epicuro non può che essere quella sensibile ; gli dei, come del resto i mondi, sono aggregati atomici (ma assolutamente particola­ ri) antropomorfi (a tale conclusione si arriva per analogia)8 che vivono eternamente beati negli spazi tra i mondi (metakosmia; cfr. Cicerone, De nat. deor. I 8 1 8 ; Pseudo Ippolito, Ref I 2.2. 3 1 1 - 1 3 Marcovich = 3 5 9 Us.) e che, pertanto, non si identificano né con i mondi né con i pianeti, il che costituisce una netta delegittimazione della teologia astrale ( cfr. su questo punto Festugière, 1 946, trad. it. pp. 83-105 ) . La motivazione dei loro caratteri peculiari (l' incorruttibilità e la beatitudine) è ancora una volta genuinamente fisica; il corpo (o meglio, il quasi corpus: Cicerone, De nat. deor. I 18 49 ) atomico degli dei, come ogni aggregato, emana di continuo i simulacri, tuttavia, gli atomi perduti nelle emanazioni di queste immagini sono costantemente/eternamente compensati secondo quella modalità di "risarcimento atomico" che avviene anche per i cor­ pi solidi (steremnia) - ma ovviamente non eternamente - che Epicuro chiama antanaplerosis (Ep. Herod. 48 ) . I simulacri che si distaccano dagli dei (cfr. Cicerone, De nat. deor. I 41 1 14; Lucrezio, Rer. Nat. VI 76-78 ) grazie ai quali si costituisce la loro prolessi che contiene in sé le nozioni di incorruttibilità e di beatitudine - sono ricevuti dalla mente soprattutto (ma non esclusivamente) in somnis (cfr. Lucrezio, Rer. Nat. V 1 1 7 1 ; anche Sesto Empirico, Adv. Math. IX 25 = 3 5 3 Us., e, in particolare, il denso re­ soconto ciceroniano in De nat. deor. I 16 43-2.0 56 = 3 5 2. Us.) . Proprio sui caratteri dei simulacri divini e sulla stessa natura (fisico­ materiale9 o ideale-mentale10) degli dei si è incentrato un ricco dibattito tra gli interpreti moderni. Lo scolio alla prima delle Massime Capitali ( 355 Us.) così come altri luoghi testuali da Demetrio Lacone [ ?] ( [De forma

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dei] , PHerc. 1055, coll. XXI I I I I ; XXIV 1 - 2 Santoro) a Filodemo (De dis, PHerc. 152, III fr. I I 2 Diels) riferiscono che secondo Epicuro gli dei sa­ rebbero logoi theoretoi, osservabili/ conoscibili con la ragione, ovvero tramite la mente che, per lappunto, è ricettiva dei simulacri divini. Per via della loro eterna beatitudine, gli dei sono completamente inattivi (un carattere che avvicina la teologia epicurea a quella aristotelica), pertanto non agiscono né provvidenzialmente né malvagiamente nei confronti de­ gli uomini (cfr. Spinelli, i.015c). Secondo Epicuro, infatti, attribuire agli dei eternità e beatitudine e nello stesso tempo volontà e azione conduce a una contraddizione insolubile (cfr. Ep. Herod. 8 1 ) , in quanto ciò signi­ ficherebbe "contaminare" la divinità stessa degli dei; a questo punto ci si potrebbe domandare a che cosa servano gli dei nell'economia del sistema filosofico epicureo. Epicuro non giustifica l'esistenza degli dei semplice­ mente perché non è ateo ; agli occhi del filosofo, infatti, l inattività divina non è affatto sinonimo di ateismo. Gli dei sono una sorta di "ideale rego­ lativo" per il saggio epicureo o per chi (giovane o vecchio che sia) intenda abbracciare la filosofia di Epicuro, dove, tuttavia, laccento non va affatto posto su "ideale"; ciò risulta assai chiaro dalla chiusa dell'Epistola a Me­ neceo (135). Epicuro invita Meneceo (e in generale tutti coloro che sono disposti a seguire la sua dottrina) a meditare continuamente e, conseguen­ temente, a mettere in pratica i principi etici appena descritti; così facendo Meneceo non avrà alcun turbamento e vivrà hos theos en anthropois, come dio tra gli uomini. Questo non è affatto un ideale, ma è una possibilità reale ; fatta salva la differenza fondamentale tra gli dei e gli uomini, ovvero l'eternità dei primi rispetto alla mortalità dei secondi, anche l'uomo che segua la filosofia (di Epicuro) può raggiungere pienamente quell' imper­ turbabilità che è propria degli esseri divini. È, forse, in questa luce che deve leggersi una preziosa testimonianza di Attico (fr. 3 p. 48, 63-65 des Places [in Eusebio, Praep. ev. xv 5 7 = 385 Us.] ) per cui anche secondo Epicuro deriverebbe agli uomini un giovamento (onesis) da parte degli dei; le loro emanazioni migliori (aporroiai) sono concause (paraitiai) di molti beni per quanti ne partecipano (cfr. in merito le conclusioni cui giunge Drozdek, 2005, pp. 1 6 5-6). A ragione Attico non attribuisce agli dei epicurei alcuna causalità pura ma, più moderatamente, riferisce che le loro migliori emanazioni (si tratta dei simulacri divini) sono in grado di apportare giovamento, ossia un profitto legato direttamente a quell' im­ perturbabilità che gli dei vivono eternamente e che per coloro che adot­ tano la filosofia di Epicuro è una possibilità effettiva e reale, che essi sono

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chiamati a realizzare concretamente (sulla teologia epicurea, anche nelle sue "versioni" ciceroniana e filodemea, cfr. Essler, 2009 ). Il presunto (ed erroneo) ateismo di Epicuro sin dall'antichità si è ac­ compagnato soprattutto al rifiuto dell' immortalità dell'anima; gli epi­ curei, secondo Dante (Inforno x 15), sono del resto coloro che «l'anima col corpo morta fanno » . L'anima è un corpo (soma) sottilissimo e caldo costituito da atomi e diffuso per tutto l'organismo (cfr. Ep. Herod. 63); come ogni aggregato atomico, essa è destinata a disgregarsi insieme alla parte corporea. La diffusione dell'anima per l' intero organismo giusti­ fica il fatto che ogni parte del nostro corpo è sensibile; Epicuro, infatti, ritiene che la causa della percezione risieda principalmente nell'anima o, più correttamente, nell'unione dell'anima con il restante aggregato cor­ poreo. Ciò significa, dunque, che il corpo senza anima non è in grado di percepire (e viceversa) ; di conseguenza, per quanto concerne la possibili­ tà della sensazione, l'anima svolge il ruolo principale, tuttavia essa senza il corpo non potrebbe percepire alcunché. Alcune fonti dossografiche (cfr. Aezio, IV 4 6 [Dox. Gr. p. 3 9 0 Diels = 3 1 2 Us.] ) attribuiscono a Epicuro la "bipartizione" dell'anima (molto verosimilmente non da intendersi in senso stretto e, per così dire, "platonico") in una parte razionale (logikon) che avrebbe sede nel torace e in una a-razionale (alogon) che sarebbe dif­ fusa per tutto l'organismo ; tale "bipartizione" richiama da vicino quella lucreziana tra animus (parte razionale) e anima (parte a-razionale, con­ nessa alla sensazione ; cfr. Lucrezio, Rer. Nat. III 3 1 -36, 130-176; in meri­ to cfr. Diano, 1974, pp. 1 29-280 ; Konstan, 2007 ). È molto probabile che Epicuro abbia effettivamente teorizzato questa distinzione relativa, però, alle diverse funzioni (e alle due conseguenti localizzazioni) di cui l' ani­ ma è responsabile piuttosto che a "parti" vere e proprie e a sé stanti; ciò, tuttavia, è avvenuto successivamente alla stesura dell'Epistola a Erodoto. Del resto, se Epicuro avesse già sostenuto tale " bipartizione" dell'anima in questo scritto, l' informazione dello scolio del paragrafo 66 dell'Epi­ stola a Erodoto (in cui, per l'appunto, si dice che in altre opere Epicuro sosteneva questa distinzione), non avrebbe avuto ragion d'essere. Credo sia indubbio, quindi, che la psicologia epicurea abbia avuto una sua evo­ luzione dottrinaria; la specificazione di due funzioni (l'una razionale, l'altra a-razionale) e di altrettante localizzazioni (nel torace e nel resto dell'organismo) del corpo psichico non escludono (ma, anzi, conferma­ no) che Epicuro abbia avuto e mantenuto una concezione fondamental­ mente unitaria dell 'anima (cfr. a riguardo Repici, 2008; Verde, 2015a).

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L'etica

L'etica è il coronamento e l'autentico fine della filosofia di Epicuro in quan­ to la stessa filosofia, organizzata sistematicamente, è utile se e solo se è in grado di garantire a tutti la felicità (giovani e vecchi, come chiarisce bene il "prologo" dell'Epistola a Meneceo, 122 ) 11• Sicuramente l'Epistola a Meneceo e le Massime Capitali rappresentano i "manifesti" più significativi e più lucidi dell'etica di Epicuro. Non vi è alcun dubbio che la proposta etica epicurea è eudaimonistica: la felicità è il fine ultimo che la filosofia, se intende essere coerente con sé stessa, deve raggiungere. In questo senso la filosofia è, per­ tanto, subordinata o, quanto meno, sotto-ordinata all'acquisizione della felicità; per far questo, la filosofia argomenta a favore del raggiungimento del piacere (hedone) che viene riconosciuto da Epicuro come strumento privilegiato per l'ottenimento della felicità che, a sua volta, coincide con l'assenza di dolore (ponos) nel corpo (aponia) e con l'assenza di turbamento (tarache) nell'anima (ataraxia; cfr. Ep. Men. 1 3 1 ; in merito cfr. Held, 2007; Wolfsdorf. 2013, cap. 7; Warren, 2014b, capp. 4 e 8.). Il piacere, lo si ribadi­ sce, è lo strumento, il mezzo per raggiungere la condizione duratura della felicità che porterà colui che l'ha acquisita a godere di beni immortali, pur essendo mortale e, quindi, a essere un dio fra gli uomini in una vera e pro­ pria assimilazione a dio o homoiosis theoi (tipica della tradizione platonica: cfr. Theaet. 176a-b) ma tutta terrena e confinata nei limiti di questa realtà, senza alcun riferimento a una qualche forma di (inutile) trascendenza (cfr. su questo punto Erler, 2002). Una delle definizioni più chiare di piacere è fornita dalla Massima Capitale III (dunque una delle prime quattro massi­ me che insieme costituiscono il cosiddetto "tetrafarmaco" o quadruplice rimedio), dove si dice che il limite (horos) della grandezza dei piaceri è la sottrazione (hypexairesis) di ogni dolore ; il limite massimo a cui un dato piacere può spingersi è propriamente la detrazione di ogni dolore. La filoso­ fia di Epicuro è propriamente un pensiero del limite che, tuttavia, è sempre in una relazione dialettica con l' infinito; ciò è ben visibile sia nella scienza della natura (si pensi alla limitatezza delle forme atomiche e alla paralle­ la infinità del numero degli esemplari degli atomi per ogni grandezza) sia nell'etica (si consideri il limite del piacere che, tuttavia, concede beni divini e immortali). La stessa natura, pur essendo infinita, fa del limite il proprio fondamentale "criterio"; in questa luce, a ragione Lucrezio, nell'elogio di Epicuro del I libro della Natura delle cose, parla di finita potestas e di alte terminus haerens ( 1 76-77 ). Il piacere è assenza di dolore, così come il dolore

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è assenza di piacere. Questa è la definizione di "piacere catastematico" (ossia piacere in quiete), da distinguere dal piacere cinetico o in movimento; è probabile che tale distinzione sia stata elaborata anche per diversificare la teoria epicurea del piacere da quella cirenaica (cfr. Diogene Laerzio x 136; cfr. Giannantoni, 1984; Gargiulo, 1982; Nikolsky, 2001 ) . Si tratta, dunque, di una nozione che fa del limite e della sottrazione i suoi elementi cruciali; è per questo che il piacere a cui Epicuro fa riferimento non è affatto quello dei dissoluti o quello legato alle crapule e al godimento sfrenato (dunque il­ limitato; cfr. Ep. Men. 131-132 ) ". Il piacere come assenza di dolore non può in alcun caso essere accresciuto (cfr. Epicuro, Rat. Sent. XVI II-XXI ) , proprio perché il limite massimo della sua grandezza coincide perfettamente con la detrazione del dolore; una volta tolto il dolore, al limite il piacere può solo svariarsi (poikilletai), ma un piacere (cinetico) del genere non può togliere il dolore e può sussistere se e solo se ha alle spalle quel piacere ( catastematico) in grado di eliminare davvero il dolore. Per questo motivo il piacere è consi­ derato principio e fine del vivere beato (arche kai telos [ ... ] tou makarios zen: Ep. Men. 128-129 ), un esplicito riferimento, questo, alla beatitudine propria degli esseri divini. Il piacere non è solo lo scopo della vita beata (in quanto il suo completo ottenimento coincide con la felicità), ma è anche principio perché è il bene primo e a noi connaturato (agathon proton kai syggenikon ). È in virtù del piacere (che, non lo si dimentichi, come affezione, pathos, è un canone a tutti gli effetti) che è possibile giudicare ciò che va scelto e preferi­ to e ciò che, al contrario, va fuggito e tralasciato; ciò, tuttavia, non significa affatto che dobbiamo perseguire ogni piacere: la sequela di alcuni piaceri, infatti, può apportare turbamento, così come la preferenza accordata ad al­ cuni dolori può fornire piacere, per via della loro sopportazione. È proprio nella dottrina del piacere che si incontra con una chiarezza straordinaria un altro cardine teorico della filosofia epicurea: il rapporto dialettico tra natura e ragionamento (cfr. Morel, 2009, pp. 7-15 ) . Epicuro è convinto che il piacere sia un bene connaturato in quanto la natura stessa ci spinge al piacere (è, questa, grosso modo, la base teorica della versione epicurea del celebre argumentum ab incunabulis o "argomento della culla", forse ela­ borato in funzione dialettica dagli epicurei in polemica con gli stoici; cfr. Cicerone, Definibus III s 16-17; cfr. in proposito Brunschwig, 1986 ) e ci esorta al suo raggiungimento ; tuttavia, la sola natura non è sufficiente ma, come già si è osservato nel caso della genesi e dello sviluppo del linguaggio, occorre l intervento del ragionamento o, più correttamente, del nephon logismos, il sobrio calcolo (cfr. Ep. Men. 132; su questa nozione cfr. Erler,

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i.010 ), che per certi aspetti, non può non rammentare la "scienza metreti­ ca" a cui ricorre Socrate nel Protagora (355b-3 57e) proprio nel calcolo dei piaceri e dei dolori. Come si è già visto, sebbene il piacere sia il bene primo e connaturato, non ogni piacere è da scegliersi, così come non ogni dolore è da fuggirsi; lo strumento che esamina le cause delle scelte e dei rifiuti è il sobrio ragiona­ mento che, sulla base del piacere definito come assenza di dolore, calcola e valuta gli incomodi e i vantaggi che provengono da ogni nostra potenziale scelta (e, quindi, da ogni nostro rifiuto). Evidentemente il piacere, se inte­ so nel senso della detrazione del dolore, non è un male, anzi Epicuro arri­ va a dire che nessun piacere è di per sé un male, tuttavia, i mezzi con cui ci si procura un dato piacere sono spesso forieri di turbamenti e dolori ( cfr. Rat. Sent. VIII = Sentenze "faticane 50 ). Per questo motivo nell'Epistola a Meneceo (130) Epicuro scrive : « In base al calcolo [symmetresis] e alla con­ siderazione [blepsis] degli utili e dei danni bisogna giudicare tutte queste cose. Talora infatti esperimentiamo che il bene [to agathon] è per noi un male, e di converso il male [to kakon] è un bene » (trad. Arrighetti, 19731). Il sostantivo symmetresis usato dal filosofo ha un valore molto significativo in quanto è un termine che indica propriamente l'atto del "misurare in­ sieme", dunque del "misurare confrontando". In virtù del ragionamento è, dunque, possibile calcolare e valutare di volta in volta la scelta o il rifiuto da fare, confrontandone, appunto, i vantaggi e gli svantaggi, e avendo per­ sistentemente come fine l'acquisizione duratura della felicità. Tenendo presente la natura e la funzione decisiva del nephon logismos, è possibile comprendere un'affermazione epicurea (che potrebbe risultare oscura o perlomeno enigmatica di primo acchito) per cui la phronesis o prudenza è più apprezzabile (timioteron: Ep. Men. 13i.) della stessa philoso­ phia (in proposito cfr. De Sanctis, i.010 ) Il ruolo della phronesis è stretta­ mente connesso a quello del nephon logismos e, dunque, della symmetresis che si applicano alla valutazione dei piaceri e, pertanto, organizzano retta­ mente la tassonomia dei desideri. Come enuncia lucidamente la Massima Capitale XXIX (= Sentenze "faticane 2.0 ; cfr. anche Ep. Men. 1i.7-12.8), dei desideri (epithymiai) alcuni sono naturali e necessari, altri sono naturali ma non necessari e altri ancora non sono né naturali né necessari ma si co­ stituiscono a partire da vuota opinione. Solo i primi desideri devono essere perseguiti con insistenza e convinzione, se si intende raggiungere l' imper­ turbabilità; i desideri naturali e necessari sono legati principalmente alla frugalità della vita e, in particolare, al soddisfacimento dei bisogni prima.

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ri, ossia la fame, la sete e il non sentire freddo. Epicuro esorta a scegliere costantemente cibi frugali non solo perché un cibo del genere soddisfa l'appetito per fame esattamente come potrebbe farlo un cibo sontuoso, ma anche perché il "poco" è più facilmente rintracciabile ( la natura, del resto, non richiede nulla che non sia agevolmente procacciabile ) rispetto al "troppo"; in questo senso, abituarsi al poco non solo permette di soddi­ sfare pienamente e con il massimo godimento ogni bisogno, ma induce ad accontentarsi del poco quando non si ha il molto : « Grida la carne : non aver fame non aver sete non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle, anche con Zeus può gareggiare in felicità » (Sentenze vaticane 33; trad. Arrighetti, 1973' ) . La funzione della phronesis si inserisce perfetta­ mente in questo contesto, sebbene il suo "spettro di azione" risulti più am­ pio rispetto a quello del nephon logismos; anche la phronesis contribuisce alla valutazione razionale dei vantaggi e degli incomodi derivanti da scelte e rifiuti, ma se si limitasse a questo non si comprenderebbe perché essa è più apprezzabile della filosofia ( laddove ciò non viene specificato per il

nephon logismos )

.

Un"'interpretazione" malevola dell'etica epicurea ( già antica e proba­ bilmente sviluppatasi al di fuori del Giardino nella Stoa con Cleante : cfr. Cicerone, Definibus II 21 69 = SVF I 553 ) ha diffuso l' idea che Epicuro non avesse una dottrina delle virtù e che il piacere fosse l'unica virtù in senso stretto. Lo stoico Cleante si raffigurava questa situazione immaginando il Piacere ( Voluptas) seduto pulcherrimo vestitu et ornatu regali su un trono e attorniato da tutte le altre Virtutes relegate al rango di sue mere ancillulae; così facendo, Cleante indicava il ruolo assolutamente strumentale delle virtù nei confronti del piacere. In realtà l'Epistola a Meneceo ( 132 ) confer­ ma non solo che esiste una dottrina epicurea delle virtù, ma soprattutto che queste non sono "onto-assiologicamente" subordinate al piacere ( che pure mantiene un ruolo decisivo; cfr. Warren, 2014a) . A insegnare questo è proprio la phronesis dalla quale derivano naturalmente tutte le altre vir­ tù. La phronesis, infatti, insegna « come non vi può essere vivere piacevole [ hedeos zen] senza che esso sia saggio [phronimos] e bello [kalos] e giusto [dikaios] , né saggio bello e giusto senza che sia piacevole. Le virtù sono infatti connaturate [sympephykasi] al vivere piacevole, e questo è insepa­ rabile [achoriston] da esse » (Ep. Men. 132; trad. Arrighetti, 1973\ legger­ mente modificata; cfr. anche Rat. Sent. v) . Da queste righe risulta chiara la posizione di Epicuro : le virtù non sono subordinate al piacere, anzi, vi è un connubio strettissimo tra il piacere e le virtù cosicché non si dà piacere

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( se rettamente inteso ) che non si accompagni alle altre virtù, né le virtù possono sussistere indipendentemente dal piacere. Se la filosofia di Epicuro è eudaimonistica, essa promette l'ottenimento della felicità tramite l'eliminazione di quelle paure che generano turba­ mento e dolore ; grazie alla loro profondissima efficacia comunicativa, le prime quattro Massime Capitali sono il sunto dell'etica epicurea, una sorta di vademecum direttamente utile in tutti i casi che la vita quotidiana ci pone dinanzi: 1. gli dei non possono incutere timore perché la natura divina è intrinse­ camente beata e immortale, dunque, essendo inattiva proprio perché bea­ ta, non procura ( né elimina) dolori e turbamenti; 2. nei confronti della morte Epicuro (Sentenze Vtzticane 31, o Metrodoro, fr. 51 Koerte ) e gli epicurei ( cfr. Filodemo, De morte IV 37 27-29 Henry) erano ben coscienti di abitare una città senza mura (polis ateichistos), tut­ tavia, la morte non è da temere in quanto va considerata come assenza di sensazione (anaisthesia) ; dato che il piacere e il dolore sono esclusivamen­ te nella sensazione, e la morte è privazione di sensazione, essa non sarà assolutamente nulla (ouden: ovvero non apporterà né piacere né dolore ) per noi (pros hemas; su tale questione cfr. Warren, 2004 ) ; 3. il piacere è detrazione di ogni dolore, dunque è facilmente raggiungibi­ le e, per quanto esso persiste, non vi sarà alcun dolore; 4. il dolore non deve incutere alcun timore in quanto esso non può af­ fatto durare continuamente (synechos) : il dolore massimo dura un tempo minimo (elachistos chronos) e, nel caso, conduce rapidamente alla morte (che non è nulla per noi e dunque non ci turba) , mentre un dolore leggero che supera di poco la soglia del piacere non dura molti giorni, ma se anche durasse, trattandosi di un dolore di poca entità, sarà assolutamente sop­ portabile. Fino a questo punto l'etica di Epicuro potrebbe apparire fondamental­ mente solipsistica; ma se si legge con attenzione la chiusa dell'Epistola a Meneceo, si comprende bene che non è affatto così, e che, anzi, la dimen­ sione comunitaria ( Seneca parla a ragione non di schola ma di contuber­ nium; cfr. Ep. VI 6) è parte essenziale dell'etica. Alla fine della lettera Epi­ curo esorta Meneceo a meditare giorno e notte sui contenuti dell'epistola in se stesso (seautoi) e con chi è a lui simile (homoion). L'amicizia (philia), considerata un bene immortale rispetto alla stessa filosofia (Sentenze Vtz­ ticane 78 ) , è ciò che regge intrinsecamente la comunità filosofica che si stringe con fervore, venerazione e gratitudine intorno al maestro con cui

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discorre e conversa ( sull 'amicizia epicurea cfr. almeno Konstan, 1 9 9 6 ) ; essa nasce originariamente per utilità (chreia; cfr. anche Sentenze "fati­ cane 23) ma poi si rende stabile in virtù di quella comunanza (koinonia; cfr. Diogene Laerzio x 120 ) che lega indissolubilmente i philoi. Filodemo arriverà a dire che perfino l'amico fedele (ho bebaios philos) può arreca­ re qualche dolore, tuttavia, la sua assenza è causa di maggiore afflizione (De oeconomia XIII 15-19 Tsouna) ; la posizione filodemea si comprende meglio, se si tiene presente che Epicuro considera l'amicizia come una sorta di solida roccaforte dove trovare rifugio, conforto e sicurezza ( infat­ ti, parla di asphaleia philias o sicurezza dell'amicizia: Rat. Sent. xxvm ) . Ciò è possibile in quanto l'amicizia è strettamente connessa ali' acquisto del piacere e, dunque, della felicità: il saggio, sebbene sia autosufficiente e basti a sé stesso (cfr. Ep. Men. 130 ) , può perfino morire per l'amico (cfr. Diogene Laerzio x 121 ) , non solo perché egli solamente sa davvero prova­ re riconoscenza ( cfr. Diogene Laerzio x n8), ma anche per il fatto che è perfettamente consapevole che di fronte alle necessità è meglio dare che prendere e che il significato intrinseco della sua indipendenza (autarkeia) risiede nell'altruismo ( cfr. Sentenze "faticane 44). Se per un epicureo il fine della vita risiede nell' imperturbabilità, questa è più facilmente rag­ giungibile se si punta seriamente su rapporti di amicizia stabili e duraturi, fondati su quella koinonia che garantisce pienamente l'atmosfera di ama­ bile reciprocità che era il Giardino di Epicuro. Certamente, in questo contesto comunitario retto dalla sicurezza dell'amicizia e garantito dalla comunanza di vita filosofica, i marosi causa­ ti dall'attività politica possono apportare turbamento. Secondo Diogene Laerzio ( x n8) il saggio non si occuperà di politica (politeuesthai), anzi uno dei più celebri imperativi ascrivibili agli epicurei era "Vivi nascosta­ mente" (lathe biosas; cfr. i passi raccolti dal fr. 551 Us. ) , benché lo stesso Diogene in precedenza ( x 10) avesse riferito che Epicuro non intraprese la vita politica non perché questa apportasse turbamento, ma per eccesso di modestia. Ritenere che la scuola di Epicuro non si fosse occupata di politica è piuttosto riduttivo, non solo perché le testimonianze storiche relative alla vita del Giardino smentiscono una visione del genere, ma so­ prattutto perché l'attività politica non è un male in sé ma, a seconda delle circostanze e delle diverse modalità in cui si esercita, può diventarlo. Le Massime Capitali VI, VII e XIV si incentrano sul tema della sicurezza da­ gli uomini (ex anthropon asphaleia) che, tuttavia, non va intesa nel senso di sicurezza contro gli altri uomini ma come sicurezza proveniente dagli

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uomini. L'attività politica, se condotta rettamente, non solo non apporta alcun turbamento, ma fornisce quella sicurezza che sola può garantire la comunità filosofica e, dunque, l' imperturbabilità della vita (cfr. Roskam, 2007; anche McConnell, 2010 ). La trattazione dell'etica epicurea non può, infine, esimersi dal conside­ rare uno dei più originali apporti di Epicuro all'acceso dibattito antico su necessità e libertà, fato e autodeterminazione. Il contenuto dottrinario del xxv libro del Sulla natura e la dottrina della paregklisis o clinamen (riferita soprattutto da Lucrezio, Rer. Nat. I I 21 6-293 ) costituiscono il passaggio obbligato utile a seguire il filo delle riflessioni di Epicuro sulla questione della libertà o, per meglio dire, dell'autodeterminazione dell'azione (cfr. Masi, 2.006; 201 3 ; Spinelli, Verde, 2014, in particolare pp. 61-71 ) . La nozione di libertà in Epicuro deve essere intesa come (tendenziale) indipendenza dalla struttura atomica che costituisce la dianoia, ovvero, per dirla con Lucrezio, la mens. Si tratta, insomma, della possibilità rico­ nosciuta al "soggetto" di autodeterminarsi indipendentemente dalla rigi­ da struttura atomica che lo costituisce e che pure rimane assolutamente fondamentale (e inaggirabile). Questa nozione di autodeterminazione va considerata in opposizione al determinismo leucippo-democriteo (cfr. ad esempio 67 B 2 DK) ; non si tratta di un' interpretazione moderna, se si tiene conto del fatto che l'epicureo Diogene di Enoanda (frr. 6 I I 9-III 1 Smith) testimonia non solo che Democrito su alcuni punti dottrinari ha commesso degli errori, ma soprattutto che Democrito non dotò gli atomi di alcun movimento libero che in effetti venne scoperto solo da Epicuro con il clinamen (fr. 54 Smith). È noto che la dottrina del clinamen non compare negli scritti superstiti di Epicuro, tuttavia, ciò non significa che Epicuro non ne sia l' ideatore. Si può escludere che si tratti di una "invenzione" di epicurei seriori per alme­ no due motivi, ovvero, in ordine di cogenza: - Diogene di Enoanda attribuisce chiaramente il clinamen a Epicuro ; - gli epicurei, teorizzando il clinamen, avrebbero introdotto una dottrina molto, anzi eccessivamente innovativa rispetto all'originario insegnamen­ to del maestro, il che sembra piuttosto peregrino. È molto probabile che Epicuro abbia introdotto il clinamen in prima istanza in ambito genuinamente fisico come movimento non predetermi­ nato (cfr. i passi di Aezio raccolti dal fr. 280 Us.). Inoltre, è significativo che fra le dottrine epicuree riferite da Diogene Laerzio nel x libro non compaia quella del clinamen; Diogene riporta dottrine e testi epicurei

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piuttosto antichi (la stessa Epistola a Erodoto è uno scritto verosimilmente giovanile, forse addirittura lampsaceno, steso, quindi, prima dell'arrivo del filosofo ad Atene intorno al 306 a.C.): ciò, pertanto, potrebbe giustificare l'assenza di questa teoria. In ogni caso, nelle parti superstiti del xxv libro del Sulla natura non c 'è traccia del clinamen; non può essere escluso che in questo libro o nel resto dell'opera Epicuro trattasse della declinazione ato­ mica, tuttavia, le sezioni leggibili del xxv libro presentano una particolare nozione di libertà intesa come "autodeterminazione" o, meglio, come "in­ dipendenza dà', senza cenno alcuno al clinamen. Se Epicuro ha formulato una nozione di libertà che fa a meno della dottrina del clinamen, è proba­ bile che a quell'altezza cronologica non avesse approfondito del tutto la questione e si fosse (erroneamente, forse) convinto che, al fine di giustifi­ care l' indipendenza della mens dalla materia atomica, non fosse necessario inserire nello stesso moto atomico (e, quindi, nell'ordine naturale) uno scarto direttamente nella materia. In un secondo momento, consideran­ do che solo rendendo indeterminata la materia avrebbe potuto davvero giustificare l' indipendenza di un aggregato atomico (come la mente) dalla stessa materia, Epicuro avrebbe teorizzato la dottrina del clinamen. Nelle sezioni superstiti del xxv libro il tema centrale sembra essere lo studio dei cosiddetti "prodotti", ossia i diversi stati (fisici) della dia­ noia (apogennethen, apogennomenon, apogegennemenon) durante il suo sviluppo. Lo scopo a cui sembra mirare Epicuro è quello di legittimare la causalità intrinseca e, per così dire, autonoma dello sviluppo di tali pro­ dotti, al fine di giustificare l' indipendenza della dianoia dalla propria co­ stituzione atomica. In questo senso, Epicuro critica, da un lato, l' idea che ogni attività sviluppata dalla mente sia l'esito della costituzione o systasis atomica, dall'altro, il fatto che lo sviluppo della mente dipenda dalla sua relazione (meccanica) con la natura e l'ambiente esterno. Si comprende, pertanto, che l'argomentazione epicurea a favore dell'autodeterminazio- ne della mente si fonda sull'attribuzione di un potere causale alla par­ ticolare systasis atomica della dianoia. Giustificata tale capacità di auto­ determinazione, Epicuro può lecitamente legittimare lo sviluppo morale del soggetto in vista del pieno raggiungimento dell ' imperturbabilità. Se pure si esclude che nel xxv libro vi sia traccia del clinamen, non si può ritenere che la dottrina della declinazione atomica non abbia relazione con la trattazione del xxv libro. È, infatti, probabile che l' introduzione della declinazione atomica risponda esattamente a una difficoltà che le argomentazioni sollevate nel xxv libro non avevano risolto. Pur ammet-

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tendo l'autonomo potere causale della mente, la riduzione della dianoia alla sua struttura atomica rimane un ostacolo non pienamente superabile. L' introduzione della declinazione atomica, così come viene descritta da Lucrezio, consente di giustificare pienamente lautodeterminazione della mente pur rimanendo all' interno di un sistema completamente materia­ listico e atomistico. La trattazione lucreziana del clinamen non è facile ; in ogni caso, si può dire che le conseguenze a cui la declinazione atomica conduce sono fonda­ mentalmente due. La prima ( fisica ) concerne l'aggregazione degli atomi, la seconda ( fisico-etica) riguarda la giustificazione della libera voluntas ( ri­ conosciuta al soggetto ) compresa, però, in termini genuinamente "cineti­ ci". Sulla prima conseguenza, Lucrezio sostiene che ritenere che i corpi più pesanti muovendosi in linea retta nel vuoto cadano su quelli più leggeri, creando così degli urti, è del tutto fuorviante. Nel vuoto i corpi, pesanti o leggeri che siano, si muovono alla medesima velocità; la declinazione serve, dunque, a garantire gli urti fra i corpi e, in ultima analisi, la possibi­ lità stessa della loro aggregazione. Si tenga presente, inoltre, che Lucrezio descrive il clinamen nel vuoto, ossia in una sorta di "condizione ideale" ma teoricamente utile ; il poeta, infatti, è perfettamente consapevole che nei mezzi (come l'aria e l'acqua, ad esempio ) , i corpi più pesanti possono facilmente cadere sui più leggeri, senza alcuna necessità della declinazione. Nel vuoto, tuttavia, questa situazione non si dà in alcun caso, per questo è necessario asserire che i corpi declinino non solo in un tempo e in luoghi indeterminati ( Lucrezio, Rer. Nat. II 218-219 ), ma anche non più del mini­ mo possibile ( 1 1 245). Si tratta di precisazioni decisive : 1. la declinazione dell'atomo avviene in un momento e in luoghi incerti'3, ossia non determinati/necessitati da qualcosa di causalmente precedente; 2. l'atomo declina solo di un minimo ; se così non fosse, si darebbero ( sem­ pre per il corpo atomico ) moti obliqui che la realtà stessa esclude (res vera rejUtet). Il riferimento alla declinazione minima è riportato dalla maggior parte delle fonti in merito ; il carattere minimo riguarda, a quanto pare, due punti, ovvero : a) l'ampiezza dell'angolo di declinazione (ovviamente se l'a­ tomo che declina lo fa di un minimo, significa che forma necessariamente un angolo la cui ampiezza è altrettanto minima) ; b) la costituzione "granu­ lare" dello spazio, cioè la sua costituzione di minimi di natura spaziale. Per ciò che riguarda la seconda conseguenza, ovvero quella fisico-etica, al fine di giustificare la libera voluntas, Lucrezio adduce due esempi non di immediata lettura. Il primo si riferisce alla partenza dei cavalli dai carceres

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in una gara circense, il secondo riguarda la sensazione di opposizione in pectore nostro (dunque nella sede della mens) contro una forza esterna che ci costringe verso una determinata cosa. Sono ambedue esempi, per così dire, "cinetici": nel primo caso, ciò è evidente (la partenza dei cavalli), nel secondo, l'opposizione che sentiamo nel nostro petto a qualcosa che ci costringe è comunque un movimento. Nell'esempio del cavallo che inizia la corsa, Lucrezio intende sottolineare come, nel momento in cui i cancelli dei carceres si aprono, il cavallo, pur bramando di correre, non parte subi­ to, così come la mens desidererebbe, in quanto l' inizio del movimento si forma a partire dal cuore e dalla volontà dell'animo e solo successivamente si propaga nel corpo e negli arti. Questo necessario "tempo di propaga­ zione" spiega il ritardo della partenza dei cavalli e la distinzione (ancora cronologica) tra l' immediatezza del desiderio della mens e l'avvio diretto del movimento da parte della voluntas. Qual è la relazione tra questi due esempi e la dottrina del clinamen ? In entrambi gli esempi la protagonista assoluta è la mens, sebbene anche la voluntas ricopra un ruolo significativo. Ciò è evidente, in particolare, nel caso dei cavalli nei carceres: la voluntas viene, per così dire, attivata dal desiderio della mens, per questo la voluntas è in grado di attivare il corpo e gli arti e, dunque, di procedere nella corsa. In sostanza, la mens ha un ruolo causale decisivo e il clinamen (che avvie­ ne a livello degli atomi della mens) serve a giustificare esattamente questo potere causale della mens. La distinzione tra la trattazione lucreziana e il xxv libro risulta così piuttosto chiara: mentre nel xxv libro, almeno nelle sezioni leggibili e superstiti, sembra che Epicuro non riuscisse a giustifica­ re intrinsecamente perché la dianoia possedesse la facoltà di autodetermi­ narsi, nella Natura delle cose Lucrezio descrive il clinamen proprio come movimento indeterminato che, da una prospettiva genuinamente fisica e intrinsecamente atomistica, permette alla mens di essere causa della libera voluntas. Il clinamen, pertanto, avvenendo tra gli atomi della mens, per­ mette ai soggetti di essere agenti effettivi e non precedentemente deter­ minati.

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La scuola di Epicuro di Francesco Verde

L'epicureismo da Ermarco a Patrone

Diogene Laerzio ( x 9 ) , che vive e opera nel III secolo d.C., scrive che la scuola di Epicuro « mentre quasi tutte le altre sono estinte, rimane sempre e produce innumerevoli scolarchi, uno dopo l'altro, dal numero dei disce­ poli » ( trad. Arrighetti, 1 9 73 ' ) 1; seguendo !' "indicazione cronologica" di Diogene, la storia della scuola di Epicuro deve essere considerata, a mio parere, sulla base della solida e fondamentale fedeltà nei riguardi dell'o­ riginaria dottrina del maestro, senza però commettere il grave errore di ritenere che non vi sia stato alcuno sviluppo dottrinario nell'ambito della lunga storia del Giardino. Gli epicurei seriori, infatti, pur non stravolgen­ do il cuore della dottrina originaria di Epicuro, apportarono certamente novità significative tramite approfondimenti e chiarificazioni di questa o quella dottrina, a tal punto che, non senza i dovuti caveat metodologici, perfino per l'epicureismo possono essere utilizzate le categorie di "dissi­ denza" e "ortodossia" ( sul delicato problema della dissidenza epicurea cfr. Verde, 201oa) . È assai probabile che Metrodoro di Lampsaco• avrebbe avuto acces­ so allo scolarcato dopo Epicuro se non fosse morto prematuramente ( 278/277 a.C. ) . Diogene Laerzio ( x 24 ) tramanda alcuni titoli di opere metrodoree che confermano il significativo contributo dottrinario for­ nito dal filosofo soprattutto sulla retorica ( in probabile polemica con il democriteo Nausifane ) , sul linguaggio e sulla ricchezza. A Epicuro ( che muore nel 271/270 a.C. ) successe Ermarco di Agemortol, nativo di Mi­ tilene, di cui Diogene ( x 24 ) conserva alcuni titoli di libri che definisce « bellissimi » (kallista); si interessò di retorica, di teologia e di diritto e della sua genesi\ e scrisse delle opere contro Empedocle, Platone e Ari­ stotele ( sulla polemica filosofica dei primi epicurei, in particolare contro la Stoa, cfr. Kechagia, 2010 ) e sulle scienze (mathemata). Polieno di Lam-

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STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA

psacol, uno degli andres o kathegemones del Giardino, non divenne mai scolarca in quanto morì prima di Epicuro (2.78/277 a.C.),grosso modo con­ temporaneamente alla scomparsa di Metrodoro. Epicuro era molto legato a Polieno, che si interessò principalmente di matematica (più nello spe­ cifico di geometria) nelle Aporie, uno scritto che in seguito venne difeso da probabili attacchi avversari dall'epicureo Demetrio Lacone nel Sulle

"Aporie" di Polieno. Tra i discepoli di Epicuro che non ebbero accesso allo scolarcato è utile menzionare Idomeneo di Lampsaco (noto per la sua attività politica; cfr. Angeli, 1 9 8 1 ) , Colate di Lampsaco e Carneisco. Colate, oltre a due opere rispettivamente contro il Liside e l 'Eutidemo di Platone, è celebre per aver composto uno scritto intitolato Sulfatto che non si possa affatto vivere se­ condo le dottrine degli altrifilosofi dove passava polemicamente in rassegna le opinioni di altri filosofi; è possibile ricostruire il contenuto di questo trattato grazie al Contro Colote di Plutarco (cfr. Kechagia, 2.011, in parti­ colare parte I; Corti, 2.014). Di Carneisco il PHerc. 102.7 conserva fram­ mentariamente una sezione del II libro del Filista, un'opera sull'amicizia e sul ricordo "terapeutico" degli amici defunti che conteneva alcune critiche sul medesimo tema rivolte al peripatetico Prassifane (cfr. Capasso, 1988). A Ermarco successe nello scolarcato del Giardino Polistrato, autore principalmente del Sul disprezzo irrazionale delle opinionipopolari (PHerc. 336/1150; cfr. Indelli, 1978), la cui opera fu sostanzialmente diretta con­ tro lo scetticismo e anche il cinismo (ma forse non va escluso nemmeno lo stoicismo). Dopo Polistrato lo scolarcato passò a Dionisio di Lamptre e a Basilide di Tiro, successivamente (forse) a Tespi e ad Apollodoro (a cui Diogene - x 2.5 - attribuisce la composizione di ben 400 libri) detto "tiranno del Giardino" che fu scolarca fino a circa il 100 a.C. In questo arco temporale va menzionata l'attività di altri epicurei (che operarono anche lontano da Atene, in centri dell'Asia Minore, come in Siria, oppure a Rodi) quali Filonide di Laodicea a mare (la cui bio-bibliografia è rico­ struibile grazie al PHerc. 1044)6 - un importante epicureo che si interessò di geometria e scrisse esegesi a opere di Epicuro (sul libro VIII del Sulla natura) e di altri epicurei (Anemone) -, Protarco di Bargilia, Nicasicrate e Timasagora (cfr. Verde, 2.010a). Alla morte di Apollodoro divenne scolarca I' acutissimus (Cicerone, Tusc. disp. III 38) Zenone di Sidone (cfr. Angeli, Colaizzo, 1979), coryphaeus Epicureorum (Cicerone, De nat. deor. I 2.1 59 = 6 Angeli-Colaizzo), che fu ascoltato ad Atene da Cicerone (cfr. Cicerone, Ac. I 12. 46 = 7 Angeli-Co-

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!aizzo) e rimase attivo fino alla morte avvenuta intorno al 75 a.C.; lo scolar­ cato di Zenone segna un periodo molto delicato per la vita del Giardino sia dal punto di vista storico sia da quello politico. Sono gli anni (88/86 a.C.) dell'assedio di Atene da parte di Silla durante la Prima guerra mitridatica e della tirannica difesa ami-romana della città da parte di Aristione (forse un epicureo, almeno secondo Appiano, Mithr. XXVIII 109 ), assedio che rap­ presenta la climax di quel processo di decentralizzazione della filosofia da Atene iniziato già negli anni precedenti che proprio la vicenda di Filodemo esemplifica bene (cfr. Sedley, 2003a). Zenone ebbe vasti interessi dalla logica (di cui siamo a conoscenza grazie al Sui segni filodemeo) alla geometria (lo stoico Posidonio scrisse un'opera proprio contro la posizione di Zenone cir­ ca i principi della geometria: cfr. Proclo, In primum Euclidis Elementorum librum 199 3-200 6 Friedlein = F 46 Edelstein-Kidd; 214 15-218 11 Friedlein = F 47 Edelstein-Kidd = 27 Angeli-Colaizzo), dall'etica alla teologia. Il già citato Protarco di Bargilia fu il maestro di un importante epicu­ reo, grosso modo coetaneo di Zenone, che, però, non fu mai scolarca e che fu attivo soprattutto a Mileto : Demetrio Lacone (cfr. Dorandi, 1994b). La biblioteca ercolanese di Filodemo conserva alcune opere di Demetrio che confermano la vastità dei suoi interessi dottrinari che andavano dalla teologia7 alla geometria, dall'etica alla cosmologia e alla poetica. Un am­ bito in cui Demetrio si distinse particolarmente fu quella che potremmo definire "filologia filosofica" (ma è probabile che a essa contribuì anche Zenone), ossia un'attenta e scrupolosa attività filologica volta a emendare i testi epicurei (che evidentemente nel frattempo erano incorsi in errori e corruttele a volte neppure del tutto casuali) e a discernere le opere originali da quelle spurie8• A Zenone successe nello scolarcato (ma in tarda età) Fe­ dro (su cui cfr. Dorandi, 201 1) che, al fine di evitare la tirannia di Aristio­ ne, trascorse a Roma un periodo dove ebbe modo di entrare in contatto con Cicerone, che di Fedro conosce almeno uno scritto (solitamente iden­ tificato con l'opera Sugli dei ma non v 'è certezza a riguardo; cfr. Summers, 1997 ), visto che ne richiede una copia all'amico Attico : Cicerone, AdAtt. XIII 39 2). Dopo Fedro lo scolarcato passò a Patrone che fu attivo almeno fino alla metà del I secolo a.C.; nulla si sa di Patrone dal punto di vista dot­ trinario. Da una lettera scritta intorno al 51 a.C. (Fam. XIII 1) si apprende che Cicerone, caldamente esortato da Patrone, intervenne perché la casa ateniese di Epicuro nel demo di Melite non fosse demolita, raccomandan­ dosi per questo al nobile Caio Memmio, lo stesso a cui Lucrezio dedica il suo poema.

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L'epicureismo campano : Filodemo di Gadara e Sirone

È arduo comprendere il motivo (o i motivi) per cui Filodemo9, nato a Ga­ dara (nella Decapoli) intorno al uo a.C., dopo aver frequentato la scuola di Zenone, volle trasferirsi in Italia all' incirca tra gli anni So e 70 del I secolo a.C.; si potrebbe perfino ipotizzare un dissenso (forse non di natura dottrinaria) con Fedro che, a differenza di Filodemo, anche se in tarda età, divenne scolarca del Giardino (cfr. Dorandi, 1997, p. 47 ) . In Italia Filo­ demo si reca prima a Roma e poi a Ercolano in Campania dove risiederà presso la meravigliosa e ricchissima villa maritima di Lucio Calpurnio Pi­ sane Cesonino (la cosiddetta "Villa dei Papiri") e, a immagine del Kepos ateniese, aprirà un vero e proprio centro di studio epicureo, grazie alla fornita biblioteca di testi, forse almeno in parte appartenenti al maestro Zenone (ed eventualmente a Demetrio Lacone), molto verosimilmente provenienti dalla scuola madre di Atene e che con ogni probabilità Filo­ demo aveva portato con sé a Ercolano (si tratta verosimilmente del fondo più antico della biblioteca ercolanese). Questi testi epicurei (e di epicu­ rei), oltre alla cospicua mole degli scritti di Filodemo stesso e a un nucleo postfilodemeo di papiri (fine I sec. a.C.-inizio I sec. d.C.), furono rinvenuti carbonizzati - anche la villa, infatti, fu interessata dall'eruzione vesuviana del 79 d.C., quando Filodemo era già morto da tempo - molti secoli dopo, tra il 19 ottobre 1752 e il 25 agosto 1754 (sulla datazione e la classificazione dei rotoli ercolanesi, cfr. Cavallo, 1983 ) . Grazie a questa scoperta Filodemo, già noto come epigrammista (cfr. Sider, 1997 ), è stato riconosciuto come una delle personalità più influenti nella diffusione dell'epicureismo in Italia, e i Papiri Ercolanesi sono diven­ tati una fonte essenziale per la ricostruzione non solo della dottrina epicu­ rea, ma anche, più in generale, della stessa filosofia antica (cfr. per un pri­ mo orientamento Capasso, 1991 ) . Le opere di Filodemo riguardano uno spettro di campi e di interessi davvero ampio, sebbene non vada tralasciato che in più ambiti il filosofo di Gadara può essere considerato il portavoce del maestro Zenone (il che non intacca completamente la sua originalità teorica), il cui epicureismo Filodemo giudicava perfettamente ortodosso. Gli scritti filodemei testimoniano i suoi vasti e diversificati interessi, segno anche dell'adeguamento della dottrina epicurea alle "esigenze" della so­ cietà romana tardo repubblicana (cfr. Arrighetti, 2006, parte I I , cap. m ) ; si occupò di "storia della filosofià'm, di logica", del tema della morte'• e di quello del cosiddetto "franco parlare"13, di musica'+, di retorica'5, di eti-

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ca16, di teologia17 e religione (cfr. Obbink, 1996), di poetica18 e, in qualche modo, perfino di "politica"'9 (l'elenco degli argomenti trattati potrebbe continuare). Tra le sue opere non si registra, invece, un trattato interamen­ te dedicato alla fisica (come, invece, sarà il poema di Lucrezio ; su questo problema, cfr. Sedley, 2010 ). L'epicureismo campano non si esaurisce con Filodemo ; a Napoli, spe­ cificamente sulla collina di Posillipo dove sorgeva la sua villula, teneva scuola Sirone (più anziano di Filodemo), noto soprattutto per essere stato il maestro di Virgilio. È assai probabile che Filodemo fosse a contatto con Sirone'0 e che proprio a Napoli avesse avuto la possibilità di conoscere (e magari apprezzare), oltre a Virgilio, alcuni poeti augustei quali Quintilio Vario, Lucio Vario Rufo e Plozio Tucca (cfr. Gigante, 199oc).

L'epicureismo a Roma : Tito Lucrezio Caro

La diffusione (fondamentalmente propagandistica) dell'epicureismo a Romau avviene tramite alcune personalità di cui non si sa nulla, fuorché il nome e il tagliente giudizio ciceroniano (su Cicerone e l'epicureismo, cfr. Maso, 2008): si tratta degli epicurei greci Alcio e Filisco che probabilmente furono gli iniziatori della divulgazione della dottrina epicurea nell' Urbs, fino a C. Amafinio, Catio, Rabirio e L. Saufeio (cfr. Gigante, 1983'; Ben­ ferhat, 2005, pp. 58-73). È indubbio, tuttavia, che Lucrezio (94 a.C. ?-50 a.C.) e il suo poema in tale contesto si distinsero in modo netto (cfr. in me­ rito Eckerman, 2013), del resto il giudizio lusinghiero di Cicerone ne è una prova importante». La natura delle cose è un'opera poetica didascalica in sei libri probabilmente incompiuta'3; il poema espone la dottrina di Epicuro e sarebbe stato composto da Lucrezio per interualla insaniae, secondo la te­ stimonianza di Girolamo nelle sue aggiunte al Chronicon di Eusebio (p. 149 Helm ). Il riconoscimento dell'eleganza e del valore della poesia lucreziana è già confermato da Cicerone (Qfr. II 9 3) e da Cornelio Nepote (Att. 12 4) ; ancora da Girolamo sappiamo che Cicerone emendauit i libri del poema, ossia mise insieme i volumina dell'opera per poi diffondere e moltiplicare le copie dello scritto. È possibile che una copia del poema fosse presente anche nella biblioteca di Filodemo di Gadara nella Villa dei Papiri di Erco­ lano (Kleve), ma la questione è tuttora dibattuta (cfr. Capasso, 2014). L'opera è dedicata a un Memmio, forse Caio Memmio, propreto­ re in Bitinia nel 57 a.C. oppure Caio Memmio tribuno nel 54 a.C. (cfr.

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Hutchinson, 2001, p. 159; Schiesaro, 2 0 0 7, p. 54). Secondo Sedley (1998), Lucrezio deve essere considerato un epicureo "fondamentalista'' in quanto non si sarebbe interessato degli sviluppi dottrinari dell'epicureismo ma si sarebbe limitato ali' utilizzazione delle opere di Epicuro, in prima istanza lo scritto Sulla natura; questa ipotesi, sebbene sia suffragata da convincenti argomentazioni, non sembra valere però per ogni dottrina toccata da Lu­ crezio nel suo poema. Come modello poetico e letterario, invece, Lucrezio avrebbe usato l'opera di Empedocle'4• Lucrezio, pertanto, avrebbe ignora­ to non solo l'epicureismo a lui contemporaneo (Filodemo), ma anche le polemiche che gli epicurei mossero alle scuole avversarie, in primo luogo quella stoica. Il poema segue una struttura ordinata e precisa; i sei libri sono tematicamente organizzati in coppie : i primi due si occupano dei principi del tutto, gli atomi e il vuoto ; la seconda coppia tratta di questioni relative all'anima; la terza coppia riguarda il cosmo e i fenomeni naturali. Più nel dettaglio, il I libro si apre con l' inno a Venere ( cfr. Verde, in cor­ so di stampa) e con il primo dei quattro elogi di Epicuro, celebrato come eroe vittorioso sul potere della religio; l'argomento principale è l'esistenza degli atomi (i primordia rerum) e del vuoto, i principi della natura in virtù dei quali si costituisce ogni cosa. Di seguito si assiste a una critica della dottrina della materia di alcuni filosofi presocratici, Eraclito, Empedocle e Anassagora. Il libro si chiude con l'enunciazione dell' infinità del tutto e la conseguente negazione dell'esistenza di un centro dell'universo. Il I I libro si occupa degli atomi e della loro aggregazione, dunque del loro mo­ vimento e della loro velocità attraverso il vuoto ; il libro contiene anche la descrizione della dottrina della deviazione atomica (clinamen ). In conclu­ sione, il poeta torna sull' infinità dell'universo : i mondi sono infiniti e non sono governati dagli dei ma, in quanto aggregati atomici, sono destinati a disgregarsi e dunque a perire. Dopo il secondo elogio di Epicuro, il I I I libro è dedicato alla dottrina dell'anima e alla distinzione delle funzioni dell'animus (la parte razionale e intellettiva) e dell'anima (il principio vi­ tale, la parte responsabile della sensazione); Lucrezio procede nell'analisi della natura atomica e materiale dell'anima e del falso (e insensato) timore della morte. Il IV libro si occupa del tema della percezione tramite i simu­ lacra, sottilissime "pellicole atomiche" che si formano e si distaccano dalla superficie dei corpi aggregati con rapidità estrema. La dottrina dei simula­ cra spiega una considerevole quantità di fenomeni, dai cinque sensi ai so­ gni e alle illusioni; la parte conclusiva del libro è dedicata all'esame di una sorta di "fenomenologia" dell' impulso sessuale e dell 'amore, altrettanto

LA S C U O LA DI E P I C URO

III

giustificabili grazie ai simulacra. Il v libro si apre con un elogio di Epicuro e tratta del mondo, a cui, come ogni aggregato, non appartiene 1' eternità; gli dei non si identificano con il mondo e non sono responsabili della sua creazione. Dopo una descrizione di alcuni fenomeni astronomici, il libro si conclude con la storia e lo sviluppo del genere umano. Dopo un altro elogio di Epicuro, il VI libro si occupa della spiegazione dei fenomeni me­ teorologici; vengono poi affrontate le cause ( sempre atomiche e materiali ) delle epidemie e della morte. Il libro si conclude con la celebre descrizione della peste di Atene del 430 a.C., già narrata da Tucidide ( I I 47 ss. ) .

L'epicureismo di età imperiale : Diogeniano, Diogene di Enoanda e Plotina

Un dato che non può essere trascurato nell'esame dell'epicureismo di età imperiale è 1' istituzione ad Atene da parte di Marco Aurelio intorno al 176 d.C. di cattedre di filosofia ( a spese dello Stato ) '5 oltre a un insegnamento di retorica; tra queste cattedre, una era di filosofia epicurea (cfr. Filostrato, Vitae Sophistarum 566; e per ulteriori rinvii Todd, 1976, p. 6, nota 29 ) . Tra gli epicurei attivi nel II secolo d.C. va menzionato Diogeniano, che è noto soprattutto per aver composto uno scritto polemico in funzione ami-stoica contro la dottrina del fato (heimarmene) di Crisippo ; alcuni frammenti di questo trattato sono riportati da autori cristiani ( in prima istanza Eusebio di Cesarea che, tuttavia, considera Diogeniano un peripa­ tetico ; cfr. Isnardi Parente, 1990 ) . Diogeniano oppone alla posizione cri­ sippea la libertà di scelta, ossia la capacità riconosciuta al soggetto morale di essere autonomamente causa delle proprie scelte e delle proprie azioni; si tratta evidentemente di tematiche genuinamente epicuree che trovano diretto riscontro nel contenuto del xxv libro del Sulla natura. Certamente la personalità epicurea di maggiore rilievo in questo perio­ do storico è Diogene di Enoanda'6, appartenente con ogni probabilità a una delle famiglie più ricche e in vista di questa città della Licia, a cui è at­ tribuibile una monumentale iscrizione sorretta da un portico. La datazione di tale iscrizione dovrebbe collocarsi cronologicamente negli anni intorno al 120 d.C. Il ritrovamento dell' iscrizione ( il primo frammento litico venne alla luce nel dicembre 1884) è un'ulteriore conferma della vitalità dell'epi­ cureismo nel II secolo d.C. e la sua diffusione in luoghi e territori lonta­ ni dalla scuola madre di Atene. L' iscrizione contiene grosso modo e molto

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schematicamente una sezione di fisica (frr. 1-27) , una di etica (frr. 28-61), delle lettere ascrivibili a Diogene (indirizzate ad Antipatro e a Dionisio : frr. 62-75; ai familiari e a gli amici: frr. I I7-II8) e forse a Epicuro (è il caso della celebre Lettera alla madre: frr. 125-126)17, delle Massime (frr. 97-II6) e, infine, un trattato sulla vecchiaia (frr. 137-179 ). Il principale motivo per cui Diogene fece erigere una tale iscrizione è fondamentalmente "filantropico" e, dunque, legato alla chiara volontà di far conoscere il "verbo salvifico" di Epicuro a chi, ignorandolo, era preso da timori e turbamenti. Una singolare vicenda, infine, che documenta la continuità dell'epicu­ reismo nel II secolo d.C. concerne l' interessamento di Plotina in alcune faccende interne della scuola epicurea di Atene (cfr. almeno Dorandi, 2000 ) . Moglie dell' imperatore Traiano ( 53-II7 d.C.), Plotina si interessò attivamente delle vicende degli epicurei di Atene, dimostrando, inoltre, di possedere una raffinata conoscenza del lessico filosofico epicureo ; è con­ servata una copia epigrafica in lingua latina relativa alla corrispondenza fra Plotina e Adriano ( 76-138 d.C.) databile al 121 d.C. Il contenuto riguarda la nomina a scolarca della scuola epicurea di Atene di Popilio Teotimo che, tuttavia, non possedeva la cittadinanza romana. Plotina chiede ad Adriano che agli epicurei di Atene sia concesso il diritto di designare auto­ nomamente tramite testamento scritto in greco lo scolarca (sia egli greco o romano). I dati più interessanti che possono essere dedotti da questa vicenda sono almeno due. In primo luogo è significativo che addirittura la moglie di un imperatore si interessasse di questioni tanto particolari e proprie di una scuola filosofica come la "successione diadochistica" degli scolarchi. Inoltre (e si tratta a mio avviso dell'aspetto più notevole), la vi­ cenda in questione testimonia chiaramente se non che la scuola a cui Plo­ tina si rivolge fosse esattamente il Giardino fondato da Epicuro (della cui ininterrotta continuità si ha notizia fino al I sec. a.C.) perlomeno che l' in­ segnamento della filosofia epicurea fosse ancora attivo nel I I secolo d.C.: ciò conferma quanto Diogene Laerzio ( x 9) scriveva nella prima metà del III secolo d.C. sulla longevità della scuola di Epicuro rispetto agli altri in­ dirizzi filosofici dell'antichità.

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Lo stoicismo ellenistico fino al I secolo a.C. d i Thomas Bénatoui'/*

Il sistema stoico e i suoi frammenti

Le sole opere stoiche dell'antichità a noi pervenute sono quelle di stoici romani o imperiali quali Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. È a partire da costoro che è stata elaborata e si è diffusa la comune immagine dello stoi­ cismo come morale austera, incentrata sul coraggio di fronte alle avversità, ma anche l' interpretazione filosofica dello stoicismo come un ripiega­ mento della coscienza morale su sé stessa, il cui problema centrale sarebbe quello del rapporto tra destino e libertà umana, che Hegel ha descritto come una libertà astratta, puramente formale o negativa (Fenomenologia dello spirito IV B ) . Tali rappresentazioni dello stoicismo sono quantomeno riduttive se riferite allo stoicismo imperiale, soprattutto se vi si includono i testi di autori poco noti come Cleomede, Lucio Anneo Cornuto o !erode, ma divengono caricaturali se le si applica ai primi stoici, che elaboraro­ no e svilupparono la loro dottrina in epoca ellenistica, dal I I I al I secolo a.C.: Zenone di Cizio (334-261), che fondò la scuola ad Atene nel 300, e i suoi più noti successori, Cleante di Asso (331-230 ) , Crisippo di Soli (280204), che diresse la scuola a partire dal 230 e ne sistematizzò la dottrina, Diogene di Babilonia, Antipatro di Tarso, Panezio di Rodi (180-109 ca. ) e Posidonio di Apamea (135-50 ), che aprì una scuola a Rodi. Per tutti questi autori, disponiamo soltanto di brevi citazioni o di compendi delle loro idee ad opera di autori più tardi, perlopiù non stoici, se non addirittu­ ra ami-stoici ( in particolare Cicerone, Plutarco, Galeno, Sesto Empirico, Diogene Laerzio e Stobeo ) '. •

Un ringraziamento particolare a Francesca Pentassuglio per la traduzione italiana del

capitolo.

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Leggendo l' insieme di queste testimonianze e confrontandole con i loro avversari, lo stoicismo appare come la prima forma di razionalismo assoluto nella storia della filosofia occidentale, vale a dire come la prima dottrina fondata sull' idea che l insieme di ciò che esiste è conforme a ra­ gione (nonché da essa prodotto), e che nulla esiste al di là del nostro mon­ do interamente razionale. Si ritiene spesso che tale idea, legata ai nomi di Spinoza o di Hegel, possa dar luogo soltanto a una filosofia astratta e dogmatica, che reprime l'esperienza sotto i suoi presupposti logici o meta­ fisici. Si può temere che lo stesso accada con lo stoicismo, nel momento in cui si scopre che è la prima filosofia a rivendicare, ben prima di Leibniz o di Hegel, lo statuto di "sistema" (systema), ovvero un'organizzazione perfetta e un' intima solidarietà tra tutte le sue parti. Secondo gli stoici, tuttavia, tale sistematicità non fa che riprodurre, esprimere e mettere in luce quella della ragione umana, definita come un « sistema di rappresentazioni di un certo tipo » (Epitteto, Diatr. I 20 s), e quella del mondo, considerato come « un sistema di cielo e di terra e delle loro intrinseche nature, ovvero è un sistema di dei e uomini e di tutto ciò che è creato per opera loro » (Posidonio, citato da Diogene Laerzio VII 1 3 8 ; trad. Gigante, 1976'; cfr. Goldschmidt, 1979, in particolare pp. 60-4 ) . Conformemente alla sua teoria empirista della conoscenza, lo stoicismo fa infatti leva su alcuni fatti, poco numerosi ma rilevanti, che paiono in­ contestabili e di cui pretende semplicemente di esibire le condizioni ne­ cessarie e sufficienti per spiegarli in modo rigoroso e trarne tutte le conse­ guenze, in particolare morali. Questi fatti sono principalmente l'ordine e la bellezza del mondo, ladattamento spontaneo degli esseri viventi al loro ambiente (e viceversa), l'esigenza di coerenza propria della ragione umana, così come la socievolezza umana e le sue istituzioni. Tali fatti rientrano tutti, secondo gli stoici, nell'ambito della natura, su cui dunque la loro filosofia si presenta interamente fondata: la fisica spiega e descrive l'organizzazione del mondo, la logica quella della ragione e del discorso, che appartengono alla natura umana, mentre l'etica definisce e difende una "vita in accordo con la natura''. In virtù dell' impianto sistema­ tico dello stoicismo e degli oggetti o concetti che le sue parti condividono (in particolare i concetti di natura e ragione), esse sono, senza dubbio, tra loro organicamente legate : «paragonano la filosofia a un essere vivente, facendo corrispondere alle ossa e ai nervi la logica, alle parti carnose l 'e­ tica, all'anima la fisica » (Diogene Laerzio VII 3 9 ; trad. lsnardi Parente, 1 98 9 ) . '

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Corpi e incorporei

Gli stoici non svilupparono un'ontologia autonoma e preliminare alla fi­ sica, contrariamente a Platone o Aristotele. Essi rifiutarono infatti di sta­ bilire una categorizzazione del reale fondata unicamente su un'analisi del discorso intorno ad esso, e negarono soprattutto l'esistenza di qualsiasi cosa che fosse al di là della natura. A loro avviso, infatti, solo un corpo particolare può causare qualcosa o subire leffetto di qualcosa, in quanto non si può agire o patire se non via un contatto. Pertanto, tutto ciò che è o esiste è corporeo3, vale a dire esteso nelle tre dimensioni e dotato di resistenza. Ciò non implica che lanima non esista ma, al contrario, che lanima sia un corpo ( distinto e diverso dal corpo organico su cui agisce e di cui essa subisce leffetto ) . È possibile distinguere nei corpi quattro aspetti: 1. la sostanza (ousia) o sostrato (hypokeimenon) da cui essi sono costituiti; 2. la qualità (poion) che agisce su questo sostrato e distingue sia i diversi tipi di corpi tra loro ( qualità comuni, come ad esempio la durezza, il colore ecc. ) , sia ogni corpo singolare da altri corpi simili ( qualità propria) ; 3. il modo di essere o disposizione (pos echon) che un sostrato dotato di qualità può acquisire, ad esempio la virtù o il vizio per lanima; 4. il modo di essere relativo (pros ti pos echon ) , che è una disposizione de­ finita dal rapporto con qualcos'altro, ad esempio il fatto di essere il padre di qualcuno o di essere la parte di un tutto. Contrariamente a quanto fa Aristotele nella Meta.fisica, gli stoici iden­ tificano dunque la sostanza con la materia e relativizzano la distinzione tra essenza e accidenti, in quanto sono interessati alle modalità che deter­ minano la materia fino a ottenere un individuo particolare, definito non soltanto dalla sua specie, ma soprattutto dalle sue qualità singolari, dalle sue disposizioni e dalle relazioni con il suo ambiente ( cfr. Alesse, 2008). Pure, vi sono altre cose oltre ai corpi particolari e alle loro determi­ nazioni, e ciò porta gli stoici a introdurre la nozione di qualcosa (ti), che è più estesa di quella di ente (to on) e sussume in sé da un lato i corpi e dall'altro gli incorporei, vale a dire il luogo, il vuoto, il tempo e i dicibili (lekta ) . In quanto "qualcosa", questi incorporei sono identificabili, ma non possono né agire ( ad esempio su ciò che contengono ) né patire, al punto che essi non esistono (hyparchein ) , ma si limitano a "sussistere" (hyphi­ stanai). I "dicibili" sono noti soprattutto per essere degli equivalenti di ciò che Saussure chiama "significante'', ma sono anche stati introdotti nel

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quadro dell'analisi fisica della causalità come effetti o predicati incorporei ("essere tagliato") che divengono veri per un corpo (la carne) sotto l'azione di una causa corporea (il coltello) (Sesto Empirico, Adv. Math. IX 211 = SVF II 341; su tutto questo cfr. Alessandrelli, 2013). Per estensione, i dicibili sono anche tutti i dati di fatto formulabili con le parole ("Socrate cam­ mina"): essi "sussistono" in accordo con le rappresentazioni che li hanno per oggetto senza ridursi ad esse (Diogene Laerzio VII 63; Sesto Empirico, Adv. Math. IX 212 = SVF II 166). Essendo tali dicibili "qualcosa': essi de­ vono essere identificabili e non includono gli universali ("l' Uomo"), che sono annoverati tra le finzioni. Gli stoici si volgono così a una critica delle Forme platoniche, ritenute prive di qualsiasi realtà e ridotte a dei "fanta­ smi" dell'anima, dei concetti generali elaborati dal pensiero a partire dall 'e­ sperienza (Diogene Laerzio VII 61).

I principi e l a cosmogonia

Come sono nati i corpi e il mondo che ci circondano ?4 Gli stoici distin­ guono due principi (archai) : uno passivo, la materia (hyle), l'altro attivo, Dio o la ragione (logos). Questi due principi sono ingenerati, indistrutti­ bili, privi in sé di forma e corporei. Sono due corpi basilari, l'uno dei quali soltanto agisce, l'altro soltanto patisce. Essi sono sempre completamente commisti5 e producono, in tal modo, l' insieme della natura. Dio è considerato l'artigiano del mondo, ma esercita la sua arte dall' in­ terno della materia, come lo sperma nell'utero o l'anima nel corpo. La ma­ teria è, da parte sua, la "sostanza" puramente passiva del mondo: essa non resiste all'azione divina, che le ha imposto un processo di trasformazione in diverse tappe. Quando la ragione si trova in uno stato di massima concentrazione e attività nella materia, essa assume la forma del fuoco, che è "l'elemento per eccellenzà' e la forma visibile di Dio. Convertendo questo fuoco in aria e poi in acqua, la ragione o Dio si procura un materiale a partire dal quale può, per condensazione o per rarefazione, produrre uno stock di ciascuno dei quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco), la cui combinazione in dif­ ferenti proporzioni dà origine a tutti gli esseri. Il mondo è unico e finito. Non contiene alcun vuoto, poiché l'azione reciproca o "simpatia" tra tutte le parti esige che esse siano in contatto. È circondato da un vuoto infinito (uno dei quattro "incorporei"), nel quale

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resta immobile grazie alla sua forza di coesione interna, che conferisce agli elementi pesanti un movimento centripeto. Il centro del mondo è occu­ pato dalla Terra, ricoperta dagli oceani e circondata da una massa sferica d'aria, a sua volta contornata dai cieli, che sono costituiti da un fuoco mol­ to puro, anche detto "etere", in cui si trovano gli astri. Come ogni fuoco, questi ultimi hanno bisogno di un combustibile, che trovano nei vapori provenienti dagli oceani: è per nutrirsi di queste "esalazioni" umide che i cieli e gli astri girano intorno alla Terra. Esse ricadono poi sulla Terra via le piogge, ma con una perdita, cosicché la Terra e i mari si asciugano progres­ sivamente. Quando tutta la loro umidità si esaurisce, il calore dei cieli si estende al mondo intero e lo consuma: è la "conflagrazione" (ekpyrosis), a seguito della quale il mondo torna al suo stadio iniziale, prima di rinascere sotto una forma identica. Il mondo che ci circonda viene così regolarmente distrutto : gli stoici applicano al mondo (contro Platone e soprattutto contro Aristotele) la legge fisica che governa le sue parti, quella cioè secondo cui ciò che è gene­ rato deve perire, e invocano a sostegno di questa tesi alcuni fatti empirici (cfr. Filone, De aet. mundi 1 17-1 3 1 = SVF I 106 sull' irregolarità dei rilievi sulla Terra, l'abbassamento del livello dei mari e la scomparsa di alcune specie animali). Ma essa non è forse incompatibile con la razionalità di Dio, come suggerisce il Timeo, in cui la bontà del demiurgo esclude che egli distrugga la sua opera ? No, dal momento che la conflagrazione non è un male per gli stoici: essa consiste in una dissoluzione del mondo in Dio e permette al mondo di rigenerarsi. Crisippo rifiutava così di affermare che "il mondo muore", in quanto la sua anima non si separa mai dal suo corpo, ma lo assorbe, e considerava il mondo come il solo essere "autosufficien­ te" (Plutarco, De stoic. rep. 1052c-d = SVF II 604). Grazie al ciclo mondo­ conflagrazione, Dio vince quindi naturalmente i vincoli che impongono gli elementi e la loro interazione, e produce un essere vivente, dunque in movimento, che rinasce dalle sue ceneri, un ordine dinamico eterno.

Il mondo

La relazione tra il mondo e Dio è dunque complessa. Dio o la ragione è anzitutto il principio attivo eterno di tutte le cose. La quasi totalità delle prove stoiche dell'esistenza di Dio sono d'altra parte delle prove della ra­ zionalità del mondo, che poggiano sulla sua organizzazione visibile. Se si

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considera, tuttavia, Dio in quanto forza che plasma e anima la totalità del­ la materia in modo ordinato e ciclico, lo si può identificare con il mondo. Dio è più precisamente l'anima del mondo, il che implica a un tempo che egli lo governa dai cieli, "parte direttiva" dell'anima del mondo, e che egli è presente ovunque nel mondo, allo stesso modo in cui la nostra anima governa il nostro corpo mediante la sua parte direttiva ma al contempo controlla anche la crescita e i movimenti della carne e delle ossa dall' inter­ no del nostro corpo. Questa immanenza di Dio, tacciata di empietà da parte di tutti gli av­ versari degli stoici, è per questi ultimi l'unico modo perché egli eserciti (per contatto diretto con ogni cosa) la provvidenza universale, che appar­ tiene alla nozione di Dio posseduta da tutti gli uomini e che lo conduce a produrre e a far esistere ogni cosa nella misura in cui essa è utile ali' insieme del mondo, e più particolarmente agli esseri razionali. È infatti per il bene degli dei e degli uomini che tutti gli altri esseri esistono. Ora, se Dio è ovunque e la materia è assolutamente passiva, « non è possibile che nessu­ na delle cose particolari si verifichi in maniera anche minimamente diffor­ me dalla natura comune e dalla ragione che la governa » , scriveva Crisippo (Plutarco, De stoic. rep. 105oc-d = SVF I I 937; trad. lsnardi Parente, 1 989 ) : tutto accade secondo un ordine eterno, che lega in modo necessario tutti gli eventi tra loro6 e che si ripete a ogni rinascita del mondo. Esiste dunque un determinismo universale e la provvidenza si confonde con il destino, anche se è possibile distinguere tra eventi voluti in sé stessi da Dio, per il bene degli esseri razionali, e le conseguenze necessarie di questi eventi, che Dio ha voluto soltanto in funzione dei primi (Aulo Gellio, Noct. att. VII 1 7-10 ). È questa "necessità" condizionale e il fatto che la provvidenza miri anzitutto ali' interesse della ragione (e non a quella degli uomini in quanto tali) e del mondo che giustifica l'esistenza di esseri o di eventi nocivi per la vita umana senza che questo comprometta la razionalità divina. Come esercita Dio la sua azione nel mondo ? Egli assume secondo Cri­ sippo la forma di un "soffio" (,pneuma), composto di aria e fuoco e animato da un movimento tensionale (tonos) di andata-e-ritorno tra il centro e la superficie di ogni ente ; movimento che produce l'unità, la coesione e le qualità distintive delle cose. Esiste un soffio che mantiene e anima il mon­ do nel suo insieme, ma esiste anche un soffio proprio di ciascun essere, la cui forma dipende dalla sua posizione nella scala della natura. Le pietre sono tenute insieme da una "disposizione" (hexis), solida ma semplice, le piante da una "natura" (,physis) che permette loro di nutrirsi, crescere e ri-

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prodursi, gli animali d a un"'anima" che conferisce loro i n più sensazione e movimento. L'estensione del "soffio" in tutta la natura stabilisce, in virtù della continuità della materia, una "simpatia universale" tra tutti gli esseri, che è la condizione di possibilità fisica degli innumerevoli nessi sistematici tra gli eventi, inclusi i più vari e distanti, scoperti dalle scienze e dalle arti, come ad esempio il movimento periodico degli oceani in funzione di quel­ lo lunare, descritto da Posidonio, o le singolari correlazioni tra le azioni umane e gli eventi naturali, osservate dall'astrologia e dalla divinazione (cfr. Strabone III 5 8 sulle maree, con l'analisi di Vuillemin, 1984, pp. 32230; e Cicerone, De div. I I 33-35 ) . Per gli stoici, l'anima è dunque un "soffio connaturato", vale a dire un corpo molto sottile interamente mescolato ai corpi organici che anima. Essa possiede una parte direttiva centrale o "egemonico", situata per l'uo­ mo nel cuore, da cui partono altre sette parti, come i tentacoli di un polpo: ciascuna assicura una funzione vitale (i cinque sensi, la voce, la riproduzio­ ne) e si congiunge, a tal fine, con l'organo appropriato.

L'uomo

Qual è il posto dell'uomo nella scala della natura ? Egli è, anzitutto, un animale come gli altri. Le due facoltà distintive degli animali sono la rap­ presentazione (phantasia) e l' impulso (horme ). La rappresentazione (Dio­ gene Laerzio VII 49-52 ) non si riduce alla bruta sensazione, che ha luogo nel corpo : si tratta di un'affezione dell'egemonico che « mostra in se stessa ciò che l'ha prodotta » . L' impulso è « Un impeto dell'anima verso qual­ cosa » (trad. Gigante, 19761 ) che nell'animale provoca immediatamente un'azione. Di fronte al cibo, ad esempio, l'animale si forma spontanea­ mente una rappresentazione che mostra che quello è per lui favorevole, suscitando così un impulso a consumarlo, mentre un pericolo provocherà una repulsione e la fuga. Come è possibile ciò ? Secondo gli stoici, gli animali hanno ricevuto dalla natura un'appropriazione o affinità ( oikeiosis) nei confronti di sé stes­ si; essi avvertono, vale a dire, ciò che sono, le loro parti e le rispettive fun­ zioni, e ne sono colpiti positivamente, cosicché il loro "impulso primario" è di conservare sé stessi e ciò li porta a distinguere, all' interno del loro am­ biente, tra cose naturali (kata physin ), che ne favoriscono la conservazione, e cose "contro natura", che li danneggiano (cfr. Cicerone, De ftnibus I I I

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16-18; Diogene Laerzio VII 85-86; Seneca, Ep. 121, con Brunschwig, 1995a, pp. 69-112). Questa importante dottrina ha la sua originalità nella carat­ terizzazione dell'animalità come una forma elementare di reflessività, e si oppone alla tesi epicurea secondo cui è il piacere che gli animali ricercano spontaneamente. Gli stoici obiettano a questa tesi, ad esempio, il fatto che gli animali non esitano a fare dei faticosi sforzi per conservare sé stessi, il che prova la preminenza di tale fine e il carattere secondario, dal punto di vista della natura, del piacere e del dolore ( cfr. in proposito Seneca, Ep. 121 7-9; Cicerone, Definibus I I I 16-17 ). La parte direttiva dell'anima umana funziona inizialmente nello stesso modo. Ma l' accumularsi di rappresentazioni simili vi produce naturalmen­ te, grazie alla memoria, delle "pre-nozioni", ovvero delle idee generali che ci consentono di riconoscere e qualificare le cose ("questo è bianco", "questo è un cane"). Altre idee, o "nozioni", sono invece acquisite attraverso l'in­ segnamento. È a partire da queste categorie che si costituisce progressiva­ mente la ragione, che è definita da Crisippo come una « combinazione di certe nozioni e pre-nozioni » (Galeno, De plac. Hipp. et Plat. V 3 1 ; p. 304 De Lacy = SVF I I 841). Non si tratta di una facoltà che si aggiunge all'anima umana, ma di una trasformazione totale della parte direttiva, che influisce sul funzionamento di tutte le sue operazioni (cfr. Long, 1996b). Essa inizia con l' "articolare" le rappresentazioni, identificando i loro oggetti attraverso le sue nozioni. Le rappresentazioni umane hanno come contenuto dei fatti incorporei "dicibili" attraverso il discorso ("questo è un cane� "è giorno"). Lo stesso accade per gli impulsi umani, che mirano a delle azioni riferite alle cose e hanno quindi per oggetto un tipo di dicibile definito "attributo" (ad esempio " bere dell'acqua"). La ragione si caratte­ rizza inoltre per alcune operazioni logiche: formando delle nozioni gene­ rali, diveniamo sensibili alle contraddizioni o ai legami di consecuzione tra esse ("se è uomo, è mortale': "se è notte, non c 'è luce"), e ciò ci permette di rendere le nostre nozioni più rigorose e di dedurne delle proposizioni nuove. Il ragionamento estende così la nostra capacità rappresentativa al di là di ciò che percepiamo, e i nostri impulsi al di là del presente, permet­ tendoci di elaborare dei progetti complessi. Un'altra capacità essenziale legata alla ragione è l'assenso (synkatathesis), che consiste in un'approvazione data alle rappresentazioni e agli impulsi. Gli animali e i bambini non hanno alcuna distanza nei confronti delle loro rappresentazioni e dei loro impulsi; li seguono dunque immediatamente, senza alcun assenso o forse con un assenso elementare, perché automatico.

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L'articolazione delle rappresentazioni e degli impulsi da parte della ragio­ ne crea una distanza rispetto ai loro oggetti, che conferisce alla ragione umana la capacità di "sospendere" il suo assenso laddove l'oggetto della sua rappresentazione non corrisponde a ciò che conosce, o se l'oggetto del suo impulso non è ad essa favorevole. Che sia implicito o esplicito, l'assenso diviene così nell'uomo adulto una condizione necessaria per percepire e agire7. Di fronte a realtà sorprendenti o incerte, l'uomo procederà a una disa­ mina dei loro oggetti per ottenere una rappresentazione a cui possa dare un assenso fermo, ovvero una rappresentazione comprensiva (phantasia kataleptike). Essa è definita da Zenone come quella che « è determinata dall'esistente, conforme all'esistente stesso ed è impressa e stampata nell'a­ nima » ( Diogene Laerzio VII 46; trad. Gigante, 1976'). Ma esistono tali rappresentazioni vere che portano in sé il segno certo della loro oggettivi­ tà ? Una celebre controversia ha opposto su questo tema i primi stoici e gli accademici Arcesilao e Carneade ( cfr. Cicerone, Luc. II 76-112 con loppo­ lo, 1 9 8 6 ; Sedley, 2002; e inoltre il CAP. 7 sull'Accademia nuova in questo volume ) . I secondi replicavano che il vero saggio è colui che sospende tutti i suoi assensi, perché vi sono sempre ragioni per dubitare che una rappre­ sentazione sia vera, per quanto evidente, come mostrano i sogni o le alluci­ nazioni o gli oggetti che non è possibile distinguere (due uova, due gemel­ li ) . Gli stoici risposero aggiungendo che la rappresentazione comprensiva « non potrebbe provenire da ciò che non esiste » (vale a dire da un oggetto diverso da quello che mostra) , e che ciò può essere stabilito dalla ragione esaminando se tutti gli aspetti dell'oggetto sono presenti e precisi; il che permette di escludere le illusioni. Se si ha un'esperienza sufficiente ( la ma­ dre dei gemelli ) , anche i casi più difficili possono essere decisi (ciò viene inoltre garantito dalla nozione fisica di "qualità propria", che implica che nessun oggetto sia assolutamente identico a un altro, problema noto come "identità degli indiscernibili"; cfr. Cicerone, Luc. I I 56 e 85-8 6). Gli stoici ricordano inoltre che, in condizioni normali, noi accediamo naturalmente alla verità. Dubitarne significa rendere la vita invivibile, pri­ vandoci di tutte le nostre facoltà, e disprezzando così la provvidenza divi­ na che ce le ha fornite. Dal punto di vista della conoscenza e dell'azione, la natura umana ha infatti gli strumenti per raggiungere la saggezza, benché siano poi pochissimi coloro che vi pervengono. La stragrande maggioran­ za degli uomini si lascia infatti "deviare" da due potenti fonti di errore, esterne tuttavia alla natura umana: da una parte le somiglianze apparenti

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tra oggetti distinti (ad esempio: il bene e il piacere), che la nostra mancan­ za di attenzione ci fa confondere; dall'altra l' influenza degli altri uomini e delle idee che essi diffondono (ad esempio: la morte è un male), che noi accettiamo in virtù del loro peso sociale, senza verificarle (Diogene Laer­ zio VII 89). Quando riguardano il bene e il male, tali errori generano le passioni (Diogene Laerzio VII uo-u5; Cicerone, Tusc. disp. I I I-Iv ) , che sono degli impulsi eccessivi, irrazionali e contrari alla natura. Ciò non significa che le passioni provengono da una parte irrazionale dell'anima, che la ragione dovrebbe addomesticare. Contro Platone e Aristotele, gli stoici ritengono che una simile divisione non esista nell'anima umana, che tutte le sue pul­ sioni provengono dalla sua parte direttiva, ovvero dalla ragione. La passio­ ne consiste in giudizi della ragione stessa, ma di una ragione corrotta, lace­ rata cioè dalle sue molte opinioni incoerenti, dunque instabile e debole. Le passioni sono dunque dei giudizi falsi, di cui in principio è responsabile la ragione, ma che finiscono poi per dar luogo a impulsi "eccessivi" o violenti, che le fanno perdere il suo controllo sull'anima e sul corpo. Crisippo chia­ riva la sua analisi con un paragone: « Il movimento delle gambe nel cam­ minare non supera una certa misura rispetto all' impulso, ma corrisponde ad esso in maniera tale che, se si voglia, si può fermare e si può cambiare strada. Se invece si corre, tale movimento non si verifica in questa misura, ma la supera in eccesso, di modo che si è trascinati in avanti e non si può facilmente cambiare strada, una volta che così si è cominciato. Ritengo che succeda qualcosa di simile anche a proposito degli impulsi, per il fatto che essi oltrepassano la retta simmetria secondo ragione, cosicché, una volta verificatisi, è poi difficile porre loro un freno » (Galeno, De plac. Hipp. et Plat. IV 2 14 = SVF III 462; trad. Isnardi Parente, 1 9 89 ). L'apparente intellettualismo dell'analisi stoica delle passioni si mo­ stra, pertanto, sotto un'altra luce, come ha giustamente sottolineato Brunschwig: «Dire che la passione è un errore del giudizio, significa dire che essa si è impadronita della ragione stessa, che l ' ha invasa e corrot­ ta fino al midollo. Se le passioni sono dei giudizi, non è perché esse si pieghino di fronte a delle parole efficaci, ma precisamente perché non si piegano ad esse : è in grado di resistere a un logos solo un altro logos, ma un logos interiormente viziato » (Brunschwig, 199 5b, p. 177 ). La te­ stimonianza di Galeno (che cita numerosi passi del trattato in tre libri di Crisippo Sulle passioni), inoltre, mostra che la natura corporea dell'anima ricopriva un ruolo importante nella spiegazione crisippea delle passioni,

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che combinava un'analisi in termini di giudizio a un'analisi in termini di movimenti fisici dell 'anima (contrazione, dilatazione), la cui ripetizione produce vere e proprie disposizioni patologiche, delle "malattie" analo­ ghe a quelle del corpo (Galeno, De plac. Hipp. et Plat. v 2 47; IV 6 2-3 = S VF I I I 47 i a, 473 con il commento di Tieleman, 200), in particolare pp. 146-66, 1 8 6-97 ). Le passioni sono analizzate, più precisamente, in funzione del giudizio che le fonda, e ciò permette di distinguerne quattro tipi fondamentali - il piacere, il desiderio, il dolore e la paura - che sono a loro volta suddivise fino a giungere a una minuziosa classificazione. Il piacere e il desiderio sono causate dall'opinione che una cosa giudicata (a torto) buona sia, rispettiva­ mente, presente o prossima. Il dolore e la paura sono causati dall'opinione che una cosa cattiva sia, rispettivamente, presente o prossima. Ma, in ogni caso, la passione si produce per Crisippo soltanto se la ragione dà il suo assenso a una seconda opinione, relativa alla reazione adeguata rispetto all'oggetto della prima opinione. Ad esempio, « il dolore è una contrazio­ ne dell'anima ribelle alla ragione, sua causa è l'opinare che sussista un male attuale per il quale si ha ragione di [contrarsi] » (Giovanni Stobeo, Anth. II 7 10b p. 90, 14 Wachsmuth-Hense = SVF III 394; trad. Isnardi Parente, 1989; cfr. anche Cicerone, Tusc. disp. III 61-62 ) . Se credo fermamente che un tale avvenimento sia un male e che è opportuno preoccuparsene, la mia anima si contrae intensamente non appena esso si avvicina, e ciò produce degli effetti anche nel mio corpo. L' impulso eccessivo e irrazionale che il dolore rappresenta può essere calmato mostrando a colui che lo prova che la seconda opinione è falsa, vale a dire che non ha bisogno di reagire così come egli fa, ma essa non può essere veramente eliminata se non quando la prima opinione è estirpata in favore di una definizione rigorosa e vera del male. La virtù, che è la scienza del bene e del male, è dunque incompatibile con la minima passione, e gli stoici erano conosciuti nell'antichità per aver sostenuto che la felicità e la saggezza presuppongono l' impassibilità (apatheia) e non una sempli­ ce moderazione delle passioni (metriopatheia)8• Il saggio stoico non deve tuttavia essere immaginato come un essere privo di emozioni: per sottoli­ nearlo, alcuni stoici (forse già Crisippo) hanno sviluppato la dottrina delle "affezioni buone" (eupatheiai), che sono conformi alla natura e alla ragio­ ne, in quanto derivano da giudizi veri: il saggio prova ad esempio gioia (e non piacere) per la presenza della virtù (in lui o negli altri; cfr. Diogene Laerzio VII 117; Cicerone, Tusc. disp. IV 12 ) 9•

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Dalla dialettica alla virtù

Dal momento che le passioni e tutte le nostre cattive azioni sono il diret­ to risultato di opinioni false, una riforma della nostra condotta passa ne­ cessariamente attraverso la logica, ovvero la parte della filosofia che tratta del discorso e della conoscenza, e più precisamente attraverso la dialettica, sotto-parte della logica che si occupa del giusto modo di discutere ; ciò la conduce a trattare del senso di ciò che diciamo, dunque delle rappre­ sentazioni, dei diversi dicibili, dei tipi di ragionamento, come anche delle definizioni (Diogene Laerzio VII 43-82; cfr. Gourinat, 2000 ) 10• In ultima analisi, la dialettica è la scienza del vero, del falso e di ciò che non é né vero né falso; essa ci consente dunque di non dare mai il nostro assenso a ciò che è falso. Grazie ad essa, possiamo acquisire le "virtù dialettiche", che ci permettono di sapere quando possiamo dare legittimamente il nostro assenso, ci rendono vigili di fronte alle apparenze, ci fanno evitare tutte le contraddizioni e fondano le nostre rappresentazioni su degli argomenti corretti (Diogene Laerzio VII 46; cfr. Togni, 2010, pp. 262-76). Le due ultime virtù poggiano sull'edificio complesso e rigoroso rappre­ sentato dalla teoria stoica dei ragionamenti, fondata in particolare su cin­ que "indimostrabili", che costituiscono dei tipi elementari di sillogismo ai quali tutti gli altri possono essere ridotti". Grazie a questa analisi formale, è possibile soddisfare l'esigenza di coerenza immanente alla nostra ragio­ ne, identificando i legami di consecuzione e le incompatibilità tra i nostri giudizi, ed eliminando quelli che contraddicono le pre-nozioni comuni a tutti gli uomini. La ragione può in tal modo acquisire una conoscenza sempre più sistematica delle correlazioni naturali tra fatti o eventi costitu­ tivi del mondo o del destino. Un esempio cruciale di questo lavoro di sistematizzazione è fornito dalla nozione di bene (agathon, cfr. Diogene Laerzio VII 94-104; Cice­ rone, De finibus lii 33-39 ). Essa si forma nella parte razionale dell'anima a partire dall'esperienza e dall'educazione, e la sua acquisizione segna il conseguimento della ragione nell'uomo, a quattordici anni. Ma soltanto un'articolazione rigorosa di questa nozione rivela il suo vero oggetto, con­ tro le opinioni della maggioranza degli uomini. Veramente buono è solo ciò che giova sempre al suo possessore. Ora, la maggior parte delle cose che sono giudicate buone, come la salute, la ricchezza o la bellezza, possono esser fatte oggetto di un cattivo uso e nuocerci: esse non sono dunque in realtà né buone né cattive, ma indifferenti (adiaphora). Pertanto, buona è

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soltanto la capacità di trarre vantaggio da tali cose indifferenti, vale a dire la virtù. Il bene e la moralità (kalon) sono identici. Questa tesi paradossale costituisce il fondamento dell'etica stoica e le è valsa la sua reputazione di austerità e idealismo. Gli stoici concepiscono tuttavia il loro rigorismo come l'esito di un naturale processo di sviluppo della condotta umana (Cicerone, De .finibus I I I 1 6-23 ) ". Quest 'ultima è motivata, è stato detto, anzitutto dalla conservazione di sé, ma l'artico­ lazione dei nostri impulsi da parte della ragione sottomette ciascuno di essi all'assenso, dato al suo carattere conveniente (kathekon). Gli impulsi umani possono essere espressi in questo modo: "conviene che io faccia ciò, stante tale aspetto della situazione, tale fine e/o tale norma" (cfr. ad esem­ pio Seneca, Ep. 1 1 3 1 8 ) . La nostra condotta finisce così per ridursi a una serie di applicazioni di regole pratiche che abbiamo approvato in diverse situazioni. Ora, la nostra ragione invita a mantenere una coerenza in tali applicazioni, e ciò impone di gerarchizzare tali regole "convenienti", fino a scoprire che la sola regola assoluta e incondizionata è la pratica della virtù. Essa non è altro che l'armonia o la perfetta razionalità dei nostri giudizi e delle azioni che ne derivano. Ma in che modo la preoccupazione di agire in modo perfettamente coerente può giustificare le azioni altruistiche caratteristiche della virtù? Qui, di nuovo, gli stoici ritengono che la saggezza sia un prolungamento e una sistematizzazione dei nostri impulsi primari. Come gli animali, noi siamo infatti "appropriati" non solo rispetto a noi stessi, ma anche rispetto ai nostri figli, in quanto parti di noi stessi. A partire da questo altruismo spontaneo, può svilupparsi progressivamente una sempre maggior pre­ occupazione per gli altri: è conforme alla natura socievole degli uomini, vale a dire è "conveniente", rispettare i genitori, vivere in società, servire la propria patria, interessarsi ai propri simili1l. La ragione ci mostra persino l'uguaglianza di tutti gli uomini tra loro all' interno della città, che costitu­ isce il mondo, cosicché la retta ragione può essere assunta come sua legge (nomos) e come norma naturale di tutte le leggi istituite dagli uomini14• Alcuni "paradossi stoici" sottolineano anche che il saggio è il solo vero re, magistrato o oratore, perché soltanto la virtù permette di esercitare cor­ rettamente queste funzioni (Diogene Laerzio VII 121-125; Cicerone, De .finibus I I I 75-76 ) . La virtù è dunque l'eccellenza della natura umana, vale a dire la perfetta armonia dell'anima. Ora, poiché gli stoici non dividono l'anima umana in una parte razionale e in una o più parti irrazionali, essi non hanno biso-

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STORIA D ELLA FI LO SO FI A ANT I C A

gno della distinzione aristotelica tra virtù intellettuali e virtù morali (rela­ tive ai desideri o al carattere), e definiscono la virtù come una - e anche la sola - scienza, ovvero come un sistema di rappresentazioni comprensive, certe, ferme e irrefutabili (Diogene Laerzio VII 89-90; Plutarco, De virt. mor. 441c). Tale concezione intellettualistica della virtù, ereditata da So­ crate, si accompagna a una posizione che chiameremmo oggi fisicalista o materialista: essendo lanima un soffio composto di aria e fuoco, e dunque un corpo, la disposizione dell'anima che costituisce la virtù può essere defi­ nita da proprietà fisiche, e più particolarmente da un' intensificazione della tensione costitutiva del soffio dell'anima, che si accompagna alla saldezza incrollabile dell'uomo virtuoso (Plutarco, De stoic. rep. 1034d). Ma che cosa divengono, in questa concezione, le diverse virtù distin­ te dalla tradizione ? (cfr. Plutarco, De virt. mor. 44oe-441d; De stoic. rep. 1034c-e; Diogene Laerzio VII 9z., 1z.5-12.6, con Cooper, 1999 ) . Zenone am­ mette la loro esistenza, ma ritiene che siano definibili come applicazioni di una stessa saggezza (.phronesis) in domini pratici distinti. Questa posizione ambivalente ha provocato nei successori di Zenone delle interpretazioni divergenti dell'unità della virtù, che si ispirano senza dubbio a degli argo­ menti socratici che troviamo nel Protagora. Il suo discepolo Aristone di Chio insisteva sull'unità sostanziale della virtù come "scienza del bene e del male" e considerava la prudenza, la giustizia, il coraggio o la temperanza come nient'altro che nomi dati, "in relazione con" i loro oggetti, alle azio­ ni prodotte dalla potenza della virtù in diverse circostanze. Per difendere la posizione di Zenone, Crisippo svilupperà contro Aristone una dottrina secondo la quale le virtù "si implicano le une con le altre" (antakolouthein ), tanto che possono essere distinte qualitativamente senza intaccare l'unità della virtù. Egli ritiene infatti che le virtù condividano gli stessi principi teorici e gli stessi fini, ma che siano specializzate in un aspetto dell'azione umana. La tesi è tanto più audace in quanto gli stoici definiscono un gran numero di virtù "subordinate" a ciascuna delle quattro virtù cardinali, e an­ noverano tra le virtù anche la dialettica e la fisica.

La saggezza

La virtù stoica è dunque "l'arte della vita� vale a dire questa competenza che permette al saggio di compiere bene tutte le azioni, dalle più banali alle più eccezionali, e di fare un uso corretto di tutte le situazioni (cfr. Bénatoui:l,

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2006, in particolare pp. 147-83). Se si trascura questa concezione della virtù come competenza universale e onnipotente, si può difficilmente compren­ dere la tesi secondo cui la virtù è autosufficiente (autarkes), ovvero rende felice colui o colei che la possiede. Dal momento che la virtù è il solo bene, infatti, il suo possesso è sufficiente per realizzare il "fine" (telos) ultimo delle nostre azioni, vale a dire a farci raggiungere la felicità. Gli stoici definiscono il fine come « vivere in accordo con la natura » ( Diogene Laerzio VII 87 ) . Ora, tale formula designa non solo una vita coerente con sé stessa e con la natura umana, per le ragioni di cui si è detto, ma anche con la natura nel suo insieme, quale è organizzata dalla provvidenza divina ( Diogene Laerzio VII 87-89 ) . Non esistono, tuttavia, delle divergenze oggettive tra la natura umana e la natura universale, facendo la seconda spesso da ostacolo alle facoltà della prima? No, se ci si pone dal punto di vista della natura umana compiuta, che corrisponde alla virtù o retta ragione. Da un lato, le virtù cardinali - in particolare il coraggio, la temperanza e la giustizia - ci rendono in grado di accettare serenamente le costrizioni imposte dalla vita e dal mondo, che si tratti di resistere a delle situazioni pericolose o dolo­ rose (compresa la morte ) , di accontentarsi di poco o di sacrificarsi per il bene comune. Dall'altro lato la fisica è - come la dialettica - una virtù, che permette al saggio di fondare le sue azioni su una conoscenza precisa della necessità e della razionalità degli eventi naturali, ma anche di sfruttare i be­ nefici nascosti della natura. Non bisogna immaginare, tuttavia, che il saggio stoico sacrifichi interamente i suoi interessi personali e la sua conservazione per sottomettersi all'ordine del mondo. Crisippo riassumeva la condotta stoica in questo modo : « finché non mi sia chiaro il futuro, mi attengo alle cose di miglior natura per poter raggiungere ciò che è secondo natura; la divinità stessa mi ha formato atto a scegliere queste cose. Se sapessi che è fissato dal destino che io abbia una malattia, sarei portato dall' impulso a cercarla. Anche il piede, se avesse facoltà di comprendere, sarebbe portato per impulso a infangarsi» ( Crisippo citato da Epitteto, Diatr. II 6 9 = SVF III 191; trad. Isnardi Parente, 1989 ) . L'atteggiamento stoico che consiste nell 'accettazione del destino a di­ scapito della nostra vita interessa soltanto delle situazioni inevitabili e pro­ babilmente poco numerose. In generale, il saggio stoico agisce in accordo con la natura umana: preserva la sua salute ed evita la malattia. Cionono­ stante, gli stoici tengono fermo il principio che queste due situazioni sono indifferenti, vale a dire che la felicità del saggio dipende unicamente dalla sua virtù e resta dunque identica se egli si ammala. Il saggio può tuttavia

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STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANT I C A

preferire la salute alla malattia, in quanto la prima possiede un valore supe­ riore legato al fatto che essa asseconda il normale funzionamento della vita umana. È dunque conveniente per il saggio ( come per l'uomo comune ) preservare la sua salute. Gli accademici, soprattutto Carneade, rimproverano a questa dottri­ na un doppio gioco ( cfr. Cicerone, Deftnibus III I O - I 6 per le obiezioni e 41-56 per le risposte degli stoici; cfr. inoltre Annas, 1993; Striker, 199 6a, pp. 2.2.1-31 5 ) : gli stoici non vorrebbero scegliere tra due etiche incompati­ bili, l'una paradossale, che riduce il bene e la felicità alla virtù, laltra più vicina al senso comune ( e difesa in particolare da Aristotele ) , che ammette dei beni materiali ed esteriori come la salute e la ricchezza, ritenendoli indispensabili per la felicità. Gli stoici replicano affermando che essi non adottano affatto la seconda posizione poiché riconoscono che il saggio può preferire alcuni indifferenti naturali. Benché spesso esteriormente si­ mile a quella dell'uomo comune ( che non ha colto che cos'è il bene ) , la condotta del saggio ne differisce infatti radicalmente. Le sue preferenze pratiche per le cose naturali sono relative alle circostanze : se delle neces­ sità o delle esigenze più alte lo privano della salute, egli non se ne lamenta e accetta comunque ciò che il destino gli assegna. Gli indifferenti naturali ( o dotati di valore o preferibili ) sono dunque solo il materiale, e non le condizioni o gli obiettivi, della sua vita felice ; egli può perseguirla sen­ za difficoltà in loro assenza, come un attore capace di recitare altrettanto bene il ruolo del re e quello di un mendicante, conservando pienamente il proprio stile e rispettando le intenzioni dell'autore della piece ( Cicerone, Deftnibus III i.4-i.5 ) . Il valore etico delle azioni del saggio non risiede dunque né nei risultati, né nelle intenzioni stesse ma nella perfetta coerenza di queste ultime tra loro e con la natura, coerenza che egli mantiene fino alla morte. Ne segue che non esiste alcuno stadio intermedio o passaggio progressivo tra il vizio e la virtù, e che nessuna azione è buona o cattiva in sé: tutte le anime che non conseguono la coerenza assoluta sono ugualmente viziose o "dissen­ nate", e tutte le loro azioni sono ugualmente cattive, mentre tutte le azioni dei rarissimi uomini o donne saggi sono buone, e la loro virtù è equiva­ lente a quella del Dio, in quanto essi agiscono, come lui, in accordo con la retta ragione ( Cicerone, Deftnibus III 48; Diogene Laerzio VII 1 2.0 ) 11• Non persiste, tuttavia, una grande differenza tra Dio e gli uomini, per quanto saggi, dal momento che i secondi sono interamente sottomessi al primo, ovvero al destino ? Come può, d'altra parte, darsi una differenza tra

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la virtù e il vizio se tutte le nostre azioni sono necessarie ? Secondo Crisip­ po, le nostre azioni hanno come causa "principale" le disposizioni della no­ stra anima, che risultano a loro volta da predisposizioni naturali, dall' am­ biente, dall'esercizio e dallo studio, e che determinano le nostre reazioni alla situazione in cui ci troviamo. Quest 'ultima costituisce pertanto solo una causa ausiliaria della nostra azione, cosicché la nostra condotta non ci viene mai imposta dall'esterno (Cicerone, Defato 28-30, 39-43). Nono­ stante non sia per noi possibile agire contro le nostre disposizioni (non vi è libero arbitrio), le nostre azioni dipendono senz'altro da noi'6• Le azioni umane sono dunque incluse nel destino senza essere costret­ te. È perciò possibile biasimare coloro che sono viziosi e lodare i virtuosi. Solo il saggio, tuttavia, è libero, poiché le sue azioni sono decise da lui solo e non incontrano mai alcun ostacolo, dal momento che egli mira soltanto all'accordo con sé stesso e con la natura. Coloro che si lamentano della loro condizione e cercano di scappare dal destino non possono che fallire, men­ tre coloro che comprendono la sua necessità e la sua razionalità cooperano con esso e traggono la miglior parte possibile, per sé stessi e per l'umanità, da ciò che la natura offre loro.

L'evoluzione dello stoicismo

Gli stoici si presentavano come dei socratici e hanno ripreso e sistematiz­ zato alcune tesi centrali di Socrate (la virtù domina sugli altri beni, è una, è una scienza, la coerenza con sé stessi è uno dei criteri del sapere e della condotta; cfr. Alesse, 2000 ). I biografi di Zenone riferiscono che quest'ul­ timo ha avuto come maestri dei rappresentanti delle tre grandi correnti filosofiche derivate direttamente da Socrate : Cratere per il cinismo, Stil­ pone e Diodoro per i Megarici e Palemone per l'Accademia, la scuola fon­ data da Platone (Diogene Laerzio VII 2-4, 25). Semplificando all'estremo, si potrebbe dire che lo stoicismo eredita dal primo la fermezza e l'austerità etiche, dai secondi l' importanza della dialettica, e dalla terza l' interesse per i principi ontologici e cosmologici. Dalla fusione di queste influenze risulta nondimeno una dottrina coerente e originale, che sarà insegnata in modo continuativo per cinque secoli, dominerà la scena filosofica per una buona parte di questo periodo e si diffonderà in Grecia e poi a Roma, al punto da influenzare largamente la letteratura, la scienza e le élite politiche della fine della repubblica e dei primi due secoli dell' impero.

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANTICA

Nel corso di questi cinque secoli, il sistema stoico si è evidentemente evoluto. Erano considerati stoici coloro che si erano formati nella scuola (finché essa rimase insediata ad Atene, dunque fino al I sec. a.C.; cfr. Sedley, i.003b) e che aderivano a un certo numero di dottrine fondamentali risa­ lenti a Zenone e caratterizzanti la scuola stoica. Il disaccordo tra membri della scuola era tuttavia ammesso su altri punti. Se Dionisio di Eraclea fu di­ chiarato "transfugà' non appena rinunciò alla tesi secondo cui piacere e do­ lore sono degli indifferenti, avendo in tal modo « abbandonato Zenone » (Diogene Laerzio VII 166-167 ), sembra che un altro, più celebre allievo di Zenone, Aristone di Chio, sia stato ritenuto eterodosso soprattutto a parti­ re dal momento in cui Cleante e Crisippo rifiutarono la sua interpretazione rigorista della dottrina di Zenone, e in particolare la sua diffidenza verso la fisica e la logica e la sua tesi secondo cui il saggio doveva essere indifferente a tutto ciò che non è né virtù né vizio (vn 160-161)17• Insieme alle divergenze sull' interpretazione delle dottrine fondamen­ tali di Zenone (ad esempio, come detto sopra, sull'unità delle virtù), o in merito alle loro conseguenze e applicazioni, i dibattiti con le scuole rivali e l'imperativo di difendere le tesi della scuola contro le loro obiezioni furo­ no un fattore cruciale dell'evoluzione della dottrina stoica. È noto per lo più il dibattito tra stoici ed epicurei, che difendono delle tesi opposte sulle principali questioni di fisica (il caso contrapposto alla provvidenza, gli ato­ mi contrapposti alla materia continua, la pluralità dei mondi distruttibili all'eterno ritorno di un solo mondo) e di etica (il piacere contrapposto alla moralità, la vita nascosta all' impegno nella città). Le numerose critiche stoiche all'edonismo (da Cleante a Epitteto) e diversi scritti di Cicerone e Filodemo testimoniano l' importanza e la varietà delle polemiche tra stoici ed epicurei (cfr. in particolare Filodemo, De pietate; De signis; De musica; Cicerone, De nat. deor. I-I I ; De.finibus I-II, con Auvray-Assayas, Delattre, 2.001). È tuttavia poco probabile che tale dibattito abbia giocato un ruolo cruciale nell'evoluzione della dottrina stoica, per due ragioni. Da un lato, le polemiche dettagliate tra le due scuole risalgono più al I I e al I secolo a.C. che non alla fase di elaborazione delle loro dottrine. Dall'altro lato, stoici ed epicurei condividono molti presupposti importanti quanto alla finalità e ai criteri della filosofia (eudemonismo, naturalismo, empirismo). Questi ultimi sono stati invece contestati dall'Accademia nuova di Arcesi­ lao e Carneade, le cui critiche contro lo stoicismo hanno giocato un ruolo cruciale anzitutto nella sistematizzazione del pensiero di Zenone da parte dei suoi discepoli, poi di Crisippo, come si è visto prima a proposito del-

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la rappresentazione comprensiva o della definizione del fine, quindi nelle variazioni apportate alla dottrina dai successori di Crisippo, in particolare in ambito etico. Un buon modo per riassumere le evoluzioni dello stoicismo ellenistico è indicare le divergenze o le convergenze con altre scuole che furono suc­ cessivamente chiamate in causa dagli stoici per elaborare, insegnare o di­ fendere le loro dottrine. I primi stoici - Zenone, Cleante e Crisippo - non esitano ad assumere delle posizioni ciniche, considerando come indiffe­ renti molte norme sociali e consentendo ai saggi delle condotte scandalose (cfr. in proposito Goulet-Cazé, 2003 ) 18• Essi, inoltre, si richiamano forte­ mente a Eraclito in fisica (cfr. Long, 1996a, pp. 3 5-57 ) , per concepire un mondo a un tempo intimamente razionale e in continua trasformazione, e si oppongono nettamente a Platone negando l'esistenza degli universali e dell' incorporeità dell'anima'9, fondando la scienza sulla sensazione o cri­ ticando la concezione platonica della città perfetta10• Con i successori di Crisippo, in particolare Panezio e Posidonio, gli stoici presero nettamente le distanze dal cinismo, sottolineando le loro convergenze con Platone e Aristotele. Tale avvicinamento è probabilmente iniziato come un tentati­ vo di attaccare l'Accademia nuova, mostrando che essa tradiva il suo fon­ datore e che le dottrine di Zenone erano in accordo non solo con quelle di Socrate, ma anche con diverse tesi di Platone, soprattutto etichell. Su alcuni punti, tale tendenza condusse alcuni stoici a relativizzare, se non a ripudiare, alcune dottrine dei fondatori, come la distruzione periodica del mondo, probabilmente abbandonata da Panezio in favore della tesi dell'eternità del mondo ( Diogene Laerzio VII 142; Panezio dubitava an­ che che esistesse la divinazione ) . A Panezio e Posidonio viene attribuita da Diogene Laerzio (vn 128 ) anche la tesi secondo cui la virtù non sareb­ be sufficiente per essere felici ma avrebbe bisogno della salute e di altre cose; tale rottura con il principale dogma etico della scuola è tuttavia del tutto improbabile e di fatto incompatibile con altre testimonianze11• Cio­ nonostante, gli stoici posteriori a Crisippo hanno senz'altro arricchito e sviluppato le posizioni della loro scuola in ambito etico. I due esempi più importanti sono la teoria dei doveri e l'analisi delle passioni. I successori di Crisippo hanno infatti sviluppato in modo approfondi­ to, fecondo e talvolta nuovo la nozione di conveniente elaborata da Zeno­ ne. Da un lato, stoici come Antipatro o !erode scrivono dei trattati in cui esaminano con precisione quali sono le azioni "convenienti" in tutti gli ambiti della vita sociale, come il matrimonio ( difeso in quanto conforme

STORIA DELLA FI LO SO FI A ANTICA

a natura), la vita coniugale, i rapporti con la servitù ecc. ( Crisippo aveva già scritto un trattato Sui rapporti con i genitori). Dall'altro, tale minuziosa attività "parenetica" si accompagna a una vera e propria riflessione casisti­ ca. Alcuni stoici rivolgono in particolare l'attenzione a dei casi di conflit­ to tra "convenienti". Nel III libro dei Doveri, Cicerone fornisce numerosi casi analizzati da Diogene di Babilonia, Antipatro di Tarso ( Off. III 5 1-56), Ecatone di Rodi ( Off. I I I 88-89) e Posidonio, che riguardano ad esempio conflitti tra il rispetto dovuto al proprio padre e i doveri verso la patria, op­ pure tra il dovere di non mentire e la pratica del commercio. È interessante che in merito a questi ultimi casi, in cui si tratta di sapere se un vendito­ re debba o meno rivelare un fatto che potrebbe diminuire i suoi profitti, Cicerone ( I I I 50-55) attesti un disaccordo tra Diogene di Babilonia e il suo successore Antipatro di Tarso, in quanto il primo rispondeva negati­ vamente e il secondo positivamente. Se il primo privilegiava la proprietà privata e la rigorosa legalità, il secondo accordava la priorità alla virtù della giustizia e alla solidarietà umana. Entrambi ragionavano, dunque, a partire dalla prospettiva stoica dell' identità tra la moralità (definita dalla ragione) e l'utilità (ciò che conviene alla natura umana) : i conflitti tra doveri por­ tano a interrogarsi sull'articolazione particolare di queste due dimensioni che lo stoicismo ha sempre rifiutato di opporre. In tutti questi casi, non si tratta dunque di rendere concreta una dottri­ na astratta e rigida, ma piuttosto di applicare nel modo più preciso possi­ bile una teoria formale e flessibile (cfr. lnwood, 1999 ), che tiene conto nei suoi stessi principi delle circostanze particolari e propone delle regole di condotta per evitare il relativismo. La dottrina delle quattro parti o ruoli (personae), presentata da Cicerone ( Off. I 107-n5) e risalente certamente a Panezio, specifica così i quattro fattori da prendere in considerazione per determinare ciò che conviene, in particolare la scelta di un genere di vita: - la natura razionale comune a tutti gli uomini, che è il principio ultimo della moralità, il criterio per scoprire il conveniente ; - il carattere e le qualità peculiari di ciascuno, che non devono essere tra­ scurati purché non si oppongano alla moralità; - gli effetti della fortuna e delle circostanze ; - la libera scelta di ciascuno. Non esiste dunque una sola buona maniera di agire che si impone a ogni uomo. Un'altra evoluzione abbastanza nota (grazie a Galeno) riguarda la psi­ cologia morale e la dottrina delle passioni di Posidonio•3• Quest 'ultimo

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riteneva che Crisippo, sostenendo che la passione è un giudizio irrazionale generato dalla parte direttiva dell'anima, non fosse riuscito a fornire una vera spiegazione delle passioni. La "causà' o l'origine di questa ritorsione della ragione contro sé stessa non era a suo avviso spiegata dall'analisi di Crisippo (Galeno, De plac. Hipp. et Plat. IV 377, F 34 B Edelstein-Kidd)14, a cui facevano comunque da ostacolo alcuni fatti psicologici come l' inde­ bolimento delle passioni nel tempo malgrado la persistenza dell'opinione falsa che le ha prodotte. Posidonio riteneva dunque che non si potessero spiegare le passioni e le loro manifestazioni se non distinguendo nell'ani­ ma tre facoltà (ma non delle parti), ciascuna caratterizzata da una diversa affinità o appropriazione (oikeiosis) : nei confronti del piacere per il deside­ rio, nei confronti della vittoria per il thumos, nei confronti della moralità (to kalon) per la ragione. Posidonio si ispirava esplicitamente alla psicolo­ gia morale di Platone, sostenendo che il vizio non ha soltanto un'origine esterna alla natura umana e traendone conseguenze importanti in merito all'educazione morale e alla felicità. Queste ultime non risultavano più soltanto dalla critica delle opinioni correnti e dall'articolazione rigorosa delle nostre nozioni e dei nostri comportamenti naturali, ma esigevano anche una disciplina delle parti irrazionali dell'anima umana che, benché naturali, sono in comune con gli animali e non devono essere seguite dalla parte razionale e divina. Posidonio non pretendeva, per questo, di rom­ pere con il primo stoicismo, ma vedeva nelle tesi di Platone delle antici­ pazioni di quelle di Zenone e riteneva che Crisippo avesse interpretato in modo scorretto il pensiero di Zenone e di Cleante (cfr. Reydams-Schils, i.005, pp. 85- 1 1 6 ; Tieleman, 2.003, pp. 19 8-i.88 sui rapporti di Posidonio con Platone e Zenone). Un altro ambito in cui Posidonio si è particolarmente distinto è quello delle scienze, specialmente matematiche, e dei loro rapporti con la filo­ sofia. Non bisogna sottovalutare l' importanza delle scienze per i primi stoici. A dispetto della critica del ciclo degli studi (enkuklion paideia) da parte di Zenone o Aristone (Diogene Laerzio VII 3i. 79 ), l'astronomia ha sempre ricoperto un ruolo importante nella fisica stoica (Bénatoull, i.005) e Crisippo pretendeva di risolvere il dilemma del cono posto da Democri­ to (Plutarco, De comm. not. 1079e). Senza dubbio nel medesimo spirito di difesa del rigore della geometria, ma in modo molto più tecnico e preciso, Posidonio aveva rifiutato le obiezioni dell'epicureo Zenone di Sidone con­ tro alcune dimostrazioni euclidee (Proclo, In primum Euclidis Elemento­ rum librum p. i.oo, i.-3 Friedlein; i.14 15-i.18 1 1, F 46-47 Edelstein-Kidd).

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STORI A D ELLA F I L O S O F I A ANT ICA

Ma ciò che lo distingue è laver intrapreso delle vere e proprie ricerche scientifiche. In astronomia e in geografia, è stata già menzionata la rela­ zione da lui istituita tra le maree e il ciclo lunare, e si possono anche citare i suoi metodi per misurare la circonferenza della Terra o il diametro del sole. Nel suo Sull'oceano, egli aveva proposto anche una divisione geome­ trica della Terra in zone che permetteva di spiegare le differenze di clima e di altri fenomeni (Strabone II 2-3 F 49 Edelstein-Kidd). Posidonio aveva inoltre scritto una Storia in 52 libri, incentrata sul mondo mediterraneo dal 146 all' inizio del I secolo a.C., in cui descriveva non soltanto l' insieme degli avvenimenti politici e militari, sulla scia di Polibio, ma anche gli usi e i costumi di numerosi popoli, inclusi i Galli e alcune popolazioni nor­ diche. Tali lavori sono di grande importanza scientifica, sia sul piano teori­ co che empirico, dal momento che Posidonio aveva effettuato in prima persona numerose osservazioni astronomiche, geografiche o etnografiche nel corso dei suoi viaggi. Tale preoccupazione di osservare e spiegare dei fatti si ritrova d'altra parte nel dibattito con Crisippo sulle passioni. Reci­ procamente, le ricerche scientifiche non erano per Posidonio indipendenti dalla filosofia. La Storia aveva così una forte dimensione etica. Dopo aver descritto, ad esempio, i giacimenti d'oro di facile accesso in alcune regioni e latteggiamento dei vari popoli nei confronti dei metalli preziosi - come quello di una tribù di Celti che aveva proibito loro sul suo territorio - Po­ sidonio spiegava che i veri responsabili dei problemi di questa tribù erano i vizi umani e non l'oro in sé (Ateneo, Deipnosophistai VI 23 233a-234c, F 24oa Edelstein-Kidd), illustrando così la sua concezione stoica del rap­ porto tra vizi e indifferenti. Quanto allo studio dei fenomeni celesti, egli subordinava lastronomia, in particolare matematica, alla filosofia natura­ le, che sola è capace di conoscere la natura degli oggetti celesti e dunque di determinare le cause delle loro forme o dei loro movimenti descritti dall' a­ stronomia. L'astronomia deve dunque trarre i suoi principi dalla filosofia (Simplicio, In Phys. pp. 291-292 Diels, F 18 Edelstein-Kidd)'S, una posizio­ ne che era certamente già dei primi stoici ma che richiama anche Platone (Resp. VII 529d-53oc). Questo interesse degli stoici di fine epoca ellenistica per Platone, per le scienze o per i problemi morali della vita politica, economica o familiare è senza alcun dubbio una delle ragioni dell' influenza discreta ma durevole di alcuni argomenti o concetti logici, fisici ed etici degli stoici sia nella cultura (letteraria, storica, politica o legale) romana, a partire dal I secolo

LO STO I C I S M O ELLEN I S T I C O

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a.C. (cfr. Colish, 1990 ), sia nella rinascita filosofica del platonismo d a An­ tioco di Ascalona a Plotino (cfr. Bonazzi, i.015a). Ciò non significa tuttavia che lo stoicismo abbia perduto la sua specificità a partire dal I secolo d.C., come mostra l'adesione ai principi fondamentali di Zenone e Crisippo da parte di stoici di epoca imperiale come Lucio Anneo Cornuto o Epitteto, che continuano a difendere questi principi contro le scuole rivali (epicu­ reismo e scetticismo, ma anche aristotelismo e platonismo), anche quando si preoccupano in prima istanza dell'applicazione pratica dei risultati della fisica, dell'etica e della logica stoiche (cfr. in proposito VOL. IV, CAP. 4 sullo stoicismo imperiale).

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Accademia ellenistica di Mauro Bonazzi

Platonismo e scetticismo ?

Il 13 giugno 32.3 a.C., nel pieno di una campagna militare destinata a di­ ventare leggendaria, Alessandro Magno morì'. Questa data segna conven­ zionalmente l' inizio di una nuova epoca nel mondo greco : si entra nei secoli dell 'ellenismo (323/322 a.C.-31 a.C.; cfr. CAP. 1). Indubbiamente, la fulminea conquista del nemico di sempre, quell ' Impero persiano che si estendeva fino ai confini del mondo conosciuto, cambiò radicalmente gli assetti istituzionali e le pratiche di vita del mondo greco : a contare non saranno più le singole città (poleis) ma regni e monarchie in cui i Greci si mescolavano con altre popolazioni. Come tutti, anche la filosofia sarebbe stata profondamente influenzata da queste trasformazioni e dal bisogno di trovare risposte a nuovi interrogativi: sicuramente eccessiva, l'afferma­ zione di Bevan per cui lo stoicismo « sarebbe un sistema costruito d' impe­ to per venire incontro a un mondo disorientato» non manca comunque di una sua verità (Bevan, 1913, p. 32). Nel caso della tradizione platonica, però, si sarebbe dovuto aspettare ancora qualche decennio per assistere a una vera novità - una novità di certo non paragonabile alle conquiste di Alessandro, ma che pone una serie di questioni davvero rilevanti nella storia del platonismo e più in generale della filosofia. Tra il 268 e il 264 a.C. (le fonti non ci permettono di essere più precisi) morì il diadoco Cratere. Inizialmente fu eletto un personaggio altrimenti sconosciuto, Socratide, che però rifiutò l' incarico : al suo posto divenne così diadoco Arcesilao di Pitane. E con lui lo scetticismo fece il suo ingres­ so nell'Accademia: fino all' inizio del I secolo a.C., per tutti i secoli dell'età ellenistica dunque, l'Accademia sarebbe stata la scuola dello scetticismo. Se si considera l'insegnamento dei predecessori, e ancora di più se si pensa al platonismo sistematico dei secoli imperiali, la novità non è certo

STORIA D ELLA FI LO SO FI A ANT I C A

di poco conto e spiega così la sorpresa, i dubbi e le esitazioni di molti, nonché la tendenza a considerare l'Accademia ellenistica come una sorta di parentesi che poco o nulla ha a che fare con la filosofia di Platone e la tradizione che da lui aveva presso le mosse. Già nell'antichità le polemiche furono accese, e vanno dall'accusa di nascondersi dietro il nome di Plato­ ne a quella ben più grave di tradimento e defezione. In un mondo ormai completamente diverso da quello ellenistico, Proclo avrebbe infine parlato della fase scettica come dei secoli bui del platonismo, sancendo con la sua autorità l' idea di un' incompatibilità tra Platone (e il platonismo) e l'Acca­ demia scettica (Proclo, 1heol. plat. I 1 ; su queste polemiche, cfr. Bonazzi, 2.003). Di fatto questa è l' idea che si sarebbe imposta nel corso dei secoli: si potrà rivalutare l'esperienza dello scetticismo greco (si pensi ad esempio alla riscoperta di Cicerone in epoca rinascimentale o a Michel de Mon­ taigne e David Hume, solo per fare qualche nome) ma solo raramente si prenderà in considerazione il legame con Platone. Ma non si tratta forse di una conclusione affrettata ? Come vedremo, da Arcesilao a Filone, numerose testimonianze ci informano del desiderio da parte di questi pensatori di rivendicare un legame con l'eredità platonica: anche di questi dati bisogna tenere conto per una corretta valutazione del­ lo scetticismo accademico. Prima di tentare una risposta a questo spinoso problema converrà dunque analizzare dettagliatamente le informazioni di cui disponiamo'.

L'Accademia in epoca ellenistica

« "Carneade ! Chi era costui ?" - ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aper­ to sul davanti, quando Perpetua entrò a portargli l' imbasciata. "Carneade ! questo nome mi par bene d'averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico : è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui ?"» (A. Manzoni, Ipromessi sposi, cap. vm ) . La domanda di don Abbondio è indicativa della scarsa fortuna di cui i filosofi dell'Accademia ellenistica hanno goduto fuori dei circoli specialistici e segna un netto con­ trappasso rispetto alla loro epoca, quando il successo delle loro polemiche li rese figure di spicco nel panorama intellettuale delle scuole ateniesi, come persino Numenio, uno dei più accaniti detrattori, era stato costretto a rico­ noscere (fr. 27, 4 4 des Places) : « Ogni idea di Carneade trionfava » .

ACCADEMIA ELLENISTICA

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Proprio Carneade è stato uno dei filosofi d i maggior successo nel mon­ do antico, ed è proprio nei secoli ellenistici che l'Accademia ha raggiunto lapice della sua importanza. Prima di procedere a un'analisi delle posizio­ ni filosofiche conviene dunque procedere a una breve presentazione delle figure di maggior rilievo3• Come già accennato, il primo pensatore degno di rilievo fu Arcesilao di Pitane, scolarca per più di un ventennio, dal 268/264 al 241/240 a.C. Nato a Pitane in Eolide alla fine del IV secolo a.C., dopo aver studiato matematica e aver frequentato le lezioni nel Peripato con Teofrasto, passò nell'Accademia di Polemone, Crantore e Cratete, in un momento in cui particolare attenzione era attribuita alle discussioni di carattere morale. Diversamente da costoro, Arcesilao iniziò invece una serrata polemica contro la scuola stoica, che stava al tempo conquistando sempre maggiore importanza. Le sue discussioni con Zenone sulla possibilità della cono­ scenza e sulle motivazioni dell'azione umana inaugurarono uno dei mo­ menti più brillanti nella storia della filosofia antica, destinato a impegnare le intelligenze dei principali filosofi nei secoli a venire. Gli stoici infatti non rimasero inerti, ma approfittarono di questi at­ tacchi per rifinire le loro dottrine e ribatterono punto su punto alle cri­ tiche di Arcesilao. Particolarmente importante in questo dibattito fu il terzo diadoco della scuola, quel Crisippo di Soli il cui contributo a una sistematizzazione del pensiero stoico fu tale da dare origine al detto che « senza Crisippo non ci sarebbe stata la Stoa » . E « senza Crisippo non ci sarei stato neppure io » , replicò Carneade ( Diogene Lerzio IV 62) : il secondo grande filosofo dell'Accademia ellenistica è Carneade di Cirene, che nel confronto serrato con le dottrine stoiche avrebbe dato prova di una sottilissima intelligenza filosofica, facendo conquistare all'Accademia una posizione di assoluta centralità nel panorama delle scuole ateniesi. Nato intorno al 214/21 3 a.C. e divenuto diadoco intorno al 170 a.C., Carneade è celebre anche per l'ambasceria a Roma del 155 a.C. che condusse insieme ad altri due filosofi, lo stoico Diogene di Babilonia e il peripatetico Crito­ lao di Faselide : tenne due conferenze successive, esaltando il primo giorno la giustizia e criticandola il secondo, di fronte a una folla entusiasta di gio­ vani. Catone in persona si preoccupò che fosse subito espulso. Rinunciò allo scolarcato nel 137 /136 per motivi di salute e morì nel 129 a.C. Al tempo di Carneade l'Accademia raggiunse lapogeo costituendosi come la scuola più autorevole, dentro e fuori Atene. Del suo avversario principale, lo stoico Antipatro di Tarso, si racconta che, incapace di fron-

STORIA DELLA F I L O S O FIA ANT ICA

teggiare 1 'accademico a viso aperto, si limitasse a scrivere libri polemici, meritandosi il soprannome di kalamoboas, «penna urlante » (Plutarco, De garr. 5 1 4c-d). Alla sua morte l'autorità di Carneade crebbe al punto che, caso più unico che raro, 1' attenzione degli accademici si concentrò sull' interpretazione delle sue idee prima ancora che di quelle di Socrate e Platone4• In effetti, la sottigliezza delle argomentazioni carneadee rendeva sfuggente la sua posizione: Clitomaco, nato a Cartagine nel 187 /186 a.C. e scolarca dal 127/12.6 all'anno della morte nel 1 10/109 a.C., scrisse quat­ trocento libri su di lui per poi ammettere che non era sicuro di aver colto il senso ultimo del suo insegnamento. Sostanzialmente, due sono le princi­ pali interpretazioni di Carneade elaborate dai suoi allievi: la prima è quella del già citato Clitomaco, in difesa di un'adozione sistematica e radicale dello scetticismo ; nel corso del tempo si guadagnò progressivi consensi una lettura più moderata e non priva di interesse (anche in relazione allo spinoso problema del rapporto con Platone, su cui si tornerà alla fine). Ela­ borata inizialmente da Metrodoro di Stratonicea, questa linea divenne poi quella ufficiale quando fu sposata da Filone di Larissa, l'ultimo diadoco dell'Accademia (1 10/109-84/83 a.C.). Queste sono le figure di maggior rilievo, ma le fonti ci informano di molti altri accademici, e non mancano notizie di tensioni, discussioni e persino secessioni I. Le classificazioni antiche, che parlano di tre (1' antica di Platone, la media di Arcesilao, la nuova di Carneade) o anche cinque Accademie (aggiungendo Filone e Antioco)6, rivelano che già i contem­ poranei erano consapevoli di queste tensioni interne e costituiscono un ulteriore motivo di conferma della grande vivacità di questa istituzio­ ne nel corso dei secoli ellenistici. Una vivacità che avrebbe segnato più in generale anche la vita culturale e politica della città di Atene : si è già fatto cenno all'ambasciata del 155, quando Carneade riportò un grande successo per Atene, riuscendo a convincere il senato romano ad abolire una multa di 150 talenti per aver saccheggiato la città di Oropo. Proba­ bilmente anche per questo, oltre che per i suoi meriti intellettuali, gli fu dedicata una statua onoraria nell ' agora (su questa statua cfr. Zanker, 1995, trad. it. pp. 2.04-6). Ma i rapporti non furono sempre idilliaci, se è vero che nel 306 a.C., su proposta di Sofocle del Sunio, ad Atene si era votata una legge che impediva 1' insegnamento ai filosofi. La legge fu però abolita 1' anno successivo : 1' importanza anche economica delle scuole filosofiche non poteva più essere sottovalutata. Non stupisce che nel 12.4/Ii.3 le tre scuole (accademica, epicurea e stoica) furono riconosciute ufficialmente come centri educativi.

ACCADEMIA ELLENISTICA

Per il lettore interessato questa è la sequenza esatta dei diadochi dell'Ac­ cademia in epoca ellenistica: Arcesilao di Pitane (26 8/264-241/240 a.C. ) ; Lacide di Cirene (241/240-226/225 a.C. ) ; Telecle ed Evandro di Focea ed Egesino di Pergamo (226/225-167/166 a.C. ) ; Carneade di Cirene (167/166-137/ 136 a.C. ) ; Carneade figlio di Polemarco (137/136-131/130 a.C. ) ; Cratete di Tarso (131/130-127/126 a.C. ) ; Clitomaco di Cartagine (127/126-110/109 a.C. ) ; Filone di Larissa ( 1 10/109-84/83 a.C. ) . Purtroppo numerose sono le lacune che ci impediscono di conoscere con precisio­ ne le tesi e le posizioni sostenute da questi autori: i due personaggi più autorevoli, Arcesilao e Carneade, non hanno scritto e le opere degli altri sono andate perdute. Fortunatamente però non mancano testimonianze autorevoli, a partire da Cicerone e Sesto Empirico. Il primo, convinto di­ fensore delle tesi accademiche, si preoccupò di spiegarle a un pubblico ro­ mano potenzialmente ostile alle sottigliezze degli scettici ( fondamentale per Cicerone è Lévy, 1992); il secondo, un convinto avversario, si sforzò di mostrare perché le tesi accademiche non potessero essere intese come au­ tenticamente scettiche ( su Sesto e l'Accademia, cfr. Spinelli, 2000; loppo­ lo, 2009 ). In entrambi i casi il risultato fu un'analisi precisa ed esauriente che ancora oggi ci permette di ricostruire gran parte delle tesi di Arcesilao, Carneade e Filone in modo attendibile. Non meno importanti, per quan­ to riguarda le informazioni biografiche, sono le Vite deifilosofi di Dioge­ ne Laerzio ( che nel IV libro ci informa su Arcesilao, Lacide, Carneade e Clitomaco ) e il cosiddetto Indice degli Accademici dell'epicureo Filodemo di Gadara ( parte di un'opera più estesa sulle scuole ellenistiche, costitui­ sce uno strumento fondamentale per ricostruire la storia dell'Accademia ellenistica) ; e altri autori ancora, per quanto polemici ( Numenio ) o co­ munque non sempre affidabili ( Plutarco, Agostino ) aiutano poi a chiarire ulteriormente i problemi in discussione.

Il discorso sul metodo : discussioni socratiche, dialettica accademica

Come appena osservato, Arcesilao e Carneade non scrissero nulla. In tutta probabilità si trattava di una scelta tesa a rivendicare un legame privile­ giato con il magistero di Socrate, in un momento in cui anche altri, gli stoici ma anche i cinici, cercavano di riappropriarsi della sua eredità. E a

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ulteriore conferma dell' importanza di Socrate vale anche l'attenzione per la dialettica e l' impegno con cui i due scolarchi definirono le loro strategie argomentative. Il problema è in effetti fondamentale quando non si di­ sponga di dottrine proprie ma si ritenga come proprio compito principale quello di verificare la tenuta e la validità di tesi altrui: così era stato per Socrate e così sarebbe stato per Arcesilao e Carneade. Le motivazioni di base non si tradussero però in un' identità di metodi. Il caso di Arcesilao, che presentava il proprio metodo nei termini di una ripresa della celebre confutazione socratica (Cicerone, De.finibus I I 1-2 ), è a questo proposito molto significativo. Pur rivendicando il legame con So­ crate, Arcesilao si era anche affrettato a prendere le distanze dalla celebre professione socratica di ignoranza osservando che la stessa affermazione di sapere di non sapere rischiava di far cadere in una forma di dogmatismo che avrebbe ostacolato la vera ricerca (Cicerone, Vàrro 45). Questa presa di distanza, che presentava in modo fin troppo schematico la posizione di Socrate, è un primo esempio di un'esigenza di maggior rigore e anche di maggior formalismo che avrebbe caratterizzato le discussioni ellenistiche. Un secondo esempio è probabilmente la messa a punto della discussio­ ne in utramque partem. Socrate si limitava a chiedere all' interlocutore di esporre la sua posizione per poi mostrare che questa posizione era incom­ patibile con altre opinioni sostenute dallo stesso interlocutore. Arcesilao aveva invece l'abitudine di invitare l' interlocutore a esporre la sua tesi per poi contrapporgli la tesi contraria; gli permetteva poi di difendere una seconda volta la stessa tesi e una seconda volta controbatteva (Cicerone, Vàrro 46; Diogene Laerzio IV 28). Ancora più raffinato era infine lo stile argomentativo di Carneade, che esponeva in prima persona argomenti a favore e contro una data tesi (i due discorsi tenuti a Roma sulla giustizia sono l'esempio più celebre). Socrate riusciva a mostrare la confusione in cui versava il suo interlocutore ma non si poteva escludere che una delle tesi sostenute potesse essere corretta; con Arcesilao e Carneade il risulta­ to a cui l' interlocutore era inesorabilmente condannato era invece la so­ spensione del giudizio, e l'unico problema che resta da chiarire è se questa conclusione valesse anche per i due accademici o no (torneremo su questo punto più avanti). Indubbiamente discutere con i colleghi richiedeva l'a­ dozione di tecniche più rigorose di quelle che erano servite a Socrate per rivelare ai suoi concittadini le contraddizioni che si annidavano nelle loro credenze.

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Il dibattito sulla conoscenza

Come si è appena osservato, la ripresa di una posizione socratica, in cui quello che contava era 1' indagine delle tesi altrui senza pretese di cono­ scenza propria, rendeva necessario individuare chi potesse essere un degno oggetto di confronto, vale a dire che sembrava essere in possesso di solu­ zioni convincenti. Ma trovare simili interlocutori, nel mondo delle scuole ellenistiche, non era un problema: già Epicuro e i suoi allievi pretendevano di aver trovato una soluzione al problema della conoscenza, e ancora più convinte erano le prese di posizione degli stoici. Fu dunque rapportandosi alle dottrine di queste scuole, e in particolare di quella stoica, che gli acca­ demici svilupparono le loro ricerche. Secondo gli stoici la conoscenza si forma sulla base di impressioni, ma non di tutte le impressioni indiscriminatamente: essi ritenevano di poter isolare alcune impressioni diverse dalle altre perché in grado di rappresen­ tare in modo fedele 1' oggetto percepito e soltanto quello7• Queste sono le rappresentazioni catalettiche o comprensive (phantasiai kataleptikai; cfr. ad esempio Diogene Laerzio VII 50; Sesto Empirico, Adv. Math. VII 247252). La conoscenza (katalepsis) altro non è che l'assenso a questo tipo di rappresentazioni (Adv. Math. VII 397 e 151); 1' insieme di queste conoscenze certe avrebbe poi costituito la base della scienza (episteme; Cicerone, Luc. 145 ; Giovanni Stobeo, Anth. II 73 16): con un' incisiva metafora Zenone aveva paragonato la rappresentazione catalettica a una mano aperta, 1' as­ senso alla mano piegata, 1' apprensione vera e propria al pugno chiuso e la conoscenza a due mani chiuse una nell'altra (Cicerone, Luc. 145). Anche soltanto da questa breve presentazione si può ricavare 1' impor­ tanza della rappresentazione catalettica, il fondamento ultimo di tutta la gnoseologia stoica. Non dovrebbe dunque sorprendere che la messa a pun­ to di una definizione precisa di questo tipo di rappresentazioni costituisse un compito decisivo per i filosofi della Stoa. Una rappresentazione si può definire "catalettica" se 1. deriva da un oggetto esistente, 2. riproduce que­ sto oggetto in modo esatto e 3. è tale da non poter derivare da un oggetto che non esiste (cfr. ad esempio Diogene Laerzio VII 50; Sesto Empirico, Adv. Math. VII 248; Cicerone, Luc. 77 ). In altri termini, a una rappresen­ tazione catalettica per essere tale occorrono due requisiti fondamentali: non solo deve provenire da un oggetto realmente esistente, ma lo deve ri­ produrre in modo esatto, chiaro e accurato. Ma se questi due requisiti po­ tevano essere soddisfatti dalle prime due clausole della definizione stoica, è

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con la terza che si comprende il significato di fondo della rappresentazione catalettica, la realtà dell'oggetto e la conformità ad esso: soltanto oggetti reali in quanto realmente esistenti possiedono quella chiarezza e quella accuratezza capaci di produrre una rappresentazione vera. "Catalettiche" sono quelle rappresentazioni capaci da un lato di "afferrare" l'oggetto (Cicerone, Ac. 41) e dall'altro di impadronirsi del soggetto trascinando­ lo all'assenso (Sesto Empirico, Adv. Math. VII i.57)8• Nella gnoseologia stoica ciò che realmente importa è individuare una classe di impressioni in grado di rappresentare realmente loggetto percepito, come se si trattasse di messaggeri veritieri. Il punto centrale della teoria stoica consiste dunque nella possibilità di individuare "rappresentazioni catalettiche"; questa è la condicio sine qua non per il conseguimento della conoscenza, ed è proprio su questo punto che gli accademici indirizzarono le loro critiche principali9: le rap­ presentazioni non sono tali da escludere che vi siano impressioni false corrispondenti a quelle vere e identiche dal punto di vista qualitativo (cfr. Cicerone, Luc. 78). Per dimostrare questo assunto gli accademici ricorre­ vano a diverse argomentazioni che si potrebbero riassumere in due grup­ pi fondamentali: da un lato c 'è l'esempio di gemelli identici, di monete provenienti dallo stesso conio o delle uova, oggetti diversi che produce­ vano comunque la medesima impressione ; dall'altro c 'era invece il caso di allucinazioni e illusioni, rappresentazioni che provenivano da ciò che non esiste, ma capaci di indurre all'assenso con la stessa forza delle rap­ presentazioni catalettiche. Il punto centrale della critica degli accademici non contesta l'esistenza di rappresentazioni vere, ma la possibilità di di­ stinguere impressioni vere (rappresentazioni catalettiche) da impressioni non vere (rappresentazioni non catalettiche). Per riprendere una metafo­ ra già impiegata, non siamo in grado di individuare tra tanti messaggeri quelli attendibili (Sesto Empirico, Adv. Math. VII 163). Questa discussio­ ne può essere schematicamente rappresentata nel modo seguente ( Cice­ rone, Luc. 40-42., 77 ) : 1 . alcune impressioni sono vere alcune sono false; i.. le impressioni false non possono essere conosciute ; 3. ogni impressione vera è tale da ammettere un' impressione corrispon­ dente falsa ma qualitativamente identica; 4. ma se due impressioni non differiscono dal punto di vista qualitativo, non si può contemplare il caso che una possa essere conosciuta e laltra no ; 5. dunque niente può essere conosciuto.

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Il risultato è I' akatalepsia, la confutazione della pretesa stoica che vi sia qualcosa di catalettico: se non è possibile identificare rappresentazioni catalettiche, non sarà possibile neppure conseguire la conoscenza, visto che questa è data dall'assenso a una rappresentazione catalettica. Non si contesta dunque lesistenza di rappresentazioni conformi al proprio og­ getto, ma la possibilità di riconoscere tali rappresentazioni con assoluta certezza10• D'altro canto gli stoici avevano anche affermato che tratto peculiare del saggio era l'assenso dato alle sole rappresentazioni catalettiche, pena la caduta nell'opinione, nella doxa (Cicerone, Luc. 66-68): 6. se il saggio assente a un' impressione non vera, cadrà nell'opinione; 7. ma il saggio non cade mai nell'opinione; 8. dunque il saggio non assentirà mai a nulla, sospenderà lassenso (epoche). L' epoche, la sospensione del giudizio, il secondo termine chiave del vocabolario accademico, deriva dal!' impossibilità di circoscrivere impres­ sioni vere e dall'esigenza di evitare l'errore: è l'esito a cui gli stoici sono condannati se vogliono rimanere coerenti con i loro assunti di partenza. Questa era la conclusione prospettata da Arcesilao, che lasciava aperta al­ meno una via di fuga per lo stoico, invitandolo a diventare uno scettico, vale a dire a sospendere il giudizio e a continuare nella ricerca (skepsis). Come vedremo, Carneade radicalizzò ulteriormente lo scontro afferman­ do che era impossibile non avere opinioni (Cicerone, Luc. 67; cfr. anche 59 e 7 8 ) . Indubbiamente, le argomentazioni accademiche non mancano di spunti interessanti e rivelano una notevole sottigliezza. A una prima let­ tura, in effetti, linsistenza su casi particolari e patologici potrebbe sem­ brare forzata. Ma in realtà agli accademici non mancavano buone ragioni, e il problema di fondo della loro posizione è chiaro. Nel confronto tra l'Accademia e il Portico loggetto ultimo del contendere è determinato dal realismo ordinario della sensazione, tipico di una filosofia come quella stoica che non ha mai voluto rinunciare al comune modo di pensare, a cui si contrappone invece l'Accademia erede del platonismo, per la quale la valutazione della conoscenza non deve sopravvalutare la fiducia spontanea che si prova nei confronti delle proprie sensazioni (cfr. Lévy, 1 9 9 7, trad. it. pp. 1 8 3 -4 ) . Quelle che possono sembrare rappresentazioni aberranti o stati patologici rivelano in realtà una caratteristica costante del nostro modo di rapportarci al mondo, l' impossibilità di distinguere la rappresentazione dall'oggetto che l'ha prodotta. A differenza della luce che rivela sé stessa e

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gli oggetti che si trovano in essa, noi non abbiamo alcun modo di proce­ dere a un confronto tra la rappresentazione e la realtà esterna (Sesto Em­ pirico, Adv. Math. VII 163), ed è per questo che l'unica soluzione coerente rimane la sospensione del giudizio dello scettico. Il problema che resta da chiarire è dunque quello di stabilire se le ar­ gomentazioni di Arcesilao e Carneade vadano intese in senso solo dialet­ tico o possano essere assunte anche come prese di posizione personali. Su questo la critica discute animatamente e una soluzione condivisa non è ancora stata raggiunta". Indubbiamente, la componente dialettica è prio­ ritaria, nel senso che è appoggiandosi sulle tesi degli avversari stoici che gli accademici hanno elaborato le loro tesi dell' akatalepsia e dell' epoche. Ma da quanto si è appena osservato a proposito della valutazione com­ plessiva della sensazione e dei suoi limiti, non va escluso che tanto Arce­ silao quanto Carneade adottassero poi la conclusione scettica come una posizione personale : come la sola posizione che si attagliasse al desiderio di conoscere tipico del vero saggio. Il saggio accademico è chi, senza cede­ re a facili ed erronee scorciatoie, prosegue instancabilmente nella ricerca. Come ha giustamente osservato von Arnim ( 1 8 9 5 , p. u 6 6 ) , « il tratto ca­ ratteristico della saggezza non è il possesso della conoscenza, ma la libertà dall'errore » .

Conoscenza, opinione e azione

Risolto in termini negativi il problema della conoscenza (non essendo possibile individuare impressioni vere neppure è possibile raggiungere la conoscenza), resta da chiarire la questione dell'opinione: come abbiamo appena visto, la sospensione dell'assenso (epoche) serviva proprio per evi­ tare di cadere nell'opinione. Ma Carneade aveva anche sostenuto che è impossibile non aver opinioni. Come valutare questa affermazione ? La posizione di Carneade acquista piena intelligibilità in risposta all'accusa di apraxia, l'accusa di rendere la vita impossibile, che gli stoi­ ci e altri avversari avevano mosso contro gli accademici (Plutarco, Adv. Col. uo8d e uo9c-d; Diogene Laerzio IX 104; Cicerone, Luc. 3 1 e 99 ). Gli scettici pretendono che niente sia conoscibile e rifiutano di prende­ re posizione sulla verità di qualsivoglia affermazione ; ma allora gli esseri umani come potranno vivere ? Se niente può essere conosciuto, ci verran­ no a mancare dei criteri per porci in relazione con la realtà circostante e

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per decidere cosa fare. La sospensione dell'assenso preclude ogni genere di scelte o di decisioni, e condanna lo scettico a una sorta di paralisi in­ tellettuale e pratica: le tesi dell' akatalepsia e dell' epoche di fatto rendo­ no impossibile la vita, pietrificano come la Gorgone (Plutarco, Adv. Col. I I2.2.a) ". E d'altro canto, perché mai lo scettico invece di sbattere contro le pareti passa attraverso le porte ( I I 2.2.e) ? Perché non cade nei pozzi e nei precipizi ? Gli scettici si smentiscono da soli nella misura stessa in cui le loro tesi non impediscono loro di agire concretamente nella vita di tutti i giorni. Se non conducono all' inazione, akatalepsia ed epoche vengono semplicemente accantonate. La reazione degli accademici non si fece attendere. Una prima rispo­ sta si ha grazie alla teoria del ragionevole (eulogon) di Arcesilao (Sesto Empirico, Adv. Math. VII 1 58; Plutarco, Adv. Col. I I 2.2.a-d). Contro gli stoici, l'accademico aveva prima di tutto osservato che per agire non ser­ ve essere provvisti di una conoscenza certa, perché basta l' impulso su­ scitato da una qualsivoglia rappresentazione. Di più, il sapere infallibile non serve neppure per un'azione corretta, perché in quel caso basta la capacità di compiere consapevolmente azioni che possono essere giusti­ ficate a posteriori, azioni ragionevoli insomma'3. Proseguendo lungo il percorso inaugurato dal suo predecessore, Carneade replicò a sua volta alle critiche degli avversari, introducendo nuovi concetti che avrebbero contribuito ad approfondire ulteriormente le potenzialità dello scettici­ smo accademico. Benché non si possa mai essere sicuri della veridicità di un' impressione (questo è il senso dell'akatalepsia), niente impedisce di seguire quelle impressioni che risultino persuasive (pithana), che non si contraddicano vicendevolmente e che siano state valutate con attenzione (Sesto Empirico, Adv. Math. VII 166-189 ) 14• Il saggio non deve assentire a niente, ma segue ciò che risulta convincente e persuasivo : rimanendo precluso l'assenso (per via dell' akatalepsia ), si apre la possibilità di ap­ provare (probare) ciò che risulta persuasivo (pithanon, in latino probabile, un termine da intendere con grande cautela, per evitare letture anacro­ nistiche : il termine greco significa infatti "verosimile" o "persuasivo"). Lo scetticismo di Carneade permette di trovare un criterio anche in un contesto segnato dall' inconoscibilità del tutto. Non si tratta di assenso dunque, ma di approvazione (in generale, su questa distinzione e sulla sua validità d'uso, cfr. Bete, 1990; loppolo, 2007): «E per poter pensare che a chi si astiene dall'assenso in merito a tutte le cose non viene comunque inibito il compimento di un moto o di un'azione, ammise l'esistenza di

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certe rappresentazioni siffatte per mezzo delle quali siamo spinti ad agire, e parimenti di certe altre che, quando siamo interrogati, ci permettono di dare una risposta in un senso o nell 'altro, attenendosi esclusivamente a ciò che ci è parso, senza dare tuttavia il nostro assenso. Ciò non vuol co­ munque dire che si dia l'approvazione a tutte le rappresentazioni siffatte, ma solo a quelle che non sono soggette ad alcun impedimento » ( Cicero­ ne, Luc. 104; trad. Russo, 1978). Sospendere il giudizio su un' impressione non significa mantenere un atteggiamento di totale indifferenza nei confronti di essa, perché c 'è un tipo di reazione nei confronti delle impressioni che evita gli estremi di un assenso dogmatico e di una totale indifferenza: seguire (sequi, adpro­ bari) ciò che convince, ciò che è persuasivo (pithanon, in latino proba­ bile), valutando le impressioni sulla base del loro grado di persuasività (pithanothes), ma senza compromettersi in asserzioni dogmatiche sulla loro veridicità. D 'altronde già gli stoici avevano osservato (Cicerone, Ac. 40-41) che noi possiamo avere rappresentazioni senza ritenerle vere, ammettendo che si può distinguere tra l'accettazione di un' impressio­ ne come vera e il mero avere un' impressione causata da fattori esterni al nostro controllo (Cicerone, Luc. 145; Sesto Empirico, Adv. Math. VIII 397 ). Applicando questa distinzione, Carneade poteva così difendere la tesi che si poteva decidere di compiere un'azione senza considerare vera l' impressione che la causava, dimostrando in più che si trattava di un'a­ zione volontaria: l'uomo che scappa da una presunta imboscata non ha bisogno di credere che vi fosse necessariamente un' imboscata, né che fos­ se giusto per lui scappare via - la sua azione era provocata dal sospetto che ci sarebbe potuta essere un' imboscata, e lui ha agito senza tenere conto dei dubbi se dovesse scappare o no (Adv. Math. VII 1 8 6 ) 11• Relativamente all'accusa di apraxia, lo scettico non renderà la vita impossibile, ma al contrario si comporterà come tutti gli altri, senza compromettersi con affermazioni dogmatiche su cose oscure. E visto che per gli stoici opinare altro non è che accettare opinioni non vere (opinioni la cui veridicità non sia dimostrabile), Carneade non solo riusciva a descrivere il modo in cui si comportano gli uomini, ma costringeva gli stoici ad ammettere che anche il saggio deve opinare se vuole vivere'6• Anzi, come già aveva rilevato Ar­ cesilao, è proprio rinunciando alle proprie pretese conoscitive che si potrà vivere in modo da avere successo ed essere felice ( vII 158).

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Altre polemiche con gli stoici : la libertà e il destino, gli dei e l 'etica

Il dibattito sulla conoscenza, sulle sue condizioni di possibilità e sui suoi limiti, costituisce uno dei momenti di maggiore interesse della filosofia ellenistica. Ma non è certo il solo ambito di confronto, perché non c 'è questione o dottrina su cui accademici e stoici non abbiano polemizzato, dando spesso prova di grande acume e originalità. Senza pretendere di esaurire tutti gli argomenti, si renderà conto qui di seguito dei più inte­ ressanti. Prevedibilmente, fin da Arcesilao, un obiettivo privilegiato degli at­ tacchi accademici fu una delle dottrine più celebri e controverse dello stoicismo, vale a dire la tesi per cui tutto era determinato dal destino. Il problema, per Zenone, era di conciliare questo determinismo con la re­ sponsabilità umana (se tutto è già determinato, nel senso che risponde a una catena di cause preordinata, non ha senso parlare di libertà e neppure tantomeno di responsabilità), ma la soluzione che aveva proposto era stata facilmente criticata dall'accademico : sostenere, come aveva fatto Zenone, che almeno l'assenso dipende da noi non è coerente perché « se tutto av­ viene a opera del fato, tutto avviene secondo una causa antecedente ; e se ciò vale per gli istinti, vale anche per ciò che segue l' istinto, gli assensi » ; dunque neppure gli assensi sono in nostro potere e non ha senso parlare di biasimi e lodi. Ma una simile conclusione appare davvero difficile da sostenere ed è dunque più ragionevole ritenere che « non tutto ciò che accade accade per opera del fato » (Cicerone, De fato 40; trad. Maso, 2014). Questo dibattito sarebbe poi continuato con Crisippo e Carneade raggiungendo picchi di grandissima sottigliezza, che avrebbero permesso ad esempio di distinguere tra necessità di ordine logico e necessità di or­ dine causale. Anche sul problema del determinismo, dunque, si registra una distanza di fondo tra stoici e accademici, che prelude a due concezioni diverse dell'uomo e della realtà. Con l'accusa di apraxia, gli stoici aveva­ no insinuato che gli accademici rendessero di fatto impossibile un'azione responsabile. Introducendo la nozione di eulogon e pithanon gli accademi­ ci avevano spiegato che anche in assenza di conoscenze certe si può agire consapevolmente ; e lavorando sulla nozione di fato avevano poi mostrato che era se mai la teoria stoica del destino a presentare l'azione umana come qualcosa di automatico e irrazionale.

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L'abilità dialettica e confutatoria di Carneade non risparmiò neppure le concezioni teologiche. Gli stoici avevano cercato di dimostrare l'esisten­ za di dio con un argomento teleologico, a partire dalla constatazione di un ordine e di una finalità nell'universo, e con una prova "per gradi", af­ fermando che dove ci sono esseri migliori di altri è necessario che esistano esseri migliori di tutti: gli dei. Contro la prima argomentazione Carneade riprese le teorie del peripatetico Stratone di Lampsaco secondo cui il mon­ do «potrebbe essersi creato da sé, per un processo naturale, senza alcun intervento divino e senza un fine naturale » (Chiesara, 2003, p. 82)17• Con­ tro la prova "per gradi" Carneade osservò invece che è impossibile stabilire cosa è migliore e cosa è peggiore, e soprattutto che supporre che ci siano esseri migliori di tutti non significa dimostrarne anche l'esistenza. Non meno distintive degli sforzi stoici di fondare razionalmente le cre­ denze tradizionali sugli dei erano la difesa del carattere provvidenzialista della divinità e il tentativo di conciliare la credenza nell'esistenza di un solo dio con il politeismo popolare, considerando gli dei della tradizione come attributi del solo dio. Non diversamente da Epicuro, Carneade aveva argomentato contro il provvidenzialismo sostenendo che esso era incom­ patibile con l'esistenza del male e dell' ingiustizia (a meno di non ammet­ tere che la divinità non si occupava degli uomini o che era troppo debole per contrastare il male). Quanto al secondo punto aveva invece sfruttato il cosiddetto argomento del "sorite"18, per mostrare che se si accettava la mitologia tradizionale si rischiava di « diluire all' infinito la nozione di divinità » (Lévy, 1 9 9 7, trad. it. p. 200) con risultati al solito paradossali: « se gli dei esistono, sono le ninfe anch'esse dee ? Se lo sono le ninfe, allora anche i Pani e i satiri lo sono ; ma questi ultimi non sono dei; e pertanto neppure le ninfe lo sono. Ma le ninfe hanno i templi che sono stati loro ufficialmente votati e dedicati dallo Stato. E allora neppure gli altri sono dei, quelli che hanno templi dedicati al loro nome ? » (Cicerone, De nat. deor. III 43). Criticare le credenze tradizionali è sempre pericoloso, come ricordava la vicenda di Socrate ; ma Carneade non sembra essere incorso in rischi analoghi, perché era chiaro che la sua intenzione non era negare l' e­ sistenza degli dei ma mostrare che gli stoici non erano in grado di rendere adeguatamente conto delle loro tesi ( m 44). Resta infine da dire qualcosa sull'etica, e più precisamente sulla celebre "divisione carneadea", con cui l'accademico aveva classificato le tesi soste­ nute dalle diverse scuole rispetto al sommo bene, vale a dire il bene che occorre conseguire per vivere felici. Anche in questo caso l'obiettivo po le-

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mico era lo stoicismo con la sua distinzione tra intenzione e realizzazione effettiva. Per spiegare questa differenza Antipatro, un allievo di Crisippo, aveva distinto tra fine (telos) e scopo (skopos) : come l'arciere deve fare di tutto per centrare il bersaglio anche se il fatto di centrarlo non dipende in ultima istanza da lui, così il saggio si preoccuperà di fare di tutto per conseguire i beni secondo natura senza preoccuparsi del loro effettivo con­ seguimento. Una tesi a cui Carneade avrebbe obiettato che l'arciere non si preoccupa solo di fare di tutto per mirare il bersaglio ma anche per cen­ trarlo : alternativamente, preoccuparsi di fare di tutto per ottenere un bene senza curarsi di averlo effettivamente significherebbe riporre la felicità in qualcosa di indifferente.

Filone di Larissa e la svolta moderata

Per una svolta significativa rispetto allo scetticismo rigoroso di Arcesilao e Carneade si sarebbe dovuto attendere l'ultimo scolarca dell'Accademia, Fi­ lone di Larissa. Ma anche nel suo caso, per capire il senso delle sue novità, non si può prescindere dalle argomentazioni di Carneade. Come già osser­ vato, in effetti, la sottigliezza e l'acume delle argomentazioni carneadee era­ no tali da rendere difficile comprendere esattamente che cosa egli intendesse sostenere personalmente, al di là delle polemiche contro gli stoici. In parti­ colare, a destare problemi erano la liceità e in taluni casi la necessità di avan­ zare opinioni - la possibilità che il saggio, scettico o dogmatico che fosse, aveva di seguire le opinioni. Come già osservato, la legittimità delle opinioni si fondava sull'esistenza delle impressioni persuasive {.pithanai phantasiai), che Carneade aveva introdotto per rispondere all'accusa di rendere la vita invivibile. Senza bisogno di aderire ad alcuna posizione dogmatica niente impediva allo scettico di seguire impressioni che dopo essere state vagliate risultavano convincenti. Ma quale era il valore filosofico di queste impres­ sioni persuasive o convincenti ? Come intendere il pithanon (cfr. Cicerone, Luc. 78, 139 ) ? Almeno due sono le vie che si possono seguire per tentare di chiarire l'esatto significato della posizione di Carneade. Sia l'una sia l'altra sono state effettivamente percorse da filosofi dell'Accademia. Secondo Clito­ maco, in questo concorde con la maggior parte dei critici moderni, le ar­ gomentazioni carneadee andavano intese in senso esclusivamente dialetti­ co ( fondamentale, in proposito, è ora loppolo, 2007 ) : niente di ciò che è

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affermato da Carneade in un'argomentazione deve essere giudicato come una manifestazione di sue convinzioni filosofiche. Il vero scettico segue le impressioni convincenti senza assentire a nulla, agisce sulla loro scorta senza considerarle per questo vere. Non avendo trovato la verità (rimane infatti valido il principio dell 'akatalepsia), continua a sospendere lassenso (epoche), perché accettare una proposizione potrebbe stornarlo dalla sua ricerca. Nella vita ordinaria si limita invece a seguire ciò che risulta con­ vincente : il pithanon si configura dunque come un'accettazione passiva circoscritta alle impressioni immediate che servono nella vita pratica (non nell'etica) di tutti i giorni'9• Alternativamente si apre anche un'altra possibilità interpretativa, inau­ gurata da Metrodoro e sviluppata da Filone di Larissa (che in una prima fase del suo scolarcato aveva invece seguito l' interpretazione di Clitomaco) : se pure finalizzate in prima istanza alla confutazione delle dottrine dei dog­ matici, queste distinzioni rispecchiano in un certo modo anche le idee scet­ tiche di Carneade. Seguendo ciò che sembra convincente (il pithanon) il sapiente poteva nutrire opinioni, perché rimaneva chiaro che si trattava di opinioni provvisorie, opinioni avanzate con la consapevolezza che avreb­ bero potuto anche essere false. In altri termini, rimane fermo il principio dell' akatalepsia (non è possibile individuare impressioni assolutamente vere su cui fondare una conoscenza certa), ma viene meno la necessità dell' epoche, perché niente impedisce allo scettico di concedere il proprio assenso a impressioni non catalettiche (non vere), nella misura in cui con­ serva la consapevolezza di appoggiare opinioni e non verità: « niente può essere conosciuto, ma tuttavia il saggio darà il suo assenso a impressioni non catalettiche, ossia esprimerà opinioni, ma in modo che comprenda di opinare e sappia che non vi è niente che possa essere compreso catalettica­ mente e conosciuto» (Cicerone, Luc. 148)w. È chiaro che la posizione di Metrodoro e Filone introduce una versione più moderata di scetticismo all' interno dell'Accademia. Nella classifica­ zione degli antichi si parla di Quarta Accademia: lo scettico può sostenere in propria persona delle posizioni filosofiche, perché rimane consapevole del fatto che sta opinando e che niente può essere conosciuto con certezza. Concedendo lassenso, ha la consapevolezza che si tratta di un assenso a un'opinione che deriva da un' impressione la cui veridicità non può esse­ re garantita, un' impressione che si trova in un contesto segnato dall' in­ conoscibilità del tutto. Si tratta cioè di un assenso provvisorio, concesso ritenendo le impressioni provvisoriamente come vere, come attendibili.

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Rispetto all' interpretazione radicale di Clitomaco, si assiste dunque a un allargamento del campo di applicazione del pithanon, che non serve più soltanto a discriminare la plausibilità delle impressioni della vita ordinaria, ma che serve anche a verificare lattendibilità di teorie filosofiche. L' interpretazione di Filone ebbe la meglio e s' impose come la dottrina ufficiale dell'Accademia non solo nell'antichità, ma anche in età moderna grazie alla mediazione del suo allievo Cicerone (a tale proposito fonda­ mentali sono le pagine finali di Frede, 1 9 84, pp. 273-8). Senza per questo svalutare la versione clitomachea, il merito principale di Filone consisteva nel fatto che nella sua versione lo scetticismo figurava come il risultato di un'attività razionale e consapevole, e non invece come l'accettazione passiva di mere apparenze (cfr. Cicerone, Luc. 7 ) . E dato che la consa­ pevolezza della provvisorietà di ogni dottrina si applicava anche alla tesi fondamentale dell 'akatalepsia, i sostenitori di questa versione moderata di scetticismo non potevano essere accusati nemmeno di dogmatismo nega­ tivo, di conoscere almeno una cosa, che niente era conoscibile. Fu questa la posizione finale di Filone ? Tra 1 ' 8 9 e 1 ' 8 6 a.C., all'epoca della guerra mitridatica, lo scolarca si recò a Roma, dove compose quelli che Cicerone chiama i Libri romani, in risposta alle critiche di Antioco di Ascalona: della tesi storiografica sull'unità dell'Accademia si farà cenno più avanti; quanto alle tesi epistemologiche che conteneva - se esse pre­ sentassero novità sostanziali - è invece oggetto di accese polemiche tra gli studiosi, in particolare in seguito ali' influente studio di Charles Brittain che ha autorevolmente difeso la tesi di una terza fase nella riflessione filo­ sofica di Filone (Brittain, 2001; ma precedentemente, cfr. già Barnes, 1989, pp. 68-78; Goder, 1994, pp. 920-2). Secondo questa interpretazione, Filo­ ne non sarebbe venuto meno alla pregiudiziale anti-stoica, continuando ad affermare che è impossibile conoscere se ci si attiene al criterio di verità stoico (le rappresentazioni catalettiche o comprensive : su questo punto tutti gli accademici hanno condiviso la stessa posizione critica) ; ma allo stesso tempo egli avrebbe anche suggerito un nuovo modo di intendere l'apprensione, non più vincolato dalla necessità dell' infallibilità: ci sono rappresentazioni apprensive (vale a dire evidenti) che permettono una conoscenza vera, seppur fallibile (proprio perché queste rappresentazioni non sono infallibili). In altre parole, rimane valido il principio dell' akata­ lepsia se si accetta la tesi stoica, mentre senza la pregiudiziale si ammette la possibilità della katalepsis (rinunciando dunque tanto all' akatalepsia e all' epoche). Indubbiamente, si tratta di sfumature sottili in assenza di "

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testimonianze chiare, e non stupisce dunque se altri studiosi, non meno autorevoli, si siano opposti a questa ipotesi affermando che le discussioni romane non facevano altro che continuare le vecchie polemiche ateniesi tra Filone e Antioco (cfr. ad esempio Glucker, 2004; Lévy, 2.005). Del re­ sto, già nell'antichità il pirroniano Enesidemo si era contrapposto frontal­ mente a tutto questo dibattito accusando tutti gli accademici di essere or­ mai diventati come stoici che combattevano contro altri stoici - un'accusa sicuramente eccessiva, dettata dall'esigenza di ritagliare un nuovo spazio teorico al rinato pirronismo».

Scetticismo e platonismo

Il problema che ha impegnato i filosofi antichi non meno degli studiosi moderni è quello di stabilire il senso complessivo dell'esperienza dell'Ac­ cademia ellenistica. Un'esperienza non sempre facile da decifrare : un' im­ magine sintomatica del disorientamento prodotto dalle tesi accademiche è ad esempio quella che descriveva Arcesilao come una seppia che spar­ geva intorno a sé l' inchiostro per impedire agli altri di cogliere il suo pensiero ; non meno problematico appariva del resto Carneade, capace di prevalere su tutti gli avversari, ma di cui l'allievo Clitomaco, che pure scrisse quattrocento libri, aveva dovuto ammettere di non aver compreso il senso dell' insegnamento. Come abbiamo visto, la difficoltà maggiore era quella di stabilire se le loro affermazioni valevano in senso soltanto dialettico o esprimevano anche le loro convinzioni personali (l' ipotesi più ragionevole è quella che conserva entrambe le opzioni). Una ragione non indifferente di un simile disorientamento è data inoltre dalla colloca­ zione istituzionale di questi autori: l'Accademia era pur sempre la scuola di Platone ; ma quale rapporto ci può essere tra Platone e lo scetticismo ? Si tratta del problema che abbiamo introdotto all' inizio e su cui occorre finalmente tornare. Per molti antichi, così come per tanti moderni, la sola risposta possibile è: nessuno. Nell'antichità, la posizione più drastica fu quella di Antioco, il quale aveva accusato l'Accademia ellenistica di rappresentare un vero e proprio tradimento della più autentica tradizione platonica (Cicerone, Ac. 13). Ma non diversa era la convinzione di molti altri, non platonici, all'esterno dell'Accademia. Così lo stoico Aristone di Chio aveva descrit­ to Arcesilao in modo beffardo come «davanti Platone, dietro Pirrone, in

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mezzo Diodoro » (Diogene Laerzio IV 33)'3• Davanti Platone, come a con­ fondere le acque invocando un' impossibile fedeltà di scuola; ma le vere fonti erano da cercare altrove. Specularmente opposta, ma convergente nella conclusione, era poi un'altra tradizione che avrebbe riscosso 1' inte­ resse di Agostino : la leggenda di un insegnamento esoterico all' interno dell'Accademia, improntato al più rigoroso dogmatismo, che Arcesilao avrebbe rivelato ai discepoli più fedeli (ma tra tutte questa è l' ipotesi più inverosimile)•+. Di nuovo l'assunto di fondo sembra essere l' impossibilità di conciliare Platone e lo scetticismo. Simili idee hanno a lungo condizionato la ricezione dell'Accademia el­ lenistica. Il rifiuto radicale di Antioco ha trovato vasti consensi in tutta la tradizione antica, e in particolare presso i platonici di età imperiale, che consideravano l'esperienza dell'Accademia scettica come i secoli bui nella storia del platonismo. Non molto diverse sono del resto le convinzioni più diffuse al giorno d'oggi: ci sono studiosi del platonismo che non sono disposti a riservare molto spazio all'Accademia ellenistica e numerosi stu­ diosi dell'Accademia hanno cercato le radici dello scetticismo lontano dai campi platonici, trovandolo, secondo il verso appena citato di Aristone, ora nel pirronismo ora nella tradizione dialettica. In particolare 1' ipotesi di una dipendenza di Arcesilao da Pirrone ha a lungo dominato negli studi'1• Ma, per quanto possibile, da un punto di vista cronologico, questa dipen­ denza non è verosimile da un punto di vista filosofico, perché la posizione di Pirrone è profondamente diversa da quella degli accademici: lo scetti­ cismo di Pirrone (se è lecito usare questo termine per Pirrone)'6 si fonda sull' indeterminatezza della realtà che ci circonda, mentre lo scetticismo accademico, come abbiamo visto, riguarda piuttosto i limiti della nostra conoscenza, 1' impossibilità, in altre parole, di cogliere la realtà nella sua oggettività: a differenza di Pirrone che si è pronunciato sulla realtà, gli accademici non si sono mai espressi sullo statuto ontologico di ciò che ci circonda (complessivamente si veda lo studio di Decleva Caizzi, 1986). Chiaramente, si tratta di due posizioni differenti, che si sarebbero riavvici­ nate solo con la trasformazione in senso fenomenista di Pirrone per opera di Enesidemo ( I sec. a.C.) e Sesto Empirico ( II-III sec. d.C.) : ma in questo caso si può al massimo pensare a un' influenza accademica sul neopirroni­ smo e non il contrario'7• Quanto alla tradizione megarica o dialettica, essa certamente giocò un ruolo importante, aiutando gli accademici ad affilare le loro armi in vista dei dibattiti con gli stoici>8• Ma un'attenzione più ri­ gorosa per le argomentazioni è in realtà tipica di tutte le scuole e si spiega

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chiaramente a partire dai continui confronti: come avevano già mostrato i sofisti (si pensi all'Eutidemo di Platone) e come Aristotele ben sapeva (si pensi alle Confutazioni sofistiche), padroneggiare le tecniche argomentati­ ve è fondamentale per prevalere in una discussione, e le discussioni costi­ tuivano il pane quotidiano per i filosofi ellenistici. Per quanto importan­ te, neppure la tradizione dialettica costituisce l' influenza principale dello scetticismo accademico'9• Per cercare di comprendere la sua natura e il suo senso complessivo conviene allora considerare con maggiore attenzione il modo in cui gli accademici presentavano il loro modo di filosofare. Il pensatore su cui sia­ mo meglio informati è Arcesilao, a cui le fonti attribuiscono ripetutamen­ te un interesse genealogico e un tentativo di sfumare le oggettive novità del suo insegnamento (l' akatalepsia e l' epoche su tutte) richiamandosi a numerose autorità del passato e a una tradizione filosofica ben radicata. Oltre a Platone e Socrate, Arcesilao non solo continuò a professare grande stima e ammirazione per i suoi predecessori dentro l'Accademia, da lui definiti dei o superstiti dell'età dell'oro (Diogene Laerzio IV 22), come a sottolineare un desiderio di continuità con la tradizione del platonismo10, ma si ricollegava alla tradizione presocratica''. Come intendere un simile collegamento tra Platone e la tradizione precedente ? Anche in questo caso una spiegazione possibile è favorita da un confronto con lo stoicismo : l' in­ sistenza sul presunto carattere scettico di tutta la tradizione filosofica greca ha un' indubbia utilità nella polemica anti-stoica nella misura in cui serve a presentare le loro tesi come eccentriche rispetto alla consapevolezza dei limiti umani che da sempre aveva caratterizzato il meglio della tradizione greca. Nella presentazione di Arcesilao, insomma, l'originalità (intesa in senso ovviamente negativo) è quella degli stoici (e degli epicurei) e non degli scettici accademici: la novità, e anche un rovesciamento del più au­ tentico sentire greco, è quella di chi pretende di trasformare gli uomini in dei - e non di chi con la sua riflessione arriva proprio a ricordarci la distan­ za che ci separa dagli dei (Lévy, 1997, trad. it. pp. 1 8 1-2). Da un punto di vista generale, questo è il senso che Arcesilao, e gli altri accademici con lui, attribuivano alla filosofia. Chiarire questo punto ci può aiutare a comprendere il senso del rin­ vio a Platone, che di questa tradizione costituisce il centro portante. La lezione di Platone è quella della filosofia intesa come ricerca della cono­ scenza e non possesso della verità. Più specificamente, in questo contesto di discussioni e di posizionamenti, diversi studiosi hanno suggerito che

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siano stati i cosiddetti dialoghi "socratici" o "aporetici" quelli che hanno maggiormente influenzato Arcesilao. L' ipotesi è ragionevole e acquista in­ teresse se si considera che nella prima età ellenistica si accese una grande battaglia intorno a Socrate, con diverse scuole impegnate nell'accaparrarsi le sue spoglie con il fine di presentarsi come i suoi veri eredi ( cfr. Long, 1988b). Presentando il metodo dialettico sotto l'egida di Socrate, Arcesi­ lao aveva difeso un' immagine "platonica" del filosofo ateniese (vale a dire l' immagine che si ricava dai dialoghi) in opposizione al tentativo di stoici e cinici di farne il modello del saggio infallibile e perfetto (sulla falsariga della presentazione di Senofonte). Ma non si tratta semplicemente di sele­ zionare alcuni passi dei dialoghi che potessero giustificare simili posizioni. Il problema riguarda complessivamente il senso della filosofia di Platone (così giustamente Lévy, 1992, pp. 1 8-9 ). Con il passare del tempo, infatti, e a mano a mano che l'Accademia gua­ dagnava consensi, il problema si spostò sempre più espressamente da So­ crate a Platone, fino a esplodere al tempo della polemica tra Filone e An­ tioco. L'attacco di Antioco, teso a negare la legittimità di un qualsivoglia legame tra Platone e l'Accademia, stimolò la pronta risposta di Filone, che nei cosiddetti Libri romani prese apertamente posizione in favore dell'u­ nità di tutta la tradizione accademica nella sua interezza a partire dallo scetticismo professato nei secoli ellenistici: non si dava insomma una rot­ tura tra Platone e i pensatori ellenistici perché neppure Platone aveva mai preteso di aver raggiunto una conoscenza incontrovertibile. Al contrario, come si legge in una celebre pagina di Cicerone, è proprio in uno scettici­ smo compiuto che sembra culminare la filosofia di Platone, « nei cui libri niente si afferma positivamente e molte cose si discutono pro e contra, si indagano tutte le cose e non si afferma niente di certo » (Cicerone, Ac. 46; cfr. anche Luc. 74)3'. Quest 'affermazione, non priva di una sua radicalità, mostra in modo inequivocabile l' importanza di Platone : contrariamente a quanto soste­ nuto da molti studiosi sembra insomma che uno stimolo fondamentale nell'elaborazione dello scetticismo accademico provenne proprio dai dia­ loghi platonici, e in particolare da un punto su cui il Socrate dialogico ripetutamente insiste nelle sue discussioni, vale a dire lesigenza di non chiudere mai la ricerca. Questa interpretazione di Filone, nonostante le riserve di Antioco, spiega bene quale potesse essere il senso della filosofia di Platone all' interno dell'Accademia ellenistica, da Arcesilao a Filone. Questo è un punto importante su cui occorre fare ulteriore chiarez-

STORIA D ELLA FI LO SO FI A ANTI C A

za. Spesso gli studiosi hanno infatti rintracciato il tratto distintivo dello scetticismo accademico nella polemica ami-empirista: questo sembra es­ sere il punto decisivo nella polemica contro gli stoici. Ma è chiaro che, se così fosse, il legame con Platone risulterebbe riduttivo: una polemica contro l'empirismo è evidente in Platone, ma sarebbe riduttivo esaurire la sua filosofia nel solo ami-empirismo. Che cosa dire del suo idealismo ? Le interpretazioni ami-empiriste dell'Accademia si sono sempre scontrate su questo punto ed è per questo che si è spesso dubitato della sincerità del ri­ chiamo a Platone. Ma la situazione cambia se si comprende che l' insegna­ mento platonico è prima di tutto un insegnamento di metodo. Un aspetto onnipresente di nei dialoghi è proprio una riflessione sulla filosofia, sui suoi metodi e limiti: ed è questa l'eredità che gli accademici hanno fatto propria, reinserendola in un' interpretazione complessiva della tradizione greca. Davanti Platone, si potrebbe osservare, ma anche dietro. Insomma, sembra proprio che la filosofia degli accademici si sia forma­ ta sviluppando e portando a compimento una serie di spunti scetticheg­ gianti che erano già chiaramente presenti nei dialoghi; e questo percorso non dipende tanto da influssi esterni (quale ad esempio Pirrone) bensì dalla necessità di difendere un'esigenza di fondo della filosofia di Platone in un contesto segnato da tesi radicali: la difesa del carattere umano e dun­ que fallibile del sapere in opposizione alla pretesa stoica di provvedere gli uomini di un sapere certo quale quello di cui solo gli dei dispongono. È nella fedeltà a questa « tradizione di umiltà » contro l'arroganza dei nuovi venuti che sta la fedeltà degli accademici a Platone e non nell'adesione a qualche presunta ortodossia dottrinale (Lévy, 1993)33. Naturalmente, con questo non tutti i problemi sono risolti. Cicerone riferisce che venuto a conoscenza di queste tesi Antioco stomachari coepit (Cicerone, Luc. 1 1 ) : una reazione forse sopra le righe che però è almeno in parte comprensibile, perché è difficile credere che lo scetticismo radicale di Arcesilao e Carneade, per quanto ispirato dal metodo dialettico di So­ crate e Platone, descriva correttamente la filosofia dei dialoghi. Quella di Arcesilao e Carneade rimane comunque un' interpretazione di Platone, e un' interpretazione da alcuni punti di vista forzata. Una valutazione leg­ germente diversa merita però di essere fatta nel caso di Filone. Anche se di nuovo stona l'assenza del rinvio alla dimensione dell' intelligibile, si po­ trebbe osservare che il suo fallibilismo presenta affinità molto più forti con Platone : perché se è vero che Platone non ha mai concluso sospendendo il giudizio su tutto, non meno vero è che neppure ha preteso di aver raggiun-

ACCADEMIA ELLENISTICA

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to risultati incontrovertibili su qualche punto ma ha sempre presentato le sue tesi come provvisorie, come il risultato provvisorio a cui era giunto e da cui si doveva partire per ulteriori ricerche. Dire che Platone invita alla sospensione del giudizio è certamente un'affermazione esagerata; ma che quella dei dialoghi sia prima di tutto una filosofia della finitezza è una tesi molto più condivisibile : una tesi che molti altri studiosi, anche ai giorni nostri, hanno difeso e che ci aiuta a comprendere l importanza delle ar­ gomentazioni accademiche in vista di una più completa comprensione di quel ricco fenomeno che è lo scetticismo.

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Il Peripato ellenistico di Riccardo Chiaradonna

Stratone di Lampsaco

Scolarca del Peripato dopo Teofrasto fu Stratone di Lampsaco (nato tra il 340 e il 330, morto tra il i.70 e il i.68 a.C.). Fu l'ultima personalità filosofica di spicco del Peripato nel III secolo (cfr. Desdos, Fortenbaugh, 2.011). Come i discepoli di Aristotele che lo avevano preceduto (cfr. VOL. I I , CAP. 8), egli ebbe prevalenti interessi naturalistici. Nell'antichità era conosciuto come "il fisico" (Diogene Laerzio v 58) e, in questo, Stratone non faceva altro che proseguire l'orientamento di Eudemo e Teofrasto. Tuttavia, rispetto ai suoi predecessori egli sembra muoversi in un contesto nuovo, che rinvia ormai chiaramente all'epoca ellenistica e lo conduce a rivedere alcuni fon­ damenti del pensiero del caposcuola, non solo a correggerne conclusioni particolari. La stessa biografia di Stratone è interessante in questa prospet­ tiva: era nativo di Lampsaco (Asia Minore), dove Epicuro insegnò tra il 310 e il 306; in quegli anni Stratone doveva già esser partito per Atene, ma la circostanza è comunque interessante. Inoltre, Stratone soggiornò ad Alessandria alla corte di Tolemeo I Soter, come precettore del figlio Tole­ meo I I Filadelfo. Il problematico rapporto con 1' atomismo e 1' interesse per la ricerca scientifica sono aspetti caratterizzanti del pensiero di Stratone. In passato la sua personalità è stata celebrata facendone un precursore della scienza moderna e del metodo sperimentale (Rodier, 1890 ). Si tratta, in realtà, di interpretazioni piuttosto esagerate che tendono a sopravvalutare il rilievo di questo autore. Tuttavia, pur muovendosi entro le coordinate dell'ari­ stotelismo antico, è innegabile che Stratone introduca alcuni elementi di novità. Quello più importante, che lo avvicina effettivamente all'atomi­ smo, sta nella critica della dottrina aristotelica del movimento e della te­ leologia. La natura per Stratone è organizzata in modo "meccanicistico". La dottrina del corpo astrale e quella dei luoghi naturali sono respinte :

STO RIA D ELLA FILOSOFIA ANTICA

tutti i corpi (anche il fuoco), per Stratone, sono pesanti e tendono a cadere verso il basso ; i corpi più pesanti espellono i più leggeri verso l'alto. Non esiste, dunque, nessun movimento centrifugo naturale (cfr. Simplicio, In De Caelo p. 267 29-268 4; 268 32-269 14 Heiberg). I corpi sono formati da componenti elementari (certamente non si tratta di atomi, ma di qualità, il cui statuto non è però ben chiaro in base alle fonti) e (altro punto di rottura rispetto ad Aristotele) ammettono il vuoto al loro interno. Pre­ sumibilmente, il loro peso maggiore o minore dipende dalla quantità di vuoto che contengono. Inoltre, Stratone critica la definizione del tempo come « numero del movimento » fornita nella Fisica di Aristotele : la ra­ gione è che il numero è una grandezza discreta, mentre il movimento è una grandezza continua (cfr. Simplicio, In Phys. 788 33-790 29 Diels)'. La sua impostazione naturalistica è ulteriormente confermata da una serie di critiche indirizzate contro le prove dell' immortalità dell'anima nel Fedone e trasmesse dal neoplatonico Damascio.

Il Peripato ellenistico dopo Stratone

Abbiamo notizie di alcuni peripatetici ellenistici dopo Stratone ma, per quel che possiamo ricostruire, furono filosofi di secondo piano. Terzo sco­ larca del Peripato, dopo Teofrasto e Stratone, fu Licone, nato nella Troade e scolarca dalla morte di Stratone al 225 a.C. circa. Dopo di lui, fu proba­ bilmente scolarca Aristone di Ceo, nato forse intorno al 250: ma di Aristo­ ne sappiamo ben poco e non è neppure del tutto certo se fu eletto scolarca (cfr. Dorandi, 1999a, p. 36). In effetti, vi è una lacuna di circa settant'anni nelle nostre notizie sulla successione degli scolarchi peripatetici: dal 225 circa (morte di Licone) si passa al 156/I55, quando era già scolarca Critolao di Faselide (di cui parleremo tra poco), che può essere considerato l'ultimo esponente di un certo rilievo del Liceo, prima della sua estinzione nel I se­ colo a.C. Altre personalità tra III e I I secolo sono associate al Peripato, ma si tratta di dotti ed eruditi più che di filosofi (tra questi, Eraclide Lembo, Sozione di Alessandria, Ermippo di Smirne). Parallelamente, sappiamo che a Rodi vi furono peripatetici la cui attività traeva forse origine dall' in­ segnamento (e dalla biblioteca ?) di Eudemo di Rodi (cfr. VOL. II, CAP. 8). Nel I I I secolo si ha così notizia di Prassifane (originario di Mitilene, ma vissuto per lungo tempo a Rodi) e leronimo (originario dell' isola) ; nel I secolo a.C. di Andronico di Rodi (su cui cfr. VOL. IV, CAP. 3). Per quanto

IL PERI PATO ELLEN I S T I C O

questi autori non manchino d' interesse, è difficile riconoscere in loro filo­ sofi creativi. La scena, in effetti, era ormai occupata da nuovi protagonisti: la Stoa, il Giardino, l'Accademia di Arcesilao e Carneade. In questo pano­ rama, gli interessi del Liceo diventarono marginali. In effetti, nell'evoluzione del Peripato ellenistico arrivò a compimento uno sviluppo già percepibile tra i primi discepoli di Aristotele (cfr. VOL. I I , CAP. 8). Le ricerche erudite e le indagini su aspetti particolari del sapere presero il sopravvento : è possibile che ciò fosse causato dall' impostazione stessa della ricerca empirica nel Peripato. Gli interessi particolari porta­ rono a una vera e propria « decomposizione » (cfr. Wehrli, 1969', trad. it. p. 96) della filosofia aristotelica. Mancava ai peripatetici una visione filo­ sofica d' insieme. Gli stessi interessi di filosofia naturale declinarono dopo Stratone, lasciando il posto a ricerche di tipo biografico ed erudito. Ad esempio Aristone di Ceo, attivo nei decenni di massima fioritura di epicu­ reismo e stoicismo, fu una personalità di modesto rilievo: il contrasto con i suoi contemporanei di altre scuole è stridente. Il suo principale interes­ se risiedeva nelle ricerche sulle vite dei filosofi. A lui, secondo un' ipotesi formulata da Moraux (1951), potrebbero risalire le notizie su Aristotele presenti in Diogene Laerzio, incluso il catalogo dei suoi scritti (Diogene Laerzio v 22-27 )'. Per il resto, sembra che l'opera di Aristone si sia rivolta a temi etici e abbia avuto un carattere prevalentemente divulgativo. Fatto molto interessante, gli stessi antichi colsero il declino del Peripa­ to ellenistico e ne fornirono una spiegazione. Plutarco ( Vita Sullae 2 6) e Strabone ( x m 1 54) attestano che alla sua morte Teofrasto lasciò in eredi­ tà le biblioteche sua e di Aristotele al filosofo Neleo di Scepsi (discepolo di entrambi), il quale portò i libri con sé nella città natale situata nella Troade (cfr. Sharples, 2010, pp. 24-3 0 ; Natali, 2 0 1 3 , pp. 1 0 2-4 ) . Qui furo­ no nascosti sotto terra per sottrarli agli Attalidi, i sovrani di Pergamo che stavano costituendo una loro biblioteca. Solo molto tempo dopo, intorno al 1 0 0 a.C., la biblioteca del Peripato sarebbe di nuovo tornata alla luce finché Andronico di Rodi apprestò l'edizione dei trattati dando nuovo impulso alla filosofia aristotelica. Secondo Strabone, i peripatetici poste­ riori a Teofrasto, privi com'erano dei libri di Aristotele, non erano capaci di filosofare in modo sistematico, ma « declamavano tesi generali » (ivi, p. 29 ) . Questa situazione cambiò quando i libri furono nuovamente disponi­ bili e i loro successori furono dunque in grado di « filosofare e aristoteliz­ zare [aristotelizein] » . L'uso di quest 'ultimo verbo è interessante. Strabone lo usa per differenziare i peripatetici ellenistici rispetto alla nuova gene-

STORIA D ELLA FILO S O FIA ANTICA

razione di filosofi, contemporanea a lui, che stava riscoprendo i trattati di Aristotele. Per Strabone solo questi ultimi ( sui quali cfr. VOL. IV, CAP. 3 ) , non i loro predecessori, erano dunque capaci .di filosofare nello stile di Aristotele ( cfr. Falcon, 2015 ) . Gli interpreti dibattono sull'attendibilità di questi resoconti perve­ nendo a conclusioni molto diverse. Torneremo sull'argomento più avanti, quando ci soffermeremo sui commentatori del I secolo a.e. e sulla cosid­ detta "edizione di Andronico" (voL. IV, CAP. 3 ) . In effetti, sarebbe sbaglia­ to credere che tutti i trattati acroamatici non fossero noti in epoca elleni­ stica e che questo semplice fatto abbia causato il declino del Peripato. Ciò vale soprattutto per il periodo più precoce : ad esempio, certamente Epicu­ ro conobbe alcuni trattati e tenne conto delle argomentazioni aristoteli­ che nel formulare la propria fisica atomistica ( cfr. Verde, 2013d, pp. 9 7 - 9 ) . D'altra parte, l'effettivo impatto della riflessione aristotelica sulle scuole ellenistiche fu probabilmente limitato. Malgrado numerose ricerche, mancano elementi per postulare un approfondito confronto degli stoici con la filosofia di Aristotele (ciò, ovviamente, non implica che gli stoici ignorassero Aristotele ) . Probabilmente la storia riportata da Plutarco e Strabone contiene alcune esagerazioni, ma sarebbe comunque errato con­ cludere, in virtù di questa constatazione, che Aristotele e i suoi discepoli continuarono a esercitare un impatto importante nel dibattito filosofico tra III e II secolo a.e. Forse, più ancora che sull'assenza di riferimenti ad Aristotele, è inte­ ressante soffermarsi su un episodio che ne testimonia la posterità in età ellenistica. Sappiamo che il grande erudito e grammatico Aristofane di Bi­ sanzio, a capo della biblioteca di Alessandria alla fine del III secolo, scrisse un sommario della zoologia aristotelica, originariamente in quattro libri, parti del quale sono trasmesse in un'antologia bizantina del x secolo. Dal materiale superstite, possiamo ricavare che Aristofane selezionò e riportò le informazioni fornite da Aristotele organizzandole secondo le singole specie animali. Il progetto è chiaramente ispirato alla Historia animalium, ma prescinde dal retroterra filosofico tipico della biologia di Aristotele e, più in particolare, dalla sua peculiare struttura esplicativa (cfr. Falcon, 2015 ) . Aristotele, infatti, non organizza il materiale secondo le singole spe­ cie, ma in accordo al livello di generalità appropriato per la spiegazione fornita: le singole specie sono introdotte solo quando presentano diffe­ renze uniche o caratteri anomali. Di questa complessa struttura argomen­ tativa non rimane nulla in Aristofane: la ricerca biologica aristotelica è

IL PERI PATO ELLEN I S T I C O

ridotta a un catalogo d' informazioni. Ciò è tanto più significativo proprio perché il sommario di Aristofane è tra i rari casi di epoca ellenistica nei quali emerge una conoscenza diretta e approfondita di sezioni del corpus. Come si è appena visto, da solo ciò non basta a riscontrare un'effettiva presenza del pensiero aristotelico nel dibattito filosofico. Tra gli scolarchi ellenistici, il più influente fu Critolao di Faselide, noto soprattutto perché fece parte dell'ambasceria dei filosofi a Roma nel 1 5 5 a.C. insieme all'accademico Carneade e allo stoico Diogene di Babilo­ nia. Diversamente dai suoi predecessori, Critolao si confrontò con que­ stioni dottrinali e, per quel che sappiamo, difese con un certo successo le tesi aristoteliche (cfr. Hahm, 2007; fonti in Wehrli, 1 96 9'). Ad esempio, egli argomentò a favore dell'eternità del mondo contro lo stoicismo (cfr. Filone di Alessandria, De aet. mundi 5 5 , 70 ). Probabilmente le argomen­ tazioni di Critolao furono efficaci. Nei suoi ultimi anni, lo stoico Diogene di Babilonia e, dopo di lui, Boeto di Sidone (da non confondere con l' o­ monimo peripatetico del I sec. a.C. su cui cfr. VOL. IV, CAP. 3) e Panezio di Rodi abbandonarono la tesi stoica della conflagrazione avvicinandosi alle posizioni peripatetiche (cfr. Filone, De aet. mundi 76-77 ). La polemi­ ca di Critolao contro le scuole rivali fu particolarmente vivace nel campo dell'etica. L'autore latino Aulo Gellio ( I I sec. d.C.) riporta un attacco di Critolao contro il piacere, che fa pensare a una critica contro l'epicureismo (Noct. att. IX 5 6). Altre testimonianze posteriori (Clemente Alessandri­ no, Stromata II i.1 1 2.9 10; Giovanni Stobeo, Anth. I I 7 3b) suggeriscono la presenza di una polemica contro lo stoicismo : diversamente dagli stoici, per i quali le virtù, e solo le virtù, completano la felicità, Critolao rivendica la necessità non solo dei beni dell'anima, ma anche dei beni corporei e di quelli esterni (cfr. Hahm, 2007, pp. 63-4; Sharples, i.010, p. 1 6?). Siamo bene informati, infine, della sua posizione circa la retorica, alla quale Cri­ tolao negava la condizione di una tecnica (una tesi tradizionale che risale, in ultima analisi, al Gorgia di Platone) considerandola una semplice forma di esercizio (cfr. Quintiliano, Institutio oratoria I I 15, 19-20, i.3; Sesto Em­ pirico, Adv. Math. I I 12.; cfr. Hahm, 2007, p. 5 5 ; Sharples, 2010, p. 38). Critolao produsse argomentazioni a difesa delle tesi peripatetiche, ma nulla suggerisce che egli si confrontò con gli scritti di Aristotele. È molto probabile che egli conoscesse le opere essoteriche di Aristotele e non è escluso che conoscesse anche alcuni trattati. Tuttavia, dalle nostre notizie non emerge nessun lavoro di Critolao sugli scritti del caposcuola. Piuttosto, Critolao sembra aver applicato in ambito peripatetico la pratica

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STORI A D ELLA FILO S O FIA ANTICA

tipicamente ellenistica della disputa su tesi o proposizioni filosofiche ( cfr. Hahm, 2007 ) : in questo specifico contesto, egli difese le posizioni della sua scuola contro tesi rivali. Non è forse un caso che Cicerone attribuisca proprio ad Aristotele l'arte del disputare a favore di entrambe le parti (in utramque partem: cfr. Cicerone, Orator 46; De orat. 111 71, 80; Definibus v 10 ) . È probabile che Cicerone si basasse sulla pratica del Peripato in età tardo ellenistica. Certamente, questo tipo di discussione filosofica è ben lontana da quella che usualmente associamo ad Aristotele: niente rimane delle sue complesse ricerche nel campo della logica, della metafisica e della filosofia naturale. Sappiamo pochissimo sulla biografia di Critolao. Secondo alcune fon­ ti, egli morì in tarda età e questo potrebbe indurre a collocare la sua morte nella seconda metà del I I secolo. La sua figura, come si è appena osservato, segna il completo assorbimento delle discussioni filosofiche ellenistiche in ambito peripatetico. D'altra parte, proprio verso la fine del I I secolo il pa­ norama cominciò a cambiare. Dopo quasi 2.00 anni di relativo oblio, Ari­ stotele riacquistò gradualmente lo statuto di un'autorità filosofica. Panezio di Rodi, lo stoico più autorevole nella seconda metà del n secolo, è definito dalle fonti antiche come « amante di Aristotele (philaristoteles) » (Filode­ mo, Stoicorum historia [PHerc. 101 8 ] , col. LXI Dorandi). Tra I I e I secolo a.C. si colloca lo stoico Posidonio, anch'egli attivo a Rodi, il quale secondo Strabone si dedicò alla ricerca delle cause alla maniera di Aristotele (Stra­ bone II 3 8). Si può notare qui l'uso dello stesso verbo (aristotelizein) con cui Strabone descrive l'attività dei nuovi peripatetici i quali potevano di­ sporre dei trattati di Aristotele dopo l'oblio successivo a Teofrasto ( cfr. Falcon, 2015). Se, insomma, queste notizie sono fededegne, sembra che l' interesse per Aristotele abbia gradualmente ripreso vigore tra n e I secolo a.C. e che un ruolo centrale in questo sviluppo sia stato svolto dall'am­ biente culturale di Rodi, centro di studi aristotelici fin dall'epoca di Eu­ demo. È possibile che a Rodi fossero disponibili copie di alcuni trattati e che questo fatto abbia favorito la rinascita d' interesse per Aristotele (cfr. Paj6n Leyra, 2013). Purtroppo, i dettagli di queste vicende sono avvolti dall'oscurità, ma l'esistenza di un progressivo ritorno ad Aristotele dopo Critolao sembra indubitabile. Originario di Rodi fu anche Andronico, al quale secondo le fonti andrebbe attribuita l'edizione di Aristotele che, nel I secolo a.C., sancì il ritorno dei trattati nel dibattito filosofico ( voL . IV, CAP. 3). Sappiamo pochissimo sulla sorte del Liceo dopo Critolao. È probabile che anche la

IL PERI PATO ELLEN I S T I C O

scuola di Aristotele abbia condiviso il destino delle altre scuole ateniesi e abbia sostanzialmente cessato di esistere dopo l'assedio e il saccheggio di Silla nell ' 8 6 a.C., durante la Prima guerra mitridatica (cfr. Sedley, 2.003a). Ciò non significa che non vi furono più scuole o circoli di filosofia aristo­ telica ad Atene dopo quella data. Sappiamo, infatti, che il filosofo aristo­ telico Cratippo di Pergamo insegnò ad Atene e Cicerone inviò suo figlio a studiare presso di lui (cfr. Sharples, 2.010, p. 2 ) . Tuttavia, niente suggerisce che Cratippo fu scolarca del Liceo. Notizie molto tarde, che attribuiscono lo scolarcato ad Andronico di Rodi e al commentatore aristotelico Boeto di Sidone ( I sec. a.C.), non hanno molto fondamento. In sintesi, Critolao è l'ultimo scolarca peripatetico la cui attività ebbe un qualche impatto sul dibattito dell 'epoca. Pochi decenni dopo, però, insieme all'estinzione del Liceo, s' impose un nuovo tipo di aristotelismo, fondato sullo studio dei trattati e sul lavoro di commento. Nacque così una generazione di agguerriti (in alcuni casi geniali) filosofi, commentatori dei trattati, i quali diedero nuova vita all'aristotelismo facendone una corrente filosofica centrale per il seguito del pensiero antico. La loro opera - come si è visto - fu percepita dagli stessi contemporanei come un punto di rot­ tura rispetto al Peripato ellenistico. Ciò può spiegare perché la figura di Critolao fu presto dimenticata e non ebbe quasi nessun impatto sulla tra­ dizione posteriore.

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Epistemologie ellenistiche: il problema del criterio di Emidio Spinelli

Fra passato e presente

Benché in alcuni capitoli di questo volume già si siano affrontate, all' in­ terno della presentazione più generale di questo o quell' indirizzo di pen­ siero di età ellenistica, questioni relative alla dottrina della conoscenza e alle funzioni riconosciute ai vari criteri legittimamente individuati come dirimenti di fronte alla possibilità di dire "come stanno - o come non si può sapere come stiano, da un punto di vista scettico - le cose in real­ tà" (cfr. CAPP. 3-4, 6 e 7), credo non sia esercizio inutile il tentativo che qui si propone. Può infatti essere opportuno, anche solo sul piano di una ricapitolazione omogenea e di un résumé tematicamente compatto, con­ centrare l'attenzione sui diversi "approcci epistemologici" che l'epicurei­ smo, lo stoicismo e lo scetticismo (o meglio : gli scetticismi, tanto quello di matrice accademica quanto quello neopirroniano) hanno creduto di po­ ter assumere cercando di fornire una risposta coerente alle problematiche connesse all' individuazione di un metro o canone gnoseologicamente più o meno cogente. Si tratta forse di una sfida e di un' impostazione che si scontra subi­ to con una questione : è possibile infatti applicare anche al mondo antico concetti e categorie, che sono state e sono di casa soprattutto nella rifles­ sione filosofica contemporanea? Prima di rispondere credo sia opportuno offrire una delimitazione più chiara, sia sul piano teorico che su quello storico, del campo di indagi­ ne. Comodo punto di partenza può essere una definizione, schematica quanto si vuole, ma utile a tracciare immediatamente i confini entro cui si muoverà l'analisi. Partiamo dalla seguente, generale definizione di "epi­ stemologià': « termine coniato sulle parole greche episteme ("scienza") e logos ("discorso"), con cui si indica quella branca della teoria generale della conoscenza che si occupa di problemi quali i fondamenti, la natura, i limiti

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e le condizioni di validità del sapere scientifico, tanto delle scienze cosid­ dette esatte ( logica e matematica ) , quanto delle scienze cosiddette empiri­ che ( fisica, chimica, biologia ecc.; psicologia, sociologia, storiografia ecc. ) . L'epistemologia è quindi lo studio dei criteri generali che permettono di distinguere i giudizi di tipo scientifico da quelli di opinione tipici delle costruzioni metafisiche e religiose, delle valutazioni etiche ecc. In questo senso l'epistemologia è considerata parte essenziale della filosofia della scienza » ( Parrini, 1981, p. 256). Sarebbe senz'altro difficile, se non addirittura storicamente illegittimo, pretendere di attribuire già alla filosofia antica le preoccupazioni teore­ tiche che emergono soprattutto nella seconda parte della definizione : la tendenza sistematica e l' interesse marcatamente metafisico o etico che ca­ ratterizza tutte o quasi le scuole filosofiche di età ellenistica non consen­ tono di pensare all'esercizio di un'epistemologia di stampo neopositivi­ stico e/ o analitico, attenta a separare con cura il "grano" della conoscenza vera - quella della scienza - dal "loglio" dei discorsi vuoti di senso - quelli della "vecchià' filosofia. Se tuttavia facciamo tesoro dei punti di riferimento indicati nella pri­ ma parte della definizione, allora anche le filosofie ellenistiche possono esibire un loro lato epistemologico, ovvero una sorta di riflessione ad alto livello sull'esistenza e sulla possibilità stessa della conoscenza, sui suoi fon­ damenti così come sui suoi limiti, sulla sua capacità di attingere il vero e discernere con cura il falso. Di epistemologia, infatti, si può e si deve par­ lare, soprattutto in relazione al cosiddetto "problema del criterio di verità'' (kriterion tes aletheias ) , una questione teorica - o forse meglio metateo­ rica - ben precisa e circoscrivibile, anche sul piano meramente storico e cronologico1• La questione dell' individuazione dello strumento adatto a valutare ciò che pretende di essere vero o falso, infatti, nasce e si sviluppa soprattutto all' interno delle cosiddette "filosofie ellenistiche", che o, come nel caso degli epicurei e degli stoici, ne fanno uno dei pilastri delle loro teorie della conoscenza oppure, come invece accade nel caso del variegato movimento scettico, la ergono a bersaglio privilegiato delle loro critiche ami-dogmatiche. L'obiettivo di fondo di questo capitolo sarà dunque quello di offri­ re - pur nella consapevolezza di limiti enormi, costituiti in primo luogo dalla scarsità delle fonti e dalla lacunosità del materiale testuale a noi per­ venuto - un quadro il più coerente possibile in merito a un aspetto deci­ sivo di quella che gli antichi - a eccezione pare degli epicurei, che prefe-

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rivano parlare di "canonica", come vedremo - chiamavano "logica", dando a tale etichetta un raggio semantico molto più ampio di quello che noi le riconosciamo.

Per un nuovo approccio epistemologico

Credo si possa condividere l'affermazione di alcuni studiosi, fra cui so­ prattutto Gisela Striker, secondo cui alla fine del IV secolo a.C., con il pie­ no fiorire di quella che comunemente viene indicata come "età ellenistica" ( cfr. CAP. 1 ) , assistiamo a un grande, profondo cambiamento nell'atteggia­ mento della filosofia greca rispetto alle questioni gnoseologiche o più lata­ mente epistemologiche (cfr. al riguardo Striker, 1996b; utili spunti anche in Striker, 1990, nonché nei vari saggi raccolti in Huby-Neal, 1989 ) . Per es­ sere più precisi, sembra che muti il fuoco, l'obiettivo primario delle rifles­ sioni filosofiche sulla teoria della conoscenza. Non si pone più la questione "Che cosa è la conoscenza ?", quanto piuttosto si impone l' interrogativo su come sia pos�ibile conoscere e, ancor più radicalmente, la domanda di fondo : "Esiste e/o è possibile una qualche conoscenza ?". Come emerge chiaramente già dalla diversa formulazione della do­ manda epistemologica, il discrimine appare netto. Si vede infatti come nel caso di pensatori legati alla cosiddetta "età classica", in particolare Platone e Aristotele, quello che conta è andare a scoprire le strutture profonde del­ la conoscenza scientifica, fermo restando - in modo chiaro e indubitabi­ le - che la possibilità di una scienza, di quella che i Greci chiamavano a ra­ gione episteme - non viene messa in discussione, viene data per acquisita. Di fronte al fluire caotico delle realtà particolari sensibili, sembra esservi rifugio sicuro in una forma di conoscenza centrata sugli universali, sugli aspetti formali e non materiali del reale. Al di là delle soluzioni diverse adottate rispettivamente da Platone e da Aristotele, entrambi non sem­ brano nutrire dubbi sul fatto che si dà conoscenza (Aristotele forse più di Platone, il quale appare talora "scettico" sulla possibilità di dominare completamente un certo tipo, assoluto, di attività conoscitiva ) ; né sem­ brano oscillare rispetto al vero compito da assegnare al filosofo, che non è quello di mettere in discussione limiti e possibilità del conoscere, quanto piuttosto quello di individuarne le nervature, le più intime articolazioni. Se proprio vogliamo recuperare una sorta di preistoria del mutato at­ teggiamento nei confronti delle questioni epistemologico-gnoseologiche,

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dobbiamo allora volgerci alla scuola democritea e in particolare ad alcune radicali, già "scetticheggianti" affermazioni di un suo esponente, Metro­ doro di Chio, che così si esprimeva: «E questo Metrodoro di Chio, che ebbe per lui [Democrito] la massima ammirazione, al principio del suo libro intitolato Della natura scrive: "lo affermo che noi non sappiamo se sappiamo o ignoriamo qualche cosa; e che non sappiamo neppure se sappiamo o non sappiamo questa cosa stessa né assolutamente se esista qualche cosa o no" » (70 B l DK = Cicerone, Luc. 73; trad. Alfieri, 1936; cfr. Brunschwig, 1996). Né si può dimenticare che fu forse proprio que­ sta tesi metrodorea a fornire «pessimi spunti a Pirrone, che venne dopo di lui » ( Pyrrho T 2 4 Decleva Caizzi ) , soprattutto perché appare difficile negare come il pensiero di Pirrone - per quanto possa essere stato oggetto di interpretazioni controverse o addirittura conflittuali - sembri muover­ si nel!' analoga direzione di una messa in discussione, dettata da ragioni di profondo "pessimismo" metafisico e gnoseologico, delle nostre pretese conoscitive ( cfr. CAP. 3).

Sul criterio : schemi e classificazioni

Se restiamo nell'ambito concettuale e teorico aperto da questi dubbi cono­ scitivi, si può comprendere perché le filosofie ellenistiche sentissero come vitale il problema di giustificare qualsiasi pretesa di conoscenza, di mettere alla prova, di "testare" - diremmo quasi, con un calco dall' inglese - e fi­ nalmente di scoprire la verità o la falsità delle affermazioni - condensate in proposizioni dotate di senso - che facciamo rispetto alla realtà e alla sua conoscibilità. È questo l'alveo teorico entro il quale si muove l'epistemo­ logia ellenistica, che va alla ricerca del - o quanto meno di un - criterio di verità, rispetto al quale vengono subito sollevate due questioni: - un tale criterio esiste ? - se esiste, che cosa è e dove lo si può individuare ? Diciamo subito che alla prima domanda le tre correnti filosofiche di cui ci occuperemo non forniscono una risposta univoca. Epicurei e stoici, infatti, sono convinti che un criterio o addirittura più criteri di verità esi­ stano, mentre aporie e obiezioni continue al riguardo vengono formulate dagli scettici, sia di tendenza accademica che di provenienza pirroniana, i quali proprio in virtù dello scacco subito nella ricerca di un possibile crite­ rio di verità ritengono inevitabile approdare alla più rigorosa sospensione

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del giudizio su tutte le cose (epoche peri panton ), se non addirittura - come si è già visto per Pirrone - alla radicale rinuncia a ogni affermazione, alla completa aphasia (cfr. CAP. 3). Quanto alla seconda domanda - che per i motivi appena esposti non può in alcun modo riguardare gli scettici epicurei e stoici, convinti dell'esistenza del criterio, si impegnano in sottili ed elaborate teorizzazioni, con l' intento di rendere il più possibile sicuro, pur con sfumature e soluzioni fra loro diverse, il terreno su cui poggia tale strumento di determinazione del vero e del falso. Soprattutto queste loro soluzioni e le strategie argomentative che le sorreggono saranno oggetto di attenzione nelle pagine che seguono. Pri­ ma di affrontarle in dettaglio, però, mi sembra necessario fornire una delu­ cidazione preliminare sul senso e sulla portata dell'espressione "criterio di verità". In questo caso - aggiungerei fortunatamente - possiamo mettere a confronto più testimonianze e, selezionando fra loro quelle più signifi­ cative e più perspicue, cercare così di ricostruire una mappa attendibile degli usi. In primo luogo occorre ricordare un passo di Diogene Laerzio ( I 21; trad. Gigante, 1976'), in cui leggiamo: « Ma ancora poco tempo prima una scuola eclettica fu fondata da Potamone Alessandrino, il quale scelse da ciascuna scuola le massime che gli piacquero. Come dichiara negli Ele­ menti difilosofia, egli accetta questi criteri di verità: un primo "dal quale" si forma un giudizio, cioè il principio fondamentale dell'anima; un secondo "attraverso il quale", come la più esatta rappresentazione [phantasia] » • . Sappiamo poco o nulla di Potamone di Alessandria ( I sec. a.C.); dalla testimonianza laerziana sembra tuttavia evidente il succo del suo insegna­ mento e anche la coloritura "eclettica" della sua dottrina3• Esistono due tipi di criteri di verità: - quello "da cui" proviene il giudizio, ovvero la parte razionale dominan­ te dell'anima, qui indicata, con terminologia chiaramente stoicheggiante, come "egemonico" (hegemonikon) ; - quello "attraverso cui" o "per cui", cioè la rappresentazione o phantasia. Ancora di bipartizione parlerà Alcinoo ( n sec. d.C.), in un passo di cui non possiamo qui analizzare i dettagli, ma che si rivela utile per il quadro d' insieme della nostra indagine e che comunque si muove sempre sullo sfondo metaforico dello strumento tecnico utilizzato da qualcuno per for­ mulare un giudizio (cfr. Alcinoo, Did. 4 1-2 Hermann). Senza entrare nel merito della personalità e della collocazione filosofica - "medioplatoni­ ca" - di Alcinoo (cfr. VOL. IV, CAP. 1), la lettura di questo passo conferma

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che anche per lui il "criterio" indica, almeno in senso lato, ciò che giudica, da intendere appunto in due sensi: - ciò da cui qualcosa viene giudicato, che poi è l' intelletto ; - ciò attraverso cui qualcosa viene giudicato, che è lo strumento naturale del giudicare, ovvero niente altro che la ragione naturale (logos physikos). Limitandoci a ricordare solo di sfuggita, per ragioni di spazio, da una parte la ricca trattazione offerta da Tolemeo ( 100-175 d.C.) nell'operetta Sul criterio4 e dall'altra l' interesse in più punti mostrato da Galeno per le questioni legate ai limiti e/ o alle potenzialità delle nostre capacità conosci­ tive (cfr. fra gli altri Hankinson, 2009 ), se vogliamo avere una presentazio­ ne più completa dei diversi sensi in cui può esser intesa l'espressione "crite­ rio di verità'', dobbiamo tuttavia volgerci a Sesto Empirico (a cavallo fra I I e I I I sec. d.C.)1• Dei due resoconti che egli fornisce in proposito - senz'altro polemici, ma non per questo automaticamente e necessariamente infede­ li - quello presente nel I I libro dei Lineamenti pirroniani si impone per il suo carattere sintetico, ma preciso e accurato (cfr. Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp. II 13-17 ). Per dare completezza alla propria analisi, Sesto sembra dare in primo luogo per acquisita - presentandola con un dichiarato scrupolo di equità - la partizione più completa fino ad allora proposta del "campo d'azione" della filosofia. Egli uniforma dunque mimeticamente la propria indagine alla tripartizione della filosofia (logica-fisica-etica), qui espli­ citamente attribuita agli stoici e ad anonimi "altri", la cui identità viene svelata in Contro i matematici ( vII 1 6 ) : si tratta di Platone, almeno poten­ zialmente (dynamei; cfr. anche Cicerone, Vtzrro 19; Apuleio, De Platone et eius dogmate I 3; Eusebio, Praep. ev. XI 1 1, XI 3 6 ; Diogene Laerzio I I I 5 6 ; Pseudo Ippolito, R e/ I 18 2. ; Agostino, De civ. Dei VIII 4 ) , m a soprattutto di Senocrate, dei peripatetici e appunto degli stoici. Sesto decide infine di accogliere la proposta di quei dogmatici che pongono la trattazione del­ la logica quale inizio di ogni seria analisi filosofica, senza entrare qui nel merito delle diverse opinioni sorte su tale Anfangsproblem di carattere in­ sieme didattico e teorico, né delle possibili, sistematiche relazioni interne delle tre parti (più in dettaglio cfr. anche Adv. Math. VII 17-23 ) . Le ragioni offerte a sostegno di questa opzione, e in particolare della precedenza asso­ luta da concedere al discorso sul criterio sono dettate dalla constatazione secondo cui proprio sul basilare riferimento a un criterio si appoggia qual­ siasi asserzione in qualsivoglia campo della produzione dogmatica. Né si dimentichi, infine, che all'epoca di Tolemeo e di Sesto era ormai prassi corrente esprimere la propria posizione sul "criterio di verità''.

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Con un procedimento più volte adottato, soprattutto nei paragrafi ini­ ziali dei Lineamenti pirroniani, Sesto si preoccupa quindi di fissare i diversi sensi in cui può essere inteso il termine criterio, assunto in senso assoluta­ mente generico come "ciò in virtù del quale si giudica qualcos'altro". La pri­ ma bipartizione distingue nettamente fra un ambito di applicazione pratico, per il quale si rinvia alla trattazione delle quattro categorie della "osservanza della vita quotidiana" (ovvero quella biotike teresis, analizzata in dettaglio in Pyrrh. Hyp. I 21-24, su cui cfr. pp. 193-6) e uno per così dire più stricto sensu epistemologico. Quest'ultimo significato, oggetto legittimo della successiva trattazione "logica" sestana, si articola a sua volta in modo triplice, a seconda che di criterio si parli in senso generale, particolare o particolarissimo (cfr. anche la testimonianza dello Pseudo Galeno nel capitolo 12 della Historia philosopha: Dox. Gr. p. 606, 10). Un utile schema può aiutare a rendere im­ mediatamente chiare le relazioni - soprattutto quelle di reciproca inclusivi­ tà degli ultimi tre sensi esposte al § 1 s che caratterizzano tale « tipologia del criterio» (così Brennan, 2000, p. 69 ) : -

Criterio dell'agire (= "fenomeno") : istruzione naturale, necessità affettiva, ossequio tradizionale, insegnamento artistico

della verità (esistenza/ inesistenza delle cose) - generale = misura di comprensione [organi di senso, ad esempio vista (udito e gusto : Adv. Math. VII 3 1 ) ; cfr. Luciano, Ermotimo 70] - particolare = misura tecnica di com­ prensione [ad esempio squadra, compas­ so ( + cubito e bilancia: Adv. Math. VII 32); cfr. Platone, Phil 55d-56c] - particolarissimo = misura tecnica [assente in Adv. Math. VII 33] di com­ prensione di un oggetto non evidente criterio logico, esclusivamente dei dog­ matici =

L'ultima accezione sembra dunque restringere il campo di riferimento agli oggetti non evidenti6• Essa viene indicata da Sesto come suo bersaglio spe­ cifico e ulteriormente distinta in tre sensi. Si tratta di un accorgimento che

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sfocia in uno schema forse imputabile di una certa rigidità, ma utile per rendere più ordinato ed efficace 1' attacco, dopo la rapida esibizione della diaphonia dogmatica sull'esistenza o meno del criterio logico (cfr. Pyrrh. Hyp. II 1 8-2.0; leggermente imprecisa, invece, la "dichiarazione di intenti" che troviamo nella chiusa di Adv. Math. VII 34). Vediamo dunque di ricostruire questi tre significati, premettendo che il primo viene ripetutamente presentato nella sua funzione di "genere", di cui gli altri due altro non sarebbero che specie subordinate ( cfr. ad esempio Pyrrh. Hyp. I I 21, 47; Adv. Math. VII 263) : Criterio logico

a. ciò da cui = uomo (anthropos) b. ciò attraverso cui = sensazione/intelletto (aisthesis/dianoia) c. ciò in base a cui = contatto della rappresentazione (prosbole tes phantasias)

Lo schema qui proposto merita qualche parola di commento7• Innanzi tut­ to la partizione sestana presenta una forte originalità, che si manifesta so­ prattutto nella proposta di considerare l'uomo come criterio (cfr. Striker, 199 6b, pp. 69 ss., nonché, per una formulazione analoga, un passo tratto dallo scritto Sulle dieci categorie dello Pseudo Archita: 3 1.30-32.2). Si tratta di una proposta pienamente legittima, alla luce degli esempi tecnici utiliz­ zati, e forse dettata dalla reminiscenza della nota tesi protagorea secondo cui "l'uomo è misura (metron) di tutte le cose� soprattutto perché proprio Sesto spiega altrove come nel caso di Protagora per metron si debba inten­ dere il "criterio" (cfr. Pyrrh. Hyp. I 216, nonché Diogene Laerzio IX 95). Benché dunque sia possibile individuare un antecedente della partizione di Sesto nella già ricordata bipartizione attribuita da Diogene Laerzio a Po­ tamone di Alessandria, è Sesto, fra i filosofi a noi noti, ad aggiungere il terzo significato. Appare legittimo ipotizzare, inoltre, che tale aggiunta, operata direttamente da Sesto più che da una fonte intermedia, magari di prove­ nienza stoica, sia frutto di un'estensione all'ambito epistemologico della se­ conda delle tre accezioni che sempre gli stoici utilizzavano per dar conto del concetto di bene/ agathon (cfr. Pyrrh. Hyp. III 171 e soprattutto Adv. Math. XI 26, con la testimonianza parallela di Giovanni Stobeo = SVF III 74). Questa breve analisi di alcune testimonianze chiave sul significato del!'espressione "criterio di verità'' può essere ulteriormente arricchita da una breve indagine lessicale sul vocabolo kriterion e sui suoi usi (cfr. Stri­ ker, 1996b, pp. 23-6). Come nel caso di altri nomi neutri che terminano

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in -terion, anche questa parola serve a indicare "strumenti� sebbene non si possa dimenticare che almeno un autore antico - ovvero Tolemeo nel suo scritto Sul criterio - ne lega il significato a un luogo particolare, più esattamente al tribunale, al luogo dei giudizi forensi, spiegando così I' a­ nalogia che sorreggerebbe l'uso del termine in ambito filosofico. Un'altra possibile "parentela" che va ricordata è quella con il termine krites, ovvero arbitro, valutatore. Tenendo presente tutto ciò, si può concludere che "criterio" va inteso come mezzo o strumento per valutare, per discriminare, nel caso speci­ fico dell' indagine epistemologica, ciò che può essere vero o falso. Detto questo, però, ancora non sappiamo nulla sulla funzione di tale criterio o meglio su quali condizioni debbano essere soddisfatte per poter valutare il vero e il falso. Anzi, possiamo dire sin d'ora che tali condizioni mutano a seconda delle scuole filosofiche che impiegano il termine, benché sembri essere costante la volontà di attribuire al vocabolo un senso più ampio di quello che lo identificherebbe unicamente con le facoltà cognitive (in par­ ticolare ragione e sensi). Per rendere ancora più ricco il panorama teorico che ruota intorno a tale concetto di kriterion, si può forse tentare di soddisfare una legittima curiosità storica e porsi una domanda: quando il vocabolo "criterio" viene usato per la prima volta come termine tecnico del lessico filosofico ? Non è possibile fornire al riguardo una risposta assolutamente certa. Sembra indubitabile che l'uso tecnico non possa essere rinvenuto in Platone, dove compaiono solo due occorrenze significative, quasi tecniche : la prima in un passo della Repubblica ( I x 582a-e) e la seconda - di gran lunga la più si­ gnificativa nonché la più ricca di conseguenze e "posterità" per il dibattito di età ellenistica - nel Teeteto (178b), dove con "criterio" si indica la facoltà percettiva in generale. Analoga conclusione negativa va estesa anche ad Aristotele, nel cui corpus si può rintracciare una sola occorrenza degna di essere presa in considerazione. Si tratta di un passo della Metafisica, dove al termine criterio viene attribuito il valore di "organo giudicante", sul piano tanto delle affezioni sensibili quanto, sembra, su quello dei valori etici ( cfr. Metaph. XI 6 1062b 32-1063a 6). Alla luce dei testi che abbiamo appena ricordato, soprattutto dell'allu­ sione registrata nel Teeteto platonico, è forse possibile accogliere l ipotesi di Striker, che propone di individuare altrove la radice lontana di un'uti­ lizzazione tecnica di "criterio", ovvero in autori legati a Democrito e im­ pegnati a discutere criticamente la posizione di Protagora. Il primo nome

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che si può fare al riguardo - a parte quello di Metrodoro, che abbiamo già ricordato (cfr. supra, p. 172) - è forse quello di Nausifane. Non si può escludere che egli avesse affrontato la "questione criteriologica" nel suo scritto intitolato Tripode e che proprio queste riflessioni avessero finito per influenzare Epicuro, il quale del resto secondo alcune fonti - sulla cui attendibilità non si può tuttavia giurare - « attinse la materia del suo Ca­ none dal Tripode di Nausifane » , di cui fu discepolo (cfr. Diogene Laerzio X 14, nonché Verde, 2013b, pp. 251-66). Un indizio forse più solido a sostegno di tale ipotesi può venire da una testimonianza (comunque non facile da interpretare e dunque da utiliz­ zare con grande cautela) conservata nuovamente da Sesto Empirico. Essa attribuisce a un certo Diotima (forse democriteo ?) un chiaro interesse per la determinazione di una compiuta dottrina del criterio o meglio dei crite­ ri. Egli la riconduce senz'altro già a Democrito, ma contemporaneamente la "ritraduce" secondo una terminologia tipica del dibattito ellenistico sul criterio e la presenta come una sorta di "anticipazione" delle conclusioni di Epicuro, probabilmente con l' intento di dimostrare che quest 'ultimo non aveva detto al riguardo nulla di nuovo8• Questo sembra essere un impor­ tante antecedente storico del dibattito sul criterio, come emerge dal brano sestano : « Diotima riferisce che secondo lui [Democrito] tre sono i criteri di giudizio : (1) i dati fenomenici, per la comprensione delle cose invisibili ("i fenomeni infatti sono indizio visibile delle cose invisibili", come dice Anassagora (59 B 21 DK] , che Democrito loda per questo detto), (2) il concetto, per la ricerca scientifica ("infatti su qualsiasi argomento, ragazzo mio, uno è sempre il punto di partenza, di sapere intorno a che cosa verte la ricerca" [Platone, Phaedr. 237b ] ) , (3) le passioni, per quel che si deve desiderare o fuggire : perché ciò verso cui ci sentiamo attratti è da seguire, ciò da cui ci sentiamo respinti è da fuggire » (76 A 3 DK = Adv. Math. VII 140; trad. Alfieri, 1936). Insomma, anche se, allo stato delle nostre attuali conoscenze, bisogna sospendere il giudizio su di una sua possibile dipendenza dalla scuola de­ mocritea, resta sempre aperta la possibilità che proprio a Epicuro debba essere attribuito il merito di aver fatto del vocabolo "canone" un termine tecnico, una sorta di "bandiera epistemologica", come forse mostra il tito­ lo stesso dell'opera in cui egli maggiormente doveva trattare di questioni legate alla teoria della conoscenza: Sul criterio o Canone, uno scritto - a quanto pare - molto noto, molto diffuso e molto discusso nell'antichità (cfr. Diogene Laerzio x 27 )9•

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Epicuro

Rispetto alla "criteriologia" di Epicuro siamo abbastanza fortunati. Gra­ zie alla testimonianza di Diogene Laerzio, infatti, possiamo ricostruirne i tratti salienti, con la ragionevole ipotesi che le notizie provengano, alme­ no nei punti essenziali, direttamente e proprio dal Canone. Questo scritto epicureo merita qualche ulteriore parola di commento, almeno per deter­ minare cosa si nasconde dietro la metafora del titolo. Che cos'è infatti il "canone" (kanon) ? È il regolo utilizzato dal muratore nella sua attività di costruzione ; è il mezzo attraverso cui egli determina la misurazione, la cor­ rettezza di ciò che sta facendo ; ancora più specificamente, è lo strumen­ to - potremmo forse dire tecnicamente la "livella'' - per mezzo del quale il muratore è in grado di "testare" quanto la sua opera sia dritta o storta. Al di là della probabile "preistoria filosofica" di questo riferimento ana­ logico, le cui occorrenze toccano ad esempio pensatori come Democrito, Aristotele e forse Timone (cfr. rispettivamente : 68 B 6 DK; Eth. Nicom. I I I 4 m3a n; Sesto Empirico, Adv. Math. XI 20 ), è opportuno richiama­ re l'esigenza di fondo che si muove dietro gli sforzi epistemologici delle filosofie ellenistiche, sintetizzata in un brano sestano, in cui viene ulte­ riormente arricchito e spiegato l'ambito metaforico del "canone": « Cosa mostruosa, infatti, sarà se noi ci metteremo a indagare con tutta serietà sui "criteri" che sono fuori di noi - quali, ad esempio, regoli e compassi e bilance e scale - e trascureremo, invece, quel criterio che è dentro di noi e che sembra essere capace di controllare tutti quanti gli altri » (cfr. Adv. Math. VII 27; trad. in Russo, 1975). Naturalmente affinché la "livella" possa svolgere adeguatamente il pro­ prio compito, deve essere essa stessa dritta. Se questo è il senso e l'ambito della metafora del canone possiamo allora trarre una conclusione preli­ minare e valida come regola generale sul piano epistemologico : il crite­ rio di verità, in quanto mezzo per giudicare della verità e/ o della falsità di .qualcosa, deve essere esso stesso vero, in quanto dotato soprattutto di un' incontrovertibile "evidenza'' o enargeia (cfr. perciò Ierodiakonou, 2 o u ) . Vedremo subito come questa premessa sia assolutamente rispettata da Epicuro, i cui criteri vanno infatti considerati quasi come "verità pri­ mitive", originarie, non bisognose di prove o di ulteriori catene argomen­ tative a sostegno. Se tentiamo di fornire una prima spiegazione sul perché Epicuro insista tanto sul carattere autoevidente del criterio, sottratto alla necessità di dimostrazioni ulteriori, possiamo forse dire che così facendo

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egli ritiene di sfuggire al pericolo di un regresso all' infinito, che minereb­ be le basi stesse di qualsiasi conoscenza. E possiamo anche aggiungere, con un significativo ampliamento della nostra prospettiva, che si tratta di un'esigenza già fatta valere - mutatis mutandis, è ovvio - da Aristote­ le, nella giustificazione della verità delle premesse di un'argomentazione scientifica ( cfr. almeno, in proposito, un noto brano degli An. Post. I 3 72sb s-25 ) . Forti di queste delucidazioni preliminari e lasciando da parte ogni spie­ gazione fisico-materialistica del fenomeno della sensazione, dalla formazio­ ne e distacco delle pellicole atomiche dette eidola dalla superficie dei corpi alla loro trasmissione nel mezzo interposto del!'aria, fino alla loro ricezione da parte degli organi di senso10, possiamo far tesoro di una testimonianza di Diogene Laerzio ( x 28-34; cfr. anche Cicerone, Luc. 142 ) , estremamente significativa per la dottrina epicurea del criterio ( anzi dei criteri ) . Essa si occupa appunto "del criterio e del principio" ed è detta an­ che - nel senso più pregnante del termine, credo - "dottrina elementare". Se schematizziamo la testimonianza laerziana, questi sono i criteri di verità di Epicuro : 1. 2.

3.

aistheseis prolepseis pathe

sensazioni pre-nozioni (anticipazioni) affezioni (sentimenti)

I impressioni sensoriali I prolessi I passioni

Ai criteri appena menzionati gli epicurei - più tardi, solo in un secondo momento, dovremmo supporre seguendo ancora la testimonianza di Dio­ gene Laerzio, il quale dunque non dipende più, in proposito, dal Canone di Epicuro - ne aggiunsero un altro : 4. phantastikai epibolai tes dianoias, ovvero "apprensioni dirette della rappresen­ tazione del pensiero" o, con una traduzione forse meno ridondante, "contatti rap­ presentativi/applicazioni rappresentative della mente�

Va detto subito che non ci occuperemo affatto del terzo criterio, poiché esso ha a che fare soprattutto, benché non unicamente, con i nostri atti di scelta e rifiuto in ambito pratico e dovrebbe dunque essere più corretta­ mente oggetto specifico di un' indagine etica, non epistemologica. Né del resto ci soffermeremo sul quarto dei criteri appena ricordati, sia perché esso pone problemi di attribuzione e collocazione storiografica che esulano dal­ lo scopo di questa trattazione, sia perché rientra in una sfera di riflessione

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gnoseologica più sofisticata, comunque al d i l à delle condizioni basilari o fondamentali, che in primo luogo interessano la nostra analisi epistemolo­ gica (cfr. in generale Asmis, 1984; 2009). Concentriamoci allora sui primi due criteri. Dobbiamo in questo caso risolvere immediatamente una questione testuale e insieme concettuale di non poco conto. Possiamo davvero parlare di due criteri, fra loro indipen­ denti ? O il modo stesso in cui ci vengono presentati nel brano laerziano induce a considerare il secondo di essi, le pre-nozioni o anticipazioni, su­ bordinato rispetto al primo ? Gli interpreti si sono divisi al riguardo e non è facile decidere. Credo tuttavia che le ragioni addotte ancora una volta da Striker a favore dell' indipendenza dei due criteri siano altamente attendi­ bili e quindi da accogliere1'. Una volta chiarito questo punto, possiamo procedere a un ulteriore ap­ profondimento del senso e della portata del primo criterio, che può essere condensato nello slogan per cui "tutte le sensazioni sono vere". Esse sono infatti sottratte a ogni forma di logos (sono cioè "a-logiche" o si potrebbe dire addirittura "a-razionali") e soprattutto sottratte a qualsiasi confuta­ zione, provenga quest 'ultima da altre sensazioni o dalla ragione, che anzi dalle sensazioni stesse dipende. Né è possibile operare una discriminazio­ ne fra le sensazioni, perché tutte hanno lo stesso peso, lo stesso valore, la stessa attendibilità (cfr. anche Rat. Sent. XXIII-XXIV ) . Il meccanismo che opera dietro questa dottrina epicurea può forse esse­ re chiarito con uno schema modellato in forma di implicazione : - se anche una sola sensazione fosse falsa, allora la sensazione non sarebbe criterio; - ma le sensazioni non sono false, anzi sono tutte vere; - dunque sono anche il criterio.

Rispetto a questa tesi epicurea potrebbero essere fatte valere una serie di obiezioni "classiche" contro l'attendibilità dei sensi, che erano state solle­ vate in modo eminente già da Democrito e che saranno in seguito siste­ matizzate dallo scetticismo di matrice pirroniana, soprattutto nella batte­ ria dei cosiddetti "dieci tropi della sospensione del giudizio" (cfr. CAP. 3 , pp. 67-9 ) . A parte ogni critica, però, mi sembra più produttivo sgombrare il campo da un possibile fraintendimento. Secondo una linea esegetica di tendenza potremmo dire "analitica", legata alla centralità della svolta lin­ guistica imposta all'agenda filosofica in alcuni ambiti del dibattito erme­ neutico del Novecento e che è stata molto in voga (ma che ora forse stenta

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a mantenere il suo predominio), infatti, la tesi secondo cui "tutte le sensa­ zioni sono vere" andrebbe più correttamente riformulata in questo modo : "tutte le proposizioni che esprimono linguisticamente una sensazione sono vere". L'etichetta di vero o falso non dovrebbe insomma essere attribuita all'atto fisico della modificazione sensoriale che subisce il soggetto perci­ piente, ma solo al corrispondente proposizionale di un linguaggio naturale che quell'atto descrive in un codice linguistico dato. Una simile posizione rischia di tradire il genuino spirito della dottrina di Epicuro: la sensazione non è per lui proposizionale, proprio perché è appunto a-logos, sottratta al dominio del discorso e dunque anche della memoria (mneme). Essa ci dice solo che qualcosa esiste fuori di noi e urta i nostri sensi. La aisthesis, quindi, è vera in quanto reale. In Epicuro, allora, si può dire si diano due nozioni di verità: la prima è identica alla realtà, la seconda è legata ai giudizi o alle opinioni che si formulano sulla realtà stessa. In questo senso sono solo i giudizi, le doxai, i luoghi della verità e dell'errore (cfr. Ep. Herod. 50), sottoposti al vaglio di una serie complessa e articolata di sistemi di "valida­ zione", che oscillano fra la conferma/ non conferma ( epimartyresis/ouk epi­ martyresis) e la smentita/non smentita (antimartyresis/ouk antimartyresis) da parte dell'evidenza sensibile (cfr. Ep. Herod. 50-51 e più in dettaglio una lunga testimonianza sestana: Adv. Math. VII 203-21 6 = 247 Usener, non­ ché ora Verde, 201 3d, pp. 58-63 e soprattutto 76-9 ). Tutto ciò non impedisce certo che le sensazioni vengano poi comuni­ cate per mezzo del linguaggio. Il raggio delle proposizioni che possono esprimere sensazioni si estende almeno a tre possibili ambiti. Si danno dunque proposizioni: 1. su oggetti specifici e puntuali della sensazione ("questa cosa è dolce, dura ecc."; "qui c 'è luce"), dove dominano rispettivamente la categoria on­ tologica della presenza e quella gnoseologica dell'evidenza; in questo caso si può postulare una sorta di infallibilità dei sensi rispetto ai loro oggetti specifici, secondo una dottrina che sembra già adombrata - benché ovvia­ mente non condivisa da Platone - nel Teeteto (cfr. 179c-d) ; 2. su stati di cose che possono essere sottoposti a osservazione ("sta arrivan do PI atone " ; "I a torre e' rotond a" ; "questa cosa e' un cavaIlo ") ; m questo caso si tratta di interpretazioni di sensazioni e di contenuti percettivi, che non sono automaticamente vere sempre, ma possono essere anche false (cfr. Adv. Math. VIII 63); 3. su quelle che potremmo definire inferenze a base empirica fondate sul ragionamento ("i corpi si muovono nel vuoto")12. .

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Seguendo in modo ordinato il contenuto della sezione laerziana dedi­ cata alla canonica, dobbiamo ora occuparci del secondo criterio, quello costituito dalle pre-nozioni o anticipazioni. In via del tutto preliminare bisogna ricordare che, come attesta Cicero­ ne (De nat. deor. I 44), Epicuro sembra essere stato il primo a servirsi del termine o addirittura a inventare la nozione di prolepsis13• Al di là di questo primato, il passo laerziano più volte ricordato fornisce una defìnizione a più facce della prolessi, dicendo che essa è « quasi una cognizione o im­ mediata apprensione del reale o un'opinione retta o un pensiero o un' idea universale che è insita in noi, cioè la memoria di ciò che spesso è apparso dall'esterno, come quando diciamo "questo qui è un uomo" » (Diogene Laerzio x 33; trad. Gigante, 19762). Emerge chiaramente da questo passo non solo la base empirica che sor­ regge ogni pre-nozione, ma anche le modalità che a quanto pare regolano la sua formazione. Quando noi vediamo ripetutamente uno, due, tre, più uomini si forma in noi una nozione di uomo, intesa come typos, cioè come una sorta di "callo" fìsico-materialistico, che non coincide certo con alcun individuo particolare, ma copre le caratteristiche della specie intera. Forti di questo concetto generale, che come scrive Lévy (1997, trad. it. p. 71) è « la traccia materiale lasciata nella nostra mente dal passaggio dei simulacri » , noi possiamo quindi utilizzarlo come una vera e propria anti­ cipazione e confrontare con esso ogni singolo esempio che si presenta e si presenterà alla nostra esperienza. Solo in virtù delle corrispondenti proles­ si possiamo dire che quel certo oggetto che sta lontano è un bue o un caval­ lo o un uomo. Anzi, aggiunge Epicuro : « a nulla avremmo potuto dare un nome, se precedentemente non avessimo imparato la sua impronta [typos] per prolessi » (Diogene Laerzio x n; trad. Gigante, 19762). Proprio questo accenno alla dimensione del linguaggio consente forse di utilizzare, a ulteriore chiarimento del senso e della portata della prolepsis epicurea, un altro passo laerziano (per un dettagliato commento del passo cfr. Verde, 2010b, pp. 77-83). Anche se in esso questo termine non compare esplicitamente, infatti, mi sembra difficile negare che largomentazione lì svolta abbia come obiettivo il chiarimento della funzione delle pre-nozioni. Il nucleo teorico di questo brano (Diogene Laerzio x 37-3 8) mi pare evidente. Occorre in primo luogo afferrare ciò che sottostà alle parole, per potere nell'ordine : 1. discriminare, nel senso della loro verità o falsità, questioni di opinione, problemi o dubbi fìlosofìci;

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2. evitare catene ininterrotte di dimostrazioni e prove e mettere così fine al pericolo di un regresso all' infinito, la tipica funzione che può e deve essere svolta, come abbiamo già visto, proprio da un criterio di verità; 3. fuggire il rischio di muoversi in un circolo di vuote e vane parole (ri­ schio più volte paventato da Epicuro, anche in ambiti che potremmo defi­ nire più strettamente etico-politici, come ad esempio nella definizione del giusto riportata nella Massima Capitale xxxvn ) . Nella parte conclusiva del brano viene ribadito il carattere immediato di tale "primo pensiero" o proton ennoema, che viene identificato come un punto di riferimento ineliminabile, alla luce del quale valutare ogni tipo di indagine, dirimere eventuali dubbi e giudicare delle opinioni, che possono essere tanto vere quanto false. Se raccogliamo i dati finora emersi, possiamo dire che le pre-nozioni epicuree vanno intese sempre e comunque nella materialità della loro strut­ tura e presentate sul piano conoscitivo come verità autoevidenti; ma forse possiamo andare oltre e sostenere che esse sono anche proposizioni di carat­ tere generale, che si lasciano cogliere dietro l'uso delle corrispondenti paro­ le. È quanto emerge dal!' analisi di due dei più noti esempi di prolessi nella dottrina epicurea, rispettivamente quelle relative alla giustizia e alla divini­ tà, accuratamente descritte rispettivamente nella Massima Capitale 3 7 e in apertura del!' Epistola a Meneceo, dove troviamo una serrata, a tratti anche pungentemente polemica argomentazione a sostegno e spiegazione della corretta pre-nozione della divinità (cfr. CAP. 4 e Spinelli, 2015c). Se vogliamo individuare una cifra comune all' insieme delle considera­ zioni fin qui svolte, siamo forse legittimati a ritrovarla nell' idea per cui la pre-nozione risulta essere una sorta di ipotesi, se non addirittura un vero e proprio fatto conoscitivo, materialisticamente strutturato in forma ato­ mica, che dobbiamo possedere in anticipo per poter svolgere qualsiasi tipo di ricerca e soprattutto per avanzare nella dimostrazione, mettendo alla prova e valutando, come si legge alla fine di Diogene Laerzio x 3 3 , ogni nuova opinione. Anche perché, non dimentichiamolo, questo è apparso essere lo scopo di fondo nella posizione e nella difesa dei criteri: quello di utilizzarli per giudicare della verità o della falsità di qualsiasi cosa sfugga alla forza cogente dell'evidenza. Non a caso, allora, il brano laerziano relativo alla canonica epicurea da cui siamo partiti si conclude con una sezione dedicata all'opinione o doxa o hypolepsis, che può essere sì vera, ma che Epicuro indica chiaramente, e non solo in questo passo, come il possibile luogo del falso e dell'errore

EPISTEM O L O G I E ELLEN I S T I C H E

(cfr. anche Diogene Laerzio x 51). Il meccanismo in virtù del quale ope­ rare tale distinzione, fondamentale dal punto di vista gnoseologico, viene appena accennato nel brano laerziano. Più dettagliata e ricca, invece, è al riguardo una testimonianza di Sesto Empirico (Adv. Math. VII 203-21 6), i cui dati essenziali vale forse la pena ricapitolare in modo efficace e imme­ diato grazie al seguente schema: Condizione di verità/falsità

Ambito

VERA

confermata dall'evidenza sensibile "non confutata"

to prosmenon Platone che arriva to adelon esistenza vuoto

FALSA

non confermata dalla sensazione "confutata"

non esistenza vuoto to prosmenon Platone che arriva

doxa

Esempio

to adelon

Questa griglia interpretativa e questo tipo di « relazione epistemologica tra l'opinione e la sensazione » (Lévy, 1997, trad. it. p. 74) si adatta bene a fatti e stati di cose che accadono in un solo modo (monachos). Essi infatti ammettono una e una sola spiegazione, naturalmente quella vera, come emerge soprattutto dalla difesa epicurea del fondamento stesso della dot­ trina atomistica, ovvero della dottrina secondo cui "tutto consiste di corpi e di vuoto" (cfr. soprattutto un passo centrale dell' Epistola a Erodoto: Dio­ gene Laerzio X 39-40; CAP. 4). Esistono tuttavia anche fatti e ambiti del reale, sia osservabili sia col­ locabili nel regno delle cose oscure o non evidenti, che vengono spiegati tramite opinioni, che non possono essere dette vere o false, secondo i cri­ teri riassunti nello schema precedente. Della verità di questo tipo di opi­ nioni possiamo affermare solo la probabilità e non la certezza assoluta. In questo caso non bisogna costringere lattività filosofica a formulare una sola ipotesi esplicativa, ma bisogna lasciare spazio a spiegazioni molteplici, attenendoci a un principio di sana cautela euristica, che potrebbe suonare così: accontentiamoci di sapere che una di tali spiegazioni deve essere vera, anche se noi non siamo nelle condizioni di determinare quale. Per comprendere meglio questa posizione, che sembra lasciar spazio an­ che a una nozione più sfumata e meno rigida del criterio di verità, conviene senz'altro richiamare almeno due esempi concreti di applicazione di tali

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STORIA D ELLA FILO S O FIA ANTI C A

spiegazioni multiple. Il primo, esplicitamente e costantemente richiamato nell' Epistola a Pitocle, ha a che fare con i fenomeni celesti e la ratio che ne determina la comprensione da parte del soggetto conoscente ( cfr. CAP. 4 ) . Il secondo, che cito per amore di completezza, riguarda le ipotesi multiple che rendono conto della morte di un uomo; esso ci è stato conservato da Lucrezio, in un passo sicuramente problematico, soprattutto e appunto in relazione alla dottrina delle molteplici spiegazioni descritta nell' Epistola a Pitocle appena ricordata (cfr. §§ 85-88 e 97, nonché, in proposito, Verde, 2.013a) , ma che vale la pena riportare per esteso : « Ci sono anche fenomeni, per i quali non basta enunciare un'unica causa, ma occorre addurne diver­ se, tra le quali tuttavia una sola è la vera; così se vedi lontano giacere il corpo esanime d'un uomo, conviene che tu enumeri tutte le cause di morte, per­ ché sia enunciata quella sola che lo riguarda. Non potresti dimostrare ch'e­ gli sia morto di spada né per freddo o per malattia né - supponi - per un veleno, ma sappiamo che è stata qualche cosa di tal genere che l'ha colpito. Similmente per molti altri fatti possiamo dir questo » ( Lucrezio, Rer. Nat. VI 703-71 1 ; trad. Fellin, 19762; più in generale cfr. Warren, 2004 ) .

Gli stoici

Come introduzione alla dottrina stoica sul criterio conviene forse enun­ ciare alcune opzioni teoriche e dottrinali, cui questa scuola. ellenistica ten­ ne sempre fede nel corso della sua storia. 1. In primo luogo bisogna tenere sempre a mente un aspetto essenziale del pensiero stoico : il suo carattere sistematico. Se infatti è vero che noi siamo soliti per così dire isolare e "dipartimentalizzare" singole questio­ ni in singoli ambiti, considerando ad esempio logica, fisica ed etica come campi distinti - addirittura forse incomunicanti - dello scibile, ciascuno dotato di autonomia insieme contenutistica e metodologica, altrettanto vero, però, è che un simile approccio non vale assolutamente nel caso dello stoicismo antico, che non alza steccati fra le varie parti della filosofia (cfr. Diogene Laerzio VII 39-40 ) . L'esame della dottrina del criterio non fa che confermare questo carattere sistematico della filosofia stoica, poiché coin­ volge immediatamente temi che non sono strettamente ed esclusivamente epistemologici, ma preliminarmente fisici e successivamente anche etici. 2. Se poi vogliamo descrivere con aggettivi adeguati e immediatamen­ te caratterizzanti il complesso di questo sistema filosofico, dobbiamo dire

EPISTEM O L O G I E ELLEN I S T I C H E

che esso è non solo radicalmente materialistico sul piano della costituzio­ ne ontologica del reale, ma anche e altrettanto radicalmente sensistico su quello della determinazione gnoseologica di tutte le nozioni elaborate nel pensiero, tramite l'esercizio riflessivo della ragione14• 3 . Se infine ci spostiamo sul piano specifico che caratterizza l'approccio di questo capitolo, quello più strettamente epistemologico, occorre sotto­ lineare, quale premessa ermeneutica generalissima, la convinzione stoica secondo cui una conoscenza certa e sicura della realtà è non solo possibile, ma alla portata degli esseri umani le cui facoltà percettive si esercitino in condizioni adeguate, non siano alterate e siano dunque capaci di garantire la corretta base per l'uso compiuto della propria razionalità (cfr., in modo paradigmatico, un passo di Epitteto : Diatr. III 3 2 ) . Del resto, è proprio questa forte convinzione - sorretta dalla fede incrollabile in una visione materialistica e alla radice fortemente anti­ platonica - che consente di comprendere meglio, per contrapposizione dialettica, la costante attività di critica svolta dalla cosiddetta Accademia scettica, che attaccando tale pretesa stoica tenta di negare la legittimità di un criterio di verità e di giungere così alla sospensione del giudizio su tutte le cose o epoche peri panton. La storia di questa controversia epistemologi­ ca si svolge lungo un arco di secoli, con continui aggiustamenti e correzio­ ni di rotta e rappresenta uno dei momenti più interessanti e produttivi di tutta la filosofia ellenistica11• Restando sul versante stoico, esistono testimonianze che potrebbero far pensare a un disaccordo interno alla scuola in merito all'esatta indivi­ duazione del criterio di verità. Come si legge in Diogene Laerzio (vn 5 4 ; trad. Gigante, 19761, leggermente modificata), infatti, « definiscono cri­ terio della verità la rappresentazione che coglie immediatamente la realtà [kataleptike phantasia] , cioè che procede dall'esistente, come affermano Crisippo nel secondo libro della Fisica e Antipatro e Apollodoro. Boeto a sua volta ammette una pluralità di criteri, cioè la mente e la sensazione e il desiderio e la scienza. Crisippo d'altra parte nel primo libro della Logica lo contraddice, sostenendo che criteri sono la sensazione e la prolessi: la prolessi è il naturale concetto dell'universale. Alcuni altri rappresentanti dell'antica Stoa ammettono come criterio la retta ragione, come attesta Posidonio nella sua opera Sul criterio » . Al d i là delle possibili imprecisioni e distorsioni del resoconto laerzia­ no, mi sembra di poter dire, anche alla luce di altre testimonianze, che gli stoici - con una linea di continuità che nel passo di Diogene va da

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STORIA DELLA FI LO SO FI A ANT I C A

Crisippo ad Apollodoro ad Antipatro, ma che quasi sicuramente si può far risalire già a Zenone - concordassero comunque sul ruolo privilegiato da riconoscere alla "rappresentazione comprensiva" o phantasia kataleptike quale genuino criterio di verità. Se tuttavia intendiamo comprendere fino in fondo il vero valore di tale nozione, dobbiamo forse fare un passo indietro e fornire in primo luogo una descrizione generale della struttura della conoscenza secondo gli stoici, caratterizzata da una sorta di costante dinamismo interno. Al riguardo ci aiuta un brano di Cicerone (Luc. 30 ), in cui troviamo ribadite alcune delle opzioni teoriche ricordate in precedenza, dalla base sensistica di ogni nostra conoscenza alle operazioni mentali che da quella base dipendono fino alla fiducia nella piena conoscibilità del reale e nella ricaduta pratica rappresen­ tata dalla comprensione di "come stanno veramente le cose". Un elemento che emerge chiaramente, inoltre, è il ruolo di primo piano attribuito alla "rappresentazione� nella sua capacità di "fotografare" attraverso i sensi gli oggetti esterni. Se questa è la funzione riconosciuta alla phantasia - che, non dimentichiamolo, e causata dall'oggetto esterno - sembra legittimo considerarla come uno stato passivo, proprio della prima tappa del più ge­ nerale processo conoscitivo'6• Per rendere più comprensibile l'intreccio concettuale che questa dot­ trina e questa interpretazione chiamano in causa, vale forse la pena, allora, insistere prima di tutto sulle modalità di definizione del concetto generale di phantasia, quasi a mo' di utile introduzione alla nozione più specifica di rappresentazione comprensiva. Al di là del resoconto dossografìco fornito da Diogene Laerzio (vn 4546), ricco di notizie, ma privo di indicazioni sulla storia e sull'evoluzione della definizione di phantasia all'interno dello stoicismo antico, conviene rivolgersi ancora una volta a Sesto Empirico (cfr. Adv. Math. VII 227-231). Innanzitutto egli registra in modo fededegno il meccanismo complessivo attraverso cui si formano le rappresentazioni: dagli oggetti esterni, grazie alla mediazione dei sensi, si genera un vero e proprio "impatto fisico" sull'anima, o meglio su quella parte del tutto speciale di essa che è legemonico. Inoltre, egli si preoccupa di riportare in modo accurato - nonché ovviamente inte­ ressato, nel senso dell'esibizione in atto di una discordanza o diaphonia dog­ matica - le diverse posizioni assunte al riguardo dai primi pensatori stoici (utili indicazioni al riguardo si leggono in Togni, 2010, cap. 11 ) . Dalla testimonianza di Sesto emergono alcune dottrine chiave, ovvero : 1. quella apertamente materialistica e non ancora del tutto articolata di

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Zenone, che descrive la rappresentazione come un' impressione o pressio­ ne fisica (typosis) esercitata dall'esterno sull 'anima, da considerare verosi­ milmente come un blocco di cera vergine'7; 2 . quella di Cleante, che, parlando dell' impressione come "sporgenza e ri­ entranza", tenta di precisare e affinare la dottrina zenoniana, senza tuttavia rinnegarne lo sfondo materialistico ; 3. quella di Crisippo, che, insoddisfatto forse proprio a causa di una cer­ ta crudezza materialistica dei precedenti tentativi, tenta di sfumare i toni, ritraducendo l impressione zenoniana nella più diluita e vaga nozione di alterazione nell'anima18• Questo è il quadro evolutivo delle nozioni di "rappresentazione" pro­ gressivamente accolte dagli stoici, che tuttavia non ci dice ancora nulla sul loro criterio di verità. Per poter giungere a una forma di conoscenza davvero fondata, infatti, non basta certo servirsi indiscriminatamente di tutte le rappresentazioni che ci colpiscono. Occorre piuttosto poter ope­ rare una selezione al loro interno, accogliendo solo quelle che posseggono la caratteristica del tutto peculiare di rivelarci l'oggetto da cui provengono così come esso è in realtà. È questa la convinzione propria già di Zenone : lo apprendiamo ancora una volta da un passo di Cicerone ( Vtzrro 40-41), grazie a cui si può inoltre notare, in linea generalissima, come nel deline­ are i contorni del concetto di "rappresentazione comprensiva" gli stoici si muovano fin dall' inizio all' interno dello stesso ambito teorico, che abbia­ mo già analizzato a proposito di Epicuro. Anche per loro, infatti, esiste e può essere esibito un criterio di verità; e anche per loro questo criterio ha a che fare essenzialmente con le nostre impressioni percettive. Mentre Epi­ curo, però, difendeva la verità di tutte le impressioni sensoriali, sottratte all'errore proprio in virtù del loro carattere radicalmente "a-razionale': gli stoici sembrano assumere una posizione meno paradossale, o se si vuole più moderata e vicina al senso comune. Essi ritengono infatti che le nostre impressioni possono essere vere come anche false, poiché possono trasmet­ tere del mondo esterno informazioni attendibili come anche inattendibili. Insomma, il resoconto ricavabile dal rapporto sensoriale con il reale deve essere sottoposto all'assenso dell'anima (sygkatathesis), che Zenone pone in noi stessi e considera volontario, anche se - con un gioco di relazioni apparentemente ossimorico - esso appare contemporaneamente inevita­ bile, vista la forza e la cogenza insite nel carattere assolutamente evidente della "rappresentazione comprensiva", che ne costituisce la base'9• Dal!' incrocio di numerose testimonianze, soprattutto ciceroniane, è

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possibile sottolineare, riprendere e approfondire anche altri elementi. In primo luogo Zenone afferma che fra le rappresentazioni ve ne sono alcune che riproducono in modo assolutamente fededegno gli oggetti da cui pro­ vengono e quindi consentono a chi le riceve di stabilire con certezza tanto se le cose stanno esattamente così come si manifestano al soggetto percipiente quanto se esse sussistono veramente così come si danno in ambito percet­ tivo. Sono insomma un criterio di sussistenza (kriterion tes hyparxeos), che giudica della presenza o esistenza di un oggetto o di uno stato di cose (cfr. in proposito anche una testimonianza sestana: Pyrrh. Hyp. II 1 4 ) e una sal­ da norma di conoscenza (cfr. perciò quanto si legge in Cicerone Varro 4 2. : «la comprensione ottenuta per mezzo dei sensi gli [a Zenone] sembrava appunto verace e fedele [ ... ] perché la natura ha offerto appunto nella com­ prensione direi quasi una regola della scienza e un principio proprio di se stessa » , trad. Del Re, 1976)'°. Forse per questo lo stoicismo antico non ama utilizzare l'immagine del canone, ma un'altra analogia, ben attestata in una testimonianza crisippea e forse giustificabile anche in virtù di un gioco etimologico che fa derivare phantasia daphos, "luce": «La rappresentazione prende il suo nome dalla pa­ rola luce: così come la luce rivela insieme se stessa e le cose che abbraccia in sé, così la rappresentazione rivela insieme se stessa e ciò che la produce » (Pseu­ do Galeno, Historia philosopha 93 = SVF II 54; trad. lsnardi Parente, 1989 ) >'. Al di là di queste considerazioni, comunque, quel tipo di rappresenta­ zione, detta comprehendibile da Cicerone (ovvero "catalettica")», si pone come genuino criterio in virtù di due peculiarità: l. è prodotta o, se si vuole, causata da un oggetto esterno reale; 2.. riproduce tale oggetto in modo assolutamente accurato ed è proprio tale accuratezza e chiarezza che la distingue da altri tipi di rappresentazione. La seconda delle caratteristiche appena enunciate rivela la forza intrin­ seca (la propria declaratio) di tale rappresentazione, che dunque assume un carattere autoevidente e autocertificante, risulta completamente alla por­ tata di un essere umano razionale adulto ben sviluppato/dai sensi integri ed è capace di determinare in modo immediato l'assenso, fino al punto di costituire per Zenone la vera comprensione o katalepsis e di avviare così quell'articolato processo conoscitivo che trova il suo culmine nel raggiun­ gimento, da parte del sophos, di un saldo sistema di comprensioni ovvero stricto sensu della vera scienza o episteme, di quella infallibilità cognitiva che tuttavia non può trasformarsi in onniscienza (per ulteriori considera­ zioni in proposito cfr. Togni, 2.010, cap. m ) .

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L'attacco scettico-accademico e la risposta stoica

L' impianto dogmatico di questa dottrina stoica venne tuttavia attaccato da Arcesilao, iniziatore della tendenza scettica all' interno dell'Accademia platonica. Non è qui possibile soffermarsi in dettaglio sui numerosi aspet­ ti - filosoficamente rilevanti - che emergono dalle sue obiezioni, tutte volte ad attaccare proprio il concetto zenoniano di "comprensione" (cfr. p. 187). Ci si limiterà pertanto ad accennare a due soli punti. 1. Una delle critiche più forti mosse da Arcesilao a Zenone si fonda sull 'os­ servazione per cui l'assenso si concede a un giudizio, espresso sotto forma di axioma, che solo può esser detto vero o falso, e non certo a una rappre­ sentazione, che « quindi non sarebbe altro che una intuizione immediata dell'oggetto esterno, che non richiede per questo di essere tradotta in una forma proposizionale articolata. Anche la metafora della rappresentazione con la luce suggerisce piuttosto l' immediatezza con cui la rappresentazio­ ne coglie l'oggetto esterno, essendone quasi una illuminazione » (Ioppolo, 1990, p. 139 ) . i.. L'altro piano, sui cui insiste e si articola la critica di Arcesilao, mette poi in discussione la possibilità stessa di discernere una phantasia vera da una falsa (cfr. già Cicerone, Luc. 77 e soprattutto un lungo, articolato passo di Sesto Empirico : Adv. Math. VII 150-155). Queste critiche di Arcesilao impongono una riflessione ulteriore agli stoici, che, in risposta, aggiungono allora una terza clausola alla defini­ zione di "rappresentazione comprensivà'. Essa viene registrata da Sesto : « quei filosofi aggiunsero la precisazione "e la rappresentazione è tale da non poter derivare da un oggetto che non esista", perché gli accademici, al contrario degli stoici, hanno supposto l' impossibilità che si riscontri una rappresentazione completamente indiscernibile rispetto all'oggetto»

(Adv. Math. VII 247). Il vero nodo della questione sembra consistere nel rischio di prestare fede a un "messaggero incapace': per usare l' immagine cara a Carneade ; ovvero nella possibilità - ammessa dagli stoici e negata dagli accademi­ ci - di discernere la rappresentazione comprensiva portatrice di genuina conoscenza da una rappresentazione identica, ma falsa. Per rafforzare le proprie critiche l'Accademia scettica mette in campo numerosi contro­ argomenti, che insistono ad esempio sulle condizioni percettive del tutto peculiari - per non dire "patologiche" - dei soggetti percipienti in alcuni

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casi specifici o ancora sulla presunta indiscernibilità di determinati oggetti (uova, gemelli ecc.)'3• A queste critiche gli stoici sono tuttavia in grado di opporsi. Essi conce­ dono ad esempio che una condizione mentale non sana del soggetto perci­ piente o una qualche perturbazione nel meccanismo di funzionamento del­ la percezione possono impedire od oscurare il corretto funzionamento e la genuina forza cognitiva di una rappresentazione catalettica (cfr. ad esempio Cicerone, Luc. 53). Ed è proprio in virtù di queste considerazioni e di queste ammissioni che si resero necessari ali' interno della scuola stoica una profon­ da revisione e un radicale affinamento del meccanismo di giustificazione del carattere comprensivo della rappresentazione. Essa può essere considerata davvero tale, incondizionatamente, se e solo se non esiste alcun tipo di impe­ dimento. Se viene soddisfatta questa condizione, allora la rappresentazione comprensiva ha una tale forza da trascinarci per i capelli ali' assenso (cfr. in tal senso la testimonianza di Sesto Empirico: Adv. Math. VII 253-257 ) . Né agli stoici mancano dottrine metafisiche forti, per controbattere 1' argomento accademico-scettico degli indiscernibili. Secondo loro, in­ fatti, neppure due granelli di sabbia sono davvero indiscernibili, poiché ogni oggetto individuale esistente ha una sua peculiare e unica qualità (è la nota dottrina dello idios poion ), ha insomma proprietà assolutamente e unicamente irripetibili, che una rappresentazione corretta registra; o almeno dovrebbe registrare perfino in casi di così difficile discernimento come quelli costituiti dalla somiglianza delle uova e dei gemelli, fatta salva l'esperienza e un sufficiente grado di "allenamento percettivo". Ancora più in generale si può notare in conclusione quanto segue. An­ che gli stoici riconoscono che molti fra gli uomini sono caratterizzati da debolezza mentale o ancora da una pessima educazione, condizioni che im­ pediscono loro di esercitare correttamente le facoltà cognitive e dunque li spingono a concedere troppo precipitosamente 1' assenso a rappresentazio­ ni che non sono classificabili come "comprensive", ma che sono invece false. Essi ritengono tuttavia che esista almeno una categoria umana, quella co­ stituita dai saggi o sophoi, "equipaggiata" in modo tale da sottrarsi a questi limiti e da possedere una disposizione del tutto aliena da qualsiasi forma di debole opinione ( cfr. ad esempio la testimonianza di Stobeo in SVF III 548 ) . Mantenendo sullo sfondo questo paradigma totalmente positivo del perfetto sapiente, possiamo tentare di riassumere e ripercorrere le tappe più importanti delle riflessioni epistemologiche stoiche, analizzando in conclusione un brano del Lucullo ciceroniano, che conserva anche, nella

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sua chiusa, germi di critiche più volte sollevate sin dall'antichità contro questa superiore figura del "saggio", quasi "ideale regolativo" altissimo e asintoticamente lontano, se non di fatto irraggiungibile14: Ma invece voi dite che nessuno sa nulla, fuorché il sapiente; e ciò Zenone lo illu­ strava col gesto. Infatti, quando spiegava in faccia ad altri, con le dita tese, il palmo della mano, diceva: "Cosiffatta è la rappresentazione"; quando poi aveva chiuso un po' le dita stesse, diceva: "Di tal fatta è l'assenso"; serrate poi insieme le dita completamente, e fattone un pugno, diceva che questa appunto era la compren­ sione; e in conformità di tale paragone fu da lui messo anche alla cosa il nome, che prima non c'era, 1Ct:miÀrpjr1ç. Infine, accostava a quel pugno destro la mano sinistra, e lo comprimeva ancor più strettamente e con gran forza, e diceva che cosiffatta è la scienza della quale non è possessore nessuno se non il sapiente" (Cicerone, Luc. 145; trad. Del Re, 1976).

I neopirroniani e il "doppio criterio"

Benché in senso stretto esuli dall'ambito cronologico relativo alla prima filosofia ellenistica, rappresentando forse piuttosto lesito maturo, in età imperiale, della riflessione gnoseologica ed etica del rinato pirronismo, credo sia utile soffermarsi un attimo, quasi a mo' di appendice, anche su una breve pagina sestana. Si tratta di un passo molto importante, posto nella sezione iniziale e più chiaramente programmatica dei Lineamenti pirroniani ( I 21-24), ma soprattutto decisivo per la corretta comprensione dell'atteggiamento non solo gnoseologico, ma anche etico del tardo neo­ pirronismo. Questi paragrafi chiariscono lambito e la portata dell'adesione scet­ tico-pirroniana al fenomeno, differenziando fin dall' inizio due accezioni possibili del termine "criterio". 1. In base alla prima criterio è ciò in virtù del quale si pretende di stabi­ lire leffettiva sussistenza o insussistenza di qualcosa (e per confronto con Adv. Math. VII 29 dovremmo aggiungere anche il suo esser vera o falsa). Si tratta di un significato propriamente logico-epistemologico, di cui Sesto si occupa infatti nel libro I I dei Lineamenti pirroniani, nonché in Contro i matematici ( vn-vm ) , testi più volte richiamati nelle pagine precedenti per dar conto delle varie posizioni dogmatiche registrate (più o meno fe­ delmente) e da lui combattute. 2. In base alla seconda accezione, invece, si parla di criterio in senso emi-

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nentemente pratico, ovvero come del punto di riferimento in virtù del qua­ le compiamo una determinata azione e non ne compiamo un'altra; come canone, insomma, di ogni nostra scelta o rifiuto (cfr. ancora Adv. Math. VII 29 ). Ribadendo quanto già accennato in precedenza e riproponendo verosimilmente la posizione già difesa da Enesidemo'S, Sesto dichiara che tale criterio è per lo scettico il fenomeno, precisando subito, però, che esso è da intendersi come phantasia. Tale "rappresentazione" o "apparenza" non va ristretta al mero ambito percettivo dei sensi, ma abbraccia tutto ciò che si mostra in modo indiscutibile e ovvio tanto sul piano sensibile che intellettivo. Essa si sottrae allo stesso perenne indagare scettico (pronto a mettere in questione unicamente - come viene di nuovo evidenziato nella chiusa del § 22 - la presunta raggiungibilità conoscitiva dell'essenza di un oggetto, non certo il suo mero apparire in questo o quel modo) e si risolve in un'affezione involontaria e del tutto passiva. Ali ' inizio del § 2 3 viene spiegato perché anche lo scettico sente la ne­ cessità di fissare un criterio. Ancora una volta si tratta di un'esigenza dia­ lettica, nata per combattere l'accusa di inattività o anenergesia'6• Per non restare inattivo, dunque, lo scettico sembra scegliere come guida solo quei fenomeni che si impongono per il loro carattere di necessità o meglio di indipendenza dalla nostra volontà, sottratti alla possibilità stessa della ri­ cerca e dell'aporia (cfr. Pyrrh. Hyp. I 1 3 , 1 9, 2 2 ) . È uniformandosi a tali fenomeni che egli vive. La sua esistenza è apparentemente identica, all'e­ sterno, rispetto a quella di tutti gli altri uomini. In realtà, però, ogni sua azione è compiuta "in modo non dogmatico" (adoxastos ), senza abbrac­ ciare alcuna opinione che aspiri a essere assoluta, e altrettanto adoxastos "narratà' sul piano linguistico (come viene specificato alla fine del § 2 4 ) '7• Nonostante questo palese rifiuto di qualsiasi teoria dell'agire, sia essa frutto delle speculazioni dei filosofi o delle altrettanto dogmatiche con­ vinzioni del senso comune, resta aperta allo scettico la possibilità di rego­ lare il proprio comportamento in base alle norme di condotta della vita quotidiana (kata ten biotiken teresin ). Stando ai §§ 23-24, esse sembrano poter essere ricondotte a quattro "categorie" fondamentali: - la guida della natura, specifico destino cui debbono sottostare gli esseri umani in quanto dotati di sensibilità e intelletto ; - la necessità insita nelle affezioni elementari o bisogni primari, come fame e sete, e nelle reazioni meccaniche che esse generano ; - la tradizione legata a leggi e costumi vigenti (tema ripreso anche in Pyrrh. Hyp. I 2 3 1 , 237 ); essa si impone sotto forma di accettazione delle

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norme di condotta della propria comunità, al punto da far sì, ad esempio, che anche lo scettico consideri la pietà in campo religioso un bene, l' empie­ tà un male (cfr. Pyrrh. Hyp. III 2; Adv. Math. IX 49); - l' insegnamento delle arti, inteso come passivo apprendimento del know-how promosso da talune technai, la cui utilità consente di affrontare e risolvere le esigenze della vita quotidiana18• Al di là della plausibilità e praticabilità di tale articolato criterio, credo sia opportuno soffermarsi più attentamente sul significato complessivo di questa opzione etica neopirroniana. Occorre innanzi tutto notare che delle quattro categorie appena menzionate le prime due sembrano insi­ stere sul dato naturale, le seconde due su quello culturale, con cui ogni uomo, scettico o no, deve fare i conti ogni giorno e da cui non è possibile prescindere. Alla luce di queste considerazioni, se si volesse racchiudere l'accettazione di un "criterio morale" da parte di Sesto in uno slogan, si potrebbe affermare che essa costituisce una sorta di "ritorno allo stato di natura", collocabile in modo originale nel solco delle filosofie ellenistiche. Una precisazione s' impone tuttavia immediatamente, per evitare ogni fraintendimento circa il concetto di stato di natura e per non ridurre la proposta neopirroniana a una forma di irrazionalistico primitivismo. La physis cui spesso si richiama Sesto va intesa in senso poliedrico, come real­ tà a più facce, caratterizzata contemporaneamente, come abbiamo visto, dal riconoscimento della inevitabilità delle esigenze fisiologiche, dall' ac­ cettazione delle convenzioni e delle regole etico-giuridiche della società in cui si vive e infine dalla messa in pratica di un patrimonio culturale ac­ quisito, fatto sia di norme pedagogiche interiorizzate, sia del know-how di talune technai, la cui utilità consente di affrontare e risolvere le necessità quotidiane. Questo "ritorno allo stato di natura", in cui si risolvono la vita e la con­ dotta morale dello scettico, assume la fisionomia di una costante intera­ zione con il mondo. Sul piano teorico quest 'ultima si realizza attraverso lo sforzo intellettuale della "messa tra parentesi" dell'assolutismo gnose­ ologico e assiologico ; su quello pratico mediante un sereno, non eccessi­ vo, "mite", potremmo dire tranquillamente conformistico adattamento al mondo e alla vita ordinaria (cfr. anche Adv. Math. I 6). In ogni caso, l'approdo finale delle scelte etiche dello scettico non è un deserto di valori, ma l' indicazione di un'etica possibile, aperta, sempre relativa alle situazioni e alle circostanze storicamente e culturalmente de­ terminate.

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Questo fare i conti con i condizionamenti storico-culturali induce Se­ sto a presentare comunque i contorni di una criteriologia pratica pirro­ niana e dunque a indicare un paradigma comportamentale forse "di basso profilo", ma che offre il vantaggio innegabile di essere sempre disponibile e attuabile da chiunque, qui e ora alla portata di tutti. In tal senso credo che esso possa essere considerato come il più radicale contraltare del pa­ radigma forte, anzi fortissimo del saggio, soprattutto nella versione for­ nitane dallo stoicismo. È infatti inutile, come fanno gli stoici, costruire un'eccezionale figura di sophos e affermare poi contemporaneamente che essa non è mai esistita, né mai si è storicamente incarnata, neppure nelle figure grandissime di un Socrate o di uno Zenone (cfr. ad esempio Adv. Math. VII 432; IX 133). Il saggio stoico si rivela allora, agli occhi di Sesto e delle obiezioni pirroniane che egli raccoglie o forse amplia, una "finzio­ ne" destinata a essere irraggiungibile, incapace in ogni caso di determinare concretamente i motivi del nostro agire.

IO

Il senso del passato: Antioco e il I secolo a.C. d i Mauro Bonazzi

Eclettismo e riflessione storica

Un fenomeno caratteristico del I I e I secolo a.C. è la progressiva unifica­ zione del discorso filosofico. Dopo un lungo periodo di discussioni e accesi confronti le diverse scuole si ritrovavano ormai in un'agenda comune di problemi e parlavano lo stesso linguaggio, utilizzando il medesimo voca­ bolario tecnico. Questo fenomeno non sempre è stato compreso in modo corretto dagli studiosi moderni, che hanno bollato i dibattiti tardo elleni­ stici come una manifestazione di "eclettismo", una categoria foriera di gravi equivoci (Donini, 1988). Ad Alessandria, nel I secolo a.C., operò in effetti un filosofo di nome Potamone, che teorizzò apertamente la necessità di adottare posizioni eclettiche, « scegliendo quelle dottrine delle altre scuole che più gli piacevano» (Diogene Laerzio I 2 1 ; su Potamone, cfr. ora Hatzi­ michali, 20 I I ) . Ma si tratta appunto di un singolo pensatore, un caso isolato che difficilmente può assurgere a rappresentante esemplare del suo tem­ po, soprattutto se alla categoria di eclettismo si accompagna un giudizio negativo: nelle valutazioni dei moderni, eclettismo implica sempre, più o meno apertamente, l'accusa di confondere indebitamente idee e dottrine. Il tentativo promosso da Polemone di risolvere dibattiti secolari scegliendo di volta in volta la soluzione che sembra migliore è di per sé un metodo discutibile, visto che non tiene conto dei sistemi di cui le singole dottrine fanno parte. Ma persino peggiore è l' idea, presupposta nella categoria di eclettismo, che questa "combinazione" di idee fosse piuttosto il portato dei tempi - non un risultato scelto razionalmente, ma qualcosa che sempli­ cemente si era verificato come l'unica conclusione possibile di discussioni ormai sterili ed estenuate. La situazione è in realtà molto più complessa. Ciò che davvero caratterizza il tardo ellenismo è piuttosto una crescen­ te consapevolezza storica. In un famoso passo del Timeo i Greci sono de­ scritti come dei « fanciulli » , che si affacciavano per la prima volta su scene

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che altre tradizioni calcavano da tempi immemori (Platone, Tim. 22b ). Al­ meno nel campo specifico della filosofia, si potrebbe osservare, quei tempi, 1 'età dell' infanzia della filosofia greca, erano ormai alle spalle e si trattava ora di riflettere sul lungo cammino che essa aveva percorso. Una simile esigenza, come noto, era già stata posta da Aristotele, ma in un contesto tutto sommato più semplice, in cui la filosofia si risolveva nella contrap­ posizione tra l'Accademia e il Peripato. Diversa era invece la situazione tra il Il e il I secolo a.C., con una proliferazione di scuole, movimenti, singoli pensatori. Come fare ordine in tutto ciò ? O meglio, come giustificare la bontà delle proprie scelte in un contesto tanto variegato ? Argomentando in favore delle proprie tesi, certo ; ma anche cercando di mostrare che le proprie scelte filosofiche erano quelle che raccoglievano il meglio dell'ere­ dità filosofica dei secoli precedenti, quelle che meglio aiutavano a dare un senso a una vicenda altrimenti difficile da decifrare. Detto in altri termini, la nuova e crescente consapevolezza storica non era la manifestazione di un semplice interesse erudito quanto piuttosto uno strumento, uno stru­ mento polemico per difendere il senso della propria appartenenza filo­ sofica (in generale su questo tema, cfr. Cambiano, 2013, pp. 1 6 5-209). La riflessione storica è insomma uno strumento della battaglia filosofica, in un'epoca sempre più consapevole di sé. Un caso esemplare di tutto ciò, delle tensioni distintive di questo perio­ do e delle strategie adottate per fronteggiarle, è Antioco di Ascalona (130 ca.-68/ 67 a.C.): uno dei filosofi più celebri e ammirati del suo tempo, e un membro autorevole dell'Accademia, attaccato perché stoico. Davvero, le oscillazioni di Antioco, german issimus Stoicus (Cicerone, Luc. 132) che si proclamava accademico, sembrano rappresentare in modo sintomatico la cifra di un tempo confuso. Ora, che Antioco sia un esponente interessante del suo tempo è vero. Ma lo è non per le sue presunte incertezze o confu­ sioni: lo è perché più di altri si rivela consapevole dell' importanza della storia nella filosofia, come è facile verificare da un'analisi attenta dei dati di cui disponiamo (cfr. ora i saggi raccolti in Sedley, 2010 ). Un punto fermo della filosofia di Antioco e un obiettivo prioritario delle sue polemiche fu la battaglia contro lo scetticismo imperante nell'Accade­ mia (Barnes, 1989, pp. 83-5): dopo aver lungamente frequentato Filone di Larissa, condividendone le idee (Cicerone, Luc. 63, 69 ), Antioco cambiò radicalmente posizione sposando l' idea che la conoscenza fosse possibile e che si dovesse dunque fondare un sistema filosofico positivo. Nel conte­ sto del suo tempo, una simile presa di posizione significa di necessità un

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riavvicinamento agli stoici, che Antioco aveva del resto lungamente fre­ quentato (Cicerone, Luc. 69; Agostino, Contra Ac. III 41; Numenio, fr. 28 des Places). Per i suoi detrattori le conseguenze da trarre erano semplici: Antioco era passato allo stoicismo (Cicerone, Luc. 69 137; Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp. I 235; Agostino, Contra Ac. III 41; De civ. Dei XIX 3). Per quan­ to condivisa da non pochi studiosi moderni (in particolare Goder, 1994), questa inferenza non rende però ragione della posizione di Antioco nella sua complessità. Il nuovo dogmatismo di Antioco riconosceva, è vero, i meriti della filosofia stoica, il grande nemico dell'Accademia di Arcesilao, Carneade, Filone (Cicerone, Luc. 15; Vt:zrro 7, 37, 43; De leg. I 54; De nat. deor. I 1 6). Ma non si limitava a questo : più importante è il fatto che lo stoicismo venisse rivendicato come parte integrante di una tradizione più antica - della sola e genuina tradizione filosofica, quella di Platone. Per Antioco, insomma, lo stoicismo costituiva parte integrante di una tradi­ zione più antica che aveva preso le mosse da Platone ed era stata ulterior­ mente sviluppata non solo dagli allievi immediati di Platone (Speusippo, Senocrate, Crantore, Polemone ; cfr. Cicerone, Vt:zrro 34) ma anche, entro certi limiti, da Aristotele e Teofrasto (Cicerone, Definibus v 7, 14; De orat. I I I 67 ) . Di per sé questa tesi costituisce un esempio illuminante del valore polemico delle ricostruzioni storiografiche. La battaglia contro lo scettici­ smo non veniva condotta solo sul piano delle argomentazioni ma anche su quello storico, nella convinzione che lo scetticismo accademico non fosse solo sbagliato filosoficamente ma anche che esso costituisse un tradimento della più autentica lezione platonica (Cicerone, Luc. 15, cfr. Cambiano, 2013, pp. 191-2). Antioco dunque ricostruisce una genealogia del platonismo che culmi­ na nello stoicismo e termina nella sua stessa filosofia, con un palese inten­ to ami-scettico. Se questo è chiaro, rimane però da spiegare I' apertura di credito nei confronti dello stoicismo : introducendolo come alleato nella battaglia contro lo scetticismo non si rischiava infatti di concedergli poi il posto d'onore ? Questa, in fondo, è l'accusa dei detrattori antichi, ripresa da molti studiosi moderni. Ma è proprio su questo punto che Antioco si rivela più sottile di quanto non sembri. In che modo infatti egli realiz­ zò il progetto d' integrazione di stoicismo e platonismo ? Per rispondere a questa fondamentale domanda, occorre analizzare con attenzione le sue tesi filosofiche. Cicerone riferisce che due erano i campi prioritari per An­ tioco, quello che riguardava la conoscenza e quello che riguardava la vita buona (Cicerone, Luc. 29 ). Di questi conviene occuparsi.

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STORIA DELLA FILO S O FIA ANT ICA

Epistemologia ed etica in Antioco

A prima vista il caso della conoscenza sembra il più complicato, per via di un'opposizione di fondo che sembra dividere empirismo stoico e innati­ smo platonico: difficilmente, in effetti, la teoria della conoscenza stoica, che tanta importanza riservava ali'esperienza sensibile, potrebbe accordar­ si con una qualsivoglia forma di epistemologia platonica, visto che proprio l'ami-empirismo sembra essere una delle caratteristiche distintive della tradizione platonica. Antioco però riesce a costruire un percorso intermedio, sminuendo il problema dei sensi e individuando un criterio comune alle due scuole (Bonazzi, 2012; 2015b). Il problema di un'apparente opposizione tra le due scuole sul valore delle sensazioni è circoscritto, mostrando da un lato che anche per i platonici i sensi hanno una loro importanza (non c 'è ri­ fiuto radicale neppure dei secondi: anche questo, in fondo, va contro gli scettici) e dall'altro che per gli stoici le sensazioni comunque non sono l'unico criterio. Anche gli stoici più ortodossi erano infatti disposti a ri­ conoscere che le sensazioni da sole non bastano per la vera conoscenza (episteme). Quello che conta è piuttosto il possesso delle cosiddette "con­ cezioni comuni" (ennoiai) : ogni uomo possiede dentro di sé, per averle sviluppate nel corso della sua vita, una serie di nozioni che, una volta ar­ ticolate in definizioni, ci permetteranno di cogliere l'essenza di un dato oggetto. In questo consiste la vera conoscenza. Ora, è di fondamentale importanza osservare che, nella sua ricostruzione della dottrina della co­ noscenza accademico-platonica, Antioco introduce proprio queste con­ cezioni (ennoiai) come criterio epistemologico, associandole alle idee: di fatto queste ennoiai altro non sono che quello che resta della visione pre­ natale delle idee ed è proprio in virtù di questo legame che esse possono servire da criterio (Cicerone, Vtt. rro 30-33). Insistendo su questo punto, Antioco poteva così sottolineare le affinità con una teoria della conoscen­ za di matrice platonica. In fondo, questa sembra essere la tesi di Antioco, la teoria stoica non presenta sostanziali differenze rispetto a quella degli antichi platonici, una volta che si siano sostituite alle concezioni comuni le idee, perché anche le idee sembrano servire al medesimo scopo (cambiano insomma i nomi, non le cose) : sfruttando l'analogia di funzione tra concezioni e idee, Antioco può dunque argomentare in favore di un'affinità strutturale tra le due filosofie.

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Prima di commentare il senso di questa operazione conviene analizza­ re le tesi etiche, a proposito delle quali siamo meglio informati grazie al v libro dei Termini estremi dei beni e dei mali di Cicerone, incentrato su Antioco. Richiamandosi a Polemone e Aristotele (Cicerone, De finibus v 1 4 ) , Antioco rivendica alla tradizione accademica la formula che indi­ vidua il fine della vita umana nel « vivere secondo natura » ( v 2 4 ) 1 , una formula tradizionalmente associata allo stoicismo. Una volta assicurata una continuità di fondo, si tratta poi di smussare le presunte specificità di cui gli stoici andavano fieri, mostrando ancora una volta che essi non facevano che ripetere con nuovi termini le vecchie dottrine. Così anche a proposito della tesi fondamentale del!' autosufficienza della virtù, uno dei capisaldi della dottrina stoica: Antioco riconosce la centralità della virtù in vista della felicità (solo chi è virtuoso è felice), ma insiste anche sulla necessità del conseguimento dei beni secondo natura (come ad esempio la salute), se si vuole una vita felicissima - una tesi tipica della tradizione peripatetica e intollerabile per gli stoici, che però viene loro attribuita a partire dalla constatazione che anche essi riconoscono come "preferibile" ciò che è secondo natura rispetto a ciò che non lo è (ad esempio salute e malattia; cfr. v 7 1 ) . A parte le distinzioni verbali, tutti, secondo la ricostru­ zione (arbitraria) di Antioco, si sono dunque riconosciuti nella tesi che la felicità consiste nel vivere secondo natura, « godendo dei primi doni della natura in unione con la virtù » ( n 3 4 ; v 27 ) . Nello stesso modo veniva poi affrontato laltro grande punto di di­ saccordo tra le due scuole, vale a dire il problema delle passioni (pathe), di cui il saggio stoico, a differenza di quello accademico-peripatetico, era privo (cfr. Bonazzi, 2 0 0 9 ). Cercare di conciliare la tesi stoica della apatheia con la convinzione di accademici e peripatetici, secondo cui le passioni possono essere controllate ma mai estirpate definitivamente (la cosiddetta tesi della metriopatheia), è un compito ancora più arduo, che però Antioco sviluppa con una discreta abilità sfruttando la nozione stoi­ ca delle eupatheiai, le sensazioni positive che sono proprie del sapiente stoico. Disconoscendone il significato profondo e bollandole ancora una volta come un semplice neologismo, Antioco osserva che anche lo stoici­ smo riconosce delle emozioni positive ; ed equiparando queste emozioni positive alla condizione di equilibrio interiore che consegue al controllo delle passioni (vale a dire ciò che consegue dalla metriopatheia), egli ar­ riva a concludere che alla prova dei fatti le due dottrine anche in questo caso coincidono.

202 Stoicismo

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e

platonismo

Come valutare questa operazione ? Indubbiamente, l'analisi delle testimo­ nianze superstiti conferma che l'appartenenza di Antioco al campo del platonismo non è in discussione. Antioco si è confrontato a più riprese con lo stoicismo, appropriandosi di non pochi elementi di quella filosofia: e questo ha confermato molti lettori antichi e moderni nel pregiudizio di una sua adesione, o cedimento, allo stoicismo. Ma le cose stanno di­ versamente : l'ambizione è piuttosto quella opposta di riportare lo stoici­ smo nell'alveo del platonismo ; con la scusa di cercare una conciliazione si persegue in realtà l'obiettivo di una subordinazione, che ha come effetto sostanziali fraintendimenti della filosofia stoica. Nel campo dell 'epistemo­ logia, l'equiparazione delle ennoiai alle idee sembra comportare anche una curvatura innatista che gli stoici non avrebbero mai potuto accettare : a differenza delle idee (intese, fuori di metafora, come concetti innati), le ennoiai si formano e si sviluppano a partire dall'esperienza sensibile. An­ cora più evidenti sono le violazioni nel campo dell'etica: la tesi che pone sullo stesso piano i beni secondo natura dei peripatetici e i preferibili stoi­ ci tradisce il senso profondo della teoria stoica che, considerando le cose secondo natura come indifferenti, si concentrava solo ed esclusivamente sulla virtù come fine di una vita felice. Quanto alle eupatheiai è facile os­ servare che l' idea secondo cui anche il saggio prova delle emozioni (per quanto positive) presuppone di fatto una psicologia dualista (in cui una parte irrazionale si oppone a quella razionale), perfettamente in linea con la tradizione platonica e aristotelica, ma assolutamente incompatibile con il monismo stoico. Insomma, nei confronti dello stoicismo Antioco mette in opera una strategia che, è stato giustamente osservato, non manca di una sua perfidia (Donini, 1982, p. 8 1 ) : partendo dal presupposto che gli stoici dicono le stesse cose dei platonici ma con nuove parole (Cicerone, Definibus IV 72; V 90; De nat. deor. I 16; De leg. I 54) e insistendo dunque sulle presunte affinità con il platonismo, si promuove una sua « integrazio­ ne subordinata » (Chiaradonna, 2007, pp. 214-5). Lo stoicismo è di fatto una versione aggiornata ma non migliore della più autentica tradizione platonica, che rimane il punto di riferimento fondamentale per la com­ prensione della realtà che ci circonda. Antioco non può essere inteso come stoico se non a prezzo di pesanti fraintendimenti: il suo campo è quello platonico e non si può fare a meno di constatare che tutte le dottrine di cui si è parlato (ripresa delle idee, dualismo psicologico, metriopatheia)

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avrebbero poi goduto di ampia circolazione nei secoli successivi•. Ecco un esempio di come venivano condotte le polemiche nel tardo ellenismo. La strategia di Antioco guadagna in interesse, e aiuta a meglio com­ prendere questo particolare momento della storia della filosofia antica, una volta che si realizzi che le sfide che doveva fronteggiare non prove­ nivano solo dagli avversari scettici. Il tentativo di integrare e subordina­ re lo stoicismo nella tradizione accademico-platonica non dipende solo dall'esigenza di ricostruire una genealogia del platonismo alternativa a quella scettica, ma risponde allo stesso tempo anche agli stoici, e al loro tentativo, identico ma rovesciato, di riappropriarsi di Platone integran­ dolo nel loro sistema stoico. Si pensi in particolare ai due più autorevoli esponenti di questa scuola tra il II e il I secolo a.C., Panezio e Posido­ nio (cfr. CAP. 6 ) : di entrambi le fonti riferiscono di un costante interesse per Platone (cfr. ad esempio Panezio, T 79 Alesse, e Posidonio, T 9 5-97 Edelstein-Kidd) , che è stato spesso interpretato nel senso di una conta­ minazione della purezza originaria del sistema stoico. Ancora una volta, insomma, per spiegare la filosofia di questo periodo si ricorre alla solita categoria di eclettismo. In realtà gli studi più recenti hanno mostrato che, come nel caso di Antioco, così anche nel caso di questi autori la situazione è più complessa. L' interesse per Platone è ben attestato e impossibile da negare ; ma la ragione più probabile di questo interesse è da ricercarsi nel tentativo di appropriarsi di Platone, presentandolo come precursore dello stesso stoicismo (Tieleman, 2003, pp. 284-5; 2007, pp. 1 10-6; Gill, 2006, pp. 213-4; Cambiano, 2013, pp. 190-1 ) 3• In altre parole, si tratta dello stes­ so obiettivo perseguito da Antioco, ma nella direzione opposta. Antioco solo raramente ha goduto di buona stampa, nell'antichità come al giorno d'oggi. Ben diversi (e certamente legittimi) sono invece i giudizi espressi su filosofi come Panezio e Posidonio. Ma vale la pena di osservare che è stata la sua tesi che si è imposta e non quella dei rivali stoici: certamente non solo per merito suo, ma in parte anche per merito suo, uno dei proble­ mi principali della filosofia tardo ellenistica e alto imperiale sarà proprio quello della compatibilità possibile tra stoicismo e platonismo ; e la tesi che s' imporrà sarà proprio quella secondo cui lo stoicismo costituisce una versione subordinata del platonismo. Ma non è mai una buona idea giudicare vincitori e vinti. Quello che importava sottolineare in questa occasione è piuttosto l' interesse del!' ulti­ ma fase della filosofia ellenistica, in opposizione a giudizi spesso negativi. In realtà anche questo periodo, non meno degli altri, fu vivace e ricco di

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STORIA D ELLA FILOSOFIA ANTI C A

discussioni interessanti, non prive di una loro originalità. In fondo, ciò che davvero importa non è soltanto sottolineare questa matura consape­ volezza storica; ancora più fondamentale è prendere atto che è proprio in questo periodo, e grazie a questi autori, che torna al centro dei dibattiti Platone ( cfr. Frede, 1999a; Boys-Stones, 2001 ) . Se solo si pensa a che cosa sarebbe stata la filosofia nei secoli successivi, e se si pensa anche a che cosa essa sia oggi - se si pensa insomma a che cosa significa Platone per la filoso­ fia -, sarà impossibile negare che anche la fase finale dell'epoca ellenistica occupa un ruolo tutt 'altro che secondario nella storia della filosofia.

II

L' incontro di due culture di Carlos Lévy*

Il contesto politico e sociale

Nel I secolo a.C. si verificò a Roma un considerevole cambiamento, con­ seguenza a lungo termine della conquista che trasformò un villaggio del Latium nella città padrona del mondo mediterraneo. Fino ad allora, essere un buon Romano significava comportarsi da cittadino rispettoso delle leg­ gi e delle tradizioni ancestrali, il mos maiorum. Con la scoperta di nuovi e immensi spazi, di popoli dai costumi molto diversi, e con I' affiusso di ricchezze e gli sconvolgimenti sociali che ne seguirono, si produsse una situazione di crisi che fu molto presto percepita come tale da un certo nu­ mero di intellettuali, nello stesso momento in cui, politicamente, entra­ vano in gioco dei nuovi elementi'. L'ascesa del movimento dei populares corrispondeva alla coincidenza di interessi tra aristocratici spesso in rovina e demagoghi da un lato e, dall'altro, masse impoverite fino alla miseria dall'arrivo di una mano d'opera servile sempre più numerosa. La violen­ za, che la legge avrebbe dovuto contenere, non si limitò a delle assemblee politiche turbolente, ma prese la forma di sommosse che trasformarono la Roma degli ultimi anni della repubblica in un campo di battaglia in cui si affrontavano fazioni rivali. I militari, in un primo tempo spettato­ ri, non tardarono a prendere coscienza della loro potenza e acquisirono sempre più autonomia, finché l'audacia di Cesare mise fine alla repubbli­ ca. In questo grande sconvolgimento, quei Romani che, influenzati dalla filosofia e dalla retorica, erano in grado di teorizzare i problemi che gli altri vivevano in modo unicamente passionale, cercarono di rispondere a delle questioni che eccedevano largamente il quadro del mos maiorum,



Un ringraziamento particolare a Francesca Pentassuglio per la traduzione italiana del

capitolo.

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senza per questo rinunciare alla fierezza delle proprie origini e alla consa­ pevolezza del destino unico di Roma. Tali questioni concernevano quesiti del genere : che cosa sia l'essere umano, da dove provenga e come debba comportarsi in rapporto agli altri (un'alterità, questa, che era meno ben percepita all' interno della stessa cittadinanza). I casi di Romani che rinun­ ciarono alla romanità per filellenismo o in nome di un ideale filosofico di universalità furono molto rari. Albucio, pretore attorno al 105 a.C., che fu esule ad Atene, dove visse e praticò intensamente la filosofia epicurea, si attirò le ire del poeta Lucilio, il quale lo accusò di aver tradito la sua ro­ manità. Lui stesso mal sopportò questa accusa. È a partire dal punto fermo di un ego vissuto come incontestabilmente, nonché fieramente, romano che i pensatori di seguito presentati si aprirono al mondo e alle pratiche della filosofia. Si dimentica in questo modo che tale identificazione non si­ gnificava necessariamente l'adesione a un contenuto politico ben definito. A partire dal momento in cui si sviluppò il sentimento diffuso che - per riprendere una celebre formula - Roma non era più a Roma, l' identità romana, a un tempo evidente e problematica, presente e assente, potente e fragile, aperta e chiusa, diveniva, per la sua stessa crisi, la via d'accesso per le grandi questioni che i pensatori greci avevano concettualizzato. Di qui le contraddizioni che sono state sfruttate come prove di una sorta di incompatibilità innata tra Roma e la filosofia; il fatto, ad esempio, che l' in­ teresse appassionato per la letteratura greca poteva accompagnarsi con il disprezzo dei Graeculi, piccoli Greci chiacchieroni e inconseguenti, lonta­ nissimi dallagravitas, da questa coscienza della responsabilità che - insie­ me allafides, il rispetto della parola data - i Romani consideravano la loro principale caratteristica come popolo. Nella valutazione di una realtà così complessa come la Roma dei primi due secoli a.C., qualsiasi semplicismo è da bandire. Inoltre, ogni idea, ogni iniziativa deve essere percepita allo stesso tempo nella sincronia e nella diacronia. Quando Cicerone si propone, alla fine della sua vita e tra lo scetticismo di tutti i suoi amici, di creare una lingua filosofica latina, egli aveva senza dubbio come principale motivazione quella di fare concorren­ za alla Grecia nel solo ambito in cui essa conservava ancora una superiorità assoluta, ma non poteva immaginare di gettare in questo modo le basi di quello che sarebbe stato il vocabolario di sant 'Agostino, di Cartesio, di Spinoza e di molti altri2• Tutto ciò che, in questo periodo, venne scritto in ambito filosofico ebbe delle ripercussioni enormi sugli sviluppi della nostra cultura. La metafora del passaggio, così spesso utilizzata in riferì-

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mento a tale periodo, presenta il grave inconveniente di suggerire una tra­ smissione perfettamente fedele, in cui soltanto l' involucro, vale a dire la lingua, sarebbe cambiato. Ma mutare la lingua significa procedere a un di­ slocamento, a una modificazione di prospettive dalle conseguenze spesso imprevedibili. È per questa ragione che tanti ingegni eccellenti ridussero i Romani a degli imitatori privi di talento di ciò che di più facile si trovava nella cultura greca.

Lucilio, il primo

Tutto iniziò con il riso. Questo, poiché procura al lettore o allo spettatore la sensazione di essere al sicuro - in quanto tratta soltanto di questioni ri­ tenute futili -, permette di far entrare in lui delle idee sulle quali egli non si sarebbe forse soffermato, se fossero provenute da un'opera che ostenta il suo lato serio. I primi a far conoscere ai Romani i temi e i personaggi della filosofia furono i due grandi autori comici Plauto e Terenzio!. So­ crate e il cinismo sono esplicitamente evocati nel primo, ma in entrambi il riso sorge spesso sullo sfondo di grandi questioni, se non filosofiche, almeno umane. La questione del doppio nell'Anfitrione di Plauto e quel­ la dell'educazione nei Fratelli di Terenzio non sono che due esempi di questa capacità della commedia romana, su imitazione della Commedia nuova ellenistica - a sua volta impregnata dell'etica aristotelica del giusto mezzo - di condurre il Romano al senso esplicito, e talvolta implicito, dell'alterità, senza per questo rinunciare all'essenza ludica dello spettaco­ lo. Ma Plauto e Terenzio, l'uno mugnaio in rovina, l'altro liberto africano, si trovavano, a causa delle loro origini, ai margini della romanità. Occor­ reva, perché ciò divenisse una forma di soggettività, che tale impresa fosse messa in atto da qualcuno che si trovava meno lontano dal centro dell' i­ dentità romana. Lucilio presenta una curiosa mescolanza di identità e alterità4• Secon­ do san Girolamo, egli sarebbe nato nel 148 e morto nel 102, ma sembra meno improbabile che egli sia nato nel 180. Appartenente a una famiglia equestre di origini campane, egli accompagnò Scipione Emiliano nell'as­ sedio di Numanzia, ma si rifiutò di intraprendere una carriera politica, accontentandosi di amministrare le sue ricchezze. Questo rifiuto di im­ pegnarsi in un cursus honorum gli concesse una quantità di tempo libe­ ro che il fervente mondo delforum non gli avrebbe lasciato. Fece parte

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STORI A D ELLA F I L O S O FIA ANT I C A

della cerchia di Scipione Emiliano e, anche se sembra esser stato molto legato al mos maiorum, fu in contatto con i più grandi intellettuali greci dell'epoca, di cui fu frequentatore abituale. Non può non aver frequenta­ to Panezio, la cui impronta è evidente nel frammento sulla virtù, poiché sappiamo da Cicerone (Luc. 102) che l'accademico Clitomaco gli aveva dedicato un'opera nella quale esponeva la teoria carneadiana del probabi­ le. È possibile che Lucilio sia stato a tal punto un precursore in quest 'am­ bito da essere stato ad Atene, come tanti altri Romani in seguito, per completare la sua formazione fìlosofìca e che abbia fatto lì la conoscenza dei fìlosofì con i quali ha potuto conservare dei contatti nel corso di tutta la sua vita. Vi sono due ragioni per cui il ruolo di Lucilio nell' introduzione del­ la fìlosofìa a Roma non è stato preso sul serio. Egli ha scritto delle satire, genere considerato di puro divertimento, e di esse non restano che fram­ menti, il che rende per lo meno difficile la percezione delle intenzioni del poeta, supponendo che queste siano state chiaramente espresse. Ma è proprio lui che diede alla satira, ali' inizio puro baccano, la sua forma definitiva, e non è impossibile che egli l'abbia concepita, più che come un mezzo per far ridere, come uno spazio in cui la parola poteva dispiegarsi liberamente, lequivalente romano della parrhesia greca. La forma satirica gli consentiva di non aderire a una cultura greca di cui, d'altra parte, egli era un notevole conoscitore. Le parole greche abbondano nella sua poesia, in originale oppure latinizzate. È lui che, in particolare, ha impiegato per primo il termine atomus, di cui, paradossalmente, Lucrezio non si servirà mai e che ricomparirà soltanto in Cicerone. La sua conoscenza dell 'am­ biente fìlosofìco greco e del corpus platonico sembra sia stata eccellente. Ci soffermeremo qui su un solo testo, il suo famoso frammento sulla virtù ( fr. H 23 in Charpin, 1991, di cui segue la traduzione ) 1: L a virtù, o Albino, è poter pagare i l giusto prezzo per l e cose fr a cui c i troviamo e fra cui viviamo, virtù è sapere che cosa per l'uomo comporti ciascuna cosa, virtù è sapere che cosa per l'uomo è retto, utile, onesto, e poi quali cose sono buone, quali cattive, che cosa è inutile, turpe, disonesto; virtù è saper mettere un termine, un li­ mite al guadagno, virtù poter assegnare il suo vero valore alla ricchezza, virtù dare all'onore quel che veramente gli si deve: essere nemico e avversario degli uomini e dei costumi malvagi, difensore invece degli uomini e dei costumi buoni, stimare questi, voler bene a questi, a questi vivere amico ; mettere inoltre al primo posto il bene della Patria, poi quello dei genitori, al terzo e ultimo il nostro ( trad. Mariotti, in Mariotti, Terzaghi, 1966, modificata) .

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Questo passaggio è stato oggetto di lunghe discussioni filologiche e filo­ sofiche, nei cui dettagli non entreremo in questa sede. Ciò che importa è soprattutto sottolineare che i pilastri del mos maiorum, vale a dire l' imi­ tazione degli antenati attraverso 1' attività civica e 1' impegno nelle guerre condotte dalla città, si trovano spesso sostituiti qui da concetti dalla forte tonalità filosofica. L' individuo non è più percepito come un essere fonda­ mentalmente mimetico, ma come qualcuno che costruisce la sua etica a partire da una valutazione critica degli elementi che percepisce nel mon­ do. Ciò che viene detto sulla virtù, sul bene e sul male, non riguarda più il civis Romanus soltanto, ma l'uomo in generale. Al centro di questa idea, in cui 1' influenza stoica, probabilmente di Panezio, è molto forte, si trova il concetto greco di valore, di axia, che non è reso da un'unica parola latina, ma da espressioni molto concrete che trasferiscono nell'ordine dell'etica i meccanismi dello scambio più concreto, con i quali ogni Romano, qual­ siasi fosse il suo rango, aveva familiarità. La nozione di nemico pubblico, hostis, è comunque mantenuta, ma la vera lotta è quella che oppone le persone oneste ai corrotti. Ciò non significa che con questo venga abban­ donata 1 'assiologia tradizionale. La patria rimane il valore supremo, prima della famiglia e dell' individuo, l'onore occupa un posto privilegiato tra i valori e soprattutto, nel richiamare i cerchi concentrici della socievolezza che circondano 1' individuo, Lucilio non dice nulla dell'ultimo cerchio, quello dell'umanità intera, il più importante agli occhi degli stoici. Rispet­ to a I termini estremi dei beni e dei mali, e in particolare al suo ultimo libro, il pensiero di Lucilio appare come un passo, allo stesso tempo decisivo e strettamente controllato, nella direzione dell'universalismo.

L'antropologia di Lucrezio

In tutto il poema lucreziano, il nome di Roma è menzionato soltanto una volta6• Si tratta della preghiera per la pace, all' interno dell' inno a Venere che apre il I libro : « Chiedi, o gloriosa, per i Romani, la calma della pace » ( trad. Cescatti, 1975). Di contro, la menzione della parola "greco", utilizza­ ta come aggettivo o come nome, è frequente, che si tratti dell'esaltazione dell'uomo greco per eccellenza, Epicuro, o di « queste oscure scoperte dei Greci » (Lucrezio, Rer. Nat. I 136), che il poeta si propone di chiarire attra­ verso i suoi versi. I Greci non hanno un privilegio particolare, vi sono tra loro alcuni che ricercano la verità ( I 1 60), mentre altri, tra i quali il poeta

2.10

STORIA D ELLA FILO S O FIA ANTI C A

annovera Eraclito ( su Eraclito nella letteratura e la filosofia romane cfr. Lévy, Saudelli, 2014), si compiacciono di idee prive di senso. La Grecia ha generato poeti che hanno diffuso dei miti necessariamente falsi, ma che la dottrina epicurea si è proposta di riformulare in conformità alla retta ra­ gione. Con ogni evidenza, Lucrezio prova per la cultura greca un' immen­ sa ammirazione, ma un'ammirazione critica. Epicuro rappresenta l'onore (decus) della Grecia, termine che - si sottolineerà - gli viene riservato nel poema come se egli non fosse soltanto l'onore di un popolo particolare, ma l' incarnazione stessa del decus. Come e perché Epicuro ha percepito ciò che gli altri filosofi avevano al massimo soltanto intravisto, come nel caso di Democrito, di cui Epicuro celebra la sancta sententia ? Su questo punto, a dire il vero, il poeta non avanza alcuna spiegazione, se non quella che il suo maestro aveva oltrepassato la natura umana. Nell'unico verso in cui designa per nome il suo maestro, infatti, egli afferma che costui « col suo genio si innalzò al di sopra dell 'umanità » ( m 1043). In che modo un'antropologia materialista - e non vi è dubbio che tale è l'orientamento che Lucrezio rivendica - può assumere una simile spiegazione, una volta eliminata l' invocazione, un po' semplice, della figura poetica ? Per delineare una risposta, occorre riprendere ciò che Lucrezio ci dice, nel libro v, sugli inizi dell'umanità ( su questo testo cfr. Lévy, 2.0ub ) . Il primo momento è quello di un'umanità errante nella natura, priva di legami sociali; una ripresa di un tema presente nei sofisti, di cui sarebbe imprudente credere che il poeta si faccia imitatore. Uno degli elementi sorprendenti di questa descrizione è il silenzio che regna su questo testo magnifico, silenzio che solo dei suoni inarticolati vengono a turbare: urla di esseri divorati da bestie selvagge, descritti come « vive tombe » ( v 993), gemiti di dolore dei feriti ecc. Per tutte le posizioni, filosofiche o sofistiche, \ che, in modi diversi, vedevano nel logos la causa primà'del comportamento sociale, un simile silenzio della parola articolata non poteva che sfocia­ re in una conservazione dello stato di solitudine, salvo la comparsa di un provvidenziale onomatoteta. Ora, non è molto diverso il caso di Lucre­ zio, il quale mette in campo delle strutture che potremmo definire non­ logiche, destinate a preparare l'avvento della società. Anche in assenza di legami sociali, la sessualità, lungi dall'essere un puro sfogo, porta in sé il programma di quelle che saranno le modalità dell'esistenza sociale. Le tre cause evocate per rendere conto delle unioni sessuali sono le seguenti: la concordanza dei desideri, 1 'abuso e la transazione attraverso la mediazione di un oggetto, la prostituzione configurandosi in tal modo come la forma

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primaria di commercio. Questa organizzazione spontanea del desiderio costituisce la genetica dei comportamenti umani. La storia dell'umanità è originariamente, per il poeta, quella dei suoi desideri e dei suoi piaceri, vale a dire del confronto del soggetto con la natura. L'osservazione degli effetti del fulmine o del sole, l'uso di pelli animali per coprirsi: tutto ciò permetterà all'essere umano di scoprire che la donna è più di un semplice oggetto sessuale e che anche la progenitura può essere fonte di piaceri. La coppia e la sua prole costituiscono così, come nello stoicismo, ma con uno spirito completamente diverso, il nodo a partire dal quale si svilupperà la socievolezza, estendendosi dapprima ai vicini, quindi alla città, attraverso il controllo della pulsione egoistica che, in un primo tempo, faceva domi­ nare sul più debole la potenza del più forte. In una tale ricostruzione, il linguaggio non arriva che in un secondo momento, come elemento di pura comunicazione, almeno nel suo princi­ pio. Non ci soffermeremo su questo punto, che è stato oggetto di numerosi studi. Il linguaggio altro non è che un sistema di corrispondenze tra sensa­ zioni e oggetti, stabilito dall'uso delle variazioni della voce. Proprio come lopinione si aggiunge alla sensazione, è per una perversione della natura che il linguaggio si trova investito di una funzione di potere. Quando pas­ serà a evocare l' installazione dell'elemento politico, poi la sua decadenza e l' instaurazione di regimi fondati sulla perversione della parola, Lucrezio avrà queste parole, che stigmatizzeranno una passione che rende il sogget­ to estraneo a sé stesso e dunque incapace di avanzare sul cammino della saggezza: « regolano le preferenze sulle opinioni ricevute più che sulle proprie sensazioni » (Lucrezio, Rer. Nat. v u 33-u34). Potremmo forse comprendere meglio ciò che Epicuro rappresenta per Lucrezio attraverso un paragone con lo stoicismo. Non si tratta evidente­ mente di sottovalutare la differenza tra le due dottrine, ma esiste ad ogni modo qualcosa che è assimilabile a una somiglianza strutturale. Nello stoi­ cismo, la circolarità è rivendicata, esplicitata. L'essere umano, ogni essere umano, alla sua nascita è in contatto diretto con la natura, ma in modo istintivo, il che fa sì che egli non differisca fondamentalmente dall'animale (su tale questione cfr. Radice, 2 0 0 0 ) . Alla fine del percorso, se così si può dire, il saggio ritrova la natura, non più al livello dell' istinto, ma della per­ fetta razionalità, ciò che lo rende pari a un dio. Tra questi due momenti, la quasi totalità dell'umanità è stata lasciata ai margini del percorso. Nell'e­ picureismo non esiste una legge naturale, né una ragione universale alla quale l'uomo tenterebbe di elevarsi. Il mondo è regolato da patti naturali, i

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STORIA D ELLA FI LO SO FI A ANTI C A

foedera naturae, necessariamente effimeri, stabiliti a partire dalla praticabi­ lità delle combinazioni atomiche. Non è per questo meno vero che l'essere alla sua nascita è in contatto con la realtà degli atomi, poiché egli non è che sensazione, mentre l'adulto perderà tale contatto, isolato com'è in un mondo di opinioni e di passioni. Epicuro rappresenta il momento in cui l'essere umano ritrova la durezza originaria delle cose, attraverso la ragio­ ne, ovvero il sistema di sensazioni organizzato conformemente alla realtà e non attraverso quelle forme parassitarie della sensazione che sono le opi­ nioni. Mentre la perfezione del saggio stoico restava teorica, il ritrovarsi con il mondo di Epicuro ha luogo all' interno di un gruppo di amici, di una scuola. Ma al cuore delle due dottrine resta la questione: come ritrovare alla fine del percorso la qualità del rapporto originario con il mondo ?

Una variante del mito lucreziano : il prologo del libro II del De architectura di Vitruvio

Una delle maggiori caratteristiche della filosofia a Roma è la rapidità con cui essa si è inserita nei campi più diversi della cultura. Vitruvio è quasi contemporaneo di Lucrezio, ma a priori non ci si aspetterebbe di ritrovare l' influenza dell'autore della Natura delle cose in un trattato di architettu­ ra7. Nulla permette, tutto sommato, di affermare che questo architetto sia stato epicureo, non comportando l' impiego di un tema l'adesione a una dottrina. È più probabile che, volendo spiegare l'origine della sua arte, egli abbia fatto ricorso al testo letterario più brillante di cui fosse a co­ noscenza, senza per questo sentirsi obbligato ad approvarne i fondamenti teorici. Contrariamente a Lucrezio, Vitruvio non si sofferma a descrivere la situazione dell'umanità primitiva. Era importante invece, dalla sua pro­ spettiva, spiegare l'origine del fuoco e del linguaggio, essendo il primo la condizione sine qua non della tecnica, e condizionando il secondo la vita in società, quadro necessario per la costruzione di mura e dimore. Vitruvio resta fedele all' ispirazione di Lucrezio in quanto fa nascere la civiltà non dall' intervento di un individuo superiore, bensì dal cambiamento nel rap­ porto con la natura. Egli introduce tuttavia delle sfumature, nella misura in cui - senza arrivare alla posizione stoica che fa dell'essere umano il solo essere razionale, insieme agli dei - articola un tema non specificamente epicureo, ma presente in Lucrezio (Rer. Nat. v u 6 1 ss. ) : quello del pri­ vilegio, proprio dell'uomo, della stazione eretta, con qualche notazione

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che richiama il discorso dello stoico Balbo, nel I I libro del Sulla natura degli dei ciceroniano, sull'eccezionale abilità del corpo umano. Allo stesso tempo, tuttavia, egli non dice nulla sulla famiglia, stadio essenziale, per Lucrezio, della formazione della società, e soprattutto introduce un mo­ tore di progresso assente dal testo di Lucrezio, la rivalità mimetica, che faceva sì che gli uomini, di cui ci viene detto che erano sin dall'origine « inclini a imitare e ad istruirsi » , mostrassero luno all'altro quello che erano riusciti a costruire e divenissero di giorno in giorno più avveduti. Si potrebbe immaginare che Vitruvio abbia soprattutto cercato di dare più lustro all'architettura, collegando i suoi inizi a quello che doveva essere considerato come un pezzo di bravura poetica e filosofica. Ciò significhe­ rebbe dimenticare un fatto importante, vale a dire che Vitruvio, proprio adattando il testo lucreziano alla propria volontà di esaltare la sua arte, esprime una concezione dell'essere umano che non corrisponde né a quel­ la degli stoici né a quella degli epicurei. Nella sua visione del mondo, l'uo­ mo deve adattare il suo comportamento agli insegnamenti fattuali, visibili, della natura; non gli viene attribuito uno statuto radicalmente ecceziona­ le; la sua azione è determinata dalla gelosia che il successo altrui provoca, ma a differenza di quanto si trova nella critica di Carneade allo stoicismo, Vitruvio non pensa che questo mimetismo sia necessariamente fonte di violenza, bensì, essenzialmente, un movimento di emulazione nella ricerca della perfezione. In ultima analisi, si tratta di una concezione dell'uomo prudente, sfumata, esente da qualsiasi ambizione eccessiva ma che vede nella tecnica in generale, e nell'architettura in particolare, lo spazio privi­ legiato nel quale possono essere conciliati la natura, lessere umano come individuo e la società come seme, a un tempo, di rivalità e di progresso.

Cicerone o la filosofia senza filosofo

Filosofia e filosofo Al cuore dell'attività di Cicerone, vi è stato quello che Jean-Marie André ha chiamato « il dramma dell' impossibile ritirarsi » (André, 1966; cfr. inoltre Lévy, 2012b ), ovvero l incapacità di trovare un periodo per dedi­ carsi esclusivamente alla filosofia. In questo senso, Cesare rese all'Arpinate un enorme servizio quando, per la guerra civile prima e per la dittatura poi, lo emarginò dalla vita politica e gli consentì in tal modo di vivere

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STORIA D ELLA FILOSO FIA ANTI C A

quei momenti di vita teoretica che gli permetteranno di scrivere le opere degli ultimi anni della sua vita. Vi è tuttavia un elemento che ci sembra giustificare il titolo un po' sorprendente che abbiamo dato a quest 'ultima parte. Quest 'uomo, infatti, che ha così spesso espresso la sua passione per la filosofia, si è definito soltanto una volta come filosofo, per di più in un contesto particolare, quando, nella lettera I X , 1 7, scritta a metà settembre del 46, egli si qualifica come « un uomo coraggioso e filosofo » . Vi è qui una componente di autodecisione, poiché egli riconosce di aver preferito la vita alla morte, e dunque di essersi reso debitore nei confronti del ditta­ tore che gli aveva concesso di vivere. Nondimeno, facendo professione di filosofo, egli prende le distanze, ciò che non era mai accaduto in preceden­ za. Come spiegare questa distanza tra il filosofo e la filosofia in qualcuno che sarebbe arrivato a dire che è quando non sembrava fare filosofia che egli ne faceva di più ? Essere filosofo, all'epoca di Cicerone, significava avere uno statuto lega­ to alla lingua e all' identità greche, statuto indispensabile per un Romano che, oltretutto, era un consolare, un antico console8• Uno dei grandi ap­ porti di Cicerone alla filosofia sarebbe stato quello di mostrare, attraverso il suo esempio, che qualcuno originariamente estraneo alla lingua e alla cultura greca poteva progressivamente acquisire uno statuto molto vicino a quello del philosophus, vale a dire di un uomo inserito in una struttura scolastica, che richiede una conversione filosofica. La prossimità di Cice­ rone nei confronti della filosofia non ha cessato, infatti, di rinforzarsi. In Sull'oratore (11 1 56 ) , scritto nel 55, egli riprende un'espressione tratta dal Neottolemo del poeta tragico Ennio : bisogna certo filosofare, sed paucis, a piccole dosi. Dieci anni dopo, nelle Discussioni tuscolane ( n 1 ) , la sua posi­ zione è cambiata: bisogna filosofare, ma non a piccole dosi, sed non paucis. La filosofia è divenuta ai suoi occhi un impegno totale. Ciò non significa che non vi sia alcuna "ricaduta" dopo le Discussioni tuscolane, poiché la morte di Cesare gli darà per alcuni mesi l' illusione di un possibile ritorno alla vita politica. Esiste, tuttavia, un percorso ciceroniano, in cui la filosofia occupa tre periodi in modo privilegiato : gli anni della formazione, spe­ cialmente con l' incontro degli accademici Filone di Larissa e Antioco di Ascalona (sui due filosofi cfr. Brittain, 2.0 0 1 ; Sedley, 2.0 1 :z. ) ; il momento in cui, percependo la natura gravissima della crisi della repubblica, egli ricorre alla filosofia come a un "puntello" della tradizione, con Sull'oratore nel 55, Lo Stato nel 54, Le leggi nel 5 1 ; gli anni 45-44, durante i quali scrive le ope­ re che oltrepasseranno largamente il quadro della politica entro cui egli si

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era fino ad allora mantenuto. Nello stesso momento in cui si allontanava progressivamente da una filosofia esplicitamente incentrata sulla politica, la rappresentazione che dava di sé si avvicinava maggiormente a quella del filosofo. I primi dialoghi scritti sotto la dittatura mettevano in scena degli aristocratici descritti, spesso in modo molto temerario, come dei dilettanti illuminati, essendo Cicerone un unus inter pares nella discussione, mentre i prologhi gli permettevano di porsi come il fondatore, il protos heuretes di una filosofia specificamente romana, destinata a dotare Roma dell'uni­ co settore della cultura greca che le mancava ancora. Si trattava dunque, nelle sue intenzioni, di continuare a operare per il bene pubblico, nel solo ambito in cui la dittatura di Cesare gli lasciava qualche libertà. È nelle Discussioni tuscolane, ci sembra, che si registra una svolta. La villa in cui si svolgono le disputationes appare come la copia romana dell'Accademia, la pratica di insegnamento di Filone di Larissa è finalmente evocata in un'o­ pera filosofica e Cicerone diviene il maestro che interroga, e che interroga un discepolo insieme anonimo e piuttosto evanescente, poiché sarebbe stato sconveniente presentarsi come il maestro di un Romano d'alto ran­ go. È questo tuttavia ciò che Cicerone finirà per fare nel Fato, quando egli istruirà Irzio, luogotenente di Cesare che aveva già fatto esercitare nella re­ torica, in merito a certe discussioni che opposero gli stoici agli accademici sulla questione del destino. Lo statuto del filosofo appare dunque come una linea rispetto alla quale l'itinerario di Cicerone fu asintotico, sempre più vicino senza mai confondersi con essa. La scomparsa di Cesare mise fine a questa sempre maggiore prossimità. Nei Doveri, scritto poco dopo la morte del dittatore, Cicerone è un padre che istruisce suo figlio, trasmet­ tendogli i precetti di un'etica in cui hanno parte allo stesso tempo il mos maiorum e la tradizione filosofica stoica. La questione della lingua Il luogo comune secondo cui "i Romani non hanno apportato nulla di ori­ ginale alla filosofia" omette un elemento di estrema importanza. I Romani sono infatti coloro che hanno per primi mostrato concretamente che era possibile filosofare in una lingua che non fosse il greco. Ciò che sembra oggi evidente - anche se l'esempio di Heidegger mostra che esiste sempre in alcuni la tentazione di considerare la filosofia come ontologicamente legata al greco e, nel suo caso, al tedesco - era allora semplicemente impen­ sabile. Risale a Cicerone il merito di aver disgiunto la filosofia dalla lingua

2.16

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greca, impresa dalle conseguenze enormi, impresa di cui si dice che sareb­ be fallita se, proprio a Roma, avessero trionfato quanti non trovavano in­ teresse nel filosofare in latino. Oggi, tutto o quasi si fa in inglese in alcune discipline scientifiche ( biochimica, geofisica ecc. ) . Dopo tutto, la filosofia avrebbe potuto restare "attaccata al greco'', proprio come il giudaismo è restato "attaccato", fino al XIX secolo, ali'ebraico, o proprio come la religio­ ne musulmana resta "attaccata" alla lingua araba. All' interno dello stesso mondo degli antichisti sono riscontrabili due grandi tendenze. Per Roland Poncelet ( 195 3 ) l' impresa ciceroniana fu meritevole ma fallita, poiché, se­ condo lui, il latino era costitutivamente incapace di esprimere il pensiero astratto. Ci si chiede tuttavia grazie a quale miracolo Descartes, Spinoza e Leibniz abbiano potuto, dopo molti altri, filosofare in latino. Per Alain Michel ( 1960 ) e Noemi Lambardi ( 1982. ) , al contrario, Cicerone è stato un traduttore-artista, vale a dire qualcuno che è stato anche un creatore, nel momento in cui restituiva il pensiero dei suoi modelli greci. In realtà, l' impresa ciceroniana inizia non con la filosofia, ma con la retorica. La redazione dell'Invenzione retorica ( attorno all ' 8 6 ) era già in sé stessa un atto di audacia, se si ricorda che, nella generazione precedente a quella di Cicerone, erano stati cacciati da Roma i rhetores latini che si dedicavano a insegnare la retorica nella propria lingua. Nel 55, nello scritto Sull'oratore ( m 9 5 ) , Cicerone affermava già: « infatti né la natura della nostra lingua né la realtà delle cose impediscono che quella antica e ottima sapienza dei Greci sia adattata ai nostri bisogni e alla nostra tradizione. Però per questo c 'è bisogno di uomini colti e tali uomini il nostro popolo non ne ha finora prodotti. Se un giorno appariranno saranno necessaria­ mente superiori ai Greci » . Per Cicerone, filosofo della volontà, non esiste fatalità linguistica più che fatalità storica. Il princeps, nel politico, e l' eruditus homo,\n ambito culturale, hanno la funzione di assicurare l'egemonia romana. Tuttavia, è soltanto nel 45/ 44 - quando egli aveva cioè più di sessant 'anni, età con­ siderevole ali'epoca - che Cicerone teorizzerà la sua pratica della tradu­ zione, specialmente in contrapposizione a Varrone, il più grande erudito dell'epoca, che non vedeva assolutamente quale fosse l' interesse di filo­ sofare in lingua greca. Il suo rifiuto si fondava sul seguente ragionamen­ to : perché fare uno sforzo considerevole per tradurre, se gli illetterati non potevano comunque comprendere questi testi, mentre i letterati, da parte loro, li comprendevano perfettamente in greco ? Di fronte a ciò, Cicerone rivendicò una coerenza di una cultura romana in cui tutto, a eccezione

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della filosofia, era già stato espresso in lingua latina. Cicerone si situa nella tradizione di Platone, che disdegnava i neologismi e che, nel Cratilo aveva affermato che le cose « da loro stesse sono da imparare e da cercare, molto più che dai nomi » ( Platone, Crat. 4 3 9 b ; trad. Aronadio, 20134). Il suo grande rimprovero nei confronti di Zenone è proprio di aver creato dei nomi per nulla. Per Cicerone, si deve ricorrere al neologismo solo nel caso in cui non si abbiano altre soluzioni e si devono sfruttare le risorse della lingua latina, piuttosto che produrre dei semplici calchi. È quanto viene espresso nei Termini estremi dei beni e dei mali ( iv 1 5 ) : «Non sarà neces­ saria una traduzione letterale, come di solito fanno i traduttori dall'espres­ sione poco ricca, ogni volta che esista una parola più frequente che ha il medesimo significato. Per conto mio, son solito, se non posso fare altri­ menti, rendere con più parole il medesimo concetto per il quale i Greci ne usano una sola. Ciò non impedisce di concederci di utilizzare una parola greca ogni volta che il termine greco non ricorre in latino» . L a questione dell'origine Il poema lucreziano aveva fornito al pensiero romano un sistema di riferi­ menti alternativo, all' interno del quale l'uomo da ammirare e da imitare non era più il glorioso antenato, ma un Greco, Epicuro, e il fine da con­ seguire non era più il consolato, ma la tranquillità interiore, ottenuta in particolare attraverso una presa di distanza dalla politica. Non sappiamo esattamente che cosa Cicerone avesse trattenuto della lettura di questo te­ sto, né perché egli non ne parli mai nelle sue opere filosofiche. Più che immaginare una qualche dissimulazione in cattiva fede, riteniamo che, se egli ha mantenuto un silenzio quasi completo, è piuttosto perché il mon­ do della filosofia è rimasto essenzialmente, per lui, quello dei suoi anni di formazione. Introdurre in un dialogo un poeta autore di un'opera contem­ poranea, per di più epicurea, con il quale egli non aveva alcuna relazione personale approfondita avrebbe significato per lui rompere la rete com­ plessa dei codici sociali e dei legami di amicizia che gli dettava la scelta dei suoi personaggi e dei suoi riferimenti. Ad ogni modo, Cicerone sapeva che Lucrezio esisteva e che l'epicureismo aveva sedotto un gran numero di Ro­ mani, anche tra coloro che appartenevano alla classe dirigente. Anche per questa ragione, egli aveva il dovere di fornire la propria risposta alla doppia questione dell'origine e del fine. Vi sono state, infatti, diverse risposte, in funzione di un itinerario ciceroniano ricco di vicissitudini politiche, che

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gli fecero percepire in modo diverso alcuni aspetti della natura umana (su tale questione cfr. Lévy, 2oua). L'invenzione retorica, scritto tra 1'88 e 1' 84, riprende, a partire da una fonte greca che potrebbe essere Isocrate o Filone di Larissa, il mito caro ai sofisti di un'umanità errante, infelice e in preda alla violenza. È allora, spiega Cicerone, che un uomo insieme saggio ed eloquente seppe, grazie alla forza della sua parola, riunire gli uomini in città. Finché dei perso­ naggi dotati di questa caratteristica detennero il potere, la concordia re­ gnò, ma dal momento in cui alcuni provarono la tentazione di persuadere con degli argomenti disonesti, mentre altri, disgustati da questi metodi, preferirono allontanarsi dalla vita politica, subentrarono la discordia e la decadenza. Riconosciamo in questo testo delle idee particolarmente care al giovane Cicerone : la necessaria associazione tra filosofia e retorica, la credenza nell'uomo provvidenziale, la fiducia nella volontà, ma anche la coscienza di tutto ciò che può disfare il fragile edificio della civiltà. Più di dieci anni dopo, Cicerone torna su questo terna nello scritto Sull'o ratore. Nel primo libro, Crasso torna al § 30 sulla questione dell'o­ rigine della civiltà e afferma: « Quale altra forza ha potuto raccogliere in uno stesso luogo gli uomini dispersi, sottrarre gli uomini alla loro vita grossolana e selvaggia per portarli al nostro grado attuale di civiltà, fon­ dare le società, fare regnare le leggi, i tribunali, il diritto ? » (I 33). La ri­ sposta si trova nel termine che scandisce tutto il passaggio : dicendo, ossia attraverso la parola. Ciò implica dunque che la posizione moderata che Cicerone aveva tentato di definire nell'Invenzione retorica, tra filosofia e retorica, sia provvisoria ? Crasso in realtà oscilla tra l'ebbrezza che il potere della parola gli procura e la preoccupazione di attenuare questa volontà di potenza tenendo conto di obiettivi politici e morali. Ma è soprattut­ to importante notare la comparsa del giurista Scevola, che rappresenta la tradizione romana che si opporrà a Crasso, ponendosi esclusivamente sul piano del potere accordato alla parola, senza ritenere di dover prendere in conto una sua ulteriore moralizzazione. I due punti su cui egli si oppone a Crasso sono l' idea secondo cui la civiltà sarebbe stata fondata da oratori e l' idea che costoro rappresentino la perfezione dell'umanità nel campo della parola. Alla tesi, difesa da Crasso, di una potenza attiva della parola oratoria, egli oppone un altro modello, quello di un'azione a un tempo intellettualmente forte e priva di parole, come fu - egli afferma - quella di coloro che successero ai re. Anche prima di Sull'oratore, Cicerone aveva iniziato a emanciparsi dal

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mito greco delle origini per tornare a una temporalità segnata dalla cen­ tralità dell' Urbs. Al centro del Pro Sestio, scritto nel 56, si trova una lunga digressione sul tema dell 'origine della civiltà, ma con un elemento interes­ sante, ovvero l'assenza di qualsiasi allusione all'eloquenza come elemento di fondazione delle città. Nel Pro Sestio, Cicerone prende atto di una situa­ zione nella quale il livello di violenza a Roma è divenuto tale che la parola non può più intervenire in modo efficace. Il mito dell'Invenzione retorica è qui ripreso con delle importanti differenze. In primo luogo, non è più un solo uomo che, mediante la saggezza della sua eloquenza, permette il pas­ saggio alla civiltà, bensì molti individui. Vediamo qui l'ombra portata da un periodo in cui il potere crescente degli imperatores spingeva Cicerone a temere già l' intervento dell' individuo provvidenziale. Sappiamo d'altra parte che per Cicerone, in questo discorso, a partire dall'origine della civil­ tà si sono affrontate due realtà: vis et ius, la violenza e il diritto, due forze in perpetuo conflitto. Ricordiamo infine che, contrariamente al tempo con­ fusamente mitico-storico dell'Invenzione retorica, il Pro Sestio definisce una sorta di eternità dell' Urbs (duo genera semper in hac civitatefuerunt) e distingue due categorie di uomini politici: quelli che lusingano una massa indifferenziata (multitudo) e quelli che sono al servizio degli optimi, cate­ goria volutamente definita in modo molto ampio, in quanto va dai principes consili publici ai liberti; il che dà un' idea di quanto poco si trattasse di per­ sone moralmente irreprensibili o dalla situazione economica stabile. Ciò che caratterizza l'aristocratico non è la capacità di agire attraverso il suo discorso, ma la difesa, con ogni mezzo, delle istituzioni in cui si inscrive l'esercizio della parola, che si trattasse dei tribunali, delle assemblee, del senato o delle istituzioni religiose. Per questo, l'accento non è più posto sulla forza stessa, bensì sul quadro istituzionale nel quale essa si inscrive. E quando questo quadro, almeno nella rappresentazione di Cicerone, è stato compromesso dall'audacia dei populares, quando qualcuno come Clodio si pone al di fuori di tutte le istituzioni e, come dice Cicerone, «la causa della repubblica è stata persa, e persa non per gli auspici sfavorevoli, non per un veto, non per i voti, ma per la violenza, per una rissa, per la spada » (Pro Sestio 78), allora non è la forza della parola che bisogna opporgli, ma piuttosto una violenza della stessa natura di quella che egli si compiace di esercitare. È precisamente ciò che fece Milone uccidendo il suo nemico. Con la guerra civile, il tema delle origini non è più trattato nello stes­ so modo. Evocare l'uomo provvidenziale, fondatore della civiltà, avrebbe significato riconoscere una legittimità mitica a Cesare e fare con qualche

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decennio di anticipo ciò che farà più tardi Ottaviano, grande manipola­ tore del tema della rifondazione. Nei trattati scritti negli ultimi anni della sua vita, la riflessione di Cicerone si focalizzerà, sotto forme diverse, sulla seguente alternativa: il mondo è, per riprendere un'espressione cara agli stoici, la casa comune degli uomini e degli dei o, piuttosto, uno spazio di desolazione e di violenza. È nella Natura degli dei e nei Doveri che Cice­ rone esporrà la sua soluzione a questo dilemma: egli preferisce la visione ottimista del mondo difesa dagli stoici, ma in linea di probabilità, non come dogma al quale egli aderirebbe senza riserve. È proprio qui, a nostro avviso, il senso della conclusione della Natura degli dei ( I I I 9 s): « su queste parole, siamo partiti. A Velleio la confutazione di Cotta sembrava essere la più vera, mentre a me quella di Balbo» . La discussione filosofica è stata un esercizio di libertà, poiché Cicerone non si è sentito legato a Cotta da una solidarietà tra accademici. Allo stesso tempo, questa libertà non era affatto incoerente, poiché Cicerone non rinunciava a quello che, per lui, era al cuore della filosofia neoaccademica: il sentimento della finitezza umana e la consapevolezza della permanente possibilità dell'errore. La questione del fine: il maestro e i suoi due discepoli Antioco di Ascalona è una delle figure più misteriose, e in ogni caso più con­ troverse, della filosofia antica. Pseudo-stoico per alcuni, per altri precursore del medioplatonismo che segnerà il primo e il secondo secolo della nostra era, egli rimane soprattutto un enigma, anche se alcuni recenti lavori hanno permesso di chiarire un certo numero di aspetti della sua personalità (cfr. di recente Sedley, 201 2, nonché CAP. 10 ) . Una cosa almeno è certa: che egli ruppe con l' indirizzo aporetico dell'Accademia nuova incarnato da Filone di Larissa e che pretendeva di riallacciare i legami con i successori immediati di Platone, al di là della lunga parentesi scettica che Arcesilao aveva inau­ gurato. Uno dei temi principali della sua riflessione era lassunto che, nella maggior parte degli ambiti, non esisteva una vera differenza tra i peripatetici e gli accademici, ma semplicemente delle differenze di formulazione. In que­ sta sede ci interessa, più che Antioco, il modo in cui due discepoli romani percorsero e sperimentarono il suo insegnamento nel campo dell'etica. Cicerone seguì il suo insegnamento nel 7 8 , nel corso del suo viaggio di formazione ad Atene e in Asia. Resta la questione di sapere se, in un momento qualunque della sua vita, l' insegnamento dogmatico di Antioco soppiantò in lui lo scetticismo prudente di Filone, che lo aveva tanto se-

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gnato dieci anni prima. Riteniamo che non fu questo il caso, che Cicerone rimarrà sempre fedele all'Accademia di Filone, ma che mise tra parentesi questa fedeltà quando dovette parlare di politica nello Stato e nelle Leggi, perché qualsiasi espressione di dubbio avrebbe indebolito il suo sforzo di dare alla repubblica un'armatura teoretica che potesse sostituirsi a delle istituzioni e a un mos maiorum vacillanti. Di qui, la presenza più netta, in queste opere, di Antioco di Ascalona. Varrone, da parte sua, attese molto tempo prima di dedicarsi alla filo­ sofia (su Varrone come discepolo di Antioco di Ascalona cfr. Blank, 2 0 1 2 ) . All' inizio della seconda versione degli Accademici, Cicerone si mette in scena nel tentativo di convincere il suo interlocutore a scrivere un'opera di carattere filosofico, mentre fino a quel momento aveva preferito esercitare la sua riflessione nel campo della linguistica, della storia e dell'agronomia. È certo che l' influenza e l'esempio ciceroniani furono determinanti nella scrittura di Sulla filosofia, di cui sant'Agostino si servì abbondantemente, in particolare per redigere La citta di Dio. Come Cicerone prima di lui, Varrone dovette avanzare la sua risposta alla questione del bene sovrano, vale a dire di quel bene a cui tutti gli altri beni si riferiscono, senza che esso stesso si riferisca a un altro. Come Cicerone, egli farà riferimento al loro comune maestro, Antioco, e ciò fornisce un esempio unico, nella filosofia romana, di ripresa da parte di due discepoli dell' insegnamento che ave­ vano ricevuto, adattandolo alle loro preoccupazioni e alla loro personali­ tà. Si tratta di un eccellente strumento per valutare l'autonomia di questi pensatori rispetto alla fonte greca. Quand'anche Antioco avesse dato di­ verse versioni della sua ricostruzione dossografica, la scelta di una piutto­ sto dell'altra non potrebbe essere considerata indifferente. Nei Termini estremi dei beni e dei mali9, Cicerone inizia con l'esposi­ zione e la critica della dottrina del bene sovrano degli epicurei (libri I e 1 1 ) e degli stoici (libri III e IV ) , che si trovano screditati nella loro pretesa di dire agli esseri umani quale sia il bene supremo. Agli uni come agli altri, viene rimproverato di ingannare il loro pubblico presentando come un si­ stema unitario quella che, in realtà, era la congiunzione di due dottrine. Gli epicurei - egli afferma - propongono il piacere come bene sovrano, ma con "piacere" essi intendono due cose molto differenti: da un lato, la sen­ sazione piacevole, nel senso più banale del termine e, dall'altro lato, il pia­ cere in qualche modo disincarnato, ascetico, l'assenza di dolore. Gli stoici pretendono di non riconoscere che un solo bene, la bellezza morale - è la loro celebre parola d'ordine nihil bonum nisi honestum - ma, localizzan-

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do il bene sovrano nella perfezione delle intenzioni, essi ritrovano, dietro il nome di preferibili, i valori comuni. Una volta messe da parte, almeno provvisoriamente, queste due dottrine, Cicerone opererà, nella seconda parte dell'ultimo libro, un rovesciamento abbastanza sorprendente. Quan­ do la via sembrava ormai aperta per proclamare vincitore Antioco, ossia il promotore di un bene sovrano che associa la virtù e, a un livello molto inferiore, i beni del corpo e del mondo esterno, egli ne fa una critica, notan­ do che ammettere dei beni secondari signifìca compromettere lautonomia della saggezza. In questo libro, ed è ciò che ci interessa particolarmente, Antioco appare come colui che ha formulato la differenza tra una vita felice (limitandosi alla sola virtù) e una vita molto felice (la virtù accompagnata dai beni secondari), ma anche come colui che, per determinare quale fosse il bene sovrano, aveva fatto ricorso a un sistema messo a punto un secolo prima da Carneade, il più celebre scolarca dell'Accademia nuova. Questi aveva avuto l'ambizione di enumerare non solo tutte le soluzioni che erano state avanzate in merito al problema del bene ultimo, ma tutte quelle che potevano esistere. La versione antiochea della Carneadia divisio, quale vie­ ne riportata da Cicerone, si presenta in questo modo: ogni essere vivente ricerca alla sua nascita ciò che è conforme alla sua natura e il problema è defìnire tale oggetto. Secondo Carneade/ Antioco, tre oggetti semplici po­ tevano corrispondere a questa defìnizione: il piacere, lassenza di dolore e le cose prime secondo natura, vale a dire l integrità dei sensi, la salute ecc. A queste formule semplici del telos, Carneade, o Antioco stesso, ne aggiunge­ va tre miste: alla bellezza morale si potrebbe aggiungere il piacere, lassenza di dolore o le cose prime secondo natura (cfr. Cicerone, Definibus v 2 1 ) . Che il metodo attribuito a Carneade nel libro v sia autentico pare con­ fermato da tutto ciò che sappiamo altrimenti dello scolarca dell'Accade­ mia nuova. Facendo valere una volontà di esporre sistematicamente non solo le formule del telos esistenti, ma anche quelle possibili, il progetto era evidentemente di far cadere i suoi avversari, e in primo luogo gli stoici, nel­ la trappola dell' incoerenza, mostrando che cercare nelle prime tendenze naturali la defìnizione del bene sovrano signifìcava condannarsi a cambia­ re il telos in corso d'opera. La Carneadia divisio segna la fìne, se così si può dire, del naturalismo etico ellenistico, nel senso che, mostrando che basarsi sulla natura signifìcava condannarsi a un'aporia nella costruzione dell'eti­ ca, essa apriva la via, almeno virtualmente, a un altro modo di procedere, lo stesso che sarà esplicitato dal Commentario al Teeteto, basato non più sulla natura, ma sull'assimilazione a Dio nella misura del possibilew.

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Nella presentazione sobria ed efficace che Cicerone fa della costruzione dossografica carneadiana utilizzata da Antioco, il suo scopo è duplice : di­ sporre di un'arma contro gli stoici, ma anche contro Antioco stesso. L'er­ rore di Antioco, infatti, ciò che lo screditava a propria volta, era la pretesa di aggiungere qualcosa - la considerazione del corpo - alla bellezza mora­ le, assumendo così il rischio di esporre quest 'ultima agli stravolgimenti del mondo. Alla fine dei Termini estremi dei beni e dei mali, tutta la filosofia ellenistica è dunque dichiarata incapace di proporre una formula coerente del bene sovrano. Sarà così aperta la via per il solo esito possibile, Platone, che Cicerone esalterà nelle Discussioni tuscolane, precisamente perché, in quanto filosofo della trascendenza, permette di schivare le aporie delface­ a face con la natura. Del tutto diverso sarà l'atteggiamento di Varrone. Questi, minuzioso fino all'ossessione, non poteva lasciar sussistere tali incertezze, ammesse da Cicerone e caratteristiche della sua posizione. Con la stessa pazienza che aveva impiegato per rendere sistematica la sua conoscenza della storia di Roma, della sua religione e del suo spazio, egli racchiuse l' intera questio­ ne del bene sovrano in un densissimo insieme di considerazioni, che gli consentì di arrivare a un totale di duecentottantotto formule possibili del bene sovrano, laddove Cicerone ne accoglieva soltanto nove. Arrivò a que­ sta cifra astronomica facendo intervenire una serie di parametri assenti nei Termini estremi dei beni e dei mali, come il modo di vita o il punto di vista (egoista o altruista). Ma tutto questo sapiente edificio era subito minuzio­ samente decostruito, così da arrivare alla conclusione che il solo fine valido era quello degli antichi accademici, così come lo intendeva Antioco. A par­ tire da uno stesso insegnamento, i due Romani divergevano verso conclu­ sioni molto diverse : ammissione del dubbio e accenno di un orientamento verso la trascendenza in Cicerone ; conclusione unica, dogmatica, confor­ me all' insegnamento del maestro in Varrone. Una prova, se ce ne fosse bi­ sogno, di una libertà almeno di interpretazione, in una filosofia romana troppo a lungo presentata come una semplice copia dell'originale greco.

Osservazioni conclusive e prospettive

In una conferenza tenuta nel 1 9 3 7 1 1 , Albert Camus oppose la potenza crea­ trice della Grecia al genio romano, nel quale egli non vedeva altro che una notevole attitudine nel copiare quello che i Greci avevano apportato alla

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civiltà, e aggiunse : «Non è neanche il genio essenziale della Grecia che essi imitarono, ma i frutti della sua decadenza e dei suoi errori » . Che un animo generoso come Camus, sempre preoccupato di evitare le generaliz­ zazioni affrettate, si sia lasciato andare a una simile affermazione mostra fino a che punto sia necessario lottare contro i pregiudizi secolari, quando si vuole comprendere quale fu l'atteggiamento di Roma nel suo incontro con il pensiero greco. Imitatori, traghettatori, adattatori, creatori; i Ro­ mani furono tutto questo, offrendo alla cultura greca uno spazio di dif­ fusione in Occidente che essa non avrebbe potuto conquistarsi da sé. Per comprendere che cosa è accaduto nell' incontro tra Roma e la Grecia, per afferrare al meglio la dinamica di questo turbine da cui è scaturita in gran parte la nostra cultura, è necessario rivedere i nostri strumenti concettuali, liberarci da rappresentazioni che troppo spesso portano ancora il segno di un filellenismo a un tempo comprensibile e deformante. In tal senso, la ricerca in questo ambito è del tutto recente e ha ancora davanti a sé un promettente futuro.

Note

I

Ellenismo : periodizzazione e cronologia delle scuole filosofiche 1. Una tale idea di mescolanza o Vermischung, destinata a trasformarsi in un compiu­ to fenomeno universale o Welterscheinung, era stata già intuita e affermata nel 1775, nei suoi Schiarimenti sul Nuovo Testamento, da Herder, il quale aveva tuttavia voluto sottolineare quale elemento attivo nell' incontro dei due mondi non quello greco, ma quello orientale, vinto sì, militarmente, ma cui alla fine lo stesso Alessandro Magno soggiacque: sulla questione cfr. Canfora (1995, p. 41). 2. Un rinvio doveroso e storiograficamente fondamentale resta quello alle pagine che Arnoldo Momigliano in più occasioni dedicò al fenomeno dell'ellenismo : cfr. alme­ no Momigliano (1955; 1975; 1980). Quest 'ultimo volume, in particolare, è un testo significativo sin dal titolo, Saggezza straniera: secondo il pensiero classico la saggezza non può che essere strettamente greca. Con l'ellenismo, invece, la grecità si apre alle altre culture, come attentamente rileva Momigliano, da quella celtica a quella iranica, riservando un posto di prim'ordine a quella giudaica. Per la ricostruzione dell' inte­ ressante lettura proposta da Tam cfr. ora Marcone (2013). Per una posizione ancora diversa (e critica nei confronti dell' invenzione di Droysen) cfr. invece lsnardi Parente (1985-86), che retrodata la dissoluzione della polis alla disfatta di Atene nella guerra del Peloponneso. 3. Fra gli studi d' insieme, oltre al pionieristico Long (1974) e ai volumi degli Atti dei vari Symposia Hellenistica editi a partire dal 1980, si vedano: la fondamentale raccolta di testi debitamente commentati in Long, Sedley (1987) ma cfr. anche la più breve antologia in lnwood, Gerson (1988) o i primi quattro capitoli in Saunders (1997) , nonché le più o meno agili monografie introduttive di Sharples (1996), Lévy (1997), Magris (2001), e infine, direi soprattutto, la corposa messa a punto a più mani in Al­ gra et al. (1999 ); utile per comprendere latmosfera di continuo, produttivo dibattito fra le varie scuole filosofiche ellenistiche è anche la raccolta di saggi di loppolo (2013). 4. I principali protagonisti del dibattito sono: Wilamowitz-Moellendorff (1881, pp. 263-91 ; nonché ora, sulla sua scia, Caruso, 2013); Lynch (1972); Isnardi Parente (1981); Natali (2013); Maffì (2008). 5. È la tesi di Natali (2013; trad. inglese di un volume originariamente uscito in italiano nel 1991), che sviluppa una suggestione di Veyne (1976, pp. 241-4). -

-

STO RIA DELLA FI LO SO FI A ANTICA

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6. Il dibattito su Antioco è ancora aperto, come dimostrano gli articoli di Hatzi­ michali (2012) e Polito (2012). Altri esempi di "rottura" all'interno di scuole di altre discipline, in particolare quelle di medicina, sono studiati da Flemming (2012). 7. Ho discusso del Giardino in Dorandi (1997 ). Per la decentralizzazione delle scuole, cfr. Sedley (2003a). Sulla "dissidenza" epicurea cfr. anche Verde (20wa) ; Erbì (2011).

2

Le scienze nel mondo ellenistico 1. Resta indispensabile in proposito il classico lavoro di Fraser (1972); per quanto riguarda la medicina è fondamentale il volume di von Staden (1989). 2. I frammenti e le testimonianze di Erofilo e della sua scuola sono esemplarmente tradotti e commentati nel volume di von Staden ( 1989 ). Per un quadro d'insieme della medicina ellenistica cfr. Vegetti (1993). 3. L'appartenenza di Erasistrato all'ambiente del Museo è probabile ma incerta. Ri­ sulta che egli abbia operato anche nel regno seleucide in Siria. Frammenti e testimo­ nianze su Erasistrato sono raccolti e tradotti da Garofalo (1988). 4. Su questo medico lo studio fondamentale è quello di Vallance (1990). 5. Sulla polemica di Galeno contro la medicina metodica cfr. intanto Vegetti (1994). 6. La più recente e completa opera complessiva su Euclide (con traduzione e com­ mento di tutte le opere), a cui si può fare riferimento per un quadro generale, per le opere minori, per la tradizione del testo e la sua eredità, e soprattutto per una discus­ sione ampia e approfondita degli Elementi, è Acerbi ( 2007 ). 7. La visione tradizionale, basata su un aneddoto riportato da Proclo (In primum Eu­ clidis Elementorum librum 68 10-17 ), colloca Euclide a cavallo tra il IV e il I I I secolo, a capo di una scuola istituzionalizzata e in stretta correlazione con il potere tolemaico; ma cfr. Vitrac (1990, pp. 13-8) e Acerbi (2007, pp. 177-200 ), che ha individuato il floruit di Euclide qualche decennio dopo il 300. 8. L'autenticità della Divisione è però dubbia; cfr. supra, pp. 49-50. Altre opere sono: Sulle divisioni (su come dividere una figura data con certe linee in modo che le figure ottenute rispettino determinati rapporti; rimangono solo tracce in traduzione); gli Argomentifallaci (Pseudaria; Proclo In primum Euclidis Elementorum librum 70 5-18 - la introduce come opera su modi di discriminare se una dimostrazione è corret­ ta); i Porismi (perduta, sulla possibilità di trovare un oggetto con una certa proprietà senza ricorrere alla costruzione) ; sono attestati frammenti di opere di meccanica. 9. Opere comprensive venivano elaborate da matematici di varia caratura fin dal v secolo a.C.: cfr. Proclo, dipendente da Eudemo, in In primum Euclidis Elementorum librum 65 3-68 19. IO. Un esempio su tutti: la teoria delle linee irrazionali (scii. incommensurabili), ele­ mento fondamentale della matematica dell'Accademia; in merito cfr. Fowler (19992). Sulla matematica pre-euclidea cfr. Acerbi (2007, pp. 15-175). 11. Con gli studi di Bernard Vitrac e Fabio Acerbi questa idea circa la struttura degli elementi può ora dirsi affermata rispetto alla descrizione "minimalista� come compi­ latore, della figura di Euclide, per cui si veda Knorr (1975). -

NOTE

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12.. La letteratura sul tema è ampia: cfr. in particolare Vitrac (1990, pp. 1 17-33); Miil­ ler (1991); Acerbi (i.013). Postulati e assiomi sono presenti solo all'inizio del primo libro, mentre talvolta Euclide ha bisogno di introdurre definizioni ad hoc (come all' i­ nizio del libro VII, cioè introducendo la parte aritmetica degli Elementi). 13. Per un' introduzione e una bibliografia aggiornata cfr. Acerbi et al (i.013), da con­ sultare anche per gli aspetti metodologici qui discussi. 14. La lunghezza della circonferenza terrestre, calcolata con metodi geometrici, fu quantificata in 2.52..000 stadi (uno stadio equivale a 177,6 metri); cfr. soprattutto Cleo­ mede, Caelestia I 94 i.3-100 i.4, con Neugebauer (1975, vol. II, pp. 65i.-4). Sulle ricer­ che eratosteniche sulle medietà e per una panoramica cfr. Cusset, Frangoulis (i.008). 15. Per la ricostruzione della svolta eudossiana cfr. Goldstein, Bowen (1983); per la sferica euclidea cfr. Berggren, lhomas (1996); per l' introduzione dei dati osservativi come elemento di rottura nella storia dell'astronomia cfr. Goldstein, Bowen (1991). Per un' introduzione all'astronomia antica cfr. Neugebauer (1975); Evans (1998); Pe­ dersen, Jones (i.010'). 1 6. Il salvataggio dei fenomeni si può declinare in due prospettive: una realista (le orbite geometriche tracciate sono in qualche modo reali) e una strumentalista (i mo­ delli sono solo spiegazioni razionali); la loro distinzione, tuttavia, non è sempre facile. Per il salvataggio dei fenomeni Lloyd (1978) rimane un caposaldo. 17. Ovvero la differenza tra l'anno solare (periodo in cui il Sole torna a uno stesso punto solstiziale) e l'anno siderale (periodo in cui il Sole torna alla stessa stella). 18. Con alcune eccezioni, in effetti, l'astronomia greca non progredì fino al II secolo d.C.; al contempo, però, con il consolidarsi delle innovazioni ipparchee, si assiste a un fenomeno peculiare, ovvero il loro uso nel contesto dell'esegesi filosofica, in partico­ lare del Timeo (cfr. ad esempio la testimonianza di Plutarco, De animae procreatione in Timaeo 10i.8b) . 19. Per un' introduzione alla teoria musicale greca cfr. Barker (1989; i.007 ), quest'ul­ timo da consultare anche per un inquadramento su Aristosseno. i.o. Nonostante la datazione della Divisione del canone rappresenti una vexata quaestio, ci sono buone ragioni - su cui cfr. Barker (i.007, pp. 364-410) - per collocare l'opera all'inizio del I I I secolo a.C.; sulla reale amibuibilità a Euclide rimangono forti dubbi, soprattutto a causa di un errore formale presente nella proposizione 1 1 ; nonostante ciò, la struttura del trattato è ben definibile come euclidea.

3

Pirrone e il neopirronismo 1. Cfr. Sedley (1983, pp. 9-10, nonché pp. i.0-3) in merito al vocabolo skeptikos, sulle cui prime occorrenze e sul cui significato in diverse fonti cfr. anche: Janacek (i.oo8a); Striker (1980, p. 54, nota 1); Decleva Caizzi (199i.a, pp. i.96-306). Più in generale sull' immagine dello scetticismo pirroniano offerta da Diogene Laerzio nel libro IX delle sue Vite cfr. Decleva Caizzi (199i.c) ; Barnes (199i.); Bett (i.015). 2.. Cfr. il lungo elenco presente in Diogene Laerzio IX 71-73 (su cui cfr. Warren, 2.015) o ancora alcuni passi di Cicerone (ad esempio Vtirro 43-45; Luc. 13-15, 7i.-76) e Plu-

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tarco (soprattutto Adv. Col. u21f-II 2.2.a), dove pullulano precursori dello scetticismo accademico. Sulla questione mi limito a due selettivi rinvii: Brittain, Palmer (2.001); Lee (2.010). 3. Per i testi/testimonianze riconducibili a questi due autori cfr. rispettivamente Mette (1984) ; Decleva Caizzi (1981), da cui sono tratte le traduzioni relative a Pirrone. 4. Cfr. Diogene Laerzio IX 61 Pyrrho T 1 Decleva Caizzi. Sui presunti influssi orien­ tali, che sarebbero derivati dal contatto di Pirrone con la tradizione dei gimnosofisti, molto è stato scritto, senza tuttavia che siano emersi elementi cogenti a sostegno di tale ipotesi: oltre a Decleva Caizzi (1981, pp. 136-43), cfr. Piantelli (1978); Flintoff (1980); Garfield (1990); e soprattutto Bett (2.ooo, pp. 169-78) e Kuzminksi (2.008). 5. Cfr. rispettivamente Berti (1981); Bett (2.ooo, pp. 165-9) da una parte e Brancacci (1981), dall'altra. 6. Si tratta di una questione teoricamente interessante, ma di non facile soluzione : cfr. soprattutto Decleva Caizzi (1984) e, sulla sua scia, Chiesara (2.003, pp. 4-14); utili in­ dicazioni anche in Bett (2.ooo, pp. 152.-65); nonché in Lévy (2.001, pp. 300-4) ; Warren (2.002., cap. 4) ; Svavarsson (2.013); sempre utile, infine, von Fritz (1963). 7. Per un primo orientamento cfr. Reale (1981), che arriva a contare otto possibili letture diverse, fra cui, oltre quella "metafisica" su cui si tornerà fra poco, vanno ricor­ date soprattutto: a) linterpretazione "fenomenalistico-epistemologica" del pensiero di Pirrone, già avanzata da Zeller, anche in virtù di una proposta di correzione al testo di Aristocle discusso più avanti (cfr. supra, pp. 54-6), e in tempi più recenti, dopo l'adesione di Stough (1969), nuovamente difesa, ad esempio da Stopper (1983); Brennan (1998); anche Castagnoli (2.002., pp. 443-8; 2.014, p. u78); Thorsrud (2.009, pp. 2.3 ss.); b) quella "etico-pratica", già propria di Brochard (2.002.4) e oggi sostenu­ ta soprattutto da Ausland (1989); Brunschwig (1999); Warren (2.002., pp. 86-97); Beckwith (2.ou); e) quella "pragmatica", che arriva ad avvicinare Pirrone aJames, dife­ sa da Sakezles (1993). Cfr. anche Goder (1994, pp. 736-40 ) . 8. Oltre a Decleva Caizzi (1981), e Bett (2.ooo, cap. 1), cfr. Long, Sedley (1987, voi. 1, pp. 16-8); Hankinson (1995, pp. 59-64) ; Bailey (2.002., par. 2..2.). La sfumatura dogma­ tica del pensiero di Pirrone sembra emergere anche da altre testimonianze, di carat­ tere più marcatamente etico: cfr., a puro titolo di esempio, un noto e discusso passo tratto dagli Indalmoi di Timone ( Pyrrho T 62. Decleva Caizzi). Su questa impor­ tante testimonianza torna ora, giungendo a conclusioni diverse e offrendo ulteriori indicazioni bibliografiche, Svavarsson (2.002.), il quale presenta anche una nuova, in­ teressante, tendenzialmente "soggettivistica" rilettura globale della posizione di Pir­ rone: cfr. Svavarsson (2.004; 2.0IO ). 9. Dietro questo tentativo di difesa della figura di Pirrone dalla "cattiva stampa" che lo circondava (l 'espressione è in Rescher, 1980, p. 2.14, nota 1), vi è sicuramente Ene­ sidemo, esplicitamente citato ad esempio in Diogene Laerzio IX 62. ( T 7 Decle­ va Caizzi). Più in generale sulla ricca aneddotica relativa a Pirrone cfr. Bett (2.ooo, cap. 2.). 10. Per una ricostruzione diversa, "aporetica" e per così dire "relativistica", cfr. inve=

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ce Bett (2000, cap. 4); nonché già Woodruff (1988); contra si vedano Hankinson (2010) ; Castagnoli (2014, pp. 1201-5). 1 1. Sui cinque tropi cfr. soprattutto Barnes (199ob ); nonché più recentemente Wood­ ruff ( 2010, pp. 223-6); molto originale anche lanalisi di Brunschwig ( 1999, pp. 475-7 ). Sul ruolo e sull'"attualità" del cosiddetto "trilemma di Agrippa" nell'ambito del dibat­ tito epistemologico contemporaneo cfr. almeno il pionieristico Fogelin (1994); non­ ché Greco (2000); Klein (2008).

4 Epicuro 1. Per un primo ma adeguato orientamento sulla bio-bibliografìa del filosofo cfr. Gou­ let (2000 ); Leone (2006). Utili strumenti di lavoro sono: Association Guill aume Budé (1969); Bollack, Laks (1976); Erler (1994); Bénatoui:l, Laurand, Macé (2003); Gigandet, Morel (2007); Giovacchini (2008); Warren (2009); O'Keefe (20rn); Verde (2013d). 2. Per la traduzione italiana cfr. Ramelli (2002). Per la traduzione italiana delle ope­ re di Epicuro e degli epicurei cfr. rispettivamente Arrighetti (19731) ; Isnardi Parente (19 83'). Si segnala, infine, l' importante volume di Delattre, Pigeaud (20rn). 3. Ciò, in ogni caso, non significa che la scuola non ebbe una sua evoluzione dottri­ naria, pur sempre nel rispetto dei principi filosofici stabiliti dal fondatore. Si veda la descrizione della scuola di Epicuro da parte di Numenio di Apamea (frr. 24, 33-36 des Places) ; cfr. anche Capasso (1987, pp. 25-37 ). 4. Un esempio del symphilosophein e del syzen che sono alla base dell'attività della scuola di Epicuro è, tra gli altri, lo stretto rapporto che lega gli epicurei Polistrato (su cui cfr. p. 106) e Ippoclide testimoniato da Valerio Massimo ( I 8 17 ). 5. Cfr. Diano, Serra (20049, pp. 50-61, testo e traduzione, 129-38, note) ; Morel (2011, pp. 96-103, traduzione, 146-56, note). Cfr. soprattutto Hessler (2014) che presenta una nuova edizione critica del testo della lettera. 6. Sulla presenza (completa o parziale) del Sulla natura presso la biblioteca ercola­ nese, cfr. l' ipotesi di Laursen (2001). Cfr. inoltre il decisivo studio di Dorandi (2015). 7. Si tratta del noto fr. 111 del PHerc. rno5 (Contro coloro che si proclamano conosci­ tori di libri; per il titolo di quest 'opera cfr. Del Mastro, 2014, pp. 184-7, 324-5) di Filodemo (ed. Angeli). La tesi relativa alla non conoscenza da parte di Epicuro delle opere esoteriche di Aristotele (ormai superata) fu ampiamente sostenuta da Bignone (1973); in merito cfr. anche Verde (2016). 8. O, per essere più precisi, tramite epispasmoi o impulsi inferenziali, come testimonia­ no le coll. XIV e XVI del PHerc. rn55 edito da Santoro (2000) contenente lo scritto [La forma deldioJ probabilmente da attribuirsi a Demetrio Lacone. Cfr. Piergiacomi (2015). 9. Per questa posizione cfr. Konstan (2011). 10. A sostegno di questa prospettiva cfr. Sedley (201 1). 11. Per un ottimo quadro d' insieme dell'etica di Epicuro cfr. Mitsis (2015). 12. A questo proposito i denigratori dell'etica epicurea del piacere certamente non ri-

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sparmiarono le loro critiche; per limitarci a un solo esempio, secondo Ateneo (Deipno­ sophistai III 104b; VII 278e SVF [Stoicorum Veterum Fragmenta] III 709), Crisippo andava dicendo che l'ispiratore della dottrina del piacere di Epicuro fosse Archestrato di Gela ( Iv sec. a.C.) famoso per essere lautore di un poema intitolato Gastrologia. 13. Si noti che Lucrezio parla di loci, usando, dunque, il plurale, il che potrebbe pro­ vare che: a) avvengono diverse declinazioni atomiche e non ne è avvenuta una sola originariamente; b) i loci incerti corrispondano in qualche modo ai minimi spaziali teorizzati dagli epicurei, Epicuro compreso (cfr. a riguardo i passi di Temistio e Sim­ plicio raccolti dal fr. 278 Us., nonché Verde, 2015c). =

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La scuola di Epicuro 1. La cronologia qui seguita per la datazione delle diverse "fasi" della storia del Kepos da Epicuro a Patrone è quella proposta da Dorandi (1991b, pp. 45-54). 2. Per la raccolta dei frammenti l'edizione di riferimento rimane quella stabilita da Koerte (1890 ). 3. Per i frammenti cfr. Longo Auricchio (1988); Essler (2005); cfr. anche Longo Au­ ricchio (2013). 4. Cfr. il lungo passo riportato dal Sull'astinenza dagli animali di Porfirio ( I 7-12 34 Longo Auricchio). 5. Per i frammenti cfr. Tepedino Guerra (1991). 6. Per l'edizione della Vita di Filonide cfr. Gallo (2002, pp. 59-205). Cfr. anche De Sanctis (2009). 7. Cfr. il contenuto del PHerc. 1055 edito da Santoro (2000 ). 8. Lo scritto in questione è contenuto nel PHerc. 1012; per l'edizione del papiro cfr. Puglia (1988a). 9. Cfr. per un primo orientamento Gigante (199oa) ; Tsouna (2007); Longo Auric­ chio, lndelli, Del Mastro (2011). 10. È il caso della Syntaxis ton philosophon su cui cfr. Dorandi (1991a; 1994a). 11. Si tratta del Sui segni (PHerc. 1065) su cui cfr. De Lacy, De Lacy (1978). 12. Sul IV libro del Sulla morte (PHerc. 1050 ) , cfr. Henry (2009). 13. Del Peri parrhesias (PHerc. 1471) l'edizione critica rimane quella di Olivieri (1914). Cfr. anche Konstan et al. (1998). 14. Sul IV libro del Sulla musica (PHerc. 1497 ), cfr. Delattre (2007 ). 15. Cfr. in generale Dorandi (1990). Per i primi due libri dell'opera cfr. Longo Auric­ chio (1977 ); l'edizione di riferimento dello scritto rimane quella di Sudhaus (1964). 16. Si pensi, solo a mo' di esempio, al Dei vizi e delle virtu contrapposte in almeno 10 libri. 17. Cfr. i PHerc. 26 e 152-157 che conservano il I e il I I I libro del trattato Sugli dei che si leggono nell'edizione di Diels (1916-17 ). =

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18. Cfr. in generale Dorandi (1992). Per l'edizione commentata del I , I I I e IV libro dell'opera cfr. rispettivamente Janko (2000; 201 1). 19. È il caso dello scritto Il buon re secondo Omero (PHerc. 1507) che si legge nell'edi­ zione di Dorandi (1982). Cfr. anche De Sanctis (2008). 20. Per questa ipotesi cfr. Gigante (1984, pp. 74-7 ). Per la raccolta dei frammenti cfr. Gigante (199ob). 21. Sull'epicureismo romano del periodo repubblicano prima e imperiale poi, cfr. al­ meno Ferguson (1990). 22. Su Lucrezio e il suo poema cfr. almeno Boyancé (1963); Gillespie, Hardie (2007 ); Piazzi (2009 ) ; Maso (2012, pp. 87-110 ). 23. Cfr. la recente edizione del poema di Flores (2002-10). Sulla datazione dell'opera cfr. la proposta di Krebs (2013), per cui il poema era sostanzialmente disponibile nel 54 a.C., quando Cesare poté consultarlo grazie ai suoi contatti con i fratelli Quinto e Marco Tullio Cicerone. Si tenga conto in ogni caso anche della proposta di datazione del poema più tarda - ossia nel o successivamente al 49 a.C. - avanzata da Hutchin­ son (2001); contra Volk (2010 ). 24. Di diverso avviso Garani (2007), che, sulla scia degli studi di Furley, è del parere che Empedocle per Lucrezio non fu solo un modello poetico (come ritiene Sedley), ma anche un precursore di alcune dottrine filosofiche epicuree. 25. Sull' inutilità delle cattedre istituite da Marco Aurelio legata anche al loro carat­ tere dispendioso cfr. lattacco di Taziano nel suo Discorso ai Greci ( 19). Cfr. anche Donini (1980 ). 26. La raccolta dei frammenti di riferimento è quella di Smith (1993; cfr. 2003). I frammenti litici scoperti nelle nuove campagne di scavo sono pubblicati annualmente da Hammerstaedt e Smith sulla rivista "Epigraphica Anatolica" (2007-12). I diversi articoli pubblicati relativi alle edizioni dei nuovi frammenti sono stati assai utilmente raccolti in Hammerstaedt, Smith (2014). 27. Contro l'autenticità di questa lettera cfr. Gordon (1996, cap. 3). 6

Lo stoicismo ellenistico fino al I secolo a.C. 1. Tali citazioni e testimonianze sono state raccolte e classificate per autori e temi in von Arnim (1905); per una traduzione italiana di tutte queste testimonianze, cfr. lsnardi Parente (1989 ). Per Panezio e Posidonio, non inclusi negli Stoicorum Veterum Fragmenta (sVF), cfr. Alesse (1997) ed Edelstein, Kidd (1972), completato nel 1988 da due volumi di commentario e nel 1999 da un volume di traduzione inglese; per un raccolta più o meno simile e una traduzione italiana dei testi su Posidonio, cfr. Vimercati (2004a); per una selezione ormai classica di testimonianze sullo stoicismo classificate per temi e commentate, cfr. Long, Sedley (1987). Da circa trent'anni, lo stoicismo è stato oggetto di numerosi studi, che ne hanno profondamente trasforma­ to l immagine, nonostante si siano spesso concentrati sugli stessi aspetti della dottri-

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na (le passioni, i' oikeiosis, 1e rappresentazioni comprensive, i' assenso e il destino). Per dei bilanci successivi, più o meno completi, degli studi sugli stoici, cfr. Long ( 1971 ) ; Isnardi Parente ( 1993 ) ; lnwood ( 2003 ) ; Romeyer Dherbey, Gourinat ( 2005 ) ; Barnes, Gourinat ( 2009 ) . 2. Sesto Empirico (Adv. Math. VII 19 ) spiega come Posidonio abbia sostituito questo paragone ad altri paragoni stoici (l'uovo o il giardino), che non mostravano bene la solidarietà delle tre parti; cfr. Ierodiakonou ( 1993 ) . 3. Diremmo oggi "materiale", ma si vedrà che i corpi non si riducono, per gli stoici, alla "materia". 4. Per questa parte e per la seguente sul mondo, cfr. Diogene Laerzio VII 134-157; Cicerone, De nat. deor. II, con Hahm ( 1977 ) ; Bénatoui:l, More! ( 2005 ) ; Salles ( 2009 ) . 5. Sulla teoria crisippea della "mescolanza integrale" e sul suo ruolo cosmologico, cfr. Alessandro di Afrodisia, De mixt. III-IV, p. 216 ss. SVF II 473. In tale mescolanza, i due ingredienti non si fondono (ciascuno conserva la sua natura), ma si « compene­ trano a vicenda per tutta la loro estensione » (trad. lsnardi Parente, 1989 ) . Si tratta di uno schema fondamentale dello stoicismo, che consente di combinare monismo e dualismo e che si ritrova a tutti i livelli della dottrina (ad esempio nel rapporto tra il corpo e l'anima). 6. Si tratta della teoria stoica del destino, che poggia su argomenti fisici (nulla, dentro o fuori dal mondo, può opporsi alla ragione universale; nulla accade senza causa, pena la rottura dell'unità della natura) ma anche logici (il principio di bivalenza implica che nulla avvenga senza causa: cfr. Cicerone, De div. I 125-127 ) . Si avrà modo di torna­ re sulla questione della compatibilità del destino con la libertà umana. 7. Sull'analisi stoica dell'azione e dei suoi diversi elementi (appropriazione, impulso, assenso) cfr. l'opera ormai classica di lnwood ( 1985 ) e il recente bilancio proposto in Goulet-Cazé ( 2011 ) . 8. Il I libro del Sull'ira di Seneca fornisce molti argomenti stoici contro la concezione peripatetica secondo cui le passioni sono emozioni naturali e talvolta utili. 9. Sulla teoria stoica delle passioni nel suo complesso, che negli ultimi vent 'anni è stata oggetto di numerosi studi, cfr. in particolare Graver ( 2007 ). 10. Tutte le testimonianze sulla dialettica stoica sono state raccolte, tradotte e com­ mentate da Hiilser ( 1987 ). 11. 1. Se P allora Q, ma P dunque Q (modus ponens) ; 2. se P allora Q, ma non-Q, dunque non-P (modus tollens); 3. non (P e Q), ma P, dunque non-Q; 4. o P o Q, ma P, dunque non Q; 5. o P o Q, ma non P, dunque Q Se l' interpretazione (proposta da Lukasiewicz, 1934 ) della dialettica stoica come una logica delle proposizioni (opposta alla logica dei termini aristotelica) è anacronistica, va nondimeno sottolineato che la dialettica stoica ha come elemento di base la proposizione esprimente un fatto ("è giorno") ed esamina le relazioni di inferenza o di esclusione esistenti tra proposizioni. Questo approccio è profondamente concorde con la fisica e l'etica stoiche, che pari­ menti si concentrano sugli eventi, sui loro legami e sulle reazioni (buone o viziose) di fronte ad essi, come ha messo in luce Diano ( 1952 ) . =

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12.. Sulla concezione stoica dello sviluppo della ragione e sulle sue critiche cfr. Gill (i.006, in particolare pp. 12.7-i.03). 13. Sull'originalità della dottrina stoica delle relazioni familiari e sociali (in particola­ re da Panezio a Marco Aurelio), cfr. Reydams-Schils (i.005). 14. Sul cosmopolitismo stoico e sulle sue conseguenze pratiche nella politica cfr. Schofield (1999•) e Laurand (i.005). 15. Sulla definizione della saggezza, sul mutamento della follia in saggezza e sull'esi­ stenza del saggio, cfr. Brouwer (i.014). 1 6. Sulla tesi stoica della compatibilità tra destino e libertà e sulla sua storia cfr. Bob­ zien (1998). 17. Su Aristone e il suo ruolo nella tradizione stoica cfr. loppolo (1980 ). 18. Stoici posteriori definiscono alcuni atti scandalosi (quali l'incesto o il cannibalismo) come "convenienti" solamente in situazioni eccezionali (peristatika), mentre Zenone o Crisippo li giudicavano senz'altro "naturali" (Sesto Empirico, Adv. Math. Xl 190-194), come i cinici. Sull'uso casistico dei convenienti dopo Crisippo, cfr. supra, pp. 131-2.. 19. Sul modo in cui l'ontologia stoica ha indubbiamente ripreso alcuni problemi del Sofista per criticare le soluzioni proposte da Platone, cfr. Brunschwig (1988a); sull' ap­ propriazione critica da parte degli stoici di diversi aspetti della cosmologia del Timeo, cfr. Reydams-Schils ( 1999 ). i.o. Nella Repubblica, di cui non ci restano che resoconti di autori ostili, Zenone pare aver descritto una città di saggi senza classi né istituzioni e realizzabile hic et nunc, dunque opposta in tutto a quella di Platone. i.r. Antipatro di Tarso, che diresse la scuola stoica prima di Panezio, scrisse un trat­ tato in tre libri « sul fatto che solo il bello morale [to kalon] è buono per Platone » (Clemente Alessandrino, Stromata v 14 SVF I I I AT 56). 2.2.. Ad ogni modo, la psicologia morale di Posidonio (sulla quale si avrà modo di tornare) dà ad esempio alla ricchezza uno statuto un un po' diverso nel!' ambito dell 'e­ ducazione morale: è sempre né buona né cattiva, ma è «causa antecedente di male » in quanto eccita le parti irrazionali dell'anima (Seneca, Ep. 87 31-33). Su questo tema cfr. K.idd (1986). i.3. Alcuni interpreti come Alesse (1994, pp. 194-i.17) hanno sostenuto che Panezio avesse già adottato una concezione dualista dell'anima (sotto l'influenza di Plato­ ne), ma le testimonianze non vanno realmente in questa direzione, come ha mostrato Prost (i.001, pp. 37-53). Si può notare che Panezio, come gli altri stoici e contraria­ mente a Platone, considerava lanima corporea e materiale (Cicerone, Tusc. disp. I 42., 79-80 ). Le posizioni etiche di Panezio sono difficili da ricostruire in quanto la nostra fonte principale è I doveri di Cicerone, che si ispira ampiamente a un trattato di Pane­ zio sui convenienti, ma di cui non sappiamo sempre quando lo segue e quando se ne discosta. Su Panezio, cfr. anche Vimercati ( 2.004b ) ; Tieleman ( i.007 ). i.4. Nell'analogia crisippea del corridore prima citata, Posidonio riteneva che esi­ stesse una "causa irrazionale" della perdita di controllo del corridore, vale a dire "il =

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peso del corpo� e che occorresse trovare il suo equivalente nell'anima per spiegare la passione. 2.5. Posidonio prende ad esempio l'ipotesi eliocentrica (di Eraclide Pontico), che dal punto di vista astronomico è altrettanto valida che l' ipotesi geocentrica, in quanto il filosofo è il solo a poter determinare quali astri sono naturalmente fermi e quali in movimento.

7 Accademia ellenistica 1. Il presente capitolo riprende in forma sintetica e con qualche variazione quanto esposto in Bonazzi (2.015b, pp. 3 8-64). 2.. La letteratura critica sull'Accademia ellenistica è ormai sterminata: tra gli studi d' insieme più completi ricordiamo Dal Pra (19891); Long (1974) ; Ioppolo (1986; 2.009); Long, Sedley (1987, pp. 438-67 ) ; Gorler (1994, pp. 719-980 ); Lévy (1997, trad. it. pp. 175-2.1 1 ) ; Chiesara (2.003, pp. 36-101). Mancano invece edizioni commentate delle testimonianze e dei frammenti dei principali accademici: in generale ci si può riferire alle raccolte di Mette (1984; 1985; 1986-87 ); per quanto riguarda Filone cfr. anche Brittain (2.001). 3. Per le ricostruzioni cronologiche, cfr. la sintetica messa a punto di Dorandi ( 1999a). 4. Cfr. tra gli altri Brochard (2.002.\ p. 186); Long, Sedley (1987, vol. I, p. 448). Fuori dai confini di Atene, scuole collegate con l'Accademia di Carneade sono testimo­ niate a Larissa sotto la direzione di Callicle (cfr. Index Academicorum xxxv 36) e ad Alessandria sotto la guida di Zenodoro di Tiro (cfr. Index Academicorum XXXI I I 8; XXIII 2.). Il successo di Carneade serve forse anche a spiegare le ragioni per cui alcune fonti antiche si sentirono autorizzate a presentare l'Accademia di Carneade come la "Nuova Accademia", relegando l'Accademia di Arcesilao a una fase di transizione. 5. Il caso più eclatante è la rottura tra Filone e Antioco. Ma già in precedenza è interes­ sante osservare che per un certo periodo, prima di diventare scolarca, anche Clitomaco aveva lasciato l'Accademia per insegnare nel Palladio tra il 140/139 e il 12.9/12.8 a.C. 6. La testimonianza più eloquente in proposito è Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp. I 2.2.0. 7. Per una sintetica ed esaustiva presentazione dell'epistemologia stoica, cfr. Frede (1999b) ; supra, pp. 12.0-1 e anche CAP. 9. 8. La medesima etimologia è presente anche nei moderni "comprensione" e "percezio­ ne" che non a caso derivano dalla traduzione ciceroniana (comprehensio < prehendo e perceptio < capio) dei termini stoici della famiglia di katalepton e katalepsis. 9. Ma non le uniche, perché non meno problematica era la nozione di apprensione (katalepsis): un'altra critica di Arcesilao prendeva di mira il fatto che l'assenso pre­ cede l'apprensione e dunque l'atto conoscitivo proprio (Cicerone, Ac. 45). In altre parole, si assente a ciò che ancora non si conosce e dunque il rischio è che si assenta a ciò che è falso. Arcesilao aveva poi osservato un'ulteriore ambiguità nell'apprensione stoica che, pur essendo sempre la stessa, si configurava ora come conoscenza ora come

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opinione a seconda del fatto che a concedere l'assenso fosse il saggio o l'uomo co­ mune (Sesto Empirico, Adv. Math. VII 150-153). Sesto informa poi di un'altra critica ancora: l'assenso è ai giudizi ma non alle rappresentazioni, che di per sé non comu­ nicano nulla rispetto all'oggetto percepito (vu 154-155). In generale cfr. ora loppolo (2009, pp. 8 1 -109). 10. In questo gli accademici sfruttano un suggerimento implicito nella gnoseologia epicurea: Epicuro aveva infatti sostenuto (Rat. Sent. xxiv) che, se una sola sensazio­ ne avesse mentito anche una sola volta, non si sarebbe mai dovuto credere a nessuna sensazione (Cicerone, Luc. 79 ). 11. In particolare a proposito di Arcesilao: se i sostenitori dell' ipotesi dialettica (par­ ticolarmente numerosi in area anglosassone) si possono rifare a Coussin (1929a; 1929b), ampi consensi ha guadagnato negli ultimi tempi la proposta alternativa di Ioppolo (1986); cfr. ad esempio Lévy (1997, trad. it. pp. 185-6) ; per quanto riguarda Carneade, cfr. Lévy (1992, pp. 45-6). 12. Dal momento che questa critica non vuole dimostrare che lo scetticismo è auto­ contraddittorio, ma solo che ha conseguenze paradossali nella condotta della vita, gli scettici avrebbero anche potuto replicare accettando le conclusioni dei loro avversari: non è certo colpa degli scettici se tutto è incerto così come è incerto il numero delle stelle, se sono pari o dispari. Per quanto legittima, questa linea di difesa non incon­ trò alcun interesse e fu scartata come una posizione di desperati (Cicerone, Luc. 32; l' identificazione di questi pensatori è ancora oggetto di una vivace discussione tra gli studiosi moderni). Anche in questo caso si riscontra una delle caratteristiche princi­ pali dello scetticismo e (più in generale) della filosofia antica, lo stretto legame che unisce le teorie ai problemi del senso comune. 13. Un'analisi approfondita della teoria dell'azione di Arcesilao si legge in loppolo (19 86, pp. 121-56); per un tentativo originale di leggere queste testimonianze alla luce dei dialoghi platonici, cfr. Trabattoni (2005). 14. Una traduzione diffusa di pithanon in questo contesto è "probabile", motivo per cui si definisce a volte la posizione di Carneade nei termini di un "probabilismo". Ora, è vero che probabile è la resa di Cicerone del greco pithanon (una traduzione non esente da incertezze e ripensamenti, cfr. Glucker, 1995), ma il senso del termine latino vuole indicare appunto ciò che persuade (così il greco peithein) e che convince. Se di "probabilismo" di Carneade si vuole parlare se ne deve parlare in questo senso. Sono dunque evidenti le differenze con il linguaggio contemporaneo, in cui il probabile si contrappone a ciò che è certo e necessario, o, più precisamente, si configura come la misura della frequenza relativa dell'occorrenza di un evento relativamente a una classe data di alternative. 15. Dal punto di vista storico queste argomentazioni di Carneade avevano anche il merito di migliorare la posizione di Arcesilao, che era stato criticato da Crisippo proprio per aver eliminato l'assenso (come osservato in precedenza, per l'azione è sufficiente l impulso che deriva da un' impressione, cfr. Plutarco, Adv. Col. 1 1 22a-d) : per gli stoici l a posizione d i Arcesilao non riusciva a rendere ragione della differenza

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che corre tra azioni umane volontarie e razionali e azioni animali istintive (mentre il criterio dell' eulogon, di ciò di cui si può dare una giustificazione ragionevole - cfr. Sesto Empirico, Adv. Math. VII 158 - dovrebbe fondarsi su una qualche teoria del­ la conoscenza che Arcesilao non poteva esplicare) : oltre a Striker (2.010 ), cfr. Bete (1989 ) . 1 6 . Detto più sinteticamente: s e l a conoscenza è impossibile e l'azione prevede l'as­ senso, il saggio stoico per non rimanere inattivo dovrà assentire a una rappresentazio­ ne della cui verità non sia certo - dovrà opinare insomma, contrariamente a quanto affermano gli stoici: cfr. Giovanni Scobeo, Anth. II m 18 (sVF I I I 548): « secondo gli stoici il saggio non cade mai in una supposizione falsa, e non concede il suo assenso a ciò che non è comprensibile (akatalepton ) : quindi non ha opinioni e non vi è qualco­ sa che ignori. Infatti lignoranza equivale a un assenso instabile e debole; ma il saggio non è debole di giudizio, anzi è sicuro e deciso, per questo non si accontenta dell 'opi­ nione » con il commento di Long, Sedley (1987, vol. I, pp. 2.56-9). 17. La testimonianza antica più importante su questi dibattiti è il trattato ciceronia­ no Sulla natura degli dei. 18. Sorytes significa in greco "mucchio": l'argomentazione conosciuta con questo nome serviva a illustrare le difficoltà che ostacolano la determinazione di precise caratteristiche differenzianti. Così, per rimanere all'esempio del mucchio: una volta convenuto che 30 elementi compongono un mucchio, ci si domanda se cogliendo un elemento si avrà ancora a che fare con un mucchio e così di seguito fino a che il muc­ chio cesserà di essere un mucchio. 19. Cfr. Cicerone, Luc. 104-105: seguire passivamente ciò che è persuasivo non neces­ sita dell'assenso neppure a proposito delle risposte con un sì o un no, perché queste risposte corrispondono a "è probabile che sia così piuttosto che in un altro modo" e questa affermazione a sua volta corrisponde ad "appare a me che sia così" ( « ea quae vos percipi comprehendique, eadem nos, si modo probabilia sint, videri dicimus » ). 2.0. «Adsensurum autem non percepto, id est, opinacurum sapientem exisitmem, sed ita ut intellegat se opinari sciatque nihil esse quod comprehendi et percipi possit » . Cfr. anche Cicerone, Luc. 7 8 : «licebat enim nihil percipere e t tamen opinari » . In altre parole, rimane ferma la tesi dell 'akatalepsia, ma non è più in vigore linvito all' epoche, alla sospensione del giudizio. 2.1. In generale, per una valutazione della modernità di Filone, cfr. le osservazio­ ni di Brochard (2.002. +, p. 433): «Non è meno vero che ciò che oggi chiamiamo certezza corrisponde a ciò che un tempo si chiamava probabilità. Siamo probabilisti senza saperlo. La scienza è probabilista. Diciamo piuttosto che il probabilismo è scientifico » . Molto interessanti sono anche le osservazioni di Chisholm (1941). 2.2.. Su Enesidemo cfr. Bete (2.ooo) e Polito (2.014). Dalle testimonianze in nostro pos­ sesso non è chiaro se egli, prima di rilanciare una nuova forma di pirronismo (che poco aveva a che fare con Pirrone) si fosse formato nell'Accademia (cfr. da ultimo Mansfeld, 1995) e non invece ad Alessandria negli ambienti vicini alla medicina empirica (così, in modo originale, Decleva Caizzi, 1992.b). Ad ogni modo, visco che la rinascita del

NOTE

pirronismo non riguarda direttamente lo scetticismo dell'Accademia si è scelto di non trattare in questa sede delle sue novità. Per una trattazione più approfondita di questo problema, si vedano le osservazioni di Emidio Spinelli, supra, pp. 65-71. 23. Un' interpretazione affine era suggerita anche da Timone di Fliunte, allievo di Pirrone, che associa in modo scherzoso Arcesilao a Pirrone, all'eristico Menedemo di Eretria e al dialettico Diodoro Crono: cfr. frr. 31-32 Di Marco con il commento di Long (1978b). 24. Cfr. anche Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp. I 234. In difesa di questa tesi si sono schierati Credaro (1889-93); Gigon (1944); Lévy (1978) ha però mostrato l' insussi­ stenza di una simile possibilità. 25. Cfr. recentemente Goder (1994, pp. 812-5). Per una discussione d' insieme di tutti questi problemi, cfr. la rassegna di Lévy (1992, pp. 9-57 ). 26. Proprio perché si fonda su una tesi ontologica netta (anche se particolare: il carat­ tere indeterminato della realtà) si potrebbe osservare che la posizione di Pirrone diffi­ cilmente rispetta il requisito tipico dello scetticismo per cui non ci si deve impegnare in asserzioni decise; per un'analisi più approfondita, cfr. Spinelli, supra, pp. 55-61. 27. In generale, sulle affinità e le differenze che intercorrono tra l'Accademia e il neo­ pirronismo, cfr. Striker (2010 ) , che riprende un suo studio classico del 1981. 28. Cfr. Sedley (1977) a proposito di Diodoro; ma non c 'è bisogno di ipotizzare un discepolato diretto di Arcesilao, cfr. Long (1986). 29. Un'altra linea interpretativa è quella di chi ha ricollegato lo scetticismo accade­ mico alle analisi dialettiche dell'Accademia e di Aristotele (e Teofrasto) : cfr. Weische (1961); Kramer (1971). Si tratta di un' ipotesi molto interessante, che risulta almeno parzialmente confermata dal fatto che né Arcesilao né gli altri accademici hanno mai voluto rompere con l'Accademia antica. Ma, come ha mostrato Lévy (1992, pp. 20-2, 31-2), da sola essa non basta a spiegare tutto. Il problema non è solo l'analisi dei pro­ cedimenti formali delle discussioni dialettiche; il problema è il rapporto con Platone. 30. Del resto, non va dimenticato che l'espressione "Nuova Accademia" che caratte­ rizza nelle fonti antiche l'Accademia ellenistica proviene da classificazioni erudite o fonti ostili, ma non dai protagonisti di quella tradizione, cfr. Lévy (1992, p. 12). 31. Più precisamente, Plutarco ci parla di Platone, Socrate, Eraclito e Parmenide, mentre Cicerone parla di Democrito, Anassagora, Empedocle, Parmenide, Senofane e «quasi tutti i filosofi antichi » ; cfr. Plutarco, Adv. Col 1122a; Cicerone, Ac. 44; Luc. 14 e 72. 32. « Cuius in libris nihil adfirmatur et in urramque partem multa disseruntur, de omnibus quaeritur, nihil certi dicitur » . 3 3 . L'espressione « tradition d'humilté » s i legge i n Lévy (1992, p . 623). Più difficile da condividere nell' interpretazione di Lévy, se non altro in assenza di testimonianze esplicite, è la tesi che le discussioni degli accademici, nella misura in cui attaccavano le sensazioni, implicassero anche un'apertura verso la dimensione trascendente e in­ telligibile.

STORIA D ELLA FI LO SO FI A ANTI C A

8

Il Peripato ellenistico 1. Come spesso accade, il quadro offerto dalle fonti non è del tutto chiaro. Cfr., da ultimo, Verde (2012.). 2. L'ipotesi di Moraux è comunque stata fatta oggetto di critiche. Per un bilancio, cfr. Berti (1997\ p. 58). 9

Epistemologie ellenistiche : il problema del criterio 1. Per il ruolo fondamentale riconosciuto al problema del criterio anche all' interno del dibattito epistemologico contemporaneo cfr. il pionieristico lavoro di Chisholm (1973); per un sintetico e aggiornato status questionis cfr. inoltre McKain (2014). 2. Sulla figura, alquanto oscura in verità, di Potamone cfr. ora la monografia di Hatzmichali (201 1), la quale cerca di dare anche un senso al peculiare tipo di "ecletti­ smo" a lui attribuibile. 3. Striker ( 1996b, p. 71) ipotizza molto cautamente una derivazione dall'opera Sul crite­ rio di Posidonio. Dubbi in proposito solleva tuttavia Hatzmichali (2011, pp. 82-92), in­ sistendo piuttosto sul forte influsso del Teeteto platonico (in particolare 184c, nonché 178b; cfr. anche supra, pp. 177 ), forse grazie alla mediazione dell'anonimo Commen­ tario al Teeteto (in particolare II 11-14 Bastianini-Sedley) ; cfr. anche Tarrant (2000, pp. 177-80 ). 4. Per un primo orientamento in proposito cfr. almeno Manuli ( 19 8 o ) ; Long ( 1988a). 5. Sempre utilissimi restano al riguardo Long (1978a) e Brunschwig (1988b); cfr. an­ che Brennan (2000); Pérez-Jean (2003); Hatzmichali (2011, pp. 9 5-103); e ora Schwab (2013). 6. Anche se altrove non mancano cenni alla "nozione evidente di criterio" (cfr. Pyrrh. Hyp. I I 95-96; Adv. Math. VII 25; VIII 141-142), Striker (1996b, p. 72) ritiene che l'accenno alla "cosa non evidente" (adelon pragma) sia frutto di una riformulazione polemica, di una reinterpretazione scettica e non del genuino uso delle scuole filosofi­ che dogmatiche che Sesto combatte. Cfr. anche Adv. Math. VII 261, con il commento di Brunschwig (1988b, p. 1 62). 7. Non è questa la sede per un confronto incrociato con il passo parallelo di Adv. Math. VII 35-37; mi limito a sottolineare quanto segue: 1. il significato (e) viene lì inizialmente indicato (vII 35) mediante un'espressione - prosbole kai schesis - in cui il richiamo all' "uso" appare immediatamente funzionale alla comprensione dei casi "tecnici" addotti subito dopo; 2. tutti e tre i significati vengono chiariti attraverso una più ricca esemplificazione, che propone un paragone illuminante con lattività della pesatura e con la prassi del carpentiere. 8. Per ulteriori indicazioni e spiegazioni su questo difficile passo sestano cfr. Spinelli (1997, in particolare pp. 163-5); Morel (1996, pp. 465-6); sull' ipotesi di un Diotimo stoico torna ora Verde (201 3d, pp. 57-8).

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NOTE

9. Per un possibile antecedente aristotelico cfr. Eth. Nicom. I I I 4 1n3a 33, mentre non va dimenticato che anche Democrito aveva scritto un'opera intitolata Canoni (cfr. 68 B II D K) ; sulla successiva stesura e sulla struttura dei Kanonika di Antioco di Ascalona cfr. CAP. 10. 10. Per un rapido schizzo di tale meccanismo cfr. almeno Lévy (1997, trad. it. spec. pp. 56-60), e ora Verde (2013d, pp. 107-12.); più in dettaglio cfr. Leone (2012.) e CAP. 4. n. Cfr., per ulteriori chiarimenti, Striker (1996b, p. 30, nota 13), con ricchi rinvii bi­ bliografici; cfr. inoltre Verde (2013d, pp. 52-3). 12. Oltre a chiamare questo tipo di percezioni "sensazioni generali" (koinai aistheseis: cfr. Diogene Laerzio x 82), Epicuro ne mostra il peso e la funzione in un passo fonda­ mentale dell'Epistola a Erodoto (39-40 ); cfr. CAP. 10. 13. Sulla testimonianza ciceroniana (cfr. De nat. deor. I 16 43-17 45, nonché Definibus I 9 30-31), molto complessa, forse distorta e comunque non immediatamente perspi­ cua, cfr. Verde (2015b). 14. Alcuni passi possono essere sufficienti a chiarire la portata radicale del sensismo degli stoici, di sapore quasi prelockiano e pienamente in linea con l'adagio empiristico secondo cui nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu: cfr. Diogene Laerzio VII 49; Aezio, Vetusta Placita IV II ( SVF I I 83 Dox. Gr. p. 400 ); Sesto Empirico, Adv. Math. VIII 56-60. 15. Per i particolari storico-filosofici del dibattito epistemologico fra stoicismo e Ac­ cademia scettica cfr. in primo luogo loppolo (1986); cfr. anche Frede (1983) e Doty (1992), mentre sulla testimonianza sestana relativa alle posizioni scettico-accademi­ che cfr. Ioppolo (2009); cfr. infine Striker (2010). 16. Su tale rilevante questione così come sul senso corretto da dare alla passività del nostro primo contatto conoscitivo con il mondo esterno cfr. loppolo (1990, p. 12.5). 17. Forse con una lontana, ma consapevole eco platonica ( 'Iheaet. 191c-192d) ? Cfr. perciò loppolo (1990, in particolare pp. 130-3); utili spunti anche in Long (2006). Per ulteriori usi aristotelici della metafora del blocco di cera in testi rilevanti come il De anima e il De memoria et reminiscentia cfr. Sassi (2.007 ); per la ripresa stoica cfr. infine lerodiakonou (2.007 ). 18. Un dato di fondo appare chiaro, in ogni caso: « nelle testimonianze stoiche la rappresentazione è definita in termini fisici come impronta nell'anima. Nessuna de­ finizione richiama il suo rapporto con la proposizione: non solo la definizione di Zenone e la precisazione di Cleante sono piuttosto elementari e crudamente mate­ rialistiche, ma anche la definizione di Crisippo come heteroiosis enfatizza l'aspetto fisico della rappresentazione, non curandosi dell'aspetto proposizionale » (loppolo, 1990, p. 141). 19. Cfr. di nuovo Cicerone, Luc. 38; più in generale cfr. Lévy (1997, trad. it. p. 12.2), il quale offre interessanti spunti di riflessione anche in merito al valore "politico" dell 'as­ senso stoico (ivi, p. 12.5). 20. « Comprehensio facta sensibus et vera esse illi et fidelis videbatur [ .. ] quodque natura quasi normam scientiae et principium sui dedisset » . 21. Anche Carneade riporta questa analogia, sfruttandola come base di partenza del=

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STORIA D ELLA FI LO SO FI A ANT I C A

le sue obiezioni (cfr. Adv. Math. VII 163-165), che vanno considerate uno sviluppo coerente e articolato dello scontro epistemologico Arcesilao-Zenone, su cui cfr. su­ bito supra, pp. 191-3. 2.2. Sull 'esatto significato da attribuire a questo termine ciceroniano cfr. le differenti spiegazioni di loppolo (1990, pp. 12.4-5) e di Lévy (1997, trad. it. p. 12.2). 2+ Alcune di queste obiezioni le ritroviamo utilizzate da Carneade e registrate da Sesto Empirico : cfr. Adv. Math. VII 4oi.-405 e 408-411. Né meno interessante, nella medesima direzione, è l'aneddoto registrato da Diogene Laerzio ( VII 177) a proposito del filosofo stoico Sfero. i.4. Per un'efficace ricostruzione dei contorni di tale paradigma assoluto del sophos stoico cfr. in prima istanza Vegetti (1989, cap. 8). i.5. Cfr. Diogene Laerzio IX 106, ove vengono menzionati anche altri pirroniani: Zeussi, Antioco di Laodicea, Apella; né si dimentichi che in Adv. Math. VII 30 tale opzione vien posta sotto l' auctoritas dello stesso Timone. i.6. Oltre al già citatoAdv. Math. VII 30, cfr. Pyrrh. Hyp. I 2.26 eAdv. Math. XI 160-166; cfr. anche Diogene Laerzio IX 108. Tale accusa di inattività (o apraxia/anenergesia) era stata originariamente (e costantemente) rivolta tanto contro Pirrone e i suoi seguaci (cfr. ad esempio Diogene Laerzio IX 6i.), quanto contro Arcesilao, soprattutto dagli stoici (cfr. frr. 351-36i. Hiilser), ma anche dagli epicurei (cfr. in particolare alcuni passi del Contro Colote plutarcheo, su cui cfr. ora Corti, i.014). i.7. Per un' interpretazione dettagliata dello scenario non dogmatico, ma ugualmente "vivibile", anzi perfino politicamente accettabile, che si muove dietro tale posizione sestana cfr. Sitter-Liver (1 994) ; Laursen (i.004; i.005); Spinelli (i.005, cap. VI ; i.01i.a) ; Voge (i.010 ), nonché ora Eichorn (i.014); cfr. anche Marchand (i.014; 2.015) e Spinelli (i.015a). i.8. Si pensi ad esempio alla grammatica elementare, a un certo tipo di astronomia, all'agricoltura, alla navigazione, naturalmente alla medicina (non razionalistica, ma difficile dire con certezza se empirica o metodica), nonché alla filosofia, se intesa nel suo senso piano e privo di ogni precipitazione (propeteia) dogmatica: su questo lato positivo delle technai in Sesto, così come sul suo attacco contro le cosiddette "arti liberali" cfr. Spinelli (i.010 ). IO

Il senso del passato : Antioco e il I secolo a.C. 1. L' insistenza su questa formula segna un distacco abbastanza forte rispetto alle teo­ rie che verranno sostenute dai platonici successivi, cfr. VOL. IV, CAP. i.. i.. Senza per questo fare di Antioco un medioplatonico o il "padre del mediopla­ tonismo", secondo la celebre tesi di Theiler (1930). Occorre infatti riconoscere che altri aspetti del suo pensiero, a proposito dei quali disponiamo di informazioni meno nitide, sono meno facili da ricostruire in modo chiaro: così è per le dottrine fisiche (cfr. Cicerone, Ac. i.4-i.9, con lnwood, i.012.) e per il problema del determinismo (cfr. Trabattoni, i.014, pp. 103-4).

NOTE

3. Sintomatico, a questo proposito, è un passo delle Discussioni tuscolane di Cicerone (1 79-80 = T 12.0 Alesse), in cui prima si sottolinea con grande enfasi che Panezio con­ siderava Platone « divino, il più sapiente fra gli uomini e il più venerabile, l'Omero dei filosofi » , ma poi si riconosce che egli non accettava una delle teorie cardinali della sua filosofia, vale a dire l' immortalità dell'anima (Panezio sarebbe persino arrivato a negare l'autenticità del Fedone; cfr. T 147 Alesse). Platone insomma sarà pure divino, ma le teorie corrette sono quelle stoiche: l'enfasi retorica non deve indurre a occultare la divergenza teorica. II

L' incontro di due culture 1. Sul clima intellettuale generale di questo periodo, insieme inquieto e fecondo, cfr. il volume di Moatti (1997 ); sul ruolo della filosofia a Roma cfr. Maso (i.01i.). 2.. Sulla creazione da parte di Cicerone di una lingua filosofica nuova cfr. Lévy (199i.). 3. L'opera più completa sulla filosofia pre-ciceroniana resta quella di Garbarino (1973). 4. Per una presentazione dettagliata della vita di Lucilio cfr. larticolo di Ducos (i.005) ; per uno studio generale sulla sua personalità letteraria e filosofica cfr. l' inte­ ressante lavoro di Hass (2.007 ). 5. Su questo passaggio cfr. Goder (1984). 6. Su Lucrezio cfr. in particolare il volume di Sedley (1998), discutibile tuttavia per il suo rifiuto di ammettere che Lucrezio abbia potuto polemizzare con gli stoici, non­ ché lo studio, più generale ma sempre molto stimolante, di Donini, Gianotti (1979). Per una presentazione molto chiara dei grandi temi della filosofia di Lucrezio cfr. Maso (i.012., pp. 87-110 ). 7. Su Vitruvio, l'architettura e la filosofia cfr. l'eccellente sintesi di Gros (1989), oltre a Romano (i.01 1). 8. Ciò non significa che la filosofia a Roma sia stata soltanto un insieme di pratiche sociali, estetiche e politiche, malgrado quel che ha voluto mostrare Vesperini (i.012.). 9. Sulla dossografia dei Termini estremi dei beni e dei mali, lo studio più completo resta, malgrado degli aspetti controversi, quello di Giusta (1964); sul contenuto gene­ rale dell'opera cfr. Maso (i.012., pp. 1 1 8-i.o ). I O . Sul passaggio dallo scetticismo accademico al medioplatonismo cfr. Bonazzi (i.003). 1 1. Conferenza tenuta presso la Maison de la Culture 1'8 febbraio 1937 e intitolata La culture indigene. La nouvelle culture méditerranéenne: cfr. Camus (1965, pp. 13i.1-7 ).

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